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mercredi, 16 janvier 2013

Il ricordo di Adriano Romualdi (1940-1973)

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Ricorrenze. Il ricordo di Adriano Romualdi (1940-1973), intellettuale controcorrente

Pubblicato il 17 dicembre 2012 da Gianfranco de Turris
Categorie : Personaggi Rassegna stampa
Ex: http://www.barbadillo.it/ 

Se lo sono chiesto, ce lo siamo chiesto, me lo hanno chiesto nel 1983, nel 1993, nel 2003: che cosa avrebbe fatto, che cosa avrebbe detto, che avrebbe scritto, come si sarebbe comportato Adriano se fosse stato vivo?

Una domanda cui non è facile rispondere, anche per uno come me che della storia fatta con i “se” si occupa. Una domanda però che sottintende un senso di distacco, di privazione, ancora d’incredulità di fronte al suo destino, di sotterranea ammirazione per un uomo immaturamente e tragicamente scomparso a causa di un’imperscrutabile e terribile decisione del Fato (che nel 2000 ha voluto ripetersi con Marzio Tremaglia), anche da parte di chi non l’ha mai conosciuto se non, forse, attraverso i suoi scritti.

Adriano era della mia generazione, quella degli anni ’40, ma il primo di tutti essendo nato proprio nel 1940: oggi avrebbe avuto 63 anni, un signore di una certa età con sicuramente alle spalle molti libri, moltissimi articoli, forse anche una carriera universitaria.

Personalmente già mi sono posto l’interrogativo presentando il volume di tutti gli scritti di Adriano dedicati ad Evola (Su Evola, Fondazione Evola, 1998), ma oggi come oggi non riesco a pensare esattamente alla sua posizione rispetto alla politica odierna, se non che sarebbe stato intransigentemente all’opposizione di quella attualmente espressa dal partito erede del MSI, soprattutto sarebbe stato contro la sua politica non-culturale. Infatti, l’azione di Adriano fu sempre su questo piano che possiamo definire metapolitica, secondo gli insegnamenti evoliani. In tutti questi anni, se fosse vissuto, la sua importanza avrebbe potuto essere, nonostante alcune sue rigidità caratteriali, quella di un catalizzatore culturale: sarebbe diventato un’importante figura di riferimento, organizzatore e promotore d’iniziative, in polemica con l’ufficialità. Per semplice induzione sono quasi sicuro che avrebbe polemizzato con gli indirizzi presi, nella sua ultima fase, dalla Nuova Destra, e penso proprio che in qualche modo ambiguo avrebbero cercato d’incastrarlo, com’è successo a molti altri, durante gli anni del terrorismo e dello stragismo, in qualcosa di losco, di certo lontanissimo dal suo modo di pensare e dai suoi intenti. Era, infatti, una personalità di primo piano, anche per essere il figlio di Pino, uno dei fondatori del MSI ed alla fine vice-segretario, e si esponeva parlando e scrivendo: insomma poteva dare fastidio e per le sue idee e per essere una figura aggregatrice.

Era, proprio per quel suo scarto di pochi anni di età, un “fratello maggiore” (mi pare che la definizione sia di Maurizio Cabona), perché l’unico “maestro” della Destra italiana del dopoguerra, anche se non voleva essere chiamato così, era e rimane Julius Evola, di cui Adriano, per la lunga vicinanza e frequentazione, e per essere stato il primo a divulgarne ed interpretarne la “visione del mondo”, può considerarsi l’unico vero “allievo”. Come tale, come “fratello maggiore”, aiutò ed incoraggiò diversi di noi aprendoci le pagine de L’Italiano, uno dei mensili politico-culturali degli anni ’70, su cui si fecero le ossa in molti e dove si dibatterono argomenti oggi comuni ma che allora erano “nuovi” per la Destra ufficiale e del tutto trascurati: non solo cinema e narrativa contemporanea, ma anche fumetti, uso dei mass media, scienza, ecologia, letteratura fantastica, nuove tecnologie e nuove forme d’espressione, analisi della persuasione occulta, tendenze del costume italiano.

Una parte cospicua della storia della cosiddetta “destra pensante” si dovrà fare esaminando le pagine de L’Italiano soprattutto nel periodo in cui Adriano se n’occupò abbastanza direttamente, cioè negli anni della “contestazione”, fra il 1967 ed il 1973.

Era, infatti, del parere che più che lamentarsi della situazione esistente si dovesse agire concretamente sul piano, appunto, culturale e metapolitico. Conclude, infatti, così il suo saggioPerché non esiste una cultura di Destra del 1965 ed in edizione definitiva del 1970: “Bastano pochi cenni per tracciare le linee di sviluppo di una cultura di destra. Ma quest’astratto orientamento incomincerà a prendere forma quando dei singoli si metteranno a scrivere ed a fare”.

Penso che molti dei suoi amici di allora, magari prendendo strade personali diverse, questa via l’abbiano seguita: hanno scritto ed hanno fatto, nei limiti quantitativi consentiti dalle difficoltà insite all’establishment culturale italiano, per parlare degli ostacoli frapposti dalla stessa Destra ufficiale.

Ma l’hanno fatto.

L’idea che Adriano aveva di cultura la espresse in questo suo saggio, ancor oggi attuale e preveggente, per il semplice motivo che, a distanza di quasi 40 anni, le condizioni – diciamo così ambientali – non sono cambiate affatto. Le ragioni essenziali e di fondo di questa storica difficoltà della “cultura di destra”, a parte le situazioni contingenti e pratiche che non venivano per nulla da lui sottovalutate, Adriano le sintetizzava così: “Ciò non deve farci dimenticare la vera causa del predominio dell’egemonia ideologica della Sinistra. Esso risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista. Questa visione del mondo e della vita può assumere sfumature diverse, può diventare radicalismo e comunismo, neo-illuminismo e scientismo a sfondo psicanalizzante, marxismo militante e cristianesimo positivo d’estrazione “sociale”. Ma sempre ci si trova di fronte ad una visione del mondo unitaria dell’uomo, dei fini della storia e della società”.

Invece – ecco la contrapposizione secondo le sue parole – “dalla parte della Destra nulla di tutto questo. Ci si aggira in un’atmosfera deprimente fatta di conservatorismo spicciolo e di perbenismo borghese (…). A Destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica. Si è “patriottico-risorgimentali” e s’ignorano i foschi aspetti democratici e massonici che coesistettero nel Risorgimento con l’idea unitaria. Oppure si è per un “liberalismo nazionale” e si dimentica che il mercantilismo liberale e il nazionalismo libertario hanno contribuito potentemente a distruggere l’Ordine Europeo. O, ancora, si parla di “Stato Nazionale del Lavoro” e si dimentica che una Repubblica Italiana fondata sul lavoro ce l’abbiamo già – purtroppo – e che ricondurre in questi termini la nostra alternativa significa soltanto abbassarsi al rango di Socialdemocratici di complemento”.

E concludeva: “Basta poco ad accorgersi che se a Destra non c’è una cultura, ciò accade perché manca una vera idea della Destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica, antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe oleografie politiche”.

Ecco perché nel saggio La “nuova cultura” di Destra, Adriano criticava le idee dell’allora nominato “consigliere culturale” del MSI, Armando Plebe, che era riuscito ad annacquare la piattaforma ideale dell’allora Destra Nazionale facendola diventare neo-illuminista, pragmatica, de-ideologizzata ed al massimo anti-comunista: “egli”, scriveva Adriano, “sotto il profilo ideologico è piuttosto un liberale che un uomo di Destra”. Plebe incassò e non replicò, ma si ricordò di queste critiche, tanto che dopo la sua morte non ebbe la minima remora a definire la posizione di Adriano come “l’aspetto più retrivo ed infecondo della cultura di destra”. Quasi quasi aveva ragione a contrario: nel senso che le posizioni dell’attuale partito che dovrebbe rappresentare la Destra italiana sembrano essere proprio quelle propugnate da Plebe; basti leggere il colloquio-intervista del suo presidente a La Repubblica (4 Novembre 2003) dove, alla domanda “Quali sono le nuovi componenti culturali del suo partito”, così risponde: “Indicherei tre radici essenziali: nazionale, nell’accezione non di nazionalismo ma di amor-patrio; liberale; cattolica”. Come ben si vede, Adriano aveva già capito tutto 40 anni fa. La sua posizione, infatti, faceva riferimento alla “Rivoluzione Conservatrice” nel senso più ampio, e non solo tedesco, del termine. Lo confermò in quello che fu uno dei suoi ultimi scritti: la risposta ad un’inchiesta su “le scelte culturali dei giovani di destra” che avevo preparato per Il Conciliatorema che poi venne pubblicata, poiché si era bruscamente troncata la mia collaborazione con il mensile milanese, sulla rivista dell’Ingegner Volpe, Intervento, nell’aprile 1973, pochi mesi prima del fatale incidente, e che ora ho riunito nel volume I non-conformisti degli anni Settanta(Ares, 2003).

Una rivoluzione che, come ben si sa, si rivolgeva ai valori del passato per andare avanti, secondo una definizione di Moeller Van Den Bruck da Adriano citata: “Essere conservatori non significa dipendere dall’immediato passato, ma vivere dei valori eterni”. Frase che – se permettete – accosterei ad un altro grande cui mi avvicinano alcuni miei interessi: Tolkien, il quale a sua volta diceva: “Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti”. In fondo esprimono lo stesso concetto.

Nel prendere questa posizione Adriano metteva in pratica i dettami di Julius Evola che già nel 1950, scrivendo per i ragazzi reduci dell’esperienza della RSI, su Orientamenti al punto secondo consigliava di abbandonare il contingente e mantenere l’essenziale. Per questo motivo, Adriano, pur essendo dissenziente su certe posizioni evoliane, poteva concludere così la sua risposta all’inchiesta prima ricordata: “Se mi è permessa una valutazione personale, noi che abbiamo letto da adolescenti Gli uomini e le rovine (e non siamo poi così pochi) siamo nel nostro ambiente – grazie ad Evola – i soli non qualunquisti”. Appunto, quel che è diventata la Destra ufficiale di oggi. Ma questa possibilità da lui indicata, purtroppo, non è mai stata sfruttata, né sembra possibile farlo attualmente anche se ci sarebbero le condizioni teoriche ottimali per farlo. Infatti, la Sinistra è ideologicamente,culturalmente e moralmente allo sbando: regge solo per il suo essersi da mezzo secolo innestata profondamente nei gangli della cultura italiana e per il rimanervi grazie alla forza d’inerzia, alla convivenza ed al mutuo soccorso. Oggi a sinistra si stanno ammettendo le colpe delle stragi compiute dopo il 25 aprile, si stanno ammettendo i compromessi ed i silenzi colpevoli nei confronti di Stalin e Togliatti, si riconosce l’asservimento degli storici ad una visione comunista con il conseguente condizionamento d’intere generazioni, si ammettono connivenze, complicità, conformismi. Eppure, non si riesce ad approfittare di questo momento di gravissima crisi perché l’ambiente della Destra Politica non è cambiato rispetto a quello descritto da Adriano 40 anni fa, non si è creata una “visione del mondo”, si è andati avanti alla giornata al punto da, alla fine, negare se stessa, rinnegando il proprio passato praticamente in blocco, rifiutando tutti i suoi riferimenti culturali, preferendo il Nulla o il qualunquismo (il che è quasi la stessa cosa) ad un serio ripensamento e ad una riattualizzazione: non ha rifiutato il contingente e mantenuto l’essenziale, ma ha rifiutato sia il contingente che l’essenziale. Ha tagliato, com’è stato scritto con grande compiacimento dei progressisti (ma strumentalmente, ai fini della politica-politicante), tutte le sue radici. Aggiungiamo che ha distrutto i ponti ed ha bruciato i vascelli alle sue spalle: ma non esiste alcun futuro senza un passato. Tanto meno con un passato costruito all’impronta, da neofiti, da nuovi arrivati. Ma c’è di peggio. Non ci si limita a rifiutare il passato di tutto un mondo umano, ma, per essere ben accetti, lo si denigra e lo si offende, andando addirittura contro certe correnti storiografiche che cercano di riequilibrare giudizi puramente ideologici su di esso, con un cinismo assoluto e strumentale. Sicché, per tornare a noi, si è potuto leggere che Adriano era un esaltato, che viveva condizionato dal nibelungico crepuscolo del nazismo, al punto di essere affetto da “autismo ideologico” e di rappresentare una “cultura di addetti alla nostalgia” (Marco De Troia, Fronte della Gioventù, Settimo Sigillo, 2001), quasi un piccolo cattivo maestro nazista, razzista e radicale (G.S. Rossi, La destra e gli ebrei, Rubettino, 2003), perché ovviamente il grande cattivo maestro era Julius Evola, entrambi contrapposti ai “buoni” del vecchio MSI, quelli che poi avrebbero creato l’attuale entità politica sua erede.

Di fronte a questo rinnegamento e a questa denigrazione da parte di una destra che si vuole accreditare presso i “poteri forti” attuali, non si può fare a meno di pensare a qualcosa di concreto, non solo ricordando Adriano, ma ristampando in edizione critica le sue opere da troppo tempo scomparse. Fosse vissuto sino ad oggi, con alle spalle il curriculum culturale di 40 anni di attività, sarebbe stato un punto di riferimento, come ho detto, di una resistenza non solo culturale e metapolitica, ma anche morale. Non essendoci più, noi non possiamo far altro che cercare di seguire gli spunti, le idee, i riferimenti che ci ha lasciato, adeguandoli ai tempi naturalmente, come del resto avrebbe fatto anche lui. Tempi questi che, mai – credo – Adriano avrebbe voluto prevedere, pur avendoli in parte immaginati, anche nelle sue visioni più pessimistiche.

A cura di Gianfranco de Turris

samedi, 05 janvier 2013

Méridien Zéro a reçu Jacques Bardèche (fils de Maurice Bardèche) et Patrick Canet

Méridien Zéro a reçu Jacques Bardèche (fils de Maurice Bardèche) et Patrick Canet pour évoquer avec eux l'oeuvre et la vie de Maurice Bardèche.

Animateurs : Gérard Vaudan et Eugène Krampon.

Lord Igor à la technique.

bardeche, collaboration, brasillach, biographie, histoire, philosophie, littérature

Pour écouter:

http://www.meridien-zero.com/archive/2012/12/21/emission-n-123-un-homme-un-destin-maurice-bardeche.html

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dimanche, 04 novembre 2012

Ciao, Pino

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Addio a Pino Rauti, simbolo del Msi

Addio a Pino Rauti, simbolo del Msi

Pino Rauti era nato a Cardinale (Catanzaro) il 19 novembre del 1926

Giovanissimo partecipò alla nascita del Movimento sociale italiano di cui fu anche leader. Aveva 85 anni. Assunta Almirante: «E’ stato uno dei grandi della destra italiana»
 
 

È morto Pino Rauti. L’ex segretario del Movimento Sociale Italiano, che avrebbe compiuto 86 anni il 19 novembre, si è spento alle 9.30 di questa mattina nella sua casa di Roma. Nel 1946, giovanissimo, contribuì alla nascita del Movimento.  

“E’ stato uno dei bravi, dei grandi di questa destra”. le parole di Assunta Almirante, vedova di Giorgio Almirante, storico leader del Movimento sociale, che ha ricordato i guai giudiziari di Rauti, coinvolto nelle inchieste sul terrorismo stragista neofascista: “Molto ingiustamente è stato indicato come un uomo che aveva commesso errori che è stato accertato che non erano suoi, come la strage di piazza Fontana”. Per la vedova Almirante Rauti “è stato una persona di grande intelligenza, è stato indicato come il fondatore di Ordine nuovo ma era un uomo di partito come pochi ce ne sono stati”.  

 

Il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha espresso«il più profondo cordoglio per la scomparsa di Pino Rauti, uomo politico che ha rappresentato una parte di rilievo nella storia della Destra italiana». «Parlamentare rigoroso, intellettuale di profonda cultura, Rauti - conclude - ha testimoniato con passione e dedizione gli ideali della nazione e della società che appartengono alla storia politica del nostro Paese. Ai familiari esprimo i sentimenti della più intensa vicinanza mia personale e della Camera dei deputati».  

Il «fascista di sinistra», come è stato definito Giuseppe Umberto Rauti, nacque a Cardinale, in provincia di Catanzaro, il 19 novembre 1926. Fascista di sinistra in contrapposizione con il «fascismo di destra» incarnato da Giorgio Almirante, prima, e da Gianfranco Fini poi. L’attenzione di Rauti si concentrava, infatti, sulla socializzazione e sui temi dell’anticapitalismo e del terzomondismo interpretando, dal suo punto di vista, i motivi ispiratori del fascismo. Questo lo ha relegato per lungo tempo in una posizione minoritaria all’interno del Msi, partito che, giovanissimo, contribuisce a fondare alla fine del 1946. Nei primi anni cinquanta contribuisce a dare nuovamente vita all’organizzazione neofascista che rispondeva alla sigla FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria) insieme ad alcuni appartenenti alla corrente così detta «pagana» e «germanica» della prima organizzazione disciolta nel luglio del 1947.  

 

Dopo due attentati a Roma, presso il Ministero degli Esteri e all’ambasciata statunitense, il 24 maggio 1951 furono condotti numerosi arresti nei confronti dei quadri di questa organizzazione, fra questi: Pino Rauti, Fausto Gianfranceschi, Clemente Graziani, Franco Petronio, Franco Dragoni e Flaminio Capotondi. Tra gli arrestati anche il filosofo Julius Evola, considerato l’ispiratore del gruppo. Il processo si concluse il 20 novembre 1951: Graziani, Gianfranceschi e Dragoni furono condannati a un anno e undici mesi. Altri dieci imputati a pene minori. Tutti gli altri vennero assolti. Tra loro Evola, Rauti ed Erra. Con la fine del processo si concluse definitivamente anche l’adozione della sigla FAR. Nel 1954, dopo la vittoria dei fascisti in doppiopetto e la nomina a segretario di Arturo Michelini, dà vita al centro studi Ordine Nuovo. Nel 1956 Ordine Nuovo esce dal MSI. Arriverà ad avere dai 2.000 ai 3.000 iscritti. Successivamente Giorgio Freda ed altri esponenti di estrema destra entreranno a far parte di Ordine Nuovo. Negli anni sessanta e settanta, il nome di questa organizzazione verrà usato per rivendicare una serie di attentati, ai quali Rauti si dichiarerà sempre estraneo. Nel maggio del 1965 l’istituto di studi militari Alberto Pollio organizza un convegno sulla «guerra rivoluzionaria», a Roma all’Hotel Parco dei Principi, che viene finanziato dallo Stato Maggiore dell’esercito: si trattava di un raduno fra fascisti, alte cariche dello Stato e imprenditori: Rauti presenta una relazione su «La tattica della penetrazione comunista in Italia». Il 16 aprile 1968 parte insieme ad altri 51 estremisti di destra (fra cui l’agente del SID Stefano Serpieri, Giulio Maceratini, Mario Merlino, Stefano Delle Chiaie, Franco Rocchetta) da Brindisi per un viaggio di istruzione sulle tecniche di infiltrazione, nella Grecia dei Colonnelli, a spese del governo greco. Con l’arrivo alla segreteria del MSI nel 1969 di Giorgio Almirante, Rauti e un gruppo di dirigenti rientrò nel partito, e alla guida del movimento restò Clemente Graziani.  

 

Il 4 marzo 1972 il giudice Stiz di Treviso esegue mandato di cattura contro Rauti per gli attentati ai treni dell’8 e 9 agosto 1969. Successivamente l’incriminazione si estenderà agli attentati del 12 dicembre. Il 21 novembre 1973 trenta aderenti ad Ordine Nuovo vengono condannati dalla magistratura per ricostituzione del Partito Nazionale Fascista e viene decretato lo scioglimento dell’organizzazione. Nel 1974, con la rivoluzione dei garofani in Portogallo, viene scoperta l’organizzazione eversiva internazionale fascista Aginter Press con la quale ha stretti rapporti anche Rauti attraverso l’agenzia Oltremare per la quale lavora. Nessuna di queste inchieste ha mai accertato qualche reato a suo carico. Successivamente Pino Rauti fu inquisito per la strage di Piazza della Loggia a Brescia e in merito il 15 maggio 2008 è stato rinviato a giudizio. Assolto il 16 novembre 2010 in base all’articolo 530 comma 2 del codice di procedura penale (insufficienza di prove). Nelle richieste del pm Roberto Di Martino, per quanto concerne la posizione di Pino Rauti si afferma che la sua è una «responsabilità morale, ma la sua posizione non è equiparabile a quella degli altri imputati dal punto di vista processuale. La sua posizione è quella del predicatore di idee praticate da altri ma non ci sono situazioni di responsabilità oggettiva. La conclusione è che Rauti va assolto perché non ha commesso il fatto».  

 

Nel 1972 Rauti viene eletto deputato alla Camera nelle file del Msi nel collegio di Roma, dove verrà sempre rieletto fino alle elezioni del 1994. È promotore di una stagione di rinnovamento dentro il partito, lanciando un quindicinale «Linea», e organizzazioni parallele, dal Movimento giovani disoccupati, ai Gruppi Ricerca Ecologica, e sostenendo i Campo Hobbit fu riferimento delle nuove generazioni del Fronte della Gioventù. La sua era detta la componente dei «Rautiani». Nel 1979, al XII congresso del MSI-DN, viene eletto vicesegretario. È animatore di mozioni congressuali come «Linea futura» (1977), «Spazio Nuovo» (1979 e 1982) e «Andare oltre» (1987). Il 14 dicembre 1987, al XV congresso del MSI a Sorrento, raccoglie quasi la metà dei consensi, insieme alla corrente di Beppe Niccolai, per l’elezione a segretario, ma è battuto da Gianfranco Fini, sostenuto dal segretario uscente e padre nobile del partito Giorgio Almirante, ormai gravemente malato.  

 

mercredi, 24 octobre 2012

CIAO, ALBERTO

CIAO, ALBERTO

Oggi, una mattina come tante, iniziata non bene e non male, nella normalità, mentre stavo iniziando a dedicarmi alle mie occupazioni quotidiane, squilla il telefono, è un mio / nostro sodale che mi da la triste notizia che Alberto B. Mariantoni è andato oltre.

Mi scorrono nella mente ricordi, immagini, idee, le interminabili discussioni fatte in altrettante interminabili nottate, la voglia di combattere contro questo mondo ingiusto ed inumano. Vado a prendere una sua lettera autografa – e già anche nei tempi di internet c’è ancora chi scrive a mano – scritta in bella calligrafia – perché per Alberto, come per la Tradizione estremo orientale, scrivere bene significava pensare bene, scritta con la penna stilografica, come si faceva una volta, anche se si lamentava che l’inchiostro non era più buono come quello di un tempo, la giro e rigiro tra le mani: non riesco a concentrarmi.

Mi sostiene solamente la consapevolezza che continueremo a stare insieme, anche se non materialmente, perché, ad un certo grado di affinità, gli spiriti si pensano.

Economista, saggista, storico, solo pochissime altre personalità possono vantare di essere state autenticamente ribelli ed eretiche. La sua attenzione si è da sempre focalizzata sulla indispensabilità di uscire dall’apparente insolubile dualismo capitalismo-marxismo. Lo studio dei meccanismi dell’economia e, di conseguenza monetari, attraverso l’analisi delle ricorrenti ed inspiegabili crisi inflazionistiche ed economiche formano, negli ultimi tempi, il nucleo centrale del suo interesse extra-storico e politico.

I suoi articoli e saggi di economia, purtroppo, conoscono una lunga notte. Le sue tesi sconvolgono le classiche coordinate di analisi economico-politica. Come pensare che economia libera ed economia statizzata in realtà abbiamo le medesime matrici e producano i medesimi risultati? Come pensare che esse congiuntamente decidano dei destini delle monete ? Come pensare che esse siano organizzativamente e finalisticamente simili ?

Alberto ancora una volta colpirà nel segno.

Testimone e protagonista del suo tempo non indietreggiò, mai, davanti al suo destino, anche quando questo gli fu avverso. Forse proprio per questa sua coerenza, tutto un “ certo “ ambiente lo ha isolato, contribuendo, tuttavia, a farne un uomo troppo alto per essere intaccato da critiche meschine.

Tante volte varcò la porta della stima personale e del successo, a differenza di altri che a quella porta bussarono, con il cappello in mano, senza mai varcarla.

E questo è, forse, il peccato che questo nostro tempo di nani non gli perdona.

“ A mio giudizio, abbiamo quella illudente e fuorviante percezione della nostra esistenza, in quanto continuiamo testardamente ed incosapevolmente a volere assolutamente “ leggere” o interpretare la realtà che ci contorna, attraverso le lenti deformanti e snaturanti della “visione ideologica” della vita e della storia”, così ci diceva e scriveva.

Ciao Alberto.

Claudio Marconi   FotoAlberto

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/  

 

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

La redazione di “Eurasia” dà l’estremo saluto ad Alberto Bernardino Mariantoni, politologo, saggista storico, esperto di questioni del Vicino Oriente e studioso delle religioni.

Lo ricordiamo come collaboratore della rivista, in particolare col suo storico saggio Dal “Mare Nostrum” al “Gallinarium Americanum”. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente (“Eurasia” 3/2005), il quale ha avuto l’inestimabile merito di sollevare definitivamente la questione dell’occupazione della nostra terra da parte di eserciti stranieri. Dopo tale illuminante articolo, anche i media collaborazionisti cosiddetti “autorevoli” dovettero “correre ai ripari” per tamponare la falla, ovvero la “fuga di notizie”, che rischiava di trasformarsi in un’alluvione; così avvenne che in una trasmissione di una rete televisiva nazionale, citando il saggio di Mariantoni, venne imbastita una ridicola messinscena tra “esperti” i quali, arrampicandosi sugli specchi, cercavano di minimizzare l’inaudita gravità di un apparato tentacolare che, per la sua sola presenza, rende nulla ogni pretesa di indipendenza e sovranità delle nazioni sottoposte a pluridecennale imposizione.

Lo ricordiamo anche come uomo, generoso, tollerante, sempre disponibile e mai “in cattedra”, sebbene, grazie alla sua esperienza diretta delle cose di cui trattava, si sarebbe potuto atteggiare a “professore” più di tanti altri che, per molto meno, fanno sfoggio di conoscenze puramente libresche, imparate dai “bignamini”.

Mariantoni era un “interventista della cultura”, nel più aureo filone dei grandi Italiani che, del loro sapere, non han fatto una base per guadagnare onori e prebende vivendo sempre da “struzzi”, ma lo hanno costantemente messo a disposizione di una “battaglia” sentita come improrogabile: quella per la libertà, l’indipendenza, l’autodeterminazione e la sovranità politica, economica, culturale e militare di tutti i popoli del mondo.

Per chi intendesse saperne di più su questa grande figura di italiano, mediterraneo ed europeo, consigliamo la lettura dei testi contenuti nel suo sito personale: http://www.abmariantoni.altervista.org/

Addio Alberto, che la morte ti sia lieve. Come tu stesso dicevi sempre, è solo la vita che va verso la vita. 

Enrico Galoppini, a nome della Redazione di “Eurasia”

Who was Alberto B. Mariantoni?

Alberto Bernardino Mariantoni è nato a Rieti ( I ), il 7 Febbraio del 1947.

E’ laureato in Scienze Politiche e specializzato in Economia Politica, Islamologia e Religioni del Vicino Oriente. E’ Master in Vicino e Medio Oriente.

Politologo, scrittore e giornalista, è stato per più di vent’anni Corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra e per circa quindici anni sul tamburino di «Panorama». Ha collaborato con le più prestigiose testate nazionali ed internazionali, come «Le Journal de Genève», «Radio Vaticana», «Avvenire», «Le Point», «Le Figaro», «Cambio 16», «Diario de Lisboa», «Caderno do Terceiro Mundo», «Evénements», «Der Spiegel», «Stern», «Die Zeit», «Berner Zeitung», «Il Giornale del Popolo», «Gazzetta Ticinese», «24Heures», «Le Matin», «Al-Sha’ab», Al-Mukhif Al-Arabi», nonché «Antenne2», «Télévision Suisse Romande», «Televisione Svizzera Italiana», ecc.

E’ esperto di politica estera e di relazioni internazionali, con particolare riferimento ai paesi arabi e musulmani e dell’Africa centrale ed occidentale. Ha al suo attivo decine e decine di inchieste e di reportages in zone di guerra e di conflitti politici. E’ autore di oltre trecento interviste ai protagonisti politici ed istituzionali dei paesi del Terzo Mondo e della vita politica internazionale.

Ha insegnato presso la Scuola di Formazione continua dei giornalisti di Losanna. E’ stato Professore invitato presso numerose Università Europee e Vicino-Orientali.

Ha scritto: «Gli occhi bendati sul Golfo» (Jaca Book, Milano 1991); «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (Pygmalion, Paris, 1992); «Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

Dal 1994 al 2004, è stato Presidente della Camera di Commercio Italo-Palestinese.

Nel 2009-2010 ha collaborato, come docente, con lo I.E.M.A.S.V.O - Istituto 'Enrico Mattei' di Alti Studi sul Vicino e Medio Oriente di Roma.

English:

Alberto Bernardino Mariantoni was born in Rieti (Italy), on February 7th, 1947.

He graduated in Political Sciences and specialized in Political Economy, and Islamic studies and Religions of the Middle-East. He is also a post-graduate Master in the Near and Middle East.

As a political commentator, writer and journalist he was – for more than twenty years – permanent correspondent at the United Nations in Geneva (Switzerland). For approximately fifteen years he was included in the list of front-page editorialists of “Panorama” (a major, nationally distributed Italian news magazine). He has collaborated with top-ranking, prestigious national and international media organs, such as “Le Journal de Genève”, “Radio Vaticana”, “Avvenire”, “Le Point”, “Le Figaro”, “Cambio 16”, “Diario de Lisboa”, “Caderno do Terceiro Mundo”, “Evénements”, “Der Spiegel”, “Stern”, “Die Zeit”, “Berner Zeitung”, “Il Giornale del Popolo”, “Gazzetta Ticinese”, “24Heures”, “Le Matin”, “Al-Sha’ab”, and “Al-Mukhif Al-Arabi”, plus “Antenne2”, “Télévision Suisse Romande”, “Televisione Svizzera Italiana”, etc.

He is an expert on foreign politics and international relations, with particular reference to Arabic and Muslim countries, and the countries of Central and West Africa. He has authored many dozens of inquiries into, and reports from, war zones/regions struck by political conflicts. He has also authored more than 300 interviews with political and institutional personages of Third World countries and the international political scene.

He has taught for the continuing professional development school for journalists in Lausanne (Switzerland). He has been ‘guest professor’ at various European and Near-East Universities.

He has written: «Gli occhi bendati sul Golfo» (blindfolded on the Gulf) (published by Jaca Book, Milan, 1991) and «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (the unsaid on the Israel-Arab conflict) (published by Pygmalion, Paris, 1992);«Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

From 1994 to 2004, he was Chairman of the Italian-Palestinian Chamber of Commerce.

In 2009-2010, he collaborated as professor with I.E.M.A.S.V.O – ‘Enrico Mattei’ Advanced Studies Institute on the Near and Middle East, Rome (Italy).

 

Maurras, soixante ans après

 

Colloque



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mardi, 16 octobre 2012

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

2 ans déjà ! 

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

 
Le 9 octobre 2010, il y a deux ans, disparaissait Maurice Allais à l’âge respectable de 99 ans, qui avait tout annoncé…

Maurice AllaisC’était le seul prix Nobel d’économie français. Né le 31 mai 1911, il part aux États-Unis dès sa sortie (major X31) de Polytechnique en 1933 pour étudier in situ la Grande Dépression qui a suivi la Crise de 1929. Ironie de l’histoire, il a ainsi pu réaliser une sorte de “jonction” entre les deux Crises majeures du siècle. Son analyse, percutante et dérangeante, n’a malheureusement pas été entendue faute de relais.

Fervent libéral, économiquement comme politiquement, il s’est férocement élevé contre le néo-conservatisme des années 1980, arguant que le libéralisme ne se confondait pas avec une sortie de “toujours mois d’État, toujours plus d’inégalités” – qui est même finalement la définition de l’anarchisme. On se souviendra de sa dénonciation du “libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée” et de la “chienlit mondialiste laissez-fairiste”. Il aimait à se définir comme un “libéral socialiste” – définition que j’aime beaucoup à titre personnel.

Il a passé les dernières années de sa vie à promouvoir une autre Europe, bien loin de ce qu’il appelait “l’organisation de Bruxelles”, estimant que la construction européenne avait pervertie avec l’entrée de la Grande-Bretagne puis avec l’élargissement à l’Europe de l’Est.

RIP

Lettre aux français : “Contre les tabous indiscutés”

Le 5 décembre 2009, le journal Marianne a publié le testament politique de Maurice Allais, qu’il a souhaité rédiger sous forme d’une Lettre aux Français.

Je vous conseille de le lire, il est assez court et clair. Je le complète par divers autres textes surtout pour les personnes intéressées – même si cela alourdit le billet.

Maurice Allais

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons —tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 — résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel… téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel… téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

Maurice Allais.

_________________
(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.
(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.

NB : vous pouvez télécharger cet article ici.

Maurice Allais

Présentation par Marianne

Le Prix Nobel iconoclaste et bâillonné

La « Lettre aux Français » que le seul et unique prix Nobel d’économie français a rédigée pour Marianne aura-t-elle plus d’écho que ses précédentes interventions ? Il annonce que le chômage va continuer à croître en Europe, aux États-Unis et dans le monde développé. Il dénonce la myopie de la plupart des responsables économiques et politiques sur la crise financière et bancaire qui n’est, selon lui, que le symptôme spectaculaire d’une crise économique plus profonde : la déréglementation de la concurrence sur le marché mondial de la main-d’œuvre. Depuis deux décennies, cet économiste libéral n’a cessé d’alerter les décideurs, et la grande crise, il l’avait clairement annoncée il y a plus de dix ans.

Éternel casse-pieds

Mais qui connaît Maurice Allais, à part ceux qui ont tout fait pour le faire taire ? On savait que la pensée unique n’avait jamais été aussi hégémonique qu’en économie, la gauche elle-même ayant fini par céder à la vulgate néolibérale. On savait le sort qu’elle réserve à ceux qui ne pensent pas en troupeau. Mais, avec le cas Allais, on mesure la capacité d’étouffement d’une élite habitée par cette idéologie, au point d’ostraciser un prix Nobel devenu maudit parce qu’il a toujours été plus soucieux des faits que des cases où il faut savoir se blottir.

« La réalité que l’on peut constater a toujours primé pour moi. Mon existence a été dominée par le désir de comprendre ce qui se passe, en économie comme en physique ». Car Maurice Allais est un physicien venu à l’économie à la vue des effets inouïs de la crise de 1929. Dès sa sortie de Polytechnique, en 1933, il part aux États-Unis. « C’était la misère sociale, mais aussi intellectuelle : personne ne comprenait ce qui était arrivé. » Misère à laquelle est sensible le jeune Allais, qui avait réussi à en sortir grâce à une institutrice qui le poussa aux études : fils d’une vendeuse veuve de guerre, il a, toute sa jeunesse, installé chaque soir un lit pliant pour dormir dans un couloir. Ce voyage américain le décide à se consacrer à l’économie, sans jamais abandonner une carrière parallèle de physicien reconnu pour ses travaux sur la gravitation. Il devient le chef de file de la recherche française en économétrie, spécialiste de l’analyse des marchés, de la dynamique monétaire et du risque financier. Il rédige, pendant la guerre, une théorie de l’économie pure qu’il ne publiera que quarante ans plus lard et qui lui vaudra le prix Nobel d’économie en 1988. Mais les journalistes japonais sont plus nombreux que leurs homologues français à la remise du prix : il est déjà considéré comme un vieux libéral ringardisé par la mode néolibérale.

Car, s’il croit à l’efficacité du marché, c’est à condition de le « corriger par une redistribution sociale des revenus illégitimes ». Il a refusé de faire partie du club des libéraux fondé par Friedrich von Hayek et Milton Friedman : ils accordaient, selon lui, trop d’importance au droit de propriété… « Toute ma vie d’économiste, j’ai vérifié la justesse de Lacordaire : entre le fort et le faible, c’est la liberté qui opprime et la règle qui libère”, précise Maurice Allais, dont Raymond Aron avait bien résumé la position : « Convaincre des socialistes que le vrai libéral ne désire pas moins qu’eux la justice sociale, et des libéraux que l’efficacité de l’économie de marché ne suffit plus à garantir une répartition acceptable des revenus. » Il ne convaincra ni les uns ni les autres, se disant « libéral et socialiste ».

Éternel casse-pieds inclassable. Il aura démontré la faillite économique soviétique en décryptant le trucage de ses statistiques. Favorable à l’indépendance de l’Algérie, il se mobilise en faveur des harkis au point de risquer l’internement administratif. Privé de la chaire d’économie de Polytechnique car trop dirigiste, « je n’ai jamais été invité à l’ENA, j’ai affronté des haines incroyables ! » Après son Nobel, il continue en dénonçant « la chienlit laisser-fairiste » du néolibéralisme triomphant. Seul moyen d’expression : ses chroniques touffues publiées dans le Figaro, où le protège Alain Peyrefitte. À la mort de ce dernier, en 1999, il est congédié comme un malpropre.

Il vient de publier une tribune alarmiste dénonçant une finance de « casino» : « L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile, jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais, sans doute, il est devenu plus difficile d’y faire face, jamais, sans doute, une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » Propos développés l’année suivante dans un petit ouvrage très lisible* qui annonce l’effondrement financier dix ans à l’avance. Ses recommandations en faveur d’un protectionnisme européen, reprises par Chevènement et Le Pen, lui valurent d’être assimilé au diable par les gazettes bien-pensantes. En 2005, lors de la campagne sur le référendum européen, le prix Nobel veut publier une tribune expliquant comment Bruxelles, reniant le marché commun en abandonnant la préférence communautaire, a brisé sa croissance économique et détruit ses emplois, livrant l’Europe au dépeçage industriel : elle est refusée partout, seule l’Humanité accepte de la publier…

Aujourd’hui, à 98 ans, le vieux savant pensait que sa clairvoyance serait au moins reconnue. Non, silence total, à la notable exception du bel hommage que lui a rendu Pierre-Antoine Delhommais dans le Monde. Les autres continuent de tourner en rond, enfermés dans leur « cercle de la raison » •

Éric Conan

* La Crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999.

Source : Marianne, n°659, décembre 2009.

Maurice Allais

Extraits choisis

J’ai repris certains de ces extraits dans mon livre STOP ! Tirons les leçons de la Crise.

« Depuis deux décennies une nouvelle doctrine s’est peu à peu imposée, la doctrine du libre-échange mondialiste impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux. Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale. Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée. Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline. […]

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. […]

Suivant une opinion actuellement dominante, le chômage, dans les économies occidentales, résulterait essentiellement de salaires réels trop élevés et de leur insuffisante flexibilité, du progrès technologique accéléré qui se constate dans les secteurs de l’information et des transports, et d’une politique monétaire jugée indûment restrictive.

En fait, ces affirmations n’ont cessé d’être infirmées aussi bien par l’analyse économique que par les données de l’observation. La réalité, c’est que la mondialisation est la cause majeure du chômage massif et des inégalités qui ne cessent de se développer dans la plupart des pays. Jamais, des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. […]

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme », dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années ». Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorancede l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas.

Toute cette analyse montre que la libéralisation totale des mouvements de biens, de services et de capitaux à l’échelle mondiale, objectif affirmé de l’Organisation Mondiale du Commerce (OMC) à la suite du GATT, doit être considérée à la fois comme irréalisable, comme nuisible, et comme non souhaitable. […]

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. […]

En fait, on ne saurait trop le répéter, la libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible et n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux, groupant des pays économiquement et politiquement associés, de développement économique et social comparable, tout en assurant un marché suffisamment large pour que la concurrence puisse s’y développer de façon efficace et bénéfique. […]

Chaque organisation régionale doit pouvoir mettre en place dans un cadre institutionnel, politique et éthique approprié une protection raisonnable vis-à-vis de l’extérieur. Cette protection doit avoir un double objectif :

- éviter les distorsions indues de concurrence et les effets pervers des perturbations extérieures;

- rendre impossibles des spécialisations indésirables et inutilement génératrices de déséquilibres et de chômage, tout à fait contraires à la réalisation d’une situation d’efficacité maximale à l’échelle mondiale, associée à une répartition internationale des revenus communément acceptable dans un cadre libéral et humaniste.

Dès que l’on transgresse ces principes, une mondialisation forcenée et anarchique devient un fléau destructeur, partout où elle se propage. […]

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts […]. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services. »

« En réalité, ceux qui, à Bruxelles et ailleurs, au nom des prétendues nécessités d’un prétendu progrès, au nom d’un libéralisme mal compris, et au nom de l’Europe, veulent ouvrir l’Union Européenne à tous les vents d’une économie mondialiste dépourvue de tout cadre institutionnel réellement approprié et dominée par la loi de la jungle, et la laisser désarmée sans aucune protection raisonnable ; ceux qui, par là même, sont d’ores et déjà personnellement et directement responsables d’innombrables misères et de la perte de leur emploi par des millions de chômeurs, ne sont en réalité que les défenseurs d’une idéologie abusivement simplificatrice et destructrice, les hérauts d’une gigantesque mystification. […]

Au nom d’un pseudo-libéralisme, et par la multiplication des déréglementations, s’est installée peu à peu une espèce de chienlit mondialiste laissez-fairiste. Mais c’est là oublier que l’économie de marché n’est qu’un instrument et qu’elle ne saurait être dissociée de son contexte institutionnel et politique et éthique. Il ne saurait être d’économie de marché efficace si elle ne prend pas place dans un cadre institutionnel et politique approprié, et une société libérale n’est pas et ne saurait être une société anarchique.

Cette domination se traduit par un incessant matraquage de l’opinion par certains médias financés par de puissants lobbies plus ou moins occultes. Il est pratiquement interdit de mettre en question la mondialisation des échanges comme cause du chômage.

Personne ne veut, ou ne peut, reconnaître cette évidence : si toutes les politiques mises en œuvre depuis trente ans ont échoué, c’est que l’on a constamment refusé de s’attaquer à la racine du mal, la libéralisation mondiale excessive des échanges. Les causes de nos difficultés sont très nombreuses et très complexes, mais une d’elles domine toutes les autres : la suppression progressive de la Préférence Communautaire à partir de 1974 par “l’Organisation de Bruxelles” à la suite de l’entrée de la Grande Bretagne dans l’Union Européenne en 1973.

La mondialisation de l’économie est certainement très profitable pour quelques groupes de privilégiés. Mais les intérêts de ces groupes ne sauraient s’identifier avec ceux de l’humanité tout entière. Une mondialisation précipitée et anarchique ne peut qu’engendrer partout instabilité, chômage, injustices, désordres, et misères de toutes sortes, et elle ne peut que se révéler finalement désavantageuse pour tous les peuples.»

« En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connaît qu’un seul critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Partout se manifeste une régression des valeurs morales, dont une expérience séculaire a montré l’inestimable et l’irremplaçable valeur. Le travail, le courage, l’honnêteté ne sont plus honorés. La réussite économique, fondée trop souvent sur des revenus indus, ne tend que trop à devenir le seul critère de la considération publique.

En engendrant des inégalités croissantes et la suprématie partout du culte de l’argent avec toutes ses implications, le développement d’une politique de libéralisation mondialiste anarchique a puissamment contribué à accélérer la désagrégation morale des sociétés occidentales. »

[Maurice Allais, extraits rédigés entre 1990 et 2009]

Maurice Allais« Cette doctrine [la « chienlit mondialiste laissez-fairiste »] a été littéralement imposée aux gouvernements américains successifs, puis au monde entier, par les multinationales américaines, et à leur suite par les multinationales dans toutes les parties du monde, qui en fait détiennent partout en raison de leur considérable pouvoir financier et par personnes interposées la plus grande partie du pouvoir politique. La mondialisation, on ne saurait trop le souligner, ne profite qu’aux multinationales. Elles en tirent d’énormes profits.

Cette évolution s’est accompagnée d’une multiplication de sociétés multinationales ayant chacune des centaines de filiales, échappant à tout contrôle, et elle ne dégénère que trop souvent dans le développement d’un capitalisme sauvage et malsain. […]

Cette ignorance [des ressorts véritables de la crise actuelle par les « experts » officiels] et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. » [Maurice Allais, 1998 et 2009]

 

L’analyse de Maurice Allais sur la création monétaire

 « En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex-nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. [...]

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXe et du XXe siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex-nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le “cancer” qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée. [...]

Que les bourses soient devenues de véritables casinos, où se jouent de gigantesques parties de poker, ne présenterait guère d’importance après tout, les uns gagnant ce que les autres perdent, si les fluctuations générales des cours n’engendraient pas, par leurs implications, de profondes vagues d’optimisme ou de pessimisme qui influent considérablement sur l’économie réelle. [...] Le système actuel est fondamentalement anti-économique et défavorable à un fonctionnement correct des économies. Il ne peut être avantageux que pour de très petites minorités. »

[Maurice Allais, La Crise mondiale d’aujourd’hui. Pour de profondes réformes des institutions financières et monétaires, 1998]

« Ce qui, pour l’essentiel, explique le développement de l’ère de prospérité générale, aux États-Unis et dans le monde, dans les années qui ont précédé le krach de 1929, c’est l’ignorance, une ignorance profonde de toutes les crises du XIXème siècle et de leur signification réelle. En fait, toutes les grandes crises des XIXème et XXème siècles ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation. Partout et à toute époque, les mêmes causes génèrent les mêmes effets et ce qui doit arriver arrive. » [Maurice Allais]


« Ce livre est dédié aux innombrables victimes dans le monde entier de l’idéologie libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée, et à tous ceux que n’aveugle pas quelque passion partisane. » [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


Le libéralisme contre le laissez-fairisme

« Les premiers libéraux ont commis une erreur fondamentale en soutenant que le régime de laisser-faire constituait un état économique optimum. » [Maurice Allais, Traité d’économie pure, 1943]

« Le libéralisme ne saurait se réduire au laissez-faire économique ; c’est avant tout une doctrine politique, et le libéralisme économique n’est qu’un moyen permettant à cette politique de s’appliquer efficacement dans le domaine économique. Originellement, d’ailleurs, il n’y avait aucune contradiction entre les aspirations du socialisme et celles du libéralisme.

La confusion actuelle du libéralisme et du laissez-fairisme constitue un des plus grands dangers de notre temps. Une société libérale et humaniste ne saurait s’identifier à une société laxiste, laissez-fairiste, pervertie, manipulée, ou aveugle.

La confusion du socialisme et du collectivisme est tout aussi funeste.

En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connait qu’un critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Les perversions du socialisme ont entrainé l’effondrement des sociétés de l’Est. Mais les perversions laissez-fairistes d’un prétendu libéralisme mènent à l’effondrement des sociétés occidentales. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Une proposition enseignée et admise sans discussion dans toutes les universités américaines et à leur suite dans toutes les universités du monde entier : “Le fonctionnement libre et spontané du marché conduit à une allocation optimale des ressources”.

C’est là le fondement de toute la doctrine libre-échangiste dont l’application aveugle et sans réserve à l’échelle mondiale n’a fait qu’engendrer partout désordres et misères de toutes sortes.

Or, cette proposition, admise sans discussion, est totalement erronée, et elle-ne fait que traduire une totale ignorance de la théorie économique chez tous ceux qui l’ont enseignée en la présentant comme une acquisition fondamentale et définitivement établie de la science économique.

Cette proposition repose essentiellement sur la confusion de deux concepts différents : le concept d’efficacité maximale de l’économie et le concept d’une répartition optimale des revenus.

En fait, il n’y a pas une situation d’efficacité maximale, mais une infinité de telles situations. La théorie économique permet de définir sans ambiguïté les conditions d’une efficacité maximale, c’est-à-dire d’une situation sur la frontière entre les situations possibles et les situations impossibles. Par contre et par elle-même, elle ne permet en aucune façon de définir parmi toutes les situations d’efficacité maximale celle qui doit être considérée comme préférable. Ce choix ne peut être effectué qu’en fonction de considérations éthiques et politiques relatives à la répartition des revenus et à l’organisation de la société.

De plus, il n’est même pas démontré qu’à partir d’une situation initiale donnée le fonctionnement libre des marchés puisse mener le monde à une situation d’efficacité maximale.
Jamais des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. » [Maurice Allais, Discours à l’UNESCO du 10 avril 1999]


La théorie contre les faits

« C’est toujours le phénomène concret qui décide si une théorie doit être acceptée ou repoussée. Il n’y a pas, et il ne peut y avoir d’autre critère de la vérité d’une théorie que son accord plus ou moins parfait avec les phénomènes observés. Trop d’experts n’ont que trop tendance à ne pas tenir compte des faits qui viennent contredire leurs convictions.

À chaque époque, les conceptions minoritaires n’ont cessées d’être combattues et rejetées par la puissance tyrannique des “vérités établies”. De tout temps, un fanatisme dogmatique et intolérant n’a cessé de s’opposer aux progrès de la science et à la révision des postulats correspondant aux théories admises et qui venaient les invalider. […] En fait, le consentement universel, et a fortiori celui de la majorité, ne peuvent jamais être considérés comme des critères de la vérité. En dernière analyse, la condition essentielle du progrès, c’est une soumission entière aux enseignements de l’expérience, seule source réelle de notre connaissance. […]

Tôt ou tard, les faits finissent par l’emporter sur les théories qui les nient. La science est en perpétuel devenir. Elle finit toujours par balayer les “vérités établies”.
Depuis les années 1970, un credo s’est peu à peu imposé : la mondialisation est inévitable et souhaitable ; elle seule peut nous apporter la prospérité et l’emploi.
Bien que très largement majoritaire, cette doctrine n’a cependant cessé d’être contredite par le développement d’un chômage persistant qu’aucune politique n’a pu réduire, faute d’un diagnostic correct.

N’en doutons pas, comme toutes les théories fausses du passé, cette doctrine finira par être balayée par les faits, car les faits sont têtus. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Si utiles et si compétents que puissent être les experts, si élaborés que puissent être leurs modèles, tous ceux qui les consultent doivent rester extrêmement prudents. Tout organisme qui emploie une équipe pour l’établissement de modèles prévisionnels ou décisionnels serait sans doute avisé d’en employer une autre pour en faire la critique, et naturellement de recruter cette équipe parmi ceux qui ne partagent pas tout-à-fait les convictions de la première. » [Maurice Allais, Conférence du 23/10/1967, « L’Économique en tant que Science »]

« Si les taux de change ne correspondent pas à l’équilibre des balances commerciales, le libre-échange ne peut être que nuisible et fondamentalement désavantageux pour tous les pays participants. » [Maurice Allais, Combats pour l'Europe, 1994]


Une application erronée d’une théorie correcte : la théorie des coûts comparés.

« La justification de la politique de libre-échange mondialisé de l’OMC se fonde dans ses principes sur la théorie des coûts comparés présentée par Ricardo en 1817. [NDR : elle explique que, dans un contexte de libre-échange, chaque pays, s’il se spécialise dans la production pour laquelle il dispose de la productivité la plus forte ou la moins faible, comparativement à ses partenaires, accroîtra sa richesse nationale. Ricardo donne l’exemple de l’avantage comparatif du vin pour le Portugal, et des draps pour l’Angleterre]

Mais ce modèle repose sur une hypothèse essentielle, à savoir que la structure des coûts comparatifs reste invariable au cours du temps. En fait, il n’en est ainsi que dans le cas des ressources naturelles. [...] Par contre, dans le domaine industriel, aucun avantage comparatif ne saurait être considéré comme permanent. Chaque pays aspire légitimement à rendre ses industries plus efficaces, et il est souhaitable qu’il puisse y réussir. Il résulte de là que la diminution ou la disparition de certaines activités dans un pays développé en raison des avantages comparatifs d’aujourd’hui pourront se révéler demain fondamentalement désavantageuses dès lors que ces avantages comparatifs disparaitront et qu’il faudra rétablir ces activités. Tel est le cas, par exemple aujourd’hui en France de la sidérurgie, du textile, de la construction navale. [...]

Même lorsqu’il existe des avantages comparatifs de caractère permanent, il peut être tout à fait contre-indiqué de laisser s’établir les spécialisations qui seraient entrainées par une politique généralisée de libre-échange. Ainsi dans le cas de l’agriculture, le libre-échange n’aurait d’autre effet que de faire disparaitre presque totalement l’agriculture de l’Union européenne [ce qui serait] de nature à compromettre son indépendance en matière alimentaire. [...]

Bien plus encore, la théorie simpliste et naïve du commerce international sur laquelle s’appuient les grands gourous du libre-échange mondialiste néglige complètement les coûts externes et les coûts de transition, et elle ne tient aucun compte des coûts psychologiques, très supérieurs aux coûts monétaires, subis par tous ceux que la libéralisation des échanges condamne au chômage et à la détresse. [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


« La concurrence est naturellement malfaisante. Elle devient bienfaisante lorsqu’elle s’exerce dans le cadre juridique qui la plie aux exigences de l’optimum du rendement social. » [Maurice Allais, 1943]

« Je suis convaincu qu’aucune société ne peut longtemps survivre si trop d’injustices sont tolérées. » [Maurice Allais, La lutte contre les inégalités, le projet d’un impôt sur les grosses fortunes et la réforme de la fiscalité, 1979]


« Notre société parait évoluer lentement, mais sûrement, vers une organisation de plus en plus rigide, vers certaines formes de corporatisme, comme celles qui les ont enserrées dans leurs carcans pendant tant de siècles, et que Turgot dénonçait à la veille de la Révolution française. Elle parait se diriger presque inéluctablement vers des systèmes antidémocratiques, tout simplement parce que l’incompréhension de la nature véritable d’un ordre libéral et l’ignorance rendent son fonctionnement impossible, parce que la démocratie, telle qu’elle parait entendue aujourd’hui, mène au désordre, et que des millions d’hommes, pénétrés d’idéologies irréalisables, ne pourront survivre que dans le cadre de régimes centralisés et autoritaires.

Nous visons des temps à de nombreux points semblables à ceux qui ont précédé ou accompagné la décadence de l’empire romain. […] Aujourd’hui comme alors, des féodalités ploutocratiques, politicocratiques et technocratiques s’emparent de l’État. […] Aujourd’hui comme alors, nous assistons indifférents et sans la comprendre, à une transformation profonde de la société qui, si elle se poursuit, entrainera inévitablement la fin de notre civilisation.

Le pessimisme que peut suggérer cette analyse ne conduit pas nécessairement à l’inaction : l’avenir dépend encore, pour une large part, de ce que nous ferons. Mais ceux qui sont réellement attachés à une société libre seront-ils assez lucides, seront-ils capables d’apercevoir les sources réelles de nos maux et les moyens d’y remédier, consentiront-ils à l’effort nécessaire, d’une ampleur tout à fait exceptionnelle, qui pourrait, peut-être, sauvegarder les conditions d’une société libre ?

Le passé ne nous offre que trop d’exemples de sociétés qui se sont effondrées pour n’avoir su ni concevoir, ni réaliser les conditions de leur survie. » [Maurice Allais, conclusion de L’impôt sur le capital et la réforme monétaire, 1977]

Maurice Allais 1943

Sa dernière interview

Extraits de la dernière interview de Maurice Allais, réalisée l’été 2010 par Lise Bourdeau-Lepage et Leïla Kebir pour Géographie, économie, société, 2010/2

L’origine de mon engagement est sans conteste la crise de 1929. [...] Étant sorti major de ma promotion, j’ai pu faire en sorte qu’une bourse d’étude universitaire soit attribuée à plusieurs élèves pour que nous effectuions un voyage d’étude sur place, à l’été 1933. Le spectacle sur place était saisissant. On ne pourrait se l’imaginer aujourd’hui. La misère et la mendicité était présentes partout dans les rues, dans des proportions incroyables. Mais ce qui fut le plus étonnant était l’espèce de stupeur qui avait gagné les esprits, une sorte d’incompréhension face aux évènements qui touchait non seulement l’homme de la rue mais aussi les universitaires, car notre programme de voyage comprenait des rencontres dans de grandes universités : tous nos interlocuteurs semblaient incapables de formuler une réponse. Ma vocation est venue de ce besoin d’apporter une explication, pour éviter à l’avenir la répétition de tels évènements. [...] Pour moi, ce qui compte avant tout dans l’économie et la société, c’est l’homme. [...]

Beaucoup de gens se sont mépris sur mon compte. Je me revendique d’inspiration à la fois libérale et sociale. Mais de nombreux observateurs ne voient qu’un seul de ces aspects, selon ce qu’ils ont envie de regarder. Par ailleurs, j’ai constamment cherché à lutter contre les idéologies dominantes, et mes combats ont évolué en fonction de l’évolution parallèle de ces dogmes successifs. Ceci explique en grande partie les incompréhensions car on n’observe alors que des bribes incomplètes. [...]

{Question : Vous soutenez par exemple, à propos de l’impôt, qu’il faudrait ne pas imposer le revenu du travail mais par contre taxer complètement l’héritage. Pouvez-vous expliquer cette position qui peut paraître très iconoclaste pour bon nombre d’économistes ?}

J’ai qualifié l’impôt sur le revenu de système anti-économique et anti-social, car il est assis sur le travail physique ou intellectuel, sur l’effort, sur le courage. Il est l’expression d’une forme d’iniquité. Baser la fiscalité sur les activités créatrices de richesse est un non sens, tandis que ce que j’ai nommé les revenus « non gagnés » sont pour leur part trop protégés : à savoir par exemple l’appropriation privée des rentes foncières, lorsque la valeur ou le revenu des terrains augmente sans que cette hausse ne résulte d’un quelconque mérite de son propriétaire, mais de décisions de la collectivité ou d’un accroissement de la population. [...]

Je crains que l’économie et la société aient eu durant ces dernières décennies une tendance régulière à oublier le rôle central de la morale, qui est une forme de philosophie de la vie en collectivité. [...]

J’ai depuis toujours, et surtout depuis plus de vingt ans, suggéré des modifications en profondeur des systèmes financiers et bancaires, ainsi que des règles du commerce international. Il faut réformer les banques, réformer le crédit, réformer le mode de création de la monnaie, réformer la bourse et son fonctionnement aberrant, réformer l’OMC et le FMI, car tout se tient. Leur organisation actuelle est directement à l’origine non
seulement de la crise, mais des précédentes, et des suivantes si l’ont n’agit pas. Mes propositions existent et il aurait suffi de s’y référer. Mais ce qui manque est la volonté. Les gouvernements n’écoutent que les conseillers qui sont trop proches des milieux financiers ou économiques en place. On ne cherche pas à s’adresser à des experts plus indépendants. [...]

Les mathématiques ont pris au fil du temps une place excessive, particulièrement dans leurs applications financières. Il ne faut pas imaginer que ceci a toujours existé. [...] Mais par la suite, des économistes ont détourné ces apports, qui sont devenus des instruments pour imposer une analyse, mais sans chercher à la confronter à la réalité. De même, l’utilisation de certains modèles a causé des torts importants à Wall Street. Je rappelle d’ailleurs avoir de longue date demandé une révision de ces comportements, et par exemple l’interdiction des programmes informatiques automatiques qui sont utilisés par les financiers pour spéculer en Bourse.

Liens

Un lien vers des extraits de sa vision sur “la mondialisation, le chômage et les impératifs de l’humanisme

Vous trouverez ici une synthèse de son excellent livre de 1998 La crise mondiale d’aujourd’hui, que je vous recommande particulièrement, pour comprendre la crise actuelle (épuisé, donc à voir d’occasion).

Vous trouverez ici une synthèse de son livre L’Europe en crise

Ici une interview dans La Jaune et la Rouge

Ici un lien vers son article de 2005 : Les effets destructeurs de la Mondialisation

Épilogue

Je signale enfin que la fille de Maurice Allais travaille actuellement (avec difficultés) à la création d’une fondation afin de perpétuer le savoir du grand Maurice Allais. Elle se bat aussi pour préserver sa très riche bibliothèque de plus de 12 000 livres…

Plus d’informations sur sa page Wikipedia et sur l’Association AIRAMA qui lui est consacrée.

Maurice Allais

mercredi, 10 octobre 2012

Il y a 50 ans disparaissait Georges Desbons

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Il y a 50 ans disparaissait Georges Desbons, fidèle ami de la Croatie

 

par Christophe Dolbeau

 

Le 18 novembre 1935 à Aix-en-Provence, c’est dans un palais de Justice rempli de policiers et bardé de chicanes et de barbelés que s’ouvre le procès des Oustachis. Zvonimir Pospišil, Mijo Kralj et Ivan Raić sont accusés d’avoir pris part, le 9 octobre 1934 à Marseille, à l’attentat qui à coûté la vie au roi Alexandre de Yougoslavie et au ministre français Louis Barthou. La Cour d’Assises est présidée par M. de la Broize et quant aux inculpés, ils sont tous trois défendus par un célèbre avocat parisien, Me Georges Desbons. « L’œil ardent, le visage énergique », ce dernier s’est fait connaître « par son cran et sa combativité de tous les instants » (1) ; ce sont des associations croates de Buenos Aires et de Pittsburgh qui l’ont prié d’assurer la défense des trois accusés, ce qu’il a accepté de faire sans demander d’honoraires.

 

Très au fait des affaires yougoslaves et bien décidé à ne pas laisser ce procès servir d’habillage à une basse opération de vengeance, Me Desbons se montre d’emblée extrêmement offensif. Dès le premier jour, il s’en prend à l’interprète de service qu’il qualifie d’ « œil de la police yougoslave », ce qui lui vaut une réprimande de la Cour. Le lendemain, 19 novembre, l’avocat récidive : il attaque à nouveau l’interprète « yougoslave » (un certain Ilić), conteste les expertises psychiatriques des prévenus et proteste contre les premières irrégularités des débats. Vers 14h30, c’est le clash. S’étant vu refuser la parole, Me Desbons frappe du poing sur la table et lance au président : « Alors, c’est cela la Justice républicaine… Vous n’aurez pas la tête de ces trois hommes. Ni vous, ni votre substitut, ni votre bourreau ! » (2). Outré, le procureur général bondit de son siège et requiert la radiation immédiate de l’avocat qui rétorque aussitôt : « Rien ne me fera courber l’échine ». La Cour se retire quelques instants puis elle annonce la radiation de Me Desbons qui s’exclame : « Je ne partirai pas, je ne céderai qu’à la force ». C’est dans un brouhaha général qu’un gendarme invite alors l’avocat à se retirer : « il sort », écrit l’ancien commissaire de police Georges Paulet, « le torse droit, tête rejetée en arrière, entouré jusqu’au vestiaire par des confrères et des journalistes ». « Ma radiation », dira-t-il, « est l’honneur de ma carrière » (3).

 

Les audiences sont suspendues sine die mais il y aura quelques mois plus tard (février 1936) un second procès à l’issue duquel les accusés, défendus par d’autres avocats, échapperont finalement à la peine de mort (4).

 

De Me Desbons, cet indomptable défenseur qui n’a pas hésité un seul instant à mettre en jeu sa carrière et son gagne-pain, le grand public ne sait, hélas, pas grand-chose et le 50e anniversaire de sa disparition nous offre aujourd’hui l’occasion idoine de jeter quelque lumière sur ce personnage peu banal.

 

Juriste et fin lettré

 

Petit-fils d’un diplomate et d’un député-maire, fils d’un magistrat, Georges Anatole Eugène Desbons appartient à une famille bourgeoise du Sud-Ouest de la France, bien connue dans le milieu de l’élevage équin. Il vient au monde le 5 novembre 1889 dans la petite cité de Maubourguet, au pied des Pyrénées, et reçoit, le jour de son baptême, la bénédiction particulière de Sa Sainteté Léon XIII ; d’abord élève des écoles locales, il poursuit ensuite sa scolarité à Pau puis au Collège Stanislas, un prestigieux établissement catholique de Paris. Fidèle à la tradition familiale, il étudie le droit et s’inscrit dès 1911 au barreau de Paris tout en poursuivant ses travaux en vue de l’obtention d’un doctorat ; sa thèse (1912), qualifiée de « tout à fait remarquable », portera sur « le capitalisme et l’agriculture ». Fidèle à ses racines rurales, il témoigne alors d’un intérêt sincère pour les problèmes de la campagne comme en attestent les ouvrages qu’il consacre au Crédit Agricole (1913), à La coopération rurale au Danemark (1916, préfacé par le ministre radical-socialiste Maurice Viollette) et à La crise agricole et le remède coopératif (1917). Très éclectique, le jeune homme ne se cantonne pas au seul domaine agricole : en 1913, il s’attaque aux abus des cours martiales qu’il dénonce dans « L’agonie de la justice militaire », un article que publie La Revue Socialiste ; il aborde aussi des questions plus techniques comme Le moratorium des loyers ou encore La responsabilité civile des communes, un essai qui paraît en 1915. Exempté d’obligations militaires pour raisons médicales, il se porte néanmoins volontaire en août 1914 et rejoint le front en qualité de simple soldat : il se battra jusqu’à ce que les rigueurs des tranchées viennent à bout de sa santé. Réformé sanitaire, c’est dans l’administration qu’il continue de servir : remarqué pour ses qualités intellectuelles et connu pour être politiquement proche du centre gauche, le ministre René Viviani le nomme, en effet, sous-préfet. Affecté à ce titre dans la ville d’Uzès, Georges Desbons y déploie une grande activité en faveur de la recherche des soldats portés disparus (dont son cousin Jean, futur député) ; il publie même, en 1917, un petit opuscule (Pour le droit par le droit) destiné à aider concrètement les familles dans leurs démarches.

 

Lorsque le conflit mondial s’achève, Me Desbons n’a pas encore 30 ans mais il jouit déjà d’un certain renom et c’est peut-être en raison de cette notoriété naissante que le gouvernement monténégrin, exilé en France, lui confie la défense de ses intérêts. Avocat de la famille royale, Georges Desbons est également le conseil de la Croix-Rouge monténégrine et de l’Office Monténégrin du Commerce Extérieur. Témoin privilégié des excès auxquels se livre l’armée serbe lors de l’annexion du Monténégro, le jeune avocat n’aura dès lors de cesse de dénoncer l’iniquité des traités et les ambitions brutales de Belgrade. En 1920, il préface le petit pamphlet que le Dr Pero Šoć consacre à L’allié martyr, le Monténégro, avant de s’atteler lui-même à la rédaction d’un très gros ouvrage sur L’Agonie du Royaume de Monténégro [à ce jour, ce livre est toujours inédit]. Cet intérêt pour les Balkans l’amène ensuite à se pencher sur le cas de la Macédoine et de la Bulgarie ; paru en 1930 et salué par tout un aréopage d’éminents universitaires, son ouvrage La Bulgarie après le Traité de Neuilly, préfacé par l’ancien ministre Justin Godart, lui vaudra d’être distingué par le roi Boris III. Trois ans plus tard, son livre sur La Hongrie après le Traité de Trianon suscite à nouveau les éloges d’un large éventail de personnalités (dont le général Brissaud-Desmaillet, le Comte Teleki et Joseph Balogh de la Nouvelle Revue de Hongrie) qui toutes saluent son indépendance et son anticonformisme. 

 

Si la politique étrangère est toujours au centre de ses préoccupations, Georges Desbons est également présent sur d’autres plans : dans le domaine purement juridique où il se signale par la publication de diverses études techniques (Le commerce des chiffons et la loi de 1905 sur les fraudes ; Note sur la loi de révision du prix de vente des fonds de commerce) et dans le domaine de la politique coloniale où ses interventions sont nombreuses. Membre de la Société de Géographie Commerciale de Paris (sous l’égide de laquelle il a signé en 1929 une aimable plaquette de 20 pages, dédiée à Une richesse nationale bulgare. La culture des roses et la fabrication de l’essence de roses) et avocat de plusieurs sociétés implantées outre-mer, Me Desbons se rend à plusieurs reprises au Maroc et en Tunisie (deux pays qui salueront son action en lui décernant de hautes décorations) ; cet engagement auprès du monde des affaires ne l’empêche pas, dans le même temps, de défendre les plus humbles comme en témoigne le soutien qu’il apporte aux socialistes tunisiens ou au député progressiste martiniquais Joseph Lagrosillière. Proposé en juin 1934 pour l’attribution de la Légion d’Honneur, en raison « des services incontestables qu’il a rendus à la France coloniale », il figure en bonne place, en octobre 1935, dans le comité de parrainage de l’exposition du tricentenaire du rattachement des Antilles et de la Guyane à la France où il côtoie sénateurs, députés et gouverneurs.

 

Intégrité et indépendance

 

Tel est, en 1935, le profil de l’avocat qui accepte d’assumer la difficile tâche de défendre les Oustachis. Notable du barreau, notoirement proche de la Gauche modérée et plutôt lié à l’establishment, rien ne laisse présager la détermination avec laquelle il va s’employer à faire valoir les droits de ses sulfureux clients. Sauf que Me Desbons a certes de l’ambition et de l’entregent mais qu’il n’est aucunement opportuniste et certainement pas courtisan ; juriste méticuleux, c’est aussi quelqu’un qui connaît parfaitement les arcanes de la politique yougoslave et c’est enfin un homme intègre qui n’entend pas se prêter à une mascarade judiciaire, fût-ce au nom de la raison d’État. Pour le pouvoir – et Pierre Laval le lui avouera plus tard – il faut donc impérativement l’écarter du procès où les effets conjugués de son talent et de sa probité pourraient avoir des conséquences fâcheuses : on se servira pour cela d’un prétexte futile. Interdit de prétoire dès le second jour du procès, Georges Desbons a tout de même réussi, grâce au scandale, à enrayer la machine : le bâtonnier Émile de Saint-Auban et ses confrères n’auront plus qu’à marcher dans ses traces et au final, les accusés échapperont à la guillotine, ce qui n’était pas gagné d’avance. Au-delà du cas des trois inculpés, Me Desbons et ses collègues ont aussi secoué quelques consciences. Le député Lionel de Tastes menace d’interpeller le gouvernement à la Chambre et l’influent quotidien L’Œuvre (12.02.1936) parle ouvertement du « pot aux roses de Marseille », tandis que la revue Esprit (celle d’Emmanuel Mounier) laisse, quant à elle, au jeune sociologue Georges Duveau le soin de tirer la saine conclusion suivante : « …Un Ante Pavelić n’est pas un terroriste professionnel et si les Oustachis en sont venus à une politique d’assassinat et de violences, c’est qu’hélas, la dictature serbe leur donnait les plus tristes exemples et les provoquait aux plus féroces ressentiments. L’affaire des Oustachis prouve ce double dégoût qu’éprouvent tous les hommes de cœur devant les tyrannies policières et gouvernementales » (N°42, mars 1936, p. 998).

 

Au lendemain de l’incident d’Aix-en-Provence, le purgatoire de Georges Desbons n’est pas bien long puisqu’il est officiellement réintégré le 31 mars 1936. L’avocat peut reprendre l’exercice de son métier mais de confortable, sa situation est désormais devenue instable. Certains dossiers lui sont retirés et il lui faut se refaire une clientèle. Après avoir longtemps joui d’un fort coefficient de sympathie, il doit maintenant faire face à de venimeuses critiques : on l’accuse ici d’être fasciste et là d’être communiste (car il est hostile à la révision du Traité de Versailles comme aux accords de Munich) quand on ne le soupçonne pas d’accointances avec la franc-maçonnerie ! Blessé par cette injuste vindicte, Georges Desbons n’en poursuit pas moins son chemin, en toute indépendance. Après la défaite de 1940 et l’avènement de l’ « État Français », il campe sur des positions patriotiques et républicaines. Ancien combattant, il éprouve un grand respect pour le maréchal Pétain mais ne cautionne ni la suspension de la République ni la politique de son ami de jeunesse, Pierre Laval. Sollicité pour occuper un poste de préfet, de maire d’un arrondissement de Paris ou de président d’une Cour d’Appel, il décline d’ailleurs toutes les offres et reste fidèle à sa stricte vocation de défenseur. Résidant en zone occupée, il est en contact avec le franciscain Corentin Cloarec, un prêtre résistant (5), par l’intermédiaire duquel il apporte une aide matérielle à de nombreux enfants et à quelques familles déshéritées. Sur le plan professionnel, il prête gracieusement assistance à de nombreux résistants et réfractaires au travail obligatoire, ce qui lui vaudra d’être perquisitionné à deux reprises par la Gestapo.

 

De l’ambassade à la prison

 

N’ayant jamais perdu le contact avec ses anciens clients oustachis, Me Desbons se félicite, bien sûr, de la proclamation de l’État Indépendant Croate où il ne tarde pas – malgré les fortes réticences de l’Italie et du Reich – à être invité par les nouvelles autorités. Lors de ces visites, l’avocat met à profit les relations privilégiées qu’il entretient avec Ante Pavelić, le général Perčević et Andrija Artuković pour intercéder en faveur de quelques Français évadés des camps allemands. Désireux de lui témoigner la reconnaissance du peuple croate, le Poglavnik lui confère, le 11 janvier 1943, l’Ordre de la Couronne du Roi Zvonimir, l’une des plus hautes décorations de l’État Croate. À son corps défendant, Georges Desbons se trouve au cœur d’un imbroglio diplomatique difficile à résoudre : la France n’a reconnu la Croatie indépendante que de facto et Ante Pavelić souhaiterait obtenir une reconnaissance pleine et entière avec la désignation de Me Desbons comme ambassadeur, ce que l’héritage de Marseille rend fort délicat. En effet, le Poglavnik fait toujours l’objet en France d’une condamnation à mort, tandis que le chef du gouvernement et ministre des Affaires Étrangères français n’est autre que Pierre Laval, le successeur en 1934 de Louis Barthou ; quant au maréchal Pétain, c’est lui qui représentait l’armée française aux obsèques du roi Alexandre ! (6) Dans l’attente d’un dénouement satisfaisant, un accord commercial a été conclu par les deux pays et une permanence diplomatique est assurée à Zagreb par le consul André Gaillard ; faute d’être officiellement nommé ambassadeur, c’est donc en qualité de simple « chef de la légation française » que G. Desbons effectuera, en mars 1944, un dernier séjour à Zagreb.

 

Sitôt Paris libérée (août 1944), les ennemis de Me Desbons reprennent l’offensive, invoquant cette fois ses trois voyages en Croatie pour l’accuser de « collaboration » et de trahison. Il s’agit là, bien entendu, d’une pure calomnie mais elle conduit bel et bien l’avocat à la prison de Fresnes où il va passer plusieurs mois. Sarcastiques, les journaux de l’époque cherchent plus ou moins à le ridiculiser, à l’instar de Paris-Presse (07.02.1945) qui titre : « L’ambassade burlesque de Georges Desbons, le plus extravagant diplomate de Vichy qui ne passa que douze jours en Croatie et termina sa carrière à Fresnes ». Depuis sa cellule, l’avocat, dont la santé se détériore, tempête, proteste et exige l’abandon des poursuites. Finalement, sa libération est ordonnée en mars 1945 mais sans que la procédure soit pour autant abandonnée, ce qui ne saurait le satisfaire. « Le parquet de la Cour de Justice », écrit Le Monde (23.03.1945), « a décidé de mettre en liberté provisoire Georges Desbons, avocat au barreau de Paris, qui entretint d’étroits rapports avec le gouvernement croate et son chef Ante Pavelić. L’inculpé, qui escomptait un non-lieu, a refusé de quitter sa prison où il fait la grève de la faim depuis quatre jours ». En dépit d’un éloquent mémoire en défense et malgré les témoignages favorables de gens aussi éminents que le futur président du Conseil Antoine Pinay, les démêlées judiciaires de Georges Desbons s’éterniseront jusqu’en 1947.

 

Semper fidelis

 

Au sortir de toutes ces épreuves – dont la seule et unique cause, il faut bien le dire, est le procès de 1935 – Me Desbons ne renie rien de son engagement aux côtés des nationalistes croates. « La Croatie a droit à la Justice. Ce droit à la Justice implique la Liberté », réaffirme-t-il en 1954 dans les colonnes de l’almanach du Hrvatski Domobran. Toujours prêt à en découdre avec les diffamateurs, il demeure par ailleurs en contact épistolaire avec le Dr Ante Pavelić qu’il entretient régulièrement de diverses indiscrétions politiques que lui confient des relations bien informées et qu’il tient aussi au courant de ce qui agite la communauté croate de Paris. Approché par toutes sortes de faux amis et d’agents provocateurs qui cherchent à le compromettre, Me Desbons se tient prudemment à l’écart des intrigues, tout en exerçant discrètement son influence sur ceux qu’il appelle « les éléments purs de l’émigration ». « De chez moi », écrit-il au Père Branko Marić (7), « je suis resté l’ami fidèle de votre patrie. Dans la mesure de mes forces et de mes informations vraies, je démolis les échafaudages malhonnêtes, j’évite les erreurs qui, parfois, peuvent avoir de graves conséquences… Autrement dit, je reste identique à moi-même ». L’incontestable aura dont il jouit parmi les jeunes émigrés lui permet de contrecarrer efficacement les manœuvres ambiguës du Père Teodor Dragun, le recteur de la Mission Catholique Croate, et de son bras droit, le journaliste et poète Mato Vučetić (1892-1981), ancien attaché de presse de l’ambassade yougoslave. Hostiles au régime communiste (Vučetić est même le représentant officiel à Paris de Vlatko Maček), ces deux hommes sont également des adversaires déclarés du nationalisme croate ; associés à l’ancien député Roko Mišetić et à quelques Serbes et Slovènes, ils tentent (non sans mal) de mobiliser les expatriés croates derrière la dangereuse chimère d’une troisième Yougoslavie « démocratique ».

 

Désireux de laisser à la postérité son témoignage sur l’affaire de Marseille et de faire enfin connaître à tous ce qu’il aurait dit à Aix-en-Provence si on l’avait laissé plaider, Georges Desbons commence à réunir les pièces essentielles d’un futur gros ouvrage consacré à la question croate. Il n’en verra, hélas, pas la parution (8) car la maladie qui le mine finit par avoir raison de ses forces. Hospitalisé le 16 septembre 1962 à l’Hôpital Saint-Joseph de Paris, il y succombe le mercredi 26 septembre, aux alentours de 22h 30, après avoir reçu les derniers sacrements. Accouru quelques jours plus tôt, c’est son vieil ami, le Père Branko Marić, qui célèbrera la messe de Requiem dans la chapelle de l’hôpital. Arborant sur la poitrine, comme dans un dernier geste de défi, l’étoile de l’Ordre de la Couronne du Roi Zvonimir, le défunt sera inhumé le 1er octobre au cimetière de Saint-Cloud, en présence de deux membres de l’Académie Française et d’une délégation de jeunes patriotes croates. La Croatie venait de perdre un ami aussi fidèle que précieux.

 

 Christophe Dolbeau

 

Notes

 

(1) Georges Paulet, L’assassinat d’Alexandre 1er, Lyon, Éditions du Coq, 1949, 98.

 

(2) Ibid, 113.

 

(3) Ibid, 114.

 

(4) Seuls les accusés en fuite, Pavelić, Kvaternik et Perčević, sont condamnés à mort par contumace ; en cas d’arrestation, ils auraient eu droit à un autre procès.

 

(5) Il sera assassiné le 28 juin 1944 par des agents de l’Abwehr.

 

(6) À propos de Philippe Pétain : dans la nuit du 19 au 20 février 1973, un commando sortira clandestinement le cercueil du maréchal Pétain du cimetière de l’île d’Yeu, dans le but de le transférer à Verdun où le maréchal avait exprimé le souhait de reposer au milieu de ses soldats. Dans ce commando, qui sera arrêté trois jours après par la police, figurait le Croate Marin Špika, membre du Mouvement de Libération Croate.

 

(7) Lettre du 14 janvier 1960.

 

(8) À ce jour, seuls quelques extraits ont été publiés…

lundi, 24 septembre 2012

Henry Bauchau a pris la route des rêves

L’écrivain belge Henry Bauchau a pris la route des rêves

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau
 tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

L’auteur d’«Œdipe sur la route» et de «L’Enfant bleu» s’est éteint à 99 ans. Il laisse une œuvre marquée par les mythes, l’humain et la psychanalyse

On s’apprêtait à fêter son centenaire et le voilà qui s’en va, à 99 ans, dans son sommeil, quelques mois avant son anniversaire. Henry Bauchau était né le 22 janvier 1913 à Malines. Il s’est éteint dans la nuit de jeudi à vendredi à Paris. Il a vécu en Belgique, en Suisse et en France. «Henry Bauchau a écrit jusqu’à son dernier jour. Il voulait, disait-il «mourir la plume à la main», note Myriam Watthee-Delmotte de l’Université de Louvain, l’une des meilleures spécialistes de Bauchau*.

Il laisse derrière lui une œuvre lumineuse, imperméable aux modes, marquée par son histoire personnelle, par les guerres, par la psychanalyse, impressionnée par la beauté du monde, traversée par les grands textes classiques. Les écrits d’Henry Bauchau portent l’écho des grands mythes, mais ne s’éloignent pas de l’homme d’aujourd’hui.

La reconnaissance sera tardive même si son premier recueil de poèmes, Géologie, publié en 1958 (réédité en 2009 par Gallimard) obtient le Prix Max Jacob. Il faudra attendre 2008 et un septième roman pour qu’il reçoive, en France, le Prix du livre Inter. En Belgique, il patiente jusqu’en 1991, lorsqu’il entre à l’Académie royale de langue et de littérature françaises – l’équivalent de l’Académie française. En 1997, son Antigone (Actes Sud), un succès de librairie, lui vaudra le Prix Rossel, le «Goncourt belge».

Toute sa vie, Henry Bauchau a travaillé. Comme avocat dans les années 1930, il a fait des études de droit en Belgique, tout en militant au sein de la jeunesse catholique. Après la guerre – il sera résistant – il s’installe à Paris. Il entreprend deux psychanalyses. La première, qui dure jusqu’en 1950 sous l’égide de la femme du poète Pierre Jean Jouve, Blanche Reverchon, qu’il dénomme la «Sybille», lui indique la voie de l’écriture. La seconde, de 1965 à 1968, auprès de Conrad Stein, fera de lui un thérapeute.

Mais il faut vivre. La poésie, la peinture et le dessin, qu’il pratique également, ne nourrissent pas. En 1951, il déménage en Suisse et ouvre à Gstaad l’Institut Montesano qui accueille notamment de riches et jeunes Américaines. Il enseigne la littérature et l’histoire de l’art. Il tisse des liens. Rencontre Philippe Jaccottet. Publie des livres aux Editions de l’Aire (La Pierre sans chagrin. Poèmes du Thoronet en 1966 ou Célébration en 1972), chez Pierre Castella (La Dogana. Poèmes vénitiens avec la photographe Henriette Grindat, 1967); il écrit dans la revue Ecriture.

En 1973, l’Institut Montesano ferme. C’est le retour à Paris et le début de ses activités de thérapeute. Il utilise l’expression artistique dans les cures qu’il mène auprès d’adolescents en rupture, puis comme psychanalyste. Il rencontre Lionel Douillet, «l’enfant bleu», un jeune aliéné avec lequel il expérimente les vertus de l’art comme thérapie. Il l’encourage à dessiner, le suit pendant une quinzaine d’années et le mène vers une forme d’épanouissement.

Les romans d’Henry Bauchau portent, tout au long de sa vie, la trace de ses interrogations existentielles. La Déchirure (Gallimard, 1966) rejoue ses relations avec sa mère; Le Régiment noir (1972) explore la vie rêvée de son père. Il puise dans les mythes tout en s’ouvrant sur la poésie, le monde et le trajet personnel de chacun: Œdipe sur la route (1990 chez Actes Sud qui l’édite depuis lors) ouvre un cycle œdipien dont fait partie son Antigone de 1997.

Les années 2000 seront marquées par ses souvenirs de jeunesse et ses expériences thérapeutiques: L’Enfant bleu (2004) retrace les relations d’une thérapeute et de son jeune patient; Le Boulevard périphérique (2008) est un trajet vers la mort où surgissent des souvenirs de guerre; Déluge (2010) raconte une libération par la peinture sur fond d’Arche de Noé; L’Enfant rieur (2011) est le récit d’une jeunesse rêvée. «Je pense, disait-il au site Remue.net à propos de ses textes, que c’est le fait de mon attention à la vie courante et en même temps la préoccupation spirituelle qui fait la qualité de mon œuvre, si jamais elle en a.»

* L’hommage de Myriam Watthee-Delmotte et une foule d’informations sur l’écrivain: bauchau.flter.uclac.be

La Lumière Antigone, livret d’Henry Bauchau, musique de Pierre Bartholomée, est donné ce week-end au Temple allemand à La Chaux-de-Fonds. Rens. www.abc-culture.ch

lundi, 14 mai 2012

Nolte, Nexus und Nasenring

Nolte, Nexus und Nasenring

von Thor v. Waldstein

Ex: http://www.sezession.de/

gerlich-nolte.jpgÜber die Späten Reflexionen und die Italienischen Schriften Ernst Noltes ist es zwischen Siegfried Gerlich, Thorsten Hinz und Stefan Scheil zu einer Debatte gekommen (Sezession 45 und Sezession 46). Sie hat deutlich gemacht, wie ambivalent der Blick auf das Werk des im 90. Lebensjahr stehenden Geschichtsdenkers sein kann. Das spricht nicht zuletzt für den Autor Nolte, dessen Feder es offensichtlich gelungen ist, geistige Attraktion für ganz unterschiedliche historische Denkansätze zu entfalten.

Dieser Befund deckt sich mit der Erfahrung des Verfassers dieser Zeilen, der fast jedes Werk Noltes gerade wegen dessen nüchtern-sezierendem Stil mit Gewinn gelesen hat, obwohl er die Anhänglichkeit Noltes zu dem »liberistischen Individuum« bzw. zu dem von diesem verkörperten »liberalen System« weder teilt noch versteht. Was aber bei jedem, der Nolte gerecht werden will, bleibt, ist der Respekt vor der souveränen Stoffbeherrschung, vor einer bewundernswürdigen Lebensleistung und vor der Unbeirrbarkeit, mit der Nolte die eigenen wissenschaftlichen Erkenntnisse und Thesen gegen das Meer der bundesdeutschen Anfeindungen spätestens seit dem Habermas-Skandal 1986 (dem sogenannten »Historikerstreit«) verteidigt hat.

Und damit sind wir schon bei dem, was bei dem »Sezession-Autorenstreit« vielleicht etwas zu kurz gekommen ist: nämlich der Erforschung der – eminent politischen – Frage, weswegen Ernst Nolte heute in der Bundesrepublik ein historiographischer Paria ist, der unter dem Verdacht des »Verfassungsfeindes« steht (Stefan Breuer) und dessen Werke wertfrei oder gar positiv zu zitieren der beste Weg sein dürfte, die eigene akademische Karriere gegen die Wand zu fahren. Hat diese Stigmatisierung allein mit mißliebigen wissenschaftlichen Erkenntnissen Noltes zu tun oder offenbart die Causa Nolte nicht vielmehr polit-psychologische Wirkmechanismen, die für das Verständnis des Staates, in dem wir leben, von nicht unmaßgeblicher Rolle sind? Hat Nolte mit seiner zentralen These von dem Kausalnexus zwischen Bolschewismus und Nationalsozialismus möglicherweise an Tabus der »Vergangenheitsbewältigung« gerüttelt, die in tieferen Bewußtseinsschichten der homines bundesrepublicanenses fest verankert sind?

Bekanntlich war es Armin Mohler, der sich 1968 – pikanterweise veranlaßt durch einen Auftrag der Bonner Ministerialbürokratie – erstmals gründlich mit dem Phänomen der Vergangenheitsbewältigung befaßte. 1989 widmete er sich demselben Thema erneut und legte im einzelnen dar, wie die Deutschen seit 1945 am Nasenring der Vergangenheitsbewältigung vorgeführt werden. Ausgangspunkt Mohlers war zunächst die Feststellung, daß es weder möglich noch wünschenswert sei, daß ein Volk seine Vergangenheit bewältige. Nicht nur jedem Individuum, sondern auch einem Volk sei ein Recht auf Vergessen zuzubilligen. Diejenigen, die gleichwohl die Maschinerie der unablässigen Vergangenheitsbewältigung in Gang gesetzt hätten, würden dies in der Absicht tun, sozialpsychologisch determinierte Komplexe heranzuzüchten, um diese anschließend in den Dienst bestimmter politischer Ziele zu stellen. Endstufe sei der entortete Deutsche, der angesichts der NS-Katastrophe nach und nach ein perverses Verhältnis zu den Traditionen seiner Vorfahren entwickle, und dessen Deutschsein man am Ende vor allem daran erkenne, daß er alles sein wolle: Europäer, Weltbürger, Pazifist usw. – nur kein Deutscher mehr. Damit erwies sich die Vergangenheitsbewältigung als konsequente Fortsetzung der nach 1945 von der US-amerikanischen Besatzungsmacht ins Werk gesetzten »Re-education«, also des »Versuchs, den deutschen Volkscharakter einschneidend zu ändern, auf daß die politische Rolle Deutschlands in Zukunft von außen kontrolliert werden könne« (Caspar von Schrenck-Notzing).

Man braucht keine besonders gute Beobachtungsgabe für die Feststellung, daß dieser Versuch einer »Charakterwäsche« der Deutschen heute als weitgehend gelungen angesehen werden kann. Der Prototyp des ferngesteuerten, von historischen Komplexen regelrecht aufgeblasenen Deutschen begegnet einem auf Schritt und Tritt. Es gibt keine Talk-Show, kein Lehrerzimmer, keine Redaktionsstube, keinen Seminarraum, wo man sich nicht laufend der zu Tode gerittenen Distanzierungsvokabel »Nazi« bedient, um die Kappung der historischen Entwicklungslinien Deutschlands als »demokratische Errungenschaft« zu feiern. Kurioserweise läßt sich der Bundesbürger durch dieses permanente »Strammstehen vor den politisierten, mythologisierten Begriffen« (Frank Lisson) nicht in seiner höchstpersönlichen Glückseligkeit stören, was Johannes Gross einmal zu der paradox-treffenden Bemerkung veranlaßte, »die Bundesrepublik Deutschland (sei) ein übelgelauntes Land, aber ihre Einwohner sind glücklich und zufrieden«.

1079598_3049332.jpgJenseits dieser privaten Partydauerstimmung, in der man die eigene Vita der Amüsementsteigerung widmet, weiß der Deutsche von heute aber sehr genau, wo und auf welche Schlüsselworte hin er auf Moll umzuschalten hat: beim Befassen mit dem Düsterdeutschland der Jahre vor Neunzehnhundert-Sie-wissen-schon. Gerät man auf diesem kontaminierten Gelände auch nur unter Verdacht, die geschichtspolitischen Dogmen nicht hinreichend verinnerlicht zu haben oder offenbart man gar Ermüdungserscheinungen bei dem Distanzierungsvolkssport Nummer eins, dem Einprügeln auf die herrlich toten »Nazis«, darf man sich nicht wundern, wenn man eines schönen Tages als »Rechtsextremist« o.ä. aufwacht. Diesem Umstand ist es zu verdanken, daß sich zwischenzeitlich die meisten NS-Forschungsfelder in politisch-psychologische »No-go-areas« verwandelt haben, in denen nicht Erkenntnisdrang, sondern penetranter Dogmatismus den (Buß-)Gang der Dinge bestimmt.

Der Nationalsozialismus ist daher weiter der zentrale »Negativ-Maßstab der politischen Erziehung« (Martin Broszat) und darf im Sinne derer, die sich der politischen (Ver-)Bildung von bald drei Generationen in Deutschland gewidmet haben und weiter zu widmen sich anschicken, gerade nicht historisiert werden. Gefragt ist moralisch-verschwommene Befindlichkeit, nicht wissenschaftlich-präzise Analyse. Auf diesem Terrain herrscht ein zivilreligiös aufgeladener Machtanspruch, der hinter Kant und die Aufklärung zurückfällt und der in der Geschichte der europäischen Neuzeit ohne Beispiel ist. Auf diesem, von Psycho-Pathologien beherrschten Feld ist »souverän …, wer über die Einhaltung von Tabus und Ritualen verfügt« (Frank Lisson).

Es geht also um Macht und nicht um Wahrheit, um Deutungshoheit und nicht um historische Erkenntnis, um Kampagnenfähigkeit und nicht um seriöse wissenschaftliche Methode. Es geht darum, jeglichen jenseits des aufoktroyierten Neusprechs liegenden, originären geistigen Denkansatz zu dem historischen Phänomen des Nationalsozialismus sofort zu skandalisieren und damit seiner Wirkung zu berauben.

Der seit 1986ff. in der Öffentlichkeit der Bundesrepublik Deutschland geführte »Streit um Nolte« ist also in seinem Kern keine historische Fachdiskussion, er ist – neben vielen anderen Beispielen dieser Art – ein besonders sig¬nifikanter Ausdruck eines gesteuerten Debatten¬ablaufs in einem unfreien Land. Noltes Nexus-Theorie ist den Politgewinnlern der deutschen historischen Tragödie 1914ff. ein Dorn im Auge, weil sie durch ihren actio-reactio-Ansatz das NS-Singularitätsdogma und den darauf aufbauenden Machtanspruch der Vergangenheitsbewältigung gefährdet.

Daß Lenin und erst recht Stalin keine russischen Dalai Lamas waren, wissen zwar alle; die Bedrohung Europas durch den bolschewistischen Ideologiestaat aus dem Osten muß aber aktiv beschwiegen werden, um den dialektischen Prozeß, von dem die Geschichte des Zweiten Dreißigjährigen Krieges 1914–1945 wie kaum eine andere Epoche zuvor bestimmt wurde, zu entkoppeln. Das dient zwar nicht dem historischen Verständnis, befördert aber den Tunnelblick auf die deutschen Untaten, mit dem sich auch im 21. Jahrhundert gute Geschäfte und konkrete Politik machen läßt.

Diese selektive, dauerpräsente Vergangenheit darf nicht vergehen. Sie stellt ein wichtiges Instrument dar, auf das auch morgen nicht verzichtet werden kann, soll die Bundesrepublik weiter als ein politisch desorientierter Staat erhalten bleiben, dem die Pflege der deutschen Neurosen wichtiger ist als die Gestaltung der deutschen Zukunft. Deswegen kann es nicht verwundern, daß eben dieses sozialpsychologische Neurosenfeld groteskerweise an Umfang und an Ansteckungskraft in dem Maße zunimmt, wie sich der zeitliche Abstand zum 8. Mai vergrößert.

Die seit bald 70 Jahren währende Dauerbesiegung des Zombies aus Braunau hat freilich ihren Preis: Es ist ein – von dem unablässig rotierenden Freizeit-, Unterhaltungs- und Urlaubskarussell nur mühsam zu übertönendes – Klima der Zukunftslosigkeit in Deutschland entstanden, das durch nichts besser gekennzeichnet wird als durch die Kinderlosigkeit eines Landes, in dem die Attribute deutsch und alt immer häufiger zusammenfallen. Manches spricht dafür, daß die ethnische Abwärtsspirale, in der sich die Deutschen heute befinden, viel zu tun hat mit der mentalen Todessehnsucht, von deren süßlichem Verwesungsduft das unablässige Rattern der Vergangenheitsbewältigungsmaschinerie umschleiert wird.

Die Abwicklung der Deutschen (demographische Implosion und »Umvolkung«) ist dabei nur die letzte Konsequenz eines Geschichtsbildes, das den (Auto-)Genozid der Deutschen seit ca. 1970 als gerechte Strafe für das Geschehen vor 1945 auffaßt. Schließlich kann das abstrakt-moralische Gebot, von deutschem Boden dürfe nie wieder Krieg ausgehen, am besten dadurch erfüllt werden, daß die Deutschen von eben diesem Boden ihrer Väter und Vorväter verschwinden, und zwar endgültig. Bei der Vergangenheitsbewältigung geht es somit um alles andere als um historische Erkenntnis oder um wissenschaftliche Seriosität, es geht um Zukunftsverhinderung, »um die Vernichtung alles dessen, was deutsch ist – was deutsch fühlt, deutsch denkt, sich deutsch verhält und deutsch aussieht« (Armin Mohler).

2261792492.jpgWer als junger Deutscher zu einem solch aberwitzigen »mourir pour Auschwitz« nicht bereit ist, wird gnadenlos mit der »Hitler-Scheiße« (Martin Walser) zugedeckt und läuft Gefahr, als »Heide der Gedenkreligion des Holokaust« (Peter Furth) über Nacht seine sozialen Beziehungen zu verlieren. Denn wer ein Tabu übertreten hat, wissen wir seit Freud, wird selbst tabu. Die dazu erforderliche braune Lava wurde und wird von den Niemöllers, Eschenburgs, Wehlers, Benz’, Knopps e tutti quanti seit Jahrzehnten am Blubbern gehalten. Ein Solitär wie Nolte, der – ganz ohne den Mundgeruch der Bewältigungstechnokraten – die historischen Abläufe 1917ff. nüchtern und mit luziden Zwischentönen analysiert, könnte bei diesem Simplifizierungsgeschäft nur stören.

Es spielt dann auch keine Rolle mehr, daß es gerade Nolte war, der, weil er Hitler verstanden und nicht zu »bewältigen« versucht hat, das geschichtsphilosophisch Einzigartige des NS-Judenmordes präzise herausgearbeitet hat (Der Europäische Bürgerkrieg, S. 514–517). Um die jüdischen Opfer des Nationalsozialismus – darunter eine große Zahl patriotischer Reichsdeutscher, für die das Deutschland des Jahres 2012 einen Alptraum dargestellt hätte – geht es den Matadoren der Vergangenheitsbewältigung ohnehin nicht. Ihr Andenken mißbrauchen sie genauso, wie sie jenes an die Männer schänden, die für das Land der Deutschen als Soldaten ihren Kopf hingehalten haben.

Das selektive Erinnern und das Nichtvergessenwollen erweist sich dabei als der sicherste Weg, eine Zukunft der Deutschen zu verhindern. Denn die Kraft zur geschichtlichen Existenz eines Volkes setzt stets voraus, daß es den Willen hat weiterzuleben. Und diesen Willen kann ein Volk nur dann behaupten, wenn man ihm ein Recht zubilligt, nicht nur mit anderen, sondern zuallererst mit sich selbst in Frieden zu leben. Das wiederum setzt voraus, daß Wunden verheilen und irgendwann ein mentaler Neuanfang stattfindet. Dieser ist indes nur denkbar, wenn zuvor der an allen Orten und zu allen Zeiten ausschlagende »Nazometer« (Harald Schmidt) endlich ausgeschaltet wird. Das Geheimnis der Versöhnung ist eben nicht die Erinnerung, schon gar nicht die sakralisierte und instrumentalisierte Erinnerung der heutigen Hüter unserer Vergangenheit, die sich anmaßen, noch die deutschen Jahrgänge 2000ff. nach dem Pawlowschen Taktstock der Vergangenheitsbewältigung tanzen zu lassen.

Deren Zweck erschöpft sich heute nicht nur in »der totalen Disqualifikation eines Volkes« (Hellmut Diwald); Ziel dieser 27. Januar-Kultur (ausgerechnet Mozarts Geburtstag!) ist es, das seelische Immunsystem der Deutschen – auch an den 364 übrigen Tagen des Jahres – so weit(er) zu zerstören, daß die Deutschen schließlich die ethnische Verabschiedung von ihrem eigenen Grund und Boden, die Zweite Vertreibung der Deutschen, die in vielen Stadtteilen deutscher Großstädte schon weit fortgeschritten ist, mindestens gleichgültig hinnehmen, wenn nicht gar als »Urteil« der Geschichte begrüßen.

Ein altes Kulturvolk Europas, dem die Menschheit in der Musik fast alles, in der neuzeitlichen Philosophie das wesentliche und in den Natur- und Geisteswissenschaften sehr viel zu verdanken hat, wäre dann verschwunden. Ob diese »Endlösung der deutschen Frage« (Robert Hepp) eintritt oder nicht, liegt nicht zuletzt an den Deutschen selbst, denen es freisteht, morgen den Nasenring abzulegen und das zu tun, was für jeden Kirgisen, jeden Katalanen und jeden Kurden selbstverständlich ist: nämlich als Volk frei über die eigene Zukunft zu bestimmen.

Literatur:
Siegfried Gerlich: Ernst Nolte. Profil eines Geschichtsdenker, Schnellroda 2010
Ernst Nolte: Späte Reflexionen, Wien 2011
Ernst Nolte: Italienische Schriften, Berlin 2011

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vendredi, 27 avril 2012

Jonathan Bowden’s Kratos

In Remembrance of the Surrealist British Artist and Philosopher Jonathan Bowden

Jonathan Bowden’s Kratos

By John Michael McCloughlin

Ex: http://www.counter-currents.com/

kratos.jpgJonathan Bowden
Kratos and Other Works [2]
London: The Spinning Top Club, 2008

The book Kratos was published by the Spinning Top Club in very early 2008. It extends over 157 pages. It consists of four independent stories of around the same length.

The first (“Kratos”) deals with a Lombrosian tale about criminality and psychopathia. It delineates a Yorkshire axe-man called Billy-O or Dung Beetle whose intentions are fundamentally misread by an upper-class fop, Basildon Lancaster.

One might characterize it as an exercise in Degeneration theory from the late nineteenth century brought up to date — hence its debt to Cesare Lombroso’s Criminal Man from 1876, I believe. A highly filmic coloration befits this piece — almost in a lucid or paranormal light  and this lends it a dream-like or magical intention. Bowden’s pieces tend to be extremely visual, oneiric, outsider drawn or filmic in compass — he is definitely what could be called a Visualiser. There also, to this particular critic, seems to be a correlation between all of these fictions and the comics or graphic novels that he produced as a child. All of them have a violent, immediate and aleatory dimension, to be sure, yet I infer something more.

What I mean is that just like a film which is planned on a story-board, for example, these literary tales move simultaneously on many levels and with a visual candor. It is almost as if Mister Bowden split his creative sensibility in moving from boy to man: the verbal bubbles or lettering (as they are called) in the graphic novels split off to become fictions; while the images morphed into fine art-works. They became stand alone paintings in their own right.

Kratos deals with insanity but on distinct levels, some of which fast forward and back — while parallel dimensions, parts of the mind, stray visual eddies or prisms, and telescoped refractions all recur. This filmic quality proceeds throughout the piece akin to Hitchcock or Blatty, but a strong narrative impulse bestrides this magic realism. It lends the excoriation at the tale’s end something akin to the reverberation of Greek tragedy.

From a Right-wing or elitist perspective, I think that Bowden’s fictional trajectory works in the following manner. From the very beginning there is an exoteric dimension (much like the political trappings of a reasonably notorious political movement from early in the twentieth century). This deals with the artistry, story, structure, prism effect in terms of H. T. Flint’s Physical Optics, as well as the narratives dealt with above.

But, in my view, there is another hidden, buried, esoteric, occultistic, and numinous aspect. It is slightly and from a liberal perspective rather scandalously linked to a thesis in the book Nietzsche, Prophet of Nazism [3] by a Lebanese and Maronite intellectual [4]; together with the Occultistic text The Morning of the Magicians. This inner urge or poetic trope is an attempt to create the Superman via a manipulation of consciousness.

Most Western cultural standards, menhirs, sacred stones, or objects on the ground have been devastated or destroyed — even though the odd echo can be heard. (This might be said to be a small Classics department at a provincial university, for instance.) Nonetheless, Bowden preaches re-integration — beginning within oneself — and ending up with the maximalization of strength. One should remember or factor in that almost every other literary tendency is contrary or reverse-wise. Characters are chaotic, broken, stunted, uncertain, apolitical, non-religious, without any metaphysic whatsoever, chronically afraid, sexually and emotionally neurotic, tremulous about death, et cetera . . .  While Bowden’s Oeuvre intimates the re-ordination of the Colossus — both gradually and over time.

Hence we begin to perceive a glacial imprimatur in his work; in that characterization is non-Dual, beyond good and evil, semi-Gnostic, Power oriented in the manner of Thrasymachus, “demented,” furious, even non-Christian. It ennobles the prospect of Odin without the overlay of Marvel Comics and as a Trickster God . . . i.e., it’s the moral equivalent of Batman’s Joker as reviewed, via The Dark-Knight [5], elsewhere on this site. It also ramifies with the words of the anti-humanist intellectual, Bill Hopkins, who, in a cultural magazine close to the polymath Colin Wilson known as Abraxas, once remarked: “The purpose of literature is to create New Titans.”

One other cultural idea suffices here . . . this has to do with Joseph Goebbels’ answer to a question about his interpretation of the Divine. This should be seen as part of the frontispiece of his expressionist novel Michael, a third positionist work from the ‘twenties. He described “God” as a multi-proportioned or eight-limbed idol, replete with heavy jambs and rubiate eyes, and possibly constructed from orange sandstone. Such an effigy was associated with the following: flaming tapers or torches, brands, naked female dancers, and human sacrifice. To which the Herr Doktor’s interlocutor remarked: “It doesn’t sound very Christian to me!” The propaganda minister’s response came back as quick as a shot: “You’re mistaken; THAT IS CHRIST!”

I think that Jonathan Bowden believes much the same about the meta-ethic of his own literary output. The other stories in this volume were Origami Bluebeard” (a marriage, a murder, a threnody, a Ragman, a take on Thomas Carlyle’s Sartor Resartus); “Grimaldi’s Leo” (a lighter variant on Animal Liberation), and “Napalm Blonde.” This was an attempt at Greek Tragedy, configures a Tiresius who maybe alone but not in a wasteland, and happens to be radically heterosexualist after Anthony Ludovici’s analysis.

For those who have ears to hear — let them hear.

Note: Kratos can be read or purchased here [2].


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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2010/10/kratos.jpg

[2] Kratos and Other Works: http://www.jonathanbowden.co.uk/publications.html

[3] Nietzsche, Prophet of Nazism: http://www.amazon.com/Nietzsche-Prophet-Nazism-Superman-Unveiling-Doctrine/dp/1420841211/ref=sr_1_1?ie=UTF8&s=books&qid=1286602280&sr=1-1

[4] a Lebanese and Maronite intellectual: http://www.counter-currents.com/tag/abir-taha/

[5] The Dark-Knight: http://www.counter-currents.com/2010/09/the-dark-knight/

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jeudi, 26 avril 2012

Jonathan Bowden, RIP

Jonathan Bowden, RIP


Ex: http://www.alternativeright.com/

This morning, I was devastated to learn of the death of Jonathan Bowden, the orator, artist, novelist, and writer.  Life on this earth is fleeting, and I am grateful for the fact that over the past three months, I collaborated with Jonathan on a series of podcasts that covered many of his intellectual passions, from  Nietzsche to the New Right to Spengler to Marx.

Around three weeks ago, we were planning an additional one on Ernst Jünger, when I suddenly lost touch with Jonathan.  Knowing he had suffered a breakdown in the past, I felt a definite angst as I would ring his number and receive no answer... In the end, my worst fears were realized.  According to a person close to him, who relayed the news to me, Jonathan succumbed to a cardiac arrest while at his home in Berkshire.

I first encountered Jonathan in 2009 at a conference at which he was the keynote speaker. We met over lunch on the day before he was to talk, and my impression at the time was of a man who was soft-spoken,  professorial, reserved, and a maybe a bit queer. He wore a necklace with a Life Rune etched into a wooden medallion, which gave hints of what was to come...

When Jonathan’s turn at the podium came the next evening, he strode confidently to the stage and announced, in a resonate and booming Heldentenor, that he would not be needing a microphone. Immediately, everyone in the room was on the edge of his seat. What followed was not a talk on a particular topic or issue, but instead a expression of a worldview—or perhaps a channelling of the life-force or the evoking of a demonic spirit.  As Louis Andrews noted afterwards, Jonathan Bowden’s doesn’t give talks or speeches; he gives orations. Perhaps a better descriptor would be performances.

In our age of CGI, virtual reality, and YouTube, it’s easy to forget the power of presence—of experiencing a great performer in person. Experiencing Bowden in 2009 has, for everyone who was there, been much like experiencing Maria Callas singing a Verdi heroine or an address by Mussolini from a Roman balcony. 

And while the first oration I heard was on nothing less than everything—the spiritual, geopolitical, and social condition of Western man in the 21st century—Jonathan could also speak on philosophic and historical topics with a scholar’s discernment and breadth of knowledge, as evidenced by our podcasts.  Indeed, I know of no other person who could combine Bowden’s gifts as a performer with a familiarity with the Western canon one would expect only in a monk.

When I eventually read Jonathan’s novels, I found them to be on the level of Finnegan’s Wake in terms of esoteric, cryptic complexity. On the other hand, in his public engagements, Jonathan could boil down to an essence the thought of difficult thinkers, such as Heidegger and Evola, and present their ideas in ways that were useful to nationalists.  

Though the two of us would have personal conversations, I never felt that I actually knew Jonathan, owing, no doubt, to his distant nature and the fact that I was always intimidated by the fire-breather I had encountered some two years earlier. Nevertheless, Jonathan deeply affected my thinking and I treasure our friendship, as short-lived and limited as it was.

I hope it is not an insult to Jonathan Bowden’s memory to say that he always lived on the edge of madness. This was the source of his power, and it seems to have predestinated that he would have all-too short a life.

Jonathan cannot be replaced, and his words will continue to inspire us. But as we weep, Valhalla rejoices.

 
Richard Spencer

Richard Spencer

A former assistant editor at The American Conservative and executive editor at Taki's Magazine (takimag.com), Richard B. Spencer is the founder and co-editor of AlternativeRight.com

Remembering Jonathan Bowden

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Remembering Jonathan Bowden

By Greg Johnson

http://www.counter-currents.com/

The word on the web is that Jonathan Bowden, the formidable British right-wing orator, modernist painter, and surrealist novelist, is dead of a heart attack at age 49.

I hope instead that Jonathan is just the victim of a terrible online prank. (Lies have been spread about him before.) Or maybe he is playing a prank of his own. If anybody I know could fake his own death, it is Jonathan. I hope he is reading his obituaries right now . . . and roaring with laughter.

I first met Jonathan in Atlanta in October of 2009 while I was the Editor of The Occidental Quarterly. I was organizing a private gathering for TOQ writers and supporters, and I wanted Michael Walker to give the keynote address.

Unfortunately, the final decision fell to somebody who had been completely upstaged by Walker at the 2008 American Renaissance Conference. So, perhaps on the assumption that one Englishman should be as good as another, I was informed that the speaker would be Jonathan Bowden, someone I had never even heard of, much less heard speak. But I was assured that he had an excellent reputation as an orator.

I looked at Bowden’s website and had a good chuckle, imagining how his Nietzscheanism, paganism, and aggressive aesthetic modernism would play in the Bible Belt.

I liked Jonathan’s paintings enough to end up buying two of them and commissioning two more. But I thought his works of fiction were unreadable. The essays he had online, moreover, seemed half-baked. (He was later to write much better ones for Counter-Currents, but it was never his forte.) At the time, I had not seen his YouTube videos, and I foolishly inferred from his writings that he could not be much of a speaker — which, I suspected, was the real reason he had been invited.

The afternoon before the meeting, I received a panicked call from Jonathan. He was at the Atlanta Airport. The individual who was supposed to pick him up was more than 40 minutes late. Jonathan’s mobile phone did not work in the US, and the tardy party was not answering his, so he had no idea what to do. I gave Jonathan my address and told him to jump in a cab.

About 40 minutes later, Jonathan arrived in good cheer. He was wearing a rumpled black suit and tie. Around his neck was a wooden pendant inscribed with an Odal rune. He asked me how I thought it would go over in Atlanta. I suggested that if anyone asks, he simply declare it to be the sign of the fish.

He wore thick spectacles, but when he wanted to read something, he would study it under a magnifying glass he drew from his pocket.

[2]

Jonathan Bowden, "Adolf and Leni"

When he spoke, he gestured dramatically with a long, thin cardboard box labeled “Samurai Sword – Made in Taiwan.” I joked that it must have been a hit at airport security. Then he opened it up, and, with a flourish, unrolled two watercolors that I had purchased from him, “Adolf and Leni” and “Savitri Diva.”

“This is going to be interesting,” I thought.

What impressed me most about Jonathan was not his diverting eccentricity, but his intelligence, vast reading, and devastating wit.

On his own, he could be quiet and pensive. His face would take on an impassive mask-like quality, enlivened only by a penetrating, sometimes unsettling gaze. But when Jonathan had the right kind of audience, he would come alive. He had an endless supply of interesting stories, often told with hilarious impressions. He was one of the funniest, most brilliant, and most intellectually stimulating people I have ever known.

When the night of Jonathan’s speech came, I asked him what he was going to talk about. He said that he had no idea. My stomach tightened. “This is going to be really interesting,” I thought.

Mike Polignano has already told the story of how when Jonathan took the stage, he swept aside the shrieky, malfunctioning microphone and filled a ballroom with his unamplified voice, speaking extemporaneously and fluently for two hours. Jonathan’s speech that night was quite simply the greatest speech I had ever heard. He upstaged all of creation that day.

Naturally, he was not invited back. (He was invited to speak at American Renaissance and the National Policy Institute, although he cancelled both times.)

When Mike Polignano and I started Counter-Currents in June of 2010, Jonathan was very supportive. He wrote 27 original articles and reviews [3] for Counter-Currents. (He also wrote eight more pieces for Counter-Currents under a pseudonym.) He told me that he wrote most of these pieces from memory. He would go to a local public library where he could use a computer for an hour at a time, and he would write an essay as if it were a timed university examination. We discussed publishing a collection of essays on fascistic themes in popular literature to be entitled Pulp Fascism.

There were periods when Jonathan wrote for us weekly, but then he would turn his attention to literary projects. Many of these were available as free E-books on his website, which is no longer online. If anybody has copies of these E-books, we will be glad to make them available from Counter-Currents.

The last thing Jonathan wrote for us, just three days before his reported death on March 29, was a blurb for Kerry Bolton’s Artists of the Right.

The last time I saw Jonathan was in February of this year. We flew him out to San Francisco to speak at a gathering of Counter-Currents writers and friends. Jonathan was in high spirits during his visit to the Bay Area. He was bursting with ideas, plans, and funny stories. His speech, “Western Civilization Bites Back,” is available here [4] in recorded and transcribed form. I also recorded a two hour interview with him about art and culture, which I will make available if it can be recovered from a damaged flash drive.

[5]

Jonathan Bowden, "Medusa Now Ventrix"

He brought me a third painting, “Medusa Now Ventrix,” and accepted a commission to do a fourth (to be entitled “Meat in the Walls”). (He charged me mere tokens — “friend prices.”)

Jonathan Bowden was an enormous asset to our cause, and we at Counter-Currents did everything we could to encourage and aid him in making the most of his talents. The same donor who made possible the trip also allowed us to buy Jonathan a new laptop to make it easier for him to write, and Mike Polignano tutored him on how to use it. We also gave him a podcasting kit, hoping that he would start doing weekly shows.

But his time ran out.

Forty-nine years is not enough time. But we can take some solace in the fact that Jonathan spent his time well: he lived, created, and spoke in the light of the truth as he saw it. That is a fuller, richer life than 99 years of lies, compromise, cowardice, and conventionality.

When I heard that Jonathan had died, I remarked to a friend, “If it is true, we all have to work harder.” But another friend pointed out that this presupposed that we could take Jonathan’s place, and we can’t. He is an irreplaceable talent. All we can do is rejoice in the time he spent with us, and make the most of the time we have remaining. Forty-nine isn’t that far off for a lot of us. We have a world to win. Let’s make every moment count.

 


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[3] 27 original articles and reviews: http://www.counter-currents.com/author/jbowden//

[4] here: http://www.counter-currents.com/2012/03/jonathan-bowdens-western-civilization-bites-back/

[5] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2010/08/bowden4.jpg

mardi, 17 avril 2012

Caspar von Schrenck-Notzing, RIP

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Caspar von Schrenck-Notzing, RIP

Paul Gottfried (2009)
 

PAUL GOTTFRIED is the Raffensperger Professor of Humanities at Elizabethtown College in Pennsylvania.

The death of Caspar von Schrenck- Notzing on January 25, 2009, brought an end to the career of one of the most insightful German political thinkers of his generation. Although perhaps not as well known as other figures associated with the postwar intellectual Right, Schrenck- Notzing displayed a critical honesty, combined with an elegant prose style, which made him stand out among his contemporaries. A descendant of Bavarian Protestant nobility who had been knights of the Holy Roman Empire, Freiherr von Schrenck- Notzing was preceded by an illustrious grandfather, Albert von Schrenck-Notzing, who had been a close friend of the author Thomas Mann. While that grandfather became famous as an exponent of parapsychology, and the other grandfather, Ludwig Ganghofer, as a novelist, Caspar turned his inherited flair for language toward political analysis.

Perhaps he will best be remembered as the editor of the journal Criticón, which he founded in 1970, and which was destined to become the most widely read and respected theoretical organ of the German Right in the 1970s and 1980s. In the pages of Criticón an entire generation of non-leftist German intellectuals found an outlet for their ideas; and such academic figures as Robert Spämann, Günter Rohrmöser, and Odo Marquard became public voices beyond the closed world of philosophical theory. In his signature editorials, Criticón's editor raked over the coals the center-conservative coalition of the Christian Democratic (CDU) and the Christian Social (CSU) parties, which for long periods formed the postwar governments of West Germany.

Despite the CDU/CSU promise of a "turn toward the traditional Right," the hoped-for "Wende nach rechts" never seemed to occur, and Helmut Kohl's ascent to power in the 1980s convinced Schrenck- Notzing that not much good could come from the party governments of the Federal Republic for those with his own political leanings. In 1998 the aging theorist gave up the editorship of Criticón, and he handed over the helm of the publication to advocates of a market economy. Although Schrenck-Notzing did not entirely oppose this new direction, as a German traditionalist he was certainly less hostile to the state as an institution than were Criticón's new editors.

But clearly, during the last ten years of his life, Schrenck-Notzing had lost a sense of urgency about the need for a magazine stressing current events. He decided to devote his remaining energy to a more theoretical task—that of understanding the defective nature of postwar German conservatism. The title of an anthology to which he contributed his own study and also edited, Die kupierte Alternative (The Truncated Alternative), indicated where Schrenck-Notzing saw the deficiencies of the postwar German Right. As a younger German conservative historian, Karl- Heinz Weissmann, echoing Schrenck- Notzing, has observed, one cannot create a sustainable and authentic Right on the basis of "democratic values." One needs a living past to do so. An encyclopedia of conservatism edited by Schrenck-Notzing that appeared in 1996 provides portraits of German statesmen and thinkers whom the editor clearly admired. Needless to say, not even one of those subjects was alive at the time of the encyclopedia's publication.

What allows a significant force against the Left to become effective, according to Schrenck-Notzing, is the continuity of nations and inherited social authorities. In the German case, devotion to a Basic Law promulgated in 1947 and really imposed on a defeated and demoralized country by its conquerors could not replace historical structures and national cohesion. Although Schrenck-Notzing published opinions in his journal that were more enthusiastic than his own about the reconstructed Germany of the postwar years, he never shared such "constitutional patriotism." He never deviated from his understanding of why the post-war German Right had become an increasingly empty opposition to the German Left: it had arisen in a confused and humiliated society, and it drew its strength from the values that its occupiers had given it and from its prolonged submission to American political interests. Schrenck-Notzing continually called attention to the need for respect for one's own nation as the necessary basis for a viable traditionalism. Long before it was evident to most, he predicted that the worship of the postwar German Basic Law and its "democratic" values would not only fail to produce a "conservative" philosophy in Germany; he also fully grasped that this orientation would be a mere transition to an anti-national, leftist political culture. What happened to Germany after 1968 was for him already implicit in the "constitutional patriotism" that treated German history as an unrelieved horror up until the moment of the Allied occupation.

For many years Schrenck-Notzing had published books highlighting the special problems of post-war German society and its inability to configure a Right that could contain these problems. In 2000 he added to his already daunting publishing tasks the creation and maintenance of an institute, the Förderstiftung Konservative Bildung und Forschung, which was established to examine theoretical conservative themes. With his able assistant Dr. Harald Bergbauer and the promotional work of the chairman of the institute's board, Dieter Stein, who also edits the German weekly, Junge Freiheit, Schrenck-Notzing applied himself to studies that neither here nor in Germany have elicited much support. As Schrenck-Notzing pointed out, the study of the opposite of whatever the Left mutates into is never particularly profitable, because those whom he called "the future-makers" are invariably in seats of power. And nowhere was this truer than in Germany, whose postwar government was imposed precisely to dismantle the traditional Right, understood as the "source" of Nazism and "Prussianism." The Allies not only demonized the Third Reich, according to Schrenck-Notzing, but went out of their way, until the onset of the Cold War, to marginalize anything in German history and culture that was not associated with the Left, if not with outright communism.

This was the theme of Schrenck-Notzing's most famous book, Charakterwäsche: Die Politik der amerikanischen Umerziehung in Deutschland, a study of the intent and effects of American re-education policies during the occupation of Germany. This provocative book appeared in three separate editions. While the first edition, in 1965, was widely reviewed and critically acclaimed, by the time the third edition was released by Leopold Stocker Verlag in 2004, its author seemed to be tilting at windmills. Everything he castigated in his book had come to pass in the current German society—and in such a repressive, anti-German form that it is doubtful that the author thirty years earlier would have been able to conceive of his worst nightmares coming to life to such a degree. In his book, Schrenck-Notzing documents the mixture of spiteful vengeance and leftist utopianism that had shaped the Allies' forced re-education of the Germans, and he makes it clear that the only things that slowed down this experiment were the victories of the anticommunist Republicans in U.S. elections and the necessities of the Cold War. Neither development had been foreseen when the plan was put into operation immediately after the war.

Charakterwäsche documents the degree to which social psychologists and "antifascist" social engineers were given a free hand in reconstructing postwar German "political culture." Although the first edition was published before the anti-national and anti-anticommunist German Left had taken full power, the book shows the likelihood that such elements would soon rise to political power, seeing that they had already ensconced themselves in the media and the university. For anyone but a hardened German-hater, it is hard to finish this book without snorting in disgust at any attempt to portray Germany's re-education as a "necessary precondition" for a free society.

What might have happened without such a drastic, punitive intervention? It is highly doubtful that the postwar Germans would have placed rabid Nazis back in power. The country had had a parliamentary tradition and a large, prosperous bourgeoisie since the early nineteenth century, and the leaders of the Christian Democrats and the Social Democrats, who took over after the occupation, all had ties to the pre-Nazi German state. To the extent that postwar Germany did not look like its present leftist version, it was only because it took about a generation before the work of the re-educators could bear its full fruit. In due course, their efforts did accomplish what Schrenck-Notzing claimed they would—turning the Germans into a masochistic, self-hating people who would lose any capacity for collective self-respect. Germany's present pampering of Muslim terrorists, its utter lack of what we in the U.S. until recently would have recognized as academic freedom, the compulsion felt by German leaders to denigrate all of German history before 1945, and the freedom with which "antifascist" mobs close down insufficiently leftist or anti-national lectures and discussions are all directly related to the process of German re-education under Allied control.

Exposure to Schrenck-Notzing's magnum opus was, for me, a defining moment in understanding the present age. By the time I wrote The Strange Death of Marxism in 2005, his image of postwar Germany had become my image of the post-Marxist Left. The brain-snatchers we had set loose on a hated former enemy had come back to subdue the entire Western world. The battle waged by American re-educators against "the surreptitious traces" of fascist ideology among the German Christian bourgeoisie had become the opening shots in the crusade for political correctness. Except for the detention camps and the beating of prisoners that were part of the occupation scene, the attempt to create a "prejudice-free" society by laundering brains has continued down to the present. Schrenck-Notzing revealed the model that therapeutic liberators would apply at home, once they had fi nished with Central Europeans. Significantly, their achievement in Germany was so great that it continues to gain momentum in Western Europe (and not only in Germany) with each passing generation.

The publication Unsere Agenda, which Schrenck-Notzing's institute published (on a shoestring) between 2004 and 2008, devoted considerable space to the American Old Right and especially to the paleoconservatives. One drew the sense from reading it that Schrenck-Notzing and his colleague Bergbauer felt an affinity for American critics of late modernity, an admiration that vastly exceeded the political and media significance of the groups they examined. At our meetings he spoke favorably about the young thinkers from ISI whom he had met in Europe and at a particular gathering of the Philadelphia Society. These were the Americans with whom he resonated and with whom he was hoping to establish a long-term relationship. It is therefore fitting that his accomplishments be noted in the pages of Modern Age. Unfortunately, it is by no means clear that the critical analysis he provided will have any effect in today's German society. The reasons are the ones that Schrenck-Notzing gave in his monumental work on German re-education. The postwar re-educators did their work too well to allow the Germans to become a normal nation again.

mercredi, 11 avril 2012

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Note de SYNERGIES EUROPEENNES: Enfin! Quelques instances officielles enBelgique rendent hommage à Raymond De Becker, peut-être grâce à la fidélité inébranlable que lui témoigne le doyen des lettres francophones du royaume, Henry Bauchau. Ce colloque, dont le programme complet figure en pdf en queue de présentation, fait véritablement le tourde laquestion. Puisse ce colloque être l'amorce d'une renaissance spirituelle et d'une nouvelle irruption d'éthique dans un royaume voué depuis près de six décennies à la veulerie.


La journée d'étude "Autour de Raymond De Becker" a eu lieu les 5 et 6 avril 2012 aux Facultés universitaires Saint Louis.
Raymond de Becker

Étrangement, la figure de Raymond De Becker (Schaerbeek, 30 janvier 1912 – Versailles, 1969), souvent évoquée dans les travaux des historiens, n’a encore fait l’objet d’aucun travail biographique. « Quant à Raymond De Becker », écrivait fort opportunément un « ami » d’André Gide, son histoire reste à écrire, car il semble que son passage du christianisme prophétique au fascisme virulent ait fait de lui un personnage non seulement sulfureux mais tabou » .


Après des études secondaires inachevées à l’Institut Sainte-Marie à Bruxelles, Raymond De Becker trouve à s’employer au sein d’une entreprise d’import-export américaine. Il quitte ce poste après un an pour entrer au secrétariat de l’ACJB à Louvain en tant que secrétaire général de la JIC (Jeunesse indépendante catholique – cercle de jeunesse des classes moyennes) qu’il a créée en mars 1928 avec sept autres jeunes industriels et commerçants. Il entre en contact avec des étudiants de Saint-Louis via Conrad van der Bruggen à l’été 1931 et participe à la fondation de l’Esprit nouveau et des Équipes Universitaires. Il interrompt ses activités fin décembre 1932 après le Congrès de la Centrale Politique de Jeunesse pour entreprendre une retraite mystique en France à Tamié où il a déjà effectué une reconnaisse au mois de septembre précédent de retour d’un voyage à Rome. Il met au point les premiers statuts du mouvement Communauté et revient en Belgique en novembre 1933 après un passage à Paris où il a rencontré André Gide. Ayant fait la connaissance d’Emmanuel Mounier à Bruxelles début 1934, il contribue à la pénétration des groupes Esprit en Belgique. De 1936 à 1938, il est associé au comité de rédaction de La Cité chrétienne puis passe à L’Indépendance belge d’où il est renvoyé en 1939. Il participe alors à la fondation du périodique neutraliste L’Ouest dirigé par Jean de Villers. Durant l’Occupation, il deviendra directeur éditorial des Éditions de la Toison d’Or et rédacteur en chef du « Soir volé ». Il rompra cependant avec la Collaboration en septembre 1943, justifiant sa rupture par l’incertitude manifestée par Léon Degrelle et les rexistes de s’attacher à défendre une structure étatique propre en Belgique. Il sera alors placé en résidence surveillée, d’abord près de Genappe puis à l’hôtel d’Ifen à Hirschegg dans les Alpes bavaroises en Autriche où il côtoie notamment André François-Poncet. Raymond De Becker sera condamné à mort le 24 juillet 1946 par le Conseil de guerre de Bruxelles. Il lui est alors essentiellement reproché d’avoir valorisé la Légion « Wallonie » et d’avoir soutenu en mars 1942 la mise en place du Service du Travail Obligatoire. Il sera cependant libéré en février 1951 mais contraint à l’exil. Il se réfugie en France où il poursuit une activité de publiciste principalement tournée vers la psychanalyse.

Ce colloque ambitionne donc d’aborder sans tabous cette figure capable de se mêler à tout ce qui compte dans les cénacles intellectuels belges et européens de l’entre-deux-guerres. A travers quatre sessions, qui rassembleront des universitaires belges et étrangers, il s’agira de revenir non seulement sur le parcours et les engagements du jeune publiciste dans les années 30 et 40, mais aussi de tenter de mesurer l’influence qu’il a pu exercer sur les nouvelles relèves belges et européennes. Cette démarche, essentielle, est compliquée par le fait que s’étant fourvoyé au nom de l’idée d’Europe unie dans la collaboration avec les nazis, le publiciste est devenu, dans la foulée de l’épuration, un « ami encombrant ».


En ce sens, les contributions devraient aussi permettre d’appréhender l’angle-mort qui apparaît immanquablement dans le parcours de nombreux personnages-clés de l’histoire intellectuelle, politique et artistique (Spaak, mais aussi Hergé, Paul De Man, Bauchau) avant et après la Deuxième Guerre mondiale.


A cet égard, il est encore à espérer que cette rencontre permettra aussi de retrouver la piste de papiers et d’archives « oubliées » ou en déshérence de/sur Raymond De Becker…


Les différentes interventions feront l’objet d’une publication à laquelle sera adjointe la correspondance conservée entre Raymond De Becker et Jacques Maritain conservée au Centre Maritain de Kolbsheim.


Programme du colloque

vendredi, 09 mars 2012

The Struggle of Jean Thiriart

Claudio Mutti:

The Struggle of Jean Thiriart

 

thiriart4400mill.jpgThe last thought I have about Jean Thiriart is a letter that he wrote to me some months before he died: he was searching for a place in the Appenins, where he could have some trekking experience for two weeks. Almost seventy years old, he was full of inner strength: he didn’t parachute since some years before, but he travelled on his aliscafe in the Northern Sea.

In the 70s, as a young activist in “Young Europe”, the organization he leaded, I met him several times. I knew him in Parma in 1964, near a monument that immediately charmed his “Eurafrican” sensibility: it was the monument of Vittorio Bottego, a famous traveler in Juba area. Then I met him in some meetings of “Young Europe” and in a camping on the Alps. In 1967, just before the Zionist aggression against Egypt and Syria, I was in a crowded conference that he had in Bologna, where he explained why Europe had to support the Arabian world against Zionism. In 1968, I participated to a meeting organized by “Young Europe” in Ferrara, where Thiriart completely developed the anti-imperialist line: “Here in Europe, the only anti-American pivot is and will be a European left-wing nationalism […] What I mean is that a popular-oriented nationalism will be necessary for Europe […] a European national-communism would cause a great chain-reaction in terms of enthusiasm […] Guevara said that many Vietnams are necessary, and he was right. We need to transform Palestine into a new Vietnam”. This one was the last speech that I listened to.

Jean-François Thiriart was born in Bruxelles on March 22 1922 in a liberal-oriented family which had come from Lieges. During his youth he was a member of the Jeune Garde Socialiste Unifiée and in the Socialiste Anti-Fasciste Union. During a not short period he cooperated with professor Kessamier, president of the philosophical society Fichte Bund, originated from the national-bolshevist movement; then, with some other far-left elements supporting the alliance between Belgium and the national-socialist Reich, he became a member of the association Amis du Grand Reich Allemand. Because of this reason, he was condemned to death by the Belgian dealers of the Anglo-American forces in 1943: the English radio putted his name in the proscription list that was communicated to the résistance with all the instructions. After the “liberation”, he was condemned through an article of the Belgian Penal Law System, modified by the Belgian dealers of the Atlantists. He remained in jail for some years and, when he was free, the judge decided to forbid him to write.

In 1960, during the decolonization of Congo, Thiriart participated to the foundation of the Comité d’Action et de Défense des Belges d’Afrique, then evolved into the Mouvement d’Action Civique. On March 4th 1962, as a member of this movement, Thiriart met many members of other political European groups, in Venice; the conclusion of these meetings was a common declaration, in which they decided to make common efforts to create a “European National Party, built on the idea of the European Unity, able to fight the American enslavement of Western Europe and to support the reunification with the Eastern nations, from Poland to Bulgaria passing through Hungary”.

However, the project of the European Party failed after a short time, especially because of the micro-nationalist tendencies expressed by Italian and German members of the Venice Manifesto.

The lesson that Thiriart learned from this failure is that the European Party cannot be created by an alliance of micro-national movements, but it must be an European common organization since the beginning. So, in 1963, “Young Europe” was born; it was a movement strongly organized and active in Belgium, Nederland, France, Switzerland, Austria, Germany, Italy, Spain, Portugal and England. The political plan of “Young Europe” is explained inside the European Nation Manifesto, which begins so: “Between the Soviet block and the US block, our role is aimed to the building of a great motherland: a united, powerful and communitarian Europe […] from Brest to Bucharest”. The choice was for a Europe strongly united: “‘Federal Europe’ or ‘Europe of the Nations’ are both conceptions hiding lack of honesty and the inability of the people who support them. […] We condemn micro-nationalisms which keep European inhabitants divided”.

Europe must choose a strong armed neutrality and he must conquer its own atomic capacity; it must “abandon the UN circus” and support Latin America, who “fights for its unity and independence”. The Manifesto tried to find an alternative choice equally distant from the dominant social systems in the two Europes, claiming the “superiority of the worker over the capitalist” and the “superiority of man over the sworm”: “we want a dynamic community with the participation to the work of all men who compose it”. A new concept of organic representation was opposed to parliamentary democracy: “a political Senate, the Senate of European Nation built on the European provinces and composed of the highest personalities in the scientific outlook, in work, in the arts and literature; a syndical House that represents the interests of all the producers of Europe, finally free from the financial tyranny and from the stranger policy”. The Manifesto ended in this way: “We refuse ‘Europe in theory’. We refuse legal Europe. We condemn Strasbourg’s Europe ‘cause of her crime of treason. […] Or we will have a nation or we won’t have the independence. Against this legal Europe, we represent real Europe, Europe of the peoples, our Europe. We are the European Nation”.

After creating a school for political education of the members (that, from 1966 to 1968, published every month a magazine called L’Europe Communautaire), “Young Europe” tried to create a European Communitarian Syndicate and, in 1967, a university association (Università Europea), which was particularly strong in Italy. From 1963 to 1966 a new French magazine was published (Jeune Europe), with a weekly frequency; among the journals in the other countries, there was the Italian one called Europa Combattente, published every month.

From 1966 to 1968 La Nation Européenne was released, while La Nazione Europea was still published even in 1969, edited by the author of this article (one last release was published by Pino Balzano in Naples in 1970). La Nation Européenne, weekly magazine with a big format and, in some releases, composed of almost fifty pages, had important dealers: the political scientist Christian Perroux, the Algerian essayer Malek Bennabi, the deputy Francis Palmero, the Syrian Ambassador Selim el-Yafi, the Iraqi Ambassador Nather el-Omari, the leaders of the Algerian National Liberation Front Chérif Belkachem, Si Larbi and Djamil Mendimred, the president of the OLP Ahmed Choukeiri, the leader of the Vietcong mission in Algiers Tran Hoai Nam, the leader of the Black Panthers Stokeley Carmichael, the founder leader of the Centri d’Azione Agraria the prince Sforza Ruspoli, the writers Pierre Gripari and Anne-Marie Cabrini. Among the permanent reporters there were the professor Souad el-Charkawi (in Cairo) and Gilles Munier (in Algiers).

In the issue of February 1969, there was a long interview by Jean Thiriart with general Juan D. Peron, who admitted that he constantly read La Nation Européenne and completely agreed with its ideals. From his Spanish refuge in Madrid, the former president of Argentine declared that Castro and Guevara were developing the struggle for an independent Latin America, started many years before by the justicialist movement: “Castro – Peron said – is a promoter of the liberation. He had to ask help to an imperialism because the other one menaced to destroy him. But the Cubans’ aim is the liberation of the American Latin peoples. They have no other intention, but that one of the building of the continental countries. Che Guevara is a symbol of this fight. He was a great hero, because he served a great idea, until he became just this idea. He is the man of an ideal”.

Concerning the liberation of Europe, Thiriart projected to build some European Revolutionary Brigades to start the armed struggle against US invader. In 1966, he had a contact with Chinese Foreign Affairs Ministry Zhou Enlai in Bucharest, and he asked him to support the constitution of a political and military structure in Europe, to fight against the common enemy. In 1967, Thiriart was busy in Algiers: “It’s possible, it’s a must to consider a parallel action and hope the military formation of a kind of European revolutionary Reichswehr in Algeria. Nowadays, the governments of Belgium, Holland, England, Germany and Italy are in a different way the satellites of Washington; so, we, national-Europeans, European revolutionaries, we must go to Africa to form the cadres of a future political-military structure that, after serving in the Mediterranean Sea and in the Near Est, could fight in Europe to defeat the quislings of Washington. Delenda est Carthago”.

In the autumn of 1967, Gérard Bordes, headmaster of La Nation Européenne, went to Algeria to meet some members of the executive secretariat of National Liberation Front and Council for the Revolution. In April 1968, Bordes came back to Algeri with a Mémorandum à l’intention du gouvernement de la République Algérienne signed by himself and Thiriart, in which some proposals were contained: “European revolutionary patriots support the formation of special fighters for the future struggle against Israel; technical training of the future action aimed to a struggle against the Americans in Europe; building of an anti-American and anti-zionist information service for a simultaneous utilization in the Arabian countries and in Europe”.

The dialogue with Algeria had no results, so Thiriart started some talks with the Arabian countries of the Middle East. In fact, on June 3rd 1968, a militant of “Young Europe”, Roger Coudroy, fell in a battle against the Zionist army, while he was trying to enter into the occupied Palestine with a group of al-Fatah.

In the Autumn of 1968, Thiriart was invited by the governments of Iraq and Egypt, and by the Ba’ath Party. In Egypt he participated to the meeting of the Arabian Socialist Union, the Egyptian party of government; he was welcomed by several ministries and met the president Nasser. In Iraq he met some political personalities, among whom some leaders of the PLO, and was interviewed by some newspapers and mass media.

Anyway, the first aim of his travel was the trial to be supported in the creation of the European Brigades, which should participate to the national liberation struggle of Palestine and then should become the principal structure of a national liberation army in Europe. The Iraqi government denied its help, under Soviet pressure, so Thiriart’s aim failed. Disappointed by this failure, with no more economic means to support a high-level political struggle, Thiriart decided to stop his political activity.

From 1969 to 1981, Thiriart completely invested his time to his professional and syndical activity in the field of optometry, in which he obtained important promotions: he was president of the European Society of Optometry, of the Belgium National Union of Optometrists and Opticians, of Centre of Studies and Optical Sciences and he was a counselor in several commissions of the European Economic Community. Although this, in 1975 he was interviewed by Michel Schneider for the magazine Les Cahiers du Centre de Documentation Politique Universitaire of Aix-en-Provence and helped Yannick Sauveur to write his university final research about “Jean Thiriart and the European national-communitarianism” (Paris University, 1978). Another research has been published by Jean Beelen about the Mouvment d’Action Civique at the Free University of Bruxelles, six years before.

z_thiriart.gifIn 1981, a terrorist attack by Zionist criminals against his office in Bruxelles was the decisive input for Thiriart to restart political activity. He kept in touch again with the former dealer of La Nation Européenne, the Spanish historian Bernardo Gil Mugarza, who, during a long interview (108 questions), gave him the chance to newly and better explain his political thought. So a new book could take form: it was a book that Thiriart wanted to publish in Spanish and German languages, but it is still unpublished.

In the early 80s, Thiriart worked to a book that was never finished: The Euro-Soviet Empire from Vladivostok to Dublin. The plan of this work was composed of fifteen chapters, every one of which was divided into a lot of paragraphs. As the title of this book shows, the opinion of Thiriart about Soviet Union had completely changed. Left away the old motto “Neither Washington, nor Moscow”, Thiriart assumed a new idea that we could resume in this formula: “With Moscow, against Washington”. Thirteen years before, in truth, Thiriart had expressed his satisfaction about the Soviet military intervention in Prague, denouncing the Zionist plots in the so called “Prague Spring”, in the article Prague, l’URSS et l’Europe (“La Nation Européenne”, n. 29, November 1968), and he had started to define an “attention strategy” about the Soviet Union.

“A Western Europe free from US influence – he wrote – would permit to the Soviet Union to assume a role almost antagonist to the USA. A Western Europe allied, or a Western Europe aggregated to the USSR would be the end of the American imperialism […] If Russians want to separate Europeans from America – and they necessarily have to work for this aim in the long-term – it’s necessary they offer us the chance to create a European political organization against the American golden slavery. If they fear this political organization, the better way to solve this fear consists in the integration with it”.

In August 1992 Thiriart went to Moscow with Michel Schneider, headmaster of the magazine Nationalisme et République. They were welcomed by Aleksandr Dugin, who had already encountered Alain De Benoist and Robert Steuckers (in March), and had interviewed the author of this article for the Moscow TV (in June), after a meeting with the “red-brown” opposition.

The activity of Thiriart in Moscow – where there were also Carlo Terracciano and Marco Battarra as members of the European Liberation Front – was very intense. He did conferences, interviews, participated to a round table with Prokhanov, Ligacev, Dugin and Sultanov in the headquarter of the review Den, that published an article by Thiriart under the title “Europe to Vladivostok”; he had a meeting with Gennady Zyuganov; and another meeting with several members of the “red-brown” opposition, like Nikolai Pavlov and Sergej Baburin; he had a discussion with the philosopher and leader of the Islamic Renaissance Party Gaidar Jemal; he participated to a rally of Arabian students in the streets of Moscow.

On November 23rd, three months his coming-back to Belgium, Thiriart was stroked by a cardiac crisis.

Published in 1964 in French language, Thiriart’s book An Empire of 400 millions of people: Europe, was translated into other six languages. The Italian translation was made by Massimo Costanzo (at that time, dealer of Europa Combattente), who had introduced the work with these words: “The book by Thiriart is destined to receive a great interest because of its precision and its accuracy. But where this accuracy comes from? From a very simple point: the Author has used an essentially political language, far from the smokes of ideologies and from abstract constructions. After a careful reading, you can find even some ideological elements inside the book, but these ones emerge from the political thesis, and not vice-versa, like it was in the national-European field until nowadays”.

The reader of this second Italian edition probably will agree with all what Massimo Costanzo wrote forty years ago. The reader will realize that this book, maybe the most famous one among all the books by Thiriart, is an actual book, able to preview a lot of factors, even if it’s naturally included in the historical situation in which it was written. It was able to preview, because it anticipated the collapse of the Soviet political system about ten years before the “euro-communism”; it’s at step with time, because the description of the US hegemony in Europe is nowadays a real fact.

In my library, I conserve a copy from the first edition of this book (“édité à Bruxelles, par Jean Thiriart, en Mai 1964”). The dedication that the Author wrote inside it contains an exhortation that I extend to young readers of today: “Votre jeunesse est belle. Elle a devant elle un Empire à bâtir”. Unlike Luttwak and Toni Negri, Thiriart well knew that Empire is the right contrary of imperialism and that the United States are not Rome, but Carthago.

(Transl. by A. Fais)

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dimanche, 26 février 2012

En souvenir d’Olier Mordrel

 

Robert Steuckers:

En souvenir d’Olier Mordrel

 
Olier Mordrel fut certes un homme de chair et de sang mais il fut aussi la quintessence, ou une facette incontournable de la quintessence de l’idée bretonne; et, au-delà de cette idée bretonne, il incarnait, en sa personne, la révolte d’un réel et d’un vécu brimés, brimés au nom de dogmes politiques abstraits qui oblitèrent, altèrent et éradiquent les legs populaires pour mieux asseoir une domination sans racines ni humus, portée par des gendarmes, des avocassiers bavards ou des fonctionnaires sans coeur ni tripes. Nul ne pourra contester cette affirmation de la quintessence bretonne incarnée en la personne d’Olier Mordrel, dont je vais esquisser ici un portrait.
 

Disparition des voix énergiques et des regards de feu

 
Cette affirmation, je la fais mienne aujourd’hui, en rendant cet hommage, sans doute trop concis, à ce chef breton, à ce croyant et ce fidèle, dont la foi et la loyauté se percevaient dans un timbre de voix, propre aux hommes vrais des années 20, 30 et 40. Ce type de voix a disparu dans tous les pays d’Europe: c’est, pour moi, un indice patent du déclin que subit notre Europe. Tout comme s’en vont, un à un, ces gaillards au regard de feu dont une formidable dame italienne déplorait la disparition, lors d’un repas convivial à Gropello di Gavirate en août 2006; cette dame, qui irradie la force et la joie, est la belle-mère de notre ami italien Rainaldo Graziani, fils de l’ami d’Evola, Clemente Graziani. Ce dernier, qui avait combattu jusqu’au bout dans les rangs des unités de la “République Sociale”, à peine libéré de son camp de prisonniers de guerre, avait chanté des chants patriotiques dans les rues de Rome; il avait, pour cela, été jeté quinze jours en prison à la “Regina Coeli”, y avait découvert un livre d’Evola et avait immédiatement voulu voir le Maître, pour mettre toutes ses actions futures au diapason de celui qui semblait lui indiquer la seule Voie praticable après la défaite. Pour cette dame, qui, assurément, possède encore ce feu intérieur, les hommes d’hier ont fait place à des mollassons, même parmi ceux qui osent se revendiquer du “bel héritage”. Jean Mabire aussi possédait ce feu intérieur. Son regard me l’a fait entrevoir quand il m’a serré la pince pour la dernière fois, à Bruxelles en décembre 2005, lorsque nous sortions du restaurant où nous avions assisté à une causerie/projection des “Amis de Jean Raspail”. Nous avons, en ce début de 21ème siècle, le triste devoir d’assister à la disparition définitive d’une génération pré-festiviste, qui avait véritablement fait le sel de notre Vieille Europe. Pour moi, Mordrel fut l’un des premiers à disparaître, quinze ans avant l’an 2000. C’est donc avec émotion que je couche ces lignes sur le papier. Sa voix, le regard de feu de Jean Mabire, la voix et les yeux de bien d’autres, comme cette sacrée Julia Widy de Deux-Acren, qui me parla avec force et chaleur de ses engagements passés quand je n’avais que quatorze ans, sont bien davantage que de simples phénomènes optiques et auditifs: ce sont de véritables forces nouménales qui m’interpellent chaque jour que les dieux font et m’incitent ainsi à ne pas capituler et à poursuivre, pour moi-même, pour mes amis et pour ceux qui veulent bien me lire ou m’écouter, la même quête spirituelle que les aînés et réamorcer sans cesse le combat pour une anthropologie axée sur cette valeur cardinale de l’humanité européenne qu’est la dignité, la Würdigkeit.
 

Du “Club des Cinq” à Markale

 
Dès l’école primaire, j’ai été fasciné par les matières de Bretagne, alors qu’adulte, je n’ai jamais eu l’occasion de mettre les pieds dans cette région d’Europe. Dans les versions françaises de la collection enfantine “Le Club des Cinq”, les aventures, toutes fictives, du quatuor, flanqué du chien Dagobert, se déroulent en Bretagne. Le paysage évoque une côte qui n’est pas plane, rectiligne, de dunes et de sable comme la nôtre, en Flandre. Elle est faite d’îles, d’îlots, de récifs, avec, derrière elle, non les Polders que nous sillonnions à vélo derrière Coq-sur-Mer, mais des landes de bruyère, avec des maisons mystérieuses, pleines de souterrains et de passages secrets. Dans mon enfance et ma pré-adolescence, je voulais voir un littoral échancré, que je ne verrai qu’en Grèce en 1972-73 et en Istrie en 2009 et en 2011. Et je ne verrai le littoral de la Bretagne qu’en images, que dans un cadeau d’Olier Mordrel, un beau livre de photos, tout simplement intitulé “La Bretagne”.
 
Ensuite, un condisciple de l’école primaire, Luc Gillet, avait un père ardennais et une mère bretonne: ses allégeances oscillaient entre un patriotisme français (ancien régime) et un “matrionisme” breton. Finalement, à l’âge adulte, quand il a commencé à étudier le droit aux Facultés Universitaires Saint-Louis, c’est l’option bretonne qui a pris le dessus: après avoir potassé son code civil ou son droit constitutionnel, il suivait des cours de biniou. Je l’ai perdu de vue et le regrette. Le mythe chouan était gravé dans ma petite cervelle grâce, comme j’ai déjà eu l’occasion de l’écrire, à un cadeau de communion solennelle, “Le Loup blanc” de Paul Féval, auteur auquel Jean Mabire n’a pas manqué de rendre hommage. Plus tard, la Bretagne ne disparaît pas: notre professeur de latin, l’Abbé Simon Hauwaert avait été un fidèle étudiant de l’irremplaçable Albert Carnoy, professeur à Louvain avant la première guerre mondiale et, après un intermède américain entre 1914 et 1919, pendant l’entre-deux-guerres. Hauwaert, nous exhortait à explorer les racines indo-européennes de notre inconscient collectif, exactement comme Carnoy l’avait fait en publiant, en 1922, un ouvrage concis et fort bien charpenté sur les dieux indo-européens. Outre sa volonté de nous faire connaître à fond les legs gréco-romains et les pièges de la grammaire latine, il insistait sur la nécessité d’aborder en parallèle les mythologies germaniques (en particulier les “Nibelungen”) et celtiques (les “Mabinogion”). En obéissant à cette injonction, j’ai commencé, dès l’âge de seize ans, à lire les ouvrages de Markale sur les mythologies bretonne et irlandaise ainsi que les articles, encore épars, de Guyonvarc’h, récemment décédé.
 
Les études universitaires mettront un terme provisoire à cet intérêt celtisant: l’apprentissage des grammaires allemande et anglaise, les techniques de traduction, les nombreuses heures de cours etc. ne permettaient pas de poursuivre cette quête, d’autant plus qu’il fallait, en marge des auditoriums académiques, rester “métapolitiquement actif”, en potassant Pareto, Monnerot, Mannheim, Sorel, Schmitt, Evola et Jünger, dans le sillage du GRECE, de nos cercles privés (à connotations nationales-révolutionnaires) et des initiatives de Marc. Eemans, le surréaliste non-conformiste avec qui Jean Mabire a entretenu une correspondance.
 

Olier Mordrel téléphone au bureau de “Nouvelle école”

 
En 1978, lors du colloque annuel du GRECE, Jean-Claude Cariou, que je ne connaissais pas encore personnellement, m’indique, assez fier, qu’Olier Mordrel est présent parmi les congressistes et me montre où il se trouve au milieu d’un attroupement de curieux et d’enthousiastes qui voulaient absolument le voir, lui serrer la main, l’encourager, parce qu’ils ne l’avaient jamais vu, depuis son retour, d’abord discret, de ses exils argentin et espagnol. C’est ainsi que la puce nous a été mise à l’oreille: Mordrel était l’auteur du livre “Breizh Atao” (1973), une histoire du mouvement breton le plus radical du 20ème siècle, toute pétrie de souvenirs intenses et dûment vécus, alors que nous, les plus jeunes, ne connaissions la matière de Bretagne que par les travaux de Markale, certes, et plutôt par les chants et les théories “folcistes” sur la musique populaire d’Alan Stivell (auquel j’avais consacré un des mes premiers articles pour “Renaissance Européenne” de Georges Hupin et pour la belle revue “Artus”, à l’époque éditée à Nantes par Jean-Louis Pressensé). C’était effectivement “Artus”, à l’époque, qui nous ré-initiait à la culture bretonne. Quelques années passent, je me retrouve, à partir du 15 mars 1981, dans les locaux du GRECE à Paris pour exercer la fonction de secrétaire de rédaction de “Nouvelle école”. Outre la mission de préparer des conférences pour le GRECE, à Paris, au Cercle Héraclite, à Grenoble, à Strasbourg voire ailleurs, ma tâche a été, en cette année 1981, de réaliser deux numéros de la revue: l’un sur Vilfredo Pareto (avec l’aide du regretté Piet Tommissen), l’autre sur Heidegger (il sera parachevé par mon successeur Patrick Rizzi). Un beau jour, le téléphone sonne. Au bout du fil, la voix d’Olier Mordrel. Il m’explique qu’il vient de terminer la rédaction du “Mythe de l’Hexagone”. Il souhaite me confier le manuscrit pour que je lui donne mon avis. Je suis abasourdi, horriblement gêné aussi. Me confier son manuscrit, à moi, un gamin qui venait tout juste de sortir des écoles? Lui, le vieux combattant, désormais octogénaire? Inouï! Incroyable! Il insiste et quelques jours plus tard, je reçois un colis contenant une copie du tapuscrit. Je l’ai lu. Mais jamais je n’aurais osé formuler la moindre critique sur cet ouvrage copieux, fruit d’une réflexion sur l’histoire de France qui avait mûri pendant de longues décennies, dans le combat, l’adversité, l’amertume, l’ostracisme, l’exil, fruit aussi des longues conversations avec l’attachant Roger Hervé (à qui Mordrel dédiait cet ouvrage). Devant une telle somme, les gamins doivent se taire, fermer leur clapet car ils n’ont pas souffert, ils n’ont pas risqué leur peau, ils n’ont pas mangé le pain amer de l’exil. Quand Olier Mordrel m’a demandé ce que je pensais de son livre à paraître, une bonne semaine plus tard, je lui ai dit que, de toutes les façons, son ouvrage était aussi un témoignage, une vision personnelle en laquelle personne ne pouvait indûment s’immiscer sans en altérer la véracité vécue. Il a été satisfait de ma réponse.
 

Mordrel dans la tradition de Herder

 
J’ai ensuite lu “Breizh Atao” et, plus tard, “L’Idée bretonne” pour parfaire mes connaissances sur le combat breton. La parution du “Mythe de l’Hexagone” a été suivie d’une soirée de dédicaces dans un centre breton au pied de la Tour Montparnasse. Elle m’a permis de faire connaissance avec l’équipe de “Ker Vreizh”, animée à l’époque par Simon-Pierre Delorme, dont l’épouse, hélas décédée, était une brillante germaniste. Et aussi d’Ingrid Mabire, présente lors de l’événement. Cette confrontation avec la quintessence de l’idée bretonne, par l’entremise de Delorme, de Mordrel et surtout, ne l’oublions pas car il ne mérite assurément pas d’être oublié, de Goulven Pennaod, était, pour moi, concomitante d’une lecture de Herder, via la thèse magnifique d’un Professeur d’Oxford, F. M. Barnard (1), et des éditions bilingues proposées à l’époque par Aubier-Montaigne et préfacées tout aussi magistralement par Max Rouché (2). Pour “Nouvelle école”, je voulais rédiger un long article sur Herder et sur le droit qui découle de sa philosophie (via Savigny et Uwe Wesel). Pierre Bérard a partiellement réalisé mes voeux en publiant une longue étude dans la revue-phare du GRECE, une étude elle aussi magistrale, comme tout ce qui vient de ce professeur angevin exilé en Alsace, sur Louis Dumont, disciple français et contemporain de Herder. Un article plus directement consacré à Herder ou un numéro plus complet sur sa pensée (et sur sa postérité prolixe) aurait permis de consolider le lien entre le corpus de la “nouvelle droite”, qui n’est pas nécessairement tourné vers les patries charnelles, et le corpus de tous ceux qui entendent mettre un terme aux abus et aux travers du jacobinisme ou aux déviances dues à la volonté de fabriquer “une cité géométrique” par “dallage départemental” (selon la terminologie utilisée par Robert Lafont, militant occitan). Car Mordrel, volens nolens, est un disciple de Herder, surtout si l’on tient compte de l’aventure éditoriale qu’il a menée avant-guerre en publiant la revue “Stur”.
 

La métapolitique de “Stur”

 
Dans “L’Idée bretonne”, Mordrel résume bien l’esprit qui animait la revue “Stur”, dont le premier numéro sort en juillet 1934. “Stur” se posait comme une “revue d’études indépendante” mais elle ne cherchait pas à se soustraire au combat politique, devenu violent en Bretagne après les échecs électoraux du mouvement “Breizh Atao” dans les années 20. Pour Mordrel, l’idée bretonne devait offrir des solutions aux problèmes réels et concrets de la Bretagne, sinon “elle serait rejetée par le peuple comme un colifichet sans intérêt”. Le but de “Stur” n’était pas de faire de l’intellectualisme: au contraire, la revue préconisait de se méfier des “intellectuels purs”, “étrangers au monde des métiers, dégagés des liens multiples et vivants qui nous rendent solidaires du corps social”. “Nous avions horreur”, poursuit Mordrel dans son évocation de l’aventure de “Stur”, “de cette engeance qui triomphe sans modestie à Paris” car elle a été “élevée dans le royaume des mots, vivant de sa plume ou de sa langue, qui choisit entre les idées et non entre les responsabilités”. Pour “Stur”, les idées ne sont donc pas des phénomènes intellectuels mais des instruments pour “modeler la personne intime de l’homme”. Bref: ne pas vouloir devenir de “beaux esprits” mais des “drapeaux”; n’avoir que “des pensées nouées à l’acte”. 
 
 
 
Les articles de “Stur” ne seront donc pas doctrinaux, car l’énoncé sempiternel d’une doctrine finit par lasser, mais ils ne seront pas pour autant exempts de références à des auteurs ou à des filons philosophiques, lisibles en filigrane. Pour Olier Mordrel, l’apport intellectuel majeur à “Stur” vient essentiellement d’Oswald Spengler, via les articles du regretté Roger Hervé (signant à l’époque “Glémarec”) (3). Hervé/Glémarec retient de l’oeuvre de Spengler plusieurs éléments importants, et les replace dans un combat précis, celui de la Bretagne bretonnante, comme ils pourraient tout aussi bien être replacés dans d’autres combats: 1) pour Hervé, Spengler ne dérive pas sa démonstration d’une idée simple, fixe et pré-établie (comme “l’homme bon” de Rousseau ou la “lutte des classes” de Marx), d’une sorte d’All-Gemeinheit comme auraient dit Ernst Jünger et Armin Mohler, mais la tire des lois de l’évolution historique où l’homme n’est ni bon ni méchant a priori mais “fait le nécessaire ou ne le fait pas”; 2) Spengler, pour Hervé, est un professeur d’énergie dans la mesure où seuls comptent pour lui, sur les scènes de l’histoire, les hommes au caractère trempé, capables de prendre les bonnes décisions aux bons moments. Bref ce que Jean Mabire appellera des “éveilleurs de peuple”...
 

La Bretagne libre dans une grande Europe

 
“Stur” abordera toutes les questions qui découlent de cette vision récurrente d’une “Bretagne excentrée” par rapport aux axes Paris/Le Havre et Paris/Bordeaux. Certes, reconnait “Stur”, la Bretagne se situe en dehors des grandes routes commerciales de l’Hexagone et est, de la sorte, territorialement marginalisée. C’est pourquoi elle doit se choisir un autre destin: retourner à la mer en toute autonomie, retrouver la communauté des peuples de la Manche, de la Mer du Nord et du Golfe de Biscaye donc se donner un destin plus vaste, “européen”, comme celui qu’elle a raté lorsque sa duchesse n’a pas pu épouser Maximilien de Habsbourg à la fin du 15ème siècle. “Stur” reconnaît cependant qu’un indépendantisme isolé ne pourra pas fonctionner (cf. “L’Idée bretonne”, pp. 150-151): la masse territoriale “hexagonale” sera toujours là, aux confins orientaux de l’Armorique, quels qu’en soient ses maîtres (ils auraient pu être anglais si les rois d’Albion avaient vaincu pendant la Guerre de Cent Ans; ils auraient pu devenir allemands à partir de 1940). Pour s’affirmer dans la concrétude géographique du continent et des mers adjacentes, le nouveau nationalisme breton doit affirmer une vision nouvelle: ce ne sera plus celle d’un indépendantisme étroit, comme aux temps héroïques de “Breizh Atao”, qui ne définissait son combat politique que par rapport à l’Etat français et non pas par rapport à l’espace civilisationnel européen tout entier (“Aucun petit Etat ne peut plus être sûr de son lendemain, s’il ne s’est pas volontairement inclus dans un système d’échanges commerciaux et de protection mutuelle”, op. cit., p. 150). Le nouveau nationalisme breton est un aspect, géographiquement déterminé, du nationalisme européen, dont les composantes sont des “ethnies réelles” et non plus des “Etats pluri-ethniques” ou “mono-ethniques” qui briment leurs minorités ou des entités administratives qui éradiquent les longues mémoires. Le peuple breton, dans cette optique, a toute sa place car il est une “véritable ethnie”, dans le sens où il est un “peuple-famille”, tous les Bretons étant plus ou moins “cousins”. Ce vaste “cousinage” —cette homogénéité ethnique— est le résultat d’un amalgame de longue durée entre Pré-Celtes armoricains, Celtes et Gallois, et non pas la revendication d’un type ethnique particulier (nordique ou alpin ou autre), que l’on perçoit comme édulcoré ou “mêlé” dans le monde actuel et qu’un eugénisme étatique se chargerait de reconstituer de la manière la plus pure possible.
 
“Stur” a également abordé la question religieuse, au départ de trois constats: 1) le christianisme a mis longtemps à oblitérer les traditions préchrétiennes, païennes, en Bretagne comme en beaucoup de régions d’Europe; 2) l’Irlande a développé un christianisme particulier avant l’ère carolingienne, l’a exporté par l’intermédiaire de ses missionnaires comme Colomban à Luxeuil-les-Bains et Fergill (Vergilius) à Bregenz dans le Vorarlberg; il s’agira de mettre les linéaments de ce “celto-christianisme” en exergue (“das iro-schottische Christentum”); 3) la religiosité rurale de Bretagne n’a été effacée que fort tardivement, par les missions jésuites des 17ème et 18ème siècles, qui, pour paraphraser l’anthropologue contemporain Robert Muchembled, ont imposé la “culture des élites” (schématique et abstraite) de la Contre Réforme à une “culture populaire” (vivante et concrète).
 

Gwilherm Berthou et la Tradition

 
La plupart des militants bretons étaient catholiques, se percevaient en fait comme de nouveaux chouans contre-révolutionnaires, ennemis des “Bleus”, reprenant un combat interrompu par l’exécution de Cadoudal en 1801, par la répression républicaine et bonapartiste, par le désintérêt de la Restauration pour la question bretonne (une Restauration qui trahissait ainsi a posteriori les chouans). Olier Mordrel rappelle simplement que le premier auteur nationaliste breton à avoir esquissé une critique du christianisme, comme idéologie religieuse oblitérant la spiritualité naturelle du peuple, a été Gwilherm Berthou (alias “Kerverziou”). Berthou préconisera, dans les colonnes de “Stur” d’étudier la mythologie comparée (Rome, monde germanique, monde celtique, Inde védique, etc.), comme l’avait fait de manière simple et didactique Albert Carnoy à Louvain au début des années 20, et comme le fera, plus tard, de manière tout-à-fait systématique, Georges Dumézil. Berthou ouvre de vastes perspectives, vu la pluralité de ses angles d’attaque dans ses recherches religieuses et mythologiques; rappelons aussi, car il fut là un précurseur, qu’il cherchait surtout à dégager les études religieuses, traditionnelles au sens guénonien du terme, de toutes les “cangues kabbalistiques ou martinistes”, du théosophisme et du spiritisme. Sa démarche était rigoureuse: Berthou est allé plus loin qu’un autre chantre du celtisme, le grand poète irlandais William Butler Yeats, auteur de “Visions”, où le celtisme qu’il chante et évoque n’est pas séparable des pratiques spiritistes dont il se délectait. Yeats demeurait dans les spéculations kabbalistiques et “les traditions légendaires de sa race, il les voyait comme un simple panneau décoratif et un sujet de rêverie” (op. cit., p. 154). La Bretagne, profondément religieuse, a fait (sur)vivre certains avatars de la grande “Tradition” dans les liturgies et les croyances de son peuple, pensait Berthou, mais cette ferveur populaire a été brisée par la modernité, comme partout ailleurs, faisant sombrer l’Occident dans un chaos, dont seule une révolution politico-métaphysique de grande ampleur pourra nous sauver. Berthou finira par ne plus guère énoncer ses théories traditionalistes-révolutionnaires dans les colonnes de “Stur”, où il avait dévoilé pour la première fois au public les linéaments de sa quête spirituelle. “Stur”, revue de combat politique et métapolitique tout à la fois, n’était pas le lieu pour approfondir des théories religieuses et métaphysiques. Berthou, sans rompre avec “Stur”, fonde la revue “Ogam”, où s’exprime sans détours aucuns, et avec davantage de profondeur, son traditionalisme révolutionnaire. Dans les multiples expressions de la “Tradition”, Berthou, contrairement à d’autres, ne cherche pas des gourous qui enseignent la quiétude ou le retrait hors du monde effervescent de l’histoire (comme on pourra plus tard le dire de René Guénon), mais, au contraire, il cherche des maîtres qui enseignent énergie et virilité (comme plus tard, Julius Evola avec sa “voie royale du Kshatriya” ou, en Allemagne, un Wilhelm Hauer qui découvre en Inde l’ascèse guerrière du bouddhisme) (4). “Ogam”, à ses débuts (car la revue a eu une longue postérité, bien après 1945), alliait, écrit Mordrel (op. cit., p. 155), “nietzschéisme” et “traditionalisme”. C’est la naissance d’un néo-paganisme breton, ajoute toujours Mordrel, “en décalage de vingt ans sur le néo-paganisme germanique, mais en avance de quarante ans sur le néo-paganisme parisien” (op. cit., p. 155).
 
L’idée bretonne selon Mordrel n’était donc pas une simple idée “vernaculaire”, qui aurait eu la volonté de se replier sur elle-même, mais une vision nouvelle du politique, de l’histoire et de l’Europe.
 

“Le Mythe de l’Hexagone”

 
Revenons au livre, par lequel nous avions fait connaissance au printemps de l’année 1981, je veux dire “Le Mythe de l’Hexagone”. A la relecture de cet ouvrage aujourd’hui un peu plus que trentenaire, il m’apparaît assez peu lié; les chapitres se succèdent à une cadence que l’on pourrait qualifier de fébrile; on peut repérer des idées fécondes mais pas assez exploitées, que l’auteur, on le sent, aurait voulu développer jusqu’au bout de leur logique. C’est cette incomplétude (due aux impératifs typographiques) qui devait inquiéter Mordrel qui, anxieux, demandait à tous, y compris à des gamins comme moi, ce qu’ils pensaient de ce texte quelque peu “testamentaire”. Mais l’ouvrage est une somme qui éveille à quantité de problématiques autrement insoupçonnées ou perçues au travers d’autres grilles d’analyse. Son apparente incomplétude est une invite à creuser, toujours davantage, les filons indiqués par notre homme, à élargir les intuitions mordreliennes. Devenu octogénaire, notre Breton de choc a voulu tout dire de ce qui lui passait par la tête, coucher sur le papier l’ensemble de ses souvenirs, la teneur de ses courriers et conversations avec Hervé et les autres.
 

Olier Mordrel, juge d’instruction et procureur

 
Première interpellation du militant breton Mordrel: “Ne vous fiez jamais aux historiographies stato-nationales toute faites: elles sont des fabrications à usage propagandiste; elles projettent les réalités actuelles sur le passé, et parfois sur le passé le plus lointain”, fonctionnent à coups d’anachronismes. Deux fois condamné à mort par l’Etat français, Mordrel, sans doute en son subconscient le plus profond, voulait tuer symboliquement, avant d’être tué (on ne sait jamais...) ou avant de mourir de sa belle mort, l’instance qui lui avait promis le poteau mais n’avait pu le lui infliger, parce qu’il avait eu la chance, contrairement à d’autres, d’échapper à son implacable ennemie. “Le Mythe de l’Hexagone” est en quelque sorte un duel, entre Mordrel et la “Gueuse”. Celle-ci avait, par deux fois, voulu nier et supprimer la personne Mordrel, comme elle avait nié et supprimé la personne Roos en Alsace, parce que la personne Mordrel affirmait haut et fort, avec belle insolence, sa nature profonde, naturelle, physique et ethnique de Breton, et par la négation/suppression judiciaire de cette personne bretonne particulière, réelle et concrète, la “Gueuse” entamait un processus permanent de négation de toute forme ou expression de “bretonitude”. Inacceptable pour ceux qui s’étaient engagé corps et âme pour une Bretagne autonome. Mordrel, avec “Le Mythe de l’Hexagone”, va jouer le double rôle du juge d’instruction et du procureur: il va systématiquement nier l’éternité dans le temps et l’espace que se donne rétrospectivement la “Gueuse” avec la complicité d’historiographes mercenaires. Non, crie Mordrel, la France n’existait pas déjà du temps des mégalithes: elle n’est pas une unité géographique mais un point de rencontre et de dispersion; “elle comporte des façades qui n’ont ni la même orientation ni les mêmes connections extérieures”; ses frontières dites “naturelles” sont un “mythe”. Voilà le fond du débat Mordrel/France: la Bretagne est une réalité concrète (et non pas un résidu inutile, appelé à disparaître sous l’action du progressisme républicain); la France, elle, est un “mythe”, plutôt un “mensonge” et une “construction” qui nie les réalités préétablies par Dame Nature, qui devrait retrouver ses droits, pour le bien de tous: ainsi, le Rhin, pour Mordrel, n’est en aucune façon une “frontière” mais un creuset et un trait d’union (entre Alsaciens et Badois), alors que la Loire, elle, sépare bien un Nord d’un Sud distincts avant le laminage généralisé par la machine à “géométriser” la Cité.
 
Le chapitre sur le Rhin mérite amplement d’être relu et, surtout, étoffé par d’autres savoirs sur ce fleuve et cette vallée d’Europe. Les géopolitologues connaissent, ou devraient connaître, le maître-ouvrage d’Hermann Stegemann sur l’histoire du Rhin, rédigé en Allemagne au lendemain du Traité de Versailles, en 1922. En Belgique, le chantre du parti annexionniste de 1919, Pierre Nothomb, grand-père de l’écrivain Amélie Nothomb, qui voulait mordre sur le territoire rhénan au lendemain de la défaite du Reich de Guillaume II, terminera sa carrière littéraire en chantant tendrement le creuset ardennais/rhénan/luxembourgeois sans plus aucun relent de germanophobie. De même, le mentor d’Hergé, le fameux Abbé Norbert Wallez, rêvera plutôt d’une symbiose catholique-mystique rhénane/wallonne, après avoir abandonné ses réflexes d’Action Française. Mais ce sont là d’autres histoires, d’autres itinéraires politico-intellectuels, qui auraient bien passionné Olier Mordrel et Jean Mabire.
 

Hypothèses originales

 
Mordrel truffe ensuite “Le Mythe de l’Hexagone” de toutes sortes d’hypothèses originales. Quelques exemples : 1) le noyau de la France actuelle est la “Neustrie” précarolingienne, en voie de “dé-francisation”, c’est-à-dire de “dé-germanisation” (le francique fait totalement place au gallo-roman du bassin parisien) à côté d’une Austrasie mosane, mosellane et rhénane, celle des Pippinides, qui volera au secours de cette Neustrie aux chefs indécis et de l’Aquitaine ravagée au moment du raid maure contre Poitiers (732); 2) il n’y a pas eu d’ébauche de la France avant le 12ème siècle, affirme Mordrel, et d’autres Etats ou royaumes possibles auraient pu émerger sur ce qui est aujourd’hui le territoire de l’Hexagone: par exemple un empire postcarolingien de la Seine à l’Elbe; un double royaume, britannico-francilien autour de Paris et gaulois méridional autour de Bourges (centre géographique de l’actuel Hexagone); une fusion des héritages bourguignon et lorrain, constituant un espace médian entre une Post-Neustrie séquanaise et un bloc impérial germanique s’étendant jusqu’aux confins slaves de la Vistule au Nord ou de la Drave au Sud (Carinthie/Slovénie); l’émergence d’un “Royaume du Soleil” catalan et provençal, de Valence en Espagne à Menton sur l’actuelle frontière italienne, appelé à maîtriser tout le bassin occidental de la Méditerranée, îles comprises, contre les incursions sarrasines (l’Aragon se donnera cette tâche, une fois uni à la Castille); 3) l’historiographie française est encadrée par l’Etat et cherche en permanence à faire disparaître les preuves des impostures ou les traces de crimes abominables (génocides vendéen et franc-comtois); l’honnêteté intellectuelle veut qu’on les dénonce et qu’on leur oppose d’autres visions. Etc.
 
On pourra dire que Mordrel est parfois très injuste à l’endroit de la France mais, ne l’oublions pas, il est une sorte de procureur fictif qui réclame sa tête, comme celui, bien réel, de la “Gueuse” avait réclamé la sienne. Normal: c’est en quelque sorte un retour de manivelle... En attendant, les historiens contemporains, plus sensibles aux histoires régionales que leurs prédécesseurs, redécouvrent la matière de Bourgogne, l’originalité de l’histoire lorraine, comtoise ou savoisienne. Les idées de l’occitaniste Robert Lafont font leur chemin dans les têtes de ceux qui pensent le réaménagement post-centralisateur du territoire. Il est certain que, quant au fond, les idées ethnistes et fédéralistes de Mordrel, exprimées en leur temps sur le mode véhément que prennent toujours ceux que l’on refuse sottement d’écouter, ne soulèveraient plus le tollé chez les bonnes âmes ni le désir d’envoyer l’effronté à la mort comme chez ses juges du 7 mai 1940.
 

Epilogue

 
Yann Fouéré, disparu fin 2011, à l’âge vénérable de 102 ans, a rendu un vibrant hommage à Mordrel dans son livre “La Patrie interdite”, où il campe bien, et chaleureusement, le caractère et l’intransigeance de son compagnon d’armes pour l’autonomie ou la libération de la Bretagne. Cet hommage est d’autant plus admirable que les deux hommes n’avaient pas le même caractère ni, sans doute, les mêmes vues sur le plan pragmatique. Enfin, quand Pierre Rigoulot décide d’interroger les “enfants de l’épuration” pour en faire un livre épais (5), il s’en va questionner deux des trois fils d’Olier Mordrel, qui nous laissent des témoignages intéressants à consulter, pour cerner la personnalité de notre combattant breton: celui de l’aîné, Malo, né en 1928, est mitigé car, chacun le sait, il n’est pas aisé d’avoir un père militant et d’avoir été brinquebalé sur les routes de l’exil, de Sigmaringen au Sud-Tyrol et de l’Italie vaincue aux confins de la pampa de Patagonie; celui de Trystan, né en 1958 en Argentine, prétend s’inscrire dans la trajectoire de son père. Anecdote: ce Trystan, que j’ai perdu de vue depuis fort longtemps, avait voulu m’accompagner lors d’une longue marche entre Ypres et Dixmude, où nous nous arrêtions pour visiter les monuments de la Grande Guerre. Il me parlait de son grand-père, officier des fusiliers-marins bretons engagés à Dixmude en octobre 1914, aux côtés de l’armée belge exténuée par sa retraite et de quelques compagnies de Sénégalais. Et il voulait absolument voir le “Mémorial des Bretons”, au lieu-dit du “Carrefour de la Rose” à Boezinge (6). Pourquoi? D’après Trystan Mordrel, la disparition tragique, suite à une attaque allemande précédée d’une nappe d’ypérite en avril 1915, de beaucoup de soldats bretons des 45ème et 87ème divisions d’infanterie de réserve, aurait constitué le déclic qui fit de l’adolescent Olier Mordrel un combattant breton intransigeant; en effet, les soldats de ces deux divisions étaient des réservistes entre 35 et 45 ans, surnommés, par les jeunes poilus de première ligne, “les pépères”. Dans l’école et le village d’Olier, bon nombre de ses petits camarades de jeu étaient devenus orphelins après cette bataille d’avril 1915. Le sang breton avait été sacrifié, pensait Olier adolescent, en vain, en pure perte. Sentiment équivalent à celui de bon nombre de Flamands, qui créeront après 1918 le “Frontbeweging”. Le “Mémorial des Bretons” du “Carrefour de la Rose” n’a que de petites dimensions mais est terriblement poignant: un vrai dolmen en pierre de Plouagat et un calvaire comme en pays armoricain.
 
J’envoyais systématiquement mes productions à Mordrel qui les lisait attentivement. Dans l’article nécrologique, publié dans le numéro 21/22 de “Vouloir”, Serge Herremans rend hommage à Mordrel disparu: “Olier Mordrel nous a quittés. Avec lui, nous perdons surtout un aîné qui nous a indiqué la voie à suivre pour construire une Europe fédérale mais consciente de son unité géopolitique. Mais nous perdons aussi un lecteur attentif et enthousiaste qui n’a jamais cessé de nous prodiguer moults encouragements. Le plus touchant de ses encouragements fut celui-ci: ‘Vous avez le grand mérite de partir du Vécu’. Pour un combattant de la trempe d’un Mordrel, ce n’est pas un mince compliment. Nous tâcherons de rester à la hauteur de son estime”. Deux ou trois semaines avant de mourir, Olier Mordrel m’avait confié un article, sans doute le tout dernier qu’il ait écrit. Intitulé “Les trois niveaux de la culture” (7), il avait cette phrase pour conclusion: “Pour faire le tableau de la culture de demain, il faudrait la voyance d’un Spengler, la véhémence d’un Nietzsche, le lyrisme d’un Michelet. Qu’il nous suffise d’en préparer les voies”. La dernière phrase est une injonction: que les lecteurs de mes modestes souvenirs en tirent les justes conclusions...
 
Robert Steuckers.
 
 
 
Notes:
1)     F. M. BARNARD, Herder’s Social and Political Thought – From Enlightenment to Nationalism, Clarendon Press, Oxford, 1965.
2)     Max ROUCHE, “Introduction” à a) Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité (Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit), Aubier/Montaigne, éd. bilingue, 1962; et b) Herder, Une autre philosphie de l’histoire (Auch eine Philosophie der Geschichte), Aubier/Montaigne, éd. bilingue, 1964.
3)     Roger Hervé vivait, quand je l’ai connu, dans un petit appartement exigu, en lisière de la Gare Montparnasse à Paris. Il était quasiment aveugle. Il disposait d’une magnifique bibliothèque et d’archives impressionnantes apparemment toutes consacrées à l’oeuvre d’Oswald Spengler, qu’il ne voulait pas aliéner. Lors d’une de mes visites, quand la cécité l’avait considérablement diminué, il m’avait offert une chemise de carton léger magnifiquement décorée de dessins, en bleu sombre, de Xavier de Langlais qui contenait une de ses oeuvres: un atlas très précis de l’histoire de la Bretagne, car Roger Hervé était aussi un excellent cartographe. Je possède aussi une petite plaquette verte intitulée “Actualité de Spengler”. Mais que sont devenus tous ces trésors, accumulés dans son minuscule appartement, après son décès?
4)     Robert STEUCKERS, “Wilhelm Hauer, philosophe de la rénovation religieuse”, sur http://robertsteuckers.blogspot.com/
5)     Pierre RIGOULOT, Les enfants de l’épuration, Plon, Paris, 1993 (voir chapitre: “Malo, Tanguy, Trystan et l’auteur de leurs jours” (pp. 409-430).
6)     Ceux qui souhaitent visiter ces lieux de mémoire de la Grande Guerre, achèteront, dans les librairies militaires anglaises d’Ypres, et liront avec profit le guide que le Major britannique Holts a confectionné avec l’aide de son épouse: Major and Mrs. Holts, Battlefield Guide – Ypres Salient, Leo Cooper/Pen & Sword Books, Barnsley/South Yorkshire (GB), 1997.
7)     Olier MORDREL, “Les trois niveaux de la culture”, in Vouloir, n°21/22, sept.-oct. 1985, pp. 5-7.
 
Livres consultés:
- Yann FOUERE, La Patrie interdite – Histoire d’un Breton, France-Empire, 1987.
- Yann FOUERE, Histoire résumée du mouvement breton de 1800 à 2002, Celtics Chadenn, coll. Brittia, Londres, 2002.
- Olier MORDREL, Breizh Atao – Histoire et actualité du nationalisme breton, Alain Moreau, 1973.
- Olier MORDREL, Le Mythe de l’Hexagone, Jean Picollec, 1981.
-          Olier MORDREL, L’idée bretonne, Albatros, 1981.
-          Olier MORDREL, La Bretagne, Nathan, 1983.

lundi, 07 novembre 2011

Lucien Jerphagnon: il parlait à l'oreille des anciens

Lucien Jerphagnon: il parlait à l'oreille des anciens

Le grand historien de l'antiquité européenne laisse des livres à lire!

par Guilhem Kieffer

Ex: http://www.metamag.fr/

Morts quasiment en même temps, que valait un Lucien Jerphagnon à côté d’un Steve Jobs ? Rien à Wall Street. Pas davantage en exclamations, pleurs, soupirs. A quelques jours près, il n’a fait ni la une des télé ou des journaux hormis, heureusement, quelques colonnes dans Le Monde ou Le Point. Mais rien sur iPad ou facebook. On a su à peine qu’il était mort. Il n’était pas une icône-marchande. C’était un prof…


Lucien Jerphagnon

Et, en plus, un prof qui s’intéressait à des mondes disparus, dont les apparatchiks orwelliens traquent les ultimes résidus jusque dans nos salles de cours et de bibliothèques : le monde et la pensée romaine, l’antiquité et ses langues. Qu’il pratiquait fort, comme pas mal de nos parents ou grands-parents. N’avouait-il pas avoir « avalé », dans sa jeunesse, les 30 volumes -en latin- des Confessions de Saint Augustin? 

De sa confrontation avec l’histoire et les maîtres antiques, chrétiens ou non, comme Socrate, Platon, Plotin, mais aussi de son intelligence, Lucien Jerphagnon, qui eut le grand philosophe juif, Vladimir Yankélévitch, comme « maître», avait abouti à un enseignement essentiel et pourtant délaissé aujourd’hui. Il le confiait, dans un long entretien, à La Nouvelle Revue d’Histoire en 2006 . « En regardant les philosophes , on a le sentiment qu’ils sont coupés du monde et de leur temps. Ceux qui étudient les philosophes (ndlr : mais on peut appliquer le même raisonnement à l’histoire) le font comme s’ils vivaient dans un éternel présent.

Messager de Delphes

Or, il n’y a pas d’éternel présent, ni d’homme éternel quoi qu’on en ait dit, qui subsisterait toujours semblable en son fond, des cavernes aux satellites habités . Il y a des couches successives, peuplées de consciences diversement conditionnées, des strates qui ont chacune leur vérité et leurs erreurs, leur idée du possible  et de l’impossible, du concevable et de l’absurde et c’est seulement pour la commodité, pour le confort intellectuel que nous englobons toutes ces consciences disparates sous le même concept d’homme. Le temps bouge continuellement sous les yeux d’êtres qui eux-mêmes se transforment
. »




Mais au-dessus de ce fleuve, en mouvement constant, il y a quelques personnages-ponts. Ponts entre les pensées, entre les hommes, entre les époques . Lucien Jerphagnon était de ceux-là . Avec « La…. Sottise ? Vingt-huit siècles qu’on en parle », publié l’an dernier, quelle démonstration plus sagace et ironique pouvait-il donner au grand public? Aux esprits cultivés, ce maître, titulaire de la chaire de la pensée antique et médiévale à l’université de Caen, fournit d’autres exemples de sa plasticité et de son empathie.



Spécialiste de Saint Augustin (entré avec lui dans La Pléiade), il étonna avec une biographie novatrice sur son antithèse, l’empereur Julien (faussement qualifié d’ »apostat ») qui, des siècles durant, « fera l’objet  d’une incroyable cristallisation. » De cet exercice de nomadisme mental, de cet échange intemporel, de cette hygiène spirituelle, Michel Onfray, qui fut un de ses, chanceux, élèves normands, a livré témoignage dans un hommage reconnaissant (Le Point du 22 septembre).

« Quand il arrivait dans la salle, grand et maigre, la moustache d’un officier de la coloniale toujours impeccablement symétrique il sortait son volume de Budé (…) et commençait un spectacle extraordinaire. Seul, il jouait tous les rôles du théâtre antique : il fulminait, susurrait, ricanait, délirait, le tout avec une érudition époustouflante  (…) S’il parlait d’un bordel, c’était avec la caution de Juvénal, d’une partie de jambes en l’air avec celle de Perse, d’une trait d’esprit avec Tibulle, s’il lançait une saillie contre les grands de ce monde, c’était sous couvert de Tacite ou Suétone (…) » Au terme de son one man show, « on avait beaucoup appris, tout compris et, surtout, tout retenu 

De cet agnostique qui, quelques jours avant sa mort, confiait –«j’essaie de faire remonter vers le divin tout ce qu’il y a de divin en moi»- paraîtra, en février, un texte posthume qu’il venait d’achever: « Connais-toi toi-même »… (et tu connaîtras l’univers et les dieux). Une injonction venue de Delphes ! Destinée à chacun d’entre nous.

lundi, 10 octobre 2011

Ignatius Royston Dunnachie Campbell: A Commemoration

Ignatius Royston Dunnachie Campbell:

A Commemoration

By Kensall Green

Ex: http://www.counter-currents.com/

So much fine writing already exists here concerning Roy Campbell (October 2, 1901–April 22, 1957) that it would be hardly fair to Counter-Currents’ previous Campbell biographers to repeat—my own rephrasing notwithstanding—this  poet’s life story once again. Let it simply stand that October 2, 2011 is Roy Campbell’s 110th birthday, and we remember him as poet, as a man of action, and as a heroic defender of the faith.

It is a mighty testament to his talent that his work and life are commemorated still, considering how much suppression his poetry — and therefore his very existence as a poet and hero — were subject to by the intellectual cabal of his day, and all the days since. He died, neck broken in an auto accident in Portugal, April 1957.

The following poems of Campbell both appeared in Sir Oswald Mosley’s BUF Quarterly magazine, published sometime between 1936 and 1940.

The Alcazar*

By Roy Campbell

The Rock of Faith, the thunder-blasted—
Eternity will hear it rise
With those who (Hell itself outlasted)
Will lift it with them to the skies!
‘Till whispered through the depths of Hell
The censored Miracle be known,
And flabbergasted fiends re-tell
How fiercer tortures than their own
By living faith were overthrown;
How mortals, thinned to ghastly pallor,
Gangrened and rotting to the bone,
With winged souls of Christian valour
Beyond Olympus or Valhalla
Can heave ten million tons of stone!

*In the summer of 1936, during the early part of the Spanish Civil War [2], Colonel José Moscardó Ituarte [3], and Spanish Nationalist Forces in support of General Franco, held a massive stone fortress, The Alcazar, against overwhelming Spanish Republican [4] forces. Despite being under continual bombardment, day and night, Col Moscardo and the Nationalists (reportedly nearly 1000 people—more than half of which were women) held out for two months.

The Fight

By Roy Campbell

One silver-white and one of scarlet hue,
Storm-hornets humming in the wind of death,
Two aeroplanes were fighting in the blue
Above our town; and if I held my breath,
It was because my youth was in the Red
While in the White an unknown pilot flew—
And that the White had risen overhead.

From time to time the crackle of a gun
Far into flawless ether faintly railed,
And now, mosquito-thin, into the Sun,
And now like mating dragonflies they sailed:
And, when like eagles near the earth they drove,
The Red, still losing what the White had won,
The harder for each lost advantage strove.

So lovely lay the land—the towers and trees
Taking the seaward counsel of the stream:
The city seemed, above the far-off seas,
The crest and turret of a Jacob’s dream,
And those two gun-birds in their frantic spire
At death-grips for its ultimate regime—
Less to be whirled by anger than desire.

‘Till (Glory!) from his chrysalis of steel
The Red flung wide the fatal fans of fire:
I saw the long flames, ribboning, unreel,
And slow bitumen trawling from his pyre,
I knew the ecstasy, the fearful throes,
And the white phoenix from his scarlet sire,
As silver the Solitude he rose.

The towers and trees were lifted hymns of praise,
The city was a prayer, the land a nun:
The noonday azure strumming all his rays
Sang that a famous battle had been won,
As signing his white Cross, the very Sun,
The Solar Christ and captain of my days
Zoomed to the zenith; and his will was done.

Roy Campbell. Poet, hero, comrade. You are commended and celebrated. Your talent shall not fade, nor shall your works grow old, age shall not bury you, nor every future time condemn.[1] Happy birthday.

Note

1. Paraphrase of Laurence Binyon’s “For The Fallen,” as quoted by Paul Fussell, The Great War and Modern Memory (New York: Oxford University Press, 1977), p. 56.

 

 


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mercredi, 05 octobre 2011

Hommage à François-Georges Dreyfus

Hommage à François-Georges Dreyfus : un homme courageux...

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Par Robert Spieler

Délégué général de la NDP

 

Issu d’une famille juive, il est né le 13 septembre 1928 à Paris et vient de décéder le 24 septembre 2011. Il se convertit au protestantisme dans les années 1950. Historien, agrégé d’histoire et professeur d’histoire et de Sciences politiques à l’université de Strasbourg, il fut directeur de l’Institut politique (c’est là où je fis sa connaissance), du Centre d’études germaniques, de l’Institut des Hautes études germaniques, et enfin professeur émérite à la Sorbonne depuis 1990.

 

Auteur de nombreux ouvrages sur l’Allemagne contemporaine et sur la France du XXème siècle, il fut aussi un défenseur de l’orthodoxie luthérienne. Gaulliste depuis son adhésion au RPF en 1947, maurassien, il animait une émission sur Radio Courtoisie.

 

Il fut l’auteur d’ouvrages controversés : Une Histoire de Vichy où il souligne la réalité importante des forces de résistance à l’occupant dans l’entourage du maréchal Pétain ; une Histoire de la Résistance, parue en 1996, qui fut accusée par l’historien britannique Julian T. Jackson d’être une « apologie de Vichy ».

 

Sur le plan politique, il fut secrétaire départemental du Bas-Rhin de l’UNR gaulliste à partir de 1961, puis de l’UDR de 1965 à 1975 et devint adjoint au maire de Strasbourg, chargé des affaires culturelles. Il fut longtemps membre du Club de l’Horloge, alors proche de la Nouvelle Droite, et se rapprocha, ces dernières années du mouvement royaliste.

 

François-Georges Dreyfus était un homme courageux. Après les élections de 1997, il regretta publiquement « que l’on ait diabolisé l’extrême droite » et reprocha à Jacques Chirac son discours de juillet 1995, où il reconnaissait le rôle du régime de Vichy dans la rafle du Vélodrome d’hiver.

 

J’ai bien connu et beaucoup apprécié FGD. J’avais créé en 1981, en Alsace, après la victoire de la gauche, un club d’opposition, Forum d’Alsace qui allait devenir le club le plus important dans la région. François-Georges Dreyfus participa activement à l’organisation des multiples conférences et dîners-débats que nous organisâmes : Philippe Malaud, Alain Griotteray, Serge Dassault, le professeur Debray-Ritzen, Julien Freund, et beaucoup d’autres dont Raymond Barre, dont le comportement fut stupéfiant et odieux. Mais ceci est une histoire que je vous raconterai une autre fois. C’est grâce à FGD que je pus trouver ces multiples invités (une trentaine de personnalités nationales et régionales).

 

J’ai revu récemment, avec joie, François-Georges Dreyfus. Nous avions organisé, avec Serge Ayoub, une conférence passionnante, au Local, avec FGD, sur le thème « la révolution conservatrice ». François-Georges chez Serge Ayoub ! Cela qualifie sa liberté d’esprit et son mépris absolu du politiquement correct. Il avait d’ailleurs donné son accord pour une interview dans la revue Synthèse nationale sur le thème de la Révolution conservatrice.

 

Nous ne l’oublierons pas.

 

Pour voir, ou revoir, la conférence donnée au Local, le 10 décembre 2010, par François-Georges Dreyfus cliquez ici

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lundi, 26 septembre 2011

Remembering Martin Heidegger

Remembering Martin Heidegger:
September 26, 1889–May 26, 1976

by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Martin Heidegger is one of the giants of twentieth-century philosophy, both in terms of the depth and originality of his ideas and the breadth of his influence in philosophy, theology, the human sciences, and culture in general.

Heidegger was born on September 26, 1889, in the town of Meßkirch in the district of Sigmaringen in Baden-Württemberg, Germany. He died on May 26, 1976 in Freiburg and was buried in Meßkirch.

Heidegger was from a lower-class Catholic family. His family was too poor to send him to university, so he enrolled in a Jesuit seminary. But Heidegger was soon rejected by the Jesuits due to a heart condition. He then studied theology at the University of Freiburg from 1909–1911, after which time he switched his focus to philosophy. Eventually Heidegger broke entirely with Christianity.

In 1914 Heidegger defended his doctoral dissertation. In 1916, he defended his habilitation dissertation, which entitled him to teach in a German university. During the First World War, Heidegger was spared front duty because of his heart condition.

From 1919 to 1923, Heidegger was the salaried research assistant of Edmund Husserl at the University of Freiburg. Husserl, who was a Jewish convert to Lutheranism, was the founder of the phenomenological movement [2] in German philosophy, and Heidegger was to become his most illustrious student.

In 1923, Heidegger was appointed assistant professor of philosophy at the University of Marburg. There his intense and penetrating engagement with the history of philosophy quickly became known throughout Europe, and students flocked to his lectures, including Hans-Georg Gadamer, who became Heidegger’s most eminent student, as well as such Jewish thinkers as Leo Strauss, Hannah Arendt, and Hans Jonas. In 1927, Heidegger published his magnum opus, Being and Time [3], the foundation of his world-wide fame. In 1928, Husserl retired from the University of Freiburg, and Heidegger returned to replace him, remaining in Freiburg for the rest of his academic career.

Heidegger was elected rector of the University of Freiburg on April 21, 1933. Heidegger joined the ruling National Socialist German Workers Party on May 1, 1933. In his inaugural address as rector on May 27, 1933, and in political speeches and articles from the same period, he expressed his support for the NSDAP and Adolf Hitler. Heidegger resigned as rector in April 1934, but he remained a member of the NSDAP until 1945. After the Second World War, the French occupation authorities banned Heidegger from teaching. In 1949, he was officially “de-Nazified” without penalty. He began teaching again in the 1950–51 academic year. He continued to teach until 1967.

A whole academic industry has grown up around the question of Heidegger and National Socialism. It  truly is an embarrassment to the post-WW II intellectual consensus that arguably the greatest philosopher of the twentieth century was a National Socialist. But the truth is that Heidegger was never a particularly good National Socialist.

Yes, Heidegger belonged intellectually to the “Conservative Revolutionary” milieu. Yes, he thought that the NSDAP was the best political option available for Germany. But Heidegger’s view of the meaning of National Socialism was rather unorthodox.

Heidegger viewed the National Socialist revolution as the self-assertion of a historically-defined people, the Germans, who wished to regain control of their destiny from an emerging global-technological-materialistic system represented by both Soviet communism and Anglo-Saxon capitalism. This revolt against leveling, homogenizing globalism was, in Heidegger’s words, “the inner truth and greatness” of National Socialism. From this point of view, the NSDAP’s biological racism and anti-Semitism seemed to be not only philosophically naive and superficial but also political distractions.

Heidegger knew that Jews were not Germans, and that Jews were major promoters of the system he rejected. He was glad to see their power broken, but he also had cordial relationships with many Jewish students, including extramarital affairs with Hannah Arendt and Elisabeth Blochmann (who was half-Jewish).

In the end, Heidegger believed that the Third Reich failed to free itself and Europe from the pincers of Soviet and Anglo-Saxon materialism. The necessities of re-armament and war forced a rapprochement with big business and heavy industry, thus Germany fell into the trammels of global technological materialism even as she tried to resist it.

Heidegger was not, however, a Luddite. He was not opposed to technology per se, but to what he called the “essence” of technology, which is not technology itself, but a way of seeing ourselves and the world: the world as a stockpile of resources available for human use, a world in which there are no limits, in principle, to human knowledge or power. This worldview is incompatible with any sort of mystery, including the mystery of our origins or destiny. It is a denial of human differentiation — the differentiation that comes from multiple roots and multiple destinies.

Yet, as Heidegger slyly pointed out, the very idea we can understand and control everything is not something we can understand or control. We don’t understand why we think we can understand everything. And we are literally enthralled by the idea that we can control everything. But once we recognize this, the spell is broken; we are free to return to who we always-already are and destined to be.

But on Heidegger’s own terms, it is still possible to combine a technological civilization with an archaic value system, to reject the essence of technology and affirm rootedness and differentiation. This is what Guillaume Faye calls “archeofuturism.”

Ultimately, Heidegger’s philosophy — particularly his account of human being in time, his fundamental ontology, his account of the history of the West, and his critique of modernity and technology — is of greater significance to the project of the North American New Right than his connection with National Socialism. It is a measure of the embryonic nature of our movement that we just beginning to deal with his work. Heidegger is widely cited [5] in our pages. But so far, we have published only the following pieces related to Heidegger:

There is also some discussion of Heidegger in Trevor Lynch’s review essay [12] on Christopher Nolan’s The Dark Knight.

When we commemorate Heidegger’s birthday again next year, I hope this list will have grown considerably.

Heidegger is a notoriously difficult stylist. But he was a brilliant lecturer, and his lecture courses are far more accessible than the works he prepared for publication. There are two useful anthologies of Heidegger’s basic writings: Basic Writings [13], ed. David Farrell Krell and The Heidegger Reader [14], ed. Günther Figal.

Eventually, every reader of Heidegger will have to conquer Being and Time [3], but a useful preparation for reading Being and Time is the contemporary lecture course History of the Concept of Time: Prolegomena [15]. Being and Time was never finished, but one can get a sense of how the book would have been completed by reading another highly lucid lecture course, The Basic Problems of Phenomenology [16].

Other essential lecture courses are Introduction to Metaphysics [17] and Nietzsche, which comprises four lecture courses (plus supplemental essays). Originally published in English in four volumes, the Nietzsche lectures are now available in two large paperbacks: Nietzsche: Vols. 1 and 2 [18] and Nietzsche: Vols. 3 and 4 [19].

There is an immense secondary literature on Heidegger, but most of it is no more accessible than Heidegger himself. The best biography is Rüdiger Safranski, Martin Heidegger: Between Good and Evil [20]. Another highly interesting biographical work is Heinrich Wiegand Petzet, Encounters and Dialogues with Martin Heidegger, 1929-1976 [21], which gives a vivid sense of the highly cultivated people in Heidegger’s generally right-wing and National Socialist milieu.

As for Heidegger’s philosophy, Richard Polt’s Heidegger: An Introduction [22] is a lucid overview of the whole range and development of Heidegger’s thought. Julian Young is another very lucid expositor. He is the author of three books on Heidegger: Heidegger’s Later Philosophy [23], Heidegger’s Philosophy of Art [24], and Heidegger, Philosophy, Nazism [25]. I highly recommend them all.

 


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mercredi, 14 septembre 2011

Vaart wel, professor Piet Tommissen

Vaart wel, professor Piet Tommissen
 
Peter W. LOGGHE
 
Ex: Nieuwsbrief - Deltastichting, Nr. 51 (september 2011)
 
Ik moet bekennen dat ik toch wel geëmotioneerd geraakte toen ik het overlijdensbericht van professor Piet Tommissen onder ogen kreeg. Weliswaar bereikte hij de gezegende leeftijd van 87 jaar en bleef hij nog zeer lang boeken uitgeven en artikels schrijven.  Maar deze Vlaamse economist, socioloog en overtuigd nationalist heeft ongetwijfeld bij een aantal mensen meer sporen nagelaten dan hij misschien wel heeft vermoed. Ook en vooral in het buitenland.
 
Professor Piet Tommissen is de Carl Schmitt-kenner en –specialist bij uitstek. De rechtsgeleerde en jurist Schmitt was – vanuit de vooroorlogse situatie in Duitsland natuurlijk – zowat de zondebok van de kringen van politicologie en juridische wetenschappen overal in Europa.  Maar tevens was het werk van Schmitt zeer vruchtbaar, zodat Roman Schnur over Schmitt zei: “Het is de eik waaronder de everzwijnen hun truffels kwamen zoeken”.  Piet Tommissen, toen nog een jonge knaap, zocht contact met Carl Schmitt en werd uiteindelijk goed bevriend. De eerste bibliografie over Schmitt werd door dezelfde Tommissen verzorgd, in het jaar 1953. Men moet zich de toestanden proberen voor te stellen: geen computers, geen fax- of kopiemachines, alles met stylo of potlood overschrijven. In de harde naoorlogse jaren naar Plettenburg reizen, zal ook al geen lachertje geweest zijn.

Nooit sant in eigen land

Vanaf 1990 zou Tommissen trouwens een soort jaarboeken uitgeven, “Schmittiana”, bij Duncker & Humblot in Berlijn. Jaarboeken gewijd aan de studie van de werken van Schmitt – de eerste drie Schmittiana  verschenen in 1988, 1990 en 1191 als dubbelnummers van de “Eclectica”-monografieën uitgegeven bij de EHSAL. Jaarboeken waar vele juristen, waar vele politicologen inspiratie hebben gevonden. IJkpunten zijn het geworden in de studie van Carl Schmitt. “Onze” Piet Tommissen.

Piet Tommissen volgde economische studies aan Handelshogeschool Sint-Aloysius in Brussel en de Universiteit te Antwerpen. Voor zijn doctoraatsthesis – een tweede belangrijk thema trouwens –  koos hij voor het onderwerp Vilfredo Pareto, wij hebben het over  1971. Kenners laten zich nog altijd zeer positief uit over het boek.  Tommissen toont hier al zijn kunnen: een interdisciplinaire waarnemer en een man met een grote eruditie.  Ook in de kunst kon hij zijn mannetje staan: ik verwijs graag naar zijn contacten met de laatste ‘Belgische’ surrealist Marc Eemans.
 
Hij was niet alleen een uitstekend kenner van Pareto en Schmitt, maar ook van Georges Sorel, Julien Freund en zovele andere Franse politieke en metapolitieke denkers. Toen het Franse luxetijdschrift van Nieuw Rechts, Nouvelle Ecole, in 2007 een nummer uitbracht over Georges Sorel, lazen wij met interesse de tekst daarin van de onvermoeibare Piet Tommissen.

Piet Tommissen was nooit sant in eigen land. In gelijk welk ander Europees land zou een man als Tommissen in de bloemen gezet worden, overstelpt met staatsfelicitaties. Niet zo in dit land. Piet Tommissen werd niet geëerd in België. Waarom? We hebben er het gissen naar. Was het omdat zijn politieke overtuiging zo sterk was? Was het omdat hij de Vlaamse zaak méér dan genegen was en eigenlijk sterk heel-Nederlands dacht (vandaar zijn engagement in de Marnixring, zijn bijdragen aan het vormingstijdschrift TeKoS)?

Ik zal professor Piet Tommissen niet licht vergeten. Ik zal hem niet licht vergeten omwille van zijn publicaties op latere leeftijd, de zogenaamde “Buitenissigheden’ waar hij met veel humor en zachte spot zijn wedervaren uit vroegere dagen opriep. Ik zal hem niet licht vergeten omdat hij mij Carl Schmitt liet ontdekken. Laten we vooral niet vergeten dat professor Tommissen waarschijnlijk ook een van de eersten is geweest die het Mohleriaans begrip ‘conservatieve revolutie’ in de Lage Landen heeft verspreid en een aantal Vlaamse en Nederlandse jongeren heeft geïnspireerd. En blijft inspireren.


Dank u, Piet Tommissen. Vaart wel, professor Piet Tommissen!

(P.L)

Voor rouwbetuigingen aan kunt u op deze verbinding terecht.

Piet Tommissen: le Grand Maître des notes en bas de page

Piet Tommissen: le Grand Maître des notes en bas de page

 

Modeste, il brisait les blocages mentaux

 

Hommage au Schmittien flamand Piet Tommissen

 

Par Günter MASCHKE

 

“La rcherche sur Carl Schmitt, c’est moi’”, aurait pu dire Piet Tommisen dès 1952, alors qu’il n’avait que vingt-sept ans. Ce Flamand était à l’époque un étudiant sans moyens, qui étudiait  seul l’économie politique et la sociologie, en autodidacte, alors qu’il avait un boulot banal. Sans cesse, il venait à Plettenberg dans le Sauerland pour rencontrer Carl Schmitt, après des voyages pénibles dans un pays totalement détruit. Et l’étudiant Tommissen posait des questions au Maître: il était très respectueux mais si curieux et si pressant qu’il exagérait parfois dans ses véritables interrogatoires, jusqu’à perdre la plus élémentaire des pitiés! A l’époque, il n’y avait pas de photocopieurs et Tommissen recopiait sur sa petite machine à écrire portable des centaines d’essais ou de documents, tout en pensant à d’autres chercheurs éventuels: il utilisait sans lésiner de gros paquets de papier carbone.

 

Sans Tommissen, la célébrité de Carl Schmitt aurait été plus tardive

 

Certes, Carl Schmitt, grand juriste et politologue allemand, diffamé et réprouvé après 1945, avait quelques autres amis fidèles mais il faut dire aujourd’hui que le travail le plus pénible pour le sortir de son isolement a été effectué par Piet Tommissen. Sans ce briseur de blocus venu de Flandre, la célébrité acquise par Schmitt aurait été bien plus tardive. Tommissen a établi la première bibliographie de Schmitt de bonne ampleur (cf. “Versuch einer Carl Schmitt-Bibliographie”, Academia Moralis, Düsseldorf, 1953); il a écrit une série impressionnante, difficilement quantifiable, de textes substantiels, en allemand, en français, en néerlandais, en espagnol, etc., sur la vie et l’oeuvre du plus récent de nos classiques allemands en sciences politiques; il a découvert et édité les multiples correspondances entre Schmitt, grand épistolier, et d’autres figures, telles Paul Adams, Hugo Fischer, Julien Freund, etc.; enfin, à partir de 1990, il a publié huit volumes de la série “Schmittiana” (chez Duncker & Humblot à Berlin), tous absolument indispensables pour qui veut s’occuper sérieusement de l’oeuvre de Schmitt. Tout véritable connaisseur de Schmitt devra dorénavant acquérir et potasser cette collection.

 

Tommissen était le maître incontesté d’un genre littéraire particulièrement noble: l’art de composer des notes en bas de page. Ses explications, commentaires, indices biographiques et bibliographiques réjouissent le “gourmet”, même après maintes lectures et relectures, et constituent les meilleurs antidotes contre les abominables simplifications qui maculent encore et toujours la littérature publiée sur Schmitt et son oeuvre. Dis-moi qui lit avec zèle les notes de Tommissen et je te dirai quelle est la valeur des efforts qu’il entreprend pour connaître Schmitt!

 

Tommissen était surtout la “boîte à connexions” dans la recherche internationale sur Schmitt ou, si on préfère, la “centrale de distribution”. Presque tout le monde lui demandait des renseignements, des indices matériels, des conseils. Ainsi, il savait tout ce qui se passait dans le monde à propos de Schmitt. Pour ne citer que quelques noms: tout ce à quoi travaillaient Jorge Eugenio Dotti en Argentine, Alain de Benoist en France, Antonio Caracciolo en Italie, Jeronimo Molina en Espagne ou moi-même, auteur de ces lignes nécrologiques, Tommissen le savait et c’est pour cette raison qu’il pouvait susciter de nombreux contacts fructueux. Tous ceux qui connaissent les cercles de la recherche intellectuelle s’étonneront d’apprendre que Tommissen a toujours su résister à la tentation de rationner ses connaissances ou de les monopoliser. Son mot d’ordre était: “Le meilleur de ce que tu peux savoir, tu dois toujours le révéler à tes étudiants!”.

 

Bon nombre d’admirateurs de Tommissen déploraient une chose: notre professeur ne prenait que fort rarement position et ne formulait qu’à contre-coeur des assertions théoriques fondamentales. Cette réticence n’était nullement la faiblesse d’un collectionneur impénitent mais le résultat d’une attitude toute de scrupules, indice d’une grande scientificité. Après une conversation de plusieurs heures avec Tommissen, mon ami Thor von Waldstein était tout à la fois enthousiasmé et perplexe: “Qui aurait cru cela! Cet homme incroyable creuse en profondeur. Il sait tout en la matière!”.

 

Il serait toutefois faux de percevoir Tommissen exclusivement comme un “schmittologue”. Il était aussi un excellent connaisseur des écrits de Vilfredo Pareto et de Georges Sorel, deux “mines d’uranium” comme les aurait définis Carl Schmitt. Il y a donc un mystère: comment un homme aussi paisible et aussi bienveillant que Tommissen ne s’est-il préoccupé que de ces “dinamiteros” intellectuels? Sa thèse de doctorat, qu’il n’a présentée qu’en 1971, et qui s’intitule “De economische epistemologie van Vilfredo Pareto” (Sint Aloysiushandelhogeschool, Bruxelles), lui a permis, après de trop nombreuses années dans le secteur privé, d’amorcer une carrière universitaire. Cette thèse restera à jamais l’un des travaux les plus importants sur le “solitaire de Céligny”, sur celui qui n’avait plus aucune illusion. Quant aux études très fouillées de Tommissen sur Sorel, cette géniale “plaque tournante” de toutes les idéologies révolutionnaires, devraient à l’avenir constituer une lecture obligatoire pour les lecteurs de Sorel, qui se recrutent dans des milieux divers et hétérogènes.

 

L’oeuvre majeure de Tommissen est une histoire des idées économiques

 

La place manque ici pour évoquer en long et en large les recherches de Tommissen sur la pensée politique française des 18ème et 19ème siècles, ses essais sur les avant-gardes surréalistes et dadaïstes en Europe. Pour mesurer l’ampleur de ces recherches-là, il faut consulter la bibliographie composée avec amour par son fils Koenraad Tommissen (“Een buitenissige biblografie”, La Hulpe, Ed. Apsis, 2010).

 

L’exemple le plus patent de l’excellence des travaux de Tommissen en sciences humaines (au sens large) est incontestablement son ouvrage majeur “Economische systemen” (Deurne, 1987). Dans l’espace relativement réduit de 235 pages, Tommissen nous brosse l’histoire des idées économiques de l’antiquité à la Chine post-maoïste, en complétant son texte, une fois de plus, d’innombrables notes de bas de page et d’indices substantiels. Il nous révèle non seulement l’histoire dramatique de l’économie politique à travers les siècles mais nous introduit également à l’étude du substrat politique, culturel et idéologique de “l’homme travaillant” au cours de l’histoire. Un bon livre nous épargne très souvent la lecture de centaines d’autres et nous encourage à en lire mille autres!

 

La personnalité de Piet Tommissen nous révèle aussi que le questionnement, la lecture, la compilation, la pensée, l’écriture ne connaissent jamais de fin, que ce travail est épuisant mais procure aussi énormément de bonheur.

 

“Si tu veux aller à l’infini

Borne-toi donc à arpenter le fini en tous ses recoins”

(“Willst Du ins Unendlichen schreiten,

Geh nur im Endlichen nach allen Seiten”),

nous dit l’Olympien de Francfort-sur-le-Main, de Weimar.

 

Piet Tommissen, né le 20 mars 1925 à Lanklaar dans le Limbourg flamand est décédé à Uccle le 21 août 2011.

 

Günter MASCHKE.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°36/2011 – http://www.jungefreiheit.de ).

In Memoriam Piet Tommissen

“Scribens mortuus est”

In memoriam Piet Tommissen

(20 mars 1925 – 21 août 2011)

 

par Hans VERBOVEN

 

Dans la basilique Saint Servais de Grimbergen nombreux étaient les amis, les collègues, les voisins et les parents du Professeur Piet Tommissen rassemblés pour prendre congé de lui, le 26 août 2011. Le prêtre, Gereon van Boesschoten, o. praem., dès le début de la célébration eucharistique, a rappelé la signification du vers “Mijn schild ende betrouwen, zijt Gij o God mijn Heer” (“Ô Seigneur, Mon Dieu, Tu es mon bouclier et ma confiance”), qui ornait le faire-part. Filip de Vlieghere, président du Marnixring (“Cercle Marnix”), a évoqué les grandes qualités humaines et les capacités d’organisateur du défunt Piet Tommissen. Un collègue “émérite” de la haute école EHSAL, esquissa un portrait très pertinent de ce professeur d’université à l’immense érudition. La cérémonie fut sobre, de grand style, avec le drapeau flamand orné du lion noir et le drapeau du “Cercle Marnix” flanquant l’autel; elle se termina par le “Gebed voor het Vaderland” (“la Prière pour la Patrie”), particulièrement bien joué par l’organiste Kamiel D’Hooghe. C’est vraiment ainsi que le défunt l’aurait voulu.

 

Lorsque je rendis visite au Professeur Tommissen, pour la dernière fois, à Uccle, au début de cette année, j’avais amené, à sa demande, une photo de mes enfants. A l’arrière de la photo, il a inscrit leurs noms et leurs dates de naissance. C’était typique de lui, de l’homme qu’il était, de cet archiviste invétéré, de ce collectionneur. Chaque rencontre, chaque conversation téléphonique commençait toujours par un petit débat sur les heurs et malheurs de la vie familiale: seulement après cette brève enquête, on parlait du “boulot”. Son fils Koenraad, ses petits-enfants et ses arrière-petits-enfants étaient sa grande passion.

 

Attendri et avec beaucoup d’emphase, il me parlait toujours des visites de ses plus jeunes descendants. Lors de notre dernière rencontre, je lui ai offert un livre, avec la dédicace suivante: “Pour le Professeur Tommissen, en remerciement de son amitié et de ses conversations grand-paternelles”. Pour moi aussi, il était un grand-père, dans tous les sens du terme. Il était cordial et prévenant, d’une gentillesse totale et il avait la sagesse et le raffinement que seule procure une longue vie. En vérité, un grand homme!

 

Le Professeur Tommissen était un grand savant et, surtout, le fondateur et le “grand seigneur” de toutes les recherches entreprises autour de l’oeuvre et de la personnalité du penseur et juriste allemand Carl Schmitt. Bon nombre de professeurs d’université allemands venaient lui demander conseil et lui soumettaient leurs manuscrits pour qu’il les corrige. Ses connaissances sur Vilfredo Pareto, Ernst Jünger, Victor Leemans et Georges Sorel, entre autres personnalités, étaient immenses, sans pareilles. Armin Mohler le nommait le “petit écureuil des Flandres”, allusion à cette pulsion qui était la sienne et le poussait à collectionner avec acribie et scientificité détails, notes, anecdotes et références. Outre sa riche bibliothèque, il possédait une énorme correspondance, composée de milliers de lettres et échangée avec les personnalités les plus diverses et les plus renommées de l’intelligence européenne de notre après-guerre. Il faut savoir que sa qualité de professeur n’était pas une vocation tardive, bien qu’elle ne put s’accomplir que fort tard dans sa vie.

 

Au cours des premières années de son mariage, il avait eu bien d’autres chats à fouetter. Tommissen fut un homme qui dut se tailler seul un sentier dans la vie, accompagné par sa chère épouse, Agnès Donders, morte beaucoup trop tôt. Sa thèse de doctorat, à l’UFSIA d’Anvers, fut la toute première qui fut défendue dans cette célèbre université dirigée par les Jésuites. Le poste d’enseignement universitaire qu’il obtint auprès de la haute école EHSAL à Bruxelles et de la LUC au Limbourg fut bel et bien la récompense méritée de son dévouement et de sa persévérance. Tommissen travaillait et s’occupait de sa famille sans fléchir: le résultat fut un flot ininterrompu d’articles dans toutes sortes de revues et de monographies. Son fils, le Dr. Koenraad Tommissen, en établissant la bibliographie de son père, a compté pas moins de 614 publications (cf. “Een buitenissige bibliografie”, La Hulpe, 2010).

 

Piet Tommissen était un grand Flamand, conscient de l’être, qui joua un rôle fort important dans la renaissance de la vie culturelle flamande après la seconde guerre mondiale. Les revues “Golfslag” et “De Tafelronde” sont étroitement liées à sa personne. Dès le départ, en 1956, il collabora à “Dietsland-Europa”, où il signait ses contributions de son propre nom, ce qui n’était guère évident en une époque où les conséquences de la répression gouvernementale étaient partout perceptibles. Tommissen fournit également des articles de bonne facture à “Teksten, Kommentaren en Studies” et à “Kultuurleven”. Ensuite, il participa à la création du “Marnixkring Zennedal” (“Cercle Marnix – Vallée de la Senne”) et fut, pendant un certain temps, le président de ce club de service d’inspiration nationale flamande.

 

J’ai lu beaucoup de ce qu’a écrit Piet Tommissen mais les textes de lui, que j’ai préférés, sont ceux qui furent, au cours de ces dernières années, consignés dans ses “Buitenissigheden”, ses “Extravagances”, une série de petits livres où notre homme a couché sur le papier de véritables petites perles: certaines d’entre elles étaient nouvelles, d’autres étaient anciennes et retravaillées, toutes concernaient des sujets variés. Deux d’entre ces “Extravagances” sont autobiographiques. Elles sont toutes d’une prose épurée, d’un ton doux et humoristique. Je les ai lues et je les relirai. En effet, celui qui écrit, demeure. Mais nous regretterons tous amèrement les bonnes conversations que nous avons eues avec ce gentil professeur.

 

Hans VERBOVEN.

(Hommage paru dans “’t Pallieterke”, Anvers, 31 août 2011).