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mardi, 03 janvier 2012

Mircea Eliade, il genio

Mircea Eliade, il genio

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Il 13 marzo di cent’anni fa nasceva a Bucarest Mircea Eliade. Fin dall’infanzia i genitori spostano il compleanno al 9 marzo. Al suo nome di battesimo non corrispondeva infatti alcun patrono nel calendario ortodosso, sicché la famiglia decise di festeggiare il giorno 9, che non era consacrato a nessun santo particolare bensì ai Quaranta Martiri uccisi a Sebaste durante le persecuzioni di Luciano.

Studioso del mito e delle religioni, esperto di yoga e sciamanesimo, di occultismo ed esoterismo, romanziere fecondo, saggista dall’erudizione prodigiosa e a suo agio in otto lingue, Eliade è stato tra le intelligenze più acute e versatili del Novecento. Ma l’intelligenza è un dono di dèi invidiosi, un dono avvelenato: il confine che la separa dall’ottusità è mobile.

«Che uomo straordinario sono!», annota il trentaquattrenne intellettuale nel suo Jurnalul din Portugalia, l’inedito diario dei cinque anni, dal 1941 al 1945, trascorsi come consigliere culturale all’ambasciata rumena di Lisbona (in Italia sarà pubblicato da Bollati Boringhieri). Il giovane Eliade, all’epoca ancora sconosciuto al grande pubblico europeo, passa parte delle sue giornate a rileggere alcune sue pagine e si paragona ai grandi della letteratura: «La mia capacità di comprendere e percepire tutto ciò che appartiene alla sfera culturale è illimitata … Comunque sia, i miei orizzonti intellettuali sono più vasti di quelli di Goethe». Il 15 luglio 1943 annota con ineffabile disinvoltura: «Mi rendo conto che dopo Eminescu [il poeta nazionale rumeno], la nostra razza non ha mai più conosciuto una personalità tanto (…) potente e tanto dotata quanto la mia».

I diari integrali saranno desecretati solo nel 2018, ma tutto fa pensare che l’autocritica non appartenesse al pur vastissimo repertorio di Eliade. Né che egli sia mai guarito dalla megalomania di cui evidentemente andava affetto. A quattordici anni aveva già pubblicato il suo primo racconto: Come ho scoperto la pietra filosofale. In un successivo Romanzo dell’adolescente miope (1923) elabora la quasi umiliante scoperta della propria sessualità. Qualche anno dopo, in Gaudeamus (1928), entrano in scena la femminilità e l’amore, e per converso il concetto di «virilità», mutuato dall’adorato Papini, autore di Maschilità. Il suo io è superalimentato dall’ambizione e da una «religione della volontà» fatta di astinenza e disciplina (dormiva cinque ore per non sottrarre tempo allo studio).

Iscrittosi nel 1925 a Lettere e Filosofia dell’università di Bucarest, emerge come leader della giovane «Generazione», un gruppo di intellettuali anticonformisti che aspira a rinnovare la tradizione rumena. Tra gli altri «latini d’Oriente» ci sono Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi superbi Exercises d’admiration), Ionesco, Costantin Noica e Mihail Sebastian, un ebreo a lui molto caro.

Nel 1927 e 1928 visita l’Italia, avendo alle spalle una serie di letture rapaci che mettono le ali alla sua passione per nostra cultura (documentata esaurientemente da Roberto Scagno per Jaca Book). Su tutti Papini ed Evola, a proposito del quale scriverà un testo, Il fatto magico, andato perduto. Dopo la laurea su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, alla fine del 1928, parte alla volta dell’India per studiare la filosofia orientale con Surendranath Dasgupta. Vi rimane fino al dicembre del 1931, imparando il sanscrito e raccogliendo materiali, conoscenze ed esperienze che lo segnano profondamente. C´è anche una storia d’amore con Maitreyi, la figlia di Dasgupta, nella cui casa a Calcutta era andato ad abitare. La ragazza è la protagonista dell’omonimo romanzo, che Eliade pubblica in Romania nel 1933. Sarà un grande successo, che trasfigura Maitreyi in un simbolo dell’immaginario rumeno.

Incrinatisi i rapporti con Dasgupta, viaggia nellHimalaya occidentale soggiornando nell’ashram di Shivananda e facendosi iniziare allo yoga. Nel contempo lavora alla tesi di dottorato, che discute a Bucarest nel ‘33 e pubblica a Parigi nel ‘36 con il titolo Yoga, saggio sulle origini della mistica indiana. Un libro che lo lancerà come autore di culto quando lo yoga si diffonderà in Occidente.

Dal 1933 al 1940 è di nuovo a Bucarest come assistente di Nae Ionescu, il leggendario maestro della giovane Generazione. Ionescu lo avvicina alla Guardia di Ferro, l’organizzazione di estrema destra capeggiata da Codreanu. Costui era convinto, tra l’altro, che gli ebrei cospirassero per fondare una nuova Palestina tra il Mal Baltico e il Mar Nero, e il suo vice, Ion Mota, aveva tradotto in rumeno I protocolli dei Savi di Sion. Eliade non era antisemita, ma all’epoca si lasciò intruppare. Il diario che l’amico ebreo Sebastian tenne fra il 1935 e il 1944, pubblicato nel 1996, è un’accorato lamento per il comportamento ambiguo di Eliade. Che è tutto preso dalle sue carte: pubblica vari saggi (tra cui Oceanografia e Il mito della reintegrazione), romanzi (tra cui Ritorno dal Paradiso, La luce che si spegne, i due volumi Huliganii), un’importante rivista di studi mitologici, Zalmoxis, che richiamerà l’attenzione di Carl Schmitt ed Ernst Jünger.

Alla fine della guerra si trasferisce a Parigi dove, aiutato da Dumézil, insegna all’Ecole des Hautes Etudes. Il Trattato di storia delle religioni (1949) lo consacra come massimo studioso del fenomeno religioso su scala mondiale. Ostile al metodo positivistico e storicista, Eliade riprende la prospettiva aperta da Rudolf Otto e sviluppa uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, le «ierofanie». La sua non è una storia bensì una morfologia del sacro, le cui forme appaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», riattualizzando miti primordiali. Per lui il mito non è affatto arcaico né fuori gioco. Si è piuttosto ritirato negli interstizi della modernità, dove si tratta di scovarlo. Contro la presunta superiorità dell’uomo moderno sui «primitivi».

Nel 1950 è invitato da C.G. Jung al primo incontro di «Eranos» ad Ascona. Nel 1956 passa a insegnare alla Divinity School di Chicago, dove rimarrà fino alla morte (avvenuta il 22 aprile 1986 per un ictus). Dal 1960 al 1972 dirige con Ernst Jünger una straordinaria rivista di storia delle religioni, Antaios. Intanto seguita a pubblicare a ritmo martellante un’infinità di lavori, culminati nella grande Storia delle credenze e delle idee religiose (1976-1983). È anche candidato al Nobel per la letteratura.

Purtroppo, un dettaglio ne stoppa l’apoteosi, e gli schizza addosso una macchia infamante. Un dettaglio biografico, sul quale la sua intelligenza si incaglia e si rovescia in ottusità.

Nel 1972 lo storico Theodor Lavi (pseudonimo di Lowenstein), in base al diario ancora inedito di Sebastian e ad altre testimonianze, rivela su Toladot, una piccola rivista dell’emigrazione rumena in Israele, che Eliade era stato vicino alla Guardia di ferro. Eliade fa finta di nulla, cerca di sbarazzarsi del suo passato come un serpente della sua pelle. Ma la notizia fa il giro del mondo, in Italia è ripresa da Furio Jesi. Un suo viaggio a Gerusalemme nella primavera del 1973 dev’essere annullato in extremis, tra lo sconcerto dell’amico Gershom Scholem. Nei suoi diari, silenzio.

Da quel momento Eliade adopera la sua intelligenza per dissimulare e insabbiare. Cerca coperture, si stringe ad amici insospettabili, come Paul Ricoeur e lo scrittore ebreo Saul Bellow. Quest’ultimo diventa suo intimo, ma nel romanzo Ravelstein inscena il dubbio che lo tormenta. Il protagonista, alias Allan Bloom, mette in guardia l’amico narratore da Radu Grielescu, alias Eliade: è stato «un seguace di Nae Ionescu che fondò la Guardia di Ferro», avverte, un jew-hater che denunciò «la sifilide ebraica che contagiava la raffinata civiltà balcanica», «ti strumentalizza» per «rifarsi una verginità». Il tarlo del sospetto non soffocherà la compassione, e ai funerali di Eliade Bellow prenderà la parola per dire il suo dolore e la sua compassione.

È difficile giudicare del caso Eliade. Come è difficile giudicare di Heidegger, Carl Schmitt o Céline. Certo, la loro opera non può più essere letta solo in chiave scientifica o letteraria, separandola dalla biografia. Eppure, la loro vita mediocre non basta a oscurare la grandezza dell’opera che ha generato. Ci chiediamo: perché intellettuali di tale statura si sono ostinati a tacere il loro passato? La verità è che gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono, e molto più di quello che pensano.

È probabilmente questa saggezza che ha indotto perfino il regista Francis Coppola a rendere omaggio a Eliade. Il suo nuovo film, Youth without Youth, prende spunto da un omonimo racconto di Eliade (Tinerete fara tinerete): un settantenne professore, colpito da un fulmine, diventa più giovane anziché più vecchio, attirando l’attenzione dei servizi segreti. Il professore deve scappare attraverso vari paesi fino in India… Anche questa singolare fortuna è un dettaglio in cui si nasconde il buon Dio, e ci avverte che l’opera di Eliade rimane un capitolo inevitabile della storia intellettuale del Novecento, un passaggio obbligato per capirne le convulsioni.

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Tratto da Repubblica del 12 marzo 2007.

lundi, 02 janvier 2012

Fascism in Albania

Fascism in Albania

 

 

 


 

Ex: http://xtremerightcorporate.blogspot.com/

It is often stated as a fact that the Italian invasion of Albania was an unprovoked act of aggression by Mussolini who was simply trying to make some territorial acquisition of his own in order to keep pace with the expansion of his ally Nazi Germany. Although it may be often repeated, this is simply not true. Italy had very long-standing interests in Albania but the actual invasion was not something Mussolini had planned out ahead of time. In fact, it came at a very inopportune moment, the very same month that the Spanish Civil War ended, which had been a very hard-fought victory for the Italian forces. It was that same month, when the Italian economy had already been pushed to the limit by wars in Ethiopia and Spain that the Albanian government announced a moratorium on their debts to Italy. Mussolini informed the trumped-up King, Zog, that these debts would have to be repaid as agreed. Previously, Italy had been very friendly with Albania. They had expelled Greek troops from the country in World War I, preserving its independence, had signed a number of friendship and defensive treaties with them and, obviously, had loaned them considerable amounts of money.

Not surprisingly, another issue was Albania giving Italy access to her oil wells at Devoli. This was something that concerned Mussolini greatly as the League of Nations sanctions in Italy during the Ethiopian war had proven to him how much Italy depended on imported oil. The country had virtually no mineral resources of its own, but oil was the most vital necessity and Mussolini did not want Italy to be in a position where foreign powers could starve Italy of such a commodity in the future. There was also the fact that the world community, after the First World War, had pretty much recognized Albania as an Italian protectorate and the Italians had a long history in the region. The ancient Romans had settled on the shores of Albania even before they controlled the whole of the Italian Peninsula and the Republic of Venice had had extensive holdings in Albania. Moreover, the self-promoted King of the Albanians had used the money Italy poured into the country in return for access to oil in order to enrich himself, his family and his own circle of supporters while the rest of the population lived in mild to dire poverty.

 


King Zog, as he called himself (inventing an illustrious ancestry going back to Albanian historical heroes after promoting himself from politician to monarch) was far from an admirable figure or a pitiable victim of Fascist aggression. He had clawed his way to the top and, as his biographer Jason Hunter Tomes wrote, “unable and frankly unwilling to have much faith in any group of his people, Zog strove to keep all classes in unstable equilibrium. Through hours of hideously convoluted talk, he obsessively manipulated his assorted underlings (nearly all older than himself) in an effort to exercise personal control from seclusion”. He was a small-time, puffed up potentate who would be most remembered for making it into the Guinness Book of World records for being the heaviest smoker in the world, sucking down 225 cigarettes a day. His tyrannical rule kept liberal-minded Albanians upset while his abolition of Islamic law and marriage to a Catholic Hungarian-American outraged conservatives in the Muslim nation. His love for poker also did not endear him to the majority of his people (gambling being forbidden in the Muslim religion) and he was involved in numerous feuds and vendettas with rival clans so that he was guarded constantly and lived as a recluse, fearing to go out in public.

Much has been made of the assassination attempts on King Zog as a way of justifying his cowardly, reclusive behavior, but it doesn’t hold water. Mussolini was the subject of more than one assassination attempt and yet it never phased him in the least and he was always going out in public, constantly among his people, his soldiers, in Italy and across the empire. Zog was a cowardly, corrupt back-stabber with delusions of grandeur and that is all there is to it. Even with all of that though, Mussolini might have looked the other way. The breaking point was Albania reneging on her debts and then the information that came to light showing that Zog was conspiring with the Greeks to get him out of the financial pinch his own greed had put him in. The last thing Italy wanted was Greece getting a foothold in Albania again and throwing into jeopardy Italian access to Albanian oil wells and metal mines. When all of this came together, Mussolini had little choice but to act and order Italian armed forces to occupy Albania.

 


The Albanian police and soldiers scattered pretty quickly after the Italian troops landed and King Zog issued, what the international media would later make famous, appeal to his people to rise up and resist the invaders. The problem was that the vast majority of Albanians were too poor to even own a radio so almost no one in his own country even heard him, though the media made sure plenty of people in France and Britain and the United States did, using it as an example of Fascist aggression against a weak, innocent, saintly little country. We assume those hard working Americans had no idea that the King they heard on the radio had never even seen an Italian soldier before he was racing toward the border in a fleet of limousines loaded down with gold bars, fancy furniture, designer suites and evening gowns, lavish jewelry and, of course, crates full of cigarettes. And the fact of the matter is that the occupation of Albania was not really much of an invasion or conquest. Only a handful of Italians were killed and most of the Albanian population came out to cheer their “conquerors” who had delivered them from the backward tribalism Zog had subjected them to. The Albanian people were not stupid and they could see as well as anyone that they were living in an impoverished backwater while Fascism had brought order, stability, jobs and economic efficiency to Italy.

Although no one would want to admit it today, about the only time Albania achieved any level of progress was during the years after Albania was annexed to the Italian Empire on April 16. It was only during those years that Albanian territory expanded to include almost all ethnic Albanians in the region, taking in the contested region of Kosovo, border areas of what is now Montenegro and others. Italian companies invested in Albania and there was a brief economic upsurge before the war brought everything to a standstill. What is more, not even all the Allies who would later feign outrage over the occupation of Albania objected at the time. Even so staunch an enemy of the Fascist government as the British Foreign Secretary Anthony Eden sent Mussolini a personal telegram immediately afterwards thanking him for his swift and correct action and assuring him of British support for the move which most felt surely headed off a much greater Balkan crisis if the corrupt King Zog had been allowed to continue on his way. The only major Allied power that was really upset by it was the French because they were afraid that the annexation of Albania had secured the eastern frontier of Italy leaving them free to focus on the west. They were, perhaps, nervous that Mussolini would next look to reclaim ethnically Italian areas under French control like Savoy, Nice and Corsica.

 


Also untrue is the claim by some that Albania during the Fascist period was totally controlled by Italians. The two viceroys during the period were Italians but the prime ministers of the Albanian government were all Albanians. The first had even been prime minister for Zog (even though the two hated each other which was typical). The next one had fought on the Turkish side against Italy in the Italo-Turkish War of 1912, yet after Albania was annexed he was given a seat in the Roman Senate. Likewise the last two were both born and raised ethnic Albanians, so these were not simply Italian puppets by any means. It was the Albanian government, everyone forgets, that voted to depose King Zog (who had fled the country anyway and was still running) and then voted for the union with Italy. The problem was the war, which had to occupy the full attention of Rome rather than domestic concerns in Albania or Italy. Unlike even Ethiopia, there was not time for much development or progress because the war was the primary focus. So many Albanians continued their feuding ways. Some cooperated, some resisted because they were communists and on the Allied side and some nationalists resisted as well, stupidly so, because it was only with Italian support that their goal of a “Greater Albania” pretty much came true. Of course they also fought each other most of the time also.

So what was the result? Without the Fascists overseeing things it all went to hell PDQ. After the Italian armistice in 1943 the Germans came in for a while, with the same result, some Albanians cooperating and others resisting and others fighting everybody. In the end, with the Allied victory came, of course, the Communist victory (which was World War II in a nutshell; making the world safe for communism) and Enver Hoxha became the new communist dictator of Albania. He had been a communist partisan, leader of an Anti-Fascism committee and all the usual stuff, an avowed Leninist puppet for the international Bolsheviks in Moscow pretty much. Some of his deluded followers even continued on and helped Tito take power in Yugoslavia, so they were helping the very people who were going to strip away all the territory they had gained thanks to the Italians (which of course they wanted to keep). Hoxha was a fawning sycophant for Joseph Stalin and when he finally figured out he had made Albania a puppet of Yugoslavia he reversed course and decided to be a puppet of Soviet Russia. This went so far that when Stalin died, Hoxha actually made all the Albanians get down on their knees and give thanks to the memory of their great Soviet “liberator”.


Hoxha was such a mindless, Stalinist ass hat that relations with the USSR soured when Khrushchev took over and tried to restore at least a little bit of sanity to things. Hoxha denounced Khrushchev as a sell-out but went on praising Stalin as practically a god. He finally drew closer to Mao and the Red Chinese who he thought had more Marxist purity than the Soviets. When China got tired of his insanity he had no choice but to turn back to Russia and even Yugoslavia again -so went the Albanian Communist search for a sugar-daddy. It wasn’t happening. China denounced Albania and so, in his time in power, not only had Hoxha brought oppression, poverty and death to his people, lost them most of their territory and regional standing, but in the whole communist world he had managed to piss off the Yugoslavs, the Soviets and the Maoists, leaving Albania absolutely alone. What an achievement. Under Hoxha and his communist idiots Albania had achieved only one thing; having the absolute lowest standard of living of any country in all of Europe. There was one more leader after him of the communist era who then became the first President of the post-communist era (typical of the Reds, just change your coat and carry on) and there still hasn’t been much improvement since.

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La Syrie est depuis longtemps dans le collimateur des faucons néo-conservateurs

 

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Bernhard TOMASCHITZ:

La Syrie est depuis longtemps dans le collimateur des faucons néo-conservateurs

L’objectif est d’éliminer un ennemi d’Israël!

Le dirigeant de la Syrie, Bachar El-Assad, est mis sous pression. La Ligue Arabe a imposé des sanctions à son régime et les Nations Unies, à leur tour, entrent dans la danse. Le pays serait “au bord de la guerre civile” et la Haute Commissaire de l’ONU pour les droits de l’homme, Navy Pillay, exhorte la communauté internationale à prendre “des mesures effectives pour la protection du peuple syrien”. Comme si tout ce pandémonium n’était pas encore suffisant, on apprend qu’une “Armée syrienne libre”, soit une troupe de rebelles composée pour l’essentiel de déserteurs, attaque de plus en plus souvent des bâtiments abritant des institutions de l’Etat syrien afin de déstabiliser le régime d’El-Assad puis de le renverser.

Que cette “Armée syrienne libre” (ASL) soit réellement composée d’anciens soldats des forces régulières, qui auraient changé de bord,  est une affirmation plus que douteuse. Plusieurs agences de presse arabes sur internet signalent que cette “ASL”, qui prétend aligner 20.000 hommes, aurait reçu le renfort de 600 “volontaires libyens”. Si la teneur de ces dépêches s’avérait exacte, la lutte qui se déroule aujourd’hui en Syrie prendrait une toute autre dimension. En effet, on sait déjà que bon nombre de “rebelles libyens” ont été militairement formés en Afghanistan et ont des liens avec Al Qaeda et d’autres organisations islamistes. C’est par la Turquie que ces “Libyens” ont été infiltrés en Syrie. Cela paraît d’autant plus préoccupant pour nous, Européens de l’Ouest et du Centre de notre sous-continent, que la Turquie est membre, comme nous, de l’OTAN. Or elle fournit des armes aux insurgés syriens depuis longtemps et, par la force des choses, nous implique dans le conflit civil syrien.

Qui plus est, il y a, via la Turquie, un lien entre les rebelles et Israël, Etat qui travaille à l’effondrement du régime d’El-Assad depuis de longues années. Dans le contexte qui nous préoccupe aujourd’hui, il est intéressant de rappeler l’existence d’un rapport rédigé en 1996 par un groupe d’études placé sous la double houlette du faucon néo-conservateur Richard Perle (surnommé le “Prince des Ténèbres”) et du Premier ministre israélien de l’époque, Benjamin Netanyahou. Ce rapport était intitulé “Une nouvelle stratégie pour sauvegarder la sécurité de l’Empire (en anglais: “Realm”)”. Le concept de “Realm” doit se comprendre ici comme synonyme de “domination”, soit la domination américano-israélienne dans la région. Le rapport Perle/Netanyahou explique qu’il ne croit plus à une “paix générale”, concrétisée par “un coup de force décisif” mais évoque la possibilité de prendre toutes sortes de mesures pour affaiblir la Syrie, pays auquel on reproche une belle quantité de manquements. Ainsi, Damas serait impliqué dans le trafic international des stupéfiants, tenterait également de prendre le Liban tout entier sous sa coupe, soutiendrait, conjointement avec l’Iran, des organisations islamistes comme le Hizbollah, ce qui aurait pour corollaire que la Syrie “défierait l’Etat sioniste sur le sol libanais”.

Richard Perle, qui était un des conseillers du Président américain George W. Bush et l’un des principaux architectes de la guerre d’agression contre l’Irak (guerre qui bafouait le droit des gens), propose la stratégie suivante: Israël pourrait “modeler son environnement stratégique en coopérant avec la Turquie et la Jordanie en affaiblissant, en endiguant et même en repoussant les Syriens”. Etape importante dans la réalisation de ce projet: “éliminer Saddam Hussein du pouvoir en Irak”, ce qui fut fait en 2003 sous le prétexte de “diffuser la démocratie dans le monde”. Une fois Saddam éliminé, les ambitions syriennes de devenir une sorte de petite puissance régionale allaient être torpillées. Nos deux auteurs mentionnent expressis verbis la Jordanie comme partenaire: en effet, ce royaume hachémite a signé un traité de paix avec Israël; ce qui explique sans doute que le royaume, dont le régime est fort éloigné du modèle démocratique à l’américaine, a connu la paix jusqu’ici.

L’attitude très rigide contre la Syrie s’explique aussi par le fait que les Israéliens souhaitent annexer définitivement les hauteurs du Golan, occupées depuis 1967. Car, vu la nature du régime de Damas, il est “naturel et aussi moral” qu’Israël rejette toute solution équivalant à une “paix générale” et préfère “endiguer” la Syrie, se plaindre de son armement et de son programme d’acquisition d’armes de destruction massive, que négocier sur la base dite de la “terre pour la paix”, en ce qui concerne les hauteurs du Golan.

Ce projet Perle/Netanyahou de 1996 n’est pas le seul plan imaginé pour bouleverser la région: le fameux plan Yinon de 1982 vise également l’affaiblissement de tous les Etats musulmans de la région. Oded Yinon, haut fonctionnaire attaché au ministère israélien des affaires étrangères, propose, dans son mémorandum, une balkanisation de la région qui serait entièrement remodelée et où ne subsisteraient plus que des Etats arabes petits et moyens, afin qu’Israël puisse conserver sa prépondérance stratégique sur le long terme.

Au nom du “retour à l’initiative stratégique” et pour donner à Israël une marge de manoeuvre afin que l’Etat hébreu puisse “mobiliser toutes ses énergies pour reconstruire le sionisme”, les faucons israéliens insistent pour que les Etats récalcitrants de la région, comme l’Irak en 2003 et la Syrie aujourd’hui, soient “ramenés à la raison”.

Comme Tel Aviv ne peut atteindre cet objectif seul, ou ne pourrait l’atteindre que très difficilement, les Etats-Unis et aussi, dans un deuxième temps, l’Europe, doivent être sollicités et entraînés dans la danse. Et finalement, ne trouve-t-on pas dans le rapport Perle/Netanyahou l’éternelle évocation des “valeurs communes” de l’Occident que partagerait, avec l’Europe et l’Amérique, la “seule démocratie” du Proche Orient.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°49/2011, http://www.zurzeit.at/ ).

 

Qui fut le Baron Max von Oppenheim?

Qui fut le Baron Max von Oppenheim?

Orientaliste, arabisant, archéologue et diplomate, il fut l’artisan d’une politique allemande au Proche Orient pendant la première guerre mondiale

Max_von_Oppenheim.jpgLa famille von Oppenheim est aujourd’hui sous les feux de la rampe: sa banque est accusée par les juges de Cologne de faillite frauduleuse, de malversations immobilières, suites logiques de la faillite de la société commerciale Arcandor (Karstadt/Quelle) en 2009. La société bancaire “Sal. Oppenheim”, ébranlée par la crise immobilière de l’automne 2008, est devenue insolvable et a été reprise par la Deutsche Bank. Ainsi s’est terminée l’histoire d’une famille de banquiers allemands qui a duré 220 ans. Elle avait été fondée en 1789 par un garçon de 17 ans, Salomon Oppenheim junior.

D’une toute autre trempe que les lamentables banquiers de la famille en ce début de 21ème siècle, était le Baron Max von Oppenheim, diplomate, orientaliste et archéologue. Né le 15 juillet 1860 dans la famille d’Albert von Oppenheim, un banquier converti au catholicisme en 1858, le jeune Max a toujours refusé le plan de vie que lui suggérait son père: faire des affaires et devenir banquier à son tour. Dès 1879, il étudie les sciences juridiques à l’Université de Strasbourg et obtient son titre de docteur en droit à Göttingen en 1883. En 1891, il réussit les examens d’”assesseur” à Cologne. L’année suivante, il s’installe au Caire, muni d’une bonne bourse offerte par son père. Max entend apprendre la langue arabe. En Egypte, depuis l’occupation du pays par les Britanniques en 1882, c’est le Consul Général anglais qui gouverne le pays de facto.

Max von Oppenheim entendait vivre en Egypte comme “un simple Mahométan, afin de parfaire sa connaissance de l’arabe et d’étudier l’esprit de la religion islamique, ainsi que les moeurs et les coutumes des indigènes”. Il entreprit pendant son séjour égyptien plusieurs voyages d’étude en Afrique orientale et au Proche Orient. En tant qu’archéologue, il découvrit en 1899 la colline de Tell Halaf, habitée dès la protohistoire  et située sur le territoire de la Syrie actuelle; il géra ensuite les fouilles sur le site de la ville araméenne de Gouzana, vieille de 3000 ans, entre 1910 et 1913 puis entre 1927 et 1929. Sa réputation d’archéologue de premier plan était faite.

En 1896, Max von Oppenheim devient l’un des collaborateurs du Consul Général d’Allemagne au Caire. En 1900, il monte en grade: il est conseiller auprès de la légation et, jusqu’en 1910, assume le poste de ministre résident. A partir de septembre 1914, il organise et dirige à Berlin un bureau de traduction, qui, après avoir perçu des subsides de l’état-major général, devient l’“Office des renseignements pour l’Orient” (NfO ou “Nachrichtenstelle für den Orient”). Le motif qui a poussé l’état-major à financer et à annexer officieusement ce bureau de traduction était la nécessité de connaître l’importance stratégique de la Turquie pour le Reich allemand. Rappellons que la première mission militaire allemande a été envoyée en 1882 et que la construction du fameux chemin de fer vers Bagdad a commencé en 1903. Il convenait également de saisir les intérêts économiques d’une alliance avec l’Empire ottoman: la Deutsche Bank et Siemens avaient fondé en 1899 la “Société des chemins de fer anatoliens”; Krupp était le principal fournisseur d’armements à la Turquie. Enfin, il s’agissait aussi, dès les prémisses annonciatrices de la Grande Guerre, de contrer les campagnes de presse orchestrées contre l’Allemagne par les Anglais et les Français.

Lorsque l’Empereur Guillaume II, en automne 1898, tint quelques propos de table à Damas à l’adresse du Sultan ottoman Abdülhamid II et des 300 millions de musulmans du monde pour dire “que pour le reste des temps, l’Empereur d’Allemagne sera leur ami”, il s’inspirait directement de Max von Oppenheim. Celui-ci avait constaté au début du voyage de l’Empereur: “Plus que jamais, le Sultan est considéré aujourd’hui, dans tout le monde musulman, comme le plus puissant des princes mahométans et le souverain et le protecteur des lieux saints. Pour une grande puissance qui le considèrerait comme ennemi, il peut apparaître comme un adversaire peu dangereux mais serait au contraire un allié précieux dans une lutte contre tout Etat qui aurait de nombreux sujets musulmans”.

En effet, peu après l’entrée de la Turquie dans la Grande Guerre aux côtés de l’Allemagne, en novembre 1914, le Sultan Mohammed V proclame la Djihad. Mais cette proclamation n’a pas les effets souhaités dans le déroulement de la guerre, car les puissances de l’Entente, surtout les Anglais, parviennent, par l’action de leur agent T. E. Lawrence (dit “Lawrence d’Arabie”), à soulever les Arabes contre les Ottomans.

Le bureau NfO, qui ne dépendait pas du gouvernement allemand, mais travaillait étroitement avec le ministère des affaires étrangères, disposait d’un département de presse qui produisait et diffusait pamphlets et tracts, publiait un journal pour les prisonniers musulmans, un organe de dépêches et une revue intitulée “Der Neue Orient” (= “Le Nouvel Orient”). Cette revue recevait partiellement le soutien du ministère des affaires étrangères mais était largement financée par la fortune privée de Max von Oppenheim: c’est ainsi que furent édités plusieurs écrits comme “Indien unter britischer Faust” (= “L’Inde sous la férule britannique”), “Russische Greueltaten” (= “Atrocités russes”), “Englische Dokumente zur Erdrosselung Persiens” (= “Documents anglais sur l’étranglement de la Perse”), de même qu’une chronique illustrée sur le déroulement de la guerre (“Illustrierte Kriegschronik”), en langues arabe, perse, turque, ourdoue et tatar, selon le théâtre d’opération où elle était diffusée.

Après la mise sur pied de la NfO en 1915, Max von Oppenheim fut envoyé à Constantinople pour y créer une nouvelle organisation, qui devait travailler étroitement avec le ministère des affaires étrangères et le NfO. Dejà dans son memorandum de 1914 et dans un écrit sur le travail de propagande à effectuer en Orient au départ de l’ambassade allemande à Constantinople, Oppenheim déclarait: “La propagande turque doit être centralisée à Constantinople tout en étant téléguidée et soutenue par les Allemands mais cela doit être fait de telle manière que les Turcs puissent croire qu’ils ont à leurs côtés des conseillers amicaux et qu’ils sont en fait les seuls et vrais auteurs et diffuseurs de cette propagande”.

Ainsi, sur tout le territoire de l’Empire ottoman, 75 officinesd’information seront installées, entre le début des activités de von Oppenheim en 1915 et l’automne de 1916. Sur les murs de ces bureaux, on pouvait voir des portraits du Sultan, de ministres et de généraux turcs mais aussi des empereurs d’Allemagne et d’Autriche-Hongrie et de généraux allemands. Les visiteurs pouvaient utiliser des pupitres de lecture pour y lire les dépêches du jour, les communiqués militaires et les brochures d’information et de propagande qui apportaient la contradiction à la presse de Turquie et du Levant, généralement dominée par les bureaux français. Les activités de la NfO et l’organisation des officines de propagande étaient gérées sur un mode professionnel et visait à donner une image favorable de l’Allemagne sur le long terme dans tout l’Orient: cette image s’est bien ancrée dans cette région du monde, n’a certes eu aucune influence concrète sur le déroulement des hostilités proprement dites pendant la Grande Guerre mais, en dépit de la défaite des puissances centrales, l’image de l’Allemagne bénéficie toujours là-bas d’une aura positive. C’est indubitablement un résultat tangible des activités de von Oppenheim.

Max von Oppenheim était un idéaliste mais aussi un homme d’esprit pétri de culture politique. Pendant la seconde guerre mondiale, il a résidé à Berlin jusqu’en 1943, avant de s’installer à Dresde. Il est décédé le 15 novembre 1946 des suites d’une pneumonie. Ce “demi-juif”, selon le jargon du Troisième Reich, s’était adressé le 25 juillet 1940 au ministère des affaires étrangères de son pays, en lui adressant un mémorandum. Envoyé au sous-secrétaire d’Etat Theo Habicht, ce mémorandum contenait les grandes lignes d’un projet germano-arabe. A propos de ce projet, l’arabisant et historien du Proche Orient G. Schwanitz écrit: “Max von Oppenheim n’a certes donné aucun titre à son mémorandum mais, s’il fallait en choisir un de pertinent, nous pourrions écrire ‘Révolutionner les territoires musulmans de nos ennemis’”. Deux jours plus tard, le 27 juillet 1940, le sous-secrétaire d’Etat Habicht répond au baron von Oppenheim et lui dit que “les questions soulevées dans son mémorandum sont d’ores et déjà traitées en long et en large par le ministère”.

Ce que visait von Oppenheim en 1940 est entièrement résumé dans l’introduction à son mémorandum: “Comme directeur des informations pour l’Orient auprès du ministère des affaires étrangères et, plus tard, auprès de notre ambassade à Constantinople pendant la Grande Guerre, je me permets, à l’heure où la guerre contre l’Angleterre entre dans sa phase décisive, de proposer ce qui suit: le moment est venu pour nous d’oeuvrer avec énergie contre l’Angleterre au Proche Orient. Deux tâches m’apparaissent urgentes: 1) Fournir à Berlin des informations directes et fiables venues du Proche Orient; 2) Il convient de révolutionner d’abord la Syrie contre les projets d’occupation des Anglais, ensuite de pratiquer la même politique dans les régions arabes voisines comme l’Irak, la Transjordanie, la Palestine et l’Arabie Saoudite. L’objectif serait de clouer là-bas un maximum de forces britanniques, de géner l’exportation de pétrole et, ainsi, d’handicaper sérieusement l’approvisionnement des flottes commerciales et militaires de la Grande-Bretagne, de paralyser le trafic maritime sur le Canal de Suez et de le bloquer pour les Anglais et, finalement, d’anéantir la domination britannique sur le Proche Orient”.

(article anonyme paru dans DNZ, Munich, n°51/2011).

 

dimanche, 01 janvier 2012

Cina e Giappone abbandonano il dollaro

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Cina e Giappone abbandonano il dollaro

 

di Enrico Piovesana

Fonte: eilmensile.it

Giornali e Tg non ne parlano, ma per gli ambienti finanziari globali è la notizia-bomba di queste festività natalizie: la seconda e la terza economia mondiale, Cina e Giappone, hanno siglato un accordo che prevede l’abbandono del dollaro americano come valuta utilizzata negli scambi commerciali tra le due nazioni asiatiche, consentendo quindi un interscambio direttamente in yen e yuan.

 

Finora, circa il 60 per cento degli scambi commerciali tra Cina e Giappone vengono regolati in dollari. L’intesa, siglata lunedì a Pechino al termine dell’incontro tra il premier cinese Wen Jiabao e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda, è un chiaro segnale di sfiducia delle due potenze economiche asiatiche nei confronti della travagliata area euro-dollaro.

 

Questa mossa viene interpretata dagli economisti come il primo passo concreto del governo di Pechino per far diventare la moneta cinese, lo yuan (o renminbi), una valuta di riserva globale sostitutiva al dollaro. Cosa attualmente non ancora possibile, vista la non completa convertibilità della valuta cinese.

 

Per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, il patto Cina-Giappone rappresenta una sfida che evidenzia l’importanza di una ”Europa unita e di una moneta comune che ci dà buone chanches di perseguire i nostri interessi e l’opportunità di realizzarli a livello mondiale”.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

De la germanophobie au FMI, la bêtise européenne dans toute sa splendeur !

De la germanophobie au FMI, la bêtise européenne dans toute sa splendeur !

Ex: http://www.ladroitestrasbourgeoise.com/

Depuis le début de la crise, on a entendu monter en crescendo un petit refrain : « l’Allemagne payera ! ». On se serait cru revenu à Versailles en 1919. Certes, il aura fallu du temps pour que la sauce prenne, car on ne savait pas bien quoi leurs reprocher aux braves Allemands. Élève modèle de la zone euro, le succès économique de l’Allemagne a certes de quoi exaspérer, il faut bien l’admettre :  4ème économie mondiale, 1ère européenne, elle est aujourd’hui le plus grand exportateur mondial de biens devant les États-Unis et la Chine et enregistrait en 2010 un excédent commercial de 150 milliards d’euros.

Après des reformes draconiennes entreprises  sous le mandat de Gerhard Schröder, les Allemands ont vu, comparativement à leur voisins européens, leur niveau de vie baisser de 20 à 30% en 10 ans. Coupes claires dans les budgets sociaux, retraite à 67 ans et introduction d’une dose de capitalisation, gèle drastique des salaires… Jamais des réformes aussi dures n’avaient étaient mises en œuvre dans un pays afin de restaurer ainsi sa compétitivité.

Mais comme toujours en Europe dès qu’une nation prend l’ascendant, la réaction des voisins ne se pas fait attendre. Lorsque la Grèce a trébuché alors qu’on apprenait qu’aucun de ses citoyens ne s’acquittait de ses impôts,  des voix se sont fait entendre pour réclamer que l’Allemagne paie ! Leur argument était un peu simpliste, puisqu’il reposait sur le postulat que, quels que soient les torts grecs, il n’était que justice que les pays riches payent. Et ce sans se poser la question de savoir si les Allemands n’avaient pas déjà durement, à leur façon, payé cette richesse relative qu’on leur reprocherait presque. Pendant ce temps, d’autres voix, plus grinçantes celles-là, aiguisaient  des arguments plus habiles qui faisaient jouer à l’Allemagne un rôle trouble.

De prime abord, cet argument se tient. Il avance notamment l’idée que l’Allemagne aurait mené une sournoise politique déflationniste, dopant ainsi sa productivité, contre ses partenaires européens en siphonnant leurs plans de relance. Il est vrai que pratiquer la déflation compétitive n’est jamais en soi une bonne solution. Cela écrase les classes populaires et s’avère toujours dangereux à terme, car baisser les salaires étrangle la consommation. C’est d’ailleurs ce qui menace l’Allemagne, maintenant que tous les États se plient à la rigueur. Le seul souci est que ce qui est présenté comme des plans de relance ne sont au fond que des incuries budgétaires affligeantes. L’aberrante loi des 35 heures peut-elle décemment être considérée comme un plan de relance ? La réalité est que l’Allemagne s’appliquait à réarmer son économie pendant que le reste de l’Europe, pays latins en tête, se la coulait douce en profitant des crédits à bas taux que leur offrait un mark miraculeusement transformé en euro pour tous.

Qu’importe ! Vu de France, l’Allemagne reste inexcusable ! Un vent de germanophobie, passablement rance, s’est mis à souffler sur l’hexagone. Tous les chroniqueurs ont repris ce crédo en chœur : « c’est la faute à l’Allemagne ! ». Récemment encore, lorsque Merkel refusa de transformer la BCE en « bad bank », déclinant ainsi l’option de la voir racheter les dettes des Etats, tout le monde lui est tombé dessus. L’Allemagne craignait légitimement de voir la BCE devenir un faux-monnayeur et l’euro, une monnaie de singe. Rien n’y faisait ! Preuve était faite que la rigidité allemande était bien à la source de la crise. Il est pourtant facile de comprendre qu’une Allemagne qui comptera 22 millions de retraités en 2020 ne peut décemment accepter une logique inflationniste dont personne ne saurait prédire l’issue.

Car contrairement au dollar, l’euro n’est pas une monnaie d’échange internationale. Faire tourner la planche à billet aboutira fatalement à une explosion inflationniste. Si trop d’euro étaient imprimés pour financer les dettes (on parle ici de plusieurs centaines de milliards), les fonds souverains russe, chinois ou saoudiens se débarrasseraient immédiatement de leur réserve en devise européenne pour se prémunir des effets de la  dévaluation qui s’ensuivrait. Tout cet afflux soudain de monnaie provoquerait en retour, d’abord une chute vertigineuse de l’euro, ensuite une violente poussée inflationniste. Dévaluation et inflation peuvent être des solutions en soi, mais avec 22 millions de retraités-rentiers (1/4 de la population), une politique exclusivement inflationniste pour l’Allemagne tiendrait lieu d’un suicide collectif.

Les Européens seraient donc mieux inspirés de reconnaitre leurs torts partagés pour se mettre d’accord autour d’une solution offensive contre la prédation des marchés.  Une solution qui pourrait par exemple mélanger un savant dosage de restructuration, d’effacement partiel et de monétarisation de la dette ; le tout dans le cadre d’une politique protectionniste garantie par une dévaluation monétaire maitrisée. Bien évidemment, cette solution mettrait sur la paille un certain nombre de banques qu’il faudrait alors nationaliser.

Mais les grandes banques ne l’entendent pas de cette oreille. Elles veulent qu’on leur rembourse tout sans que le système spéculatif, tel qu’il ne tourne pas rond, ne soit trop bousculé. Plutôt que d’affronter les grands argentiers de la finance transnationale, les dirigeants européens préfèrent s’accuser les uns les autres, en s’apprêtant à abandonner aux plans de coupe budgétaire du FMI les nations les plus faibles.  La veulerie des gouvernants européens est totale et leur égoïsme, coupable.

Car que penser d’autre de l’option, évoquée lors du dernier sommet européen, qui autoriserait la BCE à avancer des fonds au FMI pour que celle-ci prête en retour aux Etats européens en difficulté ? Cette solution, envisagée comme un moyen de contourner rapidement les traités européens et de neutraliser un emballement inflationniste, fait froid dans le dos. Elle reviendrait de facto à abdiquer toute souveraineté européenne. L’Europe ne serait plus alors qu’un spectre politique diaphane, sans consistance, qui exécuterait servilement les consignes des experts anglo-saxons du FMI. La bêtise européenne prendrait alors toute sa splendeur !

Olrik

Unrelenting Global Economic Crisis: A Doomsday View of 2012

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Unrelenting Global Economic Crisis: A Doomsday View of 2012
The economic, political and social outlook for 2012 is profoundly negative

 

Introduction

The economic, political and social outlook for 2012 is profoundly negative. The almost universal consensus, even among mainstream orthodox economists is pessimistic regarding the world economy. Although, even here, their predictions understate the scope and depth of the crises, there are powerful reasons to believe that beginning in 2012, we are heading toward a steeper decline than what was experienced during the Great Recession of 2008 – 2009. With fewer resources, greater debt and increasing popular resistance to shouldering the burden of saving the capitalist system, the governments cannot bail out the system.

Many of the major institutions and economic relations which were cause and consequence of world and regional capitalist expansion over the past three decades are in the process of disintegration and disarray. The previous economic engines of global expansion, the US and the European Union, have exhausted their potentialities and are in open decline. The new centers of growth, China, India, Brazil, Russia, which for a ‘short decade’ provided a new impetus for world growth have run their course and are de-accelerating rapidly and will continue to do so throughout the new year.

The Collapse of the European Union

Specifically, the crises wracked European Union will break up and the de facto multi-tiered structure will turn into a series of bilateral/multi-lateral trade and investment agreements. Germany , France , the Low and Nordic countries will attempt to weather the downturn. England - namely the City of London, in splendid isolation, will sink into negative growth, its financiers scrambling to find new speculative opportunities among the Gulf petrol-states and other ‘niches’. Eastern and Central Europe, particularly Poland and the Czech Republic , will deepen their ties to Germany but will suffer the consequences of the general decline of world markets. Southern Europe ( Greece , Spain , Portugal and Italy ) will enter into a deep depression as the massive debt payments fueled by savage assaults on wages and social benefits will severely reduce consumer demand.

Depression level unemployment and under-employment running to one-third of the labor force will detonate year-long social conflicts, intensifying into popular uprisings. Eventually a break-up of the European Union is almost inevitable. The euro as a currency of choice will be replaced by or return to national issues accompanied by devaluations and protectionism. Nationalism will be the order of the day. Banks in Germany , France and Switzerland will suffer huge losses on their loans to the South. Major bailouts will become necessary, polarizing German and French societies, between the tax-paying majorities and the bankers. Trade union militancy and rightwing pseudo ‘populism’ (neo-fascism) will intensify the class and national struggles

A depressed, fragmented and polarized Europe will be less likely to join in any Zionist inspired US-Israeli military adventure against Iran (or even Syria ). Crises ridden Europe will oppose Washington ’s confrontationalist approach to Russia and China .

The US : The Recession Returns with a Vengeance

The US economy will suffer the consequences of its ballooning fiscal deficit and will not be able to spend its way out of the world recession of 2012. Nor can it count on ‘exporting’ its way out of negative growth by turning to previously dynamic Asia, as China, India and the rest of Asia are losing economic steam. China will grow far below its 9% moving average. India will decline from 8% to 5% or lower. Moreover, the Obama regime’s military policy of ‘encirclement’, its economic policy of exclusion and protectionism will preclude any new stimulus from China .

Militarism Exacerbates the Economic Downturn

The US and England will be the biggest losers from the Iraqi post war economic reconstruction. Of $186 billion dollars in infrastructure projects, US and UK corporations will gain less than 5% (Financial Times, 12/16/11, p 1 and 3). A similar outcome is likely in Libya and elsewhere. US imperial militarism destroys an adversary, plunging into debt to do so, and non-belligerents reap the lucrative post-war economic reconstruction contracts.

The US economy will fall into recession in 2012 and the “jobless recovery of 2011” will be replaced by a steep increase of unemployment in 2012. In fact, the entire labor force will shrink as people losing their unemployment benefits will fail to register.

Labor exploitation (“productivity”) will intensify as capitalists force workers to produce more, for less pay, thus widening the income gap between wages and profits.

The economic downturn and growth of unemployment will be accompanied by savage cuts in social programs to subsidize financially troubled banks and industries. The debates among the parties will be over how large the cuts to workers and retirees will be to secure the ‘confidence’ of the bondholders. Faced with equally limited political choices, the electorate will react by voting out incumbents, abstaining and via spontaneous and organized mass movements, such as the “occupy Wall Street” protest. Dissatisfaction, hostility and frustration will pervade the culture. Democratic Party demagogues will scapegoat China ; the Republican Party demagogues will blame the immigrants. Both will fulminate against “the Islamo-fascists” and especially against Iran .

New Wars in the Midst of Crises: Zionists Pull the Trigger

The ‘52 Presidents of the Major American Jewish Organizations’ and their “Israel First” followers in the US Congress, State Department, Treasury and the Pentagon will push for war with Iran . If they are successful it will result in a regional conflagration and world depression. Given the extremist Israeli regime’s success in securing blind obedience to its war policies from the US Congress and White House, any doubts about the real possibility of a major catastrophic outcome can be set aside.

China: Compensatory Mechanisms in 2012

China will face the global recession of 2012 with several possibilities of ameliorating its impact. Beijing can shift toward producing goods and services for the 700 million domestic consumers currently out of the economic loop. By increasing wages, social services and environmental safety, China can compensate for the loss of overseas markets. China ’s economic growth, which is largely dependent on real estate speculation, will be adversely affected when the bubble is burst. A sharp downturn will result, leading to job losses, municipal bankruptcies and increased social and class conflicts. This can result in either greater repression or gradual democratization. The outcome will profoundly affect China ’s market - state relations. The economic crisis will likely strengthen state control over the market.

Russia Faces the Crises

Russia ’s election of President Putin will lead to less collaboration in backing US promoted uprisings and sanctions against Russian allies and trading partners. Putin will turn toward greater ties with China and will benefit from the break-up of the EU and the weakening of NATO.

The western media backed opposition will use its financial clout to erode Putin’s image and encourage investment boycotts though they will lose the Presidential elections by a big margin. The world recession will weaken the Russian economy and will force it to choose between greater public ownership or greater dependency on state funds to bail out prominent oligarchs.

The Transition 2011 – 2012: From Regional Stagnation and Recession to World Crises

The year 2011 laid the groundwork for the breakdown of the European Union. The crises began with the demise of the Euro, stagnation in the US and the outbreak of mass protests against the obscene inequalities on a world scale. The events of 2011 were a dress rehearsal for a new year of full scale trade wars between major powers, sharpening inter-imperialist struggles and the likelihood of popular rebellions turning into revolutions. Moreover, the escalation of Zionist orchestrated war fever against Iran in 2011 promises the biggest regional war since the US-Indo-Chinese conflict. The electoral campaigns and outcomes of Presidential elections in the US , Russia and France will deepen the global conflicts and economic crises.

During 2011 the Obama regime announced a policy of military confrontation with Russia and China and policies designed to undermine and degrade China ’s rise as a world economic power. In the face of a deepening economic recession and with the decline of overseas markets, especially in Europe , a major trade war will unfold. Washington will aggressively pursue policies limiting Chinese exports and investments. The White House will escalate its efforts to disrupt China ’s trade and investments in Asia, Africa and elsewhere. We can expect greater US efforts to exploit China ’s internal ethnic and popular conflicts and to increase its military presence off China ’s coastline. A major provocation or fabricated incident in this context is not to be excluded. The result in 2012 could lead to rabid chauvinist calls for a costly new ‘Cold War’. Obama has provided the framework and justification for a large-scale, long-term confrontation with China . This will be seen as a desperate effort to prop up US influence and strategic positions in Asia . The US military “quadrangle of power” – US-Japan-Australia-South Korea – with satellite support from the Philippines , will pit China ’s market ties against Washington ’s military build-up.

Europe: Deeper Austerity and Intensified Class Struggle

The austerity programs imposed in Europe, from England to Latvia to southern Europe will really take hold in 2012. Massive public sector firings and reduced private sector salaries and job opportunities will lead to a year of permanent class warfare and regime challenges. The ‘austerity policies’ in the South, will be accompanied by debt defaults resulting in bank failures in France and Germany . England ’s financial ruling class, isolated from Europe, but dominant in England , will insist that the Conservatives ‘repress’ labor and popular unrest. A new tough neo-Thatcherite style of autocratic rule will emerge; the Labor-trade union opposition will issue empty protests and tighten the leash on the rebellious populace. In a word, the regressive socio-economic policies put in place in 2011 have set the stage for new police-state regimes and more acute and possibly bloody confrontations with workers and unemployed youth with no future.

The Coming Wars that Ends America “As We Know It”

Within the US , Obama has laid the groundwork for a new and bigger war in the Middle East by relocating troops from Iraq and Afghanistan and concentrating them against Iran . To undermine Iran , Washington is expanding clandestine military and civilian operations against Iranian allies in Syria , Pakistan , Venezuela and China . The key to the US and Israeli bellicose strategy toward Iran is a series of wars in neighboring states, world- wide economic sanctions , cyber-attacks aimed at disabling vital industries and clandestine terrorist assassinations of scientists and military officials. The entire push, planning and execution of the US policies leading up to war with Iran can be empirically and without a doubt attributed to the Zionist power configuration occupying strategic positions in the US Administration, mass media and ‘civil society’.

A systematic analysis of American policymakers designing and implementing economic sanctions policy in Congress finds prominent roles for such mega-Zionists (Israel-Firsters) as Ileana Ros-Lehtinen and Howard Berman; in the White House, Dennis Ross in the White House, Jeffrey Feltman in the State Department, and Stuart Levy, and his replacement David Cohen, in the Treasury. The White House is totally beholden to Zionist fund raisers and takes its cue from the ‘52 Presidents of the Major American Jewish Organization. The Israeli-Zionist strategy is to encircle Iran , weaken it economically and attack its military. The Iraq invasion was the US ’s first war for Israel ; the Libyan war the second; the current proxy war against Syria is the third. These wars have destroyed Israel ’s adversaries or are in the process of doing so.

During 2011, economic sanctions, which were designed to create domestic discontent in Iran , were the principle weapon of choice. The global sanctions campaign engaged the entire energies of the major Jewish-Zionist lobbies. They have faced no opposition from the mass media, Congress or the White Office. The Zionist Power Configuration (ZPC) has been virtually exempt from criticism by any of the progressive, leftist and socialist journals, movements or grouplets – with a few notable exceptions. The past year’s re-positioning of US troops from Iraq to the borders of Iran , the sanctions and the rising Big Push from Israel ’s Fifth Column in the US means expanded war in the Middle East . This likely means a “surprise” aerial and maritime missile attack by US forces. This will be based on a concocted pretext of an “imminent nuclear attack” concocted by Israeli Mossad and faithfully transmitted by the ZPC to their lackeys US Congress and White House for consumption and transmission to the world. It will be a destructive, bloody, prolonged war for Israel ; the US will bear the direct military cost by itself and the rest of the world will pay a dear economic price. The Zionist-promoted US war will convert the recession of early 2012 into a major depression by the end of the year and probably provoke mass upheavals.

Conclusion

All indications point to 2012 being a turning point year of unrelenting economic crisis spreading outward from Europe and the US to Asia and its dependencies in Africa and Latin America . The crisis will be truly global. Inter-imperial confrontations and colonial wars will undermine any efforts to ameliorate this crisis. In response, mass movements will emerge moving over time from protests and rebellions, and hopefully to social revolutions and political power.


James Petras is a frequent contributor to Global Research.  Global Research Articles by James Petras

samedi, 31 décembre 2011

Irak: de geheime 'vuile' oorlog van de VS

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Irak: de geheime 'vuile' oorlog van de VS

Ex: http://www.dewereldmorgen.be/
 
"It’s time for 'no more Mr Nice Guy'", aldus een neoconservatieve strateeg in 2003. "Al die mensen die schreeuwen, ’Weg met Amerika!’ en dansen in de straat als Amerikanen wordt aangevallen? We moeten hen vermoorden." En dat is ook ten overvloede gebeurd. Met de counterinsurgency strategie van de VS en de duistere krachten die de bezetting van Irak tot de grootste hel op de planeet hebben gemaakt.

 

"Opstandelingen in Irak hebben het recht om de Amerikaanse troepen het land uit te dwingen", vertelde Commander General Sir Michael Rose in het BBC programma Newsnight. Hij riep de VS en het VK ook op om hun "nederlaag toe te geven" en de vijandelijkheden te staken in deze “hopeloze oorlog".

De Iraakse opstandelingen zullen hun verzet nooit opgeven, zei hij. "Ik excuseer ze niet voor sommige van de verschrikkelijke dingen die ze doen, maar ik begrijp waarom ze zich verzetten." Op 9 januari 2006 deed Sir Michael Rose een oproep om Tony Blair af te zetten wegens de invasie van Irak in 2003. Hij zei: "Het zou aan niemand mogen worden toegestaan om zijn verantwoordelijkheid te ontlopen als duidelijk wordt dat hij een oorlog heeft ontketend op grond van leugens en drogredenen."

Preventieve mensenjacht

De Amerikaanse en Britse legers, geconfronteerd met een felle weerstand, maar niet bereid om hun nederlaag toe te geven, veranderden drastisch hun tactiek, zoals beschreven door Seymour Hersh in The New Yorker op 15 december 2003: "Een Amerikaanse adviseur zei: 'De enige manier waarop we kunnen winnen, is om over te schakelen op onconventionele middelen. We zullen hun spel moeten spelen. Guerrilla versus guerrilla, terrorisme versus terrorisme. We moeten de Irakezen terroriseren en tot onderwerping dwingen."

(...) "De voorgenomen nieuwe operatie, de zogenaamde 'preemptive manhunting': 'preventieve mensenjacht', zoals een Pentagon-adviseur het noemde - heeft het potentieel om Irak in een (Vietnam) Phoenix Program-scenario te doen belanden' (...) We hebben een meer onconventionele reactie nodig, maar het zal ‘bloedig’ worden".

Bloedig ... Inderdaad. En niet gerapporteerd in de westerse mainstream pers. De Verenigde Staten en Groot-Brittannië organiseerden een 'preventieve mensenjacht' en gebruikten Israël, Iraanse en Iraakse proxykrachten om miljoenen Irakezen te brutaliseren, gevangen te zetten, te martelen en te vermoorden. Miljoenen anderen werden verdreven uit hun huizen, ontheemd en in ballingschap gedreven.

Op 6 november 2003 kopte The New York Times dat de VS had besloten om Iraakse milities in te zetten: "De Amerikaanse bewindvoerder in Irak, Paul Bremer, heeft voorwaardelijke steun verleend aan de oprichting van een Iraaks-geleide paramilitaire strijdkracht om verzetsstrijders op te sporen die ontsnappen aan Amerikaanse troepen. Het zou bestaan uit voormalige leden van de veiligheidsdiensten en milities van politieke partijen."

Drie miljard dollar voor moord en terreur

Op 1 januari 2004 meldde Robert Dreyfuss (nvdr: freelance onderzoeksjournalist) dat de Amerikaanse overheid van plan was om paramilitaire eenheden te creëren, bestaande uit militieleden van de Iraakse Koerden en groepen in ballingschap waaronder de Badr-brigades, het Iraakse National Congress van Ahmed Chalmabi en het Iraakse National Accord van Iyad Allawi, om een campagne op te zetten van terreur en standrechtelijke moorden, vergelijkbaar met het Phoenix-programma in Vietnam: de terreur en moordcampagne die tienduizenden burgers heeft gedood.

"Onderdeel van een geheim fonds van 3 miljard dollar, verscholen in het krediet van 87 miljard dollar voor de oorlog in Irak dat werd goedgekeurd door het Amerikaanse Congres begin november 2003, is bestemd voor de oprichting van een paramilitaire eenheid bemand door milities verbonden met voormalige Iraakse groepen in ballingschap. Experts zeggen dat dit kan leiden tot een golf van buitengerechtelijke executies, niet alleen van gewapende rebellen, maar ook van Iraakse nationalisten, andere tegenstanders van de Amerikaanse bezetting en zou eveneens duizenden burgerslachtoffers onder de Baathisten kunnen maken - tot 120.000 van de naar schatting 2,5 miljoen voormalige Baathpartij-leden in Irak. (...) Het verborgen 3 miljard dollar fonds zal dienen voor geheime ('black') operaties vermomd als een Air Force geclassificeerd programma."

Volgens John Pike, een expert op het gebied van geheime militaire budgetten op www.globalsecurity.org, werd de cash, verspreid over drie jaar, waarschijnlijk rechtstreeks doorgesluisd naar de CIA, waardoor dat agentschap zijn jaarlijks budget van naar schatting 4 miljard dollar met 25 procent zag verhogen.

Operaties in Irak kregen het grootste deel van het geld, de rest diende voor operaties in Afghanistan. Het aantal CIA-officieren in Irak, toen 275, zou aanzienlijk stijgen en worden aangevuld met een groot aantal elite counterinsurgency strijdkrachten van het Amerikaans leger. "Het is tijd voor 'no more Mr Nice Guy'", aldus een neoconservatieve strateeg. "Al die mensen die schreeuwen, ’Weg met Amerika!’ en dansen in de straat als Amerikanen wordt aangevallen? We moeten hen vermoorden."

Tijdens de daaropvolgende periode kwamen rapporten aan het licht over doodseskaders en etnische zuiveringen, beschreven in de pers als 'sektarisch geweld', het nieuwe centrale verhaal van de oorlog en de belangrijkste rechtvaardiging voor de voortdurende bezetting. Een deel van het geweld kan spontaan zijn geweest, maar er is overweldigend bewijs dat het grootste deel ervan het resultaat was van de plannen beschreven door verschillende Amerikaanse experts in december 2003.

Rekrutering van doodseskaderveteranen in Latijns-Amerika

Een Alternet-artikel van 16 juni 2004, getiteld 'Hier komen de Death Squad Veterans', vermeldde: "Blackwater USA heeft rekruteurs gestuurd naar Chili, Peru, Argentinië, Colombia en Guatemala om één enkele reden", aldus een inlichtingenofficier in Koeweit, die anoniem wenst te blijven.

"Al deze landen hebben ervaring met vuile oorlogen en ze hebben militairen die goed getraind zijn in het omgaan met interne subversieve elementen. Ze zijn goed thuis in het afdwingen van bekentenissen van gevangenen." Omdat de veiligheidssituatie in Irak verslechterde in het voorjaar van 2004, begon een meer 'doelgerichte werving'.

In juni 2004 nam generaal David H. Petraeus de opdracht ter harte voor het organiseren van opleidingen voor alle Iraakse leger- en politie-eenheden, na hun nederlaag tijdens de sjiitische en soennitische opstanden twee maanden eerder. Gedurende deze periode was hij voor de vorming van de door de regering gesteunde milities in heel Irak die werkzaam waren als antisoennitische doodseskaders, en die het land bijna in een burgeroorlog hadden gestort. In de herfst van 2004 begon Petraeus met de bewapening, uitrusting en de financiering van de speciale politiecommandos, en noemde ze 'A Horse to Back'.

Salvador Option

De eerste verwijzing naar de Salvador Option en een vergelijking met de wreedheden van doodseskaders in Midden-en Latijns-Amerika in de jaren 1980 werd gemaakt door Ghali Hassan (nvdr: Australisch schrijver en activist) op 12 oktober 2004 in zijn artikel: 'Iraqi Democracy: The El Salvador Model': "De kern van de huidige door de VS aangestelde Iraakse overgangsregering (IGC) bestaat uit de Iyad Allawi-groep van ballingen (INA), de Ahmed Chalabi-groep van ballingen (INC), de Peshmergas van de twee Koerdische partijen, en de Badr Brigade (Hoge Raad voor de Islamitische Revolutie in Irak, SCIRI - momenteel de Dawa-partij, meestal van Iraanse afkomst)."

"Bovendien, elke van deze groepen heeft zijn eigen maffia-achtige doodseskaders en banden met de CIA of de Israëlische Mossad. Toen ze naar Irak kwamen met de Amerikaanse invasie, hebben deze vier groepen het recht in eigen handen genomen en vele onschuldige Irakezen vermoord, waaronder honderden Iraakse wetenschappers en leidende figuren van de Iraakse gemeenschap."

"De bezettingsautoriteiten hebben deze misdaden nooit onderzocht. Zij kwamen Irak binnen in het kielzog van de Amerikaanse tanks. Hun relatie met de bezetter is volkomen symbiotisch. Ze opereren naast elkaar in een wederzijdse voordelige relatie met hun Amerikaanse meesters. Ze nemen deel aan de komende verkiezingen, omdat ze willen dat de bezetting voortduurt."

In januari 2005, meer dan een jaar na de eerste rapporten over de planning door het Pentagon van standrechtelijke moorden en paramilitaire operaties, sierde de Salvador Option de pagina's van Newsweek en andere belangrijke nieuwsbronnen. Het uitbesteden van staatsterrorisme aan lokale proxykrachten werd beschouwd als een essentieel onderdeel van een beleid dat erin geslaagd was de totale nederlaag van de door de VS gesteunde regering in El Salvador te voorkomen.

De Amerikaanse troepen rekruteerden de meest criminele lagen van de Iraakse bevolking. Deze Pentagon-huurlingen, getraind door private security companies zoals DynCorp, vormden de sektarische milities die werden gebruikt om Irakezen te terroriseren en te vermoorden en om een burgeroorlog uit te lokken in Irak.

In 2004 publiceerden twee hoge Amerikaanse legerofficieren een lovende recensie over de Amerikaanse proxyoorlog in Colombia: "presidenten Reagan en Bush steunden een kleine, beperkte oorlog terwijl ze probeerden om Amerikaanse militaire betrokkenheid geheim te houden voor het Amerikaanse publiek en de media. Het huidige Amerikaanse beleid ten aanzien van Colombia lijkt deze zelfde vermomde, stille, mediavrije aanpak te volgen".

Volgens Newsweek zou het Pentagon voorstellen om Special Forces te adviseren, ondersteunen, en mogelijk de Iraakse brigades in te zetten ... om soennietische opstandelingen en hun sympathisanten te treffen. (...)"De soennitische bevolking betaalt geen prijs voor de steun die het geeft aan de terroristen. Vanuit hun oogpunt blijft die steun zonder gevolg. We moeten deze houding veranderen."

Van 1984 tot 1986 leidde kolonel James Steele de Advisory Group van het Amerikaanse leger in El Salvador. Hij was er verantwoordelijk voor de oprichting van speciale operationele strijdkrachten op brigadeniveau tijdens het hoogtepunt van het conflict. Deze strijdkrachten, samengesteld uit de meest brutale soldaten die hij ter beschikking had, herhaalden het soort van operaties waarmee Steele vertrouwd was tijdens zijn dienst in Vietnam.

In plaats van zich te richten op een rechtstreekse strijd met het verzet, bestond hun rol er in om aanvallen uit te voeren op de leiding van de 'opstandelingen', hun aanhangers, hun bronnen en basiskampen. In het geval van de 4de Brigade bijvoorbeeld zorgden dergelijke tactieken ervoor dat een 20-man sterke groep verantwoordelijk was voor 60 procent van de totale verliezen toegebracht door de eenheid. Naast zijn ervaring in El Salvador, had Steele de leiding gehad over de omscholing van Panama's veiligheidstroepen na de afzetting van president Manuel Noriega.

De geheime 'smerige' oorlog van de VS in Irak

Het onthult de fundamentele aard van de 'vuile oorlog', zoals in Latijns-Amerika en de ergste uitwassen van de oorlog in Vietnam. Het doel van de vuile oorlog is niet om de echte verzetsstrijders te identificeren, te arresteren en vervolgens te vermoorden. Het doel van vuile oorlog is de burgerbevolking te treffen.

Het is een strategie van staatsterrorisme en collectieve bestraffing tegen een hele bevolking met het doel ze te terroriseren tot onderwerping. Het is een strategie om de band van de mensen met het verzet af te snijden en de steun van het volk voor de guerrilla te breken.

Dezelfde tactiek, gebruikt in Centraal-Amerika en Colombia, werd geëxporteerd naar Irak. Zelfs de architecten van deze vuile oorlogen in El Salvador (ambassadeur John Negroponte en James Steele) en in Colombia (Steven Casteel) werden overgebracht naar Irak om hetzelfde vuile werk te doen. De beruchte Special Police Commandos, waarin doodseskaders zoals de Badr Brigades en andere milities werden opgenomen, werden door hen aangeworven, opgeleid, bewapend en ingezet tegen de Iraakse bevolking.

Amerikaanse troepen zetten een high-tech operationeel centrum op poten voor de Special Police Commandos op een 'geheime locatie' in Irak. Amerikaanse technici installeerden satelliettelefoons en computers met uplinks naar het internet en het American Forces Network. Het commandocentrum had directe verbindingen met het Iraakse ministerie van Binnenlandse Zaken en met alle Amerikaanse basissen in het land.

Toen het nieuws van de wreedheden, begaan door deze troepen in Irak, in de pers verscheen in 2005, zou Casteel een cruciale rol spelen om de schuld voor deze buitengerechtelijke executies te geven aan 'opstandelingen' met gestolen politie-uniformen, voertuigen en wapens.

Hij beweerde ook dat martelingencentra werden beheerd door malafide elementen van het ministerie van Binnenlandse Zaken, zelfs als feiten aan het licht kwamen van martelingen binnen het hoofdkwartier van het ministerie waar hij en andere Amerikanen werkten. Amerikaanse adviseurs van het ministerie van Binnenlandse Zaken hadden hun hoofdkwartier op de 8ste verdieping, direct boven een gevangenis op de 7de verdieping waar martelingen plaatsvonden.

Westerse media medeplichtig aan doofpotoperatie

De kritiekloze houding van de westerse media tegenover Amerikaanse functionarissen zoals Steven Casteel, heeft verhinderd dat er een wereldwijde populaire en diplomatieke verontwaardiging kwam over de enorme escalatie van de vuile oorlog in Irak in 2005 en 2006, in overeenstemming met de 'vermomde, stille, mediavrije aanpak'.

Toen het verhaal van Newsweek in januari 2005 op de frontpagina’s terechtkwam, verscheen generaal Downing, het voormalige hoofd van de Amerikaanse Special Forces, op NBC. Hij zei: "Dit is onder controle van de Amerikaanse strijdkrachten, van de huidige overgangsregering van Irak. Er is geen reden om te denken dat we een moordcampagne zullen meemaken die onschuldige burgers zal treffen."

Binnen de kortste tijd werd Irak echter overspoeld door precies dit soort moordcampagne die heeft geleid tot willekeurige detentie, marteling, buitengerechtelijke executies en de massale uittocht en ontheemding van miljoenen. Duizenden Irakezen zijn verdwenen tijdens de ergste maanden van deze vuile oorlog tussen 2005 en 2007.

Sommigen werden opgepikt door geüniformeerde milities en opgestapeld in vrachtwagens, anderen leken gewoon te verdwijnen. Iraaks minister van Mensenrechten, Wijdan Mikhail, zei dat haar ministerie meer dan 9.000 klachten ontvangen had in 2005 en 2006, alleen al van Irakezen die zeiden dat een familielid was verdwenen. Mensenrechtenorganisaties schatten het totale aantal veel hoger.

Het lot van de vele vermiste Irakezen blijft onbekend. Velen kwijnen weg in een van de beruchte geheime gevangenissen in Irak. De Iraakse regering heeft instructies gegeven aan de veiligheids- en gezondheidscentra om geen aantallen van vermoorde Irakezen meer vrij te geven aan de media. Elke dag werden tientallen lichamen gevonden in Bagdad.

"We zijn niet bevoegd om cijfers te geven, maar ik kan u vertellen dat we iedere dag lichamen van mannen ontvangen en hun identiteit is onbekend", vertelde een arts van het lijkenhuis in Bagdad aan IPS op 19 februari 2008. Elke dag werden tussen 50 en 180 lichamen gedumpt in de straten van Bagdad, op het hoogtepunt van de sektarische moorden. Velen droegen sporen van marteling, zoals het boren van gaten of brandwonden van sigaretten.

Op 30 april 2006 meldde het BRussells Tribunal: "Na exacte telling en documentatie, heeft de Iraakse Organisatie voor follow-up en monitoring bevestigd dat 92 procent van de 3.498 lichamen, gevonden in verschillende regio's van Irak, zijn gearresteerd door ambtenaren van het ministerie van Binnenlandse Zaken. Er was niets bekend over het lot van de arrestanten tot hun doorzeefde lichamen werden gevonden met sporen van afschuwelijke martelingen. Het is betreurenswaardig en beschamend dat deze misdaden worden verzwegen en dat de bevoegde autoriteiten niet de minste moeite doen om deze misdaden te onderzoeken."

Het effect van het negeren van de link tussen de VS en de door Iran gesteunde Badr Brigade milities, de door de VS gesteunde Wolf Brigade en andere speciale politiecommando-eenheden, of de omvang van de Amerikaanse werving, training, leiding en controle van deze eenheden, was verstrekkend.

Het vervormde de perceptie van de gebeurtenissen in Irak gedurende de verdere escalatie van de oorlog. Hierdoor werd de indruk gewekt dat het zinloos geweld door de Irakezen zelf werd geïnitieerd en het verhulde de Amerikaanse hand in de planning en uitvoering van de meest wrede vormen van geweld. Door de toedekking van de misdaden begaan door de Amerikaanse overheid, hebben nieuwsredacties een belangrijke rol gespeeld bij het voorkomen van de publieke verontwaardiging die de verdere escalatie van deze campagne zou kunnen hebben ontmoedigd.

VS verantwoordelijk voor sektarische geweld

De mate van Amerikaans initiatief in de aanwerving, opleiding, de uitrusting, inzet, leiding en controle van de Special Police Commandos maakte duidelijk dat de Amerikaanse trainers en bevelhebbers de parameters bepaalden waarbinnen deze krachten werden gebruikt. Veel Irakezen en Iraniërs waren zeker schuldig aan verschrikkelijke misdaden in de loop van deze campagne.

Maar de eerste en belangrijkste verantwoordelijkheid voor dit beleid en voor de misdaden die eruit voortvloeiden, berust bij de individuen in de civiele en militaire commandostructuur van het Amerikaanse ministerie van Defensie, de CIA en het Witte Huis, die het Phoenix- of Salvador-terreurbeleid in Irak bedachten, goedgekeurd en uitgevoerd hebben.

Het rapport van het Human Rights Bureau van UNAMI (United Nations Assistance Mission for Iraq), uitgebracht op 8 september 2005, geschreven door John Pace, was zeer expliciet en koppelde de campagne van arrestaties, marteling en buitengerechtelijke executies rechtstreeks aan het ministerie van Binnenlandse Zaken en indirect aan de door de VS geleide multinationale strijdkrachten.

John Pace, die Bagdad verliet in januari 2006, vertelde aan The Independent on Sunday dat tot driekwart van de lijken, opgestapeld in mortuarium van de stad, blijk gaven van schotwonden in het hoofd of verwondingen veroorzaakt door drillbits of brandende sigaretten. Veel van de doden, zei hij, werden uitgevoerd door sjiitische moslimgroepen onder de controle van het ministerie van Binnenlandse Zaken.

Het definitieve VN-Mensenrechtenrapport van 2006 beschreef de gevolgen van dit beleid voor de bevolking van Bagdad, terwijl het de institutionele wortels in de Amerikaanse politiek verwaarloosde. Het 'sektarisch geweld' dat Irak overspoelde in 2006 was niet een onbedoeld gevolg van de Amerikaanse invasie en bezetting, maar maakte er integraal deel van uit.

De VS had niet de bedoeling om de stabiliteit en veiligheid te herstellen in Irak. Ze heeft bewust de stabiliteit ondermijnd in een wanhopige poging om via een verdeel-en-heers-politiek het land te pacificeren en zo nieuwe rechtvaardigingen te fabriceren voor onbeperkt geweld tegen Irakezen die nog steeds de illegale invasie en bezetting van hun land bleven afwijzen.

Mensenrechten zijn niet bestemd voor Irakezen

Wat is het antwoord van het OHCHR (Bureau van de Hoge Commissaris voor de Mensenrechten) op deze Iraakse Killing Fields? Hebben ze een speciale rapporteur voor de mensenrechten voor Irak benoemd? Neen, dat deden ze niet. Ze sloten hun ogen en stapten mee in het fantasieverhaal van een 'bloeiende' democratie in Irak, en herhaalden de fictieve Amerikaanse verhalen over algemene verbeteringen voor het Iraakse volk.

Wat kan meer hypocriet en cynisch zijn dan dit citaat op de Irak-pagina van de website van het OHCHR: "Van 2006 tot 2009 heeft het UNAMI Bureau voor de Mensenrechten een aantal opleidingen verzekerd voor het personeel van het ministerie van Mensenrechten, het ministerie van Justitie, ministerie van Binnenlandse Zaken en het ministerie van Defensie over de relevante regelgeving inzake mensenrechten en het internationaal humanitair recht (IHR), en een aantal high-level seminaries gesponsord over de bescherming van de mensenrechten in het kader van de Iraakse strijd tegen het terrorisme."

"Het UNAMI Bureau voor de Mensenrechten en het OHCHR waren ook actief op de verhoging van de capaciteit van het ministerie van mensenrechten en het ministerie van Justitie door het sponsoren van workshops en trainingen voor hun personeel in Bagdad en de provincies voor de normen over detentie en toezicht op de mensenrechten. Ze hebben geholpen (en helpen nog steeds) met de oprichting van een Iraakse Hoge Commissie voor de Mensenrechten, een Centrum voor Vermiste en Verdwenen Personen en een nationaal centrum voor de rehabilitatie van de slachtoffers van foltering."

De wereldgemeenschap heeft duidelijk het Iraakse volk genegeerd. Mensenrechten zijn niet op hen van toepassing.

De criminele nalatigheid van het Internationaal Strafhof

Zelfs het Internationaal Strafhof (ICC) heeft zich afgewend van het Iraakse volk. "Het Bureau van de Speciale Aanklager heeft meer dan 240 klachten ontvangen over de situatie in Irak. (...) De beschikbare informatie bevat geen redelijke aanwijzingen dat coalitietroepen 'de intentie hadden om geheel of gedeeltelijk, een nationale, etnische, raciale of religieuze groep als zodanig te vernietigen', zoals vereist voor de definitie van genocide (artikel 6). De beschikbare informatie bevat ook geen redelijke aanwijzingen om te besluiten tot een misdaad tegen de menselijkheid, dat wil zeggen een wijdverbreide of stelselmatige aanval gericht tegen een burgerbevolking. (...)"

"De beschikbare informatie geeft geen indicatie dat opzettelijke aanvallen op een burgerbevolking hebben plaatsgegrepen. (...) Na analyse van alle beschikbare informatie werd geconcludeerd dat er een redelijke basis bestaat om te geloven dat misdrijven waren begaan die onder de bevoegdheid van de rechtsmacht van het Hof vallen, namelijk opzettelijke moord en onmenselijke behandeling. (...) De beschikbare informatie op dit moment ondersteunt een redelijke basis voor naar schatting 4 tot 12 slachtoffers van opzettelijke moorden en een beperkt aantal slachtoffers van onmenselijke behandeling, in totaal minder dan 20 personen. Zelfs wanneer er een redelijke basis is om te geloven dat er een misdrijf is gepleegd, is dit niet voldoende voor de opening van een onderzoek van het Internationaal Strafhof.”

Aldus het antwoord van de speciale aanklager van het ICC, Luis Moreno-Ocampo, op 9 februari 2006. Merk op dat dit cynische antwoord werd gegeven meer dan een jaar nadat Fallujah en andere steden in Irak met de grond gelijk waren gemaakt. Victor’s justice?

De aard en omvang van de betrokkenheid van verschillende individuen en groepen binnen de Amerikaanse bezettingsstructuur blijft nog steeds een smerig, duister geheim, maar er zijn veel sporen die kunnen worden gevolgd door een serieus onderzoek, in het bijzonder door de bevoegde speciale rapporteurs van de OHCHR.

Feit: elke Iraakse eenheid van de Nationale Politie was verbonden met minstens twee Amerikaanse officieren, meestal Amerikaanse Special Forces-eenheden. In november 2005 waren bijvoorbeeld de Amerikaanse adviseurs, verbonden aan de Wolf Brigade, afkomstig van de 160ste Special Operations Aviation Regiment, bekend als de 'Nightstalkers'.

De 'surge'

In januari 2007 kondigde de Amerikaanse regering een nieuwe strategie aan, de surge van de Amerikaanse gevechtstroepen in Bagdad en de Al-Anbar-provincie. De meeste Irakezen meldden dat deze escalatie van geweld de levensomstandigheden nog erger maakten dan voorheen, omdat de gevolgen ervan werden toegevoegd aan de geaccumuleerde verwoesting van 4 jaar oorlog en bezetting.

Het geweld van de 'surge' resulteerde namelijk in een vermindering met 22 procent van het aantal artsen, waardoor er slechts 15.500 van het oorspronkelijk aantal van 34.000 overbleven in september 2008. Er was eveneens een sterke stijging van het aantal vluchtelingen en intern ontheemden in de periode 2007-2008.

De escalatie van de Amerikaanse vuurkracht in 2007, met inbegrip van een vijfvoudige toename van luchtaanvallen en het gebruik van Spectre Gunships en artillerie als aanvulling op de 'surge', betekende een verwoestende climax na 4 jaren van oorlog en collectieve bestraffing, toegebracht aan het Irakese volk.

Alle door de weerstand gecontroleerde gebieden zouden worden geviseerd met een overweldigende vuurkracht, voornamelijk uit de lucht, totdat de Amerikaanse grondtroepen konden muren bouwen rond wat er nog van elke wijk overbleef en zo elk district zouden isoleren. Het is vermeldenswaard dat generaal Petraeus de vijandelijkheden in Ramadi vergeleek met de Slag om Stalingrad, zonder scrupules dat hij in deze analogie de rol van de Duitse bezetters aannam. Ramadi werd volledig vernietigd zoals Fallujah in november 2004.

Het VN-Mensenrechtencomité vermeldde in zijn verslagen van 2007 de willekeurige en onwettige aanvallen op burgers en civiele woongebieden en vroeg om een onderzoek. Luchtaanvallen duurden onverminderd voort op bijna dagelijkse basis tot augustus 2008, zelfs toen het zogenaamde 'sektarisch geweld' en het aantal Amerikaanse slachtoffers verminderde.

In alle gemelde incidenten waar burgers, vrouwen en kinderen werden gedood, verklaarde het Centcom-persbureau dat de gedode mensen 'terroristen' waren, 'Al Qaeda-militanten' of 'onvrijwillige menselijke schilden'.

Krachten die betrokken zijn bij Special Operations in Irak

Een ander aspect van de 'surge' of escalatie lijkt een toename te zijn geweest in het gebruik van de Amerikaanse Special Forces-moordteams. In april 2008 verklaarde president Bush: "Op dit moment lanceren de Amerikaanse Special Forces iedere nacht meerdere operaties om Al-Qaeda-leiders in Irak te arresteren of te doden".

De NYT meldde op 13 mei 2009: "Toen generaal Stanley McChrystal de leiding overnam van het Joint Special Operations Command in 2003, erfde hij een insulaire, schimmige Commandowerking met een reputatie van wazige partnerschappen met andere legerorganisaties en inlichtingendiensten. Maar in de loop van de komende vijf jaar werkte hij hard, zeggen zijn collega's, om relaties op te bouwen met de CIA en de FBI. (...)"

"In Irak, waar hij de voorbije vijf jaar geheime commando-operaties overzag, zeggen voormalige ambtenaren van de inlichtingendienst dat hij een encyclopedische, zelfs obsessieve, kennis had over het leven van terroristen, en dat hij zijn gelederen agressief aanspoorde om zoveel mogelijk van hen te doden. (...) Het meeste van wat generaal McChrystal heeft gedaan gedurende zijn 33-jarige carrière blijft geheim, met inbegrip van zijn dienst tussen 2003 en 2008 als commandant van het Gemengd Special Operations Command, een elite-eenheid zo clandestien dat het Pentagon jarenlang geweigerd heeft om het bestaan ervan te erkennen."

De geheimzinnigheid rond deze operaties verhinderde een degelijke rapportage, maar zoals bij eerdere Amerikaanse geheime operaties in Vietnam en Latijns-Amerika, zullen we er mettertijd meer over te weten komen.

Een artikel in de Sunday Telegraph in februari 2007 wees in de richting van een duidelijk bewijs dat Britse Special Forces terroristen aanwerven en opleiden als dubbelagenten in de Groene Zone om etnische spanningen te verhogen. Een elite SAS-vleugel, de zogenaamde Task Force Black, met een bloedig verleden in Noord-Ierland, werkt met immuniteit en gebruikt geavanceerde explosieven. Sommige aanvallen worden toegeschreven aan Iraniërs, soennitische opstandelingen of schimmige terroristische cellen, zoals Al Qaeda.

De SWAT-teams (speciale wapens en tactieken), veelvuldig gebruikt in counter-insurgency operaties, moeten high-risk operaties uitvoeren die buiten de mogelijkheden van de reguliere legereenheden vallen, reageren op terrorisme en opstandige activiteiten  ontmoedigen.

Er werd gemeld dat: "Het Foreign Internal Defense Partnership met soldaten van de coalitie vestigt een professionele relatie tussen de Iraakse veiligheids- en coalitietroepen. De opleiding creëert geschikte strijdkrachten. Soldaten van de coalitie werken zij aan zij met de SWAT-teams, zowel in de opleiding en op de missies."

Op 7 oktober 2010 meldde de officiële website van de Amerikaanse troepen in Irak: "Het Basra SWAT-team heeft getraind met verschillende Special Forces eenheden, waaronder de Navy SEALs en de Britse SAS. De 1e Bn., 68e Arm. Regt., die momenteel onder de operationele controle staan van de Division-Zuid. De 1st Infantry Division heeft de taak voor de opleiding van het SWAT-team op zich genomen."

De Facilities Protection Services (FPS), waarin de 'private contractors' of huurlingen zoals Blackwater zijn opgenomen, worden eveneens ingezet in de counter-insurgency operaties. Ellen Knickmeyer van de Washington Post Foreign Service zei op zaterdag 14 oktober 2006 dat de FPS de drijvende kracht was achter de Iraakse doodseskaders. Dahr Jamail en Ali al-Fadhily beweerden dat de FPS, gecreëerd na de invasie van Irak in 2003, was uitgegroeid tot de belangrijkste leverancier van doodseskaders in Irak.

De Iraq Special Operations Forces (ISOF): daar werd in een vorig artikel reeds uitgebreid over bericht.

De verdeel-en-heers-strategie werd ook toegepast door de wisselende steun aan inheemse strijders en milities. Soms werden sjiitische milities (de Badr Brigades, het Mehdi Army van Moqtada-Al-Sadr) gebruikt door de bezetter om 'soennitische' verzetsgroepen te bestrijden en toen die sjiitische milities te sterk werden, bewapenden de VS soennitische groepen.

Een goed voorbeeld daarvan zijn de Sahwa of Awakening-groepen of Zonen van Irak (SOI). The Awakening-groepen ontstonden in 2005 toen soennitische stammen, die eerder hadden gevochten tegen het Amerikaanse leger en Iraakse regeringstroepen, zich verbonden met de Amerikaanse strijdkrachten en wapens, geld en training aanvaardden.

Er wordt geschat dat er in 2008 ongeveer 100.000 Awakening-strijders waren in Irak. Deze milities bestreden niet alleen Al-Qaeda, het was ook een poging van de VS om het Iraakse verzet te breken. In oktober 2008 heeft de Iraakse regering de verantwoordelijkheid voor het betalen van 54.000 leden van de Awakening Councils overgenomen van het Amerikaanse leger.

Conclusie

De 'vuile oorlog' in Irak duurt onverminderd voort. Zelfs toen president Barack Obama het einde van de gevechten in Irak aankondigde en ook nog nadien, opereerden Amerikaanse troepen samen met hun Iraakse collega’s tegen haarden van het Iraaks verzet.

En de huidige door de VS geïnstalleerde regering zal de beproefde tactieken voortzetten zolang er verzet blijft tegen de uitverkoop van het land en er verzet blijft tegen corruptie en de erbarmelijke staat van de infrastructuur, nutsvoorzieningen en het administratief apparaat.

Laten we niet vergeten dat ieder Iraaks ministerie zijn eigen militie heeft. Zo vaardigde de Iraakse regering op maandag 19 december 2011 een arrestatiebevel uit tegen de soennitische vicepresident Tariq Al-Hashimi, omdat hij een doodseskader zou hebben geleid. Dat is wel bijzonder hypocriet, gezien premier Maliki en alle andere ministers ook milities hebben die als doodseskaders opereren.  

Dirk Adriaensens

Dirk Adriaensens is de coördinator van SOS Iraq en lid van het BRussells Tribunal. Tussen 1992 en 2003 leidde hij verschillende delegaties naar Irak om er de effecten van de sancties te observeren. Hij is ook coördinator van de Global Campaign Against the Assassination of Iraqi Academics.

(wordt vervolgd)

Rébellion n°51

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Russie: enquête sur une tentative de déstabilisation

Russie: enquête sur une tentative de déstabilisation

par Olrik

Ex: http://fr.novopress.info/

putin_youth1.jpgLa nouvelle a inondé la toile comme un raz-de-marée. Il suffisait de taper le mot « élections russes » sur un quelconque moteur de recherche pour que des centaines et des centaines de sites ou de blogs reprenant tous la même dépêche – la plupart du temps à peine retouchée – soient recensés. Cette dépêche faisait état, sans ambages, de fraudes massives aux élections législatives russes du 4 décembre et reprenait comme une vérité biblique un obscur sondage attribué à l’ONG « l’Observateur citoyen ». Or ce sondage, qui a été en fait publié par l’institut FOM, n’est désormais curieusement plus en ligne. Après qu’il ait été rendu public par l’ONG animé par Dmitri Orechkine et repris en boucle par toutes les agences de presse de la planète, ce sondage controversé qui mettait « Russie unie », le parti de Medvedev, à 30% au lieu des 49,5 validées par la commission électorale russe n’est donc plus consultable… Notre enquête commence donc par une étrange et inexplicable disparition. Le sondage qui déclencha l’intense bronca médiatique mondiale et légitima à travers toute la Russie une brulante agitation a disparu… La raison en est simple, ce sondage était un faux grossier !

La fraude est-elle réellement ce qu’on en a dit ?

Mais alors qu’en est-il réellement des fraudes qu’une presse occidentale n’a pas manqué de qualifier de massives ? L’ensemble des irrégularités observées par l’ONG Golos, prétendument indépendante, a été recensé sur le site http://www.kartanarusheniy.ru/. Dans une tribune libre publiée sur l’agence de presse RIA Novosti, l’analyste francophone de la vie politique russe, Alexandre Latsa, s’est livré à un examen méticuleux de tous les cas de fraude. Loin de l’hystérie médiatique occidentale, force est de constater que la baudruche d’un vaste truquage électoral se dégonfle immédiatement. Au total, 7780 incidents divers ont été relevés

lors des dernières élections législatives russes. Cependant, si l’on ramène ces cas litigieux à ceux ne concernant que des « plaintes pour fraude au niveau de la comptabilisation des voix », le chiffre s’effondre littéralement pour ne totaliser qu’à peine 437 incidents. Et encore, ces incidents ne concernent à chaque fois que des écarts de 100 à 300 voix tout au plus. Par ailleurs, l’essentiel d’entre eux se concentre dans les régions du Caucase (une zone quasiment en guerre, ceci expliquant peut-être cela) et dans celle de Moscou. Or, en prenant la fourchette haute des voix en litiges simplement sur la ville de Moscou, on totalise à peine 20.000 votes douteux. Peut-on décemment imaginer que 20.000 voix en litige auraient permis au parti Russie unie de doubler son score sur Moscou ? En comparaison, rappelons qu’aux USA 100.000 voix avaient disparu aux législatives de 1982 à Chicago et que 19.000 bulletins litigieux furent comptabilisés à la présidentielle de 2000 rien qu’en Floride.

Après analyse des éléments à charge, rien ne vient établir que cette élection fût outrancièrement truquée ou que le score de Russie unie fût frauduleusement gonflé. Au contraire, le résultat en recul du parti majoritaire, dont la tête de liste était Medvedev et dont d’ailleurs Poutine s’était démarqué, démontrerait plutôt une normalisation du jeu politique – nous rappellerons aux journalistes occidentaux que Poutine n’est plus membre de Russie unie et œuvre actuellement à la création d’un nouveau parti panrusse. En outre, tous les observateurs s’accordent pour reconnaitre que les temps de paroles entre les compétiteurs ont été scrupuleusement respectés, ce qui, cela dit en passant, est malheureusement de moins en moins le cas en Occident et notamment en France. L’existence même de larges manifestations dénonçant la validité des résultats et qui se sont déroulées sans heurts ni violences, prouve à elle seule qu’un niveau supplémentaire de maturité démocratique a été franchi en Russie. Ajoutons encore que des organisations politiques rassemblant à peine 10% des électeurs entrent au parlement au moment même où en France un parti réunissant entre 17 et 20% des intentions de vote n’a et n’aura sans doute aucun député. Il est donc triste de constater que même sur ce terrain, la Russie se trouve en position de donner des leçons de démocratie à un pays comme la France.

L’ONG Golos est-elle aussi indépendante qu’elle le prétend ?

Mais alors pourquoi une telle agitation dans les chancelleries occidentales ? Pour la comprendre, il suffit de renifler qui se cache derrière l’ONG Golos que dirige M. Gregory Melkoyants, au cœur de la polémique. Cette ONG, qui se présente comme indépendante, s’est montrée extrêmement intrusive dans le processus électoral russe sous prétexte de l’observer. L’Observateur citoyen, une autre ONG également très impliquée dans la controverse et souvent citée par les médias occidentaux, se révèle n’être qu’un des multiples pseudopodes de l’ONG Golos. C’est donc bien Golos l’acteur central de l’agitation. Or si l’on remonte les ficelles de son financement, on découvre que Golos est financée non seulement par la Commission européenne, mais aussi et surtout par le gouvernement américain via l’USAID, une officine plus que controversée et soupçonnée de servir de paravent à la CIA. L’association Golos figure également sur la liste des ONG assistées par la National Endowment for Democracy (NED), une fondation qui s’emploie, depuis 1991, à étendre l’influence de Washington dans tout l’espace ex-soviétique et relaie les directives du Conseil de sécurité nationale étatsunien (NSC). Cerise sur le gâteau, les médias russes ont publié un échange mail dans lequel la responsable de Golos demandait aux responsables de l’USAID combien l’ONG pourrait leur facturer « des dénonciations de fraudes et d’abus ». On est ici vraiment loin d’une ONG indépendante !

Qui se cache derrière Alexeï Navalny ?

Bref, tout indique que nous assistons en Russie à une tentative de déstabilisation selon les méthodes bien éprouvées, notamment en Ukraine, des révolutions de couleur. Mais les simples agissements d’une ONG n’auraient pas suffi. Parallèlement à cela, il s’est déployé sur Internet un intense activisme de bloggeurs dont le plus célèbre, Alexeï Navalny, présente un pedigree plus que troublant. Surfant sur la légitime exaspération populaire que suscite en Russie la corruption à tous les niveaux de l’Etat, cet ex-boursicoteur de 35 ans, encore inconnu il y a trois ans, est devenu la figure de proue de l’opposition à Poutine au point d’en faire désormais un candidat crédible à la présidence de la Russie. D’abord proche des Libéraux pro-occidentaux, Navalny a pris part à la « Marche russe », une manifestation annuelle rassemblant les diverses « extrême-droites » russes et organisée par l’ultra-nationaliste Dmitri Demouchkine. Ce surprenant ralliement ne laisse rien au hasard et le journaliste Oleg Kachine l’analyse bien ainsi : « l’opposition libérale peine à rassembler, il va donc chercher les bras là où ils sont, c’est-à-dire auprès des Russes de la classe moyenne qui se sentent menacés par l’immigration».

Seulement voilà, Navalny traine derrière lui des casseroles qui ne manquent pas de plonger les plus sceptiques dans la circonspection. Diplômé de l’université américaine de Yale, il y a suivi le World Fellows Program, un projet créé par le président de l’université Richard Levin en coopération avec l’ancien président mexicain Zedillo (proche de George Soros) afin de « créer un réseau global de leaders émergents ». Ses participants ont l’honneur d’être formés par des agents étatsuniens ou britanniques notoires comme Lord Malloch Brown (ancien du Foreign Office), Aryeh Neier, présidente de l’Open Society Institute de George Soros, ou encore Tom Scholar, l’ancien chef de cabinet de Gordon Brown. Autre révélation à son sujet : après s’être fait piraté sa boite mail, on apprend que Navalny est salarié de l’association américaine NED (toujours elle) et en lien étroit avec Alexandre Belov, le représentant d’une milice xénophobe viscéralement anti Kremlin: l’ex-DPNI. Lorsqu’il s’agit d’alimenter l’instabilité sociale en Russie, toutes les compromissions semblent donc permises ! En outre, nous n’évoquerons pas ici le cas d’Édouard Limonov, gourou punk des Nationaux-bolcheviques russes, dont les gesticulations outrancières et les provocations burlesques auront finalement fait le jeu du très discrédité libéral Garry Kasparov avec qui il finira par s’allier au mépris de toute cohérence politique élémentaire. Sur ce point nous renvoyons nos lecteurs à l’excellent livre d’Emmanuel Carrère « Limonov », aux éditions POL.

Que pèsent réellement les Libéraux ?

Sans s’étendre sur les finalités géopolitiques et économiques attendues d’un telle déstabilisation, il est permis de douter des progrès démocratiques qui pourraient en ressortir. Rappelons que le rapport des forces en Russie est largement défavorable au courant libéral, et ce de manière écrasante. Le parti Iabloko* plafonne à 4% dans les sondages et peine à mobiliser parmi la population russe, même issue de la classe moyenne. Hormis les libéraux minoritaires, l’ensemble des forces politiques ayant pignon sur rue en Russie sont farouchement anti-occidentales. C’est d’ailleurs la seule position commune par-delà le caractère extrêmement hétéroclite des participants aux grands rassemblements de contestation du 11 et 24 décembre – 30.000 et 50.000 manifestants à Moscou, ce qui reste un succès très relatif pour une agglomération de 14 millions d’habitants. On pouvait y voir en grande majorité des Ultra-nationalistes, des Monarchistes russes, des Communistes radicaux du Front de gauche, quelques Anarchistes, des Nationaux-bolcheviques et, noyés au milieu de tout ça, une maigrichonne poignée de Libéraux esseulés. Pire encore, lors du rassemble du 24 décembre dernier, les principales personnalités du courant libéral comme Garry Kasparov ou Alexeï Koudrine ont été copieusement huées par la foule.

Seul l’intrigant Alexeï Navalny semble jouir d’une réelle célébrité en jouant des malentendus et en surfant sur l’exaspération populaire contre la corruption. On est vraiment loin de ce vent libéral et démocratique chanté par les médias occidentaux. Rappelons également que les leaders du KRPF** (parti communiste) et du LDPR** (nationalistes) – qui ne se sont pas privés de contester les résultats des élections législatives – ont qualifié le rassemblement du 12 décembre de « bêtise orange » et de « machination des services secrets américains ». Rien n’indique donc que la déstabilisation profiterait in fine aux forces pro-occidentales. Ce serait même certainement tout le contraire qui adviendrait. La Russie reste un pays convalescent en proie à de vieux démons. La corruption est endémique et les mafias restent puissantes. A l’instar des révolutions arabes, une révolution des neiges ne ferait qu’ouvrir un boulevard aux franges les plus extrémistes et incontrôlables de la société russe.

Olrik

* Parti libéral russe dont la plupart des leaders sont, soit comme Vladimir Ryzhkov salariés par la NED, soit comme Boris Nemtsov en contact régulier avec des sbires du milliardaire américain George Soros.

** Le KRPF et le LDPR sont avec Russie juste (gauche nationaliste) les trois organisations ayant rassemblé suffisamment de suffrages pour siéger au nouveau parlement. Toutes trois, quoiqu’opposées à Russie unie, sont farouchement nationalistes et anti-occidentales.

Guerre de Crimée, première guerre moderne

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Dirk WOLFF-SIMON:

Guerre de Crimée, première guerre moderne

L’historien britannique Orlando Figes vient de dresser un bilan étonnant de la Guerre de Crimée

La seconde moitié du 19ème siècle a été essentiellement ébranlée par trois faisceaux de faits guerriers qui, selon les historiens militaires, ont marqué de manière déterminante l’évolution ultérieure des guerres: il s’agit de la Guerre de Crimée (1853-1856), de la Guerre civile américaine (1861-1865) et les guerres prussiennes/allemandes (Guerre contre le Danemark en 1864, Guerre inter-allemande de 1866 et Guerre franco-allemande de 1870/71).

Pour l’historien anglais Orlando Figes, la Guerre de Crimée, que l’on avait quasiment oubliée, n’est pas un de ces innombrables conflits qui ont marqué le 19ème siècle mais au contraire son conflit central, dont les conséquences se font sentir aujourd’hui encore. Elle a coûté la vie à près d’un million d’êtres humains, a modifié l’ordre politique du monde et a continué à déterminer les conflictualités du 20ème siècle. De nouvelles impulsions d’ordre technique ont animé le déroulement de ce conflit et par là même révolutionné les affrontements militaires futurs de manière fondamentale. Les conséquences techniques de ces innovations se sont révélées très nettement lors de la guerre civile américaine, survenue quelques années plus tard à  peine. Déjà, cette Guerre dite de Sécession annonçait les grandes guerres entre peuples du siècle prochain.

Orlando Figes a récemment consacré un livre à ce chapitre négligé de l’histoire européenne, où la Russie a dû affronter une alliance entre la Turquie, la France et l’Angleterre (O. Figes, “Crimea”, Penguin, Harmondsworth, 2nd ed., 2011). Il nous rappelle fort opportunément que cette guerre a bel et bien constitué le seuil de nos temps présents et un conflit annonçant les grandes conflagrations du 20ème siècle. L’enjeu de ce conflit est bien sûr d’ordre géopolitique mais ses prémisses recèlent également des motivations religieuses de premier plan. Cette guerre a commencé en 1853 par de brèves escarmouches entre troupes turques et russes sur le Danube et en Mer Noire. Elle a pris de l’ampleur au printemps de 1854 quand des armées françaises et anglaises sont venues soutenir les Turcs. Dès ce moment, le conflit, d’abord régional et marginal, dégénère en une guerre entre grandes puissances européennes, qui aura de lourdes conséquences.

Généralement, quand on parle de la Guerre de Crimée, on ne soupçonne plus trop la dimension mondiale qu’elle a revêtu ni l’importance cruciale qu’elle a eu pour l’Europe, la Russie et pour toute cette partie du monde, où, aujourd’hui, nous retrouvons toutes les turbulences contemporaines, dues, pour une bonne part, à la dissolution de l’Empire ottoman: des Balkans à Jérusalem et de Constantinople au Caucase. A l’époque le Tsar russe se sentait appelé à défendre tous les chrétiens orthodoxes se rendant sur les sites de pélèrinage en Terre Sainte; pour lui, la Russie devait se poser comme responsable de leur sécurité, option qui va donner au conflit toute sa dimension religieuse.

Au-delà de la protection à accorder aux pèlerins, le Tsar estimait qu’il était de son devoir sacré de libérer tous les Slaves des Balkans du joug ottoman/musulman. En toute bonne logique britannique, Orlando Figes pose, pour cette raison, le Tsar Nicolas I comme “le principal responsable du déclenchement de cette guerre”. Il aurait été “poussé par une fierté et une arrogance exagérées” et aurait conduit son peuple dans une guerre désastreuse, car il n’avait pas analysé correctement la situation. “En première instance, Nicolas I pensait mener une guerre de religion, une croisade découlant de la mission russe de défendre les chrétiens de l’Empire ottoman”. Finalement, ce ne sont pas tant des Russes qui ont affronté des Anglais, des Français et des Turcs mais des Chrétiens orthodoxes qui ont affronté des catholiques français, des protestants anglais et des musulmans turcs.

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Orlando Figes a réussi, dans son livre, à exhumer les souvenirs confus de cette guerre en retrouvant des témoignages de l’époque. Certains épisodes de cette guerre, bien connus, comme le désastre de la “charge de la brigade légère” ou le dévouement de l’infirmière anglaise Florence Nightingale ou encore les souvenirs du jeune Léon Tolstoï, présent au siège de Sébastopol, sont restitués dans leur contexte et arrachés aux brumes de la nostalgie et de l’héoïsme fabriqué. Son récit sent le vécu et restitue les événements d’alors dans le cadre de notre réalité contemporaine.

Sous bon nombre d’aspects, la Guerre de Crimée a été une guerre conventionnelle de son époque, avec utilisation de canons, de mousquets, avec ses batailles rangées suivant des critères fort stricts de disposition des troupes. Mais, par ailleurs, cette Guerre de Crimée peut être considérée comme la première guerre totale, menée selon des critères industriels. Il faut aussi rappeller qu’on y a utilisé pour la première fois des navires de guerre mus par la vapeur et que c’est le premier conflit qui a connu la mobilisation logistique du chemin de fer. D’autres moyens modernes ont été utilisés, qui, plus tard, marqueront les conflits du 20ème siècle: le télégraphe, les infirmières militaires et les correspondants de guerre qui fourniront textes et images.

Les batailles fort sanglantes de la Guerre de Crimée ont eu pour corollaire une véritable mutation des mentalités dans le traitement des blessés. La décision de la première convention de Genève de 1864, prévoyant de soigner les blessés sur le champ de bataille, de les protéger et de les aider, est une conséquence directe des expériences vécues lors de la Guerre de Crimée. La procédure du triage des blessés, où les médecins présents sur place répartissent ceux-ci en différentes catégories, d’après la gravité de leur cas et la priorité des soins à apporter, selon la situation, a été mise au point à la suite des expériences faites lors de la Guerre de Crimée par le médecin russe Nikolaï Ivanovitch Pirogov. L’infirmière britannique Florence Nightingale oeuvra pour que le traitement des blessés, qui laissait à désirer dans l’armée anglaise, soit dorénavant organisé de manière rigoureuse. Figes rend hommage à cette icône de l’ère victorienne en rappellant que ses capacités se sont surtout révélées pertinentes dans l’organisation des services sanitaires.

Des 750.000 soldats qui périrent lors de la Guerre de Crimée, deux tiers étaient russes. Les civils qui moururent de faim, de maladies ou à la suite de massacres ou d’épurations ethniques n’ont jamais été comptés. On estime leur nombre entre 300.000 et un demi million. Figes évoque également la “Nightingale russe”, Dacha Mikhaïlova Sevastopolskaïa. Dacha, comme l’appelaient les soldats, avait vendu tous ses biens tout au début de la guerre pour acheter un attelage et des vivres: elle rejoignit les troupes russes et construisit le premier dispensaire pour blessés de l’histoire militaire russe. Sans se ménager, elle soigna les blessés pendant le siège de Sébastopol. A la fin de la guerre, elle fut la seule femme de la classe ouvrière à recevoir la plus haute décoration du mérite militaire.

Le principal but de la guerre, pour les Français et les Anglais, était de vaincre totalement la Russie. C’est pourquoi le siège de Sébastopol, havre de la flotte russe de la Mer Noire, constitua l’opération la plus importante du conflit. Le 8 septembre 1855, le port pontique tombe. Et Léon Tolstoi écrit: “J’ai pleuré quand j’ai vu la ville en flammes et les drapeaux français hissés sur nos bastions”. Tolstoï était officier combattant et rédigea, après les hostilités, ses “Souvenirs de Sébastopol”. Un officier français, quant à lui, note dans son journal: “Nous ne vîmes riens des effets de notre artillerie, alors que la ville fut littéralement broyée; il n’y avait plus aucune maison épargnée par nos tirs, plus aucun toit et tous les murs furent détruits”.

Lors des négociations de paix, la Russie n’a pas dû céder grand chose de son territoire mais elle a été profondément humiliée et meurtrie par les clauses du traité. En politique intérieure, l’humiliation eu pour effet les premières réformes qui impliquèrent une modernisation de l’armée et la suppression du servage. Sur le plan historique, il a fallu attendre 1945 pour que la Russie retrouve une position de grande puissance pleine et entière en Europe. Tolstoï l’avait prédit: “Pendant fort longtemps, cette épopée-catastrophe de Sébastopol, dont le héros fut le peuple russe, laissera des traces profondes dans notre pays”. Orlando Figes a réussi à réveiller chez ses lecteurs les souvenirs et les mythes de ce conflit oublié.

Dirk WOLFF-SIMON.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°49/2011; http://www.jungefreiheit.de/ ).

Version allemande du livre d’Orlando Figes: Krimkrieg. Der letzte Kreuzzug, Berlin Verlag, Berlin, 2011, 747 p., 36 euro.

criméegouttmann.gifEn français, on lira avec autant de profit le livre tout aussi exhaustif d’Alain Gouttmann, La Guerre de Crimée 1853-1856. La première guerre moderne, Perrin, Paris, 2003.

 

Gouttmann évoque l’émergence d’un “nouvel ordre international”, suite à cette Guerre de Crimée.

 

 

 

Réflexions sur les manifestations en Russie

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Alexandre Latsa:

Réflexions sur les manifestations en Russie

Ex: http://fr.rian.ru/

L’année 2011 se termine et avec elle un mois de décembre placé sous le signe des  manifestations politiques. Rappelons les faits: suite aux élections du 04 décembre 2012 qui ont entraîné une baisse de Russie Unie et une forte hausse des partis nationalistes ou de gauche, des fraudes électorales ont été dénoncées. Ces fraudes auraient permis au parti au pouvoir et disposant de la ressource administrative, de gonfler son score et de fausser les résultats. Pourtant, près de deux semaines après les élections, alors que des enquêtes sont en cours suite aux plaintes déposées, le nombre de fraudes recensées dans le pays y compris Moscou ne semble pas avoir faussé notablement le scrutin, dont les résultats sont conformes aux nombreux sondages et estimations d’avant et d’après vote.

Revenons aux manifestations: Le 10 décembre 2011, un grand meeting unitaire  d’opposition avait lieu à Moscou, rassemblant 30 à 40.000 personnes. J’ai déjà décrit la relative incohérence politique de cette manifestation qui rassemblait côte à côte des membres de la jeunesse dorée Moscovite, des nationalistes radicaux, des antifascistes, ainsi que des libéraux et des communistes. Souhaiter le départ à la retraite de Vladimir Poutine n’est pas un programme politique, et quand à la tenue de nouvelles élections, on se demande en quoi elle concerne des dizaines de sous-groupuscules politiques non candidats à la représentation  nationale. 

Le 17 décembre le parti d’opposition libérale Iabloko a rassemblé quelques 1.500 partisans, alors que le meme jour qu’un millier de sympathisants du mouvement eurasien et du syndicat des citoyens russes (Профсоюз Граждан России) se réunissaient pour dénoncer les manipulations oranges et rappeler la nécessité d’un état fort. Le lendemain, le 18 décembre, ce sont près de 3.500 militants du parti Communiste qui se sont réunis. Le 10 décembre, lors de la grosse manifestation dopposition, l’un des leaders de l’opposition liberale, Mikhaïl Kassianov, avait affirmé que "Si aujourd'hui nous sommes 100.000, cela pourrait être 1.000.000 demain". Celui ci a appelé à un printemps politique en Russie, un discours étrangement similaire à celui de l’excessif républicain John Mc Cain ces dernières semaines. Pour autant aucune marée humaine n’a  déferlé dans les villes du pays, au grand dam de nombre de  commentateurs occidentaux qui annonçaient déjà l’Armageddon en Russie, et c’est seulement une neige abondante qui a recouvert le pays le 24 décembre, jour de la manifestation unitaire.

Cette journée du 24 décembre n’aura finalement été un succès qu’a Moscou. En province, dans les autres villes de Russie, la mobilisation aura faibli par rapport aux rassemblements du 10 décembre. A Vladivostok, la manifestation a réuni 150 personnes, contre 450 le 10 décembre. A Novossibirsk 800 personnes ont défilé contre 3.000 le 10 décembre. A Tcheliabinsk dans l’Oural, les manifestants étaient moins de 500 contre 1.000 le 10 décembre, à Iekaterinbourg 800 personnes ont manifesté contre 1.000 le 10 décembre dernier. A Oufa, 200 manifestants se sont rassemblés, soit autant que le 10 décembre. Enfin 500 personnes ont défilé à Krasnoïarsk contre 700 le 10 décembre. Notons qu’à Saint-Pétersbourg, haut lieu de la contestation et bastion libéral en Russie, de 3 a 4.000 personnes ont défilé, contre près de 10.000 le 10 décembre dernier. (Sources : Ria-Novosti et Ridus.ru).

Dans la capitale le 24 décembre, 3 meetings différents ont eu lieu. 2.000 nationalistes du parti nationaliste Libéral-Démocrate de Vladimir Jirinovski, et 3.000 sympathisants du politologue Sergueï Kurginyan ont manifesté séparément pour répondre à la "peste orange". Enfin et surtout dans ce qui est sans doute le plus gros meeting d’opposition de l’année, avenue Sakharov, ce sont 40 à 50.000 personnes qui se sont rassemblées. La manifestation de Moscou s’est déroulée sans incidents notables, si ce n’est à la fin du meeting, quand des radicaux d’extrême droite ont tenté de monter sur la tribune en force, alors même que le leader ultra nationaliste Vladimir Tor (dirigeant du mouvement NazDems) avait pris la parole quelques minutes auparavant. On peut du reste se demander pourquoi les nombreux journalistes occidentaux présents n’ont pas relevé le fait que plusieurs milliers de jeunes nationalistes radicaux sifflaient ou criaient "russophobe" en direction de certains orateurs de diverses confessions et scandaient  des slogans tels que: "les russes ethniques de l'avant", ou "donnez la parole aux russes ethniques". Un deux poids deux mesures pour le moins surprenant.

Dans le pays et donc surtout à Moscou, les rassemblements du 24 décembre ont tourné à la  cacophonie politique totale. Les meetings ont de nouveau rassemblé  toutes les composantes politiques les plus improbables, des nationalistes radicaux aux antifascistes, en passant par les libéraux, les staliniens, les activistes gays et lesbiennes ou quelques stars du Show Business russe. Plus surprenant, toujours lors de la manifestation de Moscou, la présence du milliardaire Prokhorov et de l’ancien ministre des finances Aleksei Koudrine, pourtant proche de Vladimir Poutine. Aleksei Koudrine a d’ailleurs pris la parole, ajoutant à la cacophonie ambiante et déclenchant un record de sifflements du public. Pour la première fois un député d’opposition très connu a  mis le doigt sur cette désunion systémique de la soi disant opposition, en quittant la manifestation avant même de prendre la parole. Même son de cloche pour  l’analyste politique Vitali Ivanov, pour qui l'opposition à Vladimir Poutine est une nébuleuse qui mène des conversations de cuisine.

La prochaine grande journée de manifestation devrait avoir lieu en févier, c’est à dire pendant le mois précédant l’élection présidentielle du 4 mars 2012. Pour autant, on imagine difficilement comment Vladimir Poutine ne serait pas réélu et tout d’abord au vu de la situation économique que connaît le pays. La croissance du PIB devrait frôler les 4,5% en 2011 et sans doute autant en 2012. Le taux de chômage est descendu à 6,3%, la dette du pays est faible, inférieure a 10% du PIB, et les réserves de change sont d’environ 500 milliards de Dollars. L’inflation est à la baisse, estimée pour cette année à 6,5% soit son plus faible niveau depuis 20 ans. La Russie est aujourd’hui la 10ieme économie du monde en produit intérieur brut nominal et la 6eme économie mondiale à parité de pouvoir d'achat. Selon les analyses du centre de recherche britannique CBER la Russie devrait être la 4ieme économie de la planète aux environ 2020.

Il est donc très difficile d’imaginer comment la personne jugée directement responsable de ce redressement économique par la majorité des citoyens pourrait ne pas être réélue. Bien sur il est plausible que la vague de mécontentement se reflète dans les scores de la présidentielle de mars 2012, et que Vladimir Poutine ne soit pas élu au premier tour avec 71% des voix, comme en 2004, ou avec 72% des voix, comme Dimitri Medvedev en 2008, dans une Russie en totale euphorie économique. Celui ci devra probablement envisager un score plus proche de celui de mars 2000 (Vladimir Poutine avait obtenu 52% des voix) voire se préparer à un second tour. Si tel est était le cas, il y affronterait probablement le candidat du parti communiste, Guennadi Ziouganov. Un choix cornélien pour les occidentaux, mais qui refléterait parfaitement la tendance électorale initiée par les dernières élections législatives russes qui ont vu les partis de gauche augmenter fortement leur poids électoral.

L’opinion de l’auteur ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction.

 

* Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie". Il collabore également avec l'Institut de Relations Internationales et Stratégique (IRIS), l'institut Eurasia-Riviesta, et participe à diverses autres publications.

American Psychosis: What happens to a society that cannot distinguish between reality and illusion?…

American Psychosis: What happens to a society that cannot distinguish between reality and illusion?…

By Chris Hedges.

Ex: http://www.attackthesystem.com/

 

american_contact_lenses.jpgThe United States, locked in the kind of twilight disconnect that grips dying empires, is a country entranced by illusions. It spends its emotional and intellectual energy on the trivial and the absurd. It is captivated by the hollow stagecraft of celebrity culture as the walls crumble. This celebrity culture giddily licenses a dark voyeurism into other people’s humiliation, pain, weakness and betrayal. Day after day, one lurid saga after another, whether it is Michael Jackson, Britney Spears or John Edwards, enthralls the country … despite bank collapses, wars, mounting poverty or the criminality of its financial class.

The virtues that sustain a nation-state and build community, from honesty to self-sacrifice to transparency to sharing, are ridiculed each night on television as rubes stupid enough to cling to this antiquated behavior are voted off reality shows. Fellow competitors for prize money and a chance for fleeting fame, cheered on by millions of viewers, elect to “disappear” the unwanted. In the final credits of the reality show America’s Next Top Model, a picture of the woman expelled during the episode vanishes from the group portrait on the screen. Those cast aside become, at least to the television audience, nonpersons. Celebrities that can no longer generate publicity, good or bad, vanish. Life, these shows persistently teach, is a brutal world of unadulterated competition and a constant quest for notoriety and attention.

Our culture of flagrant self-exaltation, hardwired in the American character, permits the humiliation of all those who oppose us. We believe, after all, that because we have the capacity to wage war we have a right to wage war. Those who lose deserve to be erased. Those who fail, those who are deemed ugly, ignorant or poor, should be belittled and mocked. Human beings are used and discarded like Styrofoam boxes that held junk food. And the numbers of superfluous human beings are swelling the unemployment offices, the prisons and the soup kitchens.

It is the cult of self that is killing the United States. This cult has within it the classic traits of psychopaths: superficial charm, grandiosity and self-importance; a need for constant stimulation; a penchant for lying, deception and manipulation; and the incapacity for remorse or guilt. Michael Jackson, from his phony marriages to the portraits of himself dressed as royalty to his insatiable hunger for new toys to his questionable relationships with young boys, had all these qualities. And this is also the ethic promoted by corporations. It is the ethic of unfettered capitalism. It is the misguided belief that personal style and personal advancement, mistaken for individualism, are the same as democratic equality. It is the nationwide celebration of image over substance, of illusion over truth. And it is why investment bankers blink in confusion when questioned about the morality of the billions in profits they made by selling worthless toxic assets to investors.

We have a right, in the cult of the self, to get whatever we desire. We can do anything, even belittle and destroy those around us, including our friends, to make money, to be happy and to become famous. Once fame and wealth are achieved, they become their own justification, their own morality. How one gets there is irrelevant. It is this perverted ethic that gave us investment houses like Goldman Sachs … that willfully trashed the global economy and stole money from tens of millions of small shareholders who had bought stock in these corporations for retirement or college. The heads of these corporations, like the winners on a reality television program who lied and manipulated others to succeed, walked away with hundreds of millions of dollars in bonuses and compensation. The ethic of Wall Street is the ethic of celebrity. It is fused into one bizarre, perverted belief system and it has banished the possibility of the country returning to a reality-based world or avoiding internal collapse. A society that cannot distinguish reality from illusion dies.

The tantalizing illusions offered by our consumer culture, however, are vanishing for most citizens as we head toward collapse. The ability of the corporate state to pacify the country by extending credit and providing cheap manufactured goods to the masses is gone. The jobs we are shedding are not coming back, as the White House economist Lawrence Summers tacitly acknowledges when he talks of a “jobless recovery.” The belief that democracy lies in the choice between competing brands and the accumulation of vast sums of personal wealth at the expense of others is exposed as a fraud. Freedom can no longer be conflated with the free market. The travails of the poor are rapidly becoming the travails of the middle class, especially as unemployment insurance runs out. And class warfare, once buried under the happy illusion that we were all going to enter an age of prosperity with unfettered capitalism, is returning with a vengeance.

America is sinking under trillions in debt it can never repay and stays afloat by frantically selling about $2 billion in Treasury bonds a day to the Chinese. It saw 2.8 million people lose their homes in 2009 to foreclosure or bank repossessions – nearly 8,000 people a day – and stands idle as they are joined by another 2.4 million people this year. It refuses to prosecute the Bush administration for obvious war crimes, including the use of torture, and sees no reason to dismantle Bush’s secrecy laws or restore habeas corpus. Its infrastructure is crumbling. Deficits are pushing individual states to bankruptcy and forcing the closure of everything from schools to parks. The wars in Iraq and Afghanistan, which have squandered trillions of dollars, appear endless. There are 50 million Americans in real poverty and tens of millions of Americans in a category called “near poverty.” One in eight Americans – and one in four children – depend on food stamps to eat. And yet, in the midst of it all, we continue to be a country consumed by happy talk and happy thoughts. We continue to embrace the illusion of inevitable progress, personal success and rising prosperity. Reality is not considered an impediment to desire.

When a culture lives within an illusion it perpetuates a state of permanent infantilism or childishness. As the gap widens between the illusion and reality, as we suddenly grasp that it is our home being foreclosed or our job that is not coming back, we react like children. We scream and yell for a savior, someone who promises us revenge, moral renewal and new glory. It is not a new story. A furious and sustained backlash by a betrayed and angry populace, one unprepared intellectually, emotionally and psychologically for collapse, will sweep aside the Democrats and most of the Republicans and will usher America into a new dark age. It was the economic collapse in Yugoslavia that gave us Slobodan Milosevic. It was the Weimar Republic that vomited up Adolf Hitler. And it was the breakdown in Tsarist Russia that opened the door for Lenin and the Bolsheviks. A cabal of proto-fascist misfits, from Christian demagogues to loudmouth talk show hosts, whom we naïvely dismiss as buffoons, will find a following with promises of revenge and moral renewal. And as in all totalitarian societies, those who do not pay fealty to the illusions imposed by the state become the outcasts, the persecuted.

The decline of American empire began long before the current economic meltdown or the wars in Afghanistan and Iraq. It began before the first Gulf War or Ronald Reagan. It began when we shifted, in the words of Harvard historian Charles Maier, from an “empire of production” to an “empire of consumption.” By the end of the Vietnam War, when the costs of the war ate away at Lyndon Johnson’s Great Society and domestic oil production began its steady, inexorable decline, we saw our country transformed from one that primarily produced to one that primarily consumed. We started borrowing to maintain a level of consumption as well as an empire we could no longer afford. We began to use force, especially in the Middle East, to feed our insatiable thirst for cheap oil. We substituted the illusion of growth and prosperity for real growth and prosperity. The bill is now due. America’s most dangerous enemies are not Islamic radicals but those who sold us the perverted ideology of free-market capitalism and globalization. They have dynamited the very foundations of our society. In the 17th century these speculators would have been hung. Today they run the government and consume billions in taxpayer subsidies.

As the pressure mounts, as the despair and desperation reach into larger and larger segments of the populace, the mechanisms of corporate and government control are being bolstered to prevent civil unrest and instability. The emergence of the corporate state always means the emergence of the security state. This is why the Bush White House pushed through the Patriot Act (and its renewal), the suspension of habeas corpus, the practice of “extraordinary rendition,” warrantless wiretapping on American citizens and the refusal to ensure free and fair elections with verifiable ballot-counting. The motive behind these measures is not to fight terrorism or to bolster national security. It is to seize and maintain internal control. It is about controlling us.

And yet, even in the face of catastrophe, mass culture continues to assure us that if we close our eyes, if we visualize what we want, if we have faith in ourselves, if we tell God that we believe in miracles, if we tap into our inner strength, if we grasp that we are truly exceptional, if we focus on happiness, our lives will be harmonious and complete. This cultural retreat into illusion, whether peddled by positive psychologists, by Hollywood or by Christian preachers, is magical thinking. It turns worthless mortgages and debt into wealth. It turns the destruction of our manufacturing base into an opportunity for growth. It turns alienation and anxiety into a cheerful conformity. It turns a nation that wages illegal wars and administers offshore penal colonies where it openly practices torture into the greatest democracy on earth. And it keeps us from fighting back.

Resistance movements will have to look now at the long night of slavery, the decades of oppression in the Soviet Union and the curse of fascism for models. The goal will no longer be the possibility of reforming the system but of protecting truth, civility and culture from mass contamination. It will require the kind of schizophrenic lifestyle that characterizes all totalitarian societies. Our private and public demeanors will often have to stand in stark contrast. Acts of defiance will often be subtle and nuanced. They will be carried out not for short term gain but the assertion of our integrity. Rebellion will have an ultimate if not easily definable purpose. The more we retreat from the culture at large the more room we will have to carve out lives of meaning, the more we will be able to wall off the flood of illusions disseminated by mass culture and the more we will retain sanity in an insane world. The goal will become the ability to endure…..

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La metaphysique de la guerre

La métaphysique de la guerre

par Kerry Bolton

Ex: http://www.counter-currents.com/

medium_chevalier.jpgIl y a un fond commun à toutes les civilisations basées sur la tradition, remontant à des siècles dans le passé et incluant géographiquement les civilisations nées en Asie, en Europe, et même jusqu’en Amérique centrale et en Amérique du Sud. La base de la civilisation traditionnelle est la création de l’ordre à partir du chaos, comme manifestation cosmique et divine. C’est pourquoi la civilisation elle-même était un produit du cosmique, et tous ses aspects avaient une signification métaphysique. Le « droit divin » des rois plaçait la  souveraineté bien au-dessus de la simple politique au sens moderne : le souverain représentait le point central autour duquel gravitaient les parties les plus lointaines des empires. Une autre marque de la civilisation traditionnelle était l’institution des castes qui étaient également  ordonnées d’une manière divine et cosmique : car la caste de quelqu’un représentait sa condition spirituelle, qui avait été pré-ordonnée avant sa naissance physique. Franchir la limite de sa caste revenait à devenir littéralement un « hors caste » ou paria, inférieur même à l’esclave.

La caste guerrière était la plus estimée du point de vue cosmique, car le guerrier était davantage qu’un « soldat » au sens moderne du mot ; il était un guerrier cosmique dont le devoir dharmique (pour utiliser un mot hindou qui a sa contrepartie dans toutes les civilisations traditionnelles) reflétait l’action des dieux eux-mêmes puisque le guerrier  établissait l’ordre dans le royaume terrestre, de même que les dieux avaient triomphé des forces du chaos et établi l’« ordre » en créant le cosmos.

Guerre sainte

Avec cette analogie ésotérique entre le guerrier terrestre et le héros divin, la guerre devenait la guerre sainte, une action transcendant le terrestre et transformant magiquement le guerrier en un être spirituel. La guerre devenait ainsi « la voie du divin ». La caste guerrière avait ses propres rites religieux. Les samouraïs japonais, par exemple, étaient inspirés par le Zen. Les guerriers nordiques étaient dévoués à Odin, Thor ou Tyr. Les guerriers perses et plus tard romains étaient dévoués à Mithra. Krishna enseigna à Arjuna la doctrine guerrière de la violence détachée, qui transforme la bataille en guerre sainte et Arjuna en guerrier divin.

Pour le guerrier des civilisations traditionnelles, la spiritualité de la guerre garantissait la bénédiction de la divinité. Le guerrier qui était tué à la bataille atteignait souvent lui-même l’état divin, ou atteignait du moins la demeure des dieux, pour habiter parmi eux en tant que guerrier divin. Pour les Aztèques, le plus haut siège d’immortalité, la « Maison du Soleil », était le lieu de résidence non seulement des rois mais aussi des héros. Le guerrier hellénique atteignait l’Olympe en tant que héros divin, alors que les autres allaient dans la pénombre de l’Hadès. De même, les guerriers nordiques tués à la bataille continuaient à combattre et à festoyer avec les dieux Ases au Walhalla, pendant que les autres habitaient dans Hel. Le guerrier islamique dont l’âme était purifiée par le djihad habitait au paradis, de même que leurs homologues européens, les chevaliers des Croisades.

Chevalerie

A travers la guerre, les pulsions humaines et chaotiques du guerrier ainsi que son attachement aux choses matérielles étaient transcendés, et son âme était purifiée. C’est le thème commun de l’éthique spirituelle et guerrière de tous les ordres de chevalerie, dans toutes les civilisations traditionnelles. La guerre était la grande initiation, le rite sacré transcendant la condition humaine inférieure.

Le djihad était appelé le Sentier d’Allah. Le Coran dit : « Que ceux qui veulent échanger la vie contre l’Au-delà combattent pour la cause d’Allah ; qu’ils meurent ou qu’ils vainquent, Nous leur donnerons une riche récompense ». Et aussi : « Vous avez l’obligation de combattre, même si cela vous déplaît ». Le détachement personnel conseillé par le Coran est précisément celui que Krishna enseigne à Arjuna, le chef de la caste des kshatriyas : « Offre-moi toutes tes actions et repose ton esprit sur le Suprême ; libéré des vains espoirs et des pensées égoïstes, délivré du doute, jette-toi dans le combat ».

Deux formes de chevalerie se rencontrèrent au Moyen Orient, représentant la même éthique. Pour les Croisés, il ne s’agissait pas d’un combat politique mais d’une guerre sainte qui transcenda bientôt les résultats matériels et les rivalités nationales et politiques, unissant les Européens en un bloc unitaire que l’Occident n’avait pas connu depuis l’Empire romain. De nouveau, la guerre sacrée devenait un moyen d’initiation intérieure, de transcendance ésotérique. A l’époque, la Croisade était décrite en termes métaphysiques analogues à ceux de l’islam et de l’hindouisme : « Une purification qui est presque un feu du purgatoire, qu’on connaît avant la mort ». Saint Bernard fit l’éloge de la gloire de gagner sur le champ de bataille « une couronne immortelle ». Jérusalem était une cité céleste, un point central de la civilisation de l’Occident, de même que toutes les civilisations et tous les empires traditionnels avaient eu un centre. L’éthique spirituelle et guerrière des Croisades s’exprimait dans des maximes comme « Le paradis est à l’ombre des épées » ; et « le sang des guerriers est plus proche de Dieu que l’encre des savants et les prières des dévots ».

Eclipse de la chevalerie

Aujourd’hui, la civilisation occidentale est entrée dans sa phase de mort. Ce n’est pas une civilisation au sens traditionnel ; c’est pourquoi l’éthique spirituelle de la guerre a disparu. La Première Guerre Mondiale, en dépit de la mécanisation de masse et des motifs économiques bassement matérialistes, fut la dernière guerre à présenter des vestiges de chevalerie traditionnelle dans les deux camps ; ces vestiges se manifestèrent par la fraternisation entre combattants ennemis le Jour de Noël, et plus symboliquement par les honneurs rendus aux aviateurs ennemis tués au combat.

La Seconde Guerre Mondiale refléta la nature vile et non-chevaleresque de la guerre non-traditionnelle par excellence : les bombardements de saturation des Alliés sur des villes comme Dresde ; et une motivation purement basée sur une vengeance talmudique étrangère, se manifestant par l’exécution des chefs politiques et militaires des nations vaincues, à Nuremberg [1] et dans des procès similaires.

Dans une certaine mesure, la Waffen SS peut se comparer aux ordres de chevalerie des Croisades ; ce fut la seule formation militaire de la guerre dont l’éthique était fondée sur l’honneur (« Notre honneur s’appelle fidélité »), et en particulier sur le sens de la guerre « sainte » qui transcenda les frontières nationales et attira des volontaires venant de toute l’Europe, tout comme les Croisades l’avaient fait (on pourrait arguer que, dans un sens totalement différent, certains Juifs la considérèrent aussi comme une « guerre sainte »). Si la Waffen SS fut le dernier vestige de la caste guerrière traditionnelle à se manifester dans la civilisation occidentale [2], alors l’incarnation même de la décadence de l’Occident fut sûrement les GI’s américains paradant à travers l’Europe, pillant les trésors culturels [3], violant, détruisant au marteau les sculptures d’Arno Breker qui avaient décoré les jardins publics d’Allemagne, puis se retirant du Vietnam dans l’humiliation et la stupeur des drogués un demi-siècle plus tard.

Notes du traducteur

1. Les chefs nazis furent pendus en octobre 1946, pendant la période de la fête juive de Sukkot (Fête des Cabanes) ; en mars 1953, six ans et demi plus tard, Staline connut une mort suspecte (et opportune) pendant la fête juive de Pourim…

2. Deux réflexions à ce sujet : « Il ne resta aux survivants que la persécution et la répression. Mais on peut parler d’un échec très relatif, et celui qui connaît le sens de la Guerre Sainte sait à quoi nous faisons allusion… » (Ernesto Milà, Nazisme et ésotérisme, 1990). Et aussi : « C’était le prix à payer, le prix du passage » (Jean-Paul Bourre, Le Graal et l’Ordre Noir, Déterna 1999).

3. Plus récemment les GI’s firent la même chose, en pire, avec les trésors archéologiques de l’Irak. En outre ils passèrent au bulldozer la tombe de Michel Aflak, le fondateur (chrétien !) du parti Baas, et mirent à leur tableau de chasse un nombre exceptionnel de journalistes.

Article paru dans le magazine néo-zélandais The Nexus, n° 8, mai 1997.

Lectures conseillees

– Bhagavad-Gita (si possible la traduction d’Anna Kamensky, une des meilleures)

Métaphysique de la guerre (Julius Evola, brochure)

La doctrine aryenne du combat et de la victoire (Julius Evola, brochure)

 


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vendredi, 30 décembre 2011

Een hedendaagse Russische Sneeuwrevolutie?

Een hedendaagse Russische Sneeuwrevolutie?

Ex: http://solidarisme.be/

 


Op zaterdag 10 december betoogden duizenden Russen voor meer democratie en eerlijke verkiezingen. In heel Rusland kwamen volgens sommige bronnen tot 150.000 mensen op de straat. Er waren betogingen in onder andere Moskou, Sint-Petersburg, Vladivostok, Ekaterinburg, Sverdlovsk, Vologda, Petrozavodsk, Jaroslavl, Kostroma, Novokuznetsk, Abakan, Ulan-Ude en Chita. Er kwamen mensen bijeen voor de Russische ambassades in o.a. Washington, Den Haag, Kiev en Tallinn. In Moskou alleen al kwamen zo'n 25.000 mensen op de straat om te protesteren. Het plein werd door de politie volledig afgeschermd e beschermd. De mensen moesten omwille van de veiligheid door een metaaldetector. De politie was aldus goed geplaatst om het aantal manifestanten te tellen. Het Moskouse Bolotnayaplein stond wereldwijd centraal op de agenda. Wat is er daar eigenlijk aan de hand? Wie zijn de demonstranten? In dit stuk wordt gesproken over de verkiezingen, de machtsverhoudingen, de Russische geopolitiek en de 'revolutie'.

De geopolitieke denktank Euro-Rus blijft neutraal!

Voor we verder gaan, moet er toch iets belangrijks gezegd worden. De geopolitieke denktank 'Euro-Rus' verbindt zich in geen enkel geval aan een of ander regime. De denktank 'Euro-Rus' propageert bepaalde geopolitieke assen omdat deze nu eenmaal in de belangen van ons volk en de andere Europese volkeren ageren. Doet een bepaald regime iets goeds, dan verdient dit onze steun. Zoniet, dan is het andersom. Eenvoudig maar duidelijk.

Verkiezingen en Westerse (Amerikaanse) controle

Op 4 december organiseerde de Russische staat parlementsverkiezingen. Tijdens deze verkiezingen verloor de heersende partij, Edinaya Rossiya (Verenigd Rusland), redelijk wat terrein. Zij daalden naar 49,3% van de stemmen. Tijdens de laatste verkiezingen behaalde de partij nog 64% van de stemmen. De daling is opmerkelijk. Maar laten we toch niet vergeten dat deze machtspartij nog steeds de helft van de stemmen behaalt. Medvedev, Poetin & co moeten aldus redelijk zwaar inleveren. De uitslag kwam aan als een electroshock. De liberale nationalisten van Zjirinovsky (LDPR) behaalden 12,0% en de (nationalistische!) communisten 19,2%. Het liberale, door de VS gesteunde, Yabloko behaalde amper 3,43% van de stemmen.

We kunnen een ding duidelijk stellen: tijdens elke verkiezing, waar ook ter wereld, wordt gesjoemeld. Men kan ervan uitgaan dat dit aldus ook in Rusland is gebeurd. In Rusland werden ooit kiesurnen in het verre achterland gewoon voor de (verborgen) camera bijgevuld met zakken vol bijkomende stembiljetten. Maar dat zien we tenminste nog, in het Westen vervalst men het resultaat tegenwoordig door middel van computersoftware. Met de computer kan een bepaald systeem veel beter de cijfers vervalsen dan daar waar gestemd wordt met potlood. Indien verkiezingen iets zouden veranderen, dan zou men ze gewoon afschaffen, luidt het adagium hier. George Bush Junior (Bilderbergersfavoriet) werd zo jaren geleden verkozen door enorme fraude met 'ontbrekende' stemmen.

Uiteraard moest het Westen via de OSCE waarnemers sturen om te zien of de verkiezingen wel eerlijk verlopen. Op het net kon men lezen hoe ook Vlaams Belangers (een kleine Vlaamsnationale partij met een uitgesproken anti-Russisch en een pro-USA en pro-Israël-programma) 'her en der fraude hebben vastgesteld' (dixit Peter Logghe, volksvertegenwoordiger Vlaams Belang, van 30 november tot en met 5 december in Rusland). Ook Amerika- en Israëlvriend Tanguy Veys bevond zich in Rusland. Om een goede analyse te maken moet men de lokale taal spreken, hopelijk beheersen de gezegende Europese 'gerechtsdeurwaarders' behoorlijk de Russische taal opdat hun zintuigen de juiste interpretatie konden geven aan wat ze beleefden. De twee laatstgenoemden eisen terecht dat in Vlaanderen het Nederlands wordt gesproken wat betreft de officiële gang van zaken. Consequent met dit principe mag men verwachten dat beide hoffelijke heren het Russisch machtig zijn om ginder ter plaatse de rol van objectieve 'gerechtsdeurwaarder' op zich te nemen. Toch?

'Revolutionaire' lucht

Vorig jaar begreep ik al dat er in Rusland een bepaalde vorm van revolutie in de lucht hing. Op het Manezhnaya (rond het Kremlin) kwamen duizenden jongeren bij elkaar om te protesteren tegen de 'etnische criminaliteit'. Men moet weten dat het aantal immigranten in Moskou jaarlijks zeer sterk toeneemt. Parallel met dit sociaal-economisch fenomeen neemt ook de criminaliteit sterk toe. Toen vorig jaar voor de derde keer in relatief korte tijd een Russische voetbalsupporter door niet-Russen werd vermoord, besloten de Russische jongeren op de straat te komen. In verschillende steden kwamen ze massaal op de straat met het Moskouse Manezhnaya als hoogtepunt, met zo'n 7.000 betogers. De overheid reageerde hier nogal brutaal op. De oproerpolitie handelde zeer hard. Er verschenen foto's waar de Russische oproerpolitie (OMON) Russische vlaggen van de jongeren afnam en deze met de laarzen voor hun neus vernietigden. Het was toen heel duidelijk dat de Russische jeugd op punt staat om de revolutionaire weg op te gaan. De verkeerde reactie van de OMON werkt de revolutionaire drang verder aan.

Hierbij komt nog dat de crisis wereldwijd voelbaar is, dus ook in Rusland. Rusland heeft een ultra-kapitalistisch economisch systeem. 'Geen werk' betekent 'geen inkomen'. Behalve in de regio Moskou en Sint-Petersburg, leeft een belangrijk deel van de Russische bevolking in minder luxueuze omstandigheden.

Langs de andere kant blijven oligarchen miljarden dollars binnenrijven dankzij het verder plunderen van de Russische bodemschatten. Rijkeluis Abramovich kocht, om zijn tijd te verdrijven, een jacht waarmee men met de aankoopsom in een dorp voor iedereen een huis zou kunnen kopen. De Russen weten dit ook. Nu de crisis en de criminaliteit toenemen, neemt ook het gemor en het luider wordend protest toe.

Vergelijkingen met vroeger

We kunnen een historische vergelijking maken. In 1917 maakte het beleid verschillende belangrijke vergissingen. Tsaar Nicolaas II werd door sommigen van zijn entourage opzettelijk geboycot met onder andere een hongersnood tot gevolg. De bureaucraten van de regering van Tsaar Nicolaas II reageerde laks op deze rampzalige situatie. Buitenlandse machten speelden in op de begrijpelijke onvrede. Lenin werd vanuit New York over Zürich, doorheen heel Duitsland, opgestuurd om het regime te vervangen. Deze Amerikaanse putch eindigde in de Russische Oktoberrevolutie. De rode droom van Lenin werd al spoedig een rode nachtmerrie.

Vandaag stellen we vast dat:

enerzijds het Russisch beleid een paar zware vergissingen begaat;

anderzijds de VS door middel van lobbies inspelen op de onvrede.

Men mag ervan uitgaan dat de door de VS geprogrammeerde droom ook in Rusland spoedig een nachtmerrie zal worden. Tot hier onze vergelijking met de Russische Revolutie van 1917.

President Poetin en democratie

Toen president Poetin in het jaar 2000 aan de macht kwam, herbouwde en hervormde hij de Russische staat met enig succes. De chaos die voormalig president Jeltsin naliet, werd omgevormd tot begeleide orde. De Russen zagen hun inkomen en zekerheden stijgen. Rusland bevond zich bij zijn aanstelling onder het economisch niveau van het arme Portugal. In 10 jaar Poetin steeg het gemiddelde inkomen zeer sterk. Vandaag verdient een metrobestuurder 1.500 euro per maand. (Dit heb ik zelf in 2008 al zien uithangen in de metrostations, om exact te zijn 66.000 roebel netto.)

Poetins grootste krachttoer was echter het bij elkaar houden van Rusland. De CIA plande openlijk een verdeling van Rusland en dit ten laatste in 2005. Daarvan kwam gelukkig niets in huis.

De prijs voor het stijgen van de Russische welvaart werd betaald door een mindere aanwezigheid van de 'democratie'. De Russen vonden dit niet zo erg. Ze verkozen zekerheden boven democratie. Toen een tijdje geleden de voedselprijzen enorm begonnen te stijgen, verbood president Poetin elke vorm van prijsverhoging in de winkels.

In het Westen weten we ondertussen al wat dit begrip inhoudt. 'Demo(n)cratie' betekent: de rijken aan de macht. 'Democratie' is het Westen zoals het monster van Loch Ness: iedereen spreekt erover maar niemand heeft het ooit gezien. Het moet gezegd worden: Rusland is nog steeds veel democratischer dan de Europese (Sovjet-)Unie.

De oligarchen bleven en blijven het land wel leegroven. Michail Khodorchovsky werd in de gevangenis gestopt. De man leefde goed met zijn van het volk geplunderde buit en was zo gek om tegen de schenen van de Russische macht te schoppen. Hij vloog per direct naar een Siberische gevangenis en leerde er ondertussen al zelf kousen te stoppen. Andere oligarchen maakten een akkoord met het systeem: braaf zijn opdat er verder mag geplunderd worden. Het Russische volk klom onder Poetin op van heel arm naar redelijk normaal. Een klein deel van de olie-inkomsten vloeide wel door naar het volk. Onder president Jeltsin was dit amper het geval. Dit kleine deel zorgde evenwel voor een enorme kapitaalsinjectie voor de Russische middenklasse. Om de Russische middenklasse vandaag te laten groeien, zijn er echter andere maatregelen nodig. Er moeten veel meer roebels vanuit de boorputten naar het ganse volk doorvloeien. Op dit vlak staan de Russische machtshebbers voor duidelijke keuzes.

Het Kremlin en de Kiescommissie

Het staat als een paal boven water dat het Russische machtssysteem (het Kremlin) heel wat vijanden heeft gemaakt. Zeker in het buitenland (de Verenigde Staten) maar ook in het binnenland. Een van de gevoelige punten, is het Russisch kiessysteem.

Het Russisch kiessysteem wordt geleid door een kiescommissie, een soort 'keuringscentrum'. Wie aan de verkiezingen wil meedoen, moet toestemming krijgen van deze Commissie. De Commissie geeft enkel toelating aan partijen die redelijk ongevaarlijk zijn voor het Kremlin. Ongevaarlijk wordt bedoeld in de zin van ofwel 'volgzaam' (LDPR, Rechtvaardig Rusland) ofwel 'ongevaarlijke oppositie' (Jabloko). 'Jabloko' betekent 'appel', overigens, zou Steve Jobs dit leuk gevonden hebben?

De liberalen, die electoraal via Jabloko in Rusland amper een stem halen maar daarentegen massaal de regeringspartij Edinaya Rossiya bevolken, willen nog meer plunderen. Het is een economische wet dat een kapitalist steeds meer wil.

De communisten zitten al jaren vast in de oppositie en willen uitbreken.

De radicalere nationalisten worden door de Commissie steevast geweigerd en kunnen nooit: lijsten indienen, op de Kremlinvriend Vladimir Zjirinovsky (LDPR) na dan.

De Commissie wordt geleid door Vladimir Churov. Omwille van de beschuldigingen aan het hoofd van de commissie 'oneerlijke verkiezingen' - vroegen de manifestanten het ontslag van Vladimir Churov. U begrijpt nu hoe het kiessysteem in Rusland in elkaar zit en waarom men de resultaten van de parlementsverkiezingen betwist.

Het Westen schreeuwt... en betaalt!

Het Westen is gespecialiseerd in 'het tonen aan anderen hoe het moet'. Het Westen wil de eigen cultuur wereldwijd uitdragen/opleggen, wat de nieuwe vorm van economisch kolonialisme is. Enkel het Westen heeft de waarheid in pacht, zo stelt men het althans. Westerse media gebruikten al langer de woorden 'revolutie,' 'Russische Sneeuwrevolutie,' 'Arabische Lente in Moskou', enzovoort. De media spraken zelfs over barsten in het Poetinregime. Franse en Angelsaxische media gebruikten zelfs beelden van buiten Rusland om vervalst verslag uit te brengen. Het Amerikaanse televisiekanaal van de steenrijke oligarch Rupert Murdoch, Fox News, voegde om de geloofwaardigheid te verhogen, beelden toe van... de rellen in Griekenland! Men ziet op de televisie aldus brandhaarden, gebroken ruiten, jongeren die molotovcocktails naar de politie gooien, enzovoort. Op een van de uitstalramen merkt men... Griekse letters. Men ziet er palmbomen en zomerse kledij. Nochtans staan er in Moskou geen palmbomen, toch niet bij mijn weten, en ik ben er regelmatig genoeg. De Fox News-verslaglezer zegt: "dit is Moskou. Dit zijn acties van diegenen die het niet eens zijn met de resultaten van de parlementaire verkiezingen." De zender gaf twee uur later de fout toe. Maar het nieuws is uitgebracht. Duizenden mensen blijven deze beelden geloven. Dit zijn echte Oranje Revolutie technieken.

De ware kiesfraude, die in bepaalde stembureaus, net zoals bij ons, inderdaad gebeurde, valt waarschijnlijk in het niets vergeleken met andere buitenlandse kiesfraude. En nee, niet alleen Congo, neem bijvoorbeeld Chicago 1982. Toen verdwenen er ook plots 100.000 stemmen. Maar dit terzijde.

Er huppelen in Rusland al jaren heel wat mensenrechtenactivisten rond. De Russische vereniging GOLOS ('stem' in het Russisch) keek mee naar het verloop van de stemverrichtingen. GOLOS wordt gefinancierd door het Amerikaanse USAID en NED. GOLOS had pech want er lekte in de Russische media een interne e-mail uit, waar GOLOS aan USAID vraagt hoeveel ze hen mogen 'factureren' voor de gemaakte onkosten om 'fraude en bedrog vast te stellen.' USAID en NED zijn Amerikaanse organisaties die de laatste jaren heel wat 'revoluties' in Oost-Europa ondersteund hebben. De VS hebben zelf aangekondigd dat ze de toelagen aan NGO's werkzaam in Rusland zullen verhogen.

Grote afwezige was Alexej Navalny, een bekende blogger die opriep om voor iedereen te stemmen maar niet voor Edinaya Rossiya. Zijn mailbox werd gekraakt. Hieruit blijkt dat de man door het Amerikaanse NED betaald wordt.

Opvallend was ook het gegeven dat de manifestanten naast witte linten ook bloemen droegen. Dit lijkt enorm op de 'revoluties' in Servië (2000), Georgië (2003) en Oekraïne (2004). De organisatie die de 'sneeuwrevolutie' wil organiseren, Belaya Lenta, legde haar domeinnaam vast in oktober 2011 en registreerde zich in... de Verenigde Staten.

Het klassieke Bilderbergergeblaat van Herman Van Rompuy en Hillary Clinton (Skull and Bones) alsook het geblaat van de Europese (Sovjet-)Unie maken in Rusland terecht weinig indruk.

Poetin 2.0 en de protesten

De regerende partij Edinaya Rossiya verloor sterk, wat overeenkomt met de peilingen en de verwachtingen. Tot hiertoe kunnen we niet spreken van een schandaal. Indien er gefraudeerd werd, dan is het om de partij van net onder naar net boven de drempel van 50% te halen. De Russen die tegen de verkiezingsresultaten demonstreren, willen geen revolutie zoals in 1917, zij willen absoluut geen bloedvergieten, maar zij willen wel dat de regering ook naar hen luistert.

Het staat vast dat Medvedev en Poetin een ander Rusland tegenover zich hebben. De Russische middenklasse laat van zich horen. Het Poetin-contract - verdere plunderingen van de Russische grondstoffen door oligarchen en de daarbij horende corruptie gepleegd door lager personeel in ruil voor stabiliteit en welvaart - loopt ten einde. De jeugd van vandaag is een jeugd die niet meer is opgegroeid in de Sovjet-Unie. Niemand zorgt voor hen. Het sociaal-economisch systeem dat de Sovjet-Unie kende, is vervangen door een hard liberaalkapitalistisch systeem. De jeugd begrijpt dat ze zelf voor hun levensonderhoud moeten voorzien, maar ook dat ze vanuit het systeem geen repressie hoeft te vrezen zoals ten tijde van de Sovjet-Unie.

Een deel van de verdeelde oppositie denkt dat Edinaya Rossiya zonder kiesfraude amper 30% zou gehaald hebben. Nochtans komen de verkiezingsresultaten redelijk overeen met de peilingen die op voorhand werden gehouden. Men kan zich aldus niet van de indruk ontdoen dat er zich in Rusland hetzelfde afspeelt als in Syrië.

Deze (verspreide) oppositie krijgt van het Kremlin een historische kans massaal te betogen. Medvedev schreef zondag op het net: "De burgers van Rusland hebben de vrijheid van meningsuiting en de vrijheid van vergadering. Mensen hebben het recht om de mening die zij hebben uit te drukken. Alles vond zaterdag plaats binnen het kader van de wet." Hij beloofde om de klachten over kiesfraude ernstig te nemen en deze te onderzoeken.

In elk geval is het zo dat het Kremlin heel intelligent met deze protesten omgaat. Door toelating te geven, blazen de demonstranten stoom af. Dit lijkt op de Belgische tactiek om de makke Vlaamse Beweging, die jaarlijks naar IJzerbedevaarten, IJzerwaken en Zangfeesten gaat, stoom te laten afblazen, waarna er niet veel concreets meer gebeurt.

We herhalen het niet genoeg: de Russische oppositie is enorm verdeeld. De betogers waren van verschillende pluimage. Soms is het erg hard zoeken naar een gemeenschappelijke noemer. Wat kan men anders verwachten: liberalen, communisten en nationalisten door elkaar. In sommige steden maakten ze onder elkaar al ruzie over de startplaats van de betoging. Men kon vertegenwoordigers zien van die andere partijen in de Doema, 'Rechtvaardig Rusland' en de 'Kommunistische Partij' (KPRF). Er waren leden van een uiterst links front van Sergej Oedalstsov. Ook de eeuwige vijanden Boris Nemtsov, Michael Kassianov en Vladimir Milov liepen zich warm in de Moskouse koude. Uiteraard ontbrak de partij 'Ander Rusland' van Garry Kasparov niet. Zijn beweging noemt zich 'Solidarity', genoemd naar de Poolse beweging die zich met Amerikaans geld tegen de communistische Poolse machtshebbers heeft afgezet. 'Solidarity' is een mengeling van liberalen, communisten en radicale nationalisten met een gemeenschappelijk programmapunt: zij willen verandering door Poetin weg te stemmen.

Men kan dus niet spreken van een actie georganiseerd door 'de oppositie' maar een actie ten gevolge van stijgende ontevredenheid.

Sommigen vragen zich af hoe zo'n bonte verzameling aan mensen en meningen nog overeenkomen. Het moet gezegd worden: er waren slogans tegen Poetin, maar geen afbraakwerken. In het Westen gebeurt het meer dan eens dat een betoging nadien zwaar uit de hand loopt en de binnenstad wordt gesloopt. Dit was in Moskou zeker niet het geval.

De politie trachtte in geen enkel geval de betoging te beïnvloeden. Er stond geen rem op de te gebruiken slogans en er werden geen identiteitspapieren gecontroleerd. Rond 18u00, rond het einde van de manifestatie, bedankten de organisatoren de politie: "Laten we de politie bedanken, want zij gedroeg zich als ordehandhavers van een ware democratische staat."

Belangrijk is dat men begrijpt dat het gros van de manifestanten niet de door de VS gestuurde marionetten steunen. Dmitri Rogozin, Russisch gezant bij de NAVO, vatte het als volgt samen: "Het blijkt nu dat de mensen ernstige aanspraken maken op de vele aspecten van hun leven. Ogenschijnlijk drukken ze hun mening uit. Van de autoriteiten mag men verwachten dat ze naar de mensen luisteren en diegenen die het geloof in onze wetten beledigen, afstraffen. Tegelijkertijd denk ik dat we voor een ingewikkelde situatie staan. Indien sommigen hier de boot willen doen zinken, zullen sommige vrienden uit het Westen niet aarzelen om hun krachtige mogelijkheden te gebruiken om Rusland te verzwakken. Dit deed het Westen al met Oranje Revoluties te organiseren in de GOS en het 'bombarderen om humanitaire redenen' van andere landen. Daarom moeten Russische patriotten voorzichtig zijn. Ze moeten elkaar respecteren. Hun energie moet gebruikt worden om het land te verbeteren en niet om mensen naar de barricades te sturen." Dmitri Rogozin werd recent officieel lid van de partij Edinaya Rossiya.

Het hoofd van de Raad voor Nationale Strategie, Josif Diskin, zei dat er veel mensen waren, maar het niet zo is dat een bepaalde politieke beweging of partij overduidelijk gesteund werd. De mensen willen gewoon niet als dummies behandeld worden.

Het buitenlands beleid van Poetin

Het buitenlands beleid van Poetin verdient evenwel positieve aandacht. Laat ons niet vergeten dat Poetin en Medvedev veel weg hebben van Sirius A en Sirius B. Dit zijn twee sterren die rond elkaar draaien. Ze horen bij elkaar. Toch zijn het twee aparte sterren met elk aparte eigenschappen, al was het maar omwille van de verschillende grootte. Het is duidelijk dat Poetin de grootste ster is. Medvedev heeft een eigen stellair... ehm, (geo)politiek programma. Kort door de bocht kan men stellen: Medvedev is 'iets Angelsaksisch' en Poetin 'iets meer Duits'.

Met Medvedev aan de macht, kunnen de internationale kapitalistische lobbies op beide oren slapen. De Amerikaanse geopolitici kunnen met Medvedev duimen en vingers aflikken. Met Poetin is dit anders en genuanceerder.

Recent bepleitte Vladimir Poetin nog het opnieuw in leven blazen van de Euraziatische Unie. Hij wil dat zijn land nauwere contacten onderhoudt met de ex-Sovjet Republieken en de voormalige bondgenoten. Er bestaat nu al een vrijhandelszone tussen Rusland, Wit-Rusland en Kazachstan. In 2009 zag dit project het levenslicht onder het alziende oog van Poetin en onder de noemer van een douane-unie. Vanaf 2012 wordt dit een vrije economische ruimte. Poetin beziet deze samenwerking als een noodzakelijkheid voor de Russische geopolitieke belangen anno 2012.

Het Westen reageerde onmiddellijk met angst en negativiteit. Men dacht aan de heroprichting van de Sovjet-Unie. De woorden 'gevaarlijk' kwamen in de mond. In het kielzog van de door de VS gestuurde commentaren, volgt het geopolitiek ongeschoolde deel van de Westeuropese nationalisten.

Het Westen is ook razend op Poetin & co omdat Rusland tot nu toe de totale NAVO-afbraakwerken in Syrië via de nodige afremmanoeuvres heeft tegengehouden. Dankzij het Russisch buitenlands beleid is Iran nog steeds niet aangevallen. Zelfs een kind kan begrijpen dat de VS zich de gebeten hond voelen, zeker nu de VS stilaan Irak en Afghanistan verliezen. Ooit valt ook Pakistan uit hun handen. Eigenlijk staan ze er redelijk selcht voor in continentaal Eurazië, zeker in de regio rond de Kaspische Zee. De VS hebben in het Midden-Oosten dus nieuwe uitvalsbasissen nodig.

Conclusie

De conclusie is tweeledig: nationaal en internationaal.

Internationaal

In Rusland vindt zich een enorme Amerikaanse inmenging in de binnenlandse aangelegenheden plaats. We stellen vast dat aan Amerikaanse zijde een diabolisatiecampagne aan de gang is wat betreft president Poetin 3.0. Het gebraak van Amerikaans minsister van Buitenlandse Zaken Hillary Clinton-Rodham, zij staat zogezegd aan de zijde van het Russische volk, komt totaal ongeloofwaardig over. Haar man stond in 1999 eveneens niet aan de zijde van het Servische volk. De ultra-imperialistische Verenigde Staten, die aan de zijde van de volkeren staan? Zelfs de beste humorist kan hier niets mee aanvangen.

De Verenigde Staten willen Rusland destabiliseren met als doel de komende aanvallen op Syrië en Iran gemakkelijker te verkopen. Rusland is het enige 'tegen-Imperium' dat de honger van de ultra-imperialistische Verenigde Staten kan stoppen. Zonder Rusland was Syrië en Iran al lang platgelegd met bommen, zelfs nucleaire desnoods.

Nationaal

Buiten Poetin, Medvedev en Zjoeganov zijn er geen echte sterke presidentskandidaten. Jammer voor Vladimir Zjirinovsky, maar die maakt geen enkele kans, indien president worden zijn bedoeling is. Jammer voor de betogers, maar ik zie niet in wie een enorm land als Rusland kan leiden. Het is in Europa's voordeel dat Rusland geleid wordt in eigen belangen, zonder dat het land aan de Verenigde Staten en de internationale bankiers wordt uitgeleverd.

Men kan niet spreken van een protestactie georganiseerd door een homogene oppositie, maar wel over een protestactie ten gevolge van begrijpelijke stijgende ontevredenheid. De betogingen verliepen rustig en hoffelijk, zowel van de kant van de betogers als van de kant van de overheid. De manifestanten hadden redelijke verzuchtingen zoals gratis gezondheidszorg en betere voorzieningen voor het onderwijs. Deze verzuchtingen zijn eigenlijk programmapunten van het linkse blok in de Doema (Kommunistische Partij en Rechtvaardig Rusland), dat ongeveer een derde van de verkozenen telt.

Het mag benadrukt worden: de betogers hebben redelijke en gerechtvaardigde verzuchtingen. We kunnen de betogers ten volle begrijpen en hun eisen ondersteunen. We kunnen zeker de patriottische betogers begrijpen die meer bescherming willen voor de ethische Russen. 'Rusland aan de Russen' is immers een courante slogan. De regering beloofde trouwens al naar de verzuchtingen te luisteren. De manifestaties hebben aangetoond dat de Russen op de straat kunnen komen zonder hulp van de VS. De betogers hebben Uncle Sam niet nodig om zich te uiten.

Ja, aan de Russen die hun mening via betogingen op de straat kenbaar maken.

Neen, aan de Amerikaanse perverse bemoeienissen in Rusland.

Ja, aan het recht voor de Russen om oppositie te voeren tegen eender wie in het Kremlin zetelt.

Neen, aan een door de Verenigde Staten gemanipuleerde oppositie.

Een stabiel Rusland is de beste partner en garantie voor het westelijk deel van Europa. Politiek analist Sergej Kurginyan stelt het zo: "Onze strijd, evenals de strijd van andere mensen, moet door de overtuiging van de nationale krachten worden uitgevoerd onder het motto: 'Heropbouwen zonder buitenlandse hulp.' Wie wil er dit nu niet doen met een overheid in het kader van een nationale consensus? Dit mag politiek niet geassocieerd worden met de Amerikanen en hun handlangers van de NAVO."

Kan dit nog beter worden gezegd?

Secular Theocracy: The Foundations and Folly of Modern Tyranny

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Secular Theocracy: The Foundations and Folly of Modern Tyranny

 by David J. Theroux

 Ex: http://www.attackthesystem.com/

 We live in an increasingly secularized world of massive and pervasive nation states in which traditional religion, especially Christianity, is ruled unwelcome and even a real danger on the basis of a purported history of intolerance and “religious violence.” This is found in most all “public” domains, including the institutions of education, business, government, welfare, transportation, parks and recreation, science, art, foreign affairs, economics, entertainment, and the media. A secularized public square policed by government is viewed as providing a neutral, rational, free, and safe domain that keeps the “irrational” forces of religion from creating conflict and darkness. And we are told that real progress requires expanding this domain by pushing religion ever backward into remote corners of society where it has little or no influence. In short, modern America has become a secular theocracy with a civic religion of national politics (nationalism) occupying the public realm in which government has replaced God.

For the renowned Christian scholar and writer C.S. Lewis, such a view was fatally flawed morally, intellectually, and spiritually, producing the twentieth-century rise of the total state, total war, and mega-genocides. For Lewis, Christianity provided the one true and coherent worldview that applied to all human aspirations and endeavors: “I believe in Christianity as I believe that the sun has risen, not only because I see it, but because by it I see everything else.” (The Weight of Glory)[1]

In his book, The Discarded Image, Lewis revealed that for Medieval Christians, there was no sacred/secular divide and that this unified, theopolitical worldview of hope, joy, liberty, justice, and purpose from the loving grace of God enabled them to discover the objective, natural-law principles of ethics, science, and theology, producing immense human flourishing. [2] Lewis described the natural law as a cohesive and interconnected objective standard of right behavior:

This thing which I have called for convenience the Tao, and which others may call Natural Law or Traditional Morality or the First Principles of Practical Reason or the First Platitudes, is not one among a series of possible systems of value. It is the sole source of all value judgements. If it is rejected, all values are rejected. If any value is retained, it is retained. The effort to refute it and raise a new system of value in its place is self-contradictory. There has never been, and never will be, a radically new judgement of value in the history of the world. What purport to be new systems or (as they now call them) “ideologies,” all consist of fragments from the Tao itself. Arbitrarily wrenched from their context in the whole and then swollen to madness in their isolation, yet still owing to the Tao and to it alone such validity as they possess. If my duty to my parents is a superstition, then so is my duty to posterity. If justice is a superstition, then so is my duty to my country or my race. If the pursuit of scientific knowledge is a real value, then so is conjugal fidelity. (The Abolition of Man)[3]

And in his recent book, The Victory of Reason, Rodney Stark has further shown “How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and the Success of the West.”[4] Similarly and prior to the rise of the secular nation-state in America, Alexis de Tocqueville documented in his 1835 volume, Democracy in America, the remarkable flexibility, vitality and cohesion of Christian-rooted liberty in American society with business enterprises, churches and aid societies, covenants and other private institutions and communities.[5]

In his book, The Myth of Religious Violence: Secular Ideology and the Roots of Modern Conflict, William Cavanaugh similarly notes that for Augustine and the ancient world, religion was not a distinct realm separate from the secular. The origin of the term “religion” (religio) came from Ancient Rome (re-ligare, to rebind or relink) as a serious obligation for a person in the natural law (“religio for me”) not only at a shrine, but also in civic oaths and family rituals that most westerners would today consider secular. In the Middle Ages, Aquinas further viewedreligio not as a set of private beliefs but instead a devotion toward moral excellence in all spheres.[6]

However in the Renaissance, religion became viewed as a “private” impulse, distinct from “secular” politics, economics, and science.[7] This “modern” view of religion began the decline of the church as the public, communal practice of the virtue of religio. And by the Enlightenment, John Locke had distinguished between the “outward force” of civil officials and the “inward persuasion” of religion. He believed that civil harmony required a strict division between the state, whose interests are “public,” and the church, whose interests are “private,” thereby clearing the public square for the purely secular. For Locke, the church is a “voluntary society of men,” but obedience to the state is mandatory.[8]

The subsequent rise of the modern state in claiming a monopoly on violence, lawmaking, and public allegiance within a given territory depended upon either absorbing the church into the state or relegating the church to a private realm. As Cavanaugh notes:

Key to this move is the contention that the church’s business is religion. Religion must appear, therefore, not as what the church is left with once it has been stripped of earthly relevance, but as the timeless and essential human endeavor to which the church’s pursuits should always have been confined…. In the wake of the Reformation, princes and kings tended to claim authority over the church in their realms, as in Luther’s Germany and Henry VIII’s England…. The new conception of religion helped to facilitate the shift to state dominance over the church by distinguishing inward religion from the bodily disciplines of the state.[9]

For Enlightenment figures like Jean-Jacques Rousseau who dismissed natural law, “civic religion” as in democratic regimes “is a new creation that confers sacred status on democratic institutions and symbols.”[10]And in their influential writings, Edward Gibbon and Voltaire claimed that the wars of religion in the sixteenth and seventeenth centuries were “the last gasp of medieval barbarism and fanaticism before the darkness was dispelled.”[11] Gibbon and Voltaire believed that after the Reformation divided Christendom along religious grounds, Protestants and Catholics began killing each other for more than a century, demonstrating the inherent danger of “public” religion. The alleged solution was the modern state, in which religious loyalties were upended and the state secured a monopoly of violence. Henceforth, religious fanaticism would be tamed, uniting all in loyalty to the secular state. However, this is an unfounded “myth of religious violence.” The link between state building and war has been well documented, as the historian Charles Tilly noted, “War made the state, and the state made war.”[12] In the actual period of European state building, the most serious cause of violence and the central factor in the growth of the state was the attempt to collect taxes from an unwilling populace with local elites resisting the state-building efforts of kings and emperors. The point is that the rise of the modern state was in no way the solution to the violence of religion. On the contrary, the absorption of church into state that began well before the Reformation was crucial to the rise of the state and the wars of the sixteenth and seventeenth centuries.

Nevertheless, Voltaire distinguished between “state religion” and “theological religion” of which “A state religion can never cause any turmoil. This is not true of theological religion; it is the source of all the follies and turmoils imaginable; it is the mother of fanaticism and civil discord; it is the enemy of mankind.”[13]  What Rousseau proposed instead was to supplement the purely “private” religion of man with a civil or political religion intended to bind the citizen to the state: “As for that man who, having committed himself publicly to the state’s articles of faith, acts on any occasion as if he does not believe them, let his punishment be death. He has committed the greatest of all crimes: he has lied in the presence of the laws.”[14]

As a result, the Enlightenment set in motion what has become today’s secular theocracy that is authoritarian and hypocritical for not just its denial of moral condemnation of secular violence, but its exaltation of such violence as highly praiseworthy.


[1] C.S. Lewis, “Is Theology Poetry?” in The Weight of Glory and Other Addresses (San Francisco: HarperOne, 2001).

[2] C.S. Lewis, The Discarded Image: An Introduction to Medieval and Renaissance Literature (New York, Cambridge University Press, 1994).

[3] C.S. Lewis, The Abolition of Man (San Francisco: HarperOne, 1974), 44.

[4] Rodney Stark, The Victory of Reason: How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success (New York: Random House, 2006).

[5] Alexis de Tocqueville, Democracy in America, trans. Delba Winthrop (Chicago: University of Chicago Press, 2002).

[6] William T. Cavanaugh, The Myth of Religious Violence: Secular Ideology and the Roots of Modern Conflict (Oxford: Oxford University Press, 2009), 62–68.

[7] Ibid, 70.

[8] Ibid, 79–83.

[9] Ibid, 83–84.

[10] Ibid, 113.

[11] Ibid, 127.

[12] Charles Tilly, “Reflections on the History of European State-Making,” in The Formation of National States in Western Europe, ed. Charles Tilly (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1975), 42.

[13] Cavanaugh, 128.

[14] Jean-Jacques Rousseau, The Social Contract, trans. Willmoore Kendall (South Bend, IN: Gateway, 1954), 149.

 


David J. Theroux is the Founder, President and Chief Executive Officer of The Independent Institute and Publisher of The Independent Review.

Céline contre le Spectacle

Céline contre le Spectacle par Stéphane Zagdanski

« Savez-vous ce que l'on demande d'abord à un fou lorsqu'il arrive à l'hôpital ? L'heure qu'il est et où il se trouve. L'heure, je peux vous la dire: onze heures du matin, et c'est aujourd'hui dimanche. Où je me trouve ? Eh bien ! dans un monde de cinglés où il faut vraiment faire un effort pour garder son bon sens, un effort de modestie, surtout ! Nous sommes au siècle de la publicité et la publicité compte désormais plus que l'objet. »

Dès l’adolescence, Céline se montre angoissé par la mort – ce qui est commun –, et soucieux de ne pas noyer cette angoisse sous la parlotte – ce qui l’est moins. À quinze ans, étudiant en Angleterre tandis que sa tante Joséphine agonise, il écrit à ses parents : « Aussitôt que l'échéance finale sera arrivée, écris-moi un mot ou envoie-moi un télégramme. “Mort” suffit. En un mot, puisque tout espoir est perdu… »
« “Mort” suffit » ! Cette idée qu’en bavardant on masque la fatalité qui, en coulisses, fait de toute vie une « mort à crédit », Céline n’y renoncera jamais. C’est à partir d’elle qu’il fomentera son acerbe critique sociale, virulemment anarchiste, d’une perspicacité à toute épreuve tant que la paranoïa antisémite ne s’en mêle pas. Cette lucidité en fera un des rares précurseurs de la critique du Spectacle que Debord, par d’autres biais et selon un tout autre système de références, a poussée à son comble.

Les lecteurs de Voyage au bout de la nuit se souviennent de la déclaration de foi anarchiste de Bardamu qui ouvre le roman. Mais a-t-on remarqué que l’intervention primordiale d’Arthur Ganate est frappée au sceau du pessimisme le plus froid concernant la propagande du progrès : « Siècle de vitesse ! qu’ils disent. Où çà ? Grands changements ! qu’ils racontent. Comment çà ? Rien n’est changé en vérité. Ils continuent à s’admirer et c’est tout. » Tout Céline est déjà là, qui critiquera dans les années 50 la télévision, la radio et la publicité comme machines à abrutir en flattant la vanité humaine des « perruchelets paoniformes ».
La guerre de 14, bien sûr, appose un poinçon de sang au pessimisme substantiel de Céline. Il a, comme il l’écrit dans Voyage, « l’imagination de la mort », les autres non. Ce qui signifie qu’il ne se paye pas de mots, les autres si. À Joseph Garcin, qui a connu comme lui cet « enfer dont il ne faudrait pas revenir », il écrira le 1er septembre 1929 : « Vous avez saisi l'essentiel, le reste n'est que fatras de mots sans portée... ».

Dès 1916, dans une lettre à son père où il raconte avoir lu tous les journaux parus en France, il témoigne de son incroyance radicale en toute propagande, remarquant comme le mensonge s’appuie sur un certain style faisandé qu’il passera sa vie à vitupérer : L’« éloge pompeux de réformes qui s'imposent », s’accompagne « de phrases cascadeuses, ridicules de rhétorique empanachée ». Et 40 ans avant le « Ne travaillez jamais » de Debord, Céline avoue : « On prétend que le travail anoblit, je prétends qu'il avilit. »

En 1914, Céline n’a pas seulement côtoyé et étudié la mort, il a vu la déliquescence de toutes les vanités ; les hommes se sont révélés à lui comme autant d’écorchés de l’âme dans leurs petitesses sans fard. C’est aussi à cette déchéance, si peu conforme au mythe de l’Empire colonial, qu’il assistera en Afrique après la guerre, dont il rend également compte dans Voyage. « Sur la Meuse et dans le Nord et au Cameroun », écrit-il à Garcin en 1933, « j'ai bien vu cet effilochage atroce, gens et bêtes et lois et principes, tout au limon, un énorme enlisement… ». La même année, à son ami Élie Faure qui tente de le convaincre du bien-fondé du socialisme, Céline énonce le principe de son inconvertibilité idéologique, de ce qu’il nommera plus tard, concernant son anarchisme, sa « boussole personnelle, indéréglable » : « Crever pour le peuple oui – quand on voudra – où on voudra, mais pas pour cette tourbe haineuse, mesquine, pluridivisée, inconsciente, vaine, patriotarde alcoolique et fainéante mentalement jusqu'au délire. » C’est l’époque où Céline admire encore Bergson et Freud, dont le pessimisme structurel l’influence grandement. Céline écrit en 1933 à Albert Thibaudet : « L'énorme école freudienne est passée inaperçue. Toute la haine raciale n'est qu'un truc à élections. Le tourment esthétique n'est même pas murmurable. » Il demande à son amie juive viennoise Cillie Ambord de lui traduire Trauer und Melancholie, et lui écrit juste après l’accession d’Hitler au pouvoir : « Je suis bien content de vous savoir pour le moment en sécurité mais la folie hitler va finir par dominer l'Europe pendant des siècles encore. Mr Freud n'y peut rien. » Et en bon freudien, Céline se doute que nazisme et fascisme prospèrent sur la servitude volontaire : « Ici », écrit-il à Garcin le 15 février 1934, « c'est l'hystérie collective, voilà le fascisme en route, on attend l'homme à poigne avec ou sans moustaches. Les Français sont masochistes. Progrès ? où quand ? je ne vois qu'une vieille nation ratatinée. »

Ce qui caractérise la lucidité de Céline, c’est qu’il ne choisit aucun camp. Ni le socialisme ni le fascisme, ni l’URSS ni l’Amérique. Écoeuré par l’humain en soi, il rédige en 1934 Mea Culpa, un premier pamphlet, avant Bagatelles, qui reste un chef-d’oeuvre de clairvoyance concernant la servitude volontaire, une déclaration de guerre à toutes les utopies, tous les optimismes : « Il faudrait buter les flatteurs, c'est ça le grand opium du peuple... L'Homme il est humain à peu près autant que la poule vole. Quand elle prend un coup dur dans le pot, quand une auto la fait valser, elle s'enlève bien jusqu'au toit, mais elle repique tout de suite dans la bourbe, rebecqueter la fiente. C'est sa nature, son ambition. Pour nous, dans la société, c'est exactement du même. »

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Peder Jensen, alias “Fjordman”, inspirateur d’Anders Breivik?

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Manfred KLEINE-HARTLAGE:

 Peder Jensen, alias “Fjordman”, inspirateur d’Anders Breivik?

Immédiatement après le massacre perpétré à Oslo en juillet dernier, paraissait dans la presse norvégienne une photographie de l’homme censé avoir inspiré, par ses écrits, le tueur Anders Breivik. Ce soupçon était erroné mais le dévoilement de l’identité de “Fjordman” a surpris: l’écrivain préféré de Breivik ne ressemblait pas du tout à l’homme de droite ou d’extrême-droite telle que l’imaginent les médias de gauche. Peder Jensen, que le monde ne connaissait via internet que sous le pseudonyme de “Fjordman”, travaillait dans une institution sociale: les attentats et leur suite, qui l’ont forcé à dévoiler son identité, lui ont coûté son emploi.

Jensen, âgé de 36 ans, n’est pas né animé par des idées conservatrices: il les a acquises par l’étude. Il est issu d’une famille incarnant parfaitement l’établissement de gauche, qu’il n’a cessé de critiquer. Comme beaucoup de critiques de l’islamisme, que l’on peut ranger dans la catégorie des “contre-djihadistes”, il est un homme jadis socialisé à gauche de l’échiquier politique; il n’a révisé ses idées que fort tard, quand il a été confronté à l’islamisme. Le tournant dans son évolution date du 11 septembre 2001, une journée au cours son long séjour au Caire. Ce n’est pas tant le fait que dix-neuf musulmans auraient perpétré l’attentat qui l’ont fait changer d’avis sur l’islam alors qu’il apprenait la langue arabe dans la capitale égyptienne: c’est davantage le spectacle de millions de musulmans applaudissant au carnage qui l’a interpellé.

Depuis 2005, cet arabisant norvégien, à la vie tranquille, gèrait un blog sous le nom de “Fjordman” et, par le biais de ses articles bien argumentés, reposant sur les critères de cette discipline que les Allemands appellent la “Kulturkritik”, il touchait des centaines de milliers sinon des millions de lecteurs. L’impact de son travail est surtout dû au fait qu’il ne se contentait pas de critiquer l’islam ou l’islamisme. Il posait une question cruciale: pourquoi laisse-t-on l’islamisme se déployer? Fjordman, arabisant patenté, ne se bornait pas à disséquer la culture islamique mais se penchait de manière fort critique sur notre propre culture occidentale, où il repérait un masochisme suicidaire, des illusions infantiles et un oubli permanent de l’histoire. Il n’hésitait pas, sur base de ses diagnostics, à citer les noms des vecteurs européens, américains et occidentaux de cette déchéance intellectuelle.

Au fil des années, les essais de Fjordman devenaient de plus en plus sombres et pessimistes, parce que ses questions devenaient de plus en plus pertinentes et profondes. Fjordman a donc commencé sa carrière comme critique de l’islamisme mais, au fur et à mesure que sa quête progressait, il est devenu un fin critique des fondements de notre propre civilisation occidentale. Désormais, on peut suivre pas à pas cette évolution intellectuelle dans une première édition allemande de ses écrits, publiée fin novembre 2011.

Au départ, les positions de Fjordman étaient plutôt pro-américaines mais elles ont cédé la place à un anti-globalisme radical. La critique fjordmanienne du “globalisme” a ainsi reçu la priorité par rapport aux articles critiques sur l’islamisation de l’Europe. La crise de notre civilisation, conclut Jensen/Fjordman, dérive de l’acceptation a-critique de l’idéologie mondialiste (”One-World-Ideology”), que l’on considère aujourd’hui comme une évidence incontournable. C’est là que Jensen/Fjordman va plus loin qu’une simple critique de l’islamisme. Les élites occidentales font tout pour sacrifier à une utopie perverse les structures nées de l’histoire et les identités concrètes des peuples; or cette utopie mondialiste est inhumaine, elle relève d’une inhumanité qui ne se révèlera à tous que lorsqu’il sera trop tard...

Manfred KLEINE-HARTLAGE (*).

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°49/2011; http://www.jungefreiheit.de ).

(*) Manfred Kleine-Hartlage est le co-éditeur du livre intitulé “Fjordman. Europa verteidigen. Zehn Texte” (Edition Antaios – http://www.antaios.de )


Europa verteidigen Fjordman
Europa verteidigen

Zehn Texte
240 Seiten, broschiert, 19.00 €


ISBN: 978-3-935063-66-1
19,00 EUR
incl. 7 % UST exkl. Versandkosten
Als Internet-Publizist ist Fjordman seit einigen Jahren in der sogenannten Counterjihad-Szene ein Begriff: islamkritisch, multikultikritisch, liberalismuskritisch, ein belesener Essayist.
Die Herausgeber Martin Lichtmesz und Manfred Kleine-Hartlage haben zehn der besten Texte Fjordmans ausgewählt, die Übersetzungen bearbeitet und ein Buch zusammengestellt, das durch die Radikalität seines Tons provoziert und zugleich diese Radikalität rechtfertigt: Es geht um die Verteidigung des Eigenen. Dieses Eigene ist Europa.
In einem flankierenden Essay nimmt Martin Lichtmesz den Fall des Attentäters von Oslo und Utoya unter die Lupe: Anders Breivik berief sich in einem Pamphlet mehrfach auf Fjordmans Analysen. Er hat damit geistiges Terrain vermint, das es nun wiederum freizuräumen gilt.


Vorwort:
Der Fjordman Peder Jensen
von Manfred Kleine-Hartlage

Overtüre:

Vorbereitung auf Ragnaräck
Erster Text von Fjordman

I. Akt Islamkritik

Warum wir uns nicht auf moderate Moslems verlassen können
Zweiter Text von Fjordman

Was kostet Europa die islamische Zuwanderung?
Dritter Text von Fjordman

Vierzehn Jahrhunderte Krieg gegen die europäische Zivilisation
Vierter Text von Fjordman

II. Akt Kulturkritik

Political Correctness - die Rache des Marxismus
Fünfter Text von Fjordman

Die Wurzeln der Antidiskriminierung

Sechster Text von Fjordman

Westlicher Feminismus und das Bedürfnis nach Unterwerfung

Siebter Text von Fjordman

Die vaterlose Zivilisation

Achter Text von Fjordman

III. Akt Globalismus/EU

Die EU und die globalistische Allianz
Neunter Text von Fjordman

Wenn Verrat zur Norm wird

Zehnter Text von Fjordman


Nachwort

Fjordman verteidigen

Martin Lichtmesz

Ausgang

Entwurf einer Europäischen Unabhängigkeitserklärung

von Fjordman

Anhang

Anmerkungen
Quellennachweis

 

Immixtion américaine en Russie

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Bernhard TOMASCHITZ:

Immixtion américaine en Russie

Après le vote pour la Douma, les Etats-Unis n’ont pas hésité à s’immiscer dans les affaires intérieures de la Russie

Les élections pour le parlement russe du 4 décembre ont suscité quelques turbulences politiques. Sous prétexte qu’il y aurait eu manipulations, les manifestations se multiplient à Moscou et à Saint Pétersbourg. L’Occident en profite pour tirer à boulets rouges sur les dirigeants russes. Pour ce motif, le premier Ministre russe Vladimir Poutine a annoncé que des mesures de rigueur seront prises contre ceux qui se mêlent de la politique russe “sur ordre de l’étranger”. “Nous sommes obligés de protéger notre souveraineté et nous nous sentons contraints d’y réfléchir”, a souligné Poutine, tout en reprochant à la ministre américaine des affaires étrangères Hillary Rodham Clinton d’avoir donné le signal pour que se déchaîne la vague de protestations et de manifestations. Ensuite, Poutine a ajouté, sur un ton très critique, “le travail actif a commencé avec le soutien du ministère américain des affaires étrangères”.

Tandis que bon nombre de commentateurs, dans les médias occidentaux inféodés au système, déclaraient que le premier ministre russe souffrait de paranoïa, nous pouvons tout de même objectivement constater que les reproches formulés par Poutine ne sont pas dénués de fondements. En effet, qui a joué un rôle-clef dans cette effervescence protestataire, tant avant qu’après le scrutin? Indubitablement, l’association “Golos” (= “La Voix”), soi-disant indépendante et posée comme “organisation non gouvernementale”. Ses “experts” (auto-proclamés) ont bénéficié de vastes colonnes dans les journaux occidentaux quelques jours avant les élections pour décrire le système semi-autoritaire de Poutine comme une abominable tyrannie obscurantiste. “Golos” a agité les esprits en Occident sous prétexte que des manifestants avaient été arrêtés.

En fait, “Golos” est tout autre chose qu’une ONG indépendante. Ainsi, on peut lire sur le site internet de l’“International Republican Institute”, une fondation du Parti Républicain: “Golos est une association qui a été fondée en 2000 pour protéger les droits des électeurs; elle reçoit des subsides des autorités américaines responsables du développement à l’échelle mondiale (USAID), du groupe ‘National Endowment for Democracy’ et de l’ambassade britannique. Le ‘National Democratic Institute’ offre la formation des cadres et l’International Republican Institute fournit une aide en offrant des vidéos d’information pour les électeurs”. Les autorités américaines de l’USAID sont directement inféodées au ministère américain des affaires étrangères et ont toujours joué un rôle prépondérant quand il s’est agi de s’immiscer dans les affaires intérieures de pays tiers. En règle générale, les subsides transitent par la NED (“National Endowment for Democracy”), considérée comme le bras civil de la CIA. La NED “sponsorise” soit directement des projets de “soutien à la démocratie” à l’étranger soit verse l’argent aux fondations des partis démocrate et républicain qui, à leur tour, apportent un soutien financier à des instances proches d’eux, émanant de la “société civile” du pays étranger placé dans le collimateur.

Le processus appliqué à la Russie pouvait se lire dans le “plan stratégique” de l’USAID pour les années de 2007 à 2012. Dans le texte de ce plan, les auteurs reprochent au Kremlin de court-circuiter les projets américains en Europe orientale, dans les Balkans et dans le Caucase, c’est-à-dire dans des régions qui doivent à terme être “ancrées” dans les structures euro-atlantistes. Washington s’insruge également contre la politique de Poutine au cours de ses deux premiers mandats: il a en effet visé et fait progresser l’indépendance économique et énergétique de son pays. Pour torpiller cette politique étrangère, économique et énergétique, il convient donc d’importer en Russie “les valeurs de la démocratie, des droits de l’homme et de la liberté”, tout en tentant d’imbriquer la vaste Fédération de Russie dans “l’économie mondiale”, c’est-à-dire dans l’ordre économique et dans le projet de globalisation ébauchés par la Maison Blanche et par Wall Street. 

En 2009, la NED a versé 75.234 dollars à “Golos” pour organiser des “audits officiels” et des campagnes de signatures. En 2007, la NED avait déjà versé 49.500 dollars à l’association russe. Le CIMA, ou “Center for International Media Assistance”, une branche de la NED, joue un rôle de premier plan dans tout appui aux forces politiques visant à instaurer quelque part dans le monde la “démocratie libérale” de type américain: depuis des années, ce centre apporte son soutien à des journalistes pro-américains, en les formant ou en leur offrant des programmes d’échange.

Le NDI (“National Democratic Institute”) démontre l’importance des fondations des partis américains dans l’immixtion constante de Washington dans les affaires intérieures russes. La NDI déclare officiellement qu’elle est active en Russie depuis le début des années 90, afin d’y “renforcer les institutions démocratiques”, en déployant quantité d’incitants pour qu’à terme il y ait “une plus grande participation des citoyens aux processus décisionnels” et pour que certaines organisations civiles et certains partis politiques soient renforcés en Russie grâce à “des échanges internationaux d’expériences acquises”. “Golos”, dans ce vaste complexe d’opérations stratégiques”, est un partenaire importants de la NDI: l’association subversive russe coopère effectivement avec la NDI depuis le jour même de sa fondation. Aujourd’hui, “Golos” est en mesure d’aller observer les élections dans 48 régions de la Fédération de Russie.

Mutatis mutandis, la situation observable aujourd’hui en Russie ressemble à celle que l’on pouvait constater en Ukraine lors de la “révolution orange”, il y a sept ans. En Ukraine aussi, on a évoqué des “fraudes électorales” pour mettre le feu aux poudres et pour déclencher la révolte. Et une fois de plus, on a vu se pointer à l’horizon le spéculateur boursier Georges Sörös. L’organisation que ce personnage soutient, le “Human Rights Watch”, vient d’entamer une campagne de presse, où elle se plaint que “Golos” est victime d’une “campagne de dénigrement” orchestrée par les autorités russes...

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°50/2011; http://www.zurzeit.at ).

 

Une grande transformation

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Une grande transformation

par Georges FELTIN-TRACOL

 

En 2009, le journaliste Christopher Caldwell faisait paraître Reflections on the revolution in Europe, clin d’œil appuyé à l’ouvrage contre-révolutionnaire du Whig Edmund Burke publié en 1790. Les Éditions du Toucan viennent de sortir sa traduction française sous le titre d’Une révolution sous nos yeux. Alors que les maisons d’éditions institutionnelles se gardent bien maintenant de traduire le moindre ouvrage qui irait à l’encontre de la pesante pensée dominante, saluons cette initiative qui permet au public francophone de découvrir un point de vue divergent bien éloigné de l’agencement ouaté des studios de radio et des plateaux de télévision.

 

caldwell.jpgÉditorialiste au Financial Times (le journal officiel de la City) et rédacteur au Weekly Standard et au New York Times Magazine, Christopher Caldwell relève du courant néo-conservateur anglo-saxon. Il en remercie même William Kristol, qui en est l’une des têtes pensantes. L’édition française est préfacée par la démographe Michèle Tribalat qui, avec son compère Pierre-André Taguieff, semble ébaucher une sensibilité néo-conservatrice dans l’Hexagone plus charpentée que les guignols de la triste revue Le meilleur des mondes.

 

On pourrait supposer qu’Une révolution sous nos yeux est un lourd pensum ennuyeux à lire composé de douze chapitres réunis en trois parties respectivement intitulées « Immigration », « L’islam » et « L’Occident ». Nullement ! Comme la plupart des enquêtes journalistiques anglo-saxonnes, les faits précis et détaillés sont étayés et argumentés. Il faut avouer que le sujet abordé est risqué, surtout en France…

 

« Ce livre, avertit l’auteur, évitera l’alarmisme et la provocation vaine, mais il évitera aussi l’euphémisme et cette façon de se coucher (à titre préventif) qui caractérise tant d’écrits sur les questions relatives à l’ethnicité (p. 53). » Qu’aborde-t-il donc ? « Ce livre, répond Caldwell, traite de l’Europe, de comment et pourquoi l’immigration et les sociétés multi-ethniques qui en résultent marquent une rupture dans son histoire. Il est écrit avec un œil rivé sur les difficultés que l’immigration pose à la société européenne (p. 52). 

 

 

Partant des déclarations prophétiques en avril 1968 du député conservateur Enoch Powell au Midland Hotel de Birmingham consacrées aux tensions raciales à venir, l’auteur estime que « l’immigration n’améliore pas, ne valorise pas la culture européenne; elle la supplante. L’Europe ne fait pas bon accueil à ses tout nouveaux habitants, elle leur cède la place (p. 47) ». Pourquoi ?


Les racines du mal

 

Avant de répondre, Christopher Caldwell rappelle que « l’immigration de masse a débuté dans la décennie postérieure à la Seconde Guerre mondiale. […] En Grande-Bretagne, en France, aux Pays-Bas et en Scandinavie, l’industrie et le gouvernement ont mis en place des politiques de recrutement de main-d’œuvre étrangère pour leurs économies en plein boom (p. 25) ». Par conséquent, « l’Europe devint une destination d’immigration, suite à un consensus de ses élites politiques et commerciales (p. 25) ». Il insiste sur le jeu du patronat qui préfère employer une main-d’œuvre étrangère plutôt que locale afin de faire baisser les salaires… Il y a longtemps que l’immigration constitue l’arme favorite du capital (1). Or « les effets sociaux, spirituels et politiques de l’immigration sont considérables et durables, alors que ses effets économiques sont faibles et transitoires (pp. 69 – 70) ».

 

Il importe d’abandonner l’image du pauvre hère qui délaisse les siens pour survivre chez les nantis du Nord… « Pour Enoch Powell comme pour Jean Raspail, l’immigration de masse vers l’Europe n’était pas l’affaire d’individus “ à la recherche d’une vie meilleure ”, selon la formule consacrée. C’était l’affaire de masses organisées exigeant une vie meilleure, désir gros de conséquences politiques radicalement différentes (p. 31, souligné par l’auteur). » Dans cette « grande transformation » en cours, en raison du nombre élevé de pratiquants parmi les nouveaux venus, l’islam devient une question européenne ou, plus exactement, le redevient comme au temps du péril ottoman et des actes de piraterie maritime en Méditerranée jusqu’en 1830… Dorénavant, « l’immigration jou[e] un rôle aussi perturbateur que le nationalisme (p. 402) ».

 

Très informé de l’actualité des deux côtes de l’Atlantique, Christopher Caldwell n’hésite pas à comparer la situation de l’Europe occidentale à celle des États-Unis. Ainsi, les remarques politiques ne manquent pas. L’auteur estime par exemple que, pour gagner les électeurs, Nicolas Sarközy s’inspire nettement des méthodes de Richard Nixon en 1968 et en 1972.

 

À la différence de Qui sommes-nous ? de Samuel P. Huntington qui s’inquiétait de l’émergence d’une éventuelle Mexamérique, Caldwell pense que les Latinos, souvent catholiques et occidentalisés, peuvent renforcer et améliorer le modèle social étatsunien. L’auteur remarque même, assez justement, que « les Américains croient que l’Amérique, c’est la culture européenne plus l’entropie (p. 447) ». En revanche, l’Europe est confrontée à une immigration pour l’essentiel musulmane. L’Europe ne serait-elle pas dans le même état si l’immigration extra-européenne était principalement non-musulmane ? L’auteur n’y répond pas, mais gageons que les effets seraient semblables. Le problème majeur de l’Europe n’est pas son islamisation qui n’est qu’une conséquence, mais l’immigration de masse. Il serait temps que les Européens comprennent qu’ils deviennent la colonie de leurs anciennes colonies…

 

L’injonction morale multiculturaliste

 

Si cette prise de conscience tarde, c’est parce que « le multiculturalisme, qui demeure le principal outil de gestion de l’immigration de masse en Europe, impose le sacrifice des libertés que les autochtones européens tenaient naguère pour acquises (p. 38) ». L’imposture multiculturaliste (ou multiculturelle) – qui est en fait un monothéisme du marché et de la consommation – forme le soubassement fondamental de l’Union européenne et des « pays occidentaux [qui] sont censés être des démocraties (p. 435) ». Néanmoins, sans la moindre consultation électorale, sans aucun débat public véritable, « sans que personne ne l’ait vraiment décidé, l’Europe occidentale s’est changée en société multi-ethnique (p. 25) ».

 

À la suite d’Alexandre Zinoviev, d’Éric Werner et d’autres dissidents de l’Ouest, Christopher Caldwell observe la démocratie régresser en Occident avec l’adoption fulgurante de lois liberticides contre les hétérodoxies contemporaines. En effet, « l’Europe de l’après-guerre s’est bâtie sur l’intolérance de l’intolérance – un état d’esprit vanté pour son anti-racisme et son antifascisme, ou brocardé par son aspect politiquement correct (p. 128) ». Après la lutte contre l’antisémitisme, l’idéologie multiculturaliste de la tolérance obligatoire s’élargit aux autres minorités raciales et sexuelles et renforce la répression. Il devient désormais tout aussi grave, voire plus, de dénigrer un Noir, un musulman, un homo ou de nier des faits historiques récents que de violer une fillette ou d’assassiner un retraité ! « Peu à peu, les autochtones européens sont […] devenus moins francs ou plus craintifs dans l’expression publique de leur opposition à l’immigration (p. 38). » Rôdent autour d’eux de véritables hyènes, les ligues de petite vertu subventionnées grassement par le racket organisé sur les  contribuables. Et garde aux « contrevenants » ! Dernièrement, une Londonienne, Emma West, excédée par l’immigration et qui l’exprima haut et fort dans un compartiment de transport public, a été arrêtée, accusée de trouble à l’ordre public et mise en détention préventive. « Le journal Metro puis un journaliste de la chaîne américaine C.N.N. ont lancé un appel à la délation sur Twitter (2) ». La police des transports a même appelé à la délation sur Internet pour connaître l’identité de cette terrible « délinquante » ! Sans cesse soumis à une propagande « anti-raciste » incessante, « les Européens ont commencé à se sentir méprisables, petits, vilains et asexués (p. 151) ». Citant Jules Monnerot et Renaud Camus, Caldwell voit à son tour l’antiracisme comme « le communisme du XXIe siècle » et considère que « le multiculturalisme est presque devenu une xénophobie envers soi-même (p. 154) », de l’ethno-masochisme ! Regrettons cependant que l’auteur juge le Front national de Jean-Marie Le Pen comme un parti « fasciste », doctrine disparue depuis 1945…

 

La mésaventure d’Emma West n’est pas surprenante, car « l’État-nation multiculturel est caractérisé par un monopole sur l’ordre moral (p. 413) ». Les racines de ce nouveau moralisme, de ce néo-puritanisme abject, proviennent du traumatisme de la dernière guerre mondiale et de l’antienne du « Plus jamais ça ! ». « Ces dernières années, l’Holocauste a été la pierre angulaire de l’ordre moral européen (p. 356) ». Il était alors inévitable que « le repentir post-Holocauste devient le modèle de régulation des affaires de toute minorité pouvant exiger de façon plausible d’un grave motif de contrariété (p. 357) ». Être victime est tendance, sauf quand celle-ci est blanche.

 

Dans cette perspective utopique d’harmonie interraciale, il paraît certain qu’aux yeux des tenants du politiquement correct et du multiculturalisme, « l’Islam serait tout simplement la dernière catégorie, après le sexe, les préférences sexuelles, l’âge et ainsi de suite, venue s’ajouter au langage très convenu qu’ont inventé les Américains pour évoquer leur problème racial au temps du mouvement des droits civiques (pp. 234 – 235) ». Pour Christopher Caldwell, c’est une grossière erreur, lui qui définit l’islam comme une « hyper-identité ».

 

Le défi musulman

 

Le choc entre l’islam et l’Occident est indéniable : le premier joue de son dynamisme démographique, de son nombre et de sa vigueur spirituel alors que le second se complaît dans la marchandise la plus indécente et la théocratie absconse des droits de l’homme, de la femme, du travelo et de l’inter… Les frictions sont inévitables entre la conception traditionnelle phallocratique musulmane et l’égalitarisme occidental moderne. Allemands et Scandinaves sont horrifiés par les « crimes d’honneur » contre des filles turques et kurdes « dévergondées » par le Système occidental. Les pratiques coutumières de l’excision, du mariage arrangé et de la polygamie choquent les belles âmes occidentales qui exigent leur interdiction pénale. Mais le musulman immigré n’est-il pas lui même outré par l’exposition de la nudité féminine sur les panneaux publicitaires ou de l’homoconjugalité (terme plus souhaitable que « mariage homosexuel ») ?

 

Caldwell rappelle que le Néerlandais Pim Fortuyn combattait l’islam au nom des valeurs multiculturalistes parce qu’il trouvait la religion de Mahomet trop monoculturelle et donc totalitaire. Des mouvements populistes européens (English Defence League, Vlaams Belang, Parti du Peuple danois, Parti de la Liberté de Geert Wilders, etc.) commettent l’erreur stratégique majeur de se rallier au désordre multiculturel ambiant et d’adopter un discours conservateur moderne (défense de l’égalité homme – femme, des gays, etc.) afin d’être bien vus de la mafia médiatique. Par cet alignement à la doxa dominante, ils deviennent les supplétifs d’un système pourri qui reste l’ennemi prioritaire à abattre.

 

Pour l’auteur d’Une révolution sous nos yeux, l’islam est dorénavant la première religion pratiquée en Europe qui connaît l’immense désaffection des églises. L’homme étant aussi un être en quête de sacré, il est logique que la foi mahométane remplit un vide résultant de décennies de politique laïciste démente. Et ce ne seront pas les tentatives désespérées de Benoît XVI pour réévangéliser le Vieux Continent qui éviteront cette incrustation exogène parce que Caldwell démontre – sans le vouloir – le caractère profondément moderniste du titulaire putatif du siège romain : l’ancien cardinal Ratzinger est depuis longtemps un rallié à la Modernité !

 

Dans ce paysage européen de l’Ouest en jachère spirituelle, « les musulmans se distinguent par leur refus de se soumettre à ce désarmement spirituel. Ils se détachent comme la seule source de résistance au multiculturalisme dans la sphère publique. Si l’ordre multiculturel devait s’écrouler, l’Islam serait le seul système de valeur à patienter en coulisse (p. 423) ». Doit-on par conséquent se résigner que notre avenir d’Européen soit de finir en dhimmi d’un quelconque califat universel ou bien en bouffeur de pop corn dans l’Amérique-monde ?

 

Puisque Caldwell souligne que « l’immigration, c’est l’américanisation (p. 446) », que « l’égalité des femmes constitu[e] un principe ferme et non négociable des sociétés européennes modernes (p. 317) » et que « vous pouvez être un Européen officiel (juridique) même si vous n’êtes pas un “ vrai ” Européen (culturel) (p. 408) », il est temps que, hors de l’impasse néo-conservatrice, le rebelle européen au Diktat multiculturel occidental promeuve une Alter-Europe fondée sur l’Orthodoxie traditionnelle ragaillardie, un archéo-catholicisme antétridentin redécouvert et des paganismes réactivés, une volonté de puissance restaurée et des identités fortes réenracinées. « L’adaptation des minorités non-européennes dépendra de la perception qu’auront de l’Europe les autochtones et les nouveaux arrivants – civilisation florissante ou civilisation décadente ? (p. 45) » Ni l’une ni l’autre; c’est la civilisation européenne qu’il faut dans l’urgence refonder !

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Pour preuve supplémentaire, lire la chronique délirante d’Ariel Wizman, « Pourquoi les immigrés sont les meilleurs alliés du libéralisme », dans L’Express, 7 décembre 2011.

 

2 : Louise Couvelaire, dans M (le magazine du Monde), 10 décembre 2011. Pour soutenir au moins moralement Emma West, on peut lui envoyer une carte postale à :

 

Mrs Emma West

co HMP Bronzfield

Woodthorpe Road

Ashford

Middlesex TW15 3J2

England

 

• Christopher Caldwell, Une révolution sous nos yeux. Comment l’islam va transformer la France et l’Europe, préface de Michèle Tribalat, Éditions du Toucan (25, rue du général Foy, F – 75008 Paris), coll. « Enquête & Histoire », 2011, 539 p., 23 €.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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jeudi, 29 décembre 2011

Concurrence géopolitique dans le Pacifique

 

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Bernhard TOMASCHITZ:

 

Concurrence géopolitique dans le Pacifique

 

Les Etats-Unis veulent contrer la montée en puissance de la Chine: ils projettent d’encercler l’Empire du Milieu!

 

Dans les rapports bilatéraux entre les Etats-Unis et la Chine, la méfiance réciproque est désormais de mise. Lors de sa visite en Australie, le Président américain Obama a en effet déclaré: “J’ai pris une décision d’ordre stratégique: en tant qu’Etat riverain du Pacifique, les Etats-Unis joueront dans l’avenir un plus grand rôle dans la mise en valeur de cette région; c’est là une politique à mener sur le long terme”. De plus, les Etats-Unis entendent bâtir une base militaire à proximité de la ville de Darwin dans le Nord de l’Australie, où seront plus tard casernés 2500 soldats d’élite. Obama veut en plus créer une zone de libre-échange dans le Pacifique qui comprendrait l’Australie, le Japon, Singapour et le Vietnam, tandis qu’il n’y aurait aucune place pour la Chine dans ce projet.

 

 

Quand ils prennent acte de ces projets stratégiques, les Chinois craignent d’être encerclés par les Etats-Unis. Soupçon parfaitement justifié! Déjà en 2006, les Etats-Unis et l’Inde avaient signé un accord d’ampleur assez vaste par lequel la Nouvelle Delhi se voyait reconnaître au niveau international comme puissance nucléaire. Outre cet accord américano-indien, les Etats-Unis entretiennent des bases militaires au Japon et en Corée du Sud. Si dorénavant l’Axe liant les puissances d’Asie aux Etats-Unis se voit prolongé jusqu’en Australie, alors l’influence de la Chine restera limité à ses seules eaux côtières.

 

 

Les projets de Washington doivent se percevoir comme une tentative d’endiguer la Chine, tant que cela est encore possible. Car le développement économique de l’Empire du Milieu s’effectue à une vitesse de croissance inégalée, ce qui agace et inquiète les Etats-Unis, encore plus préoccupés par l’éveil d’une politique étrangère chinoise bien consciente des enjeux planétaires. Au Conseil de Sécurité de l’ONU, les Chinois ne cessent de torpiller les projets américains, comme, par exemple, quand il s’agit d’infliger à l’Iran des sanctions encore plus draconiennes. Dans la lutte pour la domination économique des Etats riches en matières premières, notamment en Afrique et en Asie centrale, Beijing et Washington sont devenus de véritables rivaux. A tout cela s’ajoute que le modèle chinois, couplant une économie libéralisée et un appareil d’Etat autoritaire, exerce une attraction de plus en plus évidente sur les pays en voie de développement et sur les pays émergents qui préfèrent opter pour un avenir politique différent de celui suggéré par la “démocratie libérale” de type américain. De ce fait, la Chine n’est plus seulement un concurrent économique des Etats-Unis mais elle les défie en agissant justement sur leur point le plus sensible: celui de vouloir incarner et propager de manière monopolistique la seule démocratie de facture occidentale, au détriment de toutes les autres formes possibles de gouvernance. Ce n’est donc pas un hasard si, un jour, Obama a déclaré, en s’adressant à la Chine d’un ton assez menaçant: “Nous continuerons à expliquer, y compris à Beijing, quelle est la signification pour nous du maintien des normes internationales et du respect des droits de l’homme pour le peuple chinois”.

 

 

Il y a plus: la modernisation des forces armées chinoises, et surtout de la marine de guerre de l’Empire du Milieu, montre que Beijing n’entend pas se contenter, dans l’espace pacifique, d’un rôle de “junior partner”, soumis à la volonté américaine. Le renforcement militaire chinois a pour effet que les frais d’entretien de l’empire américain doivent désormais être révisés à la hausse dans la région, notamment pour garantir la sécurité d’alliés comme le Japon ou la Corée du Sud et surtout Taiwan. Plusieurs incidents confirment ce nouvel état de choses: la marine chinoise s’attaque de plus en plus souvent à des navires de prospection vietnamiens ou philippins qui oeuvrent en Mer de Chine du Sud, espace marin dont les riverains se querellent à propos du tracé des frontières maritimes et, partant, sur la superficie de leur zone d’influence économique. Lors de ces escarmouches, ce ne sont pas tant les Vietnamiens ou les Philippins qui sont les destinataires des menaces chinoises mais avant tout les Etats-Unis.

 

 

Les Chinois, dans ce contexte, s’inquiètent surtout de l’amélioration constante des rapports américano-vietnamiens, en dépit du souvenir cuisant de la guerre du Vietnam. Le Vietnam communiste a certes libéralisé son économie en s’inspirant du modèle chinois et s’est ouvert aux investisseurs étrangers mais les relations avec le grand voisin du Nord n’en demeurent pas moins empreintes de méfiance pour des raisons historiques. Pendant des siècles, les Vietnamiens ont dû payer tribut aux empereurs de Chine et, pendant la seconde moitié du 20ème siècle, la Chine n’a jamais omis de toujours briser, avant qu’ils ne se concrétisent, les rêves vietnamiens de devenir une puissance régionale, en dépit de la “fraternité communiste” censée unir Hanoi à Beijing. Quant au Vietnam, le pays le plus densément peuplé de l’Indochine, il a toujours revêtu une signification particulière pour les Chinois: en effet, la puissance étrangère qui contrôlera ce pays limitera ipso facto et de manière considérable l’influence de Beijing dans la région et fera courir à la Chine le risque d’être encerclée.

 

 

Où l’affaire risque bien de devenir explosive, c’est quand les relations américano-vietnamiennes se trouvent renforcées par les activités du consortium pétrolier américain Exxon dans les eaux de la Mer de Chine du Sud. Fin octobre, l’Energy Delta Institute annonçait qu’Exxon avait découvert devant les côtes du Vietnam “des gisements de gaz d’une ampleur assez considérable” dans une région qui est également revendiquée par la Chine. La situation, déjà âprement concurrentielle, pourrait dès lors prendre une tournure plutôt dangereuse. Car, au même moment, le ministère de la défense américain travaillerait, selon le “Financial Times”, “à développer rapidement une nouvelle stratégie prévoyant une bataille aérienne et navale, afin d’acquérir à terme les moyens de contrer les plans chinois visant à empêcher les forces armées américaines de pénétrer dans les mers voisines de la Chine”.

 

 

Berhard TOMASCHITZ.

 

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°48/2011; http://www.zurzeit.at ).

 

Wie westliche Mächte und Medien in Russland die nächste Revolution inszenieren

Weltkrieg? Wie westliche Mächte und Medien in Russland die nächste Revolution inszenieren

Russland und der Welt stehen gefährliche Zeiten bevor. Die schweren Umwälzungen, die nach dem sogenannten »Arabischen Frühling« funktionierende Länder wie Ägypten, Tunesien und Libyen inzwischen völlig destabilisiert haben, könnten jetzt bald auch Moskau ereilen. Die Massenproteste der letzten Wochen, vor allem in der Hauptstadt und in Sankt Petersburg, sind nach Meinung unabhängiger Beobachter schwerwiegende Beweise einer generalstabsmäßig geplanten Revolution, mit der man vor allem eins erreichen will: Den erstarkenden Wladimir Putin wegzukriegen, bevor er im März an die Macht kommt! Ernste Sorge: Man werde auch vor dessen Tötung nicht zurückschrecken. Denn es geht um die Weltherrschaft des 21. Jahrhunderts! Partei für die westlichen Mächte hat jetzt auch Michail Gorbatschow ergriffen: Er forderte gestern Putins Rücktritt.

Im direkten Visier des Westens stehen aktuell also nicht nur Syrien und Iran, sondern vor allem auch Russland. So sei es ebenso nicht ausgeschlossen, dass die USA und Großbritannien vor einem Anschlag unter Falscher Flagge nicht zurückschrecken werden, so USA- Journalist Webster Tarpley. Denn Russland ist zur Existenzfrage der anglo-amerikanischen Pläne geworden, die nun einmal vorsehen, Macht über die ganze Welt zu erlangen.

Mehr: http://kopp-online.com/hintergruende/deutschland/redaktion/weltkrieg-wie-westliche-maechte-und-medien-in-russland-die-naechste-revolution-inszenieren.html

China-US Relations: Washington's Asia Strategy Could Destabilize the Entire Asian Pacific Region

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China-US Relations: Washington's Asia Strategy Could Destabilize the Entire Asian Pacific Region

Obama administration’s Asia pivot strategy sows more seeds of suspicion than cooperation             

By , WASHINGTON: The Obama administration ruffled a few feathers in the Asia-Pacific region in November with its high-profile trumpeting of the Pivot to Asia strategy, widely regarded as an attempt to consolidate U.S. predominance in the region in face of a rising China.

The U.S. shift of strategic focus is characterized by a more confrontational stance with China. Despite the U.S. public denial of containing China, there has been widespread suspicion that Washington has a hidden agenda behind the strategy, i.e., to counterbalance China’s growing influence in the Asia-Pacific region.

“The United States is now signaling an intention to move back toward the pre-9/11 strategic focus on a rising China. That focus places a premium on explicitly balancing against and constraining Chinese power and influence across the region,” wrote Michael Swaine, a senior associate at the Carnegie Endowment for International Peace, in a recent article.

STRATEGIC SHIFT COMES WITH TOUGH RHETORIC, PROVOCATIVE MOVES

The Obama administration launched the strategic shift of pivoting to Asia with great fanfare in November when it was hosting the annual gathering of the Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC).

In a speech at the East-West Center in Hawaii ahead of the APEC summit, U.S. Secretary of State Hillary Clinton declared “The 21st century will be America’s Pacific century,” vowing that her country will stay in the region as a resident diplomatic, military and economic power.

At the APEC summit, U.S. President Obama actively promoted the Trans-Pacific Partnership (TPP), a U.S.-championed free trade agreement and a potential trans-Pacific security architecture.

The TPP, which pointedly excludes China, is widely seen as a thinly-disguised counterweight to free trade blocs in the region involving China and other Asian countries.

In rare tough rhetoric, Obama also pointed a finger at China for not playing by the rules in trade and economic relations, pledging to “continue to speak out and bring action” on issues such as currency and intellectual property rights.

Meanwhile, the United states has intensified its intervention in the territorial dispute over the South China Sea between China and several southeastern Asian countries, under the excuse of protecting freedom of navigation.

Immediately following the APEC meeting, Obama traveled for the first time to Indonesia to attend the East Asia summit, where he encouraged the participating countries to seek a multilateral solution to the South China Sea issue despite opposition from China, which advocates settling it through bilateral negotiations.

During his stay in Canberra, Obama signed a deal to station U.S. Marines in northwest Australia, with an eye on a potential contingency in the South China Sea.

While celebrating the 60th anniversary of the signing of the U.S.-Philippine mutual defense treaty, Hillary Clinton reaffirmed in Manila the U.S. commitment to the security of the Philippines, in a move regarded as a U.S. show of support to Manila in its dispute with China.

Furthermore, the U.S. government said it is considering plans to deploy advanced coastal combat ships in Singapore and perhaps the Philippines in the coming years to expand the U.S. military presence in the Asia-Pacific region.

OBAMA AIMS FOR DOMESTIC, INTERNATIONAL GAINS

U.S. experts believe that the U.S. strategic shift to Asia is driven not only by President Obama’s need to win the reelection in 2012, but also by the growing perception of an America in decline due to China’s fast rise.

Apparently, Obama counts on increased trade with the Asia-Pacific, the most dynamic economic region at the time of a global downturn, to create more jobs back at home to bring down the high unemployment rate that threatens to cost his own job.

This shift reflects “a recognition of the increasingly vital importance of that region for future American wealth, security and global influence,” Swaine wrote in the article posted on Dec. 7 on the website of the magazine The National Interest.

Douglas Paal, vice president for studies at the Carnegie Endowment for International Peace, said the economic factor of Obama’s Pivot to Asia policy” is the justification because of the current need to restart the American economy and to deal with the stress on the defense budget.”

Domestically, Obama also aims to refute the criticism from his Republican challengers who decry him for being too soft toward China, a convenient target for U.S. candidates in nearly every election year in the past decades.

“Obama has taken a pretty positive agenda with China in 2009, and he was seen as weak…Given the upcoming election, the Republican candidates are fighting against China. Obama did not want to put himself at a position of defending China against his opponents,” Paal told Xinhua in an interview.

Meanwhile, the U.S. strategic shift was also motivated by fears about China’s challenges to the U.S. status as the dominant power in the world, although China has made it clear that it has neither the strength nor intention to vie with the United States for dominance.

The decade-long anti-terrorism campaign, which diverted U.S. attention and resources to the wars in Afghanistan and Iraq, has fueled the perception of U.S. decline as the sole superpower, especially when it is suffering from a prolonged economic downturn and a worsening debt crisis.

U.S. MOVES HAVE POTENTIALLY DESTABILIZING EFFECTS

Obviously, the U.S. Asia pivot strategy doesn’t bode well for China-U.S. relations, already soured in 2011 by a series of provocative U.S. moves, including its announcement of a massive arms sale package to China’s Taiwan in September.

“We are going to have a distressful year” in 2012, Paal said.

U.S. experts are critical of the Obama administration’s new posture in the Asia-Pacific region, especially its position on the South China Sea dispute, saying it has potentially destabilizing implications by emboldening certain countries to confront China.

Swaine expressed worries that the Obama administration’s execution of this shift and China’s reaction “are combining to deepen mutual suspicion and potentially destabilize the entire area.”

The words and deeds by officials of the Obama administration are creating the impression in some Asian capitals that Washington is now supporting their disputes with Beijing over maritime territories, Swaine said.

Paal also criticized Hillary Clinton for her “inappropriate rhetoric” during her visit to Manila, where she referred to the South China Sea as the “West Philippine Sea,” a phrase used solely by the Filipinos.

It “appeared in China’s eyes to be taking the Philippines’ position in a dispute where Clinton previously said the U.S. would not take sides,” he said.

Analysts believe that as its economic and trade ties with China are becoming increasingly closer, United States [efforts] will only backfire if it still embraces the cold-war mentality and adopts policies to contain China.

The U.S. move to station troops in Australia also stirred up concerns in some capitals in the Asia-Pacific region, with Indonesian Foreign Minister Marty Natalegawa warning on Nov. 18 that such arrangements would lead to misunderstanding and provoke a “vicious circle of tension and mistrust.”

Noting widespread doubts within the international community about whether the United States can sustain its leadership and predominance in the Asia-Pacific, Swaine said “Washington must rethink its basic assumptions about its role in the region.”

The United States should “reexamine how best to address and when to accommodate China’s most critical security concerns, especially along its maritime borders,” Swaine wrote in his article.


 Global Research Articles by Zhi Linfei

 Global Research Articles by Ran Wei

L’Allemagne paiera !

 

 

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L’Allemagne paiera !

 

par Jacques GEORGES

 

On se croirait revenu en 1919 : l’Allemagne est coupable, la sale fourmi boche qui empêche de s’endetter en rond paiera !

 

Depuis qu’il y a une décennie l’Allemagne s’est imposé un Agenda 2010 à base d’efforts de compétitivité, de maîtrise de la dépense et des salaires, rien ne va plus. Confrontée au défi immense de la réunification, l’Allemagne a fait front avec responsabilité et sens du long terme, droite et gauche confondues. Cette attitude contraste avec celle de la quasi-totalité de ses voisins, cigales optimistes et légères trouvant leur bonheur grincheux qui dans l’inflation salariale, les 35 heures et la C.M.U., qui dans les profits faramineux et vite gagnés des activités de marché, qui dans l’immobilier à tout va, et tous dans la générosité à crédit avec l’immigrant et l’explosion joyeuse des salaires des footballeurs et présentateurs de télé. On en est d’ailleurs toujours là dans l’opinion française, puisque les politiciens irresponsables et incompétents des « Trente Piteuses » tiennent toujours le haut du pavé, préconisent la progression vers les 32 heures, et que les sondages attestent de records de popularité et d’amour envers politiciens et footballeurs dans le bon peuple qui regarde le 20 heures.

 

On comprend dans ces conditions la remontée des sentiments anti-boches : ces fourmis sans cœur ne prospèrent que sur notre dos, abusent de leur force injuste, voient conservateur, étroit et dogmatique, finissent par céder, mais toujours trop tard, bref sont responsables de ce qui nous arrive. Derrière ces critiques et ces insultes, on trouve les remugles anti-boches de notre Clémenceau national, la haine recuite des Bainville et maurrassiens de tout poil contre le « Boche », la nostalgie de Valmy, du Richelieu des traités de Westphalie ou de Louis XIV héros du Palatinat, bref tout un héritage de sentiments glorieux bidons qui portent tout leur poids de jalousie, de petitesse, de médiocrité et d’irréalisme pathétique. Seul contrepoids à ce sentiment d’exécration tourné vers la ligne bleue des Vosges, la sortie de la Grande-Bretagne de l’Accord européen à 26 laisse pantois et amène nos souverainistes à se gratter la tête : et si sortir de l’Europe signifiait se mettre totalement dans la main des marchés exécrés ? Ces Anglais sont utiles : ils nous montrent qu’il y a pire que les Boches !

 

La manière chaotique et éminemment discutable dont le couple à la Dubout franco-allemand gère la crise depuis la replongée des derniers mois n’ajoute certes pas une page glorieuse au livre si merveilleux et tragique de l’histoire de l’Europe. Beaucoup dans le vaste monde s’inquiètent et commencent à se dire que la crise de l’euro et de l’Europe est décidément une chose trop sérieuse pour être laissée entre les seules mains des Européens. La subvention permanente sur fonds publics faite aux banques au motif qu’elles sont le sang de notre économie, la reddition volontaire au F.M.I. et donc aux Américains pourtant plus atteints que nous, l’improvisation pagailleuse de sommets historiques devenus trimestriels, le constat que la crise approche inexorablement sans que nos Diafoirus de l’économie et de la politique y puissent mais, la multiplication des experts et petits maîtres plus ou moins démagos nés de la crise comme orties sur le fumier, tout ceci est préoccupant.

 

Pour nous, patriotes européens, plus les choses se compliquent, plus elles se simplifient. Dans la tempête qui vient, quelques idées fortes et élémentaires doivent s’imposer : priorité à tout ce qui va dans le sens des identités naturelles, régionales, nationales et européenne, et par-dessus tout priorité au Destin européen. Osons un gros mot pour les crétins que ce mot effarouche : la Fédération continentale européenne est notre ligne de mire pour les cent ans à venir. Caton, Drieu, Jünger, priez pour nous !

 

Jacques Georges

 


 

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L’appel aux dieux: la phénoménologie de la présence divine

L’appel aux dieux:
la phénoménologie de la présence divine

par Collin Cleary

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1. Introduction

Le problème avec nos païens occidentaux modernes, c’est qu’ils ne croient pas vraiment en leurs dieux, ils croient seulement croire en eux.

Mes ancêtres croyaient, mais je ne sais pas de quelle manière ils croyaient. Je confesse que je ne sais pas à quoi cela ressemble de vivre dans un monde où il y a des dieux. De temps en temps j’aurai un aperçu de ce à quoi cela pourrait ressembler, mais dans la vie quotidienne je vis dans un monde qui semble complètement humain et complètement profane. Cela ne sert à rien de me dire que le monde m’apparaît ainsi parce que j’ai été imprégné de scientisme et de matérialisme modernes. Savoir que c’est le cas ne m’ouvre pas forcément le monde d’une manière différente. Il est également inutile de me dire à quel point je me sentirais mieux (ainsi que le monde) si nous croyions encore aux dieux. Ceci est une approche purement intellectuelle et même idéologique qui ne marchera simplement pas.

Ainsi pourquoi, pourrait-on se demander, suis-je donc préoccupé par le « problème » de ne pas croire aux dieux ? Parce que je sais qu’il est vraiment peu plausible de penser que mes ancêtres soient simplement restés assis et aient « inventé » leurs dieux1[1]. La pensée me tenaille qu’ils possédaient une sorte de conscience différente, ou un certain sens particulier qui s’est maintenant atrophié en nous, qui permettait aux dieux de se manifester à eux. Et ensuite il y a aussi ma conviction que quelque chose de très important a été perdu pour nous dans le monde « post-païen ». J’ai tenté de penser mon chemin de retour à la croyance aux dieux ; me convaincre moi-même, intellectuellement, de leur existence. Je sais que cela ne marche pas, et je ne pense pas que cela marchera pour quiconque d’autre. Quelles sont donc nos autres options ?

Dans mon essai « Connaître les dieux », j’ai dit quelque chose dans le genre-là. J’ai rejeté l’approche moderne tentant d’« expliquer » ce que sont les dieux en les réduisant à quelque chose d’autre (par ex. à des « forces »). J’ai dit que l’« ouverture aux dieux » implique une ouverture à l’Etre en soi. En disant cela, je m’inspire bien sûr de la pensée de Heidegger. Pour celui-ci, ce qui fait la différence entre les anciens et les modernes est que les modernes voient la nature somme une simple « matière première » à transformer d’après les projets et les idéaux humains. En d’autres mots, pour les modernes, la nature n’a essentiellement pas d’Etre : elle attend que les humains lui confèrent une identité. D’après Heidegger, l’attitude des anciens était tout à fait différente. Il serait probablement excessif de dire que les anciens regardaient la nature (physis, en grec) avec « respect ». Cela ressemble beaucoup trop à l’attitude des citadins retrouvant la nature par hasard, après en avoir été séparés pendant longtemps ; ce n’est pas l’attitude de ceux qui vivent quotidiennement avec la nature. Pour utiliser le langage de Kant, on pourrait dire que les anciens regardaient les objets naturels comme des fins-en-soi, pas simplement comme des moyens pour des fins humaines.

Pour expliquer cette idée, j’utiliserai une analogie très simple. Il n’est pas inhabituel de voir des mariages dans lesquels le mari est la figure dominante – à tel point que la femme semble à peine avoir une présence. Le mari fait des grands discours sur une question quelconque, en compagnie d’amis, et lance un regard en coin à la femme : « Tu penses la même chose, n’est-ce pas ma chérie ? ». Et avant qu’elle puisse répondre il recommence à discourir sur autre chose. Même s’il lui donnait le temps de répondre, elle n’oserait jamais s’opposer à lui. Un tel homme a tendance à être très surpris quand, des années après, il découvre d’une manière ou d’une autre que sa femme est très mécontente de cet arrangement. Il a généralement un choc quand il découvre qu’elle a une vie intérieure bien à elle, et qu’en interdisant à cette vie intérieure de s’exprimer il s’est fait un très mauvais mariage. Cette situation est exactement analogue à la relation entre l’homme moderne et la nature. La nature, si elle est traitée comme une simple chose à laquelle l’homme impose sa volonté, se ferme. Elle devient silencieuse et cesse de révéler sa vie intérieure et ses secrets à l’homme. Pendant ce temps, bien sûr, l’homme pense qu’il a sondé les profondeurs de la nature, et qu’elle n’a plus beaucoup de secrets à révéler. Mais, comme l’a dit Héraclite, « la nature aime se cacher ».

L’homme occidental chrétien avait jadis cru que le monde était un objet créé par un Dieu omnipotent. L’homme moderne a rejeté Dieu, mais a conservé l’idée que la terre est un objet. Nos scientifiques s’efforcent de découvrir comment les objets naturels sont « construits » ou « assemblés ». Ils décomposent les choses en « parties » ou en « composantes ». Avec un objet, bien sûr, on peut le détruire et utiliser sa « matière » pour construire quelque chose d’autre – peut-être quelque chose de meilleur que ce qui existait à l’origine. C’est ainsi que l’homme moderne voit la nature : simplement comme une chose à transformer en une autre chose meilleure. Et la chose que nous fabriquons continue à s’améliorer sans cesse. Ou c’est ce que nous nous imaginons. Face à une humanité qui n’accepte plus l’existence même de la nature, aucune existence par elle-même, les dieux, semble-t-il, nous ont quittés. Comme l’a dit Heidegger : « sur la terre, sur toute sa surface, se produit un obscurcissement du monde. Les événements essentiels de cet obscurcissement sont : la fuite des dieux, la destruction de la terre, la réduction des êtres humains à une masse, la prépondérance du médiocre » [2].

En nous fermant à l’être de la nature, nous nous fermons simultanément à l’être des dieux. Ceci est une partie majeure de ce que j’ai dit dans « Connaître les dieux ». Les dieux et ce que nous appelons nature appartiennent au même domaine : le domaine du « en soi ainsi ». En chinois, « Nature » est tzu-jan. Cela s’écrit en utilisant deux pictogrammes, dont l’un peut être traduit par « en soi » et l’autre « ainsi ». Qu’est-ce que cela signifie ? Le « en soi ainsi » est ce qui est, ou ce qui est arrivé, indépendamment de l’action ou de l’intervention humaine consciente[3]. Il a approximativement le même sens que le grec physis.

J’étais un jour à une conférence, et j’eus l’occasion de parler de la « nature » à une universitaire. Elle me demanda ce que je voulais dire par ce mot. J’exprimai ma surprise qu’elle ne connaisse pas cela, sur quoi elle m’informa que la nature était une « construction sociale ». Nous étions assis à une table et je lui demandai de tendre le bras et de découvrir son poignet. Je pris son poignet dans ma main, et quand j’eus trouvé son pouls je lui dis de mettre son autre main dessus et de le sentir. « Voilà », dis-je. « C’est la nature. La société n’a pas construit cela. Ce n’est pas venu non plus par votre propre choix ou intention. Cela arrive simplement, que ça vous plaise ou non ». C’est le « en soi ainsi ».

Les êtres humains ont le choix de s’ouvrir au « en soi ainsi » ou de s’y fermer. L’homme moderne a choisi de s’y fermer. Mais bien que le « en soi ainsi » soit traduit par « nature », c’est une catégorie beaucoup plus large. En se fermant au « en soi ainsi », l’homme s’est fermé à tout ce qui est autre : à ce que nous appelons nature, et à tout ce qui existe de soi-même, en-dehors de l’humanité – incluant tout ce qui pourrait être « surnaturel ».

Le but de cet essai, que j’ai conçu comme une suite à « Connaître les dieux », est de demander spécifiquement comment nous pouvons restaurer l’ouverture au « en soi ainsi ». C’est la question que l’autre essai avait laissé largement sans réponse. Au cas où ce ne soit pas clair, laissez-moi dire encore une fois que je prends l’ouverture au « en soi ainsi » comme supposition. Je la prends comme un moyen de conscience et d’acceptation de ce qui a une existence en soi. Je prends la « nature » comme faisant partie de ce « en soi ainsi », avec ce qui a été désigné comme le « surnaturel » : les dieux, ainsi que le dieu-sait-quoi.

Avant tout, il faut comprendre que ce qui est le « en soi ainsi » fait aussi partie de nous. Le pouls qui bat dans nos poignets en est un exemple. Ainsi que la faim que l’on ressent quand un repas met longtemps à venir, ou le désir sexuel qui monte, sans aucune permission de l’intellect. Quand je dis que l’homme moderne s’est fermé à ce qui est autre, je ne veux pas dire qu’il s’est fermé à tout ce qui est à l’extérieur de sa peau. L’homme moderne s’est identifié à son intellect conscient seul. Il traite son corps de la manière qu’il traite tout autre objet naturel : comme quelque chose qui lui « appartient », et qui doit être maîtrisé, et même, comme nous disons souvent aujourd’hui, « converti ». Nous n’avons pas besoin de « sortir de nous-mêmes » pour rencontrer la nature ou le « en soi ainsi », à condition d’avoir une conception du moi qui englobe davantage que l’intellect conscient.

L’ouverture doit donc impliquer le rejet de l’idée que l’esprit est la seule chose qui compte pour l’identité de quelqu’un. Elle doit impliquer la reconnaissance qu’une grande partie du « moi » n’est pas consciemment choisie ou contrôlée. L’ouverture devient alors non pas tant l’ouverture d’un espace qui se remplira par la suite qu’une sorte de communion avec un autre qui, en un sens, n’est maintenant plus aussi autre.

Dans un essai surtout consacré à Benjamin Franklin, D. H. Lawrence offre sa propre « croyance », par opposition à la croyance « sensible » des Lumières qui était celle de Franklin. Il écrit qu’il croit

« Que je suis moi ».

« Que mon âme est une forêt obscure ».

« Que mon moi connu ne sera jamais plus qu’une petite clairière dans la forêt ».

« Que les dieux, les dieux étranges, sortent de la forêt pour entrer dans la clairière de mon moi connu, et ensuite repartent ».

« Que je dois avoir le courage de les laisser aller et venir ».

« Que je ne laisserai jamais l’humanité mettre quelque chose au-dessus de moi, mais que je tenterai toujours de reconnaître les dieux en moi et de m’y soumettre ainsi que pour les dieux dans les autres hommes et femmes » [4].

L’âme est en effet une forêt obscure. Comme l’a dit Héraclite : « Vous ne découvririez pas les limites de l’âme même si vous fouliez chaque chemin : elle a un logos si profond » [5]. Mais l’homme moderne s’est identifié à la petite clairière du Moi connu. En-dehors de cette clairière il y a une grande forêt obscure, et au-delà se trouve la grande nature sauvage qui est le monde lui-même. L’homme l’éclaire avec sa lampe de poche et s’imagine qu’en-dehors de son rayon il n’y a que le vide. Et « petit bois » est le mot ingénieux qu’il utilise pour décrire la minuscule partie qu’il éclaire.

2. Comment appeler les dieux

Arrêtons-nous et examinons à quels moments – à quelles occasions – nous avons le sentiment de la réalité de ce qui est autre. Les meilleurs exemples sont quand les choses tombent en panne ou trompent nos attentes d’une façon ou d’une autre. C’est ainsi que Heidegger approche la question. Nous montons dans notre voiture pour commencer une journée chargée, faire des affaires et faire les courses – et nous découvrons qu’elle ne démarre pas. Mon expérience de telles situations est qu’il y a d’abord un sentiment de quasi « irréalité ». Nous avons envie de dire (et nous disons souvent) : « Je ne peux pas y croire ». Et soudain l’être de cette concaténation de métal et de plastique nous confronte à toute sa facticité frustrante. Une situation encore pire survient quand le corps tombe malade, quand soudain il ne fonctionne pas comme nous l’attendons. Le corps nous semble alors être un simple autre. Ces deux situations, et toutes les autres comme elles, sont des occasions où une chose qui a été prise comme allant de soi semble soudain s’affirmer toute seule. Ce qui avait été regardé comme un simple instrument, comme une extension de la volonté humaine, devient un être en soi. Le résultat est de la frustration, de l’étonnement, de la fureur, et quelque chose comme du respect.

Mais, en termes religieux, ce que nous voulons ce n’est pas d’être intimidé par ceci ou cela, mais plutôt de finir par trouver le monde lui-même respectable dans son étrangeté. Faut-il que le monde « tombe en panne », comme une voiture, pour que nous connaissions cela ? Bien sûr, la réponse est qu’il ne le peut pas. Ce qui arrive très souvent c’est que nous tombons en panne et que le monde nous apparaît comme quelque chose qui pourrait être perdu pour nous à jamais. J’ai à l’esprit des situations où les êtres humains ont un contact avec la mort ou la folie, ou se retrouvent face à leur propre mortalité ou fragilité. Et j’ai souvent pensé que certains hommes prennent délibérément des risques – précipitent délibérément un contact avec la mort – simplement pour pouvoir ressentir un sentiment renouvelé de respect ou d’émerveillement face à l’existence. De tels hommes développent très souvent un « sentiment » non seulement de la bizarre étrangeté du monde, mais aussi une intuition « mystique » de quelque chose comme la divine providence agissant derrière la scène[6].

Heureusement, nous n’avons pas besoin de sauter d’un avion ou de gravir une montagne pour parvenir à l’ouverture du genre qui m’intéresse. Il nous suffit de poser une seule question et d’y réfléchir : pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ? Ici encore, j’emprunte à Heidegger, mais pour aller dans une direction que Heidegger n’a pas vraiment explorée[7].

En Inde, il y a un exercice de méditation très simple souvent accompli par les chercheurs de sagesse. Il consiste à prendre n’importe quel objet si banal soit-il – ce peut être un caillou, ou un mégot de cigarette –, à le placer sur le sol, et à tracer un cercle autour de lui dans la poussière. L’effet est de prendre un objet qui normalement est considéré comme allant de soi, qui figure dans la vie comme un simple instrument ou comme quelque chose d’à peine remarqué, et de nous rendre conscients de son être. Disons que c’est un mégot de cigarette. Quand nous traçons un cercle autour, il devient un objet de méditation approprié. Ce sur quoi nous méditions, ce n’est pas sa grossière nature de mégot de cigarette, mais le fait de son être – le fait même qu’il existe. C’est une manière de s’habituer à la merveille de l’être.

Poser la question pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ?, c’est tracer un cercle autour ce qui est, tel quel. C’est une manière par laquelle, en un clin d’œil, le monde entier dans lequel nous nous trouvons peut devenir un objet de méditation – et de respect et d’émerveillement.

Quand nous rencontrons l’être-en-soi comme un miracle, il est naturel (et inévitable) que nous nous demandions d’où il vient. La version infantile de cette question est : « Qui l’a fait ? ». La version plus sophistiquée ne s’interroge pas sur l’existence physique de l’univers considéré comme une totalité, mais sur la source de l’abondance qui se présente à nous dans l’univers. Nous nous émerveillons de l’inépuisable richesse de l’univers, de l’infinie multiplicité des types de choses, et des variations de ces types, et de l’infinie complexité de chaque chose, si banale soit-elle. Nous nous émerveillons du continuel réapprovisionnement des êtres – la continuelle parade des types donnant naissance à d’autres semblables à eux, et de la faculté des êtres à se régénérer et à se guérir eux-mêmes. Il est naturel de s’émerveiller de la source de tout ceci. C’est la « source de l’être » que cette question fondamentale, pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ?, rend thématique.

Pensez un moment à l’origine d’une source. Où se termine la source et où l’origine commence-t-elle (ou vice-versa) ? A son origine, la source disparaît dans le sol. L’origine est-elle le trou dans le sol ? Assurément non. L’origine est-elle une quantité d’eau distincte de la source ? A nouveau, sûrement pas. La source et son origine se mêlent. L’origine du courant est invisible. Mais nous comprenons que la source s’écoule à partir de cette origine invisible. C’est exactement ainsi que les Grecs concevaient la physis, comme surgissant continuellement  d’une origine ultime – archè, en grec. Cette compréhension est le sens des symboles anciens tels que la corne ou le chaudron d’abondance, et le Saint Graal. L’archè est le fondement infondé de toute l’abondance.

Le problème fondamental avec les êtres humains est qu’en fait ils veulent être eux-mêmes l’archè, la source de toutes choses. Toutes nos tentatives pour comprendre une chose quelconque impliquent de saisir comment l’être de la chose découle de certains principes que nous avons découverts. Nos tentatives pour comprendre sont des tentatives de comprendre du-dessous. Nous nous efforçons en effet de supprimer les bases d’un objet et d’en devenir le fondement en finissant par voir comment l’être de l’objet découle de nos idées. Quand le scientifique, par exemple, comprend les phénomènes, il souligne que les phénomènes découlent des principes qu’il instaure[8]. Mais quand nous tournons nos esprits vers l’archè ultime – dont nous venons nous-mêmes –, en dépit de toutes nos affirmations d’avoir conquis la nature, l’être se manifeste comme une donnée mystérieuse et miraculeuse. L’archè est le fond sur lequel la figure de l’être-en-soi se manifeste.

Cependant, comme l’indique l’exemple du cercle autour du mégot de cigarette, on peut trouver une merveille dans un être unique, aussi bien que dans l’être-en-soi. Et quand nous nous tournons, avec cette attitude d’émerveillement, vers les phénomènes individuels dans l’existence, une autre question fondamentale surgit. Nous pourrions nous demander à propos d’une chose quelconque, pourquoi cette chose particulière doit-elle être, et être de la manière qu’elle est ? Prenons le phénomène du sexe. Quand l’esprit tente de penser au sexe d’une manière dépassionnée, cela finit par ressembler à une activité plutôt absurde et grotesque. Pourquoi cela devrait-il être aussi fascinant ? Pourquoi cela devrait-il absorber autant de notre temps et être si important pour nous ? Et pourtant ça l’est. Et plus on tente d’y penser de cette manière, plus on craint de finir par tout gâcher ! Le résultat est que, intimidés par la pure et inexplicable réalité du sexe, nous continuons à nous en émerveiller et à le rechercher comme avant. En fait, c’est peut-être bien le seul domaine, dans la vie de beaucoup de gens, dans lequel le miracle arrive encore[9].

Mais tout le reste peut être approché avec cette attitude d’émerveillement. Un bel animal est aussi un objet d’émerveillement. Pourquoi cette chose particulière doit-elle être, et être de la manière qu’elle est ? Le fait du vent et de la pluie, du soleil et des étoiles, tout cela peut susciter l’émerveillement, et susciter ce questionnement. Et il n’y a pas besoin que ce soit une entité physique ou perceptible : ce peut être le fait de la naissance, ou de la mort, ou des cycles naturels, etc.

Maintenant, quand nous posons cette question, il peut sembler que nous demandons une sorte d’explication officielle et scientifique, mais ce n’est pas le cas. Aucun cours sur la sélection naturelle ne pourra supprimer mon émerveillement devant l’être de mon chat – mon émerveillement qu’une telle chose soit, et soit de la manière qu’elle est. Je n’ai aucune querelle avec l’explication scientifique. Mais l’explication scientifique ne peut pas supprimer cet émerveillement ultime et métaphysique devant la pure existence des choses. Je suis parfaitement prêt à accepter l’explication des scientifiques sur la manière dont les chats sont apparus – mais je regarde quand même mon chat et je me dis : « N’est-ce pas incroyable de vivre dans un monde où des choses aussi merveilleuses existent ? ».

Ma thèse est celle-ci : notre émerveillement devant l’être de choses particulières est l’intuition d’un dieu, ou d’un être divin.

Suis-je en train de dire que quand je regarde mon chat et que je connais ce sentiment d’émerveillement, j’ai l’intuition que mon chat est un dieu ? Oui et non. L’émerveillement que je connais vient de ce que des choses comme cela puissent simplement exister. Je peux tout aussi bien avoir cette expérience en contemplant le soleil, le vent, la pluie, l’océan, les montagnes, etc. Mon émerveillement devant l’être de ces choses est précisément une expérience de leur divinité. Ainsi, il y a des dieux du soleil, du vent, de la pluie, de l’océan, des montagnes, et aussi des chats (les Egyptiens comprenaient très bien cela). En vérité, toutes les choses rayonnent de divinité ; toutes les choses sont Dieu. Et il n’y a pas de contradiction entre cette affirmation et l’affirmation qu’il y a des dieux. Ce sont simplement deux manières différentes de regarder la même chose. Dans la mesure où la divinité des chats rayonne à travers mon chat, il est le dieu des chats.

Il y a un autre aspect dans cette expérience. Quand nous rencontrons les choses dans leur être, et que nous nous émerveillons que de telles choses puissent exister, notre perception du temps et de l’espace change. Quand une chose est regardée avec émerveillement, au sens que j’ai décrit, nous savons simultanément que son être s’étend au-delà du présent temporel. L’objet est donc devant nous, dans le présent, mais simultanément nous avons l’intuition d’un aspect d’éternité dans la chose. Quand je m’émerveille que des choses comme mon chat puissent simplement exister, ce dont je m’émerveille est en un sens le « fait de l’existence des chats » dans le monde. Comme Alan Watts l’a probablement dit, nous nous émerveillons devant le fait qu’il y ait production de chats, de chiens, de gens, de fleurs et de fruits dans ce monde. C’est l’aspect de la divinité qui rayonne à travers la chose, regardée d’une certaine manière.

Nous pourrions penser aux dieux comme à des « régions » de l’être. Il y a autant de dieux qu’il y a de régions de l’être[10]. Notre conscience des régions de l’être ne vient pas par l’analyse philosophique ou la construction de systèmes spéculatifs. Elle vient par l’expérience et l’intuition. Il y a autant de régions qu’il y a d’expériences d’émerveillement devant le fait que « des choses comme X » puissent exister. Et il y a des régions à l’intérieur des régions. C’est ainsi qu’avec un suprême bon sens les Indiens laissaient les choses dans le vague concernant le nombre de leurs dieux. Les récits hindous diffèrent. Certains disent qu’il y a 330.000.000 dieux. Un nombre aussi énorme n’est pas destiné à être un chiffre exact. Il est destiné à suggérer, en fait, l’infinité des dieux, une infinité fondée sur le fait qu’il y a d’infinies expériences possibles d’émerveillement devant les choses. Exactement de la même façon, les anciens auteurs chinois parlent des « dix mille choses », pas pour donner un chiffre précis, mais pour suggérer l’incompréhensible immensité de l’existence.

3. Objections et reponses

La position exposée ci-dessus est simple, mais susceptible de produire beaucoup de scepticisme. Et les sceptiques viendront de presque tous les « camps » établis : rationalistes, empiriques, théologiens, et même païens. Pour tenter de répondre à quelques-unes de leurs plaintes à l’avance, je présente la série suivante d’objections et de réponses, dans le style de St. Thomas d’Aquin.

Objection Un : J’ai dit que la question Pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ? nous permet de « mettre en valeur » la totalité de l’existence et de la regarder avec émerveillement. J’ai dit ensuite que la question Pourquoi cette chose particulière doit-elle exister, et exister de la manière qu’elle est ? nous permet de connaître des objets de ce monde avec émerveillement, et que cet émerveillement devant le pur être des choses est une expérience du divin. Mais devons-nous croire que nos ancêtres se promenaient dans la forêt (ou ailleurs) en regardant les choses et en pensant, quel que soit la langue qui était la leur, « Pourquoi cette chose particulière doit-elle exister, et être de la manière qu’elle est ?

Réponse. Bien sûr que non. En fait, l’une de mes affirmations est que nos ancêtres avaient une capacité naturelle et spontanée à l’émerveillement, une capacité enfantine que nous les modernes (même les enfants modernes) avons en grande partie perdue. Les questions que je présente ici sont des tentatives pour formuler en mots l’attitude mentale tacite nécessaire pour permettre la manifestation de la divinité. Cependant, elles ne sont pas seulement descriptives, mais aussi prescriptives. Pour ceux d’entre nous qui ont perdu la capacité de l’émerveillement spontané, le fait de se poser consciemment ces questions peut être un chemin pour revenir à la mentalité de nos ancêtres.

Objection Deux : Une objection apparentée pourrait être exprimée ainsi : l’attitude mentale consistant à regarder les choses avec émerveillement est une sorte de réalisation de « second ordre » de la conscience. La plupart d’entre nous passent leur journée avec un but purement « terre-à-terre » : c’est-à-dire que nous nous intéressons aux choses elles-mêmes, pas à l’émerveillement devant leur « pur être ». De cela s’ensuivent deux problèmes. D’abord, il va sans dire que plus nous retournons loin en arrière dans le temps, plus le but de nos ancêtres devait être « terre-à-terre », étant donné la dureté de leurs conditions de vie. Ils devaient avoir peu d’occasions pour la « réflexion ». Et de ce problème découle un second : si je suis simplement en train de décrire « l’attitude mentale tacite nécessaire pour permettre la manifestation de la divinité », et si l’émerveillement n’est pas conscient ou délibéré, alors il doit être occasionné par certains événements. En d’autres mots, quelque chose devait « arriver » pour que l’homme se détourne d’un but terre-à-terre et passe à une attitude d’émerveillement. Qu’était-ce donc ?

Réponse : Concernant le premier problème, il se peut que la capacité de se détourner d’un but terre-à-terre pour passer à une attitude d’émerveillement soit ce qui rend les êtres humains uniques dans le royaume animal. A un certain moment de notre évolution, il devint possible de « changer d’attitude » envers le monde. Concernant ce qui occasionna ce saut extraordinaire dans les capacités mentales, je n’ai pas de théorie personnelle à proposer. Manifestement, cela n’a rien à voir avec l’établissement de l’agriculture, ou de la technologie, ou des villes, ou un accroissement du temps de loisir, puisque nous trouvons des expériences du divin dans les cultures d’agriculteurs aussi bien que dans les cultures de chasseurs, dans celles avec de la technologie et dans celles sans technologie, dans celles situées dans des villages et dans celles situées dans des villes. Mais un mot sur le loisir : les modernes tendent à exagérer le degré de « dureté » qui rendait la vie des anciens chaotique et périlleuse, avec peu de temps pour le repos, et encore moins pour la religion. En réalité les anciens, particulièrement dans les cultures de chasseurs-cueilleurs, avaient une formidable quantité de temps pour la réflexion, puisque la chasse implique surtout de s’assoir tranquillement et d’attendre (je tends aussi à penser que loin de nous libérer et de nous fournir plus de loisirs, la technologie a rendu la vie plus compliquée, et pénible). Ainsi, si nous supposons que la capacité de connaître l’émerveillement est apparue à un certain moment, il est raisonnable de supposer qu’il y avait largement assez de « temps libre » pour parvenir à cela.

Quant à la seconde objection – qu’est-ce qui a occasionné l’expérience de l’émerveillement ? –, je pense immédiatement à Vico, qui affirma dans La Science Nouvelle (1730/1744) que la conscience de la divinité commença au premier coup de tonnerre, quand nos ancêtres primitifs coururent se cacher dans leurs cavernes en criant « Jupiter ! » (le premier nom de Dieu). Il y a du vrai dans cette théorie, en dépit de sa naïveté. Comme je l’ai dit plus haut, ce qui nous détourne de l’approche terre-à-terre des choses et nous fait passer à une réflexion sur leur Etre doit être une sorte d’expérience saisissante. Il faut que les choses nous surprennent, nous frustrent, nous dépassent, d’une certaine manière (et cela ne doit pas forcément être un sentiment « négatif » de « dépassement » ou de « surprise »). Dans ma propre expérience, j’ai parfois un sentiment spontané d’émerveillement devant les choses, et très souvent je ne parviens pas à trouver ce qui l’a occasionné.

Objection Trois. Revenons un moment au mégot de cigarette mentionné plus haut. J’ai dit que l’on pouvait tracer un cercle (littéral ou figuratif) autour de n’importe quel objet et finir par s’émerveiller devant son être, même pour un caillou ou un mégot de cigarette. Existe-t-il un dieu des mégots de cigarette ? Y a-t-il des dieux des sacs poubelles, des tasses de café, des camions jouets, et des postes de TV ? Cela semble certainement absurde. Et si ma position nous oblige à déclarer, par besoin de cohérence, qu’il existe de tels dieux, alors cela en représente sûrement une simplification.

Réponse : Heureusement, ma position ne requiert pas cela. Avant tout, ce que j’ai dit avant tient toujours : il est parfaitement possible de s’émerveiller devant la pure existence de mégots de cigarettes et de postes TV. Ce sont des objets fabriqués : des objets créés par les êtres humains. Quand on s’émerveille devant des objets naturels, la racine de l’émerveillement, le sentiment de mystère qui ne peut pas être éliminé, se trouve dans la nature mystérieuse de la source ultime de leur être. Dans le cas des objets fabriqués, il n’y a aucun mystère concernant leur source : ce sont les êtres humains qui les ont créés[11]. Ainsi, quand nous nous émerveillons devant la facticité d’un objet fabriqué, ce dont nous nous émerveillons est l’être de l’homme lui-même, l’archè (ou architecte) de l’objet. L’homme est-il lui-même un dieu ? Bien sûr. Mais il n’y a pas de dieu de ses créations, pas de dieu de la machine[12]. C’est pourquoi l’idée même d’un dieu des mégots de cigarette nous semble immédiatement absurde, alors qu’il ne semble pas absurde du tout de s’émerveiller devant l’être de l’animal capable de créer de telles choses et, en particulier, toutes ces grandes choses comme les jets supersoniques, les symphonies, les ordinateurs, les poèmes épiques, les ponts suspendus, les navettes spatiales et les cathédrales. On pourrait dire que certaines de ces choses – peut-être même l’homme lui-même – sont un cancer pour la planète, mais l’on doit quand même être frappé de stupeur devant ce que l’homme peut accomplir, devant le fait qu’il existe un être possédant des pouvoirs aussi remarquables.

Mais si l’homme est un dieu, il est seulement un dieu parmi un nombre infini. Si les gens semblent aujourd’hui se comporter comme s’ils pensaient que l’homme est le seul dieu, c’est parfaitement explicable. Nous vivons dans un monde où ce sont les objets fabriqués, pas les objets naturels, qui sont les plus disponibles. Nous vivons en contact immédiat avec les mégots de cigarette, les sacs poubelle, les tasses de café, les postes TV, les jets supersoniques, les ordinateurs, les ponts suspendus et les navettes spatiales. Pour la plupart d’entre nous, notre contact avec des choses comme le vent, la pluie, l’océan, les montagnes, et la « nature » en général, se fait à travers des objets. Nos maisons et nos immeubles nous abritent du soleil, du vent, et de la pluie. La plupart d’entre nous, assez remarquablement, ont vu le monde entier : mais seulement à travers des livres de photographies, sur nos postes TV, et sur internet. Nos systèmes de climatisation nous protègent même des saisons : nous sommes agréablement au chaud en hiver et agréablement au frais en été. Certaines personnes vivent près de l’océan, mais très peu vivent de lui. Et leurs habitations les abritent de sa violence (la plupart du temps).

Si les objets fabriqués sont ce avec quoi nous entrons en contact de manière régulière, et si par et au moyen des objets le seul dieu dont nous avons l’intuition est nous-mêmes, est-ce vraiment surprenant que des « ismes » comme « humanisme », « scientisme » et « athéisme » règnent ? Est-ce vraiment surprenant que des gens modernes vivent leurs vies sur la supposition qu’ils sont les êtres les plus élevés de tous, et maîtres de tout ? Coupés du contact direct avec la nature, ils sont coupés de l’expérience de son prodige, qui est l’expérience de l’infinité des dieux. C’est la « fuite des dieux ». Les dieux ne se sont pas exactement enfuis. Nous sommes simplement devenus aveugles à eux, en érigeant un monde fabriqué qui a fait obstruction au monde réel.

Objection Quatre. Maintenant, on pourrait dire que la tentative ci-dessus pour rendre compte de l’expérience du divin constitue un abus de langage. J’ai dit que notre émerveillement devant l’être des choses est une intuition de la divinité. Ainsi, s’émerveiller qu’il existe une chose comme le vent est précisément l’expérience du « Dieu du vent ». Mais, peut dire le critique, ce n’est pas ce que nous avons à l’esprit quand nous pensons à un dieu. J’ai simplement substitué une compréhension entièrement différente de la divinité, qui n’a pas grand-chose à voir avec la compréhension traditionnelle (en tous cas c’est ce que dirait l’objection). Le dieu du vent est une personnalité. En Inde, c’est Vâyu. Il est décrit comme étant blanc, chevauchant un chevreuil, et portant un arc et des flèches. Les mythes impliquent les sentiments, les pensées, les discours et les actions de tels dieux. Bref, les dieux sont supposés être des êtres conscients qui se promènent aux alentours et font des choses.

Réponse : le problème avec cette manière de comprendre les choses est qu’elle confond les symboles avec leurs référents. Le dieu du vent est une personnalité parce que les êtres humains l’ont consciemment et délibérément personnifié. Et séparer le symbole personnifié de son référent est très difficile. Notez que j’ai parlé d’un dieu au masculin. J’aurais peut-être dû utiliser le genre neutre [= dans le texte anglais]. Mais quelque part cela sonne faux. Nous personnifions parce que nous avons besoin de personnifier pour garder le dieu à l’esprit. En fait, cela signifie que nous personnifions afin de garder à l’esprit le vent, pris non pas comme un « phénomène naturel » (comme le prendrait un scientifique) mais comme un noumenon, comme un être provoquant l’émerveillement. La tendance à personnifier est naturelle, et il se pourrait que certaines des manières concrètes par lesquelles nous personnifions soient aussi « construites » dans notre conscience. Les recherches de C.G. Jung et de ses étudiants semblent aussi confirmer cela. Mais il est difficile de savoir où placer la limite. Le fait que Ganesh soit décrit comme ayant la tête d’un éléphant est manifestement entièrement attribuable à l’accident historique qui fit que son symbolisme fut développé en Inde.

Le symbolisme d’un dieu, le sexe d’un dieu (mâle ou femelle), les attributs d’un dieu, et les mythes associés, servent tous à nous parler de la nature d’un certain phénomène pris dans son aspect numineux. Pour illustrer cela, il n’y a pas de meilleur symbolisme que celui de l’hindouisme. L’iconographie hindoue est extrêmement complexe, et chaque élément symbolise un certain pouvoir ou un certain aspect d’un dieu.

Dans toute religion, il y a des niveaux de compréhension. Il y a indubitablement des hindous dont la piété consiste en une confusion permanente entre le symbole et le référent. En d’autres mots, il y a indubitablement des hindous qui pensent que vraiment croire à Vâyu signifie croire qu’il est réellement un être entièrement blanc qui chevauche un chevreuil et porte un arc et des flèches. Nous tendons à supposer qu’une telle compréhension de « bas niveau » ou littérale est une caractéristique des « gens ordinaires », mais que les gens supérieurs (les prêtres, les brahmanes) comprennent mieux. Supposer cela est risqué, cependant. En Occident, par exemple, particulièrement en Amérique, confondre le symbole avec le référent n’est en aucune manière limité aux gens simples. C’est un trait de la croyance de la plupart des chrétiens, quel que soit leur niveau d’éducation. Les athées occidentaux confondent aussi le symbole et le référent, et pour cette raison ils déclarent que la religion est manifestement absurde. Les séminaristes comprennent qu’un symbole est un symbole, mais trouvent très difficile de croire en ce dont il est un symbole. C’est pourquoi ils déclarent que nous pouvons garder la religion, si nous comprenons qu’elle concerne en fait la « communauté religieuse », ou l’instruction morale, ou l’activisme social.

Il y a quelque temps j’ai regardé un documentaire britannique sur l’hindouisme, qui incluait le filmage d’un festival d’une durée d’une semaine en l’honneur d’une déesse (je crois que c’était Saraswati). La célébration impliquait de modeler et de peindre une figure d’argile élaborée de la déesse. Une nouvelle était créée chaque année, et à la fin du festival elle était joyeusement jetée dans le fleuve. Le visiteur britannique demanda à un brahmane si les gens adoraient la statue. Le brahmane sourit et dit qu’il doutait beaucoup qu’un seul des célébrants, même un simple d’esprit, pensait que la statue d’argile était réellement Saraswati. Après tout, ils devaient remarquer que chaque année il y avait une nouvelle statue ! En vérité, c’était ici le journaliste occidental qui était simple d’esprit. En fait, la manière typique dont nous Occidentaux comprenons le polythéisme (ou la religion soi-disant « primitive ») est, pour dire le moins, psychologiquement naïve.

Objection Cinq : En me référant à mon premier essai, « Connaître les dieux », je peux imaginer que quelqu’un critique le présent essai en disant : « Regardez, dans l’autre texte vous commencez par rejeter toute tentative d’expliquer ce que sont les dieux, ou d’expliquer l’expérience des dieux. Adopter un tel point de vue réfléchi, disiez-vous, c’est se distancer immédiatement du phénomène ; nous en couper d’une manière encore plus décisive. Mais dans ce texte vous faites précisément ce que vous dites qu’il ne faut pas faire : vous proposez une explication des dieux en disant que ‘les dieux’ sont ce qui se manifeste quand nous sommes frappés par l’être mystérieux d’un être ».

Réponse : En fait, je n’ai pas du tout expliqué les dieux, ou l’expérience des dieux. Expliquer un phénomène c’est le prendre comme un effet d’une cause quelconque, et ensuite découvrir la cause (par ex. l’explication de l’eau bouillante est qu’elle a été chauffée à la température de 212 degrés Fahrenheit). Mais ce n’est pas ce que j’ai fait. Ce que j’ai donné n’est pas une explication, mais une description phénoménologique. En d’autres mots, j’ai simplement décrit comment le divin « se manifeste » ou nous « apparaît ». J’ai décrit les circonstances dans lesquelles le divin se manifeste, l’attitude d’esprit nécessaire pour que l’homme « remarque » le divin, et comment il répond au divin dès que celui-ci se manifeste. Cela peut ressembler à une simplification excessive de ce que j’ai fait dans l’assez long texte qui précède, mais ça n’en est pas une. C’est simplement que dans ce cas, avec une matière aussi mystérieuse que celle-ci, une description phénoménologique est un peu plus difficile que, disons, celle de la manière dont une boîte aux lettres se manifeste à nous. Si le lecteur revient en arrière et repense à ce qui a été dit, il trouvera que la théorie que j’ai donnée concernant la manière dont le divin se manifeste est en fait très simple. Malheureusement, nous avons été conditionnés à penser au divin d’une manière tellement faussée que passer à la bonne description implique une grande quantité d’explications, d’exemples, de définitions de termes, d’étymologie (comme nous le verrons), et, d’une manière générale, de désapprentissage.

Finalement, Objection Six. C’est peut-être l’objection la plus grave de toutes. Mon discours ne « subjectivise »-t-il pas complètement les dieux ? Ne suis-je pas en train de dire que les dieux sont en quelque sorte des fonctions de la manière dont nous regardons les choses, et que sans nous, il n’y aurait pas de divin ? Toute l’approche phénoménologique néo-kantienne décrite ci-dessus semble suggérer cela très clairement.

Réponse : Je peux certainement comprendre pourquoi quelqu’un pourrait réagir de cette manière – spécialement étant donné mon appel à la phénoménologie, mais en fait l’objection représente une mauvaise compréhension de ma position (ainsi que de la phénoménologie et du kantisme, mais je ne peux pas approfondir ces points ici). Je n’ai rien dit qui approche même de l’idée que « le divin » serait une catégorie mentale subjective et que sans observateurs humains il n’y aurait pas de dieux. Je reconnais volontiers que sans une certaine « structure » cognitive (quoi qu’elle puisse être) nous ne pourrions pas être conscients des dieux, mais cela ne m’oblige pas au subjectivisme. Nous avons besoin d’oreilles pour remarquer les ondes sonores, mais personne ne pense que cela signifie que l’oreille « crée » les ondes sonores[13]. Encore une fois, pour citer ma première formulation, j’ai donné une description phénoménologique de « l’attitude d’esprit nécessaire pour que l’homme ‘remarque’ le divin ». Je n’ai pas dit « crée » le divin, j’ai dit remarque le divin. J’ai parlé de la manifestation du divin, pas de l’invention ou du « postulat » par les humains.

Cependant, quelqu’un pourrait dire ici : « Très bien, mais en-dehors de l’apparition des dieux pour nous, y a-t-il vraiment des dieux ici ? ». Exprimé en langage kantien, cela veut dire : à part l’apparition phénoménale des dieux, les dieux existent-ils par eux-mêmes ? Le mieux que je puisse faire pour répondre à cela est de paraphraser Kant lui-même : même si nous ne pouvons percevoir les choses comme elles sont par elles-mêmes (c.-à.-d. en dehors de la façon dont nous les percevons), nous devons au moins être capables de penser les mêmes objets comme des choses en soi, sinon nous tomberions dans la conséquence absurde de supposer qu’il peut y avoir apparence sans rien qui apparaît[14].

4. Précedents : Usener et Cassirer

La théorie précédente partage certains traits avec les idées de Hermann Usener, telles qu’exposées et développées par Ernst Cassirer. Dans Langage et mythe de Cassirer, celui-ci explique que Usener pensait que le plus ancien (et, dirais-je, le plus pur) stade d’expérience religieuse fut marqué par la « production » de ce qu’il appelait des déités momentanées[15].  Cassirer écrit :

Ces êtres ne personnifient aucune force de la nature, et ne représentent aucun aspect particulier de la vie humaine ; aucun trait ou valeur récurrent n’est conservé en eux et transformé en image mythico-religieuse ; c’est quelque chose de purement instantané, un contenu mental fugitif, émergeant et disparaissant, dont l’objectification et la projection extérieure produit l’image de la « déité momentanée ». Chaque impression que l’homme reçoit, chaque souhait qui naît en lui, chaque espoir qui le trompe, chaque danger qui le menace peut ainsi l’affecter religieusement. Que le sentiment spontané investisse l’objet devant lui, ou sa propre condition personnelle, ou quelque manifestation de puissance qui le surprend, avec un air de sainteté, et le dieu momentané a été connu et créé[16].

Or, comme je l’ai dit, cette théorie a certains traits en commun avec la mienne. Ce qui est vague dans l’exposé d’Usener-Cassirer, c’est qu’il prétend qu’un « sentiment spontané » investit un objet. Et qu’est-ce qu’un « air de sainteté » ? Ma propre théorie tente d’expliquer la manière spécifique dont un objet (ou une circonstance) pourrait être perçu d’une manière tellement inhabituelle qu’il pourrait produire en nous l’intuition d’un dieu. En d’autres mots, je tente de décrire spécifiquement ce que cela signifie de considérer une chose comme sainte.

De plus, je soutiens que si l’expérience de la « déité momentanée » n’est pas immédiatement celle d’un dieu personnifié, elle peut le devenir plus tard (sur ce point, je ne crois pas que Usener-Cassirer seraient d’un autre avis). Cassirer poursuit : « Usener a montré par des exemples de la littérature grecque combien ce sentiment religieux primitif était réel même chez les Grecs de la période classique, et combien il les motivait sans cesse »[17]. Et ensuite il cite Usener :

En raison de cette vivacité et de cette capacité de réaction de leur sentiment religieux, toute idée ou objet qui commande pendant un instant leur intérêt sans partage peut être élevé à un statut divin : Raison et Compréhension, Richesse, Chance, Apogée, Vin, Fête, ou le corps de la Bien-aimée. … Tout ce qui nous arrive soudainement comme un envoi du ciel, tout ce qui nous réjouit ou nous peine ou nous opprime, apparaît à la conscience religieuse comme un être divin. Aussi loin en arrière que nous pouvons rechercher chez les Grecs, ils subsument de telles expériences sous le nom générique de daimon.[18]

D’après Usener, après le stade des « dieux momentanés » vient le stade des « dieux particuliers ». Bien qu’Usener semble avoir ici à l’esprit, étroitement, des déités associées aux activités humaines (voir la note #12 à la page 35). Cependant, telles que rapportées par Cassirer, les idées d’Usener sont stimulantes, et recoupent les miennes :

Chaque département de l’activité humaine donne naissance à une déité particulière qui le représente. Ces déités aussi, qu’Usener appelle des « dieux particuliers » (Sondergötter), n’ont pas encore de fonction et de signification générales ; elles n’imprègnent pas l’existence dans toute sa profondeur et toute son ampleur, mais sont limitées à une simple section de celle-ci, un département étroitement circonscrit. Mais dans leurs sphères respectives elles ont atteint la permanence et un caractère déterminé, et avec cela une certaine généralité. Le dieu patron du hersage, par exemple, le dieu Occator, ne règne pas seulement sur le hersage d’une année, ou la culture d’un champ particulier, mais est aussi le dieu du hersage en général, qui est invoqué chaque année par toute la communauté comme son aide et protecteur pour la récurrence de cette pratique agricole. Il représente donc une activité rustique particulière et peut-être humble, mais il la représente dans sa généralité. [19]

Se basant sur l’œuvre d’Usener, Cassirer va jusqu’à affirmer dans Langage et mythe que le langage apparut essentiellement comme un moyen de fixer dans l’esprit ces déités momentanées (souvenez-vous qu’il les caractérise comme un « contenu mental fugitif, émergeant et disparaissant »). Ainsi sont nés des mots utilisés pour communiquer et retenir ces expériences (sur ce point, il y a un intéressant parallèle entre le lien fait par Cassirer entre « déités » et mots, et le lien, décrit plus loin, que je fais entre déités et Formes platoniques ; voir Section 6 plus loin). Les « dieux particuliers » sont des déités investies de noms particuliers. Finalement, ces noms se séparent de la divinité et restent seuls comme des « termes » désignant l’activité gouvernée par la divinité d’origine (ainsi, si dans une certaine langue le Mot X signifie « hersage », X peut avoir été à l’origine le nom approprié du dieu de cette activité).

Usener donne une multitude d’exemples de dieux « particuliers » et « fonctionnels », dont un grand nombre est tiré de l’ancienne religion romaine. La plus grande réalisation religieuse, d’après Usener, est le développement de « dieux personnels ». Cassirer écrit : « Les nombreux noms divins qui désignaient à l’origine un nombre équivalent de dieux particuliers fortement distingués fusionnent maintenant en une seule personnalité, qui est ainsi apparue ; ils deviennent les diverses appellations de cet Etre, exprimant des aspects divers de sa nature, de son pouvoir, et de sa portée » [20]. Il n’est pas très difficile de discerner un préjugé judéo-chrétien dans une telle théorie, qui interprète le monothéisme non seulement comme le telos de tout développement religieux, mais aussi comme son point culminant.

En vérité, il est possible, comme je l’ai suggéré précédemment, d’être à la fois monothéiste et polythéiste. Nous pouvons certainement regarder le monde comme l’expression d’une multiplicité de dieux individuels. Si nous voyons ces divinités comme étant, en un sens, des « régions de l’être », nous pouvons aussi les voir comme des manifestations ou des expressions différentes d’une unité sous-jacente. Ce sont simplement deux manières de voir la même chose. Il n’y a pas de contradiction à dire que le vrai Dieu est Brahman, et à dire simultanément qu’il y a 330.000.000 dieux. La plupart des religions ont totalisé l’une ou l’autre de ces approches, et la tendance historique, semble-t-il, va du polythéisme au monothéisme, et non l’inverse. La raison de cela est une question que je ne peux pas traiter ici[21].

5. Le langage du Divin

Si nous regardons l’étymologie des mots que nous utilisons pour parler du divin et y réfléchir, nous trouverons un autre appui à ma position. C’est important, car au plus profond de nous se trouve l’idée que le mot « dieu » doit simplement signifier un super-être personnel (en fait, je pense que c’est là-dessus que la première objection est fondée – celle disant que je ne parle pas du tout de ce que les gens ont voulu dire par « dieux »).

Le terme proto-indo-européen reconstruit pour divinité est *deiwos, et voici quelques-unes de ses formes :

Vieil-irlandais dîa

Vieux gallois duiu-tit

Latin deus

Vieux norrois Týr (pl. tívar, « dieux »)

Vieil-anglais Tîw

Vieux haut-allemand Zîo

Lithuanien dievas

Letton dìevs

Avestique daéva

Vieil-indien devá

Une source dit de *deiwos : « A l’origine un dérivatif thématique de *dyeu- ‘ciel, jour, soleil (dieu)’ signifiant lumineux, dieu (en général) »[22].

Or, si *deiwos ou Dieu signifie quelque chose comme « lumineux », il y a au moins deux ou trois manières très différentes pour expliquer cela. Puisque le mot est dérivé de *dyeu-, « ciel, jour, soleil », on suppose généralement que les dieux indo-européens originels (ou du moins l’échelon supérieur des dieux, par ex. les Aesir nordiques) sont des dieux du ciel. Ce phénomène consistant à rechercher la divinité dans les cieux n’est pas limité aux Indo-Européens, comme nous le savons tous depuis le catéchisme. Mais je me demande s’il n’y aurait pas un sens plus profond à l’idée que Dieu serait « le lumineux ». Comme je l’ai exposé ci-dessus, quand nous parvenons à la conscience de l’être merveilleux des choses individuelles, c’est comme si elles étaient soudain « éclairées ». Et je ne dis pas seulement cela au sens figuré. Très souvent l’expérience semble être littéralement un moment où les choses brillent d’une lumière nouvelle. Les descriptions d’expériences mystiques abondent de ce genre de langage. Nous disons que nous sommes « illuminés », ainsi que les choses. Pour revenir à un exemple précédent, quand je m’émerveille que des choses comme mon chat puissent exister, mon chat est « éclairé » pour moi d’une manière nouvelle, et la lumière qui rayonne à travers mon chat est la divinité, la divinité lumineuse.

Il est tout naturel que nos ancêtres aient associé l’expérience physique de l’impressionnant éclat du soleil à l’expérience psychique de l’impressionnante lumière de l’Etre rayonnant à travers les êtres. Ainsi, *deiwos signifiant « lumineux » est en fait une abstraction dérivée de tout ce qui est *dyeu-, ou de tout ce qui « brille », le « ciel », le « jour » et le « soleil » étant des exemples de brillance.

Si nous regardons en-dehors de la tradition indo-européenne, nous trouvons chez les Chinois ce qui semble être une conception similaire. Les plus anciens termes chinois pour désigner la divinité remontent à la Dynastie Tchang (vers 1751-1028 av. J.C.). Le dieu suprême est conçu comme céleste. Assez curieusement, il est appelé Ti (qui signifie simplement Seigneur) ou Tchang Ti (Seigneur d’en Haut) [23]. D’après Mircea Eliade, « Ti commande les rythmes cosmiques et les phénomènes naturels (pluie, vent, sécheresse, etc.) ; il accorde au roi la victoire et assure l’abondance des récoltes ou, au contraire, apporte les désastres et envoie les maladies et la mort » [24]. Il y a d’autres dieux (et les Chinois vénéraient aussi leurs ancêtres), mais ceux-ci sont subordonnés à Ti. Mais à la différence de Tyr dans la tradition germanique, Ti demeure quelque peu éloigné de la vie des croyants ordinaires, et devint finalement, en fait, un deus otiosus. Il serait fascinant de retracer l’étymologie de « Ti », mais je ne connais pas du tout le chinois, et je n’ai pas trouvé beaucoup de sources en anglais qui traitent de ce sujet.

Pour revenir aux Indo-Européens, examinons quelques autres termes désignant le divin. Dans un article originellement publié dans Rúna, Edred Thorsson analyse les termes germaniques désignant « le sacré » [25]. En proto-germanique, ce sont *wîhaz et *hailagaz, en vieil-anglais wîh et hâlig, en vieux haut-allemand wîh et heilig, en gothique weihs et hailags, en vieux norrois et heilagr. L’allemand moderne conserve les deux termes, dans weihen (consacrer) et heilig. L’anglais moderne conserve seulement le second, dans « holy ».

Comme Thorsson le remarque, *wîhaz dérive de la racine proto-indo-européenne *vîk, qui signifie « séparer ». L’idée de séparation implique un contexte religieux ou rituel. De *vîk vient le latin victima, animal sacrificiel[26]. Ainsi, ce qui dérive de *vîk signifie quelque chose de « séparé d’une manière ou d’une autre du quotidien » [27]. Le *wîhaz est ce qui a été  extrait, en quelque sorte, de ce qui est à portée de la main, et investi d’une signification d’un genre très particulier.

Ce que Thorsson ne mentionne pas, toutefois, c’est que *vîk (parfois écrit *wîk) peut aussi signifier « apparaître », aussi bien que séparer (ou « consacrer »). Nous avons ainsi le vieil-anglais wîg ~ wîh ~ wêoh, « image, idole ». Le lithuanien į-vŷkti, signifiant « arriver, survenir ; devenir vrai, s’accomplir », semble originellement avoir signifié « venir à la vue » [28]. Le grec eikōn, signifiant « image, apparence », vient de la même racine. Platon oppose l’eikon à l’eidos, la Forme (voir Section 6 plus loin). Mais comment la même forme linguistique peut-elle signifier « séparer », « consacrer », et « apparaître » simultanément ? La réponse est qu’une chose apparaît d’elle-même seulement quand elle est séparée. Toute apparition implique une opposition entre la « figure » et le « fond ». Pour apparaître, un objet doit être d’une manière ou d’une autre « distingué » de son arrière-plan. Les objets « sacrés » sont des objets qui ont été séparés de l’espace profane (c.-à.d. placés à part des activités et des objets ordinaires) et du temps profane (c.-à.d. liés à ce qui est éternel).

Thorsson donne les significations suivantes pour la racine germanique *wîh- :

1. « un site pour l’activité cultuelle, un terrain sacré »

2. « un tumulus [funéraire] »

3. « un site où siège le tribunal »

4. « une idole, ou une image divine »

5. « un étendard ou un drapeau »[29]

Ce qu’elles ont toutes en commun, c’est qu’elles sont ordinairement « banales » : un morceau de terrain, un monticule de terre, une clairière, un morceau de bois gravé, un morceau de tissu. Mais elles peuvent toutes être regardées d’une manière spéciale et investies, par association, d’une signification (de quelque chose comme ce que les anthropologues appellent le « mana »)[30]. Quand la banalité des choses est niée de cette façon, elles sont rendues « sacrées », et ensuite naît une séparation dans le monde entre ce qui est sacré et ce qui est profane[31]. Ainsi que l’explique Thorsson, en vieux norrois il y a même un verbe qui désigne l’action d’extraire des objets du domaine du profane et de les rendre sacrés : wîhian. De ce qui est *wîh- vient l’un des plus importants noms nordiques pour la divinité : Vé, qui est l’un des trois frères divins décrits dans la cosmogonie nordique, Odin, Vili, et Vé. Le terme veár, venant de Vé, est aussi utilisé pour désigner les « dieux » pluriels en général[32].

Quant à la racine proto-germanique *hail-, une analyse des mots qui en dérivent dans les diverses langues germaniques indique la série de significations suivante :

1. « sacré »

2. « entier, sain » (par ex., anglais « hale and hearty »)

3. « santé, bonheur » (par ex., anglais « health »)

4. « chance, bonne augure »

5. « guérir » (par ex., anglais « heal »)

6. « saluer » (par ex., anglais « hail ! » et allemand « heil ! »)

7. « observer les signes et les augures »

8. « invoquer les esprits, enchanter »[33]

Thorsson écrit que *hail- « est ce qui participe de la qualité numineuse qui est bénie et entière, et qui évoque le sentiment d’‘entièreté’ ou  d’‘unité’ dans le sujet religieux »[34].

Essentiellement, *hail- implique la participation du sujet humain au divin, alors que *wîh- désigne la présence divine elle-même. L’homme qui est « entier, sain » est l’homme qui est imprégné d’un état de justesse ou d’harmonie qui est considéré comme associé à l’être divin. Ceci est très proche du sens grec originel d’eudaimonia (assez mal rendu, dans les traductions d’Aristote, par « bonheur »), qui signifie littéralement quelque chose comme « bien pourvu en daimon » [35]. La « chance » est la faveur divine résidant dans un homme. « Guérir » signifie restaurer dans le corps ou l’esprit cette « justesse » d’orientation divine. Aujourd’hui, il est très rare d’entendre quelqu’un saluer en disant « hail ! » et on n’a jamais entendu (après la Seconde Guerre mondiale) de « heil ! ». Quand les gens se saluaient ainsi, saluaient-ils ou reconnaissaient-ils le divin dans l’autre personne ? Bref, « hail ! » était-il similaire au salut indien (toujours en usage aujourd’hui) namastē ?[36]. L’observation de signes et d’augures signifie être attentif à la manifestation du divin dans la vie quotidienne. Finalement, « enchanter » signifie placer quelqu’un sous l’influence d’un pouvoir divin.

Finalement, nous tournant vers le grec classique, on peut mentionner que le mot grec pour piété ou religion, eusebeia, vient du verbe sebein, signifiant « reculer devant quelque chose, par crainte respectueuse ».

6. Platon : Eidos vs. Theos

L’analyse précédente de l’expérience du divin jette une lumière spéciale sur la philosophie grecque, en particulier sur la relation entre la « doctrine des Formes » de Platon et la religion indo-européenne traditionnelle. Examiner ce lien semble aussi apporter un appui supplémentaire à la plausibilité de mon analyse. En fait, les lecteurs ont peut-être remarqué quelque chose de vaguement « platonique » dans ma description de l’expérience humaine de la divinité. J’affirme en effet que la philosophie de Platon a constitué une transformation de l’expérience religieuse grecque. Si j’ai raison, alors nous pourrions apprendre beaucoup de choses sur la nature de cette expérience en lisant Platon.

Je suis sûr que mes lecteurs ont une certaine connaissance des Formes de Platon. Platon pensait que le monde de l’expérience est, en un sens, irréel, et que ce qui est vraiment réel (ou, pourrait-on dire, ce qui est vraiment) ce sont les « Formes » ou les « natures » que les choses expriment. Ces formes sont non-physiques et, à la différence des individus qui les illustrent, elles durent. Le mot grec traduit par « Forme » est eidos (pluriel : eidē), et c’est pourquoi, un peu moins souvent, le terme est traduit par « idée » [37]. Mais la signification littérale d’eidos est « apparence ». L’eidos est l’« apparence » d’une chose. En allemand, le même concept est rendu par Schein, qui est bien sûr apparenté à l’anglais « shine ».

A première vue, il semble y avoir eu une complète transformation dans le sens de l’eidos grec. Ce qui signifiait originellement l’« apparence » d’une chose finit par signifier, chez Platon, sa nature intelligible, qui se manifeste non pas aux yeux mais à l’esprit. Mais après un examen plus attentif, un lien subtil entre les deux se révèle. Examinons d’abord comment Platon décrit la manière dont nous devenons conscients des Formes. Un exemple classique peut être trouvé dans le Symposium (210e). Dans un « flashback », Socrate se souvient de la manière dont il fut instruit de la nature du beau par la sage Diotime. Elle décrit une « échelle de beauté », et dit à Socrate qu’il parviendra à la conscience de la Beauté elle-même (la Forme de la Beauté) en examinant différentes choses considérées comme « belles » :

Tu vois, l’homme qui a été ainsi guidé loin dans les questions de l’Amour, qui a regardé les belles choses dans le bon ordre et correctement, parvient maintenant au but de l’Amour : d’un seul coup il apercevra quelque chose de merveilleusement beau dans sa nature [le « Beau lui-même »] ; cela, Socrate, est la raison de tous ses travaux précédents[38].

Un second exemple moins familier survient dans le dialogue ultérieur, le Parménide. Ici, Socrate, décrit comme un jeune homme, converse avec un autre de ses premiers maîtres, le philosophe Parménide. Au paragraphe 132a, son aîné met à l’épreuve la théorie des Formes (alors dans sa forme la plus précoce et la plus brute) de Socrate :

Je suppose que tu penses que chaque forme est une pour la raison suivante : dès qu’un certain nombre de choses te semble grand, peut-être semble-t-il y avoir quelque caractère commun, le même que tu vois à travers toutes, et de cela tu conclus que le tout est un. [39]

Ces deux descriptions phénoménologiques de la manière dont les Formes se manifestent à nous les décrivent comme apparaissant au penseur alors qu’il contemple les objets sensibles. Sans doute, ce n’est pas comme si la Forme surgit des choses et se présente comme un objet sensible séparé. On pourrait dire qu’elle apparait à l’« intellect », mais cela simplifie trop les choses. Ce qui semble se produire dans notre venue-à-la-conscience des Formes, c’est que les sens et l’intellect coopèrent d’une manière particulière et ineffable. Il semble y avoir une transformation littérale de l’expérience sensible quand la Forme « apparaît ». Nous voyons toujours la même chose sensible, mais nous en voyons maintenant une nouvelle dimension. Ce que je dis, c’est que si je parviens à la conscience de la « chatitude » en regardant mon chat, il semble juste de dire que l’« apparence » littérale du chat ne change pas – mais, dans un autre sens, l’apparence change vraiment. Je vois maintenant l’aspect atemporel du chat (sa nature, sa « chatitude ») à travers lui, et l’expérience sensible donne le sentiment qu’il a été transformé. Il est important de noter que le verbe eidenai (savoir), qui est apparenté à eidos, signifiait originellement « voir » ou « avoir un aperçu de ».

Je pense que c’est pour cette raison que Parménide semble forcer Socrate, dans la dernière partie du dialogue, à dépasser une conception où les Formes sont des choses « séparées » des choses sensibles, et à envisager l’idée que le sensible est précisément la Forme considérée dans son aspect immuable[40]. Dans les dialogues antérieurs, les choses sensibles sont traitées comme des « images » ou des « apparences » des Formes. Ceci est métaphorique, et n’est pas destiné à être pris à la lettre. Voir une peinture de quelqu’un que j’ai vu en personne est très différent de voir une peinture de quelqu’un que je n’ai jamais rencontré. Dans le premier cas, il y a une dimension additionnelle à l’expérience. Je vois la personne réelle dans, ou à travers la peinture. De la même manière, pour Platon, nous voyons la vraie nature d’une chose (par ex. la « chatitude ») rayonner à travers les choses individuelles (c.-à.-d. les chats).

Or, la même idée semble être exprimée, sous une forme plus sophistiquée, dans la dernière partie du Parménide, dans la série particulière des « déductions » qui y sont présentées. Les choses sensibles sont considérées comme des « apparences » des Formes. Le mot grec traduit par « apparences » est phainomena, qui n’a pas le sens de « simple apparence » ou d’« aspect » que notre mot « apparence » possède habituellement. Dans Etre et Temps, Heidegger tente de retrouver le sens grec originaire de phainomenon, qui survit dans notre langue, bien sûr, dans le mot « phénomène ». Heidegger écrit que phainomenon signifie ce qui se montre, le manifeste. … Ce qui se montre en soi-même, le manifeste. De même, les phainomena ou ‘phénomènes’ sont la totalité de ce qui se trouve dévoilé ou qui peut être dévoilé – ce que les Grecs identifiaient parfois simplement aux ta onta (êtres) »[41]. Heidegger continue en distinguant le « phénomène » de l’« apparence ». Par apparence, il veut dire quelque chose comme « image ». Une apparence peut être une illusion, une hallucination, ou une représentation, comme une peinture. Celles-ci ne sont aucunement des phenomena, au sens grec d’origine. Un phénomène n’est pas une image de quelque chose (et surtout pas une  « apparence » trompeuse), c’est la chose qui se montre elle-même. Même notre mot « apparence » peut signifier cela. Si quelqu’un me dit que la Reine a « fait une apparition » en Ecosse, je n’en déduis pas que quelqu’un a vu une image d’elle à cet endroit. J’en déduis qu’elle s’y est montrée en personne » [42].

Or je pense qu’on peut facilement voir qu’il y a un parallèle entre la façon dont j’ai décrit l’expérience des dieux, et la façon dont Platon décrit l’expérience des Formes. Les dieux tout comme les Formes sont des phénomènes : ils rayonnent eux-mêmes à partir des choses, dans notre expérience. Quand la « chatitude » rayonne du chat, d’une certaine manière c’est comme si quelque chose d’autre rayonnait du chat, et d’une autre manière ça ne l’est pas. Il est clair qu’en voyant la « chatitude » du chat nous avons dans un certain sens « vu au-delà » de ce chat particulier, mais d’une autre manière nous avons vu ce qui est fondamental en ce qui concerne ce chat[43]. Les deux choses sont vraies, et illustrent l’aspect dual des Formes qui sont simultanément transcendantes et immanentes. Voir la divinité dans le chat, comme j’en ai décrit l’expérience, est pratiquement identique à cela. Dans une attitude d’émerveillement, frappant par le fait que des êtres comme les chats puissent simplement exister, un aspect jusqu’alors caché du chat se manifeste à nous : l’être miraculeux du chat. Et simultanément, nous avons le sentiment que cet émerveillement a émergé d’une source également miraculeuse, ce que j’ai appelé l’archè. La « divinité » du chat, comme je l’ai dit plus haut, est à la fois le chat lui-même, et quelque chose d’autre qui transcende ce chat particulier.

Dans la fameuse « allégorie de la caverne » de la République, la montée de l’ignorance à la sagesse est figurée par la montée depuis une caverne jusqu’à la lumière du jour, où la vraie nature des choses est « illuminée » (cf. 516a–b). Dans le Parménide, le jeune Socrate utilise une comparaison pour expliquer la relation des choses sensibles avec leur Forme. La Forme, dit-il, est « comme une journée unique. Ce qui est dans de nombreux lieux en même temps et qui n’est absolument pas séparé de soi-même. S’il en est ainsi, chacune des formes pourrait être, en même temps, unique dans tout » (131b)[44].

En dépit des similarités, il y a en fait une énorme différence entre la conscience de la divinité et la conscience des Formes de Platon. Ce qui a été banni de l’exposé de Platon, c’est l’émerveillement et le mystère. La divinité du chat qui rayonne en lui n’est plus la divinité, c’est simplement la « nature intelligible » de la chose. Le sens dans lequel la conscience de l’eidos, l’« apparence » de la chose, englobe le sensible et l’intellectuel, le sens dans lequel la conscience de l’eidos transforme la véritable expérience sensuelle de la chose, a été en grande partie perdu. Sans doute cet eidos est-il encore « surnaturel », « au-dessus » de la nature, et en-dehors de l’espace et du temps. Mais il est traité comme un modèle ou paradeigma (voir Parménide, 132d) et il est vu sous l’angle des mathématiques. Sous l’influence du pythagorisme, Platon développa un enseignement secret complet qui est seulement discrètement évoqué dans les dialogues, impliquant une conception mathématique de la réalité, issue de deux « principes » ultimes, le « Un » et la « Dyade indéfinie »[45]. Le projet de Platon et de ses étudiants était alors de comprendre les Formes en accord avec ce système mathématique. Les Formes peuvent être « mystérieuses » en étant tout à fait différentes des objets sensibles banals, mais elles sont en relation avec ces choses de la même façon qu’un plan est en relation avec une maison, et il n’y a rien d’intrinsèquement mystérieux (et encore moins de religieux) là-dedans[46].

Ma thèse est que Platon reprend l’expérience du divin, ainsi que le concept de divinité, et les remanie sous une forme philosophique et même « scientifique ». L’expérience religieuse ou mystique devient l’« idée » philosophique ou scientifique, et les dieux deviennent des « Formes » ou des modèles dans la nature. Platon développe cette approche en utilisant la philosophie mathématique des pythagoriciens, tout en conservant certains aspects « mystiques » du pythagorisme (en particulier la doctrine de la réincarnation ; voir le Phédon). Platon rend possible pour un homme d’être religieux et de prendre grand soin de son âme, tout en ne croyant pas aux « dieux »[47]. Le christianisme, comme l’a dit Nietzsche, a peut-être été du platonisme pour le peuple, mais le platonisme lui-même était du polythéisme pour les athées. Et même si la doctrine de la réincarnation dans le Phédon est défendue pour des raisons pratiques (voir le Phédon, 114d–e), le platonisme est du mysticisme sans mystère[48].

Platon est ouvert aux descriptions métaphoriques de l’Etre des choses, mais tout ce qui ressemble au genre d’iconographie religieuse exposé antérieurement est rejeté entièrement. Une telle imagerie, comme je l’ai dit, aide à fixer dans l’esprit et à contempler le mystère et le miracle des choses. Mais le but de Platon est la compréhension : c’est-à-dire l’analyse des êtres. Ainsi, en dépit de sa reconnaissance du statut surnaturel de l’Etre des êtres, ses Formes sont des « banalisations » de l’être. Avec Aristote, la banalisation est poussée encore plus loin. Aristote déclare que toute philosophie « commence dans l’émerveillement », mais que la philosophie a pour tâche la suppression ou l’annulation de l’émerveillement au moyen de l’explication scientifique. Il reprend la doctrine des Formes mais la modifie, et oppose la Forme à la « matière » (une opposition que Platon n’emploie pas réellement). Toute la réalité est conçue par Aristote sur le modèle des objets de fabrication humaine : la combinaison d’une matière quelconque et d’un plan ou d’un modèle.

Maintenant, on pourrait objecter que j’ai été déloyal envers Platon en affirmant qu’il veut prendre le surnaturel qui rayonne à travers les choses et le dénuer de prodige et de mystère. Après tout, Platon ne suggère-t-il pas très clairement (et très fameusement dans la République) que nous ne pouvons jamais connaître les Formes telles qu’elles sont en elles-mêmes, qu’elles transcendent toujours nos pouvoirs de les comprendre ?[49]. Cela est vrai, mais cette doctrine n’est pas présentée comme une occasion d’émerveillement, ou de nous ramener à la religion, mais comme un idéal régulateur à la Kant, comme dans les Idées de la Raison. Si la pure ou totale connaissance des formes est impossible, le but de la connaissance totale est un but que nous approchons par une asymptote. Connaître les Formes devient ainsi une tâche infinie, et motive nos enquêtes (scientifiques) sur la nature des choses.

7. Conclusion

Un problème important demeure. Comment exactement pouvons-nous retrouver la capacité de faire se manifester le divin, d’invoquer les dieux ? Pour revenir au commencement, il semble que nos ancêtres faisaient cela sans effort, mais que ce pouvoir se soit atrophié en nous. La raison de cela est le sujet principal de « Connaître les dieux ». Mais que pouvons-nous faire dans notre situation ?

Dans « Connaître les dieux », j’ai fait quelques suggestions concrètes, qui revenaient essentiellement à dire « revenez à la nature, débarrassez-vous de tous vos gadgets, et ne faites pas confiance à la science moderne ». Certains lecteurs ont trouvé cela peu satisfaisant – et l’auteur aussi, pourrais-je ajouter. Ce n’était pas grand-chose, mais cela me semblait être, incontestablement, une bonne manière de commencer (un lecteur m’accusa d’hypocrisie, puisque je vis dans un appartement et que j’écris des articles sur un ordinateur ! A cela, je plaide : no lo contendere). Je m’en tiens à ces suggestions, et finalement j’ai l’intention de les suivre moi-même. Cependant, je pense que je peux maintenant offrir davantage.

Le lecteur aura peut-être remarqué que l’expérience du divin décrite ici attribue à l’homme antique quelque chose qui ressemble beaucoup à la capacité d’un enfant à l’émerveillement. Il n’y a là rien de nouveau, mais dans le passé l’« émerveillement enfantin » de l’homme antique était considéré comme une marque de sa nature « primitive ». Il est cependant impossible de retrouver la capacité de répondre à la divinité du monde sans réveiller cette capacité à l’émerveillement.

En discutant ce sujet, je me rappelle de trois textes. Je vais surprendre mes lecteurs d’abord en citant le Nouveau Testament (Mathieu, chapitre 18, verset 3) : « En vérité, je vous le dis, si vous ne redevenez pas comme des petits enfants, vous n’entrerez pas dans le royaume des Cieux ». Le second texte pourrait bien être considéré par certains comme l’antithèse du premier : il vient de du livre de Nietzsche, Ainsi parlait Zarathoustra. Dans « Sur les trois métamorphoses », Zarathoustra nous raconte « comment l’esprit devient un chameau ; et le chameau, un lion ; et le lion, finalement, un enfant » [50]. En tant que chameau, l’esprit est une bête de somme, chargée de « Tu feras ». Dans « Dans le désert solitaire » (un lieu de transformation spirituelle, comme le savaient Moïse, Jésus et Mahomet), l’esprit rejette les « Tu feras » et devient un lion. Mais le lion est purement réactif : il frappe les « Tu feras » et passe sa vie à se révolter contre eux. Il ne peut pas créer de nouvelles valeurs. Cela doit être laissé à la troisième métamorphose, l’enfant. « L’enfant est innocence et oubli, un nouveau commencement, un jeu, une roue se mouvant elle-même, un premier mouvement, un ‘Oui’ sacré » [51].

Le troisième texte est rarement cité, sinon jamais. Il vient d’une merveilleuse lettre que D.H. Lawrence écrivit de Cornouailles à Bertrand Russel, le 19 février 1916. Lawrence écrit :

Il faut être un hors-la-loi ces jours-ci, pas un enseignant ou un prédicateur. Il faut se retirer du troupeau et ensuite lui envoyer des bombes. … Coupez-la – coupez votre volonté et laissez votre vieux Moi derrière. Même vos mathématiques ne sont que vérité morte : et aussi finement que vous hachez la viande morte, vous ne la ramènerez pas à la vie. Cessez complètement de travailler et d’écrire et devenez une créature au lieu d’être un instrument mécanique. Purifiez-vous de toute discipline sociale. Pour votre fierté même devenez un simple rien, une taupe, une créature qui sent les choses à sa manière et ne pense pas. Pour l’amour du ciel soyez un bébé, et plus un savant. Ne faites plus rien – mais pour l’amour du ciel commencez à être – commencez par le commencement et soyez un bébé parfait : au nom du courage. [52]

Quelqu’un pourrait dire qu’il est facile pour un enfant de connaître l’émerveillement, puisque le monde est tout nouveau pour lui. Mais dès que l’on s’est habitué au monde, il est naturel que l’émerveillement cesse, et même que le cynisme et la lassitude s’installent. Nous devons rejeter cela. L’émerveillement de l’enfant ne cesse pas simplement parce que les choses lui deviennent familières, mais parce que les adultes autour de lui piétinent avec joie son émerveillement, en lui « expliquant » tout d’une manière réductrice sous la forme d’un « Oh, X ? Pourquoi, stupide garçon, c’est seulement Y » (voir mes commentaires précédents sur la science et la pornographie).

Retrouver l’émerveillement implique un changement dans le sujet. Aucun changement dans l’objet n’est requis. Il y a essentiellement deux « chemins » qu’on peut suivre pour rechercher le changement, et ils correspondent à la vieille distinction taoïste entre alchimie « interne » et « externe » (ou neidan et waidan, respectivement). (Je me hâte d’ajouter que les deux chemins ne sont pas mutuellement exclusifs et peuvent, et doivent, se confondre.)

L’alchimie externe, pour les taoïstes, impliquait l’usage d’élixirs spécialement préparés et conçus pour produire une transformation dans le sujet (par ex. le rendre immortel). Ce dont nous avons besoin, c’est d’un élixir qui modifierait notre conscience du monde et rendrait tout, y compris ce qui nous apparaissait complètement banal, nouveau et merveilleux. Un tel élixir rendrait le profane sacré. Je fais allusion, bien sûr, aux drogues psychédéliques, qui sont un adjuvant utile au réveil spirituel, si elles sont utilisées sagement et avec le plus grand sérieux. J’utilise la phrase « réveil spirituel » parce qu’il faut toujours garder à l’esprit que nous ne tentons pas d’acquérir quelque nouvelle aptitude, mais de réveiller une aptitude qui a été en sommeil.

Ce qui suit est une analogie intéressante, qui peut nous aider à mieux comprendre notre situation, et ce qui est requis pour nous. Dans les années 1880 et 90 les chemins de fer étaient en train d’être posés d’une côte à l’autre, à travers les grandes plaines de l’Amérique. Deux obstacles se présentaient : les bisons, et les Indiens qui les chassaient. En envoyant des hommes pour massacrer les bisons, le gouvernement et l’industrie faisaient d’une pierre deux coups. Avec la disparition des bisons, les Indiens des plaines furent privés de leur principale source de nourriture, et obligés de vivre dans des réserves gouvernementales. Mais pour les Indiens, la perte du bison signifiait bien plus que la perte de leur source de nourriture. Le bison était la figure centrale dans leur religion. Leur mythologie était basée sur la relation entre les hommes et les bisons, qui (croyait-on) s’offraient eux-mêmes pour être chassés et mangés. Le résultat dévastateur du massacre massif des bisons, par conséquent, fut la destruction de la religion des Indiens des plaines en quelques brèves années. La réponse à ce désastre, cependant, survint rapidement sous la forme de petits boutons comestibles qui vinrent du Mexique et parvinrent jusqu’aux Indiens. Les Indiens des plaines commencèrent à consommer du peyotl. Avec des rituels d’une grande solennité, ils se réunissaient dans des loges pour consommer le peyotl, recherchant en eux-mêmes de nouveaux mythes pour remplir le vide créé par la destruction du culte du bison par l’homme blanc. Ironiquement, c’est à peu près dans la même situation que l’homme blanc se trouve aujourd’hui[53]. Et consommer du peyotl (ou quelque chose dans le genre-là) pourrait aussi faire partie de la réponse pour nous.

Les drogues psychédéliques provoquent l’émerveillement d’une manière immédiate et  spectaculaire. Elles ne produisent pas des « hallucinations » ; elles ouvrent un canal par lequel nous pouvons voir le monde d’une manière entièrement différente. Mais faire de telles expériences de drogues au hasard est un sacrilège et peut se retourner contre l’utilisateur. Utilisées de manière appropriée, les drogues elles-mêmes peuvent produire une transformation personnelle immédiate et durable (comme les cas d’alcooliques qui furent guéris spontanément et complètement, après une seule dose de LSD). Cependant, je pense qu’elles sont largement sans valeur si l’on ne peut pas retenir ce que l’on a appris pendant le « trip », et traduire cela en une nouvelle manière de regarder les choses et, en général, d’être dans sa vie quotidienne.

Quant à cette vie quotidienne – par laquelle je veux surtout dire les longs intervalles entre les expériences psychédéliques – c’est là que l’« alchimie interne » a lieu. L’alchimie interne comprend toutes les activités dans lesquelles le moi s’engage (sans besoin d’élixirs) et qui ont pour but la transformation de la conscience. Lire cet article est un acte d’alchimie interne pour vous, tout autant que l’écrire l’a été pour moi. L’étude de soi, où l’illumination est le but, est de l’alchimie interne. Le yoga, avec là aussi pour but la transformation de la conscience, est de l’alchimie interne. Les chemins initiatiques, comme celui proposé par la Rune-Gild et d’autres organisations, sont une forme d’alchimie interne. Prendre la posture du zazen est de l’alchimie interne.

Le problème ici est de sélectionner une forme particulière d’alchimie interne, puisqu’on ne peut pas tout faire. Un premier pas est de poser réellement les questions que j’ai indiquées précédemment, comme des tentatives pour développer l’attitude pré-réflective de nos ancêtres : pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ? Et pourquoi cette chose particulière devrait-elle être, et de la manière qu’elle est ? En d’autres mots, le premier pas est de commencer à connaître l’émerveillement dans la vie.

Mais laissez-moi dire brièvement quelque chose au sujet de la méditation et des pratiques yogiques. La description que j’ai donnée de l’expérience religieuse a beaucoup en commun avec les descriptions des expériences du satori dans le Zen. Le satori est généralement décrit comme une expérience d’« éveil », ou d’« illumination ». Le décrire est délicat, car aucune description ne peut vraiment exprimer à quoi cela ressemble de connaître le satori, mais il semble impliquer au moins deux composants. Le premier est l’intuition que ce qui est, est juste. Lorsqu’on connaît le satori, on sent que tout, exactement comme c’est maintenant, est fondamentalement juste, et que cela doit être de la manière que c’est. Le second, c’est que temps et espace semblent être annulés. L’expérience survient quand on a l’impression d’être dans une sorte d’« éternel présent ». Et le sentiment de séparation entre soi-même et l’objet est également supprimé. Ce n’est pas (ainsi qu’on le dit souvent) parce qu’on a le sentiment que le moi et l’objet sont le même. C’est plutôt parce que dans l’expérience du satori, l’ego disparaît, et l’on est complètement pris par l’expérience de l’autre. Mais, encore une fois, c’est une expérience très particulière de ce qui est « autre ». C’est l’autre connu d’une manière intemporelle, par laquelle nous l’acceptons, nous nous abandonnons à lui, et nous l’affirmons inconditionnellement.

Etant donné la relation étroite entre le satori et mon récit de l’expérience des dieux, il va sans dire que toute la tradition orientale des pratiques consacrées à atteindre le satori, le nirvana, ou tout ce que vous voulez, devrait être d’un grand intérêt pour nous. Mais cela ne restreint pas vraiment les choses, car l’Orient nous fournit autant de voies vers l’Illumination qu’il existe de types de personnes individuelles. Pour chacun, il y a son propre yoga. Ce que toutes ces méthodes ont en commun, cependant, c’est que ce sont des moyens de dépasser une attitude profane envers les choses. Les meilleures d’entre elles nous enseignent à reconnaître le sacré dans le profane, et ainsi à transformer le monde devant nos yeux.

Notes

Originellement publié dans TYR: Myth—Culture—Tradition, vol. 2, ed. Joshua Buckley and Michael Moynihan (Atlanta: Ultra, 2004), 25–64.

[1] Je suppose que mes lecteurs n’ont pas besoin que je les convainque de la naïveté de la vision du XIXe siècle, selon laquelle les mythes seraient des tentatives primitives d’explication scientifique. Lawrence J. Hatab traite cela très bien : « L’explication répond à la question pourquoi ou comment une chose est en découvrant une cause antérieure, en recherchant la cause d’une chose jusque dans une (autre) chose profane. Les mythes, d’autre part, doivent être vus pour dévoiler que quelque chose est, la première forme significative que prend un monde, et dont l’arrière-plan est caché. Le mythe n’est donc pas explication mais présentation de l’arrivée/retrait du sens existentiel. Le passage du dévoilement mythique à la pensée rationnelle et scientifique ne peut pas être vu comme une correction du mythe parce que ce fut un passage à une nouvelle intention – la réduction des êtres aux capacités explicatives de l’esprit humain ou des causes naturelles vérifiables. Voir le mythe comme une erreur (une explication fausse) est une incompréhension anachronique de la fonction du mythe ». Voir Lawrence J. Hatab, Myth and Philosophy: A Contest of Truths (LaSalle, Illinois: Open Court, 1990), 23. Voir aussi (en particulier) p. 26. Plus loin dans le même ouvrage, Hatab parle de la Théogonie d’Hésiode, remarquant qu’elle n’est pas, à proprement parler, une histoire de « création ». Les premiers dieux « simplement apparaissent ; on ne nous dit pas d’où [ils viennent] » (p. 64).

[2] Martin Heidegger, Introduction to Metaphysics, trans. Gregory Fried and Richard Polt (New Haven: Yale University Press, 2000), 47.

[3] Voir Alan W. Watts, Nature, Man and Woman (New York: Vintage Books, 1970), 10.

[4] D. H. Lawrence, Studies in Classic American Literature (New York: Penguin, 1991), 22. Italiques omises.

[5] Heraclitus, Fragment 104, trans. Richard D. McKirahan, in A Presocratics Reader, ed. Patricia Curd (Indianapolis, Indiana: Hackett Publishing, 1996), 40.

[6] C’est essentiellement pour cette raison que la voie du guerrier est aussi un chemin vers la sagesse.

[7] Je souligne que bien que je doive beaucoup à Heidegger, je ne suis pas un heideggérien, et que cet essai n’est pas non plus un essai sur la philosophie heideggérienne. En particulier, je dois avertir le lecteur que mon usage des termes « être », « êtres » et « existence » n’est pas strictement en accord avec l’usage de Heidegger.

[8] Hatab dit ce qui suit : « Le chemin de la philosophie se détourne de l’imagerie sacrée du mythe pour se tourner vers des modèles de pensée empiriques et conceptuels. Ceci entraîne un passage du monde vécu existentiel à des représentations abstraites du monde. Maintenant le monde est mesuré selon des principes d’unité, d’universalité, et de constance, et l’esprit recherche des fondements empiriques et conceptuels qui permettent une sorte de certitude. Ainsi le dévoilement du monde passe d’un processus de divulgation à une sorte de fondationalisme, où la pensée est réduite à une forme et une structure connaissable et déterminée » (Hatab, Myth and Philosophy, 13).

[9] La plus grande partie de ce qu’on appelle « pornographie » constitue un effort concerté pour démystifier le sexe et pour nier ou détruire son miracle. L’ironie et l’irrespect envahissants de la pornographie et sa présentation (qui n’est absolument pas « sexy ») sont en effet une tentative de « moquer » l’effrayant mystère qu’est le sexe, et de le rendre non-menaçant pour les hommes modernes, dont le but est la destruction du mystère, et la réalisation du contrôle et de la connaissance parfaits de la réalité. Ce qui est perçu par les féministes comme la « misogynie » du porno a aussi son origine dans ceci : la femme, en tant que source du mystère, est brutalisée et ridiculisée précisément pour nier son mystère. Une grande partie de ce qu’on appelle « science » est en fait de la pornographie. Un scientifique qui dit à des jeunes : « Il est stupide de croire qu’il y a quelque chose de mystérieux dans la foudre : c’est simplement une décharge électrique atmosphérique » n’est pas moins pornographe qu’un Larry Flynt, qui dit aux même jeunes : « Il est stupide de croire qu’il y a quelque chose de mystérieux dans le vagin :  c’est juste une chatte ».

[10] J’ai emprunté le terme de « région » à la phénoménologie d’Husserl, mais mon idée d’une région a peu en commun avec celle de Husserl. En réalité, le terme que Husserl utilise est « essences régionales ». Celles-ci représentent des divisions fondamentales dans la réalité elle-même. Leur caractère fondamental est démontré par le fait que les différences entre elles sont qualitatives, par opposition aux quantitatives (c’est-à-dire qu’elles diffèrent en genre, plutôt qu’en degré). Deux légumes – une laitue et un concombre, disons—ne diffèrent pas en genre, et appartiennent ainsi à la même « région ». Mais un chien et un concombre ne sont pas seulement très différents, elles sont d’un genre fondamentalement différent. Tout comme un concombre et un cristal de quartz. Ainsi, nous pouvons facilement identifier trois régions correspondant à une division traditionnelle, venant du sens commun : animal, végétal, et minéral. Mes régions sont aussi des « divisions » à l’intérieur de la réalité, mais mon concept d’une région est plus ouvert, comme cela deviendra rapidement apparent.

[11] Bien sûr, les matériels à partir desquels nous créons les objets sont, en fin de compte, naturels. Mais quand nous contemplons un objet en tant qu’objet, ce n’est pas la dimension de leur être qui nous est donnée.

[12] Cependant, il faut noter qu’il y a traditionnellement des dieux des activités humaines, par ex. des métiers humains. Il suffit de penser aux diverses divinités associées aux forgerons et au travail des métaux, comme le Goibniu irlandais, le Gofann gallois, le Vulcain latin, et le Héphaïstos grec. Dans la mythologie indienne nous rencontrons Tvástr et Vishvakaram (celui qui « accomplit tout »). Très souvent de telles divinités non seulement jouent un rôle dans la création, mais sont aussi les enseignants de savoir-faire à l’humanité. Le meilleur exemple d’une telle figure serait probablement l’Hermès grec. La « source » de ces déités semble donc être, du moins en partie, l’intuition du caractère merveilleux des arts par lesquels nous transformons la nature. Ils sont supposés requérir une origine transhumaine pour pouvoir être explicables.

[13] Cependant, comme je l’ai suggéré plus haut en mentionnant Jung, il peut y avoir certaines structures innées qui déterminent, à un degré quelconque, la manière dont nous personnifions ou  décrivons les dieux. N.B.: Dans la réalité nous pouvons « remarquer » les ondes sonores sans les entendre. Leurs vibrations peuvent être vaguement perçues par le sens tactile. S’il existe quelque chose comme un « sens » par lequel nous devenons conscients du divin, la présence du divin pourrait-elle aussi enregistrée par les autres sens, même vaguement ? Je pense que c’est une possibilité et, à nouveau, le sens tactile semble être impliqué. Je pense à des phénomènes comme quand on a la « chair de poule », ou quand on sent ses cheveux se dresser sur sa tête. De telles choses arrivent quand les individus ont un contact avec l’« étrange », et souvent elles arrivent même en l’absence de toute conscience cognitive  d’une présence surnaturelle.

[14] Cf. Immanuel Kant, Critique of Pure Reason, trans. Werner S. Pluhar (Indianapolis, Indiana: Hackett Publishing, 1996), 28 (Bxxvi–Bxxvii). Mon appel à Kant n’est pas destiné à suggérer qu’il aurait été en sympathie avec ma phénoménologie des dieux. Il ne l’aurait très certainement pas été.  Kant divise la connaissance humaine en sensibilité (perception) et compréhension (pensée), et affirme que les « phénomènes » sont des objets tels que perçus par les cinq sens. Cependant, l’expérience du divin décrite ici ne semble appartenir ni à la sensibilité ni à la compréhension, mais semble plutôt être à cheval sur les deux. Ainsi, mes « apparitions phénoménales » des dieux ne doivent pas être comprises au sens kantien des perceptions sensorielles (ce que Kant appelle Anschauungen).

[15] L’ouvrage d’Usener sur lequel Cassirer se base principalement est Götternamen. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung (Bonn, 1896).

[16] Ernst Cassirer, Language and Myth, trans. Susanne K. Langer (New York: Dover Books, 1953), 17–18.

[17] Cassirer, Language and Myth, 18.

[18] Usener, 290f. Cité dans Cassirer, Language and Myth, 18. La traduction est vraisemblablement celle de Langer. Notez le langage très problématique ici : « Tout ce qui nous arrive soudainement comme un envoi du ciel … apparaît à la conscience religieuse comme un être divin » (les italiques sont de moi). Je soutiens que tout ce qui est venu à l’homme de cette manière fut, pour lui, un être divin, un envoi du ciel. Usener parle comme s’il pensait que l’homme agit avec une idée déterminée de l’être divin, et regarde certains objets comme divins parce qu’ils lui ressemblent.

[19] Cassirer, Language and Myth, 19.

[20] Cassirer, Language and Myth, 21.

[21] Elle a été traitée, dans une certaine mesure, dans « Connaître les Dieux ».

[22] Encyclopedia of Indo-European Culture, ed. J. P. Mallory and D. Q. Adams (London: Fitzroy Dearborn Publishers, 1997), 230.

[23] Une autre chose curieuse est que le mot aztèque pour désigner dieu était Teo. Ces similarités linguistiques sont traitées par la plupart des spécialistes réputés comme une pure coïncidence, puisque l’aztèque et le chinois appartiennent à des groupes linguistiques qui se sont développés tout à fait indépendamment de l’indo-européen. Cependant, la coïncidence est frappante.

[24] Mircea Eliade, A History of Religious Ideas, Vol. II, trans. William R. Trask (Chicago: University of Chicago Press, 1982), 7.

[25] Edred Thorsson, “The Holy,” in Green Rûna (Smithville, Tex.: Rûna-Raven Press, 1996), 41–45. Toutes les références sont faites par rapport à ce texte d’anthologie.

[26] Aussi, vieux norrois vîgja, « consacrer », et vieil-anglais wicca, « sorcière ».

[27] Thorsson, 41. Thorsson poursuit en disant que cela signifie qu’elle est « complètement autre », et  s’inspire de Rudolf Otto qui dit que le mysterium tremendum est ce qui est totalement séparé du terrestre ou de l’existence humaine quotidienne. Je ne suis pas sûr de pouvoir le suivre dans cette identification, cependant, si j’ai bien compris la remarque de Thorsson. L’analyse d’Otto concernant l’expérience religieuse tend à avoir un fort préjugé en faveur de l’expérience judéo-chrétienne, dans laquelle le divin est en effet quelque chose de « complètement autre » au sens de transcendant absolument le monde.

[28] Encyclopedia of Indo-European Culture, 25. Cette définition doit être particulièrement excitante pour les heideggériens.

[29] Thorsson, Green Rûna, 42.

[30] La manière dont les objets associés aux divinités acquièrent cette propriété semblable au mana n’est pas une chose que je discute ici. Mon analyse concerne seulement la manière dont le divin est « remarqué » pour la première fois dans le monde. J’hésite à utiliser le terme « mana » à cause de son association avec la théorie anthropologique totalement laïque et réductrice, mais je ne connais pas de meilleur terme.

[31] Le latin profanum signifie littéralement « devant le sanctuaire ». Il désignait le sol ordinaire en-dehors de l’enclos d’un lieu sacré. Hatab écrit : « Pour l’esprit mythique . . . le profane est ce qui est dépourvu de signification, le sacré est ce qui possède une signification ». Hatab, 23.

[32] Thorsson, Green Rûna, 42.

[33] Thorsson, Green Rûna, 43.

[34] Thorsson, Green Rûna,  43.

[35] De la racine proto-indo-européenne *sakros (par ex., « sacré ») vient le tokharien A sâkär signifiant « merveilleux, heureux, de bon augure ». Le tokharien B sâkre signifie « merveilleux, heureux, béni, de bon augure ».

[36] Et, pourrais-je ajouter, le banal « hi ! » d’aujourd’hui ne vient-il pas de hail/heil ?

[37] La raison pour laquelle eidos est traduit par Forme plutôt que par le plus naturel « Idée » est simple. « Idée » suggère quelque chose de subjectif, alors que les Formes de Platon sont des entités objectives existant dans une dimension séparée, non-spatio-temporelle.

[38] Plato, Symposium, trans. Alexander Nehemas and Paul Woodruff, in Plato: Complete Works, ed. John M. Cooper (Indianapolis, Indiana: Hackett Publishing, 1997), 493.

[39] Plato, Parmenides, trans. Mary Louise Gill and Paul Ryan, in Plato: Complete Works, 366.

[40] Voir le livre de Mitchell H. Miller, Plato’s Parmenides: The Conversion of the Soul (University Park, Pennsylvania: Pennsylvania State University Press, 1991), dans lequel cette thèse est developpée  magistralement.

[41] Martin Heidegger, Being and Time, trans. John Macquarrie and Edward Robinson (New York: Harper and Row, 1961), 51.

[42] Le très récent usage de « phénomène » pour signifier « grosse affaire » (comme dans « le phénomène du hula hoop ») n’a évidemment pas grand-chose à voir avec le sens que je discute ici.

[43] Il y a fondamentalement quatre manières par lesquelles Platon décrit la relation entre les Formes et les sensibles : (a) mimesis ou imitation (les sensibles sont des « imitations » des Formes), (b) methexis ou « participation » (les sensibles « participent » des Formes), (c) koinonia ou communauté, et (d)  parousia ou présence. A et B représentent plutôt des interprétations naïves et littérales de la relation, qui se révèlent inadéquates à l’analyse (le Parménide est consacré, en partie, à démontrer cela). Mais la koinonia et la parousia sont beaucoup plus intéressantes et défendables. Koinonia signifie que le sensible  « communie avec » ou est « en communion avec » la Forme. Parousia indique que nous rencontrons la Forme comme « présente dans » le sensible ; ou, en jargon phénoménologique, la Forme « se rend présente » dans le sensible si le sensible est regardé d’une certaine manière.

[44] Plato, Parmenides, p. 365.

[45] Les principaux témoignages sur cela viennent d’Aristote. Voir la Physique (209b 13–6) et la   Métaphysique (I.6). Il y a aussi un certain nombre de livres récents par des spécialistes de Platon et traitant de ce sujet. Voir Hans Joachim Kramer, Plato and the Foundations of Metaphysics, trans. John R. Catan (Albany: State University of New York Press, 1990) ; et Giovanni Reale, Toward a New Interpretation of Plato, trans. John R. Catan (Washington, D.C.: Catholic University of America Press, 1997).

[46] La « divine figure » du Démiurge dans le Timée, qui crée le monde sur le modèle des Formes éternelles, était reconnue comme un simple procédé poétique, même par les membres de l’Académie de Platon.

[47] Et aussi, faut-il ajouter, en paraissant suffisamment religieux pour éviter le sort de Socrate. Celui-ci fut accusé de deux crimes : corrompre la jeunesse, et ne pas adorer les dieux de la cité.

[48] Néanmoins, il n’est pas sans mythe, comme le sait n’importe quel étudiant des dialogues. Platon interrompt très souvent la discussion dans un dialogue pour permettre à Socrate, ou à quelque autre personnage, de présenter un mythos. Mais les mythes de Platon cadrent tous avec la conception du XIXe siècle concernant la nature des mythes : c.-à.-d. qu’ils sont tous des « récits probables » qui ont une fonction explicative. Ce sont essentiellement des substituts à l’explication scientifique. Cela ne veut pas dire qu’ils n’expriment pas très souvent des vérités profondes, mais Platon emploie le mythe  quand aucune réponse « rationnelle » n’est disponible.

[49] En réalité, dans la République, Socrate déclare explicitement que les Formes sont connaissables. Mais ceci est un exemple de l’ironie socratique. Au paragraphe 516b, son évadé de la caverne fixe directement le Soleil, mais il est impossible de faire cela longtemps sans être aveuglé. L’implication est que la Forme du Bien (symbolisé par le Soleil), n’est pas non plus connaissable directement ou pleinement. Ceci s’applique probablement aux autres Formes, comme cela est suggéré par certains des autres dialogues.

[50] Friedrich Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra, trans. Walter Kaufmann (New York: Penguin Books, 1978), 25.

[51] Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra, 27.

[52] The Selected Letters of D. H. Lawrence, ed. Diana Trilling (New York: Farrar, Straus and Cudahy, 1958), 129.

[53] Je dois cette analogie à Joseph Campbell, qui l’exprima dans un cours public au début des années 1970. A ma connaissance, le cours n’a été publié que sous forme de CD : « Confrontation de l’Orient et de l’Occident dans la religion » (Joseph Campbell Foundation, 1996).


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