Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

mardi, 03 mars 2015

Carl Schmitt aveva ragione

Carl Schmitt aveva ragione

2775670,1518510,highRes,Carl+Schmitt+%28media_126098%29.jpgDopo la chia­mata alle armi con­tro lo Stato isla­mico e la con­se­guente defi­ni­zione di «guer­riero cro­ciato» rife­rita al nostro mini­stro degli Affari Esteri (e della coo­pe­ra­zione), e con­se­guen­te­mente di nazione nemica rife­rita all’Italia, gli ana­li­sti nazio­nali por­ta­voce degli inte­ressi supe­riori dell’economia si sono sca­te­nati in una ridda di arti­coli che ten­dono a ricon­fi­gu­rare le prio­rità della poli­tica estera euro­pea, e nazio­nale, nei ter­mini di una rin­no­vata «guerra glo­bale con­tro il terrorismo».

L’idea di fondo, comune alla grande stampa main­stream, è quella che l’Europa deve «ripen­sare la guerra»; dopo più di set­tanta anni di pace, infatti, que­sta pro­se­cu­zione della poli­tica con altri mezzi, come diceva Clau­sewitz, si pre­senta ora­mai come una alter­na­tiva con­creta alle incon­si­stenti mano­vre diplo­ma­ti­che fina­liz­zate a cir­co­scri­vere le varie crisi in atto, in par­ti­co­lare quelle ine­renti il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico. E allora sarebbe utile, per que­sti appren­di­sti stre­goni, ricor­dare loro le rifles­sioni di Carl Sch­mitt con­te­nute nel suo Nomos della terra, un testo fon­da­men­tale per chi voglia capire, dalla parte di un pen­siero con­ser­va­tore, se non fran­ca­mente rea­zio­na­rio, e dun­que in linea con quello attuale e pre­va­lente, l’evoluzione, o meglio l’involuzione, di que­sto stru­mento geopolitico.

La rifles­sione si apre con il 2 aprile 1917, l’entrata in degli Usa nella Prima Guerra Mon­diale. Sono le moti­va­zioni «uma­ni­ta­rie» quelle che col­pi­scono di più l’autore tede­sco; infatti, Wil­son impe­gna gli Stati uniti con­tro «la guerra navale tede­sca, con­dotta con­tro tutte le nazioni del mondo, ovvero con­tro l’umanità». Que­sta è la moti­va­zione morale che spinge il Pre­si­dente ame­ri­cano ad impe­gnare la sua nazione per «garan­tire atti­va­mente la libertà dei popoli e la pace mondiale».

A par­tire da que­sta ana­lisi, dove sono già con­te­nuti tutti gli ele­menti por­tanti della fase geo­po­li­tica che stiamo vivendo – denun­cia di una guerra di una parte con­tro tutta l’umanità, il rela­tivo giu­di­zio morale, la volontà di por­tare libertà e pace a tutti i popoli della terra — la Ger­ma­nia veniva dichia­rata hostis gene­ris humani – espres­sione sino ad allora nor­mal­mente usata per la cri­mi­na­lità orga­niz­zata inter­na­zio­nale come la pira­te­ria – e dun­que con­si­de­rata un nemico nei con­fronti del quale «la neu­tra­lità non è né moral­mente legit­tima né pra­ti­ca­bile». Oltre­tutto, con quelle moti­va­zioni, gli Stati uniti si erano attri­buito il potere di deci­dere su scala inter­na­zio­nale quale parte bel­li­ge­rante avesse ragione e quale torto.

La con­clu­sione di Sch­mitt è che la Prima Guerra mon­diale, dopo l’entrata in gioco degli Usa sulla base di que­ste moti­va­zioni, aveva ces­sato di essere una clas­sica guerra inter­sta­tale, e si era tra­sfor­mata in una «guerra civile mon­diale» (Welt­bür­ger­krieg), secondo un modello desti­nato ad affer­marsi e a coin­vol­gere l’intera uma­nità. Le rifles­sioni di Sch­mitt si com­pon­gono in una finale, abis­sale, pro­fe­zia: l’avvento di una «guerra totale asim­me­trica e di annien­ta­mento», con­dotta da grandi potenze dotate di mezzi di distru­zione di massa, in pri­mis dalle potenze capi­ta­li­sti­che e libe­rali anglosassoni.

Que­ste rifles­sioni deli­neano già la realtà odierna che è pro­prio quella della guerra negata dal punto di vista giu­ri­dico, se non come forma di poli­zia inter­na­zio­nale in capo alle Nazioni Unite, e della sua sim­me­trica tra­sfor­ma­zione e «glo­ba­liz­za­zione» in forme irri­du­ci­bili a qua­lun­que defi­ni­zione coerente.

Venendo più in spe­ci­fico alle «guerre uma­ni­ta­rie»: «Wer Men­sch­heit sagt, will betrü­gen»: chi dice uma­nità cerca di ingan­narti. Que­sta è la mas­sima che Sch­mitt pro­pone già nel 1927 in Begriff des Poli­ti­schen per espri­mere la sua dif­fi­denza nei con­fronti dell’idea di uno Stato mon­diale che com­prenda tutta l’umanità, annulli il plu­ri­verso (Plu­ri­ver­sum) dei popoli e degli Stati e sop­prima la dimen­sione stessa del loro poli­tico. E a mag­gior ragione Sch­mitt si oppone al ten­ta­tivo di una grande potenza – l’ovvio rife­ri­mento è agli Stati uniti – di pre­sen­tare le pro­prie guerre come guerre con­dotte in nome e a van­tag­gio dell’intera umanità.

Se uno Stato com­batte il suo nemico in nome dell’umanità, la guerra che con­duce non è neces­sa­ria­mente una guerra dell’umanità. Quello Stato cerca sem­pli­ce­mente di impa­dro­nirsi di un con­cetto uni­ver­sale per potersi iden­ti­fi­care con esso a spese del nemico. Se ana­liz­ziamo con lo sguardo anti­ci­pa­tore di Sch­mitt la guerra all’Iraq, quella all’Afghanistan dopo l’11 set­tem­bre, la con­se­guente dichia­ra­zione della «guerra per­ma­nente glo­bale con­tro il ter­ro­ri­smo» e la clas­si­fi­ca­zione uni­la­te­rale degli Stati cana­glia, vediamo come tutte que­ste forme della guerra asim­me­trica con­tem­po­ra­nea, com­presi gli atti di ter­ro­ri­smo a fini poli­tici, siano stati ampia­mente pre­vi­sti e pre­ve­di­bili sin dal secolo scorso.

In pro­spet­tiva dun­que, pro­se­gue Sch­mitt, l’asimmetria del con­flitto avrebbe esa­spe­rato e dif­fuso le osti­lità: il più forte avrebbe trat­tato il nemico come un cri­mi­nale, men­tre chi si fosse tro­vato in con­di­zioni di irri­me­dia­bile infe­rio­rità sarebbe stato di fatto costretto ad usare i mezzi della guerra civile, al di fuori di ogni limi­ta­zione e di ogni regola, in una situa­zione di gene­rale anar­chia. E l’anarchia della «guerra civile mon­diale», se con­fron­tata con il nichi­li­smo di un potere impe­riale cen­tra­liz­zato, impe­gnato a domi­nare il mondo con l’uso dei mezzi di distru­zione di massa, avrebbe potuto alla fine «appa­rire all’umanità dispe­rata non solo come il male minore, ma anzi come il solo rime­dio efficace».

In una delle ultime pagine di Der Nomos der Erde Sch­mitt scrive: «Se le armi sono in modo evi­dente impari, allora decade il con­cetto di guerra sim­me­trica, nella quale i com­bat­tenti si col­lo­cano sullo stesso piano. È infatti pre­ro­ga­tiva della guerra sim­me­trica che entrambi i con­ten­denti abbiano una qual­che pos­si­bi­lità di vit­to­ria. Se que­sta pos­si­bi­lità viene meno, l’avversario più debole diventa sem­plice oggetto di coa­zione. Si acui­sce allora in misura cor­ri­spon­dente l’ostilità fra le parti in guerra. Chi si trova in stato di infe­rio­rità spo­sta la distin­zione fra potere e diritto nell’ambito del bel­lum inte­sti­num. Il più forte vede invece nella pro­pria supe­rio­rità mili­tare una prova della sua justa causa e tratta il nemico come un criminale.

La discri­mi­na­zione del nemico e la con­tem­po­ra­nea assun­zione a pro­prio favore della justa causa vanno di pari passo con il poten­zia­mento dei mezzi di annien­ta­mento e con lo sra­di­ca­mento spa­ziale del tea­tro di guerra. Si spa­lanca così l’abisso di una discri­mi­na­zione giu­ri­dica e morale altret­tanto distrut­tiva». La descri­zione della realtà attuale, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria al Libano, sem­bra essere rita­gliata esat­ta­mente su que­ste «pro­fe­zie» di Carl Sch­mitt che altro non dicono se non che il futuro deriva dal pas­sato. E dun­que, se così è, dob­biamo anche pen­sare che il nostro pre­sente di «guerre uma­ni­ta­rie» di inde­fi­nite «mis­sioni mili­tari di pace» di emer­genze uma­ni­ta­rie che altro non sono che situa­zioni di man­cato svi­luppo deli­be­ra­ta­mente lasciate incan­cre­nire al fine di farne, appunto, un casus belli uma­ni­ta­rio, vanno riflet­tute e ripen­sate all’interno di cor­nici radi­cal­mente diverse dalle attuali, pena la geo­me­trica ascesa della bar­ba­rie. Eppure, forse guar­dando ancora più avanti, con­sa­pe­vole delle sfide future e degli orrori pas­sati e pre­senti che, nell’estate del 1950, chiu­dendo la pre­fa­zione a Der Nomos der Erde, Sch­mitt scrive: «È ai costrut­tori di pace che è pro­messo il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo Nomos della Terra si dischiu­derà solo a loro».

lundi, 16 février 2015

Ernst Jünger e ‘La battaglia come esperienza interiore’

Stoßtrupp.jpg

Ernst Jünger e ‘La battaglia come esperienza interiore’

Jünger sconquassa l'anima del lettore, lo cattura con la sua scrittura; lo tiene inchiodato al libro pagina dopo pagina, in una stretta mortale dalla quale non potrà districarsi facilmente. Questo è un libro per anime in tempesta, per cuori d'acciaio, scritto con il sangue degli eroi.
 

di Valerio Alberto Menga

Ex: http://www.lintellettualedissidente.it

“Meglio morire come una meteora effervescente che spegnersi tremolando”.

E. Jünger

In occasione del centenario della Prima guerra mondiale tante sono state le pubblicazioni in memoria del grande e catastrofico evento. Si segnalano, di passata, per la saggistica Mondadori e Laterza, i saggi dello storico Emilio Gentile L’Apocalisse della Modernità e Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo. Due titoli straordinari per l’efficacia che ha avuto l’autore nell’interpretare il primo confilitto mondale e la sproporzione delle conseguenze seguite all’attentato di Sarajevo del 1914. A distanza di 92 anni dalla sua originaria apparizione, e per la prima volta in italiano, è stato pubblicato per le edizioni Piano B (e magistralmente tradotto da Simone Butazzi, che si ringrazia) quella che era stata, a torto, considerata un’opera minore nella bibliografia di Enrst Jünger: La battaglia come esperienza interiore.

Fu un’innovazione quella che portò Jünger alla letteratura di guerra. Embelatici erano, e rimangono tutt’ora, Il fuoco di Barbusse e Niente di nuovo sul fronte occientale di Remarque. Questi due autori furono le due principali voci di un atteggiamento di sconforto, di orrore, di paura, di delusione, e di disfattismo davanti alla guerra.  Lo stesso atteggiamento che portò Louis-Ferdinand Céline, volontario nell’esercito francese, a riflessioni come quelle che compaiono nel suo Viaggio al termine della notte: “Per quanto lontano cercassi nella memoria, gli avevo fatto niente io, ai tedeschi. Ero sempre stato molto gentile ed educato con loro. Li conoscevo un po’ i tedeschi, ero persino stato a scuola da loro, quando ero piccolo, dalle parti di Hannover. Avevo parlato la loro lingua. Allora erano una massa di cretinetti caciaroni con occhi pallidi e furtivi come quelli dei lupi […] ma da lì adesso a tirarci nella colombarda, senza neanche venire a parlarci prima e nel bel mezzo della strada, ce ne correva parecchio, un abisso. Troppa differenza. La guerra insomma era tutto quello che non si capiva”. Jünger invece – come giustamente sottolinea Rodolfo Sideri nel suo Inquieto Novecento- è interprete di un atteggiamento “volto a lasciare che la guerra tempri l’uomo nella sua dimensione interiore”.

Ma che cosa è stato esattamente Ernst Jünger? Qual è la sua maggiore peculiarità? E’ stato uno scrittore? Un soldato? Un filosofo? Nacque in Germania, ad Heidelberg, nel 1895. E morì nel 1998 a Riedlingen, avendo sorpassato la soglia dei cento anni, dopo aver visto morire il fratello, i figli e la prima moglie. Per la lunga durata della sua vita fu indubbiamente il prezioso testimone di un’epoca. È stato anche un entomologo. Non deve certo stupire se un grande carattere del Novecento come lui si sia interessato allo studio e alla collezione di scarafaggi e scarabei. Ai suoi occhi guerrieri, essi apparivano un po’ come animali con una corazza naturale che, talvolta, riflettono i colori della guerra: il rosso e il grigio. Piccoli soldati di Madre Natura.

image-553682-galleryV9-ryal.jpg

Il rosso e il grigio, quindi. Ecco i colori che attraverso lo sguardo del grande scrittore tedesco hanno determinato la Grande Guerra. E Le rouge et le gris –in onore a Stendhal- doveva essere il titolo originale del grande diario di guerra Nelle tempeste d’acciaio che gli valse, di diritto, un posto nel pantheon dei grandi scrittori europei del Novecento. Tuttavia optò per il secondo titolo, ispirato ad una poesia islandese, che meglio definiva “l’eternità tombale” della vita in trincea durante la guerra. Rosso come il sangue; grigio come le divise dei soldati, come l’acciaio delle armi e dei proiettili, come l’umore in trincea, come la terra devastata dai colpi, come il cielo oscurato dalla battaglia.

Incuriosisce il fatto che La battaglia come esperienza interiore era stato concepito dall’autore come un’opera che avrebbe dovuto fare da pendant al precedente Nelle tempeste d’acciaio, il cui punto di vista si riferiva agli avvenimenti puri e semplici. In quest’opera, invece, si può trovare tutto ciò che nelle “Tempeste” si era cercato invano.
Nelle tempeste d’acciaio ha il merito di descrivere nel titolo, e in due parole, la guerra di trincea.  Interpreta il primo conflitto mondiale in chiave nichilistica (come “lotta dei materiali”), osservando la realtà con sguardo oggettivo. Il difetto maggiore che però la caratterizza è la mancanza dello spazio concesso alle emozioni e al sentimento. La battaglia come esperienza interiore colma questo vuoto. E può annoverarsi senza dubbio tra le grandi opere di Jünger, grazie alla sua prosa alta e inarrivabile.Prima di aprire questo libro bisogna preparare il lettore ad entrare psicologicamente in trincea. Bisogna essere pronti a ricevere lo schizzo del sangue nemico dritto in faccia. Se invece siete tra coloro che non sopportano di guardare la realtà negli occhi, allora lasciate in pace questo libro.

Stosstruppen_rappresentazione.jpg“La battaglia rientra nelle grandi passioni. [...] E’ un canto antico e tremendo, che risale all’alba dell’uomo: nessuno avrebbe mai pensato che fosse ancora così vivo in noi”.  In questo scritto di guerra non manca nulla: il sangue, l’orrore, la trincea, l’eros, il coraggio, il fuoco, la paura… Questo per dare un’idea di ciò che aspetta il lettore che abbia il coraggio e la maturità di affrontare quest’opera rovente, che di certo non poteva non piacere ad un giovane nazional-socialista dei tempi. Perché Jünger è stato considerato, e forse è considerato ancora, un nazista. E’ vero che Hitler disse “Jünger non si tocca!” e lo protesse per ben due volte dalle grinfie di Göring che voleva la sua testa. Ma furono il rispetto per il soldato e lo scrittore di guerra che, con tutta probabilità, spinsero il Führer a perdonare a Jünger il suo comportamento. Ci si riferisce al suo antinazismo allegorico, aleggiante nel romanzo Sulle scogliere di marmo, e alla sua parte nella congiura capitanata da Stauffenberg che sfumò nel fallito attentato a Hitler, ben narrato nel film di Bryan Singer Operazione Valchiria. Scrisse un romanzo antinazista e partecipò all’attentato a Hitler, che mirava ad ucciderlo. Anche se in lui l’idea dell’uccisione del tiranno era indicice di mentalità rozza. Queste due cose stanno ben a sottolineare il fantomatico nazismo di cui fu accusato. Ma agli occhi stanchi e superficiali dei molti faciloni, è apparso così per molto tempo. È vero invece che i nazisti trassero, a piene mani, buona parte della loro cultura da alcuni scritti del grande soldato tedesco. Solo in seguito al premio Goethe, ottenuto nell’82, venne riabilitato ufficialmente come scrittore.

Davanti ad un uomo come lui è difficile dire se sia l’opera a superare la grandezza della vita dell’autore o viceversa. Jünger visse più di cento anni, giovanissimo si arruolò nella Legione Straniera per andare a combattere, per poi essere ripescato e rimpatriato dal padre. Fu un eroe decorato con la medaglia Pour le mérite dopo esser stato ferito quattordici volte nella Grande Guerra; vide due volte la cometa Halley (cha ha un ciclo di 76 anni); fu amico di Martin Heidegger e Carl Schmitt, e con essi scrisse alcune opere. Ha incontrato molti grandi del suo tempo, e in tutta la sua opera ha analizzato e affrontato il nichilismo, che è il tratto peculiare del suo e del nostro tempo. Da entomologo ha scoperto due nuove specie di coleotteri che oggi portano il suo nome: il Carabus saphyrinus juengeri e la Cicindera juengeri juengerorum. Da scrittore, invece, ha incantato il mondo e continua ad incantare, ad accendere le passioni e il pensiero.

La battaglia come esperienza interiore è un’opera scritta da un giovane inquieto che vuole conciliare il pensiero con l’azione. Qui vi si ritrova uno Jünger intriso di letture nietzscheane che, con la sua prosa alta e viscerale, scava nel profondo dei più indicibili sentimenti che hanno portato l’uomo moderno a scontrarsi, a riversare la propria Volontà di potenza nel campo di battaglia. Per il lettore che ama sottolineare i tratti più salienti, quest’opera, strage di carne e materia, sarà anche una strage di grafite. E si spera che, quindi, chi leggerà queste righe, perdonerà a chi scrive se si è fatto ampio uso di doverose citazioni. Lo stile dello scrittore-soldato porta lo spirito del lettore a vette così alte che il ritorno alla terra scavata dalle trincee è un vero e proprio schianto del cuore. Sconquassa l’anima del lettore, lo cattura con la sua scrittura; lo tiene inchiodato al libro pagina dopo pagina, in una stretta mortale dalla quale non potrà districarsi facilmente. Questo è un libro per anime in tempesta, per cuori d’acciaio, scritto con il sangue degli eroi.

Solitario tra i solitari, Jünger mostra il volto del gelido vento della morte, riscaldato dall’alito di fuoco di quella fornace che è la guerra. La figura romantica del soldato Jünger che legge l’Orlando furioso piegato sulle ginocchia, in trincea, rende bene l’idea del sentimento che lo portò ad arruolarsi volontario in guerra. L’odio per la comoda vita borghese è ben descritto in queste righe: “Ogni senso di reputazione borghese era rimasto indietro, a distanze siderali. Cos’era la buona salute? Utile, semmai, a persone che contano di vivere a lungo”. Nota è ormai la massima jungeriana per cui è meglio essere un delinquente che essere un borghese. Un giovane inquieto come lui, in Italia, in seguito dirà che “Borghese è colui che sta bene ed è vile” (Benito Mussolini).  Questo libro breve ma intenso potrebbe essere preso a ragione come il Manifesto degli interventisti o dei militaristi. Per l’autore è la guerra a fare gli uomini, essa è “madre di tutte le cose”, siamo noi a modellare il mondo, non il contrario. La guerra, aggiunge, non è solo nostra madre, ma anche nostra figlia. L’abbiamo cresciuta così come ha fatto con noi. “Noi siamo fabbri e acciaio sfavillante allo stesso tempo, martiri di noi stessi spinti da intime pulsioni[...] La guerra è umana quanto l’istinto sessuale: è legge di natura, perciò non ci sottrarremo mal al suo fascino. Non possiamo negarla, altrimenti finiremo divorati.”

Qui di seguito ecco alcuni passaggi che meglio sottolineano le ragioni e le passioni che portarono Jünger, come altri uomini, a provare loro stessi sul campo di battaglia, in quel particolare frangente della Storia. Molte erano le aspettative di coloro che si arruolarono volontari negli eserciti delle grandi nazioni europee: “La guerra è una grande scuola, e l’uomo nuovo apparterrà alla nostra schiatta”. E poi, scriverà: “Il punto di cristallizzazione pareva raggiunto, il superuomo in procinto di arrivare[...] Tutto questo sembrò chiaro quando la guerra lacerò la compagine europea”. Queste le parole dello Jünger soldato, filosofo e scrittore. Egli incarna le pulsioni e i turbamenti dell’uomo del Novecento che si affaccia con volto risoluto alla Modernità. E si scontra. Se il Novecento è stato il grande secolo delle ideologie e della politica, così come dei grandi conflitti, vale allora la formula di Clausewitz per cui la guerra è la semplice continuazione della politica con altri mezzi, che nasce in seguito alla “frizione”. Arriva, cioè, laddove la diplomazia non è riuscita. E per gli appassionati della polemologia questa è una lettura consigliata. Molte le passioni e i sentimenti che scaturiscono in queste pagine, ma vi è anche spazio per la riflessione. Un giusto equilibrio tra ragione e sentimento.

Zeitbilder-Armor-001.jpg

“Ognuno può rapportarsi alla guerra come vuole, ma non la può negare. Quindi io m’impegno, in questo libro nel quale mi voglio rassegnare alla guerra, a osservarla come qualcosa che è stato ed è ancora in noi, a privarla di ogni preconcetto e a descriverla per quello che è.” E poi ancora: “La guerra è il più potente incontro tra i popoli. Mentre nel commercio e per le trattative, nelle gare sportive e ai congressi si muovono solo le personalità di punta, in guerra l’intera squadra conosce un solo obiettivo: il nemico”. Non è possibile la guerra senza l’uomo. Né l’uomo senza la guerra. Questa assumerà di volta in volta il volto e il nome che l’occasione le suggerirà: battaglia, lotta, lo scontro, frizione, incidente diplomatico…


Il coraggio è un sentimento, fulcro della guerra per Jünger: “Un soldato senza coraggio è come un Cristo senza fede. Ecco perché in un esercito il coraggio deve essere quanto di più sacro”. Nelle “Tempeste d’acciaio” si leggono parole di riconoscimento del valore e del rispetto del nemico: “Durante la guerra mi sforzai sempre di considerare l’avversario senza odio, di apprezzarlo secondo la misura del suo coraggio. In battaglia cercai di individuarlo per ucciderlo, senza attendere da lui cosa diversa”. Nessun odio verso i nemici. I Francesi? “Sono dei gran viveurs, loro. Gente gradevole, davvero. Io non li odio mica.” E poi: “Chi saremmo noi senza questi vicini audaci e senza scrupoli che ogni cinquant’anni ci puliscono la ruggine dalle lame?”.

Al nemico viene riconosciuto il valore del suo coraggio. E ne La battaglia come esperienza interiore scrive: “I cuori coraggiosi riconoscono istintivamente la vera grandezza. Il coraggio riconosce il coraggio”. Ecco una delle sue massime maggiori: “Il mondo potrà anche ribaltarsi, ma un cuore coraggioso sarà sempre saldo”. L’uomo di Heidelberg è figlio della guerra, figlio ed interprete acuto del suo tempo. Lui è l’uomo nato dalla guerra, nella guerra e per la guerra. Lui, cuore coraggioso, anima in tempesta. Come egli stesso sottolinea, lo spirito di un’epoca si concentra sempre in pochi individui solitari. In questo libro si può carpire lo spirito guerriero che forgiò l’Uomo nuovo della Grande Guerra. E lui è uno di quegli individui solitari, voce di un’epoca in radicale mutamento. Importante è anche il rapporto con la Donna, nelle opere di guerra di Jünger. In un altro scritto dello stesso genere, intitolato Il tenente Sturm, la donna viene definita dall’autore come “ministra del grande mistero”. E la donna non ama la guerra, ma ama i guerrieri. Curzio Malaparte disse: “Amo la guerra perché sono un uomo”. E Jünger coerentemente afferma: ” Esiste un solo punto di vista per contemplare il fulcro della guerra, ed è quello mascolino”. In uno dei capitoli più belli della Battaglia viene affrontato il rapporto uomo/donna guerra, ed in merito a ciò sottolinea: “Bisognava che anche le donne fossero d’acciaio, per non finire schiacciate nel tumulto”. Il racconto che invece viene accennato, con infinita poesia, nel capitolo Eros, riporta alla memoria l’immagine di uno studente tedesco (in cui possiamo facilmente riconoscere il giovane Ernst) e una contadina piccarda che fanno l’amore nel bel mezzo della guerra, nell’imperversare della tempesta, essi, “centrifugati su una scogliera bellica”, sono “due cuori accesi in un mondo ghiacciato”. E con queste immagini e magnifiche parole conclude il capitolo: “Due labbra accarezzavano l’orecchio dell’uomo, impegnate più che mai a versarvi tutta la melodia di una lingua straniera[...] Poi finivi sotto la grandine dei proiettili con i baci ancora tra i capelli. La morte ti veniva incontro come un’amica. Tu, chicco di grano maturo che cadi sotto la falce”. Questo è Jünger.

Per il grande scrittore di Heidelberg sembra valere il precetto di Julius Evola per cui “la patria è là dove si combatte”. E la guerra è una donna da possedere, almeno finché infuria la battaglia. L’uomo, la guerra e la donna: fili intrecciati di un inestricabile destino, di un ciclo infinito: Vita Amore e Morte. Oggi gli animi dei molti pacifisti che popolano il mondo postmoderno irriderebbero il romanticismo di cui talvolta sono impregnati gli scritti di guerra. Non potrebbero però evitare di rimanere colpiti e affascinati dallo stile di uno scrittore immenso come quello che oggi si è voluto ricordare.

stoss6372_0471.jpeg

Si vuol concludere ora con due stralci tratti, rispettivamente, dalle opere Il tenente Sturm e con la conclusione de La battaglia come esperienza interiore che spiegano bene la complessità della guerra nel pensiero di Enrst Jünger: “Laggiù una stirpe nuova dava vita a una nuova interpretazione del mondo, passando attraverso un’esperienza antichissima. La guerra era una nebbia originaria di possibilità psichiche, carica di sviluppi; chi tra i suoi effetti riconosceva solo l’elemento rozzo, barbarico coglieva, di un complesso gigantesco, un solo attributo, con l’identico arbitrio ideologico di chi vedeva soltanto il carattere eroico e patriottico”.

“Ma chi in questa guerra vede solo negazione e sofferenza e non l’affermazione, il massimo dinamismo, allora avrà vissuto da schiavo. Costui avrà avuto solo un’esperienza esteriore, non un’esperienza interiore.”

mardi, 10 février 2015

Arthur Moeller van den Bruck an uns!

Arthur Moeller van den Bruck an uns!

von Martin Sellner

Ex: http://www.identitaere-generation.info

ArthurMoellervandenBruck.jpgMoeller van den Bruck gilt heute als einer der maßgeblichen Köpfe der Konservativen Revolution. Viele Identitäre berufen sich, neben der Neuen Rechte, auch auf diese Strömung, was Moeller ins Zentrum des Interesses rücken sollte. Einem breiteren Publikum ist er heute nur durch seine Schrift „Das dritte Reich“ bekannt, die (mit und über Dietrich Eckhart) titelgebend für das NS-Reich werden sollte. Doch damit tut man ihm Unrecht! Moeller war und ist viel mehr als nur „Stichwortgeber“ für den NS. In ihm, seinem Denken und Werdegang zeichnet sich hingegen die große Tragödie um die konservativ-revolutionären „Denker“ und die national-sozialistischen „Macher“ so deutlich ab, das wir auch heute noch viel daraus lernen können.

Dandy und Dissident

Um Moeller als Person nebelt heute die Aura des Erhabenen und Geheimnisvollen. Seine Zitate, seine Bilder, seine Begriffe ließen ihn für meine Phantasie immer zu einer Gestalt werden, die wie George über dem Getöse der Weimarer Dekadenz schwebte. Mitnichten! Ich war durchaus überrascht, als ich erfuhr, dass er sich mittendrin befunden hatte. Moeller war ein Dandy, chronisch pleite und Dauergast in diversen Bohemien-Kreisen. Überhastete Reisen, oft auf der Flucht von Gläubigern prägten sein zerfahrenes Leben, dem er auch mit 49 Jahren ein Ende setzte. Nichts von all dem deutet auf einen Charakter hin, der in der Lage war, gegen die Dekadenz der Weimarer Zeit anzuschreiben, und gegen Nihilismus und Beliebigkeit die Ideen von Stil, Einheit, Genesung und Stärke zu predigen. Doch van den Bruck war mit der Zeitschrift „Das Gewissen“ und seinen Buchveröffentlichungen einer der maßgeblichsten Denker der Konservativen Revolution.

Konservative Revolte gegen den Liberalismus

Heute ist Moeller van den Bruck vor allem über das Zitat: „Am Liberalismus gehen die Völker zugrunde“, bekannt. Das ist kein schlechter Umstand, da in diesem Satz vieles von seinem Denken zusammengefasst ist. Moeller sah in der Tat den herrschenden bürgerlichen Geist, den saturierten Pazifismus, die Gleichgültigkeit gegenüber jedem höheren Wert, den kaufmännischen Mensch und sein Projekt vom befriedeten Weltmarkt als schlimmsten Gegner, den er mit „Liberalismus“ als „Ausdruck einer egoistischen und individualistischen Lebensauffassung benannte. Er zersetzt alle gewachsenen Gemeinschaften und untergräbt jedes Ideal, das über den eigenen Körper und „das Lüstchen für den Tag und sein Lüstchen für die Nacht“ (Nietzsche).Und: „Er schaltet das Volk aus und setzt ein Ich an die Stelle“

Mehr noch als den Marxismus, den er teilweise als berechtigten Aufschrei gegen die Herrschaft des Geldes betrachtete, kämpfte er gegen das System. Die Kommunisten nannte er „querköpfige toll gewordene“ Deutsche. Prophetisch erkannte er, vor den nationalbolschewistischen Zersplitterungen aller „Internationalen“, dass „jedes Volk seinen eigenen Sozialismus“ hat. Zeitlebens hoffte er auf eine Vereinigung des ganzen Volkes gegen jede Klassenspaltung. Eine Vereinigung, die den Hauptfeind bekämpfen sollte. Es war die neue Gattung an „letzten Menschen“, Blooms, die heute so stark wuchern wie nie zuvor:

„Sie fühlen sich als Einzelwesen, die Niemandem verpflichtet sind, und am wenigsten dem Volke. An seiner Geschichte sind sie völlig unbeteiligt. Sie teilen nicht seine Überlieferung. Sie haben kein Miterlebnis seiner Vergangenheit. Sie haben auch nicht den Ehrgeiz seiner Zukunft. Sie suchen nur die Vorteile ihrer eigenen Gegenwart. Ihr letzter Gedanke ist auf die große Internationale gerichtet.“

Diese Internationale bedeutete damals wie heute das Ende aller Völker und Kulturen, aller Vielfalt und Freiheit – kurz: all dessen, was den Menschen ausmacht. (Es macht ihn eben aus, dass es ihn „an sich“ nicht gibt.) Gegen diesen Liberalismus kämpfte Moeller van den Bruck mit revolutionärer Kraft. Er verlachte impotente, alte Konservative, die sich zaghaft an tote Hüllen klammerten und mit arrogantem Elitismus die Arbeiter den Marxisten zutrieben. Der „Altkonservativismus“ hatte sich „auf seine Klitsche zurückgezogen und den Sinn für die Probleme der Zeit verloren.“

Zwar war er klar für Elite und den hierarchischen Staat, doch dieser sollte organisch sein und über die „Kraft in Gegensätzen zu leben“ verfügen. Anders als viele liberal gesinnte Konservative sah er die revolutionären Unruhen nicht nur als Gefahr und Bedrohung, sondern vielmehr als Fieber, dem eine Gesundung folgen könnte. Als klassischer Vertreter eines dritten Weges (Ursprünglich wollte er sein opus magnum „Die dritte Partei“ nennen) lehnte er sowohl Marxismus als auch Liberalismus ab und wollte mit der Neuerweckung ewiger Werte, eine große Einheit wiederherstellen.

Van den Bruck und die 3PT

Als 3.PT (3. politische Theorie) bezeichnen wir Identitäre in der Regel die Gesamtheit der nationalistischen, antiliberalen und antimarxistischen Strömungen des 20. Jahrhunderts, die häufig (und vereinfachend) als „Faschismus“ pauschalisiert werden. Insbesondere meinen wir damit den deutschen National-Sozialismus und den konkreten italienischen Faschismus.

Vieles von dem Gesagten und zitierten deutet daraufhin, dass Moeller ein Denker und Wegbereiter dieser 3.PT gewesen ist. Doch er stand dem italienischen Faschismus, den er noch miterlebte, durchaus kritisch gegenüber (obwohl er in ihm einen vielversprechenden Aufbruch für Italien und NUR Italien sah). Vor allem dessen Etatismus (Verabsolutierung des Staates), auf den er Mussolinis Südtirolpolitik zurückführte, erregte seine Ablehnung. Sein Tod 1925 verhinderte jede zeitgenössische Betrachtung des Nazi-Reichs, doch persönliche Kommentare über die Frühphase der Bewegung zeigen eher Ablehnung.

In Hitler sah er einen Menschen „ganz ohne Abstand und Augenmaß“. einen „Fanatiker“ und „Eiferer“. Auch im NS gab es abgesehen von dem erfolgreichen Versuch, den bekannten Autor für das eigene Reich zu reklamieren, wenige bis gar keine Bezüge auf sein Werk. 1939 erschien dann eine Dissertation eines Helmut Rödels, der, stellvertretend für die NSDAP, eine klare Distanzierung zu van den Bruck aussprach. Er sei „kein Seher und Künder des dritten Reichs im Sinne des NS.“

Er wurde als konservativer, esoterischer Traumtänzer abgelehnt, der im Gegensatz zum rein wissenschaftlichen, pragmatischen NS stehe, der nur die Naturgesetze vollziehe. Vor allem Moellers klares Bekenntnis, wonach „die Rassenanschauung (…) sich in unlösbare Widersprüche verstrickt, wenn sie Rasse nur in dem biologischen Sinne begreift“, war für die „naturwissenschaftliche“ Rassenlehre und -züchtung des NS ein Affront.

Moeller und der NS

Insgesamt war Moeller ein erklärter Gegner jedes Totalitarismus und jeder reinen Machtpragmatik. Ihm ging es um das große Erbe der deutschen und europäischen Traditionen und um den entschiedenen Kampf gegen die Entzauberung, Vermassung, Vereinheitlichung und Verflachung der Welt. Die oberflächliche Demagogie war ihm, ebenso wie rein pragmatische Machtpolitik, verhasst. Dennoch war er aber kein abgehobener „Schöngeist“, sondern stand mehr als andere für das „Revolutionäre“ in der Konservativen Revolution. Er wollte das Volk begeistern und mitreißen, wollte das Fieber sogar steigern, um zu einer Gesundung zu führen. Er wollte aktiv Einfluss auf die Politik nehmen und kritisierte die Konservativen scharf für ihr apolitisches, verspieltes Sektierertum. Seine Ablehnung am NS war also, anders als bei vielen anderen Denkern nicht einem letztlich verächtlichen Standesdünkel gegen „den Pöbel“ geschuldet. Er wollte ja gerade die revolutionären Kräfte aus der Arbeiterschaft in den Dienst einer großen spontanen Regeneration stellen! Er lehnte den NS aufgrund seiner Ideologie ab, die für Moellers stilvolle und erhabene Gedankenwelt, als plumper materialistischer Rassenkult erscheinen musste. Vor allem aber sah Moeller im kommenden Erwachen des „jungen“ deutschen Volkes eine Revolte gegen den Westen, und die liberale, atlantische Welt. Er sah Russland damals schon als Teil Europas und hoffte auf eine Überwindung und „Russifizierung“ des dortigen Marxismus zu einem ethnischen und kulturell entschärften Sozialismus (was ja nach dem 2. Weltkrieg auch peu à peu geschah)

Moellers Denken, das er mit anderen Gleichgesinnten wie vor allem Niekisch und Hielscher teilte, richtete sich also scharf gegen den Zivilisationschauvinismus des NS. Dieser war stark auf England und Amerika fixiert. Adolf Hitler selbst bewunderte das englische Kolonialreich und wollte es sogar im Sinne einer universalistischen Ideologie vom Arier als „Prometheus der Menschheit“ für die weiße Rasse „retten“. In diesem Lichte erscheint die NS-Idee als Auffassung von Herkunft und Rasse einmal mehr als Fortführung des Chauvinismus und Rassismus aus der englischen Kolonialzeit, indem am westlich-fortschrittlichen Wesen, „die Welt genesen“ sollte.

Moellers Idee von Kultur und Ethnos war eine andere, die ganz klar pluralistisch gerichtet war. Konservativ bedeutete für ihn vor allem „ die Fähigkeit, immer mehr von dem, was in uns ewig ist, freizulegen.“ Die Konservative Revolution ist daher keine universalistische Ideologie, sondern der Aufruf die eigeen Identität zu finden, zu vertiefen und weiterzuführen!

Wie im Faschismus eine italienische, so sah Moeller in der KR eine spezifisch deutsche Sache, die andere Völker nicht in gleichem Maße betraf. Der „deutsche Sonderweg“ war für ihn kein Schimpfwort, sondern eine erklärte Losung, die sowohl stolzes Pathos der Distanz und Eigentlichkeit, aber auch das Sein-lassen und die Akzeptanz der Anderen bedeutet. Etwas ganz anderes bedeutete dagegen Hitlers Aussage, der NS sei „kein Exportprodukt“. (Er und andere meinten damit, dass man das vom NS erkannte „Lebensgesetz“, wonach man im Kampf ums Überleben, als brutalen „Rassenkampf“ das eigene Volk, als statische, reine Rassengemeinschaft vergöttlichen und alle anderen als Barbaren entmenschlichen müsse. Diesen „Schlüssel zur Weltgeschichte“ solle man anderen Völkern nicht in die Hände spielen. Es sei dumm genug, dass ihn schon die Juden besäßen, die aber als dunkle Antimenschen im Gegensatz zum göttlichen Arier kein Recht auf dieses Wissen und den damit verbundenen Weltherrschaftsanspruch hätten.)

Diese Aussage steht gerade nicht gegen einen totalen Imperialismus, sondern entschieden dafür. Exportiert solle die arisch-germanische Herrschaft werden (vor allem in die Länder der slawischen Fellachen und Untermenschen) – nicht aber die dahinterstehende Triebkraft. Moellers außenpolitische Ideen sehen dagegen ganz anders aus, weil ihnen eine echt identitäre Haltung zum Eigenen – ohne Chauvinismus – zugrunde liegt. Er sah Deutschland vor allem als eigenständige Nation, die weder ganz im westlichen Liberalismus der Angelsachsen, noch im Slawentum oder Romanisch-Südlichen aufgehen könne und damit als mitteleuropäisches Reich eine Brücke zwischen Osten und Westen sei.

Moeller van den Bruck an uns

Ich sage, wenn ich wie so oft auf die KR angesprochen werde, dass ich auch eine Aufgabe der Identitären Bewegung darin sehe, ihre Traditionslinien, die mit dem Aufkommen des NS abgeschnitten und mit der Umerziehung nach dem Zweiten Weltkrieg ausgebrannt und ausgetrocknet wurden, neu anzuzapfen. Dabei müssen und sollen wir vielleicht am besten ganz an den Anfang gehen und in der Ur-Stimmung ansetzen, aus der die KR mit ihren Denkern hervorging, statt uns allzu akademisch und wissenschaftlich nur mit ihren Werken und Strömungen zu beschäftigen. Van den Bruck steht als Bohemien, als zeitloser gedankenschwerer Traditionalist und radikaler, leichtherziger Revolutionär, wie vielleicht nur Ernst Jünger, für diesen fruchtbaren Zeitgeist.

Vor allem seine tiefsinnige Bewertung des Ethnokulturellen, sein reichsbestimmtes Denken der Politik, seine Ablehnung von Liberalismus und Marxismus, sowie plumpen Chauvinismus und Demagogie, machen ihn für uns Identitäre sehr interessant. Unsere Sicht, die unter klarer Abgrenzung zur 3.PT einen eigenen, neuen Weg für die Jugend erspäht, wird ihn selbstverständlich nicht immer beim Wort nehmen. Vor allem seine Bewertung des „Sozialismus“-Begriffs ist für uns heute hinfällig geworden, da der Marxismus längst im siegreichen Liberalismus aufgegangen ist und keine revolutionäre Idee mehr darstellt. Doch seine pluralistische Weltsicht, seine Verbindung 1. von ewigen Werten über der Zeit und 2. dem revolutionären Kampf in der Zeit, mit ihren Mitteln gegen 3. den herrschenden Zeitgeist, ist eine Formel, die heute mehr den je gültig ist.

Leute, die Identitären ihre „modernen Mittel“, ihr unkonventionelles Auftreten und ihre Verweigerung jedes Schablonendenkens und aller herkömmlichen Spalt-Begriffe vorwerfen, wären wohl auch damals von Moeller verlacht worden. Wie er strebt unsere Bewegung die Vereinigung aller guten Kräfte im Volk, die noch über gesunden Menschenverstand und ein klares Wir-Bewusstsein verfügen, in einer Front der Patrioten an. Dass wir uns dabei den alten Klüngeln und Fronten widersetzen, sich bei uns alle Konfessionen, Subkulturen und Spielarten des Patriotismus und Konservativismus befinden, spricht dafür, dass wir etwas richtig machen.

Nie wieder – vom Scheitern der KR lernen

Vor allem versuchen wir, in der bewussten Anknüpfung an das Erbe der KR, ihre Tragödie kein zweites Mal geschehen zu lassen. Während sie sich trotz aller Bemühungen im literarisch-akademischen Isolat verlor und allenfalls die metapolitische Hoheit über das Bürgertum wahrte (was Gramsci später neidvoll eingestehen musste), war es nur der NS, in dessen Führungselite so gut wie keiner von der KR sozialisiert worden war, der es schaffte das Volk auf seine Seite zu ziehen und die Denker, die seinen Weg geebnet hatten, auszubooten. Es liegt an uns, heute anders zu handeln;  uns niemals in akademischen Debatten zu verlieren, immer strategisch und politisch zu denken, was vor allem heißt: intensiv den Kontakt zum Volk zu suchen, auf die Straße zu gehen, treffsicher die brennenden Fragen zu beantworten und dem schwelenden Zorn der Leute ein Ziel und ein Zeichen zu geben. (Niemals hätte Moeller van den Bruck beispielsweise vorgeschlagen, seine theoretischen Konzepte und seine Kritik der Dekadenz zu Kernthemen politischer Arbeit zu machen. Ihm war bewusst, dass es darum ging, Themenführer in Thema „Versailles“ und der sozialen Frage zu werden.)

Heute droht ein plumper, chauvinistischer Neoconservativismus, der nichts anderes als der Krisenmodus des liberalen Westens ist, die „Ernte“ des patriotischen Aufbruchs einzufahren. (Die Neonazi-Szene und der sterbende NW sind in unserem Land als revolutionäre Kraft nicht ernstzunehmen und dienen nur als spitzelgetränktes „Fliegenpapier“ und Falle des Systems für die patriotische Jugend.) Wie damals der NS, so ist diese Bewegung in ungebildeten, rein von Hass und Chauvinismus geprägten Kreisen ohne jede Beeinflussung neurechter, konservativer Denkzirkel entstanden. Ein Armutszeugnis für deren Verbindung zum Volk! Die gehässige Hetze, die sich in diesem Ressentiment-Biotop wie ein Pilz bildet, spottet jeder Idee eines Ethnopluralismus und gesunden Patriotismus. Und wieder ist sie, wie damals der NS, nichts anderes als das Erbe des kolonialistisch-westlichen Rassismus und damit die bloße Schattenseite des humanistisch-universalistischen Egalitarismus.

Es ist die Aufgabe der Identitären, Konservativen, Traditionalisten und Neurechten, die heute ein noch klareres Bild und Bewusstsein (auch der Entartung des Nationalismus) haben als es die KR je haben konnte, ihre Erkenntnisse und Ideen ins Volk zu tragen. Sie müssen einschlagen wie ein Blitz dem gerechten Zorn die Sprache und der schwelenden Angst eine Hoffnung geben! Wie ein guter Arzt müssen wir die Mischung finden, die es schafft, den Brocken Selbsthass und die Auslandsliebe zu lösen, um eine gesunde, stolze Liebe zum Eigenen aufbrechen zu lassen. Nur damit können wir es am Ende zusammen mit der heilen Kraft einer fiebrigen Krisis schaffen auch die verblendeten, Multikulti-Schwarmköpfe unseres Volkes auf unsere Seite zu ziehen. Es ist die „große Absolution“, nach der sie sich noch im größten, grünen Selbsthass sehnen. Sie wollen wieder die Guten sein – und wir sind die Guten. Das muss ihnen bewusst werden, damit aus uns wieder ein Volk werden kann.

Die liberalistische, rein anti-islamische Ideologie, die nichts anderes als ein Wiedergänger der ekligsten kolonialen, religiösen und rassistischen Ressentiments der westlichen Ideologie ist, wird niemals das Volk einen können. Sie droht, wie damals der NS, mit dem Mittel der plumpesten Hetze eine Scheinlösung für die Masse zu werden, die unsere ethno-kulturelle Identität nicht rettet, sondern, wie Manfred Kleine-Hartlage sagte, statt in der „Säure“ des Islams im „Wasser“ des Liberalismus aufzulösen. Statt der identitären Regeneration soll eine „law-order“-Reform den welkenden Westen zusammenflicken und den Universalismus in der Tradition der drei modernen Ideologien weitertragen.

Im Geiste Moeller van der Brucks müssen wir dagegen auf einer klaren und reinen Erkenntnis der Gegner und der Gifte beharren, diese aber zu pragmatischen und politischen Taten werden lassen. In seinem Geiste müssen wir heute das schaffen, woran die KR damals scheiterte. Das heißt für Identitäre hier und heute themenführend in den brennenden Fragen zu werden und theoretisch-geistige Gebiete (Dekadenz, Technik, Geopolitik, usw.) im Bereich des Theoretisch-Geistigen wachsen und wirken zu lassen. In Kaffeehauskreisen, Denkerzirkeln oder Blogs wie diesem hier. (Nicht zuletzt um keine sinnlosen Fronten zu erzeugen). Dass diese beiden Bereiche sogar in Persönlichkeiten selbst harmonisch vereint werden können, erlebe ich nicht zuletzt bei mir in Wien, wo immer mehr junge Aktivisten nahtlos vom philosophischen Colloqium zum aktivistischen Parolenrufen übergehen und fließend zwischen Kapus und Anzug, Boxhandschuhen und Füllfeder wechseln. Nicht umsonst haben Cargohosen weite Taschen, in die sowohl ein Reclam-Bändchen als auch eine Spraydose oder ein Schlagstock passen (zur Selbstverteidigung versteht sich).

Über Martin Sellner

Martin Sellner
Studiert in Wien Rechtswissenschaften und Philosophie. Leiter der IBÖ Landesgruppe Wien.

dimanche, 08 février 2015

La crisis de la civilización occidental según Julius Evola

evola__article.png

La crisis de la civilización occidental según Julius Evola

Ex: http://www.kosmos-polis.com

En un ensayo sobre el tantrismo la escritora Marguerite Yourcenar[i] reseñaba una de las obras monumentales de Julius Evola titulada Lo Yoga della Potenza. La académica francesa catalogaba al filósofo y orientalista italiano, profesor de las universidades de Florencia y de Milán, como "un erudito genial" ateniéndose a sus obras más ponderadas. Pero aunque el barón Evola fue un erudito genial, ciertamente no fue un erudito inmaculado. Evola tuvo un pasado fascista y fue "uno de esos italianos germanizados con no sé sabe qué clase de obsesiones gibelinas", un hombre "mucho más fascinado por el poder que por el conocimiento o el amor" que estaba poseído por un "titanismo prometeico más o menos espiritualizado"[ii]. Su Rivolta contro il mondo moderno (el título de otro de sus libros), por muy justificada que esa rebelión en parte esté, "acabó arrastrándolo a unos parajes aún más peligrosos que aquellos que creía abandonar". En sus libros asoman un puñado de vicios intelectuales, esperables en alguien con semejante orientación, que enturbian una y otra vez incluso sus trabajos más brillantes. La propia Yourcenar señaló casi todos esos vicios: "el concepto de raza elegida que en la práctica conduce al nazismo"; "una avidez enfermiza por los poderes supranormales, que lo lleva a aceptar sin control los aspectos más materiales de la aventura espiritual"; "el paso lamentable de la noción de poderes intelectuales y místicos a la de poder puro y simple"; "un sueño de dominación aristocrática y sacerdotal que no sabemos si correspondió a una edad de oro del pasado, pero del que en nuestro tiempo hemos visto caricaturas grotescas y atroces"; a lo que habría que añadir un desprecio sumario hacia lo femenino que lo lleva a proclamar la deficiencia interior de la mujer y la incapacidad femenina para la vida humana superior. No obstante, y a pesar de todo esto -que no debe olvidarse nunca cuando uno se acerca a la obra de Evola– también es cierto que sus mejores libros, tomados con las debidas cautelas, aportan abundante materia para la reflexión. Huellas de ellos pueden encontrarse en las obras de no pocos autores contemporáneos que, sin embargo, omiten cuidadosamente la fuente por considerarla innombrable y maldita. Adolfo Morganti, en el ámbito del orientalismo, y Alain de Benoist, en el de la filosofía, fueron los primeros que se atrevieron a remitir a las obras de Evola abiertamente. Como señaló Morganti, "después de años de que el pensamiento evoliano hubiera sido o demonizado grotescamente o ensalzado como un improbable evangelio, había que romper son el muro de las ideologías y proceder al debate de las ideas y a un análisis crítico digno de ese nombre"[iii].

En este sentido Cavalgar el tigre ha sido una de sus obras más interesantes e influyentes[iv]. Su punto de partida es la ciclología de las tradiciones culturales indoeuropeas, que observa un descenso progresivo de la civilización desde una 'edad de oro' primordial hasta una 'edad de hierro' donde se liberan todos los mecanismos disolutorios para dar paso a la liquidación del ciclo. Para esa concepción del tiempo –propia de nuestra cultura clásica y presente todavía hoy en el pensamiento hindú- nuestra época, lejos de ser la culminación de un tiempo lineal de progreso continuo, es el momento final de una era de disolución. En tal contexto temporal Evola señala que hay un cierto tipo humano "que, aun estando comprometido con el mundo actual, no pertenece interiormente a él, no contempla la posibilidad de ceder ante él y se siente, por su esencia, de una clase diferente a la mayor parte de sus contemporáneos". El lugar natural de este tipo humano sería "el mundo de la Tradición", entendiendo por tal cosa las civilizaciones y sociedades regidas por principios transcendentes. Puesto que lo que ha terminado por prevalecer en el mundo actual es la exacta antítesis de eso, Evola observa que los Hombres diferenciados a los que se refiere se hallan "de pie en medio de las ruinas". Para ellos hace una radiografía del mundo actual tan detallada como demoledora.

Evola empieza analizando la disolución del orden moral. El primer capítulo –titulado "En un mundo donde Dios ha muerto"- hace referencia al nihilismo hoy reinante en Occidente y ya anunciado por Nietzsche. "La muerte de Dios", dice Evola, "es una imagen que sirve para caracterizar todo un proceso histórico. Expresa el descreimiento hecho realidad cotidiana", la ruptura con la Tradición que en el Occidente actual tiene el carácter de un hecho consumado y tal vez irreversible. Evola observa que en este proceso de desacralización el hecho primario es una ruptura ontológica: las referencias reales a la Transcendencia han desaparecido de la vida humana. Todos los desarrollos del nihilismo están virtualmente contenidos en este hecho. Primero fue la aparición de la llamada 'moral autónoma', fundada sobre la mera autoridad de la razón independiente de todo criterio transcendente. Al haber perdido sus raíces –el lazo efectivo y original del Hombre con una dimensión supramaterial- esta moral ya no tiene una base invulnerable y la crítica puede destruirla fácilmente. Tras ella aparece, en un segundo momento, la ética utilitaria o social. "Al haber renunciado a todo fundamento absoluto e intrínseco del bien y del mal, se pretende justificar lo que queda de norma moral por lo que recomiendan al individuo su interés y la búsqueda de su tranquilidad material en la vida social". Esta ética ya no tiene carácter interiormente normativo o imperativo y todo se reduce a amoldarse a los códigos de la sociedad, que reemplazan a la ley transcendente derribada. Es un conformismo fundado "sobre el interés, la cobardía, la hipocresía y la inercia". Además, como ya no existe ningún lazo interior, "cualquier acto o comportamiento se vuelven lícitos cuando puede evitarse la sanción exterior, jurídico-social, o cuando uno es indiferente a ella". Hay, por tanto, dos fases. La primera es una rebelión metafísica que tiene consecuencias morales. En la segunda fase "hasta los motivos que habían justificado y alentado la rebelión desaparecen, volviéndose ilusorios para un nuevo tipo de Hombre. Aquí estamos ya en la fase específicamente nihilista, cuyo tema dominante es el sentido de lo absurdo y de la irracionalidad de la condición humana". Es lo que Nietzsche llamó "la miseria del Hombre sin Dios": la existencia parece perder todo significado y toda meta.

Todos los imperativos, todos los valores morales, todos los lazos y los apoyos se desmoronan. "La existencia es abandonada a sí misma en su realidad desnuda sin ningún punto de referencia fuera de ella que pueda darle sentido a los ojos del Hombre".

evola_upright_ll.jpgEvola hace notar que existe una corriente de pensamiento y una historiografía cuya característica es presentar el proceso anterior, al menos en sus primeras fases, como una conquista positiva. "Desde el siglo de las luces y cierto liberalismo", dice, "hasta el historicismo inmanentista, primero idealista, luego materialista y marxista, estas fases de disolución han sido interpretadas y exaltadas como una emancipación del Hombre, un progreso y un verdadero humanismo". En los tiempos en que nosotros vivimos, señala Evola, la ruptura metafísica y moral ha pasado ya al plano existencial. Hoy "una buena parte de la humanidad occidental encuentra normal que la existencia esté desprovista de todo verdadero significado y que no deba ser ligada a ningún principio superior, aunque se las ha arreglado para vivirla de la forma más soportable y menos desagradable posible. Sin embargo, esto tiene como contrapartida inevitable una vida interior cada vez más reducida, inestable y huidiza, así como la desaparición de toda rectitud y fuerza moral". Un sistema de anestésicos y compensaciones (el sexo banalizado, el alcohol, las drogas, las diversiones, el consumismo, los medios de masas) trata de suplir y tapar la falta de significado y de valor de una vida abandonada a sí misma. Sin embargo, cuando dicho entramado se tambalea por alguna razón aparece "la náusea, el asco, el vacío y el absurdo de toda esta nueva civilización materialista impuesta por toda la Tierra". En aquellos cuya sensibilidad es más aguda se constatan diversas formas de traumatismo interior y se ven aparecer estados de degradación y alineación existenciales. Especialmente significativa por lo que tiene de signo de los tiempos es la situación de la juventud 'perdida' o 'quemada' de hoy.

Señala Evola que una de las principales coberturas evasivas, uno de los anestésicos más eficaces del nihilismo occidental es el mito económico-social en sus dos vertientes: el bienestar consumista y el funcionarismo marxista. Capitalismo y marxismo participan del mismo espejismo: "creer en serio que la miseria existencial se reduce a sufrir indigencia material y que, en consecuencia, la primera debe desaparecer automáticamente si se elevan las condiciones materiales de la existencia". Evola considera que la verdad es más bien la opuesta: miseria espiritual y pobreza material carecen de relación y la felicidad y la plenitud humana tienen poco que ver con la abundancia material. Es un hecho que las vidas más profundas son a menudo, si no pobres, sí desde luego austeras (incluso en medio de la riqueza), porque un clima de facilidad debilita la virtud más alta e impide que el Hombre se pruebe y se discipline a sí mismo. "El verdadero significado del mito económico-social, sea cual fuere su variedad", dice Evola, "es el de un medio de anestesia interior tendente no sólo a eludir el problema de una existencia privada de todo sentido, sino a consolidar todas las formas de esta fundamental ausencia de sentido en la vida del Hombre moderno". Para Evola el marxismo y sus derivados 'progresistas' son "el estupefaciente más mortífero de todos los administrados hasta ahora a una humanidad desarraigada", estupefaciente que va acompañado de "una lobotomía psíquica tendente a neutralizar metódicamente, desde la infancia, toda forma de sensibilidad y de intereses superiores y cualquier modo de pensar que no se exprese en términos económico-sociales". En cuanto al sistema consumista, Evola dice que "destruye todo valor superior de la vida y de la personalidad", porque el individuo consumista acaba por considerar absurda cualquier renuncia al bienestar en nombre de valores más altos y se pliega gustoso a los condicionamientos anestesiantes del sistema. Puesto que en Occidente la 'clase obrera' ha entrado con gran fruición en el sistema consumista y en el modo de vida burgués, los derivados marxistas abandonan la revolución anticapitalista y llaman ahora a una suerte de "contestación global", irracional, anarquizante y privada de referentes superiores, en nombre del Tercer Mundo o de toda clase de minorías marginales.

Tanto el sistema como sus antagonistas tienen un carácter nihilista que no hace sino confirmar el nihilismo general de nuestra época.

Dos son los tipos humanos que ha producido el nihilismo contemporáneo. Evola los llama "el Hombre objeto" y el "nihilista activo". El primero -el tipo más frecuente- se pliega a los procesos de disolución en marcha de modo pasivo. O bien se adapta a una vida desprovista de sentido con anestésicos y sucedáneos, agarrándose a las formas supervivientes de convención y seguridad burguesas, o bien se entrega a formas de vida desordenadas y de revuelta anarcoide. El nihilista activo de corte nietzscheano, tipo mucho más restringido, está convencido, sin embargo, de que la actual rebelión contra la Transcendencia es el camino correcto, hace apología de ella y considera que el desastre actual es sólo el resultado de no haber sabido estar a la altura de las nuevas circunstancias sin Dios. Evola analiza entonces el tema de 'la muerte de Dios': para él no es la Divinidad metafísica, es el Dios teísta, lo que ha muerto, el Dios que es una proyección de los valores sociales dominantes o un apoyo para las debilidades humanas. Es el conjunto de conceptos que el cristianismo oficial ha considerado como esenciales e indispensables de toda religión 'verdadera' lo que ha muerto: "el Dios personal del teísmo, cierta ley moral con paraísos e infiernos, la concepción restringida de un orden providencial y de un finalismo moral del mundo y la fe que reposa sobre una base principalmente emotiva, dogmática y anti-intelectual. No es más que el Dios concebido como centro de gravedad de todo este sistema quien ha sido golpeado, un Dios que había terminado por servir de opio o contrapartida a la pequeña moral con que el mundo burgués sustituyó a la gran moral antigua. Pero el núcleo esencial, representado por las doctrinas metafísicas, permanece intacto para quien sepa comprenderlas y vivirlas, inaccesible a todos los procesos nihilistas, a toda disolución". Evola considera que el cristianismo ha facilitado la acción de las fuerzas de disolución en Occidente por haber liquidado todos los intentos metafísicos que dentro de él se han hecho. La irracionalidad de sus dogmas y la falta de un corpus sapiencial superior capaz de contener el derrumbamiento han hecho al cristianismo particularmente vulnerable a los embates de la crítica racional y del libre pensamiento.

Cuando la disolución se ha asentado en el orden moral, la enfermedad sigue con la infección de la persona. Evola distingue entre 'persona' e 'individuo'. La persona es "lo que el Hombre representa concreta y sensiblemente en el mundo y en su circunstancia, pero siempre como una forma de expresión y manifestación de un principio superior que debe ser reconocido como el verdadero centro del ser y sobre el que se sitúa el yo. El Hombre en tanto que persona tiene forma, es él mismo y se pertenece a sí mismo, y en esto se diferencia del individuo". En esto y en que la persona "no está cerrada hacia lo Alto". "La noción de individuo", por contra, "es la de una unidad abstracta, informe, numérica, sin cualidades propias y nada que lo diferencie verdaderamente". El individuo pertenece al reino de la cantidad y es un ego disociado de todo principio transcendente.

Evola vaticina que la crisis de los valores del individuo en el mundo moderno está destinada a ser general e irreversible. El materialismo, el mundo de las masas, las megaurbes modernas, la técnica, la mecanización, las fuerzas elementales despertadas y controladas por procesos objetivos, los efectos existenciales de catástrofes colectivas (las guerras totales o el megaterrorismo con sus frías destrucciones, por ejemplo), todo esto golpea mortalmente al individuo y reduce cada vez más la validez de los valores burgueses. Del individuo se desemboca así en algo todavía más bajo, el tipo de Hombre vacío, repetido en serie, producto multiplicable e insignificante, que corresponde a la vida uniformada actual. Con este tipo de Hombre vacío y serial llega "una nueva barbarie" y un "ideal animal" de vida. Un ideal basado en "el bienestar biológico, la comodidad y la euforia optimista que enfatiza lo que no es más que lozanía, juventud, fuerza física, seguridad y éxito materiales, satisfacción primitiva de los apetitos del vientre y del sexo, vida deportiva... y cuya contrapartida es una atrofia de todas las formas superiores de sensibilidad y de interés intelectual". En esta nueva barbarie y en este ideal animal se incluyen también todos los contestatarios primitivistas que reclaman una 'vuelta a la naturaleza', a la 'Madre Tierra'. Esta supuesta contestación no es sino una forma de regresión. Evola defiende que el Hombre ni es un animal ni ha tenido nunca un estado natural. El Hombre, desde el principio, "ha sido situado en un estado por encima de la naturaleza del que a continuación ha caído", de modo que cuando pretende volverse 'natural' (esto es, animal) en realidad se desnaturaliza.

Disuelta la moral y disuelto el individuo, también se disuelve el conocimiento. Evola se ocupa por extenso de la ciencia positiva y matemático-experimental propia de la modernidad. Esta ciencia no tiene para él valor de conocimiento en el sentido verdadero de ese término, pues se reduce a "una voluntad de poder aplicada a las cosas y a la naturaleza". Para Evola "la ciencia moderna, por una parte conduce a una prodigiosa extensión cuantitativa de los datos relativos a dominios antes inexplorados u olvidados, pero por otra parte no hace penetrar al Hombre en el fondo de la realidad, sino que incluso lo aleja de ella, lo vuelve aún más ajeno a ella". La naturaleza, en su profundidad, permanece cerrada al Hombre y es aún más misteriosa que antes: sus misterios simplemente han sido recubiertos y la mirada humana se ha distraído con las realizaciones espectaculares de los dominios técnicos industriales, dominios "donde no se trata de conocer el mundo, sino de transformarlo conforme al interés de una humanidad convertida exclusivamente en terrestre, como quería Marx". Simultáneamente el conocimiento directo y viviente, la penetración de la intuición intelectual o de la visión mística, "el único conocimiento que importaba a la humanidad no bastardeada", se rechaza hoy por 'no científico'.

Para Evola la concepción del mundo que tiene la ciencia moderna es esencialmente profanadora y ese mundo desacralizado por el saber científico se ha convertido en un elemento existencial constitutivo del Hombre moderno. A través de la instrucción obligatoria se le ha llenado la cabeza de nociones científicas positivistas "no pudiendo adquirir para todo lo que le rodea más que una mirada sin alma que se convierte desde entonces en destructora". El trasfondo efectivo del progreso científico-técnico actual, convertido en la nueva religión de la modernidad, es para el autor el estancamiento y la barbarie interiores. Evola señala que ese progreso "no le reporta nada al Hombre como tal": no le otorga ni conocimiento transcendente, ni potencia interior, ni una norma de acción de más altura moral. En el plano de la acción la ciencia moderna "pone a disposición del Hombre un conjunto prodigioso de medios sin resolver en absoluto el problema de los fines". Además, la ciencia se ha convertido en un proceso autónomo y fragmentado en cada vez más estrechas especializaciones al que "ninguna instancia superior es capaz de imponer un límite y de imprimir dirección, control o freno". Por ello "a menudo se tiene la impresión de que el desarrollo técnico-científico desborda al Hombre y le impone frecuentemente situaciones inesperadas, difíciles y llenas de incógnitas". Las formas de potencia exterior y mecánica de sus bombas, sus cohetes o su revolución tecnológica dejan, en cualquier caso, invariable al Hombre en sí, que sigue tan preso o más que antes de sus debilidades, sus bajas pasiones, su confusión y sus miedos. El Hombre actual no eleva su estatura moral, intelectual o espiritual por ser capaz de ir en cohete hasta la Luna, de producir seres humanos en laboratorio o de matar a miles de criaturas en cinco minutos gracias a la técnica.

La misma degradación que afecta al conocimiento se encuentra hoy, según Evola, en la cultura. La cultura occidental está neutralizada en su influjo, dividida en dominios particulares sin unidad orgánica y se halla privada de todo carácter objetivo, participando de esta forma en los procesos disolutorios de la época. Evola considera que la antítesis decretada entre cultura y política es "una de las manifestaciones más típicas de esa neutralización de la cultura". El contrario normal y fecundo de esta situación no es, para Evola, una cultura al servicio del poder y de la ideología en el sentido degradado de hoy, sino la existencia de una idea axial, de un símbolo elemental y central de una civilización dada, "que manifiesta su fuerza y ejerce una acción paralela y a menudo invisible tanto sobre el plano político (con todos los valores, no sólo materiales, que deberían referirse a un verdadero Estado), como sobre el plano del pensamiento, de la cultura y de las artes". Para Evola esa vieja idea axial hoy perdida es en el caso de la civilización occidental el "ideal del Imperio", ideal que se forjó en el mundo antiguo y medieval y que países como España contribuyeron a mantener en los Siglos de Oro. Evola entiende por tal cosa una gran organización política más allá de particularismos etnicistas y territoriales, organizada con criterios de excelencia y vertebrada por los valores transcendentes característicos de nuestra civilización.

evolaDADA-Evolagross.pngAl analizar la situación del arte moderno, Evola subraya sus tendencias morbosas e intimistas, que dan la espalda al plano sobre el que actúan las grandes fuerzas históricas y políticas y se retiran al mundo de la subjetividad privada del artista no dando valor más que a lo psicológico y a lo formalmente 'interesante'. Joyce, Proust o Gide son, en la literatura, ejemplos acabados de esta tendencia. En ocasiones a esta orientación se asocia la idea del 'arte puro', esto es, del mero formalismo rodeando a un contenido más o menos insignificante. Las innumerables vanguardias e ismos no tienen mucho más valor, afirmación que resulta significativa en la pluma de alguien como Evola, que fue una de las figuras señeras del dadaísmo pictórico italiano. El significado de estas vanguardias "se reduce a una revuelta estéril, reflejo del proceso general de disolución. Reflejan el estado de crisis, pero no aportan nada constructivo, estable o duradero". Su recorrido, además, es corto. Pronto acaban convertidas en un nuevo 'academicismo', una nueva convención, y entran como un producto de consumo más en los circuitos comerciales. En el fondo el arte de hoy, separado de todo contexto orgánico y necesario, se ve reducido al absurdo, convertido en un artículo de lujo para parásitos ociosos. "Si se consideran objetivamente los procesos en curso", observa Evola, "se siente nítidamente que el arte ya no tiene porvenir, que su posición es cada vez más marginal con respecto a la existencia y que su valor se reduce al de un artículo de gran lujo". Al asomarse a la literatura, el panorama no es mejor. "Su fondo constante es el fetichismo de las relaciones humanas, de los problemas sentimentales, sexuales o sociales de individuos sin importancia". Se ha impuesto un realismo inferior, corrosivo y derrotista, denuncia Evola, en el que "directa o indirectamente se mina todo ideal, se hace mofa de todo principio y se reducen los valores estéticos, lo justo, lo verdaderamente noble y digno a simples palabras; y todo ello sin obedecer siquiera a una tendencia declarada". Frente a este realismo inferior Evola postula un realismo positivo que afirma la existencia de valores "que para el tipo humano diferenciado no se reducen a ficciones ni fantasías, sino que tienen el valor de realidades absolutas. Entre éstas figuran el coraje espiritual, el honor, la rectitud, la veracidad o la fidelidad. Una existencia humana que ignora esto no es plenamente real, es infrarreal. Para el Hombre diferenciado, a pesar de la disolución presente, estos valores siguen siendo intocables".

La música tampoco escapa al clima imperante. En el terreno de la música culta la disolución ha seguido dos vías: la tecnicidad fría y cerebral del dodecafonismo y la música serial y una inmersión en lo físico que toma a las cosas y los impulsos elementales como temas inspiradores (iniciada con el impresionismo francés y la música nacionalista). Últimamente se ha llegado ya a una especie de "música glaciar" con composiciones "cuya extrema abstracción formal es análoga a las puras entidades algebraicas de la física más reciente o, en otro terreno, a cierto surrealismo. Son fuerzas sonoras liberadas de las estructuras tradicionales que empujan hacia un meandro tecnicista que sólo el álgebra pura de la composición preserva de una completa disolución en lo amorfo, por ejemplo en la intensidad de los timbres descarnados y atómicamente disociados". Fuera de la música culta, que por otra parte tiene un alcance cada vez más minoritario, la música folclórica ha desaparecido y lo que domina la esfera cotidiana son las diferentes variantes del pop, músicas elementales de diversión o distracción, a menudo vehículos idóneos para la transmisión de toda clase de influencias psíquicas negativas.

Disuelta la moral y el individuo, disueltos el conocimiento, la cultura y las artes, el dominio socio-político estalla igualmente. Entre todos los dominios de la vida moderna es el socio-político "aquel en el cual, por efecto de los procesos generales de disolución, aparece de una manera más manifiesta la ausencia de una estructura que posea el carisma de una verdadera legitimidad para ligarse a significados superiores". Señala Evola que en la época actual "no existe un Estado que pueda, por su propia naturaleza, reivindicar un principio de autoridad verdadera e inalienable" ni que pueda considerarse ajustado a una concepción transcendente de la política. Hoy sólo existen aparatos representativos y administrativos, no Estados que sean la encarnación de un ideal superior. No hay tampoco verdaderos estadistas, la clase dirigente actual no tiene ningún carisma, ninguna virtud superior. "Del mismo modo que ya no existe un verdadero Estado, tampoco existe un partido o un movimiento que se presente como defensor de ideales superiores por los que valga la pena luchar". "A pesar de la variedad de etiquetas", observa Evola, "el mundo actual de los partidos se reduce a un régimen de politicastros que juegan a menudo el papel de hombres de paja al servicio de intereses financieros, industriales o sindicales. Por lo demás la situación general es tal que incluso si existieran partidos o movimientos de otro tipo ya no tendrían ninguna audiencia en las masas desarraigadas, dado que estas masas sólo reaccionan positivamente a favor de quienes le prometen ventajas materiales y 'conquistas sociales'. Hoy en día en política sólo puede actuarse en el plano de las fuerzas pasionales y subintelectuales, fuerzas que por su misma naturaleza carecen de toda estabilidad. Sobre estas fuerzas se apoyan los demagogos, los dirigentes de masas, los fabricantes de mitos y los manipuladores de la opinión pública". Es por esto por lo que aunque hoy aparecieran líderes dignos de ese nombre –personas que apelasen "a fuerzas e intereses de otro tipo, que no prometieran ventajas materiales, que no consintieran en prostituirse o degradarse para asegurarse un poder efímero, precario e informe"-, estos líderes muy probablemente no tendrían ninguna influencia en la situación actual.

Pasando del dominio político al propiamente social, Evola observa que todas las unidades orgánicas de la sociedad se han disuelto o están en vías de hacerlo y lo que existe es esencialmente una masa inestable de individuos aislados contenidos por estructuras exteriores o movida por corrientes colectivas amorfas. Las 'jerarquías' existentes son meramente dinerarias y la excelencia no tiene ya ningún valor en el ordenamiento social. La institución familiar también está en manifiesta crisis, zarandeada entre los intentos de sabotaje por un lado y las reacciones moralizantes vacías y el conformismo burgués, por otro. Desde el punto de vista de Evola todo esto no es de extrañar: "la familia ha cesado desde hace tiempo de tener un significado superior y de estar cimentada por valores vivos de orden transcendente". El carácter orgánico y en cierto sentido heroico que ofrecía su unidad en otros tiempos se ha perdido, al igual que se ha desvanecido el último barniz residual de sacralidad. La familia moderna es para Evola una institución pequeño-burguesa, determinada por valores naturalistas, utilitarios, rutinarios, vulgares y en el mejor de los casos, sentimentales. La función fundamental de la familia, la procreación, se reduce hoy sencilla y groseramente a una continuidad de la sangre, no a la continuidad más esencial de un depósito espiritual e histórico y de una herencia de valores e ideales. "Por otra parte", se pregunta Evola, "¿cómo podría ser de otra forma si su jefe natural, el padre, es hoy en día casi un extraño, incluso físicamente, al estar preso del engranaje de la vida material de esta sociedad absurda? ¿Qué autoridad moral o espiritual puede revestir el padre si hoy es sólo una máquina de fabricar dinero?". Para colmo ahora esto mismo se puede decir también de la madre, convertida en otra máquina de fabricar dinero o en un individuo de vida frívola y mundana, incapaz en ambos casos de mejorar el clima interior de la familia y de ejercer sobre ella una influencia positiva. A la pérdida del prestigio paterno le sigue el distanciamiento o la rebeldía de los hijos y la ruptura, "cada día más nítida y brutal", entre las generaciones mayores y las jóvenes. Este corte de la continuidad espiritual entre las generaciones se ve agravado, además, por un ritmo de vida cada vez más rápido y desordenado.

La misma situación de derrumbamiento que se ve en la institución familiar afecta a la unión de hombre y mujer. Hoy se han hecho frecuentes en Occidente la sucesión frívola y atropellada de emparejamientos y de rupturas hasta el punto de que parece "una especie de prostitución o ayuntamiento libre legalizado". El matrimonio burgués –que tomaba sus bases de la concepción católica y puritana protestante del matrimonio– se ha venido abajo. Desde hace unas décadas esta convención burguesa "se ha estrellado contra la práctica corriente y contestataria del sexo libre" que reivindica la promiscuidad y "la superación de las inhibiciones y los tabúes represivos". Dentro de un marco igualmente naturalista y profano (el Occidente cristiano carece de modelos de matrimonio genuinamente sagrado) el péndulo se ha ido de un extremo a otro: de una visión del sexo pacata y atormentada a otra promiscua y burdelesca. El resultado es una de las características más llamativas de nuestro tiempo: el poder obsesivo y desequilibrado de los asuntos venéreos hasta el punto de que el sexo y cierto de tipo falsificado de mujer son los dos motivos dominantes de la sociedad actual. Como dice Evola, existe una especie de "intoxicación sexual crónica manifestada de mil maneras en la vida pública y las costumbres a través de un erotismo abstracto que lo impregna todo". En este clima se comercializan "espejismos de la sexualidad de masas" en forma de ídolos femeninos que son alimentados por la televisión, el cine, la prensa, las revistas ilustradas y el mundo del espectáculo y la moda. "La mayoría de estas mujeres 'fatales' de rasgos supuestamente fascinantes", señala Evola, "en realidad como personas tienen cualidades sexuales muy mediocres y decadentes, siendo su fondo existencial el de mujeres vulgares y neuróticas".

La pretendida 'liberación' sexual de nuestra época es, para el autor, una vulgar inversión. Señala Evola que habría verdadera liberación si se tomara conciencia de los aspectos auténticamente importantes del sexo, si se reaccionara contra las vulgaridades que obturan sus posibilidades más elevadas y si se tomara posición contra la fetichización de las relaciones interpersonales. Pero eso, evidentemente, no ocurre. Las verdaderas implicaciones de la presente 'liberación sexual' son para el autor muy otras: la entronización del "sexo disociado" que conduce "a una banalización y a un naturalismo de las relaciones entre hombre y mujer, a un materialismo y un inmoralismo expeditivo y fácil en un régimen donde faltan las condiciones más elementales para realizar experiencias sexuales de verdadero valor e intensidad". El sexo se convierte así en un sucedáneo más de los muchos que produce la vida moderna, usado como las drogas "para conseguir sensaciones exasperadas que ayuden a llenar el vacío de la existencia". Y esta conversión del sexo en sucedáneo dentro de una atmósfera de venerización abstracta y colectiva provoca una aguda despolarización de los sexos que convierte a la virilidad y la feminidad en sucedáneos también, descargándolas de la fuerza transcendente de la que cada una de ellas es portadora.

Como es lógico, en este clima general de disolución, la situación de las religiones es considerada igualmente lamentable. Para Evola un fenómeno típico de las fases terminales de una civilización es que "las religiones pierden su dimensión superior, se adormecen, se secularizan y dejan de cumplir su función original". Refiriéndose a la rama católica del cristianismo Evola señalaba en Gli uomini e le rovine, otro de sus libros, la lamentable falta de nivel de la que hoy se puede ser testigo: "el peso de las preocupaciones de carácter social y moralista es mucho mayor que el concedido a la vía sapiencial, la contemplación y la ascesis, puntos clave de toda forma superior de religiosidad. De hecho hoy las principales preocupaciones del catolicismo son un moralismo sexual pequeño-burgués y un paternalismo asistencial". Es entonces, con esta situación decadente de la religión regular, cuando aparece "un neo-espiritualismo evasivo, alienante, de compensación difusa, desarrollado fuera de las tradiciones regulares (incluso contra ellas) y sin la menor repercusión seria sobre la realidad". El uso bastardo que este neo-espiritualismo hace de ciertas doctrinas tradicionales de carácter interno lleva al descrédito de las mismas por la manera "deformada e ilegítima" en que por él son presentadas y propagadas.

Ante este clima general, todo esfuerzo de oposición frontal a las tendencias de la época es considerado inútil. Evola rechaza resueltamente la opción que consistiría en "apoyarse sobre lo que sobrevive del mundo burgués y defenderlo y tomarlo como base frente a las corrientes actuales de disolución y subversión más violentas, tras haber intentado reanimar esos restos con la ayuda de algunos valores más altos". Los valores burgueses, en realidad, son productos decadentes que para Evola no tienen mayor valor. La actitud existencial que preconiza será esa que el viejo adagio oriental denomina cabalgar el tigre. "Cuando un ciclo de civilización toca a su fin", escribe Evola, "es difícil obtener un resultado positivo oponiéndose directamente a las fuerzas en movimiento. La corriente es demasiado fuerte y uno sería arrastrado por ella. Lo esencial es no dejarse impresionar por la aparente omnipotencia de las fuerzas disolutorias de la época. Privadas de lazo con todo principio superior, estas fuerzas tienen, en realidad, un campo de acción limitado. Es preciso, pues, no dejarse hipnotizar por el presente ni por lo que nos rodea y contemplar las condiciones susceptibles de aparecer más tarde. La regla a seguir consistirá en dejar libre curso a las fuerzas de la época, permaneciendo firmes y dispuestos a actuar cuando el tigre, que no puede abalanzarse sobre quien lo cabalga, esté fatigado de correr". Se abandona, por tanto, la acción directa y se retira uno hacia posiciones más interiores.

Frente a la situación actual, sin embargo, no caben para Evola ni la desesperación ni el derrotismo. El Hombre diferenciado sabe que "cuando un ciclo termina, otro comienza, y el punto culminante del proceso disolutorio es también aquel en el cual se origina el enderezamiento en la dirección opuesta". Para un Hombre amante de la Transcendencia, dice Evola, el mundo actual resulta amargo y problemático, pero él sabe que no está aquí ni por un azar despiadado al que ha de resignarse con fe o con fatalismo, ni para librar una carrera de resistencia a fondo perdido. A ese tipo humano le corresponde la misión de velar en medio de la noche, en medio de las ruinas, y conservar la memoria de toda una herencia civilizatoria para que la continuidad con el pasado no se rompa. La vida es para él, en consecuencia, una aventura de importancia capital, cargada de sentido.

Evola señala, en fin, la esterilidad del 'mito de Oriente' en nuestras presentes circunstancias. "Entre quienes han reconocido la crisis del mundo moderno y han renunciado también a considerar a la civilización moderna como la civilización por excelencia, como el apogeo y la medida de cualquier otra, hay quienes han vuelto su mirada a Oriente, ya que allí ven subsistir una orientación tradicional y espiritual que desde hace tiempo ha dejado de ser en Occidente la base de organización efectiva de los diversos dominios de la existencia. Se han preguntado incluso si no podrían encontrar en Oriente puntos de referencia útiles para la reintegración de Occidente". Evola considera que si la mirada occidental al Oriente persigue contactos intelectuales y doctrinales esa búsqueda es legítima, aunque "al menos en parte podríamos encontrar ejemplos y referencias claras en nuestro propio pasado sin necesidad de recurrir a una civilización no occidental". Pero si lo que se persigue es la adopción de un marco existencial oriental "uno no puede hacerse ilusiones: Oriente sigue ahora la senda de degradación que nosotros hemos tardado varios siglos en recorrer. El 'mito de Oriente', fuera de los círculos minoritarios y aislados de quienes cultivan las disciplinas metafísicas, es por tanto falaz. El desierto crece y no hay ninguna otra civilización que pueda servirnos de apoyo. Debemos afrontar solos nuestros problemas".

En realidad, el autor insiste en una posibilidad que justifica el esfuerzo de mantener una perspectiva netamente occidental. Es el hecho de que si la fase final de la edad oscura ha arrancado antes entre nosotros, también podemos ser nosotros los primeros en superarla. Las demás civilizaciones han entrado en esta corriente más tardíamente y podrían hallarse en lo más agudo del proceso disolutorio cuando Occidente rebase el límite negativo y empiece a remontar. Nuestra civilización estaría, en ese caso, "cualificada para una nueva función de guía, muy diferente de la que ha realizado en el pasado con la civilización tecno-industrial y materialista, entonces ya periclitada, y cuyo único resultado ha sido la decadencia espiritual generalizada".

NOTAS
[i] Marguerite Yourcenar: El Tiempo, gran escultor, Madrid, Alfaguara, 1989.
[ii] César Martínez: "Metafísica del sexo de Julius Evola", Axis Mundi II, nº5, 1998.
[iii] Adolfo Morganti: "Julius Evola y el mundo budista italiano", en Julius Evola: La doctrina del despertar. El budismo y su finalidad práctica, Grijalbo, México DF, 1998.
[iv] Julius Evola: Cabalgar el tigre, Barcelona, Nuevo Arte Thor, 1987.

dimanche, 25 janvier 2015

Ernst Jünger: vivre par les armes et les mots

Junger.jpg

Ernst Jünger: vivre par les armes et les mots

La guerre est synonyme de souffrance et de désolation et les hommes de 14 sont les victimes de la barbarie moderne. Cent ans ont passé depuis le début de la Grande Guerre et cette opinion est aujourd’hui largement partagée ; elle anime l’esprit des discours et les cérémonies de commémoration. En Allemagne comme en France, Ernst Jünger incarne tout ce que notre Europe moderne et pacifiée ne souhaite plus voir et rejette, tout ce qu’elle a en horreur : un soldat, incarnation de cette culture martiale européenne aujourd’hui disparue, un guerrier devenu écrivain dont une grande partie de l’œuvre puise son inspiration dans les quatre années passées dans la boue et la fureur des tranchées du nord de la France.

L’œuvre de Jünger est vaste ; elle parcourt le XXème siècle, ses tourments et ses drames. Elle interroge sur les forces nihilistes à l’œuvre chez l’homme et dont l’écrivain ressentit le caractère destructeur au plus profond de sa chair, lui le guerrier blessé quatorze fois au front. Après quatre années de guerre, il est l’officier le plus décoré de l’armée allemande. Dans son premier livre, Orages d’acier, écrit dès son retour à la vie civile, il relate cette expérience inouïe de l’homme plongé au cœur de masses destructrices. À sa lecture, on s’immerge dans ce quotidien des tranchées, où alternent morne routine et actes de guerre effarants. La description des combats est précise, sans état d’âme, dépassionnée et parfois, presque esthétisante. Loin du pacifisme d’Erich Maria Remarque dans À l’ouest, rien de nouveau, l’auteur semble vivre cette guerre comme une opportunité unique de vivre ses rêves de gloire et d’aventure, forgé par une enfance bercée de héros mythologiques grecs et germaniques. Face à la fureur du feu, Jünger pour ne pas subir son destin, livré aux hasards de la guerre moderne, décide d’en devenir le maître. Par instinct de survie, pour ne pas être tué, il décide de devenir, lui même, un tueur, mais cette mort, il la veut sans haine, dans le respect de l’adversaire.

À l’heure du pacifisme béat contemporain, les soldats de la Grande Guerre sont aujourd’hui considérés comme les tristes victimes de l’histoire et du nationalisme ; des pantins craintifs envoyés à l’abattoir par des généraux ivres de sang et par des nations avides de guerre. L’expérience militaire de Jünger nous offre une vision en miroir contraire. Il y apparaît maître de son destin, attaché à la noblesse du soldat, fier du combat qu’il mène avec un cœur irrigué par un patriotisme ardent. Malgré ses horreurs, la guerre devient à ses yeux l’aventure épique au sein de laquelle l’homme peut découvrir une voie vers l’élévation, et non pas seulement une mort abjecte dénuée de sens. La guerre devient alors une expérience intérieure presque mystique, et ce, malgré l’effondrement de la conscience qu’elle engendre au cœur des combats : « La grande bataille marqua aussi un tournant dans ma vie intérieure, et non pas seulement parce que désormais je tins notre défaite pour possible. La formidable concentration des forces, à l’heure du destin où s’engageait la lutte pour un lointain avenir, et le déchaînement qui la suivait de façon si surprenante, si écrasante, m’avaient conduit pour la première fois jusqu’aux abîmes de forces étrangères, supérieures à l’individu. C’était autre chose que mes expériences précédentes ; c’était une initiation, qui n’ouvrait pas seulement les repaires brûlants de l’épouvante. »

Jünger est à la fois horrifié et fasciné par cette guerre sans nulle autre pareille alors, mais son abjection lui apparaît comme un des reflets de l’âme humaine. Il prend conscience d’être à la charnière de deux mondes, de vivre un point de non-retour. « On ressentait (…) l’inéluctable engloutissement d’une civilisation, et l’on prenait conscience en frissonnant d’être entraîné dans le maelstrom. » Le monde bourgeois qu’il a connu jusqu’alors vole en éclats et son tempérament l’amène à vouloir œuvrer à l’élaboration du nouveau monde qui va le remplacer. Cette guerre devient la matrice de ce siècle encore neuf où, malgré le chaos ambiant, l’avenir est à conquérir et une nouvelle société à construire.

D’une guerre à l’autre

Il sort de cette guerre en héros, couvert de gloire dans une Allemagne affligée par la honte d’une défaite incomprise. Le jeune officier, qu’il est alors, devient alors une des nombreuses figures de la révolution conservatrice ; ce mouvement intellectuel né dans le foisonnement culturel de la République de Weimar axé sur une critique de la modernité, un rejet du système démocratique assorti d’une franche hostilité à la société capitaliste et à certaines de ses manifestations comme l’urbanisation, l’industrialisation, le matérialisme et la perte de spiritualité. On peut voir dans ce mouvement un terreau intellectuel au fascisme, qui en partage certaines valeurs, même si la plupart de ses figures éminentes se démarqueront du mouvement nazi.

Heimo-Schwilk-Leben-und-Werk.jpg

 Ainsi, la submersion hitlérienne ne suscite pas l’adhésion de ce patriote réfractaire à toutes formes d’idéologie. Il exècre en effet l’amoralité, la vulgarité et l’antisémitisme du régime nazi et entre alors dans une opposition passive : cette émigration intérieure théorisée par Franck Thiess. Hitler développe pourtant quant à lui une fascination pour Jünger, incarnation superbe du guerrier germanique fantasmé par la plupart des hiérarques du nouveau régime.

Fort de cette admiration qui le protège face à la Gestapo et la censure, il se permet l’audace de publier en 1939 Sur les falaises de marbre, un roman allégorique mettant en scène un monde imaginaire paisible et raffiné, submergé par le Grand Forestier, incarnation du mal brisant un monde d’harmonie. On y perçoit alors une condamnation du totalitarisme hitlérien. L’ouvrage devient alors un pamphlet antinazi pour de nombreux Européens même si ce livre présente une dimension intemporelle comme le souligne Julien Gracq : « Livre de tous les temps de catastrophe possible et passée. »

La guerre n’en a cependant pas fini avec lui. L’Europe s’embrase à nouveau et le contraint à revêtir l’uniforme pour une nouvelle guerre et pour un homme auquel il ne croit pas. Il est incorporé au sein des troupes d’occupation basées à Paris où il fréquente l’élite intellectuelle française. Le héros des tranchées exècre ce nouveau conflit et pense même à la désertion ou au suicide. Cette guerre ne lui apparaît plus comme source de gloire mais comme une tache qui ternit l’uniforme allemand d’une teinte de honte. Entre le jeune soldat avide de gloire de la Grande Guerre et l’officier mûr et assagi, stationné à Paris en 1940, le temps a modifié le regard. Il écrit alors : « le même uniforme, le même grade, mais un homme différent. »

La guerre comme élément naturel

Après 1945, son œuvre devient sinueuse et prolifique. Il théorise alors des concepts développés déjà avant-guerre. Il devient ainsi le théoricien d’une forme d’anarchisme propre à sa vision du monde. Jünger se passionne également pour l’entomologie et développe une pensée écologiste d’avant-garde mais loin d’entrer en contradiction avec sa pensée belliciste, celle-ci au contraire l’y conforte. Pour lui, la guerre s’inscrit entièrement dans l’ordre naturel, elle est gravée dans les gènes de l’humanité. C’est une utopie de s’y opposer car elle s’inscrit dans l’équilibre du monde : « La guerre n’est pas instituée par l’homme, pas plus que l’instinct sexuel ; elle est la loi de la nature. C’est pourquoi nous ne pourrons jamais nous soustraire à son empire. Nous ne saurions la nier sous peine d’être englouti par elle. »

Jünger traverse ce XXème siècle et atteint l’âge canonique de 102 ans pour s’éteindre après la réunification des deux Allemagne en 1998. Peu avant sa mort, l’homme suscite la polémique dans cette Allemagne entièrement pacifiste vouée à expier ce militarisme germanique, source pour de nombreux Européens de toutes les catastrophes du siècle. Pour ces raisons, il subit tout au long de ses ultimes années, l’attaque de la gauche et des verts allemands qui ne lui pardonnent pas son œuvre conservatrice et belliciste. En effet, dans une Europe en paix et démocratique, dont le poids sur les affaires internationales et la place dans l’histoire du monde s’atténuent toujours un peu plus, Jünger et son œuvre apparaissent comme vestiges d’un temps disparu et oublié, un temps où la guerre était acceptée comme inhérente aux affaires humaines et à la vie des nations.

jeudi, 22 janvier 2015

Spengler, Lasch, Bourget: culture et décadence

Southern_Decadence_2013_Kim_Welsh_9675259560_473c683bf4.jpg

Spengler, Lasch, Bourget: culture et décadence

Avant de se demander trivialement qu’est-ce qu’une culture ou société décadente il faudrait peut-être réfléchir – et notre époque nous y oblige – à la possibilité même d’une telle interrogation. En effet, peut-on encore, sans provoquer l’incompréhension générale, associer culture et décadence ? Notre culture n’aurait-elle tout simplement pas anémié les préjugés intellectuels ou les outils conceptuels requis pour détecter un éventuel état de décadence ? Nous ne prétendons pas répondre sérieusement à ces questions dans ce court article mais simplement jeter, ci et là, quelques pistes de réflexion dont l’articulation devrait permettre d’esquisser les présupposés théoriques d’une rhétorique de la décadence. 

spengler.jpgNous avons déjà vu qu’un des traits de la médiocrité s’exprime dans une rupture du sens historique parfaitement illustrée par l’homme-masse et Festivus festivus. Un rapport à l’histoire décadent n’est pas autre chose qu’une culture de l’oubli, du pur présent. D’aucuns s’enivrent de ce présent jusqu’à la pâmoison, d’autres lui font révérence et le presse jusqu’à en extraire le jus aigre du progrès perpétuel. Il s’agit d’un progrès amnésique ayant pour seul critérium une propension à dynamiter les cadres institutionnels, à émanciper, à promouvoir le relativisme culturel. Différent à la fois de l’idéalisme politique des Lumières et des doctrines du salut par l’histoire (matérialisme historique et idéalisme absolu) dont pourtant il procède, l’idée actuelle de progrès tend à l’inauguration d’un état au sein duquel la notion même de décadence perd son sens, à savoir un état de déconstruction maximale et d’identité commune minimale. Notre vision du progrès (celle, du moins, des « élites » en place) repose sur une architecture conceptuelle peu propice à développer une sensibilité conservatrice ou réactionnaire et donc une lecture de notre civilisation en terme de déchéance.

La décadence suppose toujours la trace d’une chute (le péché originel, l‘hybris, ou le mythe de l’âge d’or), une dégénérescence (Chez Morel par exemple, qui définit la dégénérescence comme une déviation du « type primitif » lui-même produit de la création divine et « créé pour atteindre le but assigné par la sagesse éternelle ». Il y a dégénérescence « si les conditions qui assurent la durée et le progrès de l’espèce humaine, ne sont pas plus puissante encore que celles qui concourent à la détruire et à la faire dégénérer », autrement dit lorsque nous constatons une « déviation maladive d’un type primitif ».) ou un déclin (voir Oswald Spengler). L’idée de décadence se réalise pleinement lorsque le temps des horloges ne conserve plus mais dégrade et qu’une harmonie ou un ordre naturel se défait. A l’inverse, il devient impossible d’asseoir une critique basée sur une rhétorique de la décadence à l’heure où l’exaltation chimérique d’un progrès sans fin et d’une culture déconnectée de la nature alimentent les esprits. N’importe quelle matrice culturelle offre la possibilité de penser les changements en terme de progression ou de régression, de mieux ou de moins (l’imagination humaine est sans limite pour inventer des étalons de mesure autorisant de tels jugements), mais il n’est peut-être pas vrai que toutes les cultures ou civilisations (sous-entendu les individus allant dans le sens de cette culture et non pas, bien sûr, les figures de la réaction) puissent penser la décadence, c’est-à-dire appréhender la déliquescence dans son aspect le plus absolu, le plus fondamental, à l’échelle, précisément, d’une civilisation.

bourget_2103.jpg

Culture de l’oubli où gît pourtant encore la certitude d’un progrès ; où l’histoire ressemble à une fonction exponentielle traduisant l’ascension infinie dans laquelle l’homme du présent entretient l’illusion d’un devoir de prolongement. Quoi prolonger exactement ? Ce qui a le goût et l’odeur du présent. Or, la possibilité d’une décadence est toujours ouverte lorsque nous entretenons une vue cyclique ou providentielle de l’histoire. Par exemple, « La conception biblique de l’histoire avait, nous dit Christopher Lasch, après tout, plus de points communs (…) avec la conception classique, telle qu’elle fut reformulée au cours de la Renaissance, qu’avec la louange moderne du progrès. Ce qu’elles partageait était une conscience du « sort des sociétés menacées » – une intelligence du fait que la qualité contingente, provisoire et finie des choses temporelles trouve sa démonstration la plus vivace non seulement dans la mort des individus, mais dans la grandeur et la décadence des nations ». L’histoire chrétienne, sous sa forme providentielle, demeure impénétrable et se rapproche sans doute davantage de la conception cyclique de l’antiquité ou de la fortune machiavélienne que de la conception linéaire ou rectiligne que nous connaissons. L’espérance chrétienne évolue très loin d’une interprétation progressiste de l’histoire ; son essence ne réside « ni dans le paradis sur terre de la fin de l’histoire, ni dans la christianisation de la société et les perfectionnements moraux qu’elle impliquerait », mais « dans « la conviction que la vie est une affaire délicate », « que rien n’y est jamais tenu pour acquis, que rien de temporel n’est capable de porter le fardeau de la foi humaine »» (Richard Niebuhr cité par Christopher Lasch).

lash15dfQC0YAL.jpgSimilairement, la théorie d’Oswald Spengler, annonçant le déclin inévitable de l’Occident, se raccroche à une détermination cyclique d’un sens de l’histoire qu’il estime être en mesure de saisir. Selon lui, le déclin de la culture occidentale s’amorce dans les civilisations qui elles-mêmes représentent le dernier souffle d’une culture, « son achèvement et sa fin » ou encore « un pas de géant vers l’anorganique ». « Un siècle d’activité extensive pure, excluant la haute production artistique et métaphysique – disons franchement une époque irreligieuse, ce qui traduit tout à fait le concept de ville mondiale – est une époque de décadence ». Cette anthropologie pessimiste du déclin indexée sur un mouvement historique erratique se retrouve dans l‘Homme et la technique. Pour Spengler l’homme se distingue de l’animal par sa supériorité technique qui lui confère une force de domination inédite. Technique de forme « générique », c’est-à-dire « invariable » et « impersonnelle » – « la caractéristique exclusive de la technique humaine (…) est qu’elle est indépendante de la vie de l’espèce humaine » – au contraire, bien entendu, des animaux pour qui la « cogitation » se veut « strictement tributaire du « ici et maintenant » immédiat, et ne tenant compte ni du passé ni de l’avenir, elle ne connaît pas non plus l’expérience ou l’angoisse ». Ainsi, « l’homme est devenu créateur de sa tactique vitale (…) et la forme intime de sa créativité est appelée culture ». L’histoire de la technique n’est rien d’autre que l’histoire de la culture et de la civilisation, c’est-à-dire l’histoire d’une activité créatrice décorrélée de la « tactique de la vie ». Considérant la nature « comme du matériau et des moyens à son service », l’homme prométhéen s’éloigne toujours plus de celle-ci en y substituant, de son emprunte drue, l’artifice (l’art au sens de technique) afin de se « construire sois-même un monde, être soi-même Dieu (…) » : « c’est bien cela le rêve du chercheur Faustien ». Cette prétention génère un déphasage tragique entre l’homme et la nature puisque, en dernière analyse, « l’homme ne cesse pas d’en dépendre (…) elle continue à l’englober elle-même, lui comme tout le reste, en dépit de tout ce qu’il peut faire ». « Toute haute culture est une tragédie ». La notion de chute est ici toujours présente ainsi que l’idée d’une nature humaine désorganisée par la technique.

Dans une même perspective, mais sous un mode d’avantage psychologique qu’historique, Paul Bourget dépeint la décadence des âmes au prisme d’une riche étude littéraire ( de Baudelaire à Tourgueniev en passant par Flaubet, Taine, Stendhal et bien d’autres) dans son Essais de psychologie contemporaine. En étudiant Baudelaire il relève d’emblée le climat suffocant d’une civilisation emportant un « désaccord entre l’homme et le milieu ». A ceux qui ont cru que l’assombrissement de la littérature à cette époque n’était qu’un simple passage, « Baudelaire n’y voyait-il pas plus juste, souligne Bourget, en regardant une certaine sorte de mélancolie comme l’inévitable produit d’un désaccord entre nos besoins de civilisés et la réalité des causes extérieure ? La preuve en est que, d’un bout à l’autre de l’Europe, la société contemporaine présente les mêmes symptômes, nuancés suivant les races, de cette mélancolie et de ce désaccord. Une nausée universelle devant les insuffisances de ce monde soulève le cœur des Slaves, des Germains et des Latins. Elle se manifeste chez les premiers par le nihilisme, chez les seconds par le pessimisme, chez nous-mêmes par de solitaires et bizarres névroses ». Ensuite l’auteur précise le sens du terme décadence dans un long commentaire : « par le mot décadence, on désigne volontiers l’état d’une société qui produit un trop petit nombre d’individus propres aux travaux de la vie commune. Une société doit être assimilé à un organisme (…) l’individu est la cellule sociale. Pour que l’organisme total fonctionne avec énergie, il est nécessaire que les organismes moindres fonctionnent avec énergie, mais avec une énergie subordonnée, et, pour que ces organisme moindres fonctionnent eux même avec énergie, il est nécessaire que leurs cellules composantes fonctionnent avec énergie, mais avec une énergie subordonnée.» En effet, « si l’énergie des cellules devient indépendante, les organismes qui composent l’organisme total cessent pareillement de subordonner leur énergie à l’énergie totale, et l’anarchie qui s’établit constitue la décadence de l’ensemble ». Encore une fois, on retrouve dans les analyses de Paul Bourget une remise en cause d’un progrès perpétuel (« ceux qui croient au progrès n’ont pas voulu apercevoir cette terrible rançon de notre sécurité mieux assise et de notre éducation plus complète ») et une croyance en un ordre social immanent qu’il faut préserver et non pas engendrer.

nisard41T0nlJaBUL.jpgAutre variation sous la plume de Désiré Nisard puisée dans son Études de mœurs et de critique sur les poètes latins de la décadence. Nisard fustige sous le nom de littérature décadente deux traits principaux : l’engouement pervers de la description ainsi qu’une érudition déplacée. Deux symboles d’un manque d’imagination sur le plan artistique. Cependant, il n’y pas de littérature décadente sans une décadence générale des mœurs. Alors que la description homérique se fixe sur l’humanité dans ce qu’elle possède de générique – la description brosse alors un monde commun, un homme commun, une spiritualité commune sous une multitudes de visages -, à l’inverse, la littérature décadente (notamment celle de Lucain) s’appesantit sur l’homme du divers : on passe d’une description de l’humanité à celle de l’individu. L’érudition irrigue la description et lui donne une coloration passéiste : il s’agit d’un « besoin de chercher dans les souvenirs du passé des détails que l’inspiration ne fournit pas » et non de cette érudition critique, parfaitement louable, qui consiste à amasser des faits sur une époque pour ensuite les comparer et les juger. Une fois de plus l’auteur mélange les deux fondamentaux inhérents aux discours de la décadence : la déchéance d’un passé en décomposition exprimée dans un ordre moral dévoyé. Ceux qu’il nomme « les versificateurs érudits » se rattachent à une littérature de seconde classe, une littérature dans laquelle s’épuise la grandeur des époques primitives. Alors que l’érudition de type décadente se perd dans les détails et dans la répétition d’un passé ou d’une nature révolue (on pourrait ici relever l’analogie avec le décadentisme ; notamment chez Huysmans pour qui le goût de l’érudition confine à l’exaltation de l’artifice, à l’art pour l’art – c’est-à-dire précisément ce que Nisard reproche aux versificateurs érudits – : « à coup sûr, on peut le dire : l’homme a fait dans son genre, aussi bien que le Dieu auquel il croit » nous dit des Esseintes) en s’attachant de trop près aux beautés purement descriptives (contingentes, relatives, casuels), les chef-d’œuvres primitifs (La Bible, les épopées d’Homère et de Dante, etc…) cultivent les beautés d’un ordre moral (soit des vérités éternelles valables pour toutes les époques et toutes les nations, soit ces vérités nécessaires qui fleurissent aux époques de grandeurs mais demeurent liées à une certaine culture). Chez les versificateurs érudits nous avons une simple « sensation de curiosité passagère qui résulte d’une heureuse combinaison de mots, d’une chute, d’une pointe » ; la littérature de l’âge d’or s’applique, quant à elle, à « conserver dans les formes pures et sacrées la somme des vérités pratiques nécessaires à la conservation et à l’amélioration de l’homme, dans quelque temps qu’il vive, et malgré toute ces variétés de mœurs, de société, de coutume, qui modifient son état, mais ne changent pas sa nature ».

La décadence n’a plus de sens pour une époque qui a fait table rase du passé, qui ne se situe plus vraiment par rapport au passé, et qui n’a plus une haute estime de sa propre culture : nous nous réjouissons de cet « horizon toujours ouvert à toutes les possibilité ». Ortega Y Gasset estime que dans une telle configuration, quand bien même il y aurait une décadence objectivement perceptible de notre culture, il n’est pas raisonnable de prononcer la déchéance d’une époque sentant bien que « sa vie est plus intense que toutes les vies antérieures »  ; et « une vie qui ne préfère à elle-même (et peu importe les raisons) aucune autre vie d’autrefois ou de quelque temps que ce soit, et qui, par cela même, se préfère à toute autre » ne peut décemment éprouver sa propre décadence. Le paradoxe réside en ceci que ce « désir de vivre » n’est plus lié à un sentiment de grandeur, d’appartenance à une culture supérieure – toujours accompagné d’une inquiétude quant à une éventuelle chute -, mais au monde de l’enfance. La cécité nous préserverait de l’expérience intime, profonde et douloureuse d’un monde qui s’écroule. Combien de temps encore ? Les écrits dénonçant un déclin rampant de notre civilisation se multiplient (Renaud Camus, Alain Finkielkraut, Bernard Lugan, Dominique Venner par exemple) et pourraient bien traduire un désir de vivre moins intense.

mercredi, 14 janvier 2015

Oswald Spengler & the Faustian Soul of the West

Faustgoethe.jpeg

Oswald Spengler & the Faustian Soul of the West,

Part 1

By Ricardo Duchesne

Ex: http://www.counter-currents.com 

If I had to choose one word to identify the uniqueness of the West it would be “Faustian.” This is the word Oswald Spengler used to designate the “soul” of the West. He believed that Western civilization was driven by an unusually dynamic and expansive psyche. The “prime-symbol” of this Faustian soul was “pure and limitless space.” This soul had a “tendency towards the infinite,” a tendency most acutely expressed in modern mathematics. 

The “infinite continuum,” the exponential logarithm and “its dissociation from all connexion with magnitude” and transference to a “transcendent relational world” were some of the words Spengler used to describe Western mathematics. But he also wrote of the “bodiless music” of the Western composer, “in which harmony and polyphony bring him to images of utter ‘beyondness’ that transcend all possibilities of visual definition,” and, before the modern era, of the Gothic “form-feeling” of “pure, imperceptible, unlimited space” (Decline of the West, Vol.1, Form and Actuality [Alfred Knopf, 1923] 1988: 53-90).

This soul type was first visible, according to Spengler, in medieval Europe, starting with Romanesque art, but particularly in the “spaciousness of Gothic cathedrals,” “the heroes of the Grail and Arthurian and Siegfried sagas, ever roaming in the infinite, and the Crusades,” including “the Hohenstaufen in Sicily, the Hansa in the Baltic, the Teutonic Knights in the Slavonic East, [and later] the Spaniards in America, [and] the Portuguese in the East Indies.” Spengler thus viewed the West as a strikingly vibrant culture driven by a type of personality overflowing with expansive impulses, “intellectual will to power.” “Fighting,” “progressing,” “overcoming of resistances,” battling “against what is near, tangible and easy” – these were some of the terms Spengler used to describe this soul (Decline of the West: 183-216).

A variety of words have been used to describe or identify the peculiar history of the West: “individualist,” “rationalist,” “imperialist,” “secularist,” “restless,” and “racist.” Spengler’s term “Faustian,” it seems to me, best captures the persistent, and far greater, originality of the West since ancient times in all the intellectual, artistic, and heroic spheres of life. But many today don’t read Spengler; there are no indications, in fact, that the foremost experts on the so-called “rise of the West” have even read any of his works.

The current academic consensus has reduced the uniqueness of the West to when this civilization “first” became industrial. This consensus believes that the West “diverged” from other agrarian civilizations only when it developed steam engines capable of using inorganic sources of energy. Prior to the industrial revolution, we are made to believe, there were “surprising similarities” between Europe and Asia. Both multiculturalist and Eurocentric historians tend to frame the “the rise of the West” or the “great divergence” in these economic/technological terms. David Landes, Kenneth Pomeranz, Bin Wong, Joel Mokyr, Jack Goldstone, E. L. Jones, and Peer Vries all single out the Industrial Revolution of 1750/1830 as the transformation which signaled a whole new pattern of evolution for the West (or England in the first instance). It matters little how far back in time these academics trace this Revolution, or how much weight they assign to preceding developments such as the Scientific Revolution or the slave trade, their emphasis is on the “divergence” generated by the arrival of mechanized industry and self-sustained increases in productivity sometime after 1750.

spenglervbbnjh.jpgBut I believe that the Industrial Revolution, including developments leading to this Revolution, barely capture what was unique about Western culture. I am obviously aware that other cultures were unique in having their own customs, languages, beliefs and historical experiences. My claim is that the West was uniquely exceptional in exhibiting in a continuous way the greatest degree of creativity, novelties, and expansionary dynamic. I trace the uniqueness of the West back to the aristocratic warlike culture of Indo-European speakers [2] as early as the fourth millennium. The aristocratic libertarian culture of Indo-European speakers was already unique and quite innovative in initiating the most mobile way of life in prehistoric times [3] starting with the domestication and riding of horses and the invention of chariot warfare. So were the ancient Greeks in their discovery of logos and its link with the order of the world, dialectical reason, the invention of prose, tragedy, citizen politics, and face-to-face infantry battle.

The Roman creation of a secular system of republican governance anchored on autonomous principles of judicial reasoning was in and of itself unique. The incessant wars and conquests of the Roman legions, together with their many war-making novelties and engineering skills, were one of the most vital illustrations of spatial expansionism [4] in history. The fusion of Christianity and the Greco-Roman intellectual and administrative heritage, coupled with the cultivation of the first rational theology in history [5], Catholicism, were a unique phenomenon. The medieval invention of universities [6] — in which a secular education could flourish and even articles of faith were open to criticism and rational analysis in an effort to arrive at the truth — was exceptional. The list of epoch making transformation in Europe is endless, the Renaissance, the Age of Discovery, the Scientific Revolution(s), the Military Revolution(s), the Cartographic Revolution, the Spanish Golden Age, the Printing Revolution, the Enlightenment, the Romantic Era, the German Philosophical Revolutions from Kant to Hegel to Nietzsche to Heidegger.

Limitations in Charles Murray’s Measurement of the Accomplishments of Western civilization

Some may wonder how can one make a comparative judgment about the accomplishments of civilizations without some objective criteria or standard of measurement. There is a book by Charles Murray published in 2003, Human Accomplishment: The Pursuit of Excellence in the Arts and Sciences, 800 B.C. to 1950 [7], which systematically arranges “data that meet scientific standards of reliability and validity” for the purpose of evaluating the story of human accomplishments across cultures. It is the first effort to quantify “as facts” the accomplishments of individuals and countries across the world in the arts and sciences by calculating the amount of space allocated to these individuals in reference works, encyclopedias, and dictionaries. Charles Murray informs us that ninety-seven percent of accomplishment in the sciences occurred in Europe and North America from 800 BC to 1950. It also informs us that, in the Arts, Europe alone produced a far higher number of “significant figures” than the rest of the world combined. In music, “the lack of a tradition of named composers in non-Western civilization means that the Western total of 522 significant figures has no real competition at all” (p. 252-259).

Murray avoids a Eurocentric bias by creating separate compilations for each of “the giants” in the arts of the Arab world, China, India, and Japan, as well as of the “giants” of Europe. In this respect, Murray recognizes that one cannot apply one uniform standard of excellence for the diverse artistic traditions of the world. But he produces combined (worldwide) inventories of “the giants” for each of the natural sciences. Combined lists for the natural sciences are possible since world scientists themselves have come to accept the same methods and categories. The most striking feature of his list of “the giants” in the sciences (the top 20 in Astronomy, Physics, Biology, Medicine, Chemistry, Earth Sciences, and Mathematics) is that they are all (excepting one Japanese) Western (p. 84, 122-29).

What explanation does Murray offer for this remarkable “divergence” in human accomplishments? He argues that human accomplishment is determined by the degree to which cultures promote or discourage individual autonomy and purpose. Accomplishments have been “more common and more extensive in cultures where doing new things and acting autonomously [were] encouraged than in cultures [where they were] disapprove[d].” Human beings have also been “most magnificently productive and reached their highest cultural peaks in the times and places where humans have thought most deeply about their place in the universe and been most convinced they have one” (p. 394-99). The West was different in affording individuals greater autonomy and purpose.

One major limitation in Murray is that he attributes to Christianity this sense of purpose and place in the universe, unable to account for the incredible accomplishment of the pagan Greeks and Romans. It is also the case that Murray’s Human Accomplishment is a statistical assessment, an inventory of names, not an attempt to capture the historically dynamic character of Western individualism. His book leaves out all the dramatic transformations historians have identified with the West: Why did the voyages of global discovery “take place” in early modern Europe and not in China? Why did Newtonian mechanics elude other civilizations? Actually, no current historical work addresses all these transformations together. Countless books have been published on one or two major European transformations, but no scholar has tried to explain, or pose as a general question, the persistent creativity of Europeans from ancient to modern times across all the fields of human endeavor. The norm has been for specialists in one period or transformation to write about (or insist upon) the “radical” or “revolutionary” significance of the period or theme they happen to be experts on.

Missing is an understanding of the unparalleled degree to which the entire history of the West was filled with individuals persistently seeking “to transcend every optical limitation” (Decline of the West: 198). In comparative contrast to the history of India, China, Japan, Egypt, and the Americas, where artistic styles, political institutions and philosophical outlooks lasted for centuries, stands the “dynamic fertility of the Faustian with its ceaseless creation of new types and domains of form” (Decline of the West: 205). I can think of only three individuals, two philosophers of history and one historical sociologist, who have written in a wide-ranging way of:

  1. the “infinite drive,” “the irresistible trust” of the Occident,
  2. the “energetic, imperativistic, and dynamic” soul of the West, and
  3. the “rational restlessness” of the West

— Hegel, Spengler, and Weber.

Spengler is the one who overcomes in a keener way another flaw in Murray: his account of European distinctiveness is limited to the intellectual and artistic spheres. He pays no attention to accomplishments in warfare, exploration, and heroic leadership. His definition of accomplishment includes only peaceful individuals carrying scientific experiments and creating artistic works. Achievements come only in the form of “great books” and “great ideas.” In this respect, Human Accomplishment is akin to certain older-style Western Civ textbooks where the production of “Great Works” by “Great Men” in conditions of “Liberty” were the central themes. David Gress dubbed this type of historiography the “Grand Narrative [8]” (1998). By teaching Western history in terms of the realization of great ideas and works in the arts and sciences these texts “placed a burden of justification on the West” to explain how the reality of Western colonialism across the world, the higher degree of warfare among Europeans, the invention of far more destructive military weapons, the slave trade, and the unprecedented destruction of the civilizations of the Americas, should be left out of the account of Western accomplishments. Gress called upon historians to move away from an idealized image of Western uniqueness. Norman Davies, too, has criticized the way early Western civilization courses tended to “filter out anything that might appear mundane or repulsive” (A History of Europe, 1997: 28).

The Faustian Personality

I believe that Oswald Spengler’s identification of the West as “Faustian” provides us with the best word to overcome the current naïve separation between a cultured/peaceable West and an uncivilized/antagonistic West with his image of a strikingly vibrant culture driven by a type of Faustian personality overflowing with expansive, disruptive, and imaginative impulses manifested in all the spheres of life. For Spengler, the Faustian spirit was not restricted to the arts and sciences, but was present in the culture of the West at large. Spengler thus spoke of the “morphological relationship that inwardly binds together the expression-forms of all branches of Culture.” Rococo art, differential calculus, the Crusades, the Spanish conquest of the Americas were all expressions of the same restless soul. There is no incongruity between the “great ideas” of the West and the so-called “realities” of conquest and suffering. There is no need, from this standpoint, to concede to multicultural critics, as Norman Davies believes, “the sorry catalogue of wars, conflict, and persecutions that have dogged every stage of the [Western] tale” (p. 15-16). The expansionist dispositions of Europeans were not only indispensable but were themselves driven, as I argue in my book, The Uniqueness of Western Civilization, [9] and will briefly outline below, by an intensely felt desire to achieve great deeds and heroic immortality.

The great men of Europe were artists driven by an intensively felt desire for unmatched deeds. The “great ideas” – Archimedes’ “Give me a place to stand and with a lever I will move the whole world,” or Hume’s “love of literary fame, my ruling passion” – were associated with aristocratic traits, defiant dispositions – no less than Cortez’s immense ambition for honour and glory, “to die worthily than to live dishonoured.”

Faust_Mephisto.jpg

In contrast to Weber, for whom the West “exhibited an unrivaled aptitude for rationalization,” Spengler saw in this Faustian soul a primeval-irrational will to power. It was not a calmed, disinterested, rationalistic ethos that was at the heart of Western particularity; it was a highly energetic, goal-oriented desire to break through the unknown, supersede the norm, and achieve mastery. The West was governed by an intense urge to transcend the limits of existence, by a highly energetic, restless, fateful being, an “adamantine will to overcome and break all resistances of the visible” (Decline: pp. 185-86).

There was something Faustian about all the great men of Europe, both in reality and in fiction: in Hamlet, Richard III, Gauss, Newton, Nicolas Cusanus, Don Quixote, Goethe’s Werther, Gregory VII, Michelangelo, Paracelsus, Dante, Descartes, Don Juan, Bach, Wagner’s Parsifal, Haydn, Leibniz’s Monads, Giordano Bruno, Frederick the Great, Rembrandt, Ibsen’s Hedda Gabler.

The Faustian soul — whose being consists in the overcoming of presence, whose feeling is loneliness and whose yearning is infinity — puts its need of solitude, distance, and abstraction into all its actualities, into its public life, its spiritual and its artistic form-worlds alike (Decline: 386).

For Spengler, Christianity, too, became a thoroughly Faustian moral ethic. “It was not Christianity that transformed Faustian man, but Faustian man who transformed Christianity — and he not only made it a new religion but also gave it a new moral direction”: will-to-power in ethics (344). This “Faustian-Christian morale” produced

Christians of the great style — Innocent III, Loyola and Savonarola, Pascal and St. Theresa [ . . . ] the great Saxon, Franconia and Hohenstaufen emperors . . . giant-men like Henry the Lion and Gregory VII . . . the men of the Renaissance, of the struggle of the two Roses, of the Huguenot Wars, the Spanish Conquistadores, the Prussian electors and kings, Napoleon, Bismarck, Rhodes (348-49).

But what exactly is a Faustian soul? How do we connect it in a concrete way to Europe’s creativity? To what original source or starting place did Spengler attribute this yearning for infinity? To start answering this question we should first remind ourselves of Spengler’s other central idea, his cyclical view of history, according to which

  1. each culture contains a unique spirit of its own, and
  2. all cultures undergo an organic process of birth, growth, and decay.

In other words, for Spengler, all cultures exhibit a period of dynamic, youthful creativity; each culture experiences “its childhood, youth, manhood, and old age.” “Each culture has its own new possibilities of self-expression, which arise, ripen, decay and never return” (18-24, 106-07). Spengler thus drew a distinction between the earlier vital stages of a culture (Kultur) and the later stages when the life forces were on their last legs until all that remained was a superficial Zivilisation populated by individuals preoccupied with preserving the memories of past glories while drudging through the unexciting affairs of their everyday lives.

However, notwithstanding this emphasis on the youthful energies of all cultures, Spengler viewed the West as the most strikingly dynamic culture driven by a soul overflowing with expansive energies and “intellectual will to power.” By “youthful” he meant the actualization of the specific soul of each culture, “the full sum of its possibilities in the shape of peoples, languages, dogmas, arts, states, sciences.” Only in Europe he saw “directional energy,” march music, painters relishing in the use of blue and green, “transcendent, spiritual, non-sensuous colors,” “colours of the heavens, the seas, the fruitful plain, the shadow of the Southern noon, the evening, the remote mountains” (245-46). I think John Farrenkopf [10] has it right when he argues that Spengler’s appreciation for non-Western cultures as worthy subjects of comparative inquiry came together with an “exaltation” of the greater creative energy of the West (2001: 35).

But what about Spengler’s repetitive insistence that ancient Greece and Rome were not Faustian? Although I agree with Spengler that in certain respects the Greek-Roman “soul” was oriented toward the present rather than the future, and that its architecture, geometry, and finite mathematics were bounded spatially, restrained, and perceptible, he overstates his argument about the lack of an expansionist spirit, downplaying the incredible creative energies of Greeks and Romans, their individual heroism and urge for the unknown. Farrenkopf thinks that the later Spengler came to view the Greeks and Romans as more individualistic and dynamic. I agree with Burckhardt that the Classical Greeks were singularly agonal and individualistic, and with Nietzsche’s insight that all that was civilized and rational among the Greeks would have been impossible without this agonal culture. The ancient Greeks who established colonies throughout the Mediterranean, the Macedonians who marched to “the ends of the world,” and the Romans who created the greatest empire in history, were similarly driven, to use Spengler’s term, by an “irrepressible urge to distance” as the Germanic peoples who brought Rome down, the Vikings who crossed the Atlantic, the Crusaders who wrecked havoc on the Near East, and the Portuguese who pushed themselves with their gunned ships upon the previously tranquil world of the Indian Ocean. Spengler does not persuade in his efforts to downplay this Faustian side of the Greeks and Romans.

fausto.jpgWhat was the ultimate original ground of the West’s Faustian soul? There are statements in Spengler which make references to “a Nordic world stretching from England to Japan” and a “harder-struggling” people, and a more individualistic and heroic spirit “in the old, genuine parts of the Mahabharata . . .  in Homer, Pindar, and Aeschylus, in the Germanic epic poetry and in Shakespeare, in many songs of the Chinese Shuking, and in circles of the Japanese samurai” (as cited in Farrenkopf: 227). Spengler makes reference to the common location of these peoples in the “Nordic” steppes. He does not make any specific reference to the Caucasian steppes but he clearly has in mind the “Aryan Indian” peoples who came out of the steppes and conquered India and wrote the Mahabharata. He calls “half Nordic” the Graeco-Roman, Aryan Indian, and Chinese high cultures. In Man and Technics, he writes of how the Nordic climate forged a man filled with vitality

through the hardness of the conditions of life, the cold, the constant adversity, into a tough race, with an intellect sharpened to the most extreme degree, with the cold fervor of an irrepressible passion for struggling, daring, driving forward.

Principally, he mentions the barbarian peoples of northern Europe, whose world he contrasts to “the languid world-feeling of the South” (Farrenkopf: 222). Spengler does not deny the environment, but rather than focusing on economic resources and their “critical” role in the industrialization process, he draws attention to the profound impact environments had in the formation of distinctive psychological orientations amongst the cultures of the world. He thinks that the Faustian form of spirituality came out of the “harder struggling” climes of the North. The Nordic character was less passive, less languorous, more energetic, individualistic, and more preoccupied with status and heroic deeds than the characters of other climes. He was a human biological being to be sure, but one animated with the spirit of a “proud beast of prey [11],” like that of an “eagle, lion, [or] tiger.” Much like Hegel’s master who engages in a fight to the death for pure prestige, for this “Nordic” individual “the concerns of life, the deed, became more important than mere physical existence” (Man and Technics: A Contribution to a Philosophy of Life, Greenwood Press, 1976: 19-41).

This deed-oriented man is not satisfied with a Darwinian struggle for existence or a Marxist struggle for economic equality. He wants to climb high, soar upward and reach ever higher levels of existential intensity. He is not preoccupied with mere adaptation, reproduction, and conservation. He wants to storm into the heavens and shape the world. But who exactly is this character? Is he the Hegelian master who fights to the death for the sake of prestige? Spengler paraphrases Nietzsche when he writes that the primordial forces of Western culture reflect the “primary emotions of an energetic human existence, the cruelty, the joy in excitement, danger, the violent act, victory, crime, the thrill of a conqueror and destroyer.” Nietzsche too wrote of the “aristocratic” warrior who longed for the “proud, exalted states of the soul,” as experienced intimately through “combat, adventure, the chase, the dance, war games” (The Genealogy of Morals, 1956: 167). Who are these characters? Are their “primary emotions” any different from humans in other cultures?

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/01/oswald-spengler-and-the-faustian-soul-of-the-west-part-1/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/06/Faust-im-Studierzimmer-Georg-Friedrich-Kersting.jpg

[2] Indo-European speakers: https://www.youtube.com/watch?v=DpbjquTQT98

[3] most mobile way of life in prehistoric times: http://press.princeton.edu/titles/8488.html

[4] vital illustrations of spatial expansionism: https://www.youtube.com/watch?v=SiIXC1U8HNo

[5] first rational theology in history: http://www.cambridge.org/us/academic/subjects/history/history-science-and-technology/god-and-reason-middle-ages

[6] invention of universities: http://www.cambridge.org/ca/academic/subjects/history/european-history-1000-1450/first-universities-studium-generale-and-origins-university-education-europe

[7] Human Accomplishment: The Pursuit of Excellence in the Arts and Sciences, 800 B.C. to 1950: http://www.amazon.com/gp/product/0060929642/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=0060929642&linkCode=as2&tag=countecurrenp-20&linkId=RSAI5XD63BIRHVZ5

[8] Grand Narrative: http://www.nytimes.com/books/first/g/gress-plato.html

[9] The Uniqueness of Western Civilization,: http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/.UdQ80Ds6Oxo#.VAhMZPldVOw

[10] John Farrenkopf: http://www.arktos.com/john-farrenkopf-prophet-of-decline.html

[11] beast of prey: https://www.youtube.com/watch?v=DLkeIACfi4Y&list=UUIfnKm98q78j2ZNcfSQhhCQ&index=3

 

Oswald Spengler & the Faustian Soul of the West,

Part 2

By Ricardo Duchesne 

Kant and the “Unsocial Sociability” of Humans

I ended Part 1 [2] asking who are these characters with proud aristocratic souls so different from the rather submissive, slavish souls of the Asiatic races. A good way to start answering this question is to compare Spengler’s Faustian man with what Immanuel Kant says about the “unsocial sociability” of humans generally. In his essay, “Idea for a Universal History from a Cosmopolitan Point of View,” Kant seemed somewhat puzzled but nevertheless attuned to the way progress in history had been driven by the fiercer, self-centered side of human nature. Looking at the wide span of history, he concluded that without the vain desire for honor, property, and status humans would have never developed beyond a primitive Arcadian existence of self-sufficiency and mutual love:

all human talents would remain hidden forever in a dormant state, and men, as good-natured as the sheep they tended, would scarcely render their existence more valuable than that of their animals . . . [T]he end for which they were created, their rational nature, would be an unfulfilled void.

Faust1r7yrluo1_400.gifThere can no development of the human faculties, no high culture, without conflict, aggression, and pride. It is these asocial traits, “vainglory,” “lust for power,” “avarice,” which awaken the otherwise dormant talents of humans and “drive them to new exertions of their forces and thus to the manifold development of their capacities.” Nature in her wisdom, “not the hand of an evil spirit,” created “the unsocial sociability of humans.”

But Kant never asked, in this context, why Europeans were responsible, in his own estimation, for most of the moral and rational progression in history. Separately, in another publication, Anthropology from a Pragmatic Point of View [3] (1798), Kant did observe major differences in the psychological and moral character of humans as exhibited in different places on earth, ranking human races accordingly, with Europeans at the top in “natural traits”. Still, Kant never connected his anthropology with his principle of asocial qualities.

Did “Nature” foster these asocial qualities evenly among the cultures of the world? While these “vices” — as we have learned today from evolutionary psychology — are genetically-based traits that evolved in response to long periods of adaptive selective pressures associated with the maximization of human survival, there is no reason to assume that the form and degree of these traits evolved evenly or equally among all the human races and cultures. It is my view that the asocial qualities of Europeans were different, more intense, strident, individuated.

Indo-European Aristocratic Lifestyle

I believe that this variation should be traced back to the aristocratic lifestyle of Indo-Europeans. Indo-Europeans were a pastoral people from the Pontic-Caspian steppes who initiated the most mobile way of life in prehistoric times starting with the riding of horses and the invention of wheeled vehicles in the fourth millennium BC, together with the efficient exploitation of the “secondary products” of domestic animals (dairy products, textiles, harnessing of animals), large-scale herding, and the invention of chariots in the second millennium. By the end of the second millennium, even though Indo-Europeans invaded both Eastern and Western lands, only the Occident had been “Indo-Europeanized [4].”

Indo-Europeans were also uniquely ruled by a class of free aristocrats. In very broad terms, I define as “aristocratic” a state in which the ruler, the king, or the commander-in-chief is not an autocrat who treats the upper classes as unequal servants but is a “peer” who exists in a spirit of equality as one more warrior of noble birth, primus inter pares [5]. This is not to say that leaders did not enjoy extra powers and advantages, or that leaders were not tempted to act in tyrannical ways. It is to say that in aristocratic cultures, for all the intense rivalries between families and individuals seeking their own renown, there was a strong ethos of aristocratic egalitarianism against despotic rule. A true aristocratic deserving respect from his peers could not be submissive; his dignity and honor as a man were intimately linked to his capacity for self-determination.

Different levels of social organization characterized Indo-European society. The lowest level, and the smallest unit of society, consisted of families residing in farmsteads and small hamlets, practicing mixed farming with livestock representing the predominant form of wealth. The next tier consisted of a clan of about five families with a common ancestor. The third level consisted of several clans — or a tribe — sharing the same. Those members of the tribe who owned livestock were considered to be free in the eyes of the tribe, with the right to bear arms and participate in the tribal assembly.

Although the scale of complexity of Indo-European societies changed considerably with the passage of time, and the Celtic tribal confederations that were in close contact with Caesar’s Rome during the 1st century BC, for example, were characterized by a high concentration of economic and political power, these confederations were still ruled by a class of free aristocrats. In classic Celtic society, real power within and outside the tribal assembly was wielded by the most powerful members of the nobility, as measured by the size of their clientage and their ability to bestow patronage. Patronage could be extended to members of other tribes and to free individuals who were lower in status and were thus tempted to surrender some of their independence in favor of protection and patronage.

Indo-European nobles were also grouped into war-bands. These bands were freely constituted associations of men operating independently from tribal or kinship ties. They could be initiated by any powerful individual on the merits of his martial abilities. The relation between the chief and his followers was personal and contractual: the followers would volunteer to be bound to the leader by oaths of loyalty wherein they would promise to assist him while the leader would promise to reward them from successful raids. The sovereignty of each member was thus recognized even though there was a recognized leader. These “groups of comrades,” to use Indo-European vocabulary, were singularly dedicated to predatory behavior and to “wolf-like” living by hunting and raiding, and to the performance of superior, even superhuman deeds. The members were generally young, unmarried men, thirsting for adventure. The followers were sworn not to survive a war-leader who was slain in battle, just as the leader was expected to show in all circumstances a personal example of courage and war-skills.

Young men born into noble families were not only driven by economic needs and the spirit of adventure, but also by a deep-seated psychological need for honor and recognition — a need nurtured not by nature as such but by a cultural setting in which one’s noble status was maintained in and through the risking of one’s life in a battle to the death for pure prestige. This competition for fame among war-band members (partially outside the ties of kinship) could not but have had an individualizing effect upon the warriors. Hence, although band members (“friend-companions” or “partners”) belonged to a cohesive and loyal group of like-minded individuals, they were not swallowed up anonymously within the group.

The Indo-European lifestyle included fierce competition for grazing rights, constant alertness in the defense of one’s portable wealth, and an expansionist disposition in a world in which competing herdsmen were motivated to seek new pastures as well as tempted to take the movable wealth (cattle) of their neighbors. This life required not just the skills of a butcher but a life span of horsemanship and arms (conflict, raids, violence) which brought to the fore certain mental dispositions including aggressiveness and individualism, in the sense that each individual, in this male-oriented atmosphere, needed to become as much a warrior as a herds-man.

The most important value of Indo-European aristocrats was the pursuit of individual glory as members of their warbands and as judged by their peers. The Iliad, Beowulf, Song of Roland, including such Irish, Icelandic and Germanic Sagas as Lebor na hUidre, Njals Saga, Gisla Saga Sursonnar, The Nibelungenlied recount the heroic deeds and fame of aristocrats — these are the earliest voices from the dawn of Western civilization. Within this heroic ‘life-world’ the unsocial traits of humans took on a sharper, keener, individuated expression.

What about other central Asian peoples from the steppes such as the Mongols and Turks who produced a similar heroic literature? There are a number of substantial differences. First, the Indo-European epic and heroic tradition precedes any other tradition by some thousands of years, not just the Homeric and the Sanskrit epics but, as we now know with some certainty from such major books as M. L. West’s Indo-European Poetry and Myth, and Calvert Watkins’s How to Kill a Dragon: Aspects of IE Poetics (1995), going back to a prehistoric oral tradition. Second, IE poetry exhibits a keener grasp and rendition of the fundamentally tragic character of life, an aristocratic confidence in the face of destiny, the inevitability of human hardship and hubris, without bitterness, but with a deep joy.

Third, IE epics show both collective and individual inspiration, unlike non-IE epics which show characters functioning only as collective representations of their communities. This is why in some IE sagas there is a clear author’s stance, unlike the anonymous non-IE sages; the individuality, the rights of authorship, the poet’s awareness of himself as creator, is acknowledged in many ancient and medieval European sagas (see Hans Gunther, Religious Attitudes of the Indo-Europeans [1963] 2001, and Aaron Gurevich, The Origins of European Individualism [6], 1995).

Nietzsche and Sublimation of the Agonistic Ethos of Indo-European Barbarians

nietzschefffggg.jpgBut how do we connect the barbaric asocial traits of prehistoric Indo-European warriors to the superlative cultural achievements of Greeks and later civilized Europeans? Nietzsche provides us some keen insights as to how the untamed agonistic ethos of Indo-Europeans was translated into civilized creativity. In his fascinating early essay, “Homer on Competition” (1872), Nietzsche observes that civilized culture or convention (nomos) was not imposed on nature but was a sublimated continuation of the strife that was already inherent to nature (physis). The nature of existence is based on conflict and this conflict unfolded itself in human institutions and governments. Humans are not naturally harmonious and rational as Socrates had insisted; the nature of humanity is strife. Without strife there is no cultural development. Nietzsche argued against the separation of man/culture from nature: the cultural creations of humanity are expressions or aspects of nature itself.

But nature and culture are not identical; the artistic creations of humans, their norms and institutions, constitute a re-channeling of the destructive striving of nature into creative acts, which give form and aesthetic beauty to the otherwise barbaric character of natural strife. While culture is an extension of nature, it is also a form by which human beings conceal their cruel reality, and the absurdity and the destructiveness of their nature. This is what Nietzsche meant by the “dual character” of nature; humans restrain or sublimate their drives to create cultural artifacts as a way of coping with the meaningless destruction associated with striving.

Nietzsche, in another early publication, The Birth of Tragedy (1872), referred to this duality of human existence, nomos and physis, as the “Apollonian and Dionysian duality.” The Dionysian symbolized the excessive and intoxicating strife which characterized human life in early tribal societies, whereas the Apollonian symbolized the restraint and re-channeling of conflict possible in state-organized societies. In the case of Greek society, during pre-Homeric times, Nietzsche envisioned a world in which there were no or few limits to the Dionysian impulses, a time of “lust, deception, age, and death.” The Homeric and classical (Apollonian) inhabitants of city-states brought these primordial drives under “measure” and self-control. The emblematic meaning of the god Apollo was “nothing in excess.” Apollo was a provider of soundness of mind, a guardian against a complete descent into a state of chaos and wantonness. He was a redirector of the willful and hubristic yearnings of individuals into organized forms of warfare and higher levels of art and philosophy.

For Nietzsche, Greek civilization was not produced by a naturally harmonious character, or a fully moderated and pacified city-state. One of the major mix-ups all interpreters of the rise of the West fall into is to assume that Western achievements were about the overcoming and suppression of our Dionysian impulses. But Nietzsche is right: Greeks achieved their “civility” by attuning, not denying or emasculating, the destructive feuding and blood lust of their Dionysian past and placing their strife under certain rules, norms and laws. The limitless and chaotic character of strife as it existed in the state of nature was made “civilized” when Greeks came together within a larger political horizon, but it was not repressed. Their warfare took on the character of an organized contest within certain limits and conventions. The civilized aristocrat was the one who, in exercising sovereignty over his powerful longings (for sex, booze, revenge, and any other kind of intoxicant) learned self-command and, thereby, the capacity to use his reason to build up his political power and rule those “barbarians” who lacked this self-discipline. The Greeks created their admirable culture while remaining at ease with their superlative will to strife.

The problem with Nietzsche is lack of historical substantiation. The research now exists to add to Nietzsche the historically based argument that the Greeks viewed the nature of existence as strife because of their background in an Indo-European state of nature where strife was the overriding ethos. There are strong reasons to believe that Nietzsche’s concept of strife is an expression of his own Western background and his study of the Western agonistic mode of thinking that began with the Greeks. One may agree that strife is in the “nature of being” as such, but it is worth noting that, for Nietzsche, not all cultures have handled nature’s strife in the same way and not all cultures have been equally proficient in the sublimated production of creative individuals or geniuses. Nietzsche thus wrote of two basic human responses to the horror of endless strife: the un-Hellenic tendency to renounce life in this world as “not worth living,” leading to a religious call to seek a life in the beyond or the after-world, or the Greek tragic tendency, which acknowledged this strife, “terrible as it was, and regarded it as justified.” The cultures that came to terms with this strife, he believed, were more proficient in the completion of nature’s ends and in the production of creative individuals willing to act in this world. He saw Heraclitus’ celebration of war as the father and king of the whole universe as a uniquely Greek affirmation of nature as strife. It was this affirmation which led him to say that “only a Greek was capable of finding such an idea to be the fundament of a cosmology.”

The Greek speaking aristocrats had to learn to come together within a political community that would allow them to find some common ground and thus move away from the “state of nature” with its endless feuding and battling for individual glory. There would emerge in the 8th century BC a new type of political organization, the city-state. The greatness of Homeric and Classical Greece involved putting Apollonian limits around the indispensable but excessive Dionysian impulses of barbaric pre-Homeric Greeks. Ionian literature was far from the berserkers of the pre-Homeric world, but it was just as intensively competitive. The search for the truth was a free-for-all with each philosopher competing for intellectual prestige in a polemical tone that sought to discredit the theories of others while promoting one’s own. There were no Possessors of the Way in aristocratic Greece; no Chinese Sages decorously deferential to their superiors and expecting appropriate deference from their inferiors.

Friedrich_Nietzsche_by_lieandletdie.jpgThis agonistic ethos was ingrained in the Olympic Games, in the perpetual warring of the city-states, in the pursuit of a political career and in the competition among orators for the admiration of the citizens, and in the Athenian theater festivals where a great many poets would take part in Dionysian competitions. It was evident in the sophistic-Socratic ethos of dialogic argument and the pursuit of knowledge by comparing and criticizing individual speeches, evaluating contradictory claims, collecting out evidence, competitive persuasion and refutation. And in the Catholic scholastic method, according to which critics would engage major works, read them thoroughly, compare the book’s theories to other authorities, and through a series of dialogical exercises ascertain the respective merits and demerits.

In Spengler’s language, this Faustian soul was present in “the Viking infinity wistfulness,” and their colonizing activities through the North Sea, the Atlantic, and the Black Sea. In the Portuguese and Spaniards who “were possessed by the adventured-craving for uncharted distances and for everything unknown and dangerous.” In “the emigration to America,” “the Californian gold-rush,” “the passion of our Civilization for swift transit, the conquest of the air, the exploration of the Polar regions and the climbing of almost impossible mountain peaks” — “dramas of uncontrollable longings for freedom, solitude, immense independence, and of giant-like contempt for all limitations.” “These dramas are Faustian and only Faustian. No other culture, not even the Chinese, knows them” (335-37).

The West has clearly been facing a spiritual decline for many years now as Spengler observed despite its immense technological innovations, which Spengler acknowledged, observing how Europe, after 1800, came to be thoroughly dominated by a purely “mechanical” expression of this Faustian tendency in its remorseless expansion outward through industrial capitalism with its ever-growing markets and scientific breakthroughs. Spengler did not associate this mechanical (“Anglo-Saxon”) expansion with cultural creativity per se. Before 1800, the energy of Europe’s Faustian culture was still expressed in “organic” terms; that is, it was directed toward pushing the frontiers of inner knowledge through art, literature, and the development of the nation state. It was during the 1800s that the West, according to him, entered “the early Winter of full civilization” as its culture took on a purely capitalistic and mechanical character, extending itself across the globe, with no more “organic” ties to community or soil. It was at this point that this rootless rationalistic Zivilisation had come to exhaust its creative possibilities, and would have to confront “the cold, hard facts of a late life. . . . Of great paintings or great music there can no longer be, for Western people, any question” (Decline of the West, Vol. I: 20-21; Vol II: 46, 44, 40).

The decline of the organic Faustian soul is irreversible but there is reason to believe that decline is cyclical and not always permanent — as we have seen most significantly in the case of China many times throughout her history. European peoples need not lose their superlative drive for technological supremacy. The West can re-assert itself, unless the cultural Marxists are successful in their efforts to destroy this Faustian spirit permanently through mass immigration and miscegenation.

Source: http://www.eurocanadian.ca/2014/09/oswald-spengler-and-faustian-soul-of_8.html [7]

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/01/oswald-spengler-and-the-faustian-soul-of-the-west-part-2/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/01/Apollos.jpg

[2] Part 1: http://www.counter-currents.com/2015/01/oswald-spengler-and-the-faustian-soul-of-the-west-part-1/

[3] Anthropology from a Pragmatic Point of View: http://www.cambridge.org/us/academic/subjects/philosophy/philosophy-texts/kant-anthropology-pragmatic-point-view

[4] Indo-Europeanized: http://books.google.ca/books/about/The_Kurgan_Culture_and_the_Indo_European.html?id=hCZmAAAAMAAJ&redir_esc=y

[5] primus inter pares: http://en.wikipedia.org/wiki/Primus_inter_pares

[6] The Origins of European Individualism: http://books.google.ca/books/about/The_Origins_of_European_Individualism.html?id=QrksZOjpURYC&redir_esc=y

[7] http://www.eurocanadian.ca/2014/09/oswald-spengler-and-faustian-soul-of_8.html: http://www.eurocanadian.ca/2014/09/oswald-spengler-and-faustian-soul-of_8.html

 

samedi, 03 janvier 2015

Ernst Jünger's The Glass Bees

s2mav22.JPG

Ernst Jünger's The Glass Bees

Matthew Gordon

(From Synthesis)

& http://www.wermodandwermod.com

Ernst Jünger
Louise Bogan & Elizabeth Mayer (transl.)
The Glass Bees
New York Review Books, 2000

THE Glass Bees is an introspective novel about a quiet but dignified cavalry officer called Richard. Unable to adjust to life after war and needing money, he applies for a security job at the headquarters of the mysterious oligarch Zapparoni. Confronted with mechanical and psychological trials, the dream becomes a nightmare, and Richard is forced to contemplate his place in the modern world and the nature of reality itself.

Although philosophical and lyrical, this book is nonetheless a tense page-turner with all the qualities of great sci-fi drama. The poetic imagery is highly expressive, but there are times when the sentences are clumsy and over-long, the meaning of a passage can be lost over a seemingly unnecessary paragraph break. Whether this is down to Jünger's original German or the fault of translation I couldn't possibly say. Nonetheless Ernst Jünger stands among the most lucid and skilful of continental modern writers.

Jünger's vision of the future isn't the ultra-Jacobin "boot stamping on a human face" of Nineteen-Eighty-Four - it is a subtler, more Western dystopia. Jünger is amazingly prescient in this, although he is rarely given credit for it; he predicts that the media and entertainment will rule the psyches of men, that miniaturisation and hyperreal gratification will become our new Faustian obsession and that for all the wonders and benefits of technology it is ultimately dehumanising and alienating. The new world won't be ruled by crude and brutal tyrants like Hitler, Stalin or Kim Jong Ill, but by benevolent and private businessmen, like Rupert Murdoch. We won’t be dominated by the authoritarian father-ego of Freud, but by the hedonistic-pervert of Lacan. Jünger anticipates the theory of hyperreality formulated by Baudrillard, and it is interesting that this book was published before theories on post-modernism and deconstruction became vogue.

Faced with this less than perfect future, Jünger's doesn't try to incite revolution or political struggle – his message remains the same throughout his work – but to inspire individual autonomy. Despite all outward constraints, uprightedness and self-reliance is real freedom. Jünger depicts a superficial and spiritually bankrupt future, but if he is to be believed, the potential for man to be his true self is always the same.

mercredi, 31 décembre 2014

Study of Sombart – Varsanyi

sombart-werner.jpg

Study of Sombart – Varsanyi

A Study of Werner Sombart’s Writings by Nicholas A. Varsanyi (PDF – 8.4 MB):

A Study of Werner Sombart’s Writings

Varsanyi, Nicholas A. A Study of Werner Sombart’s Writings. Ph.D. Thesis, Montreal, McGill University, 1963. File originally retrieved from: <http://digitool.library.mcgill.ca/R/?func=dbin-jump-full&object_id=115298&local_base=GEN01-MCG02 >.

 

Ex: http://neweuropeanconservative.wordpress.com

lundi, 29 décembre 2014

Walter Flex: Le pèlerin entre deux mondes

flexpe8ler10.jpg

Walter Flex: Le pèlerin entre deux mondes
 
Un livre épuisé à télécharger!
 
walter_flexr.jpgPar une nuit de tempête sur le front de Lorraine en 1914, un étudiant, volontaire de guerre, griffonne les premiers vers de ce qui va devenir un des plus fameux chants d'Europe : "Les oies sauvages…" (devenu par les vicissitudes de l'histoire hymne du feu 1er REP). C'est également le début d'un des ouvrages allemands les plus populaires de la Première Guerre mondiale.
 
Dans le havresac des soldats, ce journal de guerre côtoie Nietzsche, Schopenhauer ou Löns. C'est que Le pèlerin entre deux mondes est un hymne passionné à l'esprit des Wandervögel (Oiseaux migrateurs), mouvement de jeunesse qui associe retour à la nature et sagesse... Que la guerre, puisqu'elle s'est imposée, serve de révélateur à cet art de vivre, annonce d'une nouvelle communauté qui doit émerger dans l'avenir.
 
Les appels presque mystiques au soleil et à l'esprit des forêts, la tendresse et la poésie qui baignent le récit de Walter Flex, les évocations d'un christianisme viril et d'un paganisme compatissant, l'absence de haine pour l'adversaire, le cri des oies sauvages deviennent autant d'échos des aspirations profondes du peuple. Contre les pesanteurs et les mensonges d'une société individualiste et mercantile, l'esprit Wandervogel développe une pédagogie de la libération et du respect (« Rester pur et devenir mûr »).
 
Dans l'édition française parue en 1996 aux éd. du Porte-Glaive, la présentation et la traduction de Philippe Marcq restituent sobrement la lumineuse poésie du texte original. L'introduction de Robert Steuckers, quant à elle, évoque parfaitement l'œuvre et le contexte spirituel d'un auteur inconnu en France et oublié en Allemagne.

Télécharger ici

Préface de Robert Steuckers:

http://robertsteuckers.blogspot.be/2011/12/walter-flex.html

vendredi, 26 décembre 2014

Der deutsche Scheich

LFC-2.jpg

Abenteurer

Der deutsche Scheich

Juden-Retter, Rassekundler, Islamist: Als Beduine verkleidet lebte Ludwig Ferdinand Clauß in den zwanziger Jahren unter Nomaden in der jordanischen Wüste. Seither gilt er als Mittler zwischen den Kulturen - doch der Forscher arbeitete auch den Nazis zu.

Von

Ex: http://www.spiegel.de 

Fotos

Die israelische Holocaust-Gedenkstätte Yad Vashem ließ dem deutschen Geisteswissenschaftler Ludwig Ferdinand Clauß (1892-1974) 1981 postum eine große Ehre zuteil werden. Weil er eine Jüdin versteckt und so vor der Deportation bewahrt hatte, erklärte man ihn zu einem "Gerechten unter den Völkern" und stellte ihn damit in eine Reihe mit all jenen nichtjüdischen Personen und Organisationen, die sich dem Nazi-Regime widersetzt und Juden das Leben gerettet hatten. 15 Jahre später allerdings wurde die Auszeichnung zurückgenommen. Clauß hatte, so war bekannt geworden, außerdem einen wichtigen Beitrag zur Rassenideologie der Nazis geleistet.

Wie konnte es passieren, dass einer der einflussreichsten Rassenforscher der NS-Zeit vorübergehend als Menschenfreund und Retter der Juden galt? Ein Missverständnis?

Auf den ersten Blick erscheinen seine Handlungen in dieser Zeit wie eine Mischung eigentlich unvereinbarer Positionen. Mit seinen rassistischen Publikationen lieferte der gebürtige Offenburger den Nationalsozialisten zusätzlichen Stoff für ihre vernichtende Ideologie - und ließ sich bei seinen Forschungen von einer jüdischen Mitarbeiterin helfen. Seine Bücher zur arabischen Kultur, Ergebnisse dieser gemeinsamen Arbeit, werden bis heute verlegt. So lobte 2004 der Hildesheimer Georg Olms Verlag den "Ausdrucksforschers und Anthropologen" als "herausragenden Kenner der islamischen Welt".

Scheich der deutschen Beduinen

Im Sommer 1927 betrat Ludwig Ferdinand Clauß das Zelt des Beduinen Mitghgâl Paschas und stellte sich dem Häuptling der Beni Sachr vor: "Muhammad Ferid el-Almani, Scheich der deutschen Beduinen". Es sollte der Anfang eines Stücks gemeinsamen Lebensweges werden. Vier Jahre lang blieb Clauß bei diesem Stamm, lebte mit den Beduinen zusammen und machte sie zum Gegenstand seiner rassischen Feldforschung. Mit seinem Buch "Als Beduine unter Beduinen" beeinflusste er nicht zuletzt auch das Bild der Deutschen von der arabischen Welt.

Der Orient hatte Clauß schon immer fasziniert. Im Frühjahr 1927 war er seinen romantischen Phantasien gefolgt und zu einer langen Reise aufgebrochen. Nach einem kurzen Aufenthalt in Damaskus ließ er sich zunächst in Jerusalem nieder. Dort beobachtete er, welche enorme Entwicklung die Stadt unter der britischen Mandatsmacht und durch die zionistischen Einwanderer nahm. Die Entwicklung missfiel ihm, denn er lehnte den westlichen Einfluss im Orient grundsätzlich als "ruchlose Verletzung und Verwirrung fremder Artgesetze" ab. Ebenso wie Europa sollte auch der Orient seinen "arteigenen Gesetzen" folgen. Clauß forderte, "das Morgenland" möge "diesen Fremdling" - gemeint waren die jüdischen Einwanderer - "ausstoßen".

Clauß interessierte sich vor allem für die "arteigene" Lebensweise der Araber. Um sie zu studieren wollte er sie in ihrem scheinbar ureigensten Lebensraum aufsuchen: Wie ein Biologe wilde Tiere am besten in freier Wildbahn beobachtet, entschied sich der Forscher, selbst in die transjordanische Wüste zu gehen. Ihre Bewohner, die Beduinen, verkörperten seiner Meinung nach den Ursprung wahren Arabertums. Von Schädelmessungen und ähnlichen Methoden anderer Rassenforscher hielt Clauß wenig. Sein Ansatz verlangte ein distanzloses Ergründen durch unmittelbares "Mitleben". Er verstand darunter eine beinahe mystische Verwandlung in "artfremdes" Sein, die über eine bloße "teilnehmende Beobachtung" weit hinausging: Er gab vor, nicht nur wie ein Beduine mit Beduinen, sondern tatsächlich als Beduine zu leben.

SS-Sonderauftrag "Rassen im Kampf"

 
LFC-1.jpgSeine Transformation bedurfte einiger Vorbereitungen. Äußerlich kam es auf die "artrechte Rassentracht" der Beduinen an; zudem übte sich Clauß im "artspezifischen Ausdruck" der Wüstenländer in Gestik und Mimik. Um sich von seinem ganzen Wesen her in einen Beduinen zu verwandeln, war aber noch ein weitere Schritt notwendig: Er musste den Islam, die seiner Ansicht nach "artspezifische Religion" der Araber, annehmen.

Nach seiner Rückkehr machte sich Clauß mit einschlägigen Büchern zur Rassenforschung einen Namen. Er entwickelte eine Lehre, die er "Rassenseelenkunde" nannte, forderte die radikale "Reinigung" des deutschen Volkes von "artfremden" Einflüssen und propagierte die Rückbesinnung auf das "nordische" Erbe. In völkischen Kreisen avancierte er zum Fachmann in Fragen des Islams, was sich in der NS-Zeit in entsprechenden Forschungstätigkeiten niederschlug.

Mit dem SS-Anthropologen Bruno Beger (mitverantwortlich für die "jüdische Skelettsammlung" an der Uni Straßburg) arbeitete Clauß in der SS-Stiftung "Das Ahnenerbe" an dem Sonderauftrag "Rassen im Kampf". Ziel war die Erforschung "fremdrassigen" Kampfverhaltens am Beispiel der muslimischen Verbände der Waffen-SS in Bosnien. Immer wieder betonte er in diesem Zusammenhang die angebliche "nahe weltanschauliche Nachbarschaft" des Nationalsozialismus "zur Glaubenswelt des Islams".

Einfluss auf die Nazi-Propaganda

In seiner Einteilung des Orients in unterschiedliche Rassen bracht sich auch der Antisemitismus Bahn: Clauß unterschied streng zwischen Arabern und einer von diesen scheinbar gänzlich verschiedenen "vorderasiatischen Rasse". Letztere verkörperte für ihn das urbane Leben, Rassenmischung, Wucherei und Betrug - mithin die klassischen Topoi des europäischen Antisemitismus. Kein Wunder also, dass er "das jüdische Volk" im Zentrum der "vorderasiatischen Rasse" wähnte.

Clauß trat damit zugleich der Zurechnung der Juden zu den "Semiten" entgegen, wozu theoretisch auch die Araber gehörten. Vielmehr formulierte er eine Unterscheidung von Juden und Arabern, die nicht zuletzt aus außenpolitischen Motiven heraus erwünscht war: Um die als Bündnispartner in Betracht kommenden Araber nicht zu verprellen, wurde der Begriff "antisemitisch" schließlich auch aus der offiziellen NS-Propaganda entfernt und durch "antijüdisch" ersetzt.

Nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges blieb Clauß eine akademische Karriere in Deutschland verwehrt. Die islamische Welt wurde schließlich zu seinem persönlichen Refugium. Mehrfach reiste er mit seinem Wohnwagen durch verschiedene arabische Staaten und setzte seine Hoffnung dabei bemerkenswerter Weise auf den im Entstehen begriffenen Fundamentalismus. Ähnlich wie der islamistische Ideologe Sayyid Qutb (1906-1966) lehnte er den arabischen Nationalismus als Blasphemie vehement ab und rief zur Rückkehr zu den Wurzeln des Islams auf. Nur der Islam, so Clauß, könne die Welt vor einem Absturz in den totalen Materialismus des Westens retten.

Der Rassenforscher als Retter

Dass Clauß nach seinem Tod vorübergehend zum Gerechten unter den Völker wurde, verdankte er seinem Einsatz für seine Mitarbeiterin Margarete Landé, einer deutschen Jüdin. Die beiden kannten sich aus gemeinsamen Freiburger Studienzeiten. In Jerusalem traf Clauß Margarete Landé wieder, die Anfang der zwanziger Jahre als Zionistin nach Palästina gegangen war. Bei seinen Feldforschungen unter den Beduinen begleitete sie Clauß. Als "Sitt Marjam" konnte sie ihm vor allem beim Blick in das Frauenzelt behilflich sein.

1943 wurde Clauß wegen ihr aus der NSDAP ausgeschlossen. Eine Jüdin zu beschäftigten war verboten, außerdem wurde gemunkelt, dass er mit dieser zusammengelebt hatte. In den letzten Kriegsjahren versteckte er Landé auf seinem Brandenburger Landgut und schützte sie so vor dem Zugriff der Gestapo - der Grund für seine spätere Ehrung durch Yad Vashem.

Als Wissenschaftler war Clauß nach 1945 ein Einzelgänger geblieben. In seiner Schülerin, der rechtsextremen Religionshistorikerin Sigrid Hunke, fand Clauß allerdings eine Nachfolgerin, die viele seiner Ideen weiter transportierte. Ihr in dieser Hinsicht wichtigstes Buch "Allahs Sonne über dem Abendland" (1960) erscheint bis heute im Fischer-Taschenbuch-Verlag und liegt in der Islamecke jeder größeren Buchhandlung aus.

Sur la révolution conservatrice et, plus particulièrement, sur Friedrich-Georg Jünger

Robert Steuckers

Lille, 27 juin 2014

Sur la révolution conservatrice et, plus particulièrement, sur Friedrich-Georg Jünger

(en compagnie de la Camarde...!)

samedi, 13 décembre 2014

Lille, 27 juin 2014: Révolution conservatrice

ROBERT STEUCKERS

La révolution conservatrice allemande (extrait)

Lille, 27 juin 2014

(conférence prononcée avec une solide angine de poitrine; amusant de se revoir alors que l'on est là, à l'article de la mort, en présence de la Camarde, envoyée promener au nom de Heidegger, de Mohler, du "kaïros". Eugène Krampon a eu le mot qu'il fallait: "T'as failli faire comme Molière! Mourir sur scène! Quel artiste tu fais!).

 

Una antropología de la Técnica. Consideraciones spenglerianas.

spengler-196248.jpg

Una antropología de la Técnica.

Consideraciones spenglerianas.

Carlos Javier Blanco Martín

cblancomartin@yahoo.es

Ex: http://www.revistalarazonhistorica.com

Resumen: En este ensayo revisamos la idea de Técnica, sirviéndonos especialmente de las aportaciones de Oswald Spengler. Tratamos de su conexión con la ciencia, y la cuestión del supuesto relativismo spengleriano. También discutimos el tema de la continuidad entre mito, religión y ciencia, y el diverso sentido que estas tres ideas pueden tomar en nuestra civilización, la civilización occidental o fáustica. La degradación de la civilización fáustica expresada en la existencia del hombre-masa, incita a fijar nuevos conceptos sobre el significado actual de la técnica.

Abstract: In this paper we review the idea of ​​Technique, especially through the contributions of Oswald Spengler. We try to connect Technique with science, and the question of alleged Spengler relativism. We also discussed the issue of continuity between myth, religion and science, and the different sense that these different three ideas can take in our civilization, Western or Faustian civilization. The degradation of the Faustian civilization is expressed in the existence of the mass-man, encourage us to set new concepts about the current meaning of Technique.

Matizaciones en torno al universalismo o relativismo de la ciencia.

Las palabras de Spengler han sido mal interpretadas, con harta frecuencia, en un sentido relativista. De acuerdo con el relativismo, no habría una “ciencia universal” válida para todas las culturas y civilizaciones, cada una de estas culturas y civilizaciones poseerá su verdad. Contra el relativismo, y a favor del universalismo, se podría alegar que los cohetes espaciales chinos se lanzan en base a cálculos y teorías de la Física pertenecientes a un mismo corpus epistémico, no distinto del europeo, americano, ruso. Igualmente, los científicos nucleares iraníes comparten la misma ciencia, y pueden llevar dicha ciencia a las mismas realizaciones prácticas que los de cualquier otro ámbito cultural de la humanidad. Hay, en sus realizaciones, una universalidad en la ciencia. Pero este pretendido universalismo de la ciencia contemporánea arrastra un lastre habitual en nuestros días de “globalización”. El lastre se denomina “presentismo”. Se vive como si no existiera la Historia, como si se borrara de forma completa el proceso de desarrollo de cada una de las culturas y civilización hasta llegar al caótico horno y a la efervescente olla que es el mundo hoy. La ciencia físico-química, precisamente en lo que hace a sus aplicaciones prácticas, a sus extensiones tecnológicas, es de facto un conocimiento y recetario universal que, dentro de civilizaciones diversas, ya está a libre disposición de todos los hombres. Véase que ya en la Antigüedad y en el Medievo, los avances armamentísticos se universalizaban y no precisamente para traer paz y concordia entre los pueblos. Sustancialmente no hay diferencias en estos tiempos que corren: Occidente, con todo su potencial fáustico unilateralmente orientado hacia un capitalismo tecnológico está creando las bombas y los aparatos con los que, mañana, otro día, los islámicos o los orientales podrán esclavizarlo. Esta es la lección de Spengler que podemos leer en sus libros.

En una mirada histórica, no presentista, se observa que hay “una” física apolínea (antigua, griega), “una” física mágica (árabe), “una” física fáustica (europea). Esta evidencia histórica no guarda relación con una platónica concepción de la verdad, con un realismo de la índole que sea. Lo que Spengler quiere decirnos es que las tres ciencias físicas que fueron posibles son mutuamente incomprensibles, cada una verá a la otra como un simple depósito de vaguedades y nociones abstrusas. Como sucede con la moral y con el arte, hay tantas “físicas” como culturas y civilizaciones sean posibles, pues con la ciencia acontece lo mismo que con cualquier otra creación del alma del hombre: ésta se realiza y se expresa a partir del suelo donde arraiga y a partir de los derroteros que el sino ha trazado para esa cultura. Bien es cierto que nos encontramos en el trance de una “civilización universal”, pero este trance es asintótico, y una vez que se llegue a cierto punto de fusión, la olla puede reventar y el proceso puede revertir. Nada garantiza (pues el sino es inescrutable) que esa civilización universal haya de triunfar, ni tampoco lo contrario. Y precisamente porque los factores más rápidamente universalizables (armamento, tecnología deshumanizadora, depredación capitalista) son los más genocidas, siempre cabe aguardar a una protesta venida desde los elementos más hondos de cada especie de alma, una verdadera revuelta de la raíz contra la hojarasca inmunda. Esa reacción identitaria, esa “vuelta a las raíces”, nunca es del todo descartable. No en la Europa decadente de nuestros días, que ha sido, bien mirada, la exportadora de sus creaciones, la ciega y estúpida engendradora de armas mortíferas con las que ella misma se suicida. No cabe esperar del Islam o de cualquier otra civilización rival del occidente europeo un giro dulcificado en su devenir, una vez que adopten la ciencia tecnológica que nació con Galileo y siguió con Newton, Born y Max Planck. Los nuevos "bárbaros" tomarán esto, pero en el montón de sus basuras arrojarán las ideas de democracia, derechos humanos, tolerancia y respeto a la persona. La propia tradición filosófica occidental, la irradiación misma que “el milagro griego” supuso para el mundo se rebaja a la condición de mera “literatura” cuando olvida el verdadero bloque compacto que fue el Racionalismo una vez que nació en Grecia hace 2.600 años.

Mito, Religión y Ciencia: continuidades.

 

spenglermierzch-zac.jpgEn La Decadencia de Occidente de Oswald Spengler se muestra con claridad que entre la ciencia -como actividad teórica- y la religión hay una identidad de fondo. Las teorías de los físicos, sus entes teóricos (átomos, fuerzas, energía) son algo más que “abstracciones”. Son inobservables, suprasensibles en el mismo sentido en que podemos decir que son númina, esto es, divinidades. La ciencia no rompe con el mito (dando a la palabra mito todo su sentido de “siempre verdad”, y no el moderno y degradado sentido de “precursor falso de la verdad”). La actividad epistémica del hombre hunde sus raíces en las conductas animales y en la experiencia sensible de éstos, por supuesto. Entre el “ver” de un águila cuando localiza su presa, y la aprehensión del objeto teórico por parte del investigador, hay toda una continuidad, que no se puede negar. El anima,l al cazar o al preparar sus refugios, ya está manifestando de manera incipiente su condición de animal técnico, aunque es la reflexión por parte del sujeto la que deberá dar paso a la teoría:

“En el hombre, esta experiencia de los sentidos se ha condensado y profundizado en el sentido de experiencia visual. Pero al establecerse la costumbre de hablar con palabras, la intelección se separa de la visión y sigue desenvolviéndose independiente, en forma de pensamiento: a la técnica de la comprensión momentánea sigue la teoría, que representa una re-flexión. La técnica se orienta hacia la proximidad visible y la necesidad inmediata. La teoría se orienta hacia la lejanía, hacia los estremecimientos de lo invisible. Junto al breve saber de cada día, viene a colocarse a fe. Y, sin embargo, el hombre desarrolla un nuevo saber y una nueva técnica de orden superior: al mito sigue el culto. El mito conoce los númina; el culto los conjura. La teoría en sentido sublime, es completamente religiosa. Solo mucho después, en épocas muy posteriores, el hombre separa de la teoría religiosa la teoría física, al adquirir conciencia de los métodos. Pero, aparte de esto, poco es lo que cambia. El mundo imaginado por la física sigue siendo mitológico (...)” [LDO, I, 544-545] [1]

En los tiempos arcaicos, justo cuando la planta que damos en llamar Cultura, es una joven creación que se levanta por encima del suelo, y extiende sus primeros brotes (así los griegos de Homero, así los germanos y los celtas en su época prerromana) hay toda una labor colectiva de mitopoiesis. El pueblo, más que los poetas, crea sus dioses, su Olimpo, su Walhalla, a partir de su sentido de la vista y de su radicación en un solar. Cuando estos pueblos son móviles, migrantes, como acontece con los indoeuropeos, su experiencia itinerante les va enriqueciendo sin perder del todo aquellas primeras impresiones de un solar primigenio (Urheimat). El precedente del filósofo es el mitólogo, “conocedor” de los dioses, poeta que sabe dar el paso desde la cercanía a la lejanía. El precedente del sacerdote, ejecutor de ritos y maestro del culto debido a los dioses es, por el contrario, el sacerdote. El sacerdote conjura (beschwören) esos dioses, los invoca para atraérselos, por así decir. La ciencia moderna, la actual física que nos habla de átomos, fuerzas, energías fundamentales, ha desplegado una “nueva mitología”, por tanto, un complicado Olimpo que sólo los sabios más especializados surgidos de la Universidad pueden detallar y comprender. El tecnólogo, el científico aplicado, será quien les rinda culto y domine las prescripciones necesarias para su invocación.

Debemos insistir: estas continuidades, que tampoco Spengler cifra en clave darwinista, entre ver y comprender, mito y teoría, religión y ciencia, no significan un relativismo. Significan una comprensión de la ciencia contemporánea –y muy especialmente nuestra física fáustica- en un amplio contexto histórico-cultural. No hay por qué desvirtuar a Spengler con prejuicios realistas o platónicos en torno al carácter inmutable o no de nuestros conocimientos sobre la naturaleza. La física “mágica” de la cultura árabe era la verdad para aquella cultura, así como la física “apolínea” era la verdad para los griegos. El pensamiento alquimista y sustancialista no puede ser comprendido hoy, desde nuestra mentalidad dinámica y direccional- nuestra alma fáustica- así como nada entenderemos de la estática de los griegos si perseveramos en verla como un antecedente de nuestra dinámica.

Con todo, la subordinación de la ciencia a la tecnología, la integración de toda la física en el seno del complejo industrial, ha arrojado al “sabio” especialista de su pedestal sacerdotal. Acaso es el cosmólogo el único ejemplo de “sabio” actual que se deja arropar por un manto sacro y un aura de mitopoeta, pues la cosmología declina por su propia naturaleza el carácter aplicado, indaga sobre “los orígenes”. Teorías como la del Big Bang o los universos paralelos, especulaciones en torno al número de dimensiones del universo, las “estructuras últimas” de éste, la existencia de un “más allá” de los agujeros negros, la esencia oculta del tiempo y la materia oscura, etc. retrotraen la ciencia a los tiempos balbucientes de la filosofía presocrática, sin peder un ápice de aquel carácter mitopoético de que aquella gozaba todavía, sustituyendo (como empezó a hacerse en la Jonia de hace 2.600 años) los númina por conceptos, por un logos despersonificado. El carácter críptico, la oscuridad que un día dio fama a Heráclito y demás sabios de la antigüedad, hoy viene dado por el complejo andamiaje matemático que disimula, en realidad, la inevitable tendencia mitopoética y fáustica de nuestros cosmólogos.

Por supuesto, en la enseñanza primaria, secundaria, y en la propia universidad, antes de toda especialización, la “ciencia” sigue ofreciéndose en forma de parcelas y recetarios, yuxtaponiéndose toda clase de procedimiento técnico, “servil”. La metafísica, la sabiduría de los primeros principios y causas, aunaba (al tiempo que separaba) la Historia y la Naturaleza. En su fase griega era el estudio del ser en cuanto tal ser, sin Historia, el estudio de lo ya sido. La Naturaleza pasa a ser “eterno pretérito”, saber sobre lo producido: saber de dónde viene algo. La Historia, por el contrario, es el saber del adónde vamos: el sino. La ciencia de la naturaleza no puede ser vivida, sólo pensada. La Historia, en cambio, es vivida y lanzada hacia adelante.[2]

La Historia suele ser definida como “ciencia del pasado”, y nada más opuesto al enfoque de Spengler, para quien su estudio –en sentido morfológico y en una visión metaempírica- es en realidad la ciencia del eterno futuro, el eterno devenir (ewiges Werden, ewiges Zukunft). Pero somos víctima del moderno intelectualismo, un intelectualismo que nada tiene que ver con el pensamiento ontológico clásico de los griegos y escolásticos. Cuando Kant denomina a la causalidad “forma necesaria del conocimiento” [3], hay, en esta expresión, un evidente intelectualismo una restricción del significado de la palabra causalidad. El producirse, a partir del siglo XIX, vino a confundirse con lo producido. Esto último, lo “ya sido”, el conjunto de los hechos de la naturaleza, sirve de modelo para la Historia, ciencia de la vida y del producirse. Spengler dice que esta frontera borrada ha sido propia de una “espiritualidad decadente, urbana, habituada a la coacción de la causalidad” [LDO, 236][4]

El hombre de la gran ciudad, el hombre “civilizado” se ha formado en universidades y centros técnicos especializados, centros que ejercen una coacción mental (Denkzwang), una rigidez mecánica del espíritu. Triunfa el espíritu mecánico sobre el orgánico. El cientifismo aplicado a la Historia (vide: el materialismo histórico o el positivismo) busca la “ley”, acaso sustituida ahora por la finalidad, su remedo. De toda la ontología del devenir humano y del destino no logra otra cosa que un engranaje. [5]

Nacimiento del alma fáustica.

oswald-spengler-l-homme-et-la-technique.jpgDe lo que se trata es de situar la moderna ciencia física en el curso de desarrollo de la cultura fáustica, ya devenida civilización a partir, digamos, de las guerras napoleónicas a principios del siglo XIX. La cultura fáustica surge en el trayecto que va desde el siglo VIII al siglo X, y sus expresiones artísticas más imponentes ya pueden verse en los estilos arquitectónicos del románico y el gótico. Las creaciones del feudalismo, la Iglesia medieval, la Monarquía Asturiana, Carlomagno, el Sacro Imperio Romano Germánico, la Escolástica, etc., son sus correspondientes en el terreno institucional. Las semillas de la ciencia fáustica más esplendorosa del barroco (la dinámica y la Monadología de Leibniz, las fluxiones de Newton) ya están presentes in nuce en aquella feliz síntesis de germanismo “bárbaro” y cristiandad latina que va surgiendo de las oscuridades del siglo VIII. Una Cristiandad acosada, desde el Sur y desde el Oriente por el Islam, desde el norte por los vikingos. Aparentemente empequeñecida, a la defensiva, tímida y parapetada tras las selvas y fortalezas que todavía no son los sólidos castillos murados que vemos florecer a lo largo de la Edad Media. Pero una cristiandad, como aquella de la Liébana de Asturias donde Beato amonesta –nada menos- que al metropolitano de Toledo, viviendo éste bajo dominación musulmana y en cierta connivencia con ella. Esa Cristiandad rural que sobrevive gracias al valor de su sangre, de su ethnos y de una fe incólume que ya no es la fe “mágica” de la mozarabía, de los eremitas rupestres del periodo visigodo, de los cristianos del viejo Mare Nostrum, de un Bizancio decadente, ya orientalizado, “arábigo”, o de un mahometanismo pujante.

Es el cristianismo fáustico, a decir de Spengler, el que hizo de este conglomerado de pueblos celtogermánicos y latinos una Europa de Occidente a calificar como entidad cultural por derecho propio. Y de forma magistral e intuitiva el filósofo alemán asocia el origen de la arquitectura cristiana fáustica con las selvas del norte y las impresiones que el alma del germano balbuciente en su nueva fe, pudo obtener de ellas. En la propia península ibérica, donde se dan dos climas y dos religiones, es el Norte el que se comunica plenamente con la Europa carolingia y celtogermánica. En ese corredor que, desde el mar cantábrico hasta las grandes llanuras nórdicas, se llena de selvas y, acaso, riscos, el alma del hombre se impresiona por los fenómenos de la naturaleza, el misterio de los bosques, las tempestades, los mares bravos. [6]

El arábigo hubo de retroceder ante los paisajes agrestes y, para él, terribles de los (nunca mejor llamados) Picos de Europa en 718 (o 722). Poco después, el arte asturiano, partiendo de técnicas constructivas romanas pero plagado de mil influjos más, sin excluir el arte local, preanuncia los derroteros de una nueva espiritualidad, buscando la verticalidad y la afirmación fáustica. La verticalidad del gótico, el estilo del lejano Norte, ya es producto del alma que creció en las grandes selvas europeas.

Los cipreses y los pinos producen la impresión de cuerpos euclidianos; no hubieran podido ser nunca símbolos del espacio infinito. El roble, el haya, el tilo, con sus vacilantes machas de luz en los espacios llenos de sombra, producen una impresión incorpórea, ilimitada, espiritual” [LDO, I, 546].[7]

Algunos autores han señalado interesantes parecidos y diferencias entre Spengler y Ortega:

No es posible separar al hombre de sus circunstancias. En este sentido, la reflexión sobre la técnica no es sólo una parte de un sistema mayor, un sistema en el que vive el hombre, y donde no es posible separar la voluntad de vivir de la complejidad de las relaciones sociales. Lo individual y la historia están tan unidos que no es posible aislar a los unos de los otros. [...] primero, para reflexionar sobre la técnica se debe describir la naturaleza antropológica del hombre. Ambos empiezan por describir a un hombre sin un lugar en el mundo. Cazador inestable, hambriento de poder y pleno de voluntad para lograr sus deseos. Un hombre en una lucha constante con su entorno natural. Un hombre que no puede existir sin someter todo lo que encuentra. Ortega y Spengler están lejos del cristianismo. Sin embargo, su visión del hombre, nos parece, es un reflejo de la mentalidad que se centra en el hombre y que proviene principalmente de la traducción cultural judeo-cristiana. Segundo, el medio ambiente en el que el hombre vive es hostil. Continuamente opuesto a la voluntad de vivir del hombre. Un entorno natural en el que el hombre es un cuerpo extraño. Un entorno natural donde la opción es la sumisión o la muerte. Tercero, la técnica es un reflejo de la voluntad de poder. La técnica se utiliza para llevar a cabo los deseos del hombre. La principal diferencia es que Spengler es más determinista y pesimista que Ortega. Para Spengler, toda la historia está obligada a decaer, y la técnica es sólo una fase de esta decadencia. En Ortega, la técnica es un peligro, pero es también una posibilidad. La técnica es una forma vacía, que puede llenarse con la desesperación y la estupidez, o puede ser una herramienta útil para lograr los propósitos del hombre. En este sentido, Spengler es más determinista que Ortega.” [8].

En suma, la visión del hombre como cazador, como depredador rebelde, que se enfrenta a la naturaleza, lucha contra ella e impone su instinto de rapiña, excluye el hecho -milenario en años- de que gran parte de la humanidad ha llevado a cabo una existencia campesina, pacífica, sobrepuesta a los ciclos naturales de la vida, regulándolos y adaptándose a ellos. Piro, en cambio, resalta la visión más abierta, más optimista, de una humanidad que –ciertamente- puede dejarse dominar por una técnica vacía de contenido o instrumentalizada por intereses espurios, aborrecibles, pero una técnica que, a su vez, igualmente puede ponerse al servicio de la felicidad humana. De momento, Ortega ve, a la altura ya de los comienzos del siglo XX, cómo la técnica es la que da cabal explicación del imperio de la masa.

Degeneración del alma fáustica y producción del hombre-masa.

La democracia del siglo XX ya no es, como en el XIX, el imperio de la opinión (doxa), el imperio de la prensa escrita y de las élites burguesas que dicen hablar en nombre de todos. A fin de cuentas, aquellos lectores de periódicos del siglo XIX eran personas semi-instruidas que podían pastorear a grandes masas incultas. El poder del Capital requería de la prensa y de la creación de opinión. Había una nueva aristocracia del dinero y de la ideología por sobre la aristocracia vieja de la tierra y la sangre. Incluso en las clases trabajadoras, los líderes socialistas a veces eran hombres selectos de entre la fábrica y los sectores menesterosos, individualidades nacidas para ser aristócratas del espíritu, con capacidad de mando. Spengler y Ortega no abandonan nunca, nos parece, el fundamental legado aristotélico en materia política, la ley natural que ha de regir incluso los sistemas que se dicen democráticos: “hay hombres nacidos para mandar y hay hombres nacidos para obedecer”. Sin embargo, la libertad de ambas clases de hombres quedaría garantizada si los que mandan de hecho son los más capacitados, dignos y merecedores del mando. Creemos que en este aspecto, Ortega aboga por una antropología menos agresiva y deprimente, más proclive a la corrección de la democracia, entendida como el justo gobierno del pueblo y por el pueblo bien entendido que en este “pueblo” hay élites, hay aristocracias del espíritu a las que es preciso nuevamente convocar y alentar, pues fueron las masas indóciles y las ideologías decimonónicas las que desalojaron del timón a los capitanes más preparados. En este contexto, de donde La Meditación sobre la Técnica spengleriana es una obra que se enmarca perfectamente en La Rebelión de las Masas, orteguiana, la técnica en cuanto instrumento vacío de contenido, o quizá como peligro mefistofélico, aparece como posibilidad: la renuncia a toda técnica nos lleva directamente a la barbarie, o a utopías suicidas. Sería macabro ver cómo la Europa “fáustica” que desarrollara toda la técnica moderna se entregaría a una existencia muelle, de desnudez cínica o ecologista, mientras los integristas islámicos o las “potencias emergentes” acaparan todo el saber en materia de armas nucleares, control por satélites, balística intercontinental. La técnica, una vez desarrollada, admite muy mal los pasos atrás, y –de otra parte- marca exigencias no solo agresivas, en la línea del hombre-depredador de Spengler, sino también defensivas. Una nueva civilización, o una drástica reordenación del mundo, si incluye una vida más sencilla y una reducción de la voracidad consumista actual, no podrá permitirse el lujo de renunciar a los desarrollos tecnológicos destinados a garantizar la defensa ante toda índole de amenazas, ya vengan éstas de un orden natural ya procedan de conflictos antropológicos, o de la combinación de ambas clases de amenazas.

Dialéctica entre arraigo y conquista.

La caracterización spengleriana del hombre como animal de rapiña constituye una tesis anti-intelectualista. No es el intelecto lo que pone en la cima zoológica al hombre, sostiene Spengler, sino su máxima movilidad, su insaciable afán de cobrar presa, la astucia y previsión, el acecho y la táctica. En todos estos rasgos el ser humano supera a los demás animales, incluyendo a los mejores mamíferos cazadores. La inteligencia más bien sería producto secundario y derivado de la táctica (término militar que Spengler retrotrae a la zoología). De hecho, no hay necesidad de máquinas o herramientas para poder hablar de técnica. Es más bien el uso de las mismas, la conducta con fines depredadores, lo que determina la existencia de una técnica. Acaso el trabajo coordinado de los cazadores prehistóricos, antes que sus armas, configuró ya la técnica en un verdadero sentido spengleriano. Esto es interesante, porque aleja a Spengler del materialismo y del objetivismo cultural. Nuestra civilización es técnica no tanto por la producción y acumulación de artefactos, sino por el uso esencial de tácticas, que incluyen colaboración con otros sujetos, así como su control, sometimiento y dominación, junto con las máquinas y artefactos que se precisen. Toda la dialéctica de la alienación (Hegel, Feuerbach, Marx), y en concreto, la alienación del hombre bajo el dominio de la máquina, haciéndose él mismo cosa, objetivándose como cosa al servicio de las máquinas que él mismo ha creado, quedaría aquí reinterpretada: el hombre es el creador, también es el rebelde que inventa, “ingenia” constantemente. Los trámites y procesos parciales en los que el hombre se vuelve esclavo de otros hombres y aun de las máquinas, serían necesarios para la consecución de nuevas cumbres y presas en el depredador humano. Todo ello proviene de la propia zoología. La planta, de nula movilidad, sólo proporciona un escenario para la verdadera lucha por la vida. En los animales superiores, la oposición y complementariedad entre herbívoros y mamíferos adelanta, a su vez, el sedentarismo campesino frente al nomadismo del guerrero (el “noble”). En realidad, las culturas tal y como las entiende Spengler, “plantas” que arraigan en un solar primigenio, son fruto de una síntesis dialéctica entre estos elementos más sedentarios y vegetativos (aldeanos) y los más móviles y depredadores (nobles, guerreros). Es preciso nutrirse de unos elementos minerales, térreos, atmosféricos, paisajísticos, etc. para ir conformando el alma de una cultura en su estado naciente. El bosque para el germano, el desierto para el semita, las estepas para el mongol, etc. pero este alimento de la cultura balbuciente no basta: hace falta el desenvolvimiento: las correrías, las invasiones, la medición de fuerzas con los enemigos y la estabilización de fronteras. Una dialéctica entre arraigo y conquista. Entre la casa y el terruño (factor femenino) y la expedición de caza (factor masculino y móvil).

La técnica como causa de la alienación pero como motor para la conquista. 

speng197491.jpgHoy, un “gran hombre”, no puede dejar de lado las relaciones entre la técnica y la civilización. Los filósofos profesionales, ocupados de pequeñeces, que para Spengler podrían ser la lógica, la teoría del conocimiento o la psicología, hoy, son personajes que dan vergüenza:

“...si dejando a estos grandes hombres volvemos la mirada hacia los filósofos actuales, ¡qué vergüenza!, ¡qué insignificancia personal!, ¡qué mezquino horizonte práctico y espiritual! El mero hecho de figuramos a uno de ellos en el trance de demostrar su principado espiritual en la política, en la diplomacia, en la organización, en la dirección de alguna gran empresa colonial, comercial o de transportes, nos produce un sentimiento de verdadera compasión. Y esto no es señal de riqueza interior, es falta de enjundia. En vano busco a uno que se haya hecho ilustre por algún juicio profundo y previsor sobre cualquiera cuestión decisiva del presente. No encuentro más que opiniones provincianas, como las puede tener cualquiera. Cuando tomo en las manos un libro de un pensador moderno, me pregunto si el autor tiene alguna idea de las realidades políticas mundiales, de los grandes problemas urbanos, del capitalismo, del porvenir del Estado, de las relaciones entre la técnica y la marcha de la civilización, de los rusos, de la ciencia. Goethe hubiera entendido y amado todas estas cosas. Entre los filósofos vivientes no hay uno solo capaz de do minarlas con la mirada. Todo ello, lo repito, no es contenido de la filosofía; pero es un síntoma indudable de su interior necesidad, de su fertilidad, de su rango simbólico.” [LDO, I, 80]

El autor de La Decadencia de Occidente sentía una profunda emoción ante los artefactos técnicos en la medida en que éstos revelaban voluntad de poder, prolongaciones y sofisticaciones de las garras, colmillos, cuernos y fauces con que la naturaleza había dotado a los seres superiores, vale decir, a los depredadores. Un acorazado de la marina de guerra, un cañón de largo alcance, un nuevo tipo de explosivo o de carro de combate: en esto debe pensar el filósofo de la historia cuando piensa en profundidad y se hace una imagen del mundo y de sus civilizaciones en pugna. Spengler decía admirarse más por las líneas de un trasatlántico o de una nueva máquina industrial que por todos los cachivaches verbales que se traen y se llevan los “literatos”, los “intelectuales” al uso. No hay, pues, aliento ni mucho rincón para el humanismo, para la cultura en el sentido sublime, en el sentido de ocio y superestructura volátil. Hay inventos que sólo la cultura fáustica ha elevado a su máxima expresión y que están pensados y llevados a cabo para el dominio. Dominio: si no se trata del dominio sobre potencias extranjeras al menos el dominio sobre el espacio, el tiempo, la energía y cualquier otra posible limitación a las posibilidades humanas. Contrariamente a lo que se dice, fueron aquellos monjes medievales, henchidos de la idea de un Dios fáustico, quienes empezaron a plantear el universo en términos de máquina inmensa, en términos de fuerzas, de dinamismo, de potencia. Pero aquellos escolásticos que fueron los primeros científicos modernos (y no un Galileo presentado por los hagiógrafos laicistas como el primer campeón sobre el escolasticismo) vieron pronto el carácter demoníaco de la ciencia-técnica, de ese complejo de conocimiento-acción que estaba destinado a escapar a todo control. El humanista contemporáneo es un “espíritu sacerdotal” que exorciza la voluntad de poder inscrita en cada ingenio técnico:

“Así como en la Antigüedad la altiva obstinación de Prometeo frente a los dioses fue sentida y considerada como vesania criminal, así también la máquina fue sentida por el barroco como algo diabólico. El espíritu infernal había descubierto al hombre el secreto con que apoderarse del mecanismo universal y representar el papel de Dios. Por eso las naturalezas puramente sacerdotales, que viven en el reino del espíritu y no esperan nada de «este mundo», sobre todo los filósofos idealistas, los clasicistas, los humanistas, Kant y el mismo Nietzsche, guardan un silencio hostil sobre la técnica.” [LDO, II, 466]

"El silencio hostil sobre la técnica". Habría, según Spengler, un poso profundamente idealista y sacerdotal en la filosofía europea, un poso que ni siquiera Nietzsche pudo evitar, pese a sus diatribas contra la mentalidad sacerdotal. Hay un humanismo antitécnico que, de derecha o de izquierda, anhela un retorno a la candidez y al Edén perdido, y ese humanismo pretende orillar por completo una realidad: una realidad basada en el conflicto. El mundo es guerra, y la paz sólo se disfruta velando las armas. Cualquier máquina, toda herramienta, es un arma dentro del conjunto de cosas inventadas bajo impulsos meramente crematísticos, y de ser objetos útiles, acaban convirtiéndose en armas. Sojuzgar a la naturaleza, rebelarse ante ella; dominar a otros hombres, imponerse a los enemigos.

En la era del capitalismo industrial, sin embargo, el poder de las máquinas se vuelve ajeno y envolvente del propio sujeto creador de las mismas, así como ajenas y envolventes con respecto del obrero que las usa. Spengler tiñe sus reflexiones sobre la Historia contemporánea de un cierto tecnocratismo. El ingeniero, y no el patrón, y no el obrero, es quien conduce el proceso material de la historia.

Pero justamente por eso el hombre fáustico se ha convertido en esclavo de su creación Su número y la disposición de su vida quedan incluidos por la máquina en una trayectoria donde no hay descanso ni posibilidad de retroceso. El aldeano, el artífice, incluso el comerciante, aparecen de pronto inesenciales si se comparan con las tres figuras que la máquina ha educado durante su desarrollo; el empresario, el ingeniero, el obrero de fábrica. Una pequeña rama del trabajo manual, de la economía elaborativa, ha producido en esta cultura, y sólo en ella, el árbol poderoso que cubre con su sombra todos los demás oficios y profesiones: el mundo económico de la industria maquinista [376]. Obliga a la obediencia tanto al empresario como al obrero de fábrica. Los dos son esclavos, no señores de la máquina, que desenvuelve ahora su fuerza secreta más diabólica.” [LDO II, 774]

¿Qué queda de la “lucha de clases”? No hay tal. El obrero se vuelve esclavo obediente de la máquina, hasta aquí se le concede razón a Marx y a tantos críticos humanistas del maquinismo. Pero el patrón, que en la teoría marxiana acaba convirtiéndose en un parásito de la producción, es presentado por Spengler como un servidor obediente de una técnica diabólica, que comienza a marcar sus propias pautas, que legisla el comportamiento de los agentes humanos. El patrón, una vez realizada su inversión en tecnología, habrá de atenerse a las leyes impuestas por la propia tecnología. Marx pensaba que el ingeniero, en cuanto trabajador asalariado, podría emprender los cálculos racionales adecuados para mantener la producción maquinista y ponerla al servicio de la sociedad, esto es, de los demás obreros. Para Marx, el ingeniero debería dejar de ser un empleado íntimamente unido al patrón frente a la clase obrera, y alinearse con ella en le proceso socialista de eliminación del patrón capitalista enteramente superfluo. Por el contrario, en Spengler la caracterización de la industria maquinista es por completo diferente: el propio trabajo es una categoría abstracta y huera, hay jerarquía esencial en el mundo del trabajo, hay que regresar al dictum aristotélico: “unos hombres nacen para mandar y otros nacen para obedecer”. El trabajo de dirección es sustancialmente distinto al trabajo servil, manual y basado en la obediencia. No todos los hombres son iguales y, por tanto, no todos los trabajos son iguales. Y este principio, general en la Historia de las culturas y de las civilizaciones, no deja de aplicarse en la sociedad capitalista altamente industrializada. Los trabajos de dirección, a cargo de ingenieros y tecnócratas, son la nueva modalidad del caudillo guerrero, del conductor y conocedor de hombres. En rigor, podría hablarse de un socialismo: en la nueva era por venir, todos hemos de ser trabajadores, no hay lugar para los parásitos, quien no trabaje que no coma. Pero al mismo tiempo, en este nuevo socialismo, hay ineludiblemente jerarquías: trabajos de dirección y trabajos de base.

“El organizador y administrador constituye el centro en ese reino complicado y artificial de la máquina. El pensamiento, no la mano, es quien mantiene la cohesión. Pero justamente por eso existe una fisura todavía más importarte para conservar ese edificio, siempre amenazado, una figura más importante que la energía de esos empresarios, que hacen surgir ciudades de la tierra y cambian la forma del paisaje; es una figura que suele olvidarse en la controversia política: el ingeniero, el sabio sacerdote de la máquina. No sólo la altitud, sino la existencia misma de la industria, depende de la existencia de cien mil cabezas talentudas y educadas, que dominan la técnica y la desarrollan continuamente. El ingeniero es, en toda calma, dueño de la técnica y le marca su sino. El pensamiento del ingeniero es, como posibilidad, lo que la máquina como realidad. Se ha temido, con sentido harto materialista, el agotamiento de las minas de carbón. Pero mientras existan descubridores técnicos de alto vuelo, no hay peligros de esa clase que temer. Sólo cuando cese de reclutarse ese ejército de ingenieros, cuyo trabajo técnico constituye una intima unidad con el trabajo de la máquina, sólo entonces se extinguirá la industria, a pesar de los empresarios y de los trabajadores” [LDO, II, 775].

La lucha de clases en el marxismo ha de interpretarse imperativamente, no descriptivamente. Es un mandato que hizo Marx a los obreros a rebelarse, no es una “ley” que explique la historia, porque, para empezar, no siempre hubo clases sino estamentos y “grupos” definidos por muy otros criterios que los criterios economicistas de control y posesión de los medios de producción. De otra parte, el socialismo “ético” o “filantrópico” que ha llenado las cabezas huecas y las librerías desde el siglo XIX no es, en realidad, este marxismo “aguerrido” que llama a una guerra y a un odio de clases. Antes al contrario, gran parte de la izquierda (en especial la izquierda oficial e integrada plenamente en el sistema capitalista) llama a una reconciliación universal, a una abolición de los conflictos, a un  amor indiscriminado y a una paz perpetuas. La exacerbación de ciertas ideas racionalistas, del humanismo masónico, de la religión natural y deísta, del igualitarismo fanático, ha devenido, desde sus inicios sectarios, a constituir una suerte de pensamiento único, fuera del cual no hay más que criminalidad intelectual o “fascismo”. Derecha e izquierda admiten este marxismo “culturalista”, sin aguijón, según el cual la lucha de clases se sustituye por un diálogo o “acción comunicativa” infinita, se trueca por una madeja de intercambios dialógicos entre mónadas todas ellas autosuficientes. El empresario, el ingeniero, el obrero o el aldeano son, todos ellos “ciudadanos”, y después de asumida esta rotulación indistinta –burguesa- de “ciudadano” todo será paz y después gloria.

El hombre y la técnica. [9]

Y aquí interviene la técnica. La técnica entendida como panacea, como vertiente material u objetual de la misma medicina universal que constituye el diálogo o acción comunicativa, jamás podrá ser comprendida en toda su profundidad. Es lo que hacen hoy los “socialistas éticos”, los ideólogos posmarxistas, ya sin aguijón: en el fondo no serán necesarias nuevas revoluciones, y los obreros no tendrán que salir al frío de la calle, en donde ya no hay barricadas. La técnica, igual que el Cuerno de la Abundancia, vendrá a darnos los bienes necesarios que permitirán “bienestar para todos” y “parlamentarismo para todos”. El marxismo sin aguijón, todo el socialismo progresista que se ha impuesto hoy como doctrina oficial mundial, proclama una tesis que ya estaba presente en el propio corpus marxiano, y que la II Internacional no haría sino desarrollar de forma oportuna y oportunista: el propio desarrollo de las fuerzas productivas convertirá en superflua la figura del patrono, del capitalista. Unos obreros debidamente formados en administración y tecnología serían capaces de tomar el mando, de dirigir intelectualmente la producción. En esto, hay pocas diferencias con el muy extenso (y poco profundo) credo burgués de la Inglaterra utilitarista (Bentham o Mill): habría que llevar el mayor bienestar al mayor número posible de individuos. La titularidad jurídica de los medios de producción pasaría a ser una cuestión menor ante la perspectiva, cansada y propia de las momias de la cultura occidental (perspectiva “civilizada” en términos de Spengler). Pero he aquí que la técnica es algo más que un instrumento elevador del bienestar, algo más que una panacea posible para solventar disfunciones sociales. La perspectiva “extensiva” de la técnica ha de ser completada con la perspectiva “en profundidad”. La técnica es viejísima y consustancial con la evolución biológica del hombre. La técnica es táctica.

También los idealistas y los humanistas, la “gente de letras”, ignoran esta verdad. Para ellos la técnica arroja un hedor plebeyo, mundano, utilitario, que la acerca al ámbito de otras funciones corporales (nutrición, excreción, reproducción) sobre las que sería mejor callar fuera del ámbito especializado de la anatomía y fisiología. Y, sin embargo, gran parte de la Filosofía moderna es una reflexión sobre éstas técnicas de la vida, oscureciendo la técnica de las técnicas, esto es la Táctica, el combate. Con Nietzsche se ha puesto de moda relacionar la dieta, el régimen sexual y la necesidad de caminatas al aire libre, por un lado, y un saber degradado que conserva el nombre de “filosofía”. Las modas francesas, la sombra de Foucault, y toda esa literatura postmoderna en torno a las “tecnologías del Yo” acercan fatalmente a la filosofía de la fase civilizada occidental a subgéneros de otra índole como los libros de autoayuda, el psicoanálisis, las terapias alternativas y recetarios varios para una “vida sana y feliz” en la que el sexo, la dieta y el “pensamiento positivo” adquieren un enorme protagonismo. Justamente esto sucedió en la Antigüedad tardía: estoicos, cínicos, epicúreos, y demás sectas, redujeron la Filosofía a Ética, y ésta, a su vez, degeneró en un listado de consejos para la buena gestión de los genitales, del estómago, de la lengua y de pensamientos “positivos”. Ignoraron por completo que la técnica es la táctica de la vida, y que la vida es lucha. La Ética de las grandes urbes decadentes es la técnica del derrotado. La paz que se impone es la de quien triunfa porque ha luchado. Por el contrario la paz que se busca es la de aquel que ya no quiere o no puede luchar: cobarde, débil, cansado, tullido.

Basándose en Nietzsche, pero remitiéndose a una antropología mucho más nítida y naturalista, el Spengler de El Hombre y la Técnica retrotrae la Técnica al conjunto de tácticas de supervivencia de nuestra prehistoria animal, y en modo alguno las vincula a la herramienta. Hay técnica sin herramienta, como la del león que acecha a la gacela. Las herramientas pueden existir como una parte del ser orgánico (las garras, las zarpas, los picos, etc.) o pueden, en el caso humano, ser útiles fabricados y dotados de una vida extrasomática. Pero esta frontera del cuerpo humano no es la nota que distingue el origen de la técnica.

Además hay una analogía muy clara entre las especies animales y las dos clases fundamentales de hombre. Herbívoros y carnívoros, presas y rapaces. También en la sociedad humana se da esta dicotomía: dominadores y esclavos. En el filósofo germano no hay espacio para ternuras, no hay restos de humanismo cristiano o filantrópico, como sí quedaban en sus rivales (el socialismo ético y el marxismo, el liberalismo, el utilitarismo). El pensador de Blankenburg nos ofrece un cuadro crudo, belicista, feroz, de la historia natural y de la historia política. Este cuadro que se presenta como realista, sin idealizaciones ni edulcorantes, nos lo pone delante con una prosa bellísima, enérgica, feroz. Sin alambiques técnicos, sin jerga especializada, Spengler pone en funcionamiento sus profundas nociones de Biología, y muy especialmente de Etología. Partiendo de los precedentes fundamentales de Goethe, Schopenhauer y Darwin, pero corrigiéndolos a la vez (en especial a los dos últimos), Spengler nos hace conscientes de la muy diversa organización sensorial que poseen las distintas especies. El poder de la mirada en los animales rapaces (unos ojos cuya actuación ya, en sí mismo, es poder), que abre un abismo entre el ave de presa –por ejemplo- y la ternura ocular de una vaca... Este tipo de comparaciones (que por la época conformaban todo un continente nuevo de la ciencia, de la mano de von Üexkull) ilustran muy bien el tipo de aproximación naturalista que nuestro filósofo hace a la técnica y a las actividades directamente relacionadas con ella, la caza y la guerra.

En el animal no humano existe la “técnica de la especie”. Es ésta una técnica no personal, no inventiva, fija y repetitiva. Cada individuo se limita a ejecutar lo que su especie ha asimilado desde hace generaciones. Por el contrario, el hombre es creador para ser señor: innova, crea, se las ingenia para dominar, que es su verdadera vocación.


[1] A partir de ahora, las citas de La Decadencia de Occidente se harán de la siguiente manera: LDO, I significa tomo primero de la versión castellana de la obra,y LDO II es el segundo tomo de la misma en la traducción de Manuel G. Morente, Editorial Espasa, Madrid, 2011. Las citas de la versión alemana, corresponden con las iniciales en esa lengua, y se citará DUA, Der Untergang des Abendlandes, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1972.

[2] “Die Geschichte ist ewiges Werden, ewige Zukunft also; die Natur ist geworden, also ewige Vergangenheit” [LDO, 538: DUA, 499-500].

[3] Kausalität  als notwendige Form der Erkenntnis”, DUA 197

[4]  “…inmitten späten, städtischer, an kausalen Denkzwang gewohnter Geiste”, [DUA, 236]

[5] Aber der Geist unsrer grossen Städte will so nicht schliessen. Umgeben von einer Maschinentechnik, die er selbst geschaffen hat, in dem er der Natur ihr gefährlichsts Geheimis, das Gesetz ablauscht, will er auch die Geschichte technisch erobern, theoretisch un praktisch” [DUA, 198].

[6] Wladensrauchen und Waldeinssamkeit, Gewitter und  Meeresbrandung, die das Naturgefühl des fautsichen Menschen, schon das des Kelten und Germanen, völlig beherrschen und seinen mythischen Schöpfungen den eigentümlichen Charakter geben, lassen das des antiken Menschen unbreührt” [DUA, 518] [LDO, I, 554-555].

[7] Die Zupresse und Pinie wirken körperhaft, euklidisch; sie hätten niemals Symbole des unendlichen Raumes werden können. Die Eiche, Buche und Linde mit den irrenden Lichtflecken in ihren schattenerfüllten Räumen wirken körperloss, grenzenlos, geistig” [DUA, 509].

[8] Pietro Piro: Dos meditaciones sobre la técnica: El hombre y la técnica de Oswald Spengler y Meditación de la técnica de Ortega y Gasset, en Laguna: Revista de filosofía, , Nº 32, 2013 , págs. 43-60. Cita en p. 55.

[9] Así se titula el ensayo breve de Oswald Spengler: El hombre y la técnica: una contribución a la filosofía de la vida, Espasa-Calpe, Madrid, 1934. Trad. Española de Manuel García Morente.

lundi, 17 novembre 2014

LA ESCUELA DE SABIDURÍA DEL CONDE KAYSERLING

 
Foto

 

Hermann von Keyserling

 
 LA ESCUELA DE SABIDURÍA DEL CONDE KEYSERLING
 
UNA LECCIÓN DE INFLUENCIA CULTURAL
 
Por Manuel Fernández Espinosa
 
Ex: http://movimientoraigambre.blogspot.com
 
Dicen los genealogistas que por una abuela suya tenía como antepasado a Gengis Khan y de cierto se sabe que estaba casado con la nieta de Otto von Bismarck. Hermann Alexander Conde Keyserling (1880-1946) fue un filósofo bastante popular para lo que suelen serlo los del gremio; hoy, apenas se le recuerda. Con la revolución bolchevique se vio forzado a emigrar a Alemania, dejando sus haciendas en la báltica Livonia de la que era nativo. La curiosidad filosófica le hizo emprender una serie de viajes, convirtiéndolo en un auténtico hombre de mundo. Su interés por las filosofías y las religiones de Extremo Oriente y el conocimiento que de estas tradiciones obtuvo por sus viajes y estudios, le granjearon el papel de interlocutor europeo con Asia, hasta tal punto que Antonio Machado pudo escribir de él: “ése lleva el Oriente en su maleta de viaje, dispuesto a que salga el sol por donde menos lo pensemos” (“Juan de Mairena”, Antonio Machado).
 
En 1920 el Conde Keyserling fundó en Darmstadt su “Escuela de Sabiduría” (Schule der Weisheit), patrocinada bajo el mecenazgo del Gran Duque Ernst Ludwig de Hesse. Con la Escuela de Sabiduría se ponía en pie un centro de alta cultura que tendría como dos dimensiones: una pública, como centro de educación independiente de las iglesias y de la Universidad, organizador de conferencias, y otra dimensión menos conocida, de carácter ocultista. No ha de escandalizarnos el dato de su “ocultismo”, pues la Alemania de entreguerras (nos lo cuentan en sus novelas Thomas Mann o Ernst Jünger…) era un favorable terreno para las sociedades secretas y sus presuntas doctrinas de salvación.
 
En su actividad pública pasaron por la Escuela de Sabiduría los intelectuales más sobresalientes de la Alemania de entreguerras: el filósofo Max Scheler, el padre de la psicología profunda Carl Gustav Jung, el sinólogo Richard Wilhelm o el filósofo Leopold Ziegler, etcétera. También eran invitados a pronunciar sus conferencias o a asistir a ellas científicos y magnates de la industria alemana. La Escuela de Sabiduría daba a la estampa dos publicaciones periódicas que pasaron por ser sus órganos de prensa: “Der Weg zur Vollendung. Mitteilungen der Schule der Weisheit” (“El Camino a la Perfección. Comunicaciones de la Escuela de Sabiduría”) y “Der Leuchter. Weltanschauung und Lebensgestaltung. Jahrbuch der Schule der Weisheit” (“El Candelabro. Cosmovisión y Formación de Vida. Anuario de la Escuela de Sabiduría”). En 1920 también se fundó la “Keyserling-Gesellschaft für freie Philosophie” (la Sociedad Keyserling para la Libre Filosofía) que resurgió en Weisbaden en 1948.
 
Los intelectuales más comprometidos con el proyecto del Conde Keyserling se obligaban a una estricta observancia de la peculiar filosofía keyserlingiana y quedaban bajo el magisterio del conde o de sus discípulos de confianza. Entre estos destaquemos a Kuno Conde von Hardenberg (1871-1938), orientalista y crítico de arte, estudioso de la francmasonería. Al científico que, como el mismo Conde de Keyserling, era de origen báltico: Karl Julius Richard Happich (1863-1923), uno de los pioneros del control higiénico, bacteriólogo y veterinario, también oncólogo. Kuno von Hardenberg y Karl Happich escribirían, con Hermann von Keyserling, un libro bajo el elocuente título “Das Okkulte” (Lo oculto); no en vano Federico Sciacca afirma que Keyserling “se ha entregado a la magia y al ocultismo en una concepción del genio como vehículo de Dios en la tierra”. También desempeñaría su papel en la Escuela de Sabiduría el psicólogo Georg Groddeck (1866-1934), considerado como uno de los pioneros de la medicina psicosomática.
 
Pero, ¿cuál era la filosofía de Keyserling? La filosofía de Keyserling es una cristalización más del pesimismo que siguió a la Primera Guerra Mundial, como el relativismo de Simmel, la filosofía de la historia de Oswald Spengler y otras corrientes contemporáneas: se dirimía nada más y nada menos que los fundamentos de la civilización occidental. Keyserling reivindica el “Sentido” y realiza una cruda crítica del racionalismo y la civilización técnica en que ha parado occidente. “El occidente es un fanático de la exactitud. En cambio, sobre el sentido lo ignora casi todo. Si lo captase alguna vez, le ayudaría a encontrar su expresión perfecta y establecería una armonía completa entre la esencia de las cosas y los fenómenos” –nos dice el Conde Keyserling en “Diario de viaje de un filósofo” (1919). Para Keyserling resulta que “el sentido” que es -justamente- lo que el occidental ignora, es lo que no ha perdido el oriental. El Sentido solo puede descubrirse por medio de una intuición particular y por la interpretación de los símbolos y los mitos. Contando con ese elemento es como comprendemos que Keyserling dirija sus ojos a Oriente, donde el conde báltico cree hallar la clave que, convenientemente injertada en occidente, pueda proporcionar al hombre el descubrimiento de su personalidad verdadera, falseada por la civilización de la medida y las máquinas. La Escuela de Sabiduría no era un centro convencional de filosofía académica, sino un camino de conocimiento para un fin: la plenitud. El encuentro con el Sentido -para Keyserling- no es solo el encuentro con la realidad que hay, sino más bien la apertura a la realidad que puede haber. La filosofía de Keyserling era otra expresión del irracionalismo romántico alemán y su Escuela de Sabiduría un retorno a los antiguos planteamientos de una filosofía que pretendía ofrecer una doctrina de salvación, como el pitagorismo y la Academia de Platón.
 
Keyserling gozó en España de mucho predicamento. La intelectualidad y las altas clases sociales españolas de la época lo recibían gustosas, le agasajaban con banquetes y esperaban, entre interesados y escépticos, las prédicas del conde mistagogo. Sin importar las tendencias, que por aquel entonces no se habían radicalizado hasta llegar al enfrentamiento civil, José Ortega y Gasset, Eugenio d’Ors, los Machado, los Baroja, Ernesto Giménez Caballero, Rafael Alberti, Ramiro Ledesma Ramos, Ramón Menéndez Pidal, Américo Castro… Compartieron agradables veladas en España con el sabio báltico. Pero había otras motivaciones en los viajes a España del conde Keyserling, además de su sintonía con el mundo hispánico. Keyserling estuvo tanteando la posibilidad de erigir una sucursal de su Escuela de Sabiduría en las Islas Baleares. Los periódicos de la época se hacían eco de que esa empresa cultural quería establecer un centro de formación de elites castellano-catalanas con la intención de propagar el pangermanismo.
 
Pero el semanario de Ledesma Ramos “La Conquista del Estado” reaccionaba ante tales pretensiones germánicas, entendiendo como intromisión extranjera en los asuntos hispanos las idas y venidas del conde Keyserling. Es más que probable que “La Conquista del Estado” llevara razón: Keyserling ejercía su influencia sobre España, pero con la idea de ejercerla a su vez sobre Hispanoamérica: eso es de lo que lo acusa el semanario de Ledesma Ramos: “Por un lado, busca la amistad española para dar que pensar a la pobrecita Francia. Y por otro, quiere asegurar el mercado hispano-americano cultivando bien los agentes más autorizados de la metrópoli hispana” ("Keyserling en España o el comercio alemán de ideas", LA CONQUISTA DEL ESTADO, 14 de marzo de 1931).
 
España era en aquel entonces, como ahora lo es, una tierra donde se decidían en reuniones de sociedad y cultura el peso de las potencias en litigio.
 
Podemos concluir que la Escuela de Sabiduría de Keyserling pudo ser, a la vez que un centro de filosofía, un laboratorio de ideas de cierto pangermanismo de entreguerras que ensayaba estratagemas para lograr alianzas con grandes bloques geopolíticos, como el que constituye la Hispanidad. El triunfo del nacional-socialismo hitleriano supuso la persecución y extinción de muchas organizaciones semejantes a la de Keyserling (recordemos el acoso al que fue sometido por los nazis también el hierofante Rudolf Steiner y su antroposofía). En España, tras la Guerra Civil, la filosofía de Keyserling declinó y su estrella se apagó... Quedó como un borroso recuerdo de los tiempos anteriores a la matanza en que nos vimos envueltos.
 
Tal vez la lección que nos depare el caso de Keyserling se pueda resumir en el interés que todas las potencias mundiales han mostrado en ejercer sobre España su influencia cultural, con la intención de ejercerla a su vez sobre los países hermanos de Hispanoamérica: franceses, ingleses, alemanes, rusos se han dividido las simpatías de los españoles. Algunos españoles, como Valle-Inclán, trabajaron para los Aliados durante la Primera Guerra Mundial, otros españoles hicieron profesión de germanofilia y hasta en medio de los tiros en la Guerra Civil se oían vivas a Rusia. De muy diferente modo, los países que han competido por la hegemonía mundial se las han averiguado para hacernos de su cuerda.
 
¿No será ya hora de crear nuestros propios centros culturales con claro propósito de realizar una gran política hispanista? Sí creo que lo va siendo. Y por simple razón de supervivencia. Espero muy pronto abordar la cuestión.
 
BIBLIOGRAFÍA:
 
Varios libros de Hermann Conde de Keyserling.
 
Varios libros de Eugenio d'Ors.
 
Federico Sciacca, "La filosofía, hoy".
 
Emile Bréhier, "Historia de la Filosofía", vol. 2.
 
Antonio Machado, "Juan de Mairena".
 

 

En la fotogafía: sentados Pío Baroja, Menéndez Pidal, Keyserling; Edith Sironi (mujer de Gecé) y Gecé. De pie; Rafael Alberti, Emilio García Gomez, Sainz Rodriguez, Pedro Salinas, Rivera Pastor, Bergamín, Americo Castro, Antonio Marichalar, Cesar Arconada y Ramiro Ledesma. Del blog: HISPANIARUM

dimanche, 16 novembre 2014

Sobre “Europa y el alma de Oriente”, de Walter Schubart

Sobre “Europa y el alma de Oriente”, de Walter Schubart

WALTER SCHUBART EUROPA Y EL ALMA DE ORIENTE

por Manuel Fernández Espinosa

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

Walter Schubart es uno de esos autores postergados cuya obra resulta, para el público hispanohablante, desconocida. Sin embargo, su libro “Europa y el alma de oriente” mereció la atención de D. Antonio Sancho Nebot, Canónigo Magistral de la Catedral de Palma de Mallorca, que la tradujo al español allá por el año 1946, siendo publicada por Ediciones Stvdivm de Cultura. El canónigo Sancho Nebot era un profundo conocedor de los países del Este, especialmente de la católica Hungría a la que había viajado en 1929 y por ello se le debe a éste eclesiástico que en los seminarios católicos españoles (de los años 40 y 50) se pudiera leer la obra teológica de húngaros como Tihamér Tóth u Ottokár Prohászka. Hombre curioso del mundo eslavo no podía escapársele la obra del filósofo de la cultura alemán Walter Schubart. Todavía resonaban en España aquellos “¡Rusia es culpable!” que proferían entusiasmados los voluntarios de nuestra División Azul, cuando el canónigo Antonio Sancho Nebot traduce la obra de Schubart al español.

Durante la Segunda Guerra Mundial, entre la oficialidad alemana más culta, Walter Schubart había sido leído por hombres como Ernst Jünger. Jünger fue introducido a la lectura de Schubart por su amigo Cramer von Laue, como así queda constancia en los diarios jüngerianos. Cramer von Laue conocía incluso detalles de la vida de Walter Schubart. Schubart había nacido en Turingia el año 1897 y desapareció durante la Segunda Guerra Mundial, pues tuvo la mala fortuna de viajar a Riga, para visitar a su esposa, y estando allí le sorprendió la invasión de los rusos que, habiéndolo detenido, lo deportaron. Según se indica en algunas fuentes parece que fue deportado a un campo de prisioneros de Kazajstán muriendo el 15 de septiembre del año 1942. Jünger consideraba que los libros de Schubart eran “extremadamente significativos ya por el mero hecho de que en ellos se trata la segunda posibilidad de los alemanes, la vinculación al Este”.

412Zb4HR5SL._SY344_BO1,204,203,200_.jpgEl libro que le granjeó una popularidad europea, aunque efímera, fue éste que tradujo el canónigo Antonio Sancho Nebot, “Europa y el alma de oriente” (“Europa und die Seele des Ostens”); sin embargo no omitamos que, como filósofo de la cultura, los intereses intelectuales de Schubart abarcaban un amplio abanico, siendo también notable su ensayo “Religion und Eros” (ensayo publicado en Munich el año 1941).

Schubart escribe en una época en la que todavía resonaban los acentos pesimistas de Oswald Spengler. Spengler no era el único en pronosticar los más funestos destinos para la civilización occidental, con antelación lo habían hecho Paul de Legarde, Julius Langbehn o Eugen Dühring. Y ni siquiera el fenómeno estaba circunscrito a Alemania: en Italia, Gabriele d’Annunzio o Enrico Corradini; en España, Miguel de Unamuno; en Rusia, Dimitri Merezhkovski y Vladimir Soloviev; en Noruega, Knut Hamsun… Señalaban que, en medio del optimismo reinante, la civilización (la occidental, por supuesto) se encontraba en crisis. Oswald Spengler, con su obra “La decadencia de occidente” (publicada entre 1918 y 1923) había sabido ofrecer al vasto público una interpretación con ínfulas filosóficas de ese sentimiento crepuscular, vislumbrando el panorama occidental con los más trágicos acentos inspirados en un delicuescente nietzscheísmo epigonal, sin dejar de invocar a Goethe y marcando una ruta al relativismo cultural. En “La decadencia de occidente” Spengler persuadía a sus lectores del inexorable fin de las culturas que, como seres vivos, nacen, se desarrollan y fenecen.

Aunque casi contemporáneo al pronóstico spengleriano, el pronóstico de Walter Schubart para la civilización occidental arroja muy distintos resultados. Schubart cree que, en efecto, la civilización occidental está en franca decadencia, pero con “civilización occidental” se refiere nuestro autor muy concretamente a un determinado tipo humano: el que él llama “prometeico” (Spengler prefería denominarlo “fáustico”). Este tipo humano ha prevalecido en Europa desde el Renacimiento y el triunfo de la revolución religiosa (la del protestantismo), en paralelo a la revolución científica (con sus aplicaciones técnicas). Schubart distingue cuatro tipos de hombre: 1. El armónico (armonía del mundo). 2. El heroico (dominio del mundo). 3. El ascético (huída del mundo) y 4. El mesiánico (santificación del mundo). En el hombre prometeico se cifra para Schubart la exacerbación del hombre heroico que trata por todos los medios de corregir la creación que, para el hombre armónico, bastaba con contemplar y alabar.

Según piensa Schubart estamos ante las jambas del eón joánico (“joánico” por San Juan). Todo apunta, en opinión de Schubart, a que las puertas de este eón se están abriendo y entonces será cuando el hombre mesiánico suplantará al hombre prometeico. Este hombre mesiánico “siéntese llamado a establecer en la tierra un orden divino superior, cuya imagen lleva, como cubierta con un velo, en sí mismo. Quiere realizar en torno suyo la armonía que siente en el interior”. ¿Pero dónde prevalece este tipo humano? Schubart cree haberlo hallado en Rusia.

“Europa y el alma del oriente” trata de comprender a Europa desde el punto de vista oriental (eslavo, concretamente ruso). Walter Schubart piensa que occidente y oriente son dos mundos que se ven el uno al otro como extraños, puesto que hay unas abismales diferencias de mentalidad y sensibilidad. La formación de occidente se debe al espíritu ordenancista de la Roma imperial y sus herederos, los pueblos germánicos (con su voluntad de poder), mientras que la formación del oriente eslavo se debe a una recepción del cristianismo muy diferente de la que se ha plasmado bajo la égida de Roma: un cristianismo oriental más místico que ordenancista. El excesivo ordenancismo que puede notarse en occidente es síntoma para Schubart de la “mentalidad del miedo” que busca asegurarse, mientras que el desprecio por la previsión legislativa y técnica que se palpa en los países eslavos surge de una “mentalidad de la confianza”, de la confianza en Dios.

Schubart se muestra como un profundo conocedor de la cultura europea occidental y oriental. Escribe dominado por una convicción apasionada en su diagnóstico y en sus predicciones, con ardor de profeta. Schubart no trata la cuestión con desapasionamiento; él ha tomado partido y está expectante por el cumplimiento del destino histórico que otea en el horizonte: el triunfo del hombre mesiánico. Cuando pasa revista a los países europeos occidentales, Schubart se detiene con particular delectación en nuestra España, donde ve todavía la “fortaleza de la reacción” (así la llamaría Ernst Jünger), de la reacción contra-reformista al mundo moderno. Schubart está familiarizado con nuestros pensadores, literatos y artistas de nuestros mejores tiempos: se ve que los conoce y los ha leído de primera mano.

books.pngEn España ve Schubart un país hermano de Rusia, hermanos en su afinidad por el mesianismo, así puede escribir:

“Entre rusos y españoles no existen tan sólo semejanzas sorprendentes en la periferia de la vida, sino coincidencias en el centro del alma [...] Misión de ambos es pregonar la realidad de Dios en el mundo de lo inconsistente. Por esto hubieron de hacer penitencia ante todos los pueblos de la tierra, mediante una múltiple miseria. Cuando quede cancelada la culpa, se levantarán en el nuevo eón a una nueva grandeza y renovarán la fe en la primacía del espíritu sobre el poder, en la primacía del alma sobre la cosa”.

Por desgracia, ha pasado mucho tiempo desde que Schubart escribiera esto sobre España y España parece haber tomado muy otros derroteros, los de la democracia y el liberalismo, renunciado a la misión de “pregonar la realidad de Dios en el mundo de lo inconsistente”. Ya en las últimas décadas del franquismo pudo percibirse esa “modernización” que afectaría gravísimamente a nuestra auto-conciencia nacional.

Pero no perdamos la esperanza. Volvamos nuestros ojos a autores como Walter Schubart que, desde fuera, adivinaron nuestra sustancia. Y, por mal que esté todo, pensemos lo que pensaba aquel torero: “En peores plazas he toreado”.

 

Recomendamos, como complemento en español, este artículo que sobre el libro de Walter Schubart escribió recientemente nuestro amigo Antonio Moreno Ruiz: “Mis lecturas: ‘Europa y el alma de oriente’ de Walter Schubart”

Fuente: Raigambre

mercredi, 12 novembre 2014

El socialismo corporativo y tradicionalista de Oswald Spengler

Oswald-Spengler-Quotes-3.jpg

El socialismo corporativo y

tradicionalista de Oswald

Spengler.

 

Crítica de la

modernidad y de las fantasías

democratistas.

 

Carlos Javier Blanco Martín

Doctor en Filosofía

Ex: http://www.revistalarazonhistorica.com/21-8-1/

Resumen

En este trabajo tratamos de exponer las ideas del filósofo alemán Oswald Spengler sobre el socialismo y la nación, expuestas de manera muy notable en su obra Años de Incertidumbre [Jahre der Entscheidung]. Se vislumbra en este libro una teoría político-social para la Europa del porvenir, y no solo una visión pesimista y fatal, como es costumbre.

Abstract  

In this work we present the ideas of German philosopher Oswald Spengler on socialism and the nation, most notably exposed in his book Hour of Decision [Jahre der Entscheidung]. This book can be seen in the line of a political and social theory for the Europe of the future, and not just like a pessimistic and fatal vision, as is customary.

***

osvald.jpgEn este trabajo tratamos de exponer las ideas del filósofo alemán Oswald Spengler sobre el socialismo y la nación, expuestas de manera muy notable en su obra Años de Incertidumbre [Jahre der Entscheidung]. Spengler es recordado, principalmente, como un notable e inquietante filósofo de la Historia. Su magna obra, La Decadencia de Occidente [Der Untergang des Abendlandes] contiene numerosas claves para enfrentarse al esquema lineal y “progresista” de la Historia. No hay una Historia Universal sino un número determinado de grandes Culturas cuyo ciclo vital acaba en una fase de rigidez, fosilización, vaciado de contenido aun preservado sus formas. Esto ya no recibe el nombre de Cultura sino más bien, el de Civilización. Pues bien, Occidente se encuentra hoy en una fase de Civilización, de decadencia, de pérdida de sus contenidos bajo rígidas formas. Ineluctablemente, las ideologías socialistas, igualitarias, democráticas, forman parte de esa decadencia, frente a una añorada aristocracia que, de manera harto significativa, Spengler cree posible resucitar. Ello ha de ser a través de un socialismo no marxista, vagamente descrito en términos corporativistas, marcado por los principios de la disciplina, el esfuerzo y la voluntad de poderío. Es así que se vislumbra en este libro una teoría político-social para la Europa del porvenir, y no solo una visión pesimista y fatal, como es costumbre.

  1. Crítica de la idea burguesa de Democracia y de sus fantasías.

Quien vive dentro de una época dada y en el seno de una Civilización determinada, difícilmente se ve libre de las palabras-trampa que en algún momento auroral o clásico se acuñan y se extienden más allá de su prístino contexto. Palabras como Democracia, Socialismo, Libertad y Estado, pongamos como ejemplos, son palabras-trampa desde hace mucho tiempo para la inmensa mayor parte de nuestros contemporáneos. A decir verdad, ¿quién podría salirse de la pecera en que vive el hombre europeo, el de occidente, el hombre del siglo XXI que es siglo de la Democracia mediática, siglo de la Técnica. Es un tipo de individuo que fuera de una pecera epocal y cultural se moriría, no podría pensar ni hablar, ni comprender nada.

Por ello, las palabras-trampa suelen emplearse en los debates públicos, las más de las veces, con un sentido dicotómico, maniqueo. Democracia versus Fascismo; Sociedad de Mercado versus Socialismo, Dictadura versus Mundo Libre. Las terceras vías, o los sentidos y matices infinitos que hubo y hay agazapados en cada uno de los polos de la dicotomía se van perdiendo. Se pierden incluso en el público pretendidamente “culto”. El público lector de periódicos, el hombre de la gran ciudad, instruido, “inteligente” (en el sentido spengleriano de la palabra).

Tomemos el caso de la Democracia, por ejemplo. La propia palabra implica un “Poder”, un ejercicio de la autoridad. La crisis de la Democracia es, hoy, una verdadera crisis de la autoridad. Mantienen al “pueblo” en el sueño de que éste es libre de elegir entre una serie de opciones prefabricadas, predeterminadas por grandes organizaciones electorales, financiadas por un entramado de bancos, grupos empresariales y, a veces, gobiernos extranjeros. El “pueblo” al que se quiere dirigir toda esa maquinaria electoral a la caza de sus votos ha sido, en una medida enorme, nivelado y adiestrado para participar en el juego aritmético de votos. Con el advenimiento del poder de la burguesía, bajo la ficción aritmética de “un hombre, un voto”, se ha querido subordinar la Política a la Economía, nivelando aquella y conservando la jerarquización en ésta. Pues en toda sociedad hay jerarquías, como hay autoridad, si es que se vive en un cierto grado de civilización y no en el rudo primitivismo. La jerarquización preburguesa venía dada por parámetros estrictamente políticos que sólo de una manera secundaria eran raciales, profesionales, meritocráticos. Existía un Orden y ese Orden social era toda una pauta de legibilidad. Las actividades económicas no sólo se realizaban, si es que se realizaban de una manera activa, con vistas a huir de la muerte y sostener la vida, sino para mantener el decoro de cada posición, ajustarse al Orden establecido, mantener a los estamentos improductivos, etc. Lo económico era un medio, no un fin y el Orden social se había ido diversificando a lo largo de la Edad Media a partir de las clases sociales originarias: nobleza, clero y campesinado.

El concepto de Pueblo “con Poder” poseía raíces muy antiguas. Puede encontrarse ya, por lo que sabemos, en todos los grupos étnicos indoeuropeos. Diversas formas de Asamblea (Thing), reuniones de hombres armados, senados, etc. , se encuentran entre los celtas, germanos, romanos y griegos arcaicos. Este Poder de un Pueblo no se veía reñido, en modo alguno, con ideas fundantes tales como realeza, aristocracia, sacerdocio regio, división tri-funcional de la sociedad, jerarquía. En los tiempos arcaicos y en los clásicos tenemos un concepto aristocrático de Democracia, cuya versión más conocida es la ateniense. Tan solo con el paso de una comunidad orgánica a una sociedad de índole atomístico y mecánico podemos comprender la transformación radical que ha experimentado el concepto de Democracia, que es la que media entre el mundo antiguo y medieval, de una parte y el mundo moderno, de la otra. El mundo moderno es el mundo burgués. Los individuos y no las comunidades orgánicas son los elementos únicos y a priori de una sociedad: esta sociedad, en rigor, se autoconstituye como un Mercado y el lazo jurídico que une a individuos distintos, como átomos separados en un medio vacío, es la forma que envuelve un contenido material: compra-venta, intercambio económico de bienes y servicios. Pero esta forma “social” o más bien económica encubre, como enseñó Marx, un contenido basado en la explotación de unos individuos sobre otros.

Hablamos aquí, pues, de una Democracia basada en la Comunidad Orgánica, contrapuesta y a mil años-luz de la Democracia formal basada en la Sociedad Mecánica, basada nada más que en unos lazos formales, jurídicos, que expresan una dinámica económica que recubre la explotación. La Democracia de una Comunidad Orgánica, un Pueblo, hunde sus raíces muy al fondo, en el inconsciente colectivo y en la larga historia de los pueblos europeos, tanto los celtogermánicos como los grecorromanos. En estos pueblos antiguos, antes de sus deformaciones oligárquicas, cesaristas, el principio aristocrático y el principio meritocrático no se enfrentaban, como hoy se nos enfrentan. En la etapa en que se encontraban “en forma”, es decir, con una perfecta acomodación de sus formas, de sus disposiciones para la supervivencia ante el enemigo exterior y para crear y canalizar la agresividad ante los peligros interiores, había medios para que los individuos mejor dotados ejercieran bellamente –y no solo eficazmente- sus capacidades de índole física tanto como mental. En una Comunidad Orgánica la vida es “total” en un sentido muy otro del que hoy conocemos como el nombre de “estados totalitarios”. Para un liberal de nuestro tiempo, la polis griega hubiera debido parecerle un totalitarismo insoportable, mas para el griego perfectamente integrado en ella, ese sentido moderno de “individuo” que a regañadientes paga impuestos o sirve rezongando al Estado con las armas, cuando se le requiere, no tendría otro nombre: traición. Es tan inconmensurable el sentido orgánico de Comunidad, que parte de una diferenciación de los individuos según funciones estrictamente separadas (vide La República, de Platón), con la moderna democracia aritmética y mecánica-formal, que el empleo de un mismo término parece un completo abuso.

Repetimos: Democracia supone un “Pueblo” y supone “Cracia”, esto es, Poder o Autoridad. En la democracia formal actual interesa al Poder realmente constituido la existencia de una masa homogénea. Se trata de un Poder financiero y de corporaciones transnacionales, poderes heterónomos que exigen que por debajo exista una completa nivelación, como es la propia de los sistemas sociales fundados en el capitalismo. La regulación de lo social y de lo político por medio de los criterios del mercado y la obtención de plusvalía no pude significar más que la decadencia y dejadez de lo social y lo político. La Comunidad ha de plegarse y recortarse a las necesidades de la Economía, y de forma anómala en la Historia, en Occidente, como en ninguna otra civilización, no es la Economía un órgano subordinado a la Comunidad, sino el regulador de ésta, hasta el punto de metamorfosearla, destruirla, disgregarla en un agregado de átomos. Pero en realidad cada átomo por separado es casi nada, es un ente desprovisto de alma y de poder. Solamente la agregación aritmética de millones de átomos previamente dirigidos, adiestrados, manipulados –a veces hasta la violencia- es la que da “justificación” al Poder, un Poder previamente arrogado, impuesto, que siempre apuesta al caballo ganador, porque los caballos por los que se puede apostar con cierto realismo ante las urnas son todos suyos.

La desaparición de las libertades concretas está en la base de la proclamación cacareada de una Libertad Universal y Formal. A partir de la premisa de que todo individuo-átomo puede elegir partido en calidad de elector, y de que su voto –como unidad numérica- vale tanto como el de un banquero, se pretende alzar el edificio de una Democracia basada en agregaciones de microdecisiones, al tiempo que se obturan todos los caminos para ejercer una libertad material en los demás órdenes de la vida. En la Democracia Formal se ven proscritos los instintos de aventura, de conquista, de inventiva, de riesgo. El liberalismo moderno conserva tales términos como valores supremos pero circunscritos de manera rígida al ámbito empresarial. Como quiera que una filosofía haga suyos estos valores al margen del economicismo, inmediatamente será tachada con los peores epítetos de nuestro tiempo: fascista, belicista, etc. El sistema capitalista moderno desea que, al margen de la actividad empresarial lucrativa, la “iniciativa” desaparezca de los individuos. Otras instancias han de ser las que posean el “derecho” (más bien el privilegio) de la iniciativa: el Estado, las empresas, diversas fundaciones y organizaciones filantrópicas, etc.

Además, debe tenerse presente un dato fundamental: el Estado ha ido perdiendo su soberanía en el terreno de las grandes decisiones económicas, y se ve reducido a un papel de mero administrador y ejecutor de decisiones tomadas desde fuera, desde un medio de poderes financieros extra-estatales y supra-estatales. Con esta internacionalización de la Economía y la rebaja de soberanía de los estados, éstos han ido ganando terreno en el ámbito de la justificación. A medida que son menos “intensos” en el ejercicio efectivo del Poder, los estados han devenido más extensos en los ámbitos de su administración. A menos Poder efectivo más necesidad de legitimación.

Todavía en 1868, en España, un país retrasado e imperfecto en su proceso de construcción del Estado-nación, podía reconocerse el minimum que un Reino podía hacer para inventarse un Estado nacional: enseñanza reglada y servicio militar, ambos obligatorios, bandera, himno, edificios públicos, historiadores oficialistas y demás intelectuales creadores de mitos colectivos, estatuas de héroes y demás monumentos públicos. Madrid se puso, muy tardíamente, a construir todo esto, con una torpeza e ineficiencia que llega hasta hoy, y que se hace más patente en el Norte de la península, donde el mito de la españolidad unitaria es menos potente. Los liberales decimonónicos poseían una visión muy elemental y ruda de lo que era el estado: el control de los cuarteles militares y de las escuelas, una burguesía que acumulara el capital y se concentrara cerca de la Corte, etc.

osvder_mensch.jpgPor el contrario, el Estado de perfil postindustrial en toda Europa no ha hecho más que engordar y extenderse. Está ávido por “detectar problemas sociales” y con afán legitimador se inmiscuye en la esfera privada, hasta unos niveles orwellianos. Si un niño no va a la escuela, si un padre le da un bofetón a su hijo, si a un extranjero le miran con desconsideración en una cola de un ayuntamiento, si hay una riña en el seno de una pareja, si en un foro de Internet alguien ofende o se va de la lengua… en todos estos casos que, no ha mucho, se consideraban propios de la esfera privada, ahora son competencia del estado y, de no entrometerse, corre el riesgo este estado de ser acusado de “dejación”. Por todas partes el estado anda a la caza de “injusticias”. Esta actitud, desde luego, no tiene ya nada de liberal, y menos aún de socialista. Un Estado providencia y un Estado paternal y omnisciente como tan solo podía serlo el Dios judío… es un Dios en la Tierra, un ente paternal pero al que nada se le escapa: un gran Ojo.

Pero, a la vez… ¿quién pone su fe realmente en este tipo de estado? ¿Quién, de entre los ciudadanos suyos, va a gastar sus energías en reverencias, en veneración, en sentimientos patrióticos, situándose frente a un estado-máquina del que ha desaparecido todo carisma, todo proyecto, todo destino. El Estado europeo –mucho menos el español, fallido en tantos aspectos- ya no “ilusiona”, ya no “despierta fervor”. A las masas se les ha inyectado el mensaje del fin de la Historia: se les hace creer que no existen enemigos externos, cuando en realidad Europa reposa sobre varios polvorines, y sus muros son osmóticos, porosos, diariamente franqueados por extranjeros que, una vez que ponen pies en la fortaleza pueden tranquilamente decir, sin más que invocar su condición humana: ¡esta tierra es mía! El Estado del siglo XXI pretende ser un Estado pacificado, una neutralización permanente y universal del conflicto.

Sin embargo hay conflictos. El mundo es así, no hay quien lo cambie. Heráclito, en los albores mismos de la filosofía, supo verlo. Ante cualquier estado de las cosas surge al momento la antítesis, una contra-realidad que se le enfrenta. El Estado, al alzarse como el “gran pacificador”, se torna totalitario bajo el pretexto de hacerle la guerra al totalitarismo;  y la misma Comunidad Internacional deviene totalitaria y excluyente al someterse a un Orden Mundial hegemónico donde toda guerra particular queda –en el instante- cifrada como Guerra Mundial, guerra del Estado delincuente contra la Humanidad.

El horror al conflicto agrava los conflictos, los totaliza. El deseo compulsivo del Estado es hacer de sus masas ciudadanas unas verdaderas hordas consumistas, que no presenten resistencia a nada “al margen de los canales adecuados” que, como siempre, acaban siendo las urnas y las protestas inocuas, donde –en situación ideal para la Democracia Formal- “no se va contra nadie ni contra nada- y más bien lo que se hace es “manifestarse”. El estado de perpetuo no-conflicto se lleva a efecto con este estilo “expresivo” de entender la política, que es la simple pose, la actitud impotente de quien dice “me gusta” o “no me gusta”. En realidad, es una transposición de la utopía de los consumidores libres y satisfechos, que entienden la sociedad como un mercado de bienes entre los que puede optar. Pues bien, así también el “rebelde” de nuestro tiempo puede optar entre una pose y otra, pero nunca llegar a la dialéctica de los “puños y pistolas”. Eso no, eso nunca. La lucha de clases de que hablaba el marxismo, la política de barricadas y de huelgas generales pretende ser “historia”, y hay quien se cree revolucionario en nuestros días firmando manifiestos por Internet. Nunca estuvo tan bien visto parecer “revolucionario” y hasta cierta derecha conservadora ha adoptado eslóganes que parecen sacados del Museo del Mayo de 1968, entre momias melenudas y barbudas: “¡Rebélate!” “¡Hazles frente!”. En realidad quienes hablan así, saborean el café ante el teclado del ordenador o ante la pantalla de televisión. En este lado del mundo nadie arriesga nada, y todos juegan. Se sabe, vagamente, que algunos negritos de continentes perdidos montan para nosotros el móvil o tejen la ropa que, a precios económicos, llevamos encima. Pero las samaritanas y las monjitas también pueden tener sus lados oscuros, nos dicen, y de conocerlas también se encargan los mass media, que distribuyen multitud de mensajes, entre los cuales la excesiva caridad también “ha de discurrir por sus cauces”. 

El heroísmo, buscar el destino y seguirlo trágicamente hasta el final, vivir la vida al margen de la mentalidad burguesa, comercial, eso es hoy lo criminal. En el contexto de un Estado sin destino, dentro del cual no se reconoce un Pueblo, sino una masa nivelada de gentes de diverso origen y pelaje, quien hable en nombre del Pueblo –real o inventado, da igual- es ipso facto entendido como un criminal. Máxime si, como sucede en los tiempos modernos, el Estado reclama para sí el monopolio de la violencia. Cualquier banda armada, antes de iniciar sus acciones, ya es punible por el mero hecho de llevar consigo el armamento. La autodefensa de los particulares, de los grupos vecinales, de los pueblos y de las etnias, todo ello queda proscrito.

En una Europa entendida como “nación de naciones”, la homogeneidad de cada uno de sus pueblos constituyentes, así como la distinta pureza de sus rasgos diferenciados, son fenómenos que han se mantenido de manera vigorosa hasta la Revolución Industrial. Justamente esta agresión fatal del “espíritu de ciudad” sobre el “alma del campo”, se detecta el cambio de papel de los Estados: su función de garantes de la burguesía y del ansia de acumulación de Capital no hizo más que exterminar cualquier realidad que se le pusiera por delante. Era necesario laminar toda Comunidad Orgánica (por ejemplo, la Comunidad Campesina), en el campo tanto como la vida gremial y corporativa en la ciudad. Era preciso reconocer individuos y solo individuos y, ante ellos se alzará la empresa capitalista, el agente creado exclusivamente para la obtención de plusvalía por medio de la explotación del trabajador, arrasando, de paso, todo paisaje, todo equilibrio natural, toda tradición, toda moral.

En la fase tan avanzada del capitalismo en que ahora vivimos, parece que se renuevan los “instintos” de las etnias y las agrupaciones no economicistas. Las monjitas del progresismo, da igual si de signo liberal o socialdemócrata, se asustaron con ello y dirigieron a sus plegarias a las “Instituciones” que veneraban. Al estallar la desmembración de Yugoslavia y al regresar con fuerza el principio identitario, después de dos siglos de oscurecimiento jacobino, estas mismas criaturas se tuvieron que enterar de la impotencia, la pasividad o la perversidad de toda la OTAN, de toda la Unión Europea, de toda la ONU, y demás nidos de burócratas y parásitos. Los pueblos y las bandas agarraron las armas y se masacraron entre sí, en fechas no tan lejanas de aquel 1945 en el que, derrotado el Reich, se había gritado “¡Nunca más!”.

2. El nacionalismo de Oswald Spengler

Con estas palabras podemos dejar que el propio filósofo germano exprese su idea de nación:

``Con el siglo XIX, las potencias pasan de la forma del Estado dinástico a la del Estado nacional. Pero ¿qué significa esto? Naciones, esto es, pueblos de cultura, había ya desde mucho tiempo atrás. En gneral, coincidían también con el área de poderío de las grandes dinastías. Estas naciones eran ideas en en el dentido en que Goethe habla de la idea de su existencia: la forma interior de una vida importante que, inconsciente e inadvertidamente, se realiza en cada hecho y en cada palabra. Pero „la nation“ en el sentido de 1789 era un ideal racionalista y romántico, una imagen optativa de tendencia manifiestamente política, por no decir social. Esto no puede ya nadie distinguirlo en esta época obtusa. Un ideal es un resultado de la reflexión, un concepto o una tesis, que ja de ser formulado para „tener“ el ideal. A consecuencia de ello, se convierte al poco tiempo en una frase hecha que se emplea sin darle ya contenido mental alguno. En cambio, las ideas son sin palabras. Rara vez, o nunca, emergen en la conciencia de sus sustratos y apenas pueden ser aprehendidas por todos en palabras. Tienen que ser sentidas en la imagen del suceder y descritas en sus realizaciones. No se dejan definir. No tienen nada que ver con deseos ni con fines. Son el oscuro impulso que adquiere forma en una vida y tiende, a manera de destino, allende la vida individual, hacia una dirección: la idea del romanticismo, la idea de las Cruzadas, la idea faústica de la aspiración al infinito“ [1][i].

„Mit dem 19. Jahrhundert gehen die Mächte aus der Form des dynastischen Staates in die des Nationalstaates über. Aber was heißt das? Nationen, das heißt Kulturvölker, gab es natürlich längst. Im großen und ganzen deckten sie sich auch mit den Machtgebieten der großen Dynastien. Diese Nationen waren Ideen, in dem Sinne wie Goethe von der Idee seines Daseins spricht: die innere Form eines bedeutenden Lebens, die unbewußt und unvermerkt sich in jeder. Tat, in jedem Wort verwirklicht. »La nation« im Sinne von 1789 war aber ein rationalistisches und romantisches Ideal, ein Wunschbild von ausdrücklich politischer, um nicht zu sagen sozialer Tendenz. Das kann in dieser flachen Zeit niemand mehr unterscheiden. Ein Ideal ist ein Ergebnis des Nachdenkens, ein Begriff oder Satz, der formuliert sein muß, um das Ideal zu »haben«. Infolgedessen wird es nach kurzer Zeit zum Schlagwort, das man gebraucht, ohne sich noch etwas dabei zu denken. Ideen dagegen sind wortlos. Sie kommen ihren Trägern selten oder gar nicht zum Bewußtsein und sind auch von anderen kaum in Worte zu fassen. Sie müssen im Bilde des Geschehens gefühlt, in ihren Verwirklichungen beschrieben werden. Definieren lassen sie sich nicht. Mit Wünschen oder Zwecken haben sie nichts zu tun. Sie sind der dunkle Drang, der in einem Leben Gestalt gewinnt und über das einzelne Leben hinaus schicksalhaft in eine Richtung strebt: die Idee des Römertums, die Idee der Kreuzzüge, die faustische Idee des Strebens ins Unendliche.“ [1][ii]

Las naciones son „pueblos culturales“ [Nationen, das heißt Kulturvölker]. Hunden sus raíces en los tiempos oscuros de la barbarie, pero en la Edad Media, como ideas que son de distintas formas vitales. En Europa las naciones adquieren forma en el medievo por medio de las grandes dinastías. Una idea, en la Historia, es un impulso o fuerza directiva que no admite una expresión con palabras [Ideen dagegen sind wortlos]. Las verdaderas naciones –en el sentido europeo- son ideas y no ideales. Arrojan una sucesión de realizaciones (Verwirklichungen). Las creaciones y logros efectivamente llevados a cabo son las únicas cosasque admiten descripción, mas las ideas por sí mismas –según Spengler- son inaprensibles por medio del lenguaje y de los razonamientos. Se opone aquí el razonamiento discursivo a la intuición. La nación se vive, se intuye. Es una idea de una forma viviente, no un ideal. Pero a partir de la Modernidad y, especialmente, a partir de la Revolución Francesa, la idea se confunde con el ideal. Aquellos que construyen discursos razonados en pro de un ideal, una utopía, un deseo al que la inteligencia deba encaminarse, se mueven en la órbita del puro racionalismo. Sus ideales siempre muestran el cariz artificioso y falso de una mera construcción. Sus acciones son medios para un fin racionalmente concebido.

La nación de ciudadanos, que son ciudadanos precisamente a partir de la ley, la Constitución o el Pacto social originario, es nación artificiosa, es una suerte de polis agrandada. La nación verdadera brota del Pueblo y fue moldeada por sus nobles y príncipes y ante todo, según Spengler, es impulso (Drang). Muchos nacionalismos, muchos ideales soberanistas son hoy un simple resultado de razonamientos y de discursos artificiosos. El Democratismo propala la idea del derecho a decidir. Basta con que un colectivo de personas, abstractamente separado de los demás por criterios a menudo peregrinos, decida en votación subitánea constituírse en Nación para acceder a un Estado. A esto lo llaman hoy derecho de autodeterminación, derecho a decidir. Pero observando la Historia de Europa a más largo plazo, y sin dejarse embaucar por los prejuicidos del Racionalismo y del Romanticismo, la nación es Impulso e Idea (ambos inexpresables) y no la conclusión de silogismos o el resultado de distingos intelectuales.

El nacionalismo de los racionalistas y románticos es obra de un grupo reducido de intelectuales que suelen hablar en nombre del Pueblo, pero en realidad ese sustrato popular al que apelan no suele hablar el mismo lenguaje que las élites. El pueblo no se expresa por medio de conceptos sofisticados y discursos racionales. El pueblo da la espalda a los intelectuales que pretenden dirigirle como si fueran pastores hacia un ideal si este ideal se contrapone a la idea de la que ellos son sustancia. Idea e ideal se contraponen, y si no existe coincidencia entonces el pueblo no llega a contar con Estado propio, esto es, con un aparato que garantice la cohesión y la fuerza hacia afuera. Sobre el Estado escribe Spengler: 

``Los Estados son unidades puramente políticas, unidades del poder que actúa hacia afuera. No están ligados a unidades de raza, idioma o religión, sino por encima de ellas. Cuando coinciden o pugnan con tales unidades, su fuerza se hace menor a consecuencia de la contradicción interna, nunca mayor. La política exterior existe tan sólo para asegurar la fuerza y la unidad de la exterior. Allí donde persigue fines distintos, particulares, comienza la decadencia, el ``perder forma´´ del Estado.“ [1][iii]

„Staaten sind rein politische Einheiten, Einheiten der nach außen wirkenden Macht. Sie sind nicht an Einheiten der Rasse, Sprache oder Religion gebunden, sondern sie stehen darüber. Wenn sie sich mit solchen Einheiten decken oder kreuzen, so wird ihre Kraft infolge des inneren Widerspruches in der Regel geringer, nie größer. Die innere Politik ist nur dazu da, um die Kraft und Einheit der äußeren zu sichern. Wo sie andere, eigene Ziele verfolgt, beginnt der Verfall, das Außer-Form-Geraten des Staates.“[1][iv]

La Decadencia(Verfall) se inicia, pues, con la contraposición entre fines distintos, que llegan a hacerse incompatibles entre sí. Toda la teoria marxiana de la Lucha de Clases podría releerse como teoría de la decadencia de una civilización. La unidad de lucha ante el exterior –que es el Estado- se transforma en una una superficie cuarteada, pues las clases economicistas persiguen fines incompatibles. El desenvolvimiento del Capitalismo es también el nacimiento de unos ideales fantásticos –las clases internacionalistas- que se olvidan del Estado, lo liquidan, lo manejan a su antojo, como instrumento para ahogar y vencer a la clase enemiga, como medio de explotación, como aparato de represión, o como ídolo al que derribar. Anarquismo e instrumentalismo coinciden epocalmente. No están solos los anarquistas en el vilipendio y enemiga contra el estado. Los liberales y los socialistas parten de la doctrina del estado civil como mal menor, como instrumento a duras penas soportable y tolerado siempre que pueda ser prostituído con algún concreto fin: la fraternidad universal, el perfecto mercado autorregulado o lo que sea. Socialismo, comunismo y liberalismo son ideologías que encuentran una contradicción (Widerspruch) entre el Estado original y genuino –creado hacia fuera, frente a un enemigo exterior- y el espíritu industrial (Spencer) pacífico, cansado, que desea ante todo un descanso en el trabajo, un orden público para producir más y mejor.

Los periodos de paz un tanto prolongados crean la ilusión de que se puede vivir sin defensa, sin armas, sin dominio y contradominio. Pero la política es la política de la paz y la política de la guerra, y ambos estados se sitúan en un contínuo. Los estados oscilan entre acciones bélicas y acciones pacíficas. Hay guerras que avocan a una paz, y hay tratados de paz que avocan a la guerra. En toda relación entre estados hay –en cada momento- vencedores y vencidos, y los puntos de equilibrio son pasajeros, son idealizaciones temporales, imágenes posibles desde el punto de vista mental, pero cuya realización histórico-física no puede durar más allá de un instante, a la manera como se podría fotografíar un cono apoyado sobre su vértice en la horizontal del suelo justo antes de caerse.

``La historia humana en la edad de las culturas superiores es la historia de los poderes políticos. La forma de esta historia es la guerra. También la paz forma parte de ella. Es la continuación de la guerra con otros medios: la tentativa, por parte de los vencidos, de libertarse de las consecuencias de la guerra en forma de tratados y la tentativa de mantenerlos por parte del vencedor. Un estado es el „estar en forma“ (...) de una unidad nacional por él constituída y representada para guerras reales y posibles. Cuando esta forma es muy vigorosa, posee ya, como tal, el valor de una guerra victoriosa ganada sin armas, sólo por el peso del poder disponible. Cuando es débil, eqivale a una derrota constante en las relaciones con otras potencias.“ [1][v]

„Menschliche Geschichte im Zeitalter der hohen Kulturen ist die Geschichte politischer Mächte. Die Form dieser Geschichte ist der Krieg. Auch der Friede gehört dazu. Er ist die Fortsetzung des Krieges mit andern Mitteln: der Versuch des Besiegten, die Folgen des Krieges in der Form von Verträgen abzuschütteln, der Versuch des Siegers, sie festzuhalten. Ein Staat ist das »In Form sein« einer durch ihn gebildeten und dargestellten Menschliche Geschichte im Zeitalter der hohen Kulturen ist die Geschichte politischer Mächte. Die Form dieser Geschichte ist der Krieg. Auch der Friede gehört dazu. Er ist die Fortsetzung des Krieges mit andern Mitteln: der Versuch des Besiegten, die Folgen des Krieges in der Form von Verträgen abzuschütteln, der Versuch des Siegers, sie festzuhalten. Ein Staat ist das »In Form sein« einer durch ihn gebildeten und dargestellten völkischen Einheit für wirkliche und mögliche Kriege. Ist diese Form sehr stark, so besitzt sie als solche schon den Wert eines siegreichen Krieges, der ohne Waffen, nur durch das Gewicht der verfügungsbereiten Macht gewonnen wird. Ist sie schwach, so kommt sie einer beständigen Niederlage in den Beziehungen zu anderen Mächten gleich.“ [1][vi]

osvpreussentum.jpgEl Estado como „unidad de pueblos“ [völkischen Einheit] en forma –en el sentido deportivo- constituye ya, en cierto modo, una guerra ganada. Las fuerzas interiores se hayan dispuestas para la guerra victoriosa, guerra que ni siquiera llega a estallar con armas, pues es una autoridad de peso (Gewicht) la que se impone a las otras potencias. En numerosas ocasiones históricas, el pacifismo se convierte en la religión de los cansados y de los débiles. Muchas veces es, también, el intento de una potencia antaño vencedora, por imponer el status quo a los vencidos o a los postergados, y extenderlo idealmente hasta el infinito sin contestación y sin enemigos en el horizonte se hace pasar por pacifismo. Así sucede con Occidente. En un principio, su pacifismo fue el de las potencias aliadas y vencedoras sobre Alemania en las dos Guerras Mundiales. Pacifismo fue imponer el tratado de Versalles. Pacifismo también fue, en la segunda contienda, imponer la repartición del mundo en dos grandes bloques e instaurar la guerra fría. Ahora que esos dos bloques, capitalista y comunista, se han diluído y se vuelve a la política multilateral de potencias y al equilibrio entre ellas, el pacifismo es la ideología –quizá- de la masa cansada, del hombre inteligente de las grandes ciudades cosmopolitas donde se mueve de arriba a abajo un inmenso proletariado y, aún más numerosa, una gran masa de subproletarios subvencionados, mantenidos por servicios sociales y ayudas públicas. Acostumbrados, todo lo más, a la jerga de la lucha de clases pero no a la jerga de lucha de naciones, ese proletariado y subproletariado cosmopolita creciente sólo puede entender el mundo en el plano horizontal de quienes son como ellos, ajenos a lo que Spengler considera „la llamada de la sangre“. Esta masa urbana desarraigada de la tierra y de sus manantiales sanguíneos, que quedan muy remotos, es siempre antinacionalista. En el caso de abrazar una ideología nacionalista ésta no se vive ni se siente como idea, en el sentido explicitado más arriba, sino como ideal.

El Estado del pueblo persigue siempre, hacia el interior, una Economía Productiva, que le haga sólido, fuerte y capaz de una Acción Exterior: asegurarse un espacio entre enemigos. Por el contrario, el Estado plutocrático fomenta las tendencias anarquizantes en la medida en que el afán particularista de ganancia sea satisfecho, y para ello la manipulación de las grandes masas urbanas, proletarias y subproletarias, se hace esencial. No importa nada que los funcionarios, los pequeños productores, los campesinos, etc., sean los que realmente sostengan la estructura gigante: al Estado plutocrático le conviene difuminar la realidad de que son éstos sectores los que realmente hacen que se paguen las cuentas que los especuladores financieros no quieren, por principio, pagar. El complemento necesario de los saqueadores de las finanzas que se han adueñado del Estado, hasta el punto de arrebatarle toda soberanía, es el endiosamiento de un supuesto proletariado sindicalizado y mimado por mil y una ventajas, entre las que se cuentan los liberados sindicales, la invención de puestos de trabajo ad hoc, subvenciones y prebendas no basadas en el mérito sino en la fidelidad partidista o sindical, etc. En realidad el contingente de trabajadores reales que viven al margen de este clientelismo partidista o sindical no conoce ninguna de estas ventajas del proletariado ficticio. Viven en condiciones de explotación que naide cacarea públicamente y apenas se reconocen en la forma de vida y pensamiento de aquellos que dicen ser sus defensores. En realidad, los más ardientes defensores de los valores „progresistas“ (una vez que el socialismo o el comunismo, como ideologías previas a la Guerra Fría se han eclipsado) son irreconocibles en Europa, no son obreros en sentido estricto: son hijos de la clase media, profesionales liberales, „intelectuales“, productos de la gran ciudad desarraigada que buscan en el trabajador un molde en el que llenar en realidad sus tendencias anarquizantes. En ningún momento desearían organizar un Estado fuerte, militarizado, compacto, como en su día lo protendío la URSS. El Estado en manos de plutócratas fomenta sus tendencias anarquizantes pues así no hay apenas un Pueblo que presente resistencia a su saqueo constante, a su explotación:

„Esta alianza entre la Bolsa y el sindicato subsiste hoy como entonces. Está basada en la evolución natural de tales épocas, porque surge del odio común contra la autoridad del Estado y contra los directores de la economía productora, que se oponen a la tendencia anarquista a ganar dinero sin esfuerzo“ [1][vii].

Dieses Bündnis zwischen Börse und Gewerkschaft besteht heute wie damals. Es liegt in der natürlichen Entwicklung solcher Zeiten begründet, weil es dem gemeinsamen Haß gegen staatliche Autorität und gegen die Führer der produktiven Wirtschaft entspringt, welche der anarchischen Tendenz auf Gelderwerb ohne Anstrengung im Wege stehen. [1][viii]

Si analizamos el comportamiento de las fuerzas gobernantes en Europa, y muy señaladamente en España, vemos que –pese a los discursos- la tendencia ha sido siempre desmantelar todos aquellos núcleos de economía productiva [produktiven Wirtschaft]. El capital especulativo no tolera la existencia de una sociedad civil independiente de sus manejos, como puede ser la sociedad rural. Allí donde millones de personas –de manera esforzada y austera- viven del cultivo de sus propias tierras y del cuidado de sus ganaderías, con un sentido ancestral de la propiedad, que no es el sentido „romano“ o absolutista de propiedad, el capital especulativo –con la mirada complaciente de las grandes centrales sindicales obreras- entra arrasando, ávido de esclavizar y proletarizar esas masas de población hasta ayer libres. El abandono generalizado del campo español, y muy especialmente la muerte demográfica del Noroeste de la Península Iberica guarda un relación íntima con esta alianza entre la Bolsa y el Sindicato. A la masa, desde hace décadas, se le inculca la falsa –pero interesada- idea de que se puede vivir sin trabajar, que es posible una vida muelle llena de lujos y comodidades en todo punto incompatible con la tradicional existencia en el campo, llena de abnegación y esfuerzo, pero también de amor hacia la tierra, hacia el caserío, hacia la familia y hacia todo cuanto se obra.

3. El Democratismo y su guerra contra la Tradición.

El democratismo es inherente a una sociedad de comunicación de masas, donde existen aparatos de propaganda y la posibilidad urbana de que puedan ser alzados líderes y portavoces del „pueblo“, entendida la palabra „pueblo“ en el sentido de los revolucionarios desde 1789: los „ciudadanos“ que concentrándose en las calles, con urnas o con guillotinas, dicen ser „nación“. Mas ya hemos visto arriba que hay un sentido previo y mucho más viejo de nación. Todavía hoy, en aquellas regiones de Europa donde sigue con vida un cierto despojo de la tradición campesina, contrasta vivamente a quien lo quiera ver el sentido de la sangre y de la tierra que posee el „paisano“ frente al „ciudadano“. Al paisano, al hijo de la propia tierra, le resultarán siempre extrañas las consignas de los líderes de masas, los jeroglíficos ideológicos que le hablan de „lucha de clases“, „proletariado universal“, „soberanía popular“, etc. Solamente sucumbe a tales consignas cuando se desarraiga, emigra a la ciudad, pierde sus raices y pisa el asfalto nivelador que cubre la verde pradera. Todos entonces, como proletarios, se sienten nivelados como proletarios y desean „gobernarse por sí mismos“. En el caso de surgir un nacionalismo con apoyo proletario, éste ha de consistir en un nacionalismo donde ha operado una sustitución del pueblo por la masa-

 „El nacionalismo moderno sustituye el pueblo por la masa. Es revolucionario y urbano de parte a parte“[1][ix] .

„Der moderne Nationalismus ersetzt das Volk durch die Masse. Er ist revolutionär und städtisch durch und durch.“.[1][x]

osvjahre.jpgEn la sociedad de masas los líderes invocan al Pueblo, y a la masa que está dejando de ser Pueblo se le intenta convencer del derecho a gobernarse por sí misma. En realidad hay ya toda una casta de „representantes del pueblo“ que viven a costa de él, casta parasitaria y hostil al trabajo, la cúpula de los políticos profesionales y aun de los revolucionarios profesionales. Se sirven del pueblo, y lo azuzan sirviéndose de los elementos más manipulables y agresivos de la chusma para conducir al rebaño. La oclocracia es el complemento perfecto para los especuladores de la Bolsa, para los depredadores financieros. Hace falta una sociedad desorganizada y cada vez más dependiente, para que los empleados al servicio del capital agiten y conduzcan a las masas. Los partidos de masas se vuelven máquinas engrasadas y sostenidas por bancos y empresas particulares, detrás de cada pancarta seguida por millones, hay millones de dólares o de euros. Incluso los que dicen ser „anticapitalistas“ y convocan –puntualmente- a millones de seguidores, son con frecuencia unos mercenarios que han conseguido auparse haciendo la labor del carnicero: despiezar el cuerpo social para que tan suculento alimento llene las bolsas insaciables del Capital.

„Lo más funesto es el ideal del gobierno del pueblo „por sí mismo“. Un pueblo no puede gobernarse a sí mismo, como tampoco mandarse a sí mismo un ejército. Tiene que ser gobernado, y así lo quiere también mientras posee instintos sanos. Pero lo que con ello se quiere decir es cosa muy distinta: el concepto de representación popular desempeña inmediatamente el papel principal en cada uno de tales movimientos. Llegan gentes que se nombran a sí mismas „representantes“ del pueblo y se recomiendan como tales. Pero no quieren „sevir al pueblo“; lo que quieren es servirse del pueblo para fines propios, más o menos sucios, entre los cuales la satisfacción de la vanidad es el más inocente“. [1][xi]

Am verhängnisvollsten ist das Ideal der Regierung des Volkes »durch sich selbst«. Aber ein Volk kann sich nicht selbst regieren, so wenig eine Armee sich selber führen kann. Es muß regiert werden und es will das auch, solange es gesunde Instinkte besitzt. Aber es ist etwas ganz anderes gemeint: der Begriff der Volksvertretung spielt in jeder solchen Bewegung sofort die erste Rolle. Da kommen die Leute, die sich selbst zu »Vertretern« des Volkes ernennen und als solche empfehlen. Sie wollen gar nicht »dem Volke dienen«; sich des Volkes bedienen wollen sie, zu eigenen, mehr oder weniger schmutzigen Zwecken, unter denen die Befriedigung der Eitelkeit der harmloseste ist“. [1][xii]

Encontramos en estas líneas una crítica implacable al concepto de Democracia. En realidad, siempre se trata de una manipulación por parte de las masas. Y ¿quién manipula? Esas „gentes que llegan“ arrogándose la representación del Todo, sea cual sea su orígen. Esas gentes mercenarias, que luchan contra la Tradición en cuanto ésta es una forma de Cultura. El afán por presentar la Tradición como una losa represiva y un grillete a la libertad es la tónica común en estos lídes oclocráticos. Nunca se quiere ver en la Tradición la musculatura y la médula de una Cultura aún digna y viva, un poso de antiguas libertades conquistadas. Se propaga el principio fanático de erosionar la Autoridad donde quiera y cuando quiera: los niños que empiezan tuteando al maestro y terminan por insultarle y agredirle, la chanza periodística hacia los sacerdotes que culmina en la quema de iglesias con ellos dentro, la sorna del intelectual dirigida contra el matrimonio unido, con vocación de teenr hijos que acaba convirtiéndose en destrucción y sustitución étnicas y en degradación de la infancia...Los líderes oclocráticos potencian las tendencias anarquizantes y aun diríamos la tendencia entrópica de las sociedades. El nihilismo es inherente a sus prédicas. Destruir y aniquilar lo forjado durante siglos, y presentar todo el proceso disolutorio como proceso emancipador. 

„Combaten a los poderes de la tradición para ocupar su lugar. Combaten el orden del Estado porque impide su peculiar actividad. Combaten toda clase de autoridad porque ni quieren ser responsables ante nadie y eluden por sí mismos toda responsabilidad. Ninguna constitución contiene una instancia ante la cual tengan que justificarse los partidos. Combaten, sobre todo, la forma de cultura del Estado, lentamente crecida y madurada, porque no la entrañan en sí, como la buena sociedad, la society del siglo XVIII, y la sienten, por lo tanto, como una coerción, lo cual no es para el hombre de cultura. De este modo nace la „democracia“ del siglo, que no es forma sino ausencia de forma en todo sentido, como principio, y nacen el parlamentarismo como anarquía constitucional y la república como negación de toda clase de autoridad“ [1][xiii].

„Sie bekämpfen die Mächte der Tradition, um sich an ihre Stelle zu setzen. Sie bekämpfen die Staatsordnung, weil sie ihre Art von Tätigkeit hindert. Sie bekämpfen jede Art von Autorität, weil sie niemandem verantwortlich sein wollen und selbst jeder Verantwortung aus dem Wege gehen. Keine Verfassung enthält eine Instanz, vor welcher die Parteien sich zu rechtfertigen hätten. Sie bekämpfen vor allem die langsam herangewachsene und gereifte Kulturform des Staates, weil sie sie nicht in sich haben wie die gute Gesellschaft, die society des 18. Jahrhunderts, und sie deshalb als Zwang empfinden, was sie für Kulturmenschen nicht ist. So entsteht die »Demokratie« des Jahrhunderts, keine Form, sondern die Formlosigkeit in jedem Sinne als Prinzip, der Parlamentarismus als verfassungsmäßige Anarchie, die Republik als Verneinung jeder Art von Autorität.“ [1][xiv]

La forma de la Cultura que posee un Estado (Kulturform) es un lento resultado de desarrollo orgánico, que exige una maduración (gereifen) y un enraizamiento (angewachsen). Recordemos que el autor de La Decadencia de Occidente sostenía ya, en su magna obra, que las culturas son como plantas, que exigen un enraizamiento. Los pueblos dotados de un alma única hunden sus raíces en un territorio y dejan afluir sus torrentes de sangre a lo largo de las generaciones, llegando a asomar en la Historia por medio de sus realizaciones. Los pueblos de Europa crearon los diversos Estados como creaciones dinásticas de sus príncipes y de sus noblezas, adquiriendo cada uno de ellos una estructura formal y un punto máximo de rendimiento y plenitud, y sólo con el socavamiento del Principio de Autoridad (primero Rousseau, después Robespierre) comenzó su curva a declinar.

El estilo estentóreo y sangriento de hacer política viene de Francia: es el estilo de la Revolución. A pesar de que ya no existen fuerzas políticas revolucionarias dignas de consideración, y a pesar de que los partidos comunistas o socialistas en Europa sólo aspiran a ganar las elecciones, a ocupar los cargos con sus gentes y a ayudar a los plutócratas a mantener el staus quo, toda el lenguaje y los gestos se han heredado de aquel periodo de las revoluciones. Incluso al Parlamento se llevan las arengas, los carteles y las pancartas, confundiendo ámbitos, el ámbito de la lucha callejera y el ámbito de la asamblea parlamentaria. La norma es „no respetar para ganar“. Solo ganar: la erosión del principio del Respeto, el no reconocimiento de la Autoridad, es el fondo anarquizante que llevan consigo los partidos y los sindicatos. Como consecuencia de haber asumido un marxismo „cultural“, difuso o atmosférico (con poca relación con la obra de Marx, obra sólo conocida por algunos académicos), el Estado, las instituciones, las reglas del juego, la Constitución, los símbolos, la Corona, todo, absolutamente todo es objeto de posible manipulación, susceptible de convertirse en instrumento para una „lucha civil“. Pero no se piense que es la pugna de una clase proletaria contra las clases dominantes. Se trata de la lucha de aquellos grupos sociales deseosos de vivir sin trabajar, frecuentemente alimentados por un Poder financiero, contra otros grupos que, en base a su propio sudor, pretenden defender una meritocracia, esto es, una genuina Aristocracia.

4. Socialismo prusiano.

Aristocracia es, literalmente, el Poder de los Mejores. En un sistema productivo en el que los grupos mediocres y hostiles al trabajo pretenden ganar posiciones y convertirse en pensionados de la parte productiva de la sociedad, la Aristocracia se convierte en un régimen odiado a muerte. No se reconoce el derecho a ser persona de mérito. Es odiado quien consigue una fortuna –pequeña o grande- por su esfuerzo o habilidad: sólo se ve que posee más. Es odiado quien saca una plaza de funcionario tras una dura preparación: sólo se ven privilegios en su cargo. Es odiado quien sigue con raíces en su terruño, conservando la dignidad de su caserío: es un atraso y una afrenta a la sociedad urbana y cosmopolita. Es odiado, en fin, el obrero que trabaja duro cada día y que no sigue las consignas y los eslóganes de sus supuestos tuteladores, los obreros liberados y los funcionarios de la central sindical: es un esquirol, pues además anhela con dejar de ser proletario, establecerse por su cuenta, mejorar de posición social. Para el obrerismo, la mejor condición del hombre es convertirse en obrero, „el héroe de nuestro tiempo“, como decía Spengler. Quien desea cambiar de clase es un traidor. El marxismo ha degenerado en obrerismo desde el principio, traicionando los propósitos de su fundador, que no era un obrero y que concibió muy vagamente el comunismo como una generalización del Principio del Trabajo („de cada uno según sus capacidades...“), pero no una nivelación obrerista. En realidad, el absurdo despótico de Mao Tse-Tung de mandar a los médicos, a los abogados y a los profesores chinos a trabajar en los arrozales está más cerca del marxismo „cultural“ o vulgar y del democratismo europeos, que del socialismo. Se trata de una nivelación absoluta, de un odio hacia la diferencia intelectual existente entre las personas. Una nostalgia de los tiempos salvajes. El socialismo, tal y como lo entiende Oswald Spengler, no consiste en una uniformización de todos los individuos, en un colectivismo absoluto. El socialismo consiste en erigir un Estado en forma de cuerpo orgánico. Se trata de un Estado total, que no totalitario, el cual habrá de agrupar a los distintos órganos productivos, profesionales, territoriales, y en el que cada uno de ellos velará por un estricto mantenimiento de su identidad, pero a la vez, por un sometimiento a lo superior. El socialismo no puede ser el mismo en cada pueblo, y el socialismo „prusiano“ estaba llamado, a su entender, a cumplir una alta misión:

„[...] el estilo prusiano es una renuncia por libre decisión, el doblegarse de un vigoroso yo ante un gran deber y una gran misión, un acto de dominio de sí mismo, y en este sentido el máxismo individualismo de que el presente es capaz.

La „raza“ celtogermánica es la de más fuerte voluntad que jamás viera el mundo. Pero este „¡quiero!“ –Yo quiero!, que llena hasta los bordes el alma faústica en el pensamiento, la acción y la conducta, despertaba la conciencia de la absoluta soledad del yo en el espacio infinito“.[1][xv]

„Aber der preußische Stil ist ein Entsagen aus freiem Entschluß, das Sichbeugen eines starken Ichs vor einer großen Pflicht und Aufgabe, ein Akt der Selbstbeherrschung und insofern das Höchste an Individualismus, was der Gegenwart möglich ist.

Die keltisch-germanische »Rasse« ist die willensstärkste, welche die Welt gesehen hat. Aber dies »Ich will« – Ich will! –, das die faustische Seele bis an den Rand erfüllt, den letzten Sinn ihres Daseins ausmacht und jeden Ausdruck der faustischen Kultur in Denken, Tun, Bilden und Sichverhalten beherrscht, weckte das Bewußtsein der vollkommenen Einsamkeit des Ichs im unendlichen Raum.“. [1][xvi]

Convertirse en señores de sí mismos, el autodominio (Selbstbeherrschung): he aquí la clave del Socialismo „Prusiano“. Solo obedece con grandeza quien posee un yo musculoso, pleno de fuerza. En estas densas líneas resuena Nietzsche, pero transformado por el nacionalismo alemán, ausente en éste filósofo, lo que es una gran diferencia respecto a Spengler. Al extender una nacionalidad concreta en el sentido moderno (prusiana, alemana) a categorías etnológicas pre y protohistóricas („raza“ celto-germana), Spengler lleva a cabo, sin explicitarla, una operación de vasta mirada hacia atrás para así también poder ver lejos y hacia adelante. Realmente, el autor de La Decadencia de Occidente es un gran filósofo de la Historia. Y la Historia no ha de ser vista como una masa uniforme de hechos dentro de los cuales el científico ha de rastrear causas, al estilo de las causas mecánicas, que anteceden la sucesión temporal de los hechos. Este método se lo cede nuestro filósofo a los positivistas, evolucionistas y materialistas históricos, pues parientes son entre sí, hijos del siglo XIX, el siglo desastroso en que la Cultura Europea deviene Civilización cansada, vieja, siglo en que comienza el proceso morboso de todo ser envejecido. El envejecimiento comienza con la multiplicación ingente de masas desarraigadas, de subproletarios que ignoran ya todo cuanto tenga que ver con la patria, la tradición, la sangre, el suelo. Cada individuo de esa masa ingente se autoconcibe él mismo como un átomo, y la sociedad de consumo de masas pugna en todo momento por que esta autoconcepción del sujeto responda a la realidad. Para ello, es una prioridad fundamental en el sistema de masas, ya sea el capitalista ya sea el bolchevique, provocar una debilitación progresivas de la Voluntad, el Entendimiento y la capacidad de Atención.

5. Voluntad y Tradición

Debilitar la Voluntad de pueblos primitivos o salvajes, es tarea relativamente sencilla, pues cualquier individuo o institución dotados de „mana“, de fuerza mágica intrínseca, les doblega. Otra cosa sucede con los pueblos europeos. En ellos, el concepto de persona y más aún, el concepto de sujeto entendido como centro de fuerzas volitivas que pugnan por imperar, por afirmarse, ha tenido su más alta expresión. Frente a las demás „razas“ (recuérdese que en Spengler la palabra adquiere un sentido espiritual y no biológico), la raza celtogermánicase aparece como la más fuerte en cuenta voluntad   [Die keltisch-germanische »Rasse« ist die willensstärkste, welche die Welt gesehen hat]y esto se refleja en su derecho personalista (frente al derecho puntiforme y meramente corpóreo de los romanos), en su concepto de lealtad (frente al despotismo del yo y su derecho de “uso y abuso” sobre las cosas). Esa raza celtogermánica, parcialmente sometida o colonizada bajo el Imperio de Roma, habría de renacer –ya con las ventajas de asimilarse una idea Imperial y una cultura superior- al caer Roma como concreción, mas no como ideal de Imperio mundial. Su especialísima manera de entender el Derecho y la relación con la Naturaleza, la sitúa en antítesis con el romanismo tardoantiguo. Todavía hoy, es plástica esa antítesis natural entre la España Atlántica y la España Mediterránea, la Italia del Norte y la del Sur. Se trata del concepto y uso que se tiene de la Tierra mientras se conserva la fuerza de la sangre y los individuos no se han visto del todo urbanizados. En el norte, al más puro estilo celtogermánico, la tierra y la heredad están ahí para cuidar de ellas, para habitarlas, para hacer de ellas morada donde echar raíces. En el sur, bajo el derecho romano y el despotismo del yo, la tierra o la heredad se asimilan mucho más fácilmente a la mercancía, a la cosa de usar y tirar.

Pero en toda Europa asistimos a una debilitación sistemática de esa Voluntad antaño fuerte, así como también una disminución de la capacidad de Entendimiento y la de Atención. Al constituirse Europa toda en una sociedad de masas, regida de manera oclocrática y según los designios de oscuros poderes financieros, especulativos, se ha ido generando todo un sistema educativo para las masas que, en realidad, consiste en una neutralización de sus fuerzas volitivas. Las sucesivas reformas educativas van encaminadas a la eliminación de esas fuerzas, a disociar el esfuerzo y el conocimiento, a facilitar la integración del niño y del joven en una sociedad pasiva de consumidores, apenas capaces de otra cosa que de buscar la evasión. Evadirse por medio del alcohol, las drogas y los artefactos tecnológicos: esa es la única motivación de unas generaciones hostiles al trabajo, abúlicas y sin capacidad ninguna para la escucha. Pues la falta de Atención es la gran enfermedad de Europa, del “mundo desarrollado”. Nadie escucha: entre el ruido informativo, un mensaje relevante queda sepultado, neutralizado, y cuando accede a alguna conciencia dentro de márgenes minoritarios, ese mensaje es sometido al escarnio sistemático. Dentro del ruido informativo que se precisa en una sociedad de masas ha de figurar en todo momento un apretado pelotón de “progresistas” encargado de hacer mofa de todo cuanto ha sido tradición, salud, cultura. Ya no hace falta esfuerzo para ser sabio, ya no es menester tener hijos y cuidarlos, ya no importa el decoro de la vida privada ni conductas nobles y recatadas. Todo se ha de sacrificar en el altar del Progreso hasta que por fin se banalice por completo el concepto de persona y sus extensiones: privacidad, sexualidad, propiedad. En cierto modo el pelotón ruidoso del “Progresismo” desea, sin cambiar una coma del dictado capitalista financiero, sin rozarle un pelo al modo de producción-saqueo vigente, una realización quintaesenciada del comunismo: desaparición de la privacidad (a la que contribuyen las nuevas tecnologías, Internet, etc.), prostitución generalizada (el sexo como mercancía a ofrecer y a tomar por parte de todos), y banalización de la propiedad (incesante retirada de escena de la Propiedad productiva a favor de la propiedad abstracta, reducción a la condición de “mercancía”).

Mientras este proceso se acelera, y se crea masas “sin raza”, debidamente mezcladas y desarraigadas en las grandes ciudades, al principio, a la par que se despuebla y degrada el campo, acontecen determinados procesos de aculturación y sustitución étnica. De manera similar a la decadencia del Imperio Romano, el Imperio de Europa declina al convertirse la ciudadanía en una mera expresión formal que abarcaba a gentes muy diversas, arrancadas violentamente o por grado de sus terruños, con modos de vida ya sincréticos, mezcla de indigenismo y romanismo. De la misma manera, esta Europa llena de mezquitas y de frenéticos bailes negroides, ya no es la Europa del gótico, ni la de Bach, Mozart o Beethoven. La cultura del nativo, que hasta ayer se vio como Cultura Superior, es hoy cultura del civilizado europeo cansado, dispuesto a pagar mercenarios para defenderse y para que le traigan el pan a casa. El cansado nativo de Europa ya le da la espalda a Cervantes o a Shakespeare. Siente vergüenza de Wagner o de Leibniz. Rechaza a Homero o a Lord Byron. Se arranca de la piel su ser y su esencia y quisiera ser “otro”, en un proceso de alienación y masoquismo interminable. Todas las glorias de la cultura de Occidente se arrojan al vertedero de los trastos viejos, e incluso se destruyen conscientemente en el medio educativo por temor a la ofensa de ese “otro” al que se dice –hipócritamente- respetar. En los mismos centros educativos españoles de los que está despareciendo el griego y el latín, se introduce gradualmente el árabe. Allí donde se condena inquisitorialmente a Nietzsche o a Wagner, se practica el tatuaje y la danza del vientre. Para que el sistema capitalista tardío funcione es preciso cometer este atentado contra las raíces. De lo contrario sería imposible contar con masas de consumidores-colaboradores, no habría posibilidad de reclutar más y más adeptos. El verdadero respeto al “otro” nunca es sincero si implica una renuncia a lo propio. El verdadero respeto consiste en la aceptación de las diferencias, en la asunción de un pluralismo cultural, en la crítica de la idea monolítica y absoluta de “Humanidad”. Que cada cultura o civilización se mueva en su propio ámbito y gire en torno a su eje, aprendiendo de las demás pero no mezclándose con ellas: en esto ha de consistir el respeto intercultural.




[i][i] Oswald Spengler: Años Decisivos. Alemania y la Evolución Histórica Universal. Espasa-Calpe, Madrid, 1982. Traducción de Luis López-Ballesteros; p. 47.

[i][ii] La versión alemana de Años Decisivos por la que citamos es: Oswald Spengler: Jahre der Entscheidung.Deutschland und die weltgeschichtliche Entwicklung, Taschenbuch Verlag, Munich, 1961; p. 50-51. 

[i][iii]Años Decisivos, p. 46.

[i][iv]Jahre der Entscheidung,pps. 49-50.

[i][v]Años Decisivos, pps. 45-46

[i][vi]Jahre, p. 49.

[i] [vii] Años Decisivos, p. 88.

[i][viii]Jahre, p. 95.

[i][ix]Años Decisivos, p. 48.

[i][x]Jahre, p. 52.

[i][xi]Años Decisivos, p. 48.

[i][xii] Jahre, p. 52.

[i][xiii]Años Decisivos 48-49.

[i][xiv]Jahre, p. 59

[xv] Años Decisivos, 182.

[i][xvi]Jahre, p. 158.

 


La Razón Histórica, nº21, 2013 [69-89], ISSN 1989-2659. © Instituto de Estudios Históricos y sociales.

The Revolutionary Conservative Critique of Oswald Spengler

132838-1da7e2d1b439dc294f072f552f755889.jpg

The Revolutionary Conservative Critique of Oswald Spengler

Ex: http://www.motpol.nu

Oswald Spengler is by now well-known as one of the major thinkers of the German Conservative Revolution of the early 20th Century. In fact, he is frequently cited as having been one of the most determining intellectual influences on German Conservatism of the interwar period – along with Arthur Moeller van den Bruck and Ernst Jünger – to the point where his cultural pessimist philosophy is seen to be representative of Revolutionary Conservative views in general (although in reality most Revolutionary Conservatives held more optimistic views).[1]

To begin our discussion, we shall provide a brief overview of the major themes of Oswald Spengler’s philosophy.[2] According to Spengler, every High Culture has its own “soul” (this refers to the essential character of a Culture) and goes through predictable cycles of birth, growth, fulfillment, decline, and demise which resemble that of the life of a plant. To quote Spengler:

A Culture is born in the moment when a great soul awakens out of the proto-spirituality of ever-childish humanity, and detaches itself, a form from the formless, a bounded and mortal thing from the boundless and enduring. It blooms on the soil of an exactly-definable landscape, to which plant-wise it remains bound. It dies when the soul has actualized the full sum of its possibilities in the shape of peoples, languages, dogmas, arts, states, sciences, and reverts into the proto-soul.[3]

There is an important distinction in this theory between Kultur (“Culture”) and Zivilisation (“Civilization”). Kultur refers to the beginning phase of a High Culture which is marked by rural life, religiosity, vitality, will-to-power, and ascendant instincts, while Zivilisation refers to the later phase which is marked by urbanization, irreligion, purely rational intellect, mechanized life, and decadence. Although he acknowledged other High Cultures, Spengler focused particularly on three High Cultures which he distinguished and made comparisons between: the Magian, the Classical (Greco-Roman), and the present Western High Culture. He held the view that the West, which was in its later Zivilisation phase, would soon enter a final imperialistic and “Caesarist” stage – a stage which, according to Spengler, marks the final flash before the end of a High Culture.[4]

Perhaps Spengler’s most important contribution to the Conservative Revolution, however, was his theory of “Prussian Socialism,” which formed the basis of his view that conservatives and socialists should unite. In his work he argued that the Prussian character, which was the German character par excellence, was essentially socialist. For Spengler, true socialism was primarily a matter of ethics rather than economics. This ethical, Prussian socialism meant the development and practice of work ethic, discipline, obedience, a sense of duty to the greater good and the state, self-sacrifice, and the possibility of attaining any rank by talent. Prussian socialism was differentiated from Marxism and liberalism. Marxism was not true socialism because it was materialistic and based on class conflict, which stood in contrast with the Prussian ethics of the state. Also in contrast to Prussian socialism was liberalism and capitalism, which negated the idea of duty, practiced a “piracy principle,” and created the rule of money.[5]

Oswald Spengler’s theories of predictable culture cycles, of the separation between Kultur and Zivilisation, of the Western High Culture as being in a state of decline, and of a non-Marxist form of socialism, have all received a great deal of attention in early 20th Century Germany, and there is no doubt that they had influenced Right-wing thought at the time. However, it is often forgotten just how divergent the views of many Revolutionary Conservatives were from Spengler’s, even if they did study and draw from his theories, just as an overemphasis on Spenglerian theory in the Conservative Revolution has led many scholars to overlook the variety of other important influences on the German Right. Ironically, those who were influenced the most by Spengler – not only the German Revolutionary Conservatives, but also later the Traditionalists and the New Rightists – have mixed appreciation with critique. It is this reality which needs to be emphasized: the majority of Conservative intellectuals who have appreciated Spengler have simultaneously delivered the very significant message that Spengler’s philosophy needs to be viewed critically, and that as a whole it is not acceptable.

750480.jpgThe most important critique of Spengler among the Revolutionary Conservative intellectuals was that made by Arthur Moeller van den Bruck.[6] Moeller agreed with certain basic ideas in Spengler’s work, including the division between Kultur and Zivilisation, with the idea of the decline of the Western Culture, and with his concept of socialism, which Moeller had already expressed in an earlier and somewhat different form in Der Preussische Stil (“The Prussian Style,” 1916).[7] However, Moeller resolutely rejected Spengler’s deterministic and fatalistic view of history, as well as the notion of destined culture cycles. Moeller asserted that history was essentially unpredictable and unfixed: “There is always a beginning (…) History is the story of that which is not calculated.”[8] Furthermore, he argued that history should not be seen as a “circle” (in Spengler’s manner) but rather a “spiral,” and a nation in decline could actually reverse its decline if certain psychological changes and events could take place within it.[9]

The most radical contradiction with Spengler made by Moeller van den Bruck was the rejection of Spengler’s cultural morphology, since Moeller believed that Germany could not even be classified as part of the “West,” but rather that it represented a distinct culture in its own right, one which even had more in common in spirit with Russia than with the “West,” and which was destined to rise while France and England fell.[10] However, we must note here that the notion that Germany is non-Western was not unique to Moeller, for Werner Sombart, Edgar Julius Jung, and Othmar Spann have all argued that Germans belonged to a very different cultural type from that of the Western nations, especially from the culture of the Anglo-Saxon world. For these authors, Germany represented a culture which was more oriented towards community, spirituality, and heroism, while the modern “West” was more oriented towards individualism, materialism, and capitalistic ethics. They further argued that any presence of Western characteristics in modern Germany was due to a recent poisoning of German culture by the West which the German people had a duty to overcome through sociocultural revolution.[11]

Another key intellectual of the German Conservative Revolution, Hans Freyer, also presented a critical analysis of Spenglerian philosophy.[12] Due to his view that that there is no certain and determined progress in history, Freyer agreed with Spengler’s rejection of the linear view of progress. Freyer’s philosophy of culture also emphasized cultural particularism and the disparity between peoples and cultures, which was why he agreed with Spengler in terms of the basic conception of cultures possessing a vital center and with the idea of each culture marking a particular kind of human being. Being a proponent of a community-oriented state socialism, Freyer found Spengler’s anti-individualist “Prussian socialism” to be agreeable. Throughout his works, Freyer had also discussed many of the same themes as Spengler – including the integrative function of war, hierarchies in society, the challenges of technological developments, cultural form and unity – but in a distinct manner oriented towards social theory.[13]

However, Freyer argued that the idea of historical (cultural) types and that cultures were the product of an essence which grew over time were already expressed in different forms long before Spengler in the works of Karl Lamprecht, Wilhelm Dilthey, and Hegel. It is also noteworthy that Freyer’s own sociology of cultural categories differed from Spengler’s morphology. In his earlier works, Freyer focused primarily on the nature of the cultures of particular peoples (Völker) rather than the broad High Cultures, whereas in his later works he stressed the interrelatedness of all the various European cultures across the millennia. Rejecting Spengler’s notion of cultures as being incommensurable, Freyer’s “history regarded modern Europe as composed of ‘layers’ of culture from the past, and Freyer was at pains to show that major historical cultures had grown by drawing upon the legacy of past cultures.”[14] Finally, rejecting Spengler’s historical determinism, Freyer had “warned his readers not to be ensnared by the powerful organic metaphors of the book [Der Untergang des Abendlandes] … The demands of the present and of the future could not be ‘deduced’ from insights into the patterns of culture … but were ultimately based on ‘the wager of action’ (das Wagnis der Tat).”[15]

Yet another important Conservative critique of Spengler was made by the Italian Perennial Traditionalist philosopher Julius Evola, who was himself influenced by the Conservative Revolution but developed a very distinct line of thought. In his The Path of Cinnabar, Evola showed appreciation for Spengler’s philosophy, particularly in regards to the criticism of the modern rationalist and mechanized Zivilisation of the “West” and with the complete rejection of the idea of progress.[16] Some scholars, such as H.T. Hansen, stress the influence of Spengler’s thought on Evola’s thought, but it is important to remember that Evola’s cultural views differed significantly from Spengler’s due to Evola’s focus on what he viewed as the shifting role of a metaphysical Perennial Tradition across history as opposed to historically determined cultures.[17]

In his critique, Evola pointed out that one of the major flaws in Spengler’s thought was that he “lacked any understanding of metaphysics and transcendence, which embody the essence of each genuine Kultur.”[18] Spengler could analyze the nature of Zivilisation very well, but his irreligious views caused him to have little understanding of the higher spiritual forces which deeply affected human life and the nature of cultures, without which one cannot clearly grasp the defining characteristic of Kultur. As Robert Steuckers has pointed out, Evola also found Spengler’s analysis of Classical and Eastern cultures to be very flawed, particularly as a result of the “irrationalist” philosophical influences on Spengler: “Evola thinks this vitalism leads Spengler to say ‘things that make one blush’ about Buddhism, Taoism, Stoicism, and Greco-Roman civilization (which, for Spengler, is merely a civilization of ‘corporeity’).”[19] Also problematic for Evola was “Spengler’s valorization of ‘Faustian man,’ a figure born in the Age of Discovery, the Renaissance and humanism; by this temporal determination, Faustian man is carried towards horizontality rather than towards verticality.”[20]

Finally, we must make a note of the more recent reception of Spenglerian philosophy in the European New Right and Identitarianism: Oswald Spengler’s works have been studied and critiqued by nearly all major New Right and Identitarian intellectuals, including especially Alain de Benoist, Dominique Venner, Pierre Krebs, Guillaume Faye, Julien Freund, and Tomislav Sunic. The New Right view of Spenglerian theory is unique, but is also very much reminiscent of Revolutionary Conservative critiques of Moeller van den Bruck and Hans Freyer. Like Spengler and many other thinkers, New Right intellectuals also critique the “ideology of progress,” although it is significant that, unlike Spengler, they do not do this to accept a notion of rigid cycles in history nor to reject the existence of any progress. Rather, the New Right critique aims to repudiate the unbalanced notion of linear and inevitable progress which depreciates all past culture in favor of the present, while still recognizing that some positive progress does exist, which it advocates reconciling with traditional culture to achieve a more balanced cultural order.[21] Furthermore, addressing Spengler’s historical determinism, Alain de Benoist has written that “from Eduard Spranger to Theodor W. Adorno, the principal reproach directed at Spengler evidently refers to his ‘fatalism’ and to his ‘determinism.’ The question is to know up to what point man is prisoner of his own history. Up to what point can one no longer change his course?”[22]

Like their Revolutionary Conservative precursors, New Rightists reject any fatalist and determinist notion of history, and do not believe that any people is doomed to inevitable decline; “Decadence is therefore not an inescapable phenomenon, as Spengler wrongly thought,” wrote Pierre Krebs, echoing the thoughts of other authors.[23] While the New Rightists accept Spengler’s idea of Western decline, they have posed Europe and the West as two antagonistic entities. According to this new cultural philosophy, the genuine European culture is represented by numerous traditions rooted in the most ancient European cultures, and must be posed as incompatible with the modern “West,” which is the cultural emanation of early modern liberalism, egalitarianism, and individualism.

The New Right may agree with Spengler that the “West” is undergoing decline, “but this original pessimism does not overshadow the purpose of the New Right: The West has encountered the ultimate phase of decadence, consequently we must definitively break with the Western civilization and recover the memory of a Europe liberated from the egalitarianisms…”[24] Thus, from the Identitarian perspective, the “West” is identified as a globalist and universalist entity which had harmed the identities of European and non-European peoples alike. In the same way that Revolutionary Conservatives had called for Germans to assert the rights and identity of their people in their time period, New Rightists call for the overcoming of the liberal, cosmopolitan Western Civilization to reassert the more profound cultural and spiritual identity of Europeans, based on the “regeneration of history” and a reference to their multi-form and multi-millennial heritage.

Lucian Tudor 

 

Notes

[1] An example of such an assertion regarding cultural pessimism can be seen in “Part III. Three Major Expressions of Neo-Conservatism” in Klemens von Klemperer, Germany’s New Conservatism: Its History and Dilemma in the Twentieth Century (Princeton: Princeton University Press, 1968).

[2] To supplement our short summary of Spenglerian philosophy, we would like to note that one the best overviews of Spengler’s philosophy in English is Stephen M. Borthwick, “Historian of the Future: An Introduction to Oswald Spengler’s Life and Works for the Curious Passer-by and the Interested Student,” Institute for Oswald Spengler Studies, 2011, <https://sites.google.com/site/spenglerinstitute/Biography>.

[3] Oswald Spengler, The Decline of the West Vol. 1: Form and Actuality (New York: Alfred A. Knopf, 1926), p. 106.

[4] Ibid.

[5] See “Prussianism and Socialism” in Oswald Spengler, Selected Essays (Chicago: Gateway/Henry Regnery, 1967).

[6] For a good overview of Moeller’s thought, see Lucian Tudor, “Arthur Moeller van den Bruck: The Man & His Thought,” Counter-Currents Publishing, 17 August 2012, <http://www.counter-currents.com/2012/08/arthur-moeller-van-den-bruck-the-man-and-his-thought/>.

[7] See Fritz Stern, The Politics of Cultural Despair (Berkeley & Los Angeles: University of California Press, 1974), pp. 238-239, and Alain de Benoist, “Arthur Moeller van den Bruck,” Elementos: Revista de Metapolítica para una Civilización Europea No. 15 (11 June 2011), p. 30, 40-42. <http://issuu.com/sebastianjlorenz/docs/elementos_n__15>.

[8] Arthur Moeller van den Bruck as quoted in Benoist, “Arthur Moeller van den Bruck,” p. 41.

[9] Ibid., p. 41.

[10] Ibid., pp. 41-43.

[11] See Fritz K. Ringer, The Decline of the German Mandarins: The German Academic Community, 1890–1933 (Hanover: University Press of New England, 1990), pp. 183 ff.; John J. Haag, Othmar Spann and the Politics of “Totality”: Corporatism in Theory and Practice (Ph.D. Thesis, Rice University, 1969), pp. 24-26, 78, 111.; Alexander Jacob’s introduction and “Part I: The Intellectual Foundations of Politics” in Edgar Julius Jung, The Rule of the Inferiour, Vol. 1 (Lewiston, New York: Edwin Mellon Press, 1995).

[12] For a brief introduction to Freyer’s philosophy, see Lucian Tudor, “Hans Freyer: The Quest for Collective Meaning,” Counter-Currents Publishing, 22 February 2013, <http://www.counter-currents.com/2013/02/hans-freyer-the-quest-for-collective-meaning/>.

[13] See Jerry Z. Muller, The Other God That Failed: Hans Freyer and the Deradicalization of German Conservatism (Princeton: Princeton University Press, 1987), pp. 78-79, 120-121.

[14] Ibid., p. 335.

[15] Ibid., p. 79.

[16] See Julius Evola, The Path of Cinnabar (London: Integral Tradition Publishing, 2009), pp. 203-204.

[17] See H.T. Hansen, “Julius Evola’s Political Endeavors,” in Julius Evola, Men Among the Ruins: Postwar Reflections of a Radical Traditionalist (Rochester: Inner Traditions, 2002), pp. 15-17.

[18] Evola, Path of Cinnabar, p. 204.

[19] Robert Steuckers, “Evola & Spengler”, Counter-Currents Publishing, 20 September 2010, <http://www.counter-currents.com/2010/09/evola-spengler/> .

[20] Ibid.

[21] In a description that applies as much to the New Right as to the Eurasianists, Alexander Dugin wrote of a vision in which “the formal opposition between tradition and modernity is removed… the realities superseded by the period of Enlightenment obtain a legitimate place – these are religion, ethnos, empire, cult, legend, etc. In the same time, a technological breakthrough, economical development, social fairness, labour liberation, etc. are taken from the Modern” (See Alexander Dugin, “Multipolarism as an Open Project,” Journal of Eurasian Affairs Vol. 1, No. 1 (September 2013), pp. 12-13).

[22] Alain de Benoist, “Oswald Spengler,” Elementos: Revista de Metapolítica para una Civilización Europea No. 10 (15 April 2011), p. 13.<http://issuu.com/sebastianjlorenz/docs/elementos_n__10>.

[23] Pierre Krebs, Fighting for the Essence (London: Arktos, 2012), p. 34.

[24] Sebastian J. Lorenz, “El Decadentismo Occidental, desde la Konservative Revolution a la Nouvelle Droite,”Elementos No. 10, p. 5.

jeudi, 06 novembre 2014

ERNST JÜNGER: DE HÉROES, TITANES Y DIOSES

ELEMENTOS Nº 78.

ERNST JÜNGER: DE HÉROES, TITANES Y DIOSES

 

Descargar con issuu.com (flash / pdf)
Descargar con scribd.com (pdf / epub
Descargar con google.com (pdf / epub)
 
Sumario
Ernst Jünger: la revuelta del anarca, por José Luis Ontiveros
 
Un guerrero contra la vulgaridad. El joven Jünger, por Manuel Domingo

 

Ernst Jünger y el emboscado real, por Ángel Sobreviela

 

 

El Trabajador de Ernst Jünger, por Julius Evola

 

Ernst Jünger: Tempestades de Acero o la entrada en escena de los Titanes, por Adolfo Vásquez Rocca

 

Ernst Jünger: el tercer héroe, por Alexander Dugin

 

Ernst Jünger: radiaciones de un escritor revolucionario, por Eduardo Mórlan

 

Ernst Jünger, un pensador contracorriente, por Antonio Escohotado,

 

El meridiano cero: la disputa de Heidegger con Jünger, por Diego Tatián

 

Guerra, técnica y modernidad. Sobre la muerte en la obra de Ernst Jünger, por Vicente Raga Rosaleny

 

Contraposición entre imagen y naturaleza a través del mundo del Trabajador y el mundo del Burgués en Ernst Jünger, por Guillermo Aguirre
 
La sombra del mal en Ernst Jünger y Miguel Delibes, por Vintila Horia
 
Teoria de la rebeldia a partir de Ernst Jünger y Albert Camus, por Jesús Nava Ranero
 
Ernst Jünger y Ortega y Gasset. El lugar de la libertad en las sociedades nihilistas, por David Porcel Dieste

 

lundi, 03 novembre 2014

Heidelbergs Heldentenor

Heidelbergs Heldentenor

von Daniel Bigalke

Ex: http://www.blauenarzisse.de

 

Der Literaturhistoriker und Dichter Friedrich Gundolf war ein Charismatiker im deutschen Geistesleben bis 1933. Sein Wirken und seine Aura blieb nicht nur Studenten in Erinnerung.

Dieser auffallende Mensch hatte einen genialen Kopf und eine gewölbte Denkerstirn – gleich derjenigen des Philosophen Immanuel Kants. Dies und seine leuchtenden Augen müssen wohl, zumindest äußerlich, der Vorstellung entsprochen haben, die sich viele Studenten von ihm gemacht haben.

Heldentenor der Heidelberger Universität

Vielleicht waren es aber auch seine gleichsam als übermenschlich empfundene Persönlichkeit, seine Angewohnheit, mit Siegesschritten an den Katheder zu treten, das längere Haar zurückwerfend, um in den aufgeschlagenen Skripten zu lesen, was viele Studenten zu dem glühenden Entschluss kommen ließ: „Ich will nach Heidelberg. Ich muss in Heidelberg studieren, wo Gundolf seinen Lehrstuhl innehat.” So zumindest äußerte sich Melitta Grünbaum gegenüber ihren Eltern. Sie war eine Wiener Studentin, die die Heidelberger Verhältnisse an der Universität 1924 bis 1927 eindrucksvoll in ihren 2012 erschienen Memoiren Begegnungen mit Gundolf beschrieb.

Grünbaum mochte vor allem die in großartige Gesten verkleidete Schüchternheit Gundolfs. Sie ist auch jene „Melitta“, die der Dichter Rainer Maria Rilke in seiner Lyrik besingt. Unaufhörlich wurden ihre und die Gedanken vieler Studenten geprägt. Sie wollten an Gundolfs sprachlicher Fülle teilhaben und an seinen Vorlesungen, welche immer bis auf den letzten Platz besetzt waren. Wer war dieser Gundolf, der sich selbst als „Heldentenor der Heidelberger Universität“ bezeichnete? Sogar im Familien– und Freundeskreis wurde er selten bei seinem Vornamen, sondern zumeist mit dem zum Vornamen transformierten Nachnamen „Gundolf” gerufen?

Stefan George als Mentor

Friedrich Gundolf, gebürtig Friedrich Leopold Gundelfinger, kam am 20. Juni 1880 in Darmstadt zur Welt. Heute gilt er als Literaturwissenschaftler. Er bedeutete der deutschen Hochschullandschaft seiner Zeit jedoch viel mehr – und auch seinen damaligen Lesern. Als Autor und Dichter prägte er in den 1920er und 1930 Jahren das Bild der Deutschen u.a. von Cäsar, Shakespeare, Goethe, Kleist und George. Bereits 1899 lernte der damalige Erstsemester Gundolf den rund dreißigjährigen Dichter Stefan George kennen. Er blieb zwanzig Jahre lang sein engster Vertrauter. Glaubt man der Biographie von Thomas Karlauf Stefan George. Die Entdeckung des Charisma von 2007, so war es George, der Gundelfinger 1899 bereits bei der ersten Zusammenkunft Gundolf nannte.

Gemeinsam mit George und dem ebenfalls später im gleichnamigen Kreis vertretenen Schriftsteller Karl Wolfskehl hatte Gundolf das Ludwig-​Georgs-​Gymnasium in Darmstadt besucht. Gundolf wurde schnell Teil des wachsenden Kreises von jüngeren Gleichgesinnten, die sich um George sammelten, um seine Ideale zu teilen. „Dichten heißt herrschen“, blieb das Credo Georges, der mit Gundolf eine – wie auch immer geartete – intimere Beziehung gepflegt haben soll. Diese Beziehung stellte zugleich eine Arbeits– und Wirkgemeinschaft dar.

Cäsar, Shakespeare und Hölderlin aus deutscher Sicht

Gundolf studierte in Heidelberg, München und Berlin deutsche Literatur– und Kunstgeschichte. Die bedeutendste Wirkstätte blieb Heidelberg. Meist um die Mittagsstunde tauchte er als bekannte Gestalt der Stadt in den Hauptstraßen auf, die Menge der Passanten überragend, weithin sichtbar: Wehendes Haar, offener Mantel, die obligatorische Büchertasche unter dem Arm. Dies ist das Bild eines Menschen, dessen obligatorisches Antwortlächeln auf das fortdauernde Gegrüßt-​Werden stets im Gesicht bereitlag. 1903 promovierte er mit einer Dissertation über Cäsar in der deutschen Literatur. 1911 folgte die Habilitation in Heidelberg mit der ebenso viel beachteten Schrift Shakespeare und der deutsche Geist. Seine Antrittsvorlesung über „Hölderlins Archipelagus“ hielt er im gleichen Jahr.

Von 1916 bis 1918 absolviert er den Heeresdienst im Ersten Weltkrieg, zuerst an der Westfront, dann in der Pressestelle des Generalstabs in Berlin. Doch die Pressearbeit war keine Perspektive für ihn – ebenso wenig das Denken und Schreiben im Dienste staatlicher Institutionen. „Institutionen sind immer gleich gescheit und gleich falsch. (…) Sie gewinnen ihre Stärke oder Schwäche nur aus den menschlichen Trägern und Erfüllern. Richtige Verfassungen, richtige Kunstformen, richtige Glaubensartikel an sich gibt es nicht, sondern Menschen, deren einmalige Echtheit, Schönheit, Güte oder Wucht sie erneuert und bewährt”, begründete er seine Entscheidung.

Literatur: Geschichte von Ideen und Taten

Damit gibt Gundolf preis, wofür er brennt. Er sieht in den Menschen, in ihren Werken und Taten, etwa von Staatsmännern, Dichtern und Schriftstellern, die Quellen des geistigen Lebens. So ist er uns heute bekannt als Führer jener literaturwissenschaftlichen Schule, die sich auf die Werke und Ausstrahlung von Schriftstellern richtete. Ab 1910 schrieb Gundolf in Heidelberg an seiner 500seitigen Habilitatio. Zwar verfolgte er das Ziel, mit seiner Universitätslaufbahn die Botschaft Georges zu verbreiten. Dieses Buch und Gundolfs weitere Werke trugen jedoch längst einen eigenen Charakter. Sie betonen die Idee, die hinter den von Gundolf portraitierten Dichtern und Denkern steht, nicht die Person.

So kann Gundolfs Werk über Shakespeare auch als Reaktion auf einen Machtkampf im George-​Kreis gelesen werden und als Reaktion auf den entstehenden Personenkult um Stefan George. Der Name des Meisters George ließ Gundolf selbst in späteren Jahren immer noch nervös und nachdenklich werden. Daran zumindest erinnern sich viele seiner Studenten. Gundolf würdigte in seinen Schriften trotzdem die Idee an sich, nicht die Person. Es waren nicht die Menschen selbst, um die es ihm ging, sondern ihre Leistungen und die dahinter stehenden Vorstellungen. In der Geschichte stellt sich für Gundolf erst durch Werke und Taten großer Menschen ein Sinn dar. Der Geist wandelt historisch und manifestiert sich im Denken und Handeln von Personen, schrieb schon der Philosoph Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Man könnte sagen, dass Gundolf der Philosophie Hegels näher stand, als etwa der Willensmetaphysik des Philosophen Arthur Schopenhauer, der die Welt als zum Dasein drängenden Wille verstand.

Zerwürfnis mit George

Es war also nicht Cäsar selbst, sondern seine Genialität, nicht Shakespeare allein, sondern seine Humanität, nicht Goethe als Person, sondern seine dichterische Reife, die Gundolf schätzte. Dies musste Anfang der 1920er Jahre zum Bruch mit George führen – ebenso wie die Tatsache, dass Gundolf sich dazu entschloss, die Nationalökonomin Elisabeth („Elli“) Salomon zu heiraten. George duldete keine Eheschließungen seiner Anhänger. In der George-​Biographie von Thomas Karlauf wird Gundolf als treuherziger und auf Ausgleich bedachter Mensch geschildert, der Konfliktsituationen mied. Um seine Beziehung zu George zu retten, veröffentlichte Gundolf 1920 die Lobeshymne George in Buchform.

Doch dies half nicht mehr, was Gundolf sehr verletzt haben mag. Als sie sich Ende 1925 zufällig in der Altstadt in Heidelberg begegneten, erwiderte George nicht seinen Gruß und ging achtlos an ihm vorüber. Ein Jahr später erkrankte Gundolf an Krebs, wurde 1927 operiert und starb 1931 im Alter von 51 Jahren. Er hinterließ eine uneheliche Tochter, Cordelia Gundolf-​Manor, die seit 1960 als Lektorin in Melbourne (Australien) arbeitete. Gundolfs Werk wurde in Deutschland 1933 aufgrund seiner jüdischen Herkunft verboten. Die Bücher des wohl bekanntesten Germanisten in der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts sind heute vorrangig antiquarisch auffindbar.

Anm. der Red.: In der zweiten Hälfte seines Porträts interpretiert Daniel Bigalke unter anderem Gundolfs Schrift Dichter und Helden, seine Sicht auf Martin Luther als Vorbild sowie Gundolfs berühmte Goethe-​Biografie.

Bild: Porträt des Dichters Friedrich Gundolf, Fotografie von Jacob Hilsdorf, vor 1916

dimanche, 02 novembre 2014

Deberes políticos de la juventud alemana y otros ensayos, de Oswald Spengler

static_307_1_.jpg

Novedad editorial:

Deberes políticos de la juventud alemana y otros ensayos, de Oswald Spengler

Índice

Prólogo de Carlos Martínez-Cava 7
Pensamientos acerca de la poesía lírica (1920) 11
¿Pesimismo? (1921) 21
Las dos caras de Rusia y el problema alemán del Este (1922) 37
Deberes políticos de la juventud alemana (1924) 55
Nietzsche y su siglo (1924) 81
Nuevos aspectos de la política mundial (1924) 95
La relación entre economía y política fiscal desde 1750 (1924) 117
La actual diferencia entre economía y política mundial (1924) 129
La antigüedad de las culturas americanas (1933) 153
El carro de combate y su significación
en el desarrollo de la historia universal (1934) 163

 

spengler101.pngOrientaciones


Decía Ortega y Gasset, que La Decadencia de Occidente de Spengler, era, sin disputa, la peripecia intelectual más estruendosa de los últimos años. En aquellas páginas quedó plasmada —a través de esa disciplina tan envolvente como es la Filosofía de la Historia—, la contemplación de Europa desde la atalaya que nos ofrecía. Todo un devenir en el tiempo donde nada podía ser ya lineal, por cuanto su concepción de la Cultura era orgánica. Con él, aprendimos a es­tudiar Occidente como un ser vivo que nacía, se desarrollaba y podía morir.
Spengler fue una lectura insoslayable en aquellos años treinta de entreguerras. Hoy es poco menos que una lectura inconfesable. No por lo pretérito de su pensamiento, sino por su incorrección po­lítica. Ya ha habido quien ha dicho que, el lector libre, ha de acercarse a sus obras liberándose de una suerte de preservativo mental.
Esa incorrección se explica en la feroz crítica que Spengler re­aliza a lo largo de toda su obra al parlamentarismo, al liberalismo y a la misma democracia. Pero no porque desdeñara esas formas en sí, sino porque para él impedían que el Pueblo cumpliera su deber y misión en la Historia.

 

[del prólogo de Carlos Martínez-Cava]

 

1ª edición, Tarragona, 2014.
21×15 cms., 168 págs.
Cubierta a todo color, con solapas y plastificada brillo.
PVP: 15 euros

 

Pedidos: edicionesfides@yahoo.es

 

Fuente: Ediciones Fides

 

vendredi, 24 octobre 2014

In geübten Zügen: Jünger daheim

In geübten Zügen: Jünger daheim

von Till Röcke

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Ein Leckerbissen für die andere Seite. Die Aufzeichnungen von Wilhelm Rosenkranz sind sensationell belanglos – aber auch kurzweilig. Ernst-​Jünger-​Freunde aufgepasst!

Die von Thomas Baumert herausgegebenen Erinnerungen des Herrn Rosenkranz haben in der Reihe der „Bibliotope“ (Band 5) einen liebenswürdigen Rahmen der Publikation gefunden. Wer sonst, wenn nicht Tobias Wimbauer, ist überhaupt befugt, derartige Marginalien unters Volk zu streuen?

Herausgekommen ist demnach ein exklusives Büchlein mit wenigen, behutsam ausgewählten Fotografien. Sie zeigen nicht nur Ernst Jünger beim Käferfangen, sondern auch das „nüchterne Haus“ (E. J. über seine backsteinige Heimstatt) in Kirchhorst.

Daneben besteht das Bändchen aus Berichten einiger der wenigen Zusammenkünfte von Rosenkranz und Jünger. Ersterer lebte ganz in der Nähe und kam – so mancher kriegsbedingten Einwirkung zum Trotz – des Öfteren mit dem verehrten Dichter zusammen.rosenkranz juenger

Die im Ton der sympathischen, an keiner Stelle albernen Bewunderung gegenüber dem schreibenden Klausner getragenen Aufzeichnungen dürften die entsprechende Klientel angemessen bedienen. Jüngers Frau ist herzlich und stört nicht, die Natur um Kirchhorst herum geizt nicht mit Reizen und wer mit Jünger anbandelt, der fängt irgendwann das Träumen an. Es erwischt Wilhelm Rosenkranz auf dem Fahrrad.

Ein Leben lang im Bann

Im zweiten Teil finden sich einige Briefe von Rosenkranz an Jünger, leider fehlt der Jüngersche Part vollends. Wie dem auch sei, Wilhelm Rosenkranz zeigt sich dem Leser als ein vom Werk des bewunderten Dichters vollends in den Bann gezogener. Noch Jahre nach dem Krieg hängt er den Eindrücken an jene Kirchhorster Jahre nach, und als er schließlich 1975 stirbt, erinnert man sich sogar in Wilflingen noch an jenen „Leser namens Rosenkranz“.

Kaufempfehlung für die Anhänger Ernst Jüngers und für alle, die bei Klett Cotta nichts mehr finden.

Thomas Baumert (Hrsg.): Wilhelm Rosenkranz: Die andere Seite. Begegnungen mit Ernst Jünger in Kirchhorst. 110 Seiten, Eisenhut Verlag 2014. 12,90 Euro.

jeudi, 23 octobre 2014

Paganism & Christianity, Nietzsche & Evola

evola-nietzsche-na-h.png

Paganism & Christianity, Nietzsche & Evola

By Jonathan Bowden 

Ex: http://www.counter-currents.com

Editor’s Note:

This text continues the transcript by V. S. of Jonathan Bowden’s interview at the Union Jack Club in London on Saturday, November 21, 2009, after his lecture/performance on Punch and Judy [2]. The title is editorial. 

Q: When did you decide to convert to paganism and why?

B: Well, I never really converted to paganism. I mean, there are some orthodox pagans, if you can have such a thing, who probably think I am not one. But I’m a Nietzschean and that’s a different system. Somebody made this for me. [Points to odal rune pendant.] And I like Odinic paganism sort of as an objectification of my sort of sensibility. Does one believe the gods objectively exist in another realm? Well, you see, religion is a philosophy about life which is sacristic and has rituals in which you partly act out, therefore it’s more important because it’s made slightly more concrete than ideas or it’s really just based upon ideas. There are relatively simple but powerful ideas at the crux of all the big religious systems. Most people are born in a system and just accept that and go along with it as long as it’s not too onerous or they feel like they live their life through it properly.

I just agree with the ethics of that type of Nordic paganism, which is really how the Vikings lived and how they behaved. I’m less concerned with small groups, which I respect. I like the Odinic Rite, but I personally believe that those sorts of things will only ever activate post-modern minorities and very small ones at that.

I think people should identify with what they think they are and the values that they hold. This symbol really means strength or courage or masculinity or the first man or the first principle of war or the metaphysics of conflict. So, I just think it’s a positive system of value.

I never really was a Christian. Culturally, I have great admiration for elements of Christian art. More so than most people who are pagan who have violently reacted against it. I don’t really share that emotionalism. But I don’t agree with Christian ethics. Deep down, they’ve ruined the West, and we’re in the state that we are because of them.

Q: Just added on to that: How do we create more Nietzscheans? How do we spread Nietzscheanism as a religion, as an idea?

B: You’ve got to get people quite young. I think you’ve got to introduce alternative value systems to them. This is a society that says weakness is good, weakness should be pitied, the ill are weak, the disabled are weak, people who’ve got various things wrong with them (too fat, too thin, bits dropping off) they need help. They may need help. But the value system that lies behind that desire to help worships the fact of weakness and the fact that people are broken. If you worship the idea of strength and tell the weak to become stronger, which is a reverse idea for helping them essentially. You help them in order to get stronger. You totally reverse the energy pattern and you’ve reversed the system of morals that exists in this culture now. You’ve reversed the sort of things that Rowan Williams or his predecessor or his likely successor always says, basically. I think that’s what you have to do.

I personally think it’s a moral revolution, not anything political, that will save the West, because all the technology is here, all the systems of power are here. You only have to change what’s in people’s minds. It’s very difficult though.

Q: So, to a young person watching this video, never heard of you before, where would he go to find out about Nietzscheanism?

B: Just go to the Wikipedia page, surprisingly, although it’s a bit trivial, is actually quite accurate in a tendentious way. Although some of the philosophical debates about him and the genealogy of his works might confuse people because it views it in an academic way. And you don’t need to put his name to it. There’s a cluster of power-moral, individualistic, elitist, partly antinomian, partly gnostic, partly not, partly pagan, vitalist and other ideas which go with that sort of area.

Strength is morality. Weakness is sin. Weakness requires punishment. If you’re weak, if you’re obese, if you’re a drug addict, become less so. Become stronger. Move towards the sun. Become more coherent. Become more articulate. Cast more of a shadow. It’s almost a type of positive behaviorism in some ways. But it’s not somebody wagging their finger and so on, because you’re doing it for yourself. It comes from inside.

Q2: Do you not think though that Nietzscheanism doesn’t have a transcendental element to it?

B: That’s why I’m wearing this [rune pendant], you see, because I probably think there ought to be such a thing. Many people need to go beyond that. If his thinking before he went mad, probably because he had tertiary syphilis, it’s up to sort of 1880, so we’re talking about thinking that’s 130 years old.

I think in some ways he’s an anatomist of Christianity’s decline, because Christianity been declining mentally and in some ways extending out into the Third World where it’s real catchment area now is. I mean, there will be a non-White pope soon. Christianity will begin to wear the face of the south very soon. It’s the ideal religion for the south. It’s pity for those who fail, for those who are weak, for those who are hungry, for those who are broken. Have pity on your children, O Lord. It’s an ideal religion. Don’t take it through violence or fear or aggression. Submit and be thankful for what He will give you in His wisdom.

But it’s ruining us. For centuries we were strong even despite that faith, but of course we made use of it. The part that fits us is the extreme transcendence of Christian doctrine. That’s what Indo-Europeans like about that faith. The enormous vaulting cathedrals, the Gothic idea that you can go up and up and up. It’s that element in it that we like, and we made into ourselves. But we forgot the ethical substratum. We forgot the sort of troll-like ethical element that there is no other value but sympathy, there is no other value than compassion, that love is the basis of all life. And ultimately that is a feminine view of civilization which will lead to its collapse in masculine terms.

Q2: How would you view the works of Julius Evola?

B: Yes, they’re the counter-balance to Nietzsche. There is a lot of religious elements in there of a perennialist sort that a lot of modern minds can’t accept. You see, Nietzsche is a switchblade, and nearly all people in this society are modern even if they think they’re not. Nietzsche is a modern thinker. Nietzsche is a modernist. Nietzsche can reach the modern mind. Nietzsche’s the most Right-wing formulation within the modern mind that people can accept.

My view is that people who accept Evola straight out aren’t living in the modern world. That’s not a criticism. It’s a description of where they are. I think for people to become illiberal they have to become illiberal first within the modern world. Some people would say you have to go outside of it. You know, the culture of the ruins and the revolt against the modern world, per se. But I personally think that we’re in modernity.

But there will be people who go to Nietzsche and Thus Spake Zarathustra, which is really a semi- or pseudo-religious text, is not enough and they’ll want to go beyond that and they’ll want a degree and a tier of religiosity. The dilemma always in the West is what to choose. Back to Christianity or on to paganism? Which system do you choose?

Evola said he was a Catholic pagan, didn’t he? One knows what he means. But I see paganism peeping out of everything. I see paganism peeping out of Protestantism, the most Jewish form of Christianity, through its power-individualism and its extremist individuality (Kierkegaard, Carlyle, Nietzsche). I see paganism saturating Catholicism and peeping out of it at every turn, aesthetically, artistically, the art of the Renaissance, the return of the Greco-Roman sensibility, the humanism of the ancient world. Some of the greatest classicists were Medieval Popes and so on. I see it just looming out. The whole structure of the Catholic Church is a Roman imperial structure, Christianized. So, I see it peeping out.

Our law is Roman. All of our leaders were educated and steeped in the classical world to provide a dialectical corollary to Christianity without them being told that’s what is happening. The decline of the classics is partly because people don’t want to go back there, basically. So, you don’t teach it to anyone apart from tiny little public school elites, which are .2% of the population who read a few authors who no one else even knows exist. You know, big deal.

The difficulty with Evola is that it’s a very great leap for the modern mind. Although in his sensibility, I agree with his sensibility, really. I agree with him going out amidst the bombings, not caring. I agree with that sort of attitude towards life, which is an aristocratic attitude towards life. But we’re living in a junk food, liberal, low middle class society. You’ve got to start where you are. I think Nietzsche is strong enough meat for most people and is far, far, far too strong for 80% now.

Today, the mentally disabled have been allowed into the Paralympics. So, you will have the 100 yard cerebral palsy dash at the next Olympics in London in 2012. This is the world we’re living in. Nietzsche would say that’s ridiculous and so on. And that is a shocking and transgressive and morally ugly attitude from the contemporary news that we see. So, it’s almost as if Nietzsche’s tough enough for this moment.

But I’m interesting in that he said, “God is dead in the minds of men.” That doesn’t necessarily mean, of course, although he was a militant atheist, he’s living open the idea that . . . [God objectively exists—Ed.]. You see, the Christian idea of God was dying around him, mentally, and it has died. I mean, hardly anyone really, deep down, believes that now. Even the people who say that they do don’t in the way that they did 100 years ago or their predecessors did.

So, it has died, but I think there are metaphysically objectivist standards outside life. Whether our civilization can revive without a return to them is very open. It’s very questionable. Where that discourse is to come from is . . . The tragedy would be if Christianity sort of facilitated our greatness, but ended up ruining us, which of course might be the true thesis.

Now we’re getting into deep waters.

Q: What is your view of Abrahamic religions?

B: I think religion is a good thing. The Right always supports the right of religion to exist. Religion does cross ethnic and racial boundaries. Afghanistan was Buddhist once. I prefer people to have some sort of religious viewpoint, even the most tepid sort of thing, but none at all, because at least there is a structure that is in some sense prior.

But, personally, I prefer tribally based religions. I prefer religions that are about blood and genetics and honor and identity and are nominalist and that are specific. But I think people will adopt different systems because they’re physiologically different even within their group. You can see that about certain people. Certain people, Christianity suits them very well and they can be quite patriotic and quite decent people and so on in that system and there we are. But for me? No.

I’m a barbarian in some ways. People can worship what gods they want within the Western tradition, and that’s all right.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2014/10/paganism-christianity-nietzsche-evola/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2012/09/NietzscheSeated.jpg

[2] Punch and Judy: http://www.counter-currents.com/2013/03/the-real-meaning-of-punch-and-judy/

samedi, 11 octobre 2014

Ernst Jünger – verdichtet

Ernst Jünger – verdichtet

von Benjamin Jahn Zschocke

Ex: http://www.blauenarzisse.de  

Ernst Jünger – verdichtet

Der Literaturwissenschaftler Matthias Schöning hat zusammen mit zahlreichen Jünger-​Kennern ein ambitioniertes Handbuch zum Gesamtwerk des Meisters herausgegeben, von A wie „Arbeiter“ bis Z wie „Zwille“.

Zunächst zu den Daten: 56 Autoren, darunter zehn Frauen, stellen auf rund 450 Seiten Exposés zu allen Werken Ernst Jüngers (18951998) zusammen. Unter den Autoren finden sich Namen wie Ulrich Fröschle, Helmuth Kiesel, Steffen Martus und Ingo Stöckmann, die typischerweise für eine literaturwissenschaftliche und eben keine vordergründig politisch-​moralische Auseinandersetzung mit dem Werk Ernst Jüngers bekannt sind.

Jünger in der BRD

Auf den Herausgeber Matthias Schöning sei ein kurzes Schlaglicht geworfen: Sein Themenspektrum reicht von Aufsätzen über die Literatur in der Romantik, im Ersten Weltkrieg, in der Weimarer Republik bis hin zur DDR, aber auch zu Betrachtungen herausgehobener Autoren wie Louis-​Ferdinand Céline, Gottfried Benn und Thomas Mann.

Seine umfangreichste Arbeit leistete Schöning aber bislang zu Ernst Jünger. Bereits 2001 gab er zusammen mit Ingo Stöckmann das Werk Ernst Jünger und die Bundesrepublik: Ästhetik, Politik, Zeitgeschichte heraus und versuchte so, den zumeist einseitigen Schriften zu Jüngers politischen Werken vor 1945 ein juenger brdernstzunehmendes Gegengewicht entgegenzustellen, nicht zuletzt in der unübersehbaren Hoffnung, den Fokus der fortwährenden Debatte um Jünger auf einen bislang stiefmütterlich behandelten Schaffensabschnitt des Autors zu lenken.

Jüngers fortwährende Metamorphosen

Zwei Verwerfungslinien im Werk Jüngers werden bei der Lektüre des Handbuches offengelegt: Einerseits sein zeitlebens betriebenes Umdichten, Umdeuten und Relativieren seiner politisch gefärbten Frühwerke, das ihm von seinem Sekretär Armin Mohler kompromißlos und unnachgiebig vorgeworfen wurde und letztlich zum Bruch zwischen den Denkern führte.

Andererseits, und das ist deutlich interessanter, die Veränderungen in Jüngers Werk nach 1945. Hier sind Schöning und Stöckmann wieder in ihrem Element, denn dort beginnt die „Debatte“ um Jünger. Für beide liegt der Gedanke nahe, daß die Debatte vor allem als Symbolbildungsort für die Prozesse sozialer Integration diente und heute noch dient. Anhand der Person Jünger wird diskutiert, was man sagen darf und was nicht, was und wie erinnert werden soll, wem man die Frage nach der „deutschen Schuld“ stellt und welche Aufgabe der Intellektuelle in der BRD haben soll.

Zäsur 1945

Die Zeitenwende nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges ist auch in Ernst Jüngers Werken überdeutlich abzulesen. Diese Zäsur besteht jedoch nicht darin, daß er auf einmal vom Tagebuch oder Essay zum erzählenden Text findet. Das hat er schon 1939 mit den Marmorklippen getan.

In den zwanziger und dreißiger Jahren stehen Jüngers Texte in einem unmittelbar zeitdiagnostischen Zusammenhang. Der Autor ist in alle wesentlichen Ereignisse dieser Zeit denkend involviert. Mit dem Ende des Krieges ändert sich das: Jünger geht zum Zeitgeschehen und zu den Hauptdiskursen der BRD auf Distanz.

Das äußert sich darin, daß er zu keinem der Gründungsmythen, die für die BRD etabliert wurden, einen Beitrag leistete. Er bedient sich weder der Auffassung der „Stunde Null“, noch jener der „Restauration“. Er blieb bis ans Ende seines Lebens auf elitärstem Niveau außen vor.

Dem heutigen Leser, dem diese Debatten vielleicht nicht einmal mehr dem Namen nach bekannt sind, ist mit dem Handbuch ein grundsolides Werk in die Hand gegeben, das zum ersten Entdecken ebenso einlädt wie zum Vertiefen der Erkenntnisse des Fortgeschrittenen.

Matthias Schöning (Hrsg.): Ernst Jünger-​Handbuch. Leben – Werk – Wirkung. 439 Seiten, J. B. Metzler Verlag 2014. 69,95 Euro.

dimanche, 05 octobre 2014

Ernst Jünger, contemplatore in uniforme e maestro di libertà

cache_2433942559.jpg

Ernst Jünger, contemplatore in uniforme e maestro di libertà

Ernst Jünger fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d'intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale».
 

L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di san Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali. Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».

Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.

In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito. L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti. E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.

Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).

Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin). La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.

Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte. Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?

Non condividiamo il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico. Ernst Jünger fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». «Le isole – insegna – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.