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dimanche, 11 janvier 2009

Poutine règle ses comptes...

POUTINE REGLE SES COMPTES


Nous sommes opposés à l’élargissement de l’OTAN en général. L’OTAN a été créée en 1949. Son objectif était la défense et la confrontation avec l’Union Soviétique, pour se protéger d’une éventuelle agression, comme on le pensait à l’époque. L’Union soviétique n’existe plus, la menace non plus, mais l’Organisation est restée. D’où la question : contre qui faites-vous "ami-ami" ? (...) Elargir l’OTAN, c’est ériger de nouvelles frontières en Europe, de nouveaux murs de Berlin, invisibles cette fois mais pas moins dangereux. La défiance mutuelle s’installe. C’est néfaste. Les blocs militaro-politiques conduisent à une limitation de la souveraineté de tout pays membre en imposant une discipline interne, comme dans une caserne. Nous savons bien où les décisions sont prises : dans un des pays leaders de ce bloc. (...)


Je ferai une autre remarque : la démocratie, c’est le pouvoir du peuple. En Ukraine, près de 80 % de la population est hostile à une adhésion à l’OTAN. Nos partenaires disent pourtant que le pays y entrera. Tout se décide donc par avance, à la place de l’Ukraine. L’opinion de la population n’intéresse plus personne ? C’est ça, la démocratie ? »



Vladimir Poutine, interviewé par Le Monde, 31 mai 2008

00:18 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : russie, poutine, géopolitique, otan, atlantisme, eurasisme, eurasie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 10 janvier 2009

La Shanghai Cooperation Organization ed il nuovo "Grande Gioco"

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La Shanghai Cooperation Organization ed il nuovo «Grande Gioco»

http://www.eurasia-rivista.org

di Andrei Areshev*

Lo sviluppo di agosto nel Caucaso e la crisi finanziaria globale dei paesi occidental, risultante dalle politiche avventurose che hanno condotto gli Stati Uniti, hanno predeterminato il bisogno di un nuovo posizionamento dei principali giocatori del mondo e del loro atteggiamento nei confronti dei punti chiave sull'agenda globale. Ciò si applica alla Russia, in primo luogo.

Convalidando le misure da prendere per evitare le minacce poste alla Russia dal sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti, il presidente russo Dmitry Medvedev, nel suo indirizzo alla nazione del 5 novembre, ha sottolineato la loro natura forzata, “abbiamo ripetutamente detto ai nostri partner che siamo aperti alla cooperazione positiva. Vorremmo neutralizzare le minacce comuni ed agiamo in tal modo insieme. Purtroppo, siamo notevolmente afflitti dalla riluttanza dei nostri partner ad ascoltarci”.

L'elezione di Barack Obama ha incontrato un grande ottimismo, sia in Europa che da determinate parti nella Russia, non dovrebbe ingannare: basta ricordare Clinton e gli attacchi aerei alla Jugoslavia che aveva ordinato. “Dovremo prendere decisioni molto difficili, anche quelle pertinenti gli affari internazionali… Ho lavorato sotto sette presidenti. Garantisco che così sarà. Posso offrirvi cinque o sei varianti, per esempio, il Medio Oriente o la Russia”. [all'inverso nella traduzione dal Russo. - edit.], ha detto durante la campagna elettorale Joseph Biden, asso degli affari esteri e nuovo vice presidente.

In questo contesto, un più dinamico ‘vettore orientale’ nella politica estera russa, volta alla cooperazione economica e militar-politica con gli alleati della Russia in Asia centrale e nella regione dell’Asia Pacifica, dovrebbe essere considerata come una cosa naturale. Stabilito negli anni ’90, come semplice meccanismo per le consultazioni sulle questioni di frontiera, l'organizzazione della cooperazione di Schang-Hai (SCO) sta trasformandosi gradualmente in un fattore importante della politica globale. Ciò è dimostrata, definitivamente, dal suo lavoro dinamico e dal vivo interesse da parte di nuovi potenziali membri. Basti dire che quattro stati nucleari, compreso l'India ed il Pakistan, finora sono stati coinvolti direttamente o indirettamente nelle sue attività. La tendenza verso l'ampliamento dell'organizzazione indica che i paesi euroasiatici più importanti sono delusi dagli Stati Uniti e stanno provando a risolvere i problemi regionali riunendo le loro forze e senza alcun mediatore.

A seguito della crisi di agosto nel Caucaso, le consultazioni politiche all'interno del SCO si sono intensificate. La sessione del Consiglio dei Ministri del SCO ha approvato un progetto di regolamento sullo status di partner dialogante dell'Organizzazione della Cooperazione di Schang-Hai, a Dushanbe, fin dal 25 luglio.

Il 28 agosto 2008 ha visto la firma della dichiarazione di Dushanbe, con le questioni economiche poste come e loro priorità, “a dispetto del contestuale rallentamento economico globale, la valuta responsabile e le politiche finanziarie, il controllo dei movimento di capitale, la sicurezza energetica ed alimentare”. Verso la fine di ottobre, Astana, la capitale del Kazakhstan, ha ospitato la sessione dei capi di governo del SCO assistiti dai primi ministri Kirghiso, Russo, Tajiko, Cinese, Uzbeco e Kazako. La sessione ha adottato le risoluzioni interessate a registrare il piano d'azione per ottenere l'attuazione del programma del commercio multilaterale e della cooperazione economica degli stati membri del SCO, specialmente, le risoluzioni sul rendiconto finanziario del SCO nel 2007, il preventivo per il 2009 ed un certo numero di altri argomenti organizzativi.

I capi di governo del SCO hanno firmato un comunicato congiunto sul risultato della sessione ed erano presenti alla firma del protocollo sullo scambio delle informazioni e sul controllo dei movimenti delle fonti di energia da parte dei servizi della dogana degli stati membri del SCO. Malgrado la mancanza di accordi innovativi, la sessione è stata tra quelle più fruttuose, poiché la crisi finanziaria alimenta l’interesse reciproco di Russia e Cina nelle varie forme di coordinazione regionale. Sarebbero state espresse l’intenzione che Mosca e Pechino vogliano usare lo SCO come moltiplicatore di forza nella promozione più dinamica delle loro idee per la riforma del sistema dei cambi attuale.

Lo SCO è divenuto un argomento influente della geopolitica. Una dichiarazione del ministero degli esteri del Kazakhstan, chiede che lo SCO sia trasformato gradualmente in un'organizzazione regionale completa.

Gli sforzi dinamici del SCO hanno apertamente infastidito Washington, che vi vede, regolarmente, il progetto di un cosiddetto 'egemonismo Cinese' e 'Imperialismo russo’. Il loro fastidio parla da sé, dati pilastri su cui si basa la politica estera di Washington in Eurasia, “malgrado i desideri dei politici francesi e cinesi, nessuna situazione di compensazioni o federazione ristabilirà un sistema di equilibrio dei poteri analogo a quello dell’Europa dei secoli diciottesimi e diciannovesimi, almeno non nell'immediato futuro.

Malgrado i desideri degli idealisti, nessuna istituzione internazionale ha dimostrato d’essere capace di un’efficace azione, in assenza del potere generato ed esercitato dagli stati [Storia ed Iperpotenze di Cohen E. La Russia nella politica globale. 2004, 5° edizione]”. Naturalmente, quando una tal alleanza o persino un suo suggerimento emerge, gli strateghi degli Stati Uniti fanno del loro meglio per screditarla e piantare un cuneo fra i suoi membri - e più presto agiscono, è miglio è. Secondo Cohen, “l'organizzazione della cooperazione di Schang-Hai è uno strumento con cui la Cina aumenta la sua influenza in Asia centrale. Questa organizzazione impedisce agli Stati Uniti di parteciparvi come osservatore, benché questa condizione sia stata data al Pakistan, all’India e all'Iran. Possibilmente, la Cina, la Russia e l'Iran proveranno almeno ad impedire a Washington di ampliare la sua presenza nella regione, se non di spodestare gli Stati Uniti dalla regione”.

Anche se tale apprensione è stata giustificata, non c’è, ovviamente, alternativa a stabilire un coordinamento fra i paesi eurasiatici, basandosi sulla fiducia e sulla massima affidabilità. Come è noto, il supporto ai mojaheddin afgani, negli anni ‘70 e ‘80, ha trasformato un paese precedentemente benestante (sul piano regionale, naturalmente) in una terra devastata e fonte del traffico di droga e del terrorismo internazionale. A seguito dell'approvazione dell'Iniziativa d’Istanbul, dell'accesso negli stati arabi del Golfo Persico, dell'entrata delle forze militari nell'Afghanistan, dell’istituzione di basi militari in Asia centrale e della disponibilità di una Georgia addomesticata e del baluardo locale della NATO, la Turchia, l'introduzione della supremazia totale degli Stati Uniti nel heartland euroasiatico sembrava avere la strada spianata. Allora, vi furono il blitzkrieg all'Irak, con l'Iran indicato quale obiettivo seguente, ma la fortuna di Bush non è durata affatto a lungo, a quel punto. Ora, la guerra permanente in Irak, costa al contribuente degli Stati Uniti oltre gli 8 miliardi di dollari al mese. Ora che i 'peacekeepers' internazionali, soprattutto Americani, hanno occupato virtualmente l'Afghanistan, ognuno ammette che la droga prodotta nel paese e, quindi, il traffico di droga ha fatto un balzo in avanti di varie volte, almeno. Ora, dopo sette anni di combattimenti in Afghanistan, vi sono colloqui per un altro accordo fra la coalizione occidentale ed i Taliban. Un tal accordo può creare i prerequisiti supplementari per l’ulteriore destabilizzazione dell'Asia centrale.

La situazione in Irak non è migliore, dove nessuno calcola le perdite civili causate dall'aggressione degli Stati Uniti. Un attacco degli Stati Uniti all'Iran, che rimane all'ordine del giorno, può provocare anche un maggior disordine sul cortile meridionale della Russia.

Nessun dubbio gli Americani stanno cercando freneticamente un'efficace risposta ai tentativi di Mosca, Pechino e dei loro alleati del SCO d’istituire un sistema di sicurezza regionale. Determinati eventi in Asia centrale indicano i possibili pericoli e le minacce alla regione nell'immediato futuro. L'idea di una penetrazione accelerata e del soggiorno a lungo termine in Asia centrale, ricca d’energia, degli Stati Uniti è lontano dall’essere vuota chiacchiera o pio desiderio.

Circola l’idea d’instaurare un forum regionale gabbato come Partnership for Cooperation and Development of Greater Central Asia per progettare, coordinare e fare funzionare un’ampia serie di programmi inventati dagli Stati Uniti. Secondo gli strateghi degli Stati Uniti, se gli Stati Uniti vorranno agire unilateralmente, dovranno ricorrere a una leadership ragionevole e, senza considerevoli spese, fungere da ostetrica per la rinascita di un’intera regione d’importanza globale.

Passi pratici sono stati pure presi. Per esempio, il ministero del commercio e l'agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti hanno concesso al Tajikistan 875.300 dollari per affrontare la scarsità d’energia elettrica. L'ambasciata degli Stati Uniti, a Dushanbe, ha dichiarato che gli Stati Uniti inoltre hanno assegnato due concessioni per complessivamente 13,4 milioni di dollari al Tajikistan, per rafforzare il confine con l'Afghanistan, il principale fornitore di droghe in Russia ed Europa, secondo la Reuters. 6,5 milioni di dollari, inoltre, sono stati spesi per la costruzione di edifici della dogana e l’equipaggiamento della guardia di frontiera al checkpoint di Power Panj. In quella zona, 180 chilometri a sud di Dushanbe, un ponte stradale da 28 milioni di dollari sponsorizzato dagli Stati Uniti, è stato ordinato nel 2007. Tuttavia, è una domanda legittima chiedersi dove la generosa cura della sicurezza degli stati centro-asiatici recentemente indipendenti si conclude e lo schieramento d'infrastrutture militari, con gli altisonanti slogan sulla 'transizione alla democrazia' comincia.

Attualmente gli Stati Uniti sono i partner commerciali più importanti del Kazakhstan. Nei primi sei mesi del 2008, il giro d'affari dei due paesi ha superato gli 1,1 miliardi di dollari. La precedente enfasi sull'investimento degli Stati Uniti nel settore dell'energia e delle materie prime, probabilmente nel complesso persisterà. L'America ha attribuito importanza al Kazakhstan nel campo della sicurezza regionale, interessata al settore chiave della cooperazione bilaterale, cosa determinata dalla situazione in Afghanistan e dagli sforzi antiterroristi degli USA. Questo punto di vista è stato sostenuto dalla visita dell'ottobre 2008 del ministro degli esteri degli Stati Uniti Condoleezza Rice ad Almaty. La signora Rice ha notato che il Kazakhstan è rimasto un pilastro della politica degli Stati Uniti in Asia centrale, durante i contrasti nella sicurezza che vanno dalla Georgia all'Afghanistan.

Washington crede che sia impossibile non solo perseguire una politica afgana, la lotta al traffico di droga e al terrorismo internazionale, ma anche organizzare un sistema di sicurezza per l’Europa e l'Asia centrale senza la cooperazione completa fra l'occidente ed il Kazakhstan. Il Kazakhstan inoltre è un partner chiave della NATO nella regione. Washington funge da forza motrice nella cooperazione fra la NATO e il Kazakhstan. Fra gli stati asiatici centrali, il Kazakhstan ha i rapporti più stretti con l'alleanza. Con l'approvazione del piano d'azione specifico d’associazione, all'inizio del 2006, il Kazakhstan ha aumentato la sua integrazione con l'alleanza Nord-Atlantica.

L'atteggiamento dei principali giocatori internazionali verso l’Uzbekistan sopra nei passati anni, si sta rivelando anch’esso. Dopo la rivolta d’Andijan il presidente Islam Karimov ha compiuto una visita a Pechino, in cui gli è stato offerto un considerevole supporto economico e politico. Quindi il presidente Uzbeco ha visitato Mosca, dopo di che il suo atteggiamento nei confronti degli Stati Uniti e la loro base aerea a Karshi-Khanabad, è diventato più duro.

La risoluzione del summit del SCO tenutosi ad Astana nel 2005, stipulato dai firmatari del SCO determinerà più accuratamente il momento per dare ospitalità alle basi militari antiterroriste degli Stati Uniti sul loro territorio, stabilito nell'ambito del pretesto della campagna antiterrorista in Afghanistan.

Inoltre Tashkent ha chiesto agli Stati Uniti di ritirare le loro forze dalla base aerea di Karshi-Khabad, ma è stato sottoposto, invece, ad una pressione politica ed economica senza precedenti, avviata da Washington e dai suoi alleati europei. Tuttavia la reazione quasi isterica dell'occidente, ha condotto rapidamente ad un marcato ripensamento verso l'Uzbekistan. Il Generale degli Stati Uniti, Martin Dempsey, Comandante del CENTCOM è andato a Tashkent il 28 agosto. La sua visita, si pensa, avesse lo scopo di un possibile ristabilimento della presenza militare degli Stati Uniti in quanto paese centro-asiatico d’importanza strategica.

Dmitry Trenin, un autorevole ricercatore del centro Carnegie di Mosca, spiega il vero significato delle installazioni militari degli Stati Uniti nella regione, “dal punto di vista di Beijing, la presenza militare degli Stati Uniti in Asia centrale è un potenziale ‘Fronte occidentale’ degli Stati Uniti contro la Cina. Utilizzando le loro basi in Uzbekistan e in Afghanistan, gli Stati Uniti possono coprire con i voli aerei, gli obiettivi strategici nella zona occidentale della Cina, compresi i suoi impianti nucleari. Inoltre, nel caso di un conflitto, gli Stati Uniti potranno colpire sia la costa Est della Cina, che le sue linee di comunicazione terrestri occidentali.

Sembra che questi fattori, che sono chiamati 'multilateralismo' in modo politicamente corretto, non dovrebbero essere trascurati, mentre sono perplesso sulla riservatezza mostrata dagli alleati della Russia nel SCO, durante la crisi osseta del sud di agosto ed al successivo riconoscimento ufficiale di Mosca dell'indipendenza delle due ex regioni autonome georgiane. I membri del SCO sono noti per sostenere completamente la Russia a porte chiusi ma ufficialmente per limitarsi all'approvazione degli sforzi della Russia a mantenere la pace in Ossetia del sud, mentre allo stesso tempo riaffermano la loro adesione al principio dell’integrità nazionale degli stati. Allo stesso tempo, è assolutamente chiaro che le dichiarazioni convenzionali dei funzionari di Pechino, nel sostenere l'integrità nazionale della Georgia, non garantiscono affatto le autorità cinesi dai problemi nelle loro zone autonome del Xinjiang e del Tibet. Questi problemi erano molto in vista sia prima che durante le Olimpiadi a Pechino.

Come è risaputo, l'interesse di Washington verso i separatisti tibetani ed i Uiguri, data da parecchio tempo ed è a lungo termine. Nel caso dell’intenzionale alimentazione del focolaio di tensioni, una 'forza internazionale per il mantenimento della pace' può ben essere schierata al confine occidentale della Cina, in modo simile allo schieramento in Kosovo. Le dure dichiarazioni ripetute contro la Cina, dai funzionari degli Stati Uniti, sono sufficienti nel fare supporre che i tentativi di destabilizzare la situazione nella PRC saranno limitati, se saranno interessati dalla situazione il Kazakhstan, il Kirghizstan, il Tajikistan e l’Uzbekistan. È più conveniente prevenire le minacce alla frontiera e cercare soluzioni comuni contro il problema afgano nel quadro del SCO.

L'approfondimento di questa cooperazione porrà i prerequisiti per una coordinazione più stretta della politica estera della Russia con quelle della Cina e degli altri alleati, anche in altri settori.. Vi è l’opinione che il principale ostacolo sulla via di una maggior efficienza dell'organizzazione della cooperazione di Schang-Hai sia la rivalità fra la Russia e la Cina. La discussione su tale rivalità è stato alimentata da vari think tanks in Russia, non risparmiando sforzi per infondere nel ceto dirigente e nel pubblico russi il timore della 'espansione Cinese', 'Reclami territoriali cinesi alla Russia', ecc.

Nel frattempo, il timore può solo facilitare la presa di decisioni chiave su argomenti strategici. Il corso generale dei rapporti all'interno del triangolo Russia - Stati Uniti - Cina difficilmente sembra evolversi verso un confronto fra Mosca e Pechino. Il PRC e la Russia hanno iniziato a competere con gli Stati Uniti per il più efficace dominio in Asia centrale. Ciò non è affatto un capriccio o una manifestazione di cosiddette ambizioni imperiali, ma un assai pertinente problema di sicurezza nazionale russa, nel contesto delle limitate infrastrutture della guardia di frontiera della Russia, al sud, e nella debolezza dei suoi alleati della coalizione antiterroristica, nella possibilità di una provocazione del crescente estremismo radicale islamico politicizzato, nella regione.

In una parola, la strategia euroasiatica degli Stati Uniti ha notevolmente facilitato la cooperazione fra la Russia e la Cina, che superano la loro rivalità. Nella nuova situazione internazionale, è vitale per la Russia che ci sia stabilità effettiva nelle zone adiacenti al suo confine. Ciò armonizza l’interesse vitale di questo paese con gli stessi interessi della Cina, dell'India e dei firmatari centro-asiatici del SCO.

Fino a che gli stadi del SCO sono interessati, l'organizzazione non sarà un blocco militare come la NATO, né una conferenza permanente aperta sulla sicurezza come l’ASEAN, ma qualcosa nel mezzo. La trasformazione del SCO in un'organizzazione capace di una efficace risoluzione, inter alia, delle questioni di difesa comune, diventerà assai più rilevante con il crescere delle tensioni sul continente euroasiatico, che viene è provocato da esterni, ed aumenterà ulteriormente. In una tal situazione, è importante prepararsi trovando le giuste risposte alle sfide di domani, impiegando l’intera gamma di mezzi disponibili.

*Strategic Culture Foundation http://en.fondsk.ru/article.php?id=1821 24.12.2008
MILITARY DIPLOMAT - 2008 - N 4-5 - p. 3-10



Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru/
http://sitoaurora.altervista.org/
http://sitoaurora.narod.ru/
http://xoomer.virgilio.it/aurorafile

Regard éclairé d'un Américain sur l'Iran

REGARD ECLAIRE D’UN AMERICAIN SUR L’IRAN


Ahmadinejad « L'important, c'est le pétrole. Nous autres, Américains, sommes beaucoup plus dépendants d'un pétrole bon marché que les Français. Or l'Iran pourrait très bien prendre le contrôle du golfe Persique en fermant le détroit d'Ormuz, et détruire en quelques minutes (grâce à ses batteries de missiles) les installations pétrolières saoudiennes. Il priverait donc très facilement le marché mondial de 17 milliards de barils. Il ne le fera pas, mais cette menace constitue une force de dissuasion qui empêche les Etats-Unis d'envahir ou d'attaquer le pays. De plus, 90% des habitants du Golfe sont chiites, et pour l'heure sont sensibles à l'influence de l'Iran.


Soyons lucides : les Arabes, qu'il s'agisse des Palestiniens, des Egyptiens ou des Jordaniens, ont mené contre Israël un combat complètement inefficace. Seul le Hezbollah chiite, soutenu par l'Iran, a pu faire reculer les Israéliens. Les Arabes sont donc forcés de se tourner vers l'Iran, qui devient ainsi un empire par procuration, et qui excelle dans ce rôle. Le peuple iranien est intelligent, et sa civilisation est millénaire. Il est sans aucun doute beaucoup plus ouvert à la modernité que les Arabes. C'est un pays stratégiquement très patient qui calcule ses coups à long terme face à un ennemi américain incapable de planifier son action plus d'une semaine à l'avance. La situation pourrait se résumer ainsi : l'Iran est le pays le plus stable, le plus influent et le plus puissant du Moyen- Orient, et les Etats-Unis devront, ou bien le combattre pendant les trente années à venir, ou bien parvenir à un accord de coexistence. (...)


C'est un empire hybride, fondé à la fois sur un armement ultramoderne et sur une stratégie de guérilla et de guerre asymétrique. (...) L'Iran est parvenu à convaincre les Arabes qu'il est le seul à combattre le colonialisme. Le secret de l'Iran, c'est d'accorder à ses alliés, Hezbollah compris, du pouvoir et du respect. Ses agents ont formé Hassan Nasrallah à ne pas recevoir d'ordres, mais à compter sur ses propres forces et à s'affirmer comme leader autonome. Et Nasrallah ne reviendra pas là-dessus. (...) Ce système de délégation de pouvoir ne se fonde ni sur l'argent ni sur la contrainte, mais sur une foi partagée. Tel est le message iranien : seul l'Iran est capable de mettre fin à la domination occidentale au Proche-Orient. L'Iran représente donc, ne serait-ce que par défaut, le seul espoir crédible. (...)


Les Américains font preuve d’un aveuglement délibéré, au même titre que celui qui a conduit à la crise des subprimes. Il relève d'un optimisme sans aucun fondement, qui a également présidé à l'invasion de l'Irak, que même le New-York Times soutenait. Cet aveuglement est également le fruit d'une ignorance de toute la civilisation iranienne, qu'on réduit à la seule personne d'Ahmadinejad. A la sortie de mon livre aux Etats-Unis, on m'a pris pour un fou ! Mais je persiste à penser qu'il faut admettre de considérer l'Iran comme un interlocuteur valable, sous peine de devoir lui livrer une guerre de trente ans, ce que les Etats-Unis ne peuvent certainement pas se permettre. Il faudrait mobiliser un million d'hommes et dépenser jusqu'au dernier dollar. Et au nom de quoi, cette guerre ? De la démocratie ? Du sionisme ? Ce serait pure folie. Le golfe Persique s'embraserait, le prix du pétrole atteindrait les 400 dollars le baril, et l'économie américaine serait sous un nouveau choc. (...)


Malgré ses points faibles, l’Iran est un pays capable de mobiliser un million d'hommes : soldats de l'armée régulière (d'une remarquable efficacité), gardiens de la révolution, sans compter les milices chiites à l'extérieur qui lui permettent d'intervenir par procuration. Et beaucoup d'Iraniens, même les étudiants hostiles au régime, approuvent la politique étrangère de leur gouvernement. (...)


A Washington sévit un lobby politico-médiatique qui agite toujours le même discours. On ne fait que brandir la menace de la bombe iranienne, d'un nouvel Holocauste, avec Ahmadinejad comme épouvantail. (...) Je ne crois pas plus à la bombe iranienne que je n'ai cru aux armes de destruction massive de Saddam Hussein ! C'est toujours la même propagande. La guerre d'Irak a au moins eu le mérite de faire comprendre qu'il est impossible, ne serait-ce qu'économiquement, de créer un empire néocolonial. Elle a entraîné une diminution du pouvoir réel et du prestige des Etats-Unis dans le monde. A cet égard, la crise financière peut influer dans le bon sens la politique étrangère de mon pays. Car si les Etats-Unis vivent dans l'illusion de disposer d'un argent et d'un pouvoir illimités, cela conduit toujours à la catastrophe. »



Robert Baer, ex-agent de la CIA, auteur de "Iran : l’Irrésistible Ascension", interviewé par Le Nouvel Observateur, 18 décembre 2008

 

La guerra del gas

 

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La guerra del gas

http://www.rinascitabalcanica.info

 



Si è tenuta oggi a Bruxelles la riunione tra il direttore esecutivo Gazprom Alexei Miller e i dirigenti della Commissione europea, per illustrare lo stato attuale della crisi di fornitura e di transito del gas attraverso il territorio ucraino. La Russia riattiverà le forniture se l'Ucraina acconsentirà l'ispezione degli osservatori europei, e garantirà successivamente il transito.

Dopo soli pochi giorni di tagli alle forniture di gas, molti Stati Europei cominciano ad essere vittima del caos e del panico, oltre che del freddo, nonostante le rassicurazioni impassibili dei rispettivi Governi.  Continua dunque ad imperversare quella che può essere definita "la guerra del gas", scatenata da Russia e Ucraina senza nessun preavviso o misura cautela per preservare tutte le controparti coinvolte, ripetendo testardamente lo stesso errore del 2006. Tra l’altro, le schermaglie dei due litiganti hanno dato vita ad una diffusa disinformazione, tra accuse reciproche e intimidazioni, sintomo evidente della reciproca responsabilità dei due operatori energetici. La regione europea orientale, e la stessa Germania, sono rimaste senza gas, e chi ne ha la possibilità ricorre alle riserve strategiche. I Balcani non hanno alcun approvvigionamento di gas, che non può essere compensato con il ricorso agli stoccaggi, ma solo alla riconversione energetica con altri combustibili più costosi. Anche l’Italia non riceve da due giorni il gas russo, registrando secondo quanto riportato dall’ENI una sostanziale interruzione del gas proveniente dal gasdotto TAG, vedendosi così costretta ad aumentare il ricorso agli stoccaggi per compensare il calo delle importazioni. Il Ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola ha stimato un’autonomia non superiore alle tre settimane, in considerazione del fatto che l’apparato infrastrutturale italiano non ha avuto negli ultimi anni delle migliorie sensibili che possano compensare l’ammanco delle forniture provenienti della Russia. Si cerca dunque di massimizzare gli approvvigionamenti dagli altri Paesi fornitori (Algeria, Libia, Norvegia, Olanda, Gran Bretagna), ma anche dalla Slovenia, a cui sono stati già richiesti circa 200 mila m3 di gas al giorno.


Nel frattempo, si è tenuta oggi a Bruxelles la riunione tra il direttore esecutivo Gazprom Alexei Miller e i dirigenti della Commissione europea, per illustrare lo stato attuale della crisi di fornitura e di transito del gas attraverso il territorio ucraino. Miller ha incontrato il Commissario europeo per l'Energia Andris Piebalgs, il Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso e il Presidente del Parlamento europeo Hans-Gert Pottering. Allo stesso tempo, nella nottata tra la giornata di mercoledì e giovedì, si è avuto un faccia-a-faccia tra i dirigenti  Gazprom e Naftogaz  Ukraine a Mosca, quali Alexei Miller e Oleg Dubina, per giungere ad un compromesso per porre fine alla crisi.   Mosca rimane ferma sulla tesi secondo cui Gazprom ha sospeso le forniture di gas verso l'Ucraina dopo che non era stato raggiunto nessun compromesso sull’accordo commerciale per il 2009 e la liquidazione degli arretrati: una minaccia inutile se non attuata. Pur assicurando che il taglio interessava solo le esportazioni di gas destinate al consumo interno dell’Ucraina, Gazprom si è detta costretta a sospendere tutte le forniture sul territorio ucraino, in quanto la società energetica ucraina Naftogas  ha deviato più di 86 milioni di metri cubi di gas russo destinato al mercato europeo,  mentre la società RosUkrEnergo non ha ricevuto 25 milioni di metri cubi dalla UGS Ucraina. Il gigante russo ha poi intimato la società ucraina di restituire, mediante le proprie riserve, il gas che non è stato ricevuto dai consumatori europei.  Al contrario, il Vice Presidente della  Naftogaz Vladimir Trikolich accusa apertamente Gazprom, e afferma che "la Russia non ha neanche cercanto di riaprire il deposito del transito del gas attraverso l'Ucraina",  e che "Gazprom ha completamente bloccato le forniture di gas per l'Ucraina e lo stesso transito di gas verso l'Europa".  Secondo Kiev, la propaganda russa è deliberatamente volta a screditare la Naftogas e lo stesso Stato ucraino, a cui vengono imputando tutte le responsabilità per la cessazione della fornitura di gas ai Paesi Europei.


 Ora la Russia chiede che sia garantito il transito del gas e l’autorizzazione del controllo da parte di osservatori internazionali come condizione per la ripresa delle forniture di gas alle frontiere.  Il Presidente russo Dmitri Medvedev ha infatti ribadito che, prima di riaprire le condutture, è necessario autorizzare il monitoraggio da parte di rappresentanti  Gazprom, Naftogaz, le autorità ministeriali dei due Paesi e gli osservatori della UE.  La controparte ucraina, da parte sua, si dice pronta a fornire il transito di gas russo verso l'Europa, come affermato da Oleg Dubina nel corso di una conferenza stampa con i giornalisti al termine dei colloqui a Mosca con Miller. "La situazione attuale e le incomprensioni derivano da questioni economiche, non da problemi politici. Essi devono essere risolte in conformità degli interessi economici delle parti", afferma Dubina, aggiungendo che l'Ucraina è pronta a garantire il transito di gas verso l’Europa, e che la parte russa deve comunque garantire la fornitura di una certa quantità di gas necessaria al funzionamento del compressore e delle stazioni di transito.  Allo stesso modo si dice favorevole ad ammettere l’ingresso sul territorio degli osservatori dell'Unione Europea per il monitoraggio di gas. "I nostri uomini sono pronti ad entrare sul territorio ucraino. Stiamo aspettando l'esito della riunione tra i capi di Gazprom e Naftogaz", ha riferito  Pottering dopo l'incontro con il Vice Primo Ministro d'Ucraina Grigory Nemyreem.


In un modo o nell’altro, sembra che la situazione stia lentamente tornando alla normalità, dopo che Mosca e Bruxelles hanno dettato delle precise condizione per lo sblocco della crisi energetica. Molto probabilmente l’emergenza rientrerà da qui a pochi giorni, viste le forti pressioni giunte dai vertici delle Istituzioni Europee e dei singoli Stati membri.  L'esito della grande crisi sarà comunque negativo, in quanto i prezzi saranno aumentati e i Paesi fornitori si sentiranno,  a maggior ragione, in balia della lotta perpetua di Mosca per il controllo della regione, sia dal punto di vista energetico che politico. Il rapporto fornitore-consumatore è stato in qualche modo incrinato, non essendovi nei fatti una strategia di cooperazione reale, al punto che basta una lite commerciale per decretare il taglio secco e totale dell’energia, senza la minima considerazione per i possibili danni economici e reali che si provocano. Il tutto si riduce ad un gioco-forza per ottenere il dominio delle proprie zone di influenza. La "guerra del gas" dichiara sconfitta innanzitutto l’Europa, impotente e impreparata nonostante le grandi strategie di diversificazione, ma anche l’Ucraina, che non è riuscita ancora una volta nel suo "colpo di Stato" contro la Russia.  Ogni strategia è stata dispiegata per portare a compimento il progetto dell’Opec del gas, e ribadire il fatto che l’Europa, l’Ucraina ed ogni altro Stato che dipende da tali fonti di energia, non possono fare a meno della Russia.

 

Fulvia Novellino

 

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vendredi, 09 janvier 2009

Moscou s'inquiète de la situation à la frontière israélo-libanaise

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Moscou s’inquiète de la situation à la frontière israélo-libanaise

http://fr.altermedia.info

La Russie a exprimé sa préoccupation par l’aggravation des tensions à la frontière israélo-libanaise où des échanges de tirs ont retenti jeudi matin, sur fond d’hostilités dans la bande de Gaza.

“Nous préconisons le strict respect de la résolution 1701 du Conseil de sécurité de l’ONU qui, on le sait, appelle Israël et le Liban à maintenir le cessez-le-feu, à oeuvrer pour un règlement durable sur la base du respect global de la Ligne bleue et à prendre des mesures de sécurité pour empêcher la reprise des hostilités”, a déclaré le ministère russe des Affaires étrangères dans un communiqué publié sur son site Internet.

La diplomatie russe a appelé Israéliens et Libanais à “faire preuve de retenue et de responsabilité”.

“Il faut éviter toute provocation susceptible de détériorer la situation dans la région où tout est interdépendant, où les tensions se sont aggravées à l’extrême en raison de la confrontation israélo-palestinienne dans la bande de Gaza”, précise le communiqué.

Quatre roquettes de type Katioucha sont tombées jeudi matin à proximité de la ville israélienne de Nahariya, faisant deux blessés. Ce tir a été revendiqué par le groupe Front populaire de la libération de la Palestine-Commandement. L’armée israélienne a aussitôt répliqué par plusieurs salves d’artillerie en direction du Liban, et des avions survolent actuellement le Liban-Sud.

Vicino Oriente in fiamme: la Turchia piu' vicina a Gaza, piu' lontana da Tel Aviv

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VICINO ORIENTE IN FIAMME : LA TURCHIA PIU’ VICINA A GAZA, PIU’ LONTANA DA TEL AVIV

http://www.eurasia-rivista.org/

di Aldo Braccio*

Il Primo ministro turco Erdoğan ha denunciato l’attacco israeliano a Gaza come un crimine contro l’umanità, ritenendo del tutto sproporzionato l’uso della forza di fronte ai lanci di razzi palestinesi. Gli attacchi israeliani, ha ribadito Erdoğan, rappresentano un attacco alla pace. Il ministro degli esteri Babacan ha da parte sua comunicato che gli incontri triangolari Turchia – Israele – Siria per la soluzione del contenzioso tra Tel Aviv e Damasco sono interrotti : “La scelta israeliana di condurre un’azione di guerra contro i palestinesi ci ha profondamente deluso”, ha commentato Babacan.
Nel frattempo quattro esponenti dell’AKP, il partito di governo, hanno abbandonato – in segno di protesta – il gruppo parlamentare “di amicizia turco – israeliana”, mentre lo stesso Consiglio di sicurezza nazionale ha condannato l’azione di Tel Aviv, chiedendo che i bombardamenti cessino immediatamente e che gli aiuti umanitari per la popolazione di Gaza (provenienti anche dalla Turchia) possano subito giungere a disposizione.
Erdoğan ha raggiunto per colloqui urgenti Damasco e Amman; secondo notizie non confermate nella capitale siriana avrebbe anche incontrato Khaled Méchaal, capo dell’ufficio politico di Hamas in esilio.
Ad Ankara, Istanbul e in parecchie altre città si susseguono iniziative e manifestazioni contro la guerra promossa da Israele : in particolare a Istanbul la municipalità ha deciso di annullare la tradizionale festa di capodanno in piazza Taksim, in segno di lutto.

*Aldo Braccio, redattore di Eurasia, è esperto di questioni turche e del Vicino Oriente.

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jeudi, 08 janvier 2009

Crise au Proche Orient: le début d'une troisième guerre mondiale?

Crise au Proche-Orient: le début d’une troisième guerre mondiale?

http://fr.altermedia.info

conflit

Par Dmitri Kossyrev,

C’est le procès du “lanceur de chaussures” Mountazer Al-Zaidi qui aurait pu devenir le principal événement du 31 décembre, le dernier jour de l’année 2008. Le 14 décembre, ce journaliste a lancé ses deux chaussures à la figure du président américain (qui était en train de donner une conférence de presse à Bagdad), en criant “C’est le baiser d’adieu du peuple irakien, espèce de chien!”.

 

Mais ce ne fut pas le cas. Un autre événement, qui, lui, n’a rien de comique, est venu éclipser l’incident des chaussures. A savoir une guerre, déclenchée dans une région voisine, et qui a déjà fait un grand nombre de victimes parmi la population civile.

Au premier abord, il s’agit d’un territoire très restreint au Proche-Orient. Certes, il y a des morts, mais cela arrive, malheureusement, beaucoup plus souvent qu’on ne le souhaite, n’est-ce pas? Mais peut-il arriver - théoriquement - qu’une troisième guerre mondiale éclate juste après les fêtes? Une opération punitive sera sans doute lancée prochainement dans la bande de Gaza, opération qui aura pour objectif de démanteler définitivement le “foyer terroriste” du Hamas. Or, son résultat sera douteux. Plusieurs attentats seront perpétrés par la suite sur le territoire israélien, auxquels il faudra aussi répondre.

Dans ce cas, la prochaine étape de l’évolution du conflit touchera le Liban et la Syrie, ces deux territoires arabes que Moscou essaie depuis de longues années d’inclure dans le processus de règlement du conflit au Proche-Orient. Israël pourrait attaquer ces pays également. Intérieurement, le monde arabe concède que le Hamas est composé de radicaux dangereux qui ont provoqué eux-mêmes ce conflit. Mais si Israël refuse de s’arrêter, le tableau changera.

Par exemple, le “facteur iranien” pourrait surgir comme par hasard, et notamment le fait que Téhéran, à ce qu’on prétend, finance aussi bien les membres du Hamas que leurs confrères libanais du Hezbollah, tout en aidant en outre la Syrie. Et si l’Iran ose faire un geste un tant soit peu menaçant…

Que pourra alors faire Israël? Bombarder quelques sites en Iran? Et si l’Iran décide alors de répondre à la provocation? L’Iran ne possède pas encore d’arme nucléaire, mais Israël en dispose et peut y recourir, si les choses tournent mal.

Il s’agit du pire scénario possible. Dans l’espoir de l’éviter, tout le monde, toutes sympathies confondues, appelle aujourd’hui les autorités israéliennes à arrêter la guerre et à revenir au point initial. Ainsi qu’à participer par la suite, l’année prochaine, à une Conférence sur le Proche-Orient à Moscou, pour évoquer finalement pour de bon la question de la paix. Mais déjà les positions seront beaucoup moins avantageuses pour Israël comme pour tous les autres.

Par exemple, Israël n’est pas du tout enclin à écouter ceux qui l’appellent à cesser les hostilités. Qui plus est, il se comporte de la même façon que le régime de Saakachvili en Géorgie, en essayant d’engager dans la guerre son principal protecteur, les Etats-Unis; ou bien de régler ses propres problèmes pendant la période de changement d’administration aux Etats-Unis. Mais les situations de ce genre sont toujours anormales: elles signifient que l’ancienne politique (en l’occurrence, celle des Etats-Unis) a été absolument erronée. Dans le même ordre d’idées, l’isolement du Hamas, qui jouit manifestement d’un large soutien de la population de la bande de Gaza, a été aussi une erreur. Tout ceci signifie également que les grandes puissances (ou la communauté internationale) seront désormais obligées d’exercer une pression sur Israël pour l’inciter à ne plus bombarder les quartiers résidentiels de la bande de Gaza, sur le Hamas pour qu’il mette fin aux attentats, sur l’Iran pour qu’il cesse de terroriser le monde avec son programme nucléaire, etc. Mais qui est aujourd’hui à même de mener un dialogue avec Israël, l’Iran et le Hamas en adoptant une position ferme?

Source: Novosti

mardi, 06 janvier 2009

America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare

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America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare

Tiberio Graziani / http://www.eurasia-rivista.org

L’avventurismo statunitense in Georgia e la profonda crisi economico-finanziaria che investe l’intero sistema occidentale hanno definitivamente evidenziato l’incapacità degli Stati Uniti di gestire l’attuale momento storico. I paradigmi interpretativi basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia non sembrano più essere validi per delineare i prossimi scenari geopolitici. Una lettura continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali ci permette di individuare nell’America indiolatina e nell’Eurasia i pilastri del nuovo sistema internazionale.


L’incapacità statunitense di governare


La recente questione georgiana ha definitivamente posto una pietra tombale sul cosiddetto unipolarismo statunitense e, soprattutto, sembra aver reso effettivo un sistema geopolitico articolato ormai su poli continentali, cioè un sistema multipolare.

Ciò non è stato affatto colto dalla maggior parte degli osservatori ed analisti, i quali, pur consapevoli del tramonto della “nazione indispensabile” (secondo l’ardita definizione dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright), in margine alla crisi agostana tra Mosca e Tiblisi hanno ripetutamente fatto riferimento ad un nuovo bipolarismo e ad una riformulazione della “guerra fredda”. In realtà, siamo ben lontani dalla riedizione del vecchio sistema bipolare, e non soltanto perché le motivazioni ideologiche (tra cui l’antitesi comunismo-capitalismo, totalitarismo-democrazia), che hanno caratterizzato il dopoguerra dal 1945 al 1989, e dunque fornito linfa all’equilibrio bipolare, sono venute meno, ma, soprattutto, perché grandi paesi di dimensione continentale, come la Cina, l’India e il Brasile, in conseguenza del loro sviluppo economico e grazie alla coscienza geopolitica che anima da circa un buon decennio le loro rispettive classi dirigenti, ambiscono, responsabilmente, ad assumere impegni politici, economici e sociali a livello planetario.

Bisogna subito dire, però, che il declino del sistema unipolare a guida statunitense non significa affatto la fine dell’egemonia di Washington, tuttora presente, anche militarmente, in vaste aree del Pianeta. Quella di Washington è per il momento un’egemonia ridotta, con cui le nuove entità geopolitiche dovranno confrontarsi ancora per qualche anno. Un’egemonia, teniamo a sottolineare, forse più pericolosa del passato per la stabilità internazionale, perché appunto traballante e suscettibile, pertanto, di essere gestita da Washington e dal Pentagono con scarso equilibrio, come la crisi georgiana ha ampiamente dimostrato.

La profonda crisi strutturale dell’economia degli USA (1) ha contribuito soltanto ad accelerare un processo di ridimensionamento dell’intero “sistema occidentale” che, iniziato a metà degli anni ’90, veniva tuttavia registrato solo nei primi anni dell’attuale secolo da autori come Chalmer Johnson ed Emmanuel Todd nella rispettive analisi sulle conseguenze cui gli Stati Uniti, quale unica potenza mondiale egemone, sarebbero presto andati incontro (2) e sulla decomposizione del sistema statunitense (3).

Johnson, profondo conoscitore dell’Asia, e del Giappone in particolare, osservava, tra il 1999 e il 2000, che gli USA non sarebbero stati in grado di gestire il loro rapporto con l’Asia, se avessero perseguito i “reiterati tentativi del loro governo di dominare la scena mondiale” (4). Tra i cambiamenti, già visibili, che avrebbero nel prossimo futuro delineato un nuovo quadro geopolitico, Johnson poneva la propria attenzione al crescente tentativo della Cina di emulare le altre economie dell’Asia orientale a crescita intensiva (5). Lo stesso autore, riferendosi all’impietosa analisi illustrata da David Calleo (6) nel lontano 1987 sulla disgregazione del sistema internazionale, riteneva che gli Stati Uniti di fine secolo fossero “un egemone rapace” “dotato di scarso senso d’equilibrio”.

Anche il francese Todd, come l’americano Johnson, riteneva che gli USA, a causa delle guerre in Medio Oriente e in Jugoslavia, fossero diventati, ormai, un elemento di disordine per l’intero sistema internazionale; secondo Todd, inoltre, l’interdipendenza economica era a netto svantaggio dell’economia statunitense, come la crescita del deficit economico dell’ultimo decennio indubbiamente dimostrava.

Alcuni anni dopo, nel gennaio del 2005, un acuto e brillante osservatore come Michael Lind della New America Foundation sosteneva, in un importante articolo pubblicato sul “Financial Times” (7), che alcuni Paesi eurasiatici (principalmente la Cina e la Russia) e dell’America meridionale stavano “silenziosamente” prendendo misure il cui effetto sarebbe stato quello di “ridimensionare” la potenza nordamericana.

Più recentemente (2007), Luca Lauriola (8) ha sostanzialmente ribadito gli stessi concetti, che qui riportiamo nelle parole di Claudio Mutti: “Lauriola intende dimostrare alcune tesi che possono essere schematicamente riassunte nei termini seguenti: 1) gli USA non sono più la maggiore potenza mondiale; 2) la potenza tecnologica russa supera oggi quella statunitense; 3) l'intesa strategica tra Russia, Cina e India configura un'area geopolitica alternativa a quella statunitense; 4) gli USA si trovano in una gravissima crisi finanziaria ed economica che prelude ad un vero e proprio crollo; 5) in tale situazione, la potenza statunitense è "smarrita e impazzita", sicché Mosca, Pechino e Nuova Delhi la trattano cercando di non provocare reazioni che potrebbero causare catastrofi mondiali; 6) l'amministrazione Bush prosegue imperterrita verso il precipizio, inventando continuamente menzogne che giustifichino la funzione mondiale degli USA; 7) le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; 8) l'immagine odierna degli USA non è un'eccezione della loro storia, ma riproduce fedelmente quella di sempre (dal genocidio dei Pellirosse al terrorismo praticato in Vietnam); 8) negli USA, un ruolo politico eminente viene svolto da quella medesima lobby messianica che aveva primeggiato nella nomenklatura sovietica” (9).

Ma come mai l’iperpotenza statunitense, nel breve volgere di neanche un ventennio, è sul punto di collassare? Perché un attore globale come gli USA non è stato in grado di governare ed imporre il suo tanto declamato “New Order”, democratico e liberista?

Le risposte a tali quesiti non vanno ricercate soltanto nelle, tutto sommato, facili analisi care agli economisti e/o nelle contraddizioni politiche in seno al sistema occidentale. Vanno, a nostro avviso, cercate proprio nell’analisi delle dottrine geopolitiche della potenza statunitense. Gli Stati Uniti d’America — potenza talassocratica mondiale — hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos” (10), vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità di realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale.

Due geopolitici italiani, Agostino Degli Espinosa e Carlo Maria Santoro, in epoche diverse e molto lontane tra loro, rispettivamente negli anni ’30 e ’90, hanno constatato una importante caratteristica degli USA, quella di essere inadatti a governare, ad amministrare.

Scriveva nel lontano 1932 Agostino Degli Espinosa: “L'America non vuole governare, vuole semplicemente possedere nel modo più semplice, ossia con il dominio dei suoi dollari”, e proseguiva affermando che governare “non significa unicamente imporre delle leggi e delle volontà: significa dettare una legge a cui lo spirito del popolo o dei popoli aderisca in modo che fra governo e governati si formi un’unità spirituale organizzata” (11).

Ribadiva, a distanza di oltre sessant’anni, Carlo Maria Santoro: “le potenze marittime […] non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali” (12).

La specificità talassocratica degli USA, individuata da Santoro, e l’incapacità di governare, nel senso sopra magistralmente esposto da Degli Espinosa, spiegano meglio di ogni altra analisi il declino della Potenza nordamericana. A ciò, ovviamente, vanno aggiunti anche gli elementi critici connessi al grado di espansione dell’imperialismo statunitense: dispiegamento militare, spesa pubblica, scarso senso della diplomazia.

Ad affermare l’inettitudine degli USA nel gestire l’attuale momento storico è giunto, recentemente, anche l’economista francese Jacques Sapir. Per il direttore della scuola di Parigi per gli studi delle scienze sociali (EHESS), anzi, già la crisi del 1997-1999 aveva mostrato ”que les Ètats-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays” (13). Ovviamente, per Sapir la mondializzazione è un aspetto dell’espansionismo statunitense, essendo in larga misura l’applicazione della politica americana che egli ritiene essere “una politica volontarista di apertura finanziaria e commerciale” (14). All’epoca, quando le ricette liberiste statunitensi, veicolate attraverso i diktat del Fondo monetario internazionale, fallivano in Indonesia e venivano, a ragione, duramente rifiutate da Kuala Lumpur, fu, significativamente, sottolinea Sapir, la responsabile politica economica adottata da Pechino ad assicurare la stabilità dell’Estremo Oriente.

È interessante notare che l’accelerazione del processo di ridimensionamento economico e politico degli USA (2007-2008) è avvenuto proprio quando alla guida del paese permane una gruppo di potere che si rifà alle idee dei think tank neoconservatori. I neocons, è noto, hanno spinto il più possibile Washington ad attuare negli ultimi anni — a partire almeno dal 1998, anno in cui inizia la “rivoluzione negli affari militari” — una politica estera aggressiva ed espansionista; tale politica è stata condotta in stretta coerenza con i principi veterotestamentari (l’impulso messianico come componente del patriottismo statunitense e come costante del carattere nazionale) che li contraddistinguono e con la particolare declinazione, in senso conservatore, della nota tesi trockista della rivoluzione permanente. Questa tesi, oltre a costituire, per alcuni versi, il sostrato teorico della strategia della “permanent war”, definita dal vice presidente Dick Cheney ed attuata con solerzia dall’Amministrazione Bush nel corso degli ultimi due mandati presidenziali (2000-2008), rinverdisce la caratteristica “geopolitica del caos” di Washington.

America indiolatina ed Eurasia


Se gli USA, stretti tra necessità d’ordine geostrategico (controllo della Russia e della Cina in Eurasia, del Brasile, dell’Argentina e dell’area caraibica nel proprio emisfero) e una profonda crisi economico-finanziaria, sembrano essere confusi ed oscillare tra una politica estera persino più aggressiva e muscolare rispetto al recente passato e un ripensamento realistico del proprio ruolo mondiale, i maggiori paesi eurasiatici, Russia e Cina in testa, ed i più importati paesi sudamericani, Argentina e Brasile, appaiono sempre più consapevoli delle proprie potenzialità economiche, politiche e geostrategiche.

Ciò obbliga gli analisti e i decisori politici ad utilizzare nuovi paradigmi per interpretare il presente. Gli schemi interpretativi del passato, basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia, non sembrano valere più. Sarà bene analizzare il presente, al fine di cogliere gli elementi necessari per delineare i futuri possibili scenari geopolitici, da una prospettiva continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali; in particolare, occorrerà concentrare l’attenzione sugli assi intercontinentali tra i due emisferi del Pianeta.

Il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), il nuovo asse geoeconomico tra l’Eurasia e l’America indiolatina, è ormai una realtà ben definita, capace di attrarre, nel prossimo futuro, altri paesi eurasiatici e sudamericani. Se, nel breve-medio periodo, tale asse si consoliderà, il sogno “occidentalista” inglese di una comunità euroatlantica, dalla Turchia alla California (15), e quello mondialista degli USA, incardinato sulla triade Nordmerica, Europa e Giappone, saranno destinati a rimanere tali.

Il recente vertice dei Ministri degli esteri dei paesi del BRIC (maggio 2008, Ekaterinburg, Russia), che ha confermato l’intenzione dei nuovi paesi emergenti ad intessere ulteriormente le relazioni economiche e politiche, è stato percepito dagli USA come un vero e proprio affronto. A ciò occorre anche aggiungere la riunione dei Big Five (Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa), tenutasi a Sapporo nel luglio del 2008 in concomitanza con il vertice di Hokkaido del G8.

È con l’insediamento di Putin a primo ministro della Federazione russa (agosto 1999) che iniziano ad avviarsi consistenti relazioni economiche tra la Russia e i paesi sudamericani, per poi intensificarsi nel corso degli ultimi anni fino ad assumere una decisa dimensione politica.

Mentre risale all’aprile del 2001 l’interesse della Cina verso l’America meridionale, con la storica visita del presidente Jian Zemin a diverse nazione del subcontinente americano. La Cina, alla ricerca di materie prime e di risorse energetiche per il proprio sviluppo industriale, ritiene il Brasile, il Venezuela ed il Cile partner privilegiati e strategici (si contano, ad oggi, tra i 400 e 500 accordi commerciali tra Pechino, i principali paesi sudamericani e il Messico), tanto da investirvi cospicui capitali per la realizzazione di importanti infrastrutture.

Gli interessi russi e cinesi in America meridionale, dunque, aumentano giorno dopo giorno. Il colosso russo Gazprom (insieme all’italiana ENI) sigla contratti con il Venezuela (settembre 2008) per l’esplorazione delle aree Blanquilla Est e Tortuga, nel Mar dei Caraibi, a circa 120 chilometri a nord dalla città di Puerto la Cruz (Venezuela settentrionale), e Mosca vara un piano per la creazione di un consorzio petrolifero in America meridionale. Inoltre, mentre la Lukoil firma un memorandum d´intesa con la compagnia petrolifera venezuelana, la PDVSA, Chávez si reca a Pechino (settembre 2008) per firmare una ventina di accordi commerciali con Hu Jintao, relativi a forniture agricole, tecnologiche e petrolchimiche e si impegna a fornire 500 mila barili/giorno di petrolio entro il 2010 e 1 milione entro il 2012.

Inoltre, Pechino e Caracas, facendo seguito a intese intercorse nel maggio del 2008, a settembre dello stesso anno, prendono accordi per l'installazione di una raffineria di proprietà comune in Venezuela e per la realizzazione congiunta di una flotta di quattro petroliere giganti e per l'aumento delle spedizioni di petrolio in Cina.

L’America caraibica e meridionale non sembra più essere il “cortile di casa” di Washington. Le preoccupazioni aumentano per Washington, quando il Nicaragua riconosce le repubbliche dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia, quando il Venezuela ospita bombardieri strategici russi a lungo raggio e, soprattutto, quando il processo di integrazione dell’America meridionale viene accelerato dalle strettissime intese tra Buenos Aires e Brasilia. Le relazioni tra i due maggiori paesi del subcontinente americano si sono recentemente (settembre 2008) concretizzate nell’adozione del sistema di pagamento in moneta locale (SML) per l’interscambio economico-commerciale. L’adozione del SML al posto del dollaro statunitense rappresenta un vero e proprio primo passo verso l’integrazione monetaria dell’intera area Mercosur e l’embrionale costituzione di un “polo regionale” che, verosimilmente, grazie soprattutto agli ormai consolidati rapporti con la Russia e la Cina in campo economico e commerciale, potrebbe svilupparsi nel breve volgere di un lustro.
Il nervosismo di Washington sale, inoltre, quando Pechino e Russia espandono la loro influenza in Africa e trattengono rapporti di collaborazione con l’Iran e la Siria.

Tuttavia, oltre i pur importanti e necessari accordi economici, commerciali e politici, affinché il nuovo sistema multipolare possa adeguatamente svilupparsi, i suoi due pilastri, l’Eurasia nell’emisfero nordorientale e l’America indiolatina in quello sudoccidentale, dovranno assumere, necessariamente, il controllo dei propri litorali e contenere le tensioni interne (spesso suscitate artificialmente da Washington e Londra), il loro vero tallone d’Achille.

Infatti, per far fronte agli USA — per trovare, cioè, soluzioni ragionevoli ed equilibrate che ne riducano, a livello planetario, senza ulteriori sconvolgimenti, il grado di perturbazione — Cina e Russia devono considerare che, attualmente, l’ex iperpotenza è, sì, sicuramente una nazione “smarrita”, ma pur sempre un’entità geopolitica dalle dimensioni continentali, padrona dei propri litorali e con ancora una potente flotta navale (16), presente su tutti gli scacchieri del Pianeta. Recentemente, ricordiamo, Washington ha riattivato la Quarta Flotta (per ora costituita da 11 navi, un sommergibile nucleare e una portaerei) per dimostrare, minacciosamente, il proprio impegno presso i loro partner centroamericani e sudamericani. La pur sempre temibile potenza statunitense impone all’Eurasia, principalmente alla Russia che ne costituisce il fulcro, ma anche alla Cina, di attivare una politica di integrazione, o maggiore collaborazione, verso l’area peninsulare ed insulare della massa continentale, cioè verso l’Europa ed il Giappone. È in tale contesto che occorre considerare la nuova politica del presidente Medvedev in relazione al potenziamento delle forze armate russe e, in particolare, al riammodernamento della marina militare (17). Pur se ci troviamo nell’era della cosiddetta “geopolitica dello spazio” e della geostrategia dei missili e degli scudi spaziali, l’elemento navale rappresenta, già da oggi, un importante banco di prova sul quale gli attori globali sono chiamati a sperimentare le proprie strategie per almeno il prossimo decennio, sia nei “mari interni” (Mediterraneo, Nero e Caraibico) sia negli oceani.

Al fine di comprendere appieno le future mosse della potenza d’oltreoceano, Pechino e Mosca farebbero bene a tenere a mente quanto scriveva, anni or sono, Henry Kissinger,: “Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti” (18).

In maniera perfettamente speculare a quello per l’Eurasia, un analogo discorso vale anche per l’America indiolatina. L’America indiolatina — cioè per il momento, il Brasile, l’Argentina ed il Venezuela — è obbligata per evidenti motivi geostrategici, a contenere le tensioni che alimentano l’instabilità di una parte dell’arco andino (19), in particolare quella boliviana, che costituisce il tratto territoriale che collega la costa occidentale a quella orientale del subcontinente americano. Brasilia, Buenos Aires, Santiago e Caracas — se veramente vogliono sottrarsi alla tutela statunitense — dovranno necessariamente incrementare le loro relazioni politiche e militari e porre particolare attenzione al potenziamento delle proprie flotte marine, civili e militari. Le condizioni attuali, grazie all’“amico lontano” rappresentato dalle potenze eurasiatiche, sembrano giocare a loro favore. Le condizioni attuali, è doveroso dirlo, giocano a favore anche dell’Europa e del Giappone.

Per l’equilibrio del Pianeta, tuttavia, c’è solo da sperare che gli USA prendano ragionevolmente atto del loro ridimensionamento, e non perseguano, quindi, insensate strategie di rivincita.


Note
1. L’odierna crisi economico-finanziaria risale, secondo alcuni specialisti, tra cui Jacques Sapir, a quella del triennio 1997-1999. Jacques Sapir, Le nouveau XXI siècle. Du siècle «américaine» au retour des nations, Seuil, Paris 2008, p.11. Ricordiamo che gli USA, dal 1992 al 1997, nella convinzione di essere ormai l’unica potenza mondiale, veicolarono, a sostegno della loro strategia di dominio mondiale, una “campagna ideologica volta ad aprire le economie del mondo al libero commercio e al libero movimento dei capitali su scala globale” (Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001, p. 290).
2. Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001, ediz. orig. Blowback, The Costs and Consequences of American Empire, Little Brown and Company, London 2000.
3. Emmanuel Todd, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain, Gallimard, Paris 2002. Ed. italiana, Dopo l’impero, Tropea, Milano 2003.
4. Chalmer Johnson, op. cit., p. 59.
5. Chalmer Johnson, op. cit., p. 58.
6. “Il sistema internazionale va disgregandosi non solo perché nuove potenze aggressive dotate di scarso senso dell’equilibrio cercano di dominare i paesi confinanti, ma anche perché le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace”, David. P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142, citazione tratta da Chalmer Johnson, op. cit., p. 312.
7. Michael Lind, How the U.S. Became the World's Dispensable Nation in “Financial Times”, 26 gennaio 2005.
8. Luca Lauriola, Scacco matto all'America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.
9. Claudio Mutti, Recensione a L. Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, www.eurasia-org, 27 gennaio 2008.
10. Tiberio Graziani, Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta, in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 4/2007, p. 7.
11. Agostino Degli Espinosa, Imperialismo USA, Augustea, Roma-Milano 1932-X, p.521.
12. Carlo Maria Santoro, Studi di Geopolitica, G. Giappichelli, Milano 1997, p. 84.
13. Jacques Sapir, op. cit., pp. 11-12.
14. Jacques Sapir, op. cit., pp. 63-64.
15. Sergio Romano, in merito alla politica inglese antieuropea, così rispondeva a due lettori del quotidiano “Corriere della sera”: “L' obiettivo inglese è una grande comunità atlantica, dalla Turchia alla California, di cui Londra, beninteso, sarebbe il perno e la cerniera”, Sergio Romano, Perché è difficile fare l' Europa con la Gran Bretagna, Corriere della sera, 12 giugno 2005, p. 39.
16. Riporta Alessandro Lattazione che “la flotta USA, dieci anni fa, possedeva 14 portaerei e relativi gruppi di battaglia. Oggi ne ha, sulla carta, 10 ma solo 5/6 sono operative”. Alessandro Lattanzio, La guerra è finita?, relazione presentata al FestivalStoria, Torino, 16 ottobre 2008.
17. Alessandro Lattanzio, Il rilancio navale della Russia, www.eurasia-rivista.org, 1 ottobre 2008.
18. Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634-635.
19. Come noto, gli analisti suddividono l’America meridionale in due archi: l’arco andino, costituito da Venezuela, Colombia, Ecuador, Perú, Bolivia, Paraguay e l’arco atlantico, costituito da Brasile, Uruguay, Argentina e Cile.

mardi, 30 décembre 2008

L'Amérique et les droits de l'homme / le triomphe des Pharisiens

 

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L’Amérique et les « Droits de l’homme » / Le triomphe des Pharisiens




Les Pharisiens sont dans les Evangiles une secte juive dont les membres se considèrent comme « les bons et les justes ». Ils jouent un rôle important dans la condamnation à mort du Christ.

L’Amérique est-elle « pharisienne » ? Elle se prétend animée d’une mission exceptionnelle qui est d’apporter les droits de l’homme, la liberté et la démocratie à l’univers humain et faire ainsi son bonheur. Elle tire de cette idéologie d’autojustification une tendance à vouloir toujours criminaliser ses adversaires, tendance propre au totalitarisme : si vous êtes l’ennemi de Staline, vous êtes, pour les communistes, non pas un simple adversaire politique mais un criminel qu’il faut juger. Les Américains font de même. On l’a vu avec Saddam Hussein. On l’a vu avec le procès de Nuremberg des chefs nazis où cela n’a jamais gêné les juges américains de juger avec les juges de Staline : ils partageaient tous (Américains, nazis et communistes) en fait une vision commune de la politique fondée sur la diabolisation de l’opposant. Le procureur américain de Nuremberg Robert Jackson n’est en cela pas différent de Freisler, le juge nazi qui condamne à mort les aristocrates allemands s’opposant à Hitler, et Vichynski, le procureur communiste condamnant les victimes des purges staliniennes.

En réalité, les Etats-Unis partageaient avec les Soviétiques le besoin d’affirmer le caractère criminel du régime nazi pour s’exempter eux-mêmes de leurs propres crimes. L’histoire américaine est jalonnée de bien des crimes, comme celles d’autres nations, mais la propagande des Américains victorieux leur a permis d’organiser l’oubli de ces crimes. Ils sont ainsi apparus à tort comme le pays des droits de l’homme par excellence.

Tout le monde trouve normal que les Etats-Unis aient une capitale qui porte le nom d’un propriétaire d’esclaves, Washington. On tait les causes de la Guerre d’indépendance des USA contre l’Angleterre. Celle-ci, par son Parlement, avait décidé l’abolition de l’esclavage, ce qui fit peur aux propriétaires d’esclaves américains, lesquels ne virent leur salut que dans l’indépendance pour que la loi anglaise ne s’applique pas.


Le « pays de la liberté » était et est resté de longues années le pays esclavagiste par excellence : peu de gens, en raison de la propagande américaine, méditent sur cette contradiction. En réalité, l’Amérique a toujours considéré les hommes comme des matières premières pour l’économie : ils n’ont supprimé l’esclavage que lorsqu’ils ont compris qu’il y avait des façons plus efficaces d’utiliser la main-d’œuvre que l’esclavage. Les Etats-Unis sont le pays de la pensée « fonctionnelle » qui trouve son origine chez les philosophes utilitaristes anglais. Mais cette essence est voilée par le discours de propagande des droits de l’homme. Il faut savoir que sur le papier, les constitutions les plus favorables aux droits de l’homme furent celles de Robespierre en 1793 et de Staline en URSS. D’ailleurs l’URSS a signé avec enthousiasme la Déclaration universelle des droits de l’homme lors de la fondation de l’ONU. Cela relativise l’intérêt de ces déclarations pour la protection de la dignité humaine.

Le régime américain dès sa fondation a donc commis un crime, non marginal mais essentiel puisqu’il était à la base de son économie : l’esclavage des Noirs. Cet esclavage était une conséquence particulière d’une conception plus vaste qui réduit les hommes à des matières premières. C’est cette conception qui fut mise au service du racisme à l’égard des Noirs. Mais c’est cette même conception que nous retrouvons dans l’antiracisme dogmatique du système américain actuel : la race (biologique) comme l’ethnie (culturelle) sont des obstacles au besoin économique de rendre la main-d’œuvre parfaitement interchangeable, comme les blocs de charbon ou de marbre sont interchangeables lorsqu’ils sont stockés à des fins de production. Il faut donc les effacer dans un « melting pot ». Des biologistes américains ont pu montrer que si le mélange intégral des races se faisait aux USA les Noirs disparaîtraient totalement car ils ne sont que 12% et la loi de la régression à la moyenne ferait disparaître leurs traits physiques spécifiques dans la population majoritaire : une forme de solution finale du problème noir par le métissage en quelque sorte ! Les plus lucides des porte- parole de la communauté noire de ce point de vue, comme Farrakhan, l’ont bien vu.

Les Etats-Unis ne sont pas fondés uniquement sur l’esclavage mais aussi sur l’élimination des Indiens. Oh, certes, ce fut au nom des besoins économiques de la nation américaine. Les Indiens s’intégraient mal dans l’économie et occupaient des terres à exploiter pour l’élevage ou les puits de pétrole. La façon dont les Indiens furent traités et leur culture détruite pour les livrer à l’alcoolisme, l’assistance et la dictature du consumérisme est révélatrice des risques que fait courir le système fonctionnaliste américain (le « Gestell » de Heidegger) pour les autres peuples du monde. Il s’agit de détruire partout la fierté nationale et les coutumes particulières pour homogénéiser le marché. Si tout le monde ressemble à des Américains, tout le monde utilisera les biens de consommation américains, à commencer par les films d’Hollywood ou le Coca-Cola.

Le régime américain commence donc son entrée dans l’histoire avec deux atteintes majeures aux droits de l’homme : l’esclavage des Noirs et le massacre des Indiens. Comment oser dans ces conditions donner des « leçons de démocratie » au monde ? Mais ce n’est pas tout. Le caractère criminel de la politique américaine va se montrer dans une façon particulièrement odieuse de faire la guerre : l’inauguration a été la Guerre de sécession, dont on a pu dire qu’elle servit de modèle à la Guerre de 1914-1918. C’est en effet l’apparition d’une forme de « guerre industrielle » avec des massacres de masse : pour beaucoup d’historiens, la Guerre de sécession a été la première guerre totale moderne, avec 600.000 soldats tués mais 400.000 civils massacrés. La guerre « aristocratique » codifiée peu à peu en Europe partait du principe que l’on tuait les militaires, pas les civils. Pendant la Deuxième Guerre mondiale, les bombardements américains, tant sur l’Allemagne que sur le Japon, ont délibérément visé les populations civiles pour casser le moral de l’ennemi. Des millions de femmes et d’enfants en ont été victimes. Cette forme de guerre a été réutilisée à plus petite échelle en Irak.

Il y a bien « crimes de guerre » là où l’on s’attaque prioritairement aux femmes et aux enfants : qui a jugé les criminels de guerre américains ? Les Etats-Unis ont fait d’ailleurs valoir diplomatiquement que si des tribunaux internationaux étaient constitués, en aucun cas ils ne pourraient juger des Américains !

Les Etats-Unis ont joué aussi un rôle peu conforme à l’idéologie des droits de l’homme en confortant le crime et les mafias partout où cela pouvait profiter à leurs intérêts politiques. Chicago, symbole du gangstérisme, est bien une ville des Etats-Unis. Ce pays connaît un taux de criminalité très supérieur aux normes européennes. Ce n’est pas étonnant dans un pays où l’homme est avant tout considéré comme une matière première pour l’économie. Partout dans le monde, la criminalité est d’abord liée à la recherche du gain : une société qui place le gain financier sur un piédestal doit s’attendre à sécréter beaucoup d’activités criminelles et mafieuses.

Le système américain actuel est donc particulièrement dangereux pour la liberté et l’identité des peuples du monde, bien que ses dirigeants prétendent partout être les défenseurs de la liberté et de la démocratie. C’est un système déshumanisant qui donne raison, une fois n’est pas coutume, à Karl Marx : « La grande bourgeoisie a précipité les frissons de l’extase religieuse, l’esprit chevaleresque et la sentimentalité petite bourgeoise dans les eaux glacées du calcul égoïste ! »

D’où vient donc ce régime qui domine les Etats-Unis sous le nom abusif de « démocratie » ? En réalité, le régime politique américain est oligarchique dans son essence et n’est démocratique que dans la forme. C’est une oligarchie marchande qui règne en maître à présent. Le malheur historique de l’Amérique est de n’avoir jamais eu d’aristocratie ni de monarchie. La monarchie en Europe est d’ailleurs un produit de l’aristocratie : le roi comme l’aristocrate est d’abord, à l’origine, un chef de guerre ! Contrairement à ce que l’on peut croire superficiellement, le guerrier professionnel est généralement animé d’une haute déontologie car il met sa vie en jeu, ce qui ne va pas sans une haute moralité. Certes, on a des exemples de guerriers criminels mais la tradition dominante a toujours mis des barrières pour lutter contre cette dérive toujours possible : que ce soit chez le héros homérique, le samouraï japonais ou le soldat des troupes d’élites en Europe. Au Moyen Age, c’est toute une civilisation de la chevalerie qui est née du monde guerrier. Les pires crimes de guerre du XXe siècle sont venus des politiques, parfois élus démocratiquement comme Hitler, mais pas du corps traditionnel des officiers. Ce sont même des officiers qui ont voulu en Allemagne abattre celui qu’ils considéraient comme un tyran ! (complot de Claus von Stauffenberg).

Le monde marchand n’a pas la même relation vis-à-vis de la mort que le monde des officiers. Il n’a donc pas les mêmes exigences éthiques : ceci fut fort bien montré par le sociologue Werner Sombart dans son livre méconnu : « Händler und Helden » (Des marchands et des héros).

Contrairement aux pays d’Europe, l’Amérique n’a pas eu de noblesse pour la diriger. Les valeurs aristocratiques ne sont pas celles qui imprègnent la société américaine. Les valeurs dominantes sont celles de l’affirmation de soi et de l’utilitarisme. Dans la conception utilitariste ou fonctionnaliste du monde, il n’y a guère de place pour des considérations chevaleresques ou esthétiques. Le comportement de l’aviateur français pendant la Guerre de 1914-1918 qui va battre des ailes au-dessus d’un cimetière allemand où est enterré un des as de l’aviation allemande qu’il a abattu, pour exprimer son respect de l’adversaire vaincu, n’est pas un comportement utilitariste. Ce qui est le plus utile, c’est de criminaliser son adversaire : c’est ce que les Etats-Unis pratiquent à grande échelle depuis qu’ils jouent un rôle sur la scène mondiale.

Les Etats-Unis ne sont pas à la source de grandes pensées philosophiques car celles-ci ne rapportent rien dans l’immédiat. Leur apport dans ce domaine est inférieur à celui des Anglais, des Français ou des Allemands. Il faudrait donc que les pays d’Europe reprennent le flambeau de la pensée afin d’aider les Américains à se réformer face à un meilleur modèle que le leur. Sinon le triomphe de l’idéologie fonctionnaliste américaine ne peut apporter que le malheur et le chaos, comme on le perçoit en Irak mais aussi en Amérique même où les dysfonctionnements du système commencent à montrer leur perversité de masse (crise financière, délabrement de la Nouvelle-Orléans après le cyclone, haut degré de criminalité, etc.).

Mais on ne peut se réformer si l’on est persuadé d’incarner la bonté et la justice. C’est pourquoi il importe de démasquer le pharisaïsme de l’idéologie américaine. L’Amérique n’a jamais été un modèle dès ses débuts esclavagistes et de destruction des Indiens. L’Amérique n’est apparue un modèle que parce qu’elle a gagné trois guerres : deux guerres mondiales et la guerre froide contre les Soviétiques. Face aux nazis et aux Soviétiques, l’Amérique fut perçue comme un modèle victorieux et humaniste. Mais c’était une illusion produite par ses faire-valoir de l’Est. Sa réussite économique a longtemps masqué son inhumanité.

Mais l’heure de la vérité approche.

Il n’est pas possible de bâtir une civilisation qui élève l’homme sur des bases purement utilitaristes et fonctionnalistes. L’utilitarisme débouche sur l’autodestruction. Il est donc essentiel pour nous comme pour les Américains de faire la critique de cet utilitarisme et d’abattre la propagande pharisienne qui en masque la nature réelle. L’homme n’est pas qu’un consommateur et un producteur de masse. Il a une dimension sacrée qui ne peut être évacuée. Il faut réévaluer les fonctions militaires et religieuses pour équilibrer la domination des fonctions économiques. Car ces fonctions, en relation avec la nature mortelle de l’homme, portent en elles un idéalisme indispensable pour que la vie soit supportable et pour que l’homme redécouvre sa dignité !

Par Yvan BLOT

 

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lundi, 29 décembre 2008

Kosovo, Osetia del Sur y Abjasia: precedentes que cambiaron el panorama geopolitico

Kosovo, Osetia del Sur y Abjasia: precedentes que cambiaron el panorama geopolítico

Debido a los acontecimientos de gran envergadura que sucedieron este año bisiesto: las elecciones presidenciales en Rusia, los Juegos Olímpicos en Pekín, la crisis económico-financiera desatada a nivel mundial, la muerte del Patriarca de Moscú y toda Rusia, Alexis II, el 2008 será recordado por millones de personas.

De todas formas, la agresión de Georgia contra Osetia del Sur (Cáucaso del Norte) ocupa un lugar especial en la serie de acontecimientos importantes. Esta tragedia segó las vidas de miles de personas. La agresión agravó la ya delicada situación en esta región clave del planeta y marcó el inicio de los más significativos cambios geopolíticos desde el término de la Segunda Guerra Mundial.


Sobre los planes de Georgia, suministrada por los EE.UU., en lo que respecta al Cáucaso, se sabía ya desde abril. Desde ese entonces la situación en las fronteras entre Georgia y Osetia del Sur era más que alarmante. En la zona de conflicto se concentraron tropas. Las localidades de Osetia del Sur estaban sometidas a un intenso fuego artillero. En las fronteras de Abjasia se respiraba un aire de intranquilidad y nerviosismo. El Ejército georgiano para ese entonces se encontraba en el desfiladero del Kodori, territorio de Abjasia. El denominado “Gobierno legítimo” de Abjasia, reconocido por Tbilisi, declaró que estaba listo para tomar las “riendas del país”. Las provocaciones por parte de Georgia con respecto a las autonomías, no cesaban. Sobre sus espacios aéreos volaban aviones de espionaje no pilotados de procedencia norteamericana, que las autoridades oficiales de Tbilisi los hacían pasar como aviones rusos.

Por televisión Mijaíl Saakashvili aseguraba al pueblo de Osetia que el conflicto se resolvería rápidamente por la vía pacífica. En esos momentos tenía lugar en Pekín la ceremonia de inauguración de los Juegos Olímpicos. Por tradición histórica, debe haber un alto al fuego entre las partes bélicas mientras se llevan a cabo los mencionados juegos. Pero precisamente en esos días por orden del Comandante en Jefe el ejército georgiano sometió a un intenso y masivo fuego artillero a Tsjinvali (capital de Osetia del Sur) y otras localidades surosetas haciendo utilidad de artillería pesada, lanzamisiles múltiples “Grad”, tanques etc. Se inició la operación “campo despejado”. Según los planes de Georgia, en cuestión de 24 horas después de iniciada la operación, Tsjinvali había de desaparecer de la faz de la tierra; y su población, ser eliminada o desterrada. Operación similar se preparaba para atacar a Abjasia, pero la diferencia consistía en que sería de mayor magnitud.

Es curioso saber, ¿en Moscú estarían enterados de la agresión que Georgia tenía en mente?, aunque qué tiene que ver aquí Rusia, si Osetia del Sur y Abjasia forman parte de Georgia. Al juzgar por las innumerables notas diplomáticas que el Ministerio de Relaciones Exteriores de la Federación Rusa envió a Tbilisi; por lo activamente que se discutía en el Consejo de la Federación, en la Duma, el Ministerio de Defensa y las autoridades rusas reiteradas veces intentaron detener el desarrollo de tales acontecimientos; de advertir a Tbilisi sobre las consecuencias de sus acciones.

Moscú advirtió insistentemente al Consejo de Europa, a la ONU, a los líderes de las más grandes potencias sobre la posible complicación de la situación en el Cáucaso. Pero nadie prestaba la debida importancia o Europa se hacía la que no entendía la gravedad de la situación. Como resultado del conflicto armado, en el Cáucaso plenamente tuvo lugar el denominado “efecto dominó” del que ya había advertido Rusia después del precedente de Kosovo. Las consecuencias del conflicto son conocidas. Decenas de soldados del ejército de paz ruso, cientos de soldados georgianos, cientos de civiles murieron. Tsjinvali y muchas localidades de Osetia del Sur quedaron destruidas, decenas de miles de refugiados. Pasará mucho tiempo para reparar los efectos de esta catástrofe humanitaria.

En agosto del presente año, la muerte de miles de civiles de Osetia del Sur fue catalogado por el gobierno de Rusia como “genocidio”. Será o no tal definición, objetiva, el tiempo lo dirá. Las investigaciones oficiales de tales trágicos sucesos en el Cáucaso todavía no están por terminar. Las investigaciones están siendo llevadas tanto por las fuerzas del orden público rusas como por las instituciones europeas. Es muy posible que en el 2009 se de una apreciación jurídica merecida de los nefastos hechos de agosto último y que los culpables sean procesados con todo el peso de ley. Inevitablemente se mencionarán los nombres de los cómplices de Saakashvili que armaron al agresor violando las leyes internacionales en detrimento de la propia seguridad nacional.

Después de lo acontecido en el Cáucaso, la posición inicial de los países occidentales que acusaban a Rusia de agredir a Georgia, cambió radicalmente gracias a los esfuerzos de los diplomáticos rusos y los medios de comunicación. El mismo hecho de que la OTAN no haya incluido en sus filas a Georgia y Ucrania en el 2008, evidencia el cambio de su posición inicial con respecto a Rusia. Países influyentes de la Alianza Atlántica como Gran Bretaña, Francia, Alemania y otros decidieron no incluir a países cuya política haya empeorado la situación político-militar en una región tan importante y estratégica como es el Cáucaso. En sólo 5 días de acciones bélicas no solamente en la región del Cáucaso cambió el panorama geopolítico. En el mapamundi aparecieron dos nuevos Estados: Osetia del Sur y Abjasia. Por primera vez se ven modificadas las fronteras de las repúblicas de la Comunidad de Estados Independientes (CEI), creadas en tiempos soviéticos como intergubernamentales. Apareció un nuevo tipo de formación de Estados: los parcialmente reconocidos. De hecho Osetia del Sur y Abjasia han sido reconocidos de jure por Rusia y algunos otros países. Varios politólogos rusos y occidentales consideran que pasarán unos cuantos años y el número de nuevos estados aumentará. Valga como ejemplo el tema de Kosovo que hasta el día de hoy ha sido reconocido por más de 50 países miembros de la ONU, pero no lo ha sido por dos miembros permanentes del Consejo de Seguridad de esta institución: Rusia y China. Esto significa que Kosovo, al igual que Osetia del Sur y Abjasia, es un estado parcialmente reconocido. La misma definición puede ser aplicada para Chipre del Norte y Taiwán.

Los precedentes de Kosovo, Osetia del Sur y Abjasia contribuyeron a la redefinición del existente sistema de relaciones internacionales y del Derecho Internacional. Ya que en el planeta algunos conflictos “congelados” corren el peligro del “efecto dominó”. Por ejemplo, Pekín teme seriamente al problema de la intensificación de las tendencias separatistas del mismo Taiwán y en la región autónoma de Xingjian Uighur (al oeste de China). En lo que respecta a la CEI podemos citar como ejemplo a Chisinau y Alto Karabaj. En diciembre de este año los rusinos (grupo etnográfico de los ucranianos que habitan en Transcarpatia, región más occidental de Ucrania) anunciaron su deseo de independizarse y crear su propio Estado.

“Los acontecimientos de agosto en el Cáucaso seriamente influenciaron en lo que respecta a los temas de zonas de conflicto en la CEI”, declaró Sergei Markedónov, Jefe del Departamento de problemas de relaciones interétnicos del Instituto de análisis político y militar. La imposición de la paz que se llevó a cabo en el Cáucaso es una señal clara para Bakú en lo que se refiere a su política relativa a Alto Karabaj. Azerbaidzhan ha visto que los intentos de Georgia por resolver de manera unilateral el estatus quo en el Cáucaso, se han encontrado con la fuerte posición de Rusia, y que una política poco perspicaz en lo concerniente al tema de Alto Karabaj puede conducir a malos resultados. Actualmente Bakú tiende a hacer apreciaciones más políticas que militares y optar por métodos más adecuados en su política con respecto a “territorios no reconocidos”.

Según la opinión de Markedónov, se ha presentado también la posibilidad de arreglar otros conflictos en el Cáucaso. Las investigaciones del Instituto de análisis político y militar, demuestran que la proclamación de independencia de Osetia del Sur y de Abjasia en el Cáucaso del Norte, así como el hecho de que Rusia durante el conflicto de agosto haya apoyado a Osetia del Sur y llevado a cabo la operación de imposición de paz, son acogidos absolutamente como correctos.

Dmitri Evláshkov

Extraído de RIA Novosti.

jeudi, 25 décembre 2008

"Global Trends 2025" : le rapport des services secrets américains

 

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Günther DESCHNER :

 

« Global Trends 2025 » : le rapport des services secrets américains

Trois ans après la disparition du Rideau de Fer, les présidents américains estimaient encore que le monde était « OK ». George Bush Senior ne doutait pas un instant, à l’époque, qu’avec « l’aide de Dieu », il gagnerait bientôt la Guerre Froide et qu’il récolterait les fruits, à l’échelle globale, de cette épreuve de force qui avait duré quelques décennies. Il disait : « Un monde qui était jadis partagé entre deux camps armés reconnaît désormais une seule grande puissance hégémonique, celle des Etats-Unis d’Amérique. Les peuples du monde sauront apprécier cette situation et ils nous font confiance de toutes leurs forces ».

Depuis ce « Discours à la Nation », seize années se sont écoulées qui ont ébranlé la conscience de soi des Américains jusqu’en ses fondements et, surtout, qui ont changé radicalement le monde. Les plans pour sauver le monde, qu’avait jadis concocté le successeur de Reagan, ont échoué et pas seulement à cause de la démesure de son fils George W. Bush ou à cause des attentats du 11 septembre 2001 ou des guerres en Afghanistan et en Irak. L’effondrement du système financier américain, le déficit toujours constant et croissant du budget de l’Etat américain, les graves problèmes économiques et l’état désastreux de la société américaine elle-même, jettent toujours davantage le doute dans l’esprit des observateurs : ils se demandent si l’Amérique sera en mesure, dans les années à venir, de conserver son rôle d’unique puissance internationale capable de maintenir l’ordre dans le monde.

Des guerres civiles et ensuite l’effondrement du pays ?

Les titres des journaux et les interrogations se succèdent : « Est-ce la fin de l’ère américaine ? » ; « Le monde post-américain » ; « Le modèle américain a fait son temps » ; « Que s’est-il passé avec l’Empire américain ? ». Il n’a pas fallu attendre la crise financière pour que les titres de livres ou d’articles de cet acabit se repèrent largement dans les médias, où l’on prévoit ainsi, de manière récurrente, le déclin de « l’hyper-puissance américaine » et où l’on prophétise des constellations de puissance entièrement nouvelles sur l’échiquier géopolitique. L’étude, qui est allé le plus loin dans ce sens, a été commencée il y a une dizaine d’années et a été achevée et présentée en novembre dernier ; elle émane de la « Faculté des Relations Internationales » de l’Académie Diplomatique du ministère russe des affaires étrangères. Son Doyen, le politologue Igor Panarine, pronostique, dans les conclusions de l’enquête, que les dissensions qui déchirent d’ores et déjà la société américaine déboucheront, dans les prochaines décennies, sur des guerres civiles et sur l’effondrement du pays qui se morcellera en plusieurs parties.

Certes, derrière toutes ces thèses et ces slogans sur le déclin éventuel de la superpuissance américaine, se profilent les habituels vœux pieux des Anti-Américains de tous acabits ou une volonté de broyer du noir ; il n’empêche qu’aux Etats-Unis aussi ce genre de spéculations ont cours désormais. Ainsi, le NIC (« National Intelligence Council »), émanation des services secrets et cellule centrale en charge de formuler les prévisions pour le moyen et le long termes, centralise les informations et les analyses de pas moins de dix-huit services de renseignements américains et considère aujourd’hui que la domination globale qu’exercent les Etats-Unis est sur la voie du déclin. Le NIC analyse la situation de la seule superpuissance encore en lice et prévoit qu’au cours des vingt prochaines années elle perdra très nettement de la puissance sur les plans économique et politique. Les prévisions du NIC n’excluent pas l’émergence de guerres nouvelles.

Dans l’étude publiée par le NIC et intitulée « Global Trends 2025 », on trouve cette phrase significative : « En 2025, on ne reconnaîtra presque plus le système international, qui s’est constitué après la seconde guerre mondiale ». La cause de cette mutation globale provient surtout, d’après le NIC, de la montée en puissance d’autres grands acteurs globaux, de la croissance de pays encore émergents aujourd’hui, de la globalisation de l’économie et du transfert historique du développement et de la puissance économique de l’Ouest vers l’Est. Le texte annonce aussi la possible émergence de conflits internationaux pour les matières premières et les ressources. Dans les deux décennies qui s’annoncent, il y aura plus de troubles et de conflits dans le monde. Les denrées alimentaires et l’eau potable se raréfieront et les armes prolifèreront.

Jamais auparavant, ce rapport du NIC, qui est établi tous les quatre ans et qui se base sur une vaste enquête, menée auprès d’experts dans le monde entier et d’estimations dérivées d’analyses posées par des services secrets, n’avait eu un ton aussi pessimiste quant à la position des Etats-Unis dans le monde. Thomas Fingar, chez qui arrivent tous les rapports des analystes et des experts avant la rédaction finale, considère qu’en 2025 les Etats-Unis resteront certes « la plus grande puissance au monde » mais qu’ils seront « moins hégémoniques » qu’avant. Fingar est l’homme qui fut vice-directeur des autorités officielles en charge de collecter de tels renseignements et analyses. Depuis, il est devenu le chef du NIC. Fingar parle allemand et chinois ; il a d’abord enseigné dans diverses universités et hautes écoles, ensuite, il fut, pendant de nombreuses années, le principal analyste des questions militaires, attaché au quartier général de l’armée américaine à Heidelberg en Allemagne ; à ce titre, il dépendait du département des services secrets et de la recherche du ministère américain des affaires étrangères.

L’étude « Global Trends 2025 » cite toute une série de raisons expliquant l’évolution des vicissitudes politiques, telles que les perçoivent les services secrets américains : le processus de globalisation se poursuivra, explique le rapport du NIC, et il apportera, d’une part, un accroissement de l’abondance, et, d’autre part, de plus fortes inégalités. « Le fossé entre riches et pauvres, aux niveaux international, régional et intra-étatique, ne cessera de croître ».

L’hégémonie américaine sera soumise à une forte érosion au sein du système international, sur les plans militaire, politique, économique et culturel ; « et cette érosion ira en s’accélérant, sauf sur le plan militaire ». Même si la dimension militaire des Etats-Unis sera encore longtemps celle d’un géant, c’est sans doute le domaine qui s’avèrera le moins important. « Personne ne nous attaquera avec des forces conventionnelles et massives. Car la dissuasion nucléaire fonctionnera ». Les analystes de Fingar prévoient toutefois une perte d’importance dramatique pour les grandes organisations internationales : elles seront de moins en moins en mesure d’affronter les nouveaux défis d’un monde globalisé. Ce seront surtout l’ONU, l’OMC, le FMI, la Banque Mondiale, et aussi l’OTAN  qui seront frappés par ce désintérêt général et ce déclin. « Nous avons besoin d’autres institutions ou de transformer ou de réanimer celles qui existent, afin qu’elles puissent s’occuper des conséquences de la globalisation ».

Les Etats-Unis sont plus stables sur le plan démographique que l’Europe, la Russie et le Japon

Fingar craint toutefois que le mécontentement dans le monde face à la politique américaine devienne si important que toute idée lancée par l’Amérique, pour qu’elle soit mise à l’ordre du jour, soit d’emblée discréditée, aussi bonne soit elle. Les propositions formulées par la Russie, la Chine, l’Inde ou l’UE seront elles aussi dépourvues de crédibilité chez les puissances tierces et grevées de doutes et de scepticisme. « Personne ne sera en mesure, pendant assez longtemps, de prendre en charge le leadership dans le monde et d’aider à promouvoir les changements nécessaires dans le système international ».

Les modifications climatiques, estime l’étude du NIC, auront des conséquences politiques, bien qu’indirectes, et provoqueront des chutes de gouvernement et des  guerres. Ces modifications climatiques n’auront peut-être pas le poids nécessaire pour faire basculer seules les choses mais elles seront, dans bon nombre de cas, le petit élément de trop, pareil « au brin de paille qui brise l’échine du chameau », c’est-à-dire le complément inattendu, imprévu, qui donnera le coup de grâce à des gouvernements faibles ou à des Etats en voie de décomposition ».

Les migrations augmenteront partout dans le monde et en modifieront les structures politiques : toujours davantage d’hommes voudront quitter leurs pays appauvris et chercher de meilleures conditions de vie dans des Etats prospères et moins frappés par les modifications climatiques.

L’étude laisse une place importante au facteur démographique : l’Europe occidentale, la Russie et le Japon, dans une vingtaine d’années, se retrouveront dans une situation où pour chaque citoyen actif, il faudra compter deux retraités. « C’est là une charge fort lourde pour la croissance économique », conclut le rapport. C’est donc à ce niveau démographique que Fingar estime que les Etats-Unis se trouvent dans une meilleure position : « Parmi les pays hautement développés, nous sommes presque seuls dans ce cas : nous aurons toujours une croissance démographique en hausse ».

L’étude estime ensuite que les questions de sécurité énergétique pèseront d’un poids politique plus considérable que les idéologies : le désir de s’assurer des matières premières énergétiques ne cessera de croître et pas seulement en Occident, surtout chez les puissances émergentes comme la Chine et l’Inde.

Parmi les autres thématiques de ce travail considérable, riche d’idées : les conséquences de la catastrophe financière de 2008, le changement climatique, les technologies du futur, le rôle stratégique de l’Arctique, la raréfaction de l’eau potable, les conflits armés de l’avenir, la fin d’Al Qaeda, le danger des pandémies globales.

Günther DESCHNER.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°52/2000 – N°1/2009, traduction française : Robert Steuckers).

L’étude du NIC, intitulée « Global Trends 2025 » se lit sur internet : http://www.dni.gov/nic/PDF_2025/2025_Global_Trends_Final_Report.pdf

 

 

 

 

mardi, 23 décembre 2008

Les nouvelles pratiques du néo-colonialisme en Afrique subsaharienne

 

 

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« M. »/ « ‘t Pallieterke » :

 

Les nouvelles pratiques du néo-colonialisme en Afrique subsaharienne

Il y a quelques semaines, on faisait sauter les bouchons de champagne au siège principal de « Daewoo Logistics » en Corée du Sud. La grande firme venait d’acquérir, par le biais d’accords de leasing bien ficelés et pour une période de 99 ans, plus d’un million d’hectares de terres cultivables à Madagascar. En utilisant essentiellement de la main-d’œuvre sud-africaine, les Coréens vont pouvoir, chaque année, tirer de ce sol malgache plusieurs millions de tonnes de céréales et d’huile de palme qui prendront la direction de Séoul.

A quelques exceptions près, la conclusion de cet accord n’a eu que très peu d’échos dans la presse. C’est bien étrange car cet accord est terriblement important pour plusieurs raisons. A commencer par l’ampleur et l’objet de la transaction. Acquérir d’un seul coup un million d’hectares est chose bien peu courante. Par ailleurs, ce « deal » révèle une tendance de plus en plus fréquente : des pays comme la Chine, le Pakistan, voire quelques Etats du Moyen-Orient, achètent de plus en plus souvent de vastes étendues de terres arables dans les pays en voie de développement. Il s’agit non seulement d’une réponse à l’augmentation du prix des denrées alimentaires mais aussi d’une manière de s’assurer leurs approvisionnements sur le long terme.

A l’évidence, les conséquences de ces transactions sont importantes pour les pays en voie de développement eux-mêmes. Au point que le chef de l’agence alimentaire des Nations Unies, Jacques Diouf, évoque, sans circonlocutions inutiles, une forme de « néo-colonialisme ».

Pour la sécurité alimentaire !

Vers la fin du mois de novembre dernier, le journal britannique « The Guardian » publiait une carte du monde qui était on ne peut plus claire. En utilisant des flèches de couleurs différentes, le graphiste du quotidien anglais nous offrait une image globale de ces transactions et nous montrait quels étaient les pays acheteurs et les régions du monde où ils acquéraient ces terres arables. Ce n’est pas la Chine qui arrive en tête des acheteurs mais la Corée du Sud, qui a acquis 2,3 millions d’hectares, non seulement à Madagascar mais aussi ailleurs en Afrique et en Mongolie. La Chine, elle, talonne les Sud-Coréens et a acheté 2,1 millions d’hectares, surtout en Asie du Sud. Quelques pays arabes s’activent également avec zèle : l’Arabie Saoudite (1,6 million d’hectares), les Emirats Arabes Unis (1,2 millions d’hectares), etc.

On peut comprendre que des Etats exigus cherchent ainsi à acquérir du sol arable complémentaire, mais cette démarche s’explique plus difficilement dans le cas de la Chine. L’Empire du Milieu ne manque pas de terres, pourrait-on penser. Le problème des Chinois n’est pas tant le sol lui-même que l’eau nécessaire à l’irrigation. La motivation principale qui pousse à de telles transactions est évidemment l’augmentation croissante du prix des denrées alimentaires. Il ne faut pas chercher plus loin. Mais ces transactions ont à la base une vision sur le long terme. Vu le réchauffement de la planète, bon nombre de terres arables pourraient perdre une partie de leur fertilité. Les transactions participent donc d’un esprit de clairvoyance. Or gouverner, n’est-ce pas prévoir ?

En octobre, l’ONG internationale GRAIN, qui s’occupe d’agriculture durable et de biodiversité, a publié une étude intéressante. Si l’on jette un regard synoptique sur toutes les transactions importantes en matière de terres arables, on s’apercevra d’abord de l’ampleur de ces opérations mais aussi des instances qui se dissimulent derrière elles. « A première vue, ces accords semblent purement d’ordre privé », remarque un intermédiaire qui participe à ces ventes. « Si l’on prend la peine de fouiller un peu, on remarquera qu’une politique de sécurité alimentaire se profile derrière de telles opérations. Les entreprises qui achètent peuvent compter sur le ferme soutien de leurs pouvoirs publics respectifs. La quantité de terres achetées augmente systématiquement. Dans le temps, une vente de 100.000 hectares relevait de la norme. La récente transaction malgache des Sud-Coréens vient de décupler cette norme ».

A tout cela s’ajoute encore un élément  purement financier. En ces temps de crise financière, beaucoup d’investisseurs estiment plus raisonnable de placer leurs avoirs dans des terres arables plutôt que dans des produits financiers peu sûrs.

Néo-colonialisme ?

Jadis, on formulait quantité de promesses pour soutenir les agriculteurs et les éleveurs africains ; et aujourd’hui, qui s’en soucie encore vraiment ? En effet, quand le moment de prendre la décision arrive, chacun veut détenir un atout qui lui rapporte de l’argent. Peut-être que certaines belles âmes croient qu’un soutien complémentaire aux paysans d’Afrique poussera la production à la hausse et offrira une solution au problème du prix des denrées alimentaires ? Si l’on a quelques rudiments de raison d’Etat dans la tête, on se rendra bien vite compte de l’inanité d’un tel raisonnement.

Doit-on ajouter que cette tendance nouvelle est sévèrement critiquée par les tiers-mondistes ? « Vol de terres », « colonialisme par la porte de service » : les accusations qu’ils profèrent sont légion. Et elles sont partiellement justes. Autre élément que soulignent les scientifiques : comment ces terres seront-elles exploitées ? On pourrait facilement y utiliser des procédés de type industriel qui, à terme, tueront définitivement leur fertilité. Comment peut-on parler d’une solution sur le long terme si, en visant une rentabilité maximale de ces terres, on hypothèque gravement les potentialités du sol ? C’est là sans nul doute que réside le paradoxe de cette nouvelle tendance.

De surcroît, y a-t-il suffisamment de terres disponibles en Afrique et en Asie ? Sur cette question de la disponibilité des terres arables, les opinions divergent, et souvent considérablement.  Tandis que certains cénacles en Occident poussent des cris d’orfraie, certains pays africains sont aux anges. Ils constatent que les caisses de leurs Etats sont étoffées, ainsi que l’escarcelle personnelle de leurs dirigeants. Finalement, dernière question, qu’en est-il de la population ?

« Ces accords ne doivent pas être rejetés a priori parce qu’ils apportent souvent des avantages pour la population locale », remarque un observateur autochtone. « Elles ont alors du travail, elles bénéficient de soins de santé, d’un enseignement, etc. Nous avons effectivement des exemples d’entreprises qui couplent à leurs objectifs commerciaux des buts philanthropiques ». Exploitation, vol de terres mais aussi, quelques fois, une certaine abondance et un certain bien-être pour la population locale. Nous avons affaire à une fringale de gains, parfois tempérée par des soucis humanitaires. Mais ce sont là autant de facettes de l’ère coloniale que l’on croyait révolue. Alors, nous trouvons-nous tout de même face à un néo-colonialisme ?

« M. » / « ‘t Pallieterke ».

(article paru dans « ‘t Pallieterke », Anvers, 17 déc. 2008 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

 

 

lundi, 22 décembre 2008

Pour une nouvelle Ostpolitik

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Michael WIESBERG:

Pour une nouvelle “Ostpolitik”

Récemment, les tentatives unilatérales des Etats-Unis d’élargir l’OTAN, en y incluant la Géorgie et l’Ukraine et en contournant de la sorte des décisions antérieures et claires, lancent dans le débat quelques questions fondamentales, appelant les partenaires européens des Etats-Unis au sein de l’Alliance atlantique, dont l’Allemagne, à prendre position dans l’avenir. La situation actuelle suscite avant toute chose la question suivante: comment les relations transatlantiques futures s’agenceront-elles? La Russie ne laisse planer aucun doute: elle considère que l’élargissement de l’OTAN à la Géorgie et à l’Ukraine relève de la pure provocation. Concrètement, nous courrons le danger d’une nouvelle période de gel sinon celui d’une nouvelle Guerre Froide avec la Russie.

Ce glissement vers une nouvelle Guerre Froide ne va pas dans le sens des intérêts européens et allemands, pour plusieurs raisons. Déjà les rapports étaient fort tendus, à cause de la Guerre d’Août dans le Caucase en 2008 et du projet américain d’installer des fusées en Europe de l’est. La Russie considère qu’elle est de plus en plus menacée par l’OTAN et en particulier par les Etats-Unis. Ainsi, le Président russe Dimitri Medvedev déplore dans son discours sur l’état de la nation, tenu le 5 novembre dernier, que l’on s’active à mettre en place “un nouveau système global de missiles anti-missiles” et que la Russie est actuellement “encerclée par des bases militaires”, tandis que l’OTAN tente de s’élargir sans la moindre retenue.  Medevedev a ensuite évoqué les contre-mesures russes, qu’il a qualifiées de “contraintes et forcées”. Comme son prédecesseur Poutine, Medvedev a rappelé que le monde “ne peut être dirigé depuis une seule capitale” et a demandé que “l’architecture d’une sécurité globale” soit mise en place, qui engloberait la Russie, les Etats-Unis et l’UE.

Jusqu’à présent, les Etats-Unis ont ignoré froidement ces avances et, pire, ont poursuivi sans sourciller leur politique des coups d’épingle contre les intérêts stratégiques russes. Même les partenaires européens des Etats-Unis ne comprennent guère quels sont les motifs géopolitiques de cette attitude américaine. Expriment-elles le fait qu’une superpuissance comme les Etats-Unis soit soumise à des dynamiques spécifiques qui impliquent “un besoin permanent d’intervention”, ainsi que l’a qualifié le politologue berlinois Herfried Münkler? D’après lui, les Etats-Unis ne pourront réaffirmer leur rôle de superpuissance que s’ils s’avèrent capables de contrôler réellement les “flux de capitaux de l’économie mondiale” et de déterminer “les rythmes de l’économie mondiale”.

De telles capacités sont désormais remises en question, vu la crise financière actuelle. Dans cette optique, un rapport récent (“Global Trends 2025”), émis par le NIC (“National Intelligence Council”), explique que nous sommes au beau milieu d’une phase de transition et que nous nous acheminons vers un “nouveau système” qui s’installera graduellement au cours des vingt prochaines années. Dans ce “nouveau système”, les Etats-Unis demeureront sans conteste le “principal acteur” sur la scène internationale, mais leur position sera “moins dominante” qu’auparavant. Les Etats-Unis, poursuit le rapport, ne pourront maintenir et défendre leur statut que s’ils continuent à jouer un rôle décisif dans “l’espace eurasien”, où vivent les trois quarts de la population mondiale.  Ce n’est donc pas un hasard si les principaux challengeurs des Etats-Unis (la Chine, l’Inde et la Russie) se situent justement dans cet espace. Si les Etats-Unis y perdent leur influence, cela reviendrait à perdre leur position hégémonique sur le globe.

Mais dans cette volonté de se maintenir dans “l’espace eurasien”, les Etats-Unis butent contre une difficulté majeure: ils sont là-bas une “raumfremde Macht”, une “puissance étrangère à l’espace”; ils doivent donc se maintenir et s’affirmer sur une masse continentale où ils ne sont pas chez eux et où ils demeurent par conséquent vulnérables. Cette constellation oblige les Etats-Unis à multiplier leurs manoeuvres, à mouvoir constamment leurs pions sur l’échiquier eurasien, selon l’expression du stratégiste Zbigniew Brzezinski, aujourd’hui devenu conseiller d’Obama.  Si ces manoeuvres sont souvent dirigées contre la Russie, c’est parce que celle-ci occupe une position centrale sur cette masse continentale eurasienne.

On peut me rétorquer, ici, que la Russie n’est certainement pas la puissance la plus solide de l’espace eurasien et que, dans l’avenir, elle ne pourra guère concurrencer l’UE et la Chine. Le publiciste allemand Hauke Ritz nous explique clairement pourquoi les Etats-Unis sont néanmoins portés à affaiblir constamment la Russie. C’est parce que cette dernière, vu sa position géographique et ses richesses en matières premières, est en mesure de concrétiser des “coopérations inter-eurasiennes”, notamment sous la forme de “relations économiques approfondies” avec l’UE. L’Europe y gagnerait en “indépendance” et, à la longue, cela mettrait en danger l’orientation transatlantique de sa politique depuis 1945.

Cette vision des choses est tout à fait plausible vu la complémentarité de bon nombre d’intérêts européens et russes. Par exemple: l’Europe ne peut pas réellement assurer ses apporvisionnements énergétiques sans la Russie; quant à la Russie, elle a un besoin énorme en technologie européenne. Cette complémentarité inquiète énormément les stratégistes américains, comme l’atteste, entre autres choses, la teneur du dernier livre de Brzezinski, “The Second Chance”, paru en 2007. Il y explique qu’il faut plus ou moins isoler la Russie en scellant des accords avec l’Europe et avec la Chine. La volonté américaine d’élargir l’OTAN encore plus à l’Est correspond pleinement à ces injonctions de Brzezinski, dans le sens où elles débouchent sur un morcellement complémentaire des sphères d’influence russes.

Une telle stratégie vise à créer un système de sécurité dominé par les Etats-Unis et englobant l’ensemble du continent européen jusqu’à ces confins caucasiens. Mais elle ne résussira que si elle reçoit l’aval et le soutien inconditionnels de l’Europe. Or, dans le rapport du NIC, celle-ci est décrite, avec mépris et condescendance, comme “un géant boiteux”, incapable de transformer sa puissance économique en puissance politique. Ce qui n’empêchera pas ce “géant boiteux” de devoir tôt ou tard prendre une position claire: peut-être acceptera-t-il la logique hégémoniste des Etats-Unis mais cela équivaudra à renoncer aux intérêts propres de l’Europe. Or un renoncement pareil ne constitue nullement une option politique valable pour le long terme. Il est donc grand temps que le “géant boiteux” apprenne à marcher droit.

Michael WIEBERG.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°50/2008, traduction française: Robert Steuckers).    

 

Deux livres sur l'Europe

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Deux livres sur l'Europe


Herbert KRAUS, «Großeuropa». Eine Konföderation vom Atlantik bis Wladi­wostok, Langen-Müller, München, 1990, 147 S., DM 28, ISBN 3-7844-2197-0.


A cause des problèmes en Allemagne de l'Est, de la situation catastrophique de l'économie polo­naise, de l'intervention des militaires sovié­tiques à Vilnius, de la fragilisation de la posi­tion de Gorbatchev à Moscou, l'unification gran­de-continentale, de l'Atlantique au Paci­fique, la communauté de destin euro-soviétique est postposée. Cette remise aux calendes grec­ques d'un processus nécessaire ne doit pas pour autant nous empêcher de réfléchir à son adve­nance, de la préparer. Herbert Kraus, ex­pert au­trichien des questions d'Europe orientale, fon­dateur du parti libéral autrichien, l'a soule­vée dans un livre qui a la forme d'un manifeste et qui appelle à la consitution de la «Grande Con­fédération». Pour Kraus, ressortissant d'un pe­tit Etat neutre, sis à la charnière de l'Est et de l'Ouest, les Européens doivent préparer l'a­vè­nement d'un Etat multiculturel englobant tous les pays d'Europe et l'ensemble du territoire au­jourd'hui soviétique. Dans cet immense es­pace, tous les Européens devraient pouvoir avoir le droit de travailler, de commercer ou de fonder des entreprises. L'heure de l'Etat-Nation, étroit, trop exigu pour les impératifs qui s'annoncent, a sonné. Il doit faire place au «grand espace». Ce processus de méta/macromorphose doit s'ac­com­pagner d'un socialisme acceptable pour tous, d'une déconstruction des antagonismes mi­litaristes du passé afin de construire une gi­gantesque armée confédérative. La Russie a un rôle tout particulier à jouer dans cette évolution: elle doit transformer l'URSS qu'elle domine par son poids en une confédération-modèle que l'Ouest pourra imiter, tandis que les réussites de la CEE en matière d'intégration devront servir de modèles à l'Est. La confédération devra être plus souple, plus soucieuse des tissus locaux, moins centralisatrice en matières écono­mi­ques. Logiques intégratives et identitaires doi­vent pouvoir jouer simultanément.


Otto MOLDEN, Die europäische Nation. Die neue Supermacht vom Atlantik bis zur Ukraine, Herbig, München, 1990, 323 S., DM 39,80, ISBN 3-7766-1649-0.


Ancien chef de la résistance autrichienne con­tre le nazisme, Otto Molden, homme poli­tique et historien, a toujours eu la volonté de for­ger un «patriotisme européen», reposant sur une inter­prétation «culturo-morphologique» de son his­toire, qui n'est pas sans rappelé Spengler et Toynbee. La disparition du Rideau de fer, pense Molden, va activer la constitution d'une Europe unie et faire d'elle la première puissance cultu­relle, économique et financière du globe, lais­sant les Etats-Unis stagner loin derrière elle. Paradoxalement, poursuit Molden, ce sont les dangers venus de la steppe asiatique, les inva­sions hunniques, avares, magyares et mon­go­les, qui ont, à certains moments de l'histoire, don­né aux Européens l'idée d'une communauté de destin. Pour Molden, l'ère des Etats-Nations, incapables de gérer leurs problèmes de minori­tés, doit être close. Ces problèmes de minorités doivent être résolus, non seulement à l'Est, mais aussi à l'Ouest (Irlande, Pays Basque), de façon à ce que l'on obtienne une nation consti­tuée de peuples et de citoyens solidaires. Pour or­­ganiser ce gigantesque ensemble, il faut in­venter une représentation nouvelle, fondée sur le «fédéralisme intégral des communautés de voisinage». Une telle représentation permettra à moyen ou long terme de resouder les tissus so­ciaux ravagés par la révolution industrielle.

 (Robert Steuckers)


 

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dimanche, 21 décembre 2008

Nous allons vers une nouvelle guerre froide...

 

 

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Nous allons vers une nouvelle « Guerre Froide »…

 

Entretien avec le Prof. Dr. Peter Scholl-Latour

Propos recueillis par Moritz Schwarz

Q. : Professeur Scholl-Latour, la Russie réagit fermement au déploiement des missiles anti-missiles américains en Pologne et en République Tchèque ; elle riposte en déployant à son tour des engins balistiques à moyenne portée à Königsberg en Prusse orientale. La Guerre Froide revient-elle au galop ?

PSL : De fait, la réaction russe correspond au modèle classique de la guerre froide, à plus d’un point de vue. Les Russes répondent à ce qu’ils perçoivent comme une provocation américaine. Ils procèdent exactement comme le fit l’OTAN au début des années 80 qui, pour répondre à l’installation des fusées SS-20 soviétiques, avait déployé les Pershing-2 américaines. A cette époque, j’étais rédacteur en chef du « Stern » et, dans la rédaction, le seul à avoir pris position pour le réarmement occidental. C’est pourquoi je comprends bien les Russes aujourd’hui. Mais je reviens à votre question : « La Guerre Froide revient-elle ? ». Je réponds « Non ». Car la nouvelle « guerre froide » n’est pas l’ancienne. Raison pour laquelle j’ai intentionnellement intitulé mon livre « La voie vers la nouvelle guerre froide ».

Q. : Et qu’est-ce qui distingue la nouvelle de l’ancienne ?

PSL : L’ancienne guerre froide était bien plus prévisible que celle que nous vivons aujourd’hui. A l’époque existait un contact permanent entre Washington et Moscou. Quand la situation devenait alarmante, on utilisait le téléphone rouge et on cherchait tout de suite à aplanir la situation. On oublie un peu vite qu’Eisenhower et Khrouchtchev se sont opposés de concert au débarquement insensé des Français et des Britanniques à Suez en 1956, en leur lançant un ultimatum. De plus, n’oublions pas que les Soviétiques, avant d’entrer en Tchécoslovaquie en 1968, avaient préalablement averti les Américains.

Q. : Votre livre est finalement un recueil d’articles, ce qui lui donne un caractère purement descriptif. La pertinence analytique qui caractérise généralement vos travaux semble cette fois absente. Pensez-vous que cela satisfera vos lecteurs ?

PSL : En 2003, quand j’ai dit que la guerre en Irak pourrait se terminer par un désastre, on m’a appelé « le vieux roi des prophètes de malheurs ». Ce que je présente dans mon nouveau livre, c’est l’évolution graduelle de la situation de 2001 à nos jours. Je n’ai pas changé un seul mot dans tous les articles que j’ai sélectionnés pour ce livre : le premier date du 22 octobre 2001, alors que l’offensive contre l’Afghanistan venait de commencer, et le dernier date du 5 novembre 2008, un jour après l’élection d’Obama. Dans ce vaste éventail d’articles, le lecteur pourra aisément constater que l’évolution des choses nous portait bien à la situation actuelle et que tout était donc parfaitement prévisible.

Q. : Le blocus de Berlin en 1948 est considéré comme la « première bataille » de l’ancienne guerre froide.  Pour la nouvelle guerre froide, vous considérez que c’est l’attaque américaine contre l’Afghanistan qui constitue le premier acte, même si dans ce conflit, les Etats-Unis ne font pas face à une autre grande puissance…

PSL : La Guerre froide du passé résultait d’une confrontation bipolaire. Aujourd’hui les Etats-Unis ne sont plus la puissance hégémonique universelle. Ils en sont eux-mêmes conscients, comme le révèle d’ailleurs une étude interne des services secrets américains. La principale différence entre l’ancienne et la nouvelle guerre froide réside dans la nature multipolaire de la nouvelle confrontation. Aux côtés des rivaux traditionnels que sont les Etats-Unis et l’Union Soviétique (dont la Russie est l’héritière, ndt), de nouveaux acteurs sont entrés en lice, comme la Chine, l’Inde et le monde islamique. La guerre en Afghanistan témoigne de la nouvelle acuité de la confrontation avec l’islam.

Q. : Est-ce utile de lier les rivalités entre grandes puissances au conflit avec l’islamisme ? Samuel Huntington a forgé, pour ce conflit tout particulièrement, la notion de « choc des civilisations » ; cette notion s’avère-t-elle pertinente pour distinguer ce conflit contre l’islamisme du conflit classique entre puissances, que vous évoquez sous la formule de « guerre froide » ?

PSL : Le 21ème siècle est d’ores et déjà marqué par le parallélisme entre divers conflits. Aujourd’hui, nous nous en apercevons, notamment lors des derniers événements d’Inde, où des islamistes ont défié l’Etat indien en perpétrant le massacre de Bombay. Le terrorisme international, que l’on appelle à Washington la lutte contre « l’islamo-fascisme » alors que je préfèrerais l’appeler la « révolution islamique », est un boulet que doivent traîner tous les « global players ». Dans cette optique, il faut tenir compte d’une chose : ici les véritables acteurs ne sont pas des Etats mais des mouvements insurrectionnels diffus, soutenus par la population, qui prennent de plus en plus souvent des attitudes antioccidentales. En principe, les attentats visent les gouvernements locaux et sont antioccidentaux surtout dans la mesure où l’Occident soutient ces gouvernements. Si l’ancienne guerre froide était une grande affaire planétaire sur laquelle on pouvait encore jeter un regard synoptique, la nouvelle se caractérise surtout par ses imbrications si complexes qu’elles ne sont plus immédiatement perceptibles.

Q. : La confrontation de type classique entre les Etats-Unis et la Russie aura-t-elle encore son point de gravitation principale en Europe centrale ?

PSL : La Russie n’est plus une puissance mondiale capable d’assurer un hégémon comme le fut jadis l’Union Soviétique. Mais elle reste, malgré tout, une grande puissance. Surtout parce qu’elle dispose d’un potentiel nucléaire, qui équivaut peu ou prou à celui des Etats-Unis.

Q. : Les Russes ont envoyé récemment une flotte avec pour navire amiral le croiseur atomique « Pierre le Grand », le principal bâtiment de leur flotte de l’Arctique et le plus grand navire de guerre du monde, au Venezuela. Dans l’avenir, n’y a-t-il pas là-bas le risque d’une nouvelle crise de Cuba ?

PSL : Je ne crois pas qu’on en arrivera là mais, quoi qu’il en soit, les Russes pourront équiper le Venezuela du Président Hugo Chavez d’armes qui ne seront certes pas aussi perfectionnées que celles des Américains mais qui confèreront aux Vénézuéliens un poids militaire important dans la région. N’oublions pas que quelques temps auparavant, les Etats-Unis avaient envoyé des navires de guerre en Mer Noire pour aller cingler face au littoral de la Géorgie. Les Russes ont réagi en adoptant le même mode de comportement. Ce genre d’incident se répétera dans l’avenir jusqu’au jour où les Etats-Unis reconnaîtront qu’ils doivent traiter la Russie comme un partenaire égal.

Q. : L’ex-général américain Wesley Clark a déclaré récemment dans un entretien avec « Junge Freiheit » (Berlin ; n°36/2008) que ces gesticulations russes n’étaient rien d’autre que du « boucan et des hurlements de colère », indices de l’impuissance de Moscou…

PSL : Mouais… je me souviens, moi, du conflit des Balkans en 1999, quand ce général Clark voulait jeter les Russes manu militari hors du Kosovo. Le Général britannique Mike Jackson lui avait rétorqué : « Je ne tolèrerai pas que l’on déclenche ici une troisième guerre mondiale ». La grande erreur du gouvernement Bush a été d’acculer sans cesse la Russie et de susciter de la sorte une animosité permanente à l’endroit de Washington qui, au départ, n’existait pas.

Q. : Vous écrivez également que la nouvelle guerre froide sera marquée par un déclin relatif de la Russie assorti d’un renforcement concomitant de la Chine…

PSL : Dans l’avenir, le véritable adversaire de l’Amérique sera la Chine qui, stratégiquement parlant, deviendra, à partir de 2025, l’égale des Etats-Unis. Les Russes entretiennent certes de bonnes relations avec la Chine, mais ils se sentent néanmoins menacés par l’énorme pression démographique chinoise en Sibérie orientale, surtout dans la province de Primorié, littorale du Pacifique. Cette province connaît actuellement une immigration chinoise massive, comme on l’a toujours craint, mais aujourd’hui la Russie est consciente que ses territoires d’Extrême Orient se dépeuplent à grande échelle (i. e. perdent leur peuplement slave). Face à ce vide démographique se masse le long du fleuve Amour et en Mandchourie une population de 130 millions de Chinois, qui connaît un développement fort dynamique. Les Russes savent que leur déficit démographique  —la Russie, avec ses 142 millions d’habitants compte à peine plus de citoyens que la France et l’Allemagne réunies—  menace leur statut de grande puissance. Or l’avenir annonce encore un ressac démographique : la population russe perd chaque année 800.000 âmes. L’époque où l’on parlait du « rouleau compresseur » russe, slogan du temps de ma jeunesse, est bien révolue. Ce ressac s’avère d’autant plus dramatique qu’environ 25 millions de musulmans vivent au sein de la Fédération de Russie, appartenant majoritairement aux peuples de souche turque ; ceux-ci ont une croissance démographique en hausse contrairement aux Slaves. Face à ces problèmes russes, l’Amérique à son tour présente des symptômes d’affaiblissement. Pensons à cette tragicomédie qui se déroule actuellement face aux côtes de la Somalie où la marine américaine, si puissante, n’a pu se trouver sur place à temps pour contrer l’action des pirates locaux.

Q. : La caractéristique majeure de l’ancienne guerre froide était d’être une guerre par parties interposées. Ce type de conflits reviendra-t-il avec la nouvelle guerre froide ?

PSL : C’est déjà le cas. Mais on ne les appelle plus de la sorte. Songeons à ce propos au conflit qui vient de secouer le Caucase en août dernier, en opposant la Géorgie à la Russie pour le contrôle de l’Ossétie du Sud. Les Américains avaient déployé 140 conseillers militaires en Géorgie qui auraient pu avertir immédiatement le Pentagone des intentions offensives du Président géorgien Saakachvili. Un simple coup de fil de George Bush à Tbilissi aurait suffi pour mettre tout de suite un terme à l’aventure. Mais les Etats-Unis ont délibérément laissé venir l’épreuve de force.

Q. : Leur objectif est donc bel et bien d’étendre le territoire de l’OTAN à l’Ukraine et à la Géorgie…

PSL : Du point de vue russe, il s’agit ici, une fois de plus, d’une pure provocation. Kiev, la capitale de l’Ukraine, est considérée par l’historiographie russe comme « la mère de toutes les villes russes ». En première instance, les Etats-Unis veulent évidemment placer des oléoducs et des gazoducs, afin d’acheminer directement les richesses en hydrocarbures de l’ancienne Union Soviétique vers l’Ouest sans passer par les territoires russe et iranien. L’enjeu n’est évidemment pas la liberté de la Géorgie, une liberté fort compromise par le régime imposé par Saakachvili. Pour ce qui concerne l’Ukraine, il faut se rappeler que nous avons affaire à un pays profondément divisé.  Si les Européens avaient encore une once de courage politique, ils imposeraient à leur allié américain de cesser toute tentative d’expansion de l’OTAN vers l’Est.

Q. : Qu’est-ce que cela signifierait pour nous si l’OTAN s’élargissait à Kiev et à Tbilissi ?

PSL : D’un point de vue militaire, ce serait totalement inutile car la Russie aurait bien des difficultés à lancer une guerre d’agression contre l’Europe.

Q. : Qu’en est-il de la puissance militaire russe ? Et du nationalisme russe ?

PSL : Les Russes ont bien d’autres soucis aujourd’hui pour qu’ils songent à mener une guerre de conquête à l’Ouest. Ils ne peuvent même pas se permettre une telle agression. Ce que nous entendons dans les médias à ce sujet relève d’une pure propagande, bien ciblée contre Moscou.

Q. : Et nous devrions réagir contre les effets de cette propagande…

PSL : A Berlin, nous devrions enfin avoir le courage de dire aux Américains (ce qui irait d’ailleurs aussi dans le sens de leurs propres intérêts) : « Nous ne participons plus ! ». L’Allemagne est un partenaire important de l’OTAN et n’a nul besoin de conserver ses lumières sous le boisseau. Si la Chancelière fédérale avait de bons conseillers, elle coopèrerait étroitement avec la France mais, à l’évidence, entre elle et Sarközy, les rapports sont plutôt tendus.

Q. : Les Etats-Unis n’ont-ils que la seule Russie dans le collimateur en envisageant un tel élargissement de l’OTAN ?

PSL : Non. Il s’agit aussi de créer et de maintenir une tension permanente entre l’Europe et la Russie. Les néo-conservateurs de l’entourage de Bush veulent surtout éviter que ne se créent entre l’Allemagne et la Russie des rapports de bon voisinage, assortis d’une profonde imbrication économique et politique de leurs atouts respectifs. En disant cela, je ne plaide nullement pour un changement d’alliance : nous devons nous garder d’un nouveau Rapallo ou de répéter l’alliance russo-prussienne de Tauroggen ; pour moi, l’Allemagne doit rester orientée vers l’Atlantique ! Cependant, l’Europe et la Russie se complètent naturellement : les Russes disposent des matières premières dont nous avons besoin et nous disposons des infrastructures techniques dont la Russie a besoin pour moderniser les siennes, qui sont dans un état lamentable.

Q. : Peut-on dire que les Américains font un mauvais usage de l’OTAN ?

PSL : D’une certaine manière, oui car l’OTAN, au départ, était une alliance défensive. Les Etats-Unis cherchent désormais à transformer l’OTAN en un instrument de leur politique hégémoniste globale. Nous devrions revenir à l’ancienne et solide politique de sécurité commune qui alliait l’Europe à l’Amérique.

Q. : L’ancienne guerre froide, disait-on, avait été provoquée par les Soviétiques, qui entendaient étendre leur pouvoir à l’Europe occidentale. Si l’on suit aujourd’hui vos analyses, les Etats-Unis portent la responsabilité d’avoir déclenché la nouvelle guerre froide.

PSL : Le gouvernement de Bush porte de lourdes responsabilités à ce niveau. Que cherchait-il, par exemple, en pratiquant sa politique constante de coups d’épingle contre la Chine, politique à laquelle participent d’ailleurs les Allemands ? Les présidents Clinton et Bush Senior se sont montrés bien plus flexibles face à la Chine. La situation actuelle provient tout entière des errements idéologiques des néo-conservateurs et de la cupidité insatiable des consortiums américains du pétrole, qui cherchent à s’emparer des hydrocarbures d’Asie centrale. L’Amérique, en ce domaine, a sauvé l’honneur car sa presse est bien plus critique à l’égard de cette politique agressive des pétroliers et des néo-conservateurs que notre propre presse allemande, qui, victime d’un éclairage historique fallacieux, considère encore et toujours que les Américains sont les vainqueurs et les libérateurs de 1945.

Q. : Beaucoup placent de grands espoirs en Obama. Sera-t-il le Richard Nixon ou le Jimmy Carter de la nouvelle guerre froide, c’est-à-dire le président qui tentera de remplacer la confrontation par la coopération ?

PSL : Obama se trouve dans une situation incomparablement plus difficile que ses prédécesseurs Nixon ou Carter. S’il est intelligent, il comprendra que Moscou et Washington font face aux mêmes forces ennemies. Ainsi, nous avons les forces de la révolution islamique, que tant la Russie que les Etats-Unis considèrent comme une menace. Un jour viendra peut-être où la confrontation avec l’islamisme militant partira des républiques autonomes musulmanes du Daghestan ou du Tatarstan pour ne pas évoquer la Tchétchénie qui n’est que temporairement pacifiée. La situation actuelle est donc préoccupante parce que ni à Washington ni à Berlin on n’envisage ni n’ébauche de contre-mesures appropriées pour cette nouvelle forme de guerre froide. A Berlin, nous ne trouvons personne de nos jours qui soit capable d’énoncer une conception cohérente et définitive en matière de politique étrangère ou de stratégie. La guerre froide d’antan avait, elle, ses règles fixes et les plans défensifs de l’alliance atlantique contre l’Union Soviétique s’inscrivaient dans un cadre bien défini. A l’époque, cela paraissait tout naturel que les Etats-Unis gardassent le leadership militaire. Aujourd’hui, les intérêts respectifs de l’Europe et de l’Amérique sont tout au plus parallèles : ils ne sont en tout cas plus identiques. Le Président Obama se voit obligé de faire d’abord face à la catastrophe économique dans laquelle son pays est plongé. Mais il devra également envisager une refondation complète de l’alliance et au moins  annoncer à ses adversaires qu’il est prêt à dialoguer.

(entretien paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°50/2008 ; trad. franç. : Robert Steuckers).

 

 

 

 

 

jeudi, 18 décembre 2008

Solo el 30% de los ucrainos apoya la integracion en la OTAN

Sólo el 30% de los ucranianos apoya la integración en la OTAN

 

Tan sólo un 30,1 por ciento de los ucranianos estaría a favor de la entrada de su país en la OTAN, frente al 59,6 por ciento que se oponen al ingreso en esta alianza, según revela una encuesta encargado por el Ministerio de Asuntos Exteriores de Ucrania al Instituto de Transformaciones de la Sociedad con colaboración de la Embajada de Noruega.

Un 10,2 por ciento de los encuestados no quisieron responder al sondeo. La encuesta fue realizada después del rechazo de los miembros de la Alianza a incluir a Ucrania en el Plan de Acción de Adhesión (MAP, por sus siglas en inglés), paso previo indispensable para el ingreso en la OTAN.


Los estudios anteriores a la cumbre de la OTAN de principios de este mes proporcionaban resultados similares, con un apoyo al ingreso de entre el 24 y el 31 por ciento.

Extraído de EcoDiario.

mercredi, 17 décembre 2008

100 anos de imperialismo norteamericano

100 anos de imperialismo norteamericano

El accionar del imperialismo en Venezuela, América y el tercer mundo comienza desde el siglo XV cuando fuimos colonizados por los europeos y pasamos a formar parte de la periferia del capitalismo mundial como suministradores de materia prima. A pesar de los procesos de independencia no hay la menor duda de que continuamos en la órbita de dependencia y de neocoloniales con respecto a los principales centros hegemónicos del capitalismo en el siglo XIX, en lo económico con respecto a Inglaterra y en segundo plano con Alemania y en lo político y cultural con respecto a España y en mayor grado con respecto a Francia. Desde los primeros bancos e industrias, pasando por líneas férreas y navieras, empresas de servicio y de comercio eran capitales fundamentalmente ingleses y alemanes. Igualmente los políticos e intelectuales que hicieron posible las nuevas repúblicas lo hicieron trasladando las principales constituciones, formas de gobiernos y universidades provenientes de la Europa Occidental. Pero desde finales del siglo XIX surge el Imperio Norteamericano con su expansión sobre el territorio cubano y puertorriqueño a partir de la guerra con España de 1898. Ya antes, desde apenas la cuarta década del siglo pasado Estado Unidos se había apropiado de buena parte del territorio mexicano.

El término que mejor define la política exterior norteamericana es la agresión, desde su nacimiento como país soberano (1776) ha demostrado una profunda vocación expansionista, evidenciada durante los gobiernos de Tomás Jefferson, pero que tendría una mayor definición en la presidencia de James Monroe con su famosa doctrina “América para los Americanos”, o lo que es mejor decir “América para los norteamericanos”. Si bien el siglo XIX es tiempo de consolidación de la economía norteamericana y de su política interna (guerra de secesión, 1861 - 65), esto no los aisló de su ideal expansionista, que ya se había manifestado sobre Luisiana y la Florida, pero que se profundiza con la anexión de los hasta entonces estados mexicanos de Texas y California (ricos en minerales como el petróleo).

Fue nuestro Simón Bolívar quien con mayor visión se percató de esta agresiva política exterior norteamericana, puesta de manifiesto fundamentalmente en los preparativos del Congreso de Panamá en 1826, con la idea de consolidar la integración de los países recién liberados del dominio español sin involucrar a los EEUU en dicho Congreso. El boicot norteamericano estuvo claramente presente en la derrota de este plan integracionista latinoamericano. En 1829 es aún más clara la percepción de Bolívar sobre el país del norte cuando señalo: “Los Estados Unidos parecen destinados por la providencia a plagar a la América de hambre y miseria en nombre de la libertad” Precisamente la mayor desviación de este proyecto fue la constitución del Panamericanismo en 1890.

Las mayores muestras de agresiones continuas y de carácter brutal por parte del gobierno norteamericano se producen desde 1898 con la guerra contra España, cuando los Estados Unidos se posesionan de los codiciados territorio Cuba, Puerto Rico, Filipinas y Wuam comenzando así su expansión extracontinental, sobre todo su interés en la “apertura” comercial Asiática. Luego vendría la política del “Gran Garrote” de Teodoro Roosvelt (1901 - 1909) y la historia de las invasiones en Cuba, Panamá, Honduras, Haití, Nicaragua, Santo Domingo, separación de Panamá de Colombia, agresiones que solo fueron disminuidas con el crac económico de los años 30. Al tiempo que se producían intervenciones militares, los Estados Unidos habían consolidado su poder económico sobre la zona: el poder del dólar. En aquellos países donde no intervino militarmente (como Venezuela); brindó “apoyo” a los gobiernos que representaban seguridad para sus inversiones.

Tanto la crisis económica de los años 30 como el enfrentamiento al nazifacismo (1933 - 45) hicieron replegar la política intervencionista norteamericana, pero el comienzo de la Guerra Fría permitió a los Estados Unidos consolidar su presencia en regiones hasta entonces inaccesibles, como las zonas petroleras del Medio Oriente. El dominio económico de los Estados Unidos se expande por todo el mundo, sus capitales y compañías levantan a Europa y Asia destruidas por la guerra y penetran en los países subdesarrollados, ya no sólo en los de América Latina. Pero la expansión económica y política norteamericana se vio frenada por el auge del socialismo que dominaba ya no solo en Europa del Este, sino también en la China, Yugoslavia y fue expandiendo su órbita sobre pequeñas naciones que habían sido víctimas de los grandes imperios occidentales.

Al tiempo que los Estados Unidos expandían sus políticas a través de la utilización de organismos internacionales aparentemente neutrales (FMI, BM, OEA, TIAR, OTAN, ONU) que han representado históricamente sus intereses, se inició una política internacional de favorecer a los “gobiernos fuertes” de marcada tendencia anticomunista, manifiesta en el auge de los gobiernos dictatoriales no sólo en América Latina (1948 - 57) sino en el resto del tercer mundo: Invade Guatemala en 1954 y 1965, presiona contra la revolución Boliviana de 1952, así como se involucra en la caída de Perón en Argentina y Vargas en Brasil, de Medina y luego Rómulo Gallegos en Venezuela, interviene en los conflictos de Corea y de Vietnam donde es, por primera vez en su historia, aplastantemente derrotado.

En el Medio Oriente, hasta 1951, en el único país donde los EEUU no tenían participación era Irán, controlado cien por ciento por los ingleses. Después de la Segunda Guerra Mundial, además del debilitamiento inglés, existen otros factores por lo cual el Medio Oriente se convierte en determinante en la política exterior norteamericana; primero, en su política de defensa ante la amenaza de expansión del comunismo, para lo cual se lanza la “Doctrina Truman”, segundo, por la situación de dependencia en la que se coloca EEUU a partir del año en que se convierte en principal importador de petróleo, situación que aumenta el peso de los EEUU, la población de origen judío fue lo que justificó su decidido apoyo a la creación y mantenimiento del Estado de Israel. En pro de estos intereses los EEUU llegaron hasta intervenir militarmente cuando consideraron algún peligro: Así dieron su aprobación al desplazamiento violento de los palestinos de sus territorios, en 1949 intervienen directamente en un golpe de Estado contra Siria y junto a Inglaterra contra el Líbano y Jordania, en 1958, motivados por el miedo a las repercusiones en esos países de la revolución iraquí. Pero su acción militar más importante fue el derrumbamiento de Mossadeh en Irán en 1954, donde la participación de la CIA fue decisiva. En 1955, en el contexto de la guerra fría, Inglaterra y EEUU establecen el acuerdo de Bagdad, acuerdo militar de la región para la “mutua defensa” ante posibles agresiones, era una extensión más de la OTAN, como lo fue el TIAR en América Latina para enfrentar el comunismo y a los movimientos nacionalistas.

Regresando a Latinoamérica, desde 1959 con la revolución cubana surge lo que desde entonces ha sido el obstáculo más grande en la política exterior norteamericana en sus relaciones con la región. El comunismo en su propio continente, en un territorio que al igual que Puerto Rico habían considerado de su dominio natural. Además, junto a la revolución cubana se había producido el auge de los movimientos insubordinados en muchos países de América Latina. Todo esto se producía, además, en el comienzo de una profunda recesión de las economías hegemónicas capitalistas aunado a la crisis energética de los 70, que a su vez generó una profundización de los movimientos nacionalistas y tercermundistas a escala mundial a los que tuvo que enfrentar la “diplomacia” norteamericana. Esta política norteamericana contribuyó, en buena parte, al retorno de las dictaduras cuya agresividad más palpable ocurrió en Chile con la caída del gobierno socialista de Allende. 1979 es un año realmente terrible para la política exterior norteamericana, cuando se producen revoluciones socialistas en Granada y Nicaragua, así como la revolución islámica y la caída del Sha en Irán, país que había sido uno de los principales aliados norteamericano en el Medio Oriente.

Al contrario de lo que muchos ingenuamente pensaban, las guerras y cualquier manifestación de violencia no han sido socavadas después del fin de la guerra fría. Por el contrario hay quienes opinan que existía mayor grado de “estabilidad política” cuando prevalecían los dos grandes bloques del occidente capitalista Vs. el oriente comunista. Hoy hasta quienes celebraron la caída de la Unión Soviética y el auge del proceso globalizador están reflexionando sobre las consecuencias de estos sucesos y sus repercusiones en el mundo actual. Los cambios ocurridos con el derrumbamiento soviético; el fin de la Guerra Fría posibilitó el surgimiento de los Estados Unidos como máxima potencia mundial. Ante el debilitamiento soviético los Estados Unidos intervienen militarmente y derrumban el gobierno socialista de Granada (1987) y luego el derrocamiento del presidente de Panamá Manuel Noriega en 1989, que estaba claramente influido por la resistencia - aun latente- de entregar el canal en 1999 y luego su participación fue evidente en el desplazamiento de los Sandinistas de Nicaragua. Como habíamos señalado en la primera parte, la última intervención militar en América se había producido contra Guatemala en 1965, luego vendría el fracaso aplastante de Vietnam. En estos años la política exterior norteamericana se hiso muy pragmática, salvo en el caso cubano, los intereses políticos pasaron a un segundo plano, a pesar de la permanencia del comunismo en China se silenciaron los ataques contra este país y por el contrario se profundizó las relaciones económicas. En el caso de Rusia no hay la menor duda que la reelección de Yelsin, frente a la amenaza que representaban los comunistas y los ultra nacionalistas, tuvo en el apoyo norteamericano un importante aval. Los Estados Unidos ahora jerarquizan sus intervenciones en aquellas regiones o naciones que representan un significativo interés.

La primera invasión sobre Iraq (1991) se encierra en el contexto que hemos señalado, las agresiones norteamericanas hacia esa nación hubieran sido imposibles con la existencia de la URSS, también sería ingenuo pensar que las mismas tuvieron como causa la defensa de la democracia y la soberanía de Kuwait - que nunca las ha tenido- o la defensa de las minorías étnicas, como los kurdos, cuyo problema, por cierto, fue creado por los propios países occidentales y que hoy no solamente atañen a Irak. Tan ingenuo es convertir a Hussein en un Satán como hacerlo un héroe, eso no es lo que nos debe interesar, pero lo cierto es que es una lucha en extremo desigual que solo pretendía garantizar el control norteamericano sobre el 70% de las reservas petroleras del mundo ubicadas en el Medio Oriente. Los gobiernos de Kuwait y Arabia Saudita e Israel le son ya incondicionales a EEUU pero no así el resto de la región.

La Paz Americana que se quiso imponer en la región, ha sido debilitada fundamentalmente por el antiarabismo de Israel, pero más aún por la profundización de los movimientos nacionalistas y concretamente del fundamentalismo islámico, que amenazan con convertirse en el obstáculo mayor de tan añorada globalización. Las agresiones a Irak, el intento de bloquear a Irán y Libia (Ley de Amato), no son solo medidas coyunturales con intereses electorales, esto va mucho más allá, los Estados Unidos se han percatado del inminente peligro que representa la inestabilidad de esta zona para su futuro. La adversidad de esta región hacia occidente está siendo alimentada tanto por la intolerancia de Israel como la de los EEUU.

En el contexto de una supuesta globalización es la imposición y la intolerancia lo que predomina, para ello los EEUU utilizan a los organismos internacionales, aparentemente “neutrales”, para enmascarar sus propios intereses, como si hubieran sido hechos bajo el consenso de todas las naciones del mundo y para el bienestar general. Se imponen modelos de economías abiertas cuando ellos aplican el proteccionismo, hablan de un mundo entre iguales y de democracias liberales cuando rechazan al inmigrante del sur, intervienen directamente en los problemas internos de otras naciones y apoyan gobiernos dictatoriales pero con economías de mercado.

Así tenemos que frente al tratado de libre comercio con México, su población es cada vez más rechazada en territorio norteamericano. En Colombia, ante una aparente lucha contra las drogas, ha intervenido directamente en la política interna de ese país, cuando todos sabemos que la principal causa del crecimiento del comercio de la droga está en el creciente consumo de los países desarrollados, especialmente el norteamericano. Los EEUU no intervinieron directamente en la desintegración y matanza de los pobladores de la exyugoslavia, cuya desintegración le es más bien favorable, no lo hicieron frente al apartheid sudafricano, en las matanzas en Ruanda, Somalia, tampoco ante las cruentas dictaduras de Pinochet en Chile o la de Corea del Sur, las cuales por el contrario se convirtieron en importantes socios económicos para EEUU.

En relación a Cuba, los EEUU vienen cometiendo - a nuestro modo de ver- sus más grave error (junto a los del Medio Oriente) no solo por la injusta profundización del bloqueo con la Ley Helms - Burton, sino que es tanto la intolerancia demostrada y la prepotencia al tratar de imponer una legislación a todo el mundo, que le ha producido un bumerang político, al ser rechazado a nivel internacional y producir por efectos indirectos un sentimiento de solidaridad hacia la nación cubana, al tiempo que ha despertado sentimientos de aversión hacia el gobierno norteamericano. Igualmente esta ocurriendo con las continuas agresiones hacia Irak, que han producido todo tipo de reacción adversa.

En 1997, luego de una profunda indiferencia en su primer periodo gubernamental el presidente Clinton realizó una visita a Latinoamérica para tratar de reconquistar espacios perdidos, no solamente en nuestro continente sino en todo el mundo la política exterior norteamericana manifiesta preocupación por el avance geopolítico de Europa (especialmente Francia) y la expansión económica de Asia. Concretamente en Venezuela llego a bendecir la política económica de Caldera y Teodoro Petkoff de “La Agenda Venezuela “y sobretodo la plena apertura (mejor decir entrega) petrolera.

El gobierno de George Bush ha sido de los más violentos y agresivos en su política exterior y mayor expresión de frustración al tratar de imponer su política hegemónica al resto del mundo. A partir de los ataques del 11 de septiembre del 2001, esta lamentable y condenable acción sirvió como pretexto para arremeter una política armamentista contra todos los posibles enemigos, rivales o elementos que causen molestias al gobierno norteamericano y sus principales aliados. En efecto, días después de la tragedia George Bush, sin haber demostrado las pruebas de responsabilidad de Bin Laden y al-qaeda en dichos actos, publicó una lista de supuestos cómplices y de los países “propulsores del mal”, donde lógicamente no podían dejar de aparecer los tradicionales enemigos: Kadafy en Libia, los fundamentalistas de Irán, los palestinos, Hussein en Irak, Fidel en Cuba y las FARC de Colombia, entre otros. Así mismo, inmediatamente salieron otros países como el caso de Inglaterra, España e Israel a apoyar esta iniciativa, dando su respaldo a que en la misma lista estuvieran los irlandeses de IRA, la ETA española y los palestinos de Hamas. Como se puede percibir ya el enemigo no tiene cara comunista, ya no es la Unión Soviética ni la Europa del Este, el enemigo cada vez se parece más a los países pobres del Tercer Mundo. Como bien lo dijo el exsecretario general de las Naciones Unidas, Boutros Ghali (cuya posición le costó la reelección) después de la caída del Muro de Berlín; se desdibujaba la frontera entre el este y el oeste pero surgía otra mas profunda entre el norte y el sur.

En lo inmediato pudimos presenciar la declaración de una guerra hacia un país, Afganistán, a cuyo gobierno -talibanes- se acuso de ser protectores de la organización al-qaeda liderizada por Osama Bin Laden, al cual se atañe la responsabilidad de los sucesos del once de septiembre, luego vino la invasión a Irak. En el 2003 la invasión a Irak, bajo el pretexto del incumplimiento de la disminución armamentista y el impedir la vigilancia permanente de la ONU, es la continuación de la guerra iniciada en 1991 por George Bush padre, quien por temor a causar una guerra civil en Irak no logró el objetivo final de liquidar al incomodo mandatario Iraquí. Tampoco tenemos la menor duda en señalar que si no fuera ese país uno de los principales productores de petróleo del mundo y la región del Medio Oriente poseedora del 80 % de las reservas mundiales, el interés no sería el mismo, nadie hablaría de democracia ni de fundamentalismo, lo mismo que ocurrió con países como Somalia y Ruanda cuya espantosa guerra para nada interesó a las grandes potencias del mundo. También estamos conscientes de que el problema no es solo petrolero, que ya es bastante, sino que se le teme al liderazgo que este país junto a Irán ejerce en la región, tanto en el mundo árabe como en la religión islámica, que se han convertido en el mas fuerte rival cultural y político; obstáculo para la expansión económica en esta importante región.

Pero la guerra contra Irak y todos los supuestos terroristas mundiales no solo sirven para sacar del camino los viejos enemigos, a los estorbos del mundo, sino que además representa un excelente negocio para quienes viven de la guerra, fundamentalmente los países desarrollados que son los principales productores armamentista del mundo, quienes venden unos 750 mil millones de dólares en este sector, y que son a su vez los mayores violadores de los acuerdos de disminución de armamentos. También la guerra sirve para obviar la preocupación de los ciudadanos norteamericanos (quienes en su mayoría rechazan esta contienda) de los graves problemas económicos del país y la poca popularidad de Bush. Así mismo, Bush hijo, salvo heredar la agresividad republicana de su padre, ha demostrado desde la campaña electoral (que por votos perdió ante Al Gore, pero que sin embargo la naturaleza de la democracia norteamericana le dio el triunfo.) es un desconocedor de la realidad mundial. El intelectual mexicano Carlos Fuentes, uno de los más brillantes de América Latina, lo ha acusado en varias oportunidades de “Ignorante y estúpido”.

Contrariamente al discurso de campaña Bush , quien dijo en el 2000 que América Latina sería “un compromiso fundamental de su presidencia”, y de su proclamación junto con otros líderes hemisféricos en abril del 2001 de que éste era “el siglo de las Américas”, su gobierno no hizo nada o muy poco por enmendar errores del pasado y mucho menos cumplir con las promesas de anteriores mandatarios, como lo de condonar parte de la deuda externa, dar trato preferencial a nuestros productos. Por el contrario después de los sucesos de septiembre del 2001 centró sus intereses en el Medio Oriente y hacia Latinoamérica apuntalo solo hacia profundizar sus ataques a Cuba, incentivar el Plan Colombia contra los movimientos insurgentes y crear mayores obstáculos a la migración latina, caso dantesco con el nuevo muro entre ese país y México.

Es ahora cuando percibe como-a diferencia de lo que se pensaba hace apenas pocos años- la población latinoamericana rechaza cada vez más la política unipolar y hegemónica de los EE.UU., y ha castigado en rebeldía y en las urnas electorales los gobiernos lacayos del imperialismo. Al contrario de lo que se pensaba, después del derrumbe soviético, América latina se ha convertido en escenario fundamental de nuevos proyectos políticos y económicos, frente al neoliberalismo impulsado principalmente por la potencia del Norte.

En América latina se debate libre y plenamente sobre la posibilidad de un nuevo orden social para la región y el mundo. Cuba ya no es la excepción, Nicaragua, Ecuador, Bolivia, Venezuela, apuestan francamente contra el capitalismo y en pro del socialismo. Pero en Brasil, Argentina, Chile, Uruguay, Perú, México, Guatemala y en casi toda la región pueblos enteros han demostrado que no son simples minorías, y que a pesar de lo moderado de sus gobiernos, los pueblos rechazan el imperialismo y buscan otros caminos en su proceso de liberación. Bush en un intento desesperado de obstaculizar los avances de Venezuela y de la revolución latinoamericana realizó en el 2007 una visita a cinco naciones (Brasil, Uruguay, Colombia, Guatemala y México) entre el 8 y el 14 de marzo, pero nada consiguió, aunque ofreció acuerdos económicos que satisfagan a las oligarquías y a los lacayos políticos este proceso es irreversible no solo en América sino en el mundo entero, guste o no el capitalismo y su manifestación imperialista tiene el tiempo contado, ya no será posible con bayonetas acallar a los pueblos, ni invadiendo a todo el mundo podrán detener el camino que los pueblos se han trazado: un mundo mas humano, un mundo sin dueños, un mundo de todos.

Pedro Rodríguez Rojas

Extraído de Rebelión a través de la LBN

mardi, 16 décembre 2008

Congo, een verloren zaak !

Congo, een verloren zaak !

De Belgische machtskaste denkt werkelijk dat ze nog iets in de pap te brokken heeft in onze voormalige kolonie Congo. Een grappige sul uit Berlare ( De Gucht ) moest in opdracht van de, in het Frans taterende, dwergkoning van dit land nog eens vlug uittesten of er nog wat te rapen viel bij de 'negertjes in de Kongo'. De oude imperialistische elite wilde nog snel enkele zaakjes doen met diamanten, ertsen, houtkap en nog meer van dat lekkers, en om dat te kunnen fiksen wilde de Belgische machtskaste haar privé leger inzetten, het gekende ABL, Armee Belge-Belgisch leger (verstuik de tong niet).

Maar dat privé leger van de Belgische kaste is niet genoeg toegerust om eigenhandig een rooftocht te gaan organiseren bij de 'negertjes' en dus werd aan onze Europese bondgenoten gevraagd om ook enkele gewapende troepen in te zetten. Het probleem is echter dat De Gucht en zijn opdrachtgevers uit de oude Belgische imperialistische garde niet goed blijken mee te zijn met hun tijd. De tijd is namelijk al lang voorbij dat de Belgische, en zelf de Europese, elite nog enige vat heeft op de cleptocraten in Congo. Dat komt voornamelijk omdat de huidige cleptocratie in Congo haar zaakjes op een veel efficiëntere manier kan regelen met de oude ideologische vrienden van vader Kabila, met name de Chinezen van de volksrepubliek China. Die Chinese leiders zitten niet voortdurend te zeuren over mensenrechten terwijl ze de grondstoffen stelen van de Congolezen, dat in tegenstelling tot die Belgen. Die Belgische elite heeft de boel daar jaren aan een stuk belazerd en bedrogen, maar zijn dan op de koop toe nog zo schijnheilige om van een ander te eisen dat ze democratisch zijn. "Dat probleem heb je niet met die Chinezen" moet zoontje Kabila wel gedacht hebben, en daarom zit zijn Congo nu vol met Chinese grondstoffenplunderaars. Die Chinezen hebben de grondstoffenenexploitatie stukje bij beetje in handen gekregen en ze zijn nu al de grootste verstrekkers van financiële hulp en economische investeringen in Kabilaland. Dat de kliek rond Kabila met de winsten gaat lopen en ze op buitenlandse ( Chinese ) rekeningen zet is een voortzetting van de aloude praktijken die de Belgische elite had aangeleerd aan hun marionet Mobutu, met het verschil dat die veel van zijn geld in Brussel zelf had ondergebracht.

De Amerikanen en hun coalitie van de gewillige idioten zoals het Verenigd Koninkrijk, Frankrijk maar ook Nederland en Duitsland, zien deze ontwikkelingen in Congo met lede ogen aan. De eigen imperialistische elites willen de rijkdommen van die Congolezen liefst in hun eigen zak steken en dus moet de invloed en macht van de Chinese zetbaas Kabila dringend gekortwiekt worden. Tot daar lopen de belangen, en de doelstellingen, van de Belgisch elite en de anderen gelijk. Maar de Europese bondgenoten hebben onder leiding van Amerika gekozen voor de herovering van grondstoffen en ook van een deel van het Congolese grondgebied uit te besteden aan huurlingen. En deze huurlingen hebben ze gevonden in Rwanda, de baas daar, de Tutsi-terrorist en vroeger rebellenleider Kagame, heeft er een van zijn kameraden op afgestuurd om de klus te klaren, de eveneens niet vies van terreur en massamoord zijnde Laurent Nkunda. Voor de Amerikanen is dat geen probleem, als je geen Amerikanen dood ben je voor hen geen terrorist maar een vrijheidsstrijder, zo simpel zitten die Amerikanen in elkaar. Komt daar nog bij dat de geopolitieke belangen van Kagame, Nkunda en hun Amerikaanse en Europese beschermheren voor een groot stuk gelijklopen. De Tutsis in Rwanda willen meer levensruimte voor hun volk en meer voedsel, de Westerse bondgenoten willen dan weer goedkope grondstoffen en territoriale en militaire invloed om de Chinezen terug te kunnen dringen. De secessie tussen Oost-Congo en de rest van het land is dan ook een mooie opportuniteit om dat te verwezenlijken, als dit kan met het ondersteunen van een inval van volksvreemde Tutsis op Congolees grondgebied, dan is dat mooi meegenomen. Als je er zo in kunt slagen om, terwijl je grondgebied laat bezetten door je bongenoten, ook nog eens Kabila te destabiliseren en zo de Chinese invloed in Congo in te dijken, dan ben je pas geslaagd.

Maar zoals we al aanhaalden bij het begin van dit stukje is de veranderde geopolitieke situatie in Congo totaal niet doorgedrongen tot onze Minister van Buitenlandse Zaken Karel De Gucht, en dat is ook niet verwonderlijk, aangezien onze minister met vele dingen tegelijk bezig is, zo is mijnheer onder andere ook nog burgemeester van een dorp ( Berlare) en heeft hij nog een niet onaanzienlijk aantal anderen functies die alle dagen op hem wegen. En dan wordt een land als Congo wel heel groot om nog te bevatten ( zelfs niet met voorkennis ) ! Dus riep De Gucht zijn Europese collega's alsnog op om samen grote kuis te gaan houden in Congo, alleen hebben die terwijl onze minister lag te slapen al lang beslist om daarvoor andere huurlingen te gaan gebruiken dan de Belgische. De Europese 'bondgenoten' hebben liever dat de troepen van Nkunda de klus klaren en dat ze zo vermijden om in openlijk conflict te komen met de Chinezen en hun belangen. Dat durven ze begrijpelijkerwijs niet aan, en laten dat dan ook liefst over aan anderen. De Belgische elite had meer moed en had zo een militair avontuur toch eens graag uitgeprobeerd, want wat stellen die Chinezen nu eigenlijk voor? Naast reuzen als De Crem en De Gucht zijn dat maar kleine mannekens! Het is toch jammer dat de Fransen en de Nederlanders dat maar niet willen inzien en niet willen meespelen in een fris militair slachtpartijtje, we hebben ze nochtans maar pas onze grootste bank (Fortis) kado gedaan.

Ondankbaren zijn het!


Eddy Hermy
Hoofdcoördinator N-SA

 

samedi, 13 décembre 2008

Déchiffrer les intentions d'Obama dans le sous-continent indien

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Déchiffrer les intentions d’Obama dans le sous-continent indien

Réflexions après l’entretien accordé au « Spiegel » par Bruce Riedel

Bruce Riedel, 55 ans, est un ancien de la CIA, expert ès-questions islamistes. Il vient d’être nommé conseiller de Barack Obama. Dans un ouvrage récent, intitulé « The Search for Al Qaeda », paru chez un éditeur prestigieux, Brookings Institution Press à Washington, il avait prévu un attentat islamiste de grande ampleur en Inde, suivi d’un risque très élevé de confrontation entre les deux puissances atomiques du sous-continent indien, avec, bien entendu, le risque d’un usage militaire du nucléaire pour la première fois depuis Hiroshima et Nagasaki.

Après les attentats de Bombay/Mumbai, qui ressemblent curieusement au scénario évoqué par Riedel dans son ouvrage, les soupçons de la police indienne se portent sur un mouvement islamiste indo-pakistanais, le Lashkar-i-Toiba (LiT), dont l’objectif a toujours été de susciter la crise entre l’Inde et le Pakistan, afin de récupérer pour l’Oumma musulmane le Cachemire et, à terme, la vallée du Gange où vivent la plupart des 120 millions de musulmans d’Inde. Aujourd’hui, le LiT rejette la politique d’apaisement du nouveau président pakistanais Asif Ali Zardari, veuf de Benazir Bhutto. Cette politique de Zardari, couplée à celle du Parti du Congrès au pouvoir en Inde, semblait marquer des points et aider à conjurer l’éventualité d’un conflit. C’est, explique Bruce Riedel dans l’entretien qu’il vient d’accorder au « Spiegel », sans compter sur ceux qui, au Pakistan, vivent de la confrontation entre les deux pays. Les attentats de Bombay/Mumbai ont tenté de torpiller le rapprochement et de viser le cœur de la vie économique indienne. Pour Bruce Riedel, l’offensive anti-indienne du LiT repose, en coulisses, sur une alliance ancienne, datant de la dernière décennie de la Guerre Froide, entre Ben Laden et l’ISI, le service secret pakistanais. Cette alliance avait reçu l’aval des Américains afin de bloquer toute avancée soviétique en direction du sous-continent, selon les recettes héritées de la politique britannique dans la région au cours du 19ème siècle. Les Américains avaient délibérément tablé sur l’islamisme, à l’époque, pour clouer les Soviétiques en Afghanistan, leur infliger une guerre d’usure selon les tactiques dites « lawrenciennes » de harcèlement par partisans tribaux. Une fois le danger soviétique éliminé, le tandem Ben Laden/ISI n’a pas décidé de déposer les armes mais de se retourner contre l’Inde, fort de ses expériences afghanes. L’offensive talibano-pakistanaise visait essentiellement la reconquête totale du Cachemire au bénéfice de l’Oumma. Les islamistes considèrent, en effet, que le Cachemire est une deuxième Palestine occupée non pas par les tenants de l’idéologie sioniste mais par l’ennemi hindou.

Dans ce contexte explosif, qui brouille les repères établis en Afghanistan au temps de la Guerre Froide, les Américains ne parviennent pas à savoir clairement si l’ISI pakistanais coopère encore avec des éléments du LiT ou d’Al Qaeda. Officiellement, Musharraf, le prédécesseur de Zardari, avait rompu les liens entre ses services secrets et les talibans.  Riedel avoue que les Etats-Unis ont fabriqué un « monstre », dont ils ne sont plus les maîtres. Un monstre qui se réfugie aujourd’hui dans la « zone tribale », en lisière d’une frontière afghane finalement fort mal définie et tout à fait poreuse. Personne n’a jamais vraiment pu contrôler cette « zone tribale » ou « Waziristan » : ni les Britanniques jadis (on se souviendra du film « L’Homme qui voulait être Roi » avec Sean Connery et d’après une nouvelle de Kipling) ni les Pakistanais depuis 1947. Cette zone échappe à toutes les autorités.

Pire, constate Riedel, et son aveu est de taille, les 800.000 citoyens britanniques d’origine pakistanaise constituent un vivier très intéressant pour le LiT et Al Qaeda, car le passeport britannique ouvre toutes les portes. Et quid des centaines de milliers d’autres ressortissants de pays susceptibles de tomber dans les séductions de l’islamisme radical ? On se souviendra que l’un des assassins du Commandant Ahmed Shah Massoud avait, lui, un passeport belge.

Bruce Riedel est donc l’un des hommes qui va faire la politique que l’histoire attribuera à Obama.  Celui-ci a annoncé qu’il préférera mettre le « paquet » sur l’Afghanistan plutôt que sur l’Irak. Il doit donc créer une situation d’urgence et de terreur en marge du territoire afghan et tenter d’éliminer le facteur trouble et ambigu qu’est l’ISI, un acteur sur la scène de l’Hindu Kush qui a toujours joué sur deux tableaux, rendant ainsi la situation ingérable pour les Etats-Unis et plongeant l’Afghanistan dans un cortège de misères que ce pays splendide n’a certes pas mérité.

Dans son entretien accordé au « Spiegel », Riedel noircit le tableau à l’extrême et sans nul doute à dessein : il annonce le risque d’un nouveau 11 septembre, des attentats à l’arme biologique ou nucléaire, etc. Les Américains craignent qu’une partie du savoir technologique nucléaire du Pakistan ne tombe aux mains d’organisations terroristes. Riedel marque dès lors son accord avec la politique de Bush, prouvant par cette affirmation que la politique d’Obama ne sera pas une rupture mais une continuité dans le déploiement du bellicisme américain, les démocrates ayant été plus souvent, au cours de l’histoire, fauteurs de guerres et de carnages que les Républicains. La politique suggérée par Bush, dans la région et plus particulièrement dans la « zone tribale », était d’attaquer avec l’appui des drones « Predator » de l’US Air Force et des « troupes spéciales ». La seule différence, c’est que l’Administration Obama se montrera plus  diplomatique puisque le monde entier, et surtout les Européens de l’Axe Paris/Berlin/Moscou, avait reproché à l’équipe sortante de fouler aux pieds les principes traditionnels de la diplomatie. En l’occurrence, les Démocrates feront mine de respecter davantage la souveraineté pakistanaise dans la zone car, en fin de compte, seul l’Etat pakistanais sera en mesure d’y restaurer l’ordre.

Quand la journaliste du « Spiegel » Cordula Meyer lui demande si la paix au Cachemire comme en Palestine ne serait pas la meilleure garantie d’une disparition à terme d’Al Qaeda, Bruce Riedel répond qu’effectivement, dans ce cas, les masses musulmanes ne montreraient plus guère d’intérêt pour l’islamisme radical qui bascule parfois dans le terrorisme. Le vivier de celui-ci serait définitivement asséché. Mais nous n’en sommes pas encore là… Riedel annonce, dans cette perspective, que le Proche Orient bénéficiera d’une priorité dans la diplomatie américaine. Reste à attendre ce que cette nouvelle diplomatie donnera comme résultats… Riedel annonce également le projet d’un « Plan Marshall » pour l’Afghanistan et le Pakistan car la misère qui règne dans ces deux pays entraine les masses dans le radicalisme comme elle aurait pu entrainer en Europe la renaissance d’un européisme national-socialiste ou fasciste voire une alliance de ce socialisme et de cet anti-impérialisme des « havenots » avec le communisme stalinien qu’il avait pourtant combattu (voir les derniers articles de Drieu la Rochelle et de son jeune disciple wallon, speaker à la radio des émigrés du Hanovre, Valère Doppagne).

Et à quoi devrait servir ce « Plan Marshall » en priorité ? A construire des routes, affirme Riedel. Car sans un réseau routier, il n’y a pas d’agriculture possible à grande échelle, autre que la seule richesse de l’Afghanistan actuel, l’héroïne. La boucle routière afghane n’est même plus accessible partout et l’Administration Obama retient les griefs des commandants de l’OTAN en Afghanistan : les aires contrôlées par les talibans commencent justement là où il n’y a plus de routes.

L’entretien accordé par Riedel au « Spiegel » montre bien quelle est la différence d’intention entre Bush et Obama : le plan visant à créer des infrastructures routières en Afghanistan ne date pas d’hier ; l’administration néo-conservatrice ne l’avait pas retenu, préférant mettre toute la gomme sur l’Irak et ses pétroles. L’analyse des militaires et de la nouvelle administration est juste : les routes afghanes n’ont été refaites ni après le départ de l’Armée Rouge ni après l’entrée des troupes de l’OTAN à Kaboul, négligence qui précipite le pays dans un chaos structurel et dans le désordre total. La volonté de doter le pays d’une infrastructure routière participe d’une logique plus impériale que celle, volontairement génératrice de chaos, des néo-conservateurs, qui entendaient naguère se poser uniquement comme policiers du monde, en ne se préoccupant pas de structurer les régions conquises, contrôlées et neutralisées. Mais on ne contrôle pas sur le long terme sans structurer : la leçon de Rome, empire des routes, est là pour nous le rappeler. Pourtant, Brzezinski, cet ancien conseiller de Carter et de Clinton qui revient en coulisses, avait préconisé la stratégie « mongole » : détruire et ne pas reconstruire de crainte qu’un empire concurrent et surtout durable ne s’installe en Asie centrale, en cas de retrait ou de ressac américain. En effet, que se passerait-il si une puissance tierce, perse, indienne ou russe arrivait ou revenait dans un Afghanistan structuré avec l’argent du contribuable américain ?

Enfin, pour pacifier définitivement l’Afghanistan et gagner la guerre entamée là-bas il y a sept ans, il faut disloquer l’alliance implicite et tacite entre l’Etat pakistanais et les djihadistes du Pakistan. Quelle solution préconise Riedel ? Parier sur la « démocratie pakistanaise »,  soit sur Zardari et épauler ce pari par le nouveau « Plan Marshall » (mais y aura-t-il encore assez d’argent ?). Le pays a déjà reçu 11 milliards de dollars d’aide américaine. Les Démocrates, dont le futur vice-président Joe Biden, suggèrent au moins de tripler le budget et de l’amener, dans un premier temps, à 1,5 milliard chaque année, pour que le Pakistan ne devienne pas un « Etat failli » (voir la définition qu’en donne Noam Chomsky) comme la Somalie ou le Liban. Notre question : est-ce possible ? Riedel ajoute que la préoccupation de la nouvelle administration démocrate est le Pakistan parce que celui-ci dispose d’au moins soixante têtes nucléaires et que celles-ci ne peuvent pas tomber entre n’importe quelles mains.

Enfin, à la question de la journaliste qui lui demandait pourquoi les Américains n’avaient pas encore attrapé Ben Laden, Riedel répond cette fable à laquelle seuls les naïfs croiront : les Américains n’ont pas encore trouvé Ben Laden parce que les ressources pour la chasse à l’homme ne sont plus disponibles depuis 2002 et qu’il s’avère dès lors difficile de reprendre l’enquête… Avec « Google Earth » vous pouvez déjà inspecter votre propre maison et la plupart des polices urbaines disposent de micros ultra-sensibles pour épier n’importe quelle conversation à travers les murs d’un immeuble, mais les services secrets de la plus grande puissance de tous les temps seraient incapables de trouver un fugitif, fût-ce au fin fond des montagnes et des vallées du Waziristan… A moins qu’on ne veuille pas l’entendre témoigner sur la collusion entre son réseau, la pétro-monarchie saoudienne, les pétroliers texans, l’ISI et les services américains…

Pour les européistes lucides :

-        considérer que l’Afghanistan appartient en fait aux zones d’influence russe et persane et non pas à des « raumfremde Mächte »;

-        que l’Inde doit être liée à la Russie et à l’Europe par une bande territoriale sécurisée, incluant l’ensemble du Cachemire/Jammu, de façon à souder un ensemble eurasien non lié à l’islam et/ou à un quelconque impérialisme thalassocratique ;

-        que l’Afghanistan mérite certes une bonne infrastructure routière mais que celle-ci ne doit pas seulement venir de fonds américains ;

-        que les démocrates ne sont pas des pacifistes et que cette volonté de structurer l’Afghanistan participe du grand plan impérialiste du « Greater Middle East », correspondant peu ou prou au territoire de l’USCENTCOM ; structurer l’Afghanistan sert surtout à dominer un territoire surplombant les régions voisines que sont l’Iran, l’Asie centrale, le Pakistan et, de là, la vallée du Gange, selon la direction géopolitique qu’avaient jadis empruntée les conquérants afghans et islamisés de l’Inde ; le fait de vouloir doter l’Afghanistan de bonnes routes ne dérive donc pas d’un humanisme qui prendrait les Afghans sous sa douce aile protectrice ni du désir ardent de leur apporter une belle démocratie eudémoniste, elle vient d’une volonté de dominer la région pour longtemps, d’y ancrer les bases nécessaires à une installation de très longue durée ;

-        que l’alliance entre l’islam sunnite et les Etats-Unis existe toujours, mais qu’il a pris d’autres formes depuis le 11 septembre 2001 ;

-        que les services américains, sous la nouvelle égide des démocrates, ne trouveront pas davantage Ben Laden que leurs homologues républicains et néo-conservateurs (et pour cause…), car l’alliance islamistes/USA date précisément du temps de l’administration démocrate de Carter, dont l’un des conseillers était Brzezinski, pour qui tous les moyens étaient bons pour chasser la Russie de l’Asie centrale ;

-        que les attentats de Bombay/Mumbai devront être interprétés plus tard comme des machinations ourdies probablement par des forces tierces, dans un but de déstabilisation de la région et/ou de manipulation médiatique en vue d’avancer des pions sur l’échiquier afghan, dans l’Océan Indien ou dans la périphérie birmane ou thaï du sous-continent indien, voire dans l’Himalaya ;

-        que l’Inde a intérêt, comme le souhaitent le BJP et le RSS, à ne pas demeurer une « société composite », c’est-à-dire une société à diverses composantes généralement antagonistes, car toutes les sociétés de ce type sont vouées au « dissensus » civil permanent, au déclin, à l’inefficacité et à la misère ;

-        que les attentats de Bombay/Mumbai visaient peut-être à écarter le BJP du pouvoir et à préconiser une politique d’apaisement reposant sur Zardari au Pakistan et sur le parti du Congrès en Inde et que l’éventualité d’un retour aux affaires du BJP contrarierait l’éclosion lente et graduelle du « Greater Middle East » dont l’Inde n’est pas appelée à faire partie ; que tout retour du BJP aux affaires entrainerait le déplacement vers la frontière indienne de 120.000 soldats pakistanais actuellement en poste face à la « zone tribale », où les Américains ou l’OTAN devraient aller les remplacer, sans connaître le terrain ; que le projet de créer un « Greater Middle East » se verrait retardé en cas de nouveau conflit indo-pakistanais ;

-        que les Etats-Unis d’Obama éprouveront bien des difficultés à calmer le vieux et lourd contentieux indo-pakistanais et que ces difficultés doivent nous inciter à proposer une solution euro-russe pour le sous-continent indien.

 

(Source : « Das Auge des Sturms », Entretien avec Bruce Riedel, propos recueillis par Cordula Meyer, « Der Spiegel », n°50/2008 ; résumé et commentaires de Robert Steuckers).  

 

 

L'Europe et Obama

 

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L’Europe et Obama

Le nouveau président américain, Barack Obama, possède incontestablement un grand charisme, une constitution d’acier (« Je ne l’ai jamais vu fatigué », écrit H. J. A. Hofland, qui a suivi la campagne électorale aux Etats-Unis, dans le quotidien néerlandais « NRC-Handelsblad », en date du 5 novembre 2008) ; en outre, Obama a pu rassembler des sommes d’argent considérables lors de ces présidentielles ; d’après les estimations, quelque deux milliards de dollars ont été injectés dans sa campagne (« Rita Verdonk pourrait-elle devenir, elle aussi, présidente avec un tel pactole ? », se demandait-on aux Pays-Bas, dans les colonnes du « NRC-Handelsblad » du 5 novembre 2008). L’historien américain Simon Schama, spécialiste de l’histoire néerlandaise qui enseigne à Amsterdam, qualifie Obama de « politicien populiste », qui « revient aux grassroots, grâce auxquelles le pays pourra retrouver son élan » ; Schama pense qu’Obama doit son succès à ce populisme (émission NOS sur la chaine NL2, 4 novembre 2008). Incontestablement, Obama force le respect, commente « Newsweek » (3 nov. 2008), qui constate, avec étonnement, qu’il est probablement le premier candidat à la présidence qu’aucun clown de cabaret en Amérique n’a ridiculisé.

Mais cela n’ôte rien au fait que l’euphorie et l’Obamania européennes sont exagérées. L’avalanche de superlatifs, que nous avons subie, par ses outrances, générait un sentiment de malaise, même si on peut la comprendre. Les années Bush ont laissé un goût d’amertume dans toute l’Europe. Dans une enquête publiée en septembre et commentée dans le « NRC-Handelsblad » du 1 nov. 2008, on nous rappelle qu’en 2002 64% des Européens estimaient souhaitable que les Américains exercent un leadership en politique internationale ; en 2008, il n’y en avait plus que 36% pour émettre une telle opinion.

Mais l’euphorie actuelle risque d’apporter de solides désillusions (comme le constate l’article principal du « Monde », le 7 nov. 2008 : « cette euphorie porte en elle-même le risque de déception »). Ces déceptions sont effectivement inévitables. L’Amérique est de moins en moins dominée par des immigrants dont les ancêtres étaient Européens. Parfois les Européens imaginent que les Américains sont amoureux de l’Europe, mais ce n’est pas le cas. L’équivalent de l’Obamania, qui sévit de ce côté-ci de l’Atlantique, est difficilement imaginable aux Etats-Unis. La plupart des Américains ne savent même pas qui est le Président de la France car cela ne les intéresse pas. Lors de la campagne électorale, qui vient de se dérouler aux Etats-Unis, l’Europe n’a joué aucun rôle, si ce n’est négatif : lorsqu’Obama a débarqué le 25 juillet à Paris, il a refusé de rencontrer une personnalité de l’opposition socialiste car ses conseillers de campagne lui avaient bien fait comprendre qu’il ne fallait surtout pas apparaître en photo avec un socialiste européen. A Londres, il a posé sans hésiter avec le chef de l’opposition conservatrice. A Berlin, il n’a pas pu échapper à une poignée de main furtive avec le ministre social-démocrate des affaires étrangères du cabinet Merkel, mais, ostensiblement, il regardait dans la direction opposée ; la photo, de surcroît, n’a pas pu paraître en Amérique.

On peut partir du principe qu’Obama a tout en lui pour devenir un grand homme d’Etat et l’expérience de l’histoire nous apprend que les hommes d’Etat sont des politiques qui ne connaissent pas de plus haut intérêt que l’intérêt national. Cela vaudra aussi pour Obama. Seuls des intérêts américains guideront sa politique (« Le Monde », op. cit., 7 nov. 2008 : « Ce sont les intérêts strictement américains qui dicteront la conduite du président Obama »). Ses admirateurs de la gauche européenne trouveront sans nul doute sa gestion problématique, peu conforme à leur desiderata : « nous, les Américains, restons un pays de droite », déclare le rédacteur en chef Jon Meacham, dans le numéro de « Newsweek » du 20 oct. 2008, un hebdomadaire que l’on qualifie de « progressiste » aux Etats-Unis.

Pendant la campagne, Obama est resté assez vague. Son slogan principal, « Change », « Changement », il l’a annoncé à cors et à cris mais quand on lui demandait d’expliciter davantage ce concept, il s’enlisait dans une rhétorique creuse, certes servie par le talent d’un grand orateur. Après ses explications, on n’en savait pas davantage qu’auparavant. Comment Obama affrontera-t-il la récession dans un pays où les finances s’avèrent quasi ingérables ? Les Démocrates américains ont tendance, habituellement, à recourir au protectionnisme commercial mais s’ils mènent une telle politique qualifiable de « notre-peuple-d’abord », alors les entreprises automobiles de Gand, Anvers et Genk peuvent d’ores et déjà songer à fermer très bientôt leurs portes. Je ne sais pas si la gauche flamande conservera alors son enthousiasme pour Obama…

Et la politique étrangère ? Le premier acte d’Obama a été de nommer chef de l’état-major de la Maison Blanche (l’équivalent du chef de cabinet du Roi chez nous) un citoyen israélien qui a milité naguère dans les mouvements sionistes les plus extrémistes de son pays. Lors de sa première conférence de presse, Obama n’a abordé qu’une seule thématique de la politique internationale, l’Iran, en lançant une attaque en règle contre ce pays, utilisant une terminologie courante à Tel Aviv. Voilà qui n’est pas pour nous tranquilliser.

Dans l’allocution qu’il a prononcée immédiatement après sa victoire, le Président a annoncé qu’ « une aurore nouvelle se levait pour le leadership américain ». C’est finalement la même rhétorique que Bush, à la différence qu’Obama est plus convaincant. Mais est-ce vraiment ce que nous souhaitons, ici en Europe ? Avons-nous vraiment besoin d’un leadership, américain ou autre ? Surtout si l’on sait que ce terme de « leadership » n’est qu’un euphémisme pour désigner l’hégémonisme ? La Russie, le monde arabe et la Chine ont réagi tout de suite et négativement en entendant cette déclaration d’intention. L’Europe, elle, a gardé le silence et tournait ses regards, pleine d’espoir et avec une naïveté enfantine, vers Obama. Accordons toutefois à Obama le bénéfice du doute, en attendant janvier 2009, quand il prendra véritablement le gouvernail de l’Amérique entre les mains, quand il dira clairement ce qu’il nous faudra entendre sur tous les aspects de la politique étrangère et économique des Etats-Unis.

(article paru dans « Journaal - De Nieuwsbrief van Mark Grammens », n°537, 20 nov. 2008, Liedekerke/Brabant/Flandre).

 

 

vendredi, 12 décembre 2008

Pétrole, guerre d'un siècle

Pétrole, une guerre d’un siècle :
L’ordre mondial anglo-américain

Pétrole, une guerre d’un siècle : L’ordre mondial anglo-américain

Cet ouvrage remet radicalement en cause l’idée que l’on se fait communément de la politique internationale et de ses enjeux. Il décrit les moyens extrêmes que les Anglo-Américains sont prêts à mettre en œuvre pour conserver une suprématie née en 1815 et renforcée au prix des deux Guerres mondiales. Nous savons, depuis l’élection de George W. Bush, que la politique américaine et le pétrole entretiennent une relation intime. William Engdahl montre que l’économie des Etats-Unis repose sur un approvisionnement en pétrole bon marché illimité, et sur la suprématie du dollar sur les autres monnaies. Vous découvrirez comment le premier choc pétrolier fut une incroyable et cynique manipulation conçue par Henry Kissinger pour opérer un transfert planétaire de capitaux vers les banques de Londres et de New York, au prix de la ruine des pays du Tiers-monde ; comment ces pays en faillite, contraints de s’endetter auprès du FMI, se virent prêter à grands frais ces mêmes capitaux dont ils avaient été auparavant spoliés. Vous verrez comment la géopolitique du pétrole est à l’origine de l’effondrement de l’Union soviétique, de l’éclatement de la Yougoslavie, et de l’arrivée au pouvoir puis de la chute des Talibans. Vous serez surpris d’apprendre comment, dans les années 1970, les mouvements écologistes anti-nucléaires financés par les grandes compagnies pétrolières, devinrent le cheval de bataille visant à entraver l’indépendance que l’énergie nucléaire aurait pu procurer à nombre d’Etats, afin de les maintenir dans l’orbite des pétroliers. Vous comprendrez enfin que la décision d’envahir l’Irak fut prise pour assurer l’hégémonie de la puissance anglo-américaine et le contrôle de l’économie mondiale pour les 50 ans à venir.

William Engdahl, né en 1944, est économiste et écrivain. Il a étudié les sciences politiques à l’université de Princeton et l’économie à l’université de Stockholm. Il publie depuis plus de 30 ans sur les questions énergétiques, la géopolitique et l’économie, et intervient dans les conférences internationales. Il est conseiller indépendant pour plusieurs grandes banques d’investissement.

jeudi, 11 décembre 2008

Les Etats-Unis et l'Europe: un déclin programmé

LES ETATS-UNIS ET L’EUROPE : UN DECLIN PROGRAMME


Selon le NCI, le système international sera presque méconnaissable en 2025, présentant l'image d'un ensemble multipolaire. La puissance incontestée des Etats-Unis depuis la fin de la Guerre froide, et que l'on a vu perdre de sa superbe depuis l'aventure irakienne, se verra contrebalancée par l'émergence des nouvelles puissances : pour le NCI, il s'agira surtout de la Chine et de l'Inde. Mais l'affaiblissement des Etats-Unis sera aussi l'effet des développements technologiques, notamment informatiques et nucléaires, dans le chef d'acteurs tant étatiques que non étatiques. A ce sujet d'ailleurs, un rapport renversant publié quasi simultanément par un panel d'experts du Congrès américains, révèle que la Chine a développé des capacités de piratage et d'attaque informatiques telles, qu'elle est d'ores et déjà en mesure de neutraliser les capacités américaines en la matière : et donc par là même les moyens militaires qui en dépendent totalement ! A l'échelle de la planète, indique le NIC, le transfert de bien-être et de pouvoir économique aura pour effet que vers 2040-2050, les PNB réunis des "BRIC" (Brésil, Russie, Inde et Chine) sera équivalent à celui des pays du G7. Quant à la Chine, elle sera déjà en 2025 la seconde puissance économique derrière les Etats-Unis, supplantant à cette place l'Europe, mais en acquérant un statut de puissance militaire de premier plan. Enfin, le NIC consacre une part importante de son rapport aux enjeux transnationaux, qui conditionneront les relations entre les blocs. L'accès de plus en plus raréfié aux ressources naturelles que sont les énergies fossiles, mais aussi l'eau, la nourriture, et même l'air sain mis en danger par le réchauffement climatique, constituera un motif très probable de conflits entre blocs. La question n'est pas tant de savoir si ces conflits auront lieu, mais quand et quelle sera leur ampleur.


Et l'Europe dans tout cela? Elle restera, plus encore qu'aujourd'hui, un "géant boiteux", face à des pôles politiquement et militairement beaucoup plus intégrés. Et ceci principalement, selon le NIC, du fait d'un fossé qui ne fera que s'approfondir entre ses élites et des opinions publiques de plus en plus sceptiques. »



Le Temps, 22 novembre 2008

mercredi, 10 décembre 2008

La Russie Obama-sceptique

LA RUSSIE OBAMA-SCEPTIQUE


Faut-il risquer de biaiser le message du président russe en mettant d’abord l’accent sur les élections américaines ? Nous en prenons le risque, parce que la vision américaine de l’ordre du monde préoccupe la Fédération de Russie, supposée devoir être “contenue”, menacée sur ses frontières, depuis des lunes – depuis des lustres – et que l’épisode géorgien a matérialisé en conflit armé des manœuvres jusque là menées au travers des “organisations non gouvernementales” financées par Washington pour appuyer, dans l’ancienne aire d’influence soviétique, les factions qui lui seraient, une fois parvenues au pouvoir, débitrices. L’expérience nous montre, avec le président géorgien Mikhaïl Saakhaschvili par exemple, que la promotion de la démocratie fait partie d’un l’habillage commode et non prioritaire. (...)


Le président Medvedev attribue sans ambiguïté la situation à l’état d’esprit américain après la chute de l’Union soviétique : “La crise financière mondiale a débuté comme une ‘crise locale’ sur le marché intérieur américain”. Si la Russie, qui a bénéficié de son intégration à l’économie mondialisée, est prête à prendre ses responsabilité, avec d’autres, pour répondre aux difficultés actuelles, il faut néanmoins “mettre en place des mécanismes qui puissent bloquer les décisions erronées, égoïstes et parfois tout simplement dangereuses prises par quelques membres de la communauté internationale.”.


Dans le droit fil des positions prises par la Russie présidée par Vladimir Poutine devant leur unilatéralisme, Dimitri Medvedev stigmatise sans détours les pratiques des Etats-Unis en matière financière : “Ils ont laissé leur bulle financière grossir pour stimuler leur croissance domestique mais ne se sont pas souciés de coordonner leurs décisions avec les autres joueurs sur le marché mondial et ont négligé même le sens de la mesure le plus élémentaire. Ils n’ont pas écouté les nombreux avertissements de leurs partenaires (y compris les nôtres). Le résultat est qu’ils ont causé des dommages, à eux-mêmes et aux autres”. C’est bien la double prétention américaine à défendre d’abord ses intérêts et à conduire les affaires du monde que la Russie continue de contester.


Ainsi, à “l’aube d’une nouvelle direction américaine” par le “phare de l’Amérique” annoncée par Barack Obama nouvel élu, la réponse est-elle immédiate. La Russie tient pour acquise la légitimité d’un monde “polycentrique”. Et elle le montre. Tout, dans la structure même du discours russe souligne combien Moscou s’est senti agressé, acculé, méjugé dans l’affaire géorgienne : le train de mesures décrites par Dimitri Medvedev y est étroitement corrélé, des efforts et ajustements entrepris à l’intérieur du pays jusqu’aux décisions défensives de protection de l’intégrité du territoire qui ont tellement inquiété les partenaires des Russes. Non seulement il n’est plus question de démanteler de nouveaux éléments de la défense nucléaire mais “nous déploierons le système des missiles Iskander dans la région de Kaliningrad pour être capables, si nécessaire, de neutraliser le système de missile anti-missile” que les Américains veulent installer en Pologne, République tchèque et Hongrie. (...)


Dans la réalité, que changerait un retour de Vladimir Poutine à la première place en termes de géopolitique russe ? Il n’y a pas de désaccord politique entre les deux hommes, tous deux veulent affirmer le rôle de leur pays dans le monde, réassurer leur influence et leur sécurité en Asie centrale et dans le Caucase, défendre les intérêts russes dans leurs échanges avec leurs grands partenaires, de la Chine (et l’Inde) à l’Union européenne, de l’Afrique et du Moyen-Orient à l’Amérique latine. Aucun des deux ne veut d’un monde conduit par la puissance américaine, quel qu’en soit le président. Tous deux font la même proposition de nouvel accord sur la sécurité européenne, discutée, souvenons-nous entre les “trois branches de la civilisation occidentale” dans un cadre “véritablement égalitaire”.


Dans la réalité, la Russie est le seul des grands pays aujourd’hui qui annonce clairement qu’elle souhaite un monde “polycentré” et des structures internationales qui reflètent cette multilatéralité – dans tous les domaines, en droit, dans le domaine de la monnaie, dans les équilibres régionaux – ce qui n’est pas illégitime. D’autres le souhaitent sans le dire, certains le craignent et regardent d’où souffle le vent. Or les Etats-Unis jusqu’ici ont écarté cette hypothèse. Le nouveau président, Barack Obama, porte-t-il une vision différente du monde ? Non, pense-t-on visiblement à Moscou. C’est ce que discours à l’Assemblée fédérale affirme : la Russie n’a pas d’intentions belligérantes. Mais elle ne se laissera pas contraindre. Il serait utile de l’entendre. »



Hélène Nouaille et Alain Rohou, Comité Valmy, 7 novembre 2008

mardi, 09 décembre 2008

Nouveaux textes sur "Theatrum Belli"

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Bonjour,

Veuillez trouver ci-dessous les dernières publications du blog THEATRUM BELLI (http://www.theatrum-belli.com/).


Armée française : professionalisation et autorité

Les armées ont changé, et c'est un paradoxe, pour une institution dont la pérennité est garantie par des logiques d'action prévisibles et continues. La professionnalisation des armées françaises, intervenue en 1996, offre une occasion de s'interroger sur les processus de transformation des institutions publiques et d'étudier les rapports à l'autorité dans une institution où la hiérarchie...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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L'armée libanaise sera équipée d'armes russes

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Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (1/3)

La guerre apparaît comme le moyen le plus simple d'imposer sa volonté, d'étendre son pouvoir et d'augmenter sa richesse. Dès lors elle entretient avec l'économie des relations anciennes. Chez certains peuples elle faisait même figure d'activité majeure, nomades du désert razziant les agriculteurs sédentaires ou « barbares » à la recherche de butin et de terres. Dans nos siècles...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (2/3)

II. LA GUERRE POUR ET PAR L'ÉCONOMIE Les évolutions de la guerre expliquent qu'elle réclame une mobilisation économique massive. Elles expliquent aussi que l'économie devient en même temps un but et une arme de guerre.   1. L'économie constitue un but de guerre de plus en plus important Déjà présents lors des conflits entre Athènes et Sparte, Napoléon et le...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (3/3)

III. LA FIN DE LA GUERRE ? Pour de multiples raisons, le XXe siècle a pu espérer en une fin de la guerre. Cet espoir a pourtant été déçu.   1. La puissance de destruction des armes modernes interdiraient de s'en servir Les gaz de combat n'ont pas été utilisés par les principaux belligérants pendant la Seconde Guerre mondiale, chacun craignant les représailles...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Ceci est mon bouclier

 

Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Décès du colonel Jean Deuve, résistant et spécialiste du renseignement

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Un navire de guerre russe dans le Canal de Panama

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Renforts en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Arthur, Roi des Bretons (1/5)

 

Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Le crash pétrolier (1/5)

 

Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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L'Allemagne met en place son propre système de satellites espions

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Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Le Pentagone officialise l'importance donnée à la "guerre irrégulière"

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Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Lawrence d'Arabie - 1962 - (1/11)

 

Cette note a été publiée le 04 décembre 2008

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La réforme de l'armée russe exaspère les militaires

Réduction des effectifs, refonte de la chaîne de commandement, ventes de terrains et d'immeubles, fermetures des instituts et des académies : la réforme de l'armée dévoilée le 14 octobre par le ministre russe de la défense, Anatoli Serdioukov, est à l'origine d'une vague de mécontentement chez les gradés. "Je le vois bien autour de moi, les officiers ont une dent contre le pouvoir en...

Cette note a été publiée le 04 décembre 2008

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EADS remporte un contrat de 208 millions de dollars de l'armée américaine

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Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Les bombes à sous-munitions mises hors la loi à Oslo

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Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Royaume-Uni : Les mouvements terroristes recrutent

Selon plusieurs sources, des citoyens britanniques d'origine pakistanaise auraient participé aux attentats de Bombay. Une information qui confirme l'implication de jeunes Anglais dans des attaques menées de l'Afghanistan à la Somalie. Selon certaines agences du renseignement, plus de 4.000 citoyens britanniques seraient passés par des camps d'entraînement terroristes en...

Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Armes, trafic et raison d'État (1/6)

 

Cette note a été publiée le 02 décembre 2008

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La France va renforcer sa présence en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 02 décembre 2008

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lundi, 08 décembre 2008

Réflexions sur le retour de la piraterie

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« M. »/ » ‘t Pallieterke :

 

Réflexions sur le retour de la piraterie

Il y a quelque temps, lorsque le Sirius, l’un des plus grands pétroliers du monde, est tombé entre les mains de pirates somaliens, une borne importante sur la voie de l’involution des mœurs contemporaines a été dépassée. La prise de ce navire a dû être un formidable spectacle. On peut l’imaginer : des pirates accrochés à des cordes qui grimpent le long de la coque d’un bâtiment aussi haut que Big Ben, sous une chaleur tropicale et à quelque 800 km environ de la côte africaine. La signification de cet événement, qui s’est déroulé le 15 novembre dernier, ne peut être sous-estimée. Plus aucun navire quittant le Canal de Suez ne peut se considérer à l’abri des pirates, quelques soient ses dimensions, sa destination et son itinéraire.  Voilà en quoi consiste la borne que ces pirates viennent de franchir.

On ne sait pas très bien où se trouve le Sirius aujourd’hui. Selon les dernières nouvelles, il mouillerait quelque part en mer, en face du port de Haradher, qui se trouve entièrement aux mains des pirates somaliens. Ce que l’on sait en revanche, c’est que le bâtiment transportait une cargaison de pétrole d’une valeur de 110 millions de dollars. On s’attend à ce que les pirates exigent quelque 30 millions de dollars pour rendre le navire à ses armateurs légaux. D’après certaines estimations, ce port somalien si louche servirait de prison à quelques 250 marins pris prisonniers sur différents bateaux lors d’opérations lancées par les pirates.

La motivation des pirates est purement vénale

Ces dernières semaines, en matière de piraterie, on n’a parlé que de la Somalie. Mais le problème est plus vaste. Le « Bureau International de la Marine » (BIM) constate que le fléau s’accroît dans le monde entier.  Pour s’en faire une idée : 239 attaques ont eu lieu en 2006 ; l’année suivante, il y a eu une augmentation de 10%. Ce qui est frappant, c’est que les méthodes utilisées pour capturer les navires se font de plus en plus violentes et brutales. En 2007, il y a eu 35% de cas supplémentaires de détournement avec armes qu’en 2006. Le nombre de matelots blessés en 2007 était de 64 ; en 2006, seulement de 17.

Pour comprendre l’ampleur réelle du problème, il faut observer les régions maritimes où les pirates s’attaquent principalement à leurs victimes. Il y a d’abord les « points chauds » habituels comme le Nigeria, le Brésil, l’Indonésie et bien entendu la Somalie. Les experts nous demandent de ne pas raisonner en termes d’amalgame : les situations et motivations de ces nouveaux frères de la côte varient énormément d’un lieu à l’autre.

On peut bien sûr évoquer la pauvreté dans le cas spécifique de la Somalie. Récemment, le journal « The Independant » a publié un reportage de terrain très significatif. Pour les pirates, l’important, c’est surtout l’argent, toujours l’argent et rien que l’argent. Posséder une belle maison, vivre dans le luxe et, surtout chez les musulmans, entretenir un beau harem digne du plus luxurieux des polygames, telles sont donc les motivations premières de ceux qui s’adonnent à la piraterie de nos jours. Le rôle de la religion chez ces pirates semble très ténu sinon inexistant. Lorsqu’un cheikh connu et respecté a déclaré que le détournement du Sirius était un péché particulièrement grave parce que le pétrolier battait pavillon saoudien, les pirates vénaux ne s’en sont nullement souciés. Al Qaïda ne lance pas encore d’opération de piraterie, ce qui rassure certains cénacles. Le constat qu’il s’agit de raids vénaux, dictés par la pauvreté, et non pas motivés par la religion est sans doute pertinent et juste mais recèle toutefois un danger. Les misères sociales jouent certes un rôle dans l’émergence de la nouvelle piraterie mais on ne peut pas réduire ce phénomène à ses seules dimensions sociales et économiques. Ce serait aller trop loin et rater le coche. Ce type de raisonnement réductionniste (qui se réduit aux seuls facteurs économiques et sociaux) s’applique aussi, on le sait trop bien, à plus d’un phénomène de notre vie sociale en Europe : n’a-t-on pas entendu à satiété la vieille rengaine des allochtones pauvres donc, par définition, criminels, etc… ?

Les dommages entrainés par la piraterie sont eux, économiques, clairement mesurables en monnaie sonnante et trébuchante. Et ils sont énormes. Les armateurs doivent modifier l’itinéraire de leurs navires, ce qui entraine des coûts supplémentaires non négligeables. Ils doivent ensuite investir des sommes de plus en plus considérables dans la sécurisation de leurs navires. Par ailleurs, les quatorze ou quinze bâtiments de la « Task Force 150 », une initiative à laquelle plusieurs marines militaires du monde coopèrent, sont fort occupés mais leur puissance est nettement insuffisante. Une seule chose est certaine. Si l’on veut faire de cette région maritime une zone à nouveau sûre, il faudra consentir à de sérieux efforts. Quelle que soit l’option que l’on retiendra prochainement, le prix à payer sera fort élevé.

Les leçons de l’histoire

Peut-être faudrait-il replacer ces événements récents dans une perspective historique. Pendant tout notre moyen âge européen, la piraterie a constitué un fameux fléau. Les régions riveraines de la Méditerranée ont été cruellement touchées par la piraterie sarrasine et barbaresque (1). Les crimes que celle-ci a commis dépassent de très loin ce qui se arrive aujourd’hui dans les eaux de l’Océan Indien à hauteur de la Corne de l’Afrique. On estime qu’entre le 16ème et le 18ème siècles, un million d’Européens ont été enlevés par des pirates (2), surtout venus d’Afrique du Nord. La terreur barbaresque a obligé les populations européennes à quitter les régions littorales car la peur inspirée par les pirates était telle qu’elle provoquait un exode quasi général vers l’intérieur des terres. Pendant longtemps, les Européens ont cru qu’il valait mieux payer des rançons que perdre des cargaisons de grande valeur. Jusqu’au jour où la situation est devenue incontrôlable et ingérable.

Vers 1800, la jeune république des Etats-Unis d’Amérique consacrait encore un cinquième de ses revenus fédéraux à payer des rançons ! La marine américaine n’a été capable de riposter qu’à partir de 1815. Les Britanniques ont à leur tour pris le taureau par les cornes mais il a fallu que les Français conquièrent l’Algérie et la colonisent pour que la piraterie de la rive méridionale de la Méditerranée soit définitivement éradiquée.

Encore un rappel historique : en 75 av. J. C., le fameux Caius Julius Caesar fut enlevé par des pirates dans l’Egée (3). Ils réclamèrent vingt talents de rançon, ce que le futur César considéra comme une injure à sa dignité. Il persuada les pirates qu’il en valait au moins cinquante. Et c’est la somme qu’il réclamèrent à Rome pour libérer leur prisonnier. Le paiement s’effectua très vite et Caius Julius sortit de captivité. A peine libre, il organisa une expédition contre ses ravisseurs. Ils furent exterminés jusqu’au dernier sans merci et sans le moindre scrupule. L’histoire est riche en enseignements.

« M. »/ »’t Pallieterke ».

(article paru dans l’hebdomadaire « ‘t Pallieterke », Anvers, 3 décembre 2008, trad. franc. : Robert Steuckers).

 

Notes :

(1)    NdT : Cf. Jacques HEERS, "Les Barbaresques - La course et la guerre en Méditerranée, XIVe-XVIe siècles", Paris, Perrin, 2001.

(2)    NdT : Cf. Giles MILTON, « White Gold – The Extraordinary Story of Thomas Pellow and islam’s One Million White Slaves », Hodder & Stoughton, 2004.

(3)    NdT : Cf. Adrian GOLDSWORTHY, « Caesar – The Life of a Colossus », Phoenix, Orion Books, London, 2nd édition, 2007.