Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

jeudi, 08 septembre 2011

Piet Tommissen o dell'ostinazione - In Memoriam

Piet Tommissen o dell'ostinazione 

In memoriam (1925-2011)

Günter Maschke

Si è spento lo scorso 21 agosto Piet Tommissen, sociologo ed economista belga, noto per i suoi studi su Vilfredo Pareto e Carl Schmitt, del quale fu amico e bibliografo e alla cui opera, a lungo negletta, ha dedicato una quantità di scritti che hanno contribuito a diffonderla su scala internazionale. Molto stretto fu anche il suo rapporto con Julien Freund. Tommissen – “il matto” come lo definiva amabilmente Gianfranco Miglio – è stato senz’altro uno degli esponenti più in vista della tradizione del realismo politico europeo e un punto di riferimento per tutti i giovani studiosi che a questa tradizione si sono richiamati nel corso degli anni. Lo ricordiamo pubblicando l’omaggio che in occasione dei suoi 75 anni, nel 2000, gli ha dedicato Günter Maschke, a sua volta amico ed editore di Schmitt, nonché curatore di alcune sue importanti raccolte di scritti.

Cicerone disse una volta: «Niente fa più impressione dell’ostinazione». Questa frase potrebbe applicarsi perfettamente alla vita e all’opera dell’economista politico fiammingo Piet Tommissen, che ha festeggiato lo scorso 20 marzo i suoi 75 anni conservando intatta la sua impressionante energia lavorativa.

Quanti cercano ancora la prova dell’evidenza che ogni cultura riposa sull’atto gratuito, sul lavoro prestato senza remunerazione, la troveranno nella persona di Piet Tommissen. Dopo la Seconda guerra mondiale, Carl Schmitt era il capro espiatorio favorito nella sfera delle scienze giuridiche e politiche tedesche, ma anche, occorre ripeterlo, la «quercia sotto cui i cinghiali venivano a cercare i loro tartufi» (Roman Schnur dixit). Durante questo buio periodo, il giovane Piet Tommissen ha dato la sua amicizia a Schmitt, insieme ad alcuni, rari fedeli amici tedeschi; ha presto redatto la prima bibliografia di Carl Schmitt in condizioni difficili (Versuch einer Carl-Schmitt-Bibliographie, Academia Moralis, Düsseldorf 1953). E quando dico «condizioni difficili», voglio ricordare ai miei contemporanei che Tommissen ha effettuato questo lavoro molto prima che esistessero ovunque, come oggi, delle fotocopiatrici in cui è possibile riprodurre testi a bizzeffe. Tommissen ritrascriveva a mano, con la sua penna a inchiostro, centinaia di articoli di Schmitt o li batteva su una vecchia macchia per scrivere da viaggio, con carta carbone, per aspera ad astra. Ha effettuato questo lavoro quand’era uno studente senza mezzi, nei duri anni del dopoguerra in cui ogni viaggio esplorativo verso Plettenberg (dove Schmitt si era ritirato) presentava continue difficoltà finanziarie. È dunque con inizi così difficili che Tommissen, nel corso degli anni, è divenuto il migliore esperto, e il più meticoloso, dell’opera di Carl Schmitt.

I frutti di questo lavoro così disinteressato si ritrovano oggi in innumerevoli articoli e studi, in nuove bibliografie e, a partire dal 1990, in una collana di libri battezzata «Schmittiana» che esce presso Duncker & Humblot a Berlino. Oggi noi riteniamo tutti che simili lavori siano facili da realizzare, ma fu lungi dall’essere così all’epoca eroica del giovane studente e del giovane economista Tommissen. Direi persino di più: senza la marea di contributi e di dettagli apportati e scoperti da Tommissen, l’impresa di diffamazione internazionale che ha orchestrato il boicottaggio e l’ostracismo contro Schmitt – e contribuito così alla sua gloria! – apparirebbe ancora più sciocca e pietosa perché non avrebbe alcun valido argomento, né saprebbe nulla delle tante sfaccettature delle sua persona.

Tommissen, che ha studiato le scienze economiche alla Haute Ecole économique Sint-Aloysius a Bruxelles e all’Université des Jésuites di Anversa, ha dovuto lavorare, accanto alle sue ricerche, per guadagnarsi il pane come procuratore industriale. Accede al titolo di dottore nel 1971 presentando una tesi su Vilfredo Pareto. Intitolata De economische epistemologie van Vilfredo Pareto (Sint-Aloysius Handelshogeschool, Bruxelles 1971), questa tesi può essere considerata come una delle più importanti e fondamentali opere mai redatte sul grande uomo. Ogni ricercatore che desiderasse dedicarsi seriamente all’italiano Pareto dovrebbe acquisire almeno una conoscenza passiva dell’olandese. Il che non mi impedisce di rimpiangere che Tommissen non abbia scritto il suo libro in tedesco o in francese: ma, ahimè, la gloria è ingiusta, mostruosa per le lingue minoritarie. In questo lavoro, noi incontriamo già tutto Tommissen: un osservatore interdisciplinare che si serve di questa interdisciplinarietà con la massima naturalezza, come se fosse evidente; un autore che possiede la grande arte di mettere in esergo i legami tra le cose più diverse. Alla lettura di questa tesi, non acquisiremo solo conoscenza dei problemi fondamentali dell’economia politica europea fino agli anni che hanno immediatamente seguito la Prima guerra mondiale, ma anche di tutto lo sfondo politico, filosofico e psicologico che animava il «solitario di Céligny». Tommissen ci restituisce con amore e espressività tutto questo sfondo, di solito ignorato da molti autori, troppo legati alla superficie dei testi. Nessun altro studio dettagliato renderà pertanto la tesi di Tommissen caduca.

Ma si capirebbe male il personaggio Tommissen se lo si considerasse solo come uno specialista di Schmitt e Pareto, lui che ha insegnato dal 1972 al 1990 alla Haute Ecole d’Economie Sint-Aloysius di Bruxelles in cui curava la collana «Eclectica» che contiene montagne di tesori, di aneddoti e dettagli sempre inaspettati su Schmitt. Pochi ricercatori sanno in Germania che conosce anche bene Georges Sorel, Julien Freund e il pensiero politico francese del XIX e del XX secolo. Tommissen ha sempre dichiarato, expressis verbis, che voleva praticare le «scienze umane nel senso più ampio del termine».

Un esempio particolarmente sorprendente di concretizzazione di questa volontà è il suo libro Economische Systemen (Uitgeverij N.V., Deurne, 1987). In poche pagine, Tommissen vi abbozza la storia delle idee economiche dall’antichità alla Cina post-maoista e le innumerevoli note e considerazioni fondate che ha aggiunto al testo ci aprono a quel dramma che è la storia economica dell’umanità e ci comunicano le radici e le fondamenta politiche, culturali e ideologiche dell’uomo lavoratore nel corso della storia. Un buon libro rende la lettura di cento altri superflua e ci incoraggia a leggerne ancora altre migliaia. Ecco! Straordinarie conoscenze in letteratura e storia dell’arte… Ma in tutti i lavori di economia e scienze politiche scritti da Tommissen il lettore è costantemente sorpreso dalle sue straordinarie conoscenze della letteratura e della storia dell’arte, poiché aveva a lungo accarezzato l’idea di studiare la filologia germanica e la storia dell’arte. Conosce ad esempio il dadaismo e il surrealismo europei in tutte le loro varianti. Non aveva ancora trent’anni quando invitava già nelle Fiandre per tenervi delle conferenze autori tedeschi come Heinz Piontek e Heinrich Böll (e sarei tentato di aggiungere: quando questi erano ancora degli scrittori interessanti!).

Solo quanti sono consapevoli dell’enorme lavoro prestato da Tommissen hanno il diritto di pronunciare una critica: questo maestro della nota a piè di pagina esagera talvolta nel suo zelo di voler dire tutto, poiché sottovaluta spesso le conoscenze dei suoi lettori. Ma in Tommissen non vi è alcun orgoglio a motivare la sua azione, né alcuna vanità, perché è il calore umano incarnato. Per lui, l’uomo è nato per aiutare il suo prossimo e per ricevere da questo un aiuto equivalente. Tanto che Tommissen, l’eminenza, non ha alcuna vergogna di imparare qualcosa, anche d’infima importanza, in uno scrittoretto appena uscito dalla pubertà e senza esperienza.

Una fedele dedizione a Pareto e Schmitt

Sempre felice di dare un’informazione, sempre alla ricerca di informazioni da altri con la più squisita amabilità, Tommissen ha permesso la nascita di molti lavori scientifici e ha seminato molto più di quanto i tanti ingrati lascino intendere al loro pubblico. Un uomo di questa natura così particolare e valida merita i nostri omaggi perché ha dedicato volontariamente e fedelmente una grande parte della sua vita a quelli che considera i suoi maestri: Vilfredo Pareto e Carl Schmitt. Viene in mente un brillante saggista e sovrano narratore come Adolf Frisé che per molti decenni non ha esitato a esplorare l’opera di Robert Musil e a diffonderla. Spesso la luce che brilla sotto il moggio è la più viva! Ad multos annos, Piet Tommissen!

lundi, 11 juillet 2011

Un très grand Européen

OttovH346965.jpg

Un très grand Européen

par Georges FELTIN-TRACOL

Kuk-doppeladler3.jpgLe 4 juillet 2011 à Pöcking en Bavière est décédé à l’âge de 98 ans un ardent Européen, Otto de Habsbourg-Lorraine. Moralement atteint par la disparition, dix-huit mois plus tôt, de son épouse, la princesse Regina de Saxe – Meiningen, qu’il avait rencontrée au hasard d’une action caritative dans un camp de réfugiés hongrois en Allemagne à la fin des années Quarante, et physiquement affaibli par une mauvaise chute à son domicile, l’archiduc Otto ne montrait plus ces derniers temps cette formidable vitalité qu’il avait su déployer tout au cours de sa vie marquée par les tragédies du XXe siècle.

Né le 20 novembre 1912 en Autriche-Hongrie, Otto de Habsbourg-Lorraine est l’aîné de l’archiduc Charles et de la princesse Zita de Bourbon-Parme. En 1916, il voit son père succéder à François-Joseph Ier et devenir le nouvel empereur Charles Ier d’Autriche et roi Charles IV de Hongrie. Proche de son cousin l’archiduc François-Ferdinand assassiné, le 28 juin 1914, à Sarajevo, le nouvel empereur-roi tente dès 1917 d’arrêter l’immense carnage européen en souhaitant négocier une paix séparée avec la France. Il soutient les initiatives diplomatiques secrètes de ses beaux-frères, les princes Sixte et Xavier de Bourbon-Parme, ainsi que celles du maréchal Smuts, le Premier ministre du dominion sud-africain. Hélas, ces approches sont torpillées par la sinistre figure de ce cancer de la politique française qu’est le Parti radical et radical-socialiste, Clemenceau.

La fin de la Grande Guerre en 1918 entraîne la révolution, la chute de la dynastie autrichienne et l’éclatement de l’ensemble danubien au profit d’une application aveugle des idées nationalitaire et stato-nationale. Écarté du pouvoir et surveillé par les Alliés, l’empereur Charles essaye à deux reprises en 1921 de reprendre sa couronne en Hongrie, mais il y renonce devant le refus du régent Horthy et de l’Entente. Trahi et malade, l’empereur-roi s’exile sur l’île de Madère et il y meurt en 1922, laissant une veuve et huit enfants.

En dépit de conditions matérielles difficiles, l’impératrice Zita inculque à ses enfants le sens du devoir. Elle « insistait sur la discipline de la vie. Je ne sais pas si cela correspondait à son caractère ou si elle s’était crue obligée, à la mort de mon père, de le remplacer. Toujours est-il que son éducation fut très sévère, mais je lui en suis profondément reconnaissant aujourd’hui (1) ». Véritable maîtresse-femme, l’Impératrice affronte les épreuves avec dignité et abnégation. Sa fidélité à son époux défunt fait qu’elle ne signera jamais la moindre déclaration de loyauté à la République autrichienne…

Axée sur l’histoire et la politique, l’instruction du jeune Otto est aussi linguistique. Son apprentissage est polyglotte puisqu’il va bientôt s’exprimer couramment sept langues (l’allemand, le hongrois, le français, l’espagnol, l’anglais, l’italien et le latin). Très jeune, il apprend aussi le croate et, à la suite de séjours fréquents au bord du golfe de Biscaye, il s’initie au basque… Bien plus tard, dans l’enceinte du Parlement européen, il prononcera une allocution en latin. Seul Bruno Gollnisch, qui lui a rendu hommage dans un communiqué, pourra lui répondre.

Sa facilité pour les langues et son appétence pour l’histoire lui font prendre conscience du fait européen, et ce dès l’Entre-deux-guerres. « Qui connaît l’histoire sait que, par le passé de ma famille, je suis lié à de nombreuses régions de ce continent, que ce soit la Flandre ou le Brabant, l’Espagne, le Portugal, l’Allemagne, la Lorraine, la Lituanie et la Hongrie, la Suisse actuelle, l’Italie et la Bourgogne. N’étais-je pas, de ce fait, le légataire d’une vocation européenne avant la lettre ? (2) »

Ce n’est pas un hasard s’il écrit en 1967 une biographie de Charles Quint (3). C’est en 1936 qu’il rencontre à Paris un autre passionné de l’Europe : le comte Richard Coudenhove-Kalergi, auteur de la Paneurope. Certes, Coudenhove-Kalergi conçoit l’unité continentale européenne comme le dernier palier avant l’avènement d’une Fédération mondiale. Cette idée ne lui appartient pas en propre puisque ce « zonisme » se retrouve tout aussi bien chez Denis de Rougemont ou Jacques Maritain avec une propension « planétarienne » marquée, que chez Carl Schmitt ou Karl Haushofer (4). Comme la langue d’Ésope, la politogénèse européenne peut être un agent au service du mondialisme ou un amplificateur de puissance majeur des identités enracinées. A contrario des vieilles thèses européistes, il importe aujourd’hui de la considérer comme le facteur oppositionnel le plus efficient au projet d’État mondial.

Dans les années Trente, la mue européenne d’Otto de Habsbourg-Lorraine n’est pas encore complète. Après avoir lu Mein Kampf et cerné la personnalité de son auteur, il cherche à empêcher l’Anschluss de l’Autriche par l’Allemagne. Il devient l’ennemi personnel d’Hitler qui le fait condamner à mort. En 1937, le chancelier autrichien Schuschnigg envisage un instant de lui confier la direction d’un gouvernement d’union nationale afin de résister aux menées de Berlin. Schuschnigg recule cependant sous la pression conjuguée de l’Allemagne, de l’Italie et de la Petite-Entente (le Tchécoslovaque Bénès déclarant préférer Hitler aux Habsbourg…).

Entre 1940 et 1944, Otto de Habsbourg-Lorraine quitte l’Europe en feu et s’installe aux États-Unis. Le conférencier découvre l’American way of life, son matérialisme et l’absence de profondeur historique : « Je ne suis devenu un vrai Européen que quand je vivais aux États-Unis, et surtout lorsque j’ai tourné le dos aux gratte-ciel de New York (5). »

De retour sur le « Vieux Continent » à la fin du second conflit mondial, Otto de Habsbourg-Lorraine se fait l’avocat de la cause européenne qu’il juge vitale pour l’avenir du continent d’autant qu’après le national-socialisme, l’Europe se retrouve menacée par le danger communiste. Membre de la W.A.C.L. (Ligue anti-communiste mondiale) et adhérent dès 1948 – 1949 à la Société du Mont Pèlerin au sein de laquelle il soutient l’école néo-libérale autrichienne, von Mises en particulier, et aussi l’ordo-libéralisme de Wilhelm Röpke, l’Archiduc ne cesse d’avertir ses compatriotes du péril soviétique qu’il confond souvent avec la politique expansionniste traditionnelle de la Russie. En 1994, il « n’accepterai[t] l’idée de l’admission de la Russie à la Communauté européenne qu’après qu’elle ait décolonisé. C’est géographiquement et culturellement un pays européen, mais avec ses immenses possessions de l’Oural à l’Océan Pacifique, ce que l’on appelle la Sibérie, elle ne sait même pas elle-même si elle est européenne ou non (6) ».

Son libéralisme est assez pragmatique. Il conteste les empiétements tentaculaires de l’État sur les petits entrepreneurs et les classes moyennes. En 1967, la revue Janus consacre un dossier sur le « capitalisme populaire » auquel collaborent Denis de Rougemont et Otto de Habsbourg-Lorraine.

Pour vivre, l’Archiduc devient journaliste et couvre la fin de la guerre civile chinoise. Puis, il suit les combats en Indochine et voyage en Asie – Pacifique. De ses reportages sort L’Extrême-Orient n’est pas perdu (7), une enquête sur les futurs « Tigres » et « Dragons » alors tout juste décolonisés et risquant de passer sous la coupe bolchevique. L’acuité de l’époque le rend atlantiste quand bien même son atlantisme demeure raisonnable. À partir des années Soixante, il applaudit la politique étrangère du général de Gaulle. Au sein des cénacles atlantistes, il revendique l’égalité entre les deux rives de l’Atlantique et condamne la sujétion de l’Europe aux États-Unis. Sans succès. Pis, en 1990 – 1991, il approuvera l’intervention occidentale au Koweït contre l’Irak.

Soucieux de participer à l’aventure européenne, outre la présidence de l’Union paneuropéenne internationale de Coudenhove-Kalergi, Otto de Habsbourg-Lorraine devient en 1979 député européen à Strasbourg – Bruxelles après avoir acquis la nationalité allemande un an plus tôt. Élu de Bavière, il fait partie de la très droitière C.S.U. (Union chrétienne sociale) de Franz Josef Strauss. Pendant vingt ans, il y développe une certaine idée de l’Europe, car « ce qui distingue notre continent des autres, c’est son immense passé, avec ses éléments que sont la spiritualité chrétienne et le bon sens formé par la sagesse grecque et par le droit romain (8) ». C’est aussi un grand militant de la diversité culturelle intrinsèque de l’Europe. « Dans une Europe “ pluriculturelle ” et non pas “ multiculturelle ”, une Europe pluraliste donc, la coexistence des cultures et des langues me paraît […] possible et même souhaitable (9). » Son plaidoyer en faveur du pluralisme culturel s’inspire du précédent institutionnel de la Double-Monarchie habsbourgeoise…

Hostile à toute langue hégémonique – dont l’anglais -, et déçu que le latin ne soit plus la langue véhiculaire de la civilisation européenne, Otto de Habsbourg-Lorraine suggère de faire du français la langue officielle de l’ensemble européen. À cet effet, il organise et préside le Comité international pour le français, langue européenne, ce qui lui permet en 1970 d’être associé étranger à l’Institut de France. Son intérêt pour la langue de Molière n’est pas anecdotique. Il n’oublie pas qu’il est Capétien par sa mère et que sa famille est originaire de Lorraine avec le duc François qui devint empereur du Saint-Empire (François Ier) et époux de Marie-Thérèse d’Autriche. C’est en souvenir de ce passé lorrain que le duc de Bar qu’il est aussi, épousa à Nancy, le 10 mai 1950, la princesse Regina. Par ailleurs, toujours par héritage familial, ce descendant de la Maison de Bourgogne est de 1922 à 2001 le chef souverain de la Toison d’Or dont les actes sont rédigés en français (10). C’est en 2007 qu’il « abdique » finalement sa charge de prétendant impérial et royal au profit de son fils aîné, l’archiduc Charles, déjà Grand-Maître de la Toison d’Or.

L’esprit bourguignon a toujours sous-tendu l’idéal politique d’Otto de Habsbourg-Lorraine. « Connaissant l’impossibilité d’imposer au continent le gouvernement d’une seule nation, l’Europe future devra être gérée dans le cadre d’un système d’harmonisation des intérêts qui ne sera que le legs administratif de la Franche-Comté (11). » Un jour peut-être, les Européens redécouvriront ce principe supranational et enraciné parce que « l’histoire est un perpétuel recommencement. Mais on ne peut pas la considérer sur ce plan linéaire. Elle progresse en dents de scie, sans retour intégral à ce qui fut (12) ». Il est clair que, pour lui, « la forme de l’Empire fut continuellement soumise à des changements. Mais son âme, pour laquelle se battent les puissances les plus diverses, est demeurée intacte (13) ».

Il est navrant, déplorable même, qu’Otto de Habsbourg-Lorraine ne fut jamais président du Parlement européen, seulement son doyen, ni même le premier président du Conseil européen à la place du fantomatique Herman van Rompuy. Sa rectitude morale et son catholicisme fervent l’ont desservis auprès de politiciens médiocres et sans grand dessein. À ces postes, il aurait pu concrètement réorienter les institutions européennes vers une nouvelle légitimité dont la portée est supérieure au concept de souveraineté. Il estimait en tout cas que « l’idée de sacré peut être restauré dans ses droits. Les gens en ont besoin (14) » et que « l’idée européenne a de profondes racines chrétiennes. D’où la certitude que l’avenir de l’Europe est inimaginable sans un renouveau de la religion (15) ».

Pendant la Guerre froide, il craint que l’Europe devienne le lieu d’affrontement effectif entre les deux Super-Grands. Dans Europe. Champ de bataille ou grande puissance (16), il condamne la conférence de Yalta, dénonce la mainmise soviétique d’une partie du continent, regrette les pratiques diplomatiques policées du Congrès de Vienne (1814 – 1815) et avance la notion féconde de patriotisme européen. Attentif à la Décolonisation, Otto de Habsbourg-Lorraine renouvelle les thèses eurafricaines de Coudenhove-Kalergi en promouvant l’urgence impérieuse d’une vraie coopération euro-africaine afin que le continent noir ne rallie pas le camp de Moscou (17)…

Cet adversaire farouche de l’U.R.S.S. contribue aussi à sa dislocation. Le 19 août 1989, il organise à Sopron en Hongrie un pique-nique de l’Union paneuropéenne qui permet à des Allemands de l’Est de se réfugier en R.F.A. Il se réjouit de la chute du Mur de Berlin et de la fin du « Rideau de fer ». Son aide auprès des peuples libérés d’Europe centrale et orientale est telle qu’en 1991, plusieurs mouvements politiques hongrois lui demandent de se porter candidat à la présidence de la République hongroise de leur pays. Otto de Habsbourg-Lorraine décline cette proposition parce qu’il ne veut pas se contenter d’une fonction honorifique. Dans les années 1960, il avait déjà refusé le trône d’Espagne !

Dans la décennie 1990, il soutient les différents traités européens (Maastricht, Amsterdam, Nice, voire Lisbonne et le traité constitutionnel). Il se satisfait de la fin de la Yougoslavie et des indépendances slovène et croate. Pendant la guerre en Bosnie-Herzégovine, il appelle les Européens à intervenir militairement contre les Serbes. Le siège de Sarajevo entre 1993 et 1995 restera longtemps à ses yeux la honte de l’Europe. Ce fervent catholique n’a toutefois pas peur d’écrire que « face au matérialisme, totalitaire ou rampant, notre allié naturel, c’est l’islam (18) ».

Son parti-pris pro-bosniaque ne l’empêche pas néanmoins de s’inquiéter du devenir démographique de l’Europe. Constatant le flot ininterrompu des vagues migratoires extra-européennes et sachant que « si les Européens renoncent à assurer leur descendance, d’autres peuples occuperont les places vides (19) », il n’est « pas favorable à une politique d’intégration, s’agissant d’une immigration massive […] qui nous crée des problèmes parce que nous ne sommes pas un continent d’immigration. C’est un des grands problèmes. Et nous ne le résoudrons qu’en donnant graduellement aux autres continents la possibilité d’accéder à notre niveau de vie sur leurs propres terres, et non en attirant chez nous la masse de leur population. Il faut leur faire comprendre que la solution des problèmes africains n’est pas dans les quartiers contournant la gare du Nord à Paris, mais en Afrique (20) ».

Son attachement sincère aux patries charnelles européennes se manifeste à diverses reprises. Il tient à saluer depuis la tribune du Parlement européen les délégations venues de Catalogne, d’Écosse ou de Transylvanie. Il participe au Liber amicorum de Marcel Regamey, adepte du fédéralisme intégral différencié et fondateur de la Ligue vaudoise (21).

Recensant l’ouvrage de Jean Sévilla, Le Chouan du Tyrol. Andreas Hofer contre Napoléon, Jean Mabire relevait qu’« à toute fédération il faut un fédérateur. Je ne suis pas de ceux qui sourient de la monarchie; je crois que le seul qui puisse aujourd’hui y prétendre sur notre continent se nomme Otto de Habsbourg-Lorraine. En complément de ce livre sur Andreas Hofer, je viens de lire d’un trait son essai : L’idée impériale. Histoire et avenir d’un ordre supranational […]. Que d’idées à y reprendre ! (22) »

Fin analyste de l’histoire sans sombrer dans un pessimisme crépusculaire, Otto de Habsbourg-Lorraine a bien saisi les défis de notre temps et diagnostiqué les maux de nos sociétés gâteuses et frivoles. On pourrait penser que son inhumation, le 17 juillet, dans la crypte des Capucins à Vienne signifie l’enterrement de l’Europe. Il n’en est rien, car, incarnation de notre mémoire du futur, l’Archiduc est à jamais un Européen d’avant-hier et d’après-demain. Il a posé les fondements de ce qui sera.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, entretiens avec Jean-Paul Picaper, Paris, Critérion, 1994, p. 22.

2 : Idem, p. 65.

3 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Charles Quint, Paris, Hachette, 1967, réédité en Charles Quint, un empereur pour l’Europe, Bruxelles, Éditions Racine, coll. « Les racines de l’histoire », 1999.

4 : Sur le « zonisme », cf. Bernard Bruneteau, « L’Europe nouvelle » de Hitler. Une illusion des intellectuels de la France de Vichy, Monaco, Éditions du Rocher, coll. « Démocratie ou totalitarisme », 2003.

5 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 249.

6 : Idem, p. 100.

7 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’Extrême-Orient n’est pas perdu, Paris, Hachette, 1962.

8 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 250.

9 : Idem, p. 214.

10 : Il existe aujourd’hui deux ordres de la Toison d’Or. La branche autrichienne, authentique et légitime, reconnue par l’Autriche comme personnalité juridique de droit international, provient directement de son fondateur, le duc de Bourgogne, Philippe le Bon, qui imposa une direction héréditaire, d’où sa transmission successive par mariage aux Habsbourg, puis aux Lorraine d’Autriche. Conservée par Philippe V au mépris des règles fondatrices, la Toison d’Or espagnole est devenue au fil du temps une contrefaçon puisque le principe héréditaire n’est plus respecté avec Joseph Ier Bonaparte, Isabelle II et Amédée Ier. Par ailleurs, outre sa reconnaissance par la République française (ce qui en est une preuve supplémentaire), le nombre de récipiendaires, plus obligatoirement catholiques, est désormais illimité. Enfin, la décision d’attribution, écrite en espagnol, est contresignée par le Président du gouvernement. Le dévoiement est complet.

11 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 196. La Franche-Comté est, au Moyen Âge, le comté libre (franc) de Bourgogne qui relève du Saint-Empire romain germanique alors que le duché de Bourgogne dépend du royaume de France.

12 : Idem, p. 83.

13 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’idée impériale. Histoire et avenir d’un ordre supranational, Nancy, Presses universitaires de Nancy, coll. « Diagonales », 1989, p. 202.

14 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 266.

15 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’idée impériale, op. cit., p. 214.

16 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Europe. Champ de bataille ou grande puissance, Paris, Hachette, 1966.

17 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Européens et Africains. L’entente nécessaire, Paris, Hachette, 1963.

18 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’idée impériale, op. cit., p. 209.

19 : Idem, p. 177.

20 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., pp. 250 – 251.

21 : Collectif, Mélanges à Monsieur Marcel Regamey à l’occasion de son septante-cinquième anniversaire, Lausanne, Cahiers de la Renaissance vaudoise, n° 102, 1980.

22 : Jean Mabire, « Andreas Hofer et le double visage de notre Europe », dans Le Choc du Mois, n° 40, mai 1991, p. 43.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=1871

18:25 Publié dans Hommages | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : hommage, otto von habsburg, otto de habsbourg, nécrologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 20 mai 2011

Solzhenitsyn and the Russian Question

Solzhenitsyn and the Russian Question

 

by John Laughland

 

http://www.lewrockwell.com/

62.jpgThe death of Alexander Solzhenitsyn produced predictable reactions from Western commentators. Yes, they said, he was a moral giant for so bravely exposing the evils of the Soviet penitential system in The Gulag Archipelago; but he later compromised his moral stature by failing to like the West and by becoming a Russian nationalist.

A perfect example of this reasoning was Anne Applebaum’s piece in The Guardian. Herself the author of a history of the Gulag, she wrote,

In later years, Solzhenitsyn lost some of his stature …thanks to his failure to embrace liberal democracy. He never really liked the west, never really took to free markets or pop culture.

Such comments reveal more about their author than about their subject. We are dealing here with something I propose to call geo-ideology: the alas now widespread prejudice that “West” and “democracy” are identical concepts. In the minds of such commentators, moreover, the “West” is also identical with “free markets” and “pop culture.” The “West,” apparently no longer means “the Christian religion” or even that body of inheritance from the magnificent treasure-house of the cultures of Athens and Rome. Instead it means MTV, coke and Coke.

At every level these assumptions are false. Let us start with “free markets,” the endlessly repeated shibboleth of the globalisers. By what possible criterion can
Russia be said to have a less free market than the United States of America, or than the majority of European Union member state? One of the key measure of the freedom of a market is the amount of private income consumed by the state. The income tax rate in Russia is fixed at a flat rate of 13% – a fraction of the 25% or so paid in the US, 33% of so paid in the United Kingdom and the 40% or more paid in continental Europe. As for pop culture, Russia unfortunately has plenty of it. Her youth are just as imbued with it, unfortunately, as the youth of Europe and America.

The comments also fail to present the reader with any serious analysis of Solzhenitsyn’s political position. The author makes vague and disparaging references to the unsuitability of Solzhenitsyn’s “vision of a more spiritual society” and to his “crusty and old fashioned nationalism” – judgements which appear to owe much to the Soviet propaganda she says she rejects. But she fails to allow the reader to know just what she means. Surely, on the occasion of a man’s death, it might be opportune to tell people about what he thought.

Anyone who reads Solzhenitsyn’s astonishing essay from 1995, The Russian Question at the End of the Twentieth Century, will see that this caricature is nonsense. There is nothing irrational or mystical about Solzhenitsyn’s political positions at all – and he makes only the most glancing of references to the religion which, we all know, he does indeed hold dear. No, what emerges from this essay is an extremely simple and powerful political position which is easily translated into contemporary American English as “paleo-conservatism.”

Solzhenitsyn makes a withering attack on three hundred years of Russian history. Almost no Russian leader emerges without censure (he likes only the Empress Elizabeth [1741–1762] and Tsar Alexander III [1881–1894]); most of them are roundly condemned. One might contest the ferocity of Solzhenitsyn’s attacks but the ideological coherence of them is very clear: he is opposed to leaders who pursue foreign adventures, including empire-building, at the expense of the Russian population itself. This, he says, is what unites nearly all the Tsars since Peter the Great with the Bolshevik leaders.

Again and again, in a variety of historical contexts, Solzhenitsyn says that
Russia should not have gone to the aid of this or that foreign cause, but should instead have concentrated on promoting stability and prosperity at home.

While we always sought to help the Bulgarians, the Serbs, the Montenegrins, we would have done better to think first of the Belorussians and Ukrainians: with the weighty hand of Empire we deprived them of cultural and spiritual development in their own traditions… the endless wars for Balkan Christians were a crime against the Russian people… The attempt to greater-Russify all of Russia proved damaging not only to the living national traits of all the other ethnicities in the Empire but was foremost detrimental to the greater-Russian nationality itself … The aims of a great Empire and the moral health of the people are incompatible … Holding on to a great Empire means to contribute to the extinction of our own people.

There is literally nothing to separate this view from the anti-interventionist anti-war positions of Pat Buchanan (author of A Republic not an Empire) or Ron Paul.

After dealing with both the horrors of Communism, Solzhenitsyn of course turns his attention to the terrible chaos of the post-Communist period. Here again, his concern for the Russian people themselves remains consistent. He writes,

The trouble is not that the USSR broke up – that was inevitable. The real trouble, and a tangle for a long time to come, is that the breakup occurred along false Leninist borders, usurping from us entire Russian provinces. In several days, we lost 25 million ethnic Russians – 18 percent of our entire nation – and the government could not scrape up the courage even to take note of this dreadful event, a colossal historic defeat for Russia, and to declare its political disagreement with it.

Solzhenitsyn is right. One of the most lasting legacies of Leninism, which remains after everything else has been swept away or collapsed, was the decision to create bogus federal entities on the territory of what had been the unitary Russian state. These entities, called Soviet republics, contributed only to the creation of bogus nationalisms and of course to the dilution of Russian nationhood. They were bogus because the republics in question did not, in fact, correspond to ethnic reality: Kazakhs, for instance, are and remain a numerical minority in Kazakhstan, while “Ukraine” is in fact a collection of ancient Russian provinces (especially Kiev) and some Ukrainian ones. This bogus nationalism allowed the Soviet Union to present itself as an international federation of peoples, rather like the European Union today, but it was exploited by Russia’s enemies when the time came to destroy the geopolitical existence of the historic Russian state. This happened when the USSR was unilaterally dissolved by three Republic leaders in December 1991.

And this is the key to the West’s hostility to Solzhenitsyn. The man the West exploited to destroy Communism refused to bend the knee to the West’s continuing attempts (largely successful) to destroy
Russia herself. Perhaps it is no coincidence that Anne Applebaum, an American citizen, is the wife of the Foreign Minister of Russia’s oldest historical enemy, Poland.

This article originally appeared in The Brussels Journal.

August 12, 2008

John Laughland's [send him mail] latest book is A History of Political Trials: From Charles I to Saddam Hussein.

Copyright © 2008 John Laughland

jeudi, 19 mai 2011

Rede aan het graf van Joris van Severen

Rede aan het graf van Joris Van Severen (05/03/2011)

Ex: http://www.kasper-gent.org/ 

Beste vrienden uit alle Nederlanden,

Vandaag staan we aan het graf van Joris Van Severen, de Leider van het Verdinaso. Zijn persoon, zijn gedachten, zijn invloed en zijn werk doen ons ook vandaag nog steeds bezinnen over de taak die wij te vervullen hebben.

Wij hebben Joris Van Severen nooit gekend. Om hem te kennen zijn wij aangewezen op overgeleverde literatuur.  Wat kan Joris Van Severen nog betekenen voor de jeugd van vandaag? Welke boodschap heeft de jeugd van vandaag weten te bereiken?

Wel beste vrienden, het antwoord is niet meteen duidelijk. Ook wij leren nog dagelijks dingen bij over het Verdinaso, over Joris Van Severen en over de politiek-filosofische achtergrond van zijn denken. Hoe dan ook stellen wij vandaag een diepe malaise vast, die knaagt aan de fundamenten van ons volk en onze gemeenschap. Net zoals Joris Van Severen zien wij absoluut geen heil in partijpolitiek, centjes- of biernationalisme. Wij zien geen heil in neoliberalisme, kapitalisme, particratisme, modernisme, individualisme, collectivisme, communisme, zionisme. Vaak ondergesneeuwde Dinaso-idealen bieden ook voor de actuele situatie een gegronde uitweg, een nieuwe een radicale oplossing die ons volk nodig heeft.

Zo kan de Vlaamse Beweging kan ons geen uitweg aanbieden. Hun gezellig samenzijn onder de ijzertoren ten spijt, zouden ze beter iets nuttig doen voor ons volk en pakweg gaan boeren. Met hun eurregionalistische discours versterken ze fundamenteel de macht van de Europese superstaat, een superstaat die fundamenteel gebaseerd is op Atlantische en kankervolle idealen. Hun discours verscheurt ons volk der Nederlanden nog meer in broedertwist en schande. Ook Joris Van Severen kwam tot dezelfde conclusies. Het enige levensvatbare model is dat van de Bourgondische Nederlanden, een model waarin alle Dietsers verenigd worden in één staat, onder één kroon en met één doel: als volk LEVEN.

jvs-6.jpg

Vervolgens is er het liberaal-kapitalisme. Het heeft onze samenleving ontworteld. Het heeft het geld, het winstbejag en de multinationale onderneming centraal geplaatst. Het heeft ons volk tot productieapparaat der aandeelhouders gemaakt. Het heeft de economie losgetrokken van volk en staat. Het heeft het economisch overleven van ons volk afhankelijk gemaakt van een ‘race to the bottom’ inzake lonen en arbeidsvoorwaarden. Consumentisme en individualisme is de norm geworden.

Vrienden uit alle Nederlanden, economisch links en rechts propageren elkaar te bestrijden, maar in werkelijkheid bestrijden zij de mens, het volk en de maatschappij. Het is noodzakelijk dat wij streven naar een duurzame en organische economie, rekening houdende mens, volk, en capaciteit waarmee God onze Aarde geschapen heeft.

Vanuit beide invalshoeken geeft Van Severen ons een duidelijke boodschap mee. Herinneren wij ons volgende woorden: “Alles wat het liberalisme in Dietsland heeft ontbonden, zullen wij weer binden. Het volk aan zijn wezen, zijn grond en zijn staat; de ledematen van het volk aan het volksgeheel, aan het volkslichaam en aan zijn hoofd”.

Verder bouwde Joris Van Severen ook een keurelite op. Een stijlvolle, aaneen geschraagde groep van mensen die vol overgave strijden voor hetzelfde ideaal. Zelf was hij een man met een grote openheid en een uitzonderlijk samenvattend vermogen. De hoeveelheid politieke en literaire werken die hij raadpleegde, zijn eigen intellectuele arbeid en het feit dat hij de heersende consensus onverkort én onderbouwd in vraag durft stellen verdient onze allergrootste bewondering. De kritiek was groot, maar het simpele feit dat ze tot de dag van vandaag in alle hevigheid blijft aanhouden bewijst alleen maar hoe sterk, hoe volledig en hoe consequent het intellectueel werk dat Van Severen verricht heeft wel is. Een profeet wordt jammer genoeg nooit gehoord in eigen land.

Van Severen wou de morele en intellectuele volmaaktheid bereiken, zonder hierdoor beïnvloed te worden door externe en verleidelijke factoren. De walgelijke hebzucht van het amoreel kapitalisme,parasitaire partijpolitieke en parlementaire stelsels en de gewetensloze manipulatie van de onbewuste massa kregen bij Van Severen geen kans. Als jeugd dienen wij ditzelfde nobele doel voor ogen te nemen en ons niet te laten verleiden door de grote en duivelse demonen van onze tijd. Wij dienen diezelfde elite te vormen die Joris Van Severen voor ogen had. Stijlvol, ordevol, moreel, intellectueel, doelbewust.

Beste vrienden uit alle Nederlanden, moge op onze banen dan ook de hernieuwde stap van het marsbereide, nieuwe Dietsland weerklinken.

Voor Dietsland en Orde!

 

Uitgesproken door Thomas B., vice-Praeses KASPER 2009-2011, aan het graf van Joris Van Severen te Abbeville, 5 maart 2011.

samedi, 14 mai 2011

Spengler - Zu seinem 75. Todestag

Spengler – Zu seinem 75. Todestag

Karlheinz Weissmann

Ex: http://www.sezession.de/

Gestern fand am Grab Oswald Spenglers auf dem Münchener Nordfriedhof ein Gedenken zu dessen 75. Todestag statt. Die Einladung war durch das Institut für Staatspolitik (IfS) ergangen, das auch einen Kranz niederlegen ließ.

In der Ansprache am Grab hieß es:

Wir gedenken heute eines Mannes, den man noch in der jüngeren Vergangenheit selbstverständlich zu den großen Deutschen rechnete. Damit ist es heute vorbei. Der Name Spenglers sagt nur noch wenigen etwas. Zu denen rechnen wir uns, die wir heute hier zusammen gekommen sind.

Der 75. Todestag Oswald Spenglers ist für uns Anlaß, an einen Mann zu erinnern, der zu den bedeutenden Geschichtsdenkern des 20. Jahrhunderts gehört. Dabei ist die Rede vom `Propheten des Untergangs´ eine unzulässige Verkürzung, vorschnelle Ableitung aus dem Titel seines Hauptwerks Der Untergang des Abendlandes. Es wäre aber ein Irrtum, in Spengler den Verkünder der Schicksalsergebenheit zu sehen. Er forderte das amor fati, die Liebe zum Schicksal. Vor allem aber und zuerst war er ein unbestechlicher Beobachter und Analytiker, der weder vor dem großen Entwurf und der Gesamtschau, noch vor den notwendigen Schlußfolgerungen zurückscheute, – auch wenn die das Ende der eigenen, der abendländischen Kultur bedeuteten.

Spengler hat zu sehen gelehrt, daß auch die Kultur, wie jedes Lebewesen, den Gesetzen von Werden und Vergehen, Geburt, Wachstum und Tod unterliegt. Er war darin nicht der erste. Aber kein anderer hat wie er, trotz der bitteren Einsicht, gefordert, die Resignation zu meiden, tapfer auszuharren und den Posten nicht zu räumen.

Der Name Spenglers steht für Wirklichkeitssinn. Das allein könnte schon genügen. Wir gedenken seiner als eines Großen unseres Volkes.

Im Anschluß an das Gedenken fand noch eine Zusammenkunft statt, in deren Rahmen mehrere kurze Vorträge zu Leben, Werk und Bedeutung Spenglers gehalten wurden.

S6003247 480x360 Spengler   Zu seinem 75. Todestag


Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

URL to article: http://www.sezession.de/24726/spengler-zu-seinem-75-todestag.html

vendredi, 13 mai 2011

Gerd-Klaus Kaltenbrunner is overleden

Gerd Klaus Kaltenbrunner is overleden
 
Ex: Deltanieuwsbrief nr. 47 - Mei 2011

Gerd Klaus Kaltenbrunner“Conservatisme is een ‘elitaire’, men kan ook zeggen ‘esoterische’ aangelegenheid (…).  Het misverstand als zou de conservatief een theorielozen, een onfilosofische, ja, zelfs antifilosofische pragmaticus zijn, lijkt onuitroeibaar. Ik heb nochtans met veel kracht en overtuiging aangetoond dat het een misverstand is, toen ik het over die domeinen had, die man als ‘conservatieve mystiek’ zou kunnen omschrijven (…). Een zekere zin voor de onoplosbare complexiteit van de werkelijkheid, de erkenning van het feit dat men over het leven slechts brokstukgewijs rationeel kunnen spreken, de aandacht voor de tegenstelling, voor het tragische en voor het gedeeltelijk demonische dat door de geschiedenis waart, een constitutionele scepsis tegenover de ‘grote oplossingen’”. Woorden van Gerd Klaus Kaltenbrunner, een grote Oostenrijkse mijnheer, die bij menig jonge Europeaan de grondvesten van een degelijke conservatieve ideeënwereld heeft gelegd.

Kaltenbrunner werd in 1939 in Wenen geboren, maar na zijn studies in de Rechten in 1962 trok hij naar Duitsland en werkte er bij uitgeverijen als lektor. In 1972 publiceerde hij een verzamelwerk Rekonstruktion des Konservatismus, en ontwierp hiermee, enkele jaren na 1968, de basis voor een conservatieve tegenactie. Hij ging in het werk uit van de idee dat het conservatisme eerst de hegemonie op het geestelijke vlak moet veroveren, vooraleer politieke consequenties te trekken.

Gerd Klaus Kaltenbrunner wou niet zomaar ‘conserveren’: hij was er veeleer op uit het ‘moderne’ conservatieve denken mee gestalte te geven – met daarin natuurlijk dat wat eeuwig een Europese waarde had. De door hem opgezette en gepubliceerde Herderbücherei Initiative  - een reeks die liep van 1974 tot 1988 – bracht op een hoog niveau conservatieve auteurs, wetenschappers, onderzoekers en andere bijeen, die rond bepaalde thema’s (soms) baanbrekende bijdragen brachten.  Interessante titels waren (en zijn): Die Zukunft der Vergangenheid (1975), Plädoyer für die Vernunft: Signale einer Tendenzwende (1974).  Gerd Klaus Kaltenbrunner legde ook een bijzondere ijver aan de dag om de bronnen voor het conservatieve denken open en toegankelijk te houden. Hij publiceerde een driedelig werk Europa. Seine geistigen Quellen in Porträts aus zwei Jahrtausenden (1981-1985). Ook het werk Vom Geist Europas heeft niets van zijn waarde verloren en verdient het zeker op opnieuw gelezen te worden.

Hierna werd het stil rond Kaltenbrunner. Hij trok zich – na de ontgoocheling over het uitblijven van een échte conservatieve wende – terug als een lekenmonnik in Kandern, afgesneden van alle moderne communicatiemiddelen. Hij trok ook voorgoed een streep onder het metapolitieke werk. Nochtans loont het de moeite, zeker in deze tijden van ideeënarmoede ter linker en rechter zijde de moeite om de stijl en de onderwerpen die Gerd Klaus Kaltenbrunner nauw aan het hart lagen, te bestuderen.  Met TeKoS hebben wij in elk geval niet op het overlijden van deze bescheiden, overtuigdconservatieve intellectueel gewacht om bijdragen van hem te publiceren. In ons nummer 127 brachten wij een vertaling van Elite. Erziehung für den Ernstfall, in het Nederlands: Zonder Elite gaat het niet. Wij groeten u met bijzondere veel respect, meester Kaltenbrunner!

(Peter Logghe)

mardi, 03 mai 2011

G.-K. Kaltenbrunner ist verstorben

Gerd-Klaus Kaltenbrunner ist verstorben

Götz Kubitschek

Ex: http://www.sezession.de/

 

kaltenbrunner-99x150.jpgGestern ist – wie ich eben erfahren habe – Gerd-Klaus Kaltenbrunner verstorben. Daß ich zuletzt einen seiner Essays in der reihe kaplaken nachdrucken konnte, ist nur eine Marginalie im Leben dieses für eine gewisse Zeitspanne wichtigsten Publizisten der deutschen Nachkriegsrechten.

Ich hatte zu Kaltenbrunners 70. Geburtstag vor zwei Jahren einen Beitrag veröffentlicht (Sezession 28/ Februar 2009). Online ist er hier zu finden.

Und im Oktoberheft 2010 der Sezession (Nr. 38) hatten wir in einer Personenreihe unter dem Titel „Konservative Intelligenz“ selbstverständlich auch einen Eintrag zu Kaltenbrunner veröffentlicht. Im Gedenken an ihn veröffentlichen wir diese Vita hier noch einmal:

Gerd-Klaus Kaltenbrunner wurde 1939 in Wien geboren, übersiedelte nach einem Studium der Rechtswissenschaft 1962 nach Deutschland und arbeitete zunächst für verschiedene Verlage als Lektor. Noch in dieser Eigenschaft gab er den Sammelband Rekonstruktion des Konservatismus (1972) heraus und konnte damit wenige Jahre nach ’68 die Grundlagen für einen möglichen politischen Gegenentwurf liefern. Kaltenbrunner ging dabei von der Einsicht aus, daß der Konservatismus zunächst die Hegemonie im Geistigen erlangen müsse, bevor politische Konsequenzen durchsetzbar seien. Im Hintergrund stand seine Überzeugung, daß die »ökonomischen Verhältnisse« nur den Rahmen für die entscheidenden Ereignisse abgeben: Ideen und Utopien siegen demnach einfach dadurch, »daß sich genügend ›Verrückte‹ finden, die bereit sind, dafür zu kämpfen und sich, wenn’s sein muß, auch töten zu lassen«. Kaltenbrunner sah seine Aufgabe im Bewahren der Tradition des Konservatismus sowie im gegenwartsbezogenen Weiterdenken. Die von ihm initiierte und herausgegebene Taschenbuchreihe Herderbücherei Initiative (1974–1988) diente diesem Ziel. Auf hohem Niveau wurden aktuelle Fragen von verschiedenen Autoren auf dem Hintergrund der konservativen Tradition bearbeitet.

032693_1-234x300.jpgKaltenbrunners Einleitungen wurden dabei lagerübergreifend als scharfsinnig und bedenkenswert gelobt. Die schönen, oft mehrdeutigen Titel der einzelnen Bände prägten sich ein: Die Zukunft der Vergangenheit (1975), Tragik der Abtrünnigen (1980), Unser Epigonen-Schicksal (1980). Bereits der erste Titel Plädoyer für die Vernunft: Signale einer Tendenzwende (1974) wurde als »Tendenzwende« zu einem Schlagwort unter Konservativen und Rechten. Parallel zu den aktuellen Analysen kümmerte sich Kaltenbrunner weiterhin um die Quellen des Konservatismus. Sein dreibändiges Werk Europa. Seine geistigen Quellen in Portraits aus zwei Jahrtausenden (1981–1985) und die Fortsetzung Vom Geist Europas (1987–1992) sind hier zu nennen. Mit dem Begriff Konservatismus war auch Kaltenbrunner nicht glücklich: Mit der Weltbewahrung allein wäre es nicht getan und geborene Konservative gebe es im Zeitalter des Fortschritts nicht mehr. Kaltenbrunner bemühte sich deshalb um eine konservative Theorie. Nach dem 75. Band wurde die Initiative-Reihe eingestellt. Kaltenbrunner beschäftigt sich seither mit Biographien zur Geschichte des frühen Christentums. Seine letzten Veröffentlichungen tragen esoterischen Charakter: Johannes ist sein Name (1993) Dionysius vom Areopag (1996). Kaltenbrunner lebt zurückgezogen im Schwarzwald und publiziert nicht mehr.

mardi, 15 février 2011

Jean Mabire, l'écrivain soldat

Jean Mabire, l'écrivain soldat

Ex: http://lepolemarque.blogspot.com/


Avant l’écrivain militaire à succès, il y eut Jean Mabire le chasseur alpin, le lieutenant de réserve déjà trentenaire rappelé sous les drapeaux pour effectuer sa période dans le djebel algérien. Une arme pas comme les autres, à laquelle Mabire resta fidèle toute sa vie. Rien pourtant ne prédestinait l’écrivain normand à coiffer la célèbre tarte bleu-roi des chasseurs. Son attirance pour les troupes d’élite et autres hommes de guerre (deux titres de revue qu’il dirigea dans les années quatre-vingt) ne s’explique pas non plus sans cette connaissance intime qu’il acquit en Algérie de la guerre et de ceux qui la font. Chacun à sa manière, Philippe Héduy et Dominique Venner ont chanté le caractère initiatique de cette guerre qui refusait de dire son nom. Après deux numéros « Vagabondages » et « Patries charnelles », le Magazine des Amis de Jean Mabire a donc choisi de rendre hommage dans sa dernière livraison à l’écrivain et au soldat.
Le toujours dynamique Bernard Leveaux ouvre la marche avec un retour sur la série de livres que J. Mabire consacra aux unités parachutistes, son autre saga (pas moins de onze volumes) avec l’histoire de la Waffen-SS. Légion Wallonie, Les Panzers de la Garde noire, Mourir à Berlin… Éric Lefèvre, son documentariste, assurément aujourd’hui l’un des meilleurs connaisseurs du sujet en France, revient dans « L’Internationale SS » sur cette partie incontournable de l’œuvre de Mabire, à laquelle on aurait toutefois tort de la résumer. La biographie du maître − son passage au 12e BCA − n’est pas oubliée et l’on comprend, en lisant son article « Chasseur un jour… », pourquoi le capitaine (H) Louis-Christian Gautier dut se faire violence pour ne pas médire des troupes de montagne !
Le dossier est encore complété par la relecture, confiée à votre serviteur, du livre Les Samouraïs (« La plume et le sabre ») et les souvenirs très vivants des années de service en Rhodésie d’Yves Debay, rédacteur en chef de la revue Assaut (le bien titré « Mercenaire ! »).
À chaque parution, une publication qui se bonifie, sur le fond comme sur la forme.

L. Schang

Les Amis de Jean Mabire 15 route de Breuilles 17330 Bernay Saint-Martin (cotisation à partir de 10 euros)
Retrouvez aussi l’AAJM en ligne sur son site : http://amis.mabire.free.fr

lundi, 17 janvier 2011

Bernard Lugan salue Vladimir Volkoff

Bernard Lugan salue

Vladimir Volkoff

samedi, 16 octobre 2010

Maurice Allais

Maurice Allais

ex: http://www.telegraph.co.uk/ 

Maurice Allais, who died on October 9 aged 99, was a Nobel Prize winner who warned against "casino" stockmarket practices that eventually precipitated the current global financial crisis; he also claimed to have disproved Einstein's General Theory of Relativity.

 
Photo: AFP/GETTY

In the 1990s he delighted eurosceptics by his opposition, almost unique among French economists, to the single European currency; europhobes were less enthused when he revealed that he was against it because the currency's introduction should have been preceded by wholesale European political union.

He had won his Nobel for Economics in 1988. But he might also have been a candidate for the award in Physics, a discipline in which he was best known for his discovery that Earth's gravitational pull appears to increase during a solar eclipse.

Fluctuations have since been measured during 20 or so total solar eclipses, but the results remain inconclusive, and the "Allais effect", as it is known, continues to confound scientists. Allais himself had little doubt that the effect indicated a flaw in Einstein's theory of relativity. Indeed, he had little time for Einstein who, he claimed, had plagiarised the work of earlier scientists such as Lorentz and Poincaré in his 1905 papers on special relativity and E=mc2.

As an economist, Allais had reason to complain that others had been given credit that was his due. In his first major work, A la Recherche d'une Discipline Economique (1943), he proved mathematically that an efficient market could be achieved through a system of equilibrium pricing (when prices create a balance in demand with what can be supplied).

It proved vital in guiding the investment and pricing decisions made by younger economists working for the state-owned monopolies that proliferated in Western Europe after the Second World War – and for the authorities regulating private sector monopolies in an age of denationalisation.

He was awarded the Nobel for his "pioneering contributions to the theory of markets and efficient utilisation of resources", but the award was late in coming. His work has been compared favourably with that carried out at the same time or later by the American Paul Samuelson and the British economist John Hicks, both of whom won Nobel Prizes in the 1970s. Allais's work also served as a basis for the analysis of markets and social efficiency carried out by one of his former pupils, Gerard Debreu, who won the Nobel Economics Prize in 1983 after he became an American citizen, and Kenneth Arrow, who won the prize in 1972.

The main reason why Allais was overlooked for so long appears to be that he did not publish in English until late in his career and as a result did not gain the international recognition that was his due. Paul Samuelson felt that, had Allais's early works been in English, "a generation of economic theory would have taken a different course".

The son of a cheese shop owner, Maurice Allais was born in Paris on May 11 1911. After his father died in captivity during the First World War, he was raised by his mother in reduced circumstances.

A brilliant student at the Lycée Louis-le-Grand, Allais trained as an engineer at the Ecole Polytechnique and worked for several years as a mining engineer. He turned to economics after being appalled by the suffering he saw during a visit to the United States during the Great Depression. He taught himself the subject and soon began to teach it at the Ecole Nationale Supérieure des Mines de Paris, introducing a mathematical rigour into the French discipline, which at that time was mostly non-quantitative.

Allais's most important contributions to economic theory were formulated during the Second World War, when French academics, working under German occupation, were largely cut off from the outside world.

John Hicks, one of the first Allied economists in Paris after the liberation, recalled making his way to an attic where, once his eyes had adjusted to the dark, he could see a group with miners' lamps on their heads listening to a lecturer at a board. The lecturer was Allais, and he was talking about whether the interest rate should be zero per cent in a no-growth economy. This foreshadowed his second major publication, Economie et Intérêt (1947), a massive work on capital and interest which has formed the basis for the so-called "golden rule of accumulation". This states that to maximise real income, the optimum rate of interest should equal the growth rate of the economy.

Allais's book also included the suggestion that in stimulating an economy it is helpful to use a simple model consisting of two generations, young and old. At each step, the old generation dies, the young generation grows old, and a new young generation appears. The model, now known as the overlapping generations model, got little attention at the time, but more than a decade later Paul Samuelson introduced the same idea independently.

Allais's work had more than theoretical importance. When France rebuilt its economy on a combination of state dirigisme and market economics, Allais provided the theoretical framework needed to allow planners to resist the short-termism of politicians and set optimum pricing and investment strategies.

During the 1950s he pioneered a new approach when, in examining how people respond to economic stimuli, he asked a group to choose among certain gambles, and then examined their decisions. He discovered that the subjects acted in ways that were inconsistent with the standard theory of utility, which predicts that people will behave as rational economic beings. As a result he created the "Allais Paradox", an equation that predicts responses to risk.

Allais, who served as director of research at the National French Research Council, remained active and independent-minded until well into his eighties. Shortly before the stock market crash of 1987 he wrote a paper warning that the situation presented "three fundamental analogies with that which preceded the Great Depression of 1929-1934: a great development of promises to pay, frenetic speculation, and a resulting potential instability in credit mechanisms, that is, financing long-term investments with short-term deposits."

In 1989 he warned that Wall Street had become a "veritable casino", with loose credit practices, insufficient margin requirements and computerised trading on a non-stop world market – all contributing to a dangerously volatile financial climate.

In a recent article he argued that a "rational protectionism between countries with very different living standards is not only justified but absolutely necessary".

Allais was a prolific writer, both in the length of his pieces (his books typically ran to 800 or 900 pages) and in the variety of subjects he addressed. As well as works on economic theory and physics, he also wrote books on history.

Maurice Allais was appointed an officer of the Légion d'honneur in 1977 and grand officer in 2005. He was promoted to Grand Cross of the Légion d'honneur earlier this year.

His wife, Jacqueline, died in 2003, and he is survived by their daughter.

mercredi, 13 octobre 2010

Maurice Allais: la mort d'un dissident

Maurice Allais : la mort d'un dissident

 

"Ceux qui détiennent le pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs" (Maurice Allais)

arton2301.jpgEx: http:://www.polemia.com/

Seul Français prix Nobel d’économie, Maurice Allais, est mort à 99 ans dimanche 10 octobre. Esprit universel, économiste et physicien, il était à la fois couvert d’honneurs et réduit au silence. Car il s’était attaqué aux tabous du temps. Critiquant notamment le libre-échangisme mondial, la financiarisation de l’économie, l’immigration incontrôlée. Annonçant dès 1998 la crise financière, il avait été ensuite réduit au silence : en 2005, le Figaro lui avait même refusé un article critique sur la Constitution européenne que ce grand économiste libéral (libéral-socialiste, aimait-il à dire) avait dû publier dans …l’Humanité.

Rappelons quelques uns de ses axiomes tels que ceux qu’il avait énoncés dans sa « Lettre aux Français contre les tabous indiscutés », publiée - une fois, hélas, n’était pas coutume – dans Marianne du 5 décembre 2009 :

« Le point de vue que j'exprime est celui d'un théoricien à la fois libéral et socialiste. »

« Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l'économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d'autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n'est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C'est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d'avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c'est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l'Europe. »

« Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m'apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d'aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d'un contresens incroyable. » (…) Nous faisons face à une ignorance criminelle. »

« Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s'unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l'est de l'Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d'Afrique ou d'Amérique latine. »

« Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu'une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. »

« Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l'intelligence, par le fait d'intérêts particuliers souvent liés à l'argent. Des intérêts qui souhaitent que l'ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu'il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d'un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu'il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. »

« Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu'aux sphères de la politique. »

Polémia qui, à plusieurs reprises, a rendu hommage au Prix Nobel d'économie 1988, signale ici quelques recensions, mises sur son site, de l’œuvre récente de Maurice Allais.

Maurice Allais : les causes du chômage français
Maurice Allais : le coût de l’immigration
Maurice Allais flingue le néo-libéralisme dans une revue financée par Bercy
Les analyses prophétiques de Maurice Allais

Polémia
12/10/2010

jeudi, 16 septembre 2010

In Memoriam: Jean Varenne (1926-1997)

jean_varenne-f86c2.gifArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

In memoriam:

Jean Varenne (1926-1997)

 

Indianiste célèbre dans le monde entier, explorateur de l'Inde védique, Jean Varenne replaçait ce formidable héritage indien-védique dans la culture indo-européenne, dont les cosmogonies védiques, objets de sa thèse de doctorat, étaient une expres­sion sublime. Les amis de l'Inde éternelle, qui sont nombreux parmi nous, nombreux à avoir explorer cet immense fond de sagesse, nombreux à avoir fait un pélérinage là-bas, sur les rives du Gange ou sur les hauteurs de l'Himalaya, connaissent très bien l'œuvre de Jean Varenne, qui fut un de leurs maîtres. Jean Varenne est l'auteur d'une quinzaine d'ouvrages sur l'Inde ancienne, depuis Cosmogonies védiques jusque Aux sources du Yoga, ou sur l'Iran préislamique, avec Zoroastre et Zarathustra et la tradition mazdéenne. IL nous lègue là un formidable corpus, pour étayer, dans la sérénité, notre vue-du-monde traditionnelle. Jean Varenne nous a quitté silencieusement en juillet dernier, sans que la presse français ne rende l'hommage que méritait ce grand savant, qui fit vraiment honneur à son pays et qui était sans doute l'homme capable de rap­procher l'Inde non alignée de la France sortie de l'OTAN, une politique que la Vième République après De Gaulle a négligée honteusement, pour se vautrer dans un occidentalisme vulgaire. Comme pour le politologue Julien Freund, disparu en sep­tembre 1993, les canailles incultes du journalisme parisien n'ont pas cru bon de saluer dignement cet indianiste hors pair. Notre collaborateur Pascal Garnier a eu le bonheur et la joie d'être l'un de ses étudiants. En hommage à son professeur, il a rédigé ce texte spontané et amical, au-delà de la vie et de la mort:

 

JVdicoHind.jpg«C'est avec stupéfaction que j'ai appris le décès de notre ami Jean Varenne. J'avais connu Jean Varenne au cours de sa der­nière année d'enseignement à l'Université de Lyon III en 1986-87, alors que je préparais ma licence d'histoire. Pour moi, Jean Varenne était plus qu'un simple professeur, c'était aussi le Président du GRECE et le directeur de la revue éléments, organe d'un milieu que j'apprenais à connaître à l'époque. Chose étrange pour un si grand savant  —en dehors des cours d'histoire des religions et d'histoire de l'Inde que je suivais, il était professeur de sanskrit—  c'était un pédagogue remarquable ayant une facilité déconcertante à expliquer d'une manière simple des concepts compliqués. Je n'avais jamais pu observer auparavant chez aucun professeur une telle gentillesse et une telle sérénité: il arrivait les mains dans les poches, sans aucune note et parlait pendant deux heures sans jamais se tromper dans le déroulement de son plan et toujours avec une grande jovialité, prompt aussi à répondre aux interrogations des étudiants d'une manière décontractée: il adorait ce jeu, l'immense puit de cul­ture qu'il était n'étant naturellement jamais pris en défaut. C'est grâce à lui que j'ai découvert un certain nombre d'auteurs comme Mircea Eliade ou Louis Dumont, dont la lecture a été capitale pour ma formation. Je n'ai jamais pu comprendre com­ment la mouvance néo-droitiste n'a pas donné dans ses structures une place plus importante à cet homme serein, simple, immensément cultivé, calme et posé. Jean Varenne passait partout, tant chez ses pairs de l'université que chez les gens simples. Cette mouvance, où il a pourtant assuré une présidence hélas formelle et “décorative”, aurait améliorer son image de marque, serait sortie de la psycho-rigidité et de la forfanterie de faux savants qui l'ont hélas trop souvent marquée. Je retien­drais à jamais l'image du savant souriant et débonnaire, qui parlait avec tant d'aisance et d'élégance, qui était reconnu au ni­veau international, qui était célébré par l'UNESCO, qui, fait quasi unique, aimait la vie et donnait de la culture une image si originale et attrayante à la fois. Car ses cours étaient aussi le reflet de sa personnalité riche et brillante, mais qui a pu susciter chez certains esprits médiocres pas mal de jalousie. Peu en sont capables, mais, lui, c'était un professeur qui savait faire un travail métapolitique intelligent...» (Pascal GARNIER).

 

mardi, 14 septembre 2010

Das Stierlein - Zum Tode von Liselotte Jünger

Das Stierlein

Zum Tode von Liselotte Jünger

Von Lutz Hagestedt

Ex: http://www.literaturkritik.de/

1963 wäre Ernst Jünger beinahe das Opfer der tückischen Strömung im Meer an dem sardinischen Badeort Villasimius geworden. Als er sich, quasi in letzter Minute und völlig entkräftet an den Strand retten kann, wirft sich seine Frau, liebevoll „Stierlein“ genannt, über ihn. Ernst und Liselotte Jünger sind auf diesen Schicksalstag des öfteren zu sprechen gekommen: Seit 1962 erst waren sie miteinander verheiratet, für beide war es die zweite Ehe.

Die im Sternbild des Stieres 1917 geborene Liselotte Bäuerle, verwitwete Lohrer, genoss allgemein Respekt. Von zierlicher Gestalt, dabei lebhaft und humorvoll, ertrug sie gefasst die immer wieder aufs Neue entfachten Debatten um das politisch Anstößige ihres Mannes. Der Schriftsteller hatte die promovierte Verlagshistorikerin zwei Jahre nach dem Tod von „Perpetua“ (Gretha von Jeinsen), seiner an Krebs gestorbenen ersten Frau, geheiratet.

Der Autor und sein Stierlein kannten sich schon vor ihrer Ehe, denn nach ihrer Promotion arbeitete Liselotte Lohrer in Marbach und lektorierte Jüngers Werke für den Klett Verlag. Sie war maßgeblich an der ersten und dann auch an der zweiten Werkausgabe beteiligt und fungierte als Herausgeberin des „Schlusssteins“ der „Sämtlichen Werke“.

Die gelernte Bibliothekarin, die mit einer Geschichte des Cotta Verlages promoviert wurde, hat sich um Jüngers Werk und Person verdient gemacht: Sie führte und ordnete seine Korrespondenz, begleitete Jünger auf seinen Reisen, versorgte seine Katzen, führte ihm den Haushalt, wachte über seine Arbeitsruhe, kutschierte ihn in ihrem PKW. Seine Gäste, Staatsgäste zumal, waren auch die ihren: Resolut wachte sie über die Oberförsterei im schwäbischen Wilflingen.

Sie gab einzelne Texte heraus (zum Beispiel Jüngers Fragment „Prinzessin Tarakanow“), betreute den Vorlass und später auch den Nachlass. Großzügig förderte sie die Forschung, und auf Tagungen gab sie unermüdlich Auskunft, so sehr hatte sie sich die Perspektive ihres Mannes zu eigen gemacht. Als bei der Enthüllung von Gerold Jäggles Jünger-Denkmal am Wilflinger Weiher ein Dummer-Jungen-Streich zum Vorschein kam, war sie es, die durch ein herzliches Lachen den Bann brach.

Oft ist in den Tagebüchern von ihr die Rede, zahllose Briefe in Jüngers Namen hat sie unterzeichnet. In der Nacht vom 31. August auf den 1. September ist sie 93-jährig in Überlingen gestorben.

 

Liselotte Jünger gestorben

 
"Die frühere Leiterin des Cotta-Archivs, Liselotte Jünger, ist 93-jährig in Überlingen gestorben. Die zweite Ehefrau des Schriftstellers Ernst Jünger (1895-1998) hatte das Verlags-Archiv in den Jahren 1952 bis 1962 geleitet, das als das bedeutendste und am besten erschlossene Verlagsarchiv des 19. Jahrhundert in Deutschland gilt. Nach der Hochzeit mit Ernst Jünger verließ Liselotte Jünger das Archiv und widmete sich als Archivarin und Lektorin dem Werk ihres Mannes. Trotzdem blieb Liselotte Jünger dem Literaturarchiv in Marbach eng verbunden."
Quelle: Rheinische Post, 3.9.2010 (Print)

"Liselotte Jünger (geb. Bäuerle) ist am 31. August 2010 in Überlingen gestorben. .....Die Germanistin und Historikerin Liselotte Jünger, geboren am 20. Mai 1917, schrieb ihre Promotion an der Universität Gießen über die Komödien von Sebastian Sailer, einem Prediger und schwäbischen Mundartdichter des Barock. Von 1943 bis 1952 war sie Archivarin der J. G. Cotta’schen Buchhandlung, dann in gleicher Funktion Angestellte der »Stuttgarter Zeitung«. Nachdem die von der Stuttgarter Zeitung gestiftete »Cotta'sche Handschriftensammlung« (1952) und die Archivbibliothek (1954) dem Deutschen Literaturarchiv übergeben wurden, hat sie das Cotta-Archiv im Deutschen Literaturarchiv maßgeblich aufgebaut und betreut. Außerdem verfasste Liselotte Jünger u. a. eine Verlagsgeschichte (1959), ein Bestandsverzeichnis (1963) und gab gemeinsam mit Horst Fuhrmann den Schelling-Cotta-Briefwechsel (1965) heraus. .....[I]hr Herzensanliegen war es zuletzt, das ehemalige Wohnhaus Ernst Jüngers im oberschwäbischen Wilflingen als Erinnerungsstätte für Ernst Jünger zu erhalten: Das Ernst-Jünger-Haus wird nun im Frühjahr 2011 nach Sanierung wiedereröffnet. An der Vorbereitung der großen Ernst Jünger-Retrospektive, die das Deutsche Literaturarchiv am 7. November 2010 eröffnen wird, nahm sie bis zuletzt lebhaft Anteil."
Quelle: Literaturarchiv Marbach 039/2010

vendredi, 10 septembre 2010

Nice: hommage à Catherine Ségurane

Nice : Hommage à Catherine Ségurane

NICE (NOVOpress) – En 1543, sur les remparts de Nice, Catherine Ségurane, une lavandière, assomma de son battoir à linge un porte-étendard de l’armée turque qui assiégeait la ville et ceci redonna force et ardeur aux combattants niçois. Ainsi, Nice a résisté à ceux qui depuis soixante-dix ans faisaient trembler l’Europe. Les Turcs se replièrent mais en emmenant en esclavage les populations dont ils avaient pu s’emparer.

Pour la huitième année consécutive les jeunes niçois fier de leur identité ont défilé aux flambeaux le premier dimanche de septembre pour honorer cette héroïne nissarde.

Source des photos : Jouinessa Rebela, les jeunes Identitaires du Pays Niçois [1].

 

 

 

 

 

 


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

URL to article: http://fr.novopress.info/66265/nice-hommage-a-catherine-segurane/

URLs in this post:

[1] Jouinessa Rebela, les jeunes Identitaires du Pays Niçois: http://www.jouinessa.com/

vendredi, 20 août 2010

La croisade de Thomas Molnar contre le monde moderne

La croisade de Thomas Molnar contre le monde moderne

par Arnaud FERRAND-LÉGER

Ex: http://www.europemaxima.com/

molnar.jpgDans le monde clos des intellectuels catholiques, Thomas Molnar reste un penseur à part. Philosophe, universitaire, écrivain et journaliste, l’ancien exilé hongrois réfugié aux États-Unis est rentré dans sa patrie dès la chute du communisme. Depuis il enseigne la philosophie religieuse à l’Université de Budapest. Mieux, avec la victoire des jeunes-démocrates de Viktor Orban, le professeur Molnar fut le conseiller culturel du jeune Premier ministre magyar avant de retourner dans l’opposition.

 

En France, les interventions de Thomas Molnar se font maintenant rares dans la presse, y compris parmi les journaux catholiques et nationaux. Il publia longtemps dans le bimensuel Monde et Vie d’où, d’une plume acérée, il diagnostique d’un œil sévère et avisé le délabrement du monde postmoderniste. En revanche, il continue la publication de ses ouvrages. Le dernier, Moi, Symmaque et L’Âme et la Machine, composé de deux essais, porte encore un regard inquiet sur le devenir de la société industrielle occidentale. Rarement, un livre aura justement traduit la crise mentale profonde dans laquelle sont plongés les catholiques de tradition. Il faut croire que l’accélération du monde soit brusque pour que le catholique Molnar se mette à la place du sénateur romain Symmaque, dernier chef du parti païen au IVe siècle. Symmaque fut le dernier à essayer de restaurer les cultes anciens…

 

 

Tel un nouveau Symmaque, Thomas Molnar charge, sabre au clair !, contre le relativisme moral, le multiculturalisme, l’inculture d’État, la perte des valeurs traditionnelles, l’arnaque artistique… Il n’hésite pas à affronter les grandes impostures contemporaines ! Mais le docteur Molnar ouvre un corps social entièrement métastasé.

 

 

Découvrir Thomas Molnar

 

 

Cette nouvelle dénonciation – efficace – permettra-t-elle à son œuvre prodigieuse de sortir enfin du silence artificiel dans lequel la pensée dominante l’a plongée ? Jean Renaud le croit puisqu’il relève le défi. A travers cinq entretiens, précédées d’une étude fine et brillante de l’homme et de ses livres, Jean Renaud se propose de faire découvrir cet étonnant universitaire hongrois. Même si son ouvrage se destine en priorité au public francophone d’Amérique du Nord (Pour les « Américains nés dans un monde unilatéral, programmé, horizontal, indifférencié ! Un de [leurs] ultimes recours, ce sont ces quelques Européens qui, de par le monde, persistent »), le lectorat de l’Ancien Monde peut enfin connaître la pensée originale de cet authentique réactionnaire, entendu ici dans son acception bernanosienne.

 

 

Non sans une pointe d’humour, Jean Renaud présente le professeur Molnar comme « toujours prêt à attaquer et à tenir, même pour soutenir des causes impopulaires, cet ennemi de l’Europe politique, cet exilé en terre d’Amérique mérite néanmoins parfaitement le titre d’Européen. Non seulement possède-t-il les principales langues du vieux continent, il est d’abord et surtout resté fidèle à un héritage, multiple, ondoyant, traversé de lignes harmoniques, de fragiles équilibres. Cet héritage européen n’est point porté par lui comme une cape décorative ornée de nostalgies : il est vivant et doit être protégé par le verbe et par la pensée ». Ce combat qui fait frémir toute la grande conscience humaniste n’est pas « sans taches, puisque [son promoteur] est blanc, mâle et hétérosexuel, ni impertinence, car il n’en manifeste aucune honte ». D’ailleurs, insatisfait d’exposer ses opinions incongrues, il osa s’exprimer dans la presse nationale-catholique et participa à plusieurs colloques du G.R.E.C.E.; c’est dire la dangerosité du personnage !

 

 

Bien sûr, Thomas Molnar n’adhère pas à la Nouvelle Droite. Il en diverge profondément sur des points essentiels. Ce catholique de tradition reste un fervent défenseur du principe national. Il « préfère ce nationalisme que l’on dit “ étroit ” et “ identitaire ” au mondialisme homogénéisé, uniforme, forcément totalitaire. Bref [il ne veut] pas que les “ valeurs ” américaines, après celles de Moscou, soient imposées à l’humanité. […] Les petits peuples, ajoute-t-il, à l’égal des puissants, sont indissolublement attachés à leur identité nationale : langue, littérature, souvenirs historiques incrustés dans les monuments, les chansons, les proverbes et les symboles. Voilà les seuls outils propres à résister aux conquêtes et aux occupations. Pour la même raison, il est impossible d’organiser des alliances ou des fédérations de petites nations : les haines et les méfiances historiques les empêchent de se fédérer. C’est un malheur, mais que voulez-vous ? »

 

 

Contempteur des fausses évidences

 

 

Auteur d’une remarquable contribution à l’histoire de la Contre-Révolution, sa vision de la droite est impitoyable de lucidité. Après avoir montré que « le libéralisme […] est antinational par essence, morceau difficile à avaler pour ces hommes de droite qui se veulent des conservateurs à l’américaine, tels Giscard, Barre et Balladur. […] Il est significatif, continue-t-il, de constater que l’histoire de la droite est jalonnée de grandes illusions et, partant, de grandes déceptions. […] La droite n’a pas de politique, elle a une “ culture ”. La politique ne se trouve qu’à gauche depuis 1945; la droite ne fait que “ réagir ” de temps en temps avec un Pinochet au Chili, un Antall en Hongrie. C’est de courte durée. […] La droite n’a pas le choix : autoexilée de la politique, elle déplore cet exil qui promet d’être permanent, elle ferme les yeux et préfère s’illusionner ».

 

 

Persuadé de l’importance du combat métapolitique et de son enjeu culturel, Thomas Molnar note, avec une précision de chirurgien, que « l’opinion de droite, et la droite catholique en fait partie intégrante, ne s’intéresse guère aux arguments, aux raisonnements, au jeu subtil de la culture. Elle se sent, depuis 1789, lésée dans ses droits, dans sa vérité, et cherche à regagner ses positions d’antan. Elle se laisse enfermer dans un ghetto, pleine de ressentiment, et fait tout pour limiter sa propre influence, son propre poids, afin de pouvoir dire par la suite qu’elle est victime de l’histoire et de ses influences sataniques ». Ce réac suggère des orientations nouvelles qui détonnent dans un milieu sclérosé. Il propose par conséquent une rénovation radicale du discours banalement conservateur.

 

 

La partie la plus intéressante des entretiens concerne toutefois la Modernité, ses conséquences et son avenir. Respectueux d’« un réel multiforme jamais possédé, dans son intégralité, par la raison humaine », Thomas Molnar observe que « le ciel de la modernité est fermé; les certitudes d’antan ont mauvaise presse. Mettons-nous dans la peau de l’homme moderne : ses deux poteaux indicateurs sont l’utopie et la technologie, le miracle politique et le miracle matériel, idéaux éphémères qui s’écroulent à chaque instant. Fini le rêve marxiste, vive le libéralisme ! Plus de voyage dans la lune, vive l’intervention biotechnique ! Le cosmos, jadis peuplé de dieux, ressemble aujourd’hui à quelques gros cailloux qui tourne et éclatent, naissent et s’éteignent ». Voilà le triste bilan de « la philosophie moderne [… qui] est le refus des essences et l’accueil de l’existence brute, du devenir […] plutôt que de l’être. […] La perte de l’essence entraîne celle des structures, puis celle des significations. on peut dire n’importe quoi, à l’instar de la peinture moderne. Nous habitons le paradis des tartuffes et des charlatans, paradis où fleurit la dégringolade du sens ».

 

 

La crise de la Modernité

 

 

Or la désespérance nihiliste est superfétatoire. Pis elle est inutile, car si l’« on se sert, aujourd’hui, de ce mot “ désenchantement ” pour décrire la perte du sacré; n’oublions pas qu’il peut y avoir, dans un avenir proche ou lointain, une perte du profane, plus exactement une perte du noyau de notre civilisation technicienne et mécanicienne ». Il envisage alors tranquillement « l’effondrement graduel (toujours la fatigue des civilisations) de la mentalité technicienne, voire scientifique, par le reflux de la civilisation occidentale, qui a atteint, avec la domination américaine sur la planète, une espèce de nec plus ultra ». Certes, «l’idéologie industrielle, profondément subversive, la publicité, l’étalage du privé sur la place publique, la confusion des sexes, le règne de la machine et des robots bloquent, pour le moment, notre horizon », mais « les modernes ont tout perdu, souligne à son tour Jean Renaud; ils nous ont peut-être profondément offensés, mais ils sont fous. Leur univers est imaginaire. Chacun à notre place, il nous est possible de résister, de tenir quotidiennement, de refuser l’isolement d’aider le jeune et le vieux, d’accumuler ces actes modestes que nous avons désappris, ces actes par lesquels l’âme se fortifie. Le monde moderne existe de moins en moins ». Si les catholiques actuels savaient encore penser et s’ils cessaient de suivre les sirènes de la confusion moderne, le professeur Molnar serait sans conteste leur référence intellectuelle.

 

 

« Pour la liberté de l’âme face à la robotisation », tonne Thomas Molnar qui poursuit ainsi une véritable croisade spirituelle contre un monde déshumanisé et mécanisant, toujours plus négateur de la diversité naturelle. En d’autres temps et en d’autres lieux, Thomas Molnar aurait été un croisé de haute tenue, car il est dans l’âme un Croisé contre le Désordre contemporain. Ode alors à l’homme qui fut la Chrétienté…

 

 

Arnaud Ferrand-Léger

 

 

Moi, Symmaque, suivi de L’Âme et la machine, Éditions L’Âge d’Homme, 167 p.

 

Du mal moderne. Symptômes et antidotes, cinq entretiens de Thomas Molnar avec Jean Renaud, précédé de « Thomas Molnar ou la réaction de l’esprit » par Jean Renaud, Québec, Canada, Éditions de Beffroi, 1996.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=475

jeudi, 25 mars 2010

En hommage à Hubert de Sy (1921-2010)

flandre.gif

 

En hommage à Hubert de Sy (1921-2010)

 

 

Nous avons appris avec tristesse le décès, en date du 3 mars 2010, dans sa quatre-vingt-neuvième année, d’Hubert de Sy, personnage extraordinaire dans la mesure où il incarnait encore un style soigné, une belle diction néerlandaise sans lourdeurs ni emphases pimentée d’understatements à la britannique, où transparaissaient humour et lucidité. Toujours tiré aux quatre épingles comme un digne représentant de la gentry, il donnait rendez-vous dans un bel établissement du centre de Bruxelles, de préférence dans les Galeries Royales Saint-Hubert, pour s’adonner, avec ses commensaux, à l’art de la conversation, dont il tirait la substance des réflexions qu’il couchait ensuite sur le papier.

 

Du Congo au « Vlaams Economisch Verbond »

 

Ce natif d’Ostende, au nom évoquant un village du cœur des Ardennes wallonnes, avait décidé de s’installer à Roosdaal dans le Pajottenland brabançon. De formation, Hubert de Sy était professeur du secondaire inférieur pour les langues néerlandaise et française et pour l’histoire. En 1946, il s’embarque pour le Congo belge : il va y accomplir des tâches administratives au Kivu et devenir ensuite attaché auprès du gouverneur de cette province congolaise du temps des colonies. Dans le cadre de cette fonction, il suivra un cours d’islamologie à l’Université Libre de Bruxelles, sous la houlette du Professeur Armand Abel. Le Kivu, province congolaise qui jouxte les petits pays de la zone de turbulences des Grands Lacs et qui subit aujourd’hui les affres d’une guerre qui n’en finit pas, était à l’époque déjà sous l’influence de prosélytes musulmans issus du Tanganyika (devenue « Tanzanie » après la fusion du Tanganyika, l’ex-Afrique orientale allemande, et de Zanzibar). L’administration coloniale belge voulait aborder le problème d’un éventuel télescopage entre islam, d’une part, animisme autochtone et catholicisme des pères blancs, d’autre part. Revenu des colonies africaines, Hubert de Sy entame une riche vie professionnelle dans les secteurs privés et publics et termine sa carrière au « Vlaams Economisch Verbond » en 1984.

 

Retraité, il décide de s’adonner à l’écriture, une écriture politique qui prend pour objet principal, sinon exclusif, la question flamande dans le cadre de l’Etat belge. Pour Hubert de Sy, qui se découvre flamand et même flamingant de raison à la fin de sa vie, cette Flandre rebelle se borne à protester, mais sans aucun résultat tangible. Quand ses représentants se retrouvent à la table des négociations, ils capitulent généralement sur toute la ligne ou se contentent de vagues compromis périphériques. Hubert de Sy va axer ses réflexions sur la question flamande au départ de la thèse de Lode Claes, énoncée au commencement des années 80, immédiatement après le début du processus de dissolution de la Volksunie et l’émergence timide (à l’époque) du Vlaams Blok, promettant plus de radicalité dans les revendications flamandes. Lode Claes, retiré de la politique car il ne souhaitait ni les capitulations ni les dérives gauchistes de la Volksunie ni les positions plus musclées du Vlaams Blok, avait parlé des Flamands comme d’une « majorité absente », c’est-à-dire d’une majorité numérique incapable de faire valoir ses desiderata dans le jeu démocratique et parlementaire. Le débat était ouvert et n’est pas encore clos : quels sont les facteurs qui font que cette majorité numérique demeure une minorité politique ? C’est la question que se posent les esprits indépendants de la veine d’un Hubert de Sy.

 

Faiblesses du mouvement flamand

 

L’ouvrage de notre auteur, Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde Beweging (*), entend répondre à cette question cruciale que les événements politiques, qui ont suivi les élections législatives de 2007, ont rendu plus pertinente que jamais. Hubert de Sy voulait choquer, voulait une thérapie de l’électrochoc et ses thèses se succèdent au fil des pages, prenant bon nombre de certitudes et de postures politiciennes à rebrousse-poil : la communauté flamande ne s’est nullement émancipée en dépit de ses affirmations bruyantes et de ses rodomontades médiatisées ; elle ne possède pas d’autonomie administrative réelle en dépit de son parlement installé à Bruxelles ; le mouvement flamand présente plus de faiblesses que de forces, des faiblesses qui viennent, d’une part, d’un discours tonitruant dans les meetings, les éditoriaux ou les manifestes, où l’on répète trop souvent des idées toutes faites détachées de toute analyse factuelle et, d’autre part, des nomenklatura politiques qui s’empressent d’oublier la radicalité de leurs propos pour participer à l’assiette au beurre, bricoler des montages boiteux et accepter n’importe quels compromis ; les discours de ce mouvement flamand, en théorie populaire et démocratique, ne dénoncent que fort rarement l’établissement financier belge, premier responsable du lent pourrissement du pays, toutes communautés confondues.

 

Ce pourrissement total est apparu aux yeux de l’univers entier avec les grandes crises des années 90 (Dutroux, dioxine) qui n’ont provoqué aucune réaction salutaire de la part de l’établissement qui, au contraire, s’est enfoncé toujours plus profondément dans ses turpitudes, au point de transformer l’Etat en un « champs de ruines éthiques », dixit Hubert de Sy. Les assassinats que l’on commet en pleine rue à Bruxelles, les agressions systématiques que subissent ses habitants, le développement de zones de non-droit dans certains vieux quartiers de la capitale sont décrits par les édiles socialistes corrompues et crapuleuses (au sens strictement étymologique terme) comme des « faits divers », alors qu’ils reflètent bien l’absence des pouvoirs publics dans les tâches qui lui seraient dévolues au sein de tout Etat normal. A cela s’ajoutent la déliquescence des systèmes scolaires (où la Flandre est encore épargnée mais plus pour longtemps), le chômage à grande échelle et le détricotage sournois de tous les acquis sociaux qui avaient fait, pendant deux brèves décennies, l’excellence du « modèle belge ». Les délocalisations néo-libérales, auxquelles les pouvoirs publics n’ont pu s’opposer (Renault/Vilvorde, Volkswagen, Opel, Carrefour, etc.) et la crise bancaire de l’automne 2008 (dont les ravages sont loin d’être terminés) parachèvent le pourrissement que nous évoquions.

 

La majorité minorisée et… diabolisée

 

Revenons à la « majorité minorisée » des Flamands et, par suite, on peut l’ajouter, de toutes les communautés véritablement populaires du royaume, de tout le peuple qui travaille et qui peine pour payer les effets des gabegies politiciennes. Les mésaventures du démocrate chrétien Yves Leterme et du néo-nationaliste post-volksuniste Bart de Wever, qui étaient parvenus à former une majorité flamande en région flamande, se sont retrouvés dans le collimateur d’une propagande dénigrante à souhait et ont été posés comme des para-nazis infréquentables dans toute la presse internationale, celle de Paris en tête. La majorité s’est bien retrouvée minorisée et diabolisée, confirmant les thèses de Claes et de de Sy.

 

Les discours pré-électoraux, promettant une plus large autonomie, ont été vidés de leur contenu pour obtenir des places dans le gouvernement fédéral. De lion rugissant, le cartel démocrate chrétien et post-volksuniste s’est transformé bien rapidement en caniche édenté, prouvant par là même que la teneur de ses discours émancipateurs participait d’une mauvaise analyse de la situation : il aurait fallu avertir l’électeur des dangers qui guettaient toute politique émancipatrice et le préparer à une résistance plus solide, comme celles que livrent aujourd’hui les peuples islandais et grec. Quant à la crise financière internationale de l’automne 2008, qui a suivi immédiatement la crise politique belge de 2007, elle montre que les secteurs bancaires, dépositaires des avoirs populaires, sont totalement indépendants des pouvoirs publics. Les banksters ne respectent ni l’Etat ni les institutions de ce dernier ni leurs propres actionnaires ni la population dont ils encaissent les avoirs. Les banques belges, où la majorité minorisée a thésaurisé ses avoirs et placé ses épargnes, ont été vendues à des groupes bancaires français, exactement comme le secteur énergétique : ils vont désormais pomper l’argent d’un peuple travailleur pour financer les gabegies de l’Hexagone, permettre à celui-ci de financer son fonctionnariat surnuméraire, son armée et sa bombinette et de se payer une bonne tranche de démagogie en diminuant les frais d’énergie pour tous les ménages hexagonaux ; les Flamands, les Wallons, les Germanophones et les immigrés maroxellois, turco-schaerbeekois ou Congolais de Matongé, qu’ils soient chômeurs ou bien nantis, paieront, chaque jour qui passe, pour chaque ampoule allumée le soir, pour chaque frigo en état de fonctionnement, pour chaque rasage électrique le matin. Pour maintenir à flot le sarkozisme, ses pompes et ses œuvres, pour entretenir les gaspillages et les inconséquences voulues par les gauches françaises, de Ségolène Royale à Daniel Cohn-Bendit.

 

Arbitraire d’en haut et arbitraire d’en bas

 

La ponction qui s’exercera ainsi sur les Flamands, mais aussi sur les Wallons et les Allemands d’Eupen et de Saint-Vith, est une ponction démesurée que ni les Algériens ni les Malgaches n’ont subie aux temps des colonies. Mais les Algériens et les Malgaches se sont battus : les ressortissants des anciens Pays-Bas Royaux n’ont pas ce courage, alors que deux ou trois démonstrations de force, une ou deux manifestations de grande envergure contre Electrabel et/ou BNP-Paribas feraient capituler sans gloire aigrefins et escrocs de cet immonde secteur bancaire, véritable lèpre des sociétés contemporaines. Cette passivité face aux menées inacceptables des secteurs énergétique et bancaire vient de la capitulation des gauches flamandes, minoritaires mais bien présentes dans l’arène politique parce qu’elles collaborent sans vergogne avec l’établissement, contre le peuple, contre les travailleurs qu’elles affirment défendre. Si la gauche avait une éthique naturelle, et donc nationale car la nation est un facteur naturel, elle se battrait à l’unisson avec toutes les autres forces émancipatrices du pays : sa trahison livre la population à l’arbitraire, à l’arbitraire d’en haut, celui de l’établissement et des banksters, et à l’arbitraire d’en bas, celui des petites frappes qui écument les rues, pillent, rançonnent et recyclent l’argent de leur came dans les réseaux des… banksters. Voilà pourquoi elles apparaissent bien plus sympathiques à l’établissement que le boulanger de Lessines ou de Maaseik, que le chef de petite entreprise de Bütgenbach ou de Furnes : ils apportent bien moins de flouze noir dans les circuits financiers, ils ne sont que des minables face aux caïds du shit, ils ne méritent guère de lignes de crédit. Voilà pourquoi leurs dérapages sont des « faits divers », selon certains socialistes, parce que le fait essentiel est évidemment cet apport non négligeable que constituent les recettes de la vente du cannabis… Les édiles communales, la magistrature dévoyée, les banksters ne vont pas tirer sur d’aussi lucratifs pourvoyeurs de fonds. Voilà pourquoi on ignore délibérément les analyses posées par l’UNESCO, l’OMS, les Observatoires des Drogues de l’UE ou d’autres instances internationales sur les divers trafics de drogues ou sur la formation de réseaux mafieux dans les diasporas du globe. Voilà pourquoi on n’emprisonne pas les dealers, forcément mineurs. Voilà pourquoi on libère à qui mieux mieux les délinquants qu’on jette parfois en ergastule pour un bref laps de temps. Car il faut qu’ils continuent leur petit jeu, si profitable à une brochette de messieurs sentencieux, en col, cravate et costume trois pièces, qui vont aller vendre nos avoirs à leurs homologues parisiens. Si un bijoutier d’Uccle se fait braquer et si une mère de famille se fait tirer une balle dans la tête par un agent de la société des transports publics de la Région bruxelloise, recyclé en braqueur par un beau jour de congé, eh bien, c’est pour sûr un « fait divers » : on ne va tout de même pas incriminer outre mesure un travailleur, actif dans le plus gros fromage socialiste de la capitale du royaume, qui engage, à la sortie des prisons  —apprend-on depuis le drame d’Uccle—  un personnel supplétif inutile, au nom de l’intégration, alors que cet organisme compte déjà plus d’employés que la RATP parisienne qui, elle, œuvre sur une aire géographique et sur un charroi bien plus impressionnants. Et pour parachever l’horreur : quelques jours à peine après l’abominable crime d’Uccle, un autre employé de la même société et du même service que le pistolero de l’Avenue Brugmann était impliqué dans une lourde affaire de braquage… Encore un « fait divers »…

 

Pour un retour aux meilleures théories politiques

 

Cette dérive sur l’actualité la plus récente permet d’expliquer l’une des dernières thèses émises par Hubert de Sy, dans son ouvrage, rédigé en français pour qu’il ait un impact en dehors des circuits politiques flamands, L’Etat belge en crise existentielle. Hubert de Sy y évoque la « débâcle éthique » de l’Etat, en puisant ses exemples dans la corruption politique et le népotisme qui en est son plus flagrant corollaire et qui sévit en Wallonie, sans pour autant épargner la Flandre, reconnaît notre auteur. Mais la « débâcle éthique » en Belgique est bien plus profonde que celle qu’attestent de simples faits de corruption et de népotisme. Sur base des travaux de Claes et de de Sy, un chantier infini peut s’ouvrir, non seulement pour le mouvement populaire flamand, pour ceux qui entendent à gauche sortir de l’ornière d’un socialisme flamand établi, pour ceux qui entendent réhabiliter un solidarisme bien structuré face aux dérives du néo-libéralisme mais aussi pour tous ceux qui veulent une démocratie exemplaire et bien huilée en ce pays, pour les Wallons et autres francophones qui veulent un changement. Et qui seront plus nombreux sans doute à lire cet hommage en français à Hubert de Sy, le gentleman policé, et un peu isolé faut-il l’ajouter, du mouvement flamand, qui publiait à compte d’auteur, cherchant ainsi à consolider son indépendance personnelle, à laquelle il tenait beaucoup, signe de son excellence, signe d’une attitude noble qui disparaît de nos horizons sous les coups de la vulgarité contemporaine. Les Wallons liront d’ailleurs les thèses de Claes et de Sy en parallèle avec le seul sénateur qui soit capable de désigner les tares du royaume dans l’espace francophone et wallon du pays : je veux nommer Alain Destexhe et ses compagnons en écriture, Alain Eraly et Eric Gillet (cf. Démocratie ou particratie ? 120 propositions pour refonder le système belge, éd. Labor, Bruxelles, 2003). Destexhe s’inscrit dans la tradition de Paul Hymans, homme politique libéral des années 90 du 19ème et de la première décennie du 20ème siècle.  Paul Hymans avait voulu œuvrer dans le sillage de la critique italienne de la partitocratie émergente, portée par son homologue Minghetti, lui-même influencé par la théorie de la circulation des élites formulée par Gaetano Mosca, maître à penser de Vilfredo Pareto. Plus tard, Roberto Michels et Max Weber, Charles Benoist et Moshe Ostrogovski parachèveront la théorie critique des oligarchies et des dérives des partitocraties. Nous voilà ramenés dans l’espace élevé, où l’air est vif, des meilleures théories politiques.

 

Courage politique ?

 

Nous avons donc en main toutes les théories critiques pour fustiger et éliminer les fauteurs de pourrissement et de « débâcle éthique ». Nous avons aussi pour nous les analyses factuelles de bon nombre d’instances internationales (ONU, UNESCO, OMS). Nous avons les exemples des peuples grec et islandais. Il manque évidemment l’ingrédient essentiel : le courage politique. Dans ses rodomontades pré-électorales de 2007, où il affirmait qu’on allait voir ce que l’on allait voir, Leterme avait prononcé ces paroles fortes : « Vijf minuten politieke moed », « Cinq minutes de courage politique ». Sa résistance a en effet duré cinq minutes. Pas beaucoup plus. Il faut former des hommes et des femmes qui n’ont pas pour caractéristique première l’agaçante intempérance d’aller plastronner sur les strapontins d’un parlement, quel qu’il soit, mais qui possèdent l’endurance, la volonté d’œuvrer sur le long terme pour opérer une révolution métapolitique qui, en bout de course, dressera partout les garde-fous nécessaires pour qu’un régime de capitulation, de mépris de la population, de corruption, de débâcle éthique, de crime, de laxisme, de dysfonctionnements, de favoritisme anti-démocratique ne soit plus possible. Et laissons à Hubert de Sy le soin de conclure en citant un sociologue espagnol, Manuel Vazquez Montalban : « Coller un nom sur ce qui porte préjudice à nos intérêts, nous aide à résister ».

 

(21 mars 2010, jour de l’équinoxe de printemps).

 

Note :

(°) ISBN 90-5466-362-6 – Diffusion « Roularta ».

00:25 Publié dans Hommages | Lien permanent | Commentaires (7) | Tags : hommage, flandre, belgique, politique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 04 mars 2010

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Fra grandi attese, ottimi docenti e qualche immancabile boicottaggio, il tradizionale corso di studi all’Università di Teramo

Filippo Ghira

Enrico_Mattei.pngRiparte all’Università di Teramo il  “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”. Nel 2007 era stato chiuso per la nota vicenda Faurisson, per due anni è continuato a Roma sotto l’egida dello Iemasvo, Istituto Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”, e adesso è di nuovo nell’Ateneo dove era stato inaugurato nel febbraio 2006 con una prolusione di Giulio Andreotti su Enrico Mattei.
E’ cambiato qualcosa? “E’ cambiato il regolamento di Facoltà - risponde il professor Claudio Moffa, coordinatore del corso di studi, le cui domande scadranno il 28 febbraio prossimo – adesso la lista dei docenti deve essere approvata dal Consiglio di Facoltà ma comunque l’impianto generale non cambia. Anzi nella fase romana è stata allargata la rosa dei conferenzieri, per fare due nomi Ilan Pappè e Clementina Forleo, e quest’anno proponiamo nuovi argomenti interessanti”. Come il convegno di economia su “Monete, acqua, oleodotti: le guerre economiche del Medio Oriente” e quello su: “Finanza, usura e signoraggio”, con economisti quali Bruno Amoroso, Gianfranco Lagrassa e Eugenio Benetazzo. O il seminario su: “L’assedio dei cristiani in Medio Oriente”, un panorama radicalmente diverso da quello dei tempi di La Pira.
Un corso dunque allo stesso tempo altamente professionale ma anche poco omologato alla lettura dominante degli eventi mediorientali.
Nessun problema dunque? “I problemi ci sono – risponde Moffa – e vengono per ora soprattutto da internet che  ci impedisce di fatto una adeguata pubblicizzazione: improvvisi blocchi della posta in uscita, scomparsa dai siti di nomi e notizie importanti che poi magicamente ricompaiono poco dopo. Ma chiunque tratta argomenti politicamente non corretti conosce questo tipo di ostacoli. Per il resto ci stiamo avvicinando al traguardo delle iscrizioni, ancora possibili. Il termine ultimo per iscriversi al Master è il 28 febbraio. L’impressione quindi è che si voglia giocare sul fattore tempo per impedire che gli incontri del Master che vedrà l’avvicendarsi di docenti di chiara fama, abbia il successo e il riscontro già avuti in passato.
Una battaglia che riguarda tutti: basta andare sul sito
www.masteruniteramo.it, ascoltare le presentazioni video del corso di studi e il già nutrito programma articolato in convegni e temi molto interessanti e spesso controcorrente per capire. La lista dei relatori, Franco Cardini, Maurizio Blondet, ma anche Agostino Cilardo, Ferdinando Pellegrini e Israel Shamir, basterebbe da sola a rassicurare che quella offerta agli iscritti e agli uditori, sarà un’analisi obiettiva degli argomenti trattati. Ci saranno anche alcuni ambasciatori, come quello venezuelano, entro un quadro di pluralismo tipico di un Ateneo pubblico”.
 
Enrico Mattei: in nome dell’Italia
Problemi per un Master intitolato a Mattei? La verità è che la figura e l’opera di Enrico Mattei sono ancora in grado di dare fastidio per tutti gli interrogativi che esse pongono oggi in materia di approvvigionamento energetico, indipendenza nazionale, colonialismo e rapporti internazionali. Della figura di Enrico Mattei si tende oggi a ricordare l’atteggiamento spregiudicato, i finanziamenti versati ai vari partiti per non dover incontrare ostacoli sul suo cammino. Ma ben pochi ricordano che il suo “utilizzare i partiti come taxi” era finalizzato a rendere l’Italia indipendente dal punto di vista energetico e non dipendente quindi dalle forniture delle Sette Sorelle statunitensi e anglo-olandesi. Basti pensare che  nell’immediato dopoguerra, Enrico Mattei, nominato commissario liquidatore dell’Agip, dimostrando una notevole lungimiranza, riuscì a convincere il governo dell’epoca a rinunciare a quella idea e di investire invece in un Ente pubblico, l’Eni appunto, che si occupasse di garantire al nostro Paese l’approvvigionamento energetico di petrolio e di gas, che fu più che determinante per sostenere il nostro boom economico. La stampa italiana, specie quella del Nord, legata agli ambienti industriali e finanziari nazionali, e con saldi legami con analoghi ambienti europei e americani, non si fece sfuggire l’occasione per attaccare la politica dell’Eni che si muoveva con estrema autonomia sugli scenari internazionali, avendo per prima preoccupazione l’interesse nazionale.
L’aspetto che determinò il successo dell’Eni nei Paesi produttori di petrolio fu l’approccio “non colonialista” con cui Mattei lo caratterizzò. Tanto per cominciare, Mattei innovò radicalmente nella percentuale che l’Eni ritagliò per se stesso nello sfruttamento dei giacimenti di petrolio scoperti. Appena un 25% per il gruppo italiano contro il 75% riservato alla compagnia petrolifera di Stato locale. Laddove le Sette Sorelle pretendevano come minimo il 50%. Secondo aspetto, fu la clausola secondo la quale se le ricerche di uno specifico giacimento non avessero avuto buon fine, l’Eni non avrebbe chiesto niente allo Stato estero a mo’ di indennizzo. Un metodo a dir poco rivoluzionario che contribuì in maniera determinante a creare una corrente di enorme simpatia verso il gruppo italiano. Terzo e non meno importante innovazione fu la scelta di Mattei di fare addestrare le maestranze locali nella scuola aziendale dell’Eni a San Donato Milanese. Il disegno era di per sé ovvio. L’Eni, voleva far capire Mattei, non vuole limitarsi a rapporti economici ma vuole far crescere professionalmente una folta schiera di tecnici che una volta formati saranno in grado di fare da soli o affiancare al meglio le società petrolifere straniere, senza quindi dover dipendere totalmente da esse. Un approccio che è ancora vivo nella memoria delle classi dirigenti di quel Paese. Un ricordo che fa sì che l’Eni possa ancora oggi vivere di rendita in quei Paesi godendo di una simpatia che non è mai venuta meno.
La politica autonoma dell’Eni si indirizzò soprattutto verso i Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa. Se fu l’Iran l’esempio più eclatante di un irrompere del gruppo italiano in un Paese che era considerato territorio esclusivo di caccia della British Petroleum, fu però l’Egitto di Nasser il primo Paese con il quale Mattei nel 1956 iniziò rapporti stabili e duraturi. Per non parlare dell’appoggio finanziario dato dall’imprenditore marchigiano al Fronte di liberazione nazionale algerino, un fatto che non poteva che irritare non poco la Francia la cui classe dirigente si stava ormai rassegnando all’idea di perdere i suoi territori di oltremare. Una vicinanza all’Fnl che fu rafforzata dalla disponibilità di un appartamento a Roma per il capo politico del movimento indipendentista, Mohamed Ben Bella.
L’Eni si poneva quindi come una realtà autonoma che, in nome degli interessi superiori dell’Italia, vista come un naturale prolungamento dell’Europa verso i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, voleva rompere gli equilibri consolidati in tutta l’area. L’attivismo di Mattei dava particolare fastidio ad Israele che male sopportava il fatto che l’Eni tendesse a far crescere economicamente e autonomamente Paesi come Algeria ed Egitto. L’origine dell’attentato del 27 ottobre 1962 con la bomba piazzata nel suo aereo ed esplosa nel cielo di Bascapè deve probabilmente essere inserita in questa contrapposizione con lo Stato nato appena quindici anni prima. Una ostilità che ebbe conseguenze all’interno della stessa Eni quando Mattei, qualche mese prima della sua morte, obbligò Eugenio Cefis, vicepresidente dell’Eni e presidente dell’Anic, a lasciare il gruppo dove costituiva il capo di una corrente giudicata troppo “vicina” agli interessi atlantici ed israeliani. Lo stesso Cefis, ex braccio destro di Mattei nella guerra civile come partigiano cattolico, che fu chiamato a guidare l’Eni subito dopo la morte di Mattei. Le altre ipotesi sul’attentato sono infatti poco credibili. Da un intervento delle Sette Sorelle, con le quali in settembre aveva raggiunto una sorta di “gentlemen agreement”, all’ipotesi della Cia che giudicava Mattei destabilizzante, proprio nei giorni in cui infuriava la crisi dei missili sovietici a Cuba. Lo stesso scetticismo vale per un possibile ruolo avuto dalle compagnie petrolifere francesi, che avevano vasti interessi in Algeria, o per l’intervento della Mafia siciliana o di Cosa Nostra Usa che agirono per conto terzi. Tutte ipotesi che hanno il demerito di vedere solamente la punta dell’iceberg e di non voler leggere quella che è la sostanza del problema. L’attentato di Bascapè mise comunque fine all’esistenza di una personalità unica, un uomo che era stato capace di intravedere realtà e potenzialità che altri nemmeno si immaginavano.  
 
 
 
Per informazioni e per iscriversi al Master:
www.masteruniteramo.iit
info@mastermatteimedioriente.it;
claudio.moffa@fastwebnet.it;
mastermattei.unite@tiscali.it;
377-1520283; 347-7777.071





23 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=832

mardi, 02 mars 2010

In Memoriam Jean-Claude Valla (1944-2010)

In Memoriam

Jean-Claude Valla

(16/5/1944 – 25/2/2010)

Soube hoje, por um amigo francês, da morte de Jean-Claude Valla, jornalista, editor, historiador homem de cultura. Co-fundador do GRECE e seu secretário-geral nos anos 70, foi um dos intelectuais de relevo do que se convencionou chamar a "Nouvelle Droite". Colaborou em numerosas publicações e dirigiu várias revistas, incluindo tanto a «Éléments» como o «Figaro Magazine». Deixa uma extensa obra historiográfica, dedicada especialmente ao período contemporâneo, na qual se destacam os fascismos e a colaboração. Participou em diversas revistas de História, tendo actualmente presença habitual na «NRH». Conheci-o na XIII Table Ronde, em 2008, onde foi um dos oradores, e tive oportunidade de trocar com ele algumas palavras. Já não está entre nós. Descanse em paz.
Ex: http://penaeespada.blogspot.com/

vendredi, 19 février 2010

Der Engel der Vernichtung

Der Engel der Vernichtung
Angriff gegen den aufklärerischen Optimismus, verdunkelt von Kraftworten: Zum 250. Geburtstag von Joseph de Maistre

Günter Maschke - Ex: http://www.jungefreiheit.de/ 

JMaistre.jpgLa neve sulla tosta, ma il fuoco nella bocca!", rief ein begeisterter Italiener aus, der das einzige überlieferte Portrait Joseph de Maistres betrachtete, das kurz vor dessen Tode entstand. Das Haupt weiß, wie von Schnee bedeckt und aus dem Munde strömt Feuer: De Maistre gehört zu den wenigen Autoren, die mit zunehmenden Jahren stets nur radikaler und schroffer wurden und sich der sanft korrumpierenden Weisheit des Alters entschlungen, gemäß der man versöhnlicher zu werden habe und endlich um die Reputation bemüht sein müsse. Fors do l'honneur nul souci, außer der Ehre keine Sorge, war der Wahlspruch des Savoyarden, und zu seiner Ehre gehörte es, immer unvermittelter, schonungsloser und verblüffender das Seine zu sagen.

Der Ruhm de Maistres verdankt sich seinen Kraftworten, mit denen er den ewigen Gutmenschen aufschreckt, der sich's inmitten von Kannibalenhumanität und Zigeunerliberalismus bequem macht. "Der Mensch ist nicht gut genug, um frei zu sein", ist wohl noch das harmloseste seiner Aperçus, das freilich, wie alles Offenkundige, aufs Äußerste beleidigt. Beharrliche Agnostiker und schlaue Indifferenzler entdecken plötzlich ihre Liebe zur Wahrheit und erregen sich über den kaltblütigen Funktionalismus de Maistres, schreibt dieser: "Für die Praxis ist es gleichgültig, ob man dem Irrtum nicht unterworfen ist oder ob man seiner nicht angeklagt werden darf. Auch wenn man damit einverstanden ist, daß dem Papste keine göttliche Verheißung gegeben wurde, so wird er dennoch, als letztes Tribunal, nicht minder unfehlbar sein oder als unfehlbar angesehen werden: Jedes Urteil, an das man nicht appellieren kann, muß, unter allen nur denkbaren Regierungsformen, in der menschlichen Gesellschaft als gerecht angesehen werden. Jeder wirkliche Staatsmann wird mich wohl verstehen, wenn ich sage, daß es sich nicht bloß darum handelt, zu wissen, ob der Papst unfehlbar ist, sondern ob er es sein müßte. Wer das Recht hätte, dem Papste zu sagen, daß er sich geirrt habe, hätte aus dem gleichen Grunde auch das Recht, ihm den Gehorsam zu verweigern."

Der Feind jeder klaren und moralisch verpflichtenden Entscheidung erschauert vor solchen ganz unromantischen Forderungen nach einer letzten, alle Diskussionen beendenden Instanz und angesichts der Subsumierung des Lehramtes unter die Jurisdiktionsgewalt erklärt er die Liebe und das Zeugnisablegen zur eigentlichen Substanz des christlichen Glaubens, den er doch sonst verfolgt und haßt, weiß er doch, daß diesem die Liebe zu Gott wichtiger ist als die Liebe zum Menschen, dessen Seele "eine Kloake" (de Maistre) ist.

Keine Grenzen mehr aber kennt die Empörung, wenn de Maistre, mit der für ihn kennzeichnenden Wollust an der Provokation, den Henker verherrlicht, der, zusammen mit dem (damals) besser beleumundeten Soldaten, das große Gesetz des monde spirituel vollzieht und der Erde, die ausschließlich von Schuldigen bevölkert ist, den erforderlichen Blutzoll entrichtet. Zum Lobpreis des Scharfrichters, der für de Maistre ein unentbehrliches Werkzeug jedweder stabilen gesellschaftlichen Ordnung ist, gesellt sich der Hymnus auf den Krieg und auf die universale, ununterbrochene tobende Gewalt und Vernichtung: "Auf dem weiten Felde der Natur herrscht eine manifeste Gewalt, eine Art von verordneter Wut, die alle Wesen zu ihrem gemeinsamen Untergang rüstet: Wenn man das Reich der unbelebten Natur verläßt, stößt man bereits an den Grenzen zum Leben auf das Dekret des gewaltsamen Todes. Schon im Pflanzenbereich beginnt man das Gesetz zu spüren: Von dem riesigen Trompetenbaum bis zum bescheidensten Gras - wie viele Pflanzen sterben, wie viele werden getötet!"

Weiter heißt es in seiner Schrift "Les Soirées de Saint Pétersbourg" (1821): "Doch sobald man das Tierreich betritt, gewinnt das Gesetz plötzlich eine furchterregende Evidenz. Eine verborgene und zugleich handgreifliche Kraft hat in jeder Klasse eine bestimmte Anzahl von Tieren dazu bestimmt, die anderen zu verschlingen: Es gibt räuberische Insekten und räuberische Reptilien, Raumvögel, Raubfische und vierbeinige Raubtiere. Kein Augenblick vergeht, in dem nicht ein Lebewesen von einem anderen verschlungen würde.

Über alle diese zahllosen Tierrassen ist der Mensch gesetzt, dessen zerstörerische Hand verschont nichts von dem was lebt. Er tötet, um sich zu nähren, er tötet, um sich zu belehren, er tötet, um sich zu unterhalten, er tötet, um zu töten: Dieser stolze, grausame König hat Verlangen nach allem und nichts widersteht ihm. Dem Lamme reißt er die Gedärme heraus, um seine Harfe zum Klingen zu bringen, dem Wolf entreißt er seinen tödlichsten Zahn, um seine gefälligen Kunstwerke zu polieren, dem Elefanten die Stoßzähne, um ein Kinderspielzeug daraus zu schnitzen, seine Tafel ist mit Leichen bedeckt. Und welches Wesen löscht in diesem allgemeinen Schlachten ihn aus, der alle anderen auslöscht? Es ist er selbst. Dem Menschen selbst obliegt es, den Menschen zu erwürgen. Hört ihr nicht, wie die Erde schreit nach Blut? Das Blut der Tiere genügt ihr nicht, auch nicht das der Schuldigen, die durch das Schwert des Gesetzes fallen. So wird das große Gesetz der gewaltsamen Vernichtung aller Lebewesen erfüllt. Die gesamte Erde, die fortwährend mit Blut getränkt wird, ist nichts als ein riesiger Altar, auf dem alles, was lebt, ohne Ziel, ohne Haß, ohne Unterlaß geopfert werden muß, bis zum Ende aller Dinge, bis zur Ausrottung des Bösen, bis zum Tod des Todes."

Im Grunde ist dies nichts als eine, wenn auch mit rhetorischem Aplomb vorgetragene banalité supérieure, eine Zustandsbeschreibung, die keiner Aufregung wert ist. So wie es ist, ist es. Doch die Kindlein, sich auch noch die Reste der Skepsis entschlagend, die der frühen Aufklärung immerhin noch anhafteten, die dem Flittergold der humanitären Deklaration zugetan sind (auch, weil dieses sogar echtes Gold zu hecken vermag), die Kindlein, sie hörten es nicht gerne.

Der gläubige de Maistre, der trotz all seines oft zynisch wirkenden Dezisionismus unentwegt darauf beharrte, daß jede grenzenlose irdische Macht illegitim, ja widergöttlich sei und der zwar die Funktionalisierung des Glaubens betrieb, aber auch erklärte, daß deren Gelingen von der Triftigkeit des Glaubens abhing - er wurde flugs von einem bekannten Essayisten (Isaiah Berlin) zum natürlich 'paranoiden' Urahnen des Faschismus ernannt, während der ridiküle Sohn eines großen Ökonomen in ihm den verrucht-verrückten Organisator eines anti-weiblichen Blut- und Abwehrzaubers sah, einen grotesken Medizinmann der Gegenaufklärung. Zwischen sich und der Evidenz hat der Mensch eine unübersteigbare Mauer errichtet; da ist des Scharfsinns kein Ende.

Der hier und in ungezählten anderen Schriften sich äußernde Haß auf den am 1. April 1753 in Chanbéry/Savoyen geborenen Joseph de Maistre ist die Antwort auf dessen erst in seinem Spätwerk fulminant werdenden Haß auf die Aufklärung und die Revolution. Savoyen gehörte damals dem Königreich Sardinien an und der Sohn eines im Dienste der sardischen Krone stehenden Juristen wäre wohl das ehrbare Mitglied des Beamtenadels in einer schläfrigen Kleinstadt geblieben, ohne intellektuellen Ehrgeiz und allenfalls begabt mit einer außergewöhnlichen Liebenswürdigkeit und Höflichkeit in persönlich-privaten Dingen, die die "eigentliche Heimat aller liberalen Qualitäten" (Carl Schmitt) sind.

Der junge Jurist gehörte gar einer Freimaurer-Loge an, die sich aber immerhin kirchlichen Reunionsbestrebungen widmet; der spätere, unnachgiebige Kritiker des Gallikanismus akzeptiert diesen als selbstverständlich; gelegentlich entwickelte de Maistre sogar ein wenn auch temperiertes Verständnis für die Republik und die Revolution. Der Schritt vom aufklärerischen Scheinwesen zur Wirklichkeit gelang de Maistre erst als Vierzigjährigem: Als diese in Gestalt der französischen Revolutionstruppen einbrach, die 1792 Savoyen annektierten. De Maistre mußte in die Schweiz fliehen und verlor sein gesamtes Vermögen.

Erst dort gelang ihm seine erste, ernsthafte Schrift, die "Considérations sur la France" (Betrachtungen über Frankreich), die 1796 erschien und sofort in ganz Europa Furore machte: Die Restauration hatte ihr Brevier gefunden und hörte bis 1811 nicht auf, darin mehr zu blättern als zu lesen. Das Erstaunliche und viele Irritierende des Buches ist, daß de Maistre hier keinen Groll gegen die Revolution hegt, ja, ihr beinahe dankbar ist, weil sie seinen Glauben wieder erweckte. Zwar lag in ihr, wie er feststellte, "etwas Teuflisches", später hieß es sogar, sie sei satanique dans sons essence. Doch weil dies so war, hielt sich de Maistres Erschrecken in Grenzen. Denn wie das Böse, so existiert auch der Teufel nicht auf substantielle Weise, ist, wie seine Werke, bloße Negation, Mangel an Gutem, privatio boni. Deshalb wurde die Revolution auch nicht von großen Tätern vorangetrieben, sondern von Somnambulen und Automaten: "Je näher man sich ihre scheinbar führenden Männer ansieht, desto mehr findet man an ihnen etwas Passives oder Mechanisches. Nicht die Menschen machen die Revolution, sondern die Revolution benutzt die Menschen."

Das bedeutete aber auch, daß Gott sich in ihr offenbarte. Die Vorsehung, die providence, leitete die Geschehnisse und die Revolution war nur die Züchtigung des von kollektiver Schuld befleckten Frankreich. Die Furchtbarkeit der Strafe aber bewies Frankreichs Auserwähltheit. Die "Vernunft" hatte das Christentum in dessen Hochburg angegriffen, und solchem Sturz konnte nur die Erhöhung folgen. Die Restauration der christlichen Monarchie würde kampflos vonstatten gehen; die durch ihre Gewaltsamkeit verdeckte Passivität der Gegenrevolution, bei der die Menschen nicht minder bloßes Werkzeug sein würden. Ohne Rache, ohne Vergeltung, ohne neuen Terror würde sich die Gegenrevolution, genauer, "das Gegenteil einer Revolution", etablieren; sie käme wie ein sich sanftmütig Schenkender.

Die konkrete politische Analyse aussparen und direkt an den Himmel appellieren, wirkte das Buch als tröstende Stärkung. De Maistre mußte freilich erfahren, daß die Revolution sich festigte, daß sie sich ihre Institution schuf, daß sie schließlich, im Thermidor und durch Bonaparte, ihr kleinbürgerlich-granitenes Fundament fand.

Von 1803 bis 1817 amtierte de Maistre als ärmlicher, stets auf sein Gehalt wartender Gesandter des Königs von Sardinien, der von den spärlichen Subsidien des Zaren in Petersburg lebt - bis er aufgrund seiner lebhaften katholischen Propaganda im russischen Hochadel ausgewiesen wird. Hier entstehen, nach langen Vorstudien etwa ab 1809, seine Hauptwerke: "Du Pape" (Vom Papste), publiziert 1819 in Lyon, und "Les Soirées de Saint Pétersbourg" (Abendgespräche zu Saint Petersburg), postum 1821.

Die Unanfechtbarkeit des Papstes, von der damaligen Theologie kaum noch verfochten, liegt für de Maistre in der Natur der Dinge selbst und bedarf nur am Rande der Theologie. Denn die Notwendigkeit der Unfehlbarkeit erklärt sich, wie die anderer Dogmen auch, aus allgemeinen soziologischen Gesetzen: Nur von ihrem Haupte aus empfangen gesellschaftliche Vereinigungen dauerhafte Existenz, erst vom erhabenen Throne ihre Festigkeit und Würde, während die gelegentlich notwendigen politischen Interventionen des Papstes nur den einzelnen Souverän treffen, die Souveränität aber stärken. Ein unter dem Zepter des Papstes lebender europäischer Staatenbund - das ist de Maistres Utopie angesichts eines auch religiös zerspaltenen Europa. Da die Päpste die weltliche Souveränität geheiligt haben, weil sie sie als Ausströmungen der göttlichen Macht ansahen, hat die Abkehr der Fürsten vom Papst diese zu verletzlichen Menschen degradiert.

Diese für viele Betrachter phantastisch anmutende Apologie des Papsttums, dessen Stellung durch die Revolution stark erschüttert war, führte, gegen immense Widerstände des sich formierenden liberalen Katholizismus, immerhin zur Proklamation der päpstlichen Unfehlbarkeit durch Pius IX. auf dem 1869 einberufenen Vaticanum, mit dem der Ultramontanismus der modernen, säkularisierten Welt einen heftigen, bald aber vergeblichen Kampf ansagte.

Die "Soirées", das Wesen der providence, die Folgen der Erbsünde und die Ursachen des menschlichen Leidens erörternd, sind der vielleicht schärfste, bis ins Satirische umschlagende Angriff gegen den aufklärerischen Optimismus. Hier finden sich in tropischer Fülle jene Kraftworte de Maistres, die, gerade weil sie übergrelle Blitze sind, die Komplexität seines Werkes verdunkeln und es als bloßes reaktionäres Florilegium erscheinen lassen.

De Maistre, der die Leiden der "Unschuldigen" ebenso pries wie die der Schuldigen, weil sie nach einem geheimnisvollen Gesetz der Reversibilität den Pardon für die Schuldigen herbeiführen, der die Ausgeliefertheit des Menschen an die Erbsünde in wohl noch schwärzeren Farben malte als Augustinus oder der Augustinermönch Luther und damit sich beträchtlich vom katholischen Dogma entfernte, der nicht müde wurde, die Vergeblichkeit und Eitelkeit alles menschlichen Planens und Machens zu verspottern, - er mutete und mutet vielen als ein Monstrum an, als ein Prediger eines terroristischen und molochitischen Christentum.

Doch dieser Don Quijote der Laientheologie - doch nur die Laien erneuerten im 19. Jahrhundert die Kirche, deren Klerus schon damals antiklerikal war! -, der sich tatsächlich vor nichts fürchtete, außer vor Gott, stimmt manchen Betrachter eher traurig. Weil er, wie Don Quijote, zumindest meistens recht hatte. Sein bis ins Fanatische und Extatische gehender Kampf gegen den Lauf der Zeit ist ja nur Gradmesser für den tiefen Sturz, den Europa seit dem 13. Jahrhundert erlitt, als der katholische Geist seine großen Monumente erschuf: Die "Göttliche Komödie" Dantes, die "Siete Partidas" Alfons' des Weisen, die "Summa" des heiligen Thomas von Aquin und den Kölner Dom.

Diesem höchsten Punkt der geistigen Einheit und Ordnung Europas folgte die sich stetig intensivierende Entropie, die, nach einer Prognose eines sanft gestimmten Geistesverwandten, des Nordamerikaners Henry Adams (1838-1918), im zwanzigsten und einundzwanzigsten Jahrhundert zur völligen spirituellen, aber auch politischen und sittlichen Anomie führen würde.

Der exaltierte Privatgelehrte, der in St. Petersburg aufgrund seiner unbedeutenden Tätigkeit genug Muße fand, sagte als erster eine radikale, blutige Revolution in Rußland voraus, geleitet von einem "Pugatschev der Universität", was wohl eine glückliche Definition Lenins ist. Die Prophezeiung wurde verlacht, war Rußland doch für alle ein Bollwerk gegen die Revolution. Er entdeckte, neben Louis Vicomte de Bonald (1754-1840), die Gesetze politisch-sozialer Stabilität, die Notwendigkeit eines bloc des idées incontestables, Gesetze, deren Wahrheit sich gerade angesichts der Krise und des sozialen Atomismus erwies: Ohne Bonald und de Maistre kein August Comte und damit auch keine Soziologie, deren Geschichte hier ein zu weites Feld wäre. De Maistre, Clausewitz vorwegnehmend und Tolstois und Stendhals Schilderung befruchtend, erkannte als erster die Struktur der kriegerischen Schlacht und begriff, daß an dem großen Phänomen des Krieges jedweder Rationalismus scheitert; der Krieg war ihm freilich göttlich, nicht wie den meist atheistischen Pazifisten ein Teufelswerk; auch ihn durchwaltete die providence.

Endlich fand de Maistre den Mut zu einer realistischen Anthropologie, die Motive Nietzsches vorwegnahm und die der dem Humanitarismus sich ausliefernden Kirche nicht geheuer war: Der Mensch ist beherrscht vom Willen zur Macht. Vom Willen zur Erhaltung der Macht, vom Willen zur Vergrößerung der Macht, von Gier nach dem Prestige der Macht. Diese Folge der Erbsünde bringt es mit sich, daß, so wie die Sonne die Erde umläuft, der "Engel der Vernichtung" über der Menschheit kreist - bis zum Tod des Todes.

Am 25. Februar 1821 starb Joseph de Maistre in Turin. "Meine Herren, die Erde bebt, und Sie wollen bauen!" - so lauteten seine letzten Worte zu den Illusionen seiner konservativen Freunde. Das war doch etwas anderes als - Don Quijote. 

Joseph de Maistre (1753-1821): Außer der Ehre keine Sorge, lautete der Wahlspruch des Savoyarden, und zu seiner Ehre gehörte es, immer unvermittelter und schonungsloser das Seine zu sagen

Günter Maschke lebt als Privatgelehrter und Publizist in Frankfurt am Main. Zusammen mit Jean-Jacques Langendorf ist er Hausgeber der "Bibliothek der Reaktion" im Karolinger Verlag, Wien. Von Joseph de Maistre sind dort die Bücher "Betrachtungen über Frankreich", "Die Spanische Inquisition" und "Über das Opfer" erschienen.


mardi, 09 juin 2009

Pol Vandromme, passeur de lettres

Pol Vandromme, passeur des lettres

Christian Authier - http://www.lefigaro.fr/


Pol Vandromme. Crédits photo : Benoite FANTON/Opale

Pol Vandromme.

DISPARITION

L'écrivain et critique belge s'est éteint le 28 mai à l'âge de 82 ans. Il laisse une œuvre abondante qui ne cessa de célébrer les irréguliers de la littérature.

Né à Charleroi en 1927, Pol Vandromme s'est vite tourné vers un « journalisme de minorité » qui sera son inconfort mais aussi sa sauvegarde. Il préférera toujours le drapeau noir des copains d'abord aux laissez-passer du conformisme. Vandromme va devenir écrivain dans le sillage des hussards. C'est d'ailleurs à ces derniers et à leurs maîtres qu'il consacre ses premiers livres, essais racés défrichant le paysage d'une littérature qui privilégie le style aux idées. « On n'a pas une passion pour la littérature si l'on n'en a pas une pour les écrivains  », écrivait-il dans Bivouacs d'un hussard, livre de souvenirs paru en 2002.

Toute l'œuvre de celui qui se définissait comme un « citoyen de littérature française » ne cessera d'explorer cette passion avec un enthousiasme sans cesse renou­velé. « On quittait la république de Sartre et de Camus pour la monarchie de Fargue et de Larbaud. Kléber Haedens accueillait sur la voie royale Blondin et Vialatte. L'ennui déguerpissait, Toulet revenait en Arles où sont les Alyscamps. C'était le nouveau printemps de la littérature.  » Années 1950 : contre le magistère moral d'humanistes staliniens, Vandromme ébauche les frontières sans droits de douane d'une droite littéraire qu'il qualifie joliment de « buisson­nière » en clin d'œil à Blondin. Ses chers hussards y tiennent leur place, mais aussi le dandy rouge Roger Vailland ou la jeune Françoise Sagan.

Attentif aux jeunes talents

Il ne quittera que rarement son rôle de passeur des lettres (un seul roman, Un été acide, en 1990), même si Brel, Brassens ou Tintin prennent place dans le panthéon sans cérémonial de cet infatigable intercesseur. Il signera nombre de pastiches, libelles ou pamphlets, tel le jubilatoire Malraux : du farfelu au mirobolant. Ses essais consacrés à Céline, Simenon, Nimier, Déon, Marceau, Mohrt ou Jacques Perret sont des modèles du genre, mais le critique savait aussi rester attentif aux jeunes talents.

Trop pudique pour avancer à découvert, trop généreux pour taire ses admirations, Pol Vandromme a fait des écrivains ses confidents et ses relais : « À la vie jouée du théâtre, ils préfèrent la vie vécue du quotidien ; aux fureurs collectives, la lenteur et la patience d'une éducation séculaire ; aux songes messianiques les mots de passe de leurs rêves sans arrogance. »

vendredi, 29 mai 2009

Erik von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999), der liberalkonservative Monarchist

Erik Ritter von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999), der liberalkonservative Monarchist

Ex: http://eisernekrone.blogspot.com/
Vor zehn Jahren, am 26. Mai 1999 ist der katholisch-konservative Publizist Erik Maria Ritter von Kuehnelt-Leddihn in Tirol verstorben. Er ist zunächst als Verfasser von Romanen in Erscheinung getreten, von denen ich allerdings keinen gelesen habe. Bekannt wurde er als Kritiker der Demokratie, der das ganze Arsenal der Demokratiekritik von Platon bis in die Gegenwart, pointiert und unterhaltsam zu lesen, in Anschlag brachte. Seine Demokratiekritik hat Evola auch ins Italienische übersetzt (L´errore democratico; Roma 1966), was ihn auch in persönlichen Kontakt mit diesem brachte. Umgekehrt berief sich Ritter von Kuehnelt-Leddihn öfters auf Baron Evola, wenn er alles, was so herkömmlich als rechts oder "extrem rechts" gilt, nämlich Nationalismus und Faschismus, als dem Wesen nach links bestimmte. Das klang dann so:
Auch Julius Evola, ein brillanter, wenn auch perverser Denker der heidnischen Rechten, betrachtete den Faschismus als eine Bewegung der Linken, die nichts mit der wahren Rechten zu tun hatte.
(Eine Sprachregulierung: Was ist „faschistisch“?)

Allerdings hatte vieles was Kuehnelt-Leddihn in seiner persönlichen Gleichung lieb und rechts war, auch nichts mit der wahren Rechten zu tun. Dies gilt an erster Stelle für seinen ultrakapitalistischen Wirtschaftsliberalismus (der Freund Hayeks war auch in der Mont Pèlerin Society), der gerade die bürgerlichen Zerstörer der alten aristokratischen Ordnung abfeierte und den er gegen links verteidigte, nicht verstehend oder akzeptierend, daß die stets beklagte Proletarisierung und Egalitarisierung eben die Konsequenz dieser Freihandelsvergötzung war. Aber er war auch der Auffassung, die Monarchie würde den wirklichen Liberalismus (englisch und nicht französisch verstanden, empiristisch und nicht rationalistisch) schützen. Dazu kam sein Unverständnis für alle Konservative, die nicht katholisch sind. Wobei sein Katholizismus andererseits wiederum - entgegen gerade wieder verbreiteten Gerüchten - sehr liberal war (sein Verlag wirbt wohl zurecht mit einem Zitat des liberalkonservativen Paradetheologen Hans Urs von Balthasar), der Ökumene zugewandt, insbesondere philojudaistisch, nur nicht linkskatholisch (Befreiungstheologie, feministische Theologie, usw.), aber ganz gegen die "Traditionalisten" wie Marcel Lefebvre gerichtet, den er mit Martin Luther verglichen hat und dies nicht nur wegen des Ungehorsams, sondern auch weil er ihn als mittelalterlich empfand. (Tatsächlich war Kuehnelt-Leddihn ja wie die meisten "Konservativen" sehr fortschrittlich, er nannte dies "additiv"; siehe auch: Konservativismus und Subversion) Die "Tradition" in einem übergeordneten, integralen Sinne hat er wohl trotz seiner Begegnung(en) mit Evola nicht verstanden. Für ihn war nur ein christlicher Staat als Pyramide gedacht - entgegen dem ja gerade dem Christentum entstammenden Gleichheitsprinzip - akzeptabel, nicht-christliche "Pyramiden"-Gesellschaft, was wir als Kastensystem bezeichnen würden, waren für ihn so unakzeptabel wie egalisierte Gesellschaften:
Und ein heidnischer Vertikalismus kann furchtbar sein. Corruptio optimi pessima, hatte uns schon der Aquinate gewarnt. Das fühlte ich schon einmal in der Anwesenheit vom Baron Giulio Evola, der einer der brillantesten Verteidiger der atheistischen oder agnostischen Rechten war. Dieser Mann, der durch die Rachebombardierung der Alliierten auf Wien im März 1945 querschnittgelähmt war, redete zu mir in kalter Verachtung wie ein amerikanischer College-Professor zu einem Dshu-Dshu Praktiker am oberen Ubangi.
(
Weltweite Kirche. Begegnungen und Erfahrungen in sechs Kontinenten 1909-1999; Stein am Rhein 2000; S. 502)

Das Bonmot, den adeligen Dandy mit einem US-College-Professor zu vergleichen, ist wieder Erik von Kuehnelt-Leddihn in einer Nußschale: so originell wie schief. Bei aller, kaum verdeckten Boshaftigkeit ("perverser Denker", "agnostische Rechte") war der Ritter, der im Juli vor 100 Jahren in Tobelbad geboren wurde und im Mai vor 10 Jahren in Lans gestorben ist, persönlich wohl liebenswert wie eine Figur aus einem Roman des Co-Wahltirolers Ritter Fritz von Herzmanovsky-Orlando: ein Dshu-Dshu Praktiker am oberen Ubangi der Tarockei.

mardi, 28 avril 2009

An Interview with Dominique Venner

vennercr22510100803690L.gif

An Interview with Dominique Venner

 

 

by Michael O'Meara

TRANSLATOR’S NOTE: It’s testament to the abysmal state of our culture that hardly one of Dominique Venner’s more than forty books have been translated into English. But everything he writes bears directly on us — “us” here referring not specifically to the anglophone world, but to the European world that exists wherever white men still carry on in any of the old ways.

Venner is more than a gifted historian who has made major contributions to the most important chapters of modern, especially 20th-century European history. He has played a key role in both the development of the European New Right and the “Europeanization” of continental nationalionalism.

It is his “rebel heart” that explains his engagement in these great struggles, as well as his interests in the Russian Revolution, German fascism, French national socialism, the U.S. Civil War, and the two world wars. The universe I’ve discovered in his works is one that reminds me of Ernst von Salomon’s “Die Geächteten” — one of the Homeric epics of our age.

The following interview is about the rebel. Unlike the racial conservatives dominant in U. S. white nationalist ranks, European nationalism still bears traces of its revolutionary heritage — opposed as it is not merely to the alien, anti-national forces, but to the entire liberal modernist subversion, of which the United States has been the foremost exemplar. -Michael O’Meara

Question: What is a rebel? Is one born a rebel, or just happens to become one? Are there different types of rebels?

Dominique Venner: It’s possible to be intellectually rebellious, an irritant to the herd, without actually being a rebel. Paul Morand [a diplomat and novelist noted for his anti-Semitism and collaborationism under Vichy] is a good example of this. In his youth, he was something of a free spirit blessed by fortune. His novels were favored with success. But there was nothing rebellious or even defiant in this. It was for having chosen the side of the National Revolution between 1940 and 1944, for persisting in his opposition to the postwar regime, and for feeling like an outsider that made him the rebellious figure we have come to know from his “Journals.”

Another, though different example of this type is Ernst Jünger. Although the author of an important rebel treatise on the Cold War, Jünger was never actually a rebel. A nationalist in a period of nationalism; an outsider, like much of polite society, during the Third Reich; linked to the July 20 conspirators, though on principle opposed to assassinating Hitler. Basically for ethical reasons. His itinerary on the margins of fashion made him an anarch, this figure he invented and of which after 1932 he was the perfect representative. The anarch is not a rebel. He’s a spectator whose perch is high above the mud below.

Just the opposite of Morand and Jünger, the Irish poet Patrick Pearse was an authentic rebel. He might even be described as a born rebel. When a child, he was drawn to Erin’s long history of rebellion. Later, he associated with the Gaelic Revival, which laid the basis of the armed insurrection. A founding member of the first IRA, he was the real leader of the Easter Uprising in Dublin in 1916. This was why he was shot. He died without knowing that his sacrifice would spur the triumph of his cause.

A fourth, again very different example is Alexander Solzhenitsyn. Up until his arrest in 1945, he had been a loyal Soviet, having rarely questioned the system into which he was born and having dutifully done his duty during the war as a reserve officer in the Red Army. His arrest, his subsequent discovery of the Gulag and of the horrors that occurred after 1917, provoked a total reversal, forcing him to challenging a system which he once blindly accepted. This is when he became a rebel — not only against Communist, but capitalist society, both of which he saw as destructive of tradition and opposed to superior life forms.

The reasons that made Pearse a rebel were not the same that made Solzhenitsyn a rebel. It was the shock of certain events, followed by a heroic internal struggle, that made the latter a rebel. What they both have in common, what they discovered through different ways, was the utter incompatibility between their being and the world in which they were thrown. This is the first trait of the rebel. The second is the rejection of fatalism.

Q: What is the difference between rebellion, revolt, dissent, and resistance?

DV: Revolt is a spontaneous movement provoked by an injustice, an ignominy, or a scandal. Child of indignation, revolt is rarely sustained. Dissent, like heresy, is a breaking with a community, whether it be a political, social, religious, or intellectual community. Its motives are often circumstantial and don’t necessarily imply struggle. As to resistance, other than the mythic sense it acquired during the war, it signifies one’s opposition, even passive opposition, to a particular force or system, nothing more. To be a rebel is something else.

Q: What, then, is the essence of a rebel?

DV: A rebel revolts against whatever appears to him illegitimate, fraudulent, or sacrilegious. The rebel is his own law. This is what distinguishes him. His second distinguishing trait is his willingness to engage in struggle, even when there is no hope of success. If he fights a power, it is because he rejects its legitimacy, because he appeals to another legitimacy, to that of soul or spirit.

Q: What historical or literary models of the rebel would you offer?

DV: Sophocles’ Antigone comes first to mind. With her, we enter a space of sacred legitimacy. She is a rebel out of loyalty. She defies Creon’s decrees because of her respect for tradition and the divine law (to bury the dead), which Creon violates. It didn’t mater that Creon had his reasons; their price was sacrilege. Antigone saw herself as justified in her rebellion.

It’s difficult to choose among the many other examples. . . . During the War of Succession, the Yankees designated their Confederate adversaries as rebels: “rebs.” This was good propaganda, but it wasn’t true. The American Constitution implicitly recognized the right of member states to succeed. Constitutional forms had been much respected in the South. Robert E. Lee never saw himself as a rebel. After his surrender in April 1865, he sought to reconcile North and South. At this moment, the true rebels emerged, who continued the struggle against the Northern army of occupation and its collaborators.

Certain of these rebels succumbed to banditry, like Jesse James. Others transmitted to their children a tradition that has had a great literary posterity. In the “Vanquished,” one of William Faulkner’s most beautiful novels, there is, for example a fascinating portrait of a young Confederate rebel, Drusilla, who never doubts the justice of his cause or the illegitimacy of the victors.

Q: How can one be a rebel today?

DV: How can one not! To exist is to defy all that threatens you. To be a rebel is not to accumulate a library of subversive books or to dream of fantastic conspiracies or of taking to the hills. It is to make yourself your own law. To find in yourself what counts. To make sure that you’re never “cured” of your youth. To prefer to put everyone up against the wall rather than to remain supine. To pillage in this age whatever can be converted to your law, without concern for appearance.

By contrast, I would never dream of questioning the futility of seemingly lost struggles. Think of Patrick Pearse. I’ve also spoken of Solzhenitsyn, who personifies the magic sword of which Jünger speaks, “the magic sword that makes tyrants tremble.” In this Solzhenitsyn is unique and inimitable. But he owed this power to someone who was less great than himself. To someone who should gives us cause to reflect. In “The Gulag Archipelago,” he tells the story of his “revelation.”

In 1945, he was in a cell at Boutyrki Prison in Moscow, along with a dozen other prisoners, whose faces were emaciated and whose bodies broken. One of the prisoners, though, was different. He was an old White Guard colonel, Constantin Iassevitch. He had been imprisoned for his role in the Civil War. Solzhenitsyn says the colonel never spoke of his past, but in every facet of his attitude and behavior it was obvious that the struggle had never ended for him. Despite the chaos that reigned in the spirits of the other prisoners, he retained a clear, decisive view of the world around him. This disposition gave his body a presence, a flexibility, an energy that defied its years. He washed himself in freezing cold water each morning, while the other prisoners grew foul in their filth and lament.

A year later, after being transferred to another Moscow prison, Solzhenitsyn learned that the colonel had been executed. “He had seen through the prison walls with eyes that remained perpetually young. . . . This indomitable loyalty to the cause he had fought had given him a very uncommon power.” In thinking of this episode, I tell myself that we can never be another Solzhenitsyn, but it’s within the reach of each of us to emulate the old White colonel.

French Original
“Aujourd’hui, comment ne pas être rebelle?”
http://www.jisequanie.com/blogs/index.php?2006/06/18/13-entretien
avec-dominique-venner-comment-peut-on-ne-pas-etre-rebelle

On Venner
“From Nihilism to Tradition”
http://www.theoccidentalquarterly.com/vol4no2/mm-venner.html

dimanche, 30 novembre 2008

Claude Lévi-Strauss à l'honneur

Claude Lévi-Strauss à l’honneur au Musée du Quai Branly

Claude Lévi-Strauss à l’honneur au Musée du Quai Branly - Ex: http://fr.novopress.info/Lectures, projections et visites guidées thématiques gratuites seront au programme de la journée du vendredi 28 novembre que le Musée du Quai Branly consacre à Claude Lévi-Strauss à l’occasion de son centième anniversaire.

Image Hosted by ImageShack.usPARIS (NOVOpress) -

Une centaine de personnalités ont été conviées à lire des textes de Claude Lévi-Strauss, parmi lesquelles l’écrivain et journaliste Patrick Poivre d’Arvor et son frère Olivier (prix Renaudot des lycéens 2008), la ministre de la Recherche Valérie Pécresse, la ministre de la Culture Christine Albanel ainsi que l’inévitable philosophe Bernard-Henri Lévy. Les radios d’Etat France Culture et RFI seront présentes au Musée des arts premiers et diffuseront des dossiers spéciaux au cours de la journée. Quant à la chaîne ARTE, elle a diffusé jeudi de nombreux documentaires consacrés à l’auteur de Tristes tropiques.

Célébrer le centenaire de Lévy-Strauss au musée du Quai Branly n’est pas un choix anodin. En effet, l’anthropologue a toujours soutenu le projet cher à Jacques Chirac – « depuis son origine » dira-t-il –, malgré les scandales liés au mode de collectes des pièces exposées. Il était d’ailleurs à la cérémonie d’ouverture du lieu le 20 juin 2006.

Nul doute que parmi les nombreuses citations du grand homme qu’on verra çà et là fleurir dans la grosse presse, on ne trouvera nulle trace de celle-ci :

« On ne peut mettre dans la même catégorie, ni attribuer automatiquement au même préjugé, l’attitude de certains individus ou groupes que leur attachement à certaines valeurs rend totalement ou partiellement insensibles à des valeurs différentes.

Il n’y a rien d’inadmissible dans le fait de placer un mode de vie au-dessus de tous les autres, ou de ne pas être attiré par des individus ou des groupes dont le mode de vie, respectable en soi, est très éloigné du système auquel on est traditionnellement attaché.

C’est “peut-être le prix à payer pour que soit préservé le système de valeurs de chaque communauté ou de chaque famille spirituelle, et pour qu’il trouve en lui-même les ressources nécessaires à son renouvellement »

Une déclaration identitaire très décomplexée que Claude Lévy-Strauss a faite en 1971 à la tribune des Nations Unis, et qui vaudrait maintenant à son auteur les foudres des boutiquiers de l’antiracisme institutionnel…


00:20 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, anthropologie, ethnologie, événement, hommage | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mercredi, 30 avril 2008

Pierre Benoit dans la magie de l'Orient

1770820195.gif

Frédéric SCHRAMME:

Pierre Benoit dans la magie de l'Orient

 

Dès la sortie de son premier roman Koenigsmark, Pierre Benoit s'est très vite imposé comme le nouveau maître du roman fantastique français. Les fantasmes véhiculés alors autour de la conquête coloniale ne pouvaient qu'ê­tre propices à son imagination fertile et bien vite des œu­vres  comme L'Atlantide et La châtelaine du Liban al­laient suivre leur aînée plongeant des milliers de lec­teurs dans les mystères de l'Orient.

 

La grande épopée de la colonisation! Au tournant de l'é­poque moderne, les principales nations européennes enté­rinent en l'achevant, leur conquête du monde commencée quelques siècles plus tôt avec le partage du Nouveau Mon­de. Seule une poignée d'Etats échappe à la mise en coupe réglée, comme l'Ethiopie, la Perse, le Siam. Qu'est-ce qui a bien pu pousser ces nations européennes aux régimes politiques tellement dissemblables à se jeter d'un même élan dans la colonisation du globe? Objectifs financiers et mercantiles? Désirs de conquêtes militaires? Quêtes vers la Connaissance supposée de ces terres lointaines  —d'autant plus chargées d'une aura mystérieuse et magique qu'elles demeurent inconnues et inaccessibles? Probablement les trois à la fois, tellement cette synthèse presque dumézi­lien­ne suffit à résumer à elle seule l'inconscient motivé de l'âme européenne. Depuis toujours, de grands hommes ont fait « Le rêve le plus long de l'Histoire », recherchant aux con­fins de l'Orient ou en Afrique l'accomplissement d'un des­tin qui ne pouvait être qu'exceptionnel. Si Jacques Be­noist-Méchin a su retracer la vie de quelques-uns de ces per­sonnages hors du commun, d'autres tel Pierre Benoit ont préféré, souvent au moyen de l'imagination, s'attacher aux pas des aventuriers et explorateurs, des simples capitaines ou pères-blancs, quidams qui jamais n'ont noirci la moindre page des manuels d'Histoire. « Mais ceux-là étaient seuls à s'ex­poser. Responsables de leur vie seule, ils étaient libres» de s'éveiller à la magie de l'Orient au moment où «l'ame­rican way of life» après Jack London ne pouvait promettre plus rien d'autre que des destins d'épiciers bedonnants.

 

Le géant touareg

 

L'intérêt de Pierre Benoit pour les contrées désertiques n'est absolument pas fortuit, pas plus qu'il n'est le fruit d'un calcul commercial. Fils d'un officier supérieur de l'armée française, il doit sa découverte des portes du Sahara au gré des mutations de son père. Parmi les souvenirs de ces temps-là, il en est un qui éclaire particulièrement la réelle fascination qu'opèrent sur lui l'immense désert et ses ha­bitants : « [Je vis] une espèce de géant vêtu de cotonnades obscures, avec de terribles yeux qui brillaient dans la fente d'un voile gainant la tête à la manière d'un heaume. C'était un chef targui (ndlr: Touareg) [.] Il rit en m'apercevant, me saisit à bout de bras et m'enleva plus haut que lui. Je vo­yais dans l'évasement de sa manche, son poignard, qu'un an­neau de cuir retenait contre le biceps nu; à son cou, ses amulettes de perles blanches et noires. J'étais au comble de l'épouvante, de la curiosité, de l'orgueil».

 

Nanti de ces quelques vagues souvenirs et d'une imagina­tion sans bornes, Pierre Benoit va se plonger dans une des­cription minutieuse et quasiment encyclopédique des pays dans lesquels il emmène ses lecteurs. En effet, mis à part son enfance nord-africaine, Pierre Benoit n'aura voyagé dans les lieux qu'il avait décrits que bien longtemps après. Mais la description se révèle toujours exacte et c'est autant ce souci du réalisme qui contribuera à son succès que sa spéculation sur l'insondable et le mystérieux. En ce début de 20ième siècle l'auteur prend prétexte des zones laissées en blanc du planisphère ou des cartes d'état-major pour les combler de son imagination, comme pour le massif du Hog­gar dans lequel il situe son Atlantide échouée. Cette bien­heureuse alchimie entre le détail et l'inconnu amènera Jean Cocteau à dire de lui que « Benoit est celui qu'on lit le plus et dont on parle le moins dans les revues graves. Il a le gé­nie de l'imprévu, mais il invente juste et tombe encore plus juste. C'est un médium. Ceux qui ne savent pas le lire ne sauront jamais».

 

L'œuvre de Pierre Benoit suit une constante dans son é­vo­lution tragique. Que l'on soit au cœur du Sahara ou au Li­ban après la mise sous tutelle française, les héros sont tou­jours des officiers français au faîte de leur gloire. Elite par­mi l'élite, ils sont méharistes, de cette noblesse des déserts qui font d'eux les égaux des Bédouins et des Touaregs. De plus leur connaissance des us et coutumes des habitants du dé­sert les amènera à être chargés de mission de renseigne­ments et d'espionnage au profit de leur patrie.

 

L'espionnage est précisément au cœur de l'intrigue dans «La châtelaine du Liban»: Une fois la première guerre mon­diale terminée, la paix » semble reprendre ses droits et avec elle l'hostilité sourde entre les deux « alliés » français et britannique. Rapidement, la « perfide Albion » est soup­çonnée d'être à l'origine du massacre d'une troupe française en opération de manœuvres. Dans « l'Atlantide », il est éga­lement question du souvenir du massacre de la «mission Flatters» et la prospection de renseignements confiée au Ca­pitaine de Saint-Avit a pour but de prévenir tout nouveau désastre. Au renseignement d'ordre militaire s'ajoute une au­tre quête, celle du passé: au Liban, on se souvient des Templiers et des Chevaliers teutoniques en parcourant la ligne tracée par les vestiges de leurs châteaux, et dans le Sahara on recherche des signes laissés par des tribus ber­bè­res chrétiennes ayant résisté un certain temps à l'islami­sa­tion. On ne saurait trouver de héros plus parfaitement é­qui­librés; sûrs de leur bons droits et au service d'un idéal su­périeur à leur propre existence, ils pourraient même a­voir la prétention d'être le lien entre le passé et l'avenir, entre le souvenir et la clairvoyance.

 

Perdre de vue sa mission

 

Rien ne semble pouvoir les ébranler mais pourtant, «on n'est pas impunément des mois, des années, l'hôte du dé­sert. Tôt ou tard, il prend barre sur vous, annihile le bon of­fi­cier, le fonctionnaire timoré, désarçonne son souci des responsabilités. Qu'y a-t-il derrière ces rochers mystérieux, ces solitudes mates, qui ont tenu en échec les plus illustres traqueurs de mystères?». La solitude pesante à laquelle ces hommes sont quotidiennement confrontés —ici les ordon­nan­ces indigènes et autres ascaris font intégralement par­tie du décor et ne sont pas meilleurs compagnons que les mé­haris eux-mêmes— les mène toujours au bord du préci­pi­ce dans lequel tout homme finit par perdre de vue sa mis­sion, son devoir, sa famille et sa patrie.

 

Dans l'œuvre de Pierre Benoit, la raison (ou plutôt la dé­raison) qui oblige à franchir le dernier pas est toujours la ren­contre fatidique avec une femme, avec La Femme. Ex­tra­ordinairement belle et totalement recluse aux confins du désert, que ce soit dans un ancien château templier ou dans la mythique Atlantide, elle est l'exact opposé de la fian­cée promise et personnifie l'amour charnel, la liberté, la puissance et la fortune. Elle seule est capable de briser les serments et les idéaux des hommes. Si l'Anglaise Athel­stane oblige son amant le Capitaine Domèvre à trahir son pays et à vendre des renseignements à son complice des ser­vices secrets britanniques, l'Atlante Antinéa exige pour sa part, le sacrifice ultime et attend de ses amants qu'ils meu­rent d'amour pour elle. Ainsi le Capitaine de Saint-Avit revendiquera sa place dans la salle de marbre rouge dans laquelle sont réunis les corps embaumés, statufiés dans un métal inconnu, des anciens amants de la dernière reine de l'Atlantide. Pour y parvenir, il ira jusqu'à l'innommable, le meurtre de son compagnon de route Morhange, véritable moine-soldat, capitaine d'active et prêtre de réserve, seul homme à avoir su résister à Antinéa et également le seul qui ait véritablement été aimé d'elle. Plus chanceux, le Ca­pitaine Domèrve sera sauvé de l'influence d'Athelstane par la fraternité d'armes qui le lie aux officiers de son ancien ré­giment, l'amitié entre les hommes en armes étant la seu­le à pouvoir contrer l'amour d'une femme fatale.

 

Attitudes droitières

 

Le succès de Pierre Benoit reposait donc sur des recettes sim­ples: sur la mise en scène d'une intrigue convenue, il brosse le tableau mirifique d'un paysage enchanteur avec grands renforts de personnages plus ou moins caricaturaux. Comme sa transposition de la haute société française dans les colonies libanaise et algérienne qui se laisse fréquenter de loin par les notables autochtones (tout au moins au Li­ban), ses marchands druzes ou maronites qui se livrent une concurrence à grands coups de dessous de table, ses trafi­quants d'or juifs, ses tribus révoltées de Bédouins et de Toua­regs, etc. L'écriture de Pierre Benoit reste probable­ment influencée par les romans-feuilletons du siècle pré­cé­dent, mais « tout cela est mené sur un rythme haletant, avec une ingéniosité qui ne peut que provoquer l'ad­mi­ra­tion et même la nostalgie de ce que peut être «le vrai ro­man», celui qui nous raconte une histoire, comme le rap­pel­le Jean Mabire qui a placé cet écrivain dans le premier recueil de sa série « Que lire ? », donc en très bonne place dans son Panthéon personnel, qui, on s'en doute, est meu­blé selon des critères fort différents de son homonyme na­tional, autrement appelé la Maison de Tolérance de la Ré­pu­blique. Si l'auteur de «L'Atlantide» est aujourd'hui un é­cri­vain que l'on s'efforce de faire oublier —puisqu'il fut l'ami des maîtres de l'Action française et, circonstance aggra­vante, on peut reconnaître dans son vocabulaire une at­titude droitière —, il faut tout de même saluer l'initiative de Jacques-Henry Bornecque qui, en 1986, à l'occasion du cen­tième anniversaire de sa naissance, lui a consacré une bio­graphie intitulée « Pierre Benoit le magicien ».

 

Frédéric SCHRAMME.

 

00:19 Publié dans Littérature | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : hommage | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook