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vendredi, 13 avril 2012

Intervista al Dr. Viaceslav Chirikba, Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Abkhazia

invIntervista al Dr. Viaceslav Chirikba, Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Abkhazia

Intervista al Dr. Viaceslav Chirikba,  Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Abkhazia

A cura di Filippo Pederzini

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

“Nella sostanza come secondo previsione l’incontro tra noi e i georgiani si è risolto con un nulla di fatto. Nella pratica però qualcosa abbiamo ottenuto, poco ma ugualmente importante: a livello internazionale si continua a parlare di Abkhazia, l’attenzione nei nostri confronti è elevata e questo oggi è fondamentale”. Nessun giro di parole, va subito al sodo il Dr. Viaceslav Chirikba, Ministro degli Esteri della Repubblica di Abkhazia, il 27-28 marzo scorsi protagonista a Ginevra, presso le Nazioni Unite per un nuovo incontro con i rappresentanti della Georgia riguardo l’indipendenza del suo Paese (indipendenza che i georgiani continuano a negare), mentre il 30 marzo e il 3 aprile è stato a Roma, per presentare il paese di cui è rappresentante agli organi di informazione italiani.

Il nuovo ‘round’ ha visto di fronte nuovamente abkhazi e russi da una parte e georgiani e statunitensi dall’altra. Sul piatto, il riconoscimento all’indipendenza dello stato caucasico che si affaccia sul Mar Nero, che di fatto lo è – dal momento della sua auto proclamazione risalente al 1992, e ribadita per altro nel 2008, dopo il tentativo di aggressione georgiana, sventata celermente dall’intervento russo, col conseguente riconoscimento di Russia, Venezuela, Nicaragua, Nauru, Vanuatu e Tovalu – nonostante l’ambigua posizione di Nazioni Unite ed Unione Europea. Nei panni queste ultime, ancora una volta e per chissà quanto tempo, di un arbitro sulla cui imparzialità si potrebbe discutere, considerando la propensione – è avvenuto in più di un’occasione – alla politica dei due pesi e delle due misure. È stato così per il Kosovo dal riconoscimento ‘indispensabile’, lo è oggi per quei territori definiti a status conteso come appunto l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud, il Nagorno Karabagh, la Transnistria, sui quali si preferisce diplomaticamente sottrarsi alla considerazione della realtà attuale, o rimandare eventualmente il tutto a data da destinarsi. Senza dimenticare poi, utile ricordarlo, che nel caso specifico dell’Abkhazia ogni volta in cui sono in programma incontri presso le Nazioni Unite i georgiani non mancano mai di avanzare la richiesta di evitare di invitare al tavolo delle trattative i rappresentanti abkhazi.

Innanzitutto, signor Ministro, la ringraziamo per averci concesso questa intervista. È stato così anche questa volta, i georgiani non vi volevano come controparte? Quale è stato l’esito dei colloqui di Ginevra?

Negli incontri del 27-28 marzo con la Georgia, avvenuti alla presenza di Stati Uniti, Russia ed Unione Europea, non si è giunti ad alcuna soluzione. Con i Georgiani non siamo riusciti assolutamente a dialogare. L’impedimento è sorto anche dalla presenza a Ginevra dei rappresentanti dei Paesi Baltici e della Polonia che hanno esercitato una sorta di ostruzionismo nei nostri confronti come sempre. È noto che questi Paesi hanno sostituito l’anticomunismo con la russofobia, e tutto ciò come nel nostro caso rappresenta amicizia e rapporti di buon vicinato con la Russia, si trasforma in blocco, a prescindere dai contenuti. Come già le volte precedenti tengo a ribadire che è molto difficile arrivare ad un tipo di risoluzione che vada incontro alle esigenze di entrambi. Le posizioni sono diametralmente opposte. C’è comunque da parte dei georgiani ancora oggi, nonostante la figura del presidente georgiano si stia incrinando sempre di più anche in merito a questa vicenda, nessuna volontà di riconoscere l’indipendenza del nostro paese. Siamo due realtà completamente differenti. Questo però non esclude di istaurare, e ci stiamo impegnando ormai da anni a tal senso, un dialogo costruttivo finalizzato al riconoscimento dell’indipendenza dell’Abkhazia. Passo a cui seguirebbe una ripresa dei rapporti tra i due stati e di conseguenza alla riapertura del confine. Non siamo noi però a non volere il dialogo con i georgiani, tengo a sottolineare, ma loro, fermi su posizioni assolutamente controproducenti e condizionati da terzi.

Ma quali sono oggi appunto, le posizioni georgiane in merito alla vicenda abkhaza?

In primo luogo l’irrinunciabilità e la rivendicazione dell’intero territorio abkhazo, come parte integrante dello stato georgiano. Sono forti di questa posizione, sostenuta per altro dagli Stati Uniti, grazie al mancato riconoscimento dell’indipendenza dell’Abkhazia sia parte delle Nazioni Unite, come della stessa Unione Europea. La Georgia come ribadito in passato l’unica concessione che sarebbe eventualmente disposta a fare sarebbe quella di una sorta di autonomia culturale dell’Abkhazia. Una formalità semplicemente irrisoria priva di valore; molto meno di quanto è concesso per fare un paragone, dallo stato italiano, alle provincie autonome di Trento e Bolzano. Il sostegno degli Stati Uniti alla Georgia fa sì poi che molti paesi a livello internazionale evitando di analizzare ed approfondire le questioni inerenti alla situazione abkhaza, si allineano su posizioni filo georgiane. Posizione per altro che trovano schierati anche tanti media occidentali: nel 2008 ad esempio alla stregua degli osseti del sud siamo finiti da ‘aggrediti’ ad aggressori, quando è vero l’esatto contrario. Nemmeno il web a tal senso ci viene incontro. Nonostante l’impegno profuso da parte nostra, dei russi e di altri che contribuiscono alla circolazione di notizie vere relative alla realtà abkhaza, come pure l’attività condotta da Mauro Murgia e recentemente la rivista Eurasia, che intervistandolo ha fatto sì che si parlasse di Abkhazia in un trimestrale di studi geopolitici così autorevole e soprattutto degli abkhazi, molte informazioni veicolate su internet non solo non sono veritiere, ma rasentano il falso. Su wikipedia la libera enciclopedia multimediale ad esempio è riportato che l’indipendenza dell’Abkhazia va contro il diritto internazionale. Curioso vero? E quella del Kosovo, senza aver nulla contro i kosovari sia chiaro, invece no? È stato smembrato uno stato, la culla della Serbia, oltretutto per crearne uno, privo di radici storiche, culturali, senza tradizione alcuna, che non ha avuto particolari difficoltà ad essere riconosciuto dalla comunità internazionale…

L’indipendenza del Kosovo però, non avrebbe potuto costituire un precedente su cui fare leva, in sede delle Nazioni Unite?

Diciamo che non ci siamo mai fatti illusioni: nei nostri confronti, ci si è mossi e questo appare abbastanza evidente oggi, quasi esclusivamente in funzione antirussa. Come antirussa, col beneplacito dell’occidente continua ad essere la politica estera georgiana: l’ultima novità giusto perché gli esempi non mancano mai e sono sempre di varia natura è che a maggio prossimo la Georgia inaugurerà un monumento sul confine della Circassia a ricordo dei circassi che hanno resistito all’occupazione sovietica. Come la si vuol definire questo tipo di azione? Sono pronto a scommettere che non mancherà di trovare spazio su qualche organo di informazione europeo o statunitense di rilievo, con ovviamente il giusto risalto. Non trova però spazio se non in termini a noi avversi la nostra vicenda. Tornando al Kosovo e scusandomi per questa parentesi, tengo però a chiarire una cosa: rispetto alla ‘neo nazione europea’, l’Abkhazia, oltre a vantare due millenni di storia ha sempre goduto di uno statuto speciale già dai tempi dello Zar, rinnovato anche nel 1931 quando è entrata a far parte dell’Unione Sovietica (solo l’avvento di Stalin ha cambiato le cose: con la deportazione di migliaia di abkhazi e l’accorpamento del territorio alla Georgia). Se non altro storicamente e a livello di diritto internazionale qualche ragione in più pensiamo di averla e cerchiamo di farla valere. Già il fatto comunque che oggi, lo ribadisco si parli di Abkhazia a Ginevra, presso le Nazioni Unite, come è avvenuto a Roma nei giorni scorsi è un importante passo in avanti.

Queste resistenze a livello internazionale nei vostri confronti, paiono celare però anche altri argomenti al momento sottaciuti, sia dalla Georgia che dal loro primo sponsor, gli Stati Uniti. Ecco, non è che ci siano ragioni di natura economica alla base della ferma volontà di non riconoscere la vostra indipendenza, da parte dei georgiani come dei loro ‘alleati’?

Posso risponderle che l’Abkhazia oggi è tra i primi paesi al mondo per l’elevata quantità in suo possesso e qualità, di acqua dolce. Difficile pensarlo per uno stato di così piccole dimensioni, ma è così. Lo sfruttamento di questa ricchezza naturale, senza inquinamento alcuno ci permette di produrre energia di tipo idroelettrico in abbondanza. A parte quella utile al fabbisogno del nostro paese, il resto lo vendiamo alla Russia: una quantità tale che permette di soddisfare le esigenze di una larga fetta del territorio russo meridionale. È chiaro dunque che una risorsa naturale come l’acqua, guardando anche alle condizioni in cui cominciano a versare molti paesi causa siccità, mutamenti atmosferici e altro e per usare la nota frase “Che la prossima guerra si combatterà per l’acqua”, già adesso si rileva oltre che importante per la sopravvivenza, strategica per i paesi che ne possiedono in grandi quantità. Ma non è l’unico fattore. Ci sono ben altre risorse naturali su cui si concentra l’attenzione. A poche miglia nautiche dalla costa, in acque territoriali abkhaze a tutti gli effetti sono stati individuati nel sottosuolo marino enormi giacimenti di gas naturale e di petrolio. Sgombrando il campo da ogni sorta di equivoco e cioè che sono dell’Abkhazia e del suo popolo, il Governo non è attualmente e non lo sarà nemmeno in futuro interessato a sfruttare questo tipo di risorse. Puntiamo per altro invece ad uno sfruttamento maggiore dell’acqua come delle tante bellezze naturali di cui è ricco il paese. Il mare, i laghi, le montagne i parchi. Il fatto che ora già oltre 2 milioni di russi ogni anno trascorrono le vacanze presso di noi, indica che la via che siamo intenzionati a percorrere è quella dello sviluppo turistico, prima che industriale, dato che il territorio va preservato. Le Olimpiadi Invernali di Soci nel 2014 rappresentano anche per noi una seria e concreta opportunità di crescita. Molto a livello di riqualificazione e valorizzazione si sta già facendo, ma tanto ancora ci sarà da fare soprattutto a livello infrastrutturale. Per questo ci rivolgiamo agli investitori stranieri, italiani compresi, offrendo loro un regime fiscale molto agevolato per imprendere in Abkhazia.

Diceva dei russi. Che rapporto c’è attualmente con loro, al di là del fatto che molti media occidentali parlano espressamente di sudditanza?

Con l’avvento di Vladimir Putin, il rapporto è stato fin da subito costruttivo e di estrema collaborazione. Sono lontani ormai i tempi di Eltsin quando le relazioni con la Russia erano ridotte al lumicino. Basti pensare che dal suo primo insediamento al Cremlino Putin ha iniziato a guardare all’Abkhazia con occhi diversi. O meglio ha capito subito e trasmesso che il nostro stato non è parte integrante della Georgia, ma indipendente e come tale deve avere vita propria. La Federazione Russa inoltre dopo la crisi diplomatica coi georgiani non ha esitato solo un attimo a riconoscerci, contribuendo ad elevarci a nazione tra le nazioni. È venuta incontro alle esigenze della popolazione, in primo luogo mediante la concessione del passaporto russo, che consente ai cittadini abkhazi la libera circolazione al di fuori dei confini del proprio Stato, come avviene per i cittadini delle altre nazioni. Gli Abkhazi possono entrare liberamente nel territorio russo, così come in tutti quei Paesi che hanno riconosciuto l’Abkhazia. Non va dimenticato poi il sostegno in termini economici sociali e tecnici offerto dalla Federazione Russa all’Abkhazia, teso allo sviluppo dello Stato, come pure quello militare. Come potrebbe fare altrimenti la nazione abkhaza a difendere e monitorare le proprie acque territoriali, in mancanza di una marina propria? Non è passato molto tempo, è utile ricordarlo, da quando unità navali georgiane si frapponevano e bloccavano tutte le imbarcazioni che volevano approdare nei nostri porti, arrestandone addirittura gli equipaggi. Inoltre è sicuramente meglio che siano le unità russe a controllare il confine con la Georgia, al fine di evitare ulteriori tensioni. Soprattutto il supporto offertoci dalla Federazione Russa ha contribuito a far parlare gli abkhazi del loro paese e non altri, come purtroppo continua in larga parte ad avvenire.

Da ultimo, che bilancio trae da questa sua visita in Italia?

Mi sento di dire che si è trattato di un viaggio, il primo nel vostro paese, di assoluta importanza e che ha determinato un passo anche seppur piccolo, in avanti con l’Unione Europea. Sta passando, in Europa, la giusta logica del ‘Fare parlare l’Abkhazia’, iniziando ad emarginare il cosiddetto ‘Parlare dell’Abkhazia’, senza minimamente conoscere il Paese e più in generale i problemi del Caucaso. A Pesaro, San Marino e Roma, gli incontri effettuati, sia politici che economici, sono stati seguiti con estrema attenzione da molti soprattutto esponenti del mondo economico. A Roma poi in particolar modo: in occasione della conferenza presso la stampa estera con i giornalisti italiani e quando, accompagnato dal Senatore del Partito Radicale Marco Perduca, ho incontrato privatamente il Senatore Lamberto Dini, presidente della Commissione Esteri del Senato. Il piacere dell’affermazione da lui pronunciata, “L’Abkhazia ha diritto alla sua autodeterminazione, senza se e senza ma”, dimostra che il nostro lavoro inizia a dare frutti concreti, impensabili ed impossibili solo poco tempo fa.

Les 3 facteurs clé de notre décadence ne sont pas clairement abordés par les candidats à la Présidentielle

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Les 3 facteurs clé de notre décadence ne sont pas clairement abordés par les candidats à la Présidentielle

par Marc Rousset

Ex: http://www.scriptoblog.com/

Selon Marc Rousset, économiste, écrivain, auteur de « La Nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou »

De même que la Vérité sort souvent de la bouche des enfants, l’hebdomadaire britannique   « The Economist »  a le mérite d’attirer notre attention sur le caractère peu sérieux  en France de la campagne présidentielle en cours. Le titre de son dernier numéro s’intitule : « La France en déni. L’élection la plus frivole d’Occident » en parodiant comme illustration le tableau d’Edouard Manet « Déjeuner sur l’herbe » où l’on voit Nicolas Sarkozy et François Hollande assis à même le sol dans une clairière avec  une femme totalement nue. Malheureusement le réquisitoire de l’hebdomadaire ne porte que sur le thème de notre compétitivité déficiente et l’hypertrophie paralysante de nos dépenses publiques  qui sont pratiquement passés sous silence par tous les candidats ! Mais « The Economist « oublie les deux autres facteurs clé de la décadence morale, sociale et économique française, à savoir le libre échange mondialiste à la source de notre  désindustrialisation et l’immigration avec son   coût économique annuel monstrueux, soit  73 milliards d’euros , pratiquement le déficit budgétaire de la France !

Le réquisitoire juste de « The Economist » sur l’hypertrophie des dépenses publiques  françaises

Le Président Sarkozy illusionne avec ses rodomontades  et  François Hollande nous prépare le sort de la Grèce tandis que Mario Monti réforme l’Italie pour de bon!  L’Espagne,  l’Italie  adoptent des politiques et des attitudes envers les réformes et la dépense publique infiniment plus courageuses que  ce qu’envisagent les candidats actuels. La France détient cependant déjà  le record d’Europe pour les dépenses publiques  (Etat, Collectivités locales, Sécurité Sociale) qui s’élèvent en 2011  à 55,9% du PIB ! Les mesures adoptées jusqu’à présent, même pour les retraites ,  relèvent beaucoup plus de la démagogie et de la poudre aux yeux que de réformes structurelles sérieuses à long terme redressant effectivement la situation. Quant à la croissance, elle doit venir de l’offre nouvelle de nouvelles entreprises compétitives  avec la retraite à 65 ans ,la suppression effective des scandaleux régimes spéciaux  publics de retraite   et non pas de l’entretien illusoire d’un trop grand nombre de  fonctionnaires  ainsi que d’un laxisme social  ou de gestion.IL est facile pour l’oligarchie politique  de se donner bonne conscience en ne faisant rien pour réduire les dépenses  et en  prenant pour prétexte que l’on entretient la consommation et donc la croissance ! Depuis le temps qu’elle pratique cette folie démagogique, la France devrait avoir aujourd’hui  le PIB par tête le plus élevé  du monde !
Nous ne répéterons jamais assez que de 1991 à 2008, le nombre de fonctionnaires en Allemagne qui faisait face au problème des fonctionnaires trop nombreux de l’ancienne DDR a baissé de 6 737 000 à 4 505 000. Dans le même temps,  la France passait de 4 258 000 à  5 200 000 fonctionnaires.  Avec près de 20 millions d’habitants de moins, la France a réussi la triste performance de dépasser l’Allemagne en 2002. Compte tenu de la différence des populations  de l’ordre de  3 pour 4 entre la France et l’Allemagne, le nombre de fonctionnaires  français,  en partant du chiffre allemand de 4 505 000 devrait donc être de 3 Millions ! Puisqu’il est de 5 200 000, il y a donc  bien  en France 2 000 000 de fonctionnaires en trop !

Le deuxième facteur clé de notre décadence économique : la France le pays le plus désindustrialisé  de la zone euro en raison du libre  échange mondialiste

Nous avons déjà écrit de nombreuses chroniques sur ce thème. Cette fois -ci nous nous bornerons  à citer plusieurs passages du Prix Nobel Maurice Allais qui expliquait pourquoi en suivant la politique libre-échangiste de Bruxelles, la France se suicide !
« La mondialisation de l’économie est certainement très profitable pour quelques groupes privilégiés. Mais les intérêts de ces groupes ne sauraient s’identifier avec ceux de l’humanité toute entière..Elle ne peut que se révéler finalement désavantageuse pour tous les peuples (1) »
« En fait, ce que l’on a constaté, c’est que la politique de libre échange mondialiste poursuivie par l’organisation de Bruxelles a entraîné (en France) à partir de 1974 la destruction des emplois, la destruction de l’industrie, la destruction de l’agriculture et la destruction de la croissance »(2)
« Si la politique libre-échangiste de l’organisation de Bruxelles n’avait pas été appliquée, le PIB réel par habitant en France serait aujourd’hui  d’au moins 30% plus élevé qu’il ne l’est actuellement et il serait certainement au moins égal au PIB réel par habitant aux Etats-Unis (3)
IL importe en effet de réaliser que ce que la France gagne en baisse de prix, elle le perd en  chômage (3 millions d’emplois industriels disparus en 30 ans)  et en diminution de revenus. Le recul du pouvoir d’achat affecte les chômeurs  mais aussi les non chômeurs qui subissent des prélèvements fiscaux et sociaux  croissants pour aider leurs compatriotes et les immigrés sans emploi. Voici ce qu’écrivait  également  Maurice Allais :
« Les partisans du libre-échange mondialiste soulignent que grâce aux délocalisations et aux importations en provenance des pays à bas salaires, jamais les prix dans les hypermarchés n’ont été aussi bas »
« Mais c’est oublier que les consommateurs  ne sont pas seulement des acheteurs. Ils sont également des producteurs qui gagnent leur vie et qui paient des impôts »
« En tant que consommateurs ils peuvent acheter des produits meilleur marché. Mais pour ces consommateurs la contrepartie de ces importations à bas prix est finalement la perte de leur emploi  ou la baisse de leurs salaires, et des impôts accrus  pour couvrir le coût social du chômage et de la politique de l’emploi. Dès lors les avantages apparents des produits bon marché sont plus que contrebalancés par leurs coûts économiques et sociaux réels de toutes sortes »(4)
Le résultat à ce jour, avant la désertification industrielle totale si rien ne change, c’est que, selon une étude  de COE-Rexecode de mars 2012 (5), la France est désormais le pays de la zone euro dont  la part de la valeur ajoutée de l’industrie manufacturière dans le PIB est la plus faible (9,33% en 2010) . A titre de comparaison, le poids de l’industrie atteint 12,1% en Espagne et 11,8% au Portugal, 13,1% en Belgique et 11,9% aux Pays Bas. Quant à l’Allemagne, elle fait la course en tête avec une industrie qui représente 18,7% de son PIB.

Le troisième facteur clé de notre décadence économique, sociologique et morale : la folle immigration extra-européenne

Là encore nous citerons le brillant major de Polytechnique Maurice Allais, peu suspect de racisme maladif ou congénital qui, déjà en 1992, écrivait:
« L’immigration tout à fait excessive  qui s’est constatée en France  depuis les années soixante a constitué par ses conséquences de toutes sortes un intolérable fardeau …dont le seul résultat tangible  a été de déprimer profondément les salaires réels français.. »(6)
Nous ne nous étendrons pas  sur les thèmes de la perte de l’identité française, européenne et du risque évident  de guerre civile pour nos enfants et  petits-enfants .Renaud Camus  souligne à juste titre « qu’aucun épisode depuis quinze siècles, ni la Guerre de Cent ans, ni l’occupation allemande  n’ont constitué pour la patrie une menace aussi grave, aussi fatale, aussi virtuellement définitive en ses conséquences que le changement de peuple(7). Nous assistons en quelque sorte à un véritable génocide culturel de la France..
Selon Yves Marie Laulan, dans son  étude du 19 Février  2012 (8) les coûts nets directs ou indirects de l’immigration s’élèvent à 73,3 milliards d’euros .Ils  sont donc  non  financés par un déficit budgétaire de 85 milliards d’euros qui alimentent l’endettement actuel de la France de 1717 milliards d’euros. L’immigration en France peut être évaluée à 250 000 (9) personnes par an dont 50 000 clandestins, soit une agglomération lilloise tous les 3 ans !

Comme nous le rappelle  Marc Aurèle «  l’objet de la Vie  n’est pas de se trouver du côté de la majorité, mais d’éviter d’être du côté des imbéciles ». Des dix candidats qui se présentent avec  leurs 500 signatures, aucun n’a  la stature d’un de Gaulle ou d’un Poutine pour redresser  d’une façon urgente une France qui part à vau-l’eau ! Les problèmes fondamentaux de défense  ne sont même  pas abordés. Il n’est donc pas étonnant que les thèmes de la campagne présidentielle  ne soient pas à la hauteur  de la faillite d’un Etat, d’une invasion migratoire programmée,  des enjeux pour la France de sa survie économique, politique,  militaire, démographique, linguistique et  civilisationnelle.

(1)Maurice Allais Erreurs et impasses de la construction européenne.Editions Clément Juglar,Paris,1992, p217
(2)Maurice Allais,l’Europe en crise,que faire ? Editions Clément Juglar,Paris 2005, p71
(3 ) Maurice Allais,op cit,p71
(4) Maurice Allais La Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance Editions Clément Juglar,Paris, 1999 p309
5) COE-Rexecode-« Faiblesses  et atouts de la France dans la zone euro »-mars 2012
6) Maurice Allais, L’Europe en crise, que faire ? op cit,p 77
7) Renaud Camus, Le Grand Remplacement, Editions David Reinharc, novembre 2011,76p
8) Yves- Marie Laulan- L’impact macro-économique de l’immigration-19 février 2012
9) Yves  Marie Laulan-Tableau de bord de l’immigration-Chiffres clefs des flux migratoires-Décembre 2011

Peut-on encore envisager une géopolitique européenne?

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Peut-on encore envisager une géopolitique européenne?

Ex: http://www.europesolidaire.eu/
 
Par géopolitique on entend traditionnellement la façon dont un pouvoir politique prend en compte les critères géographiques ou écogéographiques pour mieux assurer sa puissance et son indépendance. Au 21e siècle, une géopolitique européenne supposerait qu'il existe une puissance européenne qui viserait à se renforcer par la prise en considération de facteurs géopolitiques trop souvent ignorés dans les décennies précédentes. Mais n'est-il pas irréaliste de penser qu'une telle démarche serait encore à la portée de l'Europe?

La question doit être posée face à deux grandes mutations de la vie économico-politique qui se manifestent à l'échelle du monde global et qui semblent condamner le concept d'une Europe puissante et indépendante.

Le système de la finance mondialisée

La première de ces mutations s'annonçait depuis des décennies, mais elle a pris ces dernières années une importance déterminante: il s'agit de la prise en mains de l'économie réelle localisée et des structures étatiques traditionnelles par des intérêts financiers mondialisés pour qui les structures nationales ou régionales (celle de l'Union européenne en ce qui nous concerne) ne sont plus que des coquilles vides. Des acteurs européens sont présents au sein de cette économie financière, ils développent des géostratégies favorables à leurs manœuvres spéculatives. Mais ils ne visent pas à renforcer la puissance et l'indépendance des Etats européens ou de l'Union européenne. Ils visent au contraire, sauf quand ils peuvent directement, corruption aidant, les utiliser à leur service, à diluer ces structures dont la persistance handicape leur volonté de domination mondiale. Ainsi, au lieu de participer à la construction d'une puissance géopolitique européenne, les institutions européennes ont été utilisées à niveler les identités, détruire les protections et ouvrir grande la porte à l'entrée des intérêts transnationaux.

Le discours désormais dominant de ce que l'on nomme le néolibéralisme mondialisé est que rien ne doit freiner le jeu de la compétition au sein d'un marché aussi large que possible. L'Europe dans cette perspective ne doit plus être une mosaïque de peuples, de territoires et de cultures dont on reconnaitrait les frontières et les différences afin de valoriser la capacité de l'ensemble à se grandir par la mutualisation. L'Europe doit devenir un rassemblement d'individus tous semblables, tous acheteurs de produits identiques, tous titulaires de crédits à la consommation qui les enchaîneraient aux organismes préteurs et aux forces de spéculation (les marchés) dont les centres stratégiques ne sont pas européens. Dans ces conditions, il ne faut pas s'étonner du fait que les peuples européens ne se reconnaissent pas dans les institutions qui sont censées les représenter.

Il faut ajouter que les nouveaux pouvoirs financiers n'ont aucune volonté de lutter contre les inégalités, que ce soit au plan mondial ou dans chacun des Etats européens. Ils constituent une étroite minorité (1 à 5% de la population mondiale selon les estimations américaines possédant près de 90% des ressources mondiales). Ces chiffres sont indicatifs mais ils montrent bien les ordres de grandeurs. Une telle minorité transnationale, dite désormais des super-riches et des super-puissants fera tout, y compris par la force, pour conserver son pouvoir. Leurs représentants pratiquent évidemment la géopolitique à leur usage, usant de toutes les facilités que permet la disparition organisée des frontières et des régulations étatiques. C'est de leur fait que prospèrent dans le monde et en Europe même les paradis fiscaux et les pratiques de corruption et de criminalité économique à grande échelle.

Dans les Etats européens, les représentants de ces intérêts financiers transnationaux dominent les organisations étatiques, au triple niveau des institutions de l'Union européenne, des gouvernements nationaux et de nombres d'administrations régionales et locales. La crise économico-financière des années 2008-2010 n'a en rien diminué leur pouvoir. Après un moment d'adaptation, les forces dominantes se sont réorganisées pour contrer les vagues efforts de régulation étatique annoncés à des fins principalement électorales par certains gouvernements.

On doit se demander pour quelles raisons, en quelques décennies, le système de l'économie financière ou « virtuelle » mondialisée s'est substitué au capitalisme industriel et bancaire traditionnels. Ceux-ci n'excluait pas les abus en provenance des classes patronales, mais plus d'un siècle de luttes syndicales et d'arbitrages étatiques en avaient limité la portée. La généralisation du nouveau système a permis au contraire l'apparition de véritables prédateurs qui ont pu spolier sans résistance les travailleurs, les épargnants et les services publics. Ce sont ces prédateurs qui constituent l'internationale des super-riches et des super-puissants évoqués plus haut, ayant pris le monde entier en otage. Ils ont réussi, comme le montre bien l'ouvrage d'Hervé Juvin, « Le renversement du monde » Gallimard 2010, à obtenir la merchandisation de l'ensemble des biens et services fournis quasi gratuitement jusque là par les sociétés traditionnelles, dans le cadre d'un usage modéré des ressources naturelles. Tout dorénavant doit se vendre et s'acheter, sans considération des gaspillages et de la destruction des capitaux humains et naturels en résultant.

Or s'il y a bien derrière ces prédateurs des institutions et des personnages qu'il est possible d'identifier – sans d'ailleurs pouvoir les combattre car ils savent se mettre hors de portée – on peut difficilement leur imputer la responsabilité d'un complot mondial organisé. Ils se bornent à exploiter jusqu'à l'épuisement les ressources auxquelles l'évolution sociétale que nous qualifions d'anthropotechnique leur a donné accès. En nous appuyant sur notre thèse (Jean-Paul Baquiast. Le paradoxe du Sapiens JP Bayol 2010) nous dirions en effet qu'il s'agit de superorganismes associant des technologies proliférantes et des humains aux déterminismes génétiques encore très proches du règne animal. Leur développement sur le mode viral résulte à la fois de décisions relevant de la conscience volontaire, individuelle et collective, et de motivations primitives plus ou moins inconscientes. C'est ce caractère qui rend le système financier mondialisé difficile à
combattre par ceux qui en sont les victimes. Il s'agit d'un véritable écosystème encore très mal connu. Ceci d'autant plus que les automates boursiers qui en constituent dorénavant un aspect majeur sont en train d'échapper à leurs propres concepteurs.

Les Empires

Une deuxième mutation est toute différente. Elle résulte du fait qu'existent, à l'abri de ce discours mondialisateur et en contradiction avec lui, plusieurs véritables Empires dont l'objectif implicite est de dominer le monde et pour qui l'existence d'une Union européenne susceptible de se constituer elle-même en Empire afin de valoriser ses propres ressources représente un risque à combattre. Ces Empires se caractérisent par une volonté permanente de puissance, d'autonomie et d'indépendance. Il y a d'abord l'Empire américain. Il a pris naissance dès la fin de la première guerre mondiale et n'a fait que se consolider depuis. C'est lui qui s'est emparé après la chute de l'Union soviétique du discours néo-libéral et du thème de la mondialisation obligée, afin de l'étendre au monde entier. Mais il s'est bien gardé de se l'appliquer à lui-même. Sous des formes diverses, très souvent occultes, les intérêts impériaux (pour ne pas dire impérialistes) des Etats-Unis ont été imposés à l'Europe, à l'ancienne Russie communiste et à diverses parties du monde soumises par faiblesse à la Banque mondiale et au FMI (le « consensus » de Washington).

Dans le même temps, l'investissement dans une hyperpuissance militaire, la mise sous contrôle diplomatique d'un certain nombre de pays producteurs de ressources jugées indispensables, le soutien aux investissements des multinationales américaines dans le monde, combinés avec un fort protectionnisme économique dans les domaines stratégiques, n'ont jamais cessé. L'Empire américain subit aujourd'hui une crise, due en grande partie à des erreurs graves de jugement des décideurs politiques et économiques. Une partie de sa puissance s'est gaspillée dans des guerres inutiles ou mal conduites. Mais il serait illusoire de penser qu'il a renoncé à des efforts de domination, notamment à l'égard de parties du monde, telle l'Europe, qui n'ont pas compris la nécessité de lutter contre lui.

D'autres Empires cependant sont apparus dans le monde depuis une vingtaine d'années. Ils menacent désormais l'hégémonie américaine. Ils présentent des formes politiques très différentes, mais ils sont dotés d'atouts que l'Europe n'a pas. Ces atouts sont d'abord géopolitiques, en ce sens qu'ils résultent des éléments de puissance que confèrent la population et le territoire. Sur le plan démographique, l'Europe ne verra pas dans les prochaines décennies s'accroitre une population par ailleurs vieillissante. Au contraire, face à elle, s'affirment des ensembles géographiques vastes, dotés de milliards de citoyens, en augmentation constante. Certains de ces ensembles sont dirigés par des Etats forts ou par des institutions politiques veillant à garantir leur force et leur indépendance. C'est le cas de la Chine, dans un moindre mesure de l'Inde et dans une certaine mesure du Brésil. On mentionnera aussi la Russie, dont les adhérences européennes sont fortes mais pas suffisantes actuellement pour en faire un allié des Européens.

De toutes ces puissances, l'Europe n'aura évidemment pas à espérer de cadeaux. Le monde toute entier attend plus ou moins inconsciemment l'occasion de prendre une revanche sur les anciens colonisateurs et les anciens civilisateurs. Face à des Etats disposant de telles forces démographiques et décidés à utiliser toutes les ressources de la puissance, sur le mode américain, y compris sur le plan militaire, les chances de survie de l'Europe paraissent donc de plus en plus réduites. Ceci d'autant plus qu'asphyxiée par le discours libéral et mondialisateur imposé par l'Amérique, elle ne recoure pas elle-même pour son compte aux solutions de la puissance.

D'autres grandes entités sont plus diffuses au plan politique, mais elles constituent elles-aussi des puissances avec lesquelles l'Europe ne pourra pas éviter de se mesurer. Elles disposent elles-aussi des ressources de la démographie galopante et de grandes cohésions ethniques et culturelles. Il s'agit du monde arabo-musulman et de l'ensemble des sociétés sub-sahariennes. Le monde arabo-musulman, bien que rassemblant des composantes encore rebelles à l'unité au sein de l'oumma prêchée par les responsables religieux, s'opposera de plus en plus aux autres puissances géopolitiques. Il dispose des ressources du pétrole qui lui donnent momentanément encore une grande capacité de s'étendre, pacifiquement ou militairement. L'islam, religion en phase de conquête, l'armera dans son effort de pénétration des régions voisines, notamment en premier lieu de l'Europe. Les sociétés africaines, pour leur part, ne sont pas encore organisées en puissance géopolitique. Elles demeurent exploitées et manipulées par les autres puissances, y compris par ce qui reste en Afrique d'intérêts européens. Mais elles se transformeront en puissances de fait lorsque, sous la pression des changements climatiques, leurs populations chercheront hors d'Afrique, et notamment en Europe, des moyens de survivre. Aucune force ne résiste à des foules affamées.

Face au renforcement des Empires, qu'accélérera inévitablement l'extension des crises climatiques et écologiques, certains observateurs mettent leurs espoirs dans des mouvements de protestation interne nés apparemment spontanément au sein des sociétés occidentales. Cette protestation est récente, à peine émergente. Pour la plupart de ceux qui l'observent, et même pour beaucoup de ses acteurs, elle demeure encore un mystère. Il s'agit du mouvement dit des Indignés en Europe (en Espagne où elle a pris naissance), dit aussi Occupy Wall Street aux Etats Unis où elle s'est développé à l'automne 2011. Ces mouvements résultent du caractère de plus en plus insupportable, pour les 90% des populations qui ne se situent pas en haut des hiérarchies économiques et sociales, de la domination des riches et des puissants. Or ceux-ci se sont révélés, comme le montre la généralisation des crises économiques notamment depuis 2008, incapables d'assurer le minimum de développement organisé dont chacun pourrait bénéficier. Les Indignés de Wall Street manifestent non seulement contre leur propre paupérisation mais contre le désordre général de la planète imposé par le néo-libéralisme mondialisé. Ils rejoindront en cela les critiques légitimes des altermondialistes, actuellement en perte de vitesse.

La difficulté, pour ceux qui voudraient renforcer l'indépendance et la puissance de l'Europe, tient au fait que ces mouvements d'Indignés visent à changer l'ordre international, sans d'ailleurs proposer d'objectifs précis. Lorsqu'ils défendront des programmes de réforme (certains parlent de « sortie du Système » ), l'Europe n'y apparaitra sans doute pas initialement en tant que telle. Ce sera tout le Système du pouvoir mondial économico-politique qui sera visé – y compris sans doute dans les formes qu'il a pris en Russie et surtout en Chine. Les Indignés européens sauront-ils ou voudront-ils définir des formes de sortie du Système, à supposer qu'ils en soient venus jusque là, qui tiennent compte des spécificités européennes. Ceci serait indispensable pour mobiliser directement les populations européennes, notamment parmi elles les millions de jeunes qualifiés actuellement condamnés au chômage. Pour ces jeunes, ce ne sera pas seulement aux Etats-Unis mais en Europe que les changements devront survenir. Rien ne les laisse prévoir, y compris dans un pays comme la France qui devrait prochainement renouveler sa représentation politique.

Jean Paul Baquiast

Histoire des Berbères, des origines à nos jours

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Sortie du nouveau livre de Bernard Lugan :
Histoire des Berbères, des origines à nos jours. Un combat identitaire pluri-millénaire.
 
IMPORTANT : Ce livre édité par l'Afrique Réelle n'est pas disponible dans les librairies ou les sites de commandes en ligne. Seule l'Afrique Réelle le distribue.
 
Prix (frais de port compris) :
- 29 € pour livraison en France / Dom-Tom / Europe
- 38 € pour livraison dans le reste du monde (en recommandé avec AR)
- 25 € à partir de 5 livres
 
Pour le commander, 2 possibilités :
- Par carte bleue ou Paypal :
- Par chèque avec le bon de commande ci-joint à imprimer et à nous retourner
 

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Présentation de l'ouvrage
 

Les Berbères ou Imazighen (Amazigh au singulier) constituent le fond ancien de la population de l’Afrique du Nord. Ils formaient à l’origine un seul Peuple peu à peu fragmenté par une histoire à la fois riche, complexe et mouvementée. Des dynasties berbères régnèrent  sur le Maghreb jusqu’au XVI° siècle.

Les partisans de l’arabo-islamisme affirment que les Berbères sont sortis de l’histoire, leur conversion à l’Islam les ayant inscrits de façon irréversible dans l’aire politico-culturelle de l’arabité. Dans les années 1950, la revue Al Maghrib alla ainsi jusqu’à écrire qu’ils ne peuvent accéder au Paradis que s’ils se rattachent à des lignées arabes. Quant auministre algérien de l’Education nationale, il déclara en 1962 qu’ils « sont une invention des Pères Blancs ».

 Aujourd’hui, les dirigeants arabo-islamiques nord africains doivent faire face au réveil berbère si fortement exprimé en 2004 par Mohammed Chafik au travers de sa célèbre question réponse: « Au fait, pourquoi le Maghreb arabe n’arrive-t-il pas à se former ? C’est précisément parce qu’il n’est pas Arabe ». Cette phrase était incluse dans un article dont le titre explosif était : « Et si l’on décolonisait l’Afrique du Nord pour de bon ! », intitulé signifiant qu’après avoir chassé les Français, il convenait désormais pour les Berbères d’en faire de même avec les Arabes…

Qui sont donc les Berbères ? Quelle est leur origine ? Comment furent-ils islamisés ? Quelle est leur longue histoire ? Comment se fait aujourd’hui la renaissance de la berbérité? Peut-elle être une alternative au fondamentalisme islamique ?

C’est à ces questions qu’est consacré ce livre qui n’a pas d’équivalent. Son approche est ethno historique et couvre une période de 10 000 ans. Il est illustré par de nombreuses cartes en couleur et par des photographies.

 

Table des matières

 

Première partie : La Berbérie jusqu’à la conquête arabe

 

Chapitre I : Une très longue histoire

A) L’état des connaissances
B) L’Egypte, une création berbère ?

 

Chapitre II : Les Berbères durant l’Antiquité classique

A) Les Peuples et les Etats
B) Les Berbères furent-ils romanisés ?

 

Chapitre III : Les Berbères, les Vandales et les Byzantins

A) L’intrusion vandale
B) L’échec de Byzance

 

Deuxième partie : Les Berbères se convertissent à l’islam mais ils résistent à l’arabisation (VI°-XV°siècle)

 

Chapitre I : Les Berbères face à la conquête et à l’islamisation

A) Les résistances à la conquête
B) La révolte berbère du VIII° siècle

 

Chapitre II : Le monde berbère du IX° au XII° siècle

A) La Berbérie au IX° siècle
B) Le Maghreb berbéro musulman du X° au XII° siècle

 

Chapitre III : Les  grandes mutations du monde berbère (XII°-XV° siècle)

A) Les Berbères almohades et l’arabisation du Maghreb (XII°-XIII°)
B) La question arabe
C) Le tournant des XIII°-XV° siècles

 

Troisième partie : Des Berbères dominés à la renaissance de la Tamazgha

 

Chapitre I : Les Berbères perdent la maîtrise de leur destin (XVI°-XIX° siècle)

A) Le Maroc entre Arabes et Berbères
B) Les Berbères et les Ottomans (XVI°-XIX° siècle)

 

Chapitre II : Les Berbères et la colonisation

A) Algérie : de la marginalisation à la prise de conscience
B) Maroc : les Berbères victimes du Protectorat ?

 

Chapitre III : La renaissance berbère aujourd’hui

A) Maroc : de la stigmatisation à la cohésion nationale
B) Algérie : entre berbérisme et jacobinisme arabo-musulman
C) Les autres composantes de la Tamazgha

 

- Bibliographie
- Index des noms de personnes
- Index des tribus et des peuples

 

jeudi, 12 avril 2012

Après la mort de Merah le feu couve

Après la mort de Merah le feu couve

Mais nos gouvernants ont la trouille de regarder la réalité en face
Michel Lhomme

Ex: http://metamag.fr/

 

 

Après un siège de 32h, le plus long de toute l’histoire du RAID, Mohamed Merah est mort sous une couverture médiatique sans précédent. L’enseignante de Rouen, "dérangée" nous dit-on -mais comment se fait-il qu’on laisse des professeurs « malades mentaux » devant nos enfants ?- ne voulait pas directement lui rendre hommage par sa minute de silence; mais elle avait dédié une minute de recueillement à la « tuerie médiatique », pour en dénoncer la spectacularisation outrancière. 
 
En pleine campagne électorale, dans une stratégie classique de la tension et de l’agent-bannière, l’affaire de Toulouse, avec ses nombreuses zones d’ombre, a fini, petit à petit, par révéler les carences quotidiennes de l’Etat et peut-être, finalement, comme pour l’attentat de la rue Copernic, se retournera-t-il contre ses réels commanditaires, français ou étrangers. 
 

Une minute de recueillement
 
La fuite des responsabilités des agents de l’Etat à tous les niveaux, la politisation d’opérations techniques qui réclament au contraire la neutralité (présence de Claude Guéant, le Ministre de l’Intérieur sur le théâtre d’opérations !), un certain état de déliquescence dans la surveillance du territoire, avec des armes de guerre qui circulent en toute impunité, un manque criant de moyens en personnel affecté au renseignement intérieur, une succession de peines de petite délinquance non accomplies, l’islamisation radicale des prisons françaises, des policiers occupés à encadrer les meetings ou les déplacements de Sarkozy au lieu de traquer les voyous, une chasse coûteuse aux pédophiles et aux récidivistes sexuels, privilégiée à celle contre les jihadistes suite à des politiques suivistes calquées sur l’émotion judiciaire...  
 
Nicolas Sarkozy donne ton d’une France forte. En réalité à genoux. Même si le président annonce que toute personne se rendant en Afghanistan ou au Pakistan pour y suivre une formation de terroriste sera poursuivi comme tous ceux qui fréquenteraient  des sites  de propagande salafiste. C'est bien, mais pourquoi, seulement maintenant? Que n'y a-t-on pensé plus tôt? Mais surtout, les politiques fréquentent-ils la banlieue ? La page Facebook d’hommage à Mohamed Merah a bien été ouverte et visitée, très rapidement avant sa fermeture. 
 

Un ministre omni-présent
 
Pire, tout le monde devine qu’après l’assassinat du lycée juif de Toulouse, certains musulmans ont fait la fête et que les mêmes ont pleuré, jeudi soir, la mort-martyre de Mohamed Merah. Où ? Qui? Nous ne sommes pas affectés à la surveillance policière mais nous pouvons certifier que ce fut bien le cas, par exemple, dans certains studios de la cité universitaire de Clermont-Ferrand. Pire même, de la part de certains membres, pourtant bien connus, du comité de défense de Wissam el Yamni.   
 
A quand le printemps des banlieues musulmanes?
 
Wissam El-Yamni est ce jeune homme (!) de 30 ans, mort à la suite d’une interpellation, dans la nuit du 31 décembre 2011 au 1er janvier 2012, au quartier de La Gauthière, à Clermont-Ferrand. Il s’amusait à "caillasser" les forces de l’ordre dans un état d’énervement et de surexcitation. Depuis cette nuit tragique de la Saint-Sylvestre, Clermont-Ferrand ne passe quasiment pas un week-end sans un rassemblement à sa mémoire, où l’on peut entendre, ouvertement et sans que d’ailleurs, personne ne s’en inquiète, des discours extrémistes !
 
 
Des comités Wissam El-Yamni se sont constitués dans la banlieue parisienne et le samedi 17 mars, 300 personnes se sont rassemblées, à Clermont-Ferrand, à l'appel du comité "Justice et vérité pour Wissam". "Que celui qui souhaite devenir Président de la République, quel qu'il soit, vienne-nous voir, vienne-nous parler !" scandaient les proches de la victime, en prétextant, enflammés, ne pas vouloir baisser les bras. 
 
La justice, pourtant, suit son cours ; des enquêtes de la police des polices ont très tôt été diligentées, un jugement est même prévu pour avril, mais cela n’empêche pas le comité de soutien "Justice et vérité pour tous" de poursuivre ses actions. Si nous plaçons, ici, au premier plan l’affaire Wissam El-Yamni, dont les médias parlent peu, c’est que sans amalgame, insidieusement, depuis janvier, cette affaire mobilise des comités dans les banlieues dans une discrétion médiatique et politique qui finit par être complice. 
 
Certes, les discours politiques autour de cette affaire sont a priori classiques mais, pour certains observateurs plus perspicaces, le ton des banlieues a changé, les proclamations devenant de plus en plus radicales avec des protestations qu’on situerait, de plus en plus, hors système. A Clermont-Ferrand, les slogans classiques de gauche tels que : "On attend la justice, on attend la vérité, on attend l'égalité", voisinent ouvertement avec des appels à la vengeance « anti-français », à la rébellion et surtout, à la naissance d’un printemps arabe en France, un «printemps des banlieues musulmanes », voulant faire de Wissam, le Bouazizi français. 
 
Mélenchon se voile la face, comme les autres 
 
A notre connaissance, personne, nous disons bien personne, n’a été inquiété après de telles prises de parole publique. Le samedi 17 mars, après une longue intervention orale du secrétaire du comité et un point de la situation fait par les avocats, les personnes présentes ont été conviées à former un "W" et respecter un "die in", en s'allongeant par terre et en faisant le mort en signe de protestation sur un titre de rap enregistré pour Wissam. La famille, toujours pas mise au pas (?!) a remercié le public présent, avant de se rendre, aux côtés des membres du comité, pour échanger avec les personnes venues soutenir leur combat, des personnes venues de la région parisienne, de Lyon, de Marseille... Des actions étaient prévues pour le 6 avril et le 17 avril, c’est-à-dire en pleine campagne électorale, qui exige traditionnellement un devoir de réserve républicain, même pour les familles en deuil !
 
 
 
Alors oui, nous posons la question : de quoi nos gouvernants ont-ils la trouille ? Par exemple, la semaine dernière, Nicolas Sarkozy a annoncé qu'il devait être mis un terme à l'embrigadement islamiste des détenus en prison, alors que les rapports concernant cette réalité sont tellement nombreux qu’on en a même tiré d’excellents films, le tout nouveau "La désintégration", mais aussi "Le prophète" de Jacques Audiard ! 
 
Jean-Luc Mélenchon, préfère, lui, insulter : "Débile", "crétin", "dégénéré", tel était Mohamed Merah ». Admettons ! Mais, il y a tout de même un problème. Une femme, Aïcha, a porté plainte contre le "monstre" (dès 2010!) pour des actes qui auraient largement justifié une haute surveillance. Fou furieux, abruti dangereux et pourtant, pas inquiété quand il montrait à un enfant des gens égorgés par Al-Qaida ! L’affaire Mohamed Merah est un fiasco du RAID, contraint d’arrêter un forcené franco-algérien avec 400 policiers d’élite. 
 
C’est, en fait, surtout le fiasco de toute une politique sécuritaire, impuissante à prévenir la dérive d’un déséquilibré connu de ses services policiers, incapable de mobiliser les alertes des diverses administrations qui l’avaient croisé, aveugle au trafic d’armes de guerre en banlieue, sourd à de réelles menaces (la semaine dernière, une bombe avait  explosé devant l’Ambassade d’Indonésie à Paris, quelques heures avant le procès d’un islamiste à Jakarta). 
 
Le karcher n'a été qu'un pistolet à eau 
 
Plus profondément, ce pourrait être le fiasco de la politique de la peur, de la karchérisation sarkoziste dont la virulence angoissante masque la profonde inefficacité sur le long terme. A moins…  A moins que tout cela ne participe, sous la marque déposée d’Al Quaida-CIA à une simple pression internationale sur les élections d’un pays qui a perdu toute souveraineté, pris en tenaille par l’immigration musulmane et l’électorat juif (la kippa de Alain Juppé lors de l’enterrement en Israël des quatre victimes juives de Toulouse). 
 

Des armes en vente libre !
 
Mais, à Toulouse, il s’est aussi passé autre chose… Nous avions jusqu’alors l'assassin qui touchait des droits d'auteur sur son livre. Nous avons désormais, depuis Toulouse et avec les exécutions de Montauban, le tueur grand reporter de ses propres crimes, metteur en scène de ses nouveaux "idiots utiles" que deviennent les passants, les voisins, les experts en rien et les journalistes. Chacun s’est précipité pour son "quart d'heure de célébrité", à la Andy Warhol. Et on a eu l'impression de voir se transformer, tour à tour sous nos yeux, tueur et journalistes en soupes Campbell, répétées à l'infini, dans une rafale d'images anticipant les rafales de tirs automatiques d’une probable guerre civile ! On a relevé le défaut professionnel des journalistes : ils sont avides de réponses et préfèrent même inventer carrément des réponses lorsqu’ils n’en ont pas (au début de l’affaire, l’accusation portant sur les soldats néo-nazis et toute l’extrême-droite). 
 
Depuis Karl Kraus, on sait bien que le journalisme c’est le commérage, alors que la pensée et l’analyse se nourrissent forcément de silence et reculent les frontières de la question pour mieux la cerner. Le tueur, tué et médiatisé, a ainsi démarré la polémique annoncée, la guerre interne, le polemos civil à venir. Nouveau spectacle, nouveau champ d'auto-destruction du pays. 
 
Guerre civile: en noir et blanc ou en couleurs?
 
Les reporters de guerre ont pourtant montré, depuis longtemps, que l'image pouvait permettre l’analyse, mais à condition de faire silence et d’étudier. De là, nous en venons à parler de la photographie de Merah, la photographie où il sort de sa voiture joueur et malin, photographie diffusée en  boucle jusqu’à plus soif. Il reste, là, un certain sourire qui laisserait presque transparaître l’amitié, la tendresse. Elle rappelle que, dans une France, après tout, en guerre (Afghanistan, Libye, demain Syrie et Iran) et, comme dans toute guerre, les combattants peuvent s’amuser, qu’il y a toujours un repos du guerrier, que le crime politique, la lutte armée (toujours légitime pour un camp !), est forcément un engagement avec un certain sourire d’où, à notre avis, l’évidente efficacité hypocrite des lois répressives promises.
 
 
L'Etat devant ses responsabilités ?
 
La guerre religieuse c’est - et il faudra bien se l’avouer- le sourire des armes d’Allak Akbar ! Un certain sourire sur tous les politiques –ah, le rictus de Sarkozy, même dans les enterrements de soldats « musulmans en apparence »- qui prétendent peser le normal et l'anormal comme les anges du Jugement Dernier pesaient, hier, le Bien et le Mal sur les tympans des cathédrales. Si le Bien c'est l'Amour et, si le Mal c'est la Haine, il semble bien que les légistes de tous poils se trompent de cible et filtrent le moucheron pour mieux digérer le chameau. 
 
Qu’on le veuille ou non, dans certains studios de Clermont-Ferrand et de Fontenay-sous-Bois, Mohamed Merah et ses rodéos en voiture sont devenus des images-icônes. Or, qui dit icône, dit théologie en couleurs. Au Ministère de l’Intérieur, par peur des couleurs, on cache les vidéos filmées et le Président lui-même, en plein meeting, salit la mémoire d’un soldat berbère catholique et de sa famille. 
 
Ce qui est en tout cas certain, c’est que, avec Mohamed Merah, la confusion de la « laïcité positive » et l’Islam de France ont surgi en pleine campagne électorale, au moment où on s'y attendait le moins, où l’on s’efforçait d’éviter la question épineuse des banlieues. 
 
L’Etat est, une fois de plus, mis devant ses responsabilités, alors que toute sa politique sécuritaire des banlieues a consisté, depuis que Nicolas Sarkozy a été ministre de l’Intérieur, à ne pas faire de vagues, à tout cacher, même les kalachnikovs dans les caves. Quand Toulouse découvrait ses islamistes, la France redécouvre ainsi ses banlieues, faites de vols de scooters, d’achat d’armes de guerre, de mosquées clandestines. En pleine commémoration éhontée de l’indépendance algérienne (quid, dans les reportages diffusés, des exactions FLN de l’après-accord d’Evian), nous avons finalement eu « la France algérienne », tandis que les complices de Merah courent toujours et que le père, en Algérie, réclame vengeance !    
 

 

Grass und seine Kritiker

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Grass und seine Kritiker

Von Thorsten Hinz

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Der Schriftsteller sieht sich nach seiner Kritik an Israel mit Antisemitismusvorwürfen konfrontiert

Was sich über Ostern an einem läppischen Gedicht von Günter Grass entzündet hat, verdient die Bezeichnung „Debatte“ nicht. Grass hat eine sehr schlichte politische Stellungnahme verfaßt, sie mit Selbstreflexionen vermengt, in Zeilchen zerhackt und als Gedicht unter die Leute gebracht. Er sieht die Gefahr heraufziehen, daß Israel den Iran mit Atomwaffen angreift, einen Weltkrieg heraufbeschwört, und daß Deutschland, weil es atomar nutzbare U-Boote an Israel liefert, sich mitschuldig macht und in den Konflikt hineingezogen wird.

Nun wird der Iran in der Tat dämonisiert, während Israel in der Atomfrage doppelte Standards zugestanden werden, indes es zum Präventivschlag bläst. Wer mag garantieren, daß sich die Lüge um irakische Chemiewaffen nicht wiederholt? Andererseits wird Grass den Gefahren und Risiken, denen Israel ausgesetzt wird, nichtmal ansatzweise gerecht. Aus seinen Versen spricht auch das bundesrepublikanische Unverständnis über einen Staat, der sich seiner Haut zu erwehren weiß.

Nibelungentreue zu Israel

Kurzum, es handelt sich um eine hochkomplizierte politische, geopolitische, militärische, religiöse, auch demographische Gemengelage, die kein Gedicht der Welt erfassen kann. Allerdings wissen Politik, Wissenschaft und Medien in Deutschland ebenfalls nichts dazu zu sagen. Mit der Aussage, die Sicherheit Israels sei Teil der deutschen Staatsräson, hat Kanzlerin Merkel die Deutschen auf die Nibelungentreue zu Israel festgelegt. Dem verbreiteten Unbehagen daran hat Grass einen verquasten Ausdruck verliehen. Die Tatsache, daß seine Haltung mehrheitsfähig ist, macht wiederum die Politik und Medien nervös und läßt sie hysterisch reagieren.

Weder Grass noch seine Kritiker argumentieren politisch, sondern moralisch. Die Moral und Merkels „Staatsräson“ stützen sich dabei auf eine Metaphysik, die um den Mord an den europäischen Juden herum errichtet worden ist.

Diesen Kern des Problems hat Grass zwar nicht formuliert, aber unbewußt berührt. Es geht gar nicht primär um Israel und den Iran, vielmehr um das kranke Nervenzentrum des eigenen Landes, um den Zwang der „belastenden Lüge“, deren Aufkündigung als Strafe „das Verdikt ‘Antisemitismus’“ nach sich zieht. Nun hat Grass viele Jahre eigenhändig an dem geistigen Gefängnis gebaut, gegen dessen Reglement er nun anrennt, und bleibt dabei weiterhin sein überzeugter Insasse. Das wird klar, wenn er von „meinem Land“ schreibt und seinen „ureignen Verbrechen, / die ohne Vergleich sind“. Er beschwört eine metaphysische Untat und leitet daraus seine anhaltende Treue zu Israel ab.

Teufelskreis

Um innerhalb des Teufelskreises, den er nicht durchbrechen kann, Israel kritisieren zu können, muß er ihm unterstellen, seinerseits ein absolutes Verbrechen zu planen: die Auslöschung des iranischen Volkes. Was, wie der stets besonnene und noble Avi Primor kommentierte, einfach „lächerlich“ ist.

Was können wir aus all dem lernen? Nichts, was wir nicht schon wußten. Substantiell ist die sogenannte Grass-Debatte eine weitere Runde im Totentanz des BRD-Diskurses. Gegen Ende von Goethes „Faust“ zitiert Mephisto die Bewohner der Unterwelt herauf: „Herbei, herbei! Herein, herein! / Ihr schlotternden Lemuren, / Aus Bändern, Sehnen und Gebein / Geflickte Halbnaturen.“ Sie helfen ihm noch beim Täuschen und Tricksen, etwas Vernünftiges bringen sie nicht mehr zustande.

Le nouveau plan d’austérité de Rajoy, le coup de grâce pour l’Espagne

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Le nouveau plan d’austérité de Rajoy, le coup de grâce pour l’Espagne
 
L'Espagne est défunte, décapitée par la crise. Le nouveau premier ministre vient de lui trancher la tête, par les nouvelles mesures d'austérité qui tueront ce qui restait d'activité économique dans le pays. Vaya con Dios!
 
Ex: http://mbm.hautetfort.com/
                               
Le 6 avril 2012 (Nouvelle Solidarité) – Un journaliste d’investigation domicilié à Madrid nous a confié que les dernières mesures d’austérité annoncées par le Premier ministre Mariano Rajoy signifient que « l’Espagne est morte, et c’est ce que toute la presse affirme ici, ce qui veut dire que les choses vont tourner au vinaigre ».

Les coupes budgétaires totalisant 27,3 milliards d’euros pour l’année 2012 se concentreront principalement dans les dépenses publiques d’investissement, qui seront réduites de 36%, et ce dans un pays où le taux de chômage atteint près de 23%.

Les indemnités pour les chômeurs seront quand à elles coupées de 5,5%, même s’il est prévu que le nombre de sans-emploi s’accroîtra de 630 000 au cours de cette année, poussant le taux de chômage jusqu’à 26% de la population active.

Ces coupes sont imposées dans un contexte où les taux d’intérêt à moyen et à long terme sur la dette espagnole repartent à la hausse, atteignant hier la barre des 400 points de base de différence avec les taux allemands. Une grande partie des 27 milliards d’euros d’économies annoncées sont déjà alloués au remboursement de la dette, et il est clair que ces coupes vont tuer ce qui restait d’activité économique dans le pays.

Même l’oligarchie commence à reconnaître que la fin de la partie s’annonce. Un éditorial de Bloomberg avertissait hier que « l’Espagne, et non pas la Grèce, sera le véritable test pour l’Union européenne », et se plaint déjà que les décisions de Rajoy « ne sont simplement pas crédibles », et que l’approche de l’UE dans son ensemble commence à faillir.

La solution ? Dans un grand éclair de génie, Bloomberg suggère à la BCE d’imprimer plus d’argent pour renflouer l’Espagne et l’Europe. en réalité, il s’agit une fois de plus de renflouer les banques britanniques qui sont les plus impliquées en Espagne. Ce qui est nécessaire donc, c’est « une politique monétaire plus souple de la part de la BCE. Ceci signifie des transferts fiscaux nets mais temporaires vers l’Espagne. Par dessus tout, cela signifie que la BCE agira comme prêteur de dernier ressort vis-à-vis des gouvernements d’une zone euro en détresse. »

Soulignons que depuis 2008 la BCE n’a pas cessé d’accepter comme collatéral les obligations poubelles détenues par les banques européennes en Espagne, sans compter l’achat de bons grecs de toute sorte, ce qui n’a fait qu’aggraver la menace de faillite systémique de d’hyperinflation.

Ernst Jünger, lecteur de Maurice Barrès

Harald HARZHEIM:
Ernst Jünger, lecteur de Maurice Barrès

Nationalisme, culte du moi et extase

barres.jpg“Je ne suis pas national, je suis nationaliste”: cette phrase a eu un effet véritablement électrisant sur Ernst Jünger, soldat revenu du front après la fin de la première guerre mondiale qui cherchait une orientation spirituelle. Soixante-dix ans plus tard, Jünger considérait toujours que ce propos avait constitué pour lui l’étincelle initiale pour toutes ses publications ultérieures, du moins celles qui ont été marquées par l’idéologie nationale-révolutionnaire et sont parues sous la République de Weimar.

L’auteur de cette phrase, qui a indiqué au jeune Jünger la voie à suivre, était un écrivain français: Maurice Barrès. Bien des années auparavant, dans sa prime jeunesse, Ernst Jünger avait lu, en traduction allemande, un livre de Barrès: “Du sang, de la volupté et de la mort” (1894). On en retrouve des traces dans toute l’oeuvre littéraire de Jünger.

Maurice Barrès était né en 1862 en Lorraine. Tout en étudiant le droit, il avait commencé sa carrière de publiciste dès l’âge de 19 ans. A Paris, il trouva rapidement des appuis influents, dont Victor Hugo, Anatole France et Hippolyte Taine. Dans ses premiers ouvrages, Barrès critiquait l’intellectualisme et la “psychologie morbide” que recelait la littérature de l’époque. A celle-ci, il opposait Kant, Goethe et Hegel, qui devaient devenir, pour sa génération, des exemples à suivre. Après l’effondrement des certitudes et des idéologies religieuses, le propre “moi” de l’écrivain lui semblait le “dernier bastion de ses certitudes”, un bastion éminemment réel duquel on ne pouvait douter.

Il en résulta le “culte du moi”, comme l’atteste le titre général de sa première trilogie romanesque. Le “culte du moi” ne se borne pas à la seule saisie psychologique de ce “moi” mais cherche, en plus, à dépasser son isolement radical: le moi doit dès lors se sublimer dans la nation qui, au contraire du moi seul, est une permanence dans le flux du devenir et de la finitude.

Le processus de dépassement du “moi” individuel implique un culte du “paysage national”, donc, dans le cas de Barrès, de la Lorraine. Dans les forêts, les vallées et les villages de Lorraine, Barrès percevait un reflet de sa propre âme; il se sentait lié aux aïeux défunts. Le “culte du moi” est associé au “culte de la Terre et des Morts”. Ce culte du sol et des ancêtres, Barrès le considèrera désormais comme élément constitutif de sa “piété”. L’Alsace-Lorraine avait été conquise par les Allemands pendant la guerre de 1870-71. Une partie de la Lorraine avait été annexée au Reich. Barrès devint donc un germanophobe patenté et un revanchard, position qu’il n’adoucira qu’après la première guerre mondiale, après la défaite de l’ennemi. Dans un essai écrit au soir de sa vie, en 1921, et intitulé “Le génie du Rhin”, cette volonté de conciliation transparaît nettement. Ernst Jünger l’a lu dès sa parution.

Barrès posait un diagnostic sur la crise européenne qui n’épargnait pas l’esprit du temps. Il s’adressait surtout à la jeunesse, ce qui lui valu le titre de “Prince de la jeunesse”. Pourtant la radicalisation politique croissante de son “culte du moi”, sublimé en nationalisme intransigeant, effrayait bon nombre de ses adeptes potentiels. Ainsi, Barrès exigeait que le retour des Français sur eux-mêmes devait passer par l’expurgation de toutes influences étrangères. Le “moi”, lié indissolublement à la nation, devait exclure toutes les formes de “non-moi”. Cela signifiait qu’il fallait se débarrasser de tout ce qui n’était pas français et qu’il résumait sous l’étiquette de “barbare”. Il prit dès lors une posture raciste et antisémite. Son nationalisme s’est mué en un chauvisnisme virulent qui se repère surtout dans ses écrits publiés lors de l’affaire Dreyfus. Une haine viscérale s’est alors exprimée dans ses écrits. En 1902, Barrès a rassemblé en un volume (“Scènes et doctrines du nationalisme”) quelques-uns de ces essais corsés.

Barrès n’était pas seulement un homme de plume. Au début des années 80 du 19ème siècle, il avait rejoint le parti revanchiste du Général Boulanger et fut élu à la députation de Nancy.

Après la seconde guerre mondiale, Ernst Jünger comparait le Général Boulanger à Hitler (ce que bien d’autres avaient fait avant lui). Après une conversation avec le fils de Barrès, Philippe, il en arriva à la conclusion que cet engagement en faveur de Boulanger a dû le faire “rougir” (EJ, “Kirchhorster Blätter”, 7 mai 1945).

En 1894, Barrès avait écrit “Du sang, de la volupté et de la mort”, recueil d’esquisses en prose et de récits de voyage en Espagne, en Italie et en Scandinavie, pimentés de réflexions sur la solitude, l’extase, le sexe, l’art et la mort. Le corset spatial étroit du nationalisme de Barrès éclatait en fait dans cette oeuvre car il ne privilégiait plus aucun paysage, n’en érigeait plus un, particulier, pour le hisser au rang d’objet de culte: chacun des paysages décrits symbolisait des passions et des sentiments différents, qu’il fallait chercher à comprendre. En lisant ce recueil, Ernst Jünger a trouvé dans son contenu l’inspiration et le langage qu’il fallait pour décrire les visions atroces des batailles, relatées dans ses souvenirs de guerre. De Barrès, Jünger hérite la notion de “sang”, qui n’est pas interprétée dans un sens biologique, mais est hissée au rang de symbole pour la rage et la passion que peut ressentir un être. Quant aux descriptions très colorées des paysages, que l’on retrouve dans l’oeuvre de Barrès, nous en trouvons un écho, par exemple dans “Aus der goldenen Muschel” (1944) de Jünger.

Maurice Barrès est mort en 1923. Peu d’écrits de lui ont été traduits en allemand. Le dernier à l’avoir été fut son essai “Allerseelen in Lothringen” (“Toussaint en Lorraine”), paru en 1938. Après la deuxième guerre mondiale, aucun écrit de Barrès n’a été réédité, retraduit ou réimprimé. On a finit par le considérer comme l’un des pères intellectuels du fascisme. Barrès a certes été élu à l’Académie Française en 1906 mais sa réhabilitation en tant que romancier est récente, même en France, alors que Louis Aragon l’avait réclamée dès la fin de la seconde guerre mondiale.

Jünger ne s’est pas enthousiasmé longtemps pour ce nationaliste français. Dès la moitié des années 20 du 20ème siècle, il s’oriente vers d’autres intérêts littéraires. Jünger n’évoque Barrès explicitement qu’une seule fois dans ses oeuvres journalistiques et militantes, alors que le Lorrain les avait inspirées. Dans “Vom absolut Kühnen” (1926), Jünger affirme qu’il “préfère la France de Barrès à celle de Barbusse”, parce qu’il entend récuser l’idéologie pacifiste de ce dernier.

Toutes les évocations ultérieures de Barrès relèvent du rétrospectif. Jünger ne puise plus aucune inspiration nouvelle dans les écrits de Barrès. Jünger, âgé, comparait le sentiment qu’il éprouvait face à la défaite allemande de 1918 au désarroi qu’ont dû ressentir les jeunes Français en 1871 (cf. “Siebzig verweht”, IV, 23 octobre 1988). Il répète dans ce même passage que Barrès l’avait fortement influencé dans le travail de façonnage de sa propre personnalité, une imprégnation barrèsienne, dont il s’était distancié assez tôt. En 1945, Jünger notait que “lui-même et les hommes de sa propre génération étaient arrivés trop tard en beaucoup de choses, si bien que la voie, que Barrès avait encore pu emprunter, ne leur était plus accessible”. Dès le début des années 30 du 20ème siècle, Ernst Jünger en était arrivé à considérer le nationalisme barrèsien comme une construction dépassée, née au 19ème siècle et marquée par lui. Cette position l’a empêché de s’engager dans le sillage d’un politicien chauvin comme Boulanger, c’est-à-dire comme Hitler.

Dans la bibliothèque de Jünger à Wilflingen, on trouve deux ouvrages de l’écrivain français: “Amori et Dolori sacrum. La mort de Venise” et les quatorze volumes de “Mes cahiers”. Ces “cahiers”, Jünger les évoque dans une notule envoyée à Alfred Andersch: “Vous me comptez non pas parmi les conservateurs-nationaux mais parmi les nationalistes. Rétrospectivement, je suis d’accord avec vous. J’ose même dire que j’ai inventé le mot; récemment en lisant ses “Cahiers”, je me suis découvert de remarquables parallèles avec Maurice Barrès. Il y dit: ‘...je suis né nationaliste. Je ne sais pas si j’ai eu la bonne fortune d’inventer le mot, peut-être en ai-je donné la première définition’” (cf. “Siebzig verweht”, II, 7 juin 1977).

Ernst Jünger a donc lu les “Cahiers” de Barrès de manière fort occasionnelle car la plupart des quatorze volumes des “Cahiers”, dans la bibliothèque de Wilflingen, n’ont en apparence que rarement été ouverts; certains n’ont même pas été coupés. En 1971, Jünger a dit: “Barrès aussi est désormais derrière moi”. La teneur de cette assertion n’a plus été modifiée jusqu’à la mort de l’écrivain allemand.

Harald HARZHEIM.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°23/2005; trad. française: avril 2012).
http://www.jungefreiheit.de/

Harald Harzheim est écrivain, dramaturge et historien du cinéma. Il vit à Berlin. Il travaillait en 2005, au moment où il rédigeait cet article, à un essai sur la “Démonologie du cinéma” d’Ernst Jünger.

Deutsche Meisterdenker

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Deutsche Meisterdenker

von Siegfried Gerlich

Ex: http://www.sezession.de/

Der Regin-Verlag hat eine glückliche Wahl getroffen, seine von Sebastian Maaß herausgegebene Gesprächsreihe »ad rem« mit Selbstportraits der besten Köpfe der radikalen Rechten zu eröffnen. Dabei wecken die Biographien Hans-Dietrich Sanders und Günter Maschkes den Verdacht, daß deren intellektueller Rang sich nicht unmaßgeblich ihren marxistischen Lehrjahren verdankt.

Der auf mecklenburgischem Land aufgewachsene »nationale Dissident« Sander stand als Theaterkritiker in der frühen DDR zunächst unter dem Einfluß Bertolt Brechts, bevor er in die BRD übersiedelte und sein politisches Denken an Carl Schmitt neu schulte. Von der Borniertheit der Rechten abgestoßen, bezog Sander stets einen parteiübergreifend gesamtdeutschen Standpunkt. So erwuchs mit dem jungen Mitarbeiter der Welt und späteren Herausgeber der Staatsbriefe nicht nur dem Establishment ein Störenfried, sondern auch dem nationalen Lager ein Konkurrent. Unermüdlich gegen die »postfaschistische Resignation« ankämpfend, verachtete Sander den Neuen Konservatismus Schrenck-Notzings und Kaltenbrunners als kraftlos und konformistisch.

Trotz seines Bekenntnisses zum Preußentum als der »Quintessenz des deutschen Geistes« macht Sander keinen Hehl daraus, daß ihm für die Wiederherstellung des Deutschen Reiches die Rückgewinnung der ostdeutschen wie der deutsch-österreichischen Gebiete noch immer als »nationaler Imperativ« gilt. Nur von dieser Höhe, wenn nicht Hybris, seines »ghibellinischen« Reichsnationalismus her wird Sanders Argwohn verständlich, die Alliierten hätten mit der Wiedervereinigung »die Endlösung der deutschen Frage« bezweckt. Selbstbewußt beansprucht Sander, seit Kriegsende wie kein anderer »den deutschen Geist verkörpert zu haben«. Mit seiner scharfen Kritik der den Untergang einer entorteten Welt beschleunigenden jüdischen Apokalyptik stemmte er zumal den deutschen Antijudaismus auf ein einsames philosophisches Niveau. Um so widersprüchlicher wirkt Sanders eigener apokalyptischer Ton, in dem er ein »schnelles Ende« des bestehenden Deutschland beschwört, da erst nach einer »restlosen Implosion des status quo« eine neue Reichsherrlichkeit anbrechen könne. Ernst Jünger jedenfalls quittierte die Zusendung von Sanders grandiosem Hauptwerk Die Auflösung aller Dinge mit den mahnenden Worten: »Wir haben unser Cannae hinter uns.«

Zu Sanders heimatlich wohlverortetem deutschen Geist bildet Maschkes abenteuerliches Herz und sein nachgerade französischer Esprit einen harten Kontrast. Die Jugendjahre vis-à-vis dem Geburtshaus von Karl Marx in Trier verlebend, zog es den philosophisch ambitionierten Studenten zu Ernst Bloch nach Tübingen, wo er eine führende Rolle in der dadaistischen »Subversiven Aktion«, der auch Rudi Dutschke und Bernd Rabehl angehörten, spielen sollte. Der von Dutschke als »Maschkiavelli« Titulierte despektierte diesen wiederum als »reinen Toren«, da sich in dessen Revolutionsromantik die Machtfrage nicht stellte.

Nach seiner Desertion aus der Bundeswehr 1965 floh Maschke nach Wien, um als Kommunarde Adorno und Marcuse zu propagieren, bis Bruno Kreisky ihn in Abschiebehaft nahm. Das rettende kubanische Asyl 1968/69 bewahrte Maschke indessen nicht vor der Desillusionierung über Castros Sozialismus, und seine Hilfsdienste für eine Umsturzpläne schmiedende oppositionelle Gruppe führten zu seiner Ausweisung. Nach der Heimkehr nach Deutschland trat Maschke seine ausstehende Haftstrafe an und nahm eine schmerzliche Grundrevision seiner ideologischen Überzeugungen in Angriff. Ab 1973 als freier Mitarbeiter bei der FAZ beschäftigt, wandte sich Maschke allmählich der Neuen Rechten zu. Besiegelt wurde seine Konversion durch die 1979 geschlossene Freundschaft zu Carl Schmitt, als dessen Herausgeber und profunder Kenner Maschke sich internationale Anerkennung erwarb.

In seinen wenigen, aber gewichtigen Büchern und Aufsätzen richtete »der einzige Renegat der 68er-Bewegung« (Habermas) sein »bewaffnetes Wort« zunehmend gegen die degenerierten Nachkriegsdeutschen als »Fellachen de luxe« und die USA als »Schurkenstaat Nr. 1«, und mit seiner Stilisierung Castros zum »Katechon« einer in den Abgrund rasenden globalisierten Welt erwies der »Kritiker des Guerilleros« diesem eine späte Reverenz. Wie ein »Partisan, der die Waffen nimmt, wo er sie kriegen kann«, schätzt Maschke den unverminderten diagnostischen Wert der marxistischen Theorie und verachtet die »Lesefaulheit und latente Theoriefeindschaft vieler Rechter, die glauben, mit ihren Affekten auszukommen.« Gerade am autoritären Marxismus imponiert dem Nationalrevolutionär der Anspruch einer »höheren Sittlichkeit«, wohingegen die libertäre Linke sich mit dem bourgeoisen Liberalismus arrangiert habe und dessen hedonistischen Verfall auch noch forciere und als Emanzipation feiere. In seinen erfrischenden Heterodoxien erweist sich Maschke als einer jener freien Geister, die in allen Lagern selten geworden sind: »Nichts korrumpiert das Denken so sehr wie die Angst vor dem Beifall von der falschen Seite.«

Hans-Dietrich Sander/Sebastian Maaß: »Im Banne der Reichsrenaissance«, Kiel: Regin 2011. 126 S., 14.95 €
Günter Maschke/Sebastian Maaß: »Verräter schlafen nicht«, Kiel: Regin 2011. 206 S., 16.95 €

mercredi, 11 avril 2012

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Note de SYNERGIES EUROPEENNES: Enfin! Quelques instances officielles enBelgique rendent hommage à Raymond De Becker, peut-être grâce à la fidélité inébranlable que lui témoigne le doyen des lettres francophones du royaume, Henry Bauchau. Ce colloque, dont le programme complet figure en pdf en queue de présentation, fait véritablement le tourde laquestion. Puisse ce colloque être l'amorce d'une renaissance spirituelle et d'une nouvelle irruption d'éthique dans un royaume voué depuis près de six décennies à la veulerie.


La journée d'étude "Autour de Raymond De Becker" a eu lieu les 5 et 6 avril 2012 aux Facultés universitaires Saint Louis.
Raymond de Becker

Étrangement, la figure de Raymond De Becker (Schaerbeek, 30 janvier 1912 – Versailles, 1969), souvent évoquée dans les travaux des historiens, n’a encore fait l’objet d’aucun travail biographique. « Quant à Raymond De Becker », écrivait fort opportunément un « ami » d’André Gide, son histoire reste à écrire, car il semble que son passage du christianisme prophétique au fascisme virulent ait fait de lui un personnage non seulement sulfureux mais tabou » .


Après des études secondaires inachevées à l’Institut Sainte-Marie à Bruxelles, Raymond De Becker trouve à s’employer au sein d’une entreprise d’import-export américaine. Il quitte ce poste après un an pour entrer au secrétariat de l’ACJB à Louvain en tant que secrétaire général de la JIC (Jeunesse indépendante catholique – cercle de jeunesse des classes moyennes) qu’il a créée en mars 1928 avec sept autres jeunes industriels et commerçants. Il entre en contact avec des étudiants de Saint-Louis via Conrad van der Bruggen à l’été 1931 et participe à la fondation de l’Esprit nouveau et des Équipes Universitaires. Il interrompt ses activités fin décembre 1932 après le Congrès de la Centrale Politique de Jeunesse pour entreprendre une retraite mystique en France à Tamié où il a déjà effectué une reconnaisse au mois de septembre précédent de retour d’un voyage à Rome. Il met au point les premiers statuts du mouvement Communauté et revient en Belgique en novembre 1933 après un passage à Paris où il a rencontré André Gide. Ayant fait la connaissance d’Emmanuel Mounier à Bruxelles début 1934, il contribue à la pénétration des groupes Esprit en Belgique. De 1936 à 1938, il est associé au comité de rédaction de La Cité chrétienne puis passe à L’Indépendance belge d’où il est renvoyé en 1939. Il participe alors à la fondation du périodique neutraliste L’Ouest dirigé par Jean de Villers. Durant l’Occupation, il deviendra directeur éditorial des Éditions de la Toison d’Or et rédacteur en chef du « Soir volé ». Il rompra cependant avec la Collaboration en septembre 1943, justifiant sa rupture par l’incertitude manifestée par Léon Degrelle et les rexistes de s’attacher à défendre une structure étatique propre en Belgique. Il sera alors placé en résidence surveillée, d’abord près de Genappe puis à l’hôtel d’Ifen à Hirschegg dans les Alpes bavaroises en Autriche où il côtoie notamment André François-Poncet. Raymond De Becker sera condamné à mort le 24 juillet 1946 par le Conseil de guerre de Bruxelles. Il lui est alors essentiellement reproché d’avoir valorisé la Légion « Wallonie » et d’avoir soutenu en mars 1942 la mise en place du Service du Travail Obligatoire. Il sera cependant libéré en février 1951 mais contraint à l’exil. Il se réfugie en France où il poursuit une activité de publiciste principalement tournée vers la psychanalyse.

Ce colloque ambitionne donc d’aborder sans tabous cette figure capable de se mêler à tout ce qui compte dans les cénacles intellectuels belges et européens de l’entre-deux-guerres. A travers quatre sessions, qui rassembleront des universitaires belges et étrangers, il s’agira de revenir non seulement sur le parcours et les engagements du jeune publiciste dans les années 30 et 40, mais aussi de tenter de mesurer l’influence qu’il a pu exercer sur les nouvelles relèves belges et européennes. Cette démarche, essentielle, est compliquée par le fait que s’étant fourvoyé au nom de l’idée d’Europe unie dans la collaboration avec les nazis, le publiciste est devenu, dans la foulée de l’épuration, un « ami encombrant ».


En ce sens, les contributions devraient aussi permettre d’appréhender l’angle-mort qui apparaît immanquablement dans le parcours de nombreux personnages-clés de l’histoire intellectuelle, politique et artistique (Spaak, mais aussi Hergé, Paul De Man, Bauchau) avant et après la Deuxième Guerre mondiale.


A cet égard, il est encore à espérer que cette rencontre permettra aussi de retrouver la piste de papiers et d’archives « oubliées » ou en déshérence de/sur Raymond De Becker…


Les différentes interventions feront l’objet d’une publication à laquelle sera adjointe la correspondance conservée entre Raymond De Becker et Jacques Maritain conservée au Centre Maritain de Kolbsheim.


Programme du colloque

Rébellion 52 disponible !

Rébellion 52 disponible !

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ÉDITORIAL

A BAS LES ÉLECTIONS, VIVE LA PLANIFICATION!

ACTUALITÉS

SARKOZY. ESSAI DE BILAN

VERTUS ET ILLUSIONS DU VOLONTARISME DE GAUCHE.

PIERRE LE VIGAN DÉCORTIQUE L’ESSAI DE JACQUES GÉNÉREUX NOUS ON PEUT !

VIE ET MORT DU CAPITALISME.

RÉFLEXIONS SUR L’ESSAI DE ROBERT KURZ.

CRISE

LE CAPITALISME AU BORD DU GOUFFRE.

ENTRETIEN AVEC ALAIN DE BENOIST.

COMBATS DES IDÉES

LA COMMUNAUTÉ. L’ESPRIT DE COMMUNAUTÉ, C’EST LE SOCIALISME !

LA COMMUNAUTÉ, CAUCHEMAR DU SYSTÈME

IDENTITÉ ET COMMUNAUTÉ

SURVIE COMMUNAUTAIRE

SURVIVRE À L’EFFONDREMENT ÉCONOMIQUE.

ENTRETIEN AVEC PIERO SAN GIORGIO

CULTURE

CINÉMA. PULP FICTION. ANATOMIE D’UN SIMULACRE

ROBERT MITCHUM. PORTRAIT D’UN REBELLE

Numéro disponible contre 4 euros à notre adresse : 

Rébellion c/o RSE BP 62124 31020 - Toulouse Cedex 2

Syrie: la lutte entre le clan El-Assad et l’opposition réactive la question kurde

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Günther DESCHNER:
Syrie: la lutte entre le clan El-Assad et l’opposition réactive la question kurde

A cause d’une querelle à propos de comptes toujours ouverts, la région autonome du Kurdistan a arrêté ses exportations de pétrole vers Bagdad. En Turquie, le chef du gouvernement , Erdogan, et son parti, l’AKP, ont gelé tous les pourparlers précédemment engagés avec les Kurdes de Turquie. Et voilà que la lutte pour le pouvoir à Damas remet sous tension la question des Kurdes de Syrie. Le problème kurde, prêt à éclater mais en phase de latence depuis plusieurs décennies, réémerge sur la scène politique.

L’opposition syrienne parie sur l’identité arabe

Quand, il y a un an, les premières manifestations contre Bachar El-Assad et contre la domination du “Parti Arabe Socialiste Baath” s’organisaient, les Kurdes, première minorité ethnique non arabe de Syrie, avaient toutes les raisons de se joindre à ce soulèvement populaire. En effet, depuis la prise du pouvoir par le parti Baath panarabe en 1961, la Syrie se définit comme strictement “arabe”, et n’a plus laissé à l’identité kurde la moindre marge de manoeuvre. Dès le départ, le régime considérait les Kurdes du pays comme un danger potentiel. En 1962, 150.000 Kurdes furent privés de la nationalité syrienne. Un train de lois particulières interdit notamment d’utiliser officiellement la langue kurde.

Il est dés lors bien évident que les hommes politiques kurdes de Syrie aient toujours réagi avec scepticisme vis-à-vis de la révolution baathiste hier, tout comme ils réagissent avec autant de scepticisme aux troubles qui agitent actuellement la Syrie. Pourquoi? “Le régime baathiste a toujours tenté de présenter les Kurdes comme des séparatistes et des ennemis de l’intérieur. Si nous avions participé tout de suite aux manifestations d’il y a quelques mois, le régime d’El-Assad aurait pris ce t engagement comme prétexte pour prendre de nouvelles mesures d’oppression à notre égard”, explique l’homme politique kurde Abadul baki Youssef.

La méfiance des Kurdes vaut également pour l’opposition arabe-syrienne au régime d’El-Assad car ces insurgés anti-baathistes n’ont jamais évoqué le problème ethnique kurde dans leurs proclamations, alors même que les Kurdes représentent une masse de deux à trois millions de citoyens dans une Syrie qui compte 23 millions d’habitants. Jamais leurs droits n’ont été évoqués par les opposants syriens. Lorsque Burhan Ghaliun, le président du “Conseil National Syrien”, organe central des oppositions à El-Assad, a affirmé récemment que la Syrie n’avait qu’une “identité arabe”, les Kurdes n’ont pas tardé à réagir. Surtout quand Ghaliun a comparé leur position en Syrie à celles des immigrants en France. “Le Professeur Ghaliun devrait tout de même savoir que, jusqu’aux accords franco-britanniques de 1916, dits de ‘Sykes-Picot’, il n’existait pas encore de Syrie dans ses frontières actuelles”: tel fut le commentaire d’un journaliste kurde qui entendait rappeler que le tracé des frontières dans la région est purement arbitraire et résulte d’accords entre puissances coloniales; celles-ci ont partagé le territoire habité par les Kurdes entre la Turquie, la Syrie et l’Irak.

Pas d’atomes crochus avec les Frères musulmans

On sait que le “Conseil National Syrien” compte bon nombre de Frères musulmans parmi ses membres influents. Or les Kurdes, traditionnellement, ne s’entendent pas avec eux. Pourquoi? Parce que ces musulmans radicaux mettent l’accent sur la religion commune, qu’ils considèrent comme le seul fondement de l’identité, et ne veulent pas s’occuper de facteurs ethniques. Les Kurdes, en revanche, insistent pour que leur identité ethnique soit reconnue comme telle, ainsi que leurs droits culturels et leurs spécificités nationales. Pour eux, c’est tout cela qui constitue la priorité. Ces positions expliquent aussi pourquoi les Kurdes de Syrie, qui, pour la plupart sont des Sunnites modérés, n’ont jamais, du moins jusqu’ici, créé de parti kurde-islamique.

Pour que soient respectés les intérêts de l’ethnie kurde en Syrie, les Kurdes ont fondé, fin 2011, un “Kurdish National Council of Syria” (KNCS) à Kamishli (Qamishli), une ville du Nord-Est du pays, dans une région peuplée de Kurdes. Ce “Conseil” entend représenter la grande majorité de la population kurde. Près d’une douzaine d’organisations kurdes et de nombreuses personnalités indépendantes y sont représentées. Avec ce “Conseil”, les Kurdes veulent exprimer leur unité et imposer à toute future “nouvelle Syrie” de tenir compte de leurs intérêts.

En dépit de ses positions claires et de sa volonté de devenir la représentation légitime des Kurdes de Syrie, le KNCS s’est efforcé, dès le départ, de montrer et de prouver qu’il était ouvert à tout dialogue et prêt à entrer de plein pied dans une coalition: le “Conseil” a déjà pris langue avec la Ligue Arabe et déploie bon nombre d’efforts sur le plan international pour que soient reconnus les intérêts élémentaires des Kurdes de Syrie. A la mi-mars 2012, quelques porte-paroles du KNCS ont rencontré des représentants de la commission des affaires étrangères du Bundestag allemand à Berlin.

Le “Conseil” a choisi Kamishli/Qamishli comme site de sa fondation parce que cette ville est proche des régions kurdes de Turquie et d’Irak, ce qui lui confère une forte valeur symbolique. En effet, la question kurde demeure irrésolue, non seulement en Syrie, mais aussi ailleurs. Les 30 millions de Kurdes de la région possèdent un puissant sentiment d’appartenance commune, par-delà les frontières étatiques qui les séparent. L’exemple le plus récent: le KNCS, début février 2012, a tenu son premier colloque, avec 250 délégués de Syrie et trente-et-un d’autres pays à Erbil, capitale de la Région Autonome du Kurdistan irakien, sous le haut patronage du Président de cette Région, Massoud Barzani. “Nous allons pouvoir vous apporter notre soutien si vous agissez de manière unitaire” a déclaré Barzani dans son discours aux Kurdes de Syrie, “et si vous ne vous contentez pas de faire de la politique de partis, si vous vous engagez en Syrie pour le peuple kurde tout entier et si vous adoptez une politique de non violence. Les Kurdes sont séparés contre leur gré mais personne ne pourra jamais les empêcher de se considérer comme une unité dans leurs pensées et dans leurs sentiments”.

Günther DESCHNER.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°15/2012; http://www.jungefreiheit.de/ ).


Libres commentaires sur la présidentielle 2012

 

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Libres commentaires sur la présidentielle 2012

par Georges FELTIN-TRACOL

 

Depuis le 19 mars dernier, on connaît la liste officielle, dressée par le Conseil constitutionnel, des candidats à l’élection présidentielle qui ont obtenu au moins les cinq cents parrainages. Dix candidats briguent donc la magistrature suprême comme en 1981 et moins qu’en 2007 (douze) et qu’en 2002 (seize).

 

Le filtre des parrainages a encore exercé sa sélection impitoyable en éliminant des candidats que les gras médias aux ordres appellent « fantaisistes » et qui sont en réalité « originaux ». Regrettons par conséquent l’absence de François Amanrich, du Mouvement des clérocrates de France, de Jean-Marc Governatori, de l’Alliance écologiste indépendante, ou de Cindy Lee, du Parti du Plaisir (quel extraordinaire duel, cela aurait été au second tour entre elle et D.S.K., avec « Dodo la Saumure » en arbitre !). Ces candidats auraient apporté un regard neuf aux défis actuels de notre époque.

 

 

Pour l’heure, les roquets du Système médiatique valorisent les deux candidats du Régime, les véritables « frères siamois » dont la politique sera identique, exceptée aux marges. Ils symbolisent l’hégémonie de l’U.M.P.S. !

 

L’U.M.P.S. et ses clones

 

On ne doit rien attendre de « Flamby l’Enfariné ». Sa victoire annoncée serait une grande première depuis 1848. Comme pour Louis-Napoléon Bonaparte, « Flamby » n’a jamais été ministre. L’emportera-t-il malgré son charisme d’huître et son programme libéral-libertaire insipide ? N’attendons rien du tout de l’actuel locataire de l’Élysée, responsable d’un quinquennat calamiteux marqué, entre autres, par l’aventure criminelle en Libye, d’où, aujourd’hui, la chute de Gao et de Tombouctou par les rebelles touareg et les islamistes. Passons sur la kyrielle de scandales (affaires Bettencourt, Karachi, Takieddine qui soutient l’« Enfariné », etc.) qui l’encercle. Peut-on en outre accorder sa confiance à un candidat qui dispose du soutien de Bernard Tapie, le gagnant d’une loterie bien particulière sur le dos des contribuables ? Et puis, est-il raisonnable de voter pour quelqu’un qui veut pénaliser la consultation régulière de sites dits « extrémistes » ? Pourquoi dans ces conditions ne pas commencer par fermer celui de l’U.M.P. ? On le voit, le mimétisme est total entre les deux « grands », atlantistes et mondialistes.

 

Gravitent autour de ce duo funeste des candidats auxiliaires qui servent de rabatteurs de voix pour le second tour déterminant. En dépit d’une campagne jouant sur une image fictive de dissident, le centriste François Bayrou est lié à l’hyper-classe oligarchique. Son pseudo-discours de rupture s’en prend artificiellement à l’U.M.P.S. Mais, sous l’image du rebelle diffusée par les médias, Bayrou le conformiste entérine l’alignement de la France sur le pouvoir bancaire. Le « centrisme révolutionnaire » si cher à son soutien fervent, Jean-François Kahn, n’est qu’une tromperie supplémentaire.

 

Autre candidate compatible au Régime, Éva Joly dont « même son nom est un mensonge » selon l’excellent humoriste Bernard Mabille (1), fait une campagne électorale qui s’apparente à un Tchernobyl politique. Certes, la candidate qui flirta un instant avec Bayrou en 2008 – 2009, est favorable aux langues vernaculaires de France. Mais, à part ce point précis, son programme n’offre aucune véritable alternative écologique, mais un simple accommodement « bo-bo » à la société post-industrielle de consommation de masse. En outre, les Verts – qui ne sont pas des écologistes – n’ont toujours pas compris la logique institutionnelle de la Ve République. Avec des sondages en berne qui se concrétisent par une vraie chute dans les escaliers, quel symbole !, il est probable qu’« Éva dans le mur » ! Tant mieux !

 

Remplaçant l’ineffable Olivier Besancenot, Philippe Poutou incarne le gauchisme mondialisé dans toute sa splendeur avec ses contradictions internes. Le fumeux N.P.A. (Nouveau parti anticapitaliste) s’oppose à la liberté de circulation des biens et des capitaux tout en défendant la liberté des hommes à s’installer n’importe où… Soutenir les clandestins étrangers délinquants dits « sans-papiers » et vilipender la mondialisation économique au nom du genre humain et de L’Internationale témoignent d’une imposture incroyable et d’un mépris certain envers les intérêts des peuples enracinés.

 

On sera plus indulgent à l’égard de Nathalie Arthaud qui succède à « Arlette ». Les « moines – militants » de Lutte ouvrière ne cachent pas qu’ils n’attendent rien des élections. Ils ne pleurnichent pas dans l’obtention des cinq cents signatures indispensables; ils estiment que leur présence dans la campagne n’est qu’une façon particulière d’atteindre un plus grand public. Ils n’en sont pas dupes; ils en profitent même sans oublier de bousculer leurs adversaires de gauche dont Mélenchon, la nouvelle coqueluche du Système.

 

Un tribun sans-culotte parodique

 

Pour les médias officiels, la « révélation » de la campagne serait Jean-Luc Mélenchon qui, sur les bases du non de gauche au Traité constitutionnel européen de 2005, a su fédérer dans un Front de Gauche du Capital divers groupuscules aux intérêts idéologiques divergents. Outre le P. « C.F. » qui survit péniblement et qu’il faudrait plutôt euthanasier rapidement, ce conglomérat rassemble le microscopique Parti de Gauche qui allie déjà chevènementistes en déshérence, socialistes désabusés et écolo-gauchistes affirmés, la Gauche unitaire de Christian Piquet qui incarna au sein de feue la L.C.R. l’opposition minoritaire, la Fédération pour une alternative sociale et écologique qui regroupe de multiples chapelles autour de Clémentine Autin et, c’est peu connu, le P.C.O.F. (Parti communiste des ouvriers de France) maoïste hodjiste (c’est-à-dire nostalgique de l’Albanie d’Enver Hodja…). Les fanions rouges avec une étoile jaune à cinq branches du Front de Gauche agités par des énergumènes évoquent furieusement ceux du Viet Cong et du Viêtnam du Nord d’Ho Chi Minh de la décennie 1960. Par cet emprunt exotique subliminal, le camarade Mélenchon semble jouer au « Grand Timonier tricolore », au Pol Pot hexagonal comme le sous-entend le sénateur – maire de Lyon, Gérard Collomb, qui pense que « le modèle qu’il défend, on l’a essayé en U.R.S.S., au Cambodge, ça ne marche pas (2) ».

 

Orphelin inconsolable du mitterrandisme, ex-trotskyste lambertiste, ancien cacique de l’aile gauche du P.S., un temps conseiller général de l’Essonne, sénateur socialiste de ce département entre 1986 et 2009 et ancien ministre du gouvernement Jospin qui adopta maintes mesures libérales et privatisa beaucoup, Mélenchon détourne la fonction tribunicienne. C’est un simulacre ! Conciliant la gestuelle de Mitterrand, la gouaille de Marchais et les références nauséabondes à 1789 – 1793, ce talentueux orateur a approuvé en 1992 Maastricht et il l’a expliqué dans un débat paru dans Krisis (3). Cet adversaire des identités vernaculaires, ce chantre zélé d’un Hexagone centralisé défend un néo-robespierrisme qui rappelle les heures les plus exécrables de notre histoire, celles de la Terreur et du génocide vendéen… Ce franc-maçon, fils assumé des abjectes Lumières, vomit toute spiritualité authentique et serait prêt, le cas échéant, à un conflit avec l’Iran. Il n’aime pas la France, mais adule la République fomentée par les loges qu’il veut universelle, voire mondiale. Ne déclara-t-il pas que « la France est une construction purement politique : elle n’est soudée ni par la langue, ni par une appartenance ethnique, ni par une religion, ni par une couleur de peau. Elle est tout entière le fruit d’un pacte civique. Ce pacte se fonde sur les principes issus de la Grande Révolution de 1789. Or depuis toujours, nous savons que ces principes ne peuvent s’épanouir complètement sans s’universaliser. […] Un républicain conséquent ne croit pas qu’on puisse faire la France dans un seul pays (4) » ? Sa chimère délirante rejoint finalement celle de Jacques Attali, un autre mitterrandolâtre.

 

La montée en puissance de Mélenchon dans les sondages ravit l’Élysée qui y voit le moyen d’affaiblir l’« Enfariné » de Corrèze. On se rappellera qu’au début de sa présidence, Sarközy souhaitait instrumentaliser Besancenot contre le P.S. comme Mitterrand s’était servi du F.N. contre l’union R.P.R. – U.D.F. La tentative avorta; elle réapparaît aujourd’hui avec Mélenchon, désormais promu allié objectif de l’U.M.P. L’équipe présidentielle espère même d’un hypothétique « 21 avril à l’envers renversé » : un second tour opposant Sarközy à Mélenchon ! Or le président sortant suscite un tel rejet dans les catégories populaires et moyennes inférieures qu’une victoire du tribun rouge serait envisageable d’autant qu’il bénéficie de l’indulgence permanente des gras médias malgré ses invectives fréquentes envers les journaleux qui les méritent d’ailleurs.

 

L’homme est coutumier de ces violences verbales qui frôlent l’examen psychiatrique. Ainsi, à l’une de ses collaboratrices, Laurence Sauvage, cet ardent féministe lui lança : « Du balais ! Moi aussi je suis au bout du rouleau ! Dégage. Tire-toi. C’est moi le chef, c’est moi qui décide (5) ». La classe !

 

Jean-Luc Mélenchon et son Front de Gauche petit-bourgeois ne sont pas révolutionnaires malgré les discours incendiaires; ce ne sont que des réformistes faussement radicaux. « La protestation qui est au cœur du vote mélenchoniste, remarque Pascal Perrineau, reste une protestation plutôt bourgeoise, celle d’une bourgeoisie de gauche éduquée et détachée de toute forme d’engagement religieux (6). »

 

Il est plausible qu’un très bon résultat de Mélenchon, le soir du 22 avril, contraigne Hollande à revoir ses projets et à le nommer à Matignon en cas de victoire étriquée le 6 mai prochain. Un gouvernement Front de Gauche des « Bo-Bo » conduit par Mélenchon marquerait sans nul doute le début d’une inquiétante « totalitarisation » de l’Hexagone. Qui seront alors les volontaires des nouvelles armées blanches ?

L’impasse souverainiste
 
Candidat souverainiste, Nicolas Dupont-Aignan a fait preuve à deux reprises d’une vraie fermeté d’âme. Il ne s’est pas déjugé en juin 2011 quand le célèbre quotidien vespéral de référence lui ordonna de ne pas assister à la fête annuelle de Radio Courtoisie. Il se montra courageux face aux pouilleux violents du Front de Gauche capitaliste lors d’une manifestation de soutien à la Grèce martyrisée par les banksters apatrides. Néanmoins, le député-maire de Yerre proclame un républicanisme obsolète. Son mouvement, Debout la République, est déjà en soi tout un programme alors qu’un identitaire français d’Europe préfère la République à genoux, voire couchée et… humiliée !

 

Le second candidat souverainiste n’est autre que Marine Le Pen. Après de bons débuts, sa campagne ralentit et patine. Certes, elle a pâti de la collecte difficile des parrainages (preuve absolue de l’obligation d’avoir un maillage d’élus locaux compétents). Son entourage n’est-il pas aussi responsable de cette situation ? On sait qu’il provient du chevènementisme de 2002. Or, en février 2002, Jean-Pierre Chevènement faisait 15 % dans les sondages et devenait le « troisième homme »; il finira à 5,39 % à la sixième place… Les difficultés de la campagne de Marine Le Pen découlent aussi de la grande malignité des médias. La dédiabolisation ne prend pas ! La présidente du F.N. a eu tort de ménager le pouvoir médiatique et pas Laura Lussaud ou Alexandre Gabriac des Jeunesses nationalistes. Vouloir amadouer les médias du Système ne sert à rien. Il est préférable de leur cracher dessus; ils aiment ça ! Marine Le Pen aurait dû conduire une campagne au positionnement plus tranché, plus radical.

 

Et puis certaines de ses propositions comme la sortie de l’euro ou l’inscription dans la Constitution de la non-reconnaissance du fait communautaire, ce qui incite à l’individualisme contemporain, déplaisent. En outre, Marine Le Pen propose l’entrée annuelle de 10 000 étrangers parce que « c’est le seuil incompressible pour ne pas se priver de gens de très grand talent qui auraient des compétences qui n’existent pas en France, des chercheurs ou des artistes exceptionnels (7) ». Le programme du nouveau F.N. n’est pas révolutionnaire, mais populiste -sécuritaire : il s’adresse aux petits Blancs qui souhaitent consommer en toute quiétude sans être gênés par un fort voisinage allogène. La sortie de cette société de consommation de masse pourrie n’est pas pour demain…

 

Marine Le Pen a au fond une conception très IIIe République du monde et de la France. Nonobstant des clins d’œil électoralistes appuyés à la culture corse, elle se méfie des régions et déteste les langues autochtones. Elle promet une recentralisation administrative préjudiciable à l’authentique diversité franco-européenne. Ses réponses dénient la nécessité d’une fédération identitaire des peuples de France intégrée dans une Europe impériale. Par conséquent, dans cette perspective ethno-continentale ambitieuse, qui aura le courage d’exiger une « ré-émigration » vers les pays d’origine ? Qui aura la hardiesse de réclamer une remise en cause des naturalisations accordées depuis au moins quatre décennies ? Qui aura la témérité d’imposer le droit du sang comme seul vecteur de nationalité et de dissocier enfin la citoyenneté de la nationalité ?

 

Déplorons la non-candidature d’Arnaud Gouillon, du Bloc identitaire, et de Carl Lang, de l’Union de la Droite nationale qui, faute de signatures en nombre requis, n’en déposa aucune au Conseil constitutionnel afin de ne pas révéler les vaillants élus locaux signataires. Nul doute que leur présence aurait probablement électrisé la campagne électorale.

 

Prométhée candidat !

 

Pour la seconde fois, les Français (re)découvrent Jacques Cheminade de Solidarité et Progrès. On apprécie ses attaques véhémentes et bienvenues contre la Finance internationale incarnée par la City, Wall Street et l’Anglosphère. Les journalistes, ignares et incompétents (pardon pour le pléonasme !), se gaussent de son programme spatial; ils ont encore tort. Ils n’ont pas compris que Cheminade est un scientiste, un prométhéen, dont certaines suggestions telles la relance de l’aérotrain de l’ingénieur Bertin, rappellent celles du Guillaume Faye archéofuturiste. Devant les représentants économiques et syndicaux du monde agricole, Jacques Cheminade se référa à Philippe Lamour, ce qui l’inscrirait dans la postérité du courant réaliste des « relèves intellectuelles des années 1930 (8) ».

 

Jacques Cheminade est un personnage contesté. Les attaques qu’il reçoit suscitent de la sympathie. Les médiacrates, moins couards que d’habitude et pour cause !, lui rappellent que son mouvement a fait l’objet en 2005 d’une brève surveillance de la part de la Milivudes (Mission interministérielle de vigilance et de lutte contre les dérives sectaires), cette Inquisition moderne dans laquelle pullulent les frères trois-points. En 1995, le Conseil constitutionnel invalida son compte de campagne pendant qu’il approuvait celui, truqué, de Balladur. « Jacques Robert, l’un des neuf membres du Conseil constitutionnel qui ont pris part au vote […], confie aujourd’hui : “Pour prouver notre indépendance, nous avons rejeté le compte de Jacques Cheminade qui comportait des erreurs mineures ” (9) ». Cheminade en perdit ses biens personnels. Merveilleux exemple d’application pseudo-démocratique ! Néanmoins, Cheminade ne verse pas dans le politiquement incorrect, bien au contraire ! Il exècre tout ce qui est identitaire et se détourne des enjeux écologiques essentiels. Le 1er avril dernier, il arborait à la boutonnière le symbole écarlate du sidaction. Hostile au droit du sang et favorable au regroupement familial des étrangers, il a aussi soutenu avec d’incroyables contorsions sémantiques l’intervention militaire occidentale en Libye, défend une communauté internationale d’États-nations et fait preuve de conformisme médiatique, ce qui n’affaiblit pas la hargne de journalistes sots et arrogants (10). Lui aussi appartient au Système bien qu’il soit rejeté en périphérie.

 

Bref, cette élection présidentielle, nouvelle galerie spectaculaire de la marchandise, donne au bon peuple dix amuseurs pendant que les banksters, les vrais maîtres du moment, mettent au pas la Grèce, l’Italie, l’Espagne et le Portugal. La campagne est affligeante, insipide et d’une rare médiocrité. On regrette le temps où Marcel Barbu, Guy Héraud, Antoine Waechter et Marie-France Garaud exprimaient leurs points de vue différents. Tentés par l’abstention, les Français, écœurés et inquiets, abandonneront-ils cette torpeur mortelle pour retrouver leur esprit rebelle qui fit trembler jadis tant de puissants ? Réveillez-vous, bon sang, Jacques Bonhommes et autres nouveaux « Va-Nu-Pieds » ! Sinon se vérifiera, le 22 avril prochain, la terrible appréciation combinée des deux plus grandes personnalités marquantes de la France au XXe siècle, un général de brigade à titre temporaire et un maréchal de France, pour qui « les Français sont des veaux à la mémoire courte ».

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Bernard Mabille, « Sur mesure », au Théâtre Saint-Georges, Paris IXe.

 

2 : Propos rapportés par François-Xavier Bourmaud et Nicolas Barotte dans Le Figaro du 29 mars 2012.

 

3 : « L’Europe et l’Amérique au miroir de Maastricht », face à face Jean-Luc Mélenchon – Gilbert Pérol, pp. 74 – 92, dans Krisis, n° 13 – 14, « Europe ? », avril 1993.

 

4 : dans Le Nouvel Observateur du 21 au 27 février 2002.

 

5 : dans Le Figaro Magazine du 6 avril 2012. Quelques minutes plus tard, Mélenchon rattrapa sa collaboratrice dans le couloir et s’expliqua avec elle en aparté, avant de se réconcilier. Le palais de l’Élysée est-il l’endroit propice pour un caractériel pareil ?

 

6 : Pascal Perrineau dans Le Figaro du 20 mars 2012.

 

7 : Marine Le Pen, entretien sur R.T.L. avec Jean-Michel Aphatie, le 5 avril 2012.

 

8 : cf. Olivier Dard, Le rendez-vous manqué des relèves des années 30, P.U.F., coll. « Le nœud gordien », Paris, 2002.

 

9 : Propos rapportés par Michaël Hajdenberg et Mathilde Mathieu, dans Marianne du 31 mars au 6 avril 2012.
 
10 : cf. l’émission politique traquenard « Questions d’info » sur La Chaîne parlementaire et France Info, le 21 mars 2012, avec Frédéric Haziza, plein de morgue, Françoise Fressoz du Monde, Sylvie Maligorne de l’A.F.P. et Marie-Éve Malouines de France Info, quintessence du journalisme hexagonal hystérique et partisan. Ce quatuor ferait-il de même face à Sarközy ou Hollande ?

 


 

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Sarkozy, un illusionniste jusqu’au bout…

Sarkozy, un illusionniste jusqu’au bout…

par Marc ROUSSET

 

sarkoclown.jpgEn voulant montrer à la fin de son mandat présidentiel qu’il agit et qu’il n’est pas un illusionniste, Sarkozy démontre en fait qu’il en est un véritable !

 

Après n’avoir pratiqué pendant toute la durée de son mandat que des mesurettes électoralistes qui ne sont pas à la hauteur des enjeux graves sur le plan économique, Nicolas Sarkozy nous lance encore une fois de la poudre aux yeux risible, si l’on considère le tsunami de nos insuffisances économiques structurelles (56 % de prélèvements publics du P.I.B. au lieu de 46 % comme en Allemagne, soit un enjeu de 200 milliards d’euros, deux millions de fonctionnaires en trop, pas de politique industrielle protectionniste envers les pays émergents, déficit de compétitivité de 13 % par rapport à l’Allemagne, retraite à 62 ans au lieu d’un minimum de 65 ans (67 ans en Allemagne), 1679 heures de travail en France contre 1904 heures en Allemagne, déficit budgétaire et déficit de la balance commerciale, endettement  public pharaonique…

 

Le basculement de treize milliards de charges sociales dans les entreprises sur la T.V.A. et la C.S.G. avec une T.V.A. augmentée de 1,6 point au 1er octobre va dans la bonne direction, mais le Groupe de fédération industrielle (G.F.I.) considère à juste titre que ce transfert est tout à fait insuffisant. Un transfert de trente milliards d’euros serait en fait nécessaire pour créer un véritable choc de compétitivité intra-européenne.

 

Quant à l’immigration, le problème le plus grave, le cancer de notre société, rien, pas un mot, aucune allusion, complètement passée sous silence ! Tout va très bien, Madame la Marquise ! L’invasion continue au rythme de  250 000 personnes par an, soit 400 000 personnes avec les naissances, soit une agglomération lilloise extra-européenne tous les deux ans en France ! L’arbre des mesurettes économiques cache donc aussi la forêt de l’invasion migratoire qui continue !

 

Une fois encore le faux dur Nicolas Sarkozy va dans la bonne direction, mais fait le dixième du travail à accomplir, en voulant jouer à l’homme courageux, au héros, au sauveur, alors qu’il n’est qu’un polichinelle « bling-bling » médiatique. François Hollande appartient à la même catégorie d’hommes, mais en plus irréaliste, plus hypocrite, avec des propos encore plus lénifiants  et jouant en fait le rôle du fossoyeur en puissance !

 

En résumé, Nicolas Sarkozy, un illusionniste qui a pour seul mérite de marcher dans la bonne direction tandis que François Hollande, lui, prend la direction diamétralement opposée du déclin accéléré jusqu’à l’effondrement brutal, total et subit de notre société.

 

Marc Rousset

 


 

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La réforme imminente de l'ONU affaiblira l'influence de l'Europe

Voici une preuve de plus que le Royaume-Uni est l'ennemi de l'Europe. Osons la rupture! Boutons hors de l'UE la perfide Albion et remplaçons le marché anglais par celui de la CEI!

 

La réforme imminente de l'ONU affaiblira l'influence de l'Europe

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

La réforme des Nations unies est « imminente » et forcera l'Europe à accepter de jouir d'une moindre influence au sein du Conseil de sécurité, ont expliqué de hauts diplomates à EurActiv.

Le service européen pour l'action extérieure (SEAS) a en effet dû répondre à des critiques selon lesquelles son statut d'observateur au sein de l'institution avait amoindri son influence.

« Le Conseil de sécurité sous sa forme actuelle (voir « Contexte ») ne reflète pas la réalité contemporaine et manque donc de crédibilité », a affirmé à EurActiv l'ambassadeur indien auprès de l'ONU, Hardeep Singh Puri.

« Personnellement, je suis persuadé qu'une réforme est imminente », a-t-il ajouté.

30 % des sièges au Conseil de sécurité

Plusieurs diplomates auprès de l'ONU restent persuadés qu'il sera difficile de mettre en oeuvre une réforme dans un futur proche. Toutefois, un autre haut diplomate a affirmé que le système actuel de représentation de l'UE à l'ONU n'était pas défendable et que toute réforme amènerait le continent à repenser son approche de manière radicale.

« Il y a trop de sièges européens : la Grande-Bretagne et la France sont des membres permanents du Conseil de sécurité et l'Europe a la possibilité d'occuper 30 % de la totalité des sièges », a-t-il expliqué.

Un diplomate de l'UE a dans le même temps expliqué à EurActiv que le nouveau statut d'observateur du SEAS l'obligeait à s'exprimer après tous les autres pays et amenuisait donc son influence.

Le diplomate a affirmé que même si les dirigeants de l'UE avaient aujourd'hui la possibilité de s'exprimer à l'Assemblée générale de l'ONU, le nouveau statut d'observateur de l'UE avait amenuisé son influence. Les Etats membres individuels qui représentaient l'UE en tant que pays exerçant la présidence avaient plus de poids et d’influence, a-t-il expliqué.

Il a ajouté que le Royaume-Uni avait adopté une position difficile au sein de l'ONU en refusant de permettre à l'UE de parler en son nom pour les questions où il estimait avoir des intérêts nationaux à préserver.

Concernant le nouveau statut de l'UE à l'ONU, l'ambassadeur de l'UE Thomas Mayr-Harting a insisté sur le fait qu'il s'agissait d'un grand pas en avant.

Selon lui, cette nouveauté n'a certainement pas diminué l'influence de l'Europe. Elle a au contraire permis une meilleure continuité via les représentants institutionnels de l'UE.

« Ce changement offre également de plus grandes opportunités de synergies entre les différents domaines dans lesquels l'UE et ses membres sont actifs à l'ONU. L'UE, en tant que groupe politique majeur aux Nations unies, peut se faire entendre sur un très large éventail de questions, qu'il s'agisse des défis politiques au Moyen-Orient et en Afrique ou encore de l'aide humanitaire et du développement », a-t-il expliqué.

Concernant la position du Royaume-Uni, M. Mayr-Harting a déclaré : « Ils n'ont aucun problème avec le fait que moi-même ou un autre représentant de l'UE s'exprime ; ils souhaitent simplement que l'on précise clairement si nous parlons au nom de l'UE ou au nom de l'UE et de ses membres. »

Une réforme qui ne se limite pas au Conseil de sécurité

L'ambassadeur de l'UE a affirmé que la réforme envisagée couvrait un large éventail de domaines. Il s'agit de réformer le Conseil de sécurité (aucune position commune à l'UE n'a été adoptée), mais aussi l'administration et le budget, des domaines sur lesquels les Etats membres semblent davantage sur la même longueur d'onde.

Les questions budgétaires sont un « cas spécial », dans la mesure où les Etats membres de l'UE contribuent à hauteur de près de 40 % du budget ordinaire et de maintien de la paix de l'ONU, a déclaré M. Mayr-Harting

« Je pense que tout le monde, y compris le Royaume-Uni, est d'accord sur le fait que parfois, même lorsqu'il s'agit d'une compétence exclusive des Etats membres, comme pour le budget, il est judicieux que nous nous coordonnions et que nous parlions d'une seule voix lorsque c'est dans l'intérêt des contribuables de chaque pays de l'Union européenne », a-t-il expliqué.

Réactions :

« Cette réforme n'aura pas lieu parce que les membres permanents [du Conseil de sécurité] le veulent, mais bien parce que c'est le souhait de l'Assemblée générale », a déclaré l'ambassadeur indien auprès de l'ONU, Hardeep Singh Puri.

« S'il y avait un vote sur cette réforme demain à l'Assemblée générale, quels membres permanents [du Conseil de sécurité] affirmeraient ne pas être d'accord ? » Il s'agirait de l'expression du souhait populaire de toute l'assemblée contre les intérêts particuliers de pays individuels. Il n'y a jamais eu de vote à ce sujet à l'Assemblée générale. Les négociations continuent. Je ne dis pas que les choses bougeront aujourd'hui ou demain, mais nous sommes proches d'une décision », a affirmé M. Singh Puri.

« La réforme prévue concerne plus de domaines que le seul Conseil de sécurité », a expliqué l'ambassadeur de l'UE auprès de l'ONU Thomas Mayr-Harting.

« L'UE a des intérêts dans de nombreux domaines, et notamment dans le fait que l'ONU « agisse comme une seule institution ». L'ONU est un ensemble d'agences et de sous-structures. L'UE utilise souvent l'ONU pour canaliser ses actions humanitaires et de coopération au développement. Nous n'avons donc pas intérêt à ce que ces structures se multiplient. Nous souhaitons que l'ONU améliore ses performances et nous sommes tous d'accord là-dessus », a affirmé M. Mayr-Harting.

Concernant les plaintes contre l'influence trop importante de l'Europe au Conseil de sécurité, l'ambassadeur a déclaré : « Il est vrai que lors des dernières élections pour le groupe des Etats d'Europe orientale, lorsque l'Azerbaïdjan a remporté le scrutin contre la Hongrie et la Slovénie, l'Azerbaïdjan a avancé l'argument que le siège de cinq pays de l'UE au sein du Conseil entraînerait une trop grande influence pour l'Europe. »

« Les gens commencent à poser des questions [sur la réforme] », a confié un haut diplomate de l'ONU à EurActiv, sous le couvert de l'anonymat.

« Cela se fonde sur une victoire remportée il y a 65 ans. Des questions telles que « si les Allemands peuvent renflouer la Grèce, comment peuvent-ils encore se voir refuser un siège en tant que l'un des pays les plus forts d'Europe » circulent dans les couloirs du secrétariat », a ajouté cette source.

Jeremy Fleming - traduit de l'anglais par Amandine Gillet

mardi, 10 avril 2012

LES PEUPLES DE L’EUROPE DE L’EST FACE AU GLOBALISME

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Intervention de Tomislav Sunic au colloque du Château Coloma, 3 mars 2012

LES PEUPLES DE L’EUROPE DE L’EST FACE AU GLOBALISME

par Prof. Tomislav SUNIC (écrivain)
www.tomsunic.com
Membre du Conseil d’administration du American Third Position Party: http://american3rdposition.com/?page_id=9
………………………
 
Nous allons commencer par un bref historique des pays de l’Europe de l’Est avant leur transition vers le système capitaliste, au début des années 1990. Je vais brièvement passer en revue la période précédant leur usage de l’Amérique comme référent à leur nouvelle identité. Ensuite, nous allons observer comment les pays de l’Est se posent face à eux- mêmes et comment ils se posent par rapport aux nouveaux défis du globalisme. L’Amérique et l’idéologie libérale sont le phare du mondialisme et j’utilise donc les  vocables « américanisme »,  «  libéralisme » et  « occidentalisme » comme synonymes.  Ma méthode d’analyse s’appuie  sur quelques formules de la sociobiologie et de la psychologie des peuples ainsi que sur les théories relatives à la circulation des élites, tout en gardant comme arrière fond les réalités géopolitiques.  
 
Par rapport au pays de l’Europe occidentale, l’Europe de l’Est a toujours été le laboratoire social des élites étrangères, que ce soit les élites françaises, allemandes, russes, ou plus au sud, les élites ottomanes.  Aujourd’hui, depuis les pays baltes et jusqu’aux pays balkaniques, ce sont les élites ploutocratiques de l’Amérique et les élites technocratiques bruxelloises qui sont aux postes de commande au plan de leur imaginaire collectif, au plan du langage, au plan politique et économique.  Le sens de l’identité étatique est faible dans les pays de l’Est.  Les citoyens de ces pays ont certes une conscience nationale et surtout raciale très prononcée, même plus que les citoyens de l’Europe de l’Ouest. En revanche, leur identité étatique reste faible. On peut chercher la raison de ce manque d’identité étatique dans le fait que les frontières de ces  pays sont en perpétuel flux et reflux historique.
 
I. Identité par défaut

Il nous faut souligner que du point de vue racial – ou ce qu’on appelle pudiquement du point de vue « ethnique » – tous ces pays, par rapport à  l’Europe occidentale, sont racialement très homogènes, ayant peu de résidents de race non-blanche sur leur sol.  Du point de vue de leur   « Blanchéité » et de « l’Européanité »,  tous ces pays sont plus européens que les pays de l’Europe occidentale.  Les sentiments de culpabilité historique ou la haine de soi qui sont assez prononcés chez les Européens de l’Ouest, sont pratiquement inconnus  dans les pays de l’Est européen.
 
Les Européens de l’Est connaissent pourtant d’autres  problèmes  A l’heure actuelle, les millions d’hommes et de femmes de cette région de l’Europe sont déchirés d’une part entre de vieilles habitudes acquises sous le système communiste, lequel malgré ses tares leur assurait la stabilité psychologique et une prévisibilité économique, et d’autre part, les nouvelles règles du globalisme qu’ils n’arrivent pas à maîtriser. De plus, les différends interethniques et les ressentiments envers leurs premiers voisins européens y sont bien vivants.  Il ne faut pas sous-estimer les haines interethniques en tant que sources potentielles de nouveaux conflits dans cette région. Les identitaires polonais nourrissent toujours de la méfiance envers les identitaires allemands malgré leur discours commun contre le globalisme.  Un tiers des Hongrois, à savoir 2 millions d’individus, résident sous des juridictions étrangères non-hongroises, notamment en Slovaquie, en Serbie et en Roumanie, des régions qui faisaient autrefois partie intégrante du territoire austro-hongrois. Vis-à-vis de leurs voisins allemands, les Tchèques portent également un pénible héritage historique renvoyant à l’expulsion de force et en masse de 3 millions d’Allemands de souche à la fin de la Deuxième Guerre mondiale.  Malgré une accalmie entre les Serbes et les Croates, dans les Balkans, rien n’a été résolu au sujet de leurs perceptions hostiles des uns envers les autres. Ces deux peuples voisins continuent à afficher dans leurs medias deux discours historiques différents, deux récits victimaires différents et hostiles les uns aux autres.  Pour un nationaliste croate, malgré son anticommunisme et son antilibéralisme, il est impossible d’être «  un bon croate »  sans au préalable être un «  bon antiserbe » . Ici, nous avons un cas classique d’ identité par défaut. On se pose en s’opposant. On n’a qu’à regarder le récent match de handball qui s’est déroulé à Belgrade entre l’équipe serbe et l’équipe croate où les supporters des deux pays, arborant les symboles nationalistes de leurs pays respectifs, semblaient être prêts à reprendre les armes les uns contre les autres à  tout moment. Tous les beaux discours contre l’immigration non-européenne, tous les récits sur un certain axe Paris-Berlin-Moscou, tous les projets d’une Europe empire, qui sont de bon ton parmi les identitaires ouest - européens, ne veulent pas dire grand chose en Europe de l’Est.    
     
Chez les identitaires d’Europe occidentale et d’Amérique, l’ennemi c’est l’immigré non- européen avec son prêt-à-porter, le capitaliste  nomade qui appartient  à la nouvelle superclasse globalitaire. On a du mal à s’imaginer, vu le changement du profil racial à Anvers ou à  Bruxelles, un nationaliste flamand allant à la guerre contre son voisin wallon. Ces temps- là, les temps des nationalismes exclusifs, semblent être révolus en Europe occidentale.  En revanche, en Europe orientale, les identitaires et les nationalistes perçoivent leur ennemi principal comme au XXe siècle ; c’est le voisin européen qui est désigné comme l’ennemi principal extérieur, accompagné par le vieil ex-communiste à l’intérieur du pays. Nous abordons donc ici deux sujets différents, deux perceptions de soi- même, ainsi que deux perceptions  différentes de l’ennemi: le bourgeois apatride à l’Ouest et le dangereux voisin à l’Est.  
     
II. L’héritage communiste
 
Passons maintenant à l’héritage communiste en Europe de l’Est.  Le communisme fut autrefois conçu par ses  idéologues et ses porte-parole en Europe de l’Est comme la meilleure courroie de transmission du globalisme prolétarien. Le paradoxe du communisme en Europe de l’Est fut que, grâce à son nivellement politique et en dépit de son discours mondialiste, il n’exerça jamais aucun attrait sur les immigrés du Tiers monde. Son message planétaire devait, dans les années 1980, se rétrécir rapidement dans un étatisme quasi autiste qui s’estompa par la suite devant le message mondialiste propagé avec plus de succès par le libéralisme et par l’Américanisme.  Dans ces années 1980, la classe politique en Europe de l’Est dut constater que ses idées paleo- communistes, œcuméniques, apatrides, autrement dit les idées  globalistes, se réalisaient beaucoup mieux à l’Ouest qu’à l’Est.
 
On peut en conclure que le communisme s’est effondré à l’Est parce que ses idées matrices et ses mythes fondateurs sur le progrès s’étaient mieux réalisés à l’Ouest quoique sous d’autres signifiants.  En effet, ce fut la comparaison entre le Même communiste avec son Double capitaliste qui conduisit les communistes d’Europe de l’Est et d’Union soviétique à renoncer dans les années 1990 à  leur régime – mais pas au Même-  Système.
 
Contrairement à  ce qu’on disait et écrivait à cette époque, la prétendue démocratisation de l’Est fut, en effet, initiée par les communistes au pouvoir et non par les nationalistes ou par les anticommunistes. Le recyclage des anciens communistes vers le libéralisme globalitaire était prévisible ; ce recyclage fut un cas d’école parétienne où  les résidus idéologiques sont restés les mêmes alors que leurs dérivations ont pris une autre tournure en donnant par suite bonne conscience aux anciens communistes. Ce n’est que suite au rejet officiel du langage communiste par les communistes recyclés et à l’adoption des idées économiques libérales que les nationalistes et les anticommunistes d’Europe de l’Est commencèrent à  jouer un rôle visible dans l’arène politique. Toute manifestation nationaliste en Europe de l’Est avait été physiquement détruite dans les années d’après-guerre.  
 
En effet, au début des années 1990, l’ancienne classe communiste est- européenne fut prise au dépourvue  – ayant voulu au départ se limiter strictement à  la « libéralisation du socialisme réel »  sans vouloir changer de structures politiques et sans vouloir toucher à  l’épineuse question nationale, sachant bien que le domaine de la question nationale risquait de devenir une poudrière. Ce fut exactement le cas dans l’ex- Yougoslavie communiste et dans une moindre mesure dans les autres pays de l’Est.  Bref, le Même communiste n’avait voulu, au début en toute bonne foi communiste, que devenir l’Autre Même, mais en aucun cas devenir l’Autre anticommuniste.
 
Vu avec le recul d’aujourd’hui, les Européens de l’Est n’auraient peut-être pas opté si vite pour le rejet de la variante communiste s’ils avaient su que le Double libéralo-américain, qu’on observe aujourd’hui dans toute sa splendeur mortelle, ne diffusait pas avec plus de succès l’image des lendemains qui chantent. Si l’Américanisme n’avait pas séduit les masses d’Europe de l’Est par l’étalage de son monde virtuel, la plupart des citoyens est- européens seraient encore heureux de vivre le Même communiste. Là où manquent les moyens de comparaison avec l’Autre, il n’y a guère besoin de mimer l’Autre. Et l’existence, bien entendu, devient tout à  fait vivable. Imaginons un monde effrayant où l’on perd la notion de comparaison et la notion de Double.  Or l’Amérique actuelle, et ses pendants, le libéralisme et le globalisme, représentent  aujourd’hui cette réalité effrayante ou la Mêmeté exclut le Double. Toute comparaison doit disparaître ; toute alternative, sociale, économique, doit être interdite et sanctionnée par le code pénal !
 
Dans les années 1990, les anciens fonctionnaires communistes étaient convaincus qu’en imitant le libre échangisme importé de l’Ouest, ils resteraient les mêmes porte-parole du progrès global économique. On a beau dire qu’il s’agissait d’une hypocrisie gigantesque — les données furent et sont plus compliquées pour expliquer leur soudain virage vers le marché libre :  « Voilà pourquoi les anciens apparatchiks communistes, écrit Claude Karnoouh, tant ceux des institutions politico-policières que de l’économie planifiée, se sont si facilement adaptés à l’économie de marché et se sont complus à brader sans vergogne le bien commun par des privatisations massives qui représentent, à coup sûr, le plus grand hold-up du siècle sur la propriété collective ».
 
Certes, on serait tenté  de dire que les ex-communistes d’Europe orientale possèdent une plasticité qui les rend aptes à tous les recyclages.  Soit.  Il nous faut pourtant prendre en considération que les idées  dominantes à l’Ouest  avaient  commencé  à  changer dans les  années 1970 et au début des années 1980, de sorte que la fameuse perestroïka soviétique avait été initiée par le recyclage intellectuel de la gauche caviar des salons occidentaux avant de se propager par la suite à  l’Est.  En outre, les classes communistes d’Europe de l’Est furent obligées, en raison de leur complexe d’infériorité issu de leur passé criminel et criminogène, de se présenter comme  plus « libéraux », plus  « américains » et plus « européens » que les Européens de l’Ouest ou les Américains eux-mêmes.
 
Quant aux masses de citoyens est-européens, à  la veille de l’effondrement du communisme, le mythe surréaliste de l’Amérique l’emportait chez elles sur la réalité vraie. Certes, la psychologie des masses communisées est- européennes était différente de celle de leurs dirigeants, tous pourtant, et chacun à  sa façon particulière, se projetant sur le Double américain mal mimé. Même lorsque les apparatchiks locaux diffusaient des slogans, pas toujours faux, sur la  pauvreté et la criminalité en Amérique, les citoyens est -européens ne voulaient pas y croire. C’était agréable de se projeter par procuration sur un monde hyperréel  américain. L’américanisation, l’occidentalisation et  le globalisme étaient porteurs d’une nouvelle promesse.
 
III. Le Même et le Mime
 
Il nous faut dissiper quelques concepts politiques et quelques idées reçues sur l’américanisme. Le système américain, en tant que vecteur principal du globalisme, fonctionne souvent par le biais de ses imitateurs aux 4 coins du monde qui s’évertuent à qui mieux mieux à se montrer les uns aux autres que l’Amérique est bel et bien le pays qui mérite d’être mimé. Le Double donc, à savoir le globalisme américano-sphérique est, d’après eux, censé devenir le destin de tous.  L’imitation de l’Américanisme, dans de nombreux cercles politique et intellectuels européens, ne donne que davantage de crédibilité à l’expansionnisme américain.
 
On décrit souvent l’Amérique comme un pays volontariste, hégémonique, impérialiste et messianique. Globalement, c’est vrai. Mais les décisions américaines se font souvent en fonction du mimétisme de ceux qui veulent dépasser les Américains par leur  hyper – américanisme. Un cas d’école est représenté par l’Allemagne d’aujourd’hui, un pays qui doit  « jouer » au démocratisme et aux règles du jeu global plus que ses maîtres d’outre- mer dont elle devait apprendre, après la Deuxième Guerre mondiale, les règles du comportement globaliste. Voici le grotesque infra- politique. Ce comportement  mimétique était évident dans l’Europe de l’Est, en 2003, quand les imitateurs est-européens furent parmi les premiers à offrir leur aide à l’intervention militaire américaine en Irak – sans même que l’Amérique le leur demande. Dès lors, leur servilité vis-à-vis de l’américanisme n’a plus eu de bornes. En emboîtant le pas aux Américains, ils croient, par détour, favoriser leur position dans le monde globalitaire.
 
L’hyper-servilité des élites postcommunistes s’inscrit dans les pas de leur ancienne servilité vers Moscou. Autrefois, c’était Moscou qui était le lieu du pèlerinage ; aujourd’hui, le nouveau Sacré s’appelle New York et Tel Aviv. 
 
IV.La nouvelle ancienne classe – la sélection négative 

Qui sont les gens au pouvoir à  l’Est ? Des pays balkaniques aux pays baltes, la majorité des politiciens est-européens se compose de fils et de filles d’ anciens apparatchiks communistes. Dans l’optique sociobiologique, il nous faut garder à l’esprit que la terreur communiste et le nivellement social ont eu pour conséquences l’épuisement du patrimoine bioculturel, à savoir la chute du fonds racial et culturel et l’émergence d’individus aux instincts primaires. Les anciennes élites biologiques et spirituelles d’Europe de l’Est dont le système de valeur était ancré sur l’honneur, le dépassement de soi, le sacrifice pour le bien commun, ont été complètement détruites après 1945.  Une sélection négative s’est opérée qui fut plus grave qu’en Occident vu que l’ Occident réussit quand même à préserver quelques bribes des anciennes élites.
 
 Les mesures d’épuration anticommunistes ne furent jamais prises tout simplement parce qu’elles ne pouvaient pas l’être. A part quelques gestes contre quelques individus de l’ancienne police politique, les anciens dirigeants communistes sont restés en place et  jouissent de l’impunité  juridique. Force est de constater que faire de la décommunistion par la voie du Système libéral est un non sens. Cela ne peut donner aucun résultat étant donné que l’aboutissement logique du procès du communisme devrait être le rejet total de sa matrice, à savoir le libéralisme. L’élite postcommuniste au pouvoir en Europe de l’Est en est bien consciente : à deux reprises, elle a été largement bénéficiaire des changements intervenus ; la première fois à l’époque communiste, la deuxième fois à l’époque actuelle. Les membres de l’ex-nomenklatura ne sont pas seulement en position favorable pour acquérir des propriétés publiques et fonder des entreprises ; ils jouissent aussi de la pleine légitimité auprès des cercles mondialistes — sachant  que dans la plupart des cas, leurs homologues occidentaux sont d’ex–membres de la gauche maoïste, titiste et  trotskiste !
 
 La présence de la nouvelle ancienne classe communiste aux commandes en Europe de l’Est semble aujourd’hui bien arranger les institutions mondialistes et supra-étatiques car « celles-ci ne semblent intéressées que par un seul but : permettre aux entreprises d’Europe occidentale de s’approprier les principales richesses industrielles et naturelles de ces pays ». Par conséquent, les élites mondialistes venues des quatre coins du monde,  sont beaucoup plus à l’aise avec les nouvelles élites post-néo-communistes d’Europe de l’Est qui sont plus malléables que les élites ouest- européennes. Le même cadre d’analyse peut s’appliquer au syndicalisme, aux nouveaux partis politiques et aux nouveaux cercles littéraires d’Europe de l’Est qui sont tous à  l’écoute des maîtres occidentaux. Il n’y a eu que quelques rares exemples de volonté d’indépendance, à commencer par celui de la petite Croatie en guerre au début des 1990 et plus tard celui de la Serbie confrontée à l’agression de l’OTAN — mais ces gestes de panache guerrier furent de courte durée.  Aujourd’hui, c’est au  tour des identitaires hongrois de mettre en cause les mythes fondateurs de l’EU – avec les conséquences que nous devrions bientôt voir.
 
Les anciens cadres communistes au pouvoir en Europe de l’Est sont mieux en mesure que d’autres de s’appuyer sur les configurations globalistes. Les organisations supra étatiques telles que l’OMC, le FMI et la Banque Mondiale sont devenues pour eux des référents essentiels pour prospérer. Cette nouvelle élite postcommuniste ne vient donc pas de l’économie privée qui fut d’ailleurs marginalisée et largement interdite au cours des décennies communistes, mais des rangs des anciens cadres socialistes. Un grand nombre d’ex-membres de la nomenklatura ont rapidement acquis des titres de propriété et se sont transformés en entrepreneurs.
 
V. Conclusion : La Mort du Système
 
Le Système globaliste se décompose. Nous sommes dans la phase terminale du système capitaliste. Le libéralisme avait pu cacher sa nature inhumaine à l’époque de la guerre froide et pendant les Trente Glorieuses, aussi longtemps qu’il se sentait menacé par son Double incarné dans le système soviétique. À cette époque, son seul but était de montrer à son Double communiste d’Europe de l’Est qui il savait poursuivre le même objectif tout en le rendant plus « humain » et économiquement plus efficace.
 
Avec la crise structurelle du libéralisme et le rôle grandissant des unités supra-étatiques telles que l’OMC, le FMI, l’Union  Européenne, de grands bouleversements sont à l’ordre du jour.  On ne va pas se réjouir trop tôt de la prochaine mort du libéralisme, car les mois et les années de chaos qui sont devant nous vont nous offrir un spectacle  totalement différent de celui auquel nous nous attendons et que nous souhaitons. Je vous renvoie à mes livres où je  traite plus en profondeur de ces sujets. 
 
L’Amérique a cessé depuis longtemps de fonctionner comme un État, étant donné qu’elle na jamais été conçu comme un État. L’américanisme est devenu un concept liquide qui fonctionne de plus en plus comme un système supra étatique aux identités disparates. Tous les peuples du monde sont devenus victimes des organismes globalitaires et multinationales qui licencient ici pour s’implanter là où la main-d’œuvre est meilleur marché, puis déménagent le lendemain dans un autre pays au bas coût du travail.  C’est le cas avec l’Europe de l’Est aujourd’hui où le coût du travail est moins élevé qu’en Europe occidentale, où  les syndicats sont faibles et où les salaires sont bas. Les termes comme: « mondialisation », « gouvernance »,  « flexibilité », « exclusion », « nouvelle économie »  « multiculturalisme »  « minorité », « tolérance »,  « identité » sont de mise.  La diffusion de cette nouvelle langue de bois mondialiste  — dont sont remarquablement absents les anciens vocables communistes tels que « capitalisme », « classe » « exploitation », « inégalité », etc. — est le produit de la logique du capitalisme. Les effets néfastes étaient prévisibles il y a bien longtemps.
 
Reste l'éternelle question : que ce serait-il passé si l'autre parti, à savoir le communisme, l'avait emporté avant et lors de la guerre froide ? Peut être la même chose. En réalité, comme le siècle précédent en témoigne, les fantaisies constructivistes, tel que le libéralisme et le communisme, donnent des mêmes résultats sous des signes opposés. 
 
Le libéralisme nous montre finalement son visage de prédateur. Il est devenu chaotique et incontrôlable. Il ne peut plus se cacher derrière de belles paroles comme droits de l’homme, tolérance et paix. Le système libéralo- communiste est essentiellement un système inhumain. De nombreux observateurs --  même ceux qui se veulent ses apôtres -- savent que nous  nous trouvons devant une nouvelle avant- guerre.
 
L’un des traits suicidaires du globalisme est son capitalisme financier. Les véritables souverains d’aujourd’hui ne sont pas les princes et les politiques mais les banques et les sociétés cotées en Bourse. Désireux d’obtenir le rendement maximal de leurs investissements, leurs actionnaires poussent à la compression des salaires et à la délocalisation du travail.  De fait, l'économie d'intérêt a tendance à favoriser l'investissement à l'argent lui-même. D’ailleurs,  l'économie d'intérêt met l'accent sur les gains à court terme.
Il n’y a là rien de neuf.  Les crédits faciles et le prêt à intérêt sont des outils privilégiés de l’expansion du capitalisme financier. Les choses sont devenues violentes lorsque les crédits hypothécaires ont pris le dessus sur les autres formes de crédit.
 
Les banques créent en effet l'argent nécessaire aux emprunts -- mais elles ne créent pas l'argent nécessaire au remboursement des intérêts sur ces mêmes emprunts. A cause de l'absence de l'argent nécessaire aux remboursements des intérêts, les emprunts appellent de nouveaux emprunts, créant ainsi une chaine de dette pour tout le monde sauf pour les riches. Le montant de l’argent dû aux banques excède toujours le montant d’argent disponible.
 
La multiplication des défauts de paiement d’emprunteurs qui sont incapables de rembourser leurs dettes nous a amené au chaos actuel.  On voit l’opération se répéter aujourd’hui aux dépens des Etats, avec la crise de la dette souveraine. Rien de neuf ;  ce scénario nous rappelle le temps des années 1930 en Europe.
  
Je cite, dans ma traduction d’allemand en français, l’économiste Gottfried Feder : 
Le capital d’emprunt rongé par le prêt à intérêt  est le fléau de l'humanité ; la croissance infini et sans effort dû au grand capital d’emprunt conduit à l'exploitation des peuples, ce qui n’est pas  le cas avec le fonds de roulement productif qui est créateurs des biens.
 
 Le caractère sacré de l'intérêt est le tabou ; l'intérêt est le saint des saints ;  personne n’y ose toucher.  Alors que les biens, la noblesse, la sécurité des personnes et de leurs biens, les droits de la Couronne, les réserves, les convictions religieuses, l'honneur d'officier, le patriotisme et la liberté sont plus ou moins  hors la loi,  l'intérêt reste sacré et inviolable. La confiscation des biens, la socialisation sont à  l’ordre du jour, a savoir les flagrantes violations de la loi, et  qui ne sont qu’ enjolivées, car  prétendument commises contre l’individu au nom de la collectivité. Tout ceci est autorisé. En revanche le taux d'intérêt reste ;  «Noli me tangere» ne me touche pas !  Rührmichnichtan”. ( Kampf gegen diei Hochfinanz, Munich, 1935)
 
Nous n’avons qu’à lire les ouvrages des années 1920 pour voir que ce sont les prêts hypothécaires et les prêts à intérêt dont on nous rebat les oreilles aujourd’hui, qui ont amené l’Allemagne à la guerre en 1939.  Le système globaliste conduit à une paupérisation des classes populaires et des classes moyennes qui, dans l’espoir de maintenir leur niveau de vie, n’ont d’autre ressource que de s’endetter davantage.
 
Le capital globalitaire financier ne remplit aucune fonction productrice. Au contraire, il joue un rôle parasitaire. La suppression du capitalisme financier et la suppression du revenu des oisifs et des spéculateurs, ainsi que la suppression de l'esclavage de l'intérêt doit être le but principal de notre combat. Ne nous faisons pas d’illusions. La prochaine guerre des races, en Amérique et en Europe, sera fatalement accompagnée par l’ancienne guerre des classes parmi les Blancs. En effet, avant d’affronter la poudrière raciale dans nos contrées balkanisées, nous devons affronter notre ennemi principal : le capitaliste local et son alter ego, le spéculateur globalitaire.
 
Merci de votre attention.

Bachar El-Assad: l’homme à abattre!

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Bernhard TOMASCHITZ:
Bachar El-Assad: l’homme à abattre!

Les Américains veulent absolument imposer un “changement de régime” en Syrie
Leurs principales motivations? Des intérêts économiques et un soutien à Israël!

Le sol devient de plus en plus brûlant sous les pieds du leader syrien Bachar El-Assad. Fin mars, un sénateur américain très influent, John McCain, a demandé que les Etats-Unis et l’Europe soutiennent militairement les rebelles syriens: “Ils méritent notre soutien et le soutien de la communauté internationale pour pouvoir riposter aux attaques du régime”, a affirmé le candidat républicain à la présidence lors des élections de 2008.

Le gouvernement d’Obama songe aussi à intervenir militairement. Jusqu’à présent, on mise encore et toujours sur la pression diplomatique et politique à exercer contre Damas. Mais, comme l’a laissé entendre le ministre américain de la défense, Leon Panetta, lors d’une audience au Sénat, “on songe à de possibles démarches complémentaires (...), y compris d’éventuelles interventions militaires, si nécessaire”. C’est clair: les Américains refusent, en ultime instance, de tenir compte de la déclaration du conseil de sécurité de l’ONU, appuyée par la Russie et par la Chine. Cette déclaration demande au gouvernement syrien et aux rebelles de réaliser sans délais le plan de paix de l’envoyé spécial Kofi Annan. Ce plan de paix prévoit un armistice, l’envoi d’aide humanitaire et l’ouverture d’un dialogue entre le gouvernement et les adversaires du régime.

Washington, en revanche, ne veut pas abandonner l’objectif que les Etats-Unis se sont fixé une fois pour toutes; ils veulent tout bonnement un “changement de régime” à Damas, comme le confirme par ailleurs les nombreuses opérations spéciales que mènent depuis des mois les services spéciaux occidentaux. “Le MI6 et la CIA ont infiltré la Syrie pour connaître la vérité”, expliquait en date du 1 janvier le quotidien “Daily Star”, en  se référant à une source non citée mais considérée comme “bien informée”. Ensuite, les contacts sont étroits entre les rebelles libyens et l’”armée syrienne libre”, comme le signalait le 27 novembre 2011 le journal britannique “The Telegraph”. D’après cette information, Abdulhakim Belhadj, chef du conseil militaire de Tripoli et ancien commandant du “Groupe de Combat Libyen-Islamique”, aurait rencontré à Istanbul et le long de la frontière turco-syrienne des chefs de l’”armée syrienne libre”, pour que celle-ci soit entraînée par des “combattants libyens”. Toujours selon le “Telegraph”, Belhadj aurait été envoyé en Turquie par Moustafa Abdoul Djalil, qui n’est rien moins que le président de transition en Libye.

Or il est tout de même peu vraisemblable que les Libyens aient agi de leur propre chef. Il est plus plausible de dire qu’ils ont reçu cette mission de Washington, pour camoufler l’immixtion américaine. On peut clairement émettre cette hypothèse si on analyse les déclarations du ministre américain de la défense, Panetta: “le soutien aux réformes politiques et économiques, lesquelles correspondent aux aspirations légitimes des citoyens de la région”, relève des mêmes principes fondamentaux qui ont défini les réponses que nous avons apportées aux événements de Tunisie, d’Egypte, de Libye et, dorénavant, de la Syrie”.

En déclarant cela, Panetta nous révèle clairement que les Etats-Unis n’entendent pas seulement apporter à la Syrie les bienfaits de la démocratie de facture occidentale mais veulent également imposer à ce pays du Levant le système économique esquissé à Wall Street et qui doit s’étendre à la planète entière par l’effet de la globalisation. Ensuite, d’après un livre récemment publié par la CIA, avant que n’éclatent les troubles en Syrie, il y a environ un an, il n’y aurait eu que de “timides réformes”, tant et si bien que l’économie, y “est encore largement régulée par les milieux gouvernementaux”. Dans l’Egypte de Moubarak et dans la Libye de Kadhafi aussi l’économie, surtout les secteurs clés, était sous le contrôle des gouvernements, ce qui rendait l’accès aux marchés locaux difficile pour les entreprises occidentales.

Quant à l’imposition, partout dans le monde, de réformes libérales, visant à instaurer en tous points du globe l’économie de marché, Michel Chossudovsky, critique canadien du processus de globalisation, pointe du doigt un aspect important, tu en Occident. On dit et on écrit généralement que les causes premières de ces protestations de masse en Syrie sont l’augmentation du chômage et la détérioration du niveau de vie; or ceux-ci découlent tout bonnement de l’adoption d’un programme de réformes exigé par le FMI et que les autorités syriennes ont tenté d’appliquer à partir de 2006. Les mesures réclamées par le FMI comprenaient des privatisations, des dérégulations dans le système financier et un gel des salaires.

Au-delà de ces réformes exigées par le FMI, la “libération” de la Syrie, assortie de la disparition du régime d’El-Assad, va bien entendu dans le sens des intérêts stratégiques des Etats-Unis en tant que puissance hégémonique globale, comme s’est plu à le souligner Panetta lors d’une audience au Sénat: “La Syrie constitue un pays-clef pour l’Iran. La Syrie est le seul pays allié à l’Iran dans la région et elle représente un facteur décisif dans tous les efforts qu’entreprend l’Iran pour soutenir les militants de la région qui mettent en danger Israël et la stabilité régionale. Les désordres en Syrie ont donc contribué à affaiblir considérablement l’Iran et il est clair que, plus El-Assad est affaibli, plus l’Iran sera perdant”.

Israël espère ardemment que se construira bientôt une Syrie post-Assad. Car, alors, d’une part, la milice libanaise du Hizbollah, soutenue par Damas et par Teheran, sera affaiblie; d’autre part, l’Etat sioniste espère aussi que se constituera, sur son flanc nord-est, un Etat-tampon, qui servira pour toutes éventuelles opérations contre l’Iran. Un tel Etat-tampon pourrait s’avérer fort utile en cas d’attaque israélienne contre l’Iran car il y a peu de chances que des pays comme la Jordanie ou l’Arabie Saoudite ouvrent leurs espaces aériens aux appareils de Tsahal. Avec une Syrie neutralisée, l’aviation israélienne pourrait se servir du territoire syrien et de l’Irak, dépendant des Etats-Unis, pour aller frapper des cibles en Iran. Il faut voir, toutefois, si ce calcul et ces espérances se concrétiseront vraiment. L’expérience libyenne récente, où une nouvelle guerre civile menace après la fin de l’union sacrée des contestataires contre Kadhafi, et les événements d’Egypte, où les islamistes sont désormais la principale force politique du pays, semblent indiquer que le pari sur les “révolutions arabes” n’a pas été le bon. En plus, il faut savoir que l’armée syrienne libre, qui lutte contre Bachar El-Assad, parce qu’il est alaouite, est soutenue par l’Arabie Saoudite, finalement plus anti-chiite ou anti-alaouite qu’anti-sioniste. L’Arabie Saoudite, d’inspiration wahhabite, vise à diffuser un islam particulièrement rétrograde dans le monde arabe. Un islam rétrograde, wahhabite ou salafiste, qui reçoit de grosses quantités d’armes, souvent achetées en Occident, de la pétro-monarchie saoudienne.

Bernhard TOMASCHITZ.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°13/2012, http://www.zurzeit.at/ ).

Krantenkoppen April 2012 (2)

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Krantenkoppen

April 2012 (2)

'CULTURAL CAPITALISM' IS YET ANOTHER ROAD TO DECADANCE AND DESPAIR.
"It is (...) important to note that not all Marxist-Leninist, communist or socialist countries were necessarily culturally Marxist. If one were to compare the social and cultural atmospheres of the United States and Soviet Union, respectively, during the 1960′s, the Soviet Union might emerge as the more ‘conservative’ of the 2 societies. The American author Francis Parker Yockey quite rightly noted this in his work 'Imperium'. Yockey felt that the Soviet Union was a far better ally of the West than the Americans and that in its authoritarianism it preserved something of the traditional European concept of hierarchy. From its outward manifestations of artwork and music, one could also conclude that the USSR was far more aligned with traditional values than America was. For instance, while Americans listed to rock-and-roll, the Soviets brought forth such composers as Prokofiev, Shostakovich and Khachaturian, and the Soviets regularly regarded America’s culture as being ‘inferior’ because of its decadence. Because of this, one can argue that while cultural Marxism has done the West an irreversible harm, so has its counterpart, cultural capitalism.
Just as cultural Marxism takes Marxian theories and applies them to culture, so too, does cultural capitalism take the ideologies of the American and French revolutions and try to apply them to culture. However, reaching a more precise definition than this is quite difficult because its results are nearly indistinguishable from those of cultural Marxism. This should not surprise any real Traditionalist, because they are actually 2 sides of the same coin, being a descendant of the Renaissance-era financial oligarchies, the American revolution, and 'democratic' ideals in general. Furthermore, the 2 are essentially not in competition, but rather complement each other. For instance, in order to allow for the acceptance of decadent and amoral entertainment, it is necessary to destroy the sense of morality in the first place through cultural Marxism.
Cultural capitalism, then, consists of all the worst aspects of American culture, including such things as: materialism, secularism, Hollywood and mindless entertainment, spectator sports, ways of dressing, decadent music, superficiality in conversations, rampant divorce, lack of artistic feeling, lack of historical perspectives, and the like, appealing to the most superficial of senses. In the social sphere, cultural capitalism encourages feminism and liberalism especially, giving these ideas a fertile ground to take root. (...) Americans represent the most productive nation in the world, whilst being the most primitive. (The British satirist Oscar Wilde had stated, (...) that 'America is the only country that went from barbarism to decadence without civilization in between'.)
(…) Cultural capitalism might be defined as all the outward things which have come to characterize American ‘civilization’ since the 1950′s, but it is much more, because as culture is rooted in spiritual and mental predicates, capitalism (…) is a symptom of all that is modern – in which the aspirations of man are merely for temporal goals, namely the acquisition of more ‘material’ and nothing else. In practical life, this means that for many running the money rat race is an imperative to survive and make a meager living, while for those who are a bit better off is a competition for more possessions and trinkets. For the very wealthy, living in an existential impasse of confusion between need and want. This is the psychological corner stone of capitalism and consumerism driven by marketing and advertising: turning a desire for a product into an artificial need where enough is never enough - hence the need for ever more and more possessions and diversions. (…)
On the one hand, in the capitalist system, man must constantly be a producer of either goods, capital, or some other type of value, but on the other, the system is such that he must also be a constant consumer. In such a society, all culture tends towards the lowest common denominator, even among the upper classes, because life becomes a merely mechanistic repetition. Coupled with this, especially in America, is the frantic striving for equality and the near cult-like admiration for individualism without personality, which, of course, can only be equality in degradation.
Since cultural capitalism is not in any way opposed to cultural Marxism, Traditionalism, as a general rule, does not engage in the discussion of economic theory. Rather, Traditionalism holds that the tyranny of the economy must be abolished at its source. (…) This attitude (…) is a statement against utopianism of either capitalism or communism, as well as its cultural implications. In a few words, it opposes the ‘enslavement of the single individual to the productive mechanism’, which leads to the aforementioned ills.”
http://www.ridingthetiger.org/2012/03/12/cultural-capitalism-is-yet-another-road-towards-decadence-and-despair/
 
 
ALAIN SORAL ON ISLAM.
‎"After the collapse of the 3 moral forces from Occident that were the capitalism, the communism and the French universalism, (...) it seems that the last civilization from the post-mediterannean sphere that is not totally subject to the Judeo-Protestant Americano-Zionist capitalist Empire is the Muslim world. (...)
A coherent Islam of resistance to the Empire structured around the Islamic republic of Iran, that also inculde the Lebanese Hezbollah and the Palestinian Hamas. An Islam of resistance perfectly formulated by the acts and discourses of President Mahmoud Ahmadinejad: solidarity with Hugo Chavez’s Bolivarian revolution, agreement of cooperation with the Syrian Baathist regime, logistics support to the Sunni Palestinians fighters, contestation of the official version of 9/11 at the United Nation’s platform, … An authentically anti-imperialist and anti-zionist politic which refuses to fall in the trap of 'the clash of civilizations' …
In contrast, an Islam presented as radically anti-Occidental fully playing out 'the clash of civilizations' in a perverted partnership with USA and Israel. The Saudi monarchy, that encourages and finances it a bit everywhere in the world, is in reality totally conniving with the USA and is dependant from them. (...) A shadly relationship between radical Islam and Empire, resulting in the creation of Al Qaeda and Bin Laden, and generally speaking, resulting in this islamic extremism whose objective role is to encourage the clash between Europe’s Christian and Muslim population (...) for the benefit of the Americano-Zionist Empire. (...)
A reversal of alliance, on behalf of laicity, made under the pressure of Masonic and Zionist network and sanctioned in France by the anti-veil law in March 2004, aggravated since then by the anti-burka law in September 2010. This orchestred stigmatization of Muslims, from then on designated as scapegoat to the native French, affected by the crisis, by the very same that made them come to France and encouraged them to be aggresive towards French people, so that the legitimate social anger towards mondialist elites (who are not Muslims), turns into an inter-ethnic civil war.
Whether Islam is good or not for France, let us remind ourselves that for this religion (...) does not only exist one Islam (...), but a diversity of Muslims abandoned to divers authorities, whose majority stay away from unrest and from politics. (...)
The chaos of the civil war or the re-establishment of the country through national reconciliation depend in fact, in addition to the economic crisis, on the outcome of this struggle between these 2 youths: patriot Muslim and islamo-scum, from now on face to face and opposed in everything – including in Islam. In this struggle for France, we must give a hand to the firsts: those patriot Muslims who work, undertake jobs and bring medals for the country in sports competitions … as we must also then break with the dialectic of excuses, be intransigent towards the seconds who behave like a horde of underdogs. (...) The salvation of the country being to be looked for from the side of the national reconciliation initiated in Lebanon by General Aoun, president of the Christian free patriotic movements, and Hassan Nasrallah, secretary-general of the Muslim Hezbollah, rather than Yugoslavia where the undertaking of the reconquista, led by a Slodoban Milosevic entirely infiltrated by the CIA, led to the partition of Kosovo wanted by NATO."
http://frenchdissidents.wordpress.com/2012/04/05/alain-soral-on-islam/
 
 
NIEUWS UIT HOMS VAN MOEDER AGNES-MARIAM OP PALMZONDAG 31/03/2012.
"Vooral christenen worden vermoord, hun huizen en winkels in brand gestoken. (...) Ondertussen blijft helaas nog al te dikwijls de berichtgeving leven dat het leger deze verwoestingen aanricht. De echte schuldigen zijn de gewapende groepen verbonden met het Vrije Syrische Leger, gedomineerd door paramilitaire radicale islamisten. (...) Positief is wel dat de meerderheid van de soennieten niet achter deze radicale islamisten staat.
Moeder Agnès-Mariam meldt ons dat de algemene toestand in Syrië de afgelopen weken zeer zeker verbeterd is. Toch is het volgens haar nog bijzonder onrustig in Homs en omgeving. Na de val van Baba Amro zouden groepjes rebellen zich verschanst hebben in de christelijke wijken Warceh en Salibi. Ze verjagen er de families en plunderen hun huizen om ze (...) te gebruiken als uitvalsbasis. (...) Ook zijn er nog steeds mortierbeschietingen door rebellen op alawitische en christelijke wijken. Het gaat hier niet om gevechten tussen het regeringsleger en de rebellen. Neen, de opstandelingen beschieten doelbewust wijken van religieuze minderheden. Het is dan ook hemeltergend dat deze vernielingen door Al-Jazeera afgeschilderd worden als zijnde het werk van regeringssoldaten. En [dit] wordt natuurlijk gretig en kritiekloos overgenomen door ‘onze’ media.
Moeder Agnès-Mariam getuigt tevens van ongelooflijke wreedheden begaan door rebellen in het stadje Kusayr vlakbij Homs, aan de grens met Libanon. (...) Na de val van Baba Amro zijn verschillende ontvoerde burgers door de rebellen naar hier gebracht en op gruwelijke wijze terechtgesteld. Verschillende onder hen zouden zijn onthoofd (...). De slachtoffers zijn zowel soennieten, alawieten als christenen. Hun misdrijf? Deze mensen zouden te weinig ‘meegewerkt’ hebben met de ‘opstand’. Ook in Kusayr zijn verschillende christelijke gezinnen uit hun huizen verdreven (...). Hun plaats wordt ingenomen door soennitische sympathisanten van de rebellen. Er is hier stilaan sprake van een etnische zuivering."
http://mediawerkgroepsyrie.wordpress.com/2012/04/05/nieuws-uit-homs-van-moeder-agnes-mariam-op-palmzondag-31032012/
 
 
HET ONDERSCHEID TUSSEN TURKSE ALEVIS EN SYRISCHE ALAWIETEN.
"Tot de religieuze gemeenschap der Alevis bekent zich zo’n 20% van de Turkse bevolking. De Turkse Alevis mogen niet worden verward met de Syrische Alawieten. Beide groepen ontstonden onafhankelijk van elkaar in verschillende historische en geografische omstandigheden, maar hun naamsgelijkheid geeft al aan dat er toch belangrijke dwarsverbanden zijn.
Beide groepen kunnen worden beschouwd als afsplitsingen binnen de sjiietische islam waarbij de religieuze figuur van Ali een centrale rol speelt. Vandaar hun naam. Net als de Syrische Alawieten hebben ook de Turkse Alevis bepaalde gewoontes en gebruiken die hen de gramschap opleverden van orthodoxe soennieten, die beide groeperingen vaak beschouwen als regelrechte ketters en zeker geen moslims. Net als de Syrische Alawieten zijn ook de Turkse Alevis door de eeuwen heen vaak gediscrimineerd, wat hun enthousiasme verklaarde voor de seculiere republiek van Kemal Atatürk. Deze Atatürk richtte de Republikeinse Volks Partij (CHP) op, waarbinnen Turkse Alevis traditioneel sterk vertegenwoordigd zijn. Deze CHP vormt momenteel de belangrijkste oppositiepartij tegen de politiek van Tayyib Erdogan.
Erdogan, berucht om zijn soms ondiplomatieke uitbarstingen, lijkt zijn frustraties over de schaakmatsituatie in Syrië in toenemende mate te gaan richten tegen de Turkse Alevis. Het spelen van deze sektarische kaart is niet alleen potentieel explosief binnen Turkije zelf, maar zet bovendien vraagtekens bij de werkelijke drijfveren van Erdogan jegens Syrië.
Kemal Kilicdaroglu, de leider van de CHP, is zelf Alevi. Vorig jaar maakte Erdogan al een keer de opmerking dat Kemal Kilicdaroglu heimelijk de Syrische president al-Assad steunde wegens 'sektarische solidariteit' tussen Turkse Alevis en Syrische Alawieten. Kilicdaroglu had de woede van Erdogan opgewekt omdat hij zich tegen een militaire interventie in Syrië uitsprak en de Turkse politiek jegens Syrië onverstandig noemde. Eerder had hij reeds de wrevel van de AKP-leider opgewekt wegens zijn harde kritiek op de Turkse politiek van confrontatie met Israël.
Eind vorige maand ging Erdogan echter nog een stapje verder. Op 22 maart werd hij geciteerd in de Turkse krant Hürriyet toen hij zowel Kemal Kilicdaroglu persoonlijk als ook de CHP direct beschuldigde dat ze Alevis zijn en dús Alawieten. (...) De recente opmerkingen van minister-president Erdogan gaven de binnenlandse politieke verhoudingen een sektarische dimensie die de situatie in Syrië lijkt te weerspiegelen."
http://mediawerkgroepsyrie.wordpress.com/2012/04/04/turkse-alevis-en-syrische-alawieten/
 
 
MARINE LE PEN TREKT OOK MOSLIMS AAN.
http://www.deredactie.be/cm/vrtnieuws/mediatheek/programmas/terzake/2.20594/2.20595/1.1265354
 
 
LAAT ONS MARINE PROBEREN! (Vertaling van het artikel 'Osons Marine?' van de Franse islamitische schrijver Albert Ali)
"Kiezen tussen Sarkozy en Hollande is geen keuze, laat ons Marine dus proberen! Wij kunnen ervoor zorgen dat zij die het Front National het meest horen te haten, haar nu de dubbele score geven van de vader in 2007!
Laat ons voor een keer de mediatieke en politieke kaste doen panikeren, zoiets zal resoneren als een zoete wraak op dit systeem dat zich paradoxaal genoeg hatelijk opstelt tegenover de islam maar zich ook voor illegalen opwerpt. Geen enkel advies of electorale steunbetuiging houdt vandaag nog steek. Dus, laat ons Marine proberen, ondanks alles, ondanks haar islamofobie, laten we ondanks haar zionisme proberen, ondanks alles proberen! Laten we de onbeschaamdheid proberen, dat zal de enige keuze zijn om een tweede ronde te hebben, het onmiskenbare gevoel dat we gekozen hebben en dat er dit keer niet in onze plaats gekozen werd!"
http://blog.thierryvanroy.be/2012/04/een-verzoening-tussen-moslims-en-nationalisten/
 
 
POST-DEMOCRACY: PRESS TV BANNED IN GERMANY.
"The Media Regulatory Office based in Munich notified of the decision to remove the Iranian English-speaking channel Press TV from German airwaves. (...) This shutdown comes after Press TV was banned in Great Britain in January 2012 (...). The channel believes the decision is part of a strategy by Westerners to silence an inconvenient voice. Press TV drew the attention of the UK public in particular (...) for offering viewers a different perspective on the offensive launched against Libya or Syria."
http://www.voltairenet.org/Post-democracy-Press-TV-banned-in
 
 
MEDIA-OORLOG BOVEN SYRIE: VOORMALIG AL JAZEERA CORRESPONDENT KLAPT UIT DE BIECHT.
‎"Een voormalig correspondent van Al Jazeera klapt uit de school over de werkwijzen van zijn ex-broodheren. De zender uit Qatar zou de opstandelingen in Syrië actief ondersteunen met gesmokkelde communicatieapparatuur. Bij Russia Today doet... de ex-correspondent van Al Jazeera, Ali Hashim, zijn verhaal (...): 'De zender koos duidelijk een kant in Syrië, steunde die kant en bemoeide zich met details van de Syrische revolutie. Hulp bieden aan de rebellen is wat Qatar wil, door het voorzien in communicatiehulpmiddelen. Ze werden vanuit Libanon Syrië ingesmokkeld'. (...)
Al-Jazeera is een drijvende kracht geweest achter de opstanden in Tunesië, Libië, Egypte en nu Syrië. Het valt niet te ontkennen dat ook het regime in Qatar in al die landen actief was aan de kant van de opstandelingen, met name met financiele steun voor de plaatselijke afdelingen van de Moslimbroeders. Het eerste wat Ennahda-leider Ghannouchi in Tunesië deed na de verkiezingsoverwinning van zijn partij was een bezoek aan Qatar. In Libië was (...) er logistieke steun aan de rebellen en het tv-kanaal van de rebellen was een kloon van Al Jazeera en was gebaseerd in Qatar.
Er is tijdens de hele Arabische lente ook veel kritiek geweest op Al Jazeera van de opstandelingen zelf. Het verwijt is vaak dat de zender de situatie extremer voorstelt dan ze is en zo het conflict aanwakkert. Gisteren zeiden Syrische rebellen uit een dorpje nabij Al-Qusayr [nabij de Libanese grens, in het district Homs] mij nog dat hun dorp door het leger is aangevallen nadat Al Jazeera 2 weken geleden in een uitzending had gezegd dat het een schakel was in de wapenroute voor de rebellen. De geweldloze activisten in Syrie nemen het AJ kwalijk dat het alleen focust op de gewapende rebellen en hen zo belangrijker heeft gemaakt."
http://www.nrc.nl/nieuws/2012/04/05/mediaoorlog-boven-syrie-voormalig-al-jazeera-correspondent-klapt-uit-de-school/

Julius Evola e o Tradicionalismo Russo

Julius Evola

e o Tradicionalismo Russo

 por Aleksandr Dugin

Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/

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1) A Descoberta de Evola na Rússia

Os trabalhos de Julius Evola foram descobertos nos anos 60 pelo grupo de intelectuais esotéricos e anti-comunistas conhecidos como “os dissidentes da direita”. Eles compunham um pequeno círculo de pessoas que conscientemente se negavam a participar da “vida cultural” da URSS e que, ao invés disso, tinham escolhido uma vida subterânea para si. A disparidade entre o cultura Soviética presente e a verdadeira realidade Soviética foi quase que totalmente o motivo que os levou a buscar os princípios fundamentais que poderiam explicar as origens daquela terrível idéia absolutista. Foi pela sua recusa do Comunismo que eles descobriram certos trabalhos de autores anti-modernos e tradicionalistas: acima de tudo, os livros de Rene Guenon e Julius Evola. Duas personalidades centrais animavam este grupo – o filósofo islâmico Geidar Djemal e o poeta não-conformista Eugene Golovine. Graças a eles, esses “dissidents da direita” souberam os nomes e as idéias do dois maiores tradicionalistas do século. Nos anos 70, uma das primeiras traduções de um trabalho de Evola (A Tradição Hermética) apareceu e foi distribuída dentro de um grupo, de acordo com os métodos do Samizdat [1]. No entanto, as traduções originais eram particularmente ruins em qualidade, porque elas foram feitas por amadores incompetentes muito distantes do grupo de verdadeiros intelectuais tradicionalistas.

Em 1981, uma tradução do Heidnische Imperialismus apareceu de maneira similar, como o único livro desse tipo disponível na Livraria Lenin em Moscow. Desta vez, a distribuição pelo Samizdathavia se tornado muito maior e a qualidade da tradução era muito melhor. Pouco a pouco eles distanciaram a verdadeira corrente tradicionalista do anti-comunismo, e a aproximaram do anti-modernismo, extendendo a sua negação da existência Soviética para a rejeição do mundo moderno, de maneira muito próxima à visão tradicionalista integral. Deve notar-se que as idéias tradicionalistas em questão, neste ponto particular, foram completamente removidas dos outros grupos de “dissidentes da direita”, que geralmente eram Cristãos ortodoxos, monarquistas e nacionalistas. Nesta época, Evola era mais popular entre aqueles interessados no espiritualismo em sentido amplo: praticantes de yoga, teosofistas [2], psiquistas [3], e daí em diante.

Durante a Perestroika, todos os tipos de dissidência anti-comunista se manifestaram e dos “dissidentes da direita” vieram as ideologias políticas e culturais da Direita atual: nacionalistas, nostálgicos, anti-liberais e anti-Ocidentais. Neste contexto e depois do desenvolvimente de idéias estritamente tradicionalistas, como resultado do Glasnost, os nomes de Guenon e Evola foram introduzidos no conjunto cultural russo. Os primeiros trabalhos de Evola apareceram nos anos 90, nas amplamente lidas partes da mídia conhecidamente “patriótica” ou “conservadora” e o assunto do tradicionalismo tornou-se tema de virulentas polêmicas e era um assunto importante para a Direita Russa como um todo. Periódicos como Elementy, Nach Sovremennik, Mily Anguel, Den, etc, começaram a publicar fragmentos dos escritos de Evolas, ou artigos inspirados nele, ou em que seu nome e citações apareciam.Pouco a pouco o campo “conservador” veio a ter uma estrutura ideológica que produziu cisões entre os velhos nostáligcos e monarquistas da Direita e os mais abertos não conformistas e participantes da Direita menos ortodoxa (algumas vezes chamados de “novye pravye”, em russo, pode-se estar inclinado a fazer um paralelo com a “nouvelle droite”, mas foi um fenômeno bem diferente como um todo em relação com a ND européia). Pode-se categorizar este segundo grupo de patriotas como sendo parte da “Terceira Via” ou “Nacional-Revolucionários” e por aí em diante. O ponto de separação se dá exatamente sobre a aceitação ou rejeição da idéias de Evola, ou talvez mais apropriadamente, da idéias de Evola que não poderiam ser consideradas naturalmente “conservadoras” ou “reacionárias”, como a idéia de “Revolução Conservadora” e de “Revolta Contra o Mundo Moderno”.

Recentemente, o primeiro livro “Heidnische Imperialismus” teve 50.000 cópias publicadas. Até mesmo um programa de televisão voltado a Evola foi feito por uma canal popular. Então, pode-se ver que a descoberta de Evola pela Rússia foi feita em uma escala bastante ampla. Ele, que uma vez constitui o núcleo intelectual hiper-marginal da Rússia, antes da Perestroika, se tornou agora um fenômeno político e ideológico considerável. Mas é bem claro que Evola escreveu seus livros e formulou suas idéias num contexto temporal, cultural, histórico e étnico bem diferente. Isso, então, torna-se um problema: quais partes da filosofia de Evola são relevantes para a Rússia moderna e quais partes precisam ser trabalhadas, melhoradas ou mesmo rejeitadas, nessas circunstâncias? Esta pergunta necessita de uma rápida análise comparando e contrastando o tradicionalismo sagrado de Evola e o fenômeno político estritamente russo.


2) Contra o Ocidente Moderno

Desde o começo, se torna óbvio que a rejeição do mundo mercenário profano moderno, manifestado na Civilização Ocidental durante os últimos séculos, é comum tanto para Evola quanto para a totalidade da tradição intelectual da Eslavofilia Russa. Autores russos como Homyakov, Kirievsky, Aksakov, Leontiev e Danilevsky (entre os filósofos), assim como Dostoevsky, Gogol e Merejkovsky (entre os romancistas), criticaram o mundo Ocidental quase na mesma linguagem em que o fez Evola. Pode-se observar que todos eles possuiam o mesmo ódio pelo governo dos mafiosos, ou seja, o sistema democrático moderno, e que eles consideravam este sistema como degradação espiritual e profanação total. Similarmente, pode-se observar o mesmo diagnóstico para essas doenças do mundo moderno - a Franco-Maçonaria Profana, o judaismo depravado, o avanço da plebe, a deificação da “razão” – em Evola e na cultura “conservadora” russa. Obviamente, a tendência reacionária aqui é comum a ambos, então a crítica de Evola do Ocidente está totalmente de acordo com, e é aceitável para a linha de pensamentos do conservadorismo russo.

Mais freqüentemente do que não [freqüentemente], pode-se ver que as críticas de Evola estão mais proximamente relacionadas com a mentalidade russa do que com uma mais amplamente européia – o mesmo tipo de generalização, a invocação freqüente de objetivos mitológicos e místicos, a noção distinta de que o mundo espiritual interno é organicamente separado das realidades imediatas modernas da perversão e do desvio. Em geral, a tradição conservadora russa de hodiernamente explicar eventos históricos num sentido mitológico, é de alguma forma, obrigatória. O apelo ao sobrenatural/irracional, aqui, está em perfeita congruência com o pensamento russo, que faz da explicação racional a exceção, e não a regra.

Pode-se notar a influência que os conservadores russos exeerceram em Evola: nos seus trabalhos ele freqüentemente cita Dostoevsky, Merejkovsky (quem ele conhecia pessoalmente) e muitos outros autores russos. Na outra mão, as frequëntes referências que ele faz à Malynsky e Leon de Poncins carregam parcialmente a tradição contra-revolucionária tão típica do Ser europeu. Pode-se citar também as referências que ele faz a Serge Nilus, o compilador do famoso “Protocolos dos Sábios de Sião”, que Evola reeditou na Itália.

Ao mesmo tempo, fica claro que Evola conhecia relativamente pouco sobre os meios conservadores russos, e, de fato, ele nem mesmo estava particularmente interessado neles, devido à sua idiossincrasia anti-cristã. A respeito da tradição Ortodoxa ele fez apenas alguns insignificantes comentários. Mesmo assim, a semelhança entre a sua posição sobre a crise do mundo moderno e o anti-modernismo do autores russos é dada, amplamente, pela comunidade de reações orgânicas – Grandes Homens e “indivíduos”, no caso de Evola e heróis, no caso dos russos. Mas graças à espontaneidade das convergências anti-modernas, a gravidade dos desacordos de Evola, se tornam muito mais interessantes e muito mais críticos.

Em qualquer nível, as interpretações de Evola se encaixam perfeitamente no quadro de ideologia moderna da “novye pravye”, [isso ocorre] tão amplamente, que ela [novye pravye] agrega mais à sua visão da degradação da modernidade, aplicando, algumas vezes, as suas idéias [de Evola] mais globalmente, mais radicalmente e mais profundamente. Deste modo, as teorias de Evola são muito bem aceitas na Rússia moderna, onde o anti-Ocidentalismo é um fator político-ideológico extremamente potente. 

3) Roma e a Terceira Roma

Um aspecto particular do pensamento de Evola é sentido pelos russos como de uma extrema e iminente importância: sua exaltação do Ideal Imperial. Roma representa o ponto principal da visão-de-mundo de Evola. Este poder sagrado vivente, que se manifestou por todo o Império era, para Evola, a própria essência da herança do Ocidente tradicional. Para Evola, as ruínas do Palácio de Nero e dos prédios romanos eram como um testamento direto de uma santidade orgânica e física, da qual a integridade e continuaidade fora aniquilada pelo “castelo” kafkiano [4] do Vaticano Católico Guelfo.

A sua linha de pensamento Guibelina era clara: Imperium contra a Igreja, Roma contra o vaticano, a sacralidade iminente e orgânica contra as abstrações sentimentais e devocionais da fé, implicitamente dualista e Farisaica[5].

Mas uma linha de pensamento similar, aparentemente, é naturalmente sentida pelos russos, de quem o destino histórico sempre esteve profundamente ligado ao [Ideal] do Imperium. Esta noção estava dogmaticamente enraizada na concepção Ortodoxa da filosofia staret[6] – “Moscow: A Terceira Roma” – Deve-se tomar nota que a “Primeira Roma” nesta interpretação cíclica Ortodoxa não era a Roma Cristã, mas a Roma Imperial, porque a “Segunda Roma” (ou “a Nova Roma”) era Constantinopla, a capital do Império Cristão. Então a mesma idéia de “Roma” mantida pelos Ortodoxos Russos, corresponde ao entendimento de sacralidade como a importância daquilo que é Sagrado e assim, a necessária e inseparável “sinfonía” entre autoridade espiritual e o reino temporal. Para a ortodoxia tradicional, a separação católica entre o Rei e o Papa é inimaginável e beira a blasfêmia, este conceito é até mesmo chamado de “heresia Latina”.

Mais uma vez, pode-se ver a perfeita convergência entre o dogma de Evola e o pensamento comum da mentalidade conservadora russa. E outra vez mais, a clara exaltação espiritual do Imperium nos livros de Evola, é de inestimável valor para os russos, pois isto é o que eles veem como a sua verdadeira identidade tradicional. O “imperialismo sinfônico”, ou melhor, “Imperialismo Guibelino”.

Existe um outro detalhe importante que merece ser mencionado aqui. É sabido que o “Autor do Terceiro Reich” Artur Müller van den Bruck, foi profundamente influenciado pelos escritos de Fiodor Dostoievsky, para quem o conceito de “Terceira Roma” era vitalmente significativo. Pode-se ver mesma visão escatológica de van den Bruck do “Último Império”, nascido da convergência metafórica entre as idéias dos montanistas paracléticos[7] e as profecias de Joachim de Flora[8].

Van den Bruck, de quem as idéias eram algumas vezes citadas por Evola, adaptou o seu conceito de “Terceira Roma” da tradição Ortodoxa russa, e aplicou na Alemanha, onde ele foi ulteriormente trabalhado espiritual e socialmente pelos Nacional-Socialistas. Um fato interessante é que Erich Müller, o protegé de Nikisch[9], que fora grandemente inspirado por van den Bruck, comentou certa vez que o Primeiro Reich havia sido Católico[10], o Segundo Reich, Protestante[11], o Terceiro Reich deveria ser, exatamente, Ortodoxo!

Mas o próprio Evola participou amplamente nos debates intelectuais dos círculos revoluionários-conservadores alemães (ele era membro do “Herrenklub” de von Gleichen, que era a continuação do “Juniklub” fundado por van den Bruck), onde assuntos similares eram discutidos de uma maneira muito vívida. Agora é fácil ver outra maneira em que a mentalidade conservadora russa está ligada às teorias de Evola. Obviamente, não é possível dizer que as suas idéias, nesses problemas particulares, eram idênticas, mas ao mesmo tempo, existem conexões extraordinárias entre os dois que podem ajudar a explicar a assimilação das idéias de Evola para a mentalidade russa, que possui visões muito menos “extravagantes” do que aquelas pertencentes à Europa Conservadora Tradicional, que é majoritariamente Católica e Nacionalista nos dias de hoje, e raramente Imperialista.

***

[1] Samizdat foi um sistema na antiga URSS em que os livros oficialmente “impermissíveis” circulavam pelo país; estes eram cópias de cópias e não tinham boa qualidade, mas eles tendiam a chegar ao seu objetivo.

[2] Um escola religiosa/filosófica fundada pela ocultista russa Helena Blavatsky.

[3] Um conceito teosófico relacionado à todos os fenômenos mentais; C.G. Jung também o discutiu ocasinalmente.

[4] Para aqueles que não estão familiarizados com o trabalho de Kafka, esta é uma referência para o seu livro chamado “O Castelo”, que é sobre um homem que contrai o que deveria ser uma trabalho relativamente fácil num lugar distante, fazendo o levantamento das terras de um nobre local, mas que não consegue começar ou muito menos completar o seu trabalho, devido à burocracia imposta pelo seu próprio empregador (que ele nunca conhece pessoalmente, apenas por um representante ou representante de um representante) e que se frustra muito pelo fato de que o imenso e opressivo castelo do Conde pode ser visto de qualquer parte da cidade, mas ele não consegue nunca ir até lá para começar a sua tarefa. Obviamente, esta é uma acusação metafórica contra a totalidade do sistema judaico-cristão e como ele se relaciona com uma aparentemente impossível salvação. Da mesma forma, “Guelfo” se refere à uma coalisão alemã/italiana da Idade Média que apoiava a casa real de Guelfo contra a Dinastia Imperial Alemã dos Guibelinos, que era hostil ao Papa e ao Catolicismo.

[5] Referete aos Fariseus, hipocrisia, duplicidade, falsidade, fingimento.

[6] Os starets eram conselheiros espirituais, mas não sacerdotes: Rasputin poderia ser considerado como um.

[7] Os montanistas foram os precursors das seitas pentecostais modernas, i.e., aqueles que acreditam em revelações divinas pessoais e falar em linguas diferentes.

[8] de Flora era o Abade de Corazzo que completou um ensaio bastante presciente sobre a “era da razão”, por volta de 1200, onde ele escreveu “no novo dia, homens não dependerão da fé, porque tudo será fundamentado no conhecimento e na razão.”

[9] Ernst Nikisch, um nacionalista alemão da mesma época.

[10] o Sacro Império Romano-Germânico

[11] a Prússia sob o governo de Frederico, o Grande

lundi, 09 avril 2012

Ce que nous devons à la Rome antique

Lucien Jerphagnon, l'historien espiègle d'une profondeur à la portée de tous.

Ce que nous devons à la Rome antique

 
L'Empereur Julien

Que devons-nous à Rome et à la Grèce antique ? « Tout, bien sûr. Enfin presque… » Telle fut la réponse de Lucien Jerphagnon à la question que je lui avais posée dans le premier numéro de La Nouvelle Revue d’Histoire en 2002. Cette réponse fut suivie de beaucoup d’autres jusqu’à la disparition de ce grand historien, helléniste et latiniste, l’an passé.

Les autres savants qui nous ont livré leurs connaissances sur Rome l’ont toujours fait en séparant hermétiquement l’histoire (les hommes, les hauts faits, les batailles) et la philosophie (les chemins de la pensée). L’un des apports rares de Lucien Jerphagnon est d’entrelacer ces deux domaines arbitrairement séparés. D’où le regard total qu’il délivre sur l’histoire romaine. Il montre l’évolution des représentations d’une époque à une autre. Car tout changeait constamment dans ce vaste univers comme dans le nôtre.

De Romulus, fondateur mythique de la Ville en 753 avant notre ère, jusqu’à la déposition en 476 du dernier empereur d’Occident, l’évanescent Romulus Augustule, s’écoulent plus de mille deux cents ans. Plus d’un millénaire d’une histoire sans équivalent au monde, pas même en Egypte ancienne, ni en Perse, en Inde ou en Chine. C’est à la découverte de ce continent historique sans égal que nous convie avec un entrain irrésistible Lucien Jerphagnon.

Avant sa disparition (16 septembre 2011), il avait prévu de léguer à la postérité le gros et passionnant volume de la collection « Bouquins », qui vient de paraître et que l’on ne se lassera pas de relire. Sous le titre Les armes et les mots, ce volume réunit trois ouvrages en un : Histoire de la Rome antique ; Les Divins Césars : Idéologie et pouvoir dans la Rome impériale ; enfin, Histoire de la pensée : D’Homère à Jeanne d’Arc (autrement dit, de la Grèce antique au Moyen Age).

Dans une préface à ce volume, Jean d’Ormesson, ami de longue date de Lucien Jerphagnon, estime que s’il devait définir celui-ci en deux mots, il dirait « qu’il était amusant et profond ». C’est en effet bien résumer ce que fut Lucien Jerphagnon, universitaire à l’immense savoir, « toujours prêt à s’amuser et à amuser les autres ». Il apportait une rigueur extrême à ses travaux savants et à l’écriture de ses livres de haute vulgarisation, sans jamais se prendre au sérieux. Jerphagnon pensait que l’on écrit pour être compris et pas seulement des érudits. Sur les sujets les plus graves ou complexes, ses livres continuent de poser un regard qui n’était dupe de rien ni de personne. Une seule fois peut-être, l’émotion admirative l’emporte sur l’ironie souriante, quand il conclut les pages très denses qu’il consacre au jeune empereur Julien (360-363) auquel il refuse l’attribut d’ « apostat » (Le prince qui s’était trompé d’époque).

Qui furent vraiment les hommes rudes et entreprenants, fondateurs de Rome, puis contemporains des Scipion, d’Octave Auguste, Tibère, Trajan, Marc Aurèle ou plus tard Constantin et Julien ? Et que pensait-on à leur époque de ces grands personnages divinisés par nécessité politique ? Et que pensaient-ils eux-mêmes de Rome, de leur pouvoir et du monde dans lequel ils vivaient ? Dans les réponses à ces questions traitées comme par un contemporain lucide écrivant pour ses amis, et non un universitaire d’aujourd’hui, on discerne ce qu’il y a d’unique chez Lucien Jerphagnon, à la fois véritable historien, informé de tout, mais également connaisseur inégalé de la philosophie antique, puis de la curieuse religion instaurée non sans mal ni conflits cruels par les disciples et successeurs du divin Christos.

Simultanément, paraît aux éditions Albin Michel un ouvrage posthume de Lucien Jerphagnon, Connais-toi toi-même… et fais ce que tu aimes, ce qui a une autre allure et un autre sens que « fais ce qui te plais ». Il s’agit d’un florilège sur l’Antiquité grecque et romaine, « pour adoucir le cours du temps et réjouir ses amis ». On y retrouve les chroniques que le « vieux Jerph » avait données à La NRH, parmi un grand nombre d’autres textes et d’inédits, sources de connaissances et de réflexions inépuisables.

 

Dominique Venner

Notes

  1. Lucien Jerphagnon, Les armes et les mots, Robert Laffont, Bouquins, 1216 p., 32 €. Du même auteur, Connais-toi toi-même… et fais ce que tu aimes, Editions Albin Michel, 380 p., 20 €.
  2. En illustration, une effigie du jeune empereur Julien qui régna de 360 à 363. Une figure pathétique superbement restituée par Lucien Jerphagnon dans le volume de la collection Bouquins (p. 632-653).

Wir sitzen auf einem Pulverfaß!

Wir sitzen auf einem Pulverfaß!

An täglichen  Konsumterror, Gesinnungsterror, Genderextremismus usw. haben wir uns anscheinend schon gewöhnt, gelegentlicher islamistischer Terror vermag uns aber noch zu schocken. Bis wir uns eines Tages auch daran gewöhnt haben?                                              

Als ich 1996 in meiner Eckartschrift „Der Vormarsch des Islam“  De Gaulle mit den Worten zitierte, „wer glaube, man könne die Muslime integrieren, habe das Hirn eines Kolibri“, war das Thema Islam noch nicht so aufdringlich in den Schlagzeilen wie heute. Eigentlich tat De Gaulle dem kleinen Vogel unrecht, denn ein Kolibri weiß ja immerhin sein Nest zu schützen und für Nachwuchs zu sorgen. Was  bekanntlich einigen Einwanderergruppen auch nicht ganz fremd ist.

Nun, es ist gewiß längst schlimmer gekommen als De Gaulle es  möglicherweise befürchtet hatte. Aktuelles Stichwort: Toulouse. Nach der Ausschaltung des Attentäters wurden, wie schon im Fall Breivik, wieder viele gute Ratschläge ausgeteilt. In Frankreich wie auch in den Nachbarländern.                                                                                                                       

Dabei wären ja  nur zwei zielführend. Der eine ist aber leider nicht umsetzbar, denn er hätte  eine Transplantation von Politikerhirnen zum Inhalt. Der andere liefe, neben einer Volk und Nation wieder bejahenden Politik, darauf hinaus, das Gros der nicht anpassungswilligen oder –fähigen Einwanderer, und das sind nicht nur Türken, auf humane Weise wieder in ihre Heimatländer zu repatriieren. Das wäre machbar, setzte aber eben das zuerst Genannte voraus. Also alles Hoffen umsonst?                                            

Zumindest solange nicht eine Partei auftritt, die zwar revolutionär gestimmt ist, aber besonnen und mit dem richtigen Augenmaß Politik für die Sache des Volkes macht und sich energisch durchsetzt.

Mit weiteren Integrationsmaßnahmen und „Wien-Charta“-Theater jedenfalls wird man das Problem längerfristig nicht in den Griff bekommen. Den Politikern geht es nur darum, ihre Mandate und Pfründe bis zur nächsten Wahl durch Verabreichung von Beruhigungspillen zu sichern. Ändern wird sich nichts. Auch nicht durch politisches Kreuzrittertum.  

Einige der fremden Ethnien – wie die türkische – haben ja bereits Wurzeln geschlagen und pflanzen hier ihre eigenen Welt- und Lebensmodelle dynamisch fort, so daß mit gemütlicher „Good will“-Politik und erhobenem Zeigefinger allein die Probleme eher zunehmen werden.                                                                                                                               

Es sind Subkulturen und Parallelgesellschaften entstanden, die früher oder später für unser autochthones Gemeinwesen lebensbedrohlich werden könnten und stärkeren Widerstand, vor allem auch mehr Verstand von Gutmenschenseite, als bisher erfordern würden.

Man mag einen Wirrkopf wie Mohammed Merah aus dem Verkehr ziehen, aber solche wachsen verständlicherweise nach wie die Pfifferlinge vulgo Eierschwammerl. Und zwar auf einem Humus, den Umerziehung, Indoktrinierung und falsch verstandene Menschenrechte ermöglichen.                                                                                                        

“Helden”-Tat und  “Märtyrer”-Tod des jungen Algeriers haben enorme Symbolkraft über den Einzelfall hinaus. Daher vermag, wie es der französische Denker Jean Baudrillard formuliert, „alle sichtbare Macht gegen den zahlenmäßig verschwindenden, doch symbolischen Tod einiger Individuen nichts auszurichten“.                                                       

In diesem Symbolischen liegt nämlich die ganze Sprengkraft, die dieses morsche abendländische Gefüge noch gehörig erschüttern und sich, manchen Attentätern gleich, am Ende selbst in die Luft jagen könnte. Was allerdings kinderlose europäische “Singles“ ziemlich kalt lassen dürfte.

Geopolitica della droga

Andrea VIRGA:

Geopolitica della droga

 
Ex: http://andreavirga.blogspot.com/

Pubblico qui due articoli, scritti nell'ottobre 2010, sul rapporto tra storia contemporanea, geopolitica e droga. Il primo riguarda gli oppiacei, mentre il secondo parla della cocaina. Erano stati pubblicati su SinergieAlternative, e l'anno successivo, brevemente, su Stato & Potenza. Inoltre, avevo tenuto una conferenza sull'argomento presso la sezione pisana di Forza Nuova. Li ripresento ora, facendo però presente che alcuni dati sono da aggiornare, e che, in generale, potrebbero contenere varie imprecisioni. Nondimeno ritengo che possano suscitare ancora interesse.


Le nuove Guerre dell’Oppio

In generale, le analisi economiche e geopolitiche classiche sottovalutano spesso il ruolo del narcotraffico nell’economia globalizzata, dimenticando che si tratta di una delle attività commerciali più redditizie, e che coinvolge non solamente la criminalità organizzata, ma influenza pesantemente l’economia d’intere regioni, e soprattutto riguarda come attori gli stessi Stati, attraverso i servizi segreti, e numerose grandi aziende che servono a riciclare gli ingenti guadagni di questi traffici. Nel corso degli ultimi due secoli, gli stupefacenti sono stati importanti al punto che vere e proprie guerre sono state combattute per il loro controllo, di cui le più famose furono le cosiddette Guerre dell’Oppio contro tra potenze coloniali e Cina. Tuttavia, queste non furono le sole: anzi, gli ultimi decenni del nostro tempo hanno visto crescere i conflitti per il controllo degli oppioidi. È bene quindi fare un po’ di storia e ripercorrerne lo svolgimento.

Questa droga, ricavata dal papavero da oppio, già nota fin dall’antichità a fini rituali e medicinali, si era diffusa nel corso dell’età moderna, come sostanza ricreativa, a partire dall’India, dalla Persia e dall’Impero Ottomano, fino in Europa e soprattutto in Cina, dove già nel XVII secolo era ampiamente diffuso presso tutte le classi sociali. La proibizione dell’oppio nel 1729 – poi rafforzata nel 1799 – aveva dato vita a un lucroso contrabbando. Nel frattempo, dopo la Guerra dei Sette Anni, la British East India Company aveva assunto il controllo degli Stati indiani e il monopolio della produzione d’oppio nel Bengala, che introdusse su ampia scala a costo di causare una terribile inflazione dei costi agricoli, che portò alla morte per fame di 10 milioni di persone nella Carestia del Bengala (1770). L’oppio era usato dagli Inglesi come merce di scambio per l’acquisto dei prodotti cinesi, per via del suo basso costo di produzione e della sua elevata richiesta sul mercato cinese. I protagonisti di questo traffico furono la British East India Company e la famiglia Sassoon, ebrei sefarditi di Baghdad, che fondarono un impero commerciale in India. A partire dal XIX secolo s’erano poi aggiunti i Francesi con l’oppio dell’Indocina, gli Olandesi dall’Indonesia, i Portoghesi dall’India occidentale, e gli Statunitensi con l’oppio turco. L’imperatore Daoguang, sotto il cui regno, si era arrivati a 2 milioni di Cinesi oppiomani e all’importazione di 180 t annue, cercò di reagire distruggendo un importante carico a Canton nel 1838.

La reazione occidentale non si fece attendere: la Prima Guerra dell’Oppio (1840–1842) costò alla Cina Hong Kong, 21.000.000 $ in riparazioni e circa 20.000 morti. Nondimeno, allla fine degli anni ’50, nel mezzo della sanguinosissima Rivolta Taiping (20 milioni di morti), la dinastia Qing rifiutò di soggiacere alle richieste di Francia, Stati Uniti e Regno Unito di legalizzare il traffico d’oppio, aprire il mercato alle merci occidentali ed esentarle dai dazi interni. Tra il 1856 e il 1860 infuriò la Seconda Guerra dell’Oppio, che si concluse con la vittoria delle potenze occidentali (le suddette tre più la Russia) e l’accettazione delle loro imposizioni economiche e territoriali: legazioni diplomatiche straniere a Pechino, diritto di accesso al Paese per gli stranieri, estensione dell’accesso dei mercanti stranieri a dieci altri porti e al Fiume Azzurro, la riva sinistra dell’Amur alla Russia (dove fu fondata Vladivostok). Il risultato fu che l’importazione aumentò fino a raggiungere le 6700 t nel 1879, mentre iniziava una massiccia produzione interna. Nel 1906, la Cina produceva 35.000 t di oppio (l’85% della produzione mondiale) e ne consumava 39.000 t; si stima, infatti, che fino a un terzo della popolazione facesse uso di oppio (siamo nell’ordine di grandezza delle decine di milioni). Questa piaga sociale conobbe una flessione, a inizio ‘900, con la cessazione del commercio britannico, dietro le pressioni di missionari e associazioni proibizioniste, e gli sforzi del nuovo governo repubblicano, per poi riprendere durante la guerra civile (1916–1949) come mezzo di finanziamento per i vari signori della guerra.

Nel frattempo, da un derivato medicinale dell’oppio – la morfina – era stata ricavata la diacetilmorfina, sintetizzata nel 1874 da un chimico inglese (C. R. Alder Wright) e commercializzata, col nome di eroina (dal tedesco heroisch – “eroica”), dalla casa farmaceutica tedesca Bayer nel 1895 come farmaco da banco contro la tosse, alternativo alla morfina, in quanto non avrebbe dovuto generare dipendenza. In realtà, l’eroina si rivelò molto più potente (circa 2 volte la morfina e 20 volte l’oppio) e più additiva, andando a sostituire l’oppio come droga di consumo. In Cina, negli anni ’20, le Triadi costruirono raffinerie (soprattutto a Tientsin e Shanghai) e cominciarono a esportare eroina verso gli Stati Uniti, attraverso le comunità sinoamericane. Solo con la Seconda Guerra Mondiale, questo flusso s’interruppe temporaneamente, mentre anche i Giapponesi, che fino ad allora avevano represso il consumo d’oppio a Taiwan, cercarono di avvalersi di questa risorsa economica per finanziare il loro sforzo bellico. Con la fine della guerra civile e la vittoria del Partito Comunista, Mao Tse Tung, con l’internamento degli oppiomani in campi di rieducazione, stroncò il consumo di oppio (ancora oggi appena 1 cinese su mille è tossicodipendente).

Contemporaneamente, negli anni ‘30, era stata sviluppata un’altra centrale di produzione d’eroina, a partire dall’oppio dell’Indocina (allora colonia francese) e della Turchia (attraverso la Siria e il Libano francesi) raffinato a Marsiglia e in Provenza, sotto il controllo della mafia corsa e dei clan marsigliesi – la cosiddetta French Connection (in realtà, erano tutti d’origine italiana), che riforniva prevalentemente gli Stati Uniti d’America, già allora i maggiori consumatori di droga. Durante la guerra, la mafia corsa aveva collaborato con i servizi americani e francesi per preparare lo sbarco in Provenza (Operation Dragoon) e tenere fuori dall’area i maquis (partigiani) comunisti. Nello stesso modo aveva agito la mafia siciliana e siculoamericana per favorire lo sbarco alleato nel luglio 1943 e garantire l’ordine nell’isola, specie a fronte delle rivendicazioni sociali, anche con vere e proprie stragi come quella di Portella delle Ginestre (1 maggio 1948). Così, nel dopoguerra, Cosa Nostra, affiancata dalla mafia ebraicoamericana di Meyer Lanski, cooperò quindi con gli italofrancesi nel traffico di eroina verso gli Stati Uniti e l’Europa. La French Connection ebbe termine solo all’inizio degli anni ’70, dopo un giro di vite da parte turca e francese. Oggi, Francia e Turchia, insieme ad India, Australia, Spagna e Stati Uniti, dominano il mercato dell’oppio legalizzato (cioè destinato all’industria farmaceutica), e di cui l’Organizzazione Mondiale per la Sanità lamenta una drammatica sottoproduzione rispetto a quelle che sarebbero le reali necessità mediche.

Intanto, anche l’oppio dell’Indocina era passato sotto il controllo americano, dal momento in cui la Francia aveva perso queste colonie (1954). La CIA, subentrata ai servizi francesi (SDECE), si era già servita del traffico di eroina a partire dalla regione montagnosa del Triangolo d’Oro (dove era ormai concentrata la maggior parte della produzione d’oppio mondiale) – tra Cina, Birmania, Thailandia, Laos e Vietnam – per finanziare i nazionalisti di Chiang Kai Shek durante la guerra civile cinese, e poi una serie di guerriglie anticomuniste in Birmania, Laos e Vietnam. Gli intermediari del traffico con gli Stati Uniti rimanevano soprattutto le Triadi cinesi di Hong Kong e del Sud-Est Asiatico. Anche per conservare il controllo sull’area, fu necessario intervenire: prima, finanziando i Francesi, poi con il supporto al Vietnam del Sud, e infine direttamente con il bombardamento (anche con armi chimiche) del Vietnam del Nord, del Laos e della Cambogia (favorendo così indirettamente l’ascesa al potere di Pol Pot), e la guerra aperta (1965 – 1975). È stimato che tra il 1940 e il 1980, nella sola Indocina orientale (Cambogia, Laos, Vietnam) siano morte di guerra e di repressione almeno 6-7 milioni di persone. Con la guerra, il traffico di eroina aumentò, attraverso la compagnia aerea Air America (gestita dalla CIA) e addirittura contrabbandando droga nelle bare dei soldati americani morti (“Cadaver Connection”). Dei combattenti americani in Vietnam, inoltre, dal 10 al 20% era ormai divenuto eroinomane. Oggi, l’oppio coltivato nella Birmania occidentale (secondo Paese produttore al mondo), controllato dai guerriglieri dell’Esercito dello Stato Unito di Wa (finanziato dalla Cina), è raffinato in Thailandia e rivenduto in tutto il Pacifico a partire da Bangkok.

I tardi anni ’70, con lo smantellamento della French Connection, le lotte di potere all’interno di Cosa Nostra e la vittoria dei comunisti in Vietnam e Laos, avevano visto l’ascesa della produzione nella cosiddetta Mezzaluna d’Oro (Iran, Pakistan, Afghanistan), e in particolare in quest’ultimo Stato. Quando l’URSS invase l’Afghanistan, si trovò impantanata in una durissima guerriglia da parte dei mujaheddin dei vari signori della guerra locali (sostenuti dalla CIA), i quali (dopo il ritiro sovietico nel 1989) continuarono a combattersi tra loro, finché nel 1996 i Taliban (studenti coranici d’etnia Pashtun) presero il potere. Questa situazione di guerra civile aveva naturalmente fatto sì che le varie fazioni si finanziassero con il traffico di oppio, sia verso la Russia – attraverso l’Asia Centrale –, sia verso l’Europa, attraverso l’Iran, la Turchia e i Balcani. Sono, infatti, gli anni ’80 a vedere la grande diffusione dell’eroina sui mercati europei. Allo stesso tempo, agli ingenti guadagni, si sommavano i danni sociali causati dall’eroina in Unione Sovietica e in Iran, potenze nemiche degli Stati Uniti. Nel 1999, l’Afghanistan produceva ormai 4500 t d’oppio (circa il 70% della produzione mondiale), specialmente nelle pianeggianti regioni meridionali di Helmand e Kandahar, da sempre roccaforte dei Taliban. D’altra parte, l’Alleanza del Nord, maggiore forza d’opposizione al regime, dai suoi santuari di Herat e di Faizabad, controllava le principali vie di contrabbando verso Iran, Russia e Cina.

Tuttavia, nel luglio del 2000, il comandante dei Taliban, il mullah Mohammed Omar, emise una fatwa contro la coltivazione dell’oppio, ordinandone la distruzione, al punto che l’anno successivo la produzione era calata del 91%. Nel giro di pochi mesi, “casualmente” vi fu l’Attentato dell’11 settembre al World Trade Center, attribuito ad Al Qaeda, e l’Afghanistan fu accusato di ospitarne i vertici – primo fra tutti l’imprendibile sceicco Osama Bin Laden (già miliardario saudita socio d’affari della famiglia presidenziale americana Bush e comandante dei mujaheddin antisovietici addestrati dalla CIA). Meno di un mese più tardi (7 ottobre 2001), i piani d’invasione dell’Afghanistan (già realizzati a inizio 2001) furono portati avanti, con l’offensiva delle forze dell’Alleanza del Nord massicciamente supportata e accompagnata dall’invasione degli Stati Uniti, e di contingenti di altri 45 Paesi (tra cui Francia, Germania, Regno Unito, Italia). Il 9 novembre, le forze dell’Alleanza del Nord conquistarono Mazar-e-Sharif, il 12 novembre Kabul cadde, seguita il 26 novembre da Kunduz e il 7 dicembre da Kandahar, finché il 17 dicembre si concluse la battaglia di Tora Bora, ultima roccaforte di Al Qaeda. Ciononostante, né Bin Laden né Omar furono mai catturati, e la guerriglia dei Taliban persiste fino a oggi (si stima finora la morte di 50-70.000 afghani, oltre a 2500 occidentali).

L’unico risultato dell’intervento NATO in Afghanistan – visto il fatto che il nuovo governo, oltre ad essere controllato dalle forze d’occupazione, ha scarso controllo su buona parte delle aree popolate dai Pashtun (cioè gli Afghani veri e propri), e che addirittura il potere dei Taliban si estesa nelle aree tribali Pashtun nel Pakistan occidentale, contribuendo a destabilizzare ancor più questo Paese – è stato quello di riportare l’Afghanistan in testa alla classifica dei Paesi produttori d’oppio. 40.000 soldati occidentali montano la guardia ai campi di papavero, disputandone il controllo ai Taliban (non è un caso che le offensive annunciate dai media occidentali coincidano con la stagione del raccolto). La coltivazione di papaveri da oppio riprese e si espanse in altre aree del Paese, arrivando a un picco di 193.000 ha nel 2007, di contro agli 88.000 ha del 1999. Il raccolto dell’anno 2002 diede 3400 t d’oppio, che salirono a 3500 t nel 2003, 4200 t nel 2004, 4100 t nel 2005, 5600 t nel 2006, fino a un picco di 8000 t nel 2007 (93% della produzione mondiale) per scendere a 7600 t nel 2008 e 6900 t nel 2009 (e si prevede un’ulteriore calo per quest’anno, dovuto anche a una cattiva annata). Si tratta di cifre ben superiori al fabbisogno annuo d’oppioidi, stimato intorno alle 5.000 t, il che significa che parte di questa produzione viene immagazzinata.

L’oppio risulta, infatti, ampiamente conveniente per i contadini afghani, i quali ricavano da ogni ettaro un profitto 17 volte superiore rispetto al grano (circa 4600 $ per ettaro: dieci volte il PIL medio procapite). Come risultato, circa il 4% del terreno coltivabile e 3,3 milioni di afghani (su 28 milioni di abitanti), sono coinvolti in questa produzione. Se un quarto dei profitti va ai coltivatori, il resto va a finanziare politici corrotti, signori della guerra, i Taliban insorti e i trafficanti di droga. Questo denaro (4 miliardi $ – il 53% del PIL afghano – nel 2007) è riciclato principalmente tramite il sistema islamico di trasferimento di denaro, l’hawala. Dubai è uno dei maggiori centri, il che ha contribuito alla sua ricchezza, nonostante l’assenza di petrolio sul suo territorio. Queste cifre poi lievitano man mano che la merce passa di mano: dai 2,50 $ per un grammo di eroina in Afghanistan si arriva a prezzi all’ingrosso di 8 $ in Turchia, 12 $ in Albania, 22 $ in Germania, 33 $ in Russia – cifre che, al dettaglio, con il “taglio” della droga con altre sostanze, possono anche decuplicare (a parità di prezzo, un grammo di “eroina” spacciata, può contenere appena il 10% di sostanza pura). Il consumo d’oppio in Afghanistan riguarda 400.000 persone, soprattutto rifugiati rientrati da Iran e Pakistan.

L’oppio afghano è venduto non solo sui mercati europei, russi e mediorientali, ma anche quello statunitense (il più grande al mondo), cui basta solo in parte la produzione di eroina impiantata dai cartelli latinoamericani in Colombia e nella regione messicana di Sinaloa. Pare infatti che l’85% dell’eroina afghana sia trasportata fuori dal Paese attraverso i cargo militari statunitensi, addirittura servendosi delle bare dei soldati morti. Le destinazioni sono le basi militari negli Stati Uniti, così come in Pakistan, Tajikistan o direttamente in Kosovo. Ci sono poi le vie di traffico terrestri. La “rotta settentrionale” (detta “Via della Seta”) porta l’eroina afghana attraverso gli Stati ex-sovietici dell’Asia centrale fino in Russia e nell’Europa Orientale, lasciando una scia di morte e tossicodipendenza (solo in Russia, circa 3 milioni di eroinomani, e 30.000 morti ogni anno). La “rotta meridionale”, passa attraverso il Pakistan e l’Iran, con l’aiuto delle bande di guerriglieri Baluchi, che combattono il regime iraniano (sostenuti dalla CIA), finanziandosi con il contrabbando di droga. L’Iran è il Paese con il più alto tasso di consumatori di oppiacei (2,8% della popolazione: oltre 2 milioni di persone), e dopo la Rivoluzione Islamica ha sempre cercato di schiacciare il narcotraffico, a partire da Khomeini (con Ahmadinejad c’è stata una ripresa della politica di tolleranza zero, dopo la tattica più distensiva di Khatami). In questa vera e propria guerra, condotta su 1800 km di confine desertico e montuoso, muoiono ogni anno molti poliziotti.

Proseguendo su questa rotta, s’incontrano altre organizzazioni militari, sostenute dagli Stati Uniti, come fattori di destabilizzazione dell’area e come attori del narcotraffico: i Ceceni controllano il traffico attraverso il Caucaso, e la mafia cecena – che ha il controllo dell’eroina – è una delle più potenti in Russia; i guerriglieri curdi, tra Iran, Turchia e Iraq; e soprattutto i guerriglieri albanesi tra Albania, Macedonia e Serbia. Qui, è stato realizzato, dopo l’intervento contro la Serbia nel 1999 – con la susseguente occupazione militare e la pulizia etnica della popolazione serba, fino ad arrivare all’indipendenza il 17 febbraio 2008 –, un vero e proprio narcostato: il Kosovo, riconosciuto da una minoranza di Paesi allineati con Washington, e governato direttamente dai cartelli della droga kosovari, che approfittano delle loro ramificazioni in Germania (erano stati proprio i servizi tedeschi ad addestrare i guerriglieri albanesi), dove spacciano eroina e riciclano il denaro in attività come la prostituzione (qui legale). Da qui, i collegamenti con l’Italia sono tenuti dalla ‘ndrangheta che ha importanti ramificazioni in Germania. Nell’Unione Europea, si contano circa 1,5 milioni di eroinomani e 7000 morti l’anno.

In conclusione, si è visto come sostanze apparentemente non solo non necessarie (se si esclude l’uso medicinale), ma dannose come l’oppio e l’eroina (eppure si stimano tra 15 e 21 milioni di consumatori in tutto il mondo) siano state al centro di grandi traffici economici ed importanti eventi politici e bellici, durante tutta l’epoca contemporanea, con un giro d’affari che, nel caso dell’eroina, arriva a 150 miliardi $ annui. Le organizzazioni criminali coinvolte in questo traffico sono, allo stesso tempo, legate a soggetti politici come Stati e organizzazioni militari, i quali si servono dei proventi della droga per finanziare azioni di guerra. Dominano il quadro gli Stati Uniti, prima potenza al mondo, le cui guerre più famose degli ultimi decenni (Vietnam, Kosovo, Afghanistan) sono state volte proprio a controllare il narcotraffico: sono queste le nuove Guerre dell’Oppio, fatte sulle spalle delle popolazioni coinvolte. Occorre dunque capire e tenere a mente come il traffico di droga sia perfettamente integrato nel sistema economico e politico del capitalismo globale, non meno di altre merci come il petrolio o l’uranio.

Rum e Cocaina

Dopo aver esaminato la storia politica dell’oppio e dell’eroina, passiamo ora ad occuparci di altre sostanze stupefacenti il cui traffico è una voce importante del commercio internazionale. In primo luogo, la cocaina, una sostanza raffinata dalle foglie di coca. Queste erano coltivate e utilizzate a scopo medicinale dalle popolazioni indigene delle Ande centrosettentrionali, dove ancora oggi sono consumate abitualmente (per masticazione o infusione), in quanto i loro effetti sono blandamente stimolanti. Viceversa, la cocaina (di per sé un alcaloide) costituisce il principio attivo della coca, ed è (se pura) 100 volte più potente. Fu isolata per la prima volta dal chimico tedesco Friedrich Gaedke nel 1855, e presto si diffuse come medicinale e come ricostituente. A parte, la sua regione d’origine, coltivazioni di coca furono piantate anche in Nigeria, Taiwan e Giava. Alla fine del XIX secolo, erano già evidenti i suoi effetti collaterali, primo fra tutti il suo carattere additivo. Gradualmente, fu proibita in molti Paesi (nel 1914 negli USA), e il suo consumo decrebbe di molto, poiché la domanda dei consumatori fu soddisfatta dalle anfetamine, sostanze all’epoca legali e i cui effetti erano similari. Soltanto dopo la proibizione di quest’ultime droghe negli anni ‘60, la cocaina tornò ad essere una merce interessante, specialmente per il mercato americano, che in quel periodo vedeva decrescere il proprio controllo sui campi d’oppio dell’Indocina.

Il focus della narcopolitica statunitense si spostò quindi nell’America Latina, ovvero sugli Stati produttori di coca (Colombia, Ecuador, Peru, Bolivia) e sulle rotte di transito verso nord. Nel 1971, in un discorso, il Presidente Nixon parlò per la prima volta di “Guerra alle Droghe”. In pratica l’opposizione al narcotraffico fu un pretesto per un pesante intervento poliziesco interno agli Stati Uniti: il numero di americani incarcerati crebbe da 400.000 ai 2.400.000 odierni, di cui un milione solo per reati legati alla droga. Inoltre, a partire dagli anni ’80, i narcotrafficanti misero sul mercato anche il crack, cioè cocaina (in cristalli e non in polvere) da fumare, che poteva essere smerciata più facilmente e (abbassando la percentuale di sostanza attiva) a prezzo più basso, coinvolgendo anche le fasce sociali meno ricche. Anche tra i poveri, la droga divenne una piaga sociale diffusa, contribuendo alla loro emarginazione. Vale la pena di notare, per esempio, che gli afroamericani (costituenti appena il 12% della popolazione e il 13% dei tossicodipendenti), siano il 35% degli arrestati, il 55% dei condannati e il 74% degli incarcerati per droga; e in generale, oltre che per motivi razziali, c’è anche una forte discriminazione sociale, a scapito degli strati più poveri della popolazione. Per esempio, J. H. Hatfield, biografo di George W. Bush, afferma che l’allora ventiseienne Presidente, sarebbe stato arrestato nel 1972 per possesso di cocaina, ma che l’intervento del padre avrebbe fatto cancellare ogni registrazione del crimine. Ma non c’è qui il tempo di dissertare sul ruolo della droga come strumento di controllo sociale.

Al contempo, le operazioni antidroga internazionali consentono agli Stati Uniti d’America di aumentare la propria ingerenza nelle loro neocolonie latinoamericane. Un caso particolarmente esemplare è quello riguardante le relazioni con Panama e Nicaragua. Gli Stati Uniti sostenevano la guerriglia dei Contras nel Nicaragua, dove la dittatura filoamericana di Anastasio Somoza (figlio omonimo del precedente dittatore) era stata rovesciata dalla rivoluzione sandinista (1979). Per finanziarla, non solo vendevano armi alla Repubblica Islamica dell’Iran, a quel tempo impegnato a difendersi dall’invasione irachena (ordinata da Saddam Hussein e sostenuta da tutte le potenze occidentali), ma si servivano anche dei guadagni del narcotraffico. Il partner d’affari privilegiato era Manuel Noriega, generale panamense, collaboratore della CIA e narcotrafficante fin dagli anni ’50 (tanto che nel 1971 la CIA ne impedì l’arresto da parte dell’Antidroga) che infine divenne dittatore di Panama a partire dal 1983. Costui era un intermediario di spicco del Cartello di Medellín, per quanto riguardava il traffico di cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti, e si serviva della Banca centrale panamense per riciclarne i proventi. La narcocleptocrazia di Noriega divenne gradualmente insostenibile di fronte all’opinione pubblica sia interna che estera, al punto che nel 1989, dopo aver truccato le elezioni, fu deposto da un’invasione militare americana (non si dimentichi che gli Stati Uniti mantenevano controllo della zona del Canale di Panama).

Tuttavia, i Paesi chiave nel traffico di cocaina sono ben altri. Innanzitutto la Colombia, Paese dove dal 1964 a oggi (con il prodromo di dieci anni di violenza e 200.000 morti tra il 1948 e il 1958) è in corso una terribile guerra civile nelle aree rurali del Paese, condotta tra il governo, le guerriglie socialiste (FARC, M-19, ELN), forze paramilitari di estrema destra (AUC) e i cartelli della droga. La Colombia è sempre stata il maggiore produttore di cocaina. L’illegalità della guerra civile ha consentito (come in Afghanistan) di mantenere una produzione su vasta scala. Alla potenza dei grandi cartelli che dominavano la scena negli anni ’80 e ’90 (Cartello di Medellín, Cartello di Cali, Cartello di Norte del Valle, e Cartello della Costa Nord), sono andati sostituendosi ora cartelli minori, ed è aumentato il controllo sulla droga da parte dei gruppi paramilitari e guerriglieri veri e propri. Infatti, negli ultimi anni, il calo dell’influenza statunitense nell’America Latina, dovuto all’ascesa del Brasile e all’avanzata di movimenti e partiti socialisti, ha fatto sì che gli Stati Uniti rafforzassero il governo colombiano sul piano militare e politico, per cui anche il tasso di violenza relativo alla droga si è dimezzato nel corso degli ultimi 10 anni.

Gli altri due grandi Paesi produttori sono il Perù e la Bolivia, che spesso in passato rifornivano le raffinerie colombiane di coca grezza. In entrambi i casi, c’è stato un calo alla fine degli anni ’90, dovuto alla pressione statunitense. La politica antidroga statunitense consiste, infatti, nel versare cospicue somme di denaro ai governi, ma queste donazioni hanno l’effetto di legare a sé questi Stati, e di favorire il controllo della produzione e del traffico di stupefacenti, a scapito della popolazione indigena, tradizionalmente occupata nella coltivazione di coca (1/8 della popolazione in Bolivia). Mentre il Perù è diventato nel 2010 il primo produttore, in Bolivia la situazione è più complessa. Dopo il “golpe della cocaina”, effettuato da Luis García Meza Tejada, c’è stata via via un’adesione sempre più stretta alla politica americana, culminata nel 1997 con l’offensiva antidroga del presidente Hugo Banzer. La reazione ha fatto sì che i cocaleros (coltivatori di coca), insieme agli altri movimenti sociali, riuscissero ad eleggere presidente il loro leader, Juan Evo Morales Ayma, il primo indio a governare un Paese latinoamericano. La politica di Morales ha invece cercato di favorire (e promuovere) la coltivazione di coca da parte della popolazione indigena, e al tempo stesso di eliminare la produzione di cocaina e il narcotraffico.

Oltre ai Paesi produttori, ci sono vari Paesi coinvolti nel traffico della cocaina. Dalla Colombia sono sempre partite la maggior parte delle rotte della droga verso Stati Uniti ed Europa, che rappresentano rispettivamente il 50% e il 25% del consumo globale. Un’eccezione è costituita dal Cile, attraverso i cui porti, la cocaina boliviana è smerciata verso il Pacifico e l’Europa. Altre rotte verso l’Europa sono attraverso il Venezuela e il Suriname. Quest’ultimo Stato è un’ex-colonia olandese che ha ottenuto l’indipendenza ma conserva privilegi doganali nel grande porto di Rotterdam, che diviene così uno dei maggiori punti d’accesso al mercato della droga europea. Un altro ingresso è la Spagna, con la mediazione di porti dell’Africa Occidentale come Dakar e Tangeri. La ‘ndrangheta calabrese, con le sue basi presso la comunità italo belga, e il suo centro di smistamento e riciclaggio nell’hinterland milanese, rappresenta il maggiore distributore in Europa, anche per via dei suoi rapporti privilegiati con i cartelli latinoamericani, presso cui è l’interlocutore europeo più accreditato. I mediatori iniziali di questo rapporto furono i Cuntrera-Caruana, storico clan di Cosa Nostra assurto a livelli internazionali, dalla loro base operativa in Venezuela. L’ascesa al potere di Chavez in quest’ultimo Paese ha cambiato le carte in tavola. A fronte della lotta antidroga, condotta come in Bolivia indipendentemente da “aiuti” americani dalla nuova Oficina Nacional Antidrogas, è però favorito sottobanco il traffico della cocaina controllata dalle FARC e da altri gruppi guerriglieri, in modo da finanziare la loro lotta contro il regime neoliberista e filoamericano di Uribe in Colombia.

Il traffico verso gli Stati Uniti d’America si muove invece su due rotte: la prima, coinvolgente circa il 10-15% del traffico, è condotta per via navale dalla Colombia e dal Venezuela verso la Florida. Gli intermediari sono, a valle, Puerto Rico, che è territorio americano, per cui da lì si può accedere più facilmente al territorio statunitense propriamente detto; a monte, la Repubblica Dominicana e, soprattutto, Haiti. La povertà estrema di questo Paese non ha impedito che, a partire dal 1985, divenisse centro di attività da parte della CIA e dei militari locali. Il Service d’Intelligence National fu fondato proprio per ricevere addestramento americano nella lotta alla droga, ma essere in realtà impiegato per lo scopo opposto, oltre che a diffondere morte e terrore presso gli oppositori politici. Il SIN e la CIA hanno architettato entrambi i golpe contro il Presidente regolarmente eletto, Jean-Bertrand Aristide, nel 1991 e nel 2004. Non è quindi casuale che, dopo il recente e distruttivo terremoto, sia stata massicciamente incrementata la presenza militare statunitense nell’isola. La seconda via di traffico, che coinvolge ben l’85-90% della cocaina destinata agli USA, passa invece per il Centroamerica, ed è stata storicamente legata al finanziamento dei Contras nicaraguegni, attraverso la criminalità degli Stati adiacenti: Panama, Honduras (dove il nuovo governo golpista ha fatto recentemente assassinare giornalisti attivi nella denuncia del narcotraffico), ed El Salvador, le cui gang malavitose d’adolescenti (la MS-19 e la MS-13) sono tra le più feroci al mondo, e hanno il potere di opporsi in armi allo Stato centrale.

L’altro Stato di massima importanza nel narcotraffico americano è il Messico, il cui governo è sempre stato legato a filo doppio agli Stati Uniti, e i cui cartelli hanno un immenso potere, dal momento che gestiscono un enorme flusso di traffici criminali (immigrazione clandestina, droga, prostituzione, armi, contrabbando) sulla frontiera tra i due Paesi. La cocaina entra in Messico dal Guatemala e da El Salvador, dove il Cartello Los Zetas si è assicurato la collaborazione, rispettivamente, dei Kaibiles (forze speciali guatemalteche) e della Mara Salvatrucha-13 (gang salvadoregna). Con il declino dei grandi cartelli colombiani, il controllo sul narcotraffico da Messico a Stati Uniti è passato ai cartelli locali, i quali combattono non solo contro il governo, ma anche tra loro. Dal dicembre del 2006, la cosiddetta Guerra della Droga Messicana ha causato 27.240 morti (quasi la metà dei caduti americani in Vietnam). Attualmente, le fazioni principali sono due: da una parte, i cartelli di Juárez, Tijuana, Los Zetas e Beltrán-Leyva, dall’altra, i cartelli di Sinaloa, del Golfo, La Famiglia Michoacana e Los Negros. La posta in palio è il controllo dei traffici su questa rotta.

In conclusione, abbiamo visto come l’altro grande polo del narcotraffico internazionale sia quello latinoamericano, incentrato sulla cocaina, e come faccia capo comunque agli Stati Uniti. È importante osservare, soprattutto, che le politiche antidroga promosse da parte americana negli altri Paesi, non siano altro che veri e propri “cavalli di Troia” atti ad infiltrare la polizia e i servizi locali con uomini e denaro, e da qui controllare sia il narcotraffico, sia la stessa politica interna del Paese. Non è un caso, certo, che Bolivia e Venezuela abbiano deciso di contrastare queste politiche e attuare una propria via di lotta alla narcocriminalità. Si tratta dell’ennesimo caso in cui un problema di politica interna si rivela intrinsecamente legato alla politica estera di uno Stato.

dimanche, 08 avril 2012

Spengler profeta dell'Eurasia

Andrea VIRGA:

Spengler profeta dell'Eurasia

Ex: andreavirga.blogspot.com/

 
Questo breve articolo è recentemente uscito sul numero III (dedicato all'Eurasia) della rivista Nomos, alla cui redazione collaboro.
 
spengler.jpgNon ci si stancherà mai di raccomandare la lettura di Oswald Spengler (1880 – 1936), eclettico filosofo della storia tedesco e teorico del socialismo prussiano, le cui opere hanno riscosso successo e interesse negli ambiti più disparati, da Mussolini a Kissinger, dalla Germania di Weimar alla Russia contemporanea. Tra i vari motivi per cui risulta ancora oggi molto attuale, non possiamo non citare le sue ipotesi storiche riguardanti la Russia.

Nel 1918[1], mentre la guerra civile era ancora in corso, egli già prevedeva che la Russia avrebbe abbandonato nell’arco di pochi decenni il marxismo, per affermarsi come una nuova potenza imperiale eurasiatica – il che si è puntualmente avverato in questi ultimi anni. Noi vogliamo ora mettere a confronto il pensiero di Spengler con le attuali teorie eurasiatiste, che concepiscono lo spazio eurasiatico come di primaria importanza per la costruzione di un polo geopolitico alternativo a quello atlantico.

La sua tesi di fondo è che la Russia sia una realtà ben differente dalla “civilizzazione” occidentale, ma avente in sé tutte le premesse per la formazione di una nuova “civiltà”, la quale è ancora in una fase embrionale. Per analogia, la civiltà russa si trova perciò nella stessa fase di quella occidentale durante l’Alto Medioevo[2].

Questa civiltà era stata fino ad allora soggetta a forme ideologiche e culturali prettamente occidentali come il petrinismo e il leninismo, rispettivamente derivazioni di modelli occidentali come l’assolutismo e il marxismo, che le avevano impedito di esprimere il suo vero spirito. Tuttavia, era inevitabile, secondo il filosofo tedesco, che il bolscevismo sarebbe stato man mano superato e scartato dalla Russia, in favore di una forma politica più propriamente autoctona. Lo stesso bolscevismo russo, con Stalin, è andato assumendo caratteri decisamente nazionalisti e una sua politica di potenza a livello mondiale, interrotta dalla disintegrazione della potenza sovietica alla fine della Guerra Fredda, ma ripresa da Putin.

La “natura russa” (Russentum), «promessa di una Kultur [“civiltà”] a venire»[3], è modellata dal suo paesaggio natio, l’immensa piana eurasiatica che si estende oltre i confini delle civilizzazioni esistenti (Occidente, Islam, India, Cina), ed è infatti propria ai numerosi popoli, d’istinto nomade o seminomade, che vi vivono: slavi, iranici, uralici, altaici, ecc. Non dimentichiamo che, per l’occidentalista Spengler, «L’Europa vera finisce sulle rive della Vistola […] gli stessi Polacchi e gli Slavi dei Balcani sono “Asiatici”»[4].

Ancora più interessanti sono i rilievi che emergono dagli appunti postumi di Spengler dedicati alla protostoria[5]: nel Neolitico, delle tre grandi “civiltà” aurorali esistenti, che lui chiama Atlantis, Kush e Turan, quest’ultima occupa proprio la parte settentrionale dell’Eurasia, dalla Scandinavia alla Corea. L’uomo di Turan è un tipo eroico, in cui prevale il senso del tragico, dell’amor fati, della nostalgia e dall’irrequietezza data dai grandi spazi aperti. Queste caratteristiche si riscontrano per Spengler sia nel tipo prussiano sia in quello russo, il che contribuisce alla vicinanza tra questi due popoli. L’influenza di Turan si proietta inoltre dall’Europa al Medio Oriente, dalla Cina all’India, sulla scia della diffusione del carro da guerra indoeuropeo nel II millennio a.C[6], ponendo le basi per le civiltà successive.

Vediamo poi il significato politico delle teorie di Spengler. Robert Steuckers ipotizza che il comune substrato turanico potesse essere la base mitico-ideologica per un’alleanza politica tra il Reich tedesco, l’Unione Sovietica, la Cina nazionalista, e i nazionalisti indiani, in un’ottica anti-occidentale[7]. Viceversa, la critica coeva di Johann von Leers[8] accusava Spengler per la sua opera “Anni della decisione” (1933)[9] di voler formare un asse occidentalista e razzista con l’Inghilterra e gli Stati Uniti bianchi, di contro alle potenze di colore (America Latina, Africa, Asia, incluse Giappone, Italia e Russia). Non va però scordato che in scritti precedenti[10] aveva affermato chiaramente una maggiore affinità tra Prussia e Russia. La sua stessa interpretazione del bolscevismo russo come prodotto essenzialmente autoctono, in contrasto con quella antigiudaica delle destre europee anticomuniste, ha ispirato autori di tendenze nazionalbolsceviche come Arthur Moeller van den Bruck[11], Ernst Jünger, Ernst Niekisch, Erich Müller[12].

Risulta quindi evidente come Spengler, non adoperi il termine “Eurasia”, ma di fatto descriva quello stesso spazio (Raum) etnoculturale e geopolitico, identificandolo con una nascente civiltà russa, con caratteristiche sia asiatiche che centro-europee. La sua interpretazione della storia russa contemporanea coincide inoltre con l’interpretazione data dagli odierni eurasiatisti (Dugin, Baburin), ossia di una continuità nella politica internazionale tra zarismo, stalinismo e neo-eurasiatismo nell’affermazione della Russia come potenza eurasiatica.

 


[1] O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, Ar, Padova 1994, p. 111 ssg.
[2] Id., Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano 2008, pp. 931 ssg.
[3] Ibid., p. 111.
[4] Id., Il doppio volto della Russia e il problema della Germania ad Est, in Forme della politica mondiale, Ar, Padova 1994, pp. 28 ssg.
[5] Id., Gli albori della storia mondiale, Ar, Padova 1996, 2 voll.
[6] Cfr. la conferenza Der Streitwagen und the Seine Bedeutung für den Gang der Weltgeschichte, 6 agosto 1934, Monaco; in Reden und Aufsätze, C. H. Beck, München 1937 [inedito in Italia].
[7] R. Steuckers, Atlantis, Kush, & Turan: Prehistoric Matrices of Ancient Civilizations in the Posthumous Work of Spengler, in Nouvelles de Synergies européennes, n° 21, 1996.
[8] J. von Leers, Contro Spengler, All’Insegna del Veltro, Parma 2011.
[9] O. Spengler, Anni della decisione, Ar, Padova 1994.
[10] Id., Prussianesimo e socialismo, cit.
[11] A. Moeller van den Bruck, Il Terzo Reich, Settimo Sigillo, Roma 2000.

[12] E. Müller, Nazionalbolscevismo, in Aa. Vv., Nazionalcomunismo, SEB, Milano 1996.

Pequeño léxico del partisano europeo

Pequeño léxico del partisano europeo

Publicado por edicionesnuevarepublica

Pequeño léxico del partisano europeo

NOVEDAD

De G. Faye, P. Freson y R. Steuckers

Colección «El Partisano Europeo» /7

● 1ª edición, Barcelona, 2012

● 20×13 cms., 88 págs.

● Cubierta a todo color, con solapas y plastificada brillo

● PVP: 10 euros

Orientaciones:

El Petit lexique du partisan Européen (Pequeño léxico del partisano europeo) fue editado por primera vez en 1985. Sus autores, Guillaume Faye, Pierre Fresón y Robert Steuckers pertenecían —o habían pertenecido— a la deno­minada “Nueva Derecha”, etiqueta política muy al uso en Francia e Italia, pero incomprensible en España.

Su finalidad al escribir este léxico era la de dotar de un corpus doctrinal claro, eficaz y directo al “activista europeo”, proporcionarle una batería de ideas alternativas al discurso dominante de las ideologías de lo “políticamente correcto”, formarle y clarificarle en un léxico propio, un léxico para militantes de la Europa disidente.

[...] es el intenso compromiso político que distingue al partisano de otros combatientes. [...] el partisano lucha en un frente político, y precisamente el carácter político de su actividad revaloriza el sentido originario de la palabra par­tisano. La palabra se deriva de partido, e indica los vínculos con un partido o un grupo que lucha o hace la guerra o actúa políticamente de alguna forma. Y es en esta definición de Carl Schmitt donde encaja perfectamente el com­promiso del militante europeísta. Su carácter de soldado político le convierte en un Partisano, en un miembro de la resistencia europea contra el Nuevo Orden Mundial.

[del prólogo de Juan Antonio Llopart] 

Pedidos:

enrpedidos@yahoo.es

Tlf: 682 65 33 56

Il ne devait pas parler

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Il ne devait pas parler

Ex: http://www.terreetpeuple.com/

 

Songes et mensonges...

Christian Prouteau, fondateur du Groupe d'intervention de la gendarmerie nationale (GIGN), critique longuement ce vendredi dans Ouest France, l'opération du Raid à Toulouse, "menée sans schéma tactique précis", s'étonnant notamment de l'absence d'utilisation de gaz lacrymogène.
Alors qu'on lui demande s'il est étonné que l'opération du Raid, unité concurrente du GIGN, se termine par la mort de Mohamed Merah, Prouteau répond: "oui. "Comment se fait-il que la meilleure unité de la police ne réussisse pas à arrêter un homme tout seul ?"

"Il fallait le bourrer de gaz lacrymogène", assure-t-il. "Il n'aurait pas tenu cinq minutes. Au lieu de ça, ils ont balancé des grenades à tour de bras. Résultat : ça a mis le forcené dans un état psychologique qui l'a incité à continuer sa "guerre"."

"En fait, je pense que cette opération a été menée sans schéma tactique précis. C'est bien là le problème", conclut Christian Prouteau

Evidemment, il convient là pour correctement saisir le vrai de ce que le spectacle étatique nous câche, de lire notre gendarme à l'envers en comprenant bien entendu qu'il fallait empêcher définitivement Merah de parler et que pour se faire, le schéma tactique était extrêmement précis mais à l'inverse du dire officiel qui d'ailleurs a tout d'un coup complètement gommé le témoignage pourtant essentiel de Martine, témoin de la tuerie de Montauban qui déclara alors: " le tueur était de taille moyenne, un mètre soixante-dix environ et assez corpulent. Si ce n'est le tatouage de sa joue gauche, je n'ai pas vu d'autres signes distinctifs particuliers "...

Précisons là que Merah était grand et maigre et qu'il ne portait aucun tatouage au visage...