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mercredi, 30 avril 2014

Pensatori germanici di fronte al problema russo

La Mitteleuropa e l’Est

Pensatori germanici di fronte al problema russo

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

molotov-ribbentropI Tedeschi e i Russi sono i due grandi popoli dell’Europa Continentale che nel corso del Novecento si sono scontrati  non una, ma due volte, nel corso di guerre sanguinose, che hanno compromesso l’equilibrio del Vecchio Continente.

Un destino inesorabile di ostilità separa dunque Russia e Germania? La storia recente ci mostra anche gli indizi di possibili percorsi alternativi: all’inizio del Novecento, la proposta del Kaiser Guglielmo II di un grande mercato comune tra le nazioni della Triplice Alleanza e l’Impero Russo; poi sul finire degli anni Trenta il patto Molotov-Ribbentrop; negli anni Cinquanta la proposta di Stalin di concedere alla Germania i territori orientali della DDR in cambio della neutralizzazione[1].

Nel Ventunesimo secolo, archiviata la terribile stagione delle ideologie totalitarie di destra e di sinistra[2], il dialogo tra le due grandi entità territoriali del Continente-Europa può riprendere più serenamente e più proficuamente.

Giova a tal fine ricordare i grandi pensatori tedeschi che – vincendo anche una diffusa tendenza nazionalista che portava a considerare gli slavi come “inferiori” – avevano già concepito l’idea di una integrazione tra Mitteleuropa e Russia, e più in generale avevano concepito una filosofia della storia secondo la quale lo sviluppo dei popoli europei esaurita la fase atlantica-occidentale puntava decisamente verso Est.

spenglerOswald Spengler

Nel suo capolavoro, Il Tramonto dell’Occidente, Spengler concepiva le civiltà come grandi organismi spirituali. Esse nascono, fioriscono, fruttificano e alla fine declinano, ognuno di essa sviluppando  la sua particolare impronta. Nella fase aurorale di civiltà (la Kultur) si manifestano le forze creative, nella seconda fase si ha una sorta di moltiplicazione esteriore di energie e una tendenza alla razionalizzazione (la Zivilisation) che prelude alla decadenza. E tuttavia il tramonto di una civiltà coincide con il sorgere di una altra che esprime la sua “anima” in un diverso “paesaggio geografico”.

L’anima della civiltà egizia era proiettata nella vita futura, nell’aldilà. Massima era la preoccupazione di preservare l’essere individuale dalla caducità della vita presente. La civiltà sumera fu quella che sviluppò una scienza della misura, del numero, del calcolo, strettamente legata all’osservazione delle stelle.

Più lontano, ad Oriente, l’anima indiana tendeva ad estraniarsi dalla storia e a immergersi in un Nirvana intemporale. In questo senso il Buddhismo è la perfetta espressione della fase di Zivilisation della civiltà indiana. Al contrario, la civiltà cinese ricercava il suo equilibrio nella armoniosa cura dell’ambiente che si manifesta nella passione per il collezionare.

La civiltà persiana con Zarathustra elabora i concetti di creazione, lotta tra luce e tenebre, avvento di un salvatore, giudizio finale, che in seguito verranno ereditati dal giudaismo e poi – in una prospettiva universale – dal cristianesimo.

Con maggiori dettagli Spengler si sofferma sulla civiltà classica antica, greca e romana, che egli definisce “apollinea”, tutta incentrata sul concetto di forma: perfetta proporzione e armonia delle parti. Questo ideale di limite, perfetta determinazione caratterizza la scultura, ma anche l’etica, la scienza e la concezione dell’anima così come possiamo trovarla in Platone.

Al tramonto del mondo antico segue un nuovo periodo segnato dalla Wanderung delle stirpi germaniche:  nasce una nuova civiltà che Spengler definisce “faustiana” caratterizzata da un ansia di “infinito” che si manifesta nella proiezione verticale delle cattedrali gotiche, poi nelle grandi esplorazioni, e ancora oggi nella continua ricerca del progresso scientifico e tecnologico, nella mistica del “record” sportivo. Ma questa civiltà è entrata ormai nella sua fase di avanzata Zivilisation: il passaggio del baricentro del potere agli ex coloni anglofoni d’America lo testimonia. Da qui il titolo suggestivo dell’opera Il Tramonto dell’Occidente.

Spengler preconizza l’avvento di una nuova civiltà russa. Essa avrà tratti più orientali, esprimerà di nuovo una tendenza magico-religiosa (in alternativa al materialismo occidentale). Riprenderà alcuni tratti del cristianesimo primitivo. Già oggi possiamo scorge i  simboli architettonici  di questa spiritualità russa: le chiese ortodosse o la fortezza del Cremlino con le loro cupole orientaleggianti. Nella civiltà russa il “noi” prevarrà sull’individualismo.

L’anima russa troverà il suo paesaggio caratteristico nella pianura sconfinata, che caratterizza l’immensa distesa di terra euro-russo-siberiana. Mentre l’anima faustiana occidentale tende al volontarismo e all’attivismo. L’anima russa può apparire “abulica”: essa è più ricettiva e contemplativa.

Spengler scriveva la sua opera sul finire della I guerra mondiale, quando in Russia si affermava una ideologia materialistica elaborata da un avvocato intellettualmente anglofilo. Oggi che tale ideologia appare remota e archiviata, a maggior ragione le intuizioni di Spengler manifestano tutto il loro vigore.

steinerRudolf Steiner

Le interpretazioni “laiche” di Spengler somigliano non poco alle visioni “esoteriche” di un autore, Rudolf Steiner, che in un primo tempo si era avvicinato alle esperienze della Società Teosofica per poi distaccarsene e fondare una sua personale  concezione del mondo e della storia denominata “Antroposofia”.

Steiner concepiva il cammino dell’uomo articolato attraverso varie fasi di civiltà: di civiltà in civiltà l’anima umana si arricchiva e sviluppava le sue facoltà interiori[3]. Mentre le civiltà di Spengler erano organismi incomunicanti, quasi come delle monadi, le civiltà di Steiner formavano una catena e rappresentavano la manifestazione di quella che può essere considerata una concezione “provvidenziale” della storia.

Dopo le mitiche civiltà di Thule, Lemuria, Atlantide[4], l’umanità trovava il suo baricentro spirituale appunto in una serie di civiltà storiche che si succedevano da Oriente a Occidente, seguendo il corso del Sole.

La prima aveva sede in India. Steiner non si riferiva all’India storica frutto delle invasioni arye (che semmai ne riceveva l’eredità), ma ad una arcaica e misconosciuta civiltà che potrebbe coincidere con i resti di Harappa, e Mohenjo Daro. Questa civiltà viveva completamente immersa nella dimensione spirituale, coltivava una scienza spirituale che è proseguita nelle epoche successive con le varie codificazioni dello Yoga.

La seconda civiltà si sviluppava nella regione dell’altopiano iranico. In questa regione nasceva l’impulso a concepire un dualismo tra Luce e Tenebra, e a considerare l’uomo come un “guerriero dello spirito” che prende parte alla battaglia schierato con il Grande Dio della Luce. Sono i temi che successivamente si svilupperanno nella predicazione di Zarathustra. La terza civiltà si estendeva nella Mezzaluna che va dall’Egitto alla Mesopotamia. Era la civiltà dei grandi indagatori delle stelle, che scorgevano negli astri e nelle corrispondenze armoniche del cosmo il grande disegno divino.

La quarta civiltà è quella greco-romana. Qui il mondo terreno diventa importante. Nella scultura greca si celebra la forma perfettamente proporzionata del corpo umano. Nel diritto e nella politica il genio di Roma dà una forma ben regolata ai rapporti sociali. Proprio nel mezzo della civiltà greco-romana avviene l’Incarnazione del Logos sulla Terra, di cui parla il Vangelo di Giovanni.

La quinta civiltà è quella germanica: nasce nel Medio Evo con la Wanderung delle popolazioni germaniche. Questa civiltà si proietta oltre l’Atlantico, verso Occidente. E’ la civiltà che penetra nella materia attraverso la scienza naturale e la domina attraverso la tecnica. Essa trova il suo compimento nel dominio degli anglo-americani.

Ora secondo Steiner siamo a un punto di svolta. Se si assecondano gli impulsi della civiltà occidentale si prosegue verso un materialismo sempre più esasperato. Si va verso quello che Spengler avrebbe definito il Tramonto dell’Occidente. Ma Steiner presagisce l’avvento di una sesta civiltà, stavolta ad Oriente, nel grande spazio russo. Questa civiltà avrebbe segnato una rinascita spirituale. L’uomo di questa civiltà avrebbe sviluppato il Manas, ovvero un tipo di intelligenza spiritualizzata attraverso una nuova disciplina ascetica e una nuova “scienza dello spirito”. Come si vede sono i medesimi temi spengleriani che vengono rimeditati su una ottava più “sottile” e spiritualizzata. Nel libro Wie erlangt man Erkenntnisse der höheren Welten?, conosciuto in Italia come L’Iniziazione, Steiner indicava gli esercizi animici più adeguati allo sviluppo di nuove facoltà interiori, facoltà non previste dalla rigida scienza materialistica  tipica dell’Occidente.

moeller-van-den-bruckMoeller van den Bruck

Tra gli intellettuali che all’indomani della I guerra mondiale protestarono contro la “pace punitiva” imposta dal Trattato di Versailles, Arthur Moeller van den Bruck fu uno dei più importanti. Moeller era nato prussiano. E le sue bestie nere erano Versailles e Weimar: la pace decisamente ingiusta (a detta dello stesso Keynes) firmata a Versailles e  il regime traballante che mai seppe dare stabilità politica alla Germania, nato a Weimar.

Con Weimar la Germania aveva cercato di scimmiottare le liberaldemocrazie occidentali. Ma per Moeller van den Bruck la vocazione della Germania era quella di essere “Terra di Mezzo” tra le democrazie occidentali e la Russia. Per tale motivo Moeller auspicava una collaborazione attiva tra Germania e Russia. Il grande talento tecnologico tedesco si sarebbe dovuto saldare con lo spazio di civiltà russo generando una grande blocco territoriale stabile, inattaccabile.

Moeller era discepolo di Dostoevskij e condivideva tutte le obiezioni del grande letterato russo alla decadente civilizzazione occidentale.  Egli era antimarxista, ma non antibolscevico, per questo anche dopo che il regime bolscevico si era saldamente assestato auspicava una alleanza diplomatica tra Germania e URSS per rovesciare le inique conclusioni dei trattati di Parigi.

Per Moeller il prussianesimo rappresentava il ponte tra la Germania e la Russia. Essere prussiano non era un semplice dato naturalistico. I prussiani erano il frutto di una storia e di una volontà perpetuata nei secoli dall’Ordine Teutonico prima, dalla dinastia degli Hohenzollern poi. Come popolo i prussiani erano il frutto di una mescolanza: tra germanici e appunto slavi, per questo il prussianesimo rappresentava l’elemento di congiunzione tra Mitteleuropa ed Est.

Tutta la storia puntava peraltro ad Est. La storia antica aveva avuto il suo baricentro nel mondo mediterraneo. Agli albori dell’età moderna il baricentro si era spostato sull’Atlantico. Ora però la direzione dello sviluppo della civiltà europea si indirizzava verso Oriente. Se la Germania non coglieva questo elemento di sviluppo era destinata a legarsi alla decadente cultura di Anglo-americani e Francesi. Egli immaginava una sorta di corrente storica che in epoca antica attraversava il Mediterraneo, che agli albori dell’età moderna superava le colonne d’Ercole e si spingeva verso l’Atlantico e il nuovo mondo americano ed ora con un imponente riflusso ritornava verso Oriente.

“Questo Est – scriveva Moeller –  tiene in riserva una parte notevole della futura storia dell’umanità: e noi che per metà apparteniamo all’est o per lo meno con esso confiniamo dobbiamo partecipare alla vita se vogliamo partecipare al futuro”.

Agli inizi degli anni Venti, il circolo politico-culturale di Moeller invitò Hitler. Il futuro Führer aveva davanti a sé poche persone sedute eppure intonò un comizio come se parlasse a migliaia di entusiasti. A Moller non fece una buona impressione. Non ebbe peraltro il tempo di assistere all’ascesa del nazionalsocialismo, dal momento che pose fine tragicamente alla propria esistenza nel 1925.

Moeller fu socialista prussiano. Auspicò un socialismo non marxista. E sperò che la Russia si liberasse dall’incrostazione della dottrina utilitarista di Marx.  Oggi che il marxismo è archiviato, la prospettiva geopolitica di Moeller – l’integrazione tra Mitteleuropa e Russia  –  riacquista tutta la sua straordinaria attualità.

Karl Haushofer

Haushofer fu uno dei principali interpreti della Geopolitica tra prima e seconda guerra mondiale. Per lui, la geopolitica era la “coscienza geografica di uno Stato”.

Haushofer auspicava in primo luogo una soluzione pangermanica: la riunificazione di tutte le genti di lingua e cultura tedesca in un unico Stato;  in seconda istanza, una sagace scelta delle alleanze, per evitare il rovinoso errore del 1914: la guerra su due fronti.

Per Haushofer il naturali alleati erano il Giappone e l’Unione Sovietica – che occupava il vasto territorio euroasiatico definito da Mackinder come Heartland (la roccaforte del mondo!).

Certo nei confronti dell’URSS Haushofer fu oscillante: in alcuni momenti l’URSS gli apparve come una minaccia da debellare e frantumare, in altri momenti riconobbe volentieri alla Russia bolscevica il diritto a espandersi in direzione Sud estendendo la sua influenza sull’India (allora sotto occupazione inglese).

Ad ogni modo il sagace geopolitico voleva evitare soprattutto che si ripetesse l’errore del 1914: la guerra sui due fronti e nel 1941 propose una grande alleanza euroasiatica tra Germania-URSS-Giappone … un attimo prima che Hitler scatenasse l’operazione Barbarossa contro l’URSS e dilapidasse le energie della Wermacht in una guerra suicida su due fronti[5].

I nazisti diedero una impronta brutale alla occupazione ad Est. Avrebbero potuto presentarsi come liberatori; avrebbero potuto far suonare a festa le campane delle chiese ortodosse. Avrebbero potuto costituire Stati Nazionali sul Baltico e in Ucraina promettendo ai Pope la libertà religiosa, garantendo ai socialisti che le sostanziali conquiste della rivoluzione d’Ottobre sarebbero state rispettate, e assicurando ai contadini quella libertà che sola è garantita dal possesso personale di un lembo di terra. Invece essi furono spietati in Polonia così come sul vasto territorio russo, dimostrando come il pregiudizio politico e razziale della NSDAP riuscisse a vanificare lo sforzo della più straordinaria macchina da guerra mai apparsa da secoli.

All’indomani della II guerra mondiale, Haushofer si suicidò insieme alla moglie. Certe anime tedesche troppo coscienziose si tirano addosso anche le colpe degli altri dopo averne mostrato in anticipo l’errore…

carl-schmittCarl Schmitt

Carl Schmitt già alla fine degli anni Quaranta considerava l’ideologia comunista come qualcosa di passeggero. L’esperimento sovietico era dunque  destinato ad avere fine.

Più che dal sovietismo Schmitt era preoccupato dall’universalismo, da quello che oggi si chiamerebbe globalizzazione. Come già Evola, Schmitt notava una convergenza di fondo tra l’ideologia occidentalista e quella marxista-sovietica. Oggi uno dei due poli si è sbriciolato ed è rinata la Russia, libera dal terribile esperimento marxista.

Alla globalizzazione Schmitt contrapponeva il radicamento territoriale: l’amore per la natura, la terra ed i suoi frutti. Questo amore per Schmitt era anche l’effetto del cattolicesimo romano. Schmitt ribadiva ai suoi connazionali che lo Jus Publicum Europaeum molto doveva a Roma e al cattolicesimo.

Alle potenze del Mare (Inghilterra, America) egli contrapponeva il Nomos della Terra,  ovvero la misura, l’equilibrio poltico, la legge che avrebbe dovuto animare un grande blocco territoriale.

Caduto il comunismo sovietico, questo blocco territoriale comincia ad essere una prospettiva concreta con l’integrazione economica, culturale-spirituale e poi anche politica tra Mitteleuropa,  Europa Mediterranea e Russia.

Con questi cenni concludiamo la nostra rapida carrellata su cinque autori che sono cinque giganti del pensiero europeo. Tutti e cinque hanno saputo pensare quella che è l’esigenza geopolitica fondamentale del nostro tempo: l’integrazione tra Centro-Europa e Russia, per riscattare il nostro continente dalla irrilevanza o dalla sudditanza a interessi alieni.

Possiamo ricapitolare schematicamente le idee-forza che sono state messe in campo:

  1. La Russia lascia presagire lo sviluppo di una nuova civiltà (Spengler).
  2. Questa civiltà – in equilibrio tra Occidente e Asia – sarà più attenta all’elemento spirituale (Steiner).
  3. Tanto è vero che l’esperimento ideologico marxista, di marca occidentale, ha rappresentato per essa solo qualcosa di transitorio (Schmitt).
  4. Tra la civiltà faustiana-germanica e la nuova civiltà russa può esservi lo stesso legame che in passato vi era tra la civiltà classica greco-romana e la civiltà medievale europea, un rapporto di successione ed anche di armoniosa integrazione (Steiner).
  5. La Germania in particolare non è “Occidente”, non è una landa periferica dell’impero occidentale, ma è la Mitteleuropa destinata ad integrarsi con l’Est.
  6. La grande capacità tecnologica e organizzativa tedesca deve  far lievitare le immense potenzialità del territorio russo (Moller van den Bruck).
  7. E’ necessaria una alleanza diplomatica  e militare tra Germania e Russia. L’ideale sarebbe che questa alleanza si estendesse anche al Giappone. (Haushofer).
  8. Berlino oggi è tornata ad essere la capitale della Germania riunificata, ma Berlino era anche storica capitale della Prussia. Chi sono i Prussiani che hanno forgiato con Bismarck l’unità tedesca? Sono appunto il frutto di una storica mescolanza tra genti germaniche e slave (Moeller van den Bruck).
  9. Il paesaggio spirituale della nuova civiltà sarà la “pianura infinita”  russo-sarmatica (Spengler).
  10.  Questa pianura infinita si radica nell’elemento Terra: in questa immensa distesa di Terra si sviluppa un Nomos peculiare:  una legge fatta di solidarietà sociale, di attaccamento alle radici, di amore per i frutti della Terra (Schmitt).
  11. Il Nomos della Terra perpetua ai nostri giorni la grande tradizione dello Ius Publicum romano, giunto a noi attraverso la mediazione del cattolicesimo romano (Schmitt).

Bibliografia

Piero Buscaroli, Paesaggio con rovine, Camunia. 1989.

Pascal Lorot, Storia della Geopolitica, Asterios, 1997.

John O’ Louglin, Dizionario di Geopolitica, Asterios, 2000.

Adriano Romualdi, Correnti politiche e ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932, Settimo Sigillo, 2013.

Carl Schmitt, Cattolicesimo Romano e forma politica, Il Mulino, 2010.

Carl Schmitt , Il Nomos della Terra, Adelphi, 1991.

Carl Schmitt, Terra e Mare, Adelphi, 2002

Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, 2008.

Rudolf Steiner, La Scienza Occulta nelle sue linee generali, Mondadori, 2007.

Rudolf Steiner, L’Iniziazione, Edizioni Antroposofiche, 2012.

Note


[1] Piero Buscaroli in “Paesaggio con Rovine” testimonia come in certi ambienti dell’aristocrazia tedesca la proposta di Stalin e l’opzione neutralista suscitassero  insospettabili simpatie.

[2] La data del 1989 che segna la caduta del Muro di Berlino chiude anche una cifra tonda di duecento anni di storia nel corso della quale si sono scatenate le grandi ideologie totalitarie: il giacobinismo, poi il comunismo, quindi il nazional-socialismo.

[3] Tale concezione si conciliava con la credenza induistica e platonica nella reincarnazione.

[4] Mitiche località preistoriche che affascinarono non poco gli occultisti europei all’inizio del Novecento come la Blavatsky, Guenon, Evola, Wirth.

[5] Va citata l’opinione di alcuni storici revisionisti, tra i quali il figlio del filosofo Heiddeger, che considerano l’operazione Barbarossa come una guerra preventiva, per sventare un attacco imminente da parte dell’URSS. E tuttavia l’idea che si faccia guerra per anticipare l’aggressione altrui è un argomento retorico antico di secoli… La questione è controversa. Più in generale i Tedeschi sono apparsi molto più sprovveduti degli Americani che con sagacia si sono fatti attaccare a Pearl Harbour per poi scatenare una controffensiva con tutta la vibrante indignazione dei “giusti” (in realtà Roosevelt sapeva dell’attacco e volentieri predispose il sacrificio umano dei ragazzi della base del Pacifico).

 

lundi, 28 avril 2014

De conservatieve revolutie, Leuven 7 mei

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mardi, 22 avril 2014

Carl Schmitt, el nuevo Benito Cereno

por Alberto Buela (*)

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

“Yo soy, afirma Carl Schmitt en Ex captivitate salus, el último representante consciente del jus publicum Europaeum, su último teórico e investigador en un sentido existencial, y experimento su fin como Benito Cereno experimentó el periplo del barco pirata”.

¿Quién fue Benito Cereno? El personaje principal de la novela homónima de Hermann Melville (1819-1891) que cuenta las aventuras de un capital español que traslada de Buenos Aires a Lima un cargamento de ciento sesenta negros de ambos sexos, la mayoría provenientes de Senegal y pertenecientes a Alejandro Arana, caballero de la ciudad de Mendoza en Argentina.

La trama de la novela comienza con la toma del barco Santo Domingo por los negros al séptimo día después de zarpar desde el puerto de Valparaíso matan a Arana y lo colocan como mascarón de proa, asesinan a casi todos los blancos, quedando Benito Cereno en poder de Babo, jefe del motín. Habiendo asesinado también, en una muestra total de irracionalidad, al primer oficial Reneds, el único piloto que quedaba a bordo. El barco se pierde en el Pacífico sur hasta que muertos de hambre y sed obligan a Benito Cereno a conducirlo a alguna playa chilena desierta. Los conduce a la isla Santa María donde se encuentran con el barco ballenero The Bachelor´s Delight comandado por el capitán Delano, norteamericano de origen español.

Ante él, Benito Cereno, es obligado a representar el papel de propietario del Santo Domingo, cuando en realidad el poder lo tenían los negros que bajo amenazas mortales lo condicionaron a simular.

El capitán Amasa Delano libera el barco, toma preso a los amotinados y los conduce a Lima donde son juzgados, tanto Benito Cereno como ellos. El jefe del motín, Babo, es condenado a muerte y Benito Cereno se retira enfermo al monasterio del Monte Agonía donde fallece tres meses después de ser licenciado por el Tribunal.

Por lo que llevamos leído todos estos años hemos podido comprobar que los comentaristas de Carl Schmitt no se toman el trabajo de leer la novela sino que simplemente la citan al bulto y entonces realizan afirmaciones como estas: “los esclavos se hacen del control del barco matando a su capitán” . Cuando en realidad al que matan es el propietario Arana y no a su capitán que es Benito Cereno. O peor aun: “obligan bajo pena de muerte a uno de los españoles sobrevivientes del motín, Benito Cereno, a que desempeñe el rol de capitán para evitar ser descubiertos por la nave estadounidense que se aproxima”. Y así siguen los flatus vocis.

En general se interpreta esta relación vinculante de Schmitt con Cereno como un artilugio del jurista para justificar su participación en el régimen nazi, sin embargo varios años antes de la derrota alemana, Ernst Jünger se encuentra con él en Paris, 18 de agosto de 1941 y hace constar en su Diario: “Carl Schmitt compara su situación con la del capitán blanco de Melville, Benito Cereno, dominado por sus esclavos negros y por ello cita el siguiente aforismo: “Non possum scribere contra eum, qui potest proscribere” (no puedo escribir contra quien puede proscribir), que es una frase de las Saturnales de Macrobio(finales del siglo IV d.C.).

Una interpretación analógica de esta vinculación sería más o menos así: al igual que el barco español, Alemania fue tomada por asalto por unos irracionales y tiranos como los nazis, y Carl Schmitt como Benito Cereno, fue condicionado por las circunstancias a trabajar en favor de la mayor respetabilidad intelectual del régimen. Vemos como una interpretación de este tipo, que es la que da la izquierda schmittiana, sugiere un intento de auto exculpación.

Carl Schmitt se piensa como afirma en la cita que encabeza este escrito como un intelectual de valía, como un jurista de excepción, como “el último teórico e investigador del jus publicum Europaeum”. Es demasiado valioso para morir. Además si Platón aconsejó a Dionisio el Viejo y a Dionisio el Joven, ambos tiranos de Siracusa, porqué él no podría aconsejar a Hitler. Es Jünger una vez más quien nos cuenta un poco en sorna que Heidegger se enojó con Hitler porque éste no lo fue a ver.

Un rasgo típico del intelectual es que se cree superior a quien desea asesorar. Y a Schmitt, en este sentido, le alcanzan las generales de la ley.

Además fueron varios los intelectuales orgánicos del partido nazi que acusaron al jurista de Plettenberg que su adhesión al régimen era oportunista y falsa, aun cuando no hubiese contradicción teórica de fondo entre ambos.

Pero lo cierto y, lo que regularmente ocurre, es que existe una tendencia al acomodamiento por parte de los jueces y juristas a causa de su proximidad profesional con el poder político de turno. De modo que no se le puede pedir peras al olmo.

Esto nosotros, en “el mundo bolita” lo vemos a diario: un gobierno toma el poder y todos los jueces están de acuerdo, en la medida en que se acerca a su fin, son los jueces los primeros que van cambiando de posición.

Es sabido que Schmitt era católico y hasta practicante, y que el nacional socialismo triunfó en las elecciones sobre todo en los länder protestantes, por la oposición que desde el primer momento ejerció la Iglesia. La encíclica condenando dicha doctrina Mit brenneder Sorge es de fecha temprana, de mayo de 1937. Es evidente que Schmitt tuvo una coincidencia teórica con aspectos esenciales como gran espacio, la figura del conductor, el estado de excepción, etc., del nacionalsocialismo, pero al mismo tiempo tuvo una disidencia existencial.

En tanto que católico él sabía existencialmente que el hombre es una realidad más profunda y más elevada que la raza o la clase y que la resolución de todo conflicto social y político consiste, al mismo tiempo, en la salvación del hombre como persona, esto es, como un ser único, singular e irrepetible. Moral y libre. Y en una exigencia de fraternidad y concordia entre los hombres, por ser considerados todos hijos de Dios.

Este equilibrio tan difícil de lograr entre una crítica profunda al individualismo liberal burgués de la sociedad de consumo y otra, del mismo tenor, al nacionalismo racial del Reich es la que intentó en sus escritos.

En definitiva, si Schmitt se piensa como un nuevo Benito Cereno no es, principalmente, para exculparse de su participación en el régimen nazi sino, más bien, para explicar el sentido de ese régimen y la función que a él le cupo.

Nota bene:

El autor de Mobi Dick tuvo un conocimiento bastante profundo sobre la Argentina de su tiempo. Además su mujer Elizabeth Shaw, hija de un juez, estaba emparentada con los Shaw de Buenos Aires. Benito Cereno es de 1855 y el apellido del personaje patrón del barco, Don Alejando Arana, cuyo origen es mendocino, coincide con el del canciller del Rosas, don Felipe Arana, que fue el gobierno argentino apenas anterior al tiempo de escritura de su novela.
Otro rasgo remarcable es la valoración de lo español en su novela, pues los dos capitanes, Benito Cereno y Amasa Delano, son de ese origen. Es sabido que Carl Schmitt amó profundamente a España, que lo cobijó, y a todo lo español.
Nosotros solo esbozamos intuiciones no desarrolladas pero barruntamos que existe una profunda y misteriosa relación entre Melville y Schmitt que cabría estudiar por alguien que supiera más. A lo mejor Horacio Cagni, que es el gran estudioso de Schmitt en Argentina se honra hacerlo.

(*) arkegueta, eterno comenzante
buela.alberto@gmail.com
Disenso

jeudi, 17 avril 2014

La Révolution conservatrice allemande...

La Révolution conservatrice allemande...

Les éditions du Lore ont publié début avril un recueil de Robert Steuckers intitulé La Révolution conservatrice allemande - Biographie de ses principaux acteurs et textes choisis. Figure de ce qu'il est convenu d'appeler la Nouvelle Droite, Robert Steuckers a, à côté de ses activités de traducteur, animé plusieurs revues de qualité comme Orientations et Vouloir , et est un de ceux qui, avec Louis Dupeux, Giorgio Locchi, Thierry Mudry et Edouard Rix, a le plus contribué à faire connaître dans l'aire francophone cette galaxie d'auteurs, de groupes et de revues, actifs dans l'Allemagne de Weimar, qu'Armin Mohler a englobé sous l'appellation de Révolution conservatrice. Un ouvrage indispensable, et depuis longtemps attendu ! ...

L'ouvrage est disponible sur le site des éditions du Lore : Editions du Lore

 

la-revolution-conservatrice-allemande-biographies-de-ses-principaux-acteurs-et-textes-choisis.jpg

" Si la vulgate considère la Révolution conservatrice allemande comme un « laboratoire d’idées », il n’en demeure pas moins que cette dernière représente une extraordinaire aventure métapolitique qui inspire encore beaucoup d’idéologues, de philosophes et d’artistes aujourd’hui à travers le monde.

L’une de ses grandes figures, Arthur Moeller van den Bruck, proposa en son temps de penser un système politique qui succéderait au IIe Reich bismarko-wilhelminien au-delà des clivages gauche/droite, où les oppositions entre socialisme et nationalisme seraient sublimées en une synthèse nouvelle.

Dans ce recueil de grande densité, Robert Steuckers (ex-G.RE.C.E, Vouloir, Synergies Européennes) a regroupé la majorité de ses textes sur le sujet. Le lecteur y découvrira notamment les conférences pointues données par l’auteur entre 1994 et 2013 ainsi que diverses notices biographiques d’acteurs, illustres et moins connus, de la Révolution conservatrice allemande. "

 

mercredi, 16 avril 2014

Les drapeaux noirs du mouvement paysan (1929-1931)

Jan Ackermeier:

Les drapeaux noirs du mouvement paysan (1929-1931)

Sur l’histoire du “Landvolkbewegung” 

big_21308835_0_300-225.jpgAprès la première guerre mondiale, la plupart des paysans allemands affrontaient d’énormes difficultés économiques. Afin de pouvoir vaille que vaille fournir en vivres la population, l’agriculture allemande, au début de la République de Weimar et jusqu’en 1922, avait été contrainte d’accepter de gré ou de force une politique dirigée, contraignante. Cette politique avait suscité un rejet général de la jeune République dans de larges strates de la paysannerie qui votait traditionnellement pour les formations conservatrices ou libérales.

Cette tendance négative s’est encore accentuée pendant les années de la grande inflation (1922 et 1923). Dans un premier temps, les paysans, en tant que propriétaires de terrains et de biens tangibles, avaient profité de la dévaluation de la devise allemande; plus tard toutefois, avec l’introduction du “Rentenmark” en 1923, ils ont dû endurer de lourds sacrifices économiques. C’est surtout lorsqu’il a fallu couvrir la nouvelle devise par des hypothèques imposées par les autorités publiques sur les propriétés foncières dans le domaine agricole que le rejet s’est fait général: cette politique a été perçue comme une terrible injustice, comme un sacrifice spécial réclamé à la seule paysannerie.

Vers le milieu des années 20, les paysans ont dû faire face à un dilemme: acheter des machines agricoles pour consolider leurs entreprises jusqu’alors peu mécanisées, afin de pouvoir produire davantage et de compenser les déficits dus à l’augmentation des prix des biens industriels. Pendant les années d’inflation, les paysans n’avaient pratiquement rien pu capitaliser: ils se virent contraints, par la suite, de prendre des crédits à des conditions très désavantageuses pour pouvoir financer les nouveaux investissements nécessaires. Mais, dès 1927, on pouvait prévoir la crise économique mondiale où les prix, sur les marchés agricoles, ont chuté à l’échelle internationale; de plus, les récoltes désastreuses de 1927, dues à des conditions climatiques déplorables, ont conduit de nombreux paysans à l’insolvabilité.

C’est surtout dans le Slesvig-Holstein rural, avec un secteur largement dominé par le bétail et par les spéculations sur les produits de l’élevage, que de nombreux paysans étaient menacés. Ils ne pouvaient plus payer ni les impôts ni les intérêts. La faillite les guettait. Cette situation critique amène les paysans de la région à se rassembler dans un mouvement protestataire parce que les associations paysannes traditionnelles, le gouvernement du Reich (rendu incapable d’agir en 1928 vu sa composition politique hétérogène) ou les partis établis ne pouvaient les aider. Ce mouvement de protestation ne présentait pas de structures organisationnelles claires mais se caractérisait plutôt par une sorte de spontanéisme, où quelques paysans décidés parvenaient à mobiliser rapidement leurs homologues pour organiser de formidables manifestations de masse.

En janvier 1928, le Slesvig-Holstein est le théâtre de très nombreuses manifestations de masse pacifiques, où, certains jours, plus de 100.000 paysans sont descendus dans les rues. Les représentants de la paysannerie demandent alors au gouvernement du Reich de mettre sur pied un programme d’aide urgente. Ils échouent dans leurs démarches. La paysannerie se radicalise et, en son sein, des voix, toujours plus nombreuses, s’élèvent pour réclamer la dissolution du “système de Weimar”. Les chefs de file du mouvement avaient toujours été modérés: ils s’étaient bornés à réclamer des mesures ponctuelles dans les seuls domaines de l’agriculture et de l’élevage. Face à l’incompréhension des autorités du Reich, ces hommes modérés sont vite remplacés par des activistes plus politisés qui exigent désormais que l’ensemble du “système de Weimar” soit aboli et détruit pour faire place à une forme d’Etat populaire (folciste), aux contours encore mal définis par ses protagonistes, mais que l’on peut qualifier d’essentiellement agrarien.

A la fin de l’année 1928, le mouvement prend le nom de “Landvolkbewegung” (“Mouvement du peuple de la terre”), sous la direction de Claus Heim, du pays de Dithmarschen, et der Wilhelm Hamkens, d’Eiderstedt. Tous deux financeront et publieront un journal, “Das Landvolk”, ainsi que des “associations de garde” (“Wachvereiningungen”), sorte de troupes paramilitaires animées par d’anciens combattants des Corps Francs. Le mouvement acquiert ainsi une forme d’organisation qu’il ne possédait pas auparavant.

En 1928, Heim lance un appel à boycotter les impôts. Du coup, les protestations publiques ne sont plus passives: elles sont suivies d’actions musclées voire d’attentats terroristes. Les huissiers qui viennent saisir les biens  des paysans insolvables sont pris à partie et chassés avec violence. La petite ville de Neumünster est soumise à un boycott de la part des paysans qui refusent d’aller y acheter denrées et matériels. Les opposants au mouvement sont victimes d’attentats aux explosifs, destinés à les intimider. A la suite de ces attentats aux explosifs, les meneurs sont poursuivis par la justice et condamnés à la prison. Le mouvement est brisé.

Jan ACKERMEIER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°11/2014, http://www.zurzeit.at ).

samedi, 12 avril 2014

Friedrich Georg Jünger: The Titans and the Coming of the Titanic Age

Friedrich Georg Jünger:

 

The Titans and the Coming of the Titanic Age

 

 

Tom Sunic

 Translated from the German and with an Introduction by Tom Sunic

Friedrich Georg Jünger (1898-1977)

Friedrich Georg Jünger (1898-1977)

Introduction: Titans, Gods and Pagans by Tom Sunic

Below is my translation of several passages from the last two chapters from Friedrich Georg Jünger’s little known book, Die Titanen, 1943, 1944 (The Titans). Only the subtitles are mine. F.G. Jünger was the younger brother of Ernst Jünger who wrote extensively about ancient Greek gods and goddesses. His studies on the meaning of Prometheism and Titanism are unavoidable for obtaining a better understanding of the devastating effects of the modern belief in progress and the role of “high-tech” in our postmodern societies. Outside the German-speaking countries, F.G. Jünger’s literary work remains largely unknown, although he had a decisive influence on his renowned brother, the essayist Ernst Jünger. Some parts of F.G Jünger’s other book,Griechische Götter (1943) (Greek Gods), with a similar, if not same topic, and containing also some passages from Die Titanen, were recently translated into French (Les Titans et les dieux, 2013).

In the footsteps of Friedrich Nietzsche and along with hundreds of German philosophers, novelists, poets and scientists, such as M. Heidegger, O. Spengler, C. Schmitt, L. Clauss, Gottfried Benn, etc., whose work became the object of criminalization by cultural Bolsheviks and by the Frankfurt School in the aftermath of WWII, F. G. Jünger can also be tentatively put in the category of “cultural conservative revolutionaries” who characterized the political, spiritual and cultural climate in Europe between the two world wars.

Ancient European myths, legends and folk tales are often derided by some scholars, including some Christian theologians who claim to see in them gross reenactments of European barbarism, superstition and sexual promiscuity. However, if a reader or a researcher immerses himself in the symbolism of the European myths, let alone if he tries to decipher the allegorical meaning of diverse creatures in the myths, such as for instance the scenes from the Orphic rituals, the hellhole of Tartarus, or the carnage in the Nibelungen saga, or the final divine battle in Ragnarök, then those mythical scenes take on an entirely different meaning. After all, in our modern so-called enlightened and freedom-loving liberal societies, citizens are also entangled in a profusion of bizarre infra-political myths, in a myriad of weird hagiographic tales, especially those dealing with World War II vicitmhoods, as well as countless trans-political, multicultural hoaxes enforced under penalty of law. Therefore, understanding the ancient European myths means, first and foremost, reading between the lines and strengthening one’s sense of the metaphor.

There persists a dangerous misunderstanding between White nationalists professing paganism vs. White nationalists professing Christian beliefs. The word “paganism” has acquired a pejorative meaning, often associated with childish behavior of some obscure New Age individuals carrying burning torches or reading the entrails of dead animals. This is a fundamentally false conception of the original meaning of paganism. “Pagans,” or better yet polytheists, included scores of thinkers from antiquity, such as Seneca, Heraclites, Plato, etc. who were not at all like many modern self-styled and self-proclaimed “pagans” worshipping dogs or gazing at the setting sun. Being a “pagan” denotes a method of conceptualizing the world beyond the dualism of “either-or.” The pagan outlook focuses on the rejection of all dogmas and looks instead at the notion of the political or the historical from diverse and conflicting perspectives. Figuratively speaking, the plurality of gods means also the plurality of different beliefs and different truths.  One can be a good Christian but also a good “pagan.”  For that matter even the “pagan” Ernst Jünger, F.G. Jünger’s older brother, had a very Catholic burial in 1998.

When F.G Jünger’s published his books on the Titans and the gods, in 1943 and in 1944, Germany lay in ruins, thus ominously reflecting F.G. Jünger’s earlier premonitions about the imminent clash of the Titans. With gods now having departed from our disenchanted and desacralized White Europe and White America, we might just as well have another look at the slumbering Titans who had once successfully fought against Chaos, only to be later forcefully dislodged by their own divine progeny.

Are the dozing Titans our political option today? F.G. Jünger’s book is important insofar as it offers a reader a handy manual for understanding a likely reawakening of the Titans and for decoding the meaning of the new and fast approaching chaos.

*    *    *

THE TITANS: CUSTODIANS OF LAW AND ORDER

….The Titans are not the Gods even though they generate the Gods and relish divine reverence in the kingdom of Zeus. The world in which the Titans rule is a world without the Gods. Whoever desires to imagine a kosmos atheos, i.e. a godless cosmos, that is, a cosmos not as such as depicted by natural sciences, will find it there. The Titans and the Gods differ, and, given that their differences are visible in their behavior toward man and in view of the fact that man himself experiences on his own as to how they rule, man, by virtue of his own experience, is able to make a distinction between them.

Neither are the Titans unrestrained power hungry beings, nor do they scorn the law; rather, they are the rulers over a legal system whose necessity must never be put in doubt. In an awe-inspiring fashion, it is the flux of primordial elements over which they rule, holding bridle and reins in their hands, as seen inHelios. They are the guardians, custodians, supervisors and the guides of the order. They are the founders unfolding beyond chaos, as pointed out by Homer in his remarks about Atlas who shoulders the long columns holding the heavens and the Earth. Their rule rules out any confusion, any disorderly power performance. Rather, they constitute a powerful deterrent against chaos.

The Titans and the Gods match with each other. Just as Zeus stands in forKronos, so does Poseidon stand in opposition to Oceanus, or for that matterHyperion and his son Helios in opposition to Apollo, or Coeus and Phoebe in opposition to Apollo and Artemis, or Selene in opposition to Artemis.

THE TITANS AGAINST THE GODS

What distinguishes the kingdom of Kronos from the kingdom of Zeus? One thing is for certain; the kingdom of Kronos is not a kingdom of the son. The sons are hidden in Kronos, who devoured those he himself had generated, the sons being now hidden in his dominion, whereas Zeus is kept away from Kronos by Rhea, who hides and raises Zeus in the caverns. And given that Kronos comports himself in such a manner his kingdom will never be a kingdom of the father. Kronos does not want to be a father because fatherhood is equivalent with a constant menace to his rule. To him fatherhood signifies an endeavor and prearrangement aimed at his downfall.

What does Kronos want, anyway? He wants to preserve the cycle of the status quo over which he presides; he wants to keep it unchanged. He wants to toss and turn it within himself from one eon to another eon. Preservation and perseverance were already the hallmark of his father. Although his father Uranusdid not strive toward the Titanic becoming, he did, however, desire to continue his reign in the realm of spaciousness. Uranus was old, unimaginably old, as old as metal and stones. He was of iron-like strength that ran counter to the process of becoming. But Kronos is also old. Why is he so old? Can this fluctuation of the Titanic forces take on at the same time traits of the immovable and unchangeable? Yes, of course it can, if one observes it from the perspective of the return, or from the point of view of the return of the same. If one attempts it, one can uncover the mechanical side in this ceaseless flux of the movement. The movement unveils itself as a rigid and inviolable law.

THE INFINITE SADNESS OF THE TITANS

How can we describe the sufferings of the Titans? How much do they suffer anyway, and what do they suffer from? The sound of grief uttered by the chainedPrometheus induces Hermes to derisive remarks about the same behavior which is unknown to Zeus. In so far as the Titans are in the process of moving, we must therefore also conceive of them as the objects of removal. Their struggle is onerous; it is filled with anxiety of becoming. And their anxiety means suffering. Grandiose things are being accomplished by the Titans, but grandiose things are being imposed on them too. And because the Titans are closer to chaos than Gods are, chaotic elements reveal themselves amidst them more saliently. No necessity appears as yet in chaos because chaos has not yet been measured off by any legal system. The necessity springs up only when it can be gauged by virtue of some lawfulness. This is shown in the case of Uranus and Kronos. The necessary keeps increasing insofar as lawfulness increases; it gets stronger when the lawful movements occur, that is, when the movements start reoccurring over and over again.

Mnemosyne (The Titaness of Memory) (mosaic, 2nd ct. AD)

Mnemosyne (The Titaness of Memory) (mosaic, 2nd century AD)

Among the Titanesses the sadness is most visible in the grief of Rhea whose motherhood was harmed.  Also in the mourning ofMnemosyne who ceaselessly conjures up the past. The suffering of this Titaness carries something of sublime magnificence. In her inaccessible solitude, no solace can be found. Alone, she must muse about herself — a dark image of the sorrow of life. The suffering of the Titans, after their downfall, reveals itself in all its might. The vanquished Titan represents one of the greatest images of suffering. Toppled, thrown down under into the ravines beneath the earth, sentenced to passivity, the Titan knows only how to carry, how to heave and how to struggle with the burden — similar to the burden carried by the Caryatids.

THE SELF-SUFFICIENT GODS

The Olympian Gods, however, do not suffer like the Titans. They are happy with themselves; they are self-sufficient. They do not ignore the pain and sufferings of man. They in fact conjure up these sufferings, but they also heal them. In Epicurean thought, in the Epicurean  world of happiness, we observe the Gods dwelling in-between-the-worlds, divorced from the life of the earth and separated from the life of men, to a degree that nothing can ever reach out to them and nothing can ever come from them. They enjoy themselves in an eternal halcyon bliss that cannot be conveyed by words.

The idea of the Gods being devoid of destiny is brought out here insofar as it goes well beyond all power and all powerlessness; it is as if the Gods had been placed in a deepest sleep, as if they were not there for us. Man, therefore, has no need to think of them. He must only leave them alone in their blissful slumber. But this is a philosophical thought, alien to the myth.

Under Kronos, man is part of the Titanic order. He does not stand yet in the opposition to the order — an opposition founded in the reign of Zeus. He experiences now the forces of the Titans; he lives alongside them. The fisherman and boatman venturing out on the sea are in their Titanic element. The same happens with the shepherd, the farmer, the hunter in their realm. Hyperion, Helios and Eos determine their days, Selene regulates their nights. They observe the running Iris, they see the Horae dancing and spinning around throughout the year. They observe the walk of the nymphs Pleiades and Hyadesin the skies. They recognize the rule of the great Titanic mothers, Gaia, Rhea, Mnemosyne and that of Gaia-Themis. Above all of them rules and reigns the old Kronos, who keeps a record of what happens in the skies, on the earth, and in the waters.

TITANIC NECESSITY VS. DIVINE DESTINY

The course of human life is inextricably linked to the Titanic order. Life makes one whole with it; the course of life cannot be divorced from this order. It is the flow of time, the year’s course, the day’s course. The tides and the stars are on the move. The process resembles a ceaseless flow of the river. Kronos reigns over it and makes sure it keeps returning. Everything returns and everything repeats itself — everything is the same. This is the law of the Titans; this is their necessity. In their motion a strict cyclical order manifests itself. In this order there is a regular cyclical return that no man can escape. Man’s life is a reflection of this cyclic order; it turns around in a Titanic cycle of Kronos.

Man has no destiny here, in contrast to the demigods and the heroes who all have it. The kingdom of Zeus is teeming with life and deeds of heroes, offering an inexhaustible material to the songs, to the epics and to the tragedies. In the kingdom of Kronos, however, there are no heroes; there is no Heroic Age. For man, Kronos, and the Titans have no destiny; they are themselves devoid of destiny. Does Helios, does Selene, does Eos have a destiny? Wherever the Titanic necessity rules, there cannot be a destiny. But the Gods are also deprived of destiny wherever divine necessity prevails, wherever man grasps the Gods in a fashion that is not in opposition to them. But a man whom the Gods confront has a destiny. A man whom the Titans confront perishes; he succumbs to a catastrophe.

We can say, however, that whatever happens to man under the rule of the Titans is a lot easier than under the rule of the Gods. The burden imposed on man is much lighter.

*   *   *

What happens when the Gods turn away from man and when they leave him on his own? Wherever they make themselves unrecognizable to man, wherever their care for man fades away, wherever man’s fate begins and ends without them, there always happens the same thing. The Titanic forces return and they validate their claims to power. Where no Gods are, there are the Titans. This is a relationship of a legal order which no man can escape wherever he may turn to. The Titans are immortal. They are always there. They always strive to reestablish their old dominion of their foregone might. This is the dream of the Titanic race of the lapetos, and all the Iapetides who dream about it. The earth is penetrated and filled up with the Titanic forces. The Titans sit in ambush, on the lookout, ready to break out and break up their chains and restore the empire of Kronos.

TITANIC MAN

What is Titanic about man? The Titanic trait occurs everywhere and it can be described in many ways. Titanic is a man who completely relies only upon himself and has boundless confidence in his own powers. This confidence absolves him, but at the same time it isolates him in a Promethean mode. It gives him a feeling of independence, albeit not devoid of arrogance, violence, and defiance. Titanic is a quest for unfettered freedom and independence. However, wherever this quest is to be seen there appears a regulatory factor, a mechanically operating necessity that emerges as a correction to such a quest. This is the end of all the Promethean striving, which is well known to Zeus only. The new world created by Prometheus is not.

Dr. Tom Sunic is a former political science professor, author and a Board member of the American Freedom Party. He is the author of Against Democracy and Equality; The European New Right.

jeudi, 10 avril 2014

Giorgio Locchi et le mythe surhumaniste

 

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Giorgio Locchi et le mythe surhumaniste

par Edouard Rix

 

«Es klang so alt, und war doch so neu »

(Cela sonnait si ancien, et était pourtant si nouveau)

Richard Wagner, Les Maîtres-chanteurs de Nuremberg

« J’ai deux inspirateurs principaux : Nietzsche et Giorgio Locchi » confesse Guillaume Faye, pour qui « sans Giorgio Locchi et son oeuvre, qui se mesure à son intensité et non point à sa quantité, et qui reposa aussi sur un patient travail de formation orale, la véritable chaîne de défense de l’identité européenne serait probablement rompue »(1). De même, si dans ses mémoires Alain de Benoist n’accorde qu’une ligne à l’apport de Guillaume Faye et de Robert Steuckers à la Nouvelle droite(2), il admet toutefois : « C’est en grande partie sous l’influence de Locchi que la ND des années 70 a désigné l’égalitarisme comme ennemi principal. La dizaine d’articles de lui que j’ai publiés dans Nouvelle Ecole comptent certainement parmi les meilleurs jamais parus dans cette revue »(3).

C’est au milieu des années 60 que de Benoist rencontre Giorgio Locchi, journaliste italien installé à Paris où il est le correspondant du quotidien romain Il Tempo. Ce docteur en droit de 43 ans impressionne le jeune homme, qui l’invite à écrire dans les Cahiers universitaires. Fin 1966, il publie dans le numéro 29 un article dans lequel il s’interroge sur le possibilité d’une « science historique » à la lumière des récents enseignements de la microphysique. Persuadé que le devenir historique exige une rupture pour réaffirmer « la soumission des masses aux élites, la nécessité d’une société pyramidale », Locchi précise qu’« il n’y aura d’histoire que par la volonté de faire l’histoire »(4).

Parallèlement, sous le pseudonyme de Hans-Jürgen Nigra, il collaborera irrégulièrement à Défense de l’Occident. Les spécialistes autoproclamés de l’extrême-droite Jean-Yves Camus et René Monzat l’identifieront (sic) comme l’un des militants « allemands » qui s’expriment dans la revue de Maurice Bardèche - ce qui aurait fait sourire ce germaniste accompli -.

Il était une fois le GRECE

Entré au comité de rédaction de Nouvelle Ecole en 1969, Giorgio Locchi sera l’un des principaux initiateurs du GRECE. Ce n’est pas un hasard si le numéro 6 de la revue, daté de l’hiver 1968-1969, reproduit l’intégralité de la communication qu’il a envoyée au 1er colloque de l’Institut d’études occidentales. Avec ce texte, d’imprégnation nietzschéenne, qui s’inspire des critiques généalogiques de l’égalitarisme et de l’universalisme - renvoyés à leurs origines judéo-chrétiennes - présentes dans Par delà le bien et le mal et le Crépuscule des idoles, Locchi fournit le cadre philosophico-historique dans lequel s’inscrira le GRECE des années 70. « Le marxisme, écrit-il, a bel et bien poussé jusque dans ses extrêmes conséquences une idée qui, depuis deux mille ans dominait la réflexion européenne (...). Cette idée est l’idée égalitaire, introduite dans le monde romain grâce au christianisme ». Il poursuit : « Ce sera le fait de la Révolution française que de vouloir appliquer le concept égalitaire à un des aspects de la réalité humaine, c’est-à-dire dans la loi ».

 

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Dans une conférence prononcée lors du 5ème séminaire régional du GRECE, qui se tient à Paris le 16 avril 1972 sur le thème « Nietzsche et notre temps », il définit ainsi le projet politique nietzschéen - que l’on peut lui attribuer en propre - : « Combattre l’égalitarisme : tel est le but essentiel que s’est fixé Nietzsche (...) Nietzsche appelle une aristocratie qui puisse tirer son droit de diriger la masse de ses qualités naturelles, de sa valeur. Une aristocratie qui représente un type d’homme supérieur »(5). Fin connaisseur de la Nouvelle droite, Pierre-André Taguieff souligne que Locchi a permis à Alain de Benoist « de lire Nietzsche dans la double perspective d’une généalogie de l’égalitarisme moderne et de la définition d’une “grande politique“ centrée sur l’idée européenne »(6). L’une des premières brochures doctrinales publiées par le GRECE(7) doit d’ailleurs beaucoup au penseur italien...

Taguieff en dresse le portrait suivant : « Doté d’une grande culture germanique (il s’intéressait notamment à Nietzsche, Wagner, aux penseurs de la “révolution conservatrice“ allemande, en particulier à Spengler, et au national-socialisme)», il « ne publie guère, dans Nouvelle Ecole, que des études d’aspect “théorique“ où la dimension historique n’est jamais séparée du souci doctrinal »(8). Chacun de ses articles se révèle être un véritable petit essai : « Linguistique et sciences humaines », « “Le vocabulaire des institutions européennes“ d’Emile Benvéniste », « “L’homme et la technique“ d’Oswald Spengler », « Histoire et sociétés : critique de Lévi-Strauss », « Nietzsche et ses “récupérateurs“ », « Le mythe cosmogonique indo-européen : reconstruction et réalité », « Le règne, l’empire, l’imperium », « Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932, essai d’Armin Mohler », « Il était une fois l’Amérique », « L’histoire », « Richard Wagner et la régénération de l’histoire » « Ethologie et sciences humaines ». C’est à lui que l’on doit l’épais dossier polémique - auquel Alain de Benoist a apporté des notes complémentaires » que le numéro 27-28 de Nouvelle Ecole a consacré aux Etats-Unis. Rompant radicalement avec l’occidentalisme et l’atlantisme viscéral de l’extrême-droite française, les auteurs affirment que « si l’idéologie américaine est l’un des déchets de la civilisation occidentale, l’Amérique est elle-même le déchet matériel de l’Europe »(9). L’article se termine par une conclusion cinglante : « La menace qui, par le fait des Etats-Unis, pèse sur le monde est celle d’une forme particulièrement pernicieuse d’universalisme et d’égalitarisme »(10). Il sera traduit et publié en Italie(11) et en Allemagne(12).

Le fascisme a un cœur nouveau

L’un des rares textes que Giorgio Locchi a écrit directement en italien est consacré au fascisme. Une première version abrégée est d’abord paru dans Elementi, revue de la Nuova destra italienne, sous le titre « Le fascisme a un cœur antique ». « Voilà qui prouve qu’ils n’ont rien compris à ce que soutient mon texte, qui dit exactement le contraire, à savoir que le fascisme a un cœur nouveau » raillera l’auteur. Effectivement, il insiste, dans ce court essai, sur ce qu’il appelle le « repli-sur-les-origines-projet-d’avenir » du fascisme : « Pour le “fasciste“, la “nation“ finit par être retrouvée, plus que dans le présent, dans un lointain passé “mythique“ et poursuivie ensuite dans l’avenir, terre des enfants, Land der Kinder (Nietzsche) plus que terre des pères ». Une seconde version sera publiée en 1981(13).

Pour Locchi, le fascisme est la première manifestation politique d’un vaste phénomène spirituel et culturel, qu’il nomme le « Surhumanisme », dont l’origine remonte à la deuxième moitié du XIXe siècle, et qui « se configure comme une sorte de champ magnétique en expansion dont les pôles sont Richard Wagner (rarement reconnu) et Friedrich Nietzsche ». Entre Surhumanisme et fascisme, le rapport génétique spirituel est évident. Ce « principe surhumaniste se caractérise par le rejet absolu d’un “principe égalitaire“ opposé qui conforme le monde qui l’entoure ». Or, « si les mouvements fascistes situèrent l’ennemi - spirituel avant même que politique - dans les idéologies démocratiques - libéralisme, parlementarisme, socialisme, communisme, anarcho-communisme - c’est justement parce que dans la perspective historique instituée par le principe surhumaniste, ces idéologies se présentent comme autant de manifestations, apparues successivement dans l’histoire, mais toutes encore présentes, du principe égalitaire opposé, comme tendant toutes en définitive, avec un divers degré de conscience, vers un même but, et comme étant toutes ensemble la cause de la décadence spirituelle et matérielle de l’Europe, de l’“avilissement progressif“ de l’homme européen, de la décadence des sociétés occidentales ».

Arno_Breker_-_Camarades.jpgA l’instar d’Armin Mohler, il estime que « l’image la plus adaptée » pour représenter le temps de l’histoire de la vision surhumaniste est « celle de la Sphère », déjà présente dans Ainsi parlait Zarathoustra de Nietzsche. Il précise que « si dans le temps linéaire, le “moment“ présent et ponctuel en divisant ainsi la ligne du devenir en passé et futur, et si, d’autre part, l’on ne vit donc que dans le présent ponctiforme, dans le temps sphérique de la vision surhumaniste, le présent est tout autre chose : il est la sphère dont les dimensions sont passé, actualité, futur - et l’homme est l’homme, et non pas animal, justement parce que, au moyen de sa conscience, il vit dans ce présent tridimensionnel et qui est passé-actualité-futur-en-même-temps, et qui donc ainsi est aussi toujours fatalité du devenir historique ».

L’on retrouve cette conception surhumaniste dans le fascisme, et c’est pourquoi « les “projets historiques“ des mouvements fascistes se configurent toujours comme un rappel - et un “repli“ - sur une “origine“ et sur un “passé“ plus ou moins éloigné, qui toute fois sont projetés en même temps dans l’avenir comme but à atteindre » : romanité dans le fascisme italien, germanité préchrétienne dans le national-socialisme. Or, « le “passé“ duquel on se réclame et qui peut être vanté dans un but démagogique de propagande comme toujours vivant et actuel (dans le “peuple“ et dans la “race“, entendus presque comme résiduelle), est en réalité considéré de façon pessimiste comme un bien perdu, “sorti de l’histoire“, donc comme devant être ré-inventé et créé ex-novo ».

Dans Wagner, Nietzsche e il Mito Sovrumanista(14), - ouvrage dont trois des six chapitres sont une remise en forme de ses articles wagnériens parus dans les numéros 30 et 31-32 de Nouvelle Ecole -, il insistera encore sur ce qui caractérise en propre la vision du monde surhumaniste formulée par Wagner, Nietzsche et Heidegger, à savoir la substitution au temps linéaire judéo-chrétien de la tridimensionnalité du devenir historique, symbolisé par l’image de la sphère. « Il est difficile, remarque Taguieff de ne pas percevoir un écho de ces conceptions dans la philosophie “nominaliste“ de l’histoire exposée systématiquement par Alain de Benoist dans le numéro 33 de Nouvelle Ecole, daté de juin 1979, “Fondements nominalistes d’une attitude devant la vie“ (p. 22-30), où, en référence à Nietzsche, il est proposé de substituer à la conception cyclique de l’histoire “une conception résolument sphérique“ (p. 24). N’y aurait-il pas dans cette reprise mimétique la véritable raison - ou le facteur décisif - de la rupture entre Giorgio Locchi et Alain de Benoist ? »(15). A ce facteur personnel, il faut ajouter le refus de Locchi de voir le GRECE quitter la métapolitique pour la politique(16).

Comme le disait maître Eckhart, la parole surhumaniste de Giorgio Locchi « n’est destinée à personne qui ne la fasse déjà sienne comme principe de sa propre vie ou ne la possède au moins comme un désir de son cœur ».

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, été 2013, n°44, pp. 45-47.

Notes

(1) G. Faye, postface à la deuxième édition de L’essenza del fascismo.

(2) A. de Benoist, Mémoire vive. Entretiens avec François Bousquet, éditions de Fallois, Paris, 2012, p. 142.

(3) Ibid, p.160.

(4) G. Locchi, « Profil de l’histoire », Cahiers universitaires, novembre-décembre 1966, n°29, p. 52.

(5) G. Locchi, « Nietzsche et le mythe européen », Engadine, automne 1972, n°13, p. 2.

(6) P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite, Descartes et cie, Paris, 1994, p. 152.

(7) A. de Benoist, Nietzsche : morale et “grande politique“, GRECE, Paris, 1974, 44 p.

(8) P.-A. Taguieff, op. cit., p. 153.

(9) R. de Herte et H.-J. Nigra, « Il était une fois l’Amérique », Nouvelle Ecole, automne-hiver 1975, n°27-28, p. 10.

(10) Ibid, p. 95.

(11) G. Locchi et A. de Benoist, Il male americano, LEDE, Rome, 1978, 190 p.

(12) R. de Herte et H.-J. Nigra, Die USA,Europas missratenes Kind, Herbig, coll. « Herbig Aktuell », München-Berlin, 1979, 197 p.

(13) G. Locchi,L'essenza del fascismo, Edizioni del Tridente, Castelnuovo Magra, 1981.

(14) G. Locchi, Wagner, Nietzsche e il Mito Sovrumanista, Akropolis, Naples,1982.

(15) P.-A. Taguieff, op. cit., p. 156.

(16) Entretien avec Pierluigi Locchi, 18 mars 2012.

 

Oswald Spengler, le théoricien du déclin de l'Occident


Philippe Conrad

Oswald Spengler, le théoricien du déclin de l'Occident

par Cercle Ernest Renan

dimanche, 06 avril 2014

Der konservative Ultra

Der konservative Ultra

von Carlos Wefers Verástegui

Ex: http://www.blauenarzisse.de

 

Heinrich_Leo.jpgHeute ist der preußische Historiker Heinrich Leo vergessen. Dabei gehörte dieses „Enfant terrible der Reaktion“ zu den originellsten und bekanntesten Konservativen des 19. Jahrhunderts.

Das Attribut „Enfant terrible der Reaktion“ stammt von seinem Biograph Christoph Freiherr von Maltzahn. Denn Leo (17991878) war einer der bekanntesten und streitbarsten deutschen Historiker des 19. Jahrhunderts. Selbst aus dem konservativen Geschichtsbewusstsein dürften Leos Person und Werk fast gänzlich verschwunden sein. Das liegt vor allem an dessen Streitlust.

Ein konservativer Ultra…

Der liberale Theologe Karl Schwarz nannte Leo den „Höllenbreughel unter den Historikern“. Selbst konservative Gesinnungsgenossen der Kamarilla um Friedrich Wilhelm IV. von Preußen, wie die Gebrüder Gerlach, konnten bei Leos Ausbrüchen nicht immer mitgehen. Mit Leopold von Ranke, ebenfalls ein konservativer Historiker, hatte sich Leo überworfen. Obwohl er gläubiger Protestant war, stand Leo innerlich dem Katholizismus nah, nicht nur wegen seiner „kultischen Neigungen“, die der nationalkonservative Historiker Georg von Below ihm attestierte: Die altlutherische, aber zugleich katholisch eingefärbte Liturgie, die Leos Vater, ein Garnisonsprediger, noch im weißen Chorhemd zelebrierte, hinterließ bei ihm einen bleibenden Eindruck.

Als konservativer Ultra hatte Leo politisch kein Auge für gemäßigt liberale Parteien, er kannte nur das „Entweder-​oder“. Leo stand inmitten einer Umbruchszeit gesellschaftlicher, politischer und geistiger Revolutionen, mit denen er sich lautstark auseinandersetzte. Er suchte den Konflikt. Nicht nur politisch blieb Leos Konservatismus Ausdruck der Zeit: er war vor allem Ausdruck seines Naturells.

…und revolutionärer Burschenschafter

Otto von Bismarck dagegen schätzte Leo sehr, sowohl als Menschen und Publizisten als auch als Ratgeber. Der junge Leo genoss die Aufmerksamkeit und Wertschätzung von Männern wie dem Philologen Karl Wilhelm Göttling, dem Turnvater Friedrich Ludwig Jahn, Georg Wilhelm Friedrich Hegel und Johann Wolfgang von Goethe. Neben Göttling erhielt Leo vor allem Förderung von Jahn, welcher ihm das Studium der Philologie und Geschichte nahelegte. Auch Hegel unterstützte Leo nach Kräften. Leo blieb ihm wiederum zeit seines Lebens zu Dank verpflichtet, obwohl er die Junghegelianer später heftig kritisieren sollte.

Leo war eine unbändige Urnatur, die nur allzu gern auf Zwist aus war. Dies führte ihn als jungen Mann geradewegs zur Burschenschaft, die ihn wegen ihres Radikalismus anzog. Leo trug selbst die deutsche Flagge beim Wartburgfest. Zu dieser Zeit blieb er jedoch weder politisch noch religiös festgelegt. Mit Karl Ludwig Sand, dem Mörder des russischen Gesandten und Dramatikers August von Kotzebue, war Leo gut bekannt.

Romantik und Radikalismus

Die Ermordung Kotzebues am 23. März 1819 bedeutete für ihn eine Abkehr von der Burschenschaft. Leo gewann einen zunehmend konservativen Standpunkt. Romantische Motive und romantisches Gedankengut hatten ihn empfänglich für den Konservatismus gemacht. Hegels Philosophie ist es zu verdanken, dass dieser romantische Konservatismus Leos entwicklungsfähig war und es bis zuletzt auch blieb. Zur Religion zurück fand Leo über pietistische Kreise in Halle, wo er Professor für Geschichte war. Die Verschmelzung des Konservatismus mit einem aufrichtigen, christlichen Offenbarungslauben vollzog Leo, unterstützt vom Theologen August Tholuck und den Gebrüdern Gerlach.

Wie der Historiker Gerhard Masur bemerkt, war Leo „nach Temperament und Charakter kein Romantiker.“ Er nennt Leo zwar keinen Reaktionär, bezeichnet ihn aber dennoch als „energisch restaurativ.“ Masur stellt ebenfalls fest, dass Leo der „echteste Romantiker unter den Geschichtsschreibern“ war.

Knorrige Sittlichkeit

Früh eine Halbwaise geworden, sein Vater starb, als Leo 8 Jahre alt war, wuchs er in bescheidenen Verhältnissen im thüringischen Rudolstadt auf. Seine ausgeprägte Naturverbundenheit, ein angeborener bäuerischer Sinn sowie seine Freude am „Knorrigen“, und überhaupt allem, was Ecken und Kanten hat, haben ihn sein Lebtag begleitet. Die urgewaltige Freude am Raufen, die Streit– und Zanksucht, waren ihm genauso angeboren wie sein strenger Sinn für Sittlichkeit. Das erklärt auch Leos Vorliebe fürs Mittelalter, seine ungestüme Vorgehensweise und seine auffallende Verherrlichung des Krieges.

Von seinem radikalen Standpunkt aus verhöhnte Leo gnadenlos Humanität und bürgerliche Zivilisation. Motive und Einflüsse auf seinen Charakter blieben christlich-​pietistisch und allgemein romantisch. Der „mittelalterlichen Natur seines Geistes“, so der Historiker und Nationalökonom Wilhelm Roscher über Leo, entsprachen vollkommen seine barocke, bilderreiche Sprache sowie sein „heldisches Reckentum“, betont Masur.

Ein „frischer, fröhlicher Krieg“

Oberflächlich betrachtet erscheint Leos Kriegsverherrlichung in ihrer antibürgerlichen Zuspitzung unmenschlich. Doch eigentlich ist sie sehr tiefsinnig. 1853, zur Zeit des Krimkrieges, schrieb Leo: „Gott erlöse uns von der europäischen Völkerfäulnis und schicke uns einen frischen fröhlichen Krieg, der Europa durchtobt, die Bevölkerung sichtet und das skrophulöse (nach einem Halsdrüsengeschwulst, Red.) Gesindel zertritt, was jetzt den Raum zu eng macht, um noch ein ordentliches Menschenleben in der Stickluft führen zu können. Jetzt spielt noch die Canaille des materiellen Interesses (…) Ein einziger, ordentlicher, gottgesandter Kriegsregen würde die prahlerische Bestie mit wenigen Tropfen schon zum Schweigen gebracht haben.“

Maltzahn erklärt Leos Kriegsenthusiasmus: „In seiner Universalgeschichte bedauert Leo, dass man den Krieg in die Kategorie des Unglücks gebracht habe, während er dochein so notwendiges Lebensingredienz ist wie der Verkehr und sogar unvergleichlich viel mehr Tugenden der Liebe und Hingebung an höhere Dinge weckt und erzieht als der Friede. Er ist die Quelle von Disziplin, Zucht und des Ordnens der Massen, der Friede aber die Quelle der Zersplitterung der Massen, weil er das Bedürfnis nach schützenden Mächten schwächt. Äußerer Friede ist der Vater des Egoismus.

Kritik am Judentum

Politisch war Leo als junger Mann kein Konservativer. Was ihn mit dem Konservatismus verband, war die Ablehnung der Moderne. Diese Ablehnung war anfangs noch unreflektiert, das heißt mehr Instinkt denn Frucht einer Selbstbesinnung. In diesem Antimodernismus fügt sich auch seine fehlende Religiosität, der anfängliche Rationalismus Hegelscher Färbung sowie seine Ablehnung des Judentums als etwas innerlich der Moderne Verwandtem, betont der Historiker Christhard Hoffmann.

Überhaupt war Leos Verhältnis zum Judentum sehr gespannt, was in seinen Vorlesungen über die Geschichte des jüdischen Staates von 1828 zum Ausdruck kommt. Dort hatte er mit der Bemerkung, „Juden haben einen wahrhaft zerfressenden Verstand“, eine Beziehung zwischen dem Judentum und dem französischen Rationalismus der Aufklärung hergestellt.

Nach seiner religiösen Kehre änderte sich Leos Auffassung vom Judentum, dem er nun auch positive Aspekte zugestand. Nach wie vor schied er jedoch das Judentum vom Deutschtum, ohne jeweils Antisemit noch deutscher Nationalist zu sein. Seine Bewertung des Judentums vollzog sich ganz im Sinne des Individualitätsdenkens der „Historischen Schule“. Trotz seiner persönlichen Abneigung kam Leo nie dazu, es niedriger zu bewerten als das Deutschtum.

Juden seien anders, aber nicht schlechter als Deutsche, so Leo. Im Gegensatz zu den assimilierten erhielten die orthodox gebliebenen Juden seine Anerkennung. Seine Vorurteile gingen aber immerhin soweit, dass sie ihn davon abgehalten, sich rechtzeitig mit der Rechts– und Staatslehre Friedrich Julius Stahls, dem Führer der preußischen Konservativen und einem ehemaligen Juden, vertraut zu machen. Später bereute Leo diesen Fehler und pries die Einsicht und protestantische Orthodoxie Stahls.

Der konservative Ultra II

Heinrich Leo (17991878) war einer der ersten Theoretiker des modernen Konservatismus. Ferdinand Tönnies erkannte in ihm einen „überklugen Erzreaktionär“, Karl Marx wetterte gegen ihn.

Leo wandelte sich vom Gefühlsliberalen des frühen 19. Jahrhunderts zum Konservativen hegelscher Prägung. Dem ging eine intensive Lektüre voraus. Als Korrektiv zu Leos burschenschaftlichen Ansichten hatte der Rechtsgelehrte Karl Friedrich Eichhorn ihm die Lektüre von Karl Ludwig von Hallers Die Restauration der Staatswissenschaften empfohlen. Dazu kamen Edmund Burke, die französischen Traditionalisten Louis de Bonald, Joseph de Maistre, Augustin Barruel sowie von den deutschen Autoren vor allem Adam Müller.

Individualität setzt Glauben und Autorität voraus

Von Haller akzeptierte Leo jedoch nicht die rein privatrechtliche Patrimonialstaatstheorie, die besagte, dass die Fürsten vor allem als Eigentümer eines bestimmten, vererbten Territoriums legitimiert seien. Ebenso wenig konnte Leo dessen naturalistische Rechtfertigung des Staates als eines Gewaltinstituts akzeptieren. Trotzdem blieb er Haller in einigen seiner Gedankengänge sein Leben lang verpflichtet.

Leos eigene, unbändige Urnatur begründete ihrerseits ein ursprüngliches Verhältnis zur Gewalt. Den festesten Halt fand Leos Konservatismus allerdings im christlichen Offenbarungsglauben sowie im Prinzip der monarchischen Autorität und deren göttlicher Berufung. Individualität und Unabhängigkeit stehen bei Leo deswegen in einem Zusammenhang mit Glauben und Autorität. Sie liegen auch Leos antiliberalem Freiheitsbegriff der „Eigengeartetheit“ zugrunde, beziehungsweise der „Eigenheit“ und „Besonderheit“, die den Gedanken der historischen Schule und der Romantik entsprechen.

Die sinnliche Gewalt der Waffen

Obwohl Leo sich in vielen Punkten als konservativer Parteigänger entpuppte und auch sonst dazu neigte, Preußen und seine Monarchie zu verherrlichen, war er dezidierter Realist. Dem lag seine „Betrachtung des Seinsmäßigen und Zuständigen“ zugrunde, wie der Schriftsteller und Literaturwissenschaftler Kurt Mautz in seiner Einleitung zur Neuauflage von Leos Naturlehre des Staates von 1948 schrieb. In diesem Werk überrascht Leo unter anderem mit dieser Erkenntnis: „Alle sinnliche Gewalt also, inwiefern sie Staaten gründet sowohl als erhält, alle sinnliche Gewalt als politisches Element ist in letzter Instanzder Sieg der Waffen.“

Leos Realismus resultiert hier primär aus seinem bäurischen Wesen und seiner einfachen Herkunft. Dazu kommt die intensive, wenn auch noch nicht quellenkritische, geschichtliche Forschung. Ein weiteres Moment dieses Realismus bezog Leo von Hegel. Leos Offenheit für Machiavellis Machtlehre zum Beispiel verdankt Hegel so einiges. Als Historiker hatte Leo Machiavellis Briefe an seine Freunde 1826 ins Deutsche übersetzt und redigiert. Über seine Machiavelliinterpretation entbrannte schließlich der Streit mit dem Historikerfürsten des 19. Jahrhunderts schlechthin, mit Leopold von Ranke.

Ein Urgrund der Politik: Krieg und Gewalt

Leos romantischer Konservatismus hielt zwar ideell am Althergebrachten fest, erhielt aber, dank seines eigentümlichen, durch Haller, Hegel und Machiavelli befruchteten Realismus, einen politischen Gegenwartsbezug. Dies bezeichnet schließlich auch den Weg, den Leo persönlich innerhalb der historischen Entwicklung des 19. Jahrhunderts nahm. Seine Ideologie wandelte sich vom rein kontemplativen Konservatismus und der politischen Lehre der Historischen Rechtsschule zur neukonservativen Machtstaatspolitik Bismarcks.

Bei Bismarck fühlte sich Leo speziell von dessen „mystischer Gewalt der Persönlichkeit“ angezogen. Anders als bei den Altkonservativen, zum Beispiel den Gerlachs, klaffen bei Leo rückwärts gewandte Utopie und ein fast naturalistischer Realismus derart auseinander, dass die Entscheidung nur zu Gunsten des Realismus ausfallen konnte. Es geht Leo deshalb vor allem um die Rückführung der Politik auf ihren Urgrund der Gewalt.

Marx gegen Leo

Das Vergessen Leos heute suggeriert fälschlicherweise seine geringe Bedeutung und führt zu der Annahme, er selbst sei nur eine exzentrische Figur aus dem 19. Jahrhundert. Tatsächlich ist seine Bedeutung groß genug gewesen. Der Historiker Georg von Below, der Leo gezielt als konservativen Gegenpart progressiver Gesellschaftswissenschaft anführte, wies wiederholt auf die Parallelen zwischen der Kulturgeschichtsschreibung Leos und dem Werk von Karl Marx hin.

In seiner Naturlehre hatte Leo nämlich das Wort „naturwüchsig“ als polemischen Gegensatz zu allen „mechanischen“, das heißt künstlich verbildeten und „gemachten“ Gesellschaftsformen, geprägt. Das Wort „naturwüchsig“ wurde im damaligen Deutschland recht populär. Und tatsächlich geht die Übernahme Leoscher Begrifflichkeit bei Marx in der Deutschen Ideologie von 1847 über die bloß statistische Häufigkeit hinaus. Es heißt dort unter anderem: „Schon die Reaktionäre wussten, dass die Bourgeois in der Konstitution den naturwüchsigen Staat aufheben und einen eigenen Staat errichten und machen (…), dass dieser gemachte Staat wie ein gemachter, gemalter Baum ist“ Marx macht zwar Leo nicht die Freude, ihn zu zitieren. Aber der wiedergegebene Gedankengang bleibt ein mehr als ausreichender Beweis.

Leo bei Burckhardt und Tönnies

Vor Marx hat sich Leo ebenfalls einen klaren Begriff von dem Phänomen der „Ideologie“ gemacht. Mautz zählt darunter anhand von Leo auch „Maskierung“ und „maskierte Interessen“. Aber schon ein bestimmter Gebrauch der Wörter „abstrakt“, „Abstraktion“ zeigt, in wieweit sich Leo des Wesens der „Ideologie“ bewusst war. Das Wesen der modernen, bürgerlichen Ehe wird von Leo, wie auch von Marx, gleichermaßen erkannt. Nur die Bewertung fällt jeweils anders aus: Während für Leo die bürgerliche Ehe „unsittlich“ ist, ist sie für Marx eine „Heuchelei“.

Auch in Ferdinand Tönnies Soziologie tauchen Leos Gedanken nicht nur durch Marxsche Vermittlung auf. In Tönnies Studie Die Entwicklung der Soziologie in Deutschland im 19. Jahrhundert von 1908 fand der „überkluge Erzreaktionär“ Leo als Soziologe Erwähnung. Bei Jakob Burckhardt, der vor allem Leos Geschichte der italienischen Staaten von 1832 gut kannte, fand dessen Kriegsenthusiasmus Zustimmung in den Weltgeschichtlichen Betrachtungen. Tönnies beruft sich hier ausdrücklich auf Leo: „ Sodann ist hier vorauszunehmen schon der Krieg überhaupt als Völkerkrisis und als notwendiges Moment höherer Entwicklung. (…) Denken wir hier vollends auch an H. Leos Wort vom frischen fröhlichen Krieg, der das skrofulöse Gesindel wegfegen soll.

Das Christentum macht den Konservativen

Für den heutigen Konservativen liegt Leos Bedeutung darin, zu erkennen, dass Konservatismus eben kein vergilbter Ideenkatalog zum Schmökern ist. Es gehört eine individuelle Grundlage, eine Persönlichkeit, dazu, um wahrhaft konservativ zu sein. Gerade Leos Vortrag Was ist konservativ? hat zum Ziel, zu verdeutlichen, was einen echten Konservatismus ausmacht und was der Konservative selbst mitbringen muss, um eben ein solcher zu sein.

Allein das Christentum, aber auch dies nur als ein wirkliches und lebendiges, scheidet wahren vom falschen Konservatismus. Leos eigene Persönlichkeit macht zudem auf besonders drastische Weise deutlich, wie sehr es das Leben ist, das dem Konservatismus Kraft gibt. Es kommt nämlich nicht auf die richtigen Ideen, oder, noch schlimmer, den richtigen Diskurs an. Entscheidend bleiben die richtigen Leute, die diese Ideen verkörpern. Auch die Kriegsverherrlichung und die Freude an der Gewalt haben letzten Endes ihren Sinn bei Leo. Sie sollten die innere Ausweglosigkeit, derer er sich nur allzu bewusst war, sprengen.

vendredi, 21 février 2014

Porträt Giorgio Locchi

Porträt Giorgio Locchi (I)

von Ettore Ricci

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giorgio-locchi-286x300.jpgDer Italiener Giorgio Locchi gehört zu den wichtigsten Denkern der Neuen Rechten. Ettore Ricci stellt ihn hier zum ersten Mal auf Deutsch vor.

Locchi, der von 1923 bis 1992 lebte, war zweifelsohne einer der tiefsinnigsten Denker der nonkonformen Kultur Europas. Hinzu kommt: Er war ein bedeutendes Mitglied der ersten Neuen Rechten ab den 1970er Jahren. Seine Philosophie und seine Intuitionen beeinflussten unter anderem das Gedankengut der Rechtsintellektuellen Guillaume Faye, Pierre Vial, Pierre Krebs, Robert Steuckers, Stefano Vaj, Adriano Scianca sowie, vor allem gegen Ende der Siebziger Jahre, die Ideen Alain de Benoists.

Geprägt von Musik, Physik und Philosophie

Aber wer war Locchi? In Rom geboren, hielt er sich in seiner Jugendzeit lange in Deutschland auf. Es war das Land, zu dem ihm auch seine deutsche Ehefrau, Elfriede Locchi, verführte. Daraufhin studierte er Jura und wurde zum Auslandskorrespondenten der italienischen Zeitung Il Tempo in Paris.

Locchi galt als hochfeiner Kenner der deutschen Philosophie, der klassischen Musik und der neuen Physik. Nach dem Ende des Kriegs wohnte er in Saint-​Cloud, einer schönen Gemeinde in der Nähe von Paris. Er lebte in einem Haus, „bei dem viele französische, italienische und deutsche Jungen weniger zum Besuch, als zur Pilgerfahrt vorbeikamen. Aber sie simulierten Gleichgültigkeit in der Hoffnung, dass Locchi (…) wie Zarathustra gelaunt zu weissagen wäre, anstatt – wie es leider öfters vorkam – vom Wetter, seinem Hund und weiteren irrelevanten Kleinigkeiten zu sprechen”, so Locchis Weggefährte und Schüler Vaj.

Locchi war mehr als ein Philosoph, Journalist, Essayist und Denker. Er war eher, wie Guillaume Faye zurecht sinngemäß schrieb, „Lehrer und Dynamit”, ganz im Sinne Friedrich Nietzsches. Seinen Schülern galt Locchi als Anreger uralter Energien, als Multiplikator geahnter, doch noch nicht verstandener Erleuchtungen: „Wer sein Buch Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista (sinngemäß Wagner, Nietzsche und der Mythos des Übermenschen, E. R.) aufschlägt, der steht einer Enthüllung eines originellen und originären Wissens gegenüber – eine Enthüllung, die nie total sein mag. Denn der aristokratische Stil Locchis ist hermetisch und andeutend. Der Leser wird dadurch fasziniert, indem er versucht, ein weiteres Wissen durch die Zeilen zu schielen, das der Autor – ganz sicher – schon besitzt und das Locchi dennoch mit Mäßigung spendet”, schreibt Scianca über ihn.

Der Reiz Locchis liegt in seiner vielseitigen, sich anderer Denkschulen bedienenden Ausbildung. Sein Werk beruft sich auf philosophische, ethnologische, musikwissenschaftliche, physikalische und religionsgeschichtliche Abhandlungen. Und eben dadurch war er in der Lage, seinen neuen Mythos der Geschichte in allem Glanz und all seiner Schönheit zu enthüllen.

Ende oder Wiedergeburt der Geschichte?

Der Sinn des leider geringen, doch intensiven Schaffens Locchis besteht genau darin. Er hat den Mythos und die Kraft einer antiegalitaristischen Geschichtstendenz in all seiner Klarheit veranschaulicht. Dieser neue Mythos entstand mit und dank Richard Wagner sowie Nietzsche. Es war eine Kraft, die sich auch in den revolutionären politischen Bewegungen der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts entfaltete. Einige nennen diese Bewegungen „Konservative Revolution”, andere „Faschismus”. Locchi hat deren Mytheme, die Bestandteile ihres antiegalitaristischen Mythos, erkannt. Anders gesagt: Er hat im Sinne Oswald Spenglers den „Ideen ohne Worte” Ausdruck verliehen.

Neuer Mythos des Übermenschen

Locchi bezeichnet den neuen Mythos auf Italienisch als „sovrumanismo”, auf Französisch als „surhumanisme”. Ins Deutsche lässt sich der Begriff nur schwer übertragen. Es handelt sich um eine Idee, die auf dem Modell des Übermenschen von Nietzsche beruht. Damit setzte sich Locchi der anderen, zweitausendjährigen Tendenz des Gleichheitskults, dem Egalitarismus, entgegen. Auch dieser hat ganz und gar mythische Wurzeln. Er entstand mit dem Christentum innerhalb der griechisch-​römischen, polytheistischen Kultur. Das Weltgefühl und die Weltanschauung des Abendlandes hat der Egalitarismus nahezu völlig geprägt. Denn die anderen Ideologien der Gleichheit, zum Beispiel Aufklärung, Liberalismus und Marxismus, entstammen der gemeinsamen Wurzel des christlichen Mythos. Im 20. Jahrhundert erlebte dieser seine hochideologische, vom biblischen Ursprung wegführende Phase.

Daraus entstand das, was Locchi den „epochalen Konflikt” nannte. Dieser Konflikt entspringt den gegnerischen und unvereinbaren Weltgefühlen und Projekten der zwei Tendenzen, die Locchi anhand des Denkens Nietzsches erklärt: Der Egalitarismus will den letzten Menschen und das Ende der Geschichte, der neue Mythos dagegen den Übermenschen und eine Wiedergeburt der Geschichte.

Moderner Hass gegen die Geschichte

definiciones.jpgDer egalitaristische, metaphysisch begründete Hass gegen die Geschichte wurde im 20. Jahrhundert noch deutlicher. Der französische Ethnologe Claude Lévi-​Strauss etwa verurteilte die „heißen Gesellschaften” als „Geschichtserzeuger”, Bertolt Brecht nannte „unglücklich das Land, das Helden nötig hat”. Aus den Gedanken Locchis heraus wird ihre Haltung erklärbar: Denn Helden stellen die Geschichte-​Macher schlechthin dar. Diese Ablehnung gegenüber der Idee der stets unvollendeten Zeit steigerte der bekannte US-​amerikanische Politikwissenschaftler Francis Fukuyama, als er 1992 das Ende der Geschichte verkündete.

Locchi beschreibt deren verbindende Ideologie, nämlich die Idee der Gleichheit. Denn sowohl Theorie und Praxis des Egalitarismus sind sehr alt ‒ über 2000 Jahre. Er entstand mit dem Christentum und gipfelte im Marxismus sowie im Liberalismus. Die egalitaristischen Ideologien haben einen mythisch inszenierten, als vorgeschichtlich beschriebenen Ursprung, zum Beispiel den Garten Eden, Urkommunismus und vorgesellschaftliche Freiheit sowie ein nachgeschichtliches Ziel. Es ist wahlweise das Himmelreich, die kommunistische Gesellschaft oder eben die planetarische Demokratie.

Die Linie und das Verschwinden der Zukunft

Die Geschichte „an sich” kann aus des Sicht des Egalitarismus, so Locchi, nur noch eine Strafe bzw. ein Unfall sein. Ihr einziger Sinn liegt in ihrem Ende. Zum Glück führen demnach allein die christliche Vorsehung Gottes, die marxistische wissenschaftliche Theorie oder der liberale Fortschritt. Sie gelten als metaphysische und somit die Zukunft bestimmende Wesen. Sie würden, so die Überzeugung dieser Ideologien, den Menschen endlich zu ihrer Idee des Glücks führen, das außerhalb der Geschichte steht. Solche Auffassung kommt aus dem Hauptmythem des Egalitarismus, nämlich dem Geschichtsbild der Linie, das bereits Armin Mohler in seiner Dissertation Die konservative Revolution in Deutschland 1949 beschrieben hatte.

Mohler und der „Narr des Glücks”

Sowohl Locchi als auch Mohler erkannten im egalitaristischen Geschichtsbild einen zentralen Gedanken: Die Zeit, folglich also auch die Geschichte, würden demnach linear verlaufen. Sie besitzt, so Mohler, einen ominösen, oft mythisch begründeten Anfang und zugleich einen scheinbar unvermeidbaren, fatalen Schluss. Der Mensch hat nach dieser Theorie letztendlich eben doch keine umfassende Möglichkeit, sein Schicksal zu bestimmen. Denn er darf seine angeblich vorausgesetzte Freiheit nicht ausüben, er ist auf sein Ende verdammt.

Der Mensch bleibt so ein verzweifelter „Narr des Glücks”, wie ihn William Shakespeare bei König Lear sowie Romeo und Julia beschreibt. Dieser „letzte Mensch”, den auch Nietzsche beschreibt, wähnt sich am Ende der Geschichte angekommen. „Was ist Liebe? Was ist Schöpfung? Was ist Sehnsucht? Was ist Stern?”, zitiert Nietzsche diesen satten und ungläubigen Charakter in Also sprach Zarathustra. Für Locchi stellt dieser „letzte Mensch” zugleich das letzte Ziel des Egalitarismus dar.

Zugleich, so dieser einzigartige italienische Denker, entstand im 19. Jahrhundert eine neue Geschichtstendenz gegen das Projekt der allgemeinen Gleichheit und des Sieges über die Geschichte. Es handelte sich um eine Tendenz, die durch ihren eigenen Mythos und ihren eigenen Willen beseelt war. Sie entsprang für Locchi der Musik Wagners und dem philosophischen Gedicht Nietzsches. Aus ihr entwickelte sich das Bild einer anderen Geschichte und einer anderen Zukunft. Locchi widersprach damit zugleich den rationalistischen Ideen der Moderne grundlegend. Gegen sie formte er einen neuen Mythos.

Anm. der Red.: Im zweiten Teil seines Porträts erklärt Ettore Ricchi, warum Locchi auch in Richard Wagner den Vater dieses neuen Mythos gegen die Gleichheit sah.

Porträt Giorgio Locchi (II)

Der italienische Rechtsintellektuelle Giorgio Locchi entwarf auf alten Traditionen ein neues Bild europäischer Geschichte. Seine Kronzeugen gegen den Egalitarismus waren Richard Wagner und Friedrich Nietzsche.

Die Geschichte blieb für den Italiener der wesentliche Bestandteil der menschlichen Natur, ja ihr eigentliches Wesen. Nicht der Verstand, so Locchi und der konservative Soziologe Arnold Gehlen, zeichneten den Menschen im Gegensatz zu den Tieren aus, sondern eben seine Geschichtlichkeit. Denn die Tiere haben keine Geschichte, sie wiederholen ihre ihnen angeborene, im Instinkt verwurzelte Natur. Damit kennen sie keine wirklich geschichtliche Entwicklung. Deshalb besitzen sie laut Locchi auch keine Kultur. Sie aber bleibt die wahre, einzigartige Natur des Menschen.

Die Kugel und die Erlösung der Vergangenheit

Denn der Mensch hat entweder keine bzw. alle Instinkte: Er ist im Sinne Gehlens voll und ganz „weltoffen”. Er muss seine Kultur und sich selbst entwerfen. Und der Mensch ist keine „res cogitans”, also keine „denkende Sache” im Sinne des rationalistischen französischen Philosophen René Descartes, sondern ein Schicksal, ein Da-​Sein.Diese Identität des Menschen beschrieb Martin Heidegger in seinem Hauptwerk Sein und Zeit: „Das Dasein hat faktisch je seine Geschichte und kann dergleichen haben, weil das Sein dieses Seienden durch Geschichtlichkeit konstituiert wird.” Für den neuen Mythos Locchis, den er auf alten Denkschulen gründet, bleibt die Geschichte deshalb die einzige Dimension, in der sich der Mensch durchsetzen kann.

americano12.pngEine solche Menschenauffassung kommt aus einem Hauptmythem der neuen Tendenz: Es handelt sich um die Dreidimensionalität der Geschichtszeit. Sie widersetzt sich dem linearen und eindimensionalen, egalitaristischen Bild der Zeit entschieden. Ihr Geschichtsbild ist die Kugel. Locchi erklärt, auf der egalitaristischen Linie „erscheinen Vergangenheit und Zukunft aus der Gegenwart ausgeschlossen; man ist immer in der Gegenwart, man ist nicht mehr und nie in der Vergangenheit, man ist noch nicht und nie in der Zukunft. In der Physis, im Leben, ist das wahr. In der Geschichte aber sind Vergangenheit, Aktualität und Zukunft immer zugleich da, von einer ‚Gegenwart’ als ihr ‚Inniges’ bestimmt, die das Dasein selbst (im heideggerschen Sinne) ist.” Wie auch Mohler in der Konservativen Revolution schreibt, bleibt „die Kugel wohl das bessere Gegenbild zur geraden, ‚einsinnigen’ Linie als der Kreis. Sie bedeutet für den Kykliker, (also den, der nicht an ein Ende der Geschichte glaubt, E. R.), daß in jedem Augenblick alles eingeschlossen ist, daß Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft zusammenfallen.”

Die Vergangenheit ist kein Gefängnis mehr

All das ist entscheidend: Es besagt, dass die Vergangenheit als determinierende Verkettung unzählbarer Ursachen den Menschen nicht mehr eindeutig und tyrannisch bestimmt. Damit widerspricht Locchi auch der hegelianischen Auffassung der Zeit, die von einem Fortschritt auf Grundlage der menschlichen Geschichte ausgeht. Auch die Zukunft ist nach Locchi nicht mehr von vornherein festgesetzt, sondern bleibt offen. Darin besteht genau die geschichtliche, also die eigentliche Freiheit des Menschen. Er ist nicht mehr Shakespeares „Narr des Glücks”, sondern ein „homo faber suae fortunae” ‒ der Schmied seines eigenen Schicksals, das er frei gewählt hat.

Warum handelt es sich hier um eine Wahl? Nach Locchis Auffassung bestimmt die Vergangenheit zwar den Menschen, doch er kann sich zugleich durch deren Bejahung von ihr befreien. „Die Vergangenen zu erlösen und alles ‚Es war’ umzuschaffen in ein ‚So wollte ich es!’ — das hiesse mir erst Erlösung!”, schreibt Nietzsche in Also sprach Zarathustra. Genau das habe er, so Locchi, mit dem sogenannten „Tod Gottes” beabsichtigt, nämlich das Ablegen jeder beengenden, die Geschichte allein verneinenden Metaphysik. Erst dadurch kann der Mensch befreit werden.

Der Übermensch entscheidet die Geschichte

Um wieder mit Locchi zu sprechen: Der Mensch als geschichtliches Dasein muss zugleich immer zwischen verschiedenen Formen der Erinnerung wählen und deshalb entscheiden. Zugleich beruft er sich in dieser Wahl auf einen gemeinsamen Ursprung und bestimmt damit auch seine Zukunft. Nach Heidegger „wählt sich das Dasein (damit, E. R.) seinen Helden.” Dieses vom Menschen bestimmte Schicksal bleibt gleichzeitig ein Geschick, ein Auftrag des Menschen. Denjenigen, der diese Entscheidung trifft, meinte Locchi mit dem neuen Mythos des „Übermenschen”.

Für Locchi entstanden diese Zeitauffassung und der neue Mythos dank Wagner und Nietzsche. Da sich das neue Weltgefühl durch die Sprache des Mythos ausdrückte, wurde es von den Verfechtern des Egalitarismus als „irrational” wahrgenommen und angeprangert. Es handelte sich dabei jedoch um einen irrtümlichen, für die spätpositivistischen Rationalisten typischen Ansatz. Aber die Absicht der mythischen Sprache ist es eben nicht, intellektuell zu überzeugen, sondern emotional zu begeistern. Gerade wegen dieser scheinbar unvernünftigen und verzaubernden Elemente wird sie von ihren Gegnern als höchst gefährlich gespürt. Deshalb verurteilen auch Wagners Gegner dessen Musik so unerbittlich und kompromisslos.

Die Figur des Hans Sachs fasst in Wagners Meistersinger von Nürnberg von 1868 die wesentliche Botschaft zusammen: „Es klang so alt und war doch so neu.” Folgt man weiter Locchi, gipfelte das mythische Projekt Wagners jedoch in der Tetralogie Der Ring des Nibelungen von 1876 und im Drama Parsifal von 1882. In der renommiertesten der italienischen Zeitungen, Il Corriere della Sera, hat der bekannte Musikwissenschaftler Paolo Isotta mehrfach Locchis Wagner, Nietzsche und der Mythos des Übermenschen als „ein Standardwerk der Wagnerischen Hermeneutik” bezeichnet.

Wagners Weltuntergang als Wiedergeburt

Locchi, so Isotta, habe erkannt, dass Wagner das zyklische Bild der Zeit erneuern wollte. Der Komponist habe damit den Mythos und die andere, weder geschichtslose noch gleichförmige Welt regenerieren wollen. Weltuntergang zeigt sich in seinem Werk zugleich als Weltwiedergeburt, Ende und Anfang fallen zusammen. Der Komponist ahnte das Heraufziehen dieser neuen Zeitauffassung. Aber die diskursive, lineare und eindimensionale Sprache seiner Zeit konnte das nicht ausdrücken. Der neue Mythos konnte nur in der Gestalt einer beschwörenden, erhebenden und rätselhaften Musik Gestalt gewinnen. Diese nicht nur den Zeitgenossen als großes Rätsel erscheinende Musik bleibt das Leitmotiv von Wagners Gesamtkunstwerks und des Wort-​Ton-​Dramas. Ihr vertraute er die Sprache des Mythos an.

Wotan, der wirkliche Held der Ring–Tragödie, weiß vom Ende der Welt. Dennoch will er dieses auch, um die Schöpfung regenerieren zu können. Nach der meisterhaften Exegese von Locchi erscheint die Wiedergeburt der Welt genau am Schluss der Götterdämmerung unter den Flammen von Walhall. Sie wird durch das „Erlösungsmotiv” verkündigt.

Zuvor erschallte es nur einmal im ganzen Drama, und zwar in Die Walküre, als Sieglinde dank Brünnhilde entdeckt, dass sie Siegfried im Schoße trägt, Der Walküre ruft sie entgehen: „O hehrstes Wunder! Herrlichste Maid! /​Dir Treuen dank’ ich heiligen Trost! /​Für ihn, den wir liebten, rett’ ich das Liebste”. Es handelt sich hier, wie Locchi erklärt, um das echte Motiv der Erlösung, des Lebens und damit der Wiedergeburt. Das scheinbare Ende aller Dinge bedeutet gleichzeitig einen neuen Anfang, den Beginn einer regenerierten Welt. Wagner schrieb: „Wir erkennen den Grund des Verfalles der historischen Menschheit, sowie die Nothwendigkeit einer Regeneration derselben; wir glauben an die Möglichkeit dieser Regeneration, und widmen uns ihrer Durchführung in jedem Sinne.” Locchi sah darin die zentrale und entscheidende Botschaft Wagners.

Anm. der Red.: Im dritten Teil seines Porträts zu Giorgio Locchi schreibt Ettore Ricci über den Einfluss Nietzsches. Darüber hinaus blieb der Italiener nicht nur dem europäischen Erbe verpflichtet. Er gehörte in den 1970er Jahren zu den ersten Rechten, die grundlegende Kritik an der heraufziehenden, US-​amerikanischen Globalisierung übten. Zum ersten Teil des Porträts geht es hier.

Porträt Giorgio Locchi (III)

Giorgio Locchi entwickelte auf Grundlage nietzscheanischer Philosophie eine neue historische Idee. Mit Alain de Benoist verfasste er ein US-​kritisches Plädoyer für das Erbe Europas.

Nietzsche hat die abendländische Philosophie und Metaphysik grundlegend zerstört aber auch erneuert. Er schuf die Idee der geschichtlichen Freiheit des Menschen. In der von ihm beschriebenen ewigen „Wiederkunft des Gleichen” offenbarte dieser einen neuen Mythos, so Locchi.

Das Rätsel ewiger Wiederkehr

Zu lange wurde Nietzsches Philosophie der „ewigen Wiederkunft” als eine herkömmlich zyklische Zeitauffassung betrachtet. Aber man muss auch damit rechnen, wie Locchi hinweist, dass „Nietzsche in seinem aristokratischen Bestreben, den Unerwünschten die Türen seines Hauses zu versperren, deren Schlüssel sorgfältig verbarg”. Denn er habe, ebenso wie Wagner, das Rätsel der ewigen Wiederkehr verschlüsselt.

Alles Gerade lügt, murmelte verächtlich der Zwerg. Alle Wahrheit ist krumm, die Zeit selber ist ein Kreis. Du Geist der Schwere! sprach ich zürnend, mache dir es nicht zu leicht! Oder ich lasse dich hocken, wo du hockst, Lahmfuss, — und ich trug dich hoch!”, schreibt er in Also sprach Zarathustra. An anderer Stelle spricht Nietzsche erneut durch den Seher: „Alles geht, Alles kommt zurück; ewig rollt das Rad des Seins. Alles stirbt, Alles blüht wieder auf, ewig läuft das Jahr des Seins. Alles bricht, Alles wird neu gefügt; ewig baut sich das gleiche Haus des Seins. Alles scheidet, Alles grüsst sich wieder; ewig bleibt sich treu der Ring des Seins. In jedem Nu beginnt das Sein; um jedes Hier rollt sich die Kugel dort. Die Mitte ist überall. Krumm ist der Pfad der Ewigkeit.”

Im Anfang liegt die historische Größe

Die dreidimensionale Zeit wird hier erneut deutlich: In der Kugel gibt es keinen Anfang und kein Ende, sondern eine Mitte, die überall ist. In ihr fallen die drei Dimensionen der Zeit zusammen. Es kann sich also nicht um das Bild des Kreises handeln. Denn das ist nur eindimensional. Der mythische Anfang der Geschichte ist bei Locchi und Nietzsche keine reaktionäre Wiederkehr eines mumifizierten Ursprungs, sondern ein verwandelter, regenerierter Anfang.

Heidegger formulierte das in seiner umstrittenen Rede Die Selbstbehauptung der deutschen Universität 1933 noch treffender: „Der Anfang ist noch. Er liegt nicht hinter uns als das längst Gewesene, sondern er steht vor uns. Der Anfang ist als das Größte im voraus über alles Kommende und so auch über uns schon hinweggegangen. Der Anfang ist in unsere Zukunft eingefallen, er steht dort als die ferne Verfügung über uns, seine Größe wieder einzuholen.”

Kritik der „Amerikanischen Metapolitik”

locchi-steuckers-konservative-revolution.jpgNeben der Interpretation und Weiterentwicklung der deutschen, geschichtsphilosophischen Tradition spielte Locchi auch an anderer Stelle eine entscheidende Rolle. Am fundamentalsten blieb seine Kritik der USA. Innerhalb der Neuen Rechten mag das heute als Trivialität erscheinen. In den Siebziger Jahren waren jedoch viele Rechte davon überzeugt, dass im Vergleich mit der Sowjetunion die Vereinigten Staaten das geringere Übel seien. Unter dem Pseudonym Hans-​Jürgen Nigra veröffentlichte Locchi in den 1970er Jahren mit Alain de Benoist, Pseudonym Robert de Herte, dazu ein Buch. In Deutschland erschien es 1979 unter dem Titel Die USA. Europas mißratenes Kind.

Beide interessierte hier nicht die Weltpolitik der USA, sondern eine „amerikanische Metapolitik”, nämlich der „american way of life”. In ihm verdichte sich, so Locchi und de Benoist, die antiheroische Weltanschauung, der puritanische Moralismus, der hedonistische Individualismus, die Stillosigkeit und die im Biblischen wurzelnde Verachtung der Politik als geschichtsstiftendem Handeln.

Europa ist Morgenland

Locchi lenkt dabei die Aufmerksamkeit auf Europa und sein Schicksal. Nach ihm ist das Abendland nämlich nicht das Land des Abends, also des Untergangs. Er hoffte auf die Morgenröte eines wieder in die Geschichte tretenden Europas. Nach dem zyklischen Weltgefühl Locchis, basierend auf Wagner und Nietzsche, gehört die Zukunft den Völkern, welche die längere Erinnerung besitzen. In diesem Zusammenhang könnte die indogermanische Tradition den regenerierenden Ursprung darstellen. Für Locchi sollten die europäischen Völker insbesondere die geistig-​kulturelle Gesinnung der Indogermanen wiederholen, als sie die „Neolithische Revolution” umsetzten.

In dieser Zeit entwickelten sie Viehzucht, Ackerbau und Vorratshaltung, die reine Ausplünderung des in der Natur Vorgefundenen nahm ein Ende. Zugleich entschieden sich die indogermanischen Völker, wenn auch ohne prophetische Voraussicht, damit für ein geschichtlich eigenes Schicksal. Die Erweckung dieses uralten Bewusstsein bietet auch Antworten auf scheinbar entfernte, hoch– oder postmoderne Fragen.

Europa, das Land der Kinder

Die Möglichkeit einer europäischen Zukunft besteht also in einem Widerhall, der aus den zurückliegenden Jahrtausenden herkommt. In diesem Fall könnte Europa aber kein Vaterland im traditionellen Sinn sein. Als unser in der Geschichte sich wandelndes Erbe stellt es nicht das Land der Väter, sondern vielmehr, wie Locchi schreibt, das Land der Kinder dar.

Oh meine Brüder, nicht zurück soll euer Adel schauen, sondern hinaus! Vertriebene sollt ihr sein aus allen Vater– und Urväterländern! Eurer Kinder Land sollt ihr lieben: diese Liebe sei euer neuer Adel, — das unentdeckte, im fernsten Meere! Nach ihm heisse ich eure Segel suchen und suchen! An euren Kindern sollt ihr gut machen, dass ihr eurer Väter Kinder seid: alles Vergangene sollt ihr so erlösen! Diese neue Tafel stelle ich über euch”, kündigte dies Nietzsche in Also sprach Zarathustra an.

Europas Schicksal und Wiedergeburt

Vielleicht ist das Ende der Geschichte trotzdem möglich: Denn die geschichtliche Freiheit des Menschen setzt die Möglichkeit voraus, auf diese Freiheit auch verzichten zu können. Aber das bleibt weder eine Notwendigkeit noch ein vorausbestimmtes Los. Ein neuer Mythos, ganz im Sinne von Locchi, kann unserem Kontinent seine Geschichte zurückgeben. Dafür brauchen die Europäer vor allem zwei Dinge: Den Willen zur Wiedergeburt und zum Schicksal.

Anm. der Red.: Hier geht es zum ersten, hier zum zweiten Teil des Locchi-​Porträts von Ettore Ricci. Online sind zudem Texte von Locchi auf Italienisch verfügbar.

 

samedi, 01 février 2014

Notas sobre Carl Schmitt. La visión desde Rusia.

Notas sobre Carl Schmitt. La visión desde Rusia.

El modelo de ideocracia fue presentado antes por uno de los fundadores del eurasianismo, el geógrafo Piotr Savitski. Él consideraba que para el modelo es característica la visión general y la voluntad de las elites gobernantes para servir a una idea general reinante, que representa “el bien del conjunto de los pueblos que habitan en un determinado mundo especial de autarquía”. Por la forma, la ideocracia puede parecerse al Nomos de Schmitt, dado que apela a grandes espacios, sin embargo su contenido varía. Piotr Savitski propuso la ideocracia para Rusia-Eurasia, donde la religión dominante es ortodoxa con una herencia bizantina adaptada, en primer lugar el cuerpo teológico, que está lleno de textos complejos y paradójicos. En este sentido, me gustaría dar un ejemplo del discurso del Metropolita Hilarión de Kiev: “La palabra de la gracia”, registrada a mediados del siglo 11. Hilarión plantea el tema de la igualdad de las naciones, lo que se oponía fuertemente a las teorías medievales del pueblo escogido de Dios. En otras palabras, esta es la teoría del imperio universal, donde “todos los países, y las ciudades, y los pueblos tienen gran respeto y alaban cada uno a su maestro, quien les enseñó la fe ortodoxa”.

Son bien conocidas las opiniones católicas de Schmitt, y aunque en las cuestiones generales él no tocaba el patrimonio del Vaticano y las disposiciones legales pertinentes, no se puede negar el impacto global de la religión. Así como en el caso de Rusia, a pesar de la antigüedad del texto indicado y el conocimiento superficial de la ortodoxia de la actual mayoría, tampoco se puede negar la influencia de las estructuras del subconsciente colectivo, o de lo que suelen llamar la cultura estratégica en la agenda política.

Como breve resumen se puede señalar la diferencia principal. En la concepción de Nomos de  Schmitt está expresa la idea de la Tierra de la Ley, mientras que la ideocracia de la filosofía rusa apela a la Tierra de la Gracia.

Moscu, Noviembre 2013.

Fuente: Tribulaciones Metapolíticas

mercredi, 29 janvier 2014

Ernst Jünger, déchiffreur et mémorialiste

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Ernst Jünger, déchiffreur et mémorialiste
 
par Luc-Olivier d'Algange
 
Ex: http://anti-mythes.blogspot.com
 
L'œuvre d'Ernst Jünger s'étend sur une période exceptionnellement longue. Entre les premiers écrits tels qu’Orages d'Acier, ou Le Cœur aventureux, « version 1929 », jusqu'aux ultimes, ce sont plus de sept décennies d'écriture, de lectures, de voyages, de contemplations, de rêves qui s'offrent à notre regard panoramique. Par exception, la formule consacrée peut être utilisée à bon-escient: l'œuvre de Jünger « domine le siècle ». Elle le domine non seulement par sa hauteur, et les critiques ne manquèrent point de lui reprocher d'être hautaine, elle le domine aussi, et le plus simplement du monde par sa durée et par la profondeur que l'expérience du temps suscite dans l'entendement de l'auteur. Ernst Jünger fut, comme presque tous les grands écrivains du siècle, hanté par la question du temps.

L'expérience du temps retentit dans la profondeur du mythe. L'œuvre de Jünger poursuit, par ses propres voies, ce récitatif de l'expérience du temps. La réminiscence dans l’œuvre de Marcel Proust, la dilatation temporelle aux dimensions odysséennes d'une seule journée qu’opère James Joyce dans Ulysses, ou encore la récapitulation du monde à la fois joyeuse et apocalyptique des Cantos d’Ezra Pound ravivent dans la littérature moderne ce questionnement immémorial. Comme ceux-là, Jünger n'a cessé d'éprouver la nécessité d'aller au cœur de l'être et du temps et de trouver son propre lieu et sa propre formule pour déchiffrer le monde. Plus que d'autres, Jünger s'est tourné vers le monde pour en déchiffrer les énigmes intérieures.

Si Jünger fut dandy, comme certains persistent à l'en accuser, il faut bien reconnaître que son œuvre est la moins narcissique qui soit. Chaque page de Jünger nous apporte, comme les poèmes de Cendrars, des « nouvelles du monde ». Les paysages les plus grandioses et les aventures les plus extrêmes comme les détails les plus infimes et les circonstances en apparence les moins décisives sont portés à notre attention avec la même déférence, pour peu qu'ils soient les instruments d'une connaissance qualitative, sensible, propice aux aventures de la pensée.

Ruskin définit le véritable artiste à la fois comme « déchiffreur, chanteur et mémorialiste ». Si la part à proprement parler « lyrique » de l'œuvre de Jünger est plus sous-jacente qu'apparente (mais le lyrisme alors n'en touche que les cordes plus profondes, comme dans les dernières pages de Visite à Godenholm,) l'appellation de « déchiffreur » non moins que celle de « mémorialiste » donne immédiatement l'idée la plus juste du propos et du style de ses livres, qui paraissent, par ailleurs, échapper à tous les genres ainsi qu'à toutes les certitudes thématiques ou idéologiques.

Etre à fois déchiffreur et mémorialiste, c'est comprendre que l'œuvre saisit dans les nuances du devenir l'éclat de l'être. Le mémorialiste suit le cours du temps, la nuance du jour, la beauté et la tristesse passagère des instants livrés à l'oubli. Le mémorialiste, servant humble et déférent de Mnémosyme, recueille cette « matière première », au sens alchimique, dont le déchiffreur lui, se saisira avec cet esprit d'aventure qui caractérise les métaphysiciens et les hommes de cœur. Le mémorialiste investit le devenir de la puissance d'être de la mémoire, de la transmission, alors que le déchiffreur redonnera à la chose transmise, recueillie, sa chance de refleurir en d'autres contrées, plus subtiles et plus lumineuses. En d'autres termes, on pourrait dire que le mémorialiste construit un édifice de pensées, de réflexions, de savoirs qui permettront au déchiffreur de préfigurer le temple intérieur de la connaissance, que nous nommerons la « gnose poétique » et dont nous approchons par une connaissance de plus en plus précise, et précise jusqu'à l'éblouissement, de l'interdépendance universelle.

De livres en livres, Jünger poursuit cette œuvre de déchiffreur et de mémorialiste car loin de se soumettre à la lettre morte de ceux qui ne croient qu'au « travail du texte », sa pensée, toujours à la pointe de « l'esprit qui vivifie », cherche en toute chose, selon la formule de Nietzsche, « l'éternelle vivacité ». A celui qui voudra rendre justice à la pensée, toujours en mouvement, mais toujours exactement orientée, d'Ernst Jünger, l'occasion se présentera souvent de citer en une même phrase des auteurs, des théories, des méthodes que notre esprit compartimenteur, hérité d'une méconnaissance et d'une idolâtrie de la philosophie cartésienne, répugne à associer. Ainsi le Nouveau Testament et les « évangiles » subversifs du Solitaire d'Engadine, ou encore les références aux mondes bibliques ou païens, les méthodes scientifiques et les songeries hermétiques, la poésie et la guerre, l'aventure et l'immobilité contemplative.

Les historiographes de l'œuvre jüngérienne insistent, par exemple, sur les ruptures ou les revirements d'ordre idéologique ou politique. Certes, le nationalisme exacerbé et martial du jeune collaborateur d'Arminius cédera la place au Contemplateur solitaire, l'apologiste du Travailleur, accomplissant sa « Figure » par la technique, deviendra le critique avisé du monde moderne et l'inventeur de l'Anarque. Certes, l'intérêt pour les anciennes traditions païennes de l'Europe précède une méditation biblique. Mais aussitôt l'intelligence se dégage-t-elle de l'histoire proprement dite qu'elle voit dans ces diverses configurations se dessiner un paysage intérieur dont la cohérence et l'harmonie sont bien davantage la marque que le discord ou le chaos.

L'œuvre de Jünger, disions-nous, est l'une des moins narcissiques du vingtième siècle. Rarement tournée vers le « moi », elle est une invitation à découvrir le monde, « ce vaisseau cosmique » à bord duquel nous traversons le temps. L'aventure sociale ou psychologique tient une place infime dans cette œuvre qui est sans doute la première du vingtième siècle, au sens hiérarchique autant que chronologique, à s'être radicalement dégagée des méthodes et des théories du Naturalisme du dix-neuvième siècle, si abondamment relayé par la littérature des sciences humaines. Les groupes sociaux, la psychologie individuelle ou collective n'intéressent guère l'auteur des Falaises de Marbre ou d'Eumeswil. Bien davantage son attention est-elle requise par les rêves lorsque les rêves révèlent la nature héraldique et sacrée du monde.

Maintes fois mis en accusation, Jünger n'a jamais cherché aucune caution de « bonne moralité » politique, son œuvre se situant résolument, dans sa part la plus importante, du côté de l'intemporel. On risque fort de ne rien comprendre à son Journal si l'on ne voit pas que le temps, son temps, est toujours considéré du point de vue de l'intemporel. L'observation exacte prend place dans une vue-du-monde qui dénie au hasard et à la nécessité l'empire que la pensée moderne leur accorde.

« L'existence des choses, écrit Jünger, est donc préfigurée comme dans un sceau dont la figure imprimée dans la cire apparaît plus ou moins distinctement. » Il ne semble pas que, sur ce point, la pensée de Jünger ait varié. On songe irrésistiblement au début fameux des Disciples à Saïs de Novalis: « Les hommes marchent par des chemins divers. Qui les suit et les compare verra naître d'étranges figures; figures qui semblent appartenir à cette grande écriture chiffrée qu'on rencontre partout: sur les ailes, sur la coque des oeufs, dans les nuages, dans la neige, dans les cristaux, dans les formes des rocs, sur les eaux congelées, à l'intérieur et à l'extérieur des montagnes, des plantes, des animaux, des hommes, dans les clartés du ciel, sur les disques de verre et de poix lorsqu'on les frotte et lorsqu'on les attouche: dans les limailles qui entourent l'aimant, et dans les étranges conjonctures du hasard.. »

Les Figures, les Types, les Formes témoignent d'une pensée pour laquelle la création littéraire est un moyen de connaissance, une gnose. L'engagement héroïque des premiers temps n'est point contraire à l'engagement, plus radical encore, de l'Anarque et du Contemplateur, si l'on comprend, comme l'enseigne la Bhagavât-Gîta que la contemplation est une forme supérieure de l'action. La forme supérieure ne renie point la forme dépassée, elle la couronne, tout comme l'ontologie dont nous parle Heidegger couronne la métaphysique qu'elle dépasse. Bien plus que des ruptures, le lecteur qui entrevoit dans l'œuvre de Jünger un moyen de connaissance, sera enclin à voir des changements d'états, comme dans les « œuvres » des Alchimistes. Car si l'œuvre de Jünger est éloignée du Naturalisme de Zola, elle est, en revanche, fort proche des « philosophes de la nature » tels que Franz von Baader, qui eurent une influence non négligeable sur les Romantiques allemands d'Iéna.

Alchimistes et théosophes dans la lignée de Paracelse et de Jacob Böhme, les philosophes de la nature s'avancent dans la connaissance comme sur un chemin où se lèvent les intersignes, légers comme des cicindèles. A chaque signe, le voyageur est convié à un changement d'état de conscience qui renvoie à un changement d'état d'être. Les Figures du monde visible sont l'empreinte d'un sceau invisible et les circonstances de notre existence, en ce qu'elles ont de resplendissant, témoignent, elles aussi, de cette concordance entre les mondes qui justifie l'existence des symboles.

Dans un monde où les symboles accomplissent leur fonction pontificale, ni le hasard ni le déterminisme n'ont cours; le monde s'ordonne selon des principes qui, pour être hors d'atteinte de l'entendement humain, n'en sont pas moins à l'origine des plus pertinentes interprétations humaines. Alors que le déterministe explique l'homme et le monde comme des mécanismes, obéissant ainsi, plus ou moins à son insu, à une morale utilitaire, Jünger appartient à la tradition, largement menacée mais cependant persistante, du romantisme « roman » de Novalis qui s'adonne à l'interprétation infinie, au « buisson ardent » de l'herméneutique permanente. Dans la vue du monde esthétique et métaphysique de Jünger, le monde n'étant point soumis à l'utilité, sa valeur ne dépendant point de son usage, de même que selon une éthique chevaleresque, la fin ne justifie jamais les moyens, la finalité n'est jamais que dans le cœur secret des êtres et des choses, dans cette plus incandescente limpidité que nous laissent deviner les approches et les dialogues avec l'invisible.

La danse de la cicindèle est l'idéogramme clair de la pure présence de l'être à lui-même. Tel est le sacré, le numineux, pour reprendre le mot de Walter Otto, dont l'approche exige la plus grande délicatesse. La connaissance du monde, la gnose poétique, est avant tout une philocalie. Le sacré, le divin se révèlent dans la beauté car la beauté est l'approche du sens. Là où les choses prennent sens, la beauté transparaît. L'accusation d'esthétisme contre l'œuvre de Jünger traduit la courte vue de ceux qui la portent car la beauté est toujours, dans l'œuvre de Jünger, le signe d'une présence, d'une profondeur métaphysique, d'un autre monde, principe de profusion et de splendeur. Le monde des dieux, comme celui des fleurs et des papillons, est un monde dispendieux et imprévisible. L'homme de connaissance qui succède, dans la chronologie jüngérienne, à l'homme de puissance, s'avance dans l'assentiment à la beauté du monde comme « sceau héraldique » et dans le non moindre consentement à l'imprévisible. L'homme de connaissance est chasseur subtil. A l'affût sur l'orée, le chasseur subtil reçoit les signes qui, dans le visible, sont la marque de l'invisible, et ses rêves ont leur part, qui n'est rien moins que négligeable, dans la connaissance effective du monde.

La rupture inaugurale avec le monde bourgeois va d'emblée orienter l'œuvre de Jünger vers des régions extrêmes qui échappent à la fois à l'attention et au contrôle du monde moderne. L'exploration du monde intérieur n'est pas, chez Jünger, la complaisance narcissique de la subjectivité pour elle-même mais une traversée aussi exacte et impersonnelle qu'un voyage entomologique dans le monde extérieur. La psychologie jüngérienne ne relève pas de la « psyché » profane, larvaire, mais de la « psyché », en tant qu'âme, au sens néoplatonicien. Notre âme, dans la gnose jüngérienne, n'est pas disjointe de l'Ame du monde. L'Ame du monde et ses symboles augustes transparaissent dans l'âme humaine, sous la forme des songes, des visions, des pressentiments. Le poète est familier de l'augure qui surprend sa pensée dans l'exercice de la plus grande exactitude. La gnose jüngérienne s'exerce avec une virtuosité rare, aussi bien sur le mode de l'ampleur: les mythes, les légendes, les vastes herméneutiques de l'histoire humaine et des textes sacrés, que dans celui de l'intensité: la minuscule mais exaltante trouvaille du chasseur de papillons qui concentre dans l'infime toutes les énergies explosives de sa quête.

Dans le célèbre tableau de Caspar David Friedrich Les Falaises de Rügen, l'immensité du site, sa solennité, donnent au mode de l'ampleur l'une de ses représentations picturales les plus achevées, parce que devant la vastitude, le vide, l'espace qui s'encastrent avec violence dans le paysage, un personnage vu de dos paraît ignorer l'infini de l'ampleur qui s'offre à lui pour s'attacher à l'infini de l'intensité de sa recherche d'herboriste ou de chasseur d'insecte. L'ampleur du vaste prend sa mesure par l'intensité de l'infime. La science des lettres, la science naturaliste ou historique devient métaphysique aussitôt qu'elle parvient à unir en elle le mode d'intensité et le mode d'ampleur, la dimension horizontale et la dimension verticale, l'empreinte, dont les marques sont plus ou moins visibles, et le sceau.

La logique de la gnose est différente de la logique de la science profane, en ce qu'elle ignore la finalité effective, utile, quantifiable. La gnose est à elle-même sa propre finalité, et le monde dont elle traite est un monde de qualités. La gnose ne dénombre pas seulement le réel, elle s'avance dans le déchiffrement. Déchiffrer le monde, c'est traverser le temps dans le vaisseau cosmique, et c'est œuvrer à la révélation du sens à travers les apparitions successives du monde. Le déterminisme philosophique, autant que la théorie du hasard, détournent notre entendement de la beauté et du mystère, de telle sorte à faire de nous les dociles serviteurs du monde moderne, et de ses morales utilitaires et puritaines. La gnose poétique de Jünger est la reconquête de la puissance et de l'immortalité dont la société, placée sous le signe de l'uniformité, nous dépossède. La gnose suppose une « transvaluation de toutes les valeurs », pour reprendre la formule Nietzsche que l'on pourrait aussi caractériser comme une subversion de la subversion établie par le tiers-état, dans la mesure où la reconquête de la « vie magnifique », de la puissance est le propre de la Figure, telle que la conçoit Jünger.

Jünger distingue deux conceptions de l'individu, par les mots allemands, Einzelne et individuum. Le mot individuum désignant l'individu à la fois égocentrique et interchangeable des sociétés de masse, alors que le mot Einzelne se rapporte à l'individu en tant que singularité et originalité irréductible, en tant que Figure. A l'individu perdu dans la masse et, par cela même farouchement attaché à ce qu'il croit être ses « biens » correspond une science calculante (pour reprendre le mot de Heidegger), alors que pour l'individu en tant que Figure, la science est méditative, et, par cela, accroissement de puissance. Pour Jünger, la connaissance accroît la Figure dans sa distinction et son intensité. Les lignes deviennent plus précises et les couleurs plus rayonnantes. La gnose est poétique, au sens de l'étymologie grecque, du « faire » qui laisse l'empreinte la plus précise possible. Par la gnose jüngérienne, nous entrons dans une perspective hiérarchique, où la logique de cause et d'effet, et avec elle toutes les formes de progressisme, de déterminisme ou d'évolutionnisme sont dépassées: « L'ordre hiérarchique dans le domaine de la Figure ne résulte pas de la loi de cause à effet mais d'une loi tout à fait autre, celle du sceau et de l'empreinte ». Dans cette logique, nouvelle par rapport aux deux siècles précédents mais, nous y reviendrons, dans un sens plus profond, traditionnelle, ce qui importe n'est pas seulement ce qui nous précède et ce qui s'annonce mais, plus décisivement, ce qui nous surplombe, le sceau dont nous sommes l'empreinte.

Cette logique gnostique, et héraldique, pour célébratrice qu'elle soit de la splendeur du monde, pour approbatrice qu'elle soit de la puissance, et du rayonnement de la Figure, n'en témoigne pas moins d'une forme d'humilité essentielle. Le moderne, qui affiche partout sa modestie et son profil bas, tient pourtant farouchement à être le producteur de tout, et à cette fin, il renie Dieu et les dieux, les Muses et les messagers célestes, de sorte à n'être qu'à lui-même redevable de ses « travaux ». Cette étrange démesure, au sens exact outrecuidante, enferme l'individu en lui-même et laisse ses œuvres comme les objets aléatoires de son narcissisme navrant. Le nihilisme moderne n'est autre que la considération pathétique de cette impuissance vaniteuse à connaître le monde. Dans la perspective métaphysique propre à la théorie des signatures et des empreintes dont nous constatons la fécondité dans l'œuvre de Jünger, l'humilité consiste à reconnaître que nos idées et nos visions ne nous appartiennent pas en propre, qu'elles proviennent de l'intemporel, auquel nous donnent accès notre grandeur d'âme et notre acuité intellectuelle. La gnose poétique considère dans le singulier et dans le multiple les Figures d'éternité dont ils procèdent. Elle est dépassement du nihilisme car elle est recouvrance de la possibilité magnifique qui nous fut donnée in illo tempore, puis ôtée, d'atteindre poétiquement à la connaissance, non par projection ou reflet, mais par des actes de puissance et de beauté tels qu'ils adviennent dans Virgile, dans l'ivresse du songe de la « race d'or ». Dépasser le nihilisme, c'est aller, au pas qui ré-enchante les apparences, vers les contrées éclatantes où l'individu s'accorde à la Figure, où les pressentiments s'accomplissent, dans des œuvres qui seront la preuve de notre humilité.

Alors que le moderne se veut sans Dieu ni Maître, proclame la relativité du Vrai et du Beau non sans faire de sa médiocrité la mesure universelle, jugeant toute création superflue et toute connaissance impossible, la Figure trouve sa mesure par la création et sa connaissance par l'oubli de l'individualité, au sens quantitatif et profane. Aussitôt qu'il est question de connaissance et de poésie, il faut s'interroger sur la provenance et le destinataire de cette poésie et de cette connaissance. Tout ne s'adresse pas à n'importe qui. L'angle d'approche détermine la destination du message diplomatique, car toute métaphysique est diplomatie et les auteurs, au sens latin et étymologique, d'auctor qui se réfère à l'auctoritas, - la « vertu qui accroît », comme le rappelle Philippe Barthelet, - sont ambassadeurs entre les suavités immanentes des corolles et des parfums du jardin sous la pluie d'été au crépuscule et les contrées transcendantes où les dieux apparaissent.

Le grief le plus persistant que les modernes cultivent à l'égard de la gnose est d'être « élitiste », de ne s'adresser, selon la formule stendhalienne, qu'aux « rares heureux », de dédaigner les laborieuses et méritantes majorités. Grief inepte car il n'est rien de plus généreux, de plus disponible, de plus accueillant que le livre qui s'offre à chacun, sans jamais prétendre à contraindre le plus grand nombre. La gnose requiert des dispositions particulières, ou, disons, une orientation de l'Intellect, mais elle confère cette orientation autant qu'elle l'exige. Alors que la société, aussi « démocratique » qu'elle se veuille ne cesse de nous imposer des limites et des conditions auxquelles nous ne pouvons-nous soustraire, la gnose, et surtout la gnose dont l'humilité consiste à se traduire en œuvres, offre à qui le désire avec ardeur, l'aventure du Sans-Limite, c'est-à-dire la traversée odysséenne de la Figure à travers les ordres du monde jusqu'à sa perception la plus lumineuse, éclat d'éternité sur la surface des eaux.

La gnose, dans son exercice le plus accompli, est un privilège mais c'est un privilège offert à qui voudra bien s'en saisir, alors que nous vivons dans un monde constitué d'avantages qui sont la récompense de la cupidité et de la vilenie. Il n'est pas impossible, et nous y reviendrons, qu'il y eût aussi quelque rapport entre la gnose poétique et la philosophie politique. Les Figures du Travailleur, du Rebelle et de l'Anarque, qui se succèdent dans l'œuvre de Jünger, approfondissent, si l'on prend la peine de les considérer en perspective, une méditation sur le siècle mais aussi une méditation sur l'art de vivre, non plus de l'individu de l'ère bourgeoise mais de l'individu (Einzelne) qui cherche à conserver sa Figure au sein du monde de la technique qui, loin de s'affirmer comme l'expression de la puissance, au sens nietzschéen, comme on pouvait encore le croire au début du siècle, paraît au contraire avoir pour objectif le contrôle et l'annihilation de toute puissance libre.

Face à la technique d'une « mondialisation » dont chacun sait bien qu'elle n'est qu'une américanisation cybernétique, l'œuvre de Jünger, dans son exigence poétique et gnostique peut se lire comme un traité de résistance au nihilisme. Le Travailleur oeuvrait à vaincre le mal par le mal, selon le principe de Paracelse, et à porter contre le nihilisme les armes les mieux trempées du nihilisme lui-même. Il « travaillait » ainsi selon les périlleuses procédures de l'oeuvre-au-noir, à l'implosion d'une situation intenable, et à ouvrir la voie de la contemplation. Les sentes forestières qu'ouvrent les audaces du Rebelle et de l'Anarque seront, elles, l'initiation à d'autres couleurs. Au « noir et blanc » de l'intensité expressionniste des premières œuvres, si mal comprises, succédera le versicolore armorial des Songes et des Visions des Falaises de Marbre et de Visite à Godenholm. Le combat par le fer et le feu du guerrier cède la place aux guerres plus subtiles dont les conquêtes sont des états de conscience. L'intensité, et telle est bien la clef de voûte de la gnose poétique d'Ernst Jünger, s'accroît d'œuvre et œuvre comme une réalisation, au sens initiatique, d'une exactitude herméneutique qui perçoit, à l'apogée de la vitesse et du mouvement, le grand silence et la grande immobilité.
 
 
Luc-Olivier d’Algange
 
Extrait de Fin mars. Les hirondelles, éditions Arma Artis
 

vendredi, 17 janvier 2014

Fiodor Tioutchev

Fiodor Tioutchev

tutchev.jpgRecension: Fjodor Tjutschew, Russland und der Westen. Politische Aufsätze, Verlag Ernst Kuhn (PF 47, 0-1080 Berlin), Berlin, 1992, 112 S., DM 29,80, ISBN 3-928864-02-5.

Totalement oublié, bien qu’il fut l’inspirateur de Dostoïevski et de Tolstoï, qui ne tarissaient pas d’éloges à son égard, Fiodor Ivanovitch Tioutchev (1804-1873) a été, sa vie durant, une personnalité écartelée entre tradition et modernité, entre l’athéisme et la volonté de trouver ancrage et refuge en Dieu, entre l’Europe et la Russie. L’éditeur berlinois Ernst Kuhn propose une traduction allemande des trois principaux textes politiques de Tioutchev, rédigés au départ en français (la langue qu’il maîtrisait le mieux); ces trois textes sont: “La Russie et l’Allemagne” (1844), une réponse au pamphlet malveillant qu’avait publié le Marquis de Custine sur l’Empire de Nicolas I, “La Russie et la révolution” (1849), une lettre adressée au Tsar rendant compte des événements de Paris en 1848, “La question romaine et la Papauté” (1849) qui est un rapport sur la situation en Italie.

Dans ces trois écrits, Tioutchev oppose radicalement la Russie à l’Europe occidentale. La Russie est intacte dans sa foi orthodoxe; l’Europe est pourrie par l’individualisme, issue de l’infaillibilité pontificale, de la Réforme et de la Révolution française, trois manifestations idéologiques qui ont épuisé les sources créatrices de l’Ouest du continent. La Russie est le dernier barrage qui s’opposera à cette “maladie française” (allusion à la syphilis). Cette vision prophétique de l’histoire, apocalyptique, le rapproche d’un Donoso Cortès: au bout du chemin, la Russie, incarnation du principe chrétien (orthodoxe) affrontera l’Occident, incarnation du principe antichrétien. Cette bataille sera décisive. Plusieurs idées-forces ont conduit Tioutchev à esquisser cet Armageddon slavophile. Pour lui, le besoin de lier toujours le passé au présent est “ce qui a de plus humain en l’homme”. On ne peut donc regarder l’histoire avec l’oeil froid de l’empiriste; il faut la rendre effervescente et vivante en y injectant ses émotions, en lui donnant sans cesse une dimension mystique. Celle-ci est un “principe de vie” (“natchalo”), encore actif en Russie, alors qu’en Europe occidentale, où Tioutchev a passé vingt-deux ans de sa vie, règne la “besnatchalié” (l’absence de principe de vie). C’est ce principe de vie qui est Dieu pour notre auteur. C’est ce principe qui est ancre et stabilité, pour un homme comme lui, qui n’a guère la fibre religieuse et ne parvient pas à croire vraiment. Mais la foi est nécessaire car sans Dieu, le pouvoir, le politique, n’est plus possible.

Mais cette mobilisation du conservatisme, qu’il a prônée pendant le règne de Nicolas I, a échoué devant la coalition anglo-franco-turque lors de la Guerre de Crimée. Ces puissances voulaient empêcher la Russie de parfaire l’unité de tous les Slaves, notamment ceux des Balkans. L’avènement d’Alexandre II le déçoit: “Que peut le matérialisme banal du gouvernement contre le matérialisme révolutionnaire?”, interroge-t-il, inquiet des progrès du libéralisme en Russie.

Tioutchev n’a pas seulement émis des réflexions d’ordre métaphysique. Pendant toute sa carrière, il a tenté d’élaborer une politique russe à l’intérieur du concert européen, s’éloignant, dans cette optique, de l‘isolationnisme des slavophiles. Ceux-ci exaltaient le paysannat russe et critiquaient la politique de Pierre le Grand. Tioutchev, lui, exaltait cette figure car elle avait établi la Russie comme grande puissance dans le Concert européen. Il optait pour une alliance avec la Prusse, contre la France et l’Autriche. Il voulait mater le nationalisme polonais et favoriser l’unité italienne. En ce sens, il était “moderne”, à cheval entre deux tendances.

Un auteur à méditer, à l’heure où la Russie, une nouvelle fois, est écartelée entre deux volontés: repli sur elle-même ou occidentalisation.

Robert Steuckers.

(recension parue dans “Vouloir”, n°105/108, juillet-septembre 1993).

mardi, 07 janvier 2014

Elementos 61 y 62: Spengler y Condicion femenina

ELEMENTOS Nº 62
REVISAR A SPENGLER: EL FUTURO YA ESTÁ AQUÍ
 
 
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Sumario.-


Oswald Spengler,
por Alain de Benoist

Oswald Spengler, el hombre que veía más lejos,
por Rodrigo Agulló

Oswald Spengler y la decadencia de la Civilización Faústica,
por Carlos Javier Blanco Martín

Revisar a Spengler. ¿De la filosofía de la vida a la filosofía de la crisis?,
por Javier Esparza

Irracionalismo y culto a la tradición en el pensamiento de Spengler,
por Javier R. Abella Romero

Oswald Spengler: la muerte del “Hombre” a comienzos del siglo XX,
por Javier B. Seoane C.

El Socialismo de Oswald Spengler,
por Carlos Javier Blanco Martín

La Decadencia de Occidente y la novela utópica contemporánea,
por Paulino Arguijo

Prusianismo y Socialismo en Spengler,
or Javier R. Abella Romero

Decadencia y muerte del Espíritu Europeo. Volviendo la mirada hacia Oswald Spengler,
por Carlos Javier Blanco Martín

Guerra permanente, anti-pacifismo y elitismo en el pensamiento de Spengler,
por Javier R. Abella Romero

Nihilismo, crisis y decadencia: Ortega frente a Spengler,
por Juan Herrero Senés

Años Decisivos: el distanciamiento definitivo del nacionalsocialismo,
por Javier R. Abella Romero

La influencia de Spengler,
por Antonio Martín Puerta
 

ELEMENTOS Nº 61.

LA CONDICIÓN FEMENINA. ¿FEMINISMO O FEMINIDAD?


 
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Sumario

Visión ontológico-teológica de lo masculino y lo femenino,
por Leonardo Boff

El ser oculto de la cultura femenina en la obra de Georg Simmel,
por Josetxo Beriain

El feminismo de la diferencia,
por Marta Colorado López, Liliana Arango Palacio, Sofía Fernández Fuente

La condición femenina,
por Alain de Benoist

La mujer objeto de la dominación masculina,
por Pierre Bourdieu

Feminidad versus Feminismo,
por Cesáreo Marítimo

Afirmando las diferencias. El feminismo de Nietzsche,
por Elvira Burgos Díaz

La mujer como madre y la mujer como amante,
por Julius Evola

El “recelo feminista” a proposito del ensayo La dominacion masculina de Pierre Bourdieu, por Yuliuva Hernández García

Friedrich Nietzsche y Sigmund Freud: una subversión feminista,
por Eva Parrondo Coppel

Hombres y mujeres. Un análisis desde la teoría de la polaridad,
por Raúl Martínez Ibars

Identidad femenina y humanización del mundo,
por Rodrigo Guerra

Simmel y la cultura femenina,
por Raquel Osborne

La nueva feminidad,
Entrevista a Annalinde Nightwind

El hombre no es un enemigo a batir,
Entrevista con Elisabeth Badinter
 

vendredi, 03 janvier 2014

Martin Heidegger, Ernst Jünger, sur la ligne

Martin Heidegger, Ernst Jünger, sur la ligne

par Luc-Olivier d'Algange

ex: http://aucoeurdunationalisme.blogspot.com

Rien ne sera admis, reconnu, dépassé, redimé, des temps d'abominable servitude que nous vivons tant que nous n'aurons pas médité sur la ligne qui sépare le monde ancien du monde nouveau. Sur la ligne, c'est-à-dire, selon la réponse de Heidegger à Jünger, non seulement par-delà la ligne, au-dessus de la ligne, mais aussi, plus immédiatement à propos de la ligne. Faire de la ligne même le site de notre pensée et de son déploiement, c'est déjà s'assurer de ne point céder à quelque illusoire franchissement. Il s'en faut de beaucoup que l'au-delà soit déjà ici-même. L'ici-même où nous nous retrouvons, en ce partage des millénaires, a ceci de particulier qu'il n'est plus même un espace, une temporalité mais une pure démarcation. Là où nous sommes, l'être s'est évanouit et jamais peut-être dans toute l'histoire humaine nous ne fûmes aussi dépossédés des prérogatives normales de l'être et ne fûmes aussi radicalement requis par la toute-possibilité.

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Cette situation est à la fois extrêmement périlleuse et chanceuse. Le pari qui nous incombe n'est plus seulement de l'ordre de la Foi, - selon l'interprétation habituellement quelque peu limitative que l'on donne du pari pascalien, mais d'ordre onto-théologique. Certes, il existe un monde ancien et un monde nouveau. « Le domaine du nihilisme accompli, écrit Heidegger, trace la frontière entre deux âges du monde ». Le monde ancien fut un monde où la puissance n'étant point encore entièrement dévouée à la destruction et au contrôle, s'épanouissait en œuvres de beauté et de vérité. Le monde nouveau est un monde où la « splendeur du vrai », étant jugée inane, la morale, strictement utilitaire, soumise à une rationalisation outrancière, c'est-à-dire devenue folle, s'accomplit en œuvres de destruction.

La radicalité même de la différence entre ces deux âges du monde nous interdit généralement d'en percevoir la nature. Le plus grand nombre de nos contemporains, lorsqu'ils ne cultivent plus le mythe d'une modernité libératrice, en viennent à croire que le cours du temps n'a pas affecté considérablement les données fondamentales de l'existence humaine. Ils se trouvent si bien imprégnés par la vulgarité et les préjugés de leur temps qu'ils n'en perçoivent plus le caractère odieux ou dérisoire ou s'imaginent que ce caractère fut également répandu dans le cours des siècles. La simple raison s'avère ici insuffisante. Une autre expérience est requise qui appartient en propre au domaine de la beauté et de la poésie. L'accusation d'esthétisme régulièrement proférée à l'encontre de l'œuvre de Jünger provient de cette approche plus subtile des phénomènes propres au nihilisme. Certes, un esthétisme qui n'aurait aucun souci du vrai et du bien serait lui-même une forme de nihilisme accompli. Mais ce qui est à l'œuvre dans le cheminement de Jünger est d'une autre nature. Loin de substituer la considération du Beau à toute autre, il l'ajoute, comme un instrument de détection plus subtil aux considérations issues de l'approche rationnelle. La vertu de l'approche esthétique jüngérienne se révèle ainsi dans la confrontation avec le nihilisme. Pour distinguer les caractères propres aux deux âges du monde dont il est question, encore faut-il rendre son entendement sensible aussi bien à la beauté familière qu'à l'étrangeté.

Sur la ligne, les soufis diraient « sur le fil du rasoir », le moindre risque est bien d'être coupé en deux, ou d'être comme Janus, une créature à deux faces, contemplant à la fois le monde révolu et le monde futur. Que l'on veuille alors aveugler l'une ou l'autre face, en tenir pour la nostalgie pure du passé ou pour la croyance éperdue en l'avenir meilleur, cela ne change rien à l'emprise sur nous du nihilisme. Penser le nihilisme trans lineam exige ce préalable: penser le nihilisme de linea. Le réactionnaire et le progressiste succombent à la même erreur: ils sont également tranchés en deux. La fuite en avant comme la fuite en arrière interdit de penser la ligne elle-même. Toute l'attention du penseur-poète, c'est-à-dire du Cœur aventureux consistera à se tenir sur le méridien zéro afin d'interroger l'essence même du nihilisme, au lieu de se précipiter dans quelque échappatoire. En l'occurrence, Jünger, comme Heidegger nous dit que toute échappatoire, aussi pompeuse qu'elle soit (et comment ne pas voir que notre XXème siècle fut saturé jusqu'à l'écœurement par la pomposité progressiste et réactionnaire ?) n'est jamais qu'une impardonnable futilité.


Sur la ligne, nous dit Jünger, « c'est le tout qui est en jeu ». Sur la ligne, nous le sommes au moment où le nihilisme passif et le nihilisme actif ont laissé place au nihilisme accompli. Le site du nihilisme accompli est celui à partir duquel nous pouvons interroger l'essence du nihilisme. Après la destruction des formes, les temps ne sont plus à séparer le bon grain de l'ivraie. Le nihilisme, écrit Nietzsche est « l'hôte le plus étrange », et Heidegger précise, « « le plus étrange parce que ce qu'il veut, en tant que volonté inconditionnée de vouloir, c'est l'étrangeté, l'apatridité comme telle. C'est pourquoi il est vain de vouloir le mettre à la porte, puisqu'il est déjà partout depuis longtemps, invisible et hantant la maison. »


L'illusion du réactionnaire est de croire pouvoir « assainir », alors que l'illusion du progressiste est de croire pouvoir fonder cette étrangeté en une nouvelle et heureuse familiarité planétaire. Or, précise Heidegger: « L'essence du nihilisme n'est ni ce qu'on pourrait assainir, ni ce qu'on pourrait ne pas assainir. Elle est l'in-sane, mais en tant que telle elle est une indication vers l'in-demne. La pensée doit-elle se rapprocher du domaine de l'essence du nihilisme, alors elle se risque nécessairement en précurseur, et donc elle change. »


La destruction, qui est le signe du nihilisme moderne, serait donc à la fois l'instauration généralisée de l'insane et une indication vers l'indemne. Si le poète et le penseur doivent parier sur l'esprit qui vivifie contre la lettre morte, il n'est pas exclu que par l'accomplissement du nihilisme, c'est-à- dire la destruction de la lettre morte, une chance ne nous soit pas offerte de ressaisir dans son resplendissement essentiel l'esprit qui vivifie. Le précurseur sera ainsi celui qui ose et qui change et dont la pensée, à ceux qui se tiennent encore dans le nihilisme passif ou le nihilisme actif, paraîtra réactionnaire ou subversive alors qu'elle est déjà au-delà, ou plus exactement au-dessus.


Comment ne point aveugler l'un des visages de Janus, comment tenir en soi, en une même exigence et une même attention, la crainte, l'espérance, la déréliction et la sérénité ? Il n'est pas vain de recourir à la raison, sous condition que l'on en vienne à s'interroger ensuite sur la raison même de la raison. Que nous dit cette raison agissante et audacieuse ? Elle nous révèle pour commencer qu'il ne suffit pas de reconnaître dans tel ou tel aspect du monde moderne l'essence du nihilisme. La définition et la description du nihilisme, pour satisfaisantes qu’elles paraissent au premier regard, nous entraînent pourtant dans le cercle vicieux du nihilisme lui-même, avec son cortège de remèdes pires que les maux et de solutions fallacieuses. Vouloir localiser le nihilisme serait ainsi lui succomber à notre insu. Cependant l'intelligence humaine répugne à renoncer à définir, à discriminer: elle garde en elle cette arme mais dépourvue de Maître d'arme et d'une légitimité conséquente, elle en use à mauvais escient. Telle est exactement la raison moderne, détachée de sa pertinence onto-théologique. Etre sur la ligne, penser l'essence du nihilisme accompli, c'est ainsi reconnaître le moment de la défaillance de la raison. Cette reconnaissance, pour autant qu'elle pense l'essence du nihilisme accompli ne sera pas davantage une concession l'irrationalité. « Le renoncement à toute définition qui s'exprime ici, écrit Heidegger, semble faire bon marché de la rigueur de la pensée. Mais il pourrait se faire aussi que seule cette renonciation mette la pensée sur le chemin d'une certaine astreinte, qui lui permette d'éprouver de quelle nature est la rigueur requise d'elle par la chose même ».


felix-h-man-bildarchiv-preussischer-kulturbesitz.1263977561.thumbnail.jpgLe Cœur aventureux jüngérien est appelé à se faire précurseur et à suivre « le chemin d'une certaine astreinte ». La raison n'est pas congédiée mais interrogée; elle n'est point récusée, en faveur de son en-deçà mais requise à une astreinte nouvelle qui rend caduque les définitions, les descriptions, les discriminations dont elle se contentait jusqu'alors. « Que l'hégémonie de la raison s'établisse comme la rationalisation de tous les ordres, comme la normalisation, comme le nivellement, et cela dans le sillage du nihilisme européen, c'est là quelque chose qui donne autant à penser que la tentative de fuite vers l'irrationnel qui lui correspond. » A celui qui se tient sur la ligne, en précurseur et soumis à une astreinte nouvelle, il est donné de voir le rationnel et l'irrationnel comme deux formes concomitantes de superstition.


Qu'est-ce qu'une superstition? Rien d'autre qu'un signe qui survit à la disparition du sens. La superstition rationaliste emprisonne la raison dans l'ignorance de sa provenance et de sa destination, et dans sa propre folie planificatrice, de même que la superstition religieuse emprisonne la Théologie dans l'ignorance de la vertu d'intercession de ses propres symboles. L'insane au comble de sa puissance généralise cette idolâtrie de la lettre morte, de la fonction détachée de l'essence qui la manifeste. Aux temps du nihilisme accompli le dire ayant perdu toute vertu d'intercession se réduit à son seul pouvoir de fascination, comme en témoignent les mots d'ordre des idéologies et les slogans de la publicité. Dans sa nouvelle astreinte, le précurseur ne doit pas être davantage enclin à céder à la superstition de l'irrationnel qu'à la superstition de la raison. En effet, souligne Heidegger, « le plus inquiétant c'est encore le processus selon lequel le rationalisme et l'irrationalisme s'empêtrent identiquement dans une convertibilité réciproque, dont non seulement ils ne trouvent pas l'issue, mais dont ils ne veulent plus l'issue. C'est pourquoi l'on dénie à la pensée toute possibilité de parvenir à une vocation qui se tiennent en dehors du ou bien ou bien du rationnel et de l'irrationnel. »


La nouvelle astreinte du précurseur consistera précisément à rassembler en soi les signes et les intersignes infimes qui échappent à la fois au rationalisme planificateur et à l'irrationalisme. La difficulté féconde surgit au moment où l'exigence la plus haute de la pensée, sa requête la plus radicale devient un refus de l'alternative en même temps qu'un refus du compromis. Ne point choisir entre le rationnel et l'irrationnel, et encore moins mélanger ce qu'il y aurait « de mieux » dans l'un et dans l'autre, telle est l'astreinte nouvelle de celui qui consent héroïquement à se tenir sur le méridien zéro du nihilisme accompli. Conscient de l'installation planétaire de l'insane, son attention vers l'indemne doit le porter non vers une logique thérapeutique, qui traiterait les symptômes ou les causes, mais au cœur même de cette attention et de cette attente pour lesquels nous n'avons pas trouvé jusqu'à présent d'autre mots que ceux de méditation et de prière, quand bien même il faudrait désormais charger ces mots d'une signification nouvelle et inattendue.


L'entretien sur la ligne d’Ernst Jünger et de Martin Heidegger ouvre ainsi à la raison qui s'interroge sur ses propres ressources des perspectives qui n'ont rien de passéistes et dont on est même en droit de penser désormais qu'elles seules n'apparaissent pas comme touchées dans leur être même par le passéisme, étant entendu que le passéisme progressiste est peut-être, par son refus de retour critique sur lui-même, et par la méconnaissance de sa propre généalogie, plus réactionnaire encore dans son essence que le passéisme nostalgique ou néoromantique.


L'attention du précurseur, sa théorie, au sens retrouvé de contemplation, sera d'abord un art de ne pas refuser de voir. Quant à l'astreinte nouvelle, elle éveillera la possibilité d'une autre hiérarchie des importances où le vol de l'infime cicindèle n'aura pas moins de sens que les désastres colossaux du monde moderne. " De même, écrit Jünger, les dangers et la sécurité changent de sens". Comment ne pas voir que les modernes doivent précisément à leur goût de la sécurité les pires dangers auxquels ils se trouvent exposés ? Et qu'à l'inverse l'audace, voire la témérité de quelques uns furent toujours les prémisses d'un établissement dans ces grandes et sereines sécurités que sont les civilisations dignes de ce nom ?


L'homme moderne, ne croyant qu'à son individualité et à son corps, désirant d'abord la sécurité de son corps, ne désirant, en vérité, rien d'autre, est l'inventeur du monde où la vie humaine est si dévaluée qu'il n'y a presque plus aucune différence entre les vivants et les morts. C'est bien pourquoi le massacre de millions d'êtres humains dans son siècle "rationnel, démocratique et progressiste" le choque moins que la violence d'un combat antique ou d'une échauffourée médiévale, pour autant que sa sécurité, son individualité ou, dans une plus faible mesure, celles des siens, ont été épargnées. Le nihilisme de sa propre sécurité s'établit dans le refus de voir le nihilisme du péril auquel il n'a cessé de consentir que d'autre que lui fussent livrés, et se livrant ainsi lui-même à leur vindicte. Les Empereurs chinois savaient ce que nous avons oublié, eux qui considéraient leurs armes défensives comme les pires dangers pour eux-mêmes. Les Cœurs aventureux, ou selon la terminologie heideggérienne, les précurseurs, trouveront la plus grande sécurité dans leur consentement même à se reconnaître dans le site du plus grand danger. De même qu'au cœur de l'insane est l'incitation vers l'indemne, au cœur du danger se trouve le site de la plus grande sécurité possible. Comment sortir indemne de l'insane péril (qui prétend par surcroît avoir inventé la sécurité comme Monsieur Jourdain la prose !) où nous a précipité le nihilisme ? Quelle est la ligne de risque ?


Certes, le méridien zéro n'est nullement ce « compteur remis à zéro » dont rêve la sentimentalité révolutionnaire. Ce méridien, s'il faut préciser, n'est point une métaphore de la table rase, ou le site d'un oubli redimant. Le méridien zéro est exactement le lieu où rien ne peut être oublié, où toute sollicitation extérieure répond d'une réminiscence, comme le son répond à la corde que l'on touche, où l'empreinte ne prétend point à sa précellence sur le sceau. Ce qui advient, pas davantage que ce qui fut, ne peut prétendre à un autre titre que celui d'empreinte, le sceau étant l'hors-d'atteinte lui-même: l'indemne qui gît au secret du cœur du plus grand danger. La ligne de risque de la vie et de l'œuvre jüngériennes répond de cette certitude acquise sur la ligne.


Toute interrogation fondamentale concernant la liberté est liée à la Forme. Si le supra-formel, en langage métaphysique, bien l'absolu de la liberté, le propre de ceux que l'hindouisme nomme les libérés vivants, l'informe, quant à lui, est le comble de la soumission. La question de la Forme se tient sur cette ligne critique, sur ce méridien zéro qui ouvre à la fois sur le comble de l'esclavage et sur la souveraineté la plus libre qui se puisse imaginer. Dès Le Travailleur, et ensuite à travers toute son œuvre, Jünger poursuivit, comme nous l'avons vu, une méditation sur la Forme. Or, cette méditation, platonicienne à maints égards, est aussi inaugurale si l'on ose la situer non plus dans l'histoire de la philosophie, comme un moment révolu de celle-ci mais sur la ligne, comme une promesse de franchissement de la ligne. Ce qu'il importe désormais de savoir, c'est en quoi la Forme contient en elle à la fois la possibilité du déclin dans le nihilisme (dont l'étape d'accomplissement serait la confusion de toutes les formes: l'uniformité) et la possibilité d'une recréation de la Forme, voire d'un dépassement de la Forme dans une souveraineté jusqu'ici encore impressentie. Par les figures successivement interrogées du Travailleur, du Rebelle et de l'Anarque, Jünger s'achemine vers cette souveraineté. Pour qu'il y eût une Forme, au sens grec d'Idéa, et non seulement au sens moderne de « représentation », il importe que la réalité du sceau ne soit pas oubliée.


Une lecture extrêmement sommaire des œuvres de Jünger et de Heidegger donnerait à penser que lorsque Heidegger tenterait un dépassement, voire un renversement ou une « déconstruction » du platonisme, Jünger, lui s'en tiendrait à une philosophie strictement néo-platonicienne. Le dépassement heideggérien de la métaphysique, qui tant séduisit ses disciples français « déconstructivistes » (et surtout acharnés, sous l'influence de Marx, à détacher toute philosophie de ses origines théologiques) laissa, et laisse encore, d'immenses carrières à l'erreur. Les modernes qui instrumentalisent l'œuvre de Heidegger en vue d'un renversement du platonisme et de la métaphysique méconnaissent que, pour Heidegger, dépassement de la métaphysique signifie non point destruction de la métaphysique mais bien couronnement de la métaphysique. Il s'agit moins, en l'occurrence, de se libérer de la métaphysique que de libérer la métaphysique.


Il n'est pas question de déconstruire la métaphysique, pour en faire table rase, mais d'en établir la souveraineté en la dépassant par le haut, c'est à dire par la question de l'être. Pour un grand nombre d'exégètes français la différence essentielle entre une antimétaphysique et une métaphysique couronnée demeure obscure. Heidegger ne reproche point à la métaphysique de s'interroger sur l'essence, il lui impose au contraire, comme une astreinte nouvelle, de s'interroger plus essentiellement encore sur l'essence de son propre déploiement dans le Logos. A la métaphysique déclinante des théologies exotériques, des sciences humaines, de la didactique, de la Technique et du matérialisme, Heidegger oppose une interrogation essentielle sur le déclin lui-même.


En établissant clairement son dépassement de la métaphysique comme un couronnement de la métaphysique, Heidegger suggère qu'il y a bien deux façons de dépasser, l'une par le bas (qui serait le matérialisme) l'autre par le haut, et qui est de l'ordre du couronnement. Loin de vouloir « en finir », au sens vulgaire, avec la métaphysique, Heidegger entend en rétablir sa royauté. Par l'interrogation incessante sur les fins et sur la finalité de la métaphysique, Heidegger œuvre à la recouvrance de la métaphysique et non à sa solidification. Qu'est-ce qu'une métaphysique couronnée ? De quelle nature est ce dépassement par le haut ? Que le déclin de la métaphysique eût conduit celle-ci de la didactique à la superstition de la technique, du nihilisme passif jusqu'au nihilisme accompli, en témoignent les théories modernes du langage et l'humanisme qui ne voit en l'homme qu'un animal « amélioré » par le langage. Ce que Heidegger reproche à ces théories du langage et de l'homme est d'ignorer la question de l'essence de l'homme et de l'essence du langage, et d'être en somme, des métaphysiques oublieuses de leurs propres ressources.


Le dialogue entre Jünger et Heidegger, que le bon lecteur ne doit pas circonscrire à l'échange hommagial et épistolaire sur le passage de la ligne mais étendre aussi aux autres œuvres, prend tout son sens à partir des méditations jüngériennes sur le langage et l'herméneutique. En effet, loin de rompre avec la source théologique, Heidegger en fut le revivificateur éminent par l'art herméneutique qu'il ne cessa d'exercer au contact des œuvres anciennes, les présocratiques, Aristote, ou modernes, Hölderlin, Trakl, ou Stephan George. De même Jünger, en amont des gloses, des analyses et des explications poursuivit le dessein de retrouver, dans les signes et les intersignes, la trace des dieux enfuis. Entre les noms des dieux et leurs puissances, entre l'empreinte et le sceau, entre le langage et la langue, entre ce que doit être dit et ce qui est dit, l'Auteur s'établit avec une inquiétude créatrice. Ce serait se méprendre grandement sur la méditation sur la Forme qui est à l'œuvre dans les essais de Jünger que de n'y voir qu'une reproduction d'un néoplatonisme acquis et défini une fois pour toute, et réduit, pour ainsi dire à des schémas purement scolaires ou didactiques. Se tenir sur la ligne, c'est déjà refuser d'être dans la pure représentation. Entre la présence et son miroitement se joue toute véritable et féconde inquiétude spéculative.


Luc-Olivier d’Algange

dimanche, 08 décembre 2013

Thomas Manns Protest gegen den Zivilisationsliteraten

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Thomas Manns Protest gegen den Zivilisationsliteraten

Als Thomas Mann seine „Betrachtungen eines Unpolitischen“ schrieb, war er noch streng deutschnational und kriegsbejahend gesinnt. Das sollte sich bald ändern: Schon kurze Zeit später distanzierte sich Mann von seinem schriftstellerischen Beitrag zum Ersten Weltkrieg und avancierte zum Vernunftrepublikaner, der die Weimarer Republik publizistisch gegen ihre Feinde von rechts und links verteidigte. Manns frühe Betrachtungen sind allerdings nicht einfach als dumpfe Kriegspropaganda abzustempeln, sondern stellen große Literatur dar, die darüber hinaus immer noch wichtige Einsichten politischer und kultureller Art zu vermitteln in der Lage ist. Mit Blick auf seinen Bruder Heinrich –damals pazifistisch eingestellt und ein eifernder Gegner des heraufziehenden Krieges – entwarf Mann die Figur des Zivilisationsliteraten, der gegen sein eigenes Land als intellektueller Agent der Westmächte publizistisch zu agitieren begann. Natürlich ist diese Figur stereotypisch überzeichnet; wir dürfen aber davon ausgehen, dass dieser Typus damals zuhauf Repräsentanten fand – und bis heute findet. Thomas Mann verketzert das Zivilisationsliteratentum jedoch nicht als „Verräterei“ und schiebt sie auf die Feindseite ab, sondern fragt nach den tieferen Ursachen dieses Phänomens.

Dabei stellt er fest, dass die innere geistige Einheitlichkeit und Geschlossenheit, wie sie bei allen europäischen Nationen gerade in Kriegszeiten besonders entwickelt ist, für Deutschland nicht so einfach in Anschlag zu bringen ist: Deutschland sei keine Nation in diesem Sinne, denn es habe eine andere Bildungsgeschichte und einen anderen Menschlichkeitsbegriff. Die geistigen Gegensätze seien so stark ausgeprägt, dass sie ein nationales Band nur schwerlich umfassen und vereinigen könne. Das liege vor allem daran, dass diese Gegensätze weniger nationaler als europäischer Art sind, die ihre Spannungen auf deutschem Boden und in deutscher Seele entladen: „In Deutschlands Seele werden die geistigen Gegensätze Europas ausgetragen, — im mütterlichen und im kämpferischen Sinne ›ausgetragen‹. Dies ist seine eigentliche nationale Bestimmung. Nicht physisch mehr — dies weiß es neuerdings zu verhindern —, aber geistig ist Deutschland immer noch das Schlachtfeld Europas.“ Infolge von Deutschlands Mittellage in Europa gerät es nicht nur in eine geopolitische Bedrohungssituation, sondern wird zum seelischen Kampfplatz für europäische Gegensätze. Das bedeutet nicht nur, als eine permanente Arena eines Kulturkampfes zu dienen, sondern auch eine geistig-kulturelle Gemengelage, die künstlerischer Schaffenskraft eine produktive Anarchie von singulärer Qualität ermöglicht. Der Preis dafür fällt hoch aus: es ist die Zersplitterung der deutschen Seele, die wie der ehemalige Flickenteppich deutscher Lande zerrissen und unversöhnlich fragmentiert daliegt. Es entsteht eine Geistesspaltung, die nicht nur die Seele der Nation durchfährt, sondern auch die Seele jedes einzelnen Deutschen, sein Kopf und sein Herz. Deutschtum – das ist nach Mann also keineswegs ein festgefügtes Wesen, eine fertige Festung, die lediglich nach außen verteidigt werden müsste, nein: Deutschtum ist durch und durch problematisch, es ist selbst ein Problem, eine unbeantwortete Frage. Welche Gefahr bestünde nun für Deutschland, falls es den Weltkrieg verlöre und dem Westen einverleibt würde? Wäre das nicht ein nachhaltiger Beitrag für den Frieden in Europa? Nicht zufällig berufen sich die gegenwärtigen EU-Propagandisten, wenn sie ihre Vision in Frage gestellt sehen oder weitere Forderungen und Maßnahmen durchsetzen wollen, auf diese ideologische Legitimationsformel. „Westintegration“, „westliche Wertgemeinschaft“, „der Frieden in Europa“ – ob mit Krieg oder ohne, es sind bis heute die unhinterfragbaren Grundaxiome, die das Fundament bundesrepublikanischen Selbstverständnisses abgeben sollen. Die deutsche Eigenart kommt hingegen überhaupt nicht mehr vor, nicht mal mehr an zweiter Stelle. Was sagt nun Thomas Mann zu Deutschlands nationaler Neutralisation? „Wessen Bestreben es wäre, aus Deutschland einfach eine bürgerliche Demokratie im römisch-westlichen Sinn und Geiste zu machen, der würde ihm sein Bestes und Schwerstes, seine Problematik nehmen wollen, in der seine Nationalität ganz eigentlich besteht; der würde es langweilig, klar, dumm und undeutsch machen wollen und also ein Anti-Nationalist sein, der darauf bestünde, daß Deutschland eine Nation in fremdem Sinne und Geiste würde . . .“ Bei „bürgerlicher Demokratie im römisch-westlichen Sinne“ dürfen wir nicht primär an eine Staatsform denken, sondern es ist eine ganz andere politische Kultur gemeint, die heute nicht wesentlich anders aussieht als damals; man könnte sie „Weltbürgertum“ oder „Weltzivilisation“ nennen, eine imperialistische Bestrebung, die darauf abzielt, das globale Dorf zu begründen, das multikulturelle Traumparadies oder den ewigen herrschaftsfreien Diskurs im Maßstab der Weltkommunikation. Totale Menschheit, totale Toleranz, totaler Fortschritt. Wenn Deutschland darin aufgehen würde, würde es aufhören, Problem zu sein bzw. überhaupt zu sein. Um zu verstehen, warum Mann diese Option, die heute wahrscheinlicher als je erscheint, so perhorresziert, müssen wir die Rolle klarer herausstellen, die unser Land laut ihm in seiner Geschichte gegen den Westen einnahm. Helmut Plessner sprach abfällig von der „verspäteten Nation“ und bescheinigte Deutschland einen zivilisatorischen Rückstand gegenüber Frankreich und England. Mann perspektiviert denselben Sachverhalt andersherum und dreht ihn ins Positive: Deutschland sei immer das protestierende Reich gegen den „römischen Westen“ gewesen. Es machte bei dessen universalistischen Heilsphantasien nicht mit und scherte ostentativ aus. Es erwies sich dadurch als das protestantische Land im wahrsten Sinne des Wortes.

Was tut der Zivilisationsliterat? Nun, er protestiert gegen den Protest und „fordert den innigen Anschluß Deutschlands an das Zivilisationsimperium“. Er bekennt sich nicht nur dazu, er kämpft tatsächlich auf der Gegenseite. Er ist inneres Ausland. Und trotzdem: Mann hütet sich, ihn als Vaterlandsverräter oder „undeutsch“ zu denunzieren:  „Der Begriff ›deutsch‹ ist ein Abgrund, bodenlos, und mit seiner Negation, der Entscheidung ›undeutsch‹, muß man äußerst vorsichtig umgehen, um nicht zu Fall und Schaden dabei zu kommen.“ Da der Begriff „deutsch“ ohnehin abgründig ist und eigentlich bereits eine Negation darstellt, ist die Negation dieser Negation eine schwierige Angelegenheit. Anders gesagt: Wenn Deutschtum wesentlich Negativität bedeutet, schließt es auch seine eigenen Negationen in sein positives Wesen mit ein, so dass den Zivilisationsliteraten auch ein gewisser Patriotismus nicht abzusprechen ist. Nur: „Ihr Patriotismus bekundet sich dergestalt, daß sie die Vorbedingung der Größe, oder, wenn nicht der Größe, so doch des Glückes und der Schönheit ihres Landes nicht in seiner störenden und Haß erregenden »Besonderheit«, sondern, um es zu wiederholen, in seiner bedingungslosen Vereinigung mit der Welt der Zivilisation, der Literatur, der herzerhebend und menschenwürdig rhetorischen Demokratie erblicken, — welche Welt durch die Unterwerfung Deutschlands in der Tat komplett würde: ihr Reich wäre vollendet und umfassend, es gäbe keine Opposition mehr gegen sie.“ Der Triumph des Westens wäre das globale Universalreich der Kommunikation, die offene Gesellschaft ohne ihre Feinde, oder negativer gesprochen: der totale Konformismus einer gleichförmigen ‚One World’ ohne Opposition und Protest, zu denen gerade Deutschland nach Thomas Mann die geistig-kulturelle Potenz besessen hätte. Vielleicht steht dessen Ausfall nicht zuletzt mit der sukzessiven Annäherung an diesen scheinbar alternativlosen Weltzustand in kausalem Zusammenhang.

Doch lassen wir Mann diese schwammige Ideologie noch weiter konkretisieren, damit hinter ihrer zuckrigen Fassade zugleich auch ihre Peitsche sichtbar wird. Er nennt den Zivilisationsliteraten einen Pleonasmus. Was bedeutet das? Letztendlich, dass die Zivilisation, die der Zivilisationsliterat propagiert, eben nichts anderes als Literatur ist! Das heißt keine realpolitisch mögliche Wirklichkeit, sondern eine utopische Fiktion, die bestenfalls in Träumen oder Romanen ihren angemessenen Platz hat. Ihre Demokratie ist pure Rhetorik. Mann entlarvt sie als Kopfgeburt der französischen Revolution, als deren zeitgenössische Vollstecker sich die Zivilisationsliteraten verstehen: „Frankreich ist sein Land, die Revolution seine große Zeit, es ging ihm gut damals, als er noch ›Philosoph‹ hieß und in der Tat die neue Philosophie, nämlich die der Humanität, Freiheit, Vernunft vermittelte, verbreitete, politisch zubereitete…“ Der Zivilisationsliterat –ein „Element des nationalen Schicksals“ – erweist sich deshalb als so gefährlich, weil er den Monopolanspruch und die Definitionshoheit über solche Begriffe wie Menschheit und Brüderlichkeit errungen hat, obwohl wer Menschheit sagt, auch betrügen könnte oder Brüderlichkeit und Blutgerüste nahe beieinanderliegen könnten. Das sieht man diesen abstrakten Begriffen allerdings nicht an, sondern höchstens ihren historischen Verwirklichungsversuchen und zwar erst dann, wenn es schon zu spät ist. Um historische Durststrecken zu überbrücken und Aktivierungsenergie für die vernünftige Menschheitsrepublik zu sammeln, identifiziert sich der Zivilisationsliterat gerne mit dem Lauf der Geschichte selbst, die er als Fortschritt im Bewusstsein der Freiheit denkt:  „Das Bewußtsein, den ›Fortschritt‹ für sich zu haben, zeitigt offenbar eine sittliche Sicherheit und Selbstgewißheit, die der Verhärtung nahekommt und schließlich das Gemeine zu adeln glaubt, einfach dadurch, daß sie sich seiner bedient.“ Wer für den Fortschritt ist, dem ist alles erlaubt und darf jedes Mittel recht und billig sein. Wer diesen hingegen in Frage stellt, den trifft das Gemeine mit voller Breitseite.

Mann weigert sich jedoch hartnäckig, den Zivilisationsliteraten dasjenige Schicksal zuzumuten, das er seinen Feinden aufbürden will, sie nämlich zur persona non grata außerhalb von Recht und Menschheit zu deklarieren und für verbale und physische Barbarenschelte freizugeben: „Undeutsch? Aus allen meinen Kräften wehre ich mich dagegen, ihn undeutsch zu nennen, und werde nicht aufhören, mich dagegen zu wehren, solange die Kräfte mir nicht versagen. Man kann höchst deutsch sein und dabei höchst antideutsch. Das Deutsche ist ein Abgrund, halten wir fest daran.“ Im Zivilisationsliteraten schaut „Der Deutsche“ in seinen eigenen Abgrund: „Selbstekel und Einfremdung, kosmopolitische Hingebung und Selbstentäußerung“, die auch Teil deutschen Wesens sind, seines tief gespaltenen Wesens. Aber nicht nur das. Wenn er genauer hinsieht, würde er ebenso das Antlitz eines fremden Nationalismus erkennen, und zwar nationalfranzösischer Art: „Er ist einer der besten französischen Patrioten. Der Glaube trägt ihn und verleiht seinem Stile zuweilen ein herrliches Tremolo, einen bewunderungswürdigen Schwung: der Glaube an die Ruhmes- und Missionsidee seines — des französischen — Volkes und daß es ein für allemal zum Lehrer der Menschheit berufen sei, berufen, ihr ›die Gerechtigkeit‹ zu bringen, nachdem es ihr ›die Freiheit‹ gebracht hat (welche aber aus England stammt). Er denkt nicht nur in französischer Syntax und Grammatik, er denkt in französischen Begriffen, französischen Antithesen, französischen Konflikten, französischen Affären und Skandalen. Der Krieg, in dem wir stehen, erscheint ihm, völlig entente-korrekt, als ein Kampf zwischen ›Macht und Geist‹ — das ist seine oberste Antithese! —, zwischen dem ›Säbel‹ und dem Gedanken, der Lüge und der Wahrheit, der Roheit und dem Recht. (Ich brauche nicht hinzuzufügen, auf welcher Seite nach seiner Ansicht sich Säbel, Roheit und Lüge, auf welcher sich die antithetisch entsprechenden Ideale befinden.)“ Diese manichäische Logik, obwohl sie bei weitem nicht mehr so martialisch daherkommt, dauert bis heute fort, nur mit dauernd veränderter Rollenbesetzung: Zivilisation gegen Barbarei, die Guten gegen das Reich des Bösen, der Aufstand der Anständigen usw. Wer so redet, führt eine Feindbestimmung durch und meldet politische Hegemonieansprüche unter einem moralischen Denkmäntelchen an. Wer will schließlich nicht gerne mit den Heeren des Geistes und der Zivilisation marschieren? Widersprechende müssen verrückt, dumm oder krank sein. Aber wieso überhaupt noch marschieren? Ist der Zivilisationsliterat nicht notwendig Pazifist, weil er den Geist verkörpert? Ganz im Gegenteil, urteilt Mann: „Es verhält sich so, daß der Zivilisationsliterat den Krieg nicht mißbilligt, wenn dieser im Dienste der Zivilisation unternommen wird. […] Wie könnte denn auch der Schüler der Revolution — um nicht zu sagen: ihr Epigone — das Vergießen von Blut um der guten Sache, um der Wahrheit, des Geistes willen grundsätzlich verurteilen? »Entschlossene Menschenliebe« — das Wort gehört dem Zivilisationsliteraten - entschlossene Menschenliebe ist nicht blutscheu;“ Entschlossene Menschenliebe heiligt also das Mittel des Krieges, der zunehmend Kreuzzugscharakter gewinnt, insofern er ja im Zeichen von Menschheit, Zivilisation und Gerechtigkeit steht. Die Gegner sind damit per definitionem die Menschenhasser und Barbaren, deren Anliegen jede Legitimität abgesprochen wird. Wir haben es hier mit der pervertierten Renaissance des gerechten Krieges zu tun, der in dem Maße, wie er mit Sendungsbewusstsein und Missionseifer aufgeladen ist, seine Feinde entmenschlicht. Das Ziel des Zivilisationsliteraten lässt sich mit keinen geringeren Vokabeln umschreiben als mit „Erlösung“ oder „Befreiung“, die der römische Westen in pädagogischer Oberlehrermanier seinem frechen Ziehsohn Deutschland beibringen will: „»Deutschland wird sich schicken müssen«, sagte er damals, und seine Augen glommen. Deutschland wird endlich artig sein müssen, sagte er, und es wird dann glücklich sein wie ein Kind, das nach Schlägen schrie und, wenn es welche bekommen hat, dankbar ist, daß man seinen Trotz gebrochen, ihm über seine Hemmungen hinweggeholfen, es erlöst, es befreit hat. Wir erlösen und befreien Deutschland, indem wir es schlagen, es auf die Knie werfen, seine böse Renitenz, ihm selbst zur Wohltat, brechen und es zwingen, Vernunft anzunehmen und ein ehrenwertes Mitglied der demokratischen Staatengesellschaft zu werden.“ Wie würde die Welt wohl aussehen, wenn sich das westliche Zivilisationsimperium global durchgesetzt und die Renitenz seiner Feinde nachhaltig eliminiert hätte – eine Weltsituation, die heute nicht mehr als allzu weit hergeholt erscheint, nachdem Deutschland als Bastion des Protestes nach zwei Weltkriegen endgültig unter die Fittiche der westlichen Wertegemeinschaft genommen und in eine der Vorzeigekolonien der Weltzivilisation verwandelt wurde? Thomas Mann formulierte diese Option noch vorsichtig im Konjunktiv, weil die letzten Entscheidungen noch nicht gefallen waren: „Gesetzt, das wäre geschehen, die Entente ihrerseits hätte rasch und glänzend gesiegt, die Welt wäre vom deutschen ›Alpdruck‹, dem deutschen ›Protest‹ befreit worden, das Imperium der Zivilisation hätte sich vollendet, oppositionslos übermütig geworden: das Ergebnis wäre ein Europa gewesen, — nun, ein wenig drollig, ein wenig platt-human, trivial-verderbt, feminin-elegant, ein Europa, schon etwas allzu ›menschlich‹, etwas preßbanditenhaft und großmäulig-demokratisch, ein Europa der Tango- und Two-Step-Gesittung, ein Geschäfts- und Lusteuropa à la Edward the Seventh, ein Monte-Carlo-Europa, literarisch wie eine Pariser Kokotte.“ Die Neutralisierung Deutschlands beträfe das kulturelle Gepräge Gesamteuropas: Der ganze Kontinent durchliefe eine Entwicklung, in deren Zuge er zu einem „Geschäfts- und Lusteuropa“ degenerierte, das – obwohl im Zeichen von „human freedom und peace“ – tatsächlich die eigene geistg-kulturelle Prostitution zelebrierte. Sind wir heute noch so weit davon entfernt? Auch Mann gab schon zu, dass es eine Entwicklung sei, „die ich für notwendig, da heißt: für unvermeidlich halte“, ein „Fortschritt, – der mir, nicht selten wenigstens, als unaufhaltsam und schicksalsergeben erscheint und den an meinem bescheidenen Teile zu fördern mein eigenes Schicksal ist“. Der ‚Protest’ gegen den ‚Fortschritt’ sieht aussichtslos aus: „Der Fortschritt hat alles für sich. Nur scheinbar ist er die Opposition. Der erhaltene Gegenwille ist es, der in Wahrheit immer und überall die Opposition bildet, der sich in der Verteidigung befindet, und zwar in einer, wie er genau weiß, aussichtslosen Verteidigung.“

Trotzdem sollte die Verteidigung versucht, wenigstens der Nonkonformismus mit dem Zivilisationsliteratentum praktiziert werden. Es ist wichtig an dieser Stelle nochmals zu betonen, dass die Zivilisationsliteraten keine bestimmte politische Gruppierung darstellen, auf die man despektierlich mit dem Finger zeigen könnte – davor hatte Mann ja schon 1918 scharf gewarnt. Der Zivilisationsliterat steht weder rechts noch links, weder oben noch unten in der Gesellschaft, sondern er ist ein Symbol, das damals wie heute nicht nur die süße Versuchung der nationalen Selbstentkernung Deutschlands anzeigt – moderner: „Deutschland schafft sich ab“- sondern zugleich auch immer für eine Grundmöglichkeit deutschen Daseins steht, die seinem abgründigen Wesen entspringt. Die andere Grundmöglichkeit deutschen Daseins ist als Gegengewicht ebenso notwendig und kann mit Mann „konservative Opposition“ oder „ästhetische Revolte“ genannt werden. Die Proponenten dieses Flügels haben sich immer wieder die Frage zu stellen, die Thomas Mann am Ende des Kapitels zu seinem Zivilisationsliteraten rhetorisch gestellt hat:  „Es handelt sich um die Politisierung, Literarisierung, Intellektualisierung, Radikalisierung Deutschlands, es gilt seine ›Vermenschlichung‹ im lateinisch-politischen Sinne und seine Enthumanisierung im deutschen . . . es gilt, um das Lieblingswort, den Kriegs- und Jubelruf des Zivilisationsliteraten zu brauchen, die Demokratisierung Deutschlands, oder, um alles zusammenzufassen und auf den Generalnenner zu bringen: es gilt seine Entdeutschung . . . Und an all diesem Unfug sollte ich teilhaben?“ Um die wirklich eigene Form von Demokratie und politischer Kultur wieder zu gewinnen, um in das eigene Wesen wieder einzukehren, bedarf es vor allem eines: Mut zum Protest.

Literatur:

Thomas Mann: Betrachtungen eines Unpolitischen.

samedi, 07 décembre 2013

The Faustian Soul & Western Uniqueness

The Faustian Soul & Western Uniqueness

 

By Domitius Corbulo

Ex: http://www.counter-currents.com/

51gUU36cL2L._SY445_.jpgIf I had to choose one word to explain why the West has been the most creative civilization it would be “Faustian.” My choice of this word hinges on the realization that the West has been following a unique cultural path since ancient times in the course of which it has exhibited far higher levels of achievement in all the intellectual, artistic, and heroic spheres of life.

The current academic consensus is that the West diverged from the Rest only with the onset of mechanized industry, use of inorganic sources of energy, and application of Newtonian science to industry. This consensus holds for both multiculturalist and Eurocentric historians. David Landes, Kenneth Pomeranz, Bin Wong, Joel Mokyr, Jack Goldstone, E.L. Jones, and Peer Vries all single out the Industrial Revolution of 1750/1830 as the point during which the “great divergence” occurred. It matters little how far back in time they trace this Revolution, or how much weight they assign to preceding developments such as the Scientific Revolution or the gains from the colonization of the Americas, their emphasis is on the “divergence” generated by the arrival of the steam engine.

Charles Murray’s Human Accomplishment:Pursuit of Excellence in the Arts and Sciences, 800 BC to 1950, informs us that ninety-seven percent of accomplishment in the sciences occurred in Europe and North America from 800 BC to 1950. It also informs us that, in the arts, Europe alone produced a far higher number of “significant figures” than the rest of the world combined. In music, “the lack of a tradition of named composers in non-Western civilization means that the Western total of 522 significant figures has no real competition at all” (Human Accomplishment, 259).

But Murray’s statistical analysis can only take us so far. He pays no attention to accomplishments in warfare, exploration, and heroic leadership. His definition of accomplishment includes only peaceful individuals carrying scientific experiments and creating artistic works. I think Europeans were exceptional also in their expansionist and exploratory behaviors. Both their “civilized” and “uncivilized” were inseparably connected to their peculiarly agonistic ethos of aristocratic individualism. The great men of Europe were all artists driven by an intensively felt desire for unmatched deeds. The “great ideas” – Archimedes’ “Give me a place to stand and with a lever I will move the whole world,” – Hume’s “love of literary fame, my ruling passion” – were associated with aristocratic traits, disputatiousness and defiant temperaments – no less than Cortez’s immense ambition for honour and glory, “to die worthily than to live dishonoured.”

Spengler has provided us with the best word to overcome the current naïve separation between a cultured/peaceable West and an uncivilized/antagonistic West with his image of a strikingly vibrant culture driven by a type of Faustian personality overflowing with expansive, disruptive, and imaginative impulses manifested in all the spheres of life.

Spengler believed that the “prime-symbol” of the Faustian soul was its “tendency towards the infinite,” and that this tendency found its “purest expression” in modern mathematics. The “infinite continuum,” the exponential logarithm and “its dissociation from all connexion with magnitude” and transference to a “transcendent relational world” were some of the words he used to describe Western mathematics. But Spengler also wrote of the “bodiless music” of the Western composer, “in which harmony and polyphony bring him to images of utter ‘beyondness’ that transcend all possibilities of visual definition”, and, before the modern era, of the Gothic “form-feeling” of “pure, imperceptible, unlimited space” (Decline of the West, trans. Charles Francis Atkinson, vol.1, Form and Actuality [Alfred Knopf, [1923] 1988: 53-90, 183-216).

Mathematicians no less than musicians were “artist-men” and these artists were exemplars of the “emancipation” of the Western soul from magnitude, from “servitude” to measureable lines and planes, from the “near and corporeal.” Spengler believed that this soul-type was first visible in medieval Europe, starting with Romanesque art, but particularly in the “spaciousness of Gothic cathedrals,” “the heroes of the Grail and Arthurian and Siegfried sagas, ever roaming in the infinite, and the Crusades,” including “the Hohenstaufen in Sicily, the Hansa in the Baltic, the Teutonic Knights in the Slavonic East, [and later] the Spaniards in America, [and] the Portuguese in the East Indies (Decline of the West, 183-216).

I will leave aside my disagreements with Spengler’s image of classical Greece and Rome as cultures that conceived things in terms of proportion and balance in recurring patterns, except to agree with Nietzsche that classical Greeks were singularly agonal, driven by a Promethean aristocratic ethos.

This soul was palpable in all the Western spheres of life – painting, politics, architecture, science, literature, poetry, exploration, warfare, and philosophy. There was something Faustian about all the great men of Europe, in real life or fiction: Hamlet, Richard III, Gauss, Newton, Nicolas Cusanus, Don Quixote, Goethe’s Werther, Gregory VII, Michelangelo, Paracelsus, Dante, Descartes, Don Juan, Bach, Wagner’s Parsifal, Haydn, Leibniz’s Monads, Giordano Bruno, Frederick the Great, Rembrandt, Ibsen’s Hedda Gabler. “The Faustian soul – whose being consists in the overcoming of presence, whose feeling is loneliness and whose yearning is infinity – puts its need of solitude, distance, and abstraction into all its actualities, into its public life, its spiritual and its artistic form-worlds alike” (Decline of the West, 386).

Christianity, too, became a thoroughly Faustian moral ethic. “It was not Christianity that transformed Faustian man, but Faustian man who transformed Christianity — and he not only made it a new religion but also gave it a new moral direction”: will-to-power in ethics (Decline of the West, 344). This “Faustian-Christian morale” produced “Christians of the great style — Innocent III, Loyola and Savonarola, Pascal and St. Theresa […] the great Saxon, Franconian and Hohenstaufen emperors . . . giant-men like Henry the Lion and Gregory VII . . . the men of the Renaissance, of the struggle of the two Roses, of the Huguenot Wars, the Spanish Conquistadores, the Prussian electors and kings, Napoleon, Bismarck, Rhodes” (Decline of the West, 348-49).

Spengler captured better than anyone else (though Hegel was a great anticipator) the West’s main protagonist: not a calmed, disinterested, rationalistic personality, but a highly energetic, restless, fateful being, unwilling to be limited by boundaries, determined to break through the unknown, supersede the norm and achieve mastery. Some other words and phrases Spengler used to describe the traits and aims of this soul were: “unrestrained,” “strong-willed,” “far-ranging,” “active, fighting, progressing,” “overcoming of resistances,” “against what is near, tangible and easy,” “the fierceness and joy of tension” (Decline of the West, 308-337).

The seemingly amorphous, immeasurable, and infinite concept of a Faustian soul is far better to explain Western uniqueness than the measurable but rather confined IQ concept. There is clearly a general link between IQ and cultural achievement. But IQ experts, J. Philippe Rushton and Richard Lynn, have yet to offer a sound explanation why Europeans achieved far more culturally than the East Asians with their higher average IQ. Rushton highlights Chinese priority in a number of technologies before the modern era. He points to the Chinese use of printing by the 9th century, “600 years before Europe saw Gutenberg’s first Bible.” He says the Chinese were using “flame throwers, guns, and cannons” by the 13th century, “about 100 years before Europe.” They were using the magnetic compass in the 1st century, “not found in European records until 1190.” “In 1422, seventy years before Columbus’s three small ships crossed the Atlantic, the Chinese reached the east coast of Africa,” with a fleet of 65 ships superior in size and technique.

Sounding like a multicultural revisionist, Rushton adds: “With their gunpowder weapons, navigation, accurate maps and magnetic compasses, the Chinese could easily have gone around the tip of Africa and ‘discovered’ Europe!” (Race, Evolution, and Behavior, 2nd Abridged Version, Charles Darwin Research Institute, 2000).

Even more, Rushton views the last five centuries of European superiority as a temporary deviation that is now being superseded by not only Japan but China, Taiwan, Singapore, and South Korea. Lynn has the same opinion. But they have not offered an answer as to why Europeans were responsible for almost every single advance and invention in modern times. East Asian creativity, they say, was kept under a lid by cultural norms and institutions that are now breaking down. But there are multiple problems with Rushton’s claims, staring with his very one-sided association of creativity with science and technology, and his exaggerations about Chinese technology prior to 1500. After the Sung era (960-1279), the Chinese ceased to be inventive, whereas it was the medieval Europeans who went on to make continuous improvements on the Chinese inventions Rushton mentions, and then added their own: spectacles, mechanical clocks, navigational techniques, gauges, micrometres, water mills, fine wheel cutters, and more. The Chinese possessed large junks but did not discover a single new nautical mile. The ancient Greeks were far more advanced in the theoretical sciences, geometry, deductive reasoning, not to mention their arts and humanities. The Romans were just as inventive technologically, progenitors of great military strategists and conquerors, and true innovators in jurisprudence. Chinese education is still backward, dogmatic, and this is why they send their students to the West. Europeans invented each and every discipline taught in our universities. Virtually every great philosopher, poet, painter, novelist, explorer in history is European.

880970887.jpgWe need an explanation for this incredible discrepancy. But what exactly is the Faustian soul? How do we connect it to Europe’s creativity? To what original source or starting place did Spengler attribute this yearning for infinity? He directed attention to the barbarian peoples of northern Europe. In Man and Technics, he wrote of how the Nordic climate forged a character filled with vitality, “an intellect sharpened to the most extreme degree, with the cold fervour of an irrepressible passion for struggling, daring, driving forward.” The Nordic character was a human biological being to be sure, but one animated with the spirit of a “proud beast of prey,” like that of an “eagle, lion, [or] tiger.” For this Nordic individual, “the concerns of life, the deed, became more important than mere physical existence.” He wants to climb high, soar upward and reach ever higher levels of existential intensity. Adaptation and reproduction are not enough (Man and Technics: A Contribution to a Philosophy of Life, Greenwood Press, 1976: 19-41).

But why a Faustian soul is attributed only to Europeans? Are their “primary emotions” really different from that of ordinary humans? A good way to start answering this question is to compare the idea of a Faustian soul with Immanuel Kant’s observations on the “unsocial sociability” of human beings. In his essay, “Idea for a Universal History from a Cosmopolitan Point of View,” Kant seemed somewhat puzzled but nevertheless attuned to the way progress in history had been driven by the fiercer, self-centred side of human nature. Looking at the wide span of history, he concluded that without the vain desire for honour, property, and status humans would have never developed beyond a primitive Arcadian existence of self-sufficiency and mutual love: “all human talents would remain hidden forever in a dormant state, and men, as good-natured as the sheep they tended, would scarcely render their existence more valuable than that of their animals. . . . [T]he end for which they were created, their rational nature, would be an unfulfilled void.”

There can no development of the human faculties, no high culture, without conflict, antagonism, and pride. It is these asocial traits, “vainglory,” “lust for power,” “avarice,” which awaken the dormant talents of humans and “drive them to new exertions of their forces and thus to the manifold development of their capacities.” Nature in her wisdom, “not the hand of an evil spirit,” created “the unsocial sociability of humans.”

But Kant never asked, in this context, why Europeans were responsible, in his own estimation, for most of the moral and rational progression in history. In another publication, Anthropology from a Pragmatic Point of View (1798), Kant did observe major differences in the psychological and moral character of races as exhibited in different places on earth. He ranked races accordingly, with Europeans at the top in “natural traits.” Still, Kant never connected his anthropology with his principle of asocial qualities.

Did “Nature” foster these asocial qualities evenly among the cultures of the world? While these “vices” – as we have learned today from evolutionary psychology — are genetically-based traits that evolved in response to long periods of adaptive selective pressures associated with the maximization of human survival, there is no reason to assume that the form and degree of these traits evolved evenly or equally among all the human races and cultures. It is my view that the asocial qualities of Europeans were different, more intense, acuter, strident, individuated.

I believe that this variation should be traced back to the aristocratic culture of Indo-Europeans. Indo-Europeans were a pastoral people from the Pontic-Caspian steppes who initiated the most mobile way of life in prehistoric times starting with the riding of horses and the invention of wheeled vehicles in the fourth millennium BC, together with the efficient exploitation of the “secondary products” of domestic animals (dairy products, textiles, harnessing of animals), large-scale herding, and the invention of chariots in the second millennium. By the end of the second millennium, even though Indo-Europeans invaded both Eastern and Western lands, only the Occident had been “Indo-Europeanized.”

Indo-Europeans were uniquely ruled by a class of free aristocrats grouped into war-bands. These bands were constituted associations of men operating independently from tribal or kinship ties, initiated by any powerful individual on the merits of his martial abilities. The relation between the chief and his followers was personal and contractual: the followers would volunteer to be bound to the leader by oaths of loyalty wherein they would promise to assist him while the leader would promise to reward them from successful raids. The most important value of Indo-European aristocrats was the pursuit of individual glory as members of their warbands and as judged by their peers. The Iliad, Beowulf, The Song of Roland, including such Irish, Icelandic and Germanic sagas as Lebor na hUidre, Njals Saga, Gisla Saga Sursonnar, The Nibelungenlied recount the heroic deeds and fame of aristocrats — these are the earliest voices from the dawn of Western civilization. Within this heroic ‘life-world’ the unsocial traits of humans took on a sharper, keener, individuated expression.

What about other central Asian peoples from the steppes such as the Mongols and Turks who produced a similar heroic literature? There are a number of substantial differences. First, the Indo-European epic and heroic tradition precedes any other tradition by some thousands of years, not just the Homeric and the Sanskrit epics but, as we now know with some certainty from such major books as M. L. West’s Indo-European Poetry and Myth, and Calvert Watkins’s How to Kill a Dragon: Aspects of IE Poetics (1995), going back to a prehistoric oral tradition. Second, IE poetry exhibits a keener grasp and rendition of the fundamentally tragic character of life, an aristocratic confidence in the face of destiny, the inevitability of human hardship and hubris, without bitterness, but with a deep joy. Third, IE epics show both collective and individual inspiration, unlike non-IE epics which show characters functioning only as collective representations of their communities. This is why in some IE sagas there is a clear author’s stance, unlike the anonymous non-IE sages; the individuality, the rights of authorship, the poet’s awareness of himself as creator, is acknowledged in many ancient and medieval European sagas.

But how do we connect the barbaric asocial traits of prehistoric Indo-European warriors to the superlative cultural achievements of Greeks and later civilized Europeans? Another German thinker, Nietzsche, provides us with the best insights to explain how the untamed agonistic ethos of Indo-Europeans was translated into civilized creativity. I am thinking of the fascinating idea, expressed in his early essay “Homer on Competition,” that civilized culture or convention (nomos) was not imposed on nature but was a sublimated continuation of the strife that was already inherent to nature (physis).The nature of existence is based on conflict and this conflict unfolded itself in human institutions and governments. Humans are not naturally harmonious and rational as Socrates had insisted; the nature of humanity is strife. Nietzsche argued against the separation of man/culture from nature: the cultural creations of humanity are expressions or aspects of nature itself.

But nature and culture are not identical; the artistic creations of humans, their norms and institutions, constitute a rechanneling of the destructive striving of nature into creative acts, which give form and aesthetic beauty to the otherwise barbaric character of natural strife. While culture is an extension of nature, it is also a form by which human beings conceal their cruel reality, and the absurdity and the destructiveness of their nature. This is what Nietzsche meant by the “dual character” of nature; humans restrain or sublimate their drives to create cultural artefacts as a way of coping with the meaningless destruction associated with striving.

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Nietzsche, in another early publication, The Birth of Tragedy, referred to this duality of human existence, nomos and physis, as the “Apollonian and Dionysian duality.” The Dionysian symbolized the excessive and intoxicating strife which characterized human life in early tribal societies, whereas the Apollonian symbolized the restraint and rechanneling of conflict possible in state-organized societies. In the case of Greek society, during pre-Homeric times, Nietzsche envisioned a world in which there were no or few limits to the Dionysian impulses, a time of “lust, deception, age and death.” The Homeric and classical (Apollonian) inhabitants of city-states brought these primordial drives under “measure” and self-control. The emblematic meaning of the god Apollo was “nothing in excess.” Apollo was a provider of soundness of mind, a guardian against a complete descent into a state of chaos and wantonness. He was a redirector of the willful and hubristic yearnings of individuals into organized forms of warfare and higher levels of art and philosophy.

For Nietzsche, Greek civilization was not produced by a naturally harmonious character, or a fully moderated and pacified city-state. One of the major mix-ups all interpreters of the rise of the West fall into is to assume that Western achievements were about the overcoming and suppression of our Dionysian impulses. But Nietzsche is right: Greeks achieved their “civility” by rechanneling the destructive feuding and blood lust of their Dionysian past and placing their strife under certain rules, norms and laws. The limitless and chaotic character of strife as it existed in the state of nature was “civilized” when Greeks came together within a larger political horizon, but it was not repressed. Their warfare took on the character of an organized contest within certain limits and conventions. The civilized aristocrat was the one who, in exercising sovereignty over his powerful longings (for sex, booze, revenge, and any other kind of intoxicant) learned self-command and, thereby, the capacity to use his reason to build up his political power and rule those “barbarians” who lacked this self-discipline. The Greeks created their admirable culture while remaining at ease with their superlative will to strife.

To complete Nietzsche’s insights we need to add the historically based argument that the Greeks viewed the nature of existence as strife because of their background in an Indo-European state of nature where strife was the overriding ethos. There are strong reasons to believe that Nietzsche’s concept of strife is an expression of his own Western background and his study of the Western agonistic mode of thinking that began with the Greeks. One may agree that strife is in the “nature of being” as such, but it is worth noting that, for Nietzsche, not all cultures have handled nature’s strife in the same way and not all cultures have been equally proficient in the sublimated production of creative individuals or geniuses. Nietzsche thus wrote of two basic human responses to the horror of endless strife: the un-Hellenic tendency to renounce life in this world as “not worth living,” leading to a religious call to seek a life in the beyond or the after-world, or the Greek tragic tendency, which acknowledged this strife, “terrible as it was, and regarded it as justified.” The cultures that came to terms with this strife, he believed, were more proficient in the completion of nature’s ends and in the production of creative individuals willing to act in this world. He saw Heraclitus’ celebration of war as the father and king of the whole universe as a uniquely Greek affirmation of nature as strife. It was this affirmation which led him to say that “only a Greek was capable of finding such an idea to be the fundament of a cosmology.”

The Greek-speaking aristocrats had to learn to come together within a political community that would allow them to find some common ground and thus move away from the state of nature with its endless feuding and battling for individual glory. There would emerge in the 8th century BC a new type of political organization, the city-state. The greatness of Homeric and Classical Greece involved putting Apollonian limits around the indispensable but excessive and brutal Dionysian impulses of barbaric pre-Homeric Greeks. Ionian literature was far from the berserkers of the pre-Homeric world, but it was just as intensively competitive. The search for the truth was a free-for-all with each philosopher competing for intellectual prestige in a polemical tone that sought to discredit the theories of others while promoting one’s own. There were no Possessors of the Way in aristocratic Greece; no Chinese Sages decorously deferential to their superiors and expecting appropriate deference from their inferiors.

This agonistic ethos was ingrained in the Olympic Games, in the perpetual warring of the city-states, in the pursuit of a political career and in the competition among orators for the admiration of the citizens, and in the Athenian theatre festivals where a great many poets would take part in Dionysian competitions. It was evident in the sophistic-Socratic ethos of dialogic argument and the pursuit of knowledge by comparing and criticizing individual speeches, evaluating contradictory claims, competitive persuasion and refutation. In Descartes’s rejection of all prior knowledge and assertion of his autonomous intellect, “I think, therefore I am”, the transcendent mind, the self-determining ego, separated from any unity with nature and tradition. Spengler saw this ego expressing itself everywhere: in “the Viking infinity wistfulness” and their colonizing activities through the North Sea, the Atlantic, and the Black Sea; in the Portuguese and Spaniards who “were possessed by the adventured-craving for uncharted distances and for everything unknown and dangerous; in “the emigration to America,” “the Californian gold-rush,” “the passion of our Civilization for swift transit, the conquest of the air, the exploration of the Polar regions and the climbing of almost impossible mountain peaks” — “dramas of uncontrollable longings for freedom, solitude, immense independence, and of giantlike contempt for all limitations.”

“These dramas are Faustian and only Faustian. No other culture, not even the Chinese, knows them” (Decline of the West, 335-37).

 

 


 

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lundi, 25 novembre 2013

Konservative Revolution in Europa?

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Konservative Revolution in Europa?

Erik Lehnert

Ex: http://www.sezession.de

Die „Konservative Revolution“ gehört zu den „erfolgreichsten Wortschöpfungen des neueren Ideengeschichtsschreibung“ (Stefan Breuer) und ist dennoch umstritten wie kaum ein zweiter Begriff. Das mag seinen Grund in den programmstischen Aussagen dieser Denkrichtung haben, die seine Gegner gern anderen Ideologien zuschlagen würden. Es kann aber auch daran liegen, daß die KR als ein spezifisch deutsches Phänomen angesehen wird und deshalb den Großideologien des 20. Jahrhunderts zugerechnet werden soll.

Der neue Band aus der Reihe „Berliner Schriften zur Ideologienkunde“ [2] widerlegt diese Auffassungen. Bereits Armin Mohler hatte in seiner grundlegenden Arbeit zum Thema darauf hingewiesen, daß es nicht nur eine europäische, sondern auch eine universale Dimension der konservativ-revolutionären Strömung gebe.

Tatsächlich entdeckt man bei genauerer Betrachtung eine lange Reihe von Persönlichkeiten, die seit dem Ende des 19. Jahrhunderts Ideen vertraten, die man als „jungkonservativ“, „völkisch“ oder „nationalrevolutionär“ bezeichnen könnte, und es gab auch Bewegungen, die bestimmte „bündische“ Züge aufwiesen oder Ähnlichkeit mit dem Landvolk hatten. Von Fjodor M. Dostojewski und Charles Maurras bis zu Julius Evola, T.S. Eliot und Sven Hedin reicht ein erstaunlich weites Spektrum, das bisher noch nie unter dem Gesichtspunkt betrachtet wurde, daß man es mit Repräsentanten einer großen, die Geistesgeschichte unseres Kontinents nachhaltig beeinflußenden ideologischen Richtung zu tun hatte.

Der Band versammelt Aufsätze zu folgenden Ländern: England, Italien, Niederlande, Belgien und Frankreich. Am Beispiel von Julius Evola wird zudem die europäische Dimension deutlich, die auf einzelne Vertreter zurückzuführen ist. Mit Hans Thomas Hakl, Alain de Benoist und Luc Pauwels sind ausgesprochene Kenner der jeweiligen Länder als Autoren vertreten. Der Herausgeber, Karlheinz Weißmann, ist sicher der beste Kenner der Materie in Deutschland, was er nicht zuletzt mit der Neufassung von Mohlers Klassiker unter Beweis gestellt hat. In seinem Vorwort wirft Weißmann einen Blick auf die restlichen Länder Europas und kommt zu folgendem Fazit:

 Es dürfte […] unmittelbar deutlich geworden sein, daß keine einfache Antwort auf die Frage nach der europäischen Dimension der Konservativen Revolution möglich ist. Der Hinweis auf eine „Welle des antidemokratischen Denkens“ , die Anfang der dreißiger Jahre den Kontinent erfaßte, genügt jedenfalls nicht, um zu erklären, warum sich in bestimmten Ländern konservativ-revolutionäre Vorstellungen ausbreiteten, in anderen nicht; vielmehr ergibt sich folgende Bilanz:

• Die kulturelle und politische Nähe zu Deutschland konnte förderlich wirken (Niederlande, Belgien, Schweden, mit Vorbehalt Dänemark), aber von Zwangsläufigkeit ist keine Rede (Österreich, Schweiz),

• die Erfahrung der nationalen Demütigung und Schwäche spielte sicher eine Rolle (Italien, Belgien), war aber nicht ausschlaggebend (Frankreich, Großbritannien),

• was zuletzt bedeutete, daß die Krise des liberalen Systems, das als dysfunktional betrachtet wurde (Frankreich, Italien, Belgien, in gewissem Sinn auch die Niederlande und Großbritannien), den Ausschlag gab und jene Impulse freisetzte, die darauf abzielten, eine Konservative Revolution in Gang zu bringen,

• jedenfalls den Versuch zu unternehmen eine „vierte Front“ aufzubauen: gegen Kapitalismus, Kommunismus, Nationalsozialismus.

• Unbeschadet davon gilt aber, daß nur in Deutschland die Konservative Revolution zur „dominanten Ideologie“ werden konnte, weil bestimmte geistige Dispositionen und die kollektive Demütigung durch Niederlage und Versailler Vertrag die Entwicklung unerbittlich vorantrieben.

Die Untersuchung der europäischen Aspekte der Konservativen Revolution gilt schon lange als Desiderat der Forschung zur Geschichte des Konservatismus. Mit dem Erscheinen des Bandes ist ein großer Schritt in dieser Richtung getan. Er bringt nebenbei einige Antworten auf die Frage, warum sich die KR trotz ihrer Erfolglosigkeit als so zäh erwiesen hat, daß ihr auch heute noch ein gewisses Faszinosum nicht abgesprochen werden kann. Er bringt in uns etwas zum Klingen und verweist damit auf die Antinomien, die für den Menschen unüberwindlich sind: „Konservative Revolution nennen wir die Wiedereinsetzung aller jener elementaren Gesetze und Werte, ohne welche der Mensch den Zusammenhang mit der Natur und mit Gott verliert und keine wahre Ordnung aufbauen kann.“ (Edgar Julius Jung)

Der Band umfaßt 244 Seiten, kostet 15 Euro und kann hier bestellt werden [2].


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[2] Der neue Band aus der Reihe „Berliner Schriften zur Ideologienkunde“: http://antaios.de/buecher-anderer-verlage/institut-fuer-staatspolitik-/berliner-schriften-zur-ideologienkunde/363/die-konservative-revolution-in-europa?c=18

jeudi, 14 novembre 2013

Les leçons de la « Révolution Conservatrice »

 

Robert Steuckers:

Les leçons de la « Révolution Conservatrice »

Conférence de Robert Steuckers, prononcée à Anvers, Rubenshof, 29 mars 2006

3183508077.gifIl est évident que je vais essentiellement mettre l’accent, ce soir, sur la notion de « révolution conservatrice », telle qu’elle a été définie par le Dr. Armin Mohler. Cette « révolution conservatrice » englobe des traditions européennes, plus exactement centre-européennes, et non pas des traditions anglo-saxonnes. Cette approche appelle d’abord deux remarques : 1) Le conservatisme, sous cette appellation-là, existe en tant que mouvement ou que parti politique en Angleterre ou aux Etats-Unis ; 2) Le « conservatisme » n’existe pas de cette façon, n’est pas un mouvement politique distinct en France, en Italie, en Belgique ou en Allemagne. Le terme « conservatisme » ne s’y utilise pas pour désigner un parti politique ou un « pilier » (= een zuil).

L’utilisation du terme « conservatisme » pour désigner une partie de la droite contestatrice du régime libéral dominant est assez récente. Nous le devons surtout à Caspar von Schrenck-Notzing, éditeur de la revue munichoise Criticon ; également à l’écrivain Gerd-Klaus Kaltenbrunner. Tous deux ont développé une notion très vaste du conservatisme, ont montré sa diversité, son foisonnement, ses particularités innombrables, en analysant essentiellement les œuvres laissées par des personnalités très différentes les unes des autres. En effet, tant Schrenck-Notzing que Kaltenbrunner ont travaillé sur des biographies de personnalités et d’auteurs et cela, pendant des décennies, dans les colonnes de Criticon (rubrique « Konservative Köpfe ») et dans la fameuse collection « Herderbücherei Initiative », voire dans des ouvrages regroupant exclusivement des monographies de ce genre.

Mais pour nous résumer, disons que, pour nous, la « révolution conservatrice » des premières décennies du vingtième siècle trouve ses racines les plus anciennes dans le « Sturm und Drang » allemand et dans la pensée du philosophe Herder.

Georges Gusdorf : analyse méticuleuse de la pensée européenne des Lumières aux romantismes

Le « Sturm und Drang » est, pour l’essentiel, une réaction contre le classicisme du dix-huitième siècle, jugé répétitif et stéréotypé dans ses formes, et contre les Lumières dans leur interprétation et leurs traductions politiques françaises. Le professeur alsacien Georges Gusdorf est celui qui nous a légué, récemment, l’enquête la plus complète sur la maturation philosophique et politique de ce corpus rétif aux Lumières, dans une série d’ouvrages fort denses, comptant plus de treize volumes. Gusdorf nous décrit, sans recourir à un jargon incompréhensible, les innombrables étapes de cette maturation, où, pour se dégager du classicisme et des Lumières, le « Sturm und Drang » et Herder (qui se pose comme exposant des Lumières mais non à la mode française) préconisent un retour aux sources vives de la pensée populaire (Volk), aux racines, au moyen âge, au seizième siècle.

herder10.jpgPour Herder, cette démarche commence par une enquête générale sur les origines de la littérature de chaque peuple. Il veut que le théâtre, pour sortir du corset classique, se réfère à nouveau à Shakespeare, où le dramaturge ne doit plus tenir compte de la règle étouffante des trois unités, peut laisser libre cours à son imagination et ne doit pas imiter purement et simplement les modèles de la Grèce ou de la Rome antique, ou de Plaute, comme Racine, Corneille et Molière.

La pensée de Herder exercera rapidement une influence sur toute l’Europe, notamment, ici en Flandre, sur le mouvement flamand (notamment via la pensée politique d’Ernst Moritz Arndt ; j’y reviens), sur les slavophiles russes et balkaniques, sur le mouvement d’émancipation irlandais, qui réhabilite l’héritage celtique et culmine dans la poésie de William Butler Yeats, avec son mixte typiquement celto-irlandais de paganisme celtique et de catholicisme. Enfin, Herder influence aussi le mouvement tchèque centré autour de la personnalité de Palacky.

Arndt : vision organique du peuple et principe constitutionnel

Ernst_Moritz_Arndt.gifE. M. Arndt pose clairement les principes politiques cardinaux qu’une révolution à la fois conservatrice et nationaliste doit suivre impérativement : tout ce qui découle de la révolution française, écrit-il, est intrinsèquement faux parce que non organique et mécanique ; l’idéologie de cette révolution –et toutes les vulgates qui en découlent- ne voit pas le monde et les nations comme les produits d’une évolution mais les considèrent comme de simples constructions. Nous avons là le noyau essentiel de la pensée conservatrice continentale. Arndt, plus nationaliste que conservateur dans le contexte de son époque, se veut toutefois révolutionnaire, mais sa révolution ne fait pas table rase de ce qui existe préalablement : elle veut exhumer des lois ancestrales refoulées. Sa révolution est donc légale, possède une base juridique et s’insurge contre toute forme d’arbitraire du pouvoir, que celui-ci soit princier ou jacobin. Arndt précise : tout prince qui refuse d’accorder à son peuple une loi fondamentale, une constitution, découlant de droits organiques, est un « grand mogol » ou un « khan tatar ».

De Herder à Arndt, nous assistons à l’affirmation philosophique qu’il n’existe aucune histoire générale de l’humanité, mais autant d’histoires particulières générées par des peuples particuliers ou des groupes de peuples particuliers (la germanité ou la slavité, par exemple). Plus tard, le philosophe Wilhelm Dilthey précisera, sans la verve polémique d’Arndt, qu’un peuple ne peut être défini tant qu’il n’est pas mort, tant qu’il produit et crée des « formes ». Le conservatisme herdérien ne signifie donc pas une apologie de ce qui demeure stable et figé, mais exprime au contraire un mouvement évolutionnaire qui a des racines et les respecte.

De Maistre, de Chateaubriand et de Bonald

Deuxième source majeure de la « révolution conservatrice » : les réactions contre les débordements de la révolution française. Ces réactions sont d’abord françaises. Citons trois auteurs principaux : le Savoisien Joseph de Maistre, le Breton François-René de Chateaubriand et le théoricien Louis de Bonald. Généralement, ces trois auteurs sont considérés par l’idéologie progressiste ( ?) dominante comme de sinistres obscurantistes, partisans de la répression des masses populaires, apologètes d’un royalisme non pas traditionnel mais despotique (ce qui est très différent). Une analyse plus sereine de leurs œuvres autorise un jugement autre : ces auteurs déplorent justement la dureté répressive de la république et de la terreur, l’élimination des représentations populaires et des droits et libertés acquis.

Pour Joseph de Maistre, par exemple, le jacobinisme conduit au contrôle total et serré de la population, à son encartage, à la surveillance totale (thème revenu à gauche dans les années soixante avec Michel Foucault). Derrière la critique formulée par de Maistre à l’encontre du jacobinisme républicain, se profile un idéal de liberté dont Georges Orwell se fera le champion avec ses romans « Animal Farm » et « 1984 » ; dans le fameux discours de son alter ego espagnol Donoso Cortés sur le combat apocalyptique qui marquera la fin de l’histoire, cet idéal de liberté, de non contrôle par l’Etat et par la classe satanique et bourgeoise qui le contrôle, est encore plus nettement mis en exergue. Autre cible de la critique maistrienne : l’esprit de fabrication. Par « esprit de fabrication », de Maistre entend toutes les démarches intellectuelles qui refusent de se reposer sur des fondements anciens, rejettent ces derniers, et agissent par innovations constantes, écrasant tout ce qui a élevé l’homme dans les siècles et les innombrables générations du passé, seuls siècles réels, réellement observables, seuls siècles capables d’être des réceptacles de sagesse pratique.

Dans les œuvres poignantes du Breton François-René de Chateaubriand, que Michel Fumaroli vient de réhabiliter magistralement par une biographie remarquable, on retrouve un leitmotiv récurrent et essentiel : retrouver partout, à tout moment, dans ce que l’on voit ou dans ce que l’on pense, les traces, même infimes, du passé, parce qu’elles ont toutes, y compris les plus modestes, infiniment plus de valeur que tout ce que produit un présent galvaudé par de sinistres planificateurs, par des fabricateurs de systèmes, de normes abstraites, de règles et de punitions. François-René de Chateaubriand exprimera cette piété pour les choses vénérables du passé dans sa revue « Le Conservateur », lancée en 1820. C’est ce titre qui a forgé la dénomination que porteront tous ceux qui, sur le plan intellectuel ou politique, refusent les pompes et les gâchis de l’engeance politicienne qui avait pris son envol à partir des Lumières et de 1789.

Louis de Bonald : de l’harmonie divine à la sociologie

Louis_de_Bonald_by_Julien_Léopold_Boilly.jpgPour Louis de Bonald, l’idée conservatrice centrale est de dire que Dieu donne harmonie au monde. Cette grande harmonie universelle, reflet christianisé de l’idéal du cosmos ordonné des anciens Grecs, génère des harmonies sociales, dont il convient de ne pas dévier par des raisonnements abstraits, sous peine de voir périr des équilibres pluriséculaires et de sombrer dans le chaos, comme les événements de la révolution française le démontrent à partir de 1789. Dès que les raisonnements abstraits s’immiscent dans la bonne marche des choses et tentent de la modifier par des décrets, produits de réflexions fumeuses, les harmonies se disloquent ; on tente alors d’apporter d’autres remèdes, tout aussi fabriqués, qui compliquent encore les choses, pour aboutir à une jungle des paragraphes, de règles décrétées en dépit du bon sens, assorties de peines pour les contrevenants, comme nous le voyons aujourd’hui, ici, chez nous, sans que plus aucun citoyen ne perçoit encore ce qui est bien ou mal, licite ou illicite. Avec l’ « esprit de fabrication », que Bonald appelle plutôt l’esprit philosophique, la société se fragmente, entre en déliquescence.

Bonald ne s’est pas borné à invoquer l’ordre divin, troublé et galvaudé par les philosophes et les révolutionnaires, il a également jeté les bases de la sociologie moderne ; au départ, celle-ci vise à observer et analyser les déliquescences sociales pour y porter remède. Elle n’est donc pas une science révolutionnaire mais conservatrice. Louis de Bonald aura en Flandre un héritier prestigieux : le Professeur Victor Leemans de l’université de Louvain, qui lui consacrera articles et essais, reconnaîtra son rôle fondateur en sociologie et entendra poursuivre son œuvre en formant quantité d’étudiants, avant et après la seconde guerre mondiale. Son départ laisse un vide en Flandre depuis près de cinquante ans, vide dans lequel s’est engouffrée, comme partout ailleurs en Europe, une sociologie, non plus bonaldienne et visant à restaurer les liens sociaux pulvérisés par l’esprit de fabrication, mais dissolvante à la façon soixante-huitarde. Vous savez ce qui en a résulté.

L’apport de Thomas Carlyle

Thomas_Carlyle.jpgEn Angleterre (ou plutôt en Ecosse), l’idéal « révolutionnaire-conservateur » avant la lettre a été porté par une figure exceptionnelle, celle de Thomas Carlyle, dont on retiendra essentiellement, dans le cadre du présent exposé, deux idées fondamentales :

A. D’abord, celle d’une histoire générée par les héros, qui impriment à la marche des nations leurs volontés créatives à des moments souvent inattendus du continuum historique ; cette idée alimente, avec d’autres, la fameuse théorie de l’histoire sphérique d’Armin Mohler, où la force personnelle ou collective impulse une rotation originale à la sphère qu’est le temps, avant de tomber dans une phase d’entropie, relayée, plus tard, sans calendrier préétabli, par une nouvelle force impulsante.

B. Ensuite, l’œuvre de Carlyle recèle une critique systématique et récurrente de la « cash flow mentality », soit l’esprit marchand ou l’idéal économiciste du boutiquier (« shopkeeper »). Cette critique est la source de l’hostilité et du mépris de toute véritable idéologie « révolutionnaire-conservatrice » à l’endroit des castes économiques, qu’elle n’entend pas ménager mais au contraire mettre au pas voire éliminer, pour restaurer le bien commun, soit une société dominée par les constantes, les stabilités équilibrantes et débarrassée ipso facto de la fébrilité activiste et négociante (étymologiquement : « neg-otium », absence d’ « otium »), qu’impose la caste des shopkeepers et des banquiers à l’ensemble de l’humanité, toutes races confondues.

En Allemagne, trois figures fondatrices dominent les phases initiales et préparatoires de la « révolution conservatrice » proprement dite. Il s’agit de Joseph Görres, d’Adam Müller et de Lorenz von Stein.

Görres : trifonctionnalité et fidélité impériale

220px-Joseph_von_Görres.jpgJoseph Görres théorise, avant la lettre, avant Georges Dumézil, la notion de trifonctionnalité traditionnelle des sociétés européennes, subdivisées en une « Lehrstand », une classe enseignante, chargée de la transmission du savoir et des traditions ; une « Wehrstand », soit une classe combattante, chargée d’assurer la défense du bien commun et du territoire ; une « Nährstand », soit une classe laborieuse chargée d’assurer la production d’aliments pour le peuple. Ces trois « Stände » doivent s’articuler au sein d’un Reich, d’une structure impériale comparable à l’institution médiévale du Saint Empire, mais, cette fois, dotée d’une constitution garantissant l’intégration de tous (du moins des représentants des trois Stände nécessaires, les autres éventuelles étant jugées trop restreintes ou superflues, en tous cas dépourvues de signification réelle). Görres, devenu catholique après une jeunesse turbulente et révolutionnaire dans une Rhénanie aux regards tournés vers la France moderne, sauve toutefois, dans un contexte anti-révolutionnaire, la représentation de toutes les classes utiles au Bien commun, l’institution impériale finalement plus respectueuse des peuples et de leurs libertés que la république belligène et terroriste, et, enfin, ajoute l’élément constitutionnel, modernisation de l’esprit des chartes, réclamé par les masses allemandes mobilisées dès 1813 dans le soulèvement prussien contre Napoléon, selon les principes de la mobilisation totale, préconisés par Clausewitz. Görres rejoint Arndt sur ce plan. Görres n’opère pas un retour en arrière ; il tente simplement d’éliminer les dérives sanglantes du progressisme révolutionnaire et les effets de son basculement dans les répressions liberticides.

Adam Müller : retour au « zoon politikon »

AdamMuller.jpgAdam Müller pose, comme principe cardinal de toute politique saine, de s’opposer dorénavant à tous les principes énoncés par la révolution française qui, bien qu’ayant tout politisé à outrance et de façon hystérique, a gommé de la scène le véritable « zoon politikon » traditionnel, d’aristotélicienne mémoire, dans la mesure où elle efface avec rage et acharnement tous les liens immémoriaux qui soudaient les sociétés. Le « citoyen » de la révolution est un bavard ou un émeutier sans épaisseur, un sans-culotte aviné, un partisan encarté mais sans jugement profond, sans recul, sans héritage, sans plus aucun contact avec la longue durée. Le zoon politikon, de la Grèce antique à Adam Müller, dispose d’une mémoire, sait que des liens l’unissent aux siens ; il n’est pas un individu irresponsable qui, uni à d’autres au sein de masses, traduit par des actes horribles l’ensauvagement qui résulte de la disparition des liens (Bindungen) et des devoirs. La politique conservatrice, préconisée par Adam Müller, vise donc la restauration de ce « zoon politikon ». Le retour au zoon politikon des Grecs interdit d’accepter le libéralisme, le libre marché, interdit d’octroyer un pouvoir quelconque aux forces économiques, aux puissances d’argent. Adam Müller préconise de fait une alliance entre un socialisme, tempéré par les traditions, et un conservatisme, soucieux de préserver les stabilités équilibrantes, contre l’ennemi de l’homme réel qu’est le libéralisme. C’est dans l’œuvre d’Adam Müller et de Lorenz von Stein qu’il faut voir les origines intellectuelles de la condamnation du libéralisme chez l’un des pères fondateurs de la révolution conservatrice du 20ième siècle, Arthur Moeller van den Bruck (« C’est par le libéralisme que périssent les peuples »).

Lorenz_von_Stein_m.jpgLorenz von Stein reprend les idées générales d’Adam Müller et veut les inscrire dans le cadre d’une structure étatique reposant sur une « royauté sociale ». Cette notion de « royauté sociale » exprime, chez Lorenz von Stein, l’idée d’un interventionnisme étatique tempéré par l’idée monarchique. Les rois doivent devenir les agents d’une intervention permanente dans le domaine social pour éviter la fusion des intérêts des possédants avec la machine étatique-administrative. Les possédants, ou classes bourgeoises, entendent utiliser l’Etat, dont le rôle est alors réduit à celui d’un « veilleur de nuit », pour dominer l’ensemble de la société, via un vote censitaire qui permet d’exclure de larges strates de la population du processus démocratique. Dans un tel contexte, l’Etat garde à peine les apparences du principe de commandement (« Die herrschende Macht ») mais, en réalité, sous la pression des intérêts matériels de la seule bourgeoisie, devient une instance du pure obéissance (eine « gehorchende Unmacht »). Le monarque en place a pour mission de prendre la tête du mouvement réformateur (hostile au conservatisme metternichien), de le guider et d’assurer aux classes non possédantes un avenir matériel stable, seule garantie de leur liberté. L’Etat « veilleur de nuit », idéal des libéraux, conduit à la non-liberté (« Unfreiheit ») des catégories modestes de la société. L’Etat réformateur, animé par de hautes vertus éthiques, conduit à une société plus harmonieuse, plus conviviale, plus participative car toutes les catégories de la population participent alors à la gestion de la Cité. C’est Lorenz von Stein qui a indubitablement inspiré l’Etat social bismarckien et les monarchies réformatrices d’Allemagne du Sud (Würtemberg, Bavière). Avec lui, on parle de « Sozialkonservativismus ».

L’ère Metternich : aucune expérimentation

Le 19ième siècle allemand a donc débuté avec l’ère Metternich. Il s’agit là d’un conservatisme dépourvu de tonus innovant, voire d’idées révolutionnaires (au sens étymologique du terme et non pas au sens de la révolution française) ou de revendications constitutionnelles. Pour le Prince Metternich, aucune expérimentation nouvelle ne devait avoir lieu en Europe. Pour cet état d’esprit paléo-conservateur, la pensée d’un Ernst Moritz Arndt équivalait à celle des pires sans-culottes. Cette incapacité à intégrer la « Nährstand » et la classe ouvrière en formation et en croissance exponentielle, dans le sillage des révolutions industrielles (encore timides sur le continent jusqu’en 1850), provoquera le mécontentement des classes bourgeoises et populaires, ainsi que celui des « Burschenschaften » étudiantes en terres germaniques et centre-européennes. Ce porte-à-faux entre les desiderata légitimes d’une population, qui ne voulait plus ni du despotisme pré-révolutionnaire ni du terrorisme jacobin, et la volonté immobiliste d’élites épuisées, a finalement débouché sur la révolution de 1848, dont l’idéologie mêle des thèmes libéraux à des thèmes nationaux, en une synthèse qui se révélera finalement boiteuse.

Bismarck : une poigne qui impose l’Obrigkeitsstaat

En bout de course, par sa poigne, Bismarck imposera une synthèse, qui aurait été incapable d’émerger seule, vu l’hétérogénéité tellement contradictoire des composantes de la révolution de 1848. Par la force de son caractère et de sa personnalité, Bismarck imposera un « Obrigkeitsstaat » puis une représentation socialiste, assortie de la promotion de lois sociales modernes. Bismarck n’imposera pas seulement une synthèse sur les plans intérieur et social, mais aussi sur le plan international, en diplomatie, en préconisant une indéfectible « alliance des trois empereurs » (Drei-Kaiser-Bund) qui placera automatiquement les puissances traditionnelles du centre et de l’est de l’Europe dans une sphère différente de celle de l’Occident (France + Grande-Bretagne). Un clivage est ainsi né, qui expliquera la vigueur, et parfois la virulence, de l’anti-occidentalisme de la révolution conservatrice du 20ième siècle.

Pour le diplomate Constantin Frantz, au service de la Prusse, l’Ouest, ou l’Occident, composé de la France jacobine (et néo-bonapartiste avec l’avènement de Louis-Napoléon) et de l’Angleterre ploutocratique (qui n’a pas retenu l’une des leçons essentielles de Carlyle), n’est plus entièrement européen, n’est plus lié par le destin, par la géographie et l’hydrographie à l’Europe et à sa civilisation. Les possessions extra-européennes de ces deux puissances placent leurs intérêts en dehors de la sphère purement européenne. Ce qui a pour corollaire que des conflits, nés hors d’Europe, peuvent désormais ébranler et affecter les nations du sous-continent européen. Avant Constantin Frantz déjà, le diplomate et ministre von Hülsemann, au service de l’Autriche, avait réagi vivement à la proclamation de la Doctrine de Monroe (1823), car il percevait bien que cette Doctrine, soi-disant émancipatrice pour les nations créoles d’Amérique ibérique, visait l’exclusion pure et simple, non seulement de la malheureuse Espagne, mais de toute autre puissance européenne hors du Nouveau Monde. L’Europe n’a pas soutenu l’Espagne à l’époque et la tentative d’installer un Habsbourg sur le trône du Mexique en 1866-67, n’a été qu’une gesticulation tragique et surtout trop tardive, non suivie d’effets réels et durables pour contrer l’expansion omni-dévorante des Etats-Unis, prévue par Alexis de Tocqueville. De même, les forces conservatrices soutiendront Sandino au Nicaragua dans les années 20 et 30 du 20ième siècle : un autre combat d’arrière-garde…

L’Occident cesse d’être européen

Dans les travaux de ces deux diplomates (nous pourrions en citer d’autres), nous découvrons donc in nuce tous les affects anti-occidentaux de la « révolution conservatrice » du 20ième siècle, qui ont visé successivement la France, l’Angleterre et les Etats-Unis. A la veille de la guerre de Sécession de 1861-65 et du conflit franco-allemand de 1870-71, les deux puissances occidentales d’Europe, la France et la Grande-Bretagne avaient de fait troublé l’équilibre de l’alliance des trois empereurs en intervenant, aux côtés de la Turquie, ennemie héréditaire de l’Europe, lors de la Guerre de Crimée. Cet acte indiquait que les deux puissances se montraient renégates à l’endroit de la civilisation dont elles procédaient. Le complexe idéologique mêlant le puritanisme, l’idéologie révolutionnaire jacobine, la fébrilité sans mémoire de la révolution industrielle, le libéralisme, le rousseauisme égalitaire et le manchesterisme, ne prenait plus en considération ni les valeurs partagées pendant des siècles ni l’histoire qu’elles ont générée ni les obligations qu’elles impliquent.

Sur le plan culturel, au temps de Bismarck, l’intégration des classes sociales, auparavant défavorisées, progressait. Le socialisme était intégré à la machine étatique, avec les accords entre Lassalle (opposant à Marx au sein du socialisme de l’époque) et Bismarck. L’intégration des socialistes dans la sphère politique du Deuxième Reich bismarckien découlait bien plutôt de la pensée de Lorenz von Stein que de celle de Karl Marx. En Angleterre, à la même époque, John Ruskin développait un socialisme pratique, avec architecture ouvrière, avec une volonté de biffer définitivement les laideurs engendrées par les effets urbanistiques désastreux de la révolution industrielle (« Garden Cities », etc.). Pour revenir en Allemagne, il convient de préciser que la philosophie de Nietzsche était une référence pour les socialistes à l’époque et non pas pour les nationalistes ou les pangermanistes (« Alldeutscher Verband »). Les nationalistes se référaient à Gobineau et, plus tard, à son principal disciple, Houston Stewart Chamberlain.

Les romans de Dostoïevski

hyperliteratura-fiodor-dostoievski.jpgEn Russie, c’est la grande époque des romans de Dostoïevski, un ancien révolutionnaire de l’aventure décembriste du début du siècle. L’exil sibérien, auquel l’écrivain a été contraint, l’a guéri de ses illusions de jeunesse. La fréquentation des exilés, taulards, forçats, fonctionnaires pénitentiaires puis celle des déséquilibrés et des paumés des cafés de Petersbourg l’ont tout naturellement conduit à abandonner les utopies rousseauistes (ou qui passent pour telles), sans renoncer pourtant à croire que dans ce magma en apparence peu reluisant peuvent surgir des héros ou des saints, et, à proportion égale, des canailles ou des assassins. Le « Journal d’un écrivain », de ce plus grand Russe de tous les siècles, recèle un testament politique qui appelle à une profonde méfiance à l’endroit de cet Occident jacobin à la française (rousseauiste et égalitaire, philosopheur et procédurier) ou ploutocratique à l’anglaise (avec ses hypocrisies, son moralisme comme cache-sexe d’une fringale insatiable de profit). Le traducteur de Dostoïevski en Allemagne ne fut personne d’autre qu’Arthur Moeller van den Bruck, père fondateur du mouvement révolutionnaire-conservateur. L’apport russe et dostoïevskien, via Moeller van den Bruck, est capital dans l’éclosion de la révolution conservatrice allemande de la première moitié du 20ième siècle, capital aussi dans la gestation d’une œuvre comme celle d’Ernst Jünger.

2067859486.jpgImmédiatement avant que n’éclate la première guerre mondiale en août 1914, on ne peut pas encore parler véritablement de « révolution conservatrice », bien que tous les éléments idéologiques en soient déjà présents. Ces idéologèmes sont épars, diffus, bien répartis dans l’ensemble des cénacles intellectuels de l’époque (socialistes compris), mais ne sont pas politisés ni offensifs et militarisés, comme ils le seront après la première guerre mondiale. Tout au plus peut-on parler d’utopies positives à connotations organiques, de modélisations sur base d’idées et d’idéaux organiques (et non pas mécanicistes ; ces idéaux organiques trouvent leur origine dans la pensée de Schelling et dans le filon romantique). La diffusion de ces idéologèmes est surtout le fait d’un éditeur paisible, un homme bienveillant, Eugen Diederichs, dont la maison d’édition, fondée en 1896, existe toujours. Diederichs, comme j’ai déjà eu plusieurs fois l’occasion de le dire, est le véritable promoteur métapolitique des futurs idéologèmes constitutifs de la révolution conservatrice. En m’appuyant sur divers chercheurs, dont l’Américain Gary Stark, j’en dénombre essentiellement huit :

1)     La vie ne peut être évaluée sur la base de la seule raison (raisonnante) ; en d’autres termes, l’intellect, en rationalisant outrancièrement et en schématisant sans tenir compte d’une foule de particularités et d’exceptions, finit non pas par devenir un auxiliaire utile de la vie, mais son ennemi (cf. ultérieurement l’œuvre philosophique de Ludwig Klages).

2)     L’Allemagne et l’Europe ont besoin d’une nouvelle mystique religieuse, qui trouve ses racines dans la mystique médiévale rhénane, brabançonne et flamande ; en Brabant, la figure dominante de cette mystique, base d’une alternative possible, est Ruusbroeck, d’abord vicaire à Sainte-Gudule à Bruxelles, puis dirigeant d’un cloître en Forêt de Soignes à Groenendael. L’écrivain francophone gantois Maurice Maeterlinck, que Diederichs publiera en allemand, se penchera sur cette figure du mysticisme brabançon, tout comme le peintre surréaliste et traditionaliste Marc. Eemans, éditeur, dans les années 30, de la revue « Hermès » et fondateur, à la fin des années 70, du « Circulo Studi Evoliani », pendant belge des initiatives italiennes de Renato del Ponte et héritier du cercle flamand équivalent, fondé par Jef Vercauteren, décédé accidentellement en 1973.

3)     L’art a pour mission de sauver la civilisation contre le matérialisme. Idée qui, chez nous, sera principalement incarnée par les architectes et concepteurs Victor Horta et Henry Van de Velde (sur qui s’exerça profondément l’influence de Nietzsche). Marc. Eemans (1907-1998), pour sa part, à la suite de l’écrivain néerlandais Couperus et d’un précurseur allemand des idéaux du mouvement de jeunesse Wandervogel tel Julius Langbehn (auteur d’un ouvrage magistral sur Rembrandt), poursuivra cette quête, même après les années de la deuxième « grande conflagration », dans son œuvre encyclopédique sur l’art en Belgique et dans la revue « Fantasmagie ».

4)     Sur le plan littéraire, Diederichs préconise une renaissance du romantisme ; ce qui l’a amené à soutenir un écrivain comme Hermann Hesse à ses débuts. Outre ce désir de réactiver le filon romantique allemand, Diederichs lance un vaste programme de traduction d’œuvres russes, dont les grands classiques tels Tolstoï, Dostoïevski, Tchékhov, Gorki et surtout le néo-mystique Soloviev. L’apport russe est donc considérable.

5)     Diederichs préconise une mystique du peuple (Volk), voire, dans certains cas, parce que la terminologie de l’époque ne connaît pas de tabous comme aujourd’hui, une mystique de la « race ». Nous verrons ce qu’il en est exactement.

6)     Diederichs souhaite également un retour à « Mère-Nature » et se positionne dès lors comme un écologiste avant la lettre. Ce retour à la « Terre Mère » postule un soutien au roman paysan. Ce qui amène Diederichs à faire traduire les fleurons de la littérature flamande en ce domaine : Felix Timmermans, Stijn Streuvels et, plus tard, Ernst Claes. Cela nous permet de dire que l’apport flamand, et belge en général, est considérable dans l’éclosion de la révolution conservatrice allemande.

7)     Diederichs plaide pour la diffusion d’un socialisme de bon niveau, de haute tenue intellectuelle qui permet de tirer les masses ouvrières vers le haut au lieu de les entraîner par démagogie dans la fange du plébéisme. Diederichs est dès lors sur la même longueur d’onde que Victor Horta. Il publiera les premiers ouvrages d’Henri de Man, de même que les travaux des socialistes britanniques de la Fabian Society, les œuvres de l’architecte et historien de l’art John Ruskin.

8)     Diederichs réclame un soutien au mouvement de jeunesse naissant. Il soutiendra un groupe étudiant mixte à Leipzig, le « Cercle Sera », appelé à servir de modèle à une nouvelle société, plus heureuse, harmonieuse et conviviale.

En résumé, on peut dire, ici, ce soir, à Anvers, en mars 2006, que cette tradition à facettes multiples, lancée par Diederichs, est aussi et surtout la nôtre dans la sphère des conservatismes du monde entier, parce qu’arithmétiquement l’apport flamand y est fort considérable. Aucun conservatisme au monde ne recèle, dans son alchimie première, autant d’ingrédients venus d’ici, de nos propres provinces.

Vers le national-socialisme ?

Gary D. Stark est un historien américain qui s’est penché sur le travail des éditeurs allemands d’avant 1914, dont Diederichs. Dans les idées que leurs productions éditoriales ont diffusées, Gary D. Stark, comme Zeev Sternhell en France et en Israël, voit une préparation intellectuelle à l’avènement du national-socialisme hitlérien ! Sans critiquer leur énorme travail d’investigation, de recherche et de comparaison, inégalé, force est tout de même de constater une diabolisation exagérée de ces corpus qui ont pourtant innervé aussi la social-démocratie montante. On dirait que ces travaux servent, in fine, à livrer une guerre préventive contre toutes les tentatives de rénover l’Europe et ses piliers idéologiques (toutes tendances confondues), rénovation qui devrait inévitablement puiser dans des réservoirs d’idéologèmes fort semblables à ceux développés entre 1890 et 1914 par la maison d’édition créée par Diederichs.

La diabolisation préventive et l’accusation, portée à toutes ces thématiques, d’être des prolégomènes au national-socialisme hitlérien, nous paraissent totalement injustes pour six raisons principales :

1)     Diederichs et ses collaborateurs n’ont jamais discriminé les auteurs juifs s’inscrivant dans les filons novateurs des décennies 1890-1914. Diederichs est notamment celui qui a promu en Allemagne la pensée de Henri Bergson. Le social-démocrate Victor Adler, issu d’une famille israélite viennoise, professait un socialisme organique très proche des corpus préconisés par la maison Diederichs.

2)     La valorisation des figures du paysan et du poète indique une opposition générale à la modernisation technique outrancière que les idéologies libérale, marxiste et nationale-socialiste allaient parachever en Europe et en Amérique.

3)     Le désir de voir advenir une rénovation religieuse mystique, non politisée, est une préoccupation originale, que le national-socialisme acceptera en surface, dans une première phase, pour remettre bien vite l’ensemble trop bigarré des innovateurs au pas.

4)     Gary D. Stark croit voir en l’apologie récurrente de la « race nordique » un indice de connivence avec la future idéologie nationale-socialiste. Pourtant chez les auteurs de la maison Diederichs, notamment chez notre compatriote Maurice Maeterlinck (cf. ses « Cahiers bleus »), l’évocation de la « race nordique » est une revendication de liberté individuelle et personnelle face à l’arbitraire de l’Etat et à l’homologation des mentalités (que dénonceront par ailleurs Robert Musil dans « L’homme sans qualités » et Franz Kafka dans l’ensemble de son œuvre). L’idéologie dominante actuelle ne veut pas davantage percevoir ce lien qui existait clairement entre le « nordicisme » et l’« anti-totalitarisme » avant la lettre.

5)     La place des écrivains russes dans les productions de la maison Diederichs, la valorisation de l’âme russe, démontre qu’il n’y a en elles aucun affect anti-slave ou russophobe.

6)     Les auteurs de la maison Diederichs insistent également trop sur la notion de « personne ». Face à une uniformité galopante, ils appellent à l’émergence de fortes personnalités, ce qui est impensable dans un Etat totalitaire qui entend mettre tout le monde au pas (« Gleichschaltung »). Le Prix Nobel de littérature Knut Hamsun, auteur de « La Faim », par son insistance sur la force des personnalités (p. ex. Isaak dans « La Glèbe ») est ainsi en porte-à-faux constant avec l’idéologie nationale-socialiste en dépit de ses engagements en Norvège occupée de 1940 à 1945.

Nous n’avons donc pas de « révolution conservatrice » s’affichant comme telle, affichant un militantisme « soldatique » et hyper-politisé, avant 1914. Nous avons, répétons-le, un vaste éventail d’idéologèmes organiques, anti-jacobins et anti-mécanicistes, que partagent aussi bon nombre de socialistes de l’époque, surtout en Autriche et en Belgique.

Les thèses de Panayotis Kondylis

Le philosophe grec contemporain, Panayotis Kondylis, qui écrivait en allemand et qui est hélas décédé prématurément, avait consacré un ouvrage remarqué au conservatisme, où il constatait que la classe nobiliaire, détentrice de la propriété foncière et traditionnel pilier de l’idéologie conservatrice, était devenue, à l’ère de la progression du suffrage universel, trop ténue numériquement pour demeurer la porteuse d’une idéologie politique capable de survivre au sein des assemblées. Par conséquent, poursuivait Kondylis, faute de soulever l’enthousiasme de masses, à l’instar des socialistes, le conservatisme cesse d’être proprement politique pour se muer en un esthétisme, sublime mais forcément condamné à la marginalité. Dans cette belle esthétique du conservatisme, dépolitisé par l’effet de la loi du nombre, des ingrédients philosophiques comme ceux issus de l’œuvre de Carlyle (l’héroïsme, l’affect anti-économique) et, bien sûr, ceux légués par Nietzsche vont se cristalliser. A ce double héritage de Carlyle et de Nietzsche, s’ajoutent bien d’autres legs, dont, en première instance, celui des grands écrivains français du 19ième siècle : Baudelaire, Stendhal, Flaubert et, dans une moindre mesure, Balzac.

Ces poètes et écrivains sont des hommes lucides qui constatent que la nouveauté révolutionnaire (au mauvais sens du terme) est omniprésente, en réalité ou en jachère, pire, qu’elle n’a pas encore déplié tous ses aspects : l’art doit dès lors s’ériger contre ce « dépliement » fatidique qui transformera à terme les sociétés en fourmilières ternes. Nos auteurs français vont donc procéder à une dissection méticuleuse de ce monde en "advenance", révéler sa vénalité et sa nullité essentielles, dont la manifestation la plus patente est le perpétuel « piétinement », l’impossibilité d’un recommencement sublime, écrit le philologue suisse Jean Borie (Université de Neuchâtel).

AVT_Charles-Baudelaire_838.jpegPour un Baudelaire, la société bourgeoise, qui jacasse et qui « piétine », exclut l’artiste qui doit dès lors riposter, en imposant un art nouveau qui démasque les inconsistances et les hypocrisies de la société bourgeoise, née de la révolution française. Cet art nouveau n’est pas un retour aux hauteurs spirituelles d’antan : ce travail, qui consisterait à remonter le temps, est désormais impossible (point de vue que partage Kondylis), puisque les contemporains, depuis le 19ième siècle vivent une rupture permanente (et irrémédiable) avec l’histoire de leur peuple et la rupture la plus emblématique a été perpétrée par la hiérarchie catholique : celle-ci a d’abord rêvé d’une revanche, d’un retour à l’ancien régime qui la privilégiait, explique Borie, puis s’est mise par opportunisme crasse au service de la bourgeoisie victorieuse, perdant du même coup toute puissance mystique capable de soulever les coeurs. Le catholicisme officiel a ainsi laissé un vide effrayant dans nos sociétés: l’artiste anti-bourgeois et secrètement ou ouvertement conservateur, dans la mesure où il nie « l’aquarium sans oxygène du bourgeoisisme », entend, par son art, combler ce vide, l’occuper par de nouveaux rituels (Borie). Cette option annonce le « Jungkonservatisvismus » de Moeller van den Bruck, traducteur de Baudelaire, pendant ses années berlinoises, et qui, forcément, en cette qualité, transpose quelque éléments de la pensée et des visions du poète français dans sa définition du « jeune conservatisme ».

Honoré de Balzac

Balzac.jpgBalzac, dans « Le médecin de campagne », dénonce le monde moderne induit par le personnage du Dr. Benassis, philanthrope et eudémoniste. Celui-ci modernise une vallée dauphinoise économiquement arriérée, où vit une colonie de pauvres « crétins » que les indigènes respectent au nom de « superstitions religieuses », jugées inutiles et improductives. Le brave docteur modernisateur fait interner les « crétins » dans un camp, loin de leur village, et impose, au nom d’idéaux tout à la fois hygiénistes et rousseauistes, une sorte de dictature hygiéniste basée sur les postulats révolutionnaires jacobins d’égalité et de primauté de l’économique : Balzac, conclut le philologue suisse Borie, à rebours de l’avis de Maurice Bardèche, et juge ce monde décevant et incomplet, dans la mesure où il a exclu les pauvres (en esprit comme en fortune), le soldat Genestas, condamné à ressasser des nostalgies, les artistes, les inassimilables désintéressés qui n’aiment ni l’argent ni l’accumulation de biens ou de richesses, et finalement Benassis lui-même, l’initiateur du processus de modernisation, devenu inutile puisqu’il a presté sa tâche et ne doit plus rien ajouter à son œuvre : son action initiale l’a condamné à terme à ne plus jamais devoir agir ; le monde qu’il a créé n’a plus besoin de créateurs, fussent-ils des « modernisateurs ». Le monde de la modernité est donc un monde d’exclusion, de formatage, d’aseptisation, d’homogénéisation. Mieux : Balzac met en scène deux familles, l’une installée dans le haut de la vallée isolée, qui garde ses traditions immémoriales ; l’autre est installée à proximité de la plaine et a oublié les rituels de toujours. Dans chacune des familles, le père vient de mourir: ceux d’en haut, qui respectent encore les traditions sont rassemblés autour du cercueil, graves, recueillis ; tout le clan est présent ; le défunt est accompagné de l’ensemble de sa parentèle en toute solennité vers sa dernière demeure. Ceux du bas de la vallée continuent leurs besognes quotidiennes, ne réhabilitent plus aucun des rituels graves d’antan : le mort a basculé dans la catégorie des choses devenues inutiles, comme sont inutiles à l’accumulation les souvenirs de tout passé sublime, les liens que fondent les piétés filiales transgénérationnelles : on expédie donc sans guère de formes le père défunt au cimetière et on s’empresse de l’oublier. La modernisation a donc généré un vide spirituel permanent qui n’a toujours pas pu être comblé.

En 1832, dans « Le curé de Tours », Balzac écrivait ce texte magnifique, très actuel: « D’abord l’homme fut purement et simplement père, et son cœur battit chaudement, concentré dans le rayon de la famille. Plus tard, il vécut pour un clan ou pour une petite république : de là ces grands dévouements historiques de la Grèce et de Rome. Puis il fut l’homme d’une caste ou d’une religion pour les grandeurs de laquelle il se montra souvent sublime (…). Aujourd’hui sa vie est attachée à celle d’une immense patrie ; bientôt, sa famille sera, dit-on, le monde entier. Ce cosmopolitisme moral, espoir de la Rome chrétienne, ne serait-il pas une sublime erreur ? Il est si naturel de croire à la réalisation d’une noble chimère, à la fraternité des hommes. Mais hélas ! La machine humaine n’a pas de si sublimes proportions ». Tout est dit…

Kondylis évoque les « trois amours » des esthètes conservateurs : l’amour des choses supérieures (« Liebe zum Höheren »), qui bétonne un élitisme face aux pesanteurs des masses, mais aussi face à celles des classes industrielles, commerciales, bancaires, administratives (etc.) ; l’amour des choses vraies (« Liebe zum Echten »), que sont la « populité » (Volkstum) et les archétypes face à l’urbanisation déferlante et à l’économie basée sur l’argent et la spéculation ; l’amour de tout ce qui est héroïque (« Liebe zum Heroischen »), valorisant les figures du héros et du saint (Carlyle, Bernanos).

Dans ce contexte, seul demeure le noyau irréductible et non interchangeable que constitue la nation ou le peuple (Volk). C’est donc à la fusion entre l’esthétisme, celui des « trois amours », et le culte de la nation (ou du peuple), opérée d’abord par le Provençal Charles Maurras, que parviendra le nouveau conservatisme, soit la « révolution conservatrice » proprement dite, incluant, en Allemagne comme en France, des éléments de socialisme, dont ceux théorisés par Proudhon et Sorel.

Arthur Moeller van den Bruck et le « Jungkonservatismus »

En Allemagne, une synthèse originale voit le jour dans l’œuvre d’Arthur Moeller van den Bruck. Egaré dès l’âge de vingt ans dans la bohème littéraire berlinoise puis émigré à Paris, Moeller van den Bruck s’est frotté à toutes les influences modernistes allemandes de la Belle Epoque, est devenu, grâce à ses deux épouses, un traducteur chevronné d’auteurs français (Baudelaire, Maupassant, Zola), anglo-saxons (Poe, Dickens) et russes (Dostoïevski). La guerre de 14-18 fait de lui, comme de beaucoup d’autres a-politiques des années 1890-1914, un patriote soucieux de rétablir la souveraineté pleine et entière de l’Allemagne. Pour y parvenir, il faut certes une « prussianisation » de l’ensemble du Reich mais non pas une « prussianisation » à la mode du « wilhelminisme » d’avant la conflagration d’août 1914. Revenir aux glorioles caricaturales et au technicisme sans âme du wilhelminisme constituerait une impasse dans laquelle l’Allemagne vaincue ne doit pas s’engager. La prussianisation de l’ensemble germanique centre-européen doit s’accompagner d’une rejuvénilisation complète du conservatisme : celui-ci doit effectivement conserver les fondements, les racines, les vertus fondamentales de la nation allemande (ou de toute autre nation qui chercherait à rétablir son honneur et sa souveraineté) mais sans en conserver les formes mortes, qui tentent de se répéter ad infinitum, tel un mouvement perpétuel dépourvu d’objectif nouveau. L’œuvre de rejuvénilisation est la tâche du « Jungkonservativismus ». Celui-ci commence par redéfinir les concepts de socialisme, de démocratie, de révolution, toutes formes ou dynamiques politiques qui ne peuvent plus se définir selon les critères en usage avant 1914.

Moeller van den Bruck , en définissant le « Jungkonservativismus » chevauche le « tigre de la révolution », propose un socialisme nouveau, dépouillé des étroitesses que la sociale-démocratie lui avait imposées dès la fin des années 10 du 20ième siècle en voulant rationaliser/marxiser un mouvement ouvrier plus imprégné de Nietzsche que de Marx dans sa première phase ascensionnelle soit en sa phase de jeunesse ; enfin, Moeller propose une forme de démocratie plus enracinée, moins caricaturalement parlementaire, où elle est posée comme « la participation du peuple à son destin » et où son mode de fonctionnement est d’être « dirigée ». la démocratie du « Jungkonservativismus » moellerien est donc une « geführte Demokratie », une démocratie dirigée par les élus (de l’Esprit et non des urnes) qui, par leur maîtrise des concepts inaugurés par les avant-gardes littéraires et artistiques de la Belle Epoque, sauront infléchir correctement les choix du peuple et l’empêcher de sombrer dans des encroûtements délétères. Les ennemis principaux ne sont donc pas la révolution, la démocratie ou le socialisme, qui, tous, peuvent être infléchis dans le bon sens de la « juvénilisation » permanente du peuple mais le libéralisme qui n’apporte que compromissions, médiocrité morale, rationalisme étriqué, individualisme pernicieux, « gouvernement de la discussion ».

Finalement, outre le développement fascinant des prémisses de la révolution conservatrice, prémisses encore dépourvues de dimensions guerrières et « soldatiques », la « Belle Epoque », comme on l’appelait, sentait sourdre, sous la fine couche d’insouciance et de progressisme naïf, de confort et de consumérisme, une hostilité à ces vanités qui, pensaient des croyants comme Bloy, Lyautey, de Foucauld ou Psichari, voire Sorel ou Péguy, allaient bien rapidement pervertir les hommes, ruiner toutes leurs vertus positives, les anémier spirituellement. C’est ainsi que le conflit de 1914 a été accueilli comme une épreuve salutaire, pour sortir l’humanité du confort et de l’avachissement. La guerre rendrait, croyait-on, la virilité aux hommes, l’attitude du soldat purgerait la nouvelle génération de miasmes délétères (« soldatisch », allait-on dire en Allemagne après le conflit, dans la littérature des anciens combattants comme les frères Jünger, Schauwecker et Beumelburg).

Les transformations sociales entraînées par la première guerre mondiale seront innombrables. Un film américain à grand spectacle, « The Eagles », qui évoque les pilotes allemands de la Grande Guerre, montre bien quels glissements se sont opérés au cours du conflit. Nous avons, parmi ces pilotes, l’aristocrate de vieille lignée qui demeure parfaitement chevaleresque ; l’aristocrate nouveau, cynique, débauché et violent ; l’aristocrate machiavélique, vieux général, qui cherche un compromis avec les temps nouveaux et joue davantage le rôle du renard que celui du lion, tout en gardant intact un respect pour les valeurs rudes du soldat (à la Brantôme) ; enfin, l’homme du peuple devenu officier, efficace mais dépourvu d’éthique chevaleresque, qui sera un jouet aux mains du vieux général. Ce nouvel officier préfigure le national-socialisme sans scrupules, du moins pour l’auteur américain du scénario.

Les « Considérations d’un apolitique » de Thomas Mann

Thomas-Mann2.jpgLes « Considérations d’un apolitique » (« Betrachtungen eines Unpolitischen ») de Thomas Mann, rédigées pendant la première guerre mondiale, récapitulent des positions anti-occidentales traditionnelles depuis les premières décennies du 19ième siècle, attitude d’autant plus étonnante que Mann se fera ultérieurement le parangon de l’occidentalisme. Dans son roman, « La Montagne Magique » (« Der Zauberberg »), plusieurs figures, dans le sanatorium de tuberculeux, à Davos en Suisse, qui sert de décor général à l’œuvre, expriment ces contradictions de la culture européenne (et pas seulement allemande), dans des dialogues pertinents et paradigmatiques. Dans ce milieu fermé, dialoguent Lodovico Settembrini, un rationaliste latin, symbole de toutes les formes de rationalisme bourgeois dans l’Europe d’avant 1914, Naphta, un juif galicien formé par les Jésuites et représentant de l’irrationalité religieuse, du principe religieux a-rationnel, toutes confessions confondues, la jeune et belle Russe Clawdia Chauchat, représentante de l’« humanité intacte de l’Est » et de l’intelligentsia russe d’avant la révolution de 1917, l’aventurier colonial hollandais Pieter Peeperkorn, symbole de l’Européen qui est allé chercher fortune et aventure au-delà des mers. Ces personnages ont une nationalité formelle mais leurs propos philosophiques transcendent nettement les limites que l’on pourrait attendre d’une personnalité inscrite trop étroitement dans un cadre intellectuel « nationalisé ».Ils symbolisent tous des attitudes, repérables dans la culture bourgeoise d’Europe à la Belle Epoque, attitudes qui, hélas, vont perdre toute pertinence sociale, dans un monde qui sera d’abord complètement disloqué par la guerre, ensuite livré aux idéologies de l’ère des masses (cf. Canetti et Ortega y Gasset).

La « Montagne magique »

Le personnage central, Hans Castorp, Allemand du Nord et issu des castes marchandes des villes portuaires hanséatiques comme Thomas Mann, rend visite à un cousin hospitalisé dans le sanatorium : il compte rester trois semaines en Suisse ; il restera sept ans. Lui, l’homme sans grandes qualités ou vertus, tentera de trier le bon grain de l’ivraie dans tous les propos qu’échangeront les autres protagonistes du sanatorium de Davos. Quant au cousin Joachim Ziemssen, il incarne une « vitalité robuste » dans un corps hélas malade : il symbolise véritablement l’Europe en déclin.L’attitude mentale altière de ce tuberculeux qui voulait devenir officier prussien est l’attitude héroïque et éthique par excellence mais elle n’est déjà plus centrale dans les débats qui animent le sanatorium de la « Montagne Magique », elle est marginalisée. L’Europe, au corps malade, ne peut plus abriter cette « vitalité robuste », l’incarner et la généraliser : constat pessimiste, quand meurt Joachim Ziemssen, l’homme qui voulait maintenir les bonnes vertus mais n’était plus pris très au sérieux par les autres. Où est la véritable Europe (malade) ?Dans ce sanatorium, où l’on discute de l’essentiel même s’il cela ne conduit à rien, ou dans la « Plaine » (le « Flachland ») où bruissent les grandes villes, où la vie est marquée par les trépidations des machines ?Hans Castorp, quand il revient dans la « Plaine », peut trouver un emploi, une fonction, un rôle, mais ceux-ci seront toujours interchangeables : il ne sera plus, comme à Davos, un partenaire indispensable au débat de fond —celui qui tente, dans sa tête, de faire la synthèse de cette Europe aux attitudes divergentes— mais un rouage dans une machinerie qui sera toujours remplaçable. La « Montagne Magique » de Mann est bel et bien un des romans-clefs de la première moitié du 20ème siècle. Pour notre propos, il est « conservateur-révolutionnaire », non pas parce qu’il veut remettre en selle les principes allemands des « Considérations d’un apolitique », mais parce qu’il constate le déclin irréversible de toutes les valeurs et vertus. Pessimiste, il constate la maladie de l’Europe.

Après 1918, l’Allemagne vit dans le traumatisme de la défaite. Le monde de la germanité, perçu dans les décennies antérieures comme irrésistiblement ascendant, est ruiné, battu, outragé. Les cadres territoriaux allemand et austro-danubien sont morcelés, leurs frontières sont démembrées, ouvertes à toutes les interventions ou les invasions. Sur le plan éthique, la guerre et les soulèvements spartakistes ont disloqué les certitudes traditionnelles. L’immoralité va galopante, surtout dans les grandes villes (cf. les souvenirs de l’écrivain anglais Christopher Isherwood sur la débauche dans le Berlin des années 20). Refusant cette déliquescence généralisée, une nouvelle culture naît en marge de ces tumultes et agitations, une culture qu’Armin Mohler nommera, dans sa fameuse thèse de doctorat soumise à Karl Jaspers, la « révolution conservatrice », car elle entend se révolter contre le nouvel établissement, voire contre toute pesanteur inutile, et conserver les valeurs impassables de l’humanité germanique et européenne.

Dans ce front « conservateur » et « révolutionnaire », prenons quelques figures marquantes : Spengler, les frères Jünger, Klages, Steding, Rosenstock-Huesy, Kantorowicz, ainsi que des cercles tels le « Tat-Kreis » ou des éditeurs comme Diederichs, Lehmann et Goldmann. A ces « révolutionnaires conservateurs » pur jus, ayant retenu les leçons de Nietzsche, s’ajoutent des penseurs catholiques comme Carl Schmitt, ainsi qu’une brochette de théologiens occupés à formuler une théologie en phase avec l’idéologie populiste-folciste, en vogue depuis Herder et Arndt. Chacune de ces figures apporte des éventails de concepts pertinents, idoines pour saisir les problèmes de cette époque de bouleversements fondamentaux, mieux, des concepts si profonds qu’ils gardent toujours leur pertinence aujourd’hui, mutatis mutandis.

Oswald Spengler

Oswald Spengler jette un œil panoramique sur les civilisations, plus exactement, les cultures qui ont jalonné l’histoire. Pour lui, une « culture » est une manifestation organique, spécifique et originale, qui recèle, en elle-même, les forces vives de son éclosion et de ses développements. Mais toute culture est mortelle, quand ces forces vives viennent à s’épuiser. Au terme « culture », Spengler oppose celui de « civilisation ». La « civilisation » procède d’une « culture » : elle en est le parachèvement sur les plans de la technique, de l’administration des choses, de la puissance brute. Mais, simultanément, elle ne produit plus aucune force vive, capable de faire éclore des valeurs dignes d’être imitées. L’Europe a ainsi été une culture, grecque puis faustienne, jusqu’au seizième siècle, pour ensuite présenter les affres du vieillissement et du déclin. L’Amérique, qui procède de l’Europe, correspond à son stade ultime et achevé de « civilisation ». L’urbanisation déferlante, que connaissent l’Europe et les Etats-Unis depuis la fin du 19ième siècle, est l’indice le plus patent de la cristallisation/figement d’une « culture » vivante en une « civilisation » mortifère. Le thème, fort fécond, sera repris par quantité de littérateurs, polémistes, sociologues ou philosophes. Enfin Spengler crée le concept de « pseudo-morphose ». Une culture peut changer de signe, passer du paganisme germanique au christianisme faustien par exemple, ou du christianisme à l’islam (comme dans la sphère « magique » arabo-byzantine), ou de l’iranité zoroastrienne à l’islam chiite, sans véritablement changer de forme. Le changement de signe n’affecte pas les fondements même de la culture : ce changement n’opère qu’une mutation de surface, une « pseudo-morphose » qui n’est en aucun cas métamorphose, bouleversement total, passage à quelque chose de fondamentalement autre. La notion spenglérienne de « pseudo-morphose » demeure toujours féconde et nous permet de mieux comprendre, aujourd’hui encore, certains phénomènes culturels, comme, par exemple, la complexité du Moyen Orient.

Les frères Jünger 

ErnstJuenger.jpgErnst Jünger, et son frère Friedrich-Georg, tous deux jeunes officiers volontaires de 1914 et spécialisés en coups de main aussi tordus qu’audacieux dans la guerre des tranchées, deviennent dans les premières années de la République de Weimar théoriciens d’un « nouveau nationalisme », insolent et moqueur pour le nationalisme de l’époque wilhelminienne, qu’il était évidemment impossible de reproduire après la défaite de 1918, vu le contexte de déliquescence inouï dans lequel survivait le Reich. Tous ceux qui ont lu attentivement les textes nationaux révolutionnaires des deux frères, écrits dans la seconde moitié des années 20 et au début des années 30, sont soit choqués par leur apparente virulence soit séduits par la profondeur des arguments soit les deux à la fois. Dans un volume collectif, intitulé « Aufstieg des Nationalismus », les frères Jünger précisent quelle doit être la virulence juvénile du nouveau nationalisme post-wilhelminien : ce nationalisme, en aucun cas, doit tolérer la répétition de formes mortes, préconisée par des pouvoirs politiques « légalitaires » qui figent le flux du réel et précipitent, de la sorte, les Cités ou les Etats dans un déclin irrémédiable par manque d’audace. Plus tard, Ernst Jünger, déçu par le légalisme de la République de Weimar et par le mouvement hitlérien, plaidera pour une « décélération » du monde, pour un retour à des archétypes sociaux non modernes, tandis que son frère Friedrich-Georg, dans un ouvrage qui annonce la vague écologique d’après 1945, « Die Perfektion der Technik », s’inquiète d’un phénomène de plus en plus prégnant face à la modernisation et l’américanisation galopante des sociétés occidentales et soviétiques, celui de la « connexion » totale de tous à des instances exclusivement techniques et non plus politiques : le prêtre qui prononce son prêche amplifie sa voix par un micro et est donc connecté au distributeur d’électricité ; le paysan qui use d’un tracteur consommant du carburant est connecté désormais à la pompe la plus proche appartenant à un consortium pétrolier, etc. Cette connexion totale de tous tue toutes les formes de liberté organique : elle crée l’idéal du Dr. Benassis, personnage de Balzac.

Klages, Steding, Rosenstock-Huesy, Kantorowicz

Ludwig Klages, lui, entend retourner aux matrices « telluriques » de la culture et finit par poser une dichotomie Ame/Esprit, où l’âme est l’expression de la vie et l’esprit un principe qui entend soumettre la vie et l’encadrer, au point d’en assécher la source.Les forces vitales de l’âme sont forces de lumière tandis que les forces de l’esprit conduisent à un assombrissement général du monde.

Christoph Steding voit la notion allemande de « Reich » comme un principe d’ordre, sans lequel l’Europe est plongée dans l’indolence ou le chaos. Historiquement, cette instance d’ordre en Europe a été mutilée et annihilée par les Traités de Westphalie en 1648 : certaines périphéries comme la Hollande et la Suisse s’en sont volontairement détachées pour suivre une voie originale : soit une ouverture vers la mer soit un repli sur le réduit alpin. Quant à la Scandinavie, elle n’a plus été attirée par ce môle politique que le « Reich » aurait dû rester en Europe. Ce détachement génère une « culture neutre », impolitique, hollandisé ou helvétisée, valorisant la spéculation esthétique ou l’individualisme et accentuant un désintérêt délétère pour le sort géopolitique du continent. Steding parie alors pour le retour à une culture politique impériale, capable de redonner vigueur à un continent européen morcelé, sans plus aucune consistance territoriale, son centre étant émasculé par le double effet des Traités de Westphalie et de Versailles et par la neutralisation (dépolitisation) de la culture. Pour Steding l’avènement d’un prussianisme impérial, non plus réduit au royaume de Prusse et aux seules traditions dynastiques prussiennes, permettrait de réduire à néant les effets dissolvants des traités et de la neutralisation culturelle.

Eugen Rosenstock-Huesy et Enrst Kantorowicz, tous deux israélites et anciens officiers des Corps francs après 1918, énoncent des idées originales : Rosenstock-Huesy voit l’identité de l’Europe dans une perpétuelle remise en questions révolutionnaire de ce qui est établi. L’Europe est une terre de révolution/réjuvénilisation permanente qui lui confère un dynamisme unique au monde et une plasticité que les autres cultures ne possèdent pas. Ernst Kantorowicz, qui avait fréquenté le cercle des « Cosmiques » à Munich autour de Stefan George, explore à fond la personnalité hors normes de Frédéric II de Hohenstaufen (expression la plus sublime de l’idée impériale) et étudie le développement du principe monarchique, tout en explorant ses fondements traditionnels.

Le Tat-Kreis, revue de sciences politiques, d’économie et de sociologie, animée par Hans Zehrer, insiste tout particulièrement sur la nécessité d’une autarcie économique aussi large que possible et sur l’idée d’une intégration totale et participative de toutes les classes sociales dans l’Etat. Parallèlement à cette revue, des éditeurs comme Diederichs (cf. supra), Lehmann, spécialisé dans les questions raciales et biologiques, ou Goldmann, spécialisé en géopolitique et en problèmes de politique internationale, diffusent une littérature très abondante, dont beaucoup d’auteurs méritent d’être redécouverts et étudiés.

Une « révolution conservatrice » catholique ?

Parallèlement à ces auteurs non chrétiens, protestants ou néo-païens, il a également existé une « révolution conservatrice » catholique, dont Carl Schmitt fut l’un des exposants. De nombreux théologiens, tenus au placard depuis 1945, ont participé à l’élaboration d’une contestation anti-libérale, hostile à la République de Weimar. Carl Schmitt, considéré depuis une quinzaine d’années comme le plus pointu des penseurs du politique, a influencé des politologues américains célèbres comme Erich Voegelin ou Leo Strauss. S’il fallait résumer l’œuvre de Carl Schmitt en quelques mots, il faudrait commencer par citer l’adage de Hobbes : « Auctoritas non veritas facit legem », « c’est l’autorité (d’un homme de chair et de sang) et non la vérité (abstraite des philosophes) qui fait la loi ».Schmitt se dresse contre le pouvoir des normes énoncées par des juristes en chambre, étrangers au tumulte du monde, parce que ces normes sont posées comme inamovibles et éternelles, alors que les Cités sont des organismes vivants qui épousent les méandres de la réalité vivante et ne survivent pas lorsqu’elles sont prisonnières de la cangue d’un appareil normatif, qui ne réfléchit plus, ne sent plus, n’éprouve jamais rien. L’autorité ne saurait donc être un ensemble de normes ou de principes immuables mais uniquement un homme de chair et de sang, capable de prendre la bonne décision car il n’est pas aveugle et éprouve dans sa propre chair les souffrances ou les potentialités de l’Etat qu’il dirige.

Dans les normes internationales, imposées depuis Wilson et la SdN, Schmitt voit un « instrumentarium » mis au point par les juristes américains pour maintenir les puissances européennes et asiatiques dans un état de faiblesse permanent. Pour surmonter cet handicap imposé, l’Europe doit se constituer en un « Grand Espace » (Grossraum), en une « Terre » organisée autour de deux ou trois « hegemons » européens ou asiatiques (Allemagne, Russie, Japon) qui s’opposera à la domination des puissances de la « Mer » soit les thalassocraties anglo-saxonnes. C’est l’opposition, également évoquée par Spengler et Sombart, entre les paysans (les géomètres romains) et les « pirates ». Plus tard, après 1945, Schmitt, devenu effroyablement pessimiste, dira que nous ne pouvons plus être des géomètres romains, vu la défaite de l’Allemagne et, partant, de toute l’Europe en tant que « grand espace » unifié autour de l’hegemon germanique. Nous ne pouvons plus faire qu’une chose : écrire le « logbook » d’un navire à la dérive sur un monde entièrement « fluidifié » par l’hégémonisme de la grande thalassocratie d’Outre-Atlantique.

Schmitt s’avère catholique dans la mesure où il est partisan d’un pouvoir personnel et personnalisé, incarné, à l’instar de celui des papes, et qu’il est européiste.

Traduction « révolutionnaire-conservatrice » du mythe de l’incarnation

La théologie folciste-catholique (« völkisch-katholisch ») base toutes ses spéculations sur la notion chrétienne d’incarnation, pour laquelle le Christ est « Dieu devenu chair ». Tout homme, dans cette perspective possède une parcelle de divin en lui : il est toutefois libre de la faire valoir —et d’atteindre ainsi la grâce— ou de l’ignorer —et, par voie de conséquence, de refuser la grâce. Mais l’homme n’est pas isolé, il appartient à un peuple, disent les folcistes-catholiques, un peuple qu’il doit servir, car il est écrit que le disciple du Christ doit servir ses prochains. L’Eglise et l’épiscopat, flanqués de leurs théologiens, ont donc tenté de chevaucher le « tigre folciste » exactement comme, après 1945, toute une frange du catholicisme français avait tenté de chevaucher le « tigre communiste » voire, fin des années 60, le « tigre maoïste ». La théologie protestante a suivi des chemins similaires.

1933 : la « Gleichschaltung »

En 1933, avec l’arrivée au pouvoir des nationaux-socialistes, tous sont mis au diapason par la « Gleichschaltung ». Le Tat-Kreis et les éditeurs s’alignent sur le nouveau régime. Les mouvements de jeunesse sont inclus progressivement dans les organisations de jeunesse du parti unique, tout en conservant parfois une réelle autonomie permettant une critique virulente de la hiérarchie du parti ou de la SS, comme l’atteste le cas, très complexe, d’une personnalité comme Werner Haverbeck. Les études de sociologie prennent une tournure plus technique et abandonnent les prémisses des sciences écologiques, que les cercles qualifiables de « révolutionnaires-conservateurs » avaient commencé à aborder, notamment sous l’impulsion d’un discours, d’inspiration « tellurique », tenu par Klages à l’adresse des jeunes du mouvement « Wandervogel » en 1913. Giselher Wirsing, ancien du « Tat-Kreis », a dirigé la fameuse revue « Signal » pendant la seconde guerre mondiale, qui n’était pas inféodée au parti national-socialiste, contrairement à ce que l’on croit généralement. La revue, très moderne dans sa présentation pour l’époque, était européiste, et donc indirectement catholique comme l’était son rédacteur en chef qui dirigera la revue « Christ und Welt » dans les années 50. Elle ne véhiculait aucun nationalisme allemand stricto sensu.

Les tenants de la « révolution conservatrice » se retrouveront dans tous les camps : attentistes, immigration intérieure, émigration, adhésion au national-socialisme, service exclusif au sein des forces armées rétives à l’emprise du parti unique, résistance anti-hitlérienne, etc. Parmi les auteurs de l’attentat du 20 juillet 1944, Schulenburg, ancien ambassadeur du Reich en URSS, avait été un partisan de la bonne entente entre l’Allemagne et l’URSS, dans la perspective inaugurée par le diplomate von Brockdorff-Rantzau après la signature du Traité de Versailles ; Claus von Stauffenberg avait été lié au cercle des « Cosmiques » de Stefan George, rêvant d’une « Allemagne secrète », sublime, esthétique, un peu hiératique ; Hellmut von Moltke, arrêté suite à l’attentat manqué de juillet 1944 et traduit devant le « tribunal du Peuple », a amorcé un débat avec le juge Freissler, ancien communiste : son point de vue est celui d’un personnalisme chrétien, proche de celui défendu par les non-conformistes français des années 30, qui réclame à l’Etat de respecter l’autonomie de la personne responsable et liée à son peuple (et non de l’individu détaché de tout lien social fécond) ; Freissler défend, lui, la collectivité populaire, où la personne n’est rien et où seul compte le « tout », la totalité collective.

Le « Konservativismus » allemand après 1945

Après 1945, les fondements théoriques de la « RC », et leurs applications pratiques, ne disparaissent pas entièrement : seul le vocabulaire trop militant, trop proche de celui des nationaux-socialistes disparaît. La notion de « communauté populaire » soudée et solidaire est remplacée, surtout chez les démocrates chrétiens par l’idée d’« intégralisme », soit d’intégration de tous à la participation politique, sans lutte des classes inutile. Les théoriciens de cet intégralisme démocrate chrétien seront Hans Freyer (directement issu des rangs de la RC), Arnold Gehlen et Rüdiger Altmann (par ailleurs disciple de Carl Schmitt). Les chanceliers Adenauer et Ehrard en feront leur objectif politique, mutatis mutandis.On parlera aussi d’« Etat technique », pour éviter toute connotation idéologique rappelant trop lourdement le passé d’avant 1945. Dans la même foulée, on a tenté de cette façon de rejeter aussi le marxisme idéologique, en cherchant à se concentrer sur les tâches pratiques à réaliser dans un Etat allemand en pleine reconstruction, prélude immédiat au « miracle économique ». La gauche de l’Ecole de Francfort, avec Horkheimer et Adorno, concentre d’ailleurs ses critiques contre la « raison instrumentale » qui sous-tend la pratique de cet « Etat technique ». Alors que la RC était dans une large mesure hostile à l’emprise trop forte de la pensée technomorphe sur la vie politique, ses héritiers embarrassés de la démocratie chrétienne, dans les premières décennies de la République Fédérale, dépouillent leur propos de toutes références organiques ou théologiennes pour adopter un discours moderne, « technocratique », en accusant leurs adversaires socialistes et communistes de faire du passéisme idéologique, toute idéologie de la première moitié du 20ème siècle étant considérée, désormais, comme un reliquat encombrant et inutile, dont il fallait se débarrasser au plus vite. La gauche, elle, renouera avec l’anti-technocratisme de la RC et, même, plus tard, avec l’organicisme écologique quand apparaîtront les Verts sur la scène politique, qui se sépareront très vite des rescapés conservateurs de la pensée écologique, présents lors de la fondation du mouvement écologique actuel, poussant ainsi la famille politique « verte » dans le camp des gauches, ce qui n’était nullement prévu au départ.

Pour Rüdiger Altmann, c’est le « tout » qui doit primer et non les partis ou les parties dans une perspective « ordo-libérale », réhabilitée en France par le saint-simonien Michel Albert au début des années 90. Les événements de mai 68 ont eu pour effet de chasser des chaires universitaires tous les professeurs qui véhiculaient encore, dans leurs cours, des idées issues de la RC, sous des oripeaux technocratiques ou non. Dorénavant, toute forme de conservatisme sera assimilée, et bien souvent à tort, au fascisme ou au nazisme.Pour les gauches militantes et hyper-simplificatrices, dans le sillage d’Adorno, Horkheimer et Marcuse, toute pensée « affirmatrice », et donc posée comme non « critique », est grosse de dérives pouvant ramener, sur la scène politique allemande ou européenne, un nouveau « fascisme ».

Du coup, pour éviter ce reproche, les démocrates chrétiens édulcoreront leur technocratisme affirmateur, embrayeront à leur tour sur les discours néo-moralisants et eudémonistes préconisés par l’Ecole de Francfort ou, en France, par les « nouveaux philosophes ». Dès lors, tous les tenants d’autres discours deviendront en Allemagne des « apatrides politiques » (« politische Heimatlosen »), incapables de s’incruster dans une formation officielle, capable de garder une représentation politique et d’influer sur le devenir de la société. La scène conservatrice a été longtemps animée par le Baron Caspar von Schrenck-Notzing et sa revue « Criticon » (Munich), qui accordait à Armin Mohler 30% de la surface imprimée de la revue pour y exprimer ses visions jüngeriennes/nationales-révolutionnaires, rebaptisées « nouvelle droite » (« Neue Rechte »). De son côté, Bernhard Wintzek publiait en Allemagne du Nord la revue mensuelle « Mut », flanquée d’une petite maison d’édition aux titres excellents. L’historien et théologien protestant Karlheinz Weissmann, les publicistes Götz Kubitscheck et Ellen Kositza ont fondé la revue « Sezession » et les éditions « Antaios » qui poursuivent aujourd’hui l’œuvre de Schrenck-Notzing et de Mohler, hélas trop tôt décédés. Wolfgang Dvorak-Stocker, directeur des éditions « Stocker-Verlag » à Graz en Autriche, édite la revue « Neue Ordnung », tandis que le Dr. Hans-Dieter Sander, bientôt octogénaire, continue d’éditer à Munich sa revue « Staatsbriefe », dans une perspective plutôt « prussienne-nationale ». Les hebdomadaires « Junge Freiheit » (Berlin) et « zur Zeit » (Vienne), grâce à leur parution régulière, assurent une présence fréquente, bien qu’assez ténue, de l’idéologie néo-conservatrice dans le paysage médiatique allemand et autrichien. Avant son décès prématuré, Gerd-Klaus Kaltenbrunner, très actif, a sorti de six à huit volumes de monographies sur des auteurs ou des personnages politiques dont l’œuvre ou la geste méritent d’être retenues pour la postérité et a édité une série de livres collectifs et thématiques intitulée « Herderbücherei Initiative », qui n’a malheureusement pas été poursuivie. L’espace éditorial des « apatrides politiques » de la « droite » ( ?) allemande est prestigieux mais hélas réduit et même de plus en plus réduit, vu le décès de figures exceptionnelles comme Schrenck-Notzing, Mohler ou Kaltenbrunner : c’est aussi la rançon du ressac culturel général que l’Europe connaît aujourd’hui ; l’Allemagne le subit d’autant plus qu’elle est la victime d’une « rééducation » permanente initiée par les autorités occupantes américaines.

Benoît XVI et Peter Koslowski

L’élection l’an passé (2005) du Pape Benoît XVI, alias le Cardinal Joseph Ratzinger, a étonné plus d’un observateur des affaires vaticanes et inquiété les forces de gauche surtout celles qui s’activent fébrilement au sein même du catholicisme. Benoît XVI passe pour un « passéiste », pour un « ultra-conservateur ». Dans son entourage, en Allemagne, il y avait le philosophe Peter Koslowski, exégète remarquable d’Ernst Jünger, critique de toutes les formes de gnose qui rejettent le monde concret, critique également d’une postmodernité qui ne dépasse pas vraiment les lacunes de la modernité ; Koslowski plaide pour une vision de la liberté qui ne soit pas autonomie complète de l’individu isolé mais toujours celle d’une personne en lien avec autrui (« Bindung »). Pour Benoît XVI, la théologie (catholique) doit réhabiliter la cosmologie, réimbriquer l’homme et les sociétés humaines dans le « cosmos », développer un « théo-cosmologie », acceptant les idées chinoises de « tao » et indiennes de « dharma » mais rejetant toutes les formes extrêmes de gnose qui refusent la physis, le monde physique et charnel. Pour Benoît XVI, ces gnoses-là ne sont pas « chrétiennes » car le Dieu des chrétiens est devenu chair, s’est imbriqué dans la physis. Dans un dialogue avec Jürgen Habermas, Benoît XVI, alors encore Cardinal Joseph Ratzinger, rappelle que le citoyen doit obéir aux dirigeants de son pays et, s’il est catholique, ne pas se poser en révolutionnaire mêlant, dans ses discours et revendications, Vatican II et Mai 68. L’objectif que semble se fixer le nouveau pontife romain est de revenir à l’ontologique en l’homme. (PS de 2013 : ce programme initial de Joseph Ratzinger n’a pas pu se concrétiser ; est-ce cet échec qui a justifié sa démission ? Les futurs historiens critiques du Vatican nous l’apprendront…). 

Conclusion

Le filon catholique recèle donc des potentialités, mais uniquement sous l’impulsion de Benoit XVI ou de Peter Koslowski (note de 2013 : ce filon n’a pas pu être exploité, ce qui explique sans doute, pour une part, la démission de Benoît XVI et s’explique aussi par le décès prématuré du Prof. Peter Koslowski en 2012). Cette introduction a pour but de fusionner les traditions françaises et les traditions allemandes en matière de « révolution conservatrice », de montrer qu’elles se sont mutuellement influencées.Elle vise aussi à réhabiliter la notion de « Sozialkonservativismus », arc-boutée sur l’œuvre sociologique et politique de Lorenz von Stein : un « conservatisme », à l’heure du triomphe total du néo-libéralisme, ne saurait défendre un « Etat veilleur de nuit » ni demeurer en marge des nécessités sociales, surtout quand se déploient une nouvelle pauvreté et de nouvelles exclusions, imposées par les forces sous-jacentes et sournoises que Balzac déjà décrivait comme dissolvantes.Ensuite, la nécessité de revenir à « l’ontologique » dans l’homme et de lutter contre les nouvelles formes de gnoses irréalistes sont aussi des axes de combat politiques et métapolitiques qu’il ne faut en aucun cas ignorer, même s’il faut les soustraire à l’emprise de toute machine cléricale ou de tout corset confessionnel.

Robert Steuckers.

(Conférence élaborée à Virton, Arlon et Anvers, mars 2006 ; rédaction finale, novembre 2013).

vendredi, 01 novembre 2013

Ständig gegen den Westen protestierend

 

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Ständig gegen den Westen protestierend
Gemeinsamkeiten von »konservativen Revolutionären« in Deutschland und russischen Slawophilen

Alexander Krassnov

Ex: http://www.deutsche-stimme.de

Der Konservatismus in Deutschland und Rußland weist eine lange Geschichte der Zusammenarbeit und gemeinsamer Traditionen auf. Ungeachtet aller Unterschiede und fatalen Fehler in der Außenpolitik gab es viele Berührungspunkte rechter Denker beider Völker, z.B. der Kampf gegen den Marxismus und Liberalismus als der beiden wirklich extremistischen Strömungen in der Weltpolitik. Dieser Beitrag spürt dem Einfluß des russischen Dichters Fjodor Dostojewski auf die »konservativen Revolutionäre« Arthur Moeller van den Bruck und Oswald Spengler nach.


Zur Einführung sei ein Zitat aus dem zweiten Band von Oswald Spenglers »Der Untergang des Abendlandes« angeführt, das sich völlig mit den Positionen der russischen Slawophilen von damals und heute deckt. Wenn Spengler über Rußland sprach, stellte er stets Lew Tolstoi und Fjodor Dostojewski gegeneinander. Den ersten Dichterdenker hielt er für einen Repräsentanten des europäisierten Rußlands, den zweiten hingegen für einen Vertreter des uralten und zugleich kommenden Volksrußlands.


So formulierte Oswald Spengler: »Tolstoi ist das vergangene, Dostojewski ist das kommende Rußland. Tolstoi ist mit seinem ganzen Inneren mit dem Westen verbunden. (…) Sein mächtiger Haß redet gegen Europa, von dem er selbst sich nicht befreien kann. Er haßt es in sich, er haßt sich. Er wird damit der Vater des Bolschewismus. (…) Diesen Haß kennt Dostojewski nicht. Er hat alles Westliche mit einer ebenso leidenschaftlichen Liebe umfaßt. Seine Seele ist apokalyptisch, sehnsüchtig, verzweifelt, aber dieser Zukunft gewiß. (…)


Tolstoi ist durchaus ein großer Verstand, ,aufgeklärt‘ und ,sozial gesinnt‘. Alles, was er um sich sieht, nimmt die späte, großstädtische und westliche Form des Problems ein. Jener ist ein Ereignis jenseits der europäischen Zivilisation. Er steht in der Mitte zwischen Peter dem Großen und dem Bolschewismus. Die russische Erde haben sie alle nicht zu Gesicht bekommen. Sein (Tolstois) Haß gegen Besitz ist nationalökonomischer, sein Haß gegen die Gesellschaft sozial-ethischer Natur; sein Haß gegen den Staat ist eine politische Theorie. Daher seine gewaltige Wirkung auf den Westen. Er gehörte irgendwie zu Marx, Ibsen und Zola. Seine Werke sind nicht Evangelien, sondern späte geistige Literatur.


Dostojewski gehört zu niemand, wenn nicht zu den Aposteln des Urchristentums. Dostojewski lebt schon in der Wirklichkeit einer unmittelbar bevorstehenden religiösen Schöpfung. (…) Dostojewski ist ein Heiliger, Tolstoi ist nur Revolutionär. Von ihm allein, dem echten Nachfolger Peters, geht der Bolschewismus aus: nicht das Gegenteil, sondern die letzte Konsequenz des Petrinismus (…) Das Christentum Tolstois war ein Mißverständnis. Er sprach von Christus und meinte Marx. Dem Christentum Dostojewskis gehört das nächste Jahrtausend.«


Diese tiefgründige Gegenüberstellung von Tolstoi und Dostojewski wirft die Frage auf: Woher hat ein deutscher Denker, der ein so fulminantes Werk über den Untergang der abendländischen Zivilisation geschaffen hat, solch eine »slawophilen-übliche« Einstellung zu diesem Problem?


Eine Erklärung: Anfang des 20. Jahrhunderts wurden in Deutschland die Werke des Dichters Fjodor Dostojewski geistig entdeckt. Einen entscheidenden Beitrag dazu leistete der herausragende konservativ-revolutionäre Denker Arthur Moeller van den Bruck sowie das Ehepaar Mereschkowski. Dem Ideenkreis der konservativen Revolutionäre gehörte auch Oswald Spengler an. Nicht zuletzt unter dem Einfluß von Dostojewski schrieb Moeller van den Bruck sein berühmtestes Werk »Das dritte Reich« (1923), das zu einem Katechismus der Konservativen Revolution wurde.


Die Idee eines  dritten Reiches


Man sollte auch erwähnen, daß die Vision Moellers vom dritten Reich eine bestimmte Verbindung mit den Ideen des russischen Intellektuellen Dimitri Mereschkowski aufwies. Bereits im Jahre 1903 schuf Mereschkowski sein kritisches Werk »Lew Tolstoi und Dostojewski«. Neben einer Analyse des Schaffens und der ethischen Konzepte beider Denker entwickelte er dort seine Vorstellung einer neuen christlichen Besinnung. Das historische Christentum habe in der Religion zu stark das Geistige betont, was zu einer Vernachlässigung des Materiellen geführt habe. Seine Lehre bezeichnete Mereschkowski als »mystischen Materialismus« und plädierte für eine mystische Einigung des Geistigen und des Materiellen. Die Weltgeschichte faßte er dabei im Sinne Hegels als eine dialektische Dreiheit auf, wobei er das Heidentum für eine These und das Christentum für eine Antithese hielt. Anfang des 20. Jahrhunderts sollte es nach seiner Meinung zu einer Synthese kommen, deren Realisierung er als eine Art »Drittes Testament« verstand. Das Dritte Testament hielt Mereschkowski für ein neues Religionszeitalter im Leben der ganzen Menschheit.


In seinem Werk schuf Moeller van den Bruck eine ähnliche Triade im Bereich der Politik; er träumte von einem neuen politischen System ohne Linke und ohne Rechte, in dem die Idee des Reiches und die Idee des Menschen verknüpft wären.


In diesem Zusammenhang ist zu betonen, daß die konservativen Revolutionäre in Deutschland eine allgemein positive Einstellung zu Rußland hatten. Ihre russenfreundlichen Aussagen zeugen davon, daß sie im geistigen Leben Rußlands das erraten zu haben glaubten, was wohl keine Umsetzung ihrer Ideale in der Gegenwart verkörperte, aber eine Umsetzung in der Zukunft versprach. Rußlandfreundliche Stimmungen waren in den entsprechenden Denkzirkeln weitverbreitet und beständig, und es läßt sich dies für eines der Hauptmerkmale des revolutionären Konservatismus in Deutschland halten.


Anfang des 20. Jahrhunderts nahm der kulturelle Dialog einen besonderen Platz im deutsch-russischen Verhältnis ein. Es war eine Zeit gewaltiger Wandlungen in allen Bereichen des menschlichen Lebens und der Umwertung der Werte in beiden Richtungen. Deshalb ist es kein Zufall, daß viele Vertreter der Konservativen Revolution – neben Moeller van den Bruck und Oswald Spengler auch der frühe Thomas Mann – in ihrem Schaffen einen großen Einfluß russischer Kultur und Literatur, in erster Linie von Dostojewski, verraten. Dank Fjodor Dostojewski kehrten nach Deutschland die Ideen zurück, die einst die Slawophilen von den deutschen Romantikern geerbt hatten. Viele deutsche Konservative, wie z.B. Thomas Mann, haben die antiwestlichen Ideen Dostojewskis ausgedeutet und von Deutschland als von einem Staat geschrieben, der ständig gegen den Westen und dessen Nihilismus protestiert.


Die Publizistik Moellers war von seinem kulturellen und politischen Interesse an den östlichen Nachbarstaaten geprägt. Dieses Interesse hatte mehrere Wurzeln, darunter die außenpolitischen Traditionen Preußens im 19. Jahrhundert sowie die Entgegensetzung der lebendigen Kultur des Ostens und der sterbenden Zivilisation des Westens in den Werken deutscher Kulturphilosophen.


Wenn Moeller über seine Faszination von Dostojewski sprach, redete er ständig über die Jugend des Russentums, das die Kontakte mit seinen Ursprüngen noch nicht verloren habe und voll von schöpferischen Kräften sei. Moellers Propagierung des russischen Genies führte dazu, daß in Deutschland eine Art Dostojewski-Kult entstand. Er beließ es aber nicht bei der Herausgabe der Werke des Russen, sondern interpretierte sie samt der geheimnisvollen russischen Seele. Dies war naheliegend, da Dostojewskis Werke um scharfe Fragen der Freiheit und des Willens, der Gewalt und des Rechtes, des Guten und des Bösen in enger Verbindung mit dem russischen Inneren kreisten. In der Tiefe der russischen Seele erblickte der konservative Revolutionär Spuren einer ständigen Konfrontation mit dem westlichen Einfluß. Russische Literatur widerspiegelte für ihn alles Ursprüngliche, Reingehaltene und Fremde im Gegensatz zur entfremdeten und sterilen Lebenswelt des Westens.


Der Verfasser des »Dritten Reiches« sah in Dostojewskis Werken »die Beschreibung des Lebens, das wir gestern gelebt haben (…) Die von Dostojewski dargestellten Leute sind russische Leute. Aber wir erraten an ihnen vieles von uns selbst.« In diesem Sinne war der russische Schriftsteller ein echter Lehrer für den deutschen konservativen Denker. Moeller van den Bruck, der geistige Leitstern des legendären Juni-Klubs, lernte von dem Russen in erster Linie, an die große Mission seines Volkes zu glauben und dieses als größten Wert zu betrachten.


Absage an westliche »Werte«


Besonders anziehend wirkte an Dostojewski stets seine Ablehnung hohler westlicher »Werte«. Auch Moeller war von der Überzeugung durchdrungen, im Westen sterbe der Volksgeist und das organische Ganze des Volkes. Er behauptete, daß es den Deutschen an russischer Geistigkeit fehle, die Deutschland als Antithese gegen den Westen brauche. Aus Dostojewskis Erbe speiste sich auch die Wahrnehmung Deutschlands als eines stets gegen den Westen protestierenden Landes sowie die Idee der jungen Völker, welche die alten Nationen Europas herausfordern. Die Vorstellung der Slawophilen von der Jugend slawischer Völker verwandelte sich in Moellers Publizistik in die der Jugend des deutschen Volkes. Dabei kritisierte dieser wie die Slawophilen die westlichen »Werte« von Rationalismus, Individualismus und Materialismus. Solche Gegenüberstellung war eine Art kulturkritische Abstraktion des Gegensatzes von Westen und Osten.


Es sei auch erwähnt, daß der Weg Dostojewskis zu den Herzen deutscher Leser gar nicht leicht war. Das Interesse erreichte seinen Höhepunkt, als die Prozesse der gesellschaftlichen Modernisierung in Deutschland immer gewaltiger und schneller wurden. Eine ganze Generation deutscher Neuromantiker nahm den Mystiker aus dem Osten begeistert auf. Seitdem war das Thema Rußland immer häufiger in Kreisen deutscher Intellektueller zu finden. Stephan Zweig sagte zum Beispiel: »Nur über einen deutschen Dostojewski kann die Welt zum russischen Original kommen.« Viele deutsche Schriftsteller – genannt seien nur Friedrich Nietzsche, Rainer Maria Rilke, Thomas Mann, Hermann Hesse – bezeichneten die Werke Dostojewskis als die gewaltigste Erfahrung, die ihr Schaffen geprägt habe. Der Kulturphilosoph Oswald Spengler begann sogar unter dem Einfluß seiner Romane die russische Sprache zu lernen.


Nach dem Ersten Weltkrieg wurden die Gedanken des Russen über die Rettung Europas durch junge Völker und über Deutschland als ständig gegen den Westen protestierendes Land zu einem der Hauptthemen konservativer deutscher Denker.


Der Einfluß von Dostojewskis russischem Messianismus im Hinblick auf das europäisierte Rußland läßt sich in den Werken Oswald Spenglers und des Panslawisten Nikolaj Danilewski ausmachen. Spenglers Gedanken zu der Pseudomorphose Rußlands unter Peter dem Großen ähneln der Kritik Danilewskis am »Europawahnsinn«, die er in seinem Werk »Rußland und Europa« an die Adresse der russischen Oberschicht richtete. Spengler benannte das Problem so: »Eine zweite Pseudomorphose liegt heute vor unseren Augen: das petrinische Rußland. (…) Auf diese Moskowiterzeit der großen Bojarengeschlechter und Patriarchen, in der beständig eine altrussische Partei gegen die Freunde westlicher Kultur kämpfte, folgt mit der Gründung von Petersburg (1703) die Pseudomorphose, welche die primitive russische Seele erst in die fremden Formen des hohen Barock, dann der Aufklärung, dann des 19. Jahrhunderts zwang. Peter der Große ist das Verhängnis des Russentums geworden. (…)


Der primitive Zarismus von Moskau ist die einzige Form, welche noch heute dem Russentum gemäß ist, aber er ist in Petersburg in die dynastische Form Westeuropas umgefälscht worden. Der Zug nach dem heiligen Süden, nach Byzanz und Jerusalem, der tief in allen rechtgläubigen Seelen lag, wurde in eine weltmännische Diplomatie mit dem Blick nach Westen verwandelt. (…) Ein Volkstum (dessen Bestimmung es war, noch auf Generationen hin geschichtslos zu leben,) wurde in eine künstliche und unechte Geschichte gezwängt, deren Geist vom Urrussentum gar nicht begriffen werden konnte.«


In der Schrift »Preußentum und Sozialismus« ging Spengler – ganz im Sinne der Slawophilen – mit dem »Europawahnsinn« der russischen Oberschicht ins Gericht: »Dies kindlich dumpfe und ahnungsschwere Russentum ist nun von Europa aus durch die aufgezwungenen Formen einer bereits männlich vollendeten, fremden und herrischen Kultur gequält, verstört, verwundet und vergiftet worden. Städte von unserer Art, mit dem Anspruch unserer geistigen Haltung, wurden in das Fleisch dieses Volkstums gebohrt, überreife Denkwesen, Lebensansichten, Staatsideen, Wissenschaften dem unentwickelten Bewußtsein eingeimpft.


Um 1700 drängt Peter der Große dem Volk den politischen Barockstil, Kabinettdiplomatie, Hausmachtpolitik, Verwaltung und Heer nach westlichem Muster auf; um 1800 kommen die diesen Menschen ganz unverständlich englischen Ideen in der Fassung französischer Schriftsteller herüber, um die Köpfe der dünnen Oberschicht zu verwirren; noch vor 1900 führen die Büchernarren der russischen Intelligenz den Marxismus, ein äußerst kompliziertes Produkt westeuropäischer Dialektik, ein, von dessen Hintergründen sie nicht den geringsten Begriff haben. Peter der Große hat das echt russische Zarentum zu einer Großmacht im westlichen Staatssystem umgeformt und damit seine natürliche Entwicklung verdorben, und die Intelligenz, selbst ein Stück des in diesen fremdartigen Städten verdorbenen echt russischen Geistes, verzerrte das primitive Denken des Landes mit seiner dunklen Sehnsucht nach eigenen, in ferner Zukunft liegenden Gestaltungen wie dem Gemeinbesitz von Grund und Boden zu kindischen und leeren Theorien im Geschmack französischer Berufsrevolutionäre.


Petrinismus und Bolschewismus haben gleich sinnlos und verhängnisvoll mißverstandene Schöpfungen des Westens, wie den Hof von Versailles und die Kommune von Paris, dank der unendlichen russischen Demut und Opferfreude in starke Wirklichkeiten umgesetzt.«


Auch in »Preußentum und Sozialismus« wurde der abendländischen Welt die russische entgegengesetzt, und damit die kommende, noch schwer begreifbare Kultur des Ostens positiv von dem in die bloße Zivilisation absinkenden Westen abgesetzt: »Ich habe bis jetzt von Rußland geschwiegen; mit Absicht, denn hier trennen sich nicht zwei Völker, sondern zwei Welten. Die Russen sind überhaupt kein Volk wie das deutsche und englische, sie enthalten die Möglichkeiten vieler Völker der Zukunft in sich, wie die Germanen der Karolingerzeit. Das Russentum ist das Versprechen einer kommenden Kultur, während die Abendschatten über dem Westen länger und länger werden. Die Scheidung zwischen dem russischen und abendländischen Geist kann nicht scharf genug vollzogen werden. Mag der seelische und also der religiöse, politische, wirtschaftliche Gegensatz zwischen Engländern, Deutschen, Amerikanern, Franzosen noch so tief sein, im Vergleich zum Russentum rücken sie sofort zu einer geschlossenen Welt zusammen.«


Spengler war sich sicher, daß das untergehende Abendland durch ein junges Rußland abgelöst werde, obgleich seine mentalen und geographischen Umrisse für ihn noch unklar waren. Er glaubte fest daran, daß europäische Institutionen wie Kapitalismus und Bolschewismus bald an der russischen Kultur zugrundegehen würden.


Diese Hoffnung auf Rettung des je Eigenen gegen die Nivellierungsmacht der westlichen Zivilisation verband die konservativen Revolutionäre in Deutschland mit den Slawophilen in Rußland – eine Ideenverbindung, die heute nötiger denn je ist, um die westlichen Demokraturen geschichtlich entsorgen zu können. Denn wie formulierte der Nationalbolschewist Ernst Niekisch in seinem Beitrag »Revolutionäre Politik« (1926) zeitlos: »Westlerisch sein heißt: mit der Phrase der Freiheit auf Betrug ausgehen, mit dem Bekenntnis zur Menschlichkeit Verbrechen in die Wege leiten, mit dem Aufruf zur Völkerversöhnung Völker zugrunderichten.«

Alexander Krassnov

mercredi, 30 octobre 2013

Munich ou Athènes-sur-l’Isar: ville de culture et matrice d’idées conservatrices-révolutionnaires

 

 

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Robert STEUCKERS:

Munich ou Athènes-sur-l’Isar: ville de culture et matrice d’idées conservatrices-révolutionnaires

Conférence prononcée à Vlotho im Wesergebirge, université d’été de “Synergies Européennes”, 2002

Cette conférence est la recension des premiers chapitres de:

David Clay Large, Hitlers München – Aufstieg und Fall der Hauptstadt der Bewegung, C. H. Beck, Munich, 1998.

koenig_ludwig_i_von_bayern.jpgLe passé de Munich, capitale bavaroise, est marqué par la volonté culturelle de ses rois. Il y a d’abord eu Louis I, qui règne de 1825 à 1848. Ce monarque, quand il était prince héritier, a fait le voyage en Italie, en 1817-1818: il a été, comme beaucoup d’Allemands, fasciné par l’urbanisme traditionnel des villes de la péninsule et veut faire de Munich, sa “Residenzstadt”, un centre culturel allemand incontournable, au service d’une véritable renaissance culturelle qui a, cette fois, pour point de départ, l’espace germanophone du centre de l’Europe. Pour embellir la “ville de résidence”, il fait appel à des architectes comme Leo von Klenze et Friedrich von Gärtner, tous deux appartenant à l’école dite “classique”, renouant avec les canons grecs et romains de l’antiquité, ceux de Vitruve. En épousant la cantatrice espagnole Lola Montez, il se heurte à la bourgeoisie philistine de la ville, hostile aux dépenses de prestige voulues par le roi et qui prend le prétexte de ce mariage avec une roturière étrangère, pour manifester sa désapprobation à l’endroit de la politique royale et du mécénat pratiqué par le monarque. Ce mariage donnera lieu à quantité de ragots irrévérencieux, censés saborder l’autorité de ce monarque tourné vers les arts.

De Maximilien II au Prince-Régent Luitpold

Prinzregent_Luitpold_von_Bayern_1911_Dittmar.pngSon successeur sur le trône bavarois, Maximilien II, règnera de 1848 à 1864. En dépit des cabales menées contre son père, il poursuivra l’oeuvre de ce dernier, ajoutant au classicisme une touche de futurisme, en faisant construire un palais des glaces (de fer et de verre) comme celui de Londres, prélude à une architecture différente qui ne table plus uniquement sur la pierre comme matériau de construction. Maximilien II attire des savants d’Allemagne du Nord à Munich, qui ne sont évidemment pas des Bavarois de souche: on parlera alors des “Nordlichter”, des “Lumières du Nord”. Louis II, qui règne de 1864 à 1886, prônera une nouvelle architecture romantique, inspirée par les opéras de Wagner, par le moyen âge, riche en ornementations. On connaît ses châteaux, dont celui, merveilleux, de Neuschwanstein. Cette politique se heurte également à une bourgeoisie philistine, insensible à toute forme de beauté. Après Louis II, après sa mort étrange, le Prince-Régent Luitpold, aimé du peuple, préconise une industrialisation et une urbanisation de la Bavière. Munich connaît alors une évolution semblable à celle de Bruxelles: en 1800, la capitale bavaroise comptait 34.000 habitants; en 1880, elle en avait 230.000; en 1910, 596.000. Pour la capitale belge, les chiffres sont à peu près les mêmes. Mais cette industrialisation/urbanisation provoque des déséquilibres que la Bavière ne connaissait pas auparavant. D’abord il y a l’ensauvagement des moeurs: si la liaison entre Louis I et Lola Montez avait fait scandale, alors qu’elle était toute romantique et innocente, les trottoirs de la ville sont désormais livrés à une prostitution hétérosexuelle et homosexuelle qui n’épargne pas les mineurs d’âge. Il y a ensuite les mutations politiques qu’entraîne le double phénomène moderne de l’industrialisation et de l’urbanisation: les forces politiques conservatrices et catholiques, qui avaient tenu le haut du pavé avant l’avènement du Prince-Régent Luitpold, sont remises en question par la bourgeoisie libérale (déjà hostile aux rois mécènes) et par le prolétariat.

Bipolarisme politique

Un bipolarisme politique voit le jour dans la seconde moitié du 19ème siècle avec, d’une part, le “Patriotenpartei”, fondé en 1868, rassemblant les forces conservatrices catholiques, hostiles à la Prusse protestante et au “Kulturkampf” anti-clérical lancé par le Chancelier Bismarck. Pour les “Patrioten”, l’identité bavaroise est catholique et conservatrice. Les autres idées, importées, sont nuisibles. Face à ce rassemblement conservateur et religieux se dresse, d’autre part, le “parti social-démocrate”, fondé en 1869, qui parvient à rassembler 14% des suffrages à Munich lors des élections de 1878. Le chef de file des sociaux-démocrates, Georg von Vollmar, n’est pas un extrémiste: il s’oppose à tout dogmatisme idéologique et se profile comme un réformiste pragmatique. Cette politique paie: en 1890, les socialistes modérés et réformistes obtiennent la majorité à Munich. La ville est donc devenue rouge dans un environnement rural et semi-rural bavarois majoritairement conservateur et catholique. Cette mutation du paysage politique bavarois s’effectue sur fond d’un antisémitisme ambiant, qui n’épargne que quelques vieilles familles israélites, dont celle du mécène Alfred Pringsheim. Les Juifs, dans l’optique de cet antisémitisme bavarois, sont considérés comme les vecteurs d’une urbanisation sauvage qui a provoqué l’effondrement des bonnes moeurs; on les accuse, notamment dans les colonnes d’une feuille populaire intitulée “Grobian”, de spéculer dans le secteur immobilier et d’être les “produits collatéraux” du progrès, notamment du “progrès automobile”. Cet antisémitisme provoque une rupture au sein des forces conservatrices, suite à la fondation en 1891 d’un nouveau mouvement politique, le “Deutsch-Sozialer Verein” ou DSV, sous la houlette de Viktor Hugo Welcker qui, armé de quelques arguments tirés de cet antisémitisme, entame une campagne sociale et populaire contre les grands magasins, les agences immobilières et les chaînes de petits commerces en franchise, dont les tenanciers ne sont pas les véritables propriétaires de leur boutique.

Les pangermanistes

A l’émergence du DSV s’ajoute celle des cercles pangermanistes (“Alldeutscher Verband”) qui véhiculent également une forme d’antisémitisme mais sont constitués en majorité de protestants d’origine nord-allemande installés en Bavière et hostiles au catholicisme sociologique bavarois qu’ils jugent “rétrograde”. Les pangermanistes vont dès lors s’opposer à ce particularisme catholique bavarois et, par voie de conséquence, au “Patriotenpartei”. Pour les pangermanistes, la Bavière doit se détacher de l’Autriche et de la Bohème majoritairement tchèque, parce que celles-ci ne sont pas “purement allemandes”. Dans une seconde phase, les pangermanistes vont articuler dans la société bavaroise un anti-christianisme sous l’impulsion de l’éditeur Julius Friedrich Lehmann. Pour ce dernier et pour les théoriciens qui lui sont proches, une lutte systématique et efficace contre le christianisme permettrait aux Allemands de mieux résister à l’emprise du judaïsme ou, quand cet anti-christianisme n’est qu’anti-confessionnel et ne touche pas à la personne du Christ, de faire éclore une “chrétienté germanique” mâtinée d’éléments de paganisme. Cette attitude du mouvement pangermaniste en Bavière ou en Autriche s’explique partiellement par le fait que la hiérarchie catholique avait tendance à soutenir les populations rurales slaves de Bohème, de Slovénie ou de Croatie, plus pieuses et souvent plus prolifiques sur le plan démographique. Les protestants “germanisés” dans le cadre du pangermanisme affirmaient que l’Allemagne et la Bavière avaient besoin d’un “nouveau Luther”.

Le contre-monde de Schwabing

Telle était donc la scène politique qui animait la Bavière dans les deux décennies qui ont précédé la première guerre mondiale. Deuxième question de notre exposé aujourd’hui: comment le choc des visions du monde (car c’est bien de cela qu’il s’agit) s’est-il manifesté à Munich au sein de la bohème littéraire, productrice d’oeuvres qui nous interpellent encore et toujours? Cette bohème littéraire a, de fait, généré un contre-monde libre-penseur, débarrassé du fardeau des “tu dois”, propre au chameau de la fable de Nietzsche, un contre-monde qui devait s’opposer aux raideurs du wilhelminisme prussien. On peut dire aujourd’hui que la bohème munichoise était une sorte d’extra-territorialité, installée dans les cafés à la mode du faubourg de Schwabing. Les “Schwabinger” vont remplacer les “Nordlichter” en préconisant une sorte de “laisser-aller joyeux et sensuel” (“sinnenfrohe Schlamperei”) contre les “ours lourdauds en leur cerveau” (“bärenhaft dumpf im Gehirn”). Cette volonté de rendre l’humanité allemande plus joyeuse et plus sensuelle va amorcer un combat contre les étroitesses de la religion (tant catholique que protestante), va refuser les rigidités de l’Etat (et du militarisme prussien), va critiquer la domination de plus en plus patente de la technique et de l’argent (en déployant, à ce niveau-là, une nouvelle forme d’antisémitisme antimoderne). Les “Schwabinger”, dans leurs critiques, vont englober éléments de droite et de gauche.

Le 18 décembre 1890 est le jour de la fondation de la “Gesellschaft für modernes Leben” (“Société pour la vie moderne”), une association animée par Michael Georg Conrad (très hostile aux catholiques), Otto Julius Bierbaum, Julius Schaumberger, Hanns von Gumppenberg. Pour Conrad, qu’admirait Arthur Moeller van den Bruck, la tâche principale de la littérature est “d’abattre les vaches sacrées” (tâche encore plus urgente aujourd’hui!). Conrad s’attaquera à la personnalité de l’Empereur Guillaume II, “le monarque qui n’a pas le temps”, lui reprochant sa frénésie à voyager partout dans le monde, à sacrifier au culte de la mobilité fébrile propre à la Belle Epoque. Conrad sera plusieurs fois condamné pour “crime de lèse-majesté” et subira même un internement de deux mois en forteresse. Mais cet irrévérencieux n’est pas ce que nous appelerions aujourd’hui un “gauchiste”. Il s’oppose avec virulence à l’emprise sur Munich de la SPD sociale-démocrate et de son idéologie de la lutte des classes. Conrad veut une réconciliation des masses et de la monarchie, en dépit des insuffisances actuelles et conjoncturelles du wilhelminisme. Pour lui, les socialistes et les ultramontains sont à mettre dans le même sac car ces deux forces politiques ont pour objectif de détruire “l’esprit national”, lequel n’est nullement “bigot”, “bourgeois” au sens de “Biedermeier” mais, au contraire, doit s’affirmer comme insolent (“frech”) et moqueur (“pfiffig”). L’Allemand de demain doit être, selon Conrad, “uilenspiegelien” (la mère de Charles De Coster était munichoise!) et opposer aux établis coincés le cortège de ses frasques et de ses farces. La littérature a dès lors pour but de “libérer la culture allemande de tout fatras poussiéreux” (“Die deutsche Kultur von allem Angestaubten zu befreien”). L’art est l’arme par excellence de ce combat métapolitique.

Insolence et moqueries

panizza.jpgInsolence et moqueries dans ce combat métapolitique de libération nationale seront incarnées par Oskar Panizza (1853-1921), psychiatre et médecin militaire, auteur de pièces de théâtre et de poèmes. Panizza s’insurge contre le moralisme étouffant de son époque, héritage du formatage chrétien. Pour lui, la sensualité (souvent hyper-sexualisée) est la force motrice de la littérature et de l’art, par voie de conséquence, le moralisme ambiant est totalement incompatible avec le génie littéraire. Panizza consigne ces visions peu conventionnelles (mais dérivées d’une certaine psychanalyse) et blasphématoires dans une série d’écrits et de conférences visant à détruire l’image édulcorée que les piétistes se faisait de l’histoire de la littérature allemande. Dans une pièce de théâtre, “Das Liebeskonzil”, il se moque du mythe chrétien de la Sainte Famille, ce qui lui vaut une condamnation à un an de prison pour atteinte aux bonnes moeurs et aux sentiments religieux: c’est la peine la plus sévère prononcée dans l’Allemagne wilhelminienne à l’encontre d’un auteur. Une certaine gauche spontanéiste, dans le sillage de mai 68, a tenté de récupérer Oskar Panizza mais n’a jamais pu annexer son antisémitisme affiché, de facture pansexualiste et délirante. Panizza, en effet, voyait le judaïsme, et le catholicisme figé, pharisaïque, qui en découlait, comme une source de l’anti-vitalisme dominant en Europe qui conduit, affirmait-il avec l’autorité du médecin-psychiatre, à l’affadissement des âmes et à la perversité sexuelle. Ses tribulations, jugées scandaleuses, le conduisent à un exil suisse puis français afin d’échapper à une condamnation en Allemagne pour lèse-majesté. En 1904, pour se soustraire au jugement qui allait immanquablement le condamner, il sort nu dans la rue, est arrêté, considéré comme fou et interné dans un asile psychatrique, où il mourra en 1921.

Le “Simplicissimus”

simplicissimus2.jpegEn 1896 se crée à Munich la fameuse revue satirique “Simplicissimus” qui, d’emblée, se donne pour tâche de lutter contre toutes les formes de puritanisme, contre le culte des parades et de la gloriole propre au wilhelminisme, contre la prussianisation de l’Allemagne du Sud (“Simplicissimus” lutte à la fois contre le prussianisme et le catholicisme, la Prusse étant perçue comme un “Etat rationnel”, trop sérieux et donc “ennemi de la Vie”), contre le passéisme bigot et rural de la Bavière. On peut dès lors constater que la revue joue sur un éventail d’éléments culturels et politiques présents en Bavière depuis les années 70 du 19ème siècle. Le symbole de la revue est un “bouledogue rouge”, dont les dents symbolisent l’humour agressif et le mordant satirique que la revue veut incarner. Le mot d’ordre des fondateurs du “Simplicissimus” est donc “bissig sein”, “être mordant”. Cette attitude, prêtée au bouledogue rouge, veut faire comprendre au public que la revue n’adoptera pas le ton des prêcheurs moralistes, qu’elle n’entend pas répéter inlassablement des modes de pensée fixes et inaltérables, tous signes patents d’une “mort spirituelle”. En effet, selon Dilthey (puis selon l’heideggerien Hans Jonas), on ne peut définir une chose que si elle est complètement morte, donc incapable de produire du nouveau, par l’effet de sa vitalité, même atténuée.

L’homme qui se profile derrière la revue “Simplicissimus”, en abrégé “Der Simpl’”, est Albert Langen (fondateur d’une maison d’édition qui existe toujours sous le nom de “Langen-Müller”). Il est alors âgé de 27 ans. Il rejette le wilhelminisme comme David Herbert Lawrence rejetait le victorianisme en Angleterre ou August Strindberg l’oscarisme en Suède. Cette position anti-wilhelminienne ne participe pas d’une hostilité au patriotisme allemand: au contraire, Albert Langen veut, pour la nation, contribuer à faire éclore des idéaux combattifs, finalement assez agressifs. Les modèles dont il s’inspire pour sa revue sont français car en France existe une sorte de “métapolitique satirique”, incarnée, entre autres initiatives, par le “Gil Blas illustré”. Pour confectionner le pendant allemand de cette presse parisienne irrévérencieuse, Langen recrute Ludwig Thoma, virtuose des injures verbales, comme le seront aussi un Léon Daudet en France ou un Léon Degrelle en Belgique; ensuite l’Israélite Thomas Theodor Heine, excellent caricaturiste qui fustigeait les philistins, les ploutocrates, les fonctionnaires et les officiers. Le dramaturge Frank Wedekind se joint au groupe rédactionnel pour railler les hypocrisies de la société moderne, industrialisée et urbanisée. Langen, Heine et Wedekind finissent par être, à leur tour, poursuivis pour crime de lèse-majesté. Langen s’exile à Paris. Heine écope de six mois de prison et Wedekind de sept mois. Du coup, la revue, qui tirait à 15.000 exemplaires, peut passer à un tirage de 85.000.

Pour une armée nouvelle

simplicissimus.jpgLes moqueries adressées à la personne de l’Empereur ne signifient pas que nos trois auteurs niaient la nécessité d’une autorité monarchique ou impériale. Au contraire, leur objectif est de rétablir l’autorité de l’Etat face à un monarque qui est “pose plutôt que substance”, attitude risible, estiment-ils, qui s’avère dangereuse pour la substance politique du IIème Reich. Les poses et les parades du wilhelminisme sont la preuve, disaient-ils, d’une immaturité politique dangereuse face à l’étranger, plus équilibré et moins théâtral dans ses affirmations. S’ils critiquaient la caste des officiers modernes, recrutés hors des catégories sociales paysannes et aristocratiques traditionnellement pourvoyeuses de bons soldats, c’est parce que ces nouveaux officiers modernes étaient brutaux et froids et non plus sévères et paternels: nos auteurs plaident pour une armée efficace, soudée, capable de prester les tâches qu’on réclame d’elle. De même, notre trio du “Simpl’”, derrière leurs satires, réclament une meilleure formation technique de la troupe et fustigent l’anti-militarisme des sociaux-démocrates.

Sur le plan géopolitique, la revue “Simplicissimus” a fait preuve de clairvoyance. En 1903, elle réclame une attitude allemande plus hostile aux Etats-Unis, qui viennent en 1898 d’arracher à l’Espagne les Philippines et ses possessions dans les Caraïbes, l’Allemagne héritant de la Micronésie pacifique auparavant hispanique. L’Allemagne et l’Europe, affirmaient-ils, doivent trouver une réponse adéquate à la Doctrine de Monroe, qui vise à interdire le Nouveau Monde aux vieilles puissances européennes et à une politique agressive de Washington qui chasse les Européens du Pacifique, en ne tenant donc plus compte du principe de Monroe, “l’Amérique aux Américains”. Le “Simpl’” adopte ensuite une attitude favorable au peuple boer en lutte contre l’impérialisme britannique. Il est plus souple à l’égard de la France (qui avait offert l’asile politique à Langen). Il est en revanche hostile à la Russie, alliée traditionnelle de la Prusse.

Les cabarets

439976_Die-Elf-Scharfrichter-The-Eleven-Executioners.jpgA côté du “Simplicissimus”, le Munich de la première décennie du 20ème siècle voit naître le cabaret “Die Elf Scharfrichter” (“Les onze bourreaux”) qui marquera durablement la chronique entre 1901 et 1903. Ce cabaret, lui aussi, se réfère à des modèles étrangers ou non bavarois: “Le chat noir” de Paris, “Il quatre cats” de Barcelone, le “Bat” de Moscou et l’“Überbrettl” de Berlin. Les inspirateurs français de ce cabaret munichois étaient Marc Henry et Achille Georges d’Ailly-Vaucheret. Mais Berlinois et Bavarois appliquent les stratégies du rire et de l’arrachage des masques préconisées par Nietzsche. En effet, la référence au comique, à l’ironie et au rire chez Nietzsche est évidente: des auteurs contemporains comme Alexis Philonenko ou Jenny Gehrs nous rappellent l’importance critique de ce rire nietzschéen, antidote précieux contre les routines, les ritournelles des conformistes et des pharisiens puis, aujourd’hui, contre la critique aigre et inféconde lancée par l’Ecole de Francfort et Jürgen Habermas. Jenny Gehrs démontre que les cabarets et leur pratique de la satire sont étroitement liés aux formes de critique que suggérait Nietzsche: pour celui-ci, l’ironie déconstruit et détruit les systèmes de valeurs et les modes de pensée qui figent et décomposent par leurs raideurs et leur incapacité vitale à produire de la nouveauté féconde. L’ironie est alors expression de la joie de vivre, de la légèreté d’âme, ce qui n’induit pas une absence de sériosité car le comique, l’ironie et la satire sont les seules voies possibles pour échapper à l’ère du nihilisme, les raideurs, rigidités, pesanteurs ne produisant que “nihil”, tout comme le “politiquement correct” et les conventions idéologiques de notre temps ne produisent aucune pensée féconde, aucune pensée capable de sortir des ornières où l’idéologie et les praxis dominantes se sont enlisées. La pratique de l’ironie implique d’adopter une pensée radicale complètement dépourvue d’indulgence pour les conventions établies qui mutilent et ankylosent les âmes. L’art, pour nos contestataires munichois comme pour Jenny Gehrs, est le moyen qu’il faut déployer pour détruire les raideurs et les rigidités qui mènent le monde à la mort spirituelle. Alexis Philonenko rappelle que sans le rire, propre de l’homme selon Bergson, les sociétés basculent à nouveau dans l’animalité et ruinent les ressorts et les matrices de leur propre culture de base. Si ne règnent que des constructions idéalisées (par les médiacrates par exemple) ou posées comme indépassables ou éternelles, comme celle de la pensée unique, de la bien-pensance ou du “politiquement correct”, le monde sombrera dans la mélancolie, signe du nihilisme et du déclin de l’homme européen. Dans ce cas, il n’y a déjà plus de perspectives innovantes, plus aucune possibilité de faire valoir nuances ou diversités. Le monde devient gris et terne. Pour nos cabaretistes munichois, le wilhelminisme était une praxis politique dominante qui annonçait déjà ce monde gris à venir, où l’homme ne serait plus qu’un pantins aux gestes répétitifs. Il fallait réagir à temps, imméditement, pour que la grisaille envahissante ne dépasse pas la première petite étape de son oeuvre de “monotonisation”.

Franziska zu Reventlow

revenpor.jpgFranziska zu Reventlow est la figure féminine qui opère la jonction entre ce Schwabing anarchisant et la “révolution conservatrice” proprement dite, parce qu’elle a surtout fréquenté le cercle des Cosmiques autour de Stefan George, où se manifestaient également deux esprits profonds, Alfred Schuler et Ludwig Klages, dont la pensée n’a pas encore été entièrement exploitée jusqu’ici en tous ses possibles. David Clay Large définit la vision du monde de Franziska zu Reventlow comme “un curieux mélange d’idées progressistes et réactionnaires”. Surnommée la “Reine de Schwabing”, elle est originaire d’Allemagne du Nord, de Lübeck, d’une famille aristocratique connue, mais, très tôt, elle a rué dans les brancards, sa nature rebelle passant outre toutes les conventions sociales. La lecture du Norvégien Ibsen —il y avait un “Ibsen-Club” à Lübeck— du Français Emile Zola, du socialiste allemand Ferdinand Lassalle et, bien entendu, de Friedrich Nietzsche, dont le “Zarathoustra” constituait sa “source sacrée” (“geweihte Quelle”). Elle arrive à Schwabing à 22 ans et, aussitôt, Oskar Panizza la surnomme “la Vénus du Slesvig-Holstein” (“Die schleswig-holsteinsche Venus”), tout en ajoutant, perfide, qu’elle était “très sale”. Les frasques de Franziska ont choqué sa famille qui l’a déshéritée. A Munich, elle crève de faim, ne prend qu’un maigre repas par jour et se came au laudanum pour atténuer les douleurs qui l’affligent. Rapidement, elle collectionne quelques dizaines d’amants, se posant comme “mère libre” (“freie Mutter”) et devenant ainsi l’icône du mouvement féministe, une sorte de “sainte païenne”.

Quel est le “féminisme” de Franziska zu Reventlow? Ce n’est évidemment pas celui qui domine dans les esprits de nos jours ou qui a animé le mouvement des suffragettes. Pour la Vénus de Schwabing, le mouvement de libération des femmes ne doit pas demander à ce qu’elles puissent devenir banquières ou courtières en assurances ou toute autre horreur de ce genre. Non, les femmes vraiment libérées, pour Franziska zu Reventlow, doivent incarner légèreté, beauté et joie, contrairement aux émancipées acariâtres que nous avons connues naguère, les “Emanzen” dont se moquent aujourd’hui les Allemands. Franziska les appelaient déjà les “sombres viragos” (“Die finstere Viragines”). Si les femmes libérées ne deviennent ni légères ni belles ni joyeuses le monde deviendra atrocement ennuyeux et sombrera dans la névrose, bannissant en même temps toute forme charmante d’érotisme.

Les “Cosmiques” de Schwabing

 

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Malgré le scandale que suscite ses positions féministes et libératrices, Franziska zu Reventlow demeure d’une certaine manière “conservatrice” car elle valorise le rôle de la femme en tant que mère biologique, dispensatrice de vie mais aussi d’éducation. La femme doit communiquer le sens de la beauté à ses enfants, les plonger dans le patrimoine littéraire de leur nation et de l’humanité toute entière. Cette double fonction, à la fois révolutionnaire et conservatrice, Franziska zu Reventlow la doit à sa fréquentation du cercle des “Cosmiques” de Schwabing, autour de Karl Wolfskehl et Stefan George, d’une part, d’Alfred Schuler et Ludwig Klages, d’autre part, avant la scission du groupe en deux clans bien distincts. Les “Cosmiques”, au nom d’une esthétique à la fois grèco-romaine, médiévisante et romantique, teintée de pré-raphaélisme et d’Art nouveau, présentaient tous les affects anti-industriels de l’époque, déjà repérables chez leurs prédécesseurs anglais; ils vont également renouer avec l’anti-rationalisme des premiers romantiques et manifester des affects anti-parlementaires: la raison conduit, prétendaient-ils, aux horreurs industrielles de la sur-urbanisation inesthétique et aux parlottes stériles des députés incultes, qui se prennent pour des émules de Socrate en n’émettant que de purs discours dépourvus de tous sentiments. Les “Cosmiques” toutefois ne renouent pas avec le christianisme romantique d’un Novalis, par exemple: ils déploient, surtout chez Schuler et Klages, une critique radicale du christianisme et entendent retourner aux sources païennes de la culture européenne pré-hellénique qu’ils appeleront “tellurique”, “chtonienne” ou “pélasgique”. Ce paganisme est, en filigrane, une révolte contre les poncifs catholiques du conservatisme bavarois qui n’abordent la spiritualité ou la “carnalité” de l’homme qu’en surface, avec la suffisance du pharisaïsme: pour les “Cosmiques”, “il existe des chemins sombres et secrets”, qu’il faudra redécouvrir pour redonner une “aura” à la culture, pour la ramener à la lumière. Franziska zu Reventlow, dans ses souvenirs de Schwabing, où elle se moque copieusement des “Cosmiques”, dont certains étaient tout-à-fait insensibles aux séductions de la féminité, que les hommes et les femmes qui emprunteront ces voies “sombres et secrètes” seront les initiés de demain, les “Enormes” (“Die Enormen”), tandis que ceux qui n’auront jamais l’audace de s’y aventurer ou qui voudront les ignorer au nom de conventions désuètes ou étriquées, seront les “Sans importance” (“Die Belanglosen”).

De Bachofen à Klages

Si Stefan George a été le poète le plus célèbre du groupe des “Cosmiques”, Ludwig Klages, qui se détachera du groupe en 1904, en a indubitablement été le philosophe le plus fécond, encore totalement inexploré aujourd’hui en dehors des frontières de la germanophonie. Figure de proue de ce qu’Armin Mohler a défini comme la “révolution conservatrice”, Klages ne basculera jamais dans une tentation politique quelconque; il étudiera Bachofen et Nietzsche, fusionnera leur oeuvre dans une synthèse qui se voudra “chtonienne” ou “tellurique”, tout en appliquant ses découvertes philosophiques à des domaines très pratiques comme la science de l’expression, dont les chapitres sur la graphologie le rendront mondialement célèbre. La postérité a surtout retenu de lui cette dimension de graphologue, sans toutefois vouloir se rappeler que la graphologie de Klages est entièrement tributaire de son interprétation des oeuvres de Bachofen et Nietzsche. En effet, Klages a été l’un des lecteurs les plus attentifs du philosophe et philologue bâlois Bachofen, issu des facultés de philologie classique de Bâle, tout comme Nietzsche. Klages énonce, suite à Bachofen, une théorie du matriarcat primordial, expression spontanée et non détournée de la Vie mouvante et fluide que le patriarcat a oblitéré au nom de l’Esprit, censé rigidifier les expressions vitales. L’histoire du monde est donc une lutte incessante entre la Vie et l’Esprit, entre la culture (matriarcale) et la civilisation (patriarcale). Alfred Schuler, mentor de Klages mais qui n’a laissé derrière lui que des fragments, mourra lors d’une intervention chirurgicale en 1923; Klages s’exilera en Suisse, où il décédera en 1956, après avoir peaufiné son oeuvre qui attend encore et toujours d’être pleinement explorée dans diverses perspectives: écologie, géophilosophie, proto-histoire, etc. Quant à Franziska zu Reventlow, elle quittera Munich pour une autre colonie d’artistes basée à Ascona en Suisse, une sorte de nouveau Schwabing avec, en plus, l’air tonifiant des Alpes tessinoises. Elle y mourra en 1918.

Thomas Mann patriote

La guerre de 1914 balaie le monde de Schwabing, que les conservateurs aigris voulaient voir disparaître, pour qu’il ne puisse plus les ridiculiser. Bon nombre d’artistes s’engagent dans l’armée, dont le poète Richard Dehmel et les peintres August Macke et Franz Marc (du groupe “Blauer Reiter”, le “Cavalier bleu”) qui, tous deux, ne reviendront pas des tranchées. Le “Simplicissimus” cesse de brocarder cruellement les officiers, ces “analphabètes en uniforme”, et les généraux, ces “sombres simplets”, et devient un organe patriotique intransigeant, sous prétexte qu’en temps de guerre, quand la patrie est en danger, “les muses doivent se taire” et qu’il faut participer “à une guerre qui nous est imposée” et “au combat pour défendre la culture menacée par l’étranger (belliciste)”. Thomas Mann participe à l’effort de guerre en opposant la culture (vivante, tirée d’un humus précis) à la civilisation dans un opuscule patriotique intitulé “Gedanken im Kriege” (“Idées en temps de guerre”). La culture (allemande) pour Mann, en cette fin août 1914, est “homogénéité, style, forme, attitude et bon goût”. Quant à la “civilisation”, représentée par l’Ouest, elle est “rationalité (sèche), esprit des Lumières, édulcoration, moralisme, scepticisme et dissolution”. La tâche de l’Allemagne, dans cette guerre est de défendre la fécondité vitale de la culture contre les attaques de la civilisation qui entend “corseter” les âmes, leur faire perdre leurs élans, édulcorer la littérature et la musique qui ne peuvent se développer que sur un terreau “culturel” et non “civilisationnel”. Ces idées nationales de Thomas Mann sont consignées dans “Betrachtungen eines Unpolitischen” (“Considérations d’un apolitique”). Son frère Heinrich Mann, en revanche, plaidait pour une civilisation marquée par l’humanisme de Zola, adepte d’une justice pour chaque individu, au-delà de toute institution ou cadre politique, un Zola qui s’était précisément hissé, lors de l’affaire Dreyfus, au-dessus des institutions politiques de la France: pour Heinrich, Thomas aurait dû prendre une position similaire à l’auteur du “J’accuse” et se hisser au-dessus de l’idée patriotique et de l’Etat semi-autoritaire du wilhelminisme. A partir des années vingt, les deux frères se réconcilieront sur base des idées “occidentales” de Heinrich.

Noire vision spenglerienne

Oswald Spengler était revenu à Munich en 1911, après y avoir passé une année d’étude en 1901: toujours amoureux de la ville bavaroise, il était cependant déçu en s’y réinstallant. Il ne retrouvait plus intact le style classique de Louis I, y découvrait en revanche “l’ornementalisme imbécile” de l’“Art Nouveau” et les “escroqueries expressionnistes”, toutes expressions du déclin qui affecte l’Europe entière. Pour Spengler, qui s’apprête à rédiger sa somme “Der Untergang des Abendlandes”, les affres de décadence qui marquent Munich sont autant de symboles du déclin général de l’Europe, trop influencée par les idées “civilisatrices”. Pour Spengler, la transition entre, d’une part, la phase juvénile que constitue toute culture, créatrice et d’abord un peu fruste, et, d’autre part, la phase sénescente de la civilisation, s’opère inéluctablement, comme une loi biologique et naturelle. Les hommes —les porteurs et les vecteurs de culture vieillissants— se mettent à désirer le confort et le raffinement, abandonnent les exigences créatrices de leur culture de départ, n’ont plus la force juvénile d’innover: tous les peuples d’Occident subiront ce processus de sénescence pour en arriver d’abord à un stade de lutte planétaire entre “pouvoirs césariens”, ensuite à un stade d’uniformité généralisée, à une ère des masses abruties, parquées dans des villes tentaculaires, dont l’habitat sera constitué de “casernements” sordides et sans charme. Ces masses recevront, comme dans le Bas-Empire, du pain et des jeux. Tel est, en gos, le processus de déclin que Spengler a voulu esquisser dans “Der Untergang des Abendlandes”.

Le déclin de Munich et de toute l’Europe était donc en germe avant le déclenchement de la première grande conflagration intereuropéenne. La guerre accélère le processus. Au lendemain de l’armistice de novembre 1918, nous aurons donc affaire à un autre Munich et à une autre Europe. Une autre histoire, bien différente, bien plus triste, pouvait commencer: celle de l’après-Schwabing. Avant d’assister à la lutte plénétaire entre les nouveaux Césars (Hitler, Staline, Churchill, Roosevelt). Après la victoire du César américain, l’ère des masses abruties par la consommation effrénée et par le confort matériel a commencé. Nous y sommes toujours, malgré les ressacs dus aux crises: l’aura des Cosmiques n’élit plus personne. Les masses abruties sont là, omniprésentes. Les villes tentaculaires détruisent les cultures, au Japon, au Mexique, en Afrique. Et pas seulement en Europe et en Amérique du Nord. Les jeux virtuels sont distribués à profusion. Spengler avait raison.

Robert Steuckers.

(Forest-Flotzenberg, Vlotho im Wesergebirge, été 2002).

mardi, 29 octobre 2013

Spengler e l’anima russa

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Spengler e l’anima russa

La Russia antica e la “pseudomorfosi” illuminista

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

OswaldSpengler.jpgNel Tramonto dell’Occidente[1], Oswald Spengler si sofferma ampiamente sulle peculiarità dell’anima russa. Tale analisi è collocata nella seconda parte dell’opera, che si intitola “Prospettive della storia mondiale[2], la prima parte essendo dedicata a “Forma e realtà”, ove delinea la sua visione ciclica della storia, definisce l’“anima” di ogni civiltà, con le famose fasi, l’una ascendente (Kultur) e l’altra  discendente (Zivilisation) di ogni ciclo storico, per poi tracciare una morfologia comparata delle civiltà che offre un grande scenario di macrostoria [3].

Altrettanto interessante e stimolante è l’applicazione del metodo comparativo spengleriano per studiare e decifrare l’affinità morfologica che connette interiormente la lingua delle forme di tutti i domini interni ad una data civiltà, dall’arte alla matematica alla geometria, al pensiero filosofico e al linguaggio delle forme della vita economica, essa stessa espressione di una data “anima”, ossia di un “sentimento del mondo” che contraddistingue un certo tipo di sensibilità.

In questa prospettiva, anche i fatti politici, assumono il valore di potenti simboli; per Spengler occorre saper cogliere che cosa significa il loro apparire, l’ “anima” di cui essi sono espressione.

Pseudomorfosi

Nella seconda parte dell’opera, l’Autore colloca lo studio dell’anima russa nel capitolo sulle pseudomorfosi storiche ed è partendo da questa categoria spengleriana che si può comprendere il suo modo di descrivere il mondo russo.

il-tramonto-dell-occidentePer spiegare la pseudomorfosi, Spengler parte da una nozione di mineralogia. Egli attinge  ad un fenomeno naturale per spiegare e definire un fenomeno storico, in ciò accogliendo un procedimento di osservazione scientifico-naturalistico tipico di Goethe, al quale esplicitamente si richiama nella prima parte della sua opera.

Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua si infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupate. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo ad altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contraddice  la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto le specie esteriori di un altro. E’ ciò  che i mineralogisti  chiamano pseudomorfosi[4].

Dalla nozione di mineralogia passa quindi alle pseudomorfosi storiche.

Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione, ma nemmeno alla perfetta coscienza di sé stessa. Tutto ciò che emerge dalle profondità di una giovane animità va a fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e invece dell’adergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per la costrizione che ancora si subisce da parte di una realtà lontana nel tempo”[5].

Di questo fenomeno Spengler ci offre vari esempi quali la civiltà araba – che egli fa risalire,  come sentimento del mondo, al III secolo a.C. – che fu costretta e soffocata nelle forme di una civiltà straniera, quale quella macedone col suo relativo dominio (impresa di Alessandro Magno e civiltà ellenistica).

Non è questa la sede per esaminare la pseudomorfosi araba, perché tale tema ci porterebbe lontano, considerando la peculiarità della visione storica spengleriana, rispetto allo specialismo della storiografia occidentale del suo tempo con la quale egli polemizza e argomenta in modo approfondito.

Altra pseudomorfosi è quella che inizia con la battaglia di Azio del 31 a. C.

Qui non si trattò di una lotta per la supremazia della romanità o dell’ellenismo; una lotta del genere era stata già combattuta a Canne e a Ama, ove ad Annibale toccò il destino tragico di battersi non per la sua patria bensì per l’ellenismo. Ad Azio la nascente civiltà araba si trovò di fronte alla civilizzazione antica senescente. Si doveva decidere il trionfo dello spirito apollineo o di quello magico, degli dei o del Dio, del principato o del califfato. La vittoria di Antonio avrebbe liberato l’anima magica; invece la sua sconfitta ebbe per conseguenza che sul paesaggio di tale anima si riaffermarono le rigide, disanimate strutture del periodo imperiale”[6].

Pseudomorfosi russa

Un ulteriore esempio di pseudomorfosi ce lo offre la Russia di Pietro il Grande. L’anima russa originaria si esprime nelle saghe di Kiev riguardanti il principe Vladimiro (verso il 1000 d. C.) con la sua Tavola Rotonda e l’eroe popolare Ilja di Muros. Qui il pensatore tedesco coglie l’immensa differenza fra anima russa e anima faustina (ossia quella europea tesa verso l’infinito e simboleggiata dalle cattedrali gotiche) nel divario che intercorre fra tali poemi slavi e quelli sincronici – rispetto ad essi – della saga di Malthus e dei Nibelunghi del periodo delle invasioni “nella forma dell’epica di Ildebrando[7].

Il periodo “merovingio” russo (ossia il periodo aurorale) inizia con la liberazione dal dominio tartaro di Ivan III (1480) e si sviluppa attraverso gli ultimi Rurik e i primi Romanov fino a Pietro il Grande (1689-1725). Esso corrisponde al periodo che va, in Francia, da Clodoveo(465-511) fino alla battaglia di Testry (687) con la quale i Carolingi si assicurano il potere  effettivo. Spengler coglie qui un’affinità morfologica.

albe-e-tramonti-deuropaA questo periodo moscovita delle grandi stirpi bojare e dei patriarchi, durante il quale un partito della Vecchia Russia lottò continuamente contro gli amici della civiltà occidentale, segue, con la fondazione di Pietroburgo (1703) la pseudomorfosi, la quale impose all’anima russa primitiva le forme straniere dell’alto Barocco, poi quelle dell’illuminismo e infine quelle del diciannovesimo secolo. Pietro il Grande fu fatale per la civiltà russa. Si pensi alla sua corrispondenza “sincronica”, a Carlomagno, che metodicamente e con tutte le sue energie attuò ciò che Carlo Martello pochi anni prima aveva scongiurato con la sua vittoria sugli Arabi; il sopravvento dello spirito mauro-bizantino”[8]

Nella visione spengleriana, Pietro il Grande impone alla Russia una forma che non le è congeniale, che è lontana dallo spirito contadino, antico, mistico e religioso della Vecchia Russia. Carlomagno avrebbe mutuato in Occidente una forma mauro-bizantina (l’Impero, la struttura gerarchizzata sul modello romano-orientale) che non sarebbe stata congeniale all’Europa dell’alto  Medio Evo (adopero questa periodizzazione per farmi intendere, anche se essa non è affatto spengleriana).

Qui lo studioso tedesco introduce una riflessione che è di rilievo centrale e che contribuisce a far comprendere anche la storia della Russia contemporanea.

Lo zarismo primitivo di Mosca è l’unica forma che ancor oggi sia conforme alla natura russa, ma esso a Pietroburgo fu falsato nella forma dinastica propria all’Europa occidentale. La tendenza verso il Sud sacro, verso Bisanzio e Gerusalemme, profondamente radicata in tutte le anime greco-ortodosse, si trasformò in una diplomazia mondana, in uno sguardo rivolto verso l’Occidente … Furono importate arti e scienze tarde, l’illuminismo, l’etica sociale, il materialismo cosmopolita, benché in questo primo periodo del ciclo russo la religione fosse l’unica lingua nella quale ognuno comprendeva se stesso e comprendeva il mondo[9].

Questa imposizione di un modello straniero generò un sentimento di odio “davvero apocalittico” contro l’Europa, intendendo con tale termine tutto quanto non era russo, anche Roma e Atene, insomma l’Occidente nella varietà ed anche nell’antichità delle sue manifestazioni.”La prima condizione a che il sentimento nazionale russo si liberi è odiare Pietroburgo con tutto il cuore e con tutta l’anima” scriveva Aksakoff a Dostoevskij.

In altri termini, Mosca è sacra, Pietroburgo è Satana e Pietro il Grande, in una leggenda popolare, viene presentato come l’Anticristo[10].

Tolstoi e Dostoevskij

Per Spengler, se si vogliono comprendere i due grandi interpreti della pseudomorfosi russa, occorre vedere in Dostoevskij il contadino, in Tolstoi l’uomo cosmopolita.

L’uno non poté mai liberarsi interiormente dalla campagna, l’altro la campagna, malgrado ogni suo disperato sforzo, non riusci mai a ritrovarla[11].

Qui la lettura di Spengler diviene dirompente e innovativa, con tratti tipici da “rivoluzione conservatrice.

Egli considera, infatti, Tolstoi come la Russia del passato e Dostoevskij come simbolo della Russia dell’avvenire, il che equivale a dire che l’anima contadina antica della Russia, l’anima legata al sentimento delle radici e delle tradizioni, rappresenta l’avvenire, mentre lo spirito cosmopolita e illuminista, di stampo occidentale moderno, è destinato a tramontare.

Peraltro, questa spirito cosmopolita era profondamente divorato da un odio viscerale contro un’Europa moderna da cui non poteva liberarsi, essendovi profondamente legato. In altri termini, una sorta di amore/odio verso l’Europa.

Tolstoi odiò potentemente l’Europa da cui non poteva liberarsi. Egli l’odiò in sé stesso e odiò se stesso. Per questo fu il padre del bolscevismo[12]..

Dostoevskij, al contrario, non nutrì un tale odio ma un fervido amore per tutto ciò che è occidentale, nel senso delle antiche radici culturali dell’Europa.

Un simile odio Dostoevskij non lo conobbe. Egli nutrì un amore altrettanto fervido per tutto quello che è occidentale. “Io ho due patrie, la Russia e L’Europa”[13]. Questa affermazione dello scrittore russo è molto sintomatica delle sue inclinazioni. Spengler passa poi a citare un brano del romanzo I Fratelli Karamazov che è molto eloquente circa quello che lo scrittore russo intende per richiamo interiore verso l’Europa.

“Partirò per l’Europa – dice Ivan Karamazov al fratello Alioscia – io so di non andare che verso un cimitero, ma so anche che questo cimitero mi è caro, che è il più caro di tutti i cimiteri. I nostri sacri morti sono seppelliti  là, ogni pietra delle loro tombe parla di una vita passata così fervida, di una fede così appassionata nelle azioni che hanno compiute, nelle loro verità, nelle loro lotte e nelle loro conoscenze che io, lo so di già, mi prosternerò per baciare quelle pietre e per piangere su di esse[14]

L’Europa, per Dostoevskij, è quella delle radici antiche, della memoria storica, dell’identità, degli avi, delle antiche fedi e delle antiche lotte. In altri termini, l’Europa non è quella dell’illuminismo cui guardava Pietro il Grande, ma esattamente il contrario.

Mentre Tolstoi si muove nell’ottica dell’economia politica e dell’etica sociale, in una dimensione intellettualistica, tipicamente occidentale e moderna, Dostoevskij era al di là delle categorie occidentali, comprese quelle di rivoluzione e di conservatorismo.

Per lui fra conservatorismo e rivoluzione – scrive Spengler – non vi era differenza alcuna: entrambi erano per lui fenomeni occidentali. Lo sguardo di una tale anima si librava di là da tutto quanto è sociale. Le cose di questo mondo gli apparivano così insignificanti, che egli non dette alcuna importanza al tentativo di migliorarle. Nessuna vera ragione vuole migliorare il mondo dei fatti. Come ogni vero Russo, Dostoevskij un tale mondo non lo nota affatto: gli uomini come lui vivono in un secondo mondo, in un mondo metafisico esistente di là da esso. Che cosa hanno a che vedere i tormenti di un’anima col comunismo?[15]

Spengler conclude asserendo che “il Russo autentico è un discepolo di Dostoevskij benché non lo abbia letto, anzi proprio perché non sa leggere. Lui stesso è un pezzo di Dostoevskij[16]

Per Spengler il cristianesimo sociale di Tolstoi era intriso di marxismo; Tolstoi parlava di Cristo ma intendeva Marx, mentre “al cristianesimo di Dostoevskij appartiene invece il millennio che viene”[17]

la-foresta-e-la-steppaL’analisi spengleriana si proietta nel futuro, anticipando di circa un secolo gli sviluppi della storia russa, in un momento storico in cui trionfava il bolscevismo e tutto sembrava andare in direzione contraria. Il punto è capire cosa intenda Spengler per “cristianesimo  di Dostoevskij”. Lo studioso tedesco ha fatto riferimento a questa vocazione mistica che trascende il mondo dei fenomeni, dei fatti, ai quali l’anima russa non attribuisce un valore decisivo, il mondo metafisico essendo l’oggetto di interesse centrale e prioritario.

L’immensa differenza fra anima faustiana e anima russa si tradisce già nel suono di certe parole.  Il termine russo per cielo è njèbo ed è negativo nel suo n. L’uomo d’Occidente volge il suo sguardo verso l’alto, mentre il Russo fissa i lontani orizzonti. Occorre dunque vedere la differenza dell’impulso verso la profondità dell’uno e dell’altro nel fatto che nel primo esso è una passione di penetrare da ogni lato nello spazio infinito, nel secondo è un esteriorizzarsi fino a che l’elemento impersonale nell’uomo si faccia uno con la pianura senza fine…La mistica russa non ha nulla di quel fervore, proprio al gotico, a Rembrandt, a Beethoven, che si porta verso l’alto e che può svilupparsi fino ad un giubilo che invade il cielo. Qui Dio non è la profondità azzurra delle altezze. L’amore mistico russo è quello della pianura, quello verso fratelli che subiscono lo stesso giogo, sempre nella direzione terrestre; è quello per i poveri animali tormentati che vagano sulla terra,  per le piante, mai per gli uccelli, per le nubi e per le stelle[18].

Il cristianesimo russo-ortodosso è, dunque, per Spengler, un misticismo della Madre Terra, dell’immensa pianura, degli spazi sconfinati.

Fra Spengler e Steiner

Introduco qui alcune mie riflessioni. Questa pianura sconfinata è geograficamente -  e simbolicamente -  un ponte fra Oriente e Occidente. La Russia è una terra che sente storicamente il richiamo di Bisanzio, ossia dell’Impero Romano d’Oriente, come ho dimostrato nei miei contributi su Toynbee e su Zolla ed il loro modo di intendere l’anima russa e i suoi archetipi.

La Russia risente, però, anche di influssi spirituali e culturali spiccatamente orientali.

Un fenomeno che merita di essere osservato con attenzione è quello dell’attuale diffusione del buddhismo in Russia (di cui abbiamo testimonianze e riscontri anche qui in Italia presso i centri buddhisti frequentati dai russi provenienti direttamente dalla loro terra), particolarmente di quello tibetano che, nella sua iconografia e nel suo simbolismo, è segnato da figure luminose, da un senso di chiarità e di Luce spirituale che tradisce anche antiche influenze iraniche, come Filippani Ronconi ha evidenziato in Zarathustra e il Mazdeismo [19].

Questa “mistica della Luce” (adopero qui tale termine in un senso lato, non tecnico) si incontra necessariamente col misticismo della Madre Terra, con propensioni tipiche dell’anima slava.

È a questo punto che va considerata la previsione di Rudolf Steiner, secondo il quale in Russia rinascerà la religione di Zarathustra[20] , ossia una nuova mistica della Luce ed un nuovo sentimento del mondo, quello della lotta fra Luce e Tenebre nella storia, nella dimensione terrena, in forme adatte ad un ben diverso contesto storico, etnico e geografico rispetto a quello in cui maturò la riforma spirituale del Profeta iranico. Nella morfologia delle civiltà di Steiner la civiltà russa sarebbe la sesta civiltà – quella del futuro – dopo le prime cinque (Indiana, Iranica, Egizio-Caldaica-Babilonese, greco-romana, anglo-tedesca) che nel loro susseguirsi denotano una sorta di movimento pendolare da est ad ovest e poi di nuovo verso est. Una tale previsione sulla rinascita della religione di Zarathustra può avere una sua plausibilità ove si consideri appunto la posizione di ponte che la terra russa ha fra Oriente e Occidente e quindi simbolicamente di collegamento, di raccordo spirituale e culturale.

Il bolscevismo aveva significato, per un arco di 70 anni, una interruzione nella comunicazione spirituale fra Oriente e Occidente, un blocco materialistico, nel che può vedersi l’azione di influenze non meramente profane, secondo quella dimensione di profondità della storia che è tipica del “metodo tradizionale”di cui Evola ha parlato ampiamente in Rivolta contro il mondo moderno e sul quale chi scrive è tornato ampiamente ne I Misteri del Sole.

Un tale culto della Luce, ove un domani dovesse diffondersi, dovrà necessariamente innestarsi sul “sentimento della pianura” costitutivo dell’anima russa, per dirla con Spengler, e cogliere nella Madre Terra – la “Santa Madre Russia” – il teatro di una lotta fra Luce e Tenebre, fra Verità e Menzogna, fra elevazione dello spirito e demonìa della materia e dell’economia.

Si colgono, in definitiva, i primi segni premonitori – dal Buddhismo al rilancio dell’Ortodossia – dell’affiorare graduale di una nuova “forma spirituale” che ha profonde connessioni col risveglio del sentimento nazionale russo, di un forte senso delle proprie tradizioni e della propria identità che si esprime oggi nella linea politica di Putin e nel suo rilancio del ruolo di grande potenza della Russia, della sua proiezione mediterranea, del suo interagire e fare blocco con le nazioni del BRICS.

La stessa legislazione contraria alla propaganda dei gay, il rifiuto di Putin a dare i bambini russi in adozione alle coppie gay in Occidente, il forte richiamo alla tradizione religiosa russo-ortodossa, l’opposizione al “politicamente corretto”, sono tutti fatti politici sintomatici di un risveglio dell’anima russa, quella antica, interpretata e sentita da Dostoevskij.

I fatti politici, come diceva Spengler, vanno letti nella loro valenza simbolica, cogliendo i fermenti profondi di cui essi sono espressione e cercando d’intuire e anticipare le linee di tendenza che essi prefigurano.


[1] L’opera è del 1917 in prima edizione; la traduzione che ho consultato e studiato fa riferimento alla seconda edizione del 1923.

[2] O.Spengler, Il Tramonto dell’Occidente, Guanda, Parma, 1991, p. 653 ss.

[3] Id., op.cit., p. 89 ss.

[4] Id., op.cit., p.927.

[5] Id., op.cit., pp.927-928

[6] Id., op .cit., pp. 930-931.

[7] Id., op.cit., p.932.

[8] Id., op.cit., p.932.

[9] Id., op.cit., pp.932-933.

[10] Id., op.cit., p. 934.

[11] Id., op.cit., p.934.

[12] Id., op.cit., p. 936.

[13] Id., op.cit., p. 936

[14] Id., op.cit., p.936.

[15] Id., op.cit., p.937.

[16] Id., op.cit., p. 939.

[17] Id., op.cit., p.939.

[18] Id., op.cit., nt.178,  pp.1459-1460.

[19] P. Filippani Ronconi, Zarathustra  e il Mazdeismo, Irradiazioni, Roma, 2007.

[20] R. Steiner, Miti e Misteri dell’ Egitto rispetto alle forze spirituali attive nel presente, Antroposofica, Milano, 2000.

samedi, 19 octobre 2013

Rivoluzione conservatrice

révolution conservatrice,allemagne

Rivoluzione conservatrice

Rivoluzione conservatrice

Questa sezione multilingue ospita pagine sulla rivoluzione conservatrice europea e il pensiero dei suoi maggiori esponenti.


Robert Steuckers, Une biographie de Carl Schmitt

 

 

 

 

 

 

 

 

Robert Steuckers, Evola and Spengler

 

 

 

 

 

 

 

Luca Leonello Rimbotti, La resurrezione europea

 

 

 

 

 

 

Gianfranco de Turris, Evola lettore di Spengler

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alfonso Piscitelli, In morte di Armin Mohler

 

 

Arthur Moeller van den Bruck, Bemerkungen über Dostojewski

 

 

Luca Leonello Rimbotti, La mistica del primordiale

 

 

Julius Evola, Lettera a Ernst Jünger

 

Giovanni Sessa, La rivoluzione dei persuasi

 

Claudio Mutti, Guerra e poesia

 

Hermann Löns, Il fiume rosso

 

 

 

Julius Evola, Brief an Carl Schmitt

 

 

 

 

Gianfranco de Turris, Evola e Jünger

 

 

 

 

 

 

 

 

Christian Bouchet, Adieu à Jean Mabire

 

 

Alberto Lombardo, Ancora Ernst Jünger

jeudi, 17 octobre 2013

Die Geburt der Moderne

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Die Geburt der Moderne

von Benjamin Jahn Zschocke

Ex: http://www.blauenarzisse.de

 

9783898094016.jpgDer Nationalsozialismus ist der absolute Fixpunkt der deutschen Geschichte – wirklich alles ballt sich zu ihm hin. Alle zeitlich daran angrenzenden Epochen verschwinden in seinem Schatten.

Der in Chemnitz lehrende Professor für Europäische Geschichte des 19. und 20. Jahrhunderts Frank-​Lothar Kroll ist dafür bekannt, eine mittelbar an diese Zeit angrenzende Epoche, nämlich das Deutsche Kaiserreich von 1871 bis 1918, dankenswerter Weise aus diesem Schatten hervorzuholen. Unter Zuhilfenahme aller verfügbaren historischen Quellen betrachtet er diese Epoche so, wie sie war und nicht, wie sie laut der verengten Sichtweise eines „deutschen Sonderweges“ – bei einem gleichzeitig angenommenen „westeuropäischen Normalweg“ – gewesen sein soll.

Ein umfassendes Update der Quellenlage

Krolls aktuellstes Werk Geburt der Moderne. Politik, Gesellschaft und Kultur vor dem Ersten Weltkrieg unternimmt auf reichlich 200 Seiten den Versuch, einen Gesamtüberblick über die gesellschaftlichen Entwicklungslinien zwischen 1900 und 1914 zu geben. Da dies in solcher Kürze fast unmöglich scheint, verzichtet Kroll auf alle narrativen Elemente und gibt dem Leser in höchster Komprimierung sozusagen ein Update der aktuellen Quellenlage, in deren Ergebnis die Annahme des besagten „deutschen Sonderweges“ ebenso definitiv zu den Akten gelegt werden muß, wie das „persönliche Regiment“ unseres letzten Kaisers Wilhelm II.

Die seit gut fünfzig Jahren praktizierte „germanozentrische“ Herangehensweise gelangt bei Kroll ebenfalls auf die Deponie. Vielmehr gehört der historische Blickwinkel nach seinem Verständnis auf eine europäische Dimension geweitet, was allein angesichts der verästelten außenpolitischen Bündnisse dieser Epoche gar nicht anders möglich ist.

Doch Krolls Schwerpunkt liegt in diesem Buch definitiv nicht auf dem Ersten Weltkrieg: ungleich mehr interessiert ihn der kulturelle und soziale Entwicklungsstand eines Landes, das zur damaligen Zeit das fortschrittlichste der Welt war. Krolls große Stärke ist es, nicht nach Belieben zu werten, sondern nüchtern Fakten um Fakten vorzutragen und damit großkalibrig gegen die an deutschen Gymnasien, Universitäten und in den Medien herrschende Guido Knopp-​Mentalität vorzugehen.

Kultureller Vorreiter des Kontinents

Besonders der kulturelle Schwerpunkt reizt an Krolls Buch. Die titelgebende These, nach der die Moderne bereits zwischen 19001914 unter Wilhelm II. ihren Anfang nahm sowie erste Schwerpunkte herauskristallisierte – und damit nicht erst in den gepriesenen (dekadenten und auf Kredit finanzierten) so genannten Goldenen Zwanzigern – macht die Lektüre besonders empfehlenswert. Walther Rathenau schrieb schon 1919 in seinem Text Der Kaiser: „Für Kunst lag [beim Kaiser, Anm. BJZ] eine entschiedene formale Begabung zugrunde, die in rätselhafter Weise über die kunstfremde Umgebung emporhob […]. So ergab sich von selbst der Anspruch des künstlerischen Oberkommandos.“

Unter anderem am Beispiel der Kulturreform aber auch der Jugendbewegung arbeitet Kroll heraus, welche in Europa zur damaligen Zeit einmalige Fülle an verschiedenartigsten Kulturinstitutionen entstand und sich in aller Ruhe, teils sogar mit erheblichen Finanzspritzen, entwickeln konnte. Am bekanntesten sind auf dem Gebiet der Kunst wohl die Strömungen des Jugendstils, des Expressionismus und des Impressionismus, die zwischen 19001914 ihren Anfang nahmen. Besonders mit Blick auf Letzteren lohnt ebenso die Lektüre des bereits 1989 bei Königshausen & Neumann erschienenen Werkes von Josef Kern Impressionismus im Wilhelminischen Deutschland.

Weimars Probleme im Voraus erkannt – und behoben

Der oben mit „Guido Knopp-​Mentalität“ zusammengefaßten Erscheinung heutiger Geschichtsschreibung (eigentlich politischer Bildung), tritt Kroll mit aller Entschiedenheit entgegen: Erhellend sind zum Beispiel seine Erkenntnisse auf dem Gebiet der Presse– und Parteienlandschaft. Er spricht hier von einem „beispiellosen Pluralismus“. Außerdem wird die vielzitierte, himmelschreiende Armut der späten Phase der Industrialisierung (auf die im gymnasialen Geschichtsunterricht „zufällig“ eine monatewährende Behandlung der deutschen Arbeiterbewegung folgt) als Ammenmärchen enttarnt: „Wirkliche Massenarmut, die zur Verelendung trieb, gab es im wilhelminischen Deutschland – anders als im viktorianischen und edwardianischen England – nicht, wenngleich, die Mehrheit der Arbeiterschaft von sehr bescheidenen Einkommen zehrte.“

Am schwerwiegendsten sind, mit Blick auf den anfangs benannten Schatten einer gewissen Epoche wohl Krolls Feststellungen zum angeblich durch und durch judenfeindlichen Deutschland unter Wilhelm II.: „Die unmissverständliche Zurückweisung solcher Zumutungen seitens des Kaisers und der Reichsregierung verdeutlichte einmal mehr, dass im ‚ausgleichenden Klima des wilhelminischen Obrigkeitsstaates‘ dem politischen Einfluss radikalisierter Massen und Massenbewegungen, anders als in den späten Jahren der Weimarer Republik, enge Grenzen gesetzt waren.“

An anderer Stelle wird Kroll noch deutlicher: „Dass sich die Mobilisierung antisemitischer Ressentiments in Deutschland – und nicht etwa in Frankreich, wo sie vor und nach der Jahrhundertwende weitaus stärker verbreitet waren – Jahrzehnte später zu einer parteipolitischen Massenformation verdichten und schließlich in die Katastrophe des ‚Dritten Reiches‘ einmünden sollte, lag, bei aller partiell vorhandenen gesellschaftlichen Diskriminierung der rechtlich gleichgestellten Juden im Kaiserreich, nicht an strukturellen Defiziten oder Defekten des vermeintlichen wilhelminischen Obrigkeitsstaates. Eigentliche Ursache waren vielmehr die fatalen Konsequenzen der militärischen und politischen Niederlage Deutschlands im Ersten Weltkrieg.“

Hörenswerte Audio-​Rezension bei Deutschlandradio Kultur.

Frank-​Lothar Kroll: Geburt der Moderne. Politik, Gesellschaft und Kultur vor dem Ersten Weltkrieg. Band 1 der Reihe Deutsche Geschichte im 20. Jahrhundert. 224 Seiten, Be.Bra Verlag 2013. 19,90 Euro.

Josef Kern: Impressionismus im Wilhelminischen Deutschland. Studien zur Kunst– und Kulturgeschichte des Kaiserreichs. 476 Seiten, Königshausen & Neumann Verlag 1989. 50,00 Euro.

mercredi, 16 octobre 2013

Armin Mohler und die Freuden des Rechtsseins

Armin Mohler und die Freuden des Rechtsseins

Martin Lichtmesz

Ex: http://www.sezession.de

arminmohler.jpgVor mir liegt ein frisch gedrucktes Büchlein, das mich wieder daran erinnert, was für eine große geistige Freude das „Rechtssein“ machen kann. Fast hätte ich es schon vergessen. Aber irgendeinen guten Grund muß ein Mensch ja haben, warum er sich all den Ärger antut, der damit einhergeht, nicht im linken Schafswolfsrudel mitzuheulen bzw. zu -blöken.

Die Rede ist von dem Kaplaken-Band „Notizen aus dem Interregnum“ [2], der dreizehn Kolumnen versammelt, die Armin Mohler [3] im Laufe des Jahres 1994 für die damals noch junge Junge Freiheit schrieb. Diese war eben auf das wöchentliche Format umgestiegen, und stand am Anfang ihres Siegeszuges als wichtigstes Organ und Sammelbecken der deutschen Rechten und Konservativen. Letzteres sind Begriffe, die Mohler meistens synonym oder alternierend gebrauchte, auch wenn es viele Rechte gibt, die sich nicht als „konservativ“ und viele Konservative, die sich nicht als „rechts“ betrachten. Außerhalb ihrer Milieus interessiert das allerdings bekanntlich keine Sau.

Die „Notizen“ sind, wie Götz Kubitschek im Nachwort formuliert, in einem „didaktisch-drängenden Ton“ verfaßt. Der 74jährige Mohler, einer der bedeutendsten Köpfe des deutschen Nachkriegskonservatismus, wollte mit seinen Kolumnen eine Art Orientierungshilfe, einen „Crash-Kurs“ im „Rechtssein“ bieten. So behandelte er noch einmal die Begriffe und Positionen, die in seinem Werk immer wiederkehren. Seine zentrale Formel war diese:

Bekannt ist der kokette Spruch: Wer nicht einmal links (oder wenigstens liberal) war, der wird kein richtiger Rechter. Der Schreibende hat jedoch Freunde, auf die das nicht zutrifft. Er sagt darum lieber: ein Rechter wird man durch eine Art von »zweiter Geburt«. Man hat sie durchlebt, wenn man sich – der eine früher, der andere später – der Einsicht öffnet, daß kein Mensch je die Wirklichkeit als Ganzes zu verstehen, zu erfassen und zu beherrschen vermag. Diese Einsicht stimmt manchen melancholisch, vielen aber eröffnet sie eine wunderbare Welt. Jedem dieser beiden Typen erspart sie, sein Leben mit Utopien, diesen Verschiebebahnhöfen in die Zukunft zu verplempern.

Das leuchtet wohl jedem unmittelbar ein, der die Erfahrung gemacht hat, daß eine zu eng gefaßte Weltanschauung blind für die Wirklichkeit machen kann, die nach einem Wort von Joachim Fest „immer rechts steht“. Ein Gitter von Abstraktionen verhindert, daß man sie sieht, wie sie ist (insofern man das eben mit seinen – stets beschränkten – Mitteln kann), daß man ihre Komplexität und Widersprüchlichkeit wahrnimmt und akzeptiert. (Damit ist aber nicht die typisch linke Rede von der „Komplexität“ gemeint, die genau auf das Gegenteil abzielt, nämlich eine Wahrnehmungschwäche kaschiert und sich um eine Entscheidung drücken will.)

Der von Mohler hochgeschätzte österreichische Schriftsteller Heimito von Doderer sprach an dieser Stelle gerne griffig von den „All-Gemeinheiten“ und von der „Apperzeptionsverweigerung“, einer nicht selten willentlichen Blockierung der Wahrnehmung, die zunächst zur Verdummung und schließlich gar zum Bösen führe.

Mohler kannte den Begriff der „political correctness“ noch nicht – aber es handelt sich hierbei um genau die Art von Abstraktionengitter, die er sein Leben lang bekämpfte. „Political correctness“ stellt zuerst ein Ideal auf, wie die Realität sein sollte, führt alsdann zu ihrer Leugnung (nach Doderer das „Dumme“), ob aus Angst (Doderer sprach vom „Kaltschweiß der Lebensschwäche“) oder aus Wunschdenken oder aus Opportunismus oder aus ideologischer Verblendung; dann aber zu unerbittlichen Verfolgung (nach Doderer wäre dies dann das „Böse“) all jener, die immer noch sehen und immer noch benennen,was sie eigentlich gar nicht sehen dürfen, etwa, daß der Kaiser nackt ist .

Auch das eng mit der „political correctness“ verbundene Gleichheitsdenken ist so eine Scheuklappe und „All-Gemeinheit“. In Notiz 7 (15. April 1994) diskutiert Mohler den italienischen Politologen Norberto Bobbio, der die Formel aufstellte, daß die Rechte vor allem mit dem beschäftigt sei, was die Menschen unterscheidet, und die Linke, mit dem, was die Menschen einander angleicht. Das geht soweit, daß der Linke die Gleichheit mit Gerechtigkeit gleichsetzt und zum absoluten moralischen Gut erhebt – die Menschen sollen „vernünftigerweise lieber gleicher als ungleich sein“.  Der Rechte dagegen bejaht die Ungleichheit, die es ja nur als relativen Begriff gibt. Erst die Ungleichheit gibt dem Leben seine Spannung, Vielfältigkeit und Farbe.

Die Absage an die prinzipielle „Durchschaubarkeit“ und daher „Machbarkeit“ aller Dinge ist kein Aufruf zum Nichthandeln – im Gegenteil. Vielmehr ergibt sich daraus die  Notwendigkeit einer Entscheidung, die Aufgabe, dem stetig sich wandelnden Chaos der Welt eine haltbare und dauerhafte Form abzutrotzen, mit dem Material zu bauen, das da ist, statt ständig auf das zu warten, was sein soll.

Das heißt allerdings nicht, daß man sich mit einem bloßen „Gärtnerkonservatismus“ begnügen muß. Vielmehr gilt es, aus dem Menschen das Bestmögliche herauszuholen und ihn an einer gewissen Intensität des Daseins teilhaben zu lassen, das auch immer „Agon“, also Wettstreit und Kampf ist – gegen die Unordnung, die Formlosigkeit, die Erschlaffung, den Verfall, den Tod, aber auch den konkreten Feind, den es immer geben wird.

Dem „Feind“ wird aber auch eine bestimmter Standort und ein prinzipielles Existenzrecht zugebilligt- er ist kein absoluter Feind, zu dem ihn bestimmte ideologische Zuspitzungen machen, insbesondere jene mit egalitärer Stoßrichtung. In der Notiz 9 vom 24. Juni 1994 untersucht Mohler den Begriff der „Mentalität“ . Dabei hat es ihm besonders eine Formulierung aus dem alten Brockhaus aus der Zeit vor dem Einbruch des „68er-Geistes“ angetan. „Mentalität“ bezeichnet

die geistig-seelische Disposition, die durch die Einwirkung von Lebenserfahrungen und Milieueindrücken entsteht, denen die Mitglieder einer sozialen Schicht unterworfen sind.

Das bedeutet nicht nur, daß der Mensch (hier folgt Mohler seinem großen Lehrmeister Arnold Gehlen) „anpassungsfähig“ ist, ein Wesen, das ebenso geformt wird, wie es selbst formend eingreift, „das sich selbst konstruiert, was er zum Überleben braucht“. Das heißt auch, daß jeder Mensch seinen soziologischen Ort, seine eigene Geschichte, seine eigenen guten oder schlechten Gründe und Beweggründe hat. Von hier aus wird auch eine rein moralistische Betrachtung und Verurteilung, eines einzelnen Menschen wie eines ganzen Volkes, unmöglich.

Mohlers Ansatz war verblüffend, besonders für solche Leser, die ein allzu vorgefaßtes Bild vom „Rechten“ mit sich herumtrugen. Dieser ist ja in der freien Wildbahn des Mainstreams eine geradezu geächtete Figur, im Gegensatz zu seinem umhätschelten Pendant, dem Linken, der „für seine guten Absichten belohnt wird“, und der auch dafür sorgt, daß vom Rechten möglichst nur Zerrbilder kursieren. „Rechts“ ist, wen er als solchen definiert, und wie er ihn definiert.

Es geht an dieser Stelle natürlich um den Rechten als Typus. Was die personifizierten Vertreter beider Lager angeht, so gibt es leider genug abschreckende Beispiele. Doderer sah sie als „Herabgekommenheiten“ – nicht etwa der nicht minder verabscheuungswürdigen „Mitte“ – sondern

jener Ebene, darauf der historisch agierende Mensch steht, der immer konservativ und revolutionär in einem ist, und diese Korrelativa als isolierte Möglichkeiten nicht kennt.

Mit einem Schlagwort: „konservative Revolution“. Das war für Mohler nicht nur das Etikett für ein bestimmtes, zeitlich eingegrenztes politisches Phänomen, sondern eine ganz grundsätzliche Idee, die er gerne vieldeutig schillern ließ. Seine Begriffe haben oft etwas bewußt Unscharfes, „Stimmungen“ Evozierendes, Wandelbares – sie müssen der jeweiligen konkreten Situation angepaßt werden.

Ich bin nun selber ein Initiat jener verschworenen Bruderschaft, die durch Mohler ihre entscheidenden politischen Impulse und Erweckungserlebnisse erfahren hat. Mit 25 Jahren verschlang ich in einer Nacht die Essaysammlung „Liberalenbeschimpfung“. Als ich das Buch zuklappte, war mir klar: wenn das nun „rechts“ ist, dann ist es nicht nur völlig legitim „rechts“ zu sein, dann bin ich es auch. Mir war bislang nur vorenthalten worden, daß es ein solches „Rechtssein“ auch gab – und das hatte mit einer Art zu denken ebenso wie mit einer Art zu schreiben und zu sprechen zu tun. Letztlich würde es aber vor allem, das betonte Mohler immer wieder, auch auf eine „Haltung“ und eine Art zu handeln ankommen, wobei er zugab, daß die Schreiber auch selten gleichzeitig „Täter“ sind.

Und hier fand ich nun die Quelle der „Freude“, von der ich oben sprach. Man erkennt, daß die Sprache eine Waffe ebenso wie ein Gefängnis sein kann, und daß ihre Grenzen schier unendlich erweiterbar sind. Dadurch stürzen die Begriffsgötzen und die falschen Autoritäten und die Laufgitter reihenweise ein und der Weg ins Freie wird sichtbar.

krd10.jpgFortan tat sich mir eine völlig neue und aufregende Welt auf. Zunächst war das nur eine Sache zwischen mir und meinem Bücherschrank. Ich suchte jahrelang keinerlei persönlichen Kontakt zu rechten oder konservativen „Milieus“, zum Teil aus Desinteresse, zum Teil aus weiterhin bestehenden Vorurteilen. Stattdessen ackerte ich sämtliche Hefte des „Criticón“ in der Berliner Staatsbibliothek durch, dem bedeutendsten Organ des konservativen Binnenpluralismus der 70er und 80er Jahre, und stieß dort auf die Namen all der konservativen Fabeltiere: neben Mohler auch Caspar von Schrenck-Notzing, Hans-Dietrich Sander, Günter Rohrmoser, Hellmut Diwald, Hans-Joachim Arndt, Günter Zehm, Wolfgang Venohr, Salcia Landmann, Robert Hepp, Gerd-Klaus Kaltenbrunner, Bernard Willms, Erik von Kuehnelt-Leddihn, Günter Maschke oder Alain de Benoist.

Und auf die großen Vordenker – Jünger, Blüher und Spengler waren mir schon bekannt, nun aber lernte ich Namen wie Carl Schmitt, Ernst Niekisch, Julius Evola, Edgar Julius Jung, Georges Sorel, Arnold Gehlen oder auch Donoso Cortés, Edmund Burke, Vilfredo Pareto usw. kennen. Ganz zu schweigen von all den schillernden Figuren, den Dichtern und Träumern, darunter eine erkleckliche Anzahl von poètes maudits, die ein verlockender Hauch des Hades umgab: Drieu La Rochelle, Yukio Mishima, Ezra Pound, Gabriele d‘Annunzio, Emile Cioran, Lucien Rebatet, Curzio Malaparte, Louis-Ferdinand Céline, Friedrich Hielscher, Alfred Schmid… man konnte wahrlich nicht klagen, daß es drüben am „rechten Ufer“ langweilig war.

Natürlich half auch das Internet enorm weiter, und früher oder später landete jeder mit einschlägigen Interessen bei der Jungen Freiheit, deren Netzarchive ich geradezu plünderte. Bald war ich begeisterter Abonnent, und entdeckte „neue“, aktuelle Stars:  Thorsten Hinz, Baal Müller (was für ein Name!), Manuel Ochsenreiter, Claus-Michael Wolfschlag, Angelika Willig. Viele Ausgaben der JF von 2002/3 habe ich heute noch aufgehoben und bewahre sie geradezu liebevoll und nostalgisch auf.

Bei der JF allein blieb es freilich nicht. Um den schwarzen Kontinent zu erobern, las ich zu diesem Zeitpunkt wie ein Scheunendrescher alles, wirklich „alles, was recht(s) ist“, frei nach einem Buchtitel von Karlheinz Weißmann, heute ein selbsterklärtes „lebendes Fossil der Neuen Rechten“, [4] der ebenfalls rasch in mein stetig wachsendes Pantheon aufgenommen wurde.

Besonders fielen mir jene Artikel in der JF und bald auch schon der Sezession auf, die von den Namen Ellen Kositza und Götz Kubitschek gezeichnet waren. Beide waren nur um wenige Jahre älter als ich, hatten markante Gesichter (dergleichen ist für mich bis heute von Bedeutung) und ihre Beiträge erklangen in einem frischen und zupackenden Ton  – unverkennbar die Mohler’sche Schule. Vor allem wurde darin nicht fade herumgeschwätzt, es ging darin um etwas: um unser jetziges, wirkliches Leben, um unsere Gegenwart und Zukunft, und ich erkannte, daß all dies auch etwas mit mir und meinem Leben zu tun hatte.

Gewiß war das Netz auch damals schon voll von Antifaseiten, die mal mehr, mal weniger offensichtlich ideologisch zugespitzt auftraten. Zentraler Anlaufpunkt war eine Seite namens „IDGR“- „Informationsdienst gegen Rechtsextremismus“, die freilich auch ganz hilfreich war, wenn man neue „Lesetips“ suchte. Was mich damals besonders empörte, war die Diskrepanz zwischen der hetzerisch-dummen, schablonenartigen, immer-gleichen Sprache dieser Seiten und dem, was die denunzierten Autoren tatsächlich geschrieben und gemeint hatten. Ich konnte nur krasse Desinformation, Verleumdung und Verzerrung erkennen, und das bestärkte mich umso mehr in dem Gefühl, auf der richtigen Spur zu sein.

Das fiel besonders bei Mohler auf. Es gab einerseits den Antifa-Popanz, andererseits den Autor, der mir freier, „liberaler“ und, ja, „toleranter“ und menschlicher erschien, als irgendeine rote Schranze, die ihre Säuberungswütigkeit mit hochtrabenden Ansprüchen schmückte. Besonders nahm mich seine Kunstsinnigkeit ein. Nicht nur vermochte er es, handfest und subtil zugleich über Belletristik, Lyrik und Malerei zu schreiben – er hatte auf jedes Thema, das er behandelte, einen unverwechselbaren Zugriff.

Und es gab ein Gebiet, wo Mohler eine besonders befreiende Wirkung ausübte: nämlich in seinen Betrachtungen zum Komplex der „Vergangenheitsbewältigung“ (ein Begriff, der heute kaum mehr benutzt wird, was der Praxis, die er bezeichnete, allerdings keinerlei Abbruch tut.) Diese Bücher, insbesondere „Der Nasenring“, haben endgültig mein Klischee von einem „Rechten“ zerstört. Ihre Argumentation erschien mir gescheit, realistisch, vernünftig, erwachsen, im besten Sinne humanistisch, auch wenn ich nicht immer d‘accord war.

Ich glaube, daß jeder denkende und fühlende Mensch, der in Deutschland oder Österreich geboren ist, irgendwann einmal mit der Geschichte seines Landes und den daraus folgenden Belastungen ins Klare kommen muß. Es ist wohl kein Zufall, daß Mohler gerade dieses Schlachtfeld wiederholt aufgesucht hat, denn keines ist dichter von „All-Gemeinheiten“, ahistorischen Abstraktionen, falschen Moralisierungen, „schrecklichen Vereinfachungen“, pauschalen Urteilen und so weiter umzäunt als dieses. Wohlfeile und wohlkalkulierte oder zur Gewohnheit eingerastete Instrumentalisierungen gehen hier mit deutschen Identitätsstörungen und unverarbeiteten Traumata einher, der nationale Selbsthaß mit dem „Klageverbot“ (so Hans-Jürgen Syberberg), die politische Erpressung mit der Unfähigkeit, zu trauern.

Mohlers Ausweg aus diesem Dschungel war genial. Er leitete sich aus seiner lebenslangen Begeisterung für die schöne Literatur [5]ab, die ihm als ein unentbehrlicher Weg zur „Welterfassung“ erschien.  Er lautete: dort wo, die Zangenbacken der ideologischen Abstraktionen und der moralistischen All-Gemeinheiten zubeißen wollen, dort soll man eine Geschichte erzählen.

Etwa die eines einzigen Menschen, der die Zeit des Dritten Reichs und des Zweitens Weltkriegs erlebt hat. Von Anfang an und nach der Reihe. Und dann die eines anderen, der genau das Gegenteil erlebt, und genau gegenteilig gedacht und gehandelt hat. Und dann eine dritte und eine vierte. Allmählich können wir auch wieder von Moral sprechen und von „Tätern und Opfern“, aber auf einer völlig veränderten Ebene. Diese Geschichten können Lebensberichte und Memoiren ebenso wie durchgestaltete Romane und Erzählungen sein.

Wer all dies wirklich in sich aufgenommen hat, wird zunehmends davor zurückscheuen, den Stab über vorangegangene Generationen zu brechen. Gerade die Deutschen müssen aufhören, über ihre Mütter und Väter, ihre Großmütter und Großväter, zu urteilen – sie sollten stattdessen versuchen, sie verstehen zu lernen.  Wir müssen unsere ganze Geschichte annehmen, und wir brauchen uns dazu auch nicht die schlechten Dinge schönzureden.

Schließlich aber, und hier war Mohler sehr scharf, kann ein richtiges Verhältnis zur eigenen Vergangenheit nicht gewonnen werden, wenn die historische Forschung zu stark politisiert wird, wenn Fragestellungen tabuisiert werden, wenn Historiker die Ächtung fürchten müssen (und es traf auch einen Diwald, einen Nolte, nicht nur einen Irving, der indes noch in den frühen Achtzigern mit Vorabdrucken im Spiegel rechnen konnte) und wenn per Gesetz entschieden wird, was historische Wahrheit ist und was nicht. Jeder Wissenschaftler, der hier noch seine Siebensachen beisammen hat [6], wird zugeben müssen, daß eine solche Praxis äußerst problematisch ist, und daß nicht damit geholfen ist, wenn man auf die Exzesse des lunatic fringe verweist.

Nun könnte man natürlich, etwa mit Egon Friedell, sagen, daß es eine rein „objektive“ und „interessenlose“ Geschichtsschreibung nicht gibt und nicht geben kann, daß man Historiographie, die wie die Künste einer Muse unterstellt ist, nicht so betreibt wie Naturwissenschaft – aber gerade dieser Gedanke ist in alle Richtungen hin gültig. Eine Buchveröffentlichung wie Stefan Scheils jüngster Kaplakenband „Polen 1939″ [7] steht von vornherein in einem politischen Raum, da die Vorgeschichte des Weltkriegs im Staatshaushalt der Bundesrepublik kein neutrales, sondern vielmehr ein mit politischer Bedeutung hoch aufgeladenes Feld ist. Dies gilt völlig unabhängig davon, ob sich Scheils Thesen als richtig oder falsch erweisen – sie bleiben so oder so ein Politikum.

Das nun also ist auch das eigentliche Thema von Mohlers Notiz 11 (5. August 1994), die sich in vermintes Gelände vorwagte, und darum von JF-Chefredakteur Dieter Stein von einer redaktionellen Infragestellung und einer Replik von Salcia Landmann [8] eingerahmt wurde. Man kann das alles im Kaplaken-Band nachlesen, darum will ich es an dieser Stelle nicht breittreten. Landmanns Antwort fiel, bei allem Respekt, zum Teil unterirdisch undifferenziert aus und schoß meilenweit und halbmanisch am eigentlichen Thema vorbei. Mohler kannte die sehr alte und sehr eigenwillige Dame noch aus Criticón-Tagen und nahm ihr selbst den Angriff nicht übel.

Anders erging es ihm allerdings mit dem Verhalten Dieter Steins. Dieser hatte im Grunde die „Notiz“ mit großen, roten Distanzierungsrufzeichen versehen, die vielleicht ein Spur zu dick aufgetragen waren. In seinem redaktionellen Beiwort wurde Mohler als eine Art seitenverkehrter, ebenfalls auf die Täter fixierter Habermas hingestellt, der lediglich die Deutschen exkulpieren wolle, wo der andere sie in pauschale Geiselhaft nahm.

Tatsächlich hatte Mohler in seiner „Notiz“aber genau vor diesem Ping-Pong des einseitigen Anschuldigens als auch einseitigen Exkulpierens gewarnt. Freillich hatte Stein das Recht, seine eigene Position zu markieren. Es ging hier aber vor allem um das „Wie“ des Vorgangs. Mohler fühlte sich verraten und in ungerechter Weise bloßgestellt, und schrieb an den noch sehr jungen Chefredakteur:

Was ist das für ein Kapitän, der einen aus der Mannschaft dem Feind zum Fraß vorwirft?

In der aktuellen JF [9] findet sich ein wie immer ausgezeichneter Leitartikel von Thorsten Hinz über die „Macht des Wortes“. Darin zeigt Hinz an konkreten Beispielen, was Gómez Dávila mit zwei Sätzen auf den Punkt gebracht hat.

 Wer das Vokabular des Feindes akzeptiert, ergibt sich ohne sein Wissen. Bevor die Urteile in den Sätzen explizit werden, sind sie implizit in den Wörtern.

Auf der Titelseite ist ein mir nicht bekannter Schauspieler namens Hannes Jaenicke zu sehen, der ein Buch mit dem Titel „Die große Volksverarsche“ geschrieben hat, in dem er „mit deutschen Journalisten abrechnet“, Zitat in der Schlagzeile: „Eure Blätter lese ich nicht mehr.“

Im Kulturteil ist skurrilerweiser versehentlich ein Old-School-Antifa-Bericht über den zwischentag [10] abgedruckt worden, der eigentlich in der taz erscheinen sollte. Der Autor, vermutlich ein Praktikant, legt darin den „Rechten“ die Freuden der sozialistischen Selbstkritik ans Herz. Er meint es gewiß nur gut, fragt sich bloß, mit wem. Vielleicht weiß auch die rechte Hand nicht mehr was die linke tut, oder irgendjemand ist mal wieder so listig wie die Tauben und so sanft wie die Schlangen, zu welchem Zweck auch immer.

Mein Artikel sollte aber von ganz anderen Freuden handeln. Aus diesem Grund will ich mit dem diesjährigen Neujahrsgeleitwort von Michael Klonovsky enden:

Lang leben die Völker dieser Erde! Es leben ihre Religionen, ihre Sitten, ihre Sprachen! Es lebe die traditionelle Familie! Es lebe die Ehe! Es leben die Geschlechterrollen! Es lebe die Weiblichkeit und die Männlichkeit! Vive la Mademoiselle! Es lebe die Monarchie! Es leben die Rassen und ihre fundamentalen Unterschiede! Es leben die Klassenschranken! Es lebe die soziale Ungerechtigkeit! Es lebe der Luxus! Es lebe die Eleganz! Es leben die Kathedralen, Kirchen und Tempel! Es lebe das Papsttum! Es lebe die Orthodoxie! Es leben die Atomkraft und die bemannte Raumfahrt! Es lebe der private Waffenbesitz! Es lebe der Aberglaube, der Geschichtsrevisionismus und der Biologismus! Es leben die Vorurteile und die Gemeinplätze! Es leben die Mythen! Es lebe alles Ehrwürdig-Althergebrachte! Es lebe die Meisterschaft in Kunst und Handwerk! Es lebe die Gewohnheit und die Regel! Es lebe der Alkohol, das Rauchen und das Fett im Essen! Es lebe die Aristokratie!  Es lebe die Meritokratie! Es lebe die Kallokratie! Es lebe das Versmaß, die Hochkultur und die Distinktion! Es lebe die Bosheit! Es lebe die Ungleichheit!

Ich sage dazu, auch mitten im Jahr, Ja und Amen, und Prost, Cheers, Sláinte, Skøl und Masel tov!