In tempo di crisi – economica, politica, sociale e culturale -, gli intellettuali possono costituire un faro nella nebbia per i cittadini “comuni”? E, se lo possono, lo devono anche?
Qual è il loro ruolo, esattamente, nel contesto della società? È giusto aspettarsi da loro che siano la nostra coscienza critica? O forse non commettiamo l’errore, quando essi – specialmente in tempi di crisi – ci additano la Luna, di guardare il dito anziché la Luna, ossia di prendere troppo alla lettere ciò che essi dicono, invece di cogliere lo spirito che li muove e l’orizzonte cui aspirano e che cercano di dischiudere, per sé e per noi?
È facile fraintenderli, quando li si prende alla lettera: come nel caso dei surrealisti. Tutto essi volevano, tranne che fondare una scuola; il loro credo fondamentale era la rivolta contro ogni sistema, quindi anche contro il surrealismo. E invece che cosa fa il pubblico, davanti agli intellettuali che contestano un sistema ormai agonizzante? Li innalza sugli altari di un nuovo sistema; li promuove a profeti di una nuova religione – che essi lo vogliano o no. E, anche se lo vorrebbero – come nel caso di Spengler, di cui tra poco parleremo – non è detto che noi rendiamo loro un buon servizio, accontentandoli; certamente non lo rendiamo a noi stessi.
Tutte queste domande e queste considerazioni ci sono venute alla mente rileggendo un famoso brano del libro di H. Kohn (I Tedeschi, traduzione italiana Edizioni di Comunità, Milano, 1963), dedicato agli intellettuali tedeschi di fronte al nazismo.
Non è un brano molto breve, tuttavia ci sembra indispensabile riportarlo integralmente, per non correre il rischio di falsare, semplificandolo, il pensiero dell’Autore; dopo di che svilupperemo le nostre riflessioni, portandole dal piano storico contingente (la crisi della Repubblica di Weimar e l’avvicinarsi del nazismo al potere) a quello della riflessione storico-filosofica generale, per cercar di trarne qualche utile insegnamento per il presente.
«In poco più di un decennio gli intellettuali furono in grado di condurre il popolo tedesco nell’abisso. Non ci sarebbero riusciti se non fossero stati preceduti da generazioni di preparazione, in cui germanofilismo e antioccidentalismo erano divenuti sempre più caratteristici del pensiero nazionale. Nell’ultimo stadio il nazionalismo tedesco respinse non solo la civiltà occidentale, ma anche la validità della vita civile. «Il nuovo nazionalismo – ammonì Ernest Robert Curtius nel 1931 – vuole buttar via non solo il diciannovesimo secolo, attualmente tanto calunniato, bensì addirittura tutte le tradizioni storiche». I pensatori nazionalisti francesi – Charles Maurras,o Maurice Barrès – non si spinsero mai fino al punto di rivoltarsi contro la civiltà. In Germania gli antintellettuali non erano plebaglia, ma intellettuali di primo piano, uomini spesso di gusti raffinati e di grande erudizione.
Mettendosi a considerare ogni cosa dall’angolo visuale tedesco, essi si convinsero che la civiltà occidentale fosse dappertutto profondamente minata come in Germania. Partendo da osservazioni parziali arrivarono alle conclusioni più estreme. Identificarono la situazione tedesca, com’era peraltro da essi interpretata, con quella dell’umanità, addirittura con quella dell’universo. Gottfried Benn non dubitava che il periodo quaternario dell’evoluzione geologica stessa approssimandosi alla fine, che l’homo sapiens stesse diventando sorpassato. Nessuna espressione era tanto forte da riuscire a manifestare tutto l’odio nutrito per la civiltà occidentale, il liberalismo, l’umanitarismo. La filosofia di Martin Heidegger, la dottrina politica di Carl Schmitt, la teologia di Karl Barth contribuirono per parte loro a convincere gli intellettuali che l’umanità aveva raggiunto una svolta decisiva, una crisi senza precedenti causata dal liberalismo. Questi intellettuali guardavano dall’alto in basso l’Occidente con lo stesso disprezzo più tardi manifestato dai capi nazisti. Allo stesso tempo si mostravano arrogantemente sicuri che il pensiero tedesco, proprio per la sua consapevolezza della crisi, fosse l’unico degno della nuova epoca storica. […]
“La comprensione classica della tradizione, così viva in Goethe, fu perduta negli anni trenta in Germania come in Russia. L’arte divenne ‘popolare’, ‘nuova’ e ‘utilitaria’; la forma non contò più. Nadler si sentì autorizzato a criticare Goethe perché «un uomo come lui non poteva trasformare un popolo». Ora il popolo si stava «trasformando»; perlomeno i suoi portavoce se ne vantavano. Un periodico molto stimato, Hochschule und Ausland, dedicato al mantenimento dei contatti fra le università tedesche e quelle straniere, nell’aprile del 1937 cambiò testata assumendo il nuovo nome di Geist der Zeit (Spirito dei tempi). Il suo editoriale dichiarò con appropriata modestia: «Non c’è alcuna nazione in Europa, e non ce n’è mai stata alcuna al di fuori della Grecia, in cui lo spirito è così vivo come nell’odierna Germania». Ma gli intellettuali tedeschi sbagliavano scambiando il loro spirito dei tempi con l’effettivo spirito del tempo. Nella loro cieca antipatia per l’Occidente essi interpretavano erroneamente la storia. […]
Moeller, Spengler e Jünger ritenevano che la guerra perduta si sarebbe trasformata in vittoria, se i tedeschi si fossero resi conto di rappresentare lo spirito dei tempi – Moeller aveva iniziato la sua attività come critico letterario e principale traduttore tedesco di Dostoevskij. La guerra comunque lo trasformò da uomo di cultura in pensatore politico. Nel Diritto dei popoli giovani, apparso all’inizio del 1919, egli chiedeva che fosse riconosciuto il diritto all’espansione delle giovani nazioni, che avevano idee nuove, mentre il decrepito Occidente non era altro che una continuazione del sorpassato diciottesimo secolo. Fra i popoli giovani era la Prussia che avrebbe assunto la funzione di guida. «Verrà il momento in cui tutti i popoli giovani, in cui tutti coloro che si sentono giovani, riconosceranno nella storia prussiana la più bella, la più nobile, la più virile storia politica dei popoli europei». […]
“Nel 1923, due anni prima di suicidarsi, Moeller pubblicò il suo libro più autorevole, Das Dritte Reich. Il titolo non può essere tradotto con ‘Terzo Impero’. Il Reich è nella sua essenza molto più di un impero. Ci sono più imperi, c’è un unico Reich. «Il nazionalismo tedesco – scriveva Moeller – è un campione del Reich finale: sempre ricco di promesse, mai concluso… C’è un unico Reich, come c’è un’unica Chiesa. Gli altri pretendenti al titolo non possono essere altro che uno stato, una comunità o una setta. Esiste solo Il Reich». Creando il Reich, i tedeschi non agivano per se stessi, ma per l’Europa. Il loro Reich era urgentemente necessario perché la civiltà occidentale aveva non elevato, bensì degradato l’umanità. «Circondato dal mondo in sfacelo che è il mondo vittorioso di oggi, il tedesco cerca la sua salvezza. Cerca di preservare quei valori imperituri, che sono tali per propria natura. Cerca di assicurare la loro permanenza nel mondo riconquistando il rango a cui hanno diritto i loro difensori. Allo stesso tempo combatte per la causa dell’Europa, per ogni influenza europea che si irradia dalla Germania in quanto centro dell’Europa… L’ombra dell’Africa si proietta sull’Europa. È nostro compito fare da sentinella sulla soglia dei valori».
Moeller definiva il Reich «una vecchia bella idea tedesca che risale al Medioevo, ed è associata all’attesa di un regno millenario». Esso sarebbe stato genuinamente socialista e antiliberale. Il terzo capitolo del libro portava come motto le significative parole «Col liberalismo il popolo perisce».Il socialismo tedesco non aveva nulla in comune col materialismo storico marxista e con la lotta di classe internazionale. Era la solidarietà nazionale di un popolo sfruttato dalla plutocrazia straniera; era l’idea dell’altruismo al servizio del bene comune anziché del perseguimento del profitto personale. «Dove finisce il marxismo – scriveva Moeller – lì comincia il socialismo: un socialismo tedesco, la cui missione è quella di soppiantare nella storia intellettuale dell’umanità ogni specie di liberalismo. Il socialismo tedesco non è compito di un Terzo Reich. È piuttosto la sua base». Moeller accettava la rivoluzione antiliberale e antiplutocratica di Lenin come un tipo di socialismo nazionale peculiarmente adatto alla Russia e si dichiarava propenso a collaborare con essa purché dirigesse la sua espansione verso l’Asia e ammettesse la legittimità della missione della Germania nelle terre di confine russo-tedesche.[…]
Oswald Spengler in Preussentum und Sozialismus [Prussianesimo e Socialismo] (1919) fece un altro passo avanti: «Solo quello tedesco è vero socialismo! Il vecchio spirito prussiano e il socialismo, benché oggi sembrino contrari l’uno all’altro, sono in realtà tutt’uno». Questo libro relativamente beve di Spengler rimase sconosciuto al pubblico inglese, ma attrasse molti più lettori tedeschi dei due grossi volumi della sua opera principale. Le idee esposte in Preussentum und Sozialismus furono, come egli stesso confessò, il nucleo (Kern) da cui si sviluppò tutta la sua filosofia. Il libro è basilare non solo per la conoscenza dell’autore, ma anche per la conoscenza del periodo weimariano. Naturalmente Spengler contrapponeva i suoi prussiani socialisti agli individualisti inglesi attaccati al denaro, che facevano ognuno per conto proprio, mentre i primi erano legati l’uno all’altro. Quando gli inglesi lavoravano, lo facevano per smania di successo; i prussiani lavoravano invece per amore del dovere da compiere. In Inghilterra era la ricchezza che contava, in Prussia l’azione. Il socialismo marxista era profondamente influenzato dalle idee inglesi. Marx infatti, al pari degli inglesi, non ragionava dal punto di vista dello stato, bensì da quello della società. Per lui, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità. A detta di Spengler, Federico Guglielmo I, il re-soldato prussiano del diciottesimo secolo, e non Marx, era stato «il primo socialista cosciente». Soltanto la Prussia era uno stato reale, e quindi uno stato socialista. «Qui, nel senso stretto del termine, non esistevano individui isolati. Chiunque viveva nell’ambito del sistema, che funzionava con la precisione di una buona macchina, faceva parte della macchina».
Spengler andava a ritroso nella storia per spiegare la differenza fra inglesi e prussiani; il carattere inglese derivava dai saccheggiatori vichinghi, quello prussiano dai devoti Cavalieri Teutonici. Malgrado lo storicismo, ora brillante, ora falso, gli scritti di Spengler intendevano essere non distaccate opere di studio, bensì littérature engagée [letteratura impegnata]. Il suo Preussentum und Sozialismus era infatti un fervido appello alla gioventù tedesca, lanciato nell’ora della disfatta e dello sconforto. «Nella nostra lotta – egli scriveva nell’introduzione – conto su quella parte della nostra gioventù che sente profondamente, al di là di tutti gli oziosi discorsi quotidiani, […] l’invincibile forza che continua a marciare in avanti malgrado tutto, una gioventù […] romana nell’orgoglio di servire, nella umiltà di comandare, preoccupata di chiedere non diritti dagli altri, bensì doveri da se stessa, senza eccezione, senza distinzione, per realizzare il destino che sente nel suo intimo. In questa gioventù vive una tacita coscienza che integra l’individuo nel tutto, nella nostra cosa più sacra e profonda, un patrimonio di duri secoli, che distingue noi fra tutti i popoli, noi, i più giovani, gli ultimi della nostra civiltà. A questa gioventù io mi rivolgo. Possa essa comprendere quello che ora diventa il suo compito futuro. Possa essere fiera di aver l’onore di affrontarlo.»
L’appello di Spengler alla gioventù si faceva ancora più fervido alla fine del libro: «Chiamo a raccolta coloro che hanno midollo nelle ossa e sangue nelle vene… Diventate uomini! Non vogliamo più discorsi sulla cultura, sulla cittadinanza mondiale, sulla missione spirituale della Germania. Abbiamo bisogno di durezza, di ardito scetticismo, di una classe di dominatori socialisti. Ancora una volta: socialismo significa potenza, potenza, ancora e sempre potenza. La via verso la potenza è chiaramente segnata: i più valenti lavoratori tedeschi devono unirsi ai migliori rappresentanti del vecchio spirito politico prussiano, gli uni e gli altri decisi a creare uno stato rigidamente socialista, una democrazia nel senso prussiano, gli uni e gli altri legati da un comune senso del dovere, dalla coscienza di un grande compito, dalla volontà di obbedire per dominare, di morire per vincere, dalla forza di compiere tremendi sacrifici per realizzare il nostro destino, per essere quel che siamo e quel che senza di noi non esisterebbe. Noi siamo socialisti. Noi non intendiamo esser stati socialisti invano».
La filosofia spengleriana della storia era concisamente esposta in un brano di Preussentum und Sozialismus: «La guerra è eternamente la più alta forma di esistenza umana, e gli stati esistono per la guerra; essi manifestano per la guerra essi manifestano la loro preparazione alla guerra. Anche se un’umanità stanca e smorta desiderasse rinunciare alla guerra, essa diventerebbe, anziché il soggetto, l’oggetto della guerra per cui e con cui gli altri guerreggerebbero».
Lo stesso tema viene ripetuto nel secondo volume del Tramonto dell’Occidente, apparso nel 1922: «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace.» E nell’ultimo libro pubblicato, undici anni dopo, Anni della decisione, egli affermava con ripetitività quasi hitleriana: «La lotta è il fatto fondamentale della vita, è la vita stessa. La noiosa processione di riformatori, capaci di lasciare come loro unico monumento montagne di carta stampata, è ora finita… La storia umana in un periodo di civiltà altamente evoluta è storia di potenze politiche. La forma di questa storia è la guerra. La pace è soltanto […] una continuazione della guerra con altri mezzi […] Lo stato è l’essere in forma di un popolo, che è da esso costituito e rappresentato, per guerre attuali e possibili». Questa filosofia della storia ultrasemplificata portava la priorità della politica estera su quella interna, tipica di Ranke, a un estremo palesemente assurdo. Civiltà e religioni, istituzioni e costituzioni, economia e benessere nazionale non contavano più nella storia; non rimaneva che la politica estera, ridotta essa stessa alla guerra e alla preparazione della guerra. Le guerre non erano più eccezioni o incidenti, erano il fatto centrale della vita e della storia, il loro significato e coronamento. La prima nazione moderna che l’aveva compreso era, secondo Spengler, la Prussia, che su questa consapevolezza basava la sua pretesa di supremazia nella nuova era. «La Prussia – egli scriveva – è soprattutto priorità incondizionata della politica estera su quella interna, la cui sola funzione è quella di mantenere la nazione in forma per quel compito.»[…]
Le teorie politiche proclamate da Spengler col tono di un veggente furono esposte, in veste più erudita, da Carl Schmitt, professore di diritto internazionale e costituzionale all’università di Bonn, per due decenni il più autorevole maestro di diritto pubblico in Germania. I suoi scritti, legati a quelli di Spengler, introdussero una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale. […]
La guerra era un momento importante della vita politica e della vita in genere; l’inevitabile relazione amico-nemico dominava ogni settore. «I punti culminanti della grande politica – sosteneva Schmitt – sono quelli in cui si discerne il nemico con estrema concreta chiarezza come nemico». Questa teoria politica corrispondeva al presunto primordiale istinto combattivo dell’uomo che tendeva a considerare chiunque si frapponesse all’appagamento dei suoi desideri come un avversario da toglier di mezzo. La tradizionale arte di governo dell’Occidente, invece, consisteva nel trovare e vie e i mezzi per superare l’istinto primitivo col negoziato paziente, col compromesso, con uno sforzo di reciprocità, soprattutto con l’osservanza di leggi universalmente vincolanti.
La totalitaria filosofia di guerra fu così riassunta da Schmitt: «La guerra è l’essenza di ogni cosa. La natura della guerra totale determina la forma naturale dello stato totale». Comprensibilmente, egli nutriva un profondo disprezzo per il diciannovesimo secolo, «un secolo pieno d’illusione e frode.» Nel suo stato ideale di quest’epoca, ovviamente immune da illusioni e frode, la vita nella sua interezza era subordinata al conflitto armato. in tale ordine d’idee Karl Alexander von Müller, direttore della Historische Zeitschrift [Rivista storica], l’organo ufficiale degli storici tedeschi, concluse, nel numero di settembre del 1939, un editoriale sulla guerra con le parole: «In questa battaglia d’animi troviamo il settore delle trincee che è affidato alla scienza storica della Germania. Essa monterà la guardia. La parola d’ordine è stata data da Hegel: lo spirito dell’universo ha dato l’ordine di avanzare; tale ordine sarà ciecamente obbedito».
In questo brano di riflessione storica emergono, a nostro avviso, alcuni tipici difetti della storiografia d’impostazione liberal-democratica, primo fra tutti quello di presentarsi (e percepirsi essa stessa) come la storiografia, immune da passioni e pregiudizi, e perciò titolata a giudicare, davanti al tribunale della storia, tutte le altre ideologie. Intendiamoci: molti giudizi sono pertinenti e perfettamente condivisibili. Giusto porre l’accento sulle responsabilità politiche ed etiche degli intellettuali tedeschi dell’epoca di Weimar nell’aver spianato la strada al nazismo; giusto evidenziare la rozzezza e le eccessive semplificazioni della filosofia della storia di Moeller, Spengler, Schmitt; e giusto anche aver richiamato il fatto che il successo di quella impostazione dei problemi politici, nella cultura e nella società, non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata una lunga preparazione, da parte di generazioni e generazioni di intellettuali che li avevano preceduti.
In che cosa verte, dunque, la nostra perplessità, davanti all’approccio storiografico di Kohn? Essenzialmente nel fatto che egli, tutto preso dal suo pathos moralistico, sembra essersi scordato che il compito primo e fondamentale del mestiere di storico (e anche dello storico del pensiero) non è quello di giudicare, ma di sforzarsi di capire. Il che, naturalmente – giova ripeterlo, onde evitare il solito malinteso tanto caro ai moralisti in male fede – non significa giustificare alcunché. Nel caso specifico, a Kohn è sfuggita la comprensione di quanto di originale poteva esservi nella “rivoluzione conservatrice” che ha coinvolto, oltre a Moeller, Spengler e Schmitt, anche personalità della statura di Heidegger, Jünger, Frobenius, Gogarten e, per certi versi, anche Jung; per non parlare, fuori della Germania, di Hamsun, Pound, Evola, Gentile, Ungaretti, Pirandello, Unamuno, Barrés, Eliade, … dobbiamo continuare? E occorre ricordare che alcuni di questi intellettuali, anche fra quelli particolarmente presi di mira da Kohn, ebbero il coraggio di opporsi al nazismo, o ad aspetti significativi della sua politica, esponendosi in prima persona? Il tanto vituperato Spengler rifiutò di aderire al fanatico antisemitismo nazista e avrebbe subito gravi rappresaglie, se la morte non fosse giunta in buon punto, nel 1936, per metterlo al riparo da esse. Jünger, col romanzo Sulle scogliere di marmo, presentò apertamente Hitler come un malvagio e dissennato timoniere che porta la nave della Germania verso la catastrofe; e suo figlio venne ucciso dai nazisti. Heidegger, come è noto, si dissociò al regime e si chiuse in un cupo silenzio, pur non schierandosi esplicitamente contro di esso.
Ma, si dirà, Kohn non accusa costoro di essere stati dei cripto-nazisti, bensì di avere oggettivamente spianato il terreno della cultura tedesca all’influsso nefasto del nazismo. Senonché, è proprio quell’avverbio, oggettivamente (che ricorda, guarda caso, altri climi politici e altre condanne spicciole), che ci sembra ingeneroso e poco corretto dal punto di vista del metodo. In un’epoca di crisi, morale non meno che materiale, gli intellettuali vanno anch’essi a tentoni e non li si può accusare con troppa disinvoltura di aver preparato le catastrofi a venire, istituendo per loro una sorta di retroattività morale. Lungi da noi voler minimizzare le responsabilità degli intellettuali; senz’altro alcuni di essi sono stati dei cattivi maestri, e ne portano tutta intera la responsabilità. Occorre, però, distinguere bene i due piani della riflessione: quello storico e quello etico. Se il libro di Kohn, I Tedeschi, vuol essere un libro di storia, è necessario che del metodo storico accetti le premesse e l’impostazione generale: la priorità rivolta allo sforzo di comprendere, innanzitutto. E non ci pare che egli abbia fatto molto in tal senso. Non ha tenuto conto del punto di vista interno della società tedesca nel periodo della Repubblica di Weimar; e non ha tenuto conto della frustrazione e del risentimento, in parte comprensibili, con i quali il popolo tedesco visse quel periodo, dopo che a Versailles Clemenceau era riuscito a far prevalere la logica della pace “punitiva” e dopo che l’inflazione aveva polverizzato non solo i risparmi e i frutti del lavoro di una intera generazione, ma anche – apparentemente – le speranze di rinascita del popolo tedesco.
Se la famosa pugnalata alla schiena è, infatti, un mito bello e buono, inventato dalla cricca militare prussiana per scaricare sulla società civile, e specialmente sulla socialdemocrazia, la responsabilità della sconfitta in quella guerra che essa aveva fortemente voluto, considerandola – a torto o a ragione – necessaria e inevitabile per la sopravvivenza della Germania come grande potenza, vi sono pochi dubbi – a nostro parere – che il popolo tedesco, al termine della prima guerra mondiale (e, di nuovo, con la crisi della Ruhr del 1923), fu vittima di una grossa ingiustizia storica. Se si fa astrazione da ciò, si rischia di non capire come le parole e gli slogan degli intellettuali conservatori tedeschi ebbero tanta risonanza e tanto successo, specialmente fra la gioventù, negli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Lo storico, invece – anche e, per certi aspetti, soprattutto lo storico del pensiero – deve sempre e rigorosamente contestualizzare. Non si può comprendere Lutero fuori del proprio tempo e della propria situazione storica; non si può comprendere Kant; non si può comprendere Hegel o Nietzsche o Heidegger. In verità, non si può comprendere niente; a meno che si immagini che il pensiero non vada in nulla debitore della società che lo esprime.
Un’altra riflessine di carattere generale che ci sembra opportuno fare è che la sconfitta, così nella vita del singolo individuo come in quella dei popoli, è portatrice di una crisi che può anche essere salutare, perché costringe, letteralmente, a prendere atto di una inadeguatezza e a elaborare delle strategie per superare le presenti difficoltà. La società tedesca non era stata certo l’unica responsabile della tragedia del 1914-1918; ma, alla fine della guerra, si trovò dalla parte del perdente e quindi, automaticamente, dalla parte del torto (cosa che si sarebbe ripetuta di lì a ventisette anni). Una clausola del trattato di pace imponeva ai rappresentanti della Germania di firmare una dichiarazione in cui la loro patria si assumeva, tutta intera, la responsabilità di quanto era accaduto: e questo sotto la minaccia di una ripresa immediata della guerra. Mai si era vista una simile prepotenza giuridica, per giunta sotto l’ipocrita bandiera del democraticismo wilsoniano; ma Erzberger dovette trangugiare, a nome del suo popolo, l’amaro boccone (cosa che ne provocò la condanna a morte da parte dell’estremismo nazionalista: condanna che fu eseguita, pochi anni dopo, da un giovane assassino).
Né basta. Per tre volte – nel 1919, nel 1923 e nel 1929 – l’economia tedesca fu travolta dalla terribile bufera della crisi economica, che spazzò il risparmio e creò milioni e milioni di disoccupati. Ogni volta la società tedesca riusciva a rimettersi in piedi, compiendo degli sforzi veramente titanici, un intervento esterno la rigettava a terra. Nel 1919 la pace punitiva – con le mutilazioni territoriali, la perdita delle colonie e della marina, l’enorme indennità di guerra da pagare agli Alleati; nel 1923 l’occupazione francese e belga del bacino minerario della Ruhr, che rendeva ancor più impossibile soddisfare quei pagamenti; nel 1929 il crollo della borsa di Wall Street, cui gli speculatori della finanza ebraica newyorkese non furono certo estranei: e la terza volta spianò la strada a Hitler. C’è da chiedersi, semmai, come poté resistere tanto a lungo la società tedesca alle sirene del nazismo, con la comunità internazionale ben decisa a distruggerne la volontà di ripresa e la Lega delle Nazioni, comodo paravento giuridico-morale delle plutocrazie britannica e francese, a fare da cane da guardia alle assurde decisioni politiche e territoriali della Conferenza di Versailles.
Tale il contesto del decennio preso in esame da Kohn (1923-33), e che egli chiama “la marcia verso l’abisso”, attribuendone tutta la responsabilità morale agli intellettuali tedeschi, che avrebbero dissennatamente predicato la violenza e l’esasperazione del darwinismo sociale e del machiavellismo politico. Egli conclude affermando che, per opera di Schmitt e di Spengler, penetrò nella cultura tedesca “una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale”. Omette però di precisare che la Germania, a causa della miopia e dell’egoismo delle classi dirigenti britanniche, francesi e americane, da oltre un decennio non viveva affatto in una situazione “normale”; che potenti forze economico-finanziarie internazionali facevano di tutto per tenerla in una condizione di cronica e disperata anormalità.
Così pure, quando Spengler afferma che «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace», Kohn omette di precisare che questa visione cinica e brutale della vita umana era stata ampiamente diffusa (anche se non “inventata”) dall’egoismo e dalla cecità dei vincitori di Versailles. Era stata la loro politica ad insegnare agli sconfitti la dura legge del vae victis, la legge inumana secondo la quale la pace è un lusso degli oziosi e degli imbelli o un’utopia dei sognatori, e che la sola cosa che conta è la forza. Per giunta, i brutali vincitori avevano ammantato tale machiavellismo con le vesti rispettabili dell’umanitarismo wilsoniano e della democrazia liberale, sanzionando a posteriori, con una capillare opera di propaganda e di diplomazia internazionale, il puro e semplice trionfo della forza. Come avrebbero fatto col processo di Norimberga (e con quello di Tokyo) alla fine della seconda guerra mondiale. Un processo ove i crimini tedeschi (e giapponesi) vennero giudicati dagli stessi vincitori, ragion per cui nessun fiatò sui crimini anglo-americani e sovietici.
Ma veniamo allo specifico, e cioè alle caratteristiche fondamentali della cultura tedesca nel decennio 1923-33, in cui Kohn vede solo e unicamente una marcia verso l’abisso, una preparazione del diluvio nazista, mentre gli sfuggono completamente le esigenze autentiche e legittime di rinnovamento che si esprimevano in quel contesto e con quella tradizione storica: elementi dai quali non è lecito prescindere, a meno di fare un’operazione culturale altamente anti-storica. Non entriamo ora nel merito della filosofia di Mueller, Spengler, Schmitt, e neanche di Jünger, Wittgenstein o Gogarten, perché ciò esulerebbe, e di molto, dai limiti che ci siamo prefissi. Desideriamo piuttosto far notare che questi autori (che, fra l’altro, non vanno arbitrariamente omologati, pena il perdere di vista la specificità intellettuale di ciascuno d’essi) testimoniano uno sforzo del pensiero per trovare nuove certezze dopo le tremende delusioni e i traumi del periodo precedente e, al tempo stesso, un tentativo di ridefinire lo spazio culturale della Mitteleuropa, e anche dell’Europa in generale, nei confronti di un “Occidente” sentito ormai come una realtà socio-culturale al tempo stesso obsoleta e artificiale. In questo senso, furono i promotori di un’autocritica del pensiero europeo: autocritica, ripetiamo, nata dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale; mentre nulla di simile fu neanche immaginato dalla cultura delle nazioni vincitrici, tutte intente a godersi il bottino di Versailles e, semmai, a giocare cinicamente sulle rivalità dei nuovi, piccoli Stati dell’Europa centrale (Cecoslovacchia, Jugoslavia, ecc.) sorti dallo sfacelo del vecchio ordine europeo.
È vero, gli intellettuali inglesi e francesi degli anni Venti non hanno seminato idee ultranazionaliste e guerrafondaie. Non ve n’era bisogno: la cultura di quei Paesi si godeva la meravigliosa sensazione di aver affrontato e superato una dura prova e, alla fine, di aver contribuito al trionfo della giustizia, della libertà, della democrazia. Gli intellettuali tedeschi – e, a maggior ragione, quelli austriaci o dell’area ex asburgica: Musil, Roth, Kafka, von Rezzori, Cioran – erano costretti a interrogarsi non solo sulla sconfitta e sulla disintegrazione della vecchia Mitteleuropa, ma anche sull’incipiente disintegrazione dello spirito europeo, sulla stessa disintegrazione dell’Io come soggetto unitario della coscienza. Avevano a che fare con una situazione estrema, e fecero del loro meglio per trovare un raggio di luce, una indicazione che li guidasse fuori dalla crisi, verso il futuro. Possiamo discutere la saggezza della via da essi battuta e dissentire da alcuni aspetti della loro polemica; tuttavia, se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che non tutte le ragioni della loro polemica erano infondate.
Quando Spengler, ad esempio, affermava che “per Marx, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità”, non ci sembra che dicesse cosa molto lontana dal vero. Anche l’osservazione che nel vecchio sistema prussiano erano impliciti elementi di socialismo e che, ad ogni modo, in Germania il senso dei valori collettivi prevaleva sull’individualismo, non era peregrina; come non era infondata la convinzione di Moeller che il regime bolscevico, per le sue istanze profonde antiplutocratiche, fosse – nonostante le apparenze – ideologicamente più vicino agli interessi e al sentire del popolo tedesco di quanto non lo fossero i sistemi liberal-democratici dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. La polemica degli intellettuali tedeschi contro l’umanitarismo era sicuramente riprovevole, così come pericoloso il loro continuo soffiare sul fuoco del nazionalismo esasperato. Però bisogna rendersi conto di una cosa: essi sentivano il dovere di ricorrere a ogni mezzo per rimettere in piedi un popolo che era stato ridotto in ginocchio e che era tuttora vittima di una ingiustizia storica. La spettacolare crescita economica, culturale e sociale tedesca del Secondo Reich, fra il 1871 e il 1918 (sì, anche sociale: con una delle legislazioni del lavoro fra le più avanzate al mondo) era stata letteralmente strangolata da una coalizione mondiale che adesso era ben decisa a impedire che la Germania si rialzasse e tornasse a mettere in pericolo i privilegi acquisiti dalle potenze mondiali più vecchie.
Gli storici come H. Kohn, implicitamente o esplicitamente, rimproverano agli intellettuali tedeschi di quel periodo di non aver fatto nulla per convogliare le simpatie dei loro compatrioti verso gli istituti della democrazia. Così facendo, sembrano dimenticare un elemento fondamentale, che oggi si ripete in Iraq e in varie altre parti del mondo: la democrazia era stata, per la Germania, non il punto d’arrivo di un processo interno e naturale, ma la conseguenza della sconfitta e, in un certo senso, una imposizione dei vincitori. Quantomeno, gli Alleati si erano serviti della Repubblica democratica di Weimar per presentare al popolo tedesco il conto salatissimo della Conferenza di Versailles e della pace-capestro. Portata al potere dal doppio trauma della disfatta militare e del diktat dei vincitori, la Repubblica non era amata e, soprattutto, non era sentita come parte della tradizione storica nazionale.
Si può, naturalmente, chiamare in causa la scarsa maturità politica della classe dirigente tedesca e, più in generale, la tradizione filistea del ceto medio, sempre pronto – in particolare dal 1870 – ad applaudire il vincitore di turno, ossia qualunque governo capace di portare al successo l’affermazione dello Stato con la forza materiale. Questo, certamente, era il peccatum originalis del Secondo Reich: il “patto col diavolo” della borghesia tedesca che, nel 1866 e nel 1870, si era inchinata davanti alla politica di Bismarck solo perché, sul piano della pura forza, si era dimostrata vincente. Ma sarebbe antistorico e ingeneroso addossare tutte le colpe agli intellettuali che, negli anni Venti, dovettero procedere alla liquidazione del vecchio mondo e delle vecchie certezze a prezzi fallimentari; e che, contemporaneamente, dovettero cercare in tutta fretta di fornire nuovi orientamenti al loro popolo traumatizzato e demoralizzato.
Più in generale, ci sembra che la vicenda della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” segni l’ultimo sprazzo di vitalità della cultura europea, l’ultima sua reazione davanti alle forze inumane e omologanti che oggi chiamiamo della globalizzazione, ma che già allora venivano percepite come una americanizzazione del vecchio continente, capace di fare piazza pulita, in nome della borsa, del profitto e dei metodi tayloristici di organizzazione scientifica del lavoro, dell’anima stessa del vecchio continente. Si può interpretare l’opera filosofica di Mueller, Spengler, Schmitt e Jünger come una reazione, aristocratica e popolare al tempo stesso, contro gli aspetti più minaccioso della modernità, primo fra tutti il prevalere delle logiche del mercato su quelle della società civile, della quantità sulla qualità, dell’egoismo privato sull’interesse collettivo. In breve, si può interpretare il pensiero di quegli autori come un tentativo disperato, nostalgico e anti-moderno, di ripristinare i valori tramontati dell’aristocrazia davanti al trionfo degli aspetti più massificanti ed egoistici dello spirito borghese.
Certo, vi furono molte, troppe scorie all’interno di un tale tentativo; vi fu un uso irresponsabile di slogan aggressivi e razzisti; vi fu un disprezzo esagerato e irragionevole per tutto quanto, a torto o a ragione, era considerato parte di quello spirito borghese e, pertanto, parte di quel quadro internazionale che aveva penalizzato così duramente la patria tedesca. Vi furono molte semplificazioni assurde, molti facili luoghi comuni e un uso troppo disinvolto di formule dall’intrinseco potere distruttivo, che avrebbero sospinto alla catastrofe la società tedesca per la seconda volta nel volgere di una sola generazione. Però, lo ripetiamo, occorre tener conto della particolare situazione tedesca, anche sul piano internazionale. Da una parte la Russia staliniana, dall’altra i vincitori di Versailles, chiusi e sordi a ogni senso di equità e di saggezza, protesi unicamente a sfruttare al massimo i loro immensi imperi coloniali e i profitti giganteschi che la guerra stessa, come nel caso degli Stati Uniti, aveva portato loro.
La Germania, pertanto, si sentiva come una cittadella assediata e abbandonata alle sue risorse; o trovava in se stessa la forza di reagire, o sarebbe perita, forse per sempre. Questo videro i Mueller, gli Spengler e gli Schmitt. Bisognerebbe tener conto del dramma che stava vivendo il loro popolo, prima di giudicarli con una severità dettata dal senno di poi e da una serie di pregiudizi ideologici che derivano proprio dal fatto che la storia, una volta di più, l’hanno fatta e continuano a farla i vincitori. Basti pensare al destino riservato, circa vent’anni dopo, al cuore della Germania, la vecchia Prussia: smembrata, svuotata dei suoi abitanti con una spietata pulizia etnica, cancellata totalmente dalla carta geografica. Vae victis, appunto: gli Alleati, nel 1945 come nel 1918, non amavano i toni rozzi e aggressivi alla Spengler, ma agivano esattamente in base a quei criteri, brutali e machiavellici, che tanto li disgustavano quando a teorizzarli erano i Tedeschi.
Keith Preston
Keith Preston is the chief editor of AttacktheSystem.com and holds graduate degrees in history and sociology. He was awarded the 2008 Chris R. Tame Memorial Prize by the United Kingdom's Libertarian Alliance for his essay, "Free Enterprise: The Antidote to Corporate Plutocracy."