Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

dimanche, 29 janvier 2012

Il percorso ideologico di Otto Strasser

Il percorso ideologico di Otto Strasser

otto.jpgOtto Strasser nasce il 10 settembre 1897 in una famiglia di funzionari bavaresi. Suo fratello Gregor (che sarà uno dei capi del partito nazista ed un serio concorrente di Hitler) è maggiore di cinque anni. L’uno e l’altro beneficiano di solidi antecedenti familiari: il padre Peter, che si interessa di economia politica e di storia, pubblica sotto lo pseudonimo di Paaul Weger un opuscolo intitolato Das neue Wesen, nel quale si pronuncia per un socialismo cristiano e sociale. Secondo Paul Strasser, fratello di Gregor e Otto, “in questo opuscolo si trova già abbozzato l’insieme del programma culturale e politico di Gregor e Otto, cioè un socialismo cristiano sociale, che è indicato come la soluzione alle contraddizioni e alle mancanze nate dalla malattia liberale, capitalista e internazionale dei nostri tempi.” Quando scoppia la Grande Guerra, Otto Strasser interrompe i suoi studi di diritto e di economia per arruolarsi il 2 agosto 1914 (è il più giovane volontario di Baviera). Il suo brillante comportamento al fronte gli varrà la Croce di Ferro di prima classe e la proposta per l’ Ordine Militare di Max-Joseph. Prima della smobilitazione nell’aprile/maggio 1919, partecipa con il fratello Gregor, nel Corpo Franco von Epp, all’assalto contro la Repubblica sovietica di Baviera. Ritornato alla vita civile Otto riprende i suoi studi a Berlino nel 1919 e fonda la “Associazione universitaria dei veterani socialdemocratici”.

Nel 1920, alla testa di tre “centurie proletarie” resiste nel quartiere operaio berlinese di Steglitz al putsch Kapp (putsch d’estrema destra). Lascia poco dopo la SPD (Partito social-democratico) quando questa rifiuta di rispettare l’accordo di Bielefeld concluso con gli operai della Ruhr (questo accordo prevedeva il non-intervento dell’esercito nella Ruhr, la repressione degli elementi contro-rivoluzionari e l’allontanamento di questi dall’apparato dello Stato, nonché la nazionalizzazione delle grandi imprese), spostandosi dunque a sinistra dell’SPD. Tornato in Baviera, Otto Strasser incontra Hitler e il generale Ludendorff presso il fratello, che lo invita a legarsi al nazionalsocialismo, ma Otto rifiuta. Corrispondente della stampa svizzera e olandese, Otto si occupa, il 12 ottobre 1920, del congresso dell’USPD (Partito social-democratico indipendente) ad Halle, dove incontra Zinovev. Scrive su “Das Gewissen”, la rivista di Moeller van den Bruck e Heinrich von Gleichen, un lungo articolo sul suo incontro con Zinovev. E’ così che fa la conoscenza di Moeller van den Bruck che lo farà avvicinare alle proprie idee. Otto Strasser entrerà poco dopo nel ministero per gli approvvigionamenti, prima di lavorare, a partire dalla primavera del 1923, in un consorzio di alcolici. Tra il 1920 e il 1925 si attua nello spirito di Strasser una lenta maturazione ideologica data da esperienze personali (esperienza del fronte e della guerra civile, incontro con Zinovev e Moeller, esperienza della burocrazia e del capitalismo privato) e di diverse influenze ideologiche. Dopo il mancato putsch del 1923, l’imprigionamento di Hitler e l’interdizione del NSDAP che l’hanno seguito, Gregor Strasser si è ritrovato nel 1924 con il generale Ludendorff e il politico völkisch von Graefe alla testa del ricostituito partito nazista. Appena uscito di prigione Hitler riorganizza il NSDAP (febbraio 1925) e incarica Gregor Strasser della direzione del partito nel Nord della Germania. Otto allora raggiunge il fratello che l’ha chiamato. Otto sarà l’ideologo, Gregor l’organizzatore del nazismo in Germania settentrionale. Nel 1925 è fondato un “Comitato di lavoro dei distretti settentrionali e occidentali tedeschi del NSDAP” sotto la direzione di Gregor Strasser; questi distretti manifestano così la loro volontà d’autonomia (e di democrazia interna) nei confronti di Monaco. Inoltre il NSDAP settentrionale prende un orientamento nettamente gauchiste sotto l’influenza di Otto Strasser e di Jospeh Goebbels che espongono le loro idee in un quindicinale destinato ai quadri del partito, il “National-sozialistische Briefe”. Dall’ottobre 1925 Otto dà al NSDAP del Nord un programma radicale. Hitler reagisce dichiarando inalterabili i venticinque punti del programma nazista del 1920 e concentrando nelle sue mani tutti i poteri decisionali del Partito. Richiama Goebbels nel 1926, convince Gregor Strasser proponendogli il posto di capo della propaganda, poi quello di capo dell’organizzazione del Partito, espelle infine un certo numero di gauchistes (segnatamente i Gauleiter della Slesia, Pomerania e Sassonia). Otto Strasser, isolato e in totale opposizione con la politica sempre più apertamente conservatrice e capitalista di Hitler, si decide finalmente a lasciare il NSDAP il 4 luglio 1930. Fonda subito la KGRNS, “Comunità di lotta nazional-socialista rivoluzionaria”. Ma poco dopo la scissione strasseriana, due avvenimenti portarono alla marginalizzazione della KGRNS: anzitutto la “dichiarazione-programma per la liberazione nazionale e sociale del popolo tedesco” adottata dal Partito Comunista tedesco. Questo programma esercita sugli elementi nazionalisti anti-hitleriani una considerevole attrazione che li distoglierà dallo strasserismo ( peraltro già nell’autunno 1930 una prima crisi “nazional-bolscevica” aveva provocato l’uscita dalla KGRNS verso il Partito Comunista di tre responsabili: Korn, Rehm e Lorf); in seguito, anche il successo elettorale del Partito Nazista alle elezioni legislative del 14 settembre convinse molti naziona-socialisti della fondata validità della strategia hitleriana. La KGRNS è inoltre minata da dissensi interni che oppongono gli elementi più radicali (nazional-bolscevichi) alla direzione più moderata (Otto Strasser, Herbert Blank e il maggiore Buchrucker). Otto Strasser cerca di far uscire la KGRNS dall’isolamento avvicinando nel 1931 le SA del Nord della Germania che, sotto la guida di Walter Stennes, sono entrate in aperta ribellione contro Hitler (ma questo riavvicinamento, condotto sotto gli auspici del capitano Ehrhardt, le cui inclinazioni reazionarie sono conosciute, provoca l’uscita dei nazional-bolscevichi dalla KGRNS). Nell’ottobre 1931 Otto Strasser fonda il “Fronte Nero”, destinato a raggruppare attorno alla KGRNS un certo numero di organizzazioni vicine, quali il gruppo paramilitare “Wehrwolf”, i “Gruppi Oberland”, le ex-SA di Stennes, una parte del Movimento Contadino, il circolo costituito attorno alla rivista “Die Tat” etc. Nel 1933, decimata dalla repressione hitleriana, la KGRNS si sposta in Austria poi, nel 1934, in Cecoslovacchia. In Germania, gruppi strasseriani clandestini sopravvivono fino al 1937, data in cui vengono smantellati e i loro membri imprigionati o deportati (uno di questi, Karl-Ernst Naske, dirige oggi gli “Strasser-Archiv”). Le idee di Otto Strasser traspaiono dai programmi che ha elaborato, gli articoli, i libri e gli opuscoli che i suoi amici e lui stesso hanno scritto. Tra questi testi, i più importanti sono il programma del 1925, destinato a completare il programma del 1920 del Partito Nazista, la proclamazione del 4 luglio 1930 (“I socialisti lasciano il NSDAP”), le “Quattordici tesi della Rivoluzione tedesca”, adottate al primo congresso della KGRNS nell’ottobre 1930, il manifesto del “Fronte Nero” adottato al secondo congresso della KGRNS nell’ottobre 1931, e il libro Costruzione del socialismo tedesco, la cui prima edizione è del 1932. Da questi testi si trae un’ideologia coerente, composta di tre elementi strettamente legati tra loro: il nazionalismo, l’”idealismo völkisch” e il “socialismo tedesco”. 1) Il nazionalismo. Otto Strasser propone la costituzione di uno Stato pan-tedesco (federale e democratico) “da Memel a Strasburgo, da Eupen a Vienna” e la liberazione della nazione tedesca dal Trattato di Versailles e dal Piano Young. Auspica una guerra di liberazione contro l’Occidente (“Salutiamo la Nuova Guerra”), l’alleanza con l’Unione Sovietica ed una solidarietà internazionale anti-imperialista tra tutte le Nazioni oppresse. Otto Strasser se la prende vigorosamente anche con gli ebrei, la Massoneria e L’Ultramontanismo (questa denuncia delle “potenze internazionali” sembra ispirarsi ai violenti pamphlets del gruppo Ludendorff). Ma le posizioni di Otto Strasser si evolvono. Durante il suo esilio in Cecoslovacchia appaiono due nuovi punti: un certo filosemitismo (Otto Strasser propone che sia conferito al popolo ebraico uno statuto protettore delle minoranze nazionali in Europa e sostiene il progetto sionista – Patrick Moreau pensa che questo filosemitismo sia puramente tattico: Strasser cerca l’appoggio delle potenti organizzazioni anti-naziste americane) e un progetto di federalismo europeo che permetterebbe di evitare una nuova guerra. L’anti-occidentalismo e il filo-sovietismo di Strasser sfumano. 2) Al materialismo borghese e marxista Otto Strasser oppone un “idealismo völkisch” a fondamento religioso. Alla base di questo “idealismo völkisch” si trova il Volk concepito come un organismo di origine divina dalle caratteristiche fisiche (razziali), spirituali e mentali. La “Rivoluzione tedesca” deve, secondo Strasser, ri-creare le “forme” appropriate alla natura del popolo nel campo politico o economico così come in quello culturale. Queste forme sarebbero, in campo economico, il feudo (Erblehen); nel campo politico, l’auto-amministrazione del popolo tramite gli “Stande”, cioè degli stati – stato operaio, stato contadino etc – e nel campo “culturale, una religiosità tedesca. Principale espressione dell’ “idealismo völkisch”, un principio d’amore in seno al Volk – riconoscendo ognuno negli altri le proprie caratteristiche razziali e culturali – che deve marcare ogni atto dell’individuo e dello Stato. Questo idealismo völkisch comporta il rifiuto da parte di Otto Strasser dell’idea di lotta di classe in seno al Volk a profitto d’una “rivoluzione popolare” degli operai-contadini senza classi medie (solo una piccola minoranza di oppressori saranno eliminati), la condanna dello scontro politico tra tedeschi: Otto Strasser propone un Fronte unito della base dei partiti estremisti e dei sindacati contro le loro gerarchie e contro il sistema. Questo idealismo völkisch sottintende lo spirito di “socialismo tedesco” decantato da Strasser e ispira il programma socialista strasseriano. Questo programma comporta i seguenti punti: parziale nazionalizzazione delle terre e dei mezzi di produzione, partecipazione operaia, il piano, l’autarchia e il monopolio dello Stato sul commercio esterno. Il “socialismo tedesco” pretende di opporsi al liberalismo come al marxismo. L’opinione di strasser sul marxismo è pertanto sfumata: “Il marxismo non aveva per Strasser alcun carattere “ebraico” specifico come per Hitler, non era l’ “invenzione dell’ebreo Marx”, ma l’elaborazione di un metodo d’analisi delle contraddizioni sociali ed economiche della sua epoca (il periodo del capitalismo selvaggio) messo a punto da un filosofo dotato. Strasser riconosceva al pensiero marxista come all’analisi dell’imperialismo di Lenin, una verità oggettiva certa. Si allontanava dalla Weltanschauung marxista a livello di implicazioni filosofiche ed utopiche. Il marxismo era il prodotto dell’era del liberalismo e testimoniava nel suo metodo analitico e nelle sue stesse strutture una mentalità la cui tradizione liberale risaliva al contratto sociale di Rousseau. L’errore di Marx e dei marxisti-leninisti stava, secondo Strasser, nel fatto che questi credevano di poter spiegare lo sviluppo storico tramite i concetti di rapporto di produzione e di lotta di classe allorquando questi apparivano validi limitatamente al periodo del capitalismo. La dittatura del proletariato, l’internazionalismo, il comunismo utopico non erano più conformi ad una Germania nella quale era cominciato un processo di totale trasformazione delle strutture spirituali, sociali ed economiche, che portava alla sostituzione del capitalismo con il socialismo, della lotta di classe con le comunità di popolo e dell’internazionalismo con il nazionalismo. La teoria economica marxista rimaneva uno strumento necessario alla comprensione della storia. Il marxismo filosofico e il bolscevismo di partito, perdono significato nello stesso momento in cui il liberalismo entra in agonia”. 3) Il “socialismo tedesco” rifiuta il modello proletario così come il modello borghese e propone di conciliare le responsabilità, l’indipendenza e la creatività personali con il sentimento dell’appartenenza comunitaria ad una società di lavoratori di classi medie e, più particolarmente, di contadini. “Strasser, come Junger, sogna un nuovo “Lavoratore”, ma di un tipo particolare, il tipo “contadino”, che sia operaio-contadino, intellettuale-contadino, soldato-contadino, altrettante facce di uno sconvolgimento sociale realizzato con la dislocazione della società industriale, lo smantellamento delle fabbriche, la riduzione delle popolazioni urbane e il trasferimento forzato dei cittadini verso il lavoro rigeneratore della terra. Per rendere in immagini contemporanee la volontà di rottura sociale della tendenza Strasser, si può pensare oggi alla Rivoluzione Culturale cinese o all’azione dei Khmer rossi in Cambogia”. Otto Strasser vuole riorganizzare la società tedesca attorno al tipo contadino. Per fare questo, preconizza la spartizione delle terre, la colonizzazione delle regioni agricole dell’Est poco popolato e la dispersione dei grandi complessi industriali in piccole unità in tutto il paese – nascerebbe così un tipo misto operaio-contadino. Patrick Moreau non esita a qualificare Otto Strasser come “conservatore agrario estremista”. Le conseguenze di questa riorganizzazione della Germania (e della socializzazione dell’economia che deve accompagnarla) sarebbero: una considerevole riduzione della produzione dei beni di consumo per il fatto dell’ “adozione di un modo di vita spartano, in cui il consumo è ridotto alla soddisfazione quasi autarchica, a livello locale, dei bisogni primi”, e “l’istituzione nazionale, poi internazionale, di una sorta di economia di baratto”. Il socialismo tedesco rifiuta infine la burocrazia e il e il capitalismo privato (Strasser conosce i misfatti dei due sistemi) e propone la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e della terra che saranno in seguito ri-distribuite a degli imprenditori sotto forma di feudi. Questa soluzione unirebbe, secondo Strasser, i vantaggi del possesso individuale e della proprietà collettiva.

Thierry Mudry

asslimes.com

samedi, 28 janvier 2012

Une nouvelle opposition "Made in Russia"

pt4971.jpg

Une nouvelle opposition "Made in Russia"

Alexandre LATSA

Ex: http://fr.rian.ru/

Les élections présidentielles approchent, et la politique intérieure russe est un thème qui est revenu de façon assez récurrente au sein des analyses et tribunes récentes de RIA-Novosti. C’est aussi l’un des thèmes les plus discutés sur l’internet russe, surtout depuis décembre 2011. Récemment Maria Selina se demandait si une nouvelle vague d’émigration aurait lieu et elle en déduisait très adroitement que les manifestations de décembre 2011 pourraient théoriquement rassembler le cortège de ceux qui, rejetant le système politique russe, pourraient choisir de faire leurs bagages. Mes lecteurs le savent, j’ai couvert les manifestations de décembre et publié des photos et des textes qui ont donné lieu à des débats enflammés sur le sujet. Bien sur la position d’étranger qui commente la scène politique russe n’est pas très confortable, mais néanmoins un regard extérieur et comparatif a parfois son intérêt.

Lors de discussions sur Facebook, Marina (une jeune franco-russe d’une 30aine d’années, trilingue, étudiante en MBA) a résumé les raisons pour lesquelles elle était descendue dans la rue pour protester contre le régime. Elle m’a écrit: " la scène politique en Russie est bloquée car le parti de Poutine ne laisse pas de possibilités de développement à d’autres partis ". Marina souhaite "l’apparition de nouveaux partis, forts et jeunes et ne plus vivre avec un seul parti dominant comme Russie-Unie". Elle dénonce aussi le "multipartisme de façade" qui règne en Russie car pour elle "les partis d’opposition sont des vieux partis dirigés par des esprits soviétiques, pour lesquels les gens votent sans conviction, seulement afin de ne pas voter pour Russie-Unie".

Cette revendication m’a entrainé dans une foule de réflexions et je ne peux m’empêcher en tant qu’étranger de tenter une comparaison avec la France. Que constatons-nous en France ? Certes une alternance existe depuis quelques décennies entre deux courants, représentés par les deux partis dominants. Mais ces deux vieux partis de centre droit (UMP) et de centre gauche (PS) présentent ils réellement des différences idéologiques fondamentales face aux contraignantes exigences supranationales de Bruxelles? Est-ce qu’on peut rêver en France, comme Marina en Russie, de "l’apparition de nouveaux partis, forts et jeunes" ? Est-ce cela "une scène politique non bloquée"? Pouvoir voter non pour un mais pour deux partis qui ne savent pas gérer l’économie française, qui ont presque le même programme et les mains totalement liées par 30 ans de mauvaise gestion préalable, qui est de leur fait? Ont-ils la moindre marge de manœuvre face aux déficits abyssaux qu’ils ont créés ? En France, des partis considérés comme plus ou moins anti système comme le Front national ou le Parti de Gauche sont tenus à l’écart de la gouvernance par de subtils mécanismes politiques. Par conséquent les représentations à l’assemblée ne sont pas non plus totalement proportionnelles, ni justes. En France aussi on choisit au premier tour et on élimine au second, cela veut dire qu’au final on ne vote pas forcement pour un parti mais contre un parti. C’est ce qu’a écrit Marina pour la Russie : "Le vote pour certains partis est principalement un vote contre Russie-Unie". Ce rêve d’une opposition digne de ce nom est intéressant. Le but d’une opposition est de porter une politique alternative à celle en vigueur.

Une opposition nouvelle et crédible en Russie devrait d’abord être identifiable, surtout quand à la teneur de son projet pour le pays, démontrer une aptitude à exercer le pouvoir, s’imposer par des élections,  et pas seulement s’opposer au pouvoir via des déclarations et des manifestations de rues.  La difficulté de s’opposer constructivement à Vladimir Poutine, d’après Viktor Loupan, est que "ce dernier est à la fois de gauche, de droite, patriote, libéral, nationaliste et mondialiste. Pour s’opposer ne serait-ce qu’à une position centriste, il faut une solide culture politique et une plateforme idéologique inébranlable. Pour devenir une véritable force politique, il faut du temps et de la patience. (…) Regardez : Mitterrand commença à s’opposer à de Gaulle en 1958 et ne parvint au pouvoir qu’en 1981".

Je ne suis pas seul à penser que les hommes et femmes politiques doivent avant tout défendre les intérêts nationaux et les citoyens de leurs pays. Je n’ai pas non plus de partis qui me satisfassent dans mon pays, la France, mais pour autant je ne sais pas ce que je penserais (et ce que penseraient mes concitoyens) si des immixtions étrangères palpables étaient constatées dans le processus politique et électoral du pays comme c’est le cas en Russie. Comme le rappelait la journaliste du courrier de Russie Clémence Laroque, le nouveau visage de la diplomatie américaine en Russie s’appelle Mike MacFaul . Ce nouvel Ambassadeur a toujours affiché ses positions en faveur d’un rétablissement des relations russo-américaines après l’ère Bush, mais il est également "considéré comme un spécialiste des révolutions de couleur". Doit-on voir un lien avec les manifestations de décembre dernier et celle de février prochain? Ou avec les accusations de financement d’opposants actifs (Nemtsov ou Navalny) par des ONGs  américaines? Ou plutôt un lien avec cette bien curieuse invitation des représentants de l’opposition russe à l’ambassade américaine de Moscou le 17 janvier dernier, soit seulement 3 jours après la nomination de cet ambassadeur en Russie?

Peut-on imaginer par exemple en France le Front National être reçu par l’ambassadeur de Russie pour se plaindre de ne pas avoir de députés? Ou Jean-Luc Mélenchon (Parti de Gauche) être reçu par l’ambassadeur  de Chine après avoir organisé des manifestations à Paris? Que penseraient les citoyens et électeurs français? J’ai publié récemment une tribune à propos de ce projet "national-démocrate" qui cherche à rassembler les deux courants que sont le courant libéral et le courant nationaliste modéré, et qui pourrait avoir émergé des manifestations de décembre dernier. Pour l’analyste russe Dimitri Olchansky les manifestations ont en effet traduit l’opposition d’un pan minoritaire de la société (qualifié de "population européenne") avec le pan majoritaire de la société (qualifié de "population archaïque"). Pour lui, cette opposition devrait entraîner l’émergence d’une idéologie nationaliste dominante, avec tous les risques que cela comprend. Pour lui Russie-Unie serait donc aujourd’hui une sorte de valve de sécurité, dont la tache principale serait de garder le pouvoir et de déverrouiller progressivement certains blocages psychologiques de la société russe, en accompagnant une subtile libéralisation du système. Ainsi, Dimitri Olchansky conclut:" plus longtemps Poutine conservera le pouvoir, plus on aura de chances de voir la société russe évoluer de façon paisible et harmonieuse. Les nationalistes finiront de toute façon par prendre le pouvoir, c’est inévitable. Mais plus tard ce jour arrivera, plus ils seront civilisés".

Pour ceux qui rêvent de la disparition du pouvoir de Russie-Unie, la seule solution crédible serait sans doute l’apparition d’une opposition non déstabilisante pour le pays, bien sur compétente, mais et surtout "Made in Russia". Certainement pas une opposition issue du passé ni une opposition financée par l’étranger. Mais une telle opposition peut elle éclore à quelques semaines des élections présidentielles?  La scène politique russe est plus passionnante que jamais.

L’opinion de l’auteur ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction.

* Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie". Il collabore également avec l'Institut de Relations Internationales et Stratégique (IRIS), l'institut Eurasia-Riviesta, et participe à diverses autres publications.

La nouvelle stratégie du Pentagone

Pentagone-vue-aerienne-washington-usa-defense.jpg

Andrea Perrone:

La nouvelle stratégie du Pentagone

Le secrétaire américain à la Défense, Léon Panetta, retire deux des quatre brigades américaines d’Europe et se prépare à les transférer vers la zone du Pacifique

Le gouvernement d’Obama va retirer deux des quatre brigades de l’armée américaine déployées en Europe. Le but de ce retrait est évident: épargner quelque 487 milliards de dollars sur le budget de la défense au cours des dix prochaines années, en demandant aux Européens de payer la différence, comme dans le cas du bouclier anti-missiles que Washington a imposé au Vieux Continent, tout en déplaçant les troupes américaines vers la région d’Asie-Pacifique.

La nouvelle a été annoncée par le secrétaire à la Défense, Léon Panetta, qui a également fait connaître la décision américaine de retirer environ 7000 militaires sur les 81.000 hommes que comptent les forces d’occupation en Europe, tout cela dans le cadre de la nouvelle stratégie de la défense et dans celui des mesures d’austérité qui frappent aussi le budget du Pentagone.

“Lors des colloques que nous avons eus avec les Européens, nous avons expliqué qu’il s’agira dorénavant d’une présence américaine selon un principe de rotation, par lequel on mènera les futures manoeuvres”, a précisé le chef du Pentagone, qui se faisait interviewer à Fort Bliss au Texas. “En réalité —a-t-il ajouté— nous ne verrons plus beaucoup de soldats américains en Europe, vu les dispositions prises dans le cadre de la nouvelle stratégie, parce que les brigades qui y sont en principe casernées combattent en réalité en Afghanistan et ne sont donc pas présentes. Nous aurons donc deux brigades complètes en Europe, plus une présence plus importante mais selon le principe de la rotation”. D’après ce que nous rapporte le “New York Times”, les Etats-Unis retireront encore une autre brigade d’Allemagne, au fur et à mesure que se concrétisera la nouvelle stratégie et que les opérations se focaliseront sur la zone de l’Asie-Pacifique. Déjà en 2004, le gouvernement de Bush avait demandé à ce que le nombre de brigades de combat en Europe soit réduit à deux mais, l’an dernier, le gouvernement d’Obama avait décidé tout de même d’en maintenir trois.

Obama est donc revenu en quelque sorte sur ses pas et a décidé de ne plus laisser qu’une seule brigade en Allemagne et une autre en Italie, notamment la 173ème Brigade aéroportée, basée à Vicenza.

Le redimensionnement des brigades américaines installées en Europe s’inscrit bel et bien dans le plan du Pentagone de réduire l’armée: des 560.000 militaires qu’elle compte actuellement, elle devra n’en conserver que 490.000, selon les dispositions prises par la nouvelle stratégie de la défense qui requiert des forces plus réduites, plus rapides et plus agiles; en outre, on sait déjà que les forces armées américaines, dans un futur imminent, focaliseront leurs efforts sur les régions asiatiques pour contrebalancer une Chine en croissance rapide et constante, une Chine qui est en train d’investir dans les sous-marins, les avions de chasse et les missiles de précision. Le redimensionnement des deux brigades conduira à une réduction d’environ dix à quinze mille hommes sur les 80.000 présents actuellement, tous services compris, sur le théâtre européen. Le gouvernement d’Obama, souligne le “Washington Post”, a choisi cette option parce qu’elle est susceptible de générer moins de protestations au Congrès que si l’on avait opté pour une réduction des bases militaires aux Etats-Unis mêmes, car cela aurait eu des répercussions sur les économies locales qui se sont développées autour des bases.

Panetta n’a toutefois pas mentionné lesquelles des quatre brigades, actuellement déployées en Europe, le Pentagone allait réellement retirer mais, dans le passé, les autorités militaires américaines avaient élaboré des plans pour que soient retirées les 170ème et 172ème brigades d’infanterie, casernées en Allemagne à Baumholder et Grafenwöhr. Le responsable de la Défense n’a pas davantage parlé du calendrier de ce redéploiement ni expliqué si les unités rappelées d’Europe rentreraient dans les bases américaines ou seraient complètement rendues inactives.

Le Général Mike Hertling, commandant l’armée américaine en Europe, a précisé “qu’il y aura davantage de possibilités pour ces forces de recevoir leur instruction et de participer à des manoeuvres communes avec nos alliés européens”. Le général a ensuite déclaré être “optimiste”, et qu’il croyait que “la nouvelle approche contribuera à renforcer les alliances et les forces”. Mais il n’a pas spécifié quelles unités de l’armée seront impliquées dans le changement.

La nouvelle stratégie de Washington paraît fort semblable à celle décidée en 2001 par le Président républicain de l’époque, George W. Bush, pour pouvoir mener à bien les invasions de l’Afghanistan et de l’Irak. Mais avec une différence: à l’époque, Bush avait augmenté le budget de la Défense tandis qu’Obama a l’intention de le réduire. Toutefois le retrait des troupes américaines annoncé par Obama s’inscrit dans le plan qu’avait exposé Hillary Rodham Clinton au courant du mois d’octobre dernier dans les pages de la revue “Foreign Policy”. Il s’agissait de renforcer le contrôle de la région d’Asie-Pacifique dans le but de faire pièce à la croissance économique et militaire du Dragon chinois. Les présidents américains se succèdent au fil du temps mais les finalités de l’Empire “Stars and Stripes” demeurent invariablement les mêmes.

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu )

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 14 janvier 2012; http://www.rinascita.eu ).

L’Arabie Saoudite, faire-valoir idéal pour les ingérences américaines en Iran

detroit-d-Ormuz-.jpg

Alessia LAI:

 

L’Arabie Saoudite, faire-valoir idéal pour les ingérences américaines en Iran

L’Iran avertit: “Si les Saoudiens veulent se substituer à nous, ils seront responsables de tous les incidents qui se produiront”

La question nucléaire iranienne et les sanctions internationales qui en découlent sont en train d’attiser les tensions dans le Golfe Persique et d’exaspérer la rivalité historique entre l’Iran et l’Arabie Saoudite. Dimanche 15 janvier 2012, l’Iran a lancé un avertissement clair à ses voisins du Golfe: ils ne doivent pas s’aligner sur les sanctions de l’Occident en fournissant leur propre pétrole pour compenser le manque de fournitures qui seraient dues à l’embargo contre Téhéran. “Ces signaux, que nous lançons, ne sont nullement amicaux et nous invitons les responsables de l’Arabie Saoudite à réfléchir avant d’agir”: telle fut la réponse du ministre iranien des affaires étrangères Ali Akbar Salehi.

Le lendemain, lundi 16 janvier, le ministre saoudien du pétrole, Ali al-Nuaimi, a assuré que son pays pourrait rapidement compenser les exportations de brut iranien en cas de nécessité; il ajoutait que si l’Iran devait bloquer le Détroit d’Ormuz, passage stratégique à l’entrée du Golfe, en guise de représailles à tout éventuel embargo, ce détroit ne resterait pas fermé très longtemps. “Actuellement, nous produisons entre 9,4 et 9,8 millions de barils par jour”, a précisé al-Nuaimi, alors que “nous avons une capacité dep roduction de 12,5 millions de barils par jour. En peu de jours, nous pourrions facilement atteindre une production allant jusqu’à 11,4 barils par jour”.

Ces paroles ont évidemment déplu à Téhéran: “Si telle est la position officielle de l’Arabie Saoudite, nous invitons les autorités de ce pays à réagir plus calmement, avec un bon sens de la responsabilité et avec sagesse”. Telle fut la réplique de Salehi, qui a ajouté que les Iraniens ont bien l’intention de “rester tolérants à l’égard des pays du Golfe Persique, et à l’égard de l’Arabie Saoudite en particulier”. Il a rappelé que des affirmations du genre ont déjà été proférées dans le passé. Pourtant la situation est particulièrement tendue, vu la décision de l’UE d’imposer des sanctions à partir du 23 janvier et vu les pressions qu’exercent les Etats-Unis sur les pays asiatiques pour qu’ils réduisent leurs importations de brut iranien. Le Japon, sollicité par le ministre américain du trésor, craint de devoir réduire de 10% ses importations de brut iranien. Toutefois, un jour plus tard, le premier ministre japonais a redimensionné les déclarations du ministre des finances Azumi.

L’offensive américaine s’est alors concentrée sur la Corée du Sud, dont les importations de pétrole iranien sont plus importantes: 9,6% de toutes ses nécessités en brut viennent d’Iran. Séoul devra opter pour une exemption temporaire des restrictions en matière d’importation de pétrole, à condition de réduire significativement tous les autres échanges avec Téhéran. Les Coréens motivent comme suit la demande temporaire d’exemption: ils doivent d’abord trouver d’autres sources d’approvisionnement. La proposition saoudienne va évidemment dans ce sens: fournir les clients de l’Iran quand celui-ci sera soumis à l’embargo promis et appuyer à sa façon les mesures vexatoires que les Etats-Unis prennent à l’égard de l’Iran.

La situation est rendue encore plus compliquée, notamment vu la tournée (la première depuis vingt ans dans la région) du premier ministre chinois Wen Jiabao dans la péninsule arabique. Wen Jiabao a commencé ce voyage à Ryad, où il a signé un accord pour la construction d’une raffinerie à Yanbou, ville portuaire sur les rives de la Mer Rouge. La Chine, qui a approuvé les sanctions de l’ONU mais critique celles prises unilatéralement par les Etats-Unis et l’UE, est le premier pays importateur de brut iranien, pour un volume correspondant à 5% de sa demande interne. En revanche, les Chinois couvrent 25% de leurs besoins en se fournissant auprès des monarchies du Golfe. La position de la Chine sur la question du nucléaire iranien est donc d’une importance cruciale.

Malgré les pressions américaines, l’Inde a déclaré qu’elle continuerait à se fournir en Iran: “Nous continuerons à acquérir notre pétrole en Iran”, a dit le ministre indien des affaires étrangères, Ranjan Mathai, au cours d’une conférence de presse. Demeure le fait que les offres saoudiennes constituent non seulement un affront à l’Iran mais sont contraires aux principes mêmes de l’OPEP, l’organisation qui équilibre la production de pétrole dans le monde. Pour cette raison, le représentant de l’Iran auprès de l’OPEP, Mohammed Ali Khatibi, dans un entretien accordé au quotidien “Sharq”, a affirmé que “si nos voisins du Sud utilisent leur capacité de production pour se substituer à notre pétrole et s’ils décident de coopérer avec des pays aventuriers (c’est-à-dire dans sa terminologie: “occidentaux”), ils seront responsables de tous les incidents qui se produiront et leur attitude ne sera pas considérée comme amicale”’.

Ensuite, Téhéran a invité les pays européens, qui, prochainement, décideront d’un embargo sur le pétrole iranien, à tenir compte de leurs “intérêts nationaux”. Quelque 18% des exportations iraniennes s’acheminent vers l’Europe et, en particulier, vers l’Italie (180.000 barils/j.), l’Espagne (160.000 barils/j.) et la Grèce (100.000 barils/j.). On sait déjà que Rome s’est immolée sur l’autel des intérêts américains, est restée sourde aux bons conseils venus de Téhéran: “Si l’Union Européenne se veut sérieuse quand elle affirme son indépendance, alors elle devrait se concentrer sur ses intérêts nationaux et non céder aux pressions politiques américaines”, comme l’a dit le porte-paroles du ministère iranien des affaires étrangères, Ramin Mahmanparast.

Alessia LAI.

( a.lai@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 18 janvier 2012; http://www.rinascita.eu ).

Armin Mohler: discípulo de Sorel e teórico da vida concreta

Armin Mohler: discípulo de Sorel e teórico da vida concreta

amb715fd1078.jpgO “mito”, como a “representação de uma batalha”, surge espontaneamente e exerce um efeito mobilizador sobre as massas, incute-lhes uma “fé” e torna-as capazes de actos heróicos, funda uma nova ética: essas são as pedras angulares do pensamento de Georges Sorel (1847-1922). Este teórico político, pelos seus artigos e pelos seus livros, publicados antes da primeira guerra mundial, exerceu uma influência perturbante tanto sobre os socialistas como sobre os nacionalistas.

Contudo, o seu interesse pelo mito e a sua fé numa moral ascética foram sempre – e continuam a sê-lo apesar do tempo que passa – um embaraço para a esquerda, da qual ele se declarava. Podemos ainda observar esta reticência nas obras publicadas sobre Sorel no fim dos anos 60. Enquanto algumas correntes da nova esquerda assumiram expressamente Sorel e consideravam que a sua apologia da acção directa e as suas concepções anarquizantes, que reclamavam o surgimento de pequenas comunidades de “produtores livres”, eram antecipações das suas próprias visões, a maioria dos grupos de esquerda não via em Sorel mais que um louco que se afirmava influenciado por Marx inconscientemente e que trazia à esquerda, no seu conjunto, mais dissabores que vantagens. Jean-Paul Sartre contava-se assim, evidentemente, entre os adversários de Sorel, trazendo-lhes a caução da sua notoriedade e dando, ipso facto, peso aos seus argumentos.

Quando Armin Mohler, inteiramente fora dos debates que agitavam as esquerdas, afirmou o seu grande interesse pela obra de Sorel, não foi porque via nele o “profeta dos bombistas” (Ernst Wilhelm Eschmann) nem porque acreditava, como Sorel esperara no contexto da sua época, que o proletariado detivesse uma força de regeneração, nem porque estimava que esta visão messiânica do proletariado tivesse ainda qualquer função. Para Mohler, Sorel era um exemplo sobre o qual meditar na luta contra os efeitos e os vectores da decadência. Mohler queria utilizar o “pessimismo potente” de Sorel contra um “pessimismo debilitante” disseminado nas fileiras da burguesia.

Rapidamente Mohler criticou a “concepção idílica do conservantismo”. Ao reler Sorel percebeu que é perfeitamente absurdo querer tudo “conservar” quando as situações mudaram por todo o lado. A direita intelectual não deve contentar-se em pregar simplesmente o bom-senso contra os excessos de uma certa esquerda, nem em pregar a luz aos partidários da ideologia das Luzes; não, ela deve mostrar-se capaz de forjar a sua própria ideologia, de compreender os processos de decadência que se desenvolvem no seu seio e de se desembaraçar deles, antes de abrir verdadeiramente a via a uma tradução concreta das suas posições.

Uma aversão comum aos excessos da ética da convicção

Quando Mohler esboça o seu primeiro retrato de Sorel, nas colunas da revista Criticón, em 1973, escreve sem ambiguidades que os conservadores alemães deveriam tomar esse francês fora do comum como modelo para organizar a resistência contra a “desorganização pelo idealismo”. Mohler partilhava a aversão de Sorel contra os excessos da ética da convicção. Vimo-la exercer a sua devastação na França de 1890 a 1910, com o triunfo dos dreyfusards e a incompreensão dos Radicais pelos verdadeiros fundamentos da Cidade e do Bem Comum, vimo-la também no final dos anos 60 na República Federal, depois da grande febre “emancipadora”, combinada com a vontade de jogar abaixo todo o continuum histórico, criminalizando sistematicamente o passado alemão, tudo taras que tocaram igualmente o “centro” do tabuleiro político.

Para além destas necessidades do momento, Mohler tinha outras razões, mais essenciais, para redescobrir Sorel. O anti-liberalismo e o decisionismo de Sorel haviam impressionado Mohler, mais ainda do que a ausência de clareza que recriminamos no pensamento soreliano. Mohler pensava, ao contrário, que esta ausência de clareza era o reflexo exacto das próprias coisas, reflexo que nunca é conseguido quando usamos uma linguagem demasiado descritiva e demasiado analítica. Sobretudo “quando se trata de entender elementos ou acontecimentos muito divergentes uns dos outros ou de captar correntes contrárias, subterrâneas e depositárias”. Sorel formulou pela primeira vez uma ideia que muito dificilmente se deixa conceptualizar: as pulsões do homem, sobretudo as mais nobres, dificilmente se explicam, porque as soluções conceptuais, todas feitas e todas apropriadas, que propomos geralmente, falham na sua aplicação, os modelos explicativos do mundo, que têm a pretensão de ser absolutamente completos, não impulsionam os homens em frente mas, pelo contrário, têm um efeito paralisante.

Ernst Jünger, discípulo alemão de Georges Sorel

Mohler sentiu-se igualmente atraído pelo estilo do pensamento de Sorel devido à potencialidade associativa das suas explicações. Também estava convencido que este estilo era inseparável da “coisa” mencionada. Tentou definir este pensamento soreliano com mais precisão com a ajuda de conceitos como “construção orgânica” ou “realismo heróico”. Estes dois novos conceitos revelam a influência de Ernst Jünger, que Mohler conta entre os discípulos alemães de Sorel. Em Sorel, Mohler reencontra o que havia anteriormente descoberto no Jünger dos manifestos nacionalistas e da primeira versão do Coração Aventureiro (1929): a determinação em superar as perdas sofridas e, ao mesmo tempo, a ousar qualquer coisa de novo, a confiar na força da decisão criadora e da vontade de dar forma ao informal, contrariamente às utopias das esquerdas. Num tal estado de espírito, apesar do entusiasmo transbordante dos actores, estes permanecem conscientes das condições espacio-temporais concretas e opõem ao informal aquilo que a sua criatividade formou.

O “afecto nominalista”

O que actuava em filigrana, tanto em Sorel como em Jünger, Mohler denominou “afecto nominalista”, isto é, a hostilidade a todas as “generalidades”, a todo esse universalismo bacoco que quer sempre ser recompensado pelas suas boas intenções, a hostilidade a todas as retóricas enfáticas e burlescas que nada têm a ver com a realidade concreta. É portanto o “afecto nominalista” que despertou o interesse de Mohler por Sorel. Mohler não mais parou de se interessar pelas teorias e ideias de Sorel.

Em 1975 Mohler faz aparecer uma pequena obra sucinta, considerada como uma “bio-bibliografia” de Sorel, mas contendo também um curto ensaio sobre o teórico socialista francês. Mohler utilizou a edição de um fino volume numa colecção privada da Fundação Siemens, consagrado a Sorel e devida à pluma de Julien Freund, para fazer aparecer essas trinta páginas (imprimidas de maneira tão cerrada que são difíceis de ler!) apresentando pela primeira vez ao público alemão uma lista quase completa dos escritos de Sorel e da literatura secundária que lhe é consagrada. A esta lista juntava-se um esboço da sua vida e do seu pensamento.

Nesse texto, Mohler quis em primeiro lugar apresentar uma sinopse das fases sucessivas da evolução intelectual e política de Sorel, para poder destacar bem a posição ideológica diversificada deste autor. Esse texto havia sido concebido originalmente para uma monografia de Sorel, onde Mohler poria em ordem a enorme documentação que havia reunido e trabalhado. Infelizmente nunca a pôde terminar. Finalmente, Mohler decidiu formalizar o resultado das suas investigações num trabalho bastante completo que apareceu em três partes nas colunas da Criticón em 1997. Os resultados da análise mohleriana podem resumir-se em 5 pontos:

Uma nova cultura que não é nem de direita nem de esquerda

1. Quando falamos de Sorel como um dos pais fundadores da Revolução Conservadora reconhecemos o seu papel de primeiro plano na génese deste movimento intelectual que, como indica claramente o seu nome, não é “nem de direita nem de esquerda” mas tenta forjar uma “nova cultura” que tomará o lugar das ideologias usadas e estragadas do século XIX. Pelas suas origens este movimento revolucionário-conservador é essencialmente intelectual: não pode ser compreendido como simples rejeição do liberalismo e da ideologia das Luzes.

2. Em princípio, consideramos que os fascismos românicos ou o nacional-socialismo alemão tentaram realizar este conceito, mas estas ideologias são heresias que se esquecem de levar em consideração um dos aspectos mais fundamentais da Revolução Conservadora: a desconfiança em relação às ideias que evocam a bondade natural do homem ou crêem na “viabilidade” do mundo. Esta desconfiança da RC é uma herança proveniente do velho fundo da direita clássica.

3. A função de Sorel era em primeiro lugar uma função catalítica, mas no seu pensamento encontramos tudo o que foi trabalhado posteriormente nas distintas famílias da Revolução Conservadora: o desprezo pela “pequena ciência” e a extrema valorização das pulsões irracionais do homem, o cepticismo em relação a todas as abstracções e o entusiasmo pelo concreto, a consciência de que não existe nada de idílico, o gosto pela decisão, a concepção de que a vida tranquila nada vale e a necessidade de “monumentalidade”.

Não há “sentido” que exista por si mesmo.

4. Nesta mesma ordem de ideias encontramos também esta convicção de que a existência é desprovida de sentido (sinnlos), ou melhor: a convicção de que é impossível reconhecer com certeza o sentido da existência. Desta convicção deriva a ideia de que nunca fazemos mais que “encontrar” o sentido da existência forjando-o gradualmente nós próprios, sob a pressão das circunstâncias e dos acasos da vida ou da História, e que não o “descobrimos” como se ele sempre tivesse estado ali, escondido por detrás do ecrã dos fenómenos ou epifenómenos. Depois, o sentido não existe por si mesmo porque só algumas raras e fortes personalidades são capazes de o fundar, e somente em raras épocas de transição da História. O “mito”, esse, constitui sempre o núcleo central de uma cultura e compenetra-a inteiramente.

5. Tudo depende, por fim, da concepção que Sorel faz da decadência – e todas as correntes da direita, por diferentes que sejam umas das outras, têm disso unanimemente consciência – concepção que difere dos modelos habituais; nele é a ideia de entropia ou a do tempo cíclico, a doutrina clássica da sucessão constitucional ou a afirmação do declínio orgânico de toda a cultura. Em «Les Illusions du progrès» Sorel afirma: “É charlatanice ou ingenuidade falar de um determinismo histórico”. A decadência equivale sempre à perda da estruturação interior, ao abandono de toda a vontade de regeneração. Sem qualquer dúvida, a apresentação de Sorel que nos deu Mohler foi tornada mais mordaz pelo seu espírito crítico.

Uma teoria da vida concreta imediata

Contudo, algumas partes do pensamento soreliano nunca interessaram Mohler. Nomeadamente as lacunas do pensamento soreliano, todavia patentes, sobretudo quando se tratou de definir os processos que deveriam ter animado a nova sociedade proletária trazida pelo “mito”. Mohler absteve-se igualmente de investigar a ambiguidade de bom número de conceitos utilizados por Sorel. Mas Mohler descobriu em Sorel ideias que o haviam preocupado a ele também: não se pode, pois, negar o paralelo entre os dois autores. As afinidades intelectuais existem entre os dois homens, porque Mohler como Sorel, buscaram uma “teoria da vida concreta imediata” (recuperando as palavras de Carl Schmitt).

Karlheinz Weissmann

traduzido por Rodrigo Nunes

causanacional.net

vendredi, 27 janvier 2012

Plaidoyer pour un protectionnisme européen

Plaidoyer pour un protectionnisme européen

« L’UE, avec ses 495 millions d’habitants, reste à ce jour le plus vaste et le plus riche marché du monde. Face à la menace de rétorsions commerciales, elle a des arguments à faire valoir pour négocier les conditions auxquelles elle consent à acheter les produits et services du monde. » affirme Gaël Giraud, chercheur au CNRS.

Sans attendre que les circonstances nous l’imposent, il nous serait possible de développer un « protectionnisme européen raisonné ». De quoi s’agirait-il ? D’imposer des barrières douanières autour de l’Union européenne (UE), qui pénalisent les biens, services et capitaux importés des pays : qui ne respectent pas les conditions de travail « décentes » préconisées par l’Organisation internationale du travail ; qui ne respectent pas les accords internationaux de Kyoto ; qui tolèrent les sociétés écrans et permettent de contourner l’impôt dû ailleurs (non pas les paradis fiscaux au sens de la liste « grise » de l’OCDE, vidée de toute substance, mais au sens, par exemple, de l’indice d’opacité financière établi par le Tax Justice Network.

Ces conditions peuvent paraître insuffisantes : elles laissent de côté, notamment, les accords multilatéraux sur l’environnement, ainsi que tout ce qui pourrait concerner la lutte contre le dumping salarial. Elles n’en constitueraient pas moins une première étape. Quant à établir une taxe sur les biens produits dans des conditions salariales « déloyales », elle suppose une révision intellectuelle en profondeur du concept même de concurrence, qui n’est guère à la portée, aujourd’hui, de la Commission européenne ou encore de l’Organisation mondiale du commerce (OMC).

Quoi qu’il en soit, cette étape devrait s’accompagner d’un plan de transition verte de la zone euro (si cette dernière survit). La protection de notre industrie et de notre agriculture pour leur « mue » est une condition sine qua non de succès : le climat et l’énergie exigent des investissements de long terme pharaoniques (600 milliards d’euros selon la Fondation Nicolas Hulot), dans les infrastructures ferroviaires, la capture du CO2, l’isolation de l’habitat… La pression de la concurrence internationale rend difficilement envisageables de tels investissements. Il nous faut une nouvelle révolution industrielle, non moins phénoménale que celles des XVIIIe et XIXe siècles. Ni l’Angleterre, ni l’Allemagne, ni la France, les États-Unis ou le Japon n’ont eu recours aux débouchés extérieurs pour leur décollage économique.

En un sens, la taxe écologique, abandonnée par le président Sarkozy, eût été un premier pas dans cette direction. Et le Système monétaire européen, de 1979 à 1993, constituait une version tout à fait réussie, dans son principe, d’une forme de protectionnisme régional tempéré. Sans doute conviendrait-il d’édifier de telles barrières par étapes, en ménageant, au moins dans un premier temps, les relations de l’UE avec l’Amérique du Nord, la Norvège ou la Suisse, par exemple. Nous devrons également faire des exceptions pour ce qui concerne les matières premières importées, certains produits agricoles et les biens d’équipement sans lesquels les entreprises européennes ne peuvent plus tourner. Mais ces exceptions devraient être débattues à l’échelon politique européen. Quel usage, surtout, faudra-t-il faire des recettes induites par ces nouveaux droits de douane ? Elles pourraient abonder un fonds d’aide au développement des pays du Sud (destiné à les aider à améliorer les conditions de travail de leurs salariés et à diminuer, chez eux, la facture écologique) ou encore un fonds souverain européen pour accélérer la transition vers une industrie verte.

Loin de constituer un renoncement à toute forme de concurrence sur le territoire européen, un cordon sanitaire permettrait, au contraire, l’organisation d’une concurrence loyale, les entreprises qui s’installeraient en Europe ayant à travailler dans les mêmes conditions que les nôtres. Bien sûr, nous devrions nous appliquer les critères imposés au reste du monde : en particulier une harmonisation fiscale européenne (l’UE compte de nombreux paradis fiscaux, à commencer par le Royaume-Uni, le Luxembourg, l’Autriche, l’Irlande ou Malte)

À qui ce protectionnisme ferait-il mal ?

Ce protectionnisme provoquerait-il une hausse du coût de la vie (en renchérissant les produits importés) ? Rien n’est moins sûr. Il rendrait enfin possible le rattrapage salarial qui nous fait cruellement défaut, en Allemagne comme dans le reste de l’Europe – condition nécessaire pour rendre une transition verte économiquement rentable. Car aujourd’hui, ce que nous gagnons comme consommateurs en achetant des biens bon marché produits hors d’Europe, nous le perdons, comme salariés, du fait de la compression des salaires.

Bien sûr, des mesures de protection commerciale n’inciteront pas seulement certains de nos partenaires à produire davantage pour leurs marchés internes (à l’instar de la Chine) : elles induiront aussi des rétorsions de leur part. Les PME françaises qui exportent à l’étranger en souffriraient-elles ? Avec raison, les médias relayent volontiers la réussite de certaines d’entre elles. Ainsi, les 600 producteurs de la coopérative d’Isigny-Sainte-Mère, dans le Calvados, exportent leur lait depuis trente ans. Mais c’est une exception. En 2008, environ 100 000 entreprises françaises exportaient des biens, d’après les Douanes, soit une entreprise sur 20. L’essentiel des exportations est assuré par un très petit nombre d’entreprises : mille assurent 70 % du chiffre d’affaires à l’export. Ce sont les grands groupes français et les entreprises de groupes étrangers implantés en France. La part des PME indépendantes reste limitée. Les années 2000, très « libre-échangistes » dans le discours, ont connu une baisse du nombre d’entreprises exportatrices françaises.

Et la moitié des PME qui exportent ont pour débouché un pays d’Europe de l’Ouest et ne seraient pas concernées par un cordon commercial européen. Un quart seulement exportent vers un pays émergent. On peut imaginer que les recettes des droits de douane servent aussi à soutenir le petit nombre de PME qui auraient à souffrir d’une telle politique. Enfin, la baisse de productivité qu’exigera notre transition verte, tout comme le transfert de nombreuses activités à la campagne, le réaménagement du territoire, etc., pourront être source de créations d’emplois et compenser le manque à gagner des PME concernées par d’éventuelles pertes de marchés extérieurs.

Qui, en Europe, serait donc pénalisé ? Le secteur financier. La déflation salariale et le maintien d’un chômage de masse en Europe (qui ne sont pas étrangers aux politiques de libre-échange exigent, pour être socialement supportables, une inflation faible. Celle-ci favorise l’explosion du rendement des placements financiers malgré une croissance molle depuis vingt ans. Mais l’insuffisance du pouvoir d’achat des ménages occidentaux a conduit à un recours massif au crédit à la consommation, à l’origine de la crise initiée en 2007. Le relâchement de la contrainte salariale des pays du Sud lèverait un obstacle majeur à une revalorisation des salaires et des prestations sociales au Nord pour répondre à l’inflation (due au pic du pétrole). Les revenus financiers s’en trouveraient mécaniquement rognés. Est-ce un mal ?

Si l’Europe voulait…

Lorsqu’en février 2009, la commissaire européenne en charge de la concurrence, Neelie Kroes, fait des remontrances à la France parce qu’elle conditionne son aide publique au secteur automobile à des engagements de non-délocalisation et de protection des emplois nationaux, deux remarques s’imposent. Tout d’abord, la conditionnalité d’une telle aide devrait porter en priorité sur l’accélération de la transition vers la production d’automobiles électriques. Subventionner l’automobile à essence, compte-tenu de la contrainte environnementale et énergétique, est un non-sens. Bruxelles a eu raison de tancer Paris… mais pour de mauvais motifs ! C’est au niveau européen qu’une aide publique à l’industrie européenne (verte), conditionnée à des clauses de non-délocalisation, devrait être organisée. Car la délocalisation (celle des usines que l’on ferme, mais aussi celle, invisible, de toutes les décisions d’investissement qui ne sont pas prises sur le sol européen n’est rendue intéressante que grâce au dumping salarial des pays émergents et au coût relatif très faible jusque-là, du pétrole.

La seconde étape de cette politique commerciale, destinée à contrebalancer le dumping salarial des pays émergents (mais aussi du Japon et de l’Allemagne), ferait-elle tort aux pays exportateurs ? Elle contrarierait une dynamique au terme de laquelle les pays émergents, la Russie et l’Opep (Organisation des pays exportateurs de pétrole) réalisent à eux seuls 50 % de la valeur des exportations mondiales en 2010 (contre 27 % en 1998). Mais elle les inviterait à revaloriser leur demande interne. La consommation des ménages représente moins de 35 % du volume du Pib chinois en 2010, contre 50 % en 1998. Et la part de la masse salariale, 48 % du Pib chinois en 2010, contre 52 % en 2001. Les bénéfices que la Chine retire de la mondialisation ne sont donc pas distribués au profit des salariés. C’est cette logique qu’un protectionnisme européen viendrait entraver. La Chine centralisée d’avant « l’ouverture » connaissait une assurance maladie, supprimée depuis lors pour augmenter son avantage compétitif.

L’UE, avec ses 495 millions d’habitants, reste à ce jour le plus vaste et le plus riche marché du monde. Face à la menace de rétorsions commerciales, elle a des arguments à faire valoir pour négocier les conditions auxquelles elle consent à acheter les produits et services du monde. D’ailleurs, les représailles existent déjà : les contrats chinois passés avec Airbus ou Boeing prévoient que les futurs avions soient sous-traités en Chine, dans le cadre de co-investissements avec des entreprises chinoises. Pékin a choisi, au début des années 2000, d’instituer une taxe de 23 % sur les importations d’avions régionaux, en vue de protéger sa production. Et nous devrions nous refuser à adopter ce type de politique commerciale bien comprise par crainte de rétorsions que nous subissons déjà ?

Des mesures protectionnistes vont-elles à contre-sens de ce que préconisent Bruxelles et l’OMC ? Les articles du Traité de Lisbonne ont été allègrement bafoués lors des grandes opérations de consolidation du secteur bancaire menées à la faveur de la crise. Serait-ce que l’extraordinaire concentration du secteur, qui accroît le risque systémique lié aux banques « too big to fail », ne contrevient pas aux règles de la saine concurrence ? La Commission sait faire des exceptions à ses principes. C’est donc qu’ils ne sont pas inviolables et doivent pouvoir faire l’objet d’un véritable débat démocratique. Sans cela, les deux revirements stratégiques évoqués supra auxquels nous serons sans doute contraints à plus ou moins brève échéance – le renoncement, pour cause de « dé-globalisation », au pari allemand des exportations extra-européennes comme principal moteur de la croissance ; la fermeture du capital des entreprises européennes aux investisseurs orientaux – seront pratiqués dans une forme de déni schizophrène.

À l’aube d’une âpre négociation ?

Pour mettre des barrières douanières, il faut l’accord unanime des Vingt-Sept. La Pologne, l’Espagne, l’Estonie ont des secteurs industriels très différents de ceux de la France et de l’Allemagne. Les négociations promettent d’être complexes ! L’Angleterre y sera hostile par tradition et par souci de conserver ses relations transatlantiques. L’Allemagne, grisée par le succès de ses exportations de biens d’équipement, se pense comme une grande bénéficiaire du libre-échange (alors que le pouvoir d’achat de ses classes moyennes a diminué depuis quinze ans). Elle ne consentira à une déchirante révision que lorsqu’il deviendra clair que sa stratégie d’exportation sur les marchés émergents est vouée à l’échec par le pétrole très cher et la réorientation de l’industrie chinoise vers son propre marché domestique. La percée que le Parti vert allemand est en train de réaliser outre-Rhin, aux dépens de la très libérale FDP (Parti libéral-démocrate) et de la CDU (Union chrétienne démocrate), pourrait augurer un changement d’attitude à l’égard d’un possible protectionnisme écologique. En France, une telle volonté politique emporterait l’assentiment de 55 % des Français. Mais c’est à l’échelle européenne qu’une telle politique devrait être menée.

ContreInfo.info

Loi sur le génocide arménien : une régression civilisationnelle

pet11122208.jpg

Loi sur le génocide arménien : une régression civilisationnelle

Jean-Yves LE GALLOU

Ex: http://www.polemia.com/

En votant une loi sur la répression de la négation du génocide arménien le Parlement français a commis une double atteinte : à la liberté d’expression et à l’esprit européen. Explications.

Au XIXe siècle la bataille politique en France s’est concentrée sur la liberté d’expression et d’opinion. L’arbitrage final a été rendu par la grande loi de 1881 sur la liberté de la presse. Son article premier est lumineux : « L'imprimerie et la librairie sont libres ». Ce principe rencontrait alors peu d’exceptions : certes, la diffamation était poursuivie par le Code pénal mais dans un cadre procédural très strict et très protecteur des libertés. En dehors des périodes de guerre et de troubles civils ce dispositif protecteur des libertés a duré près d’un siècle.

Régression des libertés

Il a été profondément bouleversé en 1972 avec le vote de la loi Pleven. Sous prétexte de lutter contre le « racisme », le délit d’opinion a été rétabli en France et, dans les faits, les débats libres sur l’immigration ont été rendus difficiles.

Nouvelle entorse à la liberté en 1990 avec la loi Gayssot créant le délit d’opinion historique à propos de la « shoah », une loi aboutissant à mettre en prison des hommes (Vincent Reynouard récemment) sur le seul fondement d’un délit d’opinion. Le fait que ces opinions soient réputées odieuses ne sont pas un argument justificatif : ni M. Trotski, ni M. Lénine, ni M. Hitler, ni M. Staline, ni M. Mao n’ont déporté des gens dont ils trouvaient les idées sympathiques. Ce sont évidemment les gens qui tiennent des idées jugées odieuses dont la liberté a besoin d’être protégée. Penser autrement c’est adopter une attitude totalitaire.

En 2001, précisément, nouvelle avancée du totalitarisme avec la loi Taubira créant le délit d’opinion sur la traite atlantique (et sur la seule traite atlantique ; la traite méditerranéenne, orientale et musulmane n’étant pas concernée !). Dans la foulée l’historien Olivier Pétré-Grenouilleau est poursuivi devant les tribunaux pénaux.

Ajoutons que les filets protecteurs de la procédure de diffamation sont progressivement abrogés : impossibilité d’offrir des preuves, refus de reconnaître la bonne foi, allongement des délais de prescription.

Régression civilisationnelle

Cette formidable régression des libertés s’accompagne d’une régression civilisationnelle.

A travers l’antiquité gréco-latine, la première Renaissance du XIIe/XIIe siècle, la grande Renaissance, la pensée européenne a toujours distingué deux ordres de vérité

  • - les vérités religieuses où le dogme s’impose comme article de foi ;
  • - les vérités scientifiques ou historiques qui se déterminent par le libre débat. Dans ces domaines peut être dit vrai (ou faux) ce qui est librement réfutable. Philosophiquement, un fait, une opinion, un point de vue, une analyse qui ne peut être librement réfuté ne peut–être dit ni vrai, ni faux (sauf dans l’ordre religieux). Ainsi les lois mémorielles transforment-ils des événements historiques en dogmes religieux. C’est une formidable régression.

En retirant des pans entiers d’histoire au libre examen, les lois mémorielles (Gayssot, Taubira ou Boyer) ne sont pas seulement des atteintes à la liberté d’expression, ce sont aussi des fautes contre l’esprit.

Jean-Yves Le Gallou
Polémia
24/01/2012

Voir aussi :

Evolution des libertés en France : Cent restrictions en quarante ans (reprise de l'article paru le 01/12/07)
La loi Gayssot : une régression civilisationnelle

 

¿Qué es una Guerra Escatológica?

¿Qué es una Guerra Escatológica?

Por Sergio Prince Cruzat

Ex: http://geviert.wordpress.com/

 

I.  Introducción

En este trabajo intento dilucidar el significado de la expresión ‘guerra escatológica’ acuñado por  J. Derrida (1930 – 2004).  La EXPLICACIÓN de la guerra escatológica, no se encuentra en las taxonomías tradicionales de la guerra. Se trata de una problematización propia del filósofo argelino pero que nunca desarrolló. Por lo demás los conceptos mismos de guerra y escatología nunca fueron objeto, por parte de Derrida, de una indagación sistemática. El análisis que yo propongo no es definitivo; constituye un conjunto de conjeturas más que una tesis. Se trata de la descripción de tres escatologías cuyos enunciados son importantes para el estudio de las relaciones internacionales. Lo que presento a la consideración del lector no es otra cosa que un modo de problematización del estudio de la guerra en el siglo XXI.

Cuando se estudia el significado del concepto ‘guerra’, encontramos numerosas taxonomías que remiten a expresiones tales como, guerra convencional, asimétrica, de cuarta generación y, últimamente, guerra irrestricta [1]. No aparece hasta ahora definición alguna de ‘guerra escatológica’. Esto se debe, en gran medida, a que la expresión fue acuñada en un ámbito aparentemente ajeno a los estudios políticos y estratégicos. Esta aparece en un escrito del filósofo posestructuralista francés Jaques Derrida (1930 – 2004). Éste se  titula De espectros de Marx. El estado de la deuda, el trabajo del duelo y la nueva internacional. Data de 1993. En el capítulo II titulado Conjurar el marxismo, se refiere a la  guerra entre escatologías, la guerra por la “apropiación simbólica de Jerusalén”, la verdadera guerra mundial, que demuestra que la promesa neo – evangélica de Fukuyama (1992) no se ha cumplido y sigue siendo sólo eso: una promesa. Fukuyama afirmaba que la caída del comunismo y el triunfo de las democracias liberales marcaban el comienzo de la etapa final en la que no había más lugar para largas batallas ideológicas. En este sentido, la historia habría terminado. El “Fin de la historia”, afirmó Fukuyama, significaría el fin de las guerras y de las revoluciones sangrientas, los hombres podrían satisfacer sus necesidades a través de la actividad económica sin tener que arriesgar sus vidas en ese tipo de batallas. Según Derrida (1992) este evangelio desempeña un papel que excede la trasnominación como cliché retórico e indica la mayor concentración sintomática o metonímica de lo que es irreductible en la coyuntura mundial que tenía [y aún tiene hoy] lugar en Medio Oriente. Allí se movilizan tres escatologías mesiánicas distintas, allí todas las fuerzas del mundo, todo el “orden mundial” participa en la guerra sin cuartel que mantienen, directa o indirectamente las tres religiones del Libro:

[…] la mayor concentración sintomática o metonímica de lo que permanece irreductible en la coyuntura mundial […] tiene su lugar, su imagen o la imagen de su lugar, en Oriente Medio: tres escatologías mesiánicas distintas movilizan allí todas las fuerzas del mundo y todo el “orden mundial” en la guerra sin cuartel que mantienen, directa o indirectamente; movilizan [...]

¿A qué se refiere Derrida cuando habla de la mayor concentración sintomática o metonímica de lo que irreductible en la coyuntura mundial? Veamos. Sintomático es lo que constituye un síntoma de algo y, síntoma, es un indicio que revela un trastorno funcional. Por otra  parte, la  metonimia[2] es un tropo que alude al sentido translaticio. Ambos términos hablan sobre algo haciendo referencia a un otro que se relaciona con el algo de algún modo. Síntoma y metonimia son un hablar, un decir indirecto sobre algo que no es lo hablado o lo dicho. Ambos términos nos indican la existencia de algo velado, inefable que es al mismo tiempo irreductible. En el Corán las metonimias, las metáforas no son un mero recurso retórico, sino que ponen de manifiesto, develan la semejanza entre lo oculto y lo visible. En el libro sagrado del Islam hay una palabra que indica esta conexión, tawhîd. Esta palabra denota la conexión interior entre el mundo espiritual y el material, se refiere a la conciencia de que todo está relacionado, nos recuerda que el mundo no es un conjunto de cosas, sino un conjunto de signos que denotan a otra cosa que no son sí mismo. Una montaña es una palabra, un río es otra, un paisaje es una frase. Todo dice, todo es lenguaje y permanece conectado. Ahora bien, para Derrida lo irreductible es la crisis que afecta una sociedad como resultado de la convergencia de un conjunto relevante de eventos tales como los equilibrios presupuestarios, los imperativos técnicos, económicos, científicos y militares, que están inefablemente vinculados al mundo espiritual. A mayor imposición de estos imperativos materiales  mayor es la irreductibilidad espiritual de una crisis (Derrida, 1991)[3]. Entonces, podemos entender la mayor concentración de metonimia como la mayor cantidad de argumentos espirituales indirectos que demuestran que la Historia se resiste a su fin. Estos argumentos espirituales y materiales se manifiestan con una claridad meridiana en los conflictos, en la crisis permanente que vive el Medio Oriente

Al refutar la tesis de Fukuyama, Derrida abrió,  un nuevo campo de estudio y la posibilidad de una nueva reflexión sobre los conflictos, la guerra y el terrorismo. Todo sintetizado en los acontecimientos del Medio Oriente, en esta guerra sin cuartel que mantienen, directa o indirectamente las religiones del Libro. Estas enfrentan el mundo globalizado en una lucha intestina que tiene rasgos de una guerra civil. Economía y política  de árabes, judíos y cristianos se enfrentan en una lucha sin cuartel que impide la paz prometida por la democracia liberal y el libre mercado que predicó el politólogo de origen nipón.

II.  Los mitemas de las escatologías

Revisemos la estructura o los mitemas[4] de las tres escatologías. Estas comparten la creencia  en una Edad de Oro, en una Teleología de la Historia, en un Demiurgo o un sujeto de la historia y en una sociedad futura: una Jerusalén reconstruida que vendrá al mundo para premiar a los justos.

En la guerra escatológica se enfrentan estructuras fundadas en la creencia de una verdad única, lo que imposibilita un dialogo racional. Cualquier toma y dacca se da entre elementos superficiales. Existe una suerte de dificultad ontológica que impide solucionar el conflicto o acabar con la guerra. El conflicto entre escatologías permite un acuerdo cosmético sólo sobre un tema: los orígenes de la humanidad. Las escatologías comparten lo que llamaré la estructura hesíodica del mito sobre el origen de la humanidad. Comparten la idea de una Edad de Oro que podemos rastrear hasta el poema Trabajos y Días, en donde el poeta relata el mito de las edades:

al principio, los Inmortales, en tiempos de Cronos, crearon una dorada estirpe de hombres mortales, quienes vivían en paz y armonía con los dioses, disfrutando de los deleites de una vida fácil, abundante en riquezas y comodidades, hasta que la vida se les acababa en sueños, sin sufrimiento. Luego, crearon una estirpe de inmortales de plata, de menor inteligencia y belleza. Los niños se criaban bajo la protección de su madre y, ya adultos, vivían poco tiempo lleno de sufrimiento debido a su falta de sabiduría, extremada violencia y falta de respeto por los dioses. Después de que muriera esta estirpe, Zeus creó una tercera, de bronce, interesada solo en la guerra, por lo que la edad de oro es la edad originaria, primigenia, en la cual se vive la unidad original (Hesíodo, [VIII a. C.] 2007).

En lo referente a  la teleología de la historia, su sentido, su finalidad no hay acuerdo posible a pesar de los esfuerzos del ecumenismo. Para las tres religiones del libro este es un tema fundamental ya que expresa el propósito de éstas y  explica la acción presente en pos de aquel futuro lejano. Los especialistas han  distinguido varias formas de teleología, en especial tendientes a diferenciar lo que se entiende por  “finalidad” en las ciencias naturales con lo que se entiende por “finalidad” o propósito en la filosofía y las humanidades en donde se utilizan las nociones de “tendencia, “aspiración”, “intencionalidad” y “propósito para explicar el significado del telos. El fin o el propósito de las religiones del libro es hacer que la fe en la escatología desempeñe un papel efectivo, práctico, reformando la vida humana, preparándola para el gran final.

Sobre este último punto, se presentan las diferencias que impiden el acuerdo de la paz  y que convocan a la guerra para imponer la recta ratio. Los judíos esperan el mesías, los cristianos esperan que el mesías vuelva a gobernar y los islamitas esperan el paraíso en el cual serán premiados con todos los placeres sensuales que les han sido privados en la vida en este mundo. Ni un cristiano ni un judío esperan el paraíso de Alá. Ni un buen islamita espera algo así como la venida del Mesías de origen humano o el Reino de Cristo al final de los tiempos. Así, parece lícito tratar de convertir a los otros a “verdad”. De allí que el otro pase de enimicus a hostis por no aceptar la verdad.

Tener que decidir quién es el sujeto de la historia, el Demiurgo, divide a  las escatologías. Esta decisión implica decidir quién transforma la realidad y mueve la Historia: ¿Yavé? ¿Cristo? ¿Alá? Los atributos de Dios son muy similares en las distintas escatologías, sin embargo, las especulaciones teológicas provocan un abismo insalvable entre ellos. El atributo que da rango de soberano a quienes gobiernan desde el “cielo a sus súbditos, hace imposible la decisión racional. Yavé, Melej haMelajim[5] (rey de reyes de Israel), Alá al-Maalik (el soberano)[6] y Cristo Rey, disputan la soberanía sobre el cuerpo y el espíritu de los seres  humanos.

Aquí surgen preguntas tal como: ¿Qué rey gobierna la historia? o ¿Qué rey gobernará al final de los siglos? En el Medio Oriente combaten los soldados de Dios, los soldados de  Yavé, Jesucristo y Alá. Luchan por establecer un reino, reino de paz, de justicia, de amor pero epistemológicamente excluyente y ontológicamente  intolerante. Por la fuerza de las armas Dios busca imponerse al igual que en las Cruzadas, en las Guerras de religión de Francia, en el Ulster, en los Balcanes, en el Líbano, y en las hostilidades que aún enfrentan a palestinos e israelíes.

En esta lucha del Oriente Próximo se juega el rostro, el carácter que tendrá el Fin de los Tiempos. Por esta razón Derrida pudo afirmar que la tesis del Fin de la Historia de Fukuyama (1992) estaba errada. Es obvio que entonces existían y aún existen fuerzas que luchan, que combaten, que guerrean con la finalidad de imponer su escatología. Una guerra escatológica, una guerra por el Fin de los Tiempos, no se entrega a las reglas del Arte de la Guerra propuestas por  Suntzu, Maquiavelo o Clausewitz. La guerra entre escatologías va más allá de toda regla, de todo límite, de todo concepto tradicional de “soldado” “arma”, y campo de batalla. Por ejemplo, la nueva conceptualización de arma en la guerra entre escatologías considera todos los medios que trascienden el ámbito militar, pero que aún pueden ser utilizados en operaciones de combate. Todo lo que puede beneficiar a la humanidad también puede hacerle daño (Faundes, 2010). Esto quiere decir que no hay nada en el mundo de hoy que no puede convertirse en un arma, y esto requiere pensar que se puede abrir el dominio del reino de armas de un solo golpe: un accidente en un solo mercado de valores, una invasión de virus o el rumor de una o escándalo que dé lugar a una fluctuación en los tipos de cambio del país enemigo o que exponga a los líderes enemigos en Internet, todos pueden ser incluidos en las filas de la nueva concepción de armas (Liang y Xiangsui. (1999:25)[7]

Faundes (2010) también nos dice que observando en detalle el fenómeno guerra, tal como lo describen los coroneles China Liang y Xiangsui (1999)[8], es posible entender que la sutileza es una nueva herramienta que se puede explotar, por medio de ataques imperceptibles que afecten el funcionamiento regular de un país, por ejemplo alterando la calidad del agua, atentando contra los productos de exportación, interviniendo el mercado financiero local, azuzando movimientos en contra del poder político (sindicales y étnicos, por ejemplo), efectuando ataques informáticos, etc. Con todo, una Estado puede estar en medio de una guerra escatológica sin siquiera saberlo, peor aún, desconociendo al adversario. Veamos un ejemplo. El 13 de septiembre de 2010 minuto digital.com[9] informó:

“que tal y como informa España y Libertad en su web, la última ofensiva mediática yihadista data del pasado miércoles: los radicales llaman al “boicot” y a “combatir” a España tras conocer que en Águilas se reabrió una discoteca de nombre La Meca. Los yihadistas, incluso, amenazan con una «gran guerra entre España y el pueblo del Islam”.

A pesar de la violencia del discurso yihadista, no todos los españoles saben que están en medio de un combate escatológico, como el que vivieron hace siglos. La guerra con el Islam no terminó con la conquista de Granada en 1492 y desde entonces las armas se han sofisticado hasta llegar a ser armas de la cotidianeidad. Liang y Xiangsui precisan:

“Lo que debe quedar claro es que el nuevo concepto de armas está en el proceso de creación de nuevas armas que están estrechamente relacionadas con la vida de la gente común”. Con el advenimiento de este nuevo concepto de las armas la guerra escatológica se elevará a un nivel insospechado por la gente común y los militares: “Creemos que algunas personas despertarán por la mañana para descubrir con sorpresa que algunos objetos amables y cotidianos han comenzado a tener características ofensivas y letales (Liang y Xiangsui, 1999:26).[10]

III. Los mitemas del soldado

El soldado que combate al alero de una escatología tiene clara la distinción entre el bien y el mal. Nada más necesario. Esta claridad que no existe entre los filósofos contemporáneos permite al soldado saber que su causa es justa en tanto él es servidor del bien. Esta licenciado y protegido por la bondad que encarna la patria, la patria celestial y / o llamada por Dios a ser el eje de la Historia Universal. Las distinciones entre Bien y Mal suelen coincidir con la distinción amigo enemigo y, siguiendo a Schmitt, puedo afirmar que enemigo, es para el soldado de la escatología, aquel el conjunto de hombres y mujeres  que de acuerdo con una posibilidad real se le opone combativamente. [11] Existe un enorme parecido entre el amigo y el enemigo schmittiano que también se observa entre el amigo enemigo escatológico; son una esencia que los hace existencialmente distintos en un sentido particularmente intensivo que hemos mencionado supra: ‘¿Qué Dios es el motor de la Historia?’ Responder a esta pregunta es lo que lleva, quizás, al punto más extremo de su relación ¿Existe alguien, fuera de ellos, que pueda intervenir en la decisión del conflicto? Schmitt responde a esta cuestión diciendo que sólo es posible intervenir en la medida en que se toma partido por uno o por otro, cuando el tercero se convierte en amigo o enemigo. No hay mediación posible, no hay neutralidad posible en el enfrentamiento entre diferentes telos. El conflicto sólo puede ser resuelto por los implicados, pues sólo a ellos les corresponde decidir si permiten su domesticación o viceversa como una forma de proteger su forma esencial de vida. Las opciones escatológicas se definen entre las escatologías, al combatiente sólo puede triunfar o morir. O vivir con honor o morir con gloria[12], es un emblema que indica la realidad del soldado que combate por el Fin de la Historia. El honor se da al vivir en la bondad, en la verdad, el haber alcanzado el telos, el fin. La gloria, la muerte gloriosa es como la que esperan los soldados del Islam, en una muerte Ad maiorem Dei gloriam.

Disciplina. El soldado de infantería, que llevaba una kipá, sacó una tarjeta colorida del bolsillo de su campera. En el exterior estaba impreso el “Shema” (que significa “Oye, Israel”), que es el credo judío. Y rodeado de coloridas ilustraciones de lugares judíos de todo Israel, se encontraba en la parte interior de la tarjeta una “oración para el combate”:

“¡Señor de los ejércitos, que tienes tu trono por encima de los ángeles! Tú nos has ordenado en tu Torá y nos has dicho: ‘Oye, Israel, vosotros os juntáis hoy en batalla contra vuestros enemigos; no desmaye vuestro corazón, no temáis, no os azoréis, ni tampoco os desalentéis delante de ellos; porque Jehová vuestro Dios va con vosotros, para pelear por vosotros contra vuestros enemigos, para salvaros’ (Dt. 20:3-4). … Puedas Tú ahora estar con los soldados del ejército israelí, con los mensajeros de Tu pueblo que hoy van a la batalla contra sus enemigos. Danos fuerza y valor. Protégenos y pelea Tú nuestra batalla. Fortalécenos, protégenos y guárdanos. Ayúdanos y sálvanos por amor a Tu bondad”[13].

 

 

Bibliografía sugerida

Cohn, Norman.(1995). El Cosmos, el caos y el mundo venidero.  Barcelona: Crítica – Grijalbo Mondadori.

Faundes, C. (2010). Desde la guerra total a la guerra irrestricta. La deconstrucción de un concepto. Tesis para optar al grado de Magíster en Seguridad y Defensa, mención Política de Defensa, Santiago de Chile: Academia Nacional de Estudios Políticos y Estratégicos.

Qiao Liang  y  Wang Xiangsui (1999). Unrestricted Warfare, Beijing: PLA Literature and Arts Publishing House. Disponible en formato pdf en www.c4i.org/unrestricted.pdf.  Visitado 12 septiembre 2010

Orozco, José Luis. (2001). De teólogos, pragmáticos y geopolíticos. Aproximación al globalismo norteamericano. Barcelona: Gedisa-UNAM

Schmitt, Carl. (1999), El concepto de lo político, Alianza Editorial, Madrid..

 

[1]    La guerra irrestricta (超限战, literalmente “guerra allende los límites”) es una guerra combinada que trasciende los límites de las dimensiones y métodos en las dos principales áreas de asuntos militares y no-militares, se deben incluir todas las dimensiones que ejercen influencia sobre la seguridad nacional. Para que una guerra sea irrestricta lo suficiente es que se persiga un objetivo político por medio del ejercicio de la violencia en un sentido amplio, es decir, traspasando el dominio de lo militar para combinar de manera irrestricta elementos de las distintas dimensiones de la seguridad, sobrepasando sus fronteras, por medio de combinaciones en lo supra-nacional, supra-dominio, supra-medios y supra-niveles; todo con el objeto de controlar al adversario. En Latinoamérica, la guerra irrestricta ha sido estudiada por Faundes (2010).

[2] La metonimia (griego: μετ-ονομαζειν met-onomazein [metonomadz͡ein], «nombrar allende’, es decir, ‘dar o poner un nuevo nombre» ), o transnominación, es un fenómeno de cambio semántico por el cual se designa una cosa o idea con el nombre de otra, sirviéndose de alguna relación semántica existente entre ambas. Son casos frecuentes las relaciones semánticas del tipo causa-efecto, de sucesión o de tiempo o de todo-parte.

[3]  Derrida, J. (1991). El derecho a la filosofía desde el punto de vista cosmopolítico. Edición On line disponible en http://www.jacquesderrida.com.ar/textos/derecho_filosofia.htm#_edn2 [Consultado el 1 de agosto de 2010]

[4]  Levi-Strauss, C. (1955). El estudio estructural del mito en Journal of American Folklore, nº 68 p. 428-555. En el estudio de la mitología, un mitema es una porción irreducible de un mito, un elemento constante (a diferencia de un meme cultural) que siempre aparece intercambiado y reensamblado con otros mitemas relacionados de diversas formas, o unido en relaciones más complicadas, como una molécula en un compuesto. Por ejemplo, los mitos de Adonis y Osiris comparten varios elementos, lo que lleva a algunos investigadores a concluir que comparten una misma fuente.

[5] También se le nombra como Elohim, plural de Dios que se usa repetidamente con verbos singulares, y con adjetivos y pronombres en singular, de la que una de sus hipótesis de origen indicaría que podría ser un plural mayestático que significa ‘Dios por sobre todos los dioses’ o ‘Dios de todo’ o podría ser simplemente un plural de majestad para indicar la alta dignidad de la persona divina.

[6] Al-Asmā’ al-Husnà (الأسماء الحسنى), en árabe, “los nombres más hermosos”, también llamados los noventa y nueve nombres de Dios o noventa y nueve nombres de Alá, son las formas de referirse a dios en el Islam.  En su mayor parte son epítetos que hacen referencia a atributos divinos.

[7]  Liang y Xiangsui. 1999:25. Citado en Faundes (2010)

[8] Quiao Liang  and Wang Xiangsui (1999). Unrestricted Warfare, Beijing: PLA Literature and Arts Publishing House

[9]  http://tinyurl.com/365lqgs

[10]  Liang y Xiangsui, 1999:26. Citado en Faundes (2010)

[11] Schmitt, Carl. (1999), El concepto de lo político, Alianza Editorial, Madrid.

[12] Esta postura de Schmitt cambia un poco cuando estudia la neutralidad

[13] Escrito encontrado en la libreta de combate del Sargento Mario Antonio Cisnero. Caído en combate en la Gesta de Malvinas en 1982. http://tinyurl.com/297fwsc

The Legionary Doctrine

The Legionary Doctrine

By Christopher Thorpe

Ex: http://www.counter-currents.com/

gardia10.gifThe Legionary Doctrine (also called Legionarism) refers to the philosophy and beliefs presented by the Legion of Michael the Archangel (also commonly known as the Iron Guard), the Romanian Christian Nationalist organization founded by Corneliu Zelea Codreanu, who is the key figure in the creation of its doctrine. It is necessary to clarify what the members of the Legionary Movement taught and believed due to many misconceptions arising from ignorance and outright deception, as well as the mistaken assumption that the Legionary Movement was largely an imitation of Fascism or National Socialism.

Precursors

In 1878 and 1879, after Romania had won its independence from the Ottoman Empire, the new nation wanted to be recognized by other European powers. The Romanians could not achieve this without signing the Treaty of Berlin, which forced them to grant citizenship to Jews, a hostile and alien people on Romanian land. Although the treaty was signed, certain significant cultural and political figures in Romanian history spoke out against the Jews in order to warn their nation that the Jews were culturally and economically harmful. These men’s works from 1879 were significant intellectual sources of the Legionary Movement’s Christian nationalism and awareness of the Jewish Problem. The most influential of them were the following:

  • Vasile Conta (1845–1882) – philosopher and politician
  • Vasile Alecsandri (1821–1890) – diplomat and politician
  • Mihail Kogălniceanu (1817–1891) – statesman and historian
  • Mihail Eminescu (1850–1889) – famous poet and journalist
  • Bogdan Petriceicu Hasdeu (1838–1907) – historian and philologist
  • Costache Negri (1812–1876) – politician
  • A. D. Xenopol (1847–1820) – historian and economist

Other intellectuals, who lived in the early 20th century and saw the birth and growth of the Legionary Movement, also educated Codreanu and other Legionaries about the Jewish Problem, national mysticism, Orthodox mysticism, and economic practices. These men were:

  • A. C. Cuza (1857–1947) – politician and professor of law and political economy
  • Nicolae Iorga (1871–1940) – historian, professor of history, and politician
  • Nicolae Paulescu (1869–1931) – physiologist, professor of medicine, and philosopher
  • Ion Gavanescul (1859–1949) – professor of pedagogy
  • Nichifor Crainic (1889–1972) – professor of theology, theologian, and philosopher

To avoid misconceptions, it must be noted that it is not implied here that the precursors of the Legionary Movement agreed with Legionary doctrine on every point. For example, some of them had different political attitudes; the Legion rejected republicanism while precursors such as Eminescu supported the democratic system.

Anti-Semitism and the Jewish Problem

Some people today who follow the Legionary doctrine or admire the Legionaries assert that the Legion was not anti-Semitic but only appeared so because of a Jewish problem in Romania. One of the major reasons for which they object to the term “anti-Semitic” is because of a certain way by which that term is defined by Jews and philo-semites. Such groups define it as an irrational hatred of all Jews, and in that case the Legionaries were not truly anti-Semitic, since their hostility to the Jews was not irrational nor were they enemies with every Jew (it has been pointed out that the Legion had a few Jewish supporters, although it should be remembered that the majority of Jews were enemies of the Legion).

However, in the late 19th century and early 20th century the term anti-Semite was simply defined as one who had hostility towards Jews and opposed their presence in one’s nation. This is how Cuza and other precursors, Corneliu Codreanu, and his successor Horia Sima defined it, and they all had no qualms about calling themselves anti-Semitic. Codreanu freely stated in his major book For My Legionaries about his visit to Germany that “I had many discussions with the students at Berlin in 1922, who are certainly Hitlerites today, and I am proud to have been their teacher in anti-Semitism, exporting to them the truths I learned in Iasi.”

It should be noted, however, that while Codreanu had no problem associating with the German National Socialist movement (although he also correctly insisted that his Legion was entirely independent of National Socialism), Horia Sima objected to any connection between the two after World War II. In his 1967 book Istoria Mişcarii Legionare (History of the Legionary Movement) Sima wrote:

The Legionary Movement, since its first manifestation, was the object of all sorts of slander. One of the most common allegations by its countless internal and external enemies was that the Legion was a “branch of Nazism.” Such statements can be made as a result of ignorance or bad faith. The anti-Semitism of the Legionary Movement has nothing in common with German anti-Semitism. By taking a stand against the Jewish danger, a danger extremely active and menacing in Romania, Corneliu Codreanu was simply continuing an almost century old Romanian tradition.

It should also be emphasized that Legionary hostility to the Jews as an ethnic group was actually rational, based not only on the scientific studies of the Jewish problem by intellectuals such as Cuza, Paulescu, Iorga, Xenopol, et al. but also on real experiences and observations made by many average Romanians. The Jewish problem was a vivid reality. Both intellectual observation as well as common observation showed the people beyond any doubt that the majority of Jews not only lived parasitically off of the labor of Romanian workers by their ownership of many companies or financial activity, but also posed a threat to Romanian culture and tradition, which they were damaging through their influence on mass media and certain government policies.

It is also worth noting that while Codreanu was first and foremost concerned with the Romanian condition, he believed that an alliance between nations needed to be made to solve the Jewish problem internationally. This is made clear by a statement in For My Legionaries:

There, I shared with my comrades an old thought of mine, that of going to Germany to continue my studies in political economy while at the same time trying to realize my intention of carrying our ideas and beliefs abroad. We realized very well, on the basis of our studies, that the Jewish problem had an international character and the reaction therefore should have an international scope; that a total solution of this problem could not be reached except through action by all Christian nations awakened to the consciousness of the Jewish menace.

The solution to the Jewish problem was not to kill the Jews, as many dishonest people accuse Codreanu of wanting, but to expel the Jews from Romania. This plan for deportation is plainly stated in The Nest Leader’s Manual, where he wrote “Romania for Romanians and Palestine for the Jews.”

Economics and Labor: Anti-Communism and Anti-Capitalism

When Codreanu first went to the University of Iasi in 1919, years before he created the Legion, he discovered that most of the city and university were heavily influenced by Communist political campaigns. The Romanian workers were experiencing terrible working conditions and had very low wages, so they had been drawn to Communism by Marxist propagandists. Professors and students at the University were also largely converted to Communism, and Communist student meetings attacked the Romanian army, the Orthodox Church, the monarchy, and other aspects of traditional Romanian life. It was this situation that drove Codreanu into a heroic fight against Communism, finally leading a conservative group to completely crushing the Communist movement. Codreanu, being a traditionalist, insisted on defending faith in God, nationalism, the Crown, and private property.

On the other hand, Codreanu also believed in fighting the Capitalist system, which he realized was an inherently exploitive system, which allowed corporations to exploit millions of workers. In 1919, when forming the program of “National Christian Socialism,” he stated that “It is not enough to defeat Communism. We must also fight for the rights of the workers. They have a right to bread and a fight to honor. We must fight against the oligarchic parties, creating national workers organizations which can gain their rights within the framework of the state and not against the state.”

Later in 1935 he announced the creation of a new system which he hoped would be adopted by the nation as a whole once the Legionary Movement took power: “Legionary commerce signifies a new phase in the history of commerce which has been stained by the Jewish spirit. It is called: Christian commerce — based on the love of people and not on robbing them; commerce based on honor.” Essentially Codreanu was a Third Position socialist, supporting private property but at the same time opposing the materialistic and money-centered system of capitalism. Another important point of Codreanu’s ideas for Romania is that labor is something in which everyone must be involved in. Laziness was a trait that should be treated as a highly negative vice. All Legionaries in some way did some kind of physical work, often to help lower class Romanians in their own labor and problems. Codreanu wrote: “The law of work: Work! Work every day. Put your heart into it. Let your reward be, not gain, but the satisfaction that you have laid another brick to the building of the Legion and the flourishing of Romania.”

One issue which has often been brought up against Codreanu is the fact that he associates both Capitalism and Communism with the Jews, as both of them were dominated by Jews in Romania. He wrote, connecting Jewish Capitalists and Jewish Communists, “But industrial workers were vertiginously sliding toward Communism, being systematically fed the cult of these ideas by the Jewish press, and generally by the entire Jewry of the cities. Every Jew, merchant, intellectual, or banker-capitalist, in his radius of activity, was an agent of these anti-Romanian revolutionary ideas.” Some of his opponents have objected to this connection by arguing that it is ridiculous to say that Jewish company owners and bankers would support Communists, who supposedly would destroy them upon a revolution, since they would want to eliminate the capitalists. But it should be remembered that not all of the bourgeoisie were exterminated in Communist revolutions across Europe. Sometimes, members of the bourgeoisie who supported Communism before a revolution, who were oftentimes Jews, would be given a place in the Communist system once the revolution was achieved.

Nation and Land

The Legionaries believed that nations were not merely products of history and geography, but were created by God Himself and had a spiritual component to them. Codreanu wrote in For My Legionaries, adopting the teachings of Nichifor Crainic:

If Christian mysticism and its goal, ecstasy, is the contact of man with god through a “leap from human nature to divine nature,” national mysticism is nothing other than the contact of man and crowds with the soul of their people through the leap which these forces make from the world of personal and material interests into the outer world of nation. Not through the mind, since this any historian can do, but by living with their soul.

A nation was also inseparable from the land on which it developed, to which the people grew a spiritual connection with over time. Codreanu wrote of the Romanian people:

We were born in the mist of time on this land together with the oaks and fir trees. We are bound to it not only by the bread and existence it furnishes us as we toil on it, but also by all the bones of our ancestors who sleep in its ground. All our parents are here. All our memories, all our war-like glory, all our history here, in this land lies buried. . . . Here . . . sleep the Romanians fallen there in battles, nobles and peasants, as numerous as the leaves and blades of grass . . . everywhere Romanian blood flowed like rivers. In the middle of the night, in difficult times for our people, we hear the call of the Romanian soil urging us to battle. . . . We are bound to this land by millions of tombs and millions of unseen threads that only our soul feels . . .

Finally, it must be noted that Codreanu also believed that every nation has a mission to fulfill in the world and therefore that only the nations which betray their mission, given to them by God, will disappear from the earth. “To us Romanians, to our people, as to any other people in the world, God has given a mission, a historic destiny,” wrote Codreanu, “The first law that a person must follow is that of going on the path of this destiny, accomplishing its entrusted mission. Our people has never laid down its arms or deserted its mission, no matter how difficult or lengthy was its Golgotha Way.” The aim of a nation, or its destiny in the world of spirit, was that it does not simply live in the world but that it aims for resurrection through the teachings of Christ. “There will come a time when all the peoples of the earth shall be resurrected, with all their dead and all their kings and emperors, each people having its place before God’s throne. This final moment . . . is the noblest and most sublime one toward which a people can rise.” It was for this ideal that the Legion fought tirelessly against all obstacles, corrupt politicians, and alien peoples such as the Jews which insisted on feeding off the Romanian people and land.

Religion and Culture

One aim of the Legionary Movement was the preservation and regeneration of Romanian culture and customs. They knew that culture was the expression of national genius, its products the unique creations of the members of a specific nation. Culture could have international influence, but it was always national in origin. Therefore, the Liberal-Capitalist position that different ethnic groups should be allowed to freely move into another group’s nation, interfering with that nation’s culture and development by their presence and influence, was incredibly wrong. Each ethnic group has its own soul and produces and crystallizes its own form and style of culture. For example, a Romanian cultural image could not be created from German essence any more than a German cultural image could be created from Romanian essence.

Furthermore, religion was an important aspect in a people’s culture, oftentimes the origin of many customs and traditions. The Legionaries believed that Christianity was not only a significant part of their culture, but also that it was the religion which represented divine truth. This is why in order to join the Legion of Michael the Archangel one had to be a Christian and could not be of another religion or an atheist. With these principles clear, the Legion therefore aimed for a Romanian nation made up of only ethnic Romanians and only Christians.

With this in mind, it becomes clear why Codreanu and many other Romanians felt that the Jewish presence in their nation was so threatening. The Jews became influential in economics, finance, newspapers, cinema, and even politics. Through this they even became powerful in the field of culture, slowly changing Romanian customs and Romanian thinking, making it more related to that of the Jews. Codreanu, as concerned about the problem as people such as Cuza and Gavanescul, commented:

Is it not frightening, that we, the Romanian people, no longer can produce fruit? That we do not have a Romanian culture of our own, of our people, of our blood, to shine in the world side by side with that of other peoples? That we be condemned today to present ourselves before the world with products of Jewish essence?” and “Not only will the Jews be incapable of creating Romanian culture, but they will falsify the one we have in order to serve it to us poisoned.

Race

The reality of race was accepted by most Legionaries, and Codreanu wrote of the importance of keeping a nation racially cohesive. In For My Legionaries, Codreanu quoted Conta’s racial separatist arguments, which formed the basis of his own attitudes on race, and even compared them to the German National Socialist view. He wrote: “Consider the attitude our great Vasile Conta held in the Chamber in 1879. Fifty years earlier the Romanian philosopher demonstrated with unshakeable scientific arguments, framed in a system of impeccable logic, the soundness of racial truths that must lie at the foundation of the national state; a theory adopted fifty years later by the same Berlin which had imposed on us the granting of civil rights to the Jews in 1879.”

However, it should be noted that at least a few Legionaries did not agree that race was important. Ion Mota, in 1935 when he met with the NSDAP in Germany, criticized the National Socialists by telling them that “Racism is the most vulgar form of materialism. Peoples are not different by flesh, blood or color of skin. They are different by their spirit, i.e. by their creations, culture and religion.” Of course, Mota’s attitude is unlikely to have been dominant among the Legion, since Codreanu was the founder of the ideas the majority of its members shared. It is also notable that Horia Sima, in his works on Legionary beliefs, agreed with Codreanu that race is real and important. However, Sima disagreed with connecting Romanian racial views with German racialism, censuring the followers of Hitler by asserting that their worldview misused racialism, making it too absolute and materialistic.

The New Man

The Legionary Movement aimed to create a New Man (Omul Nou), to transform the entire nation through Legionary education by transforming each individual into a person of quality. The New Man would be more honest and moral, more intelligent, industrious, courageous, willing to sacrifice, and completely free of materialism. His view of the world would be centered around spirituality, service to his nation, and love of his fellow countrymen. This new and improved form of human being would transform history, setting the foundations of a new era never before seen in Romanian history.

Codreanu wrote:

We shall create an atmosphere, a moral medium in which the heroic man can be born and can grow. This medium must be isolated from the rest of the world by the highest possible spiritual fortifications. It must be defended from all the dangerous winds of cowardice, corruption, licentiousness, and of all the passions which entomb nations and murder individuals. Once the Legionary will have developed in such a milieu . . . he shall be sent into the world. . . . He will be an example; will turn others into Legionaries. And people, in search of better days, will follow him . . . will make a force which will fight and will win.

Therefore, a spiritual revolution would create the basis for a political revolution, since without the New Man no political program could achieve any lasting accomplishment.

Politics

Romania ’s government was that of a constitutional monarchy, thus the nation’s government was considered a democracy. Corneliu Codreanu was a member of the Romanian parliament two times, and his experiences with democratic politics led him to firmly conclude that the democratic system, although claiming to represent the will of the people, rarely ever achieved its goal of representation. In fact, he felt that it did just the opposite. In For My Legionaries, he listed out some major objections he had to the system and the way it worked (the following is a paraphrase of his points):

  • Democracy destroys the unity of the people since it creates factionalism.
  • Democracy turns millions of Jews (and other alien groups) into Romanian citizens, thus carelessly destroying the ancient ethnic make-up of a nation.
  • Democracy is incapable of enduring effort and responsibility because by design it inherently leads to an unending change in leadership over short period of time. A leader or party works to improve the nation with a specific plan, but only rules for a few years before being replaced by a new one with a new plan, who largely if not completely disregard the old one. Thus little is achieved and the nation is harmed.
  • Democracy lacks authority since it does not give a leader the power he needs to accomplish his duties to the nation and turns him into a slave of his selfish political supporters.
  • Democracy is manipulated by financiers and bankers, since most parties are dependent on their funding and are thus influenced by them.
  • Democracy does not guarantee the election of virtuous leaders, since the majority of politicians are either demagogues or corrupt, and the masses of common people usually are not capable or knowledgeable enough to elect good men. Codreanu rhetorically remarked about the idea of the masses choosing its elite, “Why then do soldiers not choose the best general?”

Therefore, Codreanu aimed for a new form of government, rejecting both republicanism and dictatorship. In this new system the leaders would not inherit power through heredity, nor would they be elected as in a republic, but rather they would be selected. Thus, selection and not election is the method of choosing a new elite. Natural leaders, demonstrating bravery and skill, would rise up through Legionary ranks, and the old elite would be responsible for choosing the new elite. The concept of the New Man is important to Codreanu’s system of leadership, because only by the establishment of the New Man would the right leaders rise and become the leaders of the nation. The elite would be founded on the principles Codreanu himself laid out: “a) Purity of soul. b) Capacity of work and creativity. c) Bravery. d) Tough living and permanent warring against difficulties facing the nation. e) Poverty, namely voluntary renunciation of amassing a fortune. f) Faith in God. g) Love.”

This new system of government which Codreanu aimed to establish would be authoritarian, but it would not be totalitarian. He described it in this way: “He (the leader) does not do what he wants, he does what he has to do. And he is guided, not by individual interests, nor by collective ones, but instead by the interests of the eternal nation, to the consciousness of which the people have attained. In the framework of these interests and only in their framework, personal interests as well as collective ones find the highest degree of normal satisfaction.”

An important point in the Legionary political system is that the Legion recognized three entities: “1) The individual. 2) The present national collectivity, that is, the totality of all the individuals of the same nation, living in a state at a given moment. 3) The nation, that historical entity whose life extends over centuries, its roots imbedded deep in the mists of time, and with an infinite future.”

Each of these entities had their own rights in a hierarchical sense. Republicanism recognized only the rights of the individual, but the Legionary Movement recognized the rights of all three. The nation was the most important entity, and thus the rights of the national collectivity were subordinate to it, and finally the rights of the individual were subordinate to the rights of the national collectivity. The destructive individualism of “democracy” infringed on the rights of the national collectivity and the rights of the nation, since it ignored the rights of those two entities and placed that of the individual above all.

With these facts in mind, it becomes clear that to accuse the Legionary Movement of wishing to establish a tyrannical dictatorship or of being “Fascist” is nothing more than mindless or deceitful propaganda against the movement.

Martyrdom

“The Legionary embraces death,” wrote Codreanu, “for his blood will serve to mold the cement of Legionary Romania.” Throughout the struggles and intense persecutions it faced, the Legionary Movement produced many martyrs, two of the most often referenced being Ion Mota and Vasile Marin, who died in 1937 helping Franco fight against Marxist Republicans in the Spanish Civil War. Other martyrs of the Legion include Sterie Ciumetti, Nicoleta Nicolescu, Lucia Grecu, and Victor Dragomirescu among hundreds of others. Finally, in 1938, Corneliu Codreanu himself became a martyr after Armand Calinescu, acting outside of the law, had him murdered. Martyrs were often honored in songs all Legionaries sang and in Legionary rituals, when their names were announced in the roll call, all Legionaries attending spoke “present!” They believed that the souls of Romanian dead would still be present with them in their battles.

Violence

Along with martyrdom, in which death was received, there was an occasional violence committed by Legionaries against their enemies. Codreanu originally intended that the Legionary Movement would be nonviolent, but the unusually ruthless and cruel manner in which their enemies treated them created conditions in which violence was inevitable. When their political opponents physically attacked them, the Legionaries often struck back. In certain select cases, certain top enemies of the Legion were assassinated. There are three most prominent examples:

  • In 1933, the government of I. G. Duca had banned the Legion to keep it from participating in elections, arrested 18,000 Legionaries, and tortured and murdered several others. On December 29–30 of that year, the Legionaries Nicolae Constantinescu, Doro Belimace, and Ion Caranica (who are often referred to as the Nicadori) assassinated Duca in revenge.
  • In 1934, Mihail Stelescu, a member of the Legion, was investigated by top Legionaries and discovered to have had planned to betray the Legion and create his own group and was therefore expelled. Stelescu then created the group in 1935, calling it Cruciada Romanismuliu (“The Crusade of Romanianism”), and slandered Codreanu in its newspaper. There is also evidence that Stelescu was plotting to assassinate Codreanu and that, after contacting top political figures, he received government support for this plan. In this situation, ten Legionaries later called the Decemviri (“The Ten Men”) shot him.
  • In November of 1938, Armand Calinescu had the military police illegally murder Codreanu (who was earlier that year imprisoned for ten years for unproven charges at unfair trials), the Nicadori, and the Decemviri. On September 21, 1939 nine Legionaries referred to as the Rasbunatorii (“The Avengers”) assassinated Calinescu. After they turned themselves in, they were tortured and executed without trial. These nine men were: Miti Dumitrescu, Cezar Popescu, Traian Popescu, Nelu Moldoveanu, Ion Ionescu, Ion Vasiliu, Marin Stanciulescu, Isaia Ovidiu, and Gheorghe Paraschivescu.

One may object to such actions on the part of the Legionaries, asserting that they are thus taking part in un-Christian actions. However, to correctly understand this, one must remember that throughout the history of Christianity there were many people who had committed violent acts or killed for the sake of their religion. Certain crusader knights who had killed huge numbers of people were even sainted. Clearly it is nothing new for Christian zealots to engage in combat against their enemies. Some would argue that because Christ taught people to “love their enemies” that therefore Codreanu was openly violating Christian teaching. But it is not quite so clear.

It should be remembered that in the original Greek and Latin the phrase “love your enemies” (Matthew 5:44; Luke 6:27) referred specifically to private enemy, not public enemy or national enemy (who could therefore be hated). This is why Codreanu said to the Legionaries:

Forgive those who struck you for personal reasons. Those who have tortured you for your faith in the Romanian people, you will not forgive. Do not confuse the Christian right and duty of forgiving those who wronged you, with the right and duty of our people to punish those who have betrayed it and assumed for themselves the responsibility to oppose its destiny. Do not forget that the swords you have put on belong to the nation. You carry them in her name. In her name you will use them for punishment-unforgiving and unmerciful. Thus and only thus, will you be preparing a healthy future for this nation.

These are the facts which need to be remembered in order to properly understand why Codreanu and the Legionaries did what they did. Otherwise, a proper historical study cannot be done.

Bibliography

Corneliu Zelea Codreanu, For My Legionaries, third edition, translated and edited by Dr. Dimitrie Gazdaru (York, S.C., USA: Liberty Bell Publications, 2003).

Corneliu Zelea Codreanu, The Nest Leader’s Manual (USA: CZC Books, 2005).

Corneliu Zelea Codreanu, The Prison Notes (USA: Reconquista Press, 2011).

Radu Mihai Crisan, Eminescu Interzis: Gândirea Politică (Forbidden Eminescu: Political Thought) (Bucharest: Criterion Publishing, 2008).

Radu Mihai Crisan, Istoria Interzisă (Forbidden History) (Bucharest: Editura Tibo, 2008).

Alexander E. Ronnett and Faust Bradescu, “The Legionary Movement in Romania,” The Journal of Historical Review, vol. 7, no. 2, pp. 193–228.

Alexander E. Ronnett, Romanian Nationalism: The Legionary Movement (Chicago: Romanian-American National Congress, 1995).

Horia Sima, Doctrina legionară (Legionary Doctrine) (Madrid: Editura Mişcării Legionare, 1980).

Horia Sima, Era Libertaţii – Statul naţional-Legionar, vol. 1 (It was Freedom – National Legionary State, vol. 1) (Madrid: Editura “Miscarii Legionare, 1982).

Horia Sima, Era Libertaţii – Statul naţional-Legionar, vol. 2 (It was Freedom – National Legionary State, vol. 2) (Madrid: Editura Miscãrii Legionare, 1990).

Horia Sima, Istoria Mişcarii Legionare (History of the Legionary Movement) (Timişoara: Editura Gordian, 1994).

Horia Sima, Guvernul National Român de la Viena (Romanian National Government in Vienna) (Madrid: Editura Miscarii Legionare, 1993).

Horia Sima, The History of the Legionary Movement (Liss, England: Legionary Press, 1995).

Horia Sima, Menirea Nationalismului (The Meaning of Nationalism) (Salamanca: Editura Asociaţiei Culturale Hispano-Române, 1951).

Horia Sima, Prizonieri ai Puterilor Axei (Prisoners of the Axis Powers) (Madrid: Editura Miscarii Legionare, 1990).

Horia Sima, Sfârşitul unei domnii sângeroase (The End of a Bloody Reign) (Madrid: Editura Miscarii Legionare, 1977).

Horia Sima, The History of the Legionary Movement (Liss, England: Legionary Press, 1995).

Carl Schmitt, The Concept of the Political (Chicago: University of Chicago Press, 2007).

Michael Sturdza, The Suicide of Europe: Memoirs of Prince Michael Sturdza, Former Foreign Minister of Rumania (Boston & Los Angeles: Western Islands Publishers, 1968).

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/01/the-legionary-doctrine/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2012/01/ironguard.jpg

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : roumanie, histoire, légionarisme, codreanu | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 26 janvier 2012

Geopolítica Posmoderna

Geopolítica Posmoderna

Por Sergio Prince Cruzat

Ex: http://geviert.wordpress.com

La geopolítica crítica es posmoderna, por lo tanto, compleja. Hoy, el conocimiento se constituye a partir de los discursos que circulan dando cuenta de nuestras prácticas sociales. Nuestras prácticas están dominadas por tecnologías sofisticadas y, en general, recientes. En cambio, nuestros discursos sociales y políticos son herencias de prácticas cuestionadas. El choque entre las nuevas tecnologías y los léxicos heredados han producido una fragmentación en los procesos de constitución de nuestro conocimiento sobre el espacio y el territorio. Aunque el discurso de la globalización y las propuestas de una geopolítica crítica nos quieran presentar un modelo holístico del mundo, aún somos sujetos fragmentados o multifrénicos. La integración es un proyecto así como la Ilustración fue el proyecto de la Modernidad. En la presente reflexión, pretendo señalar una perspectiva de la conformación actual de nuestro saber y cómo esto afecta los conceptos de territorialidad que sustentan el conocimiento de la geopolítica.

I. Introducción. Modernidad y posmodernidad

 Para explicar esta distinción, seguiremos de cerca a Herrera (1996). El autor nos explica que existe consenso entre los especialistas en que la modernidadse puede entender como sinónimo de Ilustración. Pero ¿qué es la Ilustración? Podemos distinguir entre la Ilustración en el sentido que le da el historiador, es decir, la sensibilidad cultural propia del siglo XVIII, resultado de un proceso que comienza en la Alta Edad Media y, por otra parte, la Ilustración en el sentido que le da el filósofo, es decir, como un esfuerzo reflexivo para explicitar y fundamentar filosóficamente esta sensibilidad cultural, obra llevada a cabo, principalmente, en Alemania por Kant y Hegel.

Kant (1784) en su escrito “¿Qué es la Ilustración?” define Ilustración como “la salida del hombre de su autoculpable minoría de edad” hacia una mayoría de edad gracias a la cual busca determinar su existencia y su acción a partir exclusivamente de la razón. Esta definición implica, entre otras cosas, que para el hombre ilustrado la existencia no es un destino regido por Dios o por la naturaleza.

La Ilustración es un aspiración, una vocación, un fin que debe y puede ser determinada y conquistada autónomamente por el mismo hombre. Es la expresión del fenómeno de la secularización. El hombre ilustrado es alguien que ha abandonado la idea judeo-cristiana de la “religación”. Del mismo modo, kant sostiene que la autoridad y la tradición que hasta la Edad Media fundamentaban el saber sobre el ser y quehacer del hombre, deben ceder el paso a la razón. Es la razón quien debe decirnos cómo se debe definir el ser y el quehacer del hombre: “Atrévete a pensar por ti mismo” fue el lema de la Ilustración.

Herrera (1996) afirma que, a partir de la definición dada, kant explicitará, en sus dos críticas, que la misión del hombre sobre la tierra no es asegurar la salvación de su alma y contemplar la naturaleza para cantar la grandeza de su Creador. En kant (2005 [1781]), desde el punto de vista teórico, es la de dominar y transformar la naturaleza mediante la ciencia y la tecnología para que responda a la dignidad de la persona humana. Se trata de la humanización de la naturaleza.

De acuerdo con el mismo kant (2002 [1788]), esta misión, desde el punto de vista ético, es la de instaurar un reino de libertad, de justicia, de igualdad, de tolerancia, de “paz perpetua”, de reconocimiento de la dignidad de la persona, de respeto de los derechos humanos, de democracia política. En otras palabras, el problema es cómo el hombre podría humanizarse a sí mismo.

Hegel (2002 [1807]) trató de superar a  kant haciendo de la subjetividad trascendental de éste, que le parecía demasiado abstracta, pura y, por lo mismo, vacía, una subjetividad concreta: el espíritu subjetivo absoluto, un universal concreto o, mejor, una totalidad concreta que se expresa en la ciencia, la moral, el arte y en las objetivaciones de la sociedad. Por otra parte, creyó encontrar un principio de inteligibilidad de las diferentes etapas históricas con todas sus contradicciones y fragmentaciones: la esencia de la racionalidad histórica está en la negatividad.

En contra de la razón kantiana que despreciaba la pasión, Hegel proclama que es a través de sus intereses como los hombres hacen la historia, constituyéndose así en “los medios y los instrumentos de algo más elevado, más vasto, que ignoran y realizan inconscientemente”: el espíritu absoluto. La existencia temporal encierra en sí misma la destrucción, la infelicidad, la desgracia. Pero sólo así sirve a lo eterno, sólo así el espíritu absoluto se puede objetivar. A partir de aquí, Hegel realiza la reconciliación de lo finito y lo infinito, de la razón y la sinrazón, de la esclavitud y la libertad. La filosofía, “autoconciencia de cada época”, conlleva la amarga experiencia de la negatividad: el extrañamiento y la alienación. De esta manera, la razón todo lo puede justificar, inclusive los millares de vidas “sacrificadas en el altar de la historia”. Sin ellas, el Absoluto, el fin y el sentido de la historia no se pueden realizar (Herrera, 1996).

El proyecto emancipatorio proclamado por la modernidad ha fracasado. Los hechos están ahí: negación de la dignidad de la persona y de sus derechos, intolerancia, desigualdad, violencia, regímenes políticos represivos, destrucción de la naturaleza, dominio de la técnica sobre el hombre, ente otros grandes temas de la distopía moderna. Muchos autores utilizan una palabra para designar el paso de la modernidad a la posmodernidad: Auschwitz, palabra que designa todos los campos de exterminio construidos por los nazis a partir de la teoría sobre la raza que se consideraba científica y, por consiguiente, fundamentada en la modernidad.

Pensemos en las guerras mundiales, en la bomba atómica, en la destrucción de la capa de ozono, entre otros problemas. Esto nos hace sospechar que la utopía de que la razón con su poder absoluto garantizaba el triunfo de la civilización sobre la barbarie tan sólo fue un simple sueño (Herrera,1996).El término posmodernidad expresa la desazón, el malestar, el desengaño que el hombre actual experimenta frente a las promesas falaces de la modernidad.

Digámoslo en palabras de Lyotard:  “Ya hemos pagado suficientemente la nostalgia del todo y de lo uno, de la reconciliación del concepto y de lo sensible, de la experiencia transparente y comunicable. Bajo la demanda general de relajamiento y apaciguamiento, nos proponemos mascullar el deseo de recomenzar el terror, cumplir la fantasía de apresar la realidad. La respuesta es: guerra al todo, demos testimonio de lo impresentable, activemos los diferendos, salvemos el honor del hombre”  (Lyotard, 1979).22

Ante el fracaso de la modernidad, no son pocos los que asumen una actitud nihilista e irracionalista que nos invita a aceptar como válido cualquier punto de vista y, lo que es peor, a renunciar a todo futuro: vivamos el presente hasta donde nos sea posible, que ya veremos qué pasará mañana. Inclusive, no son pocos los que viven esta autoalienación, esta autodestrucción, como la posibilidad de un goce estético de primer orden. No son pocos los que viven la posmodernidad como el imperio de la arbitrariedad. Para estos, el lema de la posmodernidad sería el “todo vale”, de Heller (1991: 21).

El término posmodernidad expresa, igualmente, la reflexión filosófica queen los últimos años han adelantado autores como Lyotard, Foucault, Derridà, Habermas y Vattimo para comprender, explicitar, validar o invalidar esta sensibilidad cultural del hombre del siglo XX y para descubrir la falla y, por ende, la responsabilidad de la modernidad. Desde este punto de vista, la posmodernidad constituye una crítica a la racionalidad moderna en todos los autores, sin excepción, ya sea que esta crítica culmine con su condenación a muerte, como es el caso de Vattimo, o a reconocer sus errores, pero al mismo tiempo sus virtudes, como en Habermas, que se ha esforzado en redefinir los ideales de la modernidad en función de una nueva realidad social donde reine no la arbitrariedad sino la tolerancia, el antidogmatismo, el reconocimiento de la particularidad y singularidad de los individuos y de las pequeñas comunidades, el respeto por la pluralidad de formas de vida, de manifestaciones culturales, de juegos del lenguaje.

II. La geopolítica crítica como geopolítica de la Posmodernidad

Esta confianza en la razón que promueve el pensamiento Ilustrado es el marco intelectual en el que se desarrolla la geopolítica clásica, aquella fundada por kjellen. Este autor desarrolló, hacia 1916, la idea de “el Estado como organismo viviente” (Der Staat als Lebensform), donde el término geopolítica fue utilizado por primera vez. Su uso se da dentro de la concepción organicista propia del nazismo germano y que también comparten otros modos de pensamiento totalitario (Toal 1996). El organicismo geopolítico es una muestra de Darwinismo social que promueve la “lucha por sobrevivir”. Esta la gana el más fuerte, lo que se objetiva en el mundo –utilizando la terminología hegeliana– en el derecho a poseer la tierra, el territorio. Los espacios vitales en donde se configura la vida. Este organicismo también se aprecia en el pensamiento estratégico del geógrafo alemán F. Ratzel (1891, 1897). Según éste, los Estados tienen muchas de las características de los organismos vivientes. También introdujo la idea de que un Estado tenía que crecer, extender o morirse dentro de “fronteras vivientes”, por ello, tales fronteras son dinámicas y sujetas al cambio.

La racionalidad organicista y los fundamentos filosóficos que la sustentaban sufren un golpe demoledor al enfrentarse al pensamiento crítico y a la racionalidad popperiana que abren las puertas a la posmodernidad y que, entre otras ideas, se caracteriza por la pérdida de fe en la razón y la ciencia, la pérdida de fe en el poder público y una búsqueda de lo inmediato. Los individuos sólo quieren vivir el presente; futuro y pasado pierden importancia. En este ámbito, surge, en la década del noventa, la geopolítica crítica como un movimiento académico radical y que, en oposición a la geopolítica “clásica”, define la geopolítica como un sistema complejo de discursos, representaciones y prácticas, más que como una ciencia coherente, neutral y objetiva. La geopolítica crítica ve la geopolítica como un constructo tripartito que incluye la geopolítica popular, formal y práctica. La versión académica de la geopolítica crítica se ocupa de modo preferente de problemas relacionados con la práctica discursiva de la geopolítica y la historia de la geopolítica.

La geopolítica crítica se ocupa de la operación, interacción y respuesta a los discursos geopolíticos. Esta orientación del posestructuralismo sostiene que las realidades del espacio político global no se revelan simplemente a observadores separados, omniscientes. Los conocimientos geopolíticos se consideran como parciales, cualidades emergentes, situaciones subjetivas particulares. En este contexto, las prácticas geopolíticas resultan de complejas constelaciones de ideas y discursos que compiten y se modifican unos a otros. Por lo tanto, la práctica geopolítica no es derechamente “correcta” o “natural”. Por el contrario, puesto que se considera el conocimiento geopolítico como parcial, situado y corporalizado, los Estados-Nación no son la única unidad “legítima” del análisis geopolítico en la geopolítica crítica.

Por lo tanto, la geopolítica crítica nos ofrece dos miradas distintas pero relacionadas. En primer lugar, busca “abrir” la geopolítica como disciplina y concepto. Hace esto, en parte, considerando los aspectos populares y formales de la geopolítica junto a la geopolítica práctica. Además, se enfoca en las relaciones de poder y su dinámica. En segundo lugar, la geopolítica crítica se ocupa de los temas geopolíticos “tradicionales”, siempre dentro del paradigma democrático, considerando la desterritorialización del conocimiento, utilizando las bases epistemológicas y metodológicas de los estudios interdisciplinarios de la estructura del espacio, considerando la cultura como un fenómeno y un proceso clave y promoviendo el interés medioambiental y el discurso crítico del colonialismo y la globalización.

 III. Conocimiento y territorialidad posmoderna

Quisiera presentar aquí las ideas de Lavandero y Malpartida (2003). Siguiendo a Piaget, los autores afirman que la territorialidad es, en tanto cognición, la cognición efectiva del mundo. La idea de representación es constitutivamente objetual, especialmente, por la idea de trascendencia en el conocer. Así, uno de sus pilares fundamentales es formular la constancia del objeto, la cual resulta ser uno de los elementos cognitivos adquiridos en la niñez y modulados culturalmente (Piaget, 1954). Esta idea de Piaget recogida por los autores nos permite interpretar lo que, desde el punto de vista psicológico, es la relación mapa-territorio, que constituye una de las bases epistemológicas y cognitivas del discurso geopolítico.

Veamos, si siguiéramos la lógica de la Ilustración, buscaríamos una relación objetiva entre mapa-territorio lo que, en otros términos, quiere decir que el mapa es una representación “verdadera” del territorio, por lo que un observador puede llegar a la comprensión efectiva del objeto por medio del estudio cartográfico. Por el contrario, desde la visión piagetiana, nos vemos obligados a establecer la distinción mapa-territorio, ya que la comprensión efectiva del objeto territorio sólo es posible en un proceso de conocimiento trascendente que se configura desde la niñez y que nos facilita la interpretación territorial por la experiencia efectiva de nuestros entornos, lo que nos permite tener configuraciones de significado a partir de nuestra actividad como observadores. Esto nos indica que el mapa no es capaz de capturar la subjetividad cognitiva del observador territorial. En otros términos, el mapa sólo es capaz de generar una representación simbólica del mismo modo que el lenguaje formal puede llegar a ser una representación del lenguaje natural. La cognición efectiva y afectiva del territorio no es posible por medio de la cartografía. Así, Lavandero & Malpartida (2003) han llegado a definir la territorialidad como “un proceso de equivalencia efectiva en el intercambio de mapas o paisajes (configuraciones de significado) a partir de la actividad generada en la actividad de los observadores en los entornos en comunicación”. Asimismo, podemos afirmar que la efectividad cognitiva del territorio emerge en el dominio de lo afectivo. Esta dimensión cognitiva se incorpora al discurso geopolítico crítico cuando se formula la posibilidad de una geopolítica cultural que se ocupa de la territorialidad del lenguaje en la cual no existen límites sino fronteras difusas en permanente cambio e imposibles de captar en la estática de una cartografía invariante.

La nueva geopolítica inserta en su paradigma democrático pone especial atención en el intercambio de cogniciones efectivas dentro del proceso de comunicación que se da entre los observadores. Dicho de otro modo, la efectividad de la cognición territorial es la efectividad de la cultura entendida como un conjunto de configuraciones que pautan el agenciamiento y pertenencia de un observador y su entorno. No existe posibilidad de intercambio territorial cartográfico, ya que la dimensión de lo humano agencia significado a territorialidades virtuales del mismo modo que agencia la territorialidad del espacio geográfico. Esto obliga a la geopolítica crítica a incorporar la noción de paisaje, ausente en la geopolítica organicista de corte clásico. El paisaje ha sido definido por Lavandero & Malpartida como “la aplicación cultural de intercambio sobre configuraciones dentro del proceso de comunicación entre observadores”.

Cuando Ó Tuathail (1996) o Wallerstein (2007) se refieren al aspecto cultural de la geopolítica crítica, declaran de modo implícito la necesidad de construir una cartografía efectiva de los afectos territoriales de los observadores ya que, siguiendo la lógica de la cognición de un territorio, la cultura no es otra cosa que “el conjunto de configuraciones conservativas que pautan agenciamiento y pertenencia para un observador – entorno o un conjunto de ellos dentro de una red de comunicación” (Lavandero & Malpartida, 2003:63).Nos queda por aclarar el concepto de entorno, entendido como “configuraciones relacionales de territorialidad únicas y permanentes para un sistema”. (Lavandero & Malpartida, 2003:63). Las configuraciones relacionales se dan en el lenguaje y permiten la construcción de sentido territorial, es decir, los espacios geográficos se presentan ante nosotros como espacios afectivos en los cuales desarrollamos nuestra vida y construimos nuestro conocimiento del mundo. Los entornos virtuales son de tanta importancia para la geopolítica crítica como los entornos físicos. Lo virtual del entorno en el cual se desarrolla gran parte de nuestra actividad cognitiva se ve destacado por una tendencia filotecnológica que ha otorgado al ciberespacio un valor instrumental y ético impensable dentro de la racionalidad ilustrada moderna. Ni la razón kantiana ni el absoluto hegeliano pueden llegar a representar la complejidad de la configuración afectiva de la virtualidad. La cartografía de los entornos virtuales es de gran importancia a la hora de formular una geopolítica humanista y que haga suyo el principio de desterritorialización.

También debemos destacar que en el pensamiento relacional complejo que sustituye la racionalidad moderna, el concepto de comunicación es fundamental. Así, podemos decir que la territorialidad se puede entender como un acto comunicativo, ya que es en el intercambio de información entre observadores donde surgen las distinciones que configuran la territorialidad subjetiva de ambos. En tanto busquemos un acto de comunicación objetivo, corremos el riesgo de negar la comunicación, ya que si la objetividad se entiende como “lo verdadero”, el intercambio efectivo de los afectos territoriales es absolutamente imposible, ya que al menos en una de las partes existirá la imposibilidad de decodificar la llamada experiencia objetiva de la cognición efectiva del otro. Es así que la comunicación es, para Lavandero & Malpartida (2003:63), “toda actividad que organice el intercambio de configuraciones (formas de la extracción de diferencias) que conserven la relación organismo-entorno. De esta manera, comunicación es una condición de la unidad viva que organiza la relacionalidad y sus formas, las cuales denominamos lenguaje”.

Si continuamos el análisis relacional sustituyendo la lógica bivalente de la racionalidad cartesiana por una lógica compleja que recoge las paradojas, entonces debemos afirmar que la geopolítica crítica en su intento de establecer la relación hombre territorio debe enfrentar la paradoja de la invarianza-cambio. Para explicar esto, recurriremos a una formalización libre desarrollada por Lavandero & Malpartida (2003) que nos permite revisar en forma breve el contenido de esta paradoja. La paradoja de la inavariaza-cambio se da cuando se afirma que el sistema es lo mismo siendo distinto. Ahora bien, desde la relación Observador-Entorno, se da cuando se dice que: “Sea un observador X que configura un conjunto de distinciones y dentro de un contexto de significado particular y que lo organiza como abstracción para un determinado instante tj”. Entonces;

 (Ci (tj)) Obsx ———————– (Ci (tj))

Sea a la vez un observador y que genera para ese mismo contexto y momento tj una configuración f

(Cf (tj)) Obsy ———————– (Cf (tj))

Entonces, Def. Paisaje de la configuración (Mxy): Toda aplicación P que, actuando sobre las configuraciones particulares (Ci (tj)) y ( Cf (tj)), sirva como forma de intercambio dentro de la comunicación entre ambos observadores, así:

P (Ci (tj)) obsx ———– Mx

P (Cf (tj)) obsy ———– My

Sea (Mx ↔ My) → (el observador X & el observador Y generan & comparten territorialidad). Esta territorialidad se computa a partir de las relaciones de equivalencias en los mapas Mx  My. Estas equivalencias se producen en al menos dos ámbitos:

(1)  (Mx, My ↔ (P(Ci, f))

El primer ámbito se manifiesta cuando la forma de generar las configuraciones es similar. Estas configuraciones son invariantes en el tiempo signándoseles un nombre que las hace distintas. El segundo ámbito se manifiesta cuando la otra computación de equivalencias es para tj lo que implica

(2) i[(Mx, My)  (T(Ci, f))]

Finalmente, si  [(Mx, My) ↔T (Ci, f)  (Mx, My↔P(Ci, f))] se dan en el proceso de intercambio, los mapas Mx  My generarían territorialidad o cognición efectiva, lo cual es sólo experienciable en el dominio de los afectos (Lavandero & Malpartida, 2003).

Conclusión

¿Adónde nos lleva el camino que va desde la racionalidad moderna a la complejidad posmoderna? A una geopolítica crítica, posmoderna, a la cual prefiero llamar geopolítica de la complejidad. De la formalización propuesta por Lavandero y Malpartida, se puede concluir que los invariantes y sus cambios son parte de nuestra dinámica relacional como observadores, entonces, no existe posibilidad de formalizar procesos relacionales del observador, ya que el proceso y el resultado son constitutivos de esta relacionalidad, clausurada por la cultura y por su biología del conocer, por lo tanto, son siempre únicos y particulares (Lavandero & Malpartida, 2003). El mapa no es el territorio, y el nombre no es la cosa nombrada. Este principio, hecho célebre por Alfred  korzybski y Gregory Bateson, hace referencia a distintos niveles de nuestros procesos cognitivos y, por las características de su contenido, nos ayudará a clarificar lo que debe ser una geopolítica que asuma los retos del pensamiento complejo. En primer lugar, nos trae a la vista el hecho de que cuando pensamos en territorios o en cartografía de territorios, no tenemos territorios en nuestra mente-cerebro. Aún mejor, la afirmación del fundador de la teoría de la semántica general nos dice que en todo pensamiento o percepción o comunicación de una percepción hay trasformación, codificación. Poner un nombre, nos dice Bateson, es siempre clasificar; trazar un mapa es, en esencia, lo mismo que poner un nombre.

Por otra parte, los desafíos de una cartografía política compleja nos obligana aceptar que no existe la experiencia objetiva. Toda experiencia es subjetiva y toda geopolítica es, en último término, la interpretación subjetiva del territorio conocido efectivamente y configurado en los afectos. El desafío de cualquier nueva geopolítica es permitir y construir la libertad de los ciudadanos-observadores del paisaje democrático.

BIBLIOGRAFÍA

BATESON, G. (1982). Espíritu y naturaleza. Buenos Aires: Amorrortu.

HEGEL (2002[1807]). Fenomenología del espíritu. México:FCE.

HELLER, A. (1991). La controversia posmoderna, Barcelona.

HERRERA, D. (1996). Posmodernidad, ¿ruptura con la modernidad? Revista de Filosofía de México, Nº 82. México.

KANT, I. (1992 [1784]). ¿Qué es la Ilustración? Madrid: Alianza.

kANT (2005 [1781]). Crítica de la razón pura. Madrid: Taurus.28 Revista Política y Estrategia N˚ 108 – 2007academia nacional de Estudios Políticos y Estratégicos

kANT (2002[1788]). Crítica de la razón práctica. Barcelona: Alianza.

kORZYBSkI, A. (1950).  Manhood of Humanity. Fort Worth, Texas: Institute of General Semantics.

kORZYBSkI, A. (1994). Science and Sanity: An Introduction to Non-Aristotelian Systems and General Semantics. Fort Worth, Texas: Institute of GeneralSemantics.

LAVANDERO, L. & Malpartida, A. (2003). La organización de las unidades cultura-naturaleza. Santiago: Corporación Síntesis.

LYOTARD, F. (1979). La condición posmoderna: Informe sobre el saber. Madrid: Cátedra.

Ó TUATHAIL, G. (1996), Critical Geopolitics: The Politics of Writing Global Space. London: Routledge.

PIAGET, J. (1954). La formación del símbolo en el niño. México: FCE.

RATZEL, F. ([1921]. 1891). Anthropogeographie. Stuttgart: J. Hegelhorns Nachf.

RATZEL, F. (1987 [1897]).  La géographie politique: les concepts fondamentaux. Paris: Fayard.

WALLERSTEIN, I. (2007). Geopolítica y geocultura: ensayos sobre el moderno sistema mundial. Barcelona: kairos.

TERRE & PEUPLE Magazine N°50

Communiqué de "Terre & Peuple"Wallonie

TERRE & PEUPLE Magazine N°50

Fiche de lecture

 

bbbb3821314138.jpgLe numéro 50 de TP Magazine est centré autour d’un dossier bien fourni sur le thème ‘Demain l’apocalypse ?’

 

Dans son éditorial, Pierre Vial souligne l’échec de la démocratie de marché dans sa manœuvre des printemps arabes, ses agents révolutionnaires se révélant sans autre capacité que de mettre en selle ses ennemis islamistes. Il promet au contraire que notre rêve révolutionnaire sera un cauchemar pour l’ennemi.

 

Pour situer les Hyperboréens aux yeux bleus chez qui Apollon passe ses hivers, Claude Perrin cite Jürgen Spanuth, Samivel, la ‘civilisation alésienne’ (qui rattache Alésia à Eleusis), René Guénon, la Thulé de la ‘Géographie’ de Strabon, Pythéas le Massaliote, Pline et son ‘Histoire naturelle’, Tilak et ‘The Artic Home in the Veda’ qui reporte la venue des Indo-Européens à la période d’Orion (-4500), les ‘Royaumes de Borée’ de Jean Raspail et l’Ancient Circumpolar World des anthropologues américains.

 

Pierre Vial ouvre le dossier sur l’apocalypse avec le film ‘2012’ de l’Américain Roland Emmerich. Grâce aux vaisseaux spatiaux de survie mis au point par un chercheur noir, véritables arches de Noé, une nouvelle humanité métissée dès le départ survit à la catastrophe.

 

Il note que l’apocalypse, révélation de la fin prochaine du monde, est le privilège du peuple élu. Seuls à en émerger, les fidèles de Yahvé jouiront ensuite d’une abondance totale et sans fin. Lorsque les souverains séleucides de Syrie qui règnent sur la Palestine veulent y interdire les rites ancestraux, dont la circoncision, et installer le culte de Zeus dans le Temple de Jérusalem, ils ouvrent un courant incessant d’apocalyptique militante zélote, avec une succession de révoltes, depuis celle des Machabées (-167) jusqu’à celle de Bar Cochba sous l’Empereur Hadrien (+135). Mais finalement la vengeance viendra le jour où le Messie, monarque sage et puissant, anéantira les païens par le feu et placera pour mille ans les survivants sous la coupe du peuple élu. L’Apocalypse de saint Jean fait le pont entre la tradition juive et le christianisme. Les premiers Pères de l’Eglise promettent aux chrétiens persécutés une vengeance sanglante (Irénée, Lactance). Saint Bernard et sainte Hildegarde guettent dans les guerres et les famines les signes annonciateurs de la fin des temps, le Saint Empire romain étant la quatrième et dernière domination.

 

Par rapport au mythe de la fin des temps, Jean Haudry situe la tradition indo-européenne dans la conception d’une succession des âges du monde, attestée par Hésiode (VIIIe AC), les Lois de Manou (IIe AC) et la Vision de la Voyante dans l’Edda (XIIe PC), en homologie aux cycles temporels du jour et de l’année, avec une partie lumineuse et une partie obscure séparée par deux parties crépusculaires, comme l’est l’année des régions circumpolaires. Dans la doctrine indienne des âges du monde des lois de Manou, l’année des hommes est un jour des dieux et les quatre âges d’un cycle correspondent aux quatre castes. La conception d’Hésiode, qui en est proche, peut être considérée comme héritée de la précédente. Dans la conception des poèmes eddiques, le cycle suit également la hiérarchie des fonctions, mais l’essentiel se produit chez les dieux. Dans les trois textes, le modèle retenu est la décadence morale et non le progrès. Dans la conception de l’Iran médiéval, après 6000 ans de paix consacrés aux deux créations, la bonne et la mauvaise, Ahura Mazda (Seigneur-sagesse) et Ahriman (Fureur agressive) s’affrontent pendant 3000 ans. Azhi, le serpent barbare (identifié dans l’envahisseur arabe) enchaîné par un héros se libère, mais est tué par un autre héros et la bonne création prend le dessus avec Zarathustra. Le tri est fait entre les bons et les mauvais et Ahriman est renvoyé pour toujours dans les ténèbres. Le Ragnarok, comme le Beowulf anglais, ont été rapprochés de la conception iranienne. Le Mahâbhârata est, selon Dumézil, la transposition dans le monde des hommes de la hiérarchie des trois fonctions. L’intrigue est une crise des structures et une renaissance. Cette interprétation a été probablement inspirée par le récit de la bataille de Brâvellir (‘Gesta Danorum’ de Saxo Grammaticus, XIIe PC), qui accumule les détails originaux identiques entre les récits indien et scandinave. Comme c’est également le cas pour des récits de la royauté étrusque de Rome et des débuts de la république romaine.

 

Pour Robert Dragan, les catholiques traditionalistes s’alignent sur le pape Léon XIII, qui invite à interpréter l’écriture « en ne s’écartant en rien du sens littéral et comme évident »… et à aller de défaite en défaite vers la victoire du Christ.

 

Yvan Lajehanne pose la question ‘Que faire pour survivre dans la débâcle ?’ Il y a bien la BAD (Base Autonome Durable), à laquelle il préfère le RAD (réseau autonome durable) avec l’amorce d’une contre-société où se débarrasser de ses faux besoins. Pour la défense de ces noyaux de sécurité, acheter le livre de Piero San Giorgio est un bon investissement.

 

Alain Cagnat ébauche cinq scénarios ‘catastrophe’. Dans le premier, l’Internationale capitaliste échouant à colmater ses brèches, les bons élèves d’Europe du Nord se réfugient dans une zone Deutsche Mark, qui chavire bientôt, en même temps que la Chine s’effondre comme ses exportations. Les grandes surfaces sont pillées et fascistes et communistes se disputent la rue. Dans le deuxième, sur fond de guerre ethnique, le Front Républicain écarte Marine Le Pen au second tour, pendant que le Parti Islamique de France s’empare de nombreuses villes. Les contrôles se renforçant, les trafics cessent d’être rentables et les banlieues s’embrasent, les comités d’autodéfense et les communautés s’arment, la composante religieuse l’emportant sur l’ethnique. Le troisième scénario est celui des printemps arabes, avec l’islamisation de l’Afrique du Nord et du Moyen-Orient qui dresse une profonde hostilité contre l’Occident américano-sioniste. Les prix des carburants explosent. Le quatrième est celui de la guerre contre l’Iran pour laquelle les faucons ont mis toutes les bases US en alerte. Mais les alliés du Golfe se montrant réticents, le raid se déroule dans de mauvaises conditions. Les Occidentaux ont retardé le programme nucléaire iranien de plusieurs années, mais le prix payé est énorme. Les Palestiniens se révoltent avec l’aide du Hesbolah et l’Etat juif laisse les Anglo-saxons s’empêtrer. Les marchés s’écroulent (voir scénario n°1). Le scénario n°5 est celui de la guerre contre la Chine, où les Américains, impatients de profiter de ce qui leur reste encore d’avance technologique (et d’effacer l’énorme créance chinoise) se rapprochent de l’Inde tandis que le Pakistan s’aligne sur la Chine. Dans un sixième scénario, il ne se passe rien, sinon que la crise s’aggrave car les illusionnistes continuent de tirer des milliards de leurs manches pour sauver le capitalisme financier. L’immigration progresse et la Chine conquiert la planète en douceur : c’est le plus probable.

 

Le même Alain Cagnat fusille la Gauche pour avoir trahi la classe ouvrière car, si le Parti Communiste est sorti triomphant de la Seconde Guerre (leurs cent mille fusillés) et, s’il l’est resté jusqu’à la révolution des intellos de mai 68, les Accords de Grenelle vont faire des ouvriers des bourgeois conservateurs. La Gauche se fabrique à présent d’autres masses de prolétaires avec les immigrés, lesquels ont tout à craindre des nouveaux arrivants.

 

Pour Aristide Corre, l’apocalypse, c’était hier, avec la Seconde Guerre Mondiale qui a achevé le sale boulot de la première, avec la décolonisation qui a volatilisé nos ressources naturelles pour nous embarrasser ensuite des trop-pleins du Tiers Monde, avec la destruction de la cellule familiale (libération sexuelle, avortement, consumérisme hédoniste), avec une Europe qui nous livre à un nouvel ordre mondial, avec la submersion de la race blanche. C’est donc l’instant de réagir.

 

Pour Roberto Fiorini, la dictature financière est bien résolue à se renforcer : il s’agit pour elle de sauver le triple AAA de la démocratie de marché et tant pis pour les populations. A nous de faire passer notre message, celui d’un protectionnisme continental modéré, le message de Maurice Allais.

 

Robert Dragan retrace l’histoire du génocide des Vendéens ordonné par la Convention républicaine. L’œuvre de sa vie que Reynald Secher lui a consacrée fait l’objet d’un article détaillé dans ce même numéro.

 

Jean-Patrick Arteault poursuit sa généalogie du mondialisme occidental par l’instrumentalisation par le Groupe Milner de la Conférence de la Paix de 1919. Milner, qui avait provoqué l’éclatement du Parti Libéral au pouvoir au Royaume-Uni, avait placé ses pions au secrétariat du nouveau premier ministre Lloyd George et s’était placé lui-même avec Léo Amery dans le Cabinet de Guerre de cinq membres qui coiffait le conseil des ministres, un autre de ses pions était l’adjoint du ministre des Affaires étrangères et un autre dirigeait le Renseignement politique. Lorsqu’il s’est agi d’arrêter les termes du Traité de paix, ceux de la Déclaration universelle des Droits de l’Homme ou les structures de la Société des Nations, entre les délégations britannique et américaine s’est manifestée une cohérence profonde par une communauté de vision sur le monde à construire et sur des projets politiques, produit des réflexions des cercles The Round Table (et de sa revue du même nom) et de son homologue américain The Inquiry (et sa revue Foreign Affairs Magazine) et enfin du Royal Institute of International Affairs et de son pendant américain le Council on Foreign Relations.

 

Ancien diplomate croate et professeur de sciences politiques dans une université américaine, notre ami Tomislav Sunic, témoin privilégié de la malignité de la balkanisation et de la cohabitation multiculturelle, démontre que le capitalisme mondialiste s’est révélé plus efficace en la matière que le communisme.  Aux rebelles contemporains, que ne choquent pas la connivence entre le commerçant et le commissaire pour détruire leur race et leur culture, la figure de l’anarchiste est désuète autant que celle du partisan face à un système de surveillance totale. Toutefois, leur situation biologique, culturelle, spirituelle est loin d’être désespérée : comme le système soviétique avant son écroulement, le système capitaliste moribond affecte contre toute vraisemblance d’être toujours la seule voie de l’avenir.

 

bb.jpg


 

00:05 Publié dans Nouvelle Droite, Revue | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : revue, nouvelle droite | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Revolution from Above

Revolution from Above

Alex KURTAGIC

Ex: http://www.alternativeright.com/

Kerry Bolton
Revolution from Above
London: Arktos Media, 2011

The popular imagination conceives Marxism and capitalism as opposing forces, imagining that—obviously—Marxists want the capitalists’ money and capitalists do not want Marxists to take it from them.

Kerry Bolton’s Revolution from Above disproves this notion.

revolution-from-aboveAs it turns out, and as many readers probably already know, the Marxist revolutions in the East succeeded in many places thanks to the ample funds supplied to them—consciously and voluntarily—by finance-capitalists in the West.

With access to all the money they could wish for and more, the finance-capitalists in Bolton’s narrative were, and are, primarily motivated by a desire for power, and their ultimate aim was not even more money per se, but the enduring ability to shape the world to their convenience, which translates into a collectivised planet of producers and consumers.

Marxism was useful in as much as it was a materialistic ideology that destroyed traditional structures and values and turned citizens into secular, deracinated wage slaves, irrespective of race, gender, age, creed, disability, or sexual orientation.

Capitalism was useful in as much as it made money the measure of all things and created a consumer culture that ultimately turned citizens into debt slaves, also irrespective of race, gender, and so on.

In this manner, Marxism and capitalism were seen as complementary, as well as a method of pacifying the citizenry: too busy labouring in the factory or in the cubicle, and too befuddled by daydreams of shopping and entertainment during their free time, the citizens of this global order, fearful of losing their jobs and not being able to buy things or satisfy their creditors, are left with little inclination to, or energy for, rebellion.

Bolton explains how the finance-capitalist oligarchy is the entity that truly runs our affairs, rather than the national governments. The latter are either financially dependent, or in partnership, with the financiers and the central bankers.

To illustrate this dependency he documents the United States’ government relationship with the Bolsheviks in Russia during the revolution, not to mention the similarity in their goals despite superficial appearances to the contrary and despite alarm or opposition from further down the hierarchy. Bolton shows how genuinely anti-communist efforts were frustrated during the Cold War. And he shows that the close relationship with communist regimes ended when Stalin decided to pursue his own agenda.

The book then goes on to describe the various mechanisms of plutocratic domination. Bolton documents the involvement of a network of prominent, immensely rich, tax-exempt, so-called ‘philanthropic’ organisations in funding subversive movements and think tanks. Marxism has already been mentioned, but it seems these foundations were also interested in promoting feminism and the student revolts of 1968.

Feminism was sold to women as a movement of emancipation. Bolton argues, and documents, that its funders’ real aim was to end women’s independence (from the bankers) and prevent the unregulated education of children: by turning women into wage-slaves they would become dependent on an entity controlled by the plutocrats, double the tax-base, double the size of the market, and create the need for children’s education to be controlled by the government—an entity that is, in turn, controlled by the plutocrats. Betty Friedan, who founded the second wave of feminism with her book The Feminine Mystique, and Gloria Steinem are named as having received avalanches of funding from ‘philanthropic’ foundations.

With regards to the university student revolts of 1968, the book highlights the irony of how, without the activists knowing it, they were backed by the same establishment they thought to be opposing. These students were but ‘useful idiots’ in a covert strategy of subversion and social engineering.

The subversion does not end there, for the plutocracy has global reach and is as actively engaged in global planning today as it ever was. Revolution from Above inevitably deals with George Soros’ involvement in the overthrow of governments or regimes not to his liking. According to Bolton’s account, the reader can take it for granted that any of the velvet or ‘colour revolutions’ we have seen in recent years have been funded in some way or another by George Soros through his extended network of instruments. ‘Regime-changes’ in Yugoslavia, Georgia, Ukraine (orange revolution), Kyrgyszstan (pink revolution), Tunisia (jasmine revolution), Egypt (white revolution), Lybia (red, green, black revolution), and Iran (green revolution) were not the result of spontaneous uprisings. Anti-government parties, think tanks, media, campaigns, demonstrations, and even training courses for political agitation—all and in all cases received vast funding from finance-capitalism overseas, not from local collections of petty sums.

In other words, many a modern revolution has not come from below, but from above. And in the context of governments being in a dependent relationship to the stratospherical plutocracy, this aggregates into a pincer strategy, with pressure coming secretly from above and from below, with the pressure from below—however spontaneous and ‘messy’ it may seem when it hits the headlines—being the result of years of careful planning, financing, and preparation by overseas elites.

The reader must ask himself how it is that whenever we see one of these ‘colour revolutions’ somehow someone is able, almost overnight, to overwhelm the streets with a tsunami of well designed, professionally printed, and colour-coordinated merchandise: flags, scarves, placards, posters, leaflets, balloons, headbands, t-shirts, face-paint, you name it, it all seems very slick, aesthetically consistent, and fashion-conscious for uprisings that are supposedly spontaneous demonstrations of popular rage.

Overall Bolton crams in an enormous mass of information within 250 pages. The lists of names and figures—and some of the sums involved are truly staggering—are endless, and the persistent torrent of footnotes considerably expand on parts of the main narrative. The plutocrats’ web of influence and deceit is immensely complicated, not only as a structure but also as a process, since it thrives in double meaning, double think, and ambiguity. Those interested in a detailed knowledge of the machinations behind current and recent events, or even twentieth-century political history, would do well to read this book more than once—at least if they have ambitions of explaining it all to an educable third party.

One aspect of Bolton’s narrative that seems quite amazing is the superficially inoffensive tone of some of the enemy quotes provided. Were it not because Bolton’s findings flow in the same direction as other books uncovering the machinations of the oligarchs and their partners in Western governments, or because the answer to cui bono is provided unequivocally by the unfolding of current and historical events, it would be easy to think that the statements quoted came from deluded idealists. It may be that some truly believe in the goodness of their cause, yet such selfless altruism is hard to believe given the known absence of ethics among our current elite of super-financiers—the banking system they engineered, not to mention many of the opaque financial instruments we have come to known through the still unfolding financial crisis in the West, is a deception designed to obscure a practice of legalised theft.

The lessons are clear: firstly, modern ‘colour revolutions’ are not instigated by public desires for more democratic or liberal governance, but by private desires for increased global power and control; secondly, subversive movements can be given a name and a face—a name and a face averse that hides behind generic institutional names and orchestrates world events at the end of a complex money trail; and thirdly, the those seeking fundamental change should first become proficient capitalists or learn how to gain access to them. These are all obvious, of course, but Revolution from Above is less about teaching those lessons than about documenting how the world is run, by whom, and for what purpose. In other words, this is material with which to back up assertions likely to be challenged by, or in front of, the unaware. Sober and factual in tone, it is also good gift material for those who may benefit from a bit of education.

Rusland: de geopolitieke inzet

 

russie-densite.gif

Rusland: de geopolitieke inzet

 

Robert STEUCKERS

Uittreksel uit een spreekbeurt gehouden te Nancy, november 2005

russie.gifDe « Koude Oorlog » was nog geen verleden tijd, en Gorbatsjovs glasnost en perestrojka lagen nog niet op ieders lippen, of onze denkrichting had al onder impuls van Guillaume Faye resoluut gebroken met de dominante visie in het westen, van de ultraconservatieven tot de ultraliberalen en trotskisten, die de Sovjetunie voorstelde als vraatzuchtige wolf die likkebaardend klaarstond om zich op die arme liberale en democratische schaapjes te storten. Deze lasterlijke houding ten opzichte van de USSR had te maken met het feit dat zij, nolens volens, de erfgename van het eeuwige Rusland was, dat van de tsaren die de Mongolen en de Tataren uit Europa hadden verdreven. Tegenwoordig moeten we vaststellen dat diezelfde krachten zich opnieuw verenigen om de hernieuwingspolitiek van President Poetin aan de kaak te stellen. Ze geven zich daarbij in het media-universum zonder enige gêne over aan wat we voortaan « een cognitieve oorlog » - wij zouden gewagen van een « metapolitieke oorlog » - zullen noemen, teneinde een meerderheid van de burgers in alle landen van de wereld en bij alle mogelijke politieke strekkingen braafjes één of andere variant van het door de Amerikaanse desinformatie-industrie gepopulariseerde discours te doen aannemen. Het is de wil van deze cenakels om de wereld « te laten zien en vatten » volgens de prioriteiten van de hegemoniale politiek van Washington. Met andere woorden, het op de hele planeet doen aanvaarden van een politiek die 1) erop gericht is om alle « gevaarlijke » machten aan de kusten van Azië of Europa - dus in de zogezegde « rimlands » van de Angelsaksische geopolitiek - uit te schakelen en 2) de macht die heer en meester is in het Siberische « Land van het Midden », een heel uitgestrekt territorium tussen Europa, India en China, in te dammen en te verstikken.

We hebben het hier uiteraard over Rusland.

Heel wat tijdgenoten nemen deze « visie » op de internationale betrekkingen klakkeloos over, zonder het minste greintje kritiek. Alles wat afkomstig is uit « het ruziemakende en talmende Oude Europa » (dixit Robert Kagan), uit het « corrupte Rusland dat nog steeds niet in het reine is met zijn totalitaire geschiedenis », uit het « wrede en reactionaire » China of uit India dat « in handen is van hindoefundamentalisten » (ten tijde van de BJP), wordt afgedaan als « ouderwets » en « nostalgisch ». Dit discours wordt op massale schaal verspreid door de media, wordt zonder ophouden verkondigd, verhindert een brede hergroepering van identitaire krachten op continentale schaal en tracht het ontstaan van een ware dialoog tussen beschavingen tegen te gaan, waarbij elke beschaving nochtans het recht zou hebben om zichzelf te blijven en de erfenis van haar voorouders te respecteren (de Romeinen spraken in dit verband van mos majorum). Niets daarvan: alles moet ten dienste staan van een smakeloze brij zonder geheugen, gericht op globalisering en melting pot en overgeleverd aan het gemanipuleer van de enig overgebleven supermacht.

De eerste stap in de strategie om het Amerikaanse hegemoniale streven te counteren vormt het opstarten van een constructieve dialoog met Rusland en het efficiënt bekampen van het « cognitief-metapolitieke » offensief, dat vandaag in alle Europese samenlevingen in volle gang is en daarbij een systematische russofobie uitdraagt, meer bepaald door te allen tijde de Tsjetsjeense terroristen te verdedigen, terwijl het leed van de Russische bevolking geminimaliseerd wordt, of de minste tegenslag van één of andere onderkruiperige “oligarch” voor waarheid te nemen om medelijden met hen te hebben. Het werk van de identitaire krachten moet op de eerste plaats dit offensief counteren, dat surft op het stilzwijgende, maar zeer reële verbond tussen ultraliberalen en trotskisten, die overal in het media-universum en in het weerzinwekkende partijpolitieke raderwerk geïnfiltreerd zijn, waar alle voor de toekomst van onze volkeren rampzalige beslissingen genomen worden.

Volgens mij dient deze metapolitieke arbeid, die vanaf nu zonder dralen verricht moet worden, zich toe te spitsen op vier soorten overwegingen:

◊ Eerst en vooral overwegingen van historische aard. In tegenstelling tot de heersende, zuiver conceptuele visie, die zich in Frankrijk graag tooit met het epitheton « republikeins », vormt de geschiedenis van mensen en volkeren nooit een simpele opeenvolging van in zichzelf besloten tijdperken. De geschiedenis vindt plaats, is niet voltooid, en vloeit heel natuurlijk voort uit alles wat eraan voorafgegaan is sinds het begin der tijden, en wij nemen deel aan deze geschiedenis, wij worden erin ondergedompeld, of we dat nu willen of niet, en ons lot als zoon politikon hangt er onlosmakelijk mee samen. Wat ik hier evenwel aanbreng, is niets minder dan de filosofische kern van onze identitaire idealen. In Groot-Brittannië krijgen de leerlingen van de zogenaamde « grammar schools », het equivalent van onze lycea, colleges, gymnasia of athenea, geschiedenisonderricht door gebruik te maken van de historische atlassen van de Schotse historicus en geograaf Colin McEvedy. Voor McEvedy is de geschiedenis niets anders dan de opeenvolging in de tijd van botsingen tussen « archetypische » volkeren, waaronder de « Indo-Europeanen », de « Hunno-Turko-Mongolen », de « Semieten », enzovoort. De hele geschiedenis is het resultaat van de lotgevallen, de systolen en diastolen die de existentiële lotsbestemming van deze « matrix »-volkeren bepalen, die hen doen bewegen, vooruitgaan of terugplooien op hun oorspronkelijke thuisland. De offensieve periodes zijn de glorieperiodes; de periodes van terugplooiing geven neergang en ellende aan.

In de atlassen van McEvedy kan men het spoor van de Indo-Europese verovering van Azië volgen, eerst van Klein-Azië, vervolgens van Centraal-Azië, Perzië, India en Sinkiang, de regio van waaruit de veroveraars zonder twijfel ooit de Stille Oceaan hebben bereikt. Dit formidabel epos van de Kimmeriërs, de Skythen, de Sarmaten, de Alanen en de Saken begon in 2500 v.o.t. en werd beëindigd door het neerwalsen van de Indo-Europese culturen, waaronder deze van de Tocharen, door de verschrikkelijke aanval van de Hunnen, die pas tot staan werd gebracht, zoals we allen weten uit de lagere school, op de Catalaunische velden in de Champagne, waar ze werden opgewacht door Romeinse, Visigotische en Alaanse troepen. Het zijn de Kozakken die, vanaf Ivan IV de Verschrikkelijke, meer dan duizend jaar Europese nederlagen en wrede brandschattingen zullen wreken op de hordes die uit de “Urheimat” van de Hunse, Turkse en Mongoolse volkeren kwamen (Hunnen, Avaren, Magyaren, Khazaren, Petsjenegen, Kumanen, Seldjoeken, Tataren, Mongolen, Gouden Horde, enzovoort). De Britse politiek van de 19de eeuw, en later de Amerikaanse politiek van Theodore Roosevelt tot George Bush junior zullen deze formidabele prestatie van de Russische en Europese geschiedenis in vraag stellen en haar interne cohesie ontwrichten. Met het verschrikkelijke risico dat men op die manier de door de Indo-Europese ruitervolkeren uit de oudheid en de kozakken van Ivan en zijn opvolgers, waaronder Catharina de Grote, veroverde territoria definitief prijsgeeft aan de geïslamiseerde Turks-Mongoolse volkeren. Het doel van de Angelsaksische geopolitiek is de herleving van de destructieve dynamiek van de nomadenvolkeren, teneinde een grondgebied te ontwrichten, dat in verenigde toestand onneembaar zou zijn. Zbigniew Brzezinski beschrijft dit scenario open en bloot. Onze identitaire standpunten, die gebaseerd zijn op « het langste geheugen », verbieden elke medewerking aan dit laaghartige project, dat ons te eeuwigen dage zou overleveren aan onophoudelijke invasies. In Azië, aan de oevers van de Indische Oceaan, in de Stille Oceaan, staan wij aan de zijde van Rusland, omdat ons eigen overleven ervan afhangt. 

◊ Vervolgens zijn er militaire redenen die ons moeten overtuigen om de pleitbezorgers van een Euro-Russische tandem te worden. Carl Schmitt heeft ons geleerd dat een continent, een grootruimte (Großraum), enkel vrij kan zijn, indien geen enkele ruimtevreemde mogendheid in staat is om er tussenbeide te komen. De interventies van de Verenigde Staten vinden plaats op alle geostrategische knooppunten: de interventie op de Balkan in 1999 doelde op de bezetting van het gebied dat de Indo-Europeanen van de oudheid, de Hettieten, de Keltische Galaten, de Macedoniërs van Alexander en de Romeinen als springplank naar het Nabije en Midden-Oosten (tot aan de Indus, wat Alexander betreft) gebruikten, dat de ruitervolkeren in staat stelde de oevers van de Stille Oceaan te bereiken. De interventie in Irak, het grondgebied van het oude Assyrische rijk, doelt op het blokkeren van elke expansie uit het noorden, met andere woorden van elke heruitgave van een (seculier) Euro-Turks-Arabisch project, zoals dat van de keizer Wilhelm II. Met de steun aan de Tsjetsjeense terroristen wil men Rusland uit de Kaukusus verdrijven, Armenië isoleren en vermijden dat er een territoriale continuïteit langs de as Moskou-Teheran ontstaat. De kunstmatig opgewekte onlusten in voormalig Sovjet-Centraal-Azië doelen op het installeren van amerikanofiele regimes, wier taak het is om alle nog bestaande vriendschapsverdragen met Rusland, Iran, India of de Europese landen op te zeggen. Deze strubbelingen, die vaak opduiken onder gefabriceerde en uiterst gemediatiseerde vormen, zoals de « oranje revolutie » in Oekraïne in december vorig jaar, of, vroeger, de « rozenrevolutie » in Georgië, dienen daarenboven om elke territoriale verbinding tussen Rusland en India, dat zich opnieuw volledig bewust is van zijn geschiedenis, onmogelijk te maken.

Al deze interventies in Eurazië door de supermacht van over de grote plas vallen perfect onder de definitie die Carl Schmitt gaf aan de onaanvaardbare inmenging van zeemachten in de binnenlandse aangelegenheden van continentale of kustmachten. In het licht van dergelijke interventies/aanvallen – het betreft hier wel degelijk aanvallen in het tijdperk van de « cognitieve » of « elektronische oorlogvoering » - dienen we klaar en duidelijk afstand te nemen van militaire bondgenootschappen die ons nog binden aan de VS, zoals de NAVO, dienen we de rangen te sluiten met Rusland, gemeenschappelijke militair-industriële productiepolen op te bouwen en compromisloos te vechten tegen alle lokale terroristische netwerken die resulteren uit tribale animositeiten die door de Amerikaanse geheime diensten geïnstrumentaliseerd worden (Albanese en Tsjetsjeense maffiosi, enzovoort). Zoals Xavier Raufer zeer duidelijk heeft aangetoond bij de band tussen de Albanese maffia en het UÇK, dringen de vertakkingen van deze terroristische groeperingen, via drugshandel, prostitutie, smokkel, diaspora en parallelle economieën tot diep in onze samenleving door en duwen haar richting de afgrond. Wat dan weer naar de uitdrukkelijke zin van Washington is, teneinde Europa te verzwakken, zijn burgermaatschappij te saboteren, en Europa te dwingen om aanzienlijke openbare fondsen aan te snijden, om deze maffiose, smerige en hardnekkige misdaadkanker te bestrijden, dit ten nadele van andere sectoren.

◊ laat ons nu even stilstaan bij de energiepolitieke redenen. Onlangs belichtte het vermaarde Britse weekblad The Economist de meest recente wapenfeiten in het belangrijke geostrategische en geo-economische spel van de oorlog om olie. « Oorlog » is inderdaad de geschikte term om de recente gebeurtenissen in de Balkan, het Nabije en Midden-Oosten, Afghanistan en Centraal-Azië te omschrijven. Het gaat in deze oorlog om de controle over oliepijplijnen. Kort gezegd komt het erop neer dat de Verenigde Staten niet willen dat de oliepijplijnen die de olie uit de regio rond de Kaspische Zee vervoeren, over het grondgebied van mogendheden lopen die zij als vijandig of als potentieel bedreigend aanzien, in het bijzonder Rusland en Iran. Ze voeren hun politiek dusdanig dat de pijplijnen gebouwd worden op het grondgebied van hun zwakke, voorspelbare, manipuleerbare en tot loutere satellieten herleide bondgenoten. Het is hun doel om de olie te onttrekken aan het directe beheer door mogendheden die als vijandig worden beschouwd (Rusland) en ervoor te zorgen dat hun “bondgenoten” er niet kunnen van profiteren, aangezien men hun potentiële concurrentie in dezen vreest (Europa). Vóór de invasie van Irak (2003) speelde Turkije zonder veel nadenken de anti-Russische, anti-Arabische en anti-Iraanse kaart die het kreeg opgelegd door Washington, en dit in de hoop om maximale dividenden te kunnen opstrijken. Deze schijnbare slaafsheid berustte op een simpele berekening: de trouw van Ankara aan de Verenigde Staten moest uiteindelijk beloond worden door het opnieuw inlijven van de Koerdische olieregio rond Mossul als een soort Turkse vazalregio, teneinde de kemalistische staat een energetische autonomie te verschaffen, die hij verloor met de verdragen van na de Eerste Wereldoorlog, en die Turkije de heerschappij over de Arabische landen van de vruchtbare halvemaan ontnamen. Zonder deze Iraakse olie is Turkije een staat die veroordeeld blijft tot energetische afhankelijkheid en industriële stagnatie: het land kon hier verscheidene decennia mee leven, maar de demografische boom van de laatste 10 jaar heeft een kritische drempel overschreden en dwingt het land tot actie op dit vlak. Om deze trouwe bondgenoot te belonen, had Washington een compromis moeten uitwerken; het feit dat het dit verzuimd heeft en Turkije daardoor in een onhoudbare impasse heeft gedwongen, is één van de grootste mislukkingen van de diplomatie van Bush junior en kan onvoorzienbare gevolgen hebben... .

De weigering van Washington om Turkije een deel van de oliekoek van Mossul te gunnen heeft dus de uit de koude oorlog daterende strategische constellatie in de regio volledig ontwricht. In het laatste nummer (lente 2005) van het Amerikaanse diplomatieke tijdschrift Turkish Policy Quarterly, stelden Amerikaanse, Israëlische en Turkse politicologen vast dat de « speciale band » tussen Ankara en Washington, die vergelijkbaar is met de band tussen de Verenigde Staten en Groot-Brittannië of Israël, opgehouden heeft te bestaan. Het tijdschrift stelde tevens vast dat de Amerikaans-Turkse betrekkingen op geen enkele historische of culturele analyse berustten, dat ze zuiver toevallig, occasioneel en strategisch van aard waren en nooit geschraagd werden door een reflectie ten gronde. Mark Parris, ambassadeur van de Verenigde Staten in Ankara tussen 1997 en 2000 concludeert daaruit dat het « strategisch partnerschap » verworden is tot een « allergisch partnerschap », aangezien het anti-Amerikanisme tegenwoordig tot het meest gedeelde gevoel in Turkije is uitgegroeid.

Waarnemers halen in die context 2 voorbeelden van politieke fictie aan die uiterst succesvol bleken, Amerika Bizimdir (= “Amerika behoort ons toe”) en Metal Firtina (= “Metaalstorm”). De rode draad van de eerste roman vormt de bezetting van de Verenigde Staten door zegevierende Turkse legers die zich meester maken van de persagentschappen en mediagroepen, en vervolgens de wereld overspoelen met een “Turkse (of pantoeraanse) cultuur” ter vervanging van wat wij steevast het “Amerika-centrische mondialisme” hebben genoemd. Het tweede werk, dat in Turkije alle verkoopcijfers overtreft, beschrijft daarentegen de bezetting van Turkije door Amerikaanse legers, na een vertrouwd in de oren klinkende campagne van tapijtbombardementen. Vanwaar die titel, die ons toch wel wat raadselachtig overkomt?

Deze twee werken hebben elk hun rol gespeeld in de transformatie van de absolute bondgenoot van gisteren tot de absolute vijand van vandaag. Erdogan kan zijn publieke opinie niet meer naast zich neerleggen en lijkt terug te keren op zijn stappen: hij heeft reeds verklaard dat de Iraakse verkiezingen ondemocratisch verliepen en ze een farce waren. Maar het nieuwe Turkse beleid gaat verder dan dat: Turkije onderhandelt met Rusland, dus de vijand van gisteren, over de transit op zijn grondgebied van een oliepijplijn die Russische olie direct van de Russische haven Djoubga/Novorossiejsk via Samsun aan de Zwarte Zee naar Ceyhan moet brengen. Er weze aan herinnerd dat Ceyhan de haven aan de Middellandse Zee is die door Washington voorbestemd was om in exclusiviteit de energiedragers uit de Kaspische ruimte te ontvangen, en daarbij het grondgebied van zowel Iran als Rusland te omzeilen. Het Amerikaanse plan om Rusland te isoleren en op een nieuwe manier « in te dammen » heeft gefaald als gevolg van de Turkse koerswijziging. 

De lotgevallen van het transport van koolwaterstofproducten in het gebied van de Zwarte en de Middellandse Zee volgen dezelfde logica als elders op onze planeet: het saboteren van optimale communicatielijnen tussen het hart van het Euraziatische continent en de kustgebieden met een grote oecumenische densiteit. In de maritieme gebieden van de Stille en de Indische Oceaan verliep de Amerikaanse politiek inzake gas- en oliepijplijnen volgens hetzelfde stramien: geen directe verbinding tussen Rusland/Siberië, China, de beide Korea’s en Japan. Evenmin een directe verbinding tussen Rusland en de uitgestrekte ruimte die Afghanistan, Iran en Pakistan omvat en die grenst aan de Indische Oceaan. De corrupte en pro-Amerikaanse petromonarchieën Saoedi-Arabië en de Emiraten in het westen, en Pakistan in het oosten vormen front tegen Iran en passen de oude indammingspolitiek toe, die sinds het begin van de 20ste eeuw werd bepleit door Angelsaksische geopolitici (Mackinder, Lea). Rusland en Iran trachten deze blokkade te doorbreken, ondermeer door steun te verlenen aan de opstand in Beloetsjistan, in het zuidwesten van Pakistan. Deze opstand, die onmiddellijk na de op het conto van de Tsjetsjenen te schrijven tragedie van Beslan begon en die afgelopen maand januari zijn hoogtepunt kende, beoogt een onafhankelijk Beloetsjistan onder leiding van de traditionele leider Akbar Bugti en met de steun van Teheran en Moskou. Dit onafhankelijk Beloetsjistan zou dan zijn havens aan de Indische Oceaan ter beschikking stellen en er de terminals van de oliepijplijnen komende uit de Kaspische ruimte en Turkestan van maken, waar vervolgens Chinese, Japanse en Indische tankers zich zouden kunnen komen bevoorraden, en die op hun beurt ineens verlost zouden zijn van min of meer van de Verenigde Staten afhankelijke derde landen. De opstand van het krijgervolk der Beloetsji’s, die een reserve aan geduchte soldaten voor het Britse Rijk vormde, verzwakt Pakistan, de bondgenoot van de Verenigde Staten. Deze opstand is momenteel geenszins neergeslagen; hij vormt het antwoord van de Iraniërs en de Russen op de Amerikaanse druk, meer bepaald op de indirecte steun aan het Tsjetsjeense terrorisme. De uitkomst van deze veldslag, van dit « low-intensity conflict », zoals strategen dit vandaag de dag noemen, zal bepalend zijn voor de vrijheid van alle politieke en beschavingsactoren op de Euraziatische landmassa. De westerse media, die georchestreerd worden door de Amerikaanse media-agentschappen, reppen met geen woord over deze opstand. Wat niet betekent dat hij er niet is: de onafhankelijke Aziatische pers heeft het er vaak over. Onze medeburgers, die verstrikt worden in het web van leugens van de « americano-sfeer », mogen niets te weten komen over deze meesterzet op het internationale toneel: het “Rijk van het Goede” moet altijd triomferen en mag geen tegenslagen kennen...

In het Verre Oosten zet President Poetin in op pacificering van de conflicten tussen Chinezen, Koreanen en Japanners, en dit op een moment dat de veramerikaniseerde « mediasfeer » geen moment onbenut laat om de prestigeconflicten tussen de volkeren van de regio inzake de gebeurtenissen tijdens de Tweede Wereldoorlog en hun verschillende interpretaties aan te wakkeren. Het Euraziatische perspectief van de Russen mikt op de vrede en op de vredevolle transit van koolwaterstofproducten naar de grote industriële centra van het Verre Oosten. Het thalassocratische en maritieme perspectief van de Verenigde Staten doelt daarentegen op de vereeuwiging van oude conflicten, om zodoende te verhinderen dat het voornaamste doel van de Japanse oorlog vanaf 1931 c.q. 1937, zijnde de oprichting van een « Groot-Oostaziatische Welvaartssfeer », in de nieuwe omstandigheden van de beginnende 21ste eeuw zou kunnen herleven.

Het leggen van de nieuwe oliepijplijn tussen Rusland en de Middellandse Zee via Turkije, de Beloetsji-opstand in Pakistan en de projecten in het Verre Oosten zijn allemaal gebeurtenissen die er ons toe moeten aanzetten om volgend duidelijk principe te huldigen : « de absolute vrijheid van de volkeren van Eurazië om de energie die uit koolwaterstofproducten wordt gewonnen te vervoeren en te verkrijgen », zijnde de geactualiseerde versie van de principes van vrij verkeer en “non-interventie van ruimtevreemde machten in een gegeven ruimte” (Carl Schmitt).

◊ Laat ons tot slot even stilstaan bij de redenen van technologische en elektronische aard. Door hen in detail te bespreken, zouden we het beperkte kader van deze voordracht ver overschrijden. Maar één zaak is zeker: wij zijn niet de enigen die pleiten voor een Europese emancipatie op dit vlak. Deze emancipatie kan onmogelijk snel geschieden zonder de medewerking van Rusland. Het team rond David W. Versailles, Valérie Mérindol, Patrice Cardot en Rémi Barré heeft een standaardwerk gepubliceerd dat fundamenteel is voor de basiskennis van het dossier rond onderzoek en technologie (La recherche et la technologie, enjeux de puissance, Economica, Parijs, 2003). Dit team pleit voor het dichten van de technologische «kloof » tussen de Verenigde Staten en de rest van de wereld (niet enkel Europa !). Deze “kloof” accentueert en vereeuwigt de afhankelijkheid en de onmacht van ons continent, zowel op civiel als militair vlak. Het GALILEO-programma is de voornaamste ontwikkeling die ons vandaag de dag uit de impasse tracht te halen. Ondanks het gedurfde opzet en het feit dat het de Russen, Indiërs en Chinezen interesseert loopt het project het risico dat het door een gelijkaardig Amerikaans project voorbijgestoken wordt, omdat de beslissingsprocessen binnen de EU te traag zijn, omdat het bewustzijn inzake het Amerikaanse gevaar niet tot iedereen is doorgedrongen en omdat de verraders van onze beschaving, die nog steeds geloven in de misleidende mythe van het “bevrijdende Amerika”, talrijk zijn. Deze race tegen de klok om het GALILEO-project te implementeren en te consolideren impliceert de dringende noodzaak om alle bestaande inspanningen te bundelen, en zeker niet alleen deze van de EU. De Russische vooruitgang inzake ruimtetechnologie is noodzakelijk voor het voeren van een gemeenschappelijk beleid van alle Euraziatische mogendheden.

Generaal Jean-Paul Siffre van de Franse luchtmacht publiceerde vlak voor zijn dood een werk over elektronische oorlogvoering, een waar vademecum, met als leidmotief: “Maître des ondes, maître du monde” - in het Nederlands: “De meester van de (elektronische) golven is ook de meester van de wereld), (La guerre électronique. Maître des ondes, maître du monde, Lavauzelle, 2003). Generaal Siffre doet op pedagogische wijze aan zijn lezers uit de doeken hoe de elektronische oorlogvoering sinds de jaren ’90 dé primordiale inzet vormt, waarbij de controle over de « virtuele » ruimte doorslaggevend is voor de heerschappij of …de onderwerping. Storingen en vernielingen op elektronisch vlak zijn inmiddels de oorlogsmethodes die courant worden aangewend en waarmee men zich vertrouwd dient te maken, opdat het politieke personeel in staat zou zijn ( ?) om op dit vlak de juiste beslissingen te treffen. Bovendien kan deze elektronische oorlogvoering, die onzichtbaar en voor het merendeel van onze tijdgenoten onbekend en onvatbaar is, niet gewonnen worden zonder beheersing van de ruimtetechnologie, een domein waarin Rusland, sinds het baanbrekende werk van de Sovjetunie in de jaren ’50, enkele lengtes voorsprong heeft.

Er werd veel gezegd en geschreven over een “As Parijs-Berlijn-Moskou”, in navolging van een merkwaardig werk van Henri de Grossouvre, dat onlangs verschenen is bij “L’Age d’Homme” in Lausanne. Deze As blijft een vrome wens zonder duidelijke wil om onmiddellijk en zonder dralen de uiteenlopende troeven van de grote continentale mogendheden te verenigen. Vandaar de noodzaak om een Euro-Russische en Euraziatische geopolitiek te ontwikkelen en te populariseren, om de volkeren te bevrijden van de islamo-yankee-olielobby’s, het Tsjetsjeense terrorisme of dat van Al Qaida -  die horig zijn aan Washington, aangezien ze allen tot in hun diepste vezels creaturen van de Amerikaanse geheime diensten zijn -, de plutocratische netwerken die onze culturele tradities uitroeien (Ezra Pound), en het gemanipuleer van de media-agentschappen, wier destructieve effecten vroeger reeds bekritiseerd werden door George Orwell en Guy Debord.

Om deze bedreiging adequaat te beantwoorden, hebben we nood aan historisch besef, van het soort dat McEvedy ons leert. We hebben nood aan een Euro-Russisch satellietsysteem dat in staat is om ons tegen de dubbele oorlog die de Verenigde Staten tegen ons voeren te verweren, zijnde de cognitieve en de elektronische oorlog. En tevens hebben we nood aan volledige vrijheid om oliepijplijnen te bouwen en een energiepolitiek te voeren, zonder permanente inmenging van een vreemde supermacht in onze grote Euraziatische ruimte, die eertijds, vanaf de prehistorie, waaraan wij de verre herinnering bewaren, verenigd werd door de Indo-Europese ruitervolkeren.

Robert STEUCKERS,

Vorst, juni 2005.

Bibliografie :

Het merendeel van de artikels in deze bibliografie komen van de website van de “Asia Times”, een in Singapore gevestigd Aziatisch dagblad dat een waar tegengif biedt voor het « westerse » en « politiek correcte » denken en pleit voor een dialoog tussen beschavingen op basis van geopolitieke rationaliteit en coherentie. De journalisten en analysten die op deze site publiceren komen uit de hele wereld, maar vooral uit Iran en India; zij bieden ons een traditionele visie op de internationale betrekkingen, die zelden bezoedeld wordt door de onevenwichten die door de « religies van het boek » gegenereerd worden. Het pseudoniem van de belangrijkste bezieler van de filosofische rubriek van dit elektronisch dagblad luidt “Spengler”, wat nogal veelzeggend is. Wij kunnen onze vrienden die het Engels beheersen enkel aanraden om deze website zo vaak mogelijk te raadplegen en er zoveel mogelijk bronnen aan te boren.

◊ ◊ ◊

- XXX, “Black Sea: Oil over troubled waters”, The Economist, May 28th, 2005.

- Dirk VERMEIRE, “Allergisch Partnership”, Knack, Brussel, 18 mei 2005.

- Iason ATHANASIADIS, “A troubled triangle: Iran, India and Pakistan”, Asia Times : http://www.atimes.com  ( April 22, 2005).

- Ramtanu MAITRA, “US scatters bases to control Eurasia”, Asia Times : http://www.atimes.com  (March 30, 2005).

- John HELMER, “China beats Japan in Russian pipeline race”, Asia Times : http://www.atimes.com  (April 29, 2005).

- Sergei BLAGOV, “Russia walks thin line between Japan and China”, Asia Times : http://www.atimes.com  (April 28, 2005).

- Sergei BLAGOV, “Russia’s hydrocarbon geopolitics”, Asia Times : http://www.atimes.com  (February 3, 2005).

- Ioannis LOUCAS, “The new geopolitics of Europe and the Black Sea Region”, Naval Academy, National Defence Minister’s Staff, http://www.da.mod.uk/CSRC/documents .

- W. Joseph STROUPE, “The inevitability of a Eurasian alliance”, Asia Times : http://www.atimes.com  (August 19, 2004).

- K. Gajendra SINGH, “Russian Bear calls on Grey Wolf”, Asia Times : http://www.atimes.com  (August 28, 2004) (Très important pour connaître les prémisses du nouveau rapprochement russo-turc).

- Ray MARCELO, “India looks to Russia and Iran for energy”, Financial Times, http://news.ft.com (January 8, 2005).

- Syed Saleem SHAHZAD, “Musharraf blusters as Balochistan boils”, Asia Times : http://www.atimes.com  (January 13, 2005).

- Syed Saleem SHAHZAD, “Tribals looking down a barrel in Balochistan”, Asia Times : http://www.atimes.com  (January 15, 2005).

- K. Gajendra SINGH, “The Kirkuk tinderbox”, Asia Times : http://www.atimes.com  (January 22, 2005) (Sur le contentieux turco-américain à propos des champs pétrolifères de Mossoul et Kirkouk).

- Marwaan MACAN-MARKAR, “India shifts regional geopolitical cards”, Asia Times : http://www.atimes.com  (January 27, 2005).

- Bülent ARAS, “Russia, Turkey stress pragmatic ties”, Asia Times : http://www.atimes.com  (February 10, 2005).

mercredi, 25 janvier 2012

La crise de l’euro sera-t-elle au libéralisme ce que la chute du mur fut au communisme ?

La crise de l’euro sera-t-elle au libéralisme ce que la chute du mur fut au communisme ?

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Mais pourquoi l’Europe s’est-elle donc rendue objectivement complice des attaques contre son modèle social et ses institutions politiques et financières ?

Dernier numéro de notre série consacrée aux 40 ans qui ont permis à l’industrie de la finance de prendre le contrôle du monde réel.

" L’Europe est rentrée en récession parce que tous les pays ont diminué leur marché intérieur..."

” L’Europe est rentrée en récession parce que tous les pays ont diminué leur marché intérieur…”

Suite à la crise des subprimes, l’Europe s’est retrouvée piégée par les institutions financières. Mais le piège n’a pu se refermer sur elle qu’en raison de la nature de ses propres institutions dont la faiblesse est devenue éclatante, leur faisant perdre ainsi toute légitimité. Que les autres puissances, à commencer par les États-Unis jouent le jeu de leurs intérêts et de leurs pouvoirs oligarchiques est parfaitement logique. Ce qui ne l’est pas du tout, c’est que l’Europe se rende objectivement complice des autres puissances qui l’attaquent !

Depuis le déclenchement de la crise financière, l’Europe et ses dirigeants, n’ont cessé d’accumuler les erreurs.

Tout d’abord, l’Europe est rentrée en récession parce que tous les pays ont diminué leur marché intérieur en copiant le « modèle » allemand qui était un modèle de passager clandestin européen, puisque les excédents germaniques se nourrissent essentiellement des déficits consentis par les autres pays européens pour soutenir la demande. L’Allemagne fait 85% de ses excédents commerciaux en Europe. Elle fait ainsi deux fois moins d’excédents commerciaux aux États-Unis qu’en France (près de 14 milliards d’euros pour les États-Unis pour un peu plus de 27 milliards en France), ce qui est quand même étrange pour un compétiteur qui se prétend global.

Ensuite, par la régulation sur les assurances et les banques, les institutions européennes ont demandé l’impossible. En effet, avec le « mark to market » (principe qui veut  que les actifs soient valorisés à leur valeur de marché et subissent ainsi les fluctuations spéculatives de marché), les fonds propres des institutions financières en même temps qu’ils augmentaient – essentiellement par les profits de la spéculation – diminuaient par la valeur de marché des dettes d’État que demandait le régulateur pour la liquidité. De surcroît, en considérant l’investissement dans l’économie réelle comme demandant plus de fonds propres, le régulateur a aggravé la récession en générant un phénomène de crédit crunch (risque de pénurie de crédit), c’est à dire un gel des financements de l’économie par des banques étranglées par les contraintes imposées sur leurs bilans. Or, sans risque, il n’y a plus d’économie : la liquidité des actifs aurait pu tout à fait se réaliser en élargissant les effets acceptés en contrepartie du financement à la Banque centrale dans les opérations de refinancement. Solution d’autant moins contestable qu’elle a été mise en œuvre pour des actifs subprimes.

Enfin, en refusant la monétisation pour les Etats, qui ferait que quoi qu’il advienne il y ait toujours un acheteur en dernier ressort de la dette publique, mais aussi en refusant de refinancer les dettes des Etats au bord de la banqueroute (Grèce, Portugal) à des taux quasi nul, et donc en réservant de fait ces facilités de création monétaire aux banques, les institutions européennes se sont enfermées elle-même dans un engrenage menant inéluctablement à l’éclatement de la zone euro, sans engager pour autant les réformes structurelles indispensables pour résorber les déficits du Sud. Les solutions existent pourtant : elles passent par une politique de relance par l’investissement rentable dans les pays structurellement déficitaires, avec la création de fonds européens d’investissement; elles passent aussi par le rétablissement d’une véritable concurrence à la place de l’actuelle concurrence non libre et faussée avec les pays émergents qui détruit les bases industrielles dans tous les pays occidentaux – Allemagne comprise.

Autre grave erreur, très politique celle là : les responsables européens se sont montrés coupables d’un véritable déni de justice envers les contribuables européens, lourdement mis à contribution pour éponger les pertes bancaires. En refusant la mise en accusation – par un tribunal pénal européen à juridiction universelle constitué à cette fin (proposition du CAPEC reprise par Jacques Attali) – des institutions financières (y compris les agences de notation) à l’origine du montage frauduleux et délibéré des subprimes, les principaux chefs d’État ou de gouvernement de l’Union ont gravement entamé leur légitimité déjà vacillante aux yeux de bien des électeurs européens.

Ce procès reste à faire pour demander des dommages et intérêts proportionnels aux pertes de nos économies, et des manques à gagner de nos États. L’arrêt immédiat du fonctionnement des banques, institutions financières et agences de notations impliquées dans ces délits, la réquisition conservatoire de tous leurs comptes et biens en Europe, reste à faire et devra se faire tôt ou tard !

L'indépendance de la BCE empêche les Etats de la zone euro de desserrer la contrainte de la dette en créant de la monnaie

Cette initiative judiciaire peut sembler extrêmement vigoureuse. Elle représente en réalité une riposte proportionnelle à l’attaque lancée contre l’Europe par des institutions financières anglo-saxonnes qui n’ont jamais accepté que l’Union Européenne puisse incarner et porter un modèle alternatif à celui qu’elles ont instauré à leur profit. La seule Europe qui trouve grâce à leurs yeux est une Europe fantôme, sans colonne vertébrale et sans ambition, une Europe uniquement commerciale, affaiblie, dans laquelle on rachète les actifs les plus intéressants (comme cela se fait actuellement ou est en cours de négociation pour des grands fonds d’investissement des banques et assurances françaises tel Axa Private Equity) et, bien sûr, sans l’euro, du moins sans l’euro comme monnaie susceptible de contrebalancer le pouvoir exorbitant du dollar.

Il ne faut en effet pas s’y tromper : même si la gestion de l’euro doit être réformée, la disparition de la monnaie unique représenterait, en effet, pour eux une victoire stratégique considérable. Elle entraînerait en effet mécaniquement une ruée sur le dollar permettant de monétiser encore plus la dette américaine (les banques achètent à zéro et revendent à 3 à l’État américain), et au dollar de survivre comme unique monnaie internationale… Pis ! L’éclatement de l’euro rendrait possible une juteuse spéculation sur les nouvelles monnaies européennes… et le partage de nos actifs bradés entre Américains, les Chinois et le reste du monde !

Tout système a sa logique. Comme le collectivisme conduisait – derrière les meilleures intentions du monde – au goulag, le libéralisme dénaturé par une trop grande dérégulation et par la démission des États sensés en fixer les limites conduit – derrières les meilleures intentions du monde – à la prise de contrôle des États, de la politique et demain directement des peuples et de la société par les puissantes institutions de l’industrie financière. Certes, beaucoup de fidèles serviteurs sont inconscients des logiques profondes du système… mais ils n’en sont pas moins de fidèles serviteurs. Ils constituent en somme une version capitaliste des fameux « idiots utiles » chers à Lénine !

Toutefois, au même titre que le communisme jadis, ce système liberticide peut être combattu et vaincu. Pour cela, il suffit, en réalité de clarifier le projet européen et de répondre coup pour coup. Par une initiative d’États européens, il s’agit d’abord de retrouver notre souveraineté monétaire en procédant à des avances au Trésor public par nos propres banques centrales nationales pour un montant de 10 % de nos PIB nationaux. Ce qui situerait l’émission monétaire de la zone euro dans la moyenne mondiale. De la sorte, nous n’aurons pas seulement gagné du temps face aux attaques des marchés, tout en restant dans la zone euro. Nous serons aussi en mesure de procéder simultanément à une relance par l’investissement rentable, orientée prioritairement vers les pays du Sud structurellement déficitaires, dont la France. L’heure est au choix : soit nous redonnons de la cohérence à la zone euro par un nouvel usage de notre monnaie, soit la zone euro éclatera…

Mais la portée d’une telle initiative dépasse le seul cadre de la crise actuelle. En effet, en retrouvant notre souveraineté monétaire au service du bien commun, nous accomplirons aussi une œuvre de plus grande portée : nous remettrons la finance au service de l’économie, et l’économie au service des besoins des peuples, de nos populations.

La mise sous contrôle des institutions financières internationales n’est donc pas seulement une nécessité économique. C’est aussi un impératif démocratique. Au-delà des dérives d’un libéralisme dévoyé par une vision uniquement financière et court-termiste, tout un système économique est à sauver pour ne pas prendre le risque d’aventures politiques hasardeuses voulant faire table rase de la liberté d’entreprendre.

Par son avidité mortifère, le système financier actuel et ses promoteurs anglo-saxons nous obligent à retrouver le projet fondateur de l’Europe, qui est un projet politique de culture et de civilisation humaniste, avec sa version d’économie sociale de marché qui s’opposera toujours à l’actuel projet libéral anglo-saxon.

Rien n’est encore joué : si nous le voulons, de mortelle, la crise actuelle peut devenir salutaire !

Jean-Luc Schaffhauser

Le “Peak Everything”

Le “Peak Everything” (ou la fin des haricots)

Je vous bassine depuis cinq ans avec le Peak Oil, qui devait entraîner à court ou moyen terme la chute de l’économie mondiale et la fin de la doctrine croissanciste.

Vision post-apocalyptique de New York (cliquer sur l'image pour l'agrandir)

Mais à y regarder de plus près, ce n’est pas la seule pénurie qui nous guette. Conséquence directe de la croissance mondiale infernale, d’autres ressources vont rapidement venir à manquer. Oh, pas forcément en même temps. Mais en l’espace de 2 ou 3 décennies, nombre de ressources indispensables à la conservation de notre niveau de vie vont devenir plus rares, et ne pourront plus être exploitées en quantité suffisante.

Pour ceux qui auraient pris le train en marche, deux notions de base, niveau maternelle moyenne section. On remarquera au passage que 99.9% de nos politiciens, dont certains ont pourtant fait toutes les études que l’on peut faire (Normale Sup, l’ENA, Polytechnique…) n’ont toujours pas compris ces notions.

1) Il n’y a pas de croissance infinie dans un monde fini. (les seuls à penser le contraires sont les fous, les économistes, mais aussi les politiciens et les médias qui leur servent la soupe). En maths, une exponentielle monte jusqu’au ciel. Sur terre, il y a un plafond avant, sur lequel la croissance est déjà en train de se fracasser.

2) (C’est un peu plus dur, mettons niveau CE2). Toute consommation d’une ressource finie passe par un maximum, après lequel elle ne peut que décroître pour finalement tomber à 0. Dans un ancien billet, je prenais l’exemple de quelqu’un qui fait pipi : la capacité de sa vessie étant finie, il pourra s’efforcer tant qu’il peut d’augmenter le débit, à un moment le jet se mettra à décroître avant de s’arrêter inexorablement. Le maximum du débit, c’est ce qu’on appelle le “Pic”. En rosbif “Peak”.
Le pic ne signifie évidemment pas la fin de la production. Simplement, les prix montent, et puisque toute la demande ne peut plus être honorée, toute croissance devient impossible.

Les estimations des pics ne sont certes pas précises à la minute. Et elles varient en fonction des sources. Là encore, la malhonnêteté, la corruption et la propagande jouent un grand rôle. Une grande compagnie pétrolière ne va évidemment pas avouer que son business va décliner et s’arrêter dans quelques années : pour protéger ses actionnaires, elle va surestimer ses réserves et soudoyer des experts véreux pour accréditer ses bobards.

Pour éviter ce piège, je me suis basé sur les travaux d’un groupe indépendant allemand, l’Energy Watch Group.

Le Pic pétrolier (Peak Oil)
J’en ai déjà beaucoup parlé, alors je vais faire bref. Selon les spécialistes indépendants, le pic a déjà été atteint, et nous sommes dans la phase de plateau qui précède la chute. La production mondiale plafonne à 82 millions de barils par jour. On a commencé à taper dans les stocks pour faire descendre un prix qui a repris le chemin inexorable de la hausse. Le pétrole le plus facile à pomper l’a déjà été. En 2030, la production mondiale devrait avoir diminué de moitié…
En ce début d’année, on nous annonce que le record du prix de l’essence a été battu en France. Et ce n’est que le début…

Le pic gazier (Peak Gas)
Le gaz, auquel la pub de GDF-SUEZ accole systématiquement l’adjectif “naturel” pour lui donner une image dans l’air du temps, est, exactement comme le pétrole, une ressource fossile non renouvelable, qui a mis des millions d’années à se former, et que nous allons bouffer en l’espace de 200 ans. La consommation mondiale de gaz a doublé depuis 30 ans, et la courbe reste résolument à la hausse. Les corrompus des pays producteurs (Russie, Qatar…) s’en mettent actuellement plein les fouilles, étalant leur richesse écœurante dans le monde entier.
Le gaz est notamment présenté comme la meilleure solution pour prendre la relève du nucléaire discrédité. C’est ce qui se passe par exemple au Japon, où la quasi-totalité des centrales nucléaire ont fermé depuis FuckUshima, et où le gaz importé a pris la relève.
Aujourd’hui, les estimations de la date du “Peak gas” sont entre 2020 et 2030. Demain, donc.

Le pic de charbon (Peak Coal)
Là c’est la surprise. On croyait en avoir encore pour 100 ou 200 ans, mais selon l’Energy Watch Group, c’est vers 2025 que l’extraction de charbon atteindra son pic, 30% au-dessus de la situation actuelle…

Le pic d’uranium (Peak Uranium)
Bien sûr la cata de FuckUshima a provisoirement calmé les ardeurs atomiques. Mais ne vous y trompez pas : les affaires vont reprendre. Les centrales françaises ont été déclarées “sûres”, malgré la démonstration de Greenpeace qu’un groupe de piétons même pas armé pouvait s’y introduire comme dans un moulin. Il est probable que toutes les autres affirmations (concernant par exemple une chute d’avion ou un tremblement de terre) soient tout aussi pipeautées, et qu’il faudra hélas attendre un accident majeur pour sortir les idéologues incapables et corrompus qui nous gouvernent (et ceux qui vont leur succéder dans quelques mois) de leur aveuglement.
Selon le “Energy Watch Group” le pic d’uranium est prévu vers 2035. Une énergie d’avenir, assurément…

Le Pic métallique (Peak Metal)
Là aussi j’en ai déjà parlé. La “croissance” implique une consommation toujours plus forte de métaux. On croit qu’il s’agit là de ressources infinies. Comme pour le pétrole, on a commencé par extraire ce qui était le plus facile. La teneur en métal du minerai diminue irrémédiablement.
Et pour bon nombre d’entre eux, y compris parmi les plus usuels (cuivre,nickel, zinc, plomb, étain…), le pic est tout proche proche. Vingt ans, trente ans. Demain, quoi. Même si le recyclage permet de réutiliser au lieu d’extraire, il est loin d’être total. Lire à ce sujet le livre très documenté de Philippe Bihouix et Benoît de Guillebon : “Quel futur pour les métaux”.

Le pic électrique (Peak Electricity)
C’est tout simplement la conséquence des pics précédents. L’électricité n’est pas une énergie primaire, et il faut la produire. Or les quatre principaux moyens de production actuels (charbon, gaz, pétrole, uranium) vont commencer à manquer. Même si un jour peut-être on arrivera à produire suffisamment d’électricité avec d’autres sources, cela prendra un temps énorme, et le mal sera fait.
D’autant que certains misent sur l’électricité pour remplacer les autres énergies… Pour les voitures, par exemple. Ce qui là encore ne se fera probablement pas. À court terme, elles ne sont pas au point. À moyen terme, les capacités de production de lithium feront un goulot d’étranglement. Et à long terme il n’y aura plus assez d’électricité…
Autre “détail” : le pétrole sert aussi à fabriquer une foule de choses, comme du plastique et des engrais, que l’électricité ne remplacera jamais.

Le pic du sol (Peak Dirt)
J’observe tous les jours avec effarement l’avancée de l’urbanisme stupide (garages, centres commerciaux) dans l’est de Metz. Et s’il n’y avait qu’à Metz… C’est partout pareil. On nous parle de récession, de chômage, mais de nouvelles surfaces commerciales continuent à s’installer à un rythme démentiel. Sans négliger les lotissements. On estime que tous les 10 ans, c’est l’équivalent de la surface d’un département qui disparaît en France.
Saturés d’engrais, de pesticides, les sols s’appauvrissent. Alors on met plus d’engrais… Sauf que l’engrais est principalement dérivé du pétrole. On ne s’en sortira pas… Alors les pays qui disposent de pognon vont jusqu’à acheter des terres à l’étranger, notamment en Afrique, où l’on crève pourtant déjà de faim.

Le pic de l’eau (Peak Water)
Ah, de l’eau il y en a. Le problème, c’est qu’il va être de plus en plus difficile de trouver de l’eau en général, et de l’eau potable en particulier.
La première conséquence de la “croissance” est d’augmenter les besoins en eau. Une autre est la quantité phénoménale de saloperies disséminées dans l’air et dans l’eau. Engrais, pesticides, médicaments, rejets industriels, métaux lourds…
À titre d’exemple, le seul rejet dans le Rhône de quantités infimes de PCB (substance plus connue sous le nom de “Pyralène”, entrant dans la composition de vieux transformateurs électriques) a suffi pour rendre les poissons qui y vivent impropres à la consommation, et pour une durée indéterminée !
Des phénomènes similaires guettent toutes les sources d’eau. On connaît le phénomène des algues vertes en Bretagne, mais ce qu’on sait moins, c’est que dans de nombreux cas, l’eau du robinet est tellement chargée en nitrates qu’elle n’est plus potable. Et depuis longtemps. Alors les Bretons boivent de l’eau en bouteille. Dont les taux de nitrates augmentent aussi…
Enfin, conséquence du réchauffement climatique, des zones de plus en plus étendues, qui sont déjà parmi les plus déshéritées, vont souffrir de sécheresse. Avec son cortège d’enfants morts et d’émigration forcée.
1.8 milliard de personnes souffriront en 2025 d’une insuffisance d’approvisionnement en eau.

Le pic du maïs (Peak Corn) et le pic du riz (Peak Rice)
Là encore ce sont d’abord des conséquences des pics précédents. Moins de terres cultivables, moins d’eau = moins de céréales, c’est mathématique.
Autre problème, la tendance néfaste à utiliser des denrées alimentaires pour faire du carburant. On préfère gaspiller du maïs ou du blé pour faire de l’éthanol (avec un rendement minable) tout en sachant que des gens vont en crever.
Autre effet pervers, on préfère désormais remplacer les cultures de céréales par du palmier à huile. Cette saleté ne sert pas seulement à créer la “matière grasse végétale”, produit bon marché qui bouche les artères et qui est présent dans la quasi-totalité de la bouffe industrielle, base de l’alimentation occidentale, c’est aussi un “bio-carburant”…

On pourrait faire des centaines de pages sur le sujet. Mais j’ai fait court, ce n’est qu’un billet de blog.

Je suppose que comme moi vous écoutez d’un oreille consternée le simulacre désolant de “campagne électorale” que nous vivons actuellement. Un combat de coqs arrogants et ridicules, aussi ambitieux qu’incompétents. Avec la complicité des médias dominants, ils n’ont pas leur pareil pour mettre en lumière des problèmes ineptes, sans intérêt, ou parfaitement mineurs. Un “sommet social” grotesque, la suppression du quotient familial, le mariage homosexuel, la taxe sur le coca… J’en passe et des bien pires.

Tous les candidats dits “principaux” sont d’accord sur tout, à commencer par deux choses : “La croissance®”, et l’obligation de rembourser une dette indue contractée à taux usuraires, quitte à sacrifier les finances publiques et la vie de leurs électeurs. Des larbins.

Enfermés avec nous dans la cage des financiers, n’envisageant à aucun moment d’en sortir, mais prétendant que, à condition de diminuer de moitié notre consommation de grain et de doubler notre production d’œufs, nous courrons bientôt libres dans les champs.

Elle est où, l’écologie dans cette campagne de merde ? Nulle part ! Disparue ! La finance a tout bouffé. Le peu qui reste sera consacré à l’insécurité, aux promesses à crédibilité nulle sur “l’emploi” ou le “pouvoir d’achat”.

Oh, il y a bien une candidate “écologiste” officielle, Eva Joly. Sauf que tout ce qu’elle pourrait dire est tourné en ridicule. D’ailleurs elle ne dit rien, où alors sur des sujets… euh… hors sujet. Des jours fériés pour d’autres religions… Passionnant… Il semble qu’on tente actuellement de la “ramener à la raison” et abandonner purement et simplement sa candidature, pour ne pas risquer la déroute financière pour le cas de plus en plus probable où elle ne dépasserait pas les 5%…
Les électeurs “zécolos” seraient alors priés de voter Mimolette dès le premier tour, et de valider, outre la soumission absolue aux banksters, la poursuite dans la voie sans issue de la “croissance”, le tout-nucléaire, sans oublier d’avaler la pilule de l’Ayraultport, symbole de la bêtise et de l’incompréhension de l’avenir du monde.

Il y a aussi Mélenchon. Sauf que ses convictions écologiques sont à géométrie variable. Et je ne parle même pas du nucléaire… Il est bien entouré, mais qui écoute-t-il ?
L’écologie, il en parle en meetings, ou en petit comité. Par contre, dans les grands médias, l’écologie disparaît. Pas un mot tout au long des deux heures de son émission sur France 2. Ce n’est pas un sujet porteur. Mélenchon, son truc, c’est le social. On dirait un peu un mélange de Mitterrand et de Marchais en 1980. Changer la vie, prendre aux riches pour donner aux pauvres, aux patrons pour donner aux ouvriers… On a vu le résultat. Des décennies de protestation dans le vide ont fait le lit du libéralisme et assuré son triomphe absolu.
Mais expliquer que le “pouvoir d’achat” a lui aussi atteint son pic, et qu’il vaudrait mieux s’adapter au monde qui vient en reprenant une vie plus sobre, c’est un coup à perdre des élections…

Pas plus tard que l’an dernier, Sarkozy, ce dangereux guignol, avait bien résumé la situation : l’environnement, ça commence à bien faire 

Pourtant, le tableau est apocalyptique : il est désormais certain que les problèmes dus au tarissement de l’approvisionnement en pétrole se feront sentir bien avant la fin de cette décennie. Que de nouvelles guerres sont à prévoir pour se disputer les dernières gouttes. Que des tentatives désespérées pour pallier ce manque en tirant davantage sur le gaz ou le charbon auront pour résultat une nouvelle pénurie moins de 10 ans plus tard.
En même temps que la terre ne pourra plus nourrir les 8 milliards d’humains, dont un quart manquera d’eau. Le manque de métaux sera alors une cerise sur le gâteau de la catastrophe intégrale.

Il est hélas certain que d’ici là, l’économie, entièrement bâtie sur la possibilité de disposer d’énergie abondante et bon marché, et déjà mise à genoux par le racket de la finance, sera totalement par terre.

Qui s’en préoccupe ? Personne ! Pourtant, des politiciens surdiplômés, entourés d’une armée de conseillers, n’auraient aucun mal à être mieux informés qu’un petit blogueur armé de sa seule jugeotte et de sa curiosité à farfouiller sur Internet…

Nos (ir)responsables nous bassinent avec leur propagande libérale, réclament des “baisses de charges”, la suppression du code du travail… Ne parlent que de concurrence et de productivité. Nous poussent à con-sommer. Toujours plus. N’importe quoi. Continuent à implorer un chimérique “dieu croissance”.

Des fous, des aveugles, des drogués.

SuperNo

Les Serbes sont déçus par l’UE!

Les Serbes sont déçus par l’UE!

 

Entretien avec l’ambassadeur de Serbie à Vienne, Milovan Bozinovic

 

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz

 

Q.: Excellence, le statut de candidat membre de l’UE a été remis à une date ultérieure. Qu’en pensez-vous?

 

MB: La déception des Serbes est très grande, bien entendu. Toutefois, il convient de compléter la décision prise: nous avons rempli tous les critères que l’on nous a demandés de satisfaire, tout comme aux autres pays qui veulent adhérer à l’UE. Or c’est un motif non spécifique aux critères d’élargissement qui justifié le report de la candidature serbe. Il s’agit du rapport que nous entretenons avec la province autonome du Kosovo  —c’est ce statut qu’elle détient à nos yeux. Mais pour la plupart des pays de l’UE, cette province constitue entretemps un Etat indépendant.

 

Q.: Pourrait-on aboutir, à moyen ou long terme, à la tractation suivante: la Serbie adhère à l’UE mais, en contrepartie, elle doit reconnaître le Kosovo comme Etat indépendant?

 

MB: C’est là un débat qui a été ouvert par quelques Etats qui veulent durcir les critères de l’adhésion serbe. Je rappelle qu’en octobre 2010, nous étions convenu d’un accord avec l’UE qui stipulait que le rapprochement de la Serbie ne serait en aucun cas lié au développement des relations serbo-kosovars. Et voilà que tout d’un coup  —les réalistes le savaient déjà depuis longtemps—  ces motifs prennent de plus en plus d’importance, ce qui constitue une dégénérescence des principes et critères préalablement convenus. Tel est le sentiment que partagent les Serbes aujourd’hui.

 

Q.: C’est surtout l’Allemagne qui pense que la Serbie ferait valoir son influence auprès des Serbes du Kosovo. Mais quelle influence exerce réellement Belgrade?

 

MB: Le Kosovo n’est pas un territoire où la Serbie exerce sa propre souveraineté. C’est donc un paradoxe de partir du principe que la Serbie exerce encore une quelconque influence sur les événements là-bas, uniquement parce que les Serbes de la région de Mitrovica se sentent citoyens de la Serbie.

 

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°1/2012; http://www.zurzeit.at ).

Sur l'oligarchie

Sur l’oligarchie

par Georges FELTIN-TRACOL

« Les systèmes politiques occidentaux se sont notamment parfaitement organisés pour éviter leur mise en cause par le peuple. Certes, des membres de la classe politique peuvent perdre les élections. Mais ils sont alors remplacés par des équivalents dont la politique n’est jamais très différente de celle des prédécesseurs (p. 16). » Ce dur constat est formulé par Yvan Blot dans son nouvel ouvrage au titre cinglant, L’oligarchie au pouvoir. Haut-fonctionnaire – il est inspecteur général de l’administration au ministère de l’Intérieur – et ancien élu (d’abord député R.P.R. du Pas-de-Calais de 1986 à 1988, puis député européen F.N. entre 1989 et 1999), Yvan Blot sait l’importance capitale du combat des idées. Il a d’ailleurs co-fondé et présidé le Club de l’Horloge et dirige aujourd’hui l’association Agir pour la démocratie directe.

L’oligarchie au pouvoir résulte d’un vaste ensemble d’observations recueillies depuis de nombreuses années. En fervent partisan du système référendaire d’initiative populaire, Yvan Blot s’interrogeait sur la passivité des politiciens à l’égard de ce moyen de participation des citoyens aux affaires publiques. En souhaitant comprendre leurs réticences, il a décelé l’existence d’une oligarchie qu’on appelle aussi hyper-classe ou Nomenklatura hexagonale. « Nous vivons en oligarchies sous le nom de démocraties dites “ représentatives ”. Ces oligarchies sont celles de l’administration civile (les fameux “ technocrates ”), des médias, des dirigeants de syndicats, des dirigeants de groupes de pression culturels et cultuels, qui forment des réseaux en interaction puissante devant lequel le simple citoyen est sans force (sauf en démocratie directe) (pp. 13 – 14). » Il aurait pu ajouter que cette oligarchie française a ses convenances et ses endroits : on la retrouve par exemple le dernier mercredi de chaque mois près de la place de la Concorde lors des fameuses soirées du club Le Siècle si bien décrites par l’infatigable journaliste dissident Emmanuel Ratier (1).

Certes, « le terme oligarque a retrouvé un regain de faveur pour désigner des hommes d’affaires riches proches du pouvoir politique en Russie après la désintégration de la bureaucratie du régime soviétique. Mais la Russie n’a certainement pas le monopole des oligarques. Il y a aussi des oligarques en Occident (p. 1) », en particulier aux États-Unis (l’Establishment fédéral en est rongé) et en France. La Grande-Bretagne en serait curieusement préservée… En fait, l’oligarchie britannique existe, mais sa structure et sa composition diffèrent de ses homologues. En France, « l’oligarchie ne se compose pas que des hommes politiques. La haute fonction publique joue un rôle majeur dans la fabrication des lois, en liaison avec toutes sortes d’intérêts organisés, syndicats patronaux ou ouvriers, associations défendant des groupes particuliers. Les médias conservent un certain pouvoir de contrôle car ils pensent dénoncer le comportement des autres oligarchies mais ils sont eux-mêmes oligarchiques avec leurs organisations propres (p. 2) ».

Mues par des intérêts convergents, les oligarchies se partagent « une idéologie commune […] (le “ politiquement correct ”) [qui] cherche à réduire les citoyens au rôle de spectateurs interchangeables, bons pour produire et consommer en restant sous contrôle (p. 2) ». En effet, contrairement à ce qu’on imagine, l’oligarchie pense. En s’appuyant sur Aristote, Heidegger et Arnold Gehlen, Yvan Blot a élaboré une grille de lecture qui procède de la logique aristotélicienne des quatre causes (motrice, matérielle, formelle et finale) et qui lui rappelle fortement le Quadriparti heideggérien (les hommes, la terre, le ciel et la Divinité/les Dieux). Par conséquent, il estime que « dans le monde moderne […], l’oligarchie gouverne selon une logique nouvelle qui est celle du “ Gestell ”, de l’arraisonnement utilitaire, selon la formule de Heidegger (p. 21) ». Cet arraisonnement entraîne l’enlaidissement, matériel et moral, du monde, contribue à l’indifférenciation générale et favorise « un chaos culturel sans mémoire (p. 42) ». Il exprime en outre une nette prédilection pour le court terme et l’immédiateté. Les conséquences pour les sociétés européennes en sont dramatiques avec le déclin de la natalité et de son terrible corollaire, une immigration extra-européenne de peuplement.

« L’économique qui tend à multiplier les besoins des consommateurs pour produire et en tirer de l’argent est le domaine de la dispersion et de la futilité (p. 63). » Pourquoi ? Parce que, d’une part, le Système encourage l’égalitarisme « défendu par des oligarchies qui se placent d’emblée au-dessus du peuple avec des privilèges que cela suppose, y compris les passe-droits (p. 34) » et que, d’autre part, « l’homme […] n’est apprécié que pour son utilité économique. […] Tout ce qui distingue les êtres humains doit être éliminé dès lors que cela peut gêner le caractère interchangeable que les hommes doivent avoir pour être de parfaites matières premières (p. 24) ». L’oligarchie et ses médias qui distillent subtilement dans les esprits une censure pernicieuse et une propagande insidieuse, justifient ce discours réifiant et utilitariste par la célébration obligatoire du Progrès, de la « gouvernance », de l’égalitarisme et du dogme des droits de l’homme. Lecteur assidu des théoriciens libéraux et libertariens, Yvan Blot préfère comme Hayek les « libertés fondamentales » au concept fumeux des droits de l’homme qui sont en réalité « un prétexte pour une intervention toujours plus grande de l’État et pour une restriction des libertés (p. 71) ». Il ajoute même avec raison que « la notion de “ droit de l’homme ” reste à la fois unilatérale et floue. Unilatérale car il ne peut y avoir de droits sans devoirs, floue car on ne sait jamais si à travers cette expression, on parle de libertés ou de droits de créance sur la société. En pratique, la notion de droits de l’homme sert d’arme contre l’État et contre la société pour satisfaire les caprices de l’ego devenu une véritable idole (p. 73) ».

Les quatre références majeures de l’oligarchie demeurent la technique (ou son essence qui est la raison calculatrice), les masses (l’ochlos), l’argent et l’ego. Ainsi, elle « assiste complice au déclin des valeurs transcendantes, et l’argent devient peu à peu la seule valeur suprême (p. 27) ». Un ego hypertrophié écrase le citoyen ! « Plus les citoyens sont isolés par leur égoïsme, moins ils sont dangereux pour l’oligarchie. Le régime condamne le moindre écart de langage considéré comme discriminatoire mais il est d’une tolérance immense pour la pornographie. Plus l’individu s’enferme dans les plaisirs immédiats […], moins il se mêlera des affaires de l’État (pp. 37 – 38) », écrit-il à rebours des auteurs inquiets d’anticipation qui inventaient des sociétés proscrivant toute sexualité…

Que faire alors ? Faut-il militer dans des formations politiques et abattre progressivement l’oligarchie en place ? Yvan Blot en doute. Il relève qu’il y a une « dérive des démocraties vers des formes oligarchiques de pouvoir (p. 1) ». « Nous vivons […] dans une “ démocratie fictive ” où les droits du peuple sont soumis au bon vouloir de la classe politique qui en détermine les limites et l’application, de façon souveraine. Cette démocratie de façade masque les pouvoirs réels d’une oligarchie, la “ classe politique ”, qui s’auto-recrute par cooptation à l’intérieur des partis politiques (p. 19). » Fort de sa propre expérience, il relève que « les hommes politiques prennent les décisions qui les arrangent et ils sont influencés, quand ils ne sont pas parfois carrément corrompus, par des groupes de pression minoritaires mais bien organisés (p. 6) ». En outre, « les candidats sont présélectionnés par les partis politiques. Le peuple vote en fait pour des partis et ce sont les partis qui gouvernent, or leur structure interne est rarement vraiment démocratique (les partis sont oligarchiques) (p. 6) ». S’ajoute donc à l’oligarchie la partitocratie ! Cette situation participe à l’obsolescence de la théorie – sotte – d’équilibre des pouvoirs chère à Montesquieu. « Dans les faits, le pouvoir législatif est largement dans les mains de l’exécutif qui a l’initiative réelle des lois et qui les fait rédiger dans les ministères (p. 11). » Pis, « le deuxième pouvoir du parlement, contrôler le gouvernement, ne fonctionne pas vraiment car la majorité parlementaire est asservie à l’exécutif et l’opposition est sans pouvoir car minoritaire (p. 74) ». Le caporalisme règne dans les partis puisqu’ils brandissent régulièrement la menace de ne plus donner leur investiture aux élus récalcitrants ! Bref, ce sont les plus serviles, les plus obséquieux, les plus moutonniers qui peuplent dorénavant les assemblées…

Le dévoiement institutionnel ne se restreint pas au législatif. « Le pouvoir judiciaire (2), suivant une tendance d’origine américaine, mort de plus en plus sur le législatif, ce qui fait qu’au total, il n’y a plus guère de séparation des pouvoirs (p. 2). » Désormais, « le gouvernement est donc l’auteur principal des lois. Il est lui-même influencé par l’administration, par les médias et par tous les intérêts organisés, économiques et sociaux, culturels et cultuels, qui gravitent autour de lui (pp. 11 – 12) ». À cette non-démocratie, l’auteur oppose l’exemple suisse et propose la mise en place de plusieurs procédures référendaires d’initiative populaire sur des lois à adopter ou à rejeter.

Pour Yvan Blot, la démocratie directe peut seule abolir le Gestell et réactiver les sens démocratique, civique et patriotique. « La démocratie est fondée sur des racines nationales, des valeurs morales transcendantes et un sens du sacré […et] repose aussi sur l’idée du citoyen responsable, qui veut participer au destin de sa patrie (p. 29) ». Si « la nation est le socle sur lequel l’homme […] vient habiter (p. 121) », elle détient en son sein deux institutions sacrales : la famille qui permet la naissance et l’armée qui « gère la mort (p. 123) ». L’instauration d’une démocratie participative implique toutefois au préalable de retrouver l’identité « qui est fondée sur la mémoire (p. 69) ». Or « en détruisant la mémoire d’un peuple, on détruit son identité. C’est, en quelque sorte, un génocide culturel (p. 69) ». La démocratie directe serait-elle salvatrice pour les identités populaires ? Attendons qu’Yvan Blot réponde à cette interrogation primordiale dans un prochain essai spécifiquement consacré à la démocratie référendaire.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Emmanuel Ratier, Au cœur du pouvoir. Enquête sur le club le plus puissant de France, Paris, Facta, 2011.

2 : En parlant de pouvoir judiciaire, Yvan Blot commet une légère erreur, car la Constitution de 1958 mentionne plutôt l’« autorité judiciaire ». Dans l’esprit de ses rédacteurs, la magistrature – non élue – ne saurait bénéficier d’une légitimité équivalente aux fonctions exécutive et législative issues du corps civique souverain.

Yvan Blot, L’oligarchie au pouvoir, Paris, Économica, 2011, 144 p., 19 €.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=2370

mardi, 24 janvier 2012

Le Concordia : naufrage d’une société...

media_xl_4583425.jpg

Le Concordia : naufrage d’une société...

Par Claude Bourrinet

Vox NR cliquez ici

 

On se souvient du naufrage du Joola, au Sénégal, le 26 septembre 2002. Cette catastrophe fit 1953 morts, et, comme d'autres désastres maritimes, notamment en Asie du Sud-Est, fut considéré comme un symbole de la misère et de l'infortune des pays sous développés.

La navigation, le pilotage de bateaux, les hommes d'équipage et la figure du capitaine, furent de tout temps, en Occident, les ingrédients métaphoriques du politique, de l'Etat, du gouvernement des hommes. Dans notre âge des masses et des transports mondialisés, l’image a pris une valeur emblématique encore plus prégnante, débordant le domaine du pouvoir. La tragédie du Titanic, déjà, en 1912, anticipait les propos de Paul Valéry sur la caducité des civilisations. Réputé insubmersible, comme la Belle époque, si confiante dans le progrès scientifique et technique, le paquebot avait sombré rapidement, surprenant un monde si afféré à ses plaisirs. On n’avait pas, non plus, manqué de dénoncer l’inorganisation du sauvetage, l’incompétence de certains officiers, et surtout l’injustice qui prévalut à la sélection des personnes à sauver. La troisième classe, celle des émigrés pauvres qui lorgnaient vers l’utopie américaine, fut sacrifiée au profit des classes supérieures. Bien plus, l’orchestre jouant une dernière valse avant le dénouement fatal symbolisait une Europe brillante qui allait s’abîmer dans la grande tuerie de 14, la fleur au fusil.

Le destin du Concordia, à moitié coulé un vendredi 13, date de la dégradation du triple A de certains pays, au large de l’île de Giglio, en Toscane, n’est pas sans présenter non plus une image de ce qu’est la société contemporaine. Comme pour le Titanic, comme si l’Histoire se mettait à bégayer, l’état d’impréparation, le manque d’organisation, l’incompétence des hommes d’équipage, immigrés sous payés venant des quatre coins du monde, le temps fort long mis pour prendre des décisions, le mensonge qui consistait, comme pour le Titanic, à faire croire à un exercice, étaient des paramètres aggravants. Sans compter la fuite du capitaine, dédaigneux de l’honneur des marins, qui enjoint de couler avec son navire ! La prétention d’une époque qui envoie des hommes dans l’espace et s’attaque à l’infiniment petit empêchait d’imaginer qu’un tel monstre marin pût être si fragile. Bien sûr, le nombre de morts n’égale pas celui du Joola ou du Titanic : le navire a eu la chance de s’échouer à quelques mètres du rivage. Et pour cause ! Car les circonstances mêmes du drame sont emblématiques. Il semblerait que le désir de se plier à une tradition, somme toute récente, celle de la révérence, de l’ « inchino », qui consiste à passer au plus près du village de Grosseto toutes sirènes hurlantes et tout feux allumés, ait été pour beaucoup dans la catastrophe.

Car nous sommes dans un scénario que l’on pourrait appeler postmoderne. L’époque est à l’hyper démocratisation, à l’utopie bas de gamme, au rêve low cost, au paradis de masse. Le monstre peut contenir 5000 passagers, un village important, une petite ville. Comme la prolifération des charters, des parcs d’attraction, des spectacles énormes à Bercy ou ailleurs, il correspond à la demande d’une société où la grosse classe moyenne s’est presque universalisée. On veut du luxe, de l’amusement pour une somme relativement modique. La société du spectacle populaire a colonisé la terre et la mer.

Est-ce un hasard si un naufrage pareil, aussi grotesque (n’étaient les quelques morts) a lieu exactement au moment où le système mondialisé de la consommation de masse s’effondre et annonce la fin d’un univers de pacotille et de fausseté marchande ? Les dieux ne se montrent pas, mais font signe…

La Russie envoie des convois d’aide aux Serbes du Kosovo

Bernhard TOMASCHITZ:

La Russie envoie des convois d’aide aux Serbes du Kosovo

 

La Russie refuse de se laisser expulser des Balkans par les Etats-Unis et l’UE. Elle se tient encore et toujours aux côtés des Serbes, et, plus particulièrement, du côté  des Serbes du Kosovo. Vers la mi-décembre 2011, un convoi  russe chargé de vivres et d’autres nécessités est arrivé à Mitrovica, une ville peuplée  de Serbes au Nord du Kosovo.  Avant d’avoir atteint la localité, le Kremlin et l’administration d’EULEX de Pristina s’étaient querellé ferme au niveau diplomatique pendant plusieurs  jours. Derrière cette avanie se profile bien sûr l’UE qui détient de facto les droit de souveraineté dans  cette province rebelle du Sud de la Serbie.

 

Mais  ce n’est pas tant le convoi en lui-même qui a suscité  la mauvaise humeur des eurocrates bruxellois, c’est surtout le refus des Russes de se voir flanqués d’une escorte de militaires d’EULEX. Les Russes, par la voix d’Aleksandr Konuzine, ambassadeur de la  fédération de Russie à Belgrade, ont déclaré qu’ils ne se sentaient “nullement menacés” dans les zones serbes du Kosovo. De plus, Konuzine a reproché à la  mission de l’UE d’ “avoir outrepassé son mandat qui implique la neutralité”. Car, aux yeux des Russes, l’eurocratie bruxelloise s’engage beaucoup trop aux côtés  des Albanais du Kosovo tandis qu’elle ne tient aucun  compte  des intérêts  serbes.

 

Le convoi russe n’est pas un simple exemple  de solidarité entre peuples-frères slaves. C’est bien davantage: Moscou  entend empêcher  toute politique du fait accompli dans les Balkans.  En effet, le Sud-est de l’Europe est, pour les Etats-Unis, la dernière “plage blanche”  sur la carte du monde, que Washington veut faire disparaître: les Etats qui ont pris la succession de l’ex-Yougoslavie doivent impérativement être imbriqués dans  les “structures euro-atlantistes”, c’est-à-dire dans l’UE  et dans l’OTAN. Et cette volonté américaine vise aussi la Serbie, alliée traditionnelle de la Russie.

 

Bernard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°1/2012; http://www.zurzeit.at ).

L'insolence des anarchistes de droite

L'insolence des anarchistes de droite
 
ADG

Article de Dominique Venner dans Le Spectacle du Monde de décembre 2011

Ex: http://www.dominiquevenner.fr/

Les anarchistes de droite me semblent la contribution française la plus authentique et la plus talentueuse à une certaine rébellion insolente de l’esprit européen face à la « modernité », autrement dit l’hypocrisie bourgeoise de gauche et de droite. Leur saint patron pourrait être Barbey d’Aurévilly (Les Diaboliques), à moins que ce ne soit Molière (Tartuffe). Caractéristique dominante : en politique, ils n’appartiennent jamais à la droite modérée et honnissent les politiciens défenseurs du portefeuille et de la morale. C’est pourquoi l’on rencontre dans leur cohorte indocile des écrivains que l’on pourrait dire de gauche, comme Marcel Aymé, ou qu’il serait impossible d’étiqueter, comme Jean Anouilh. Ils ont en commun un talent railleur et un goût du panache dont témoignent Antoine Blondin (Monsieur Jadis), Roger Nimier (Le Hussard bleu), Jean Dutourd (Les Taxis de la Marne) ou Jean Cau (Croquis de mémoire). A la façon de Georges Bernanos, ils se sont souvent querellés avec leurs maîtres à penser. On les retrouve encore, hautins, farceurs et féroces, derrière la caméra de Georges Lautner (Les Tontons flingueurs ou Le Professionnel), avec les dialogues de Michel Audiard, qui est à lui seul un archétype.

Deux parmi ces anarchistes de la plume ont dominé en leur temps le roman noir. Sous un régime d’épais conformisme, ils firent de leurs romans sombres ou rigolards les ultimes refuges de la liberté de penser. Ces deux-là ont été dans les années 1980 les pères du nouveau polar français. On les a dit enfants de Mai 68. L’un par la main gauche, l’autre par la  main droite. Passant au crible le monde hautement immoral dans lequel il leur fallait vivre, ils ont tiré à vue sur les pantins et parfois même sur leur copains.

À quelques années de distances, tous les deux sont nés un 19 décembre. L’un s’appelait Jean-Patrick Manchette. Il avait commencé comme traducteur de polars américains. Pour l’état civil, l’autre était Alain Fournier, un nom un peu difficile à porter quand on veut faire carrière en littérature. Il choisit donc un pseudonyme qui avait le mérite de la nouveauté : ADG. Ces initiales ne voulaient strictement rien dire, mais elles étaient faciles à mémoriser.

En 1971, sans se connaître, Manchette et son cadet ADG ont publié leur premier roman dans la Série Noire. Ce fut comme une petite révolution. D’emblée, ils venaient de donner un terrible coup de vieux à tout un pan du polar à la française. Fini les truands corses et les durs de Pigalle. Fini le code de l’honneur à la Gabin. Avec eux, le roman noir se projetait dans les tortueux méandres de la nouvelle République. L’un traitait son affaire sur le mode ténébreux, et l’autre dans un registre ironique. Impossible après eux d’écrire comme avant. On dit qu’ils avaient pris des leçons chez Chandler ou Hammett. Mais ils n’avaient surtout pas oublié de lire Céline, Michel Audiard et peut-être aussi Paul Morand. Ecriture sèche, efficace comme une rafale bien expédiée. Plus riche en trouvailles et en calembours chez ADG, plus aride chez Manchette.

Né en 1942, mort en 1996, Jean-Patrick Manchette publia en 1971 L’affaire N’Gustro directement inspirée de l’affaire Ben Barka (opposant marocain enlevé et liquidé en 1965 avec la complicité active du pouvoir et des basses polices). Sa connaissance des milieux gauchistes de sa folle jeunesse accoucha d’un tableau véridique et impitoyable. Féministes freudiennes et nymphos, intellos débiles et militants paumés. Une galerie complète des laissés pour compte de Mai 68, auxquels Manchette ajoutait quelques portraits hilarants de révolutionnaires tropicaux. Le personnage le moins antipathique était le tueur, ancien de l’OAS, qui se foutait complètement des fantasmes de ses complices occasionnels. C’était un cynique plutôt fréquentable, mais il n’était pas de taille face aux grands requins qui tiraient les ficelles. Il fut donc dévoré.

Ce premier roman, comme tous ceux qu’écrivit Manchette, était d’un pessimisme intégral. Il y démontait la mécanique du monde réel. Derrière le décor, régnaient les trois divinités de l’époque : le fric, le sexe et le pouvoir.

Au fil de ses propres polars, ADG montra qu’il était lui aussi un auteur au parfum, appréciant les allusions historiques musclées. Tour cela dans un style bien identifiable, charpenté de calembours, écrivant « ouisquie » comme Jacques Perret, l’auteur inoubliable et provisoirement oublié de Bande à part.

Si l’on ne devait lire d’ADG qu’un seul roman, ce serait Pour venger Pépère (Gallimard), un petit chef d’œuvre. Sous une forme ramassée, la palette adégienne y est la plus gouailleuse. Perfection en tout, scénario rond comme un œuf, ironie décapante, brin de poésie légère, irrespect pour les « valeurs » avariées d’une époque corrompue.

L’histoire est celle d’une magnifique vengeance qui a pour cadre la Touraine, patrie de l’auteur. On y voit Maître Pascal Delcroix, jeune avocat costaud et désargenté, se lancer dans une petite guerre téméraire contre les puissants barons de la politique locale. Hormis sa belle inconscience, il a pour soutien un copain nommé « Machin », journaliste droitier d’origine russe, passablement porté sur la bouteille, et « droit comme un tirebouchon ». On s’initie au passage à la dégustation de quelques crus de Touraine, le petit blanc clair et odorant de Montlouis, ou le Turquant coulant comme velours.

Point de départ, l’assassinat fortuit du grand-père de l’avocat. Un grand-père comme on voudrait tous en avoir, ouvrier retraité et communiste à la mode de 1870, aimant le son du clairon et plus encore la pêche au gardon. Fier et pas dégonflé avec çà, ce qui lui vaut d’être tué par des malfrats dûment protégés. A partir de là on entre dans le vif du sujet, c’est à dire dans le ventre puant d’un système faisandé, face nocturne d’un pays jadis noble et galant, dont une certaine Sophie, blonde et gracieuse jeunes fille, semble comme le dernier jardin ensoleillé. Rien de lugubre pourtant, contrairement aux romans de Manchettes. Au contraire, grâce à une insolence joyeuse et un mépris libérateur.

Au lendemain de sa mort (1er novembre 2004), ADG fit un retour inattendu avec J’ai déjà donné, roman salué par toute la critique. Héritier de quelques siècles de gouaille gauloise, insolente et frondeuse, ADG avait planté entre-temps dans la panse d’une république peu recommandable les banderilles les plus jubilatoires de l’anarchisme de droite.

Notes

Alain Fournier, dit ADG (1947-2004), un pseudonyme choisi à partir des initiales de son tout premier nom de plume, Alain Dreux-Gallou. Une oeuvre jubilatoire plein d ‘irrespect contre les “valeurs” avariées d’une époque corrompue.

How the British Constructed a New Woman’s Movement

How the British Constructed a New Woman’s Movement

A Book Review of Feminine Fascism

 

Julie V. Gottlieb
Feminine Fascism: Women in Britain’s Fascist Movement, 1923-1945
New York: I.B. Tauris, 2003.

“Feminine fascism” is a phrase that Julie V. Gottlieb uses to describe the forward-thinking, yet traditionally influenced, ideology embraced by Britain’s fascists. Their objective was not a return to the past, to a time when women were solely mothers and homemakers. Instead, the fascists in England combined traditional roles with the advances made in women’s suffrage and the workplace, and added a fascist bent of discipline and integrity.

Feminine Fascism: Women in Britain’s Fascist Movement is a chronological account of fascism in Britain, starting in 1923 with the country’s first fascist group, the British Fascisti, founded by Rotha Lintorn-Orman, a woman. The BF remained the predominant fascist organization until Sir Oswald Mosley’s British Union of Fascists (BU) was established in 1932. Feminine Fascism discusses the role of women in these two groups, details the unique form of feminism embraced by members, and ends with an account of the internment and trials of women fascists during World War II. The last quarter of the book provides brief biographies of the many women in fascist Britain.

Gottlieb, a senior lecturer in history at the University of Sheffield, has trouble wrapping her head around what attracted so many women to fascism, especially those who had campaigned for women’s suffrage. How could women embrace such seemingly different ideologies: women’s rights, on the one hand, and anti-democracy on the other? The answer is that fascism offered women the best of both worlds.

Britain’s fascists encouraged women to be traditional in many areas. Motherhood was valued and respected, as was homemaking. In fact, the Corporate State would include a Home Corporation, in which homemakers would have representation just like any other trade. An article in The Blackshirt explained, “only when women represent women will womankind attain its rightful influence.”

A primary goal of the fascist platform was allowing women to once again be homemakers, but they used forward-thinking methods to advance their ideology. Many British women were essentially forced into the workplace due to wage variances between the sexes. Employers preferred less costly female employees, which pushed many men out of jobs. All too many families experienced the trials of having a working mother, with the father at home tending the house and children, unable to secure a decent wage. The fascists knew that in the modern world, a platform that appeared to regress women’s rights would hold no sway. Thus, they supported equal wages for women, since equal pay would mean that more men could return to the workforce. As explained by Fascist Week:

Under Fascism women will not be compelled to resign, but encouraged to do so by the fact that, under Corporate State and the scientific methods of raising real wages, men will be able to afford to marry women—and women will not be compelled to earn their own living as they are at present. (125)

However, the fascists never insisted that career-minded women remain at home, recognizing that there were not only occupations suited to women, but also situations in which women would desire a career and need equal pay. Rosalind Raby, for example, claimed that fascism would allow the unmarried mother “to earn an honest living for herself and her child.”

March_2

But the biggest innovation in British fascism was its emphasis on character. Men were encouraged to have values of courage, strength, honour, and integrity. The aristocracy of money and class would be replaced in the Corporate State with a meritocracy. Likewise, British fascism presented an alternate form of femininity: one that included strength, courage, and fearlessness. During marches, women were not permitted to wear lipstick or wave at friends as if in a beauty pageant. These feminine fascists were described as healthy, attractive, charming, intelligent, and of strong character. They were motherly, but as wary of sentimentality as Julius Evola. A male writer described the women Blackshirts:

Nothing silly or soft about these women. They are nothing if not practical . . . and the happy carefree way in which they made themselves at home, was so refreshing after one has had their fill of the simpering little brats that democracy and Jewish films have produced. (95)

The combination of traditional and modern was seen in the BU women’s uniform of: a black blouse, grey skirt, and black beret. It was against regulations for women to wear trousers while on active duty.

Integrating Fascism into Everyday Life

 

British fascists grew in numbers, in part because they didn’t relegate their philosophy to just the political sphere, but participated in almost every aspect of members’ lives. Weddings included fascist regalia, and at some funerals a fascist flag was draped over the coffin. The Fascist Week printed the names of wedding guests just like the society pages of The Times.

wedding

Members of the BF organized Fascist Children’s Clubs, in which children were taught history, songs, patriotism, and given awards for homework. Other women had brooches designed with the BU lightning symbol, and made dolls dressed in the blackshirt for children. There also was a BU Women’s Choir. According to Gottlieb:

By celebrating each phase of life within a fascist framework, the BF in fact appropriated the functions once carried out by the Church and this substantiated their claim . . . that fascism was akin to a religion. (28)

In addition to the accolades given to real women, there were fascist heroines as well. The most notable was Queen Elizabeth, for her command of the nation and exemplary oratory skills. Another heroine was Lady Hester Stanhope, who worked as a housekeeper before traveling through the Middle East. E. D. Hart wrote:

Those women who, whether from choice or, as in the case of Lady Hester, from necessity, explore other walks of life, will find both assistance and encouragement. When, like her, they display the Fascist virtues of courage, self-reliance, and tenacity of purpose, we ascribe to them the honour which is their due. (97)

Blackshirts also banded together to disparage several less attractive types of women. One was the feminist with mannish, short hair, called the “bleating Bloomsbury.” Another was the “Mayfair Parasite,” who usurped the nation’s wealth and vitality by sleeping late and devoting her life to superficial pleasures. Being fit and healthy was considered a moral duty, for as one writer put it: “Far too many women consider it their privilege to be ill . . . just ill enough to pamper themselves and evade their share of the family work.” Communists often were referred to as “submen” and “subwomen.” Titled women did not escape criticism either. Those who earned money by advertising products were publicly chastised by BU members for degrading both themselves and their class.

Women’s Duties in Fascist Organizations

Women were involved in almost every area of Britain’s fascist groups, and made up about 25 percent of the membership. The Women’s Section of the BU was established in March 1933, under the leadership of Lady Maud Mosley. She said, “When my son married Lady Cynthia [Mosley’s first wife], she took her place by his side. Now she is dead and there must be someone to help him in this work and I am going to do my best to fill the gap” (52).

Mosley’s second wife, Diana, and her sister Unity Valkyrie Mitford became two of the best-known female fascists, but Feminine Fascism only lightly touches on their stories. Their aristocratic parents were extremely Right-wing and anti-Semitic, but when the 2nd Baron Redesdale supported England during the war, he and his Nazi-sympathizing wife permanently separated.

Diana_MitfordDiana was married to Bryan Guinness when she met Mosley, and soon became his mistress. Mosley’s wife died suddenly of peritonitis in 1933 (though he was plagued the rest of his life that infidelities and political stress might have been the cause). Mosley and Diana were married at the home of Joseph Goebbels in 1936, with Hitler as guest of honor.

Unity debuted the same year her older sister became Mosley’s mistress. The next year, Diana and Unity went to the 1933 Nuremberg Rally as part of the BU delegation, and saw Hitler for the first time. Unity returned to Germany the following year, eating at the same restaurant as the Führer for 10 months, until he finally asked her over. Unity wrote to her father of their meeting: “I am so happy that I wouldn’t mind a bit, dying. I'd suppose I am the luckiest girl in the world. For me he is the greatest man of all time.” Hitler, in turn, described Unity as “a perfect specimen of Aryan womanhood.” Their affections might have escalated, if not for a suicide attempt by Hitler’s mistress, Eva Braun. Though in love with Hitler, Unity devoted herself to making speeches, writing letters, distributing propaganda, and being one of Hitler’s intimate confidantes. On September 3, 1939, the day Britain declared war on Germany, Unity took a pearl-handled pistol (a gift from Hitler for protection) and shot herself in the head, unable to bear the thought of the two countries she loved at war. She survived and was eventually able to walk again, but never recovered her full mental capabilities.

While Unity was helping the cause on the continent, women Blackshirts in England spoke at meetings, organized children’s groups, sold newspapers, and participated in marches and canvassing. Study groups about fascism were established for women speakers, and women participated in public debates. But women did not forsake their traditional duties either: One woman reported that it was the fair sex who kept the BU headquarters clean and brewed tea for the men. Members who did not give five nights a week to the movement were denied the privilege of wearing the coveted blackshirt.

A relatively large number of women participated in local elections. In 1936, the BU ran 10 women candidates (10 percent of their parliamentary candidates), from a variety of backgrounds. (Six were unmarried, five were professionals, three were in their 20s, and two were from gentry families.) The various women received between 15 and 23 percent of the votes in their respective districts.

speaking

Women’s most valuable talents were said to be in public speaking, and numerous BU women were praised for their excellent oration and ability to move crowds. Other women were lauded for their ability to use personal stories in their speeches, which proved more powerful than simple recitations of facts. During a 1936–37 campaign, women decided to censor their speeches for tactical advantage. No speaker was allowed to use the word “Jew.” Instead, plain-clothed members were scattered throughout the audience to use the word instead, as the message was thought to be more rousing if coming from the public.

Women had roles to play in security and self-defense as well. Female members of several organizations were trained in ju-jitsu, for as Fascist Week reported, “no male member of the BU is permitted to use force upon any woman, and women Reds often form a highly noisy and razor-carrying section at fascist meetings. Thus we counter women with women” (66).

The Fallout During the War

As early as 1938, a division of MI5 was formed to place agents in subversive organizations. Three women agents provocateurs successfully infiltrated the popular fascist group, Captain Ramsay’s Right Club. After Britain entered WWII, the country started to resemble a totalitarian dystopia for fascist sympathizers. In October 1939, Anne Brock Griggs was charged with “insulting words and disturbing the peace” for saying in a speech: “If Germans don’t like Hitler they can get rid of him themselves. We do not need to send our sons to fight them. If ever a country wants a revolution now it is Great Britain” (236). She quit her BU post, but was still interned during the war.

Defense Regulation 18B(1A) went into effect in September 1939, and it allowed the Home Secretary to detain anyone suspected of being a threat to national security. That category included anyone who was a leader or member in a group that might be under foreign influence. Under 18B, 1,826 people were interned, including 747 BU members (96 of them women).

Sir Oswald Mosley was arrested in May 1940, the day after the Defense Regulations were passed. The BU was outlawed in June, and his second wife, Diana, was interned shortly after. She was denounced by both her sister Nancy (later a famous novelist and biographer) and her former father-in-law, and had to leave without her 11-week-old, still-nursing baby boy. Although the English public called for Unity Mitford to be interned as a traitor, she was allowed to return to the family home with her mother, since she was weak from her suicide attempt.

Interned women were given no special treatment in prison. When Miss L. M. Reeve was arrested, a group of armed guards came to take her from her home. One officer asked if he could have her dog, since she was “probably about to be shot.” One woman’s infant died while staying with her in prison, and another woman’s infant was pulled from her arms and placed in an institution. Part of the evidence against another woman was a photograph of her on vacation in Germany in 1939, seated at a table with bottles of German wine.

Fascists on the outside, though their organizations were banned, were still able to help their comrades via a registered charity founded specifically to help those interned under 18B. The charity helped pay for legal and medical services, provided assistance to detainees’ families, provided post-release counseling, and helped people find employment. Trials could only be held for those who could be charged with a tangible offense, so many men and women fascists were imprisoned for years.

The Impact of Feminine Fascism

 

The much-anticipated Corporate State never became a reality, and its philosophies and ideas were forced to the margins of history. Yet the lessons that can be learned from the events detailed in Feminine Fascism remain relevant to the leaders of future generations.

Eighty years ago, the fascists recognized that it would be impossible to shed the gains made in women’s rights. Rather than fighting against women’s “emancipation,” with which they ideologically disagreed, the fascists used it to their advantage. The result was a philosophy for women that honored the traditional, yet considered the needs of modern women. Fascists didn’t need to force women into the home or sell them on an ideology that contradicted the propaganda of the modern world; they realized that the moment women didn’t have to work the majority of mothers would return gladly to full-time homemaking. And given the precarious nature of homemaking as a profession, they planned ways for women to have representation and security in the Corporate State. The result was a platform that united women of various political persuasions, ages, and classes. Because it details the fascists’ unique outlook and strategy, Feminine Fascism makes a relevant handbook for those looking to learn from the successes and failures of history.

Survol de la Syrie et des Alaouites

Survol historique de la Syrie et des Alaouites

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Introduction

La prise du pouvoir par les Alaouites en Syrie marque une rupture profonde avec le passé et l’histoire. Depuis des siècles, l’aire syrienne a été gouvernée, en général depuis Damas, par une bourgeoisie commerçante musulmane sunnite des plus orthodoxes, soumise à l’Empire Ottoman, qui a su par la suite composer, non sans diverses manoeuvres, avec la puissance mandataire avant de profiter de la confusion européenne pour échapper à son emprise et tenter, de façon un peu brouillonne, plusieurs formules de partage oligarchique du pouvoir. Quoi qu’il en soit, Damas demeurait, avec Le Caire, l’un des deux grands pôles de la pensée orthodoxe arabe et musulmane. Quant aux minorités religieuses ou ethniques, Chrétiens, Druzes, Alaouites, Juifs, Kurdes, Arméniens, bien que proportionnellement les plus importantes [1] de la région, ou peut être à cause de cela, elles étaient soigneusement tenues dans un état de marginalité politique et sociale, éloignées géographiquement ou institutionnellement des centres et instruments de pouvoir.

L’erreur fondamentale de la bourgeoisie affairiste et conservatrice sunnite de Syrie est sans doute d’avoir cru que son monopole économique et financier lui garantissait sans risque le contrôle permanent d’un appareil d’État plus conçu comme un lieu d’arbitrage et de représentation que comme un réel instrument de pouvoir. L’appareil de contrainte de l’État, Armée, Police, Administration fiscale ou douanière, avait toujours été dans des mains étrangères et l’on avait bien su s’en accommoder. De fait, il n’était nullement perçu comme un instrument valorisant, facteur de promotion et de contrôle sérieux de la société civile. Les minorités ont su profiter de cette lacune politique et culturelle et, au premier rang d’entre elles, les Alaouites. Hérétiques de l’Islam, méprisés, persécutés, démunis, relégués dans leurs montagnes peu hospitalières surplombant la Méditerranée entre les frontières libanaise et turque, désignés à la vindicte depuis la fatwa d’Ibn Taymiya (1268-1328)[2], les Alaouites ne paraissaient pas les mieux placés pour se lancer à la conquête de l’État syrien. En fait ils n’ont pas eu les hésitations des Chrétiens syriens, en majorité orthodoxes, qui ne bénéficient pas comme les Maronites du Liban d’une solution de repli territorial en cas d’échec. Contrairement aux Druzes, qui sont restés fidèles à leur tradition séculaire de ne jamais se mettre en avant pour ne pas désigner la communauté aux coups, les Alaouites, malgré leur passé et leur passif, ont entrepris de profiter d’une conjoncture favorable qui laissait le pouvoir en partie vacant à l’intérieur du pays et qui, au début des années 50, relativisait le poids de l’Islam dans le monde arabe en faveur d’idéologies peu connotées sur le plan religieux (nationalisme, marxisme).

Depuis le coup d’État du 8 mars 1963, la minorité alaouite de Syrie s’est donc progressivement assuré, sous la conduite de l’un des plus discrets mais des plus déterminés de ses membres, le général Hafez el-Assad, un contrôle étroit du pouvoir, de l’appareil civil et militaire de l’État et aussi des ressources économiques et financières du pays. Cette emprise à la fois communautaire et minoritaire n’est ni revendiquée ni même avouée. Elle s’exerce derrière le paravent, parfois avec l’alibi, d’une organisation centralisée et autoritaire mais qui se proclame résolument égalitariste, moderne et progressiste. En fait, elle met en jeu, tant en Syrie même que dans son contexte régional, les ressorts complexes de stratégies et de tactiques communautaires, tribales, claniques et familiales où dominent les rapports d’obligations interpersonnelles. L’édification de ces rapports, ainsi que la sanction de leur respect ou de leur violation, détermine et rythme depuis trente ans la vie publique intérieure mais aussi la politique extérieure de la Syrie qui y gagnent en cohérence et en détermination ce qu’elles y perdent en termes d’ouverture et d’image. Il reste à savoir si cette longue marche au pouvoir de Hafez el-Assad peut conduire à l’intégration de la communauté alaouite dans le pays et dans le siècle, ou si elle porte les germes de sa dissolution et de sa destruction. Car en sortant de son isolement géographique et social pour assumer le pouvoir d’État, la communauté perd ses repères internes, gomme ses différenciations, confrontée au double besoin de faire bloc pour s’imposer à un environnement hostile et de conclure avec cet environnement des alliances permettant de rentabiliser le présent et garantir l’avenir. Elle est bouleversée en son sein par les démarches de légitimation d’élites nouvelles, dynamiques et conquérantes, bousculant les cadres traditionnels qui puisaient leur pouvoir dans une capacité à gérer des réseaux de soumission et de transaction avec un extérieur dominateur. À mesure que s’affermit, s’étend, mais aussi se disperse le pouvoir alaouite sur l’ensemble du pays, la segmentation tribale de la communauté, fondée sur un état donné d’occupation physique d’un terrain précis, s’estompe au profit d’une segmentation en clans, voire en familles, dont les réseaux de solidarités et d’alliances dépassent les limites traditionnelles internes et externes de la communauté dans un contexte d’accès au pouvoir d’État et aux rentes économiques et politiques qui y sont liées [3]. Au terme d’une histoire presque millénaire d’isolement, de soumission et de discrétion, les Alaouites sont entrés dans le siècle, mais à quel prix pour leur identité et leur devenir ?

Repères

Dès le paléolithique et le néolithique, des groupes humains peuplèrent cette région. Dans la vallée de l’Euphrate, formant avec celle du Tigre la Mésopotamie, apparurent l’agriculture, puis les premières villes, les premiers royaumes, ainsi que l’écriture cunéiforme et l’alphabet.

Syrie - Maaloula : abris-sous-roche ou habitations préhistoriques sous un surplomb rocheux.

La Syrie de l’Antiquité

Du fait qu’elle était un lieu de passage entre l’Égypte et la Mésopotamie, la Syrie fut livrée très tôt aux invasions des grandes puissances commerciales du monde de l’époque.  Soumise à la domination des Sumériens, puis des Akkadiens, la région passa, à la fin du IIIemillénaire, sous l’influence des Amorites, un peuple sémite nomade. Au XIXe siècle avant notre ère, les Amorides fondèrent la première dynastie de Babylone. Hammourabi, roi de Babylone, étendit sa domination sur toute la région au siècle suivant.

À partir du XVIe siècle, l’Égypte des pharaons (la XVIIIe dynastie) prit le contrôle de la Syrie méridionale, tandis qu’au nord s’établirent les Hittites. Au carrefour commercial entre la Méditerranée et l’Asie, la région prospéra grâce à l’activité des marchands phéniciens qui fondèrent de nombreux ports (Tyr, Byblos, Sidon au Liban, Ougarit en Syrie).

L’équilibre fut rompu par l’arrivée des «Peuples de la mer» qui déferlèrent au XIIIe siècle avant notre ère et dévastèrent le littoral. Alors que les Araméens établissaient de petites principautés de la vallée de l’Oronte à celle de l’Euphrate, le royaume d’Israël étendit sa domination sur la région aux Xe et IXe siècles, en créant des liens de vassalité avec les Araméens. Le royaume de Damas fut fondé vers 1000 avant notre ère. Nabuchodonosor II, illustre représentant de la Xe dynastie de Babylone qui s’établit sur les restes de la puissance assyrienne, étendit son pouvoir jusqu’à Jérusalem; maître de l’Orient, il fit de sa langue, l’araméen, l’idiome de tous les peuples sous sa domination.

En 539, Cyrus le Grand, accueilli en libérateur par les peuples sous le joug babylonien, dévasta l’empire chaldéen. La Syrie passa sous domination perse et fut administrée par les satrapes des Grands Rois pendant les deux siècles qui suivirent. Alexandre le Grand l’annexa ensuite à son empire en 333-332 avant notre ère. Sous influence hellénistique, la Syrie échut après la mort du conquérant à Séleucos Ier Nikator, l’un de ses généraux. Une partie de la Syrie s’hellénisa au cours des siècles suivants, car le grec s’est imposé dans la région.

Par la suite, le royaume de Syrie fut envahi par les Romains de Pompée venus en Orient vaincre les Parthes; le royaume devint une province romaine en 64 avant notre ère. Mais la Syrie demeura quand même hellénisée sous la domination romaine, à tel point qu’elle devint l’une des principales provinces de l’Empire. Toutefois, après la fragmentation de l’Empire romain en 395 de notre ère, la Syrie fut intégrée à l’Empire byzantin. Elle connut une période de prospérité économique et de stabilité politique, troublée par les querelles religieuses qui déchirèrent l’Église d’Antioche. À partir de 611, les Perses tentèrent de mettre à profit les troubles religieux pour rétablir leur domination sur la région. Les Byzantins les chassèrent définitivement en 623, pour faire face à une nouvelle menace, celle de l’islam.

La Syrie arabe

Dès le IVe siècle avant notre ère, des tribus arabes venues du sud de l’Arabie s’étaient établies en Syrie. Affaiblis par les luttes qui les opposaient, Byzantins et Perses ne purent résister à l’expansion arabo-musulmane. La victoire du Yarmouk (636) sur les troupes d’Héraclius Ier permit aux Arabes de s’assurer le contrôle de la Syrie, qui s’islamisa et s’arabisa. La dynastie omeyyade (661-750), fondée par Moawiyya, exerça son rayonnement depuis Damas, la capitale. La marine du calife s’empara des îles de la Méditerranée orientale (Chypre, Crète, Rhodes), tandis que les troupes terrestres virent camper sous les murs de Constantinople. L’administration fut réorganisée, les sciences se développèrent, les mosquées et les palais se multiplièrent. Pourtant, les Omeyyades tombèrent sous les coups des Abbassides, qui firent de Bagdad la capitale de leur nouvel empire (750-1258), dont la Syrie devint une simple province. Le pays connut ensuite une période troublée lorsque l’empire commença à se démembrer.

Aux Xe et XIe siècles, le désordre qui régnait dans le pays, divisé entre des dynasties arabes et turques rivales, favorisa l’établissement des croisés occidentaux qui, après la prise d’Antioche (1098) et de Jérusalem (1099), occupèrent le littoral et le nord de l’actuelle Syrie. Les croisés édifièrent une série de châteaux forts tournés vers la mer. En 1173, Saladin, fondateur du sultanat ayyubide, mena la lutte des musulmans contre les croisés et unifia l’intérieur de la Syrie. Affaibli par la guerre opposant croisés et musulmans, le pays subit au XIIIe siècle l’invasion destructrice des Mongols. Les mamelouks, dynastie d’esclaves qui s’était imposée en Égypte, stoppèrent leur avance, expulsèrent les croisés en 1291 et dominèrent la Syrie jusqu’en 1516.

En réalité, la multiplicité des invasions étrangères s’est traduite dans le domaine religieux. Ainsi, si 90 % de la population est devenue musulmane, 10 % de celle-ci est restée chrétienne, avec le maintien de minorités chiite, druze, ismaélienne et surtout alaouite.

La Syrie ottomane

Après avoir pris Constantinople, les Ottomans vainquirent les mamelouks en 1516, annexèrent la Syrie à leur nouvel empire et divisèrent celle-ci en trois, puis en quatre pachaliks ou provinces (Damas, Tripoli, Alep et Saïda). La Syrie ottomane fut gérée au nom du sultan par des gouverneurs nommés pour un an. Cependant, la domination turque se fit principalement sentir dans les villes, les émirs locaux exerçant partout ailleurs leur propre pouvoir.

Durant quatre siècles, la Syrie redevint un carrefour commercial important et développa des relations avec le monde occidental. Puis l’affaiblissement graduel de la puissance ottomane attisa les ambitions territoriales, tantôt du premier consul Bonaparte en 1799, tantôt par les troupes du vice-roi d’Égypte Méhémet Ali en 1831. En 1860, Napoléon II intervint en Syrie afin de favoriser les chrétiens.

Puis ce fut le tour des Britanniques. Ayant gagné l’appui des Arabes syriens, les Anglais promirent l’indépendance du pays en cas de victoire sur l’Empire ottoman. Cependant, le 16 mai 1916, la Grande-Bretagne et la France conclurent des accords secrets, les accords Sykes-Picot, par lesquels les deux puissances se partageaient les terres arabes sous domination ottomane. Cet accord résulte d’un long échange de lettres entre Paul Cambon, ambassadeur de France à Londres, et sir Edward Grey, secrétaire d’État au Foreign Office; par la suite, un accord ultra-secret fut conclu à Downing Street entre sir Mark Sykes pour la Grande-Bretagne et François Georges-Picot pour la France. Cet accord équivalait à un véritable dépeçage de l’espace compris entre la mer Noire, la Méditerranée, la mer Rouge, l’océan Indien et la mer Caspienne. La région fut découpée de la façon suivante:

1) Une zone bleue française, d’administration directe (Liban et Cicilie);
2) Une zone arabe A, d’influence française (Syrie du Nord et province de Mossoul);
3) Une zone rouge anglaise, d’administration directe (Koweït et Mésopotamie);
4) Une zone arabe B, d’influence anglaise, (Syrie du Sud, Jordanie et Palestine);
5) Une zone brune, d’administration internationale comprenant Saint-Jean-d’Acre, Haiffa et Jérusalem.

Bref, la Syrie et le Liban actuels revirent à la France, l’Irak et la Palestine furent attribuées au Royaume-Uni.

Le mandat français (1920-1941)

Les Britanniques et les Arabes participèrent à la prise de Damas en 1918. L’année suivante, les forces britanniques se retirèrent de la zone d’influence revenant à la France, cédant le contrôle aux troupes françaises. En 1920, la Société des Nations (SDN) confia à la France un mandat sur la Syrie et le Liban, lesquels devaient rapidement aboutir, du moins en théorie, à l’indépendance des deux territoires. Toutefois, les nationalistes syriens, organisés depuis la fin du XIXe siècle, espéraient la création d’une Syrie indépendante, incluant la Palestine et le Liban. En mars 1920, le Congrès national syrien (élu en 1919) refusa le mandat français et proclama unilatéralement l’indépendance du pays. Celui-ci devint une monarchie constitutionnelle dirigée par le fils de Hussein, le prince Fayçal.

Néanmoins, en avril 1920, la conférence de San Remo confirma les accords Sykes-Picot, qui légitimaient l’intervention militaire française: les troupes du général Gouraud entrèrent à Damas en juillet. Fayçal, contraint à l’exil, trouva alors refuge en Irak, où il sera couronné en 1921. Ce fut alors l’effondrement du «grand projet arabe» de rassembler autour de Damas les terres arabes autrefois placées sous contrôle ottoman. Alors qu’elle avait été hostile envers les Turcs, la population syrienne développa rapidement un sentiment antifrançais.

Le Mandat français sur la Syrie fut organisé en un «Grand Liban» composé de quatre provinces: l’État de Damas, l’État d’Alep, l’État des Alaouites (1920) et l’État du Djebel druze (1921), auxquels s’ajouta, en mars 1923, le sandjak d’Alexandrette (au nord) détaché d’Alep et peuplé d’une minorité turque. La même année, le général Gouraud créa la Fédération syrienne, qui regroupait Damas, Alep et l’État alaouite, sans le Djebel druze, ni Alexandrette. En 1924, l’État alaouite en fut également séparé. De 1925 à 1927, le Djebel druze entra en état d’insurrection, dirigée par le sultan Pacha-El-Atrache. Le général Sarrail y fut chargé de rétablir l’ordre français. En 1926, le «Grand Liban» devint la République libanaise.

La frontière syro-libanaise fut tracée par les Français, protecteurs traditionnels des chrétiens dans la région, afin de satisfaire les ambitions des maronites à la création d’un «plus grand Liban». La Syrie ne reconnut jamais ce tracé. Sachant proche l’indépendance du mandat français du Levant, la Turquie fit savoir, dès 1936, qu’elle se refusait à ce que la population minoritaire turque du Sandjak d’Alexandrette puisse passer sous l’autorité syrienne indépendante. Paris, soucieux de ne pas contrarier un État dont la position revêtait une grande importance stratégique quant à la défense des intérêts français au Levant, accéda à la demande d’Ankara, et le Sandjak d’Alexandrette (ou république du Hatay) passa sous souveraineté turque le 23 juin 1939, sous le nom de «province du Hatay», au grand dam des nationalistes syriens.

Malgré son hostilité à l’égard de la France, la Syrie se rangea aux côtés des Alliés en 1939. En juin 1940, après la capitulation française, la Syrie passa sous le contrôle du gouvernement de Vichy. En 1941, les forces de la France libre et les Britanniques chassèrent le général Dentz, haut-commissaire du Levant. Le général Catroux, au nom de la France libre, reconnut officiellement l’indépendance de la Syrie, mais les troupes franco-britanniques demeurèrent sur le sol syrien.  Les Français ne se retirèrent totalement du Liban et de la Syrie qu’en 1946, après avoir violemment réprimé de nouvelles émeutes nationalistes et bombardé Damas. Cette même année, la Syrie devient membre des Nations unies.

Soulignons que, lors du mandat français, les Kurdes ne firent l’objet d’aucune mesure répressive. Même s’ils ne jouissaient d’aucun statut officiel, ils pouvaient librement pratiquer leur religion et utiliser leur langue, voire diffuser leurs journaux. C’est dans le Kurdistan syrien que beaucoup d’intellectuels Kurdes persécutés en Turquie vinrent trouver refuge, bien qu’ils ne disposaient d’aucun droit politique. Les Kurdes ont bel et bien demandé leur autonomie à l’intérieur des frontières du pays. Une pétition fut adressée à l’Assemblée constituante de Syrie le 23 juin 1928 et y a inclus les trois demandes suivantes:

1) L’usage de la langue kurde dans les zones kurdes, concurremment avec d’autres langues officielles (arabe et français);
2) L’éducation en langue kurde dans ces régions;
3) Le remplacement des employés du gouvernement de ces régions par des Kurdes.

Les autorités du mandat français ne favorisèrent pas l’autonomie kurde dans cette partie de la Syrie en raison de l’intolérance manifestée par la Turquie et l’Irak à l’égard «d’un territoire autonome kurde» près de leurs frontières. En fait, l’usage du kurde était libre, sans être officielle, dans la région. Mais l’absence de matériel pédagogique en langue kurde aurait rendu l’organisation de l’éducation particulièrement difficile, bien que ce soit des considérations d’ordre politique qui ait joué. 

Quant à la minorité religieuse alaouite, elle fut favorisée par les Français. Longtemps persécutés dans le passé, les alaouites (issus des chiites) purent s’instruire et se faire embaucher dans l’armée coloniale française, ce qui assura leur promotion sociale, dont les élites dirigeront ensuite le Parti Baas à partir de 1963. Les Français avaient créé le «Territoire des alaouites», qui allait devenir l’«État des Alaouites», puis en 1930 le «territoire de Lattaquié» ou «gouvernement de Lattaquié». Afin de faire contrepoids au nationalisme arabe des sunnites, les Français encouragèrent pendant l’entre-deux-guerres le particularisme alaouite, qui prétendait faire des alaouites un peuple à part entière, mais cette politique colonialiste échoua.

LES ALAOUITES

Alep

Dans les années 860, Ibn Nosayr, originaire de Bassorah et disciple du dixième imam chiite Ali al-Hadi, entre en dissidence et prêche une foi chiite extrémiste divinisant Ali [4] au sein d’une sorte de trinité dont Mahomet et son compagnon Salman sont les autres pôles. Fuyant l’Irak, les disciples de Ibn Nosayr sont récupérés par les Hamdanides de Alep qui trouvent expédient de les envoyer stimuler le zèle des tribus vivant aux marches de l’Empire Byzantin en Syrie du Nord. La prédication d’Ibn Nosayr rencontrera un succès inespéré parmi ces populations mal islamisées, encore fortement imprégnées de christianisme oriental chez qui son mysticisme, son culte du martyre et sa doctrine trinitaire provoquent des échos familiers. Il en résultera un syncrétisme mystique incorporant des éléments du chiisme le plus extrême, du christianisme byzantin et de paganisme ou de panthéisme hellénistique.

La constitution des royaumes francs, qui jouaient sur les divisions locales, a favorisé localement l’adhésion au Nosaïrisme et son implantation durable dans le nord-ouest de la Syrie, mais la répression qui a suivi la reconquête musulmane n’en a été que plus féroce. Traqués en tant que traîtres et apostats, les membres des tribus alaouitisées de Syrie se réfugient dans les montagnes surplombant Lattaquieh où elles vivent en retrait du reste du pays, tributaires d’une maigre agriculture de subsistance, en butte à de permanentes persécutions politiques et religieuses, entretenant des relations de dépendance difficile avec les villes de la côte et de l’intérieur. Cette situation, émaillée d’affrontements sporadiques et toujours sanglants avec les autorités de droit ou de fait, durera jusqu’à l’effondrement de l’Empire Ottoman. Des expéditions punitives de Baïbars vers 1360 à l’établissement du mandat français en 1920, les Alaouites se sont figés en collectivités défensives régulièrement décimées dans toutes les hauteurs de la montagne côtière qui s’étend de Tartous à Alexandrette, ne descendant dans la plaine que pour louer leurs services comme ouvriers agricoles ou vendre leurs filles comme servantes [5]. Ce régime de persécutions religieuses et sociales conduit la communauté à se réfugier, comme les Druzes, dans l’hermétisme et la dissimulation. Les secrets ultimes de la religion sont réservés à une petite classe d’initiés et l’ensemble de la communauté intègre au plus haut degré la pratique de la taqiya [6]qui peut aller jusqu’au reniement public de l’appartenance à la communauté et la reconnaissance de l’appartenance à la religion dominante. Cependant contrairement aux Druzes, les Alaouites ne refusent pas les alliances matrimoniales hors de la communauté et même les encouragent quand elles peuvent lui profiter.

On retrouve chez les Alaouites de Syrie toutes les formes les plus classiques des sociétés côtières sédentarisées de la Méditerranée. La structure de base de la communauté est la famille (ahl) au sens élargi, sur laquelle règne sans partage l’autorité patriarcale. La famille est elle-même membre d’un clan (‘ashîra) regroupant plusieurs familles alliées, qui est la véritable unité de base de la communauté en laquelle on se reconnait principalement. Ces clans informels sont, regroupés par agrégation ou seuls suivant leur importance, constitutifs d’une tribu (qabîla) dont l’existence est plus liée aux relations d’alliance et aux solidarités de voisinage qu’à la référence à un lignage attesté ou mythique commun. La sédentarité des Alaouites explique évidemment que, contrairement aux nomades, ils se réfèrent plus au sol qu’au sang et, dans la pratique courante, l’Alaouite se réfère essentiellement à son “village”, entité à la fois humaine et géographique, lieu géométrique de ses relations affectives et sécuritaires. La tribu est dominée par un sheikh “temporel” dont l’autorité ne se confond pas avec celle des chefs religieux. Enfin, la plupart des tribus alaouites sont regroupées en quatre grandes “fédérations” (ahlaf) dont la segmentation, perpendiculaire à la côte, paraît essentiellement due aux contraintes locales de la géographie physique qui conditionnent l’orientation des voies de communication et a contribué à donner des caractéristiques communes aux tribus qui les constituent [7] :

- Les Haddâdîn dans la région de Dreikish et Safita,

- Les Khayyâtîn dans la région de Qadmus et Marqab,

- Les Matawira dans la région de Matwa et Aïn Sharqiyyah,

- Les Jurûd [8] dans le triangle Qardaha-Slenfé-Alexandrette, fédération dont la tribu des Kalbiyyeh, la plus importante en nombre, est celle de Hafez el-Assad qui appartient au clan des Karahil [9].

Ces quatre fédérations regroupent environ 80% des Alaouites de Syrie, les autres se répartissant en tribus au rattachement incertain comme les Bichraghiyyah (du nom de la région de Bichragh dont ils sont les habitants, qui marque la limite entre les tribus du nord du Djebel alaouite et celles du sud aux pratiques religieuses et sociales légèrement différentes) ou en sortes de confréries à vocation plus religieuse que sociale comme les Murchidiyyin ou les Hawakhissa. D’une manière générale, la notion de tribu chez les Alaouites, agriculteurs attachés à leur terroir, apparaît donc plus liée à l’établissement de liens de solidarité et de protection réciproques entre familles élargies voisines qu’à des références communes à des ancêtres ou des passés mythiques qui sont le fondement du tribalisme nomade des pasteurs dans l’hinterland steppique [10]. Il en résulte une certaine perméabilité et un flou des contours, un caractère mouvant des critères de légitimité, une grande disponibilité aux modifications des systèmes d’alliances ou d’antagonismes.

A la tête de la communauté on trouve traditionnellement un “Conseil communautaire des Alaouites” (Majlis al-Milli) qui paraît tenir plus d’un conseil de famille consultatif que d’une autorité exécutive ou contraignante. Composé de dix-huit membres cooptés parmi les cheikhs religieux et temporels des différentes tribus, il rend les grands arbitrages et définit les lignes de conduite générales de la communauté. Sa composition est en principe secrète et il se réunit de façon informelle. Son importance paraît avoir fortement diminué à mesure que se développait le pouvoir personnel de Hafez el-Assad pour lequel a été créé le siège inédit de Président d’honneur.

Premier drapeau de la Syrie sous mandat français (1920-1946)

L’instauration du mandat français en 1920 introduit une rupture brutale dans l’ordre interne de la communauté et dans ses rapports avec le reste du pays. Elle pose en fait les bases de la future accession au pouvoir de la communauté. Le 31 août 1920, la France, fidèle à sa politique de protection des minorités et soucieuse de se prémunir contre un “empire arabe” en jouant sur les divisions régionales, crée le Territoire autonome des Alaouites auquel font pendant diverses entités minoritaires chrétienne ( Liban) et druze (Djebel Druze). Un grand nombre de notables alaouites se rallient avec enthousiasme à l’idée d’une indépendance par rapport à la Syrie sunnite et, malgré quelques fausses notes comme la révolte de 1921 menée par cheikh Saleh al-Alawi, ils iront, en comparant leur sort à celui des Juifs de Palestine, jusqu’à élaborer en 1936 une déclaration de refus de rattachement à la Syrie à laquelle plusieurs centaines d’entre eux, dont le grand-père du Président, souscrivent. Sur le plan religieux et juridique, l’autorité mandataire essaie d’appliquer les principes qu’elle met en oeuvre dans ses autres possessions arabes. Le trop petit nombre et le manque de formation des cadres locaux conduisent, par une assimilation abusive des Alaouites au chiisme, à faire appel à des experts en matière religieuse et de statut personnel issus des communautés chiites du sud du Liban. Ils se sont plutôt bien adaptés, en laissant à la fois leur empreinte et quelques systèmes de relations utiles pour l’avenir quand le désordre interne du Liban conduira la Syrie dominée par des Alaouites à y rendre des arbitrages entre les communautés. C’est auprès de leur chef charismatique, l’Imam Moussa Sadr, que Hafez el-Assad avait d’ailleurs été se faire délivrer , au début des années 70, des brevets d’appartenance de la communauté alaouite à l’Islam chiite (Kramer, 1987:246 sqq.). Enfin, toujours soucieux de s’appuyer sur les minorités pour faire pièce au pouvoir sunnite de Damas, les Français favorisent et organisent la scolarisation, jusque là presque inconnue, des enfants des communautés minoritaires et poussent les plus brillants d’entre eux vers les carrières administratives et, en particulier, le métier des armes.

La confusion européenne au lendemain de la seconde guerre mondiale, le départ sans gloire de la puissance mandataire, suivi peu après de l’affrontement généralisé avec l’État juif nouvellement créé, a contraint la communauté alaouite dans son ensemble à revoir son système d’insertion dans le contexte régional selon trois grandes lignes directrices :

- Les effondrements successifs de l’Empire Ottoman puis des grands États d’Europe intéressés au Levant ont prouvé qu’aucune puissance extérieure à la région ne peut garantir durablement la survie d’une entité alaouite autonome ou indépendante. La communauté doit donc accepter de vivre à l’état de minorité dans l’ensemble arabe et musulman. Cette considération condamnait les notables qui s’étaient ouvertement prononcés, presque en totalité, pour une indépendance sous protection française et, en les dévalorisant, conduisit dans un premier temps et par défaut au renforcement du pouvoir des responsables religieux de la communauté qui avaient eu la prudence de ne pas s’engager sur ce terrain, puis à l’émergence rapide de cheikhs tribaux plus jeunes et plus dynamiques que ne le voulait la coutume.

- L’Islam sunnite demeurant l’adversaire principal, il convenait d’en neutraliser la menace en faisant si possible reconnaître la communauté comme musulmane en “gommant” sa spécificité, donc en adoptant en toutes circonstances des postures qui ne prêtent le flanc à aucune critique tant sur le plan de la religion que de l’arabisme. Cette stratégie conduira la communauté et ses leaders à des positions maximalistes sur tous les dossiers régionaux et internationaux concernant la question nationale arabe et les problèmes musulmans. Ils seront toujours, parfois jusqu’à la caricature, à la pointe des causes du monde arabe et les derniers à faire des concessions dans ce domaine, après que tous les responsables sunnites auront montré l’exemple.

- Enfin il convient de s’assurer le contrôle de l’État syrien afin de se prémunir, puisqu’il va bien falloir vivre avec eux, contre la vindicte prévisible des notables sunnites locaux ou étrangers, contre leur volonté latente d’islamiser les institutions ou de fondre le pays dans un vaste ensemble “arabo-musulman” [11]. Ce contrôle de l’État doit viser essentiellement celui de son appareil de contrainte et tendre à dissocier par tous les moyens le concept d’arabisme de celui d’Islam, en tous cas d’Islam sunnite.

La prise du pouvoir

C’est dans ce contexte et en fonction de ces principes que de jeunes responsables civils et militaires alaouites vont s’emparer du pouvoir en février 1966. Sans verser dans une explication conspiratoire de l’histoire [12], on doit constater qu’ils s’y sont longuement préparés. L’initiative en est venue principalement du nord de la région alaouite, c’est-à-dire de la confédération des Jurûd, probablement pour la double raison qu’ils étaient à la fois les plus humbles de la communauté et les plus exposés au voisinage turc. Dès 1933, Zaki al-Arsouzi, Alaouite d’Alexandrette, fonde une “Ligue d’action nationale” qui se veut nationaliste et socialiste sur le modèle des partis fascistes européens, comme le feront peu après les Maronites avec les “Phalanges” de Pierre Gemayel et les Grecs-orthodoxes avec le Parti Populaire Syrien d’Antoun Saadé. Au-delà de ses objectifs affichés d’indépendance, de réveil culturel et de panarabisme, la Ligue se veut intégratrice. Il s’agit, comme pour le P.P.S., de substituer à la référence religieuse une référence nationale qui permettrait à la minorité de ne plus voir son existence sociale et politique contestée sur une base religieuse. Arsouzi se heurte à la fois aux Français, aux Turcs à qui la puissance mandataire cède en 1939 le Sandjak d’Alexandrette, mais aussi aux notables indépendantistes alaouites des autres confédérations et au pouvoir bourgeois de Damas. Ses idées font cependant leur chemin chez les jeunes Alaouites du nord et chez les Druzes tandis que leur volet social séduit les jeunes Sunnites des provinces périphériques, “oubliés” eux aussi du développement industriel et commerçant des villes. Fin 1940, Arsouzi quitte la Ligue, maintenant exclusivement tournée vers la contestation de l’occupation turque du Sandjak, et crée à Damas une première version d’un “Baath al-Arabi” (Parti de la résurrection arabe), avec une idéologie similaire à celle initiale de la Ligue. Il ne rencontre guère de succès dans la capitale et se retire en 1942 à Lattaquieh où son influence morale reste très grande et d’où il poussera ses jeunes coreligionnaires à adhérer massivement au nouveau Baath, totalement inspiré du sien, que fondent en 1943 le Chrétien Michel Aflaq et le Sunnite Salaheddin Bitar. Panarabe, nationaliste, laïque, social, le Baath séduit à la fois les minorités non musulmanes ou dissidentes de l’Islam et nombre de ruraux musulmans orthodoxes face à l’hégémonie de la bourgeoisie sunnite. Son caractère authentiquement arabe le rend plus attractif et moins sujet à controverse que le “syrianisme” réducteur du P.P.S. ou l’athéisme importé du P.C., autres refuges idéologiques et militants des minoritaires. Pendant vingt ans, le Parti va être patiemment infiltré puis instrumentalisé par les Alaouites au détriment des autres groupes qui le composent (Chrétiens, Druzes, Ismaéliens, Sunnites provinciaux) pour prendre le contrôle de l’appareil militaire, puis politique et enfin économique et financier de l’État syrien.

Là encore, le rôle des Jurûd et, en leur sein, celui des Kalbiyyeh et de la famille Assad est déterminant. Originaire du bourg de Qardaha, la famille Assad, sans être pauvre, vit modestement de l’agriculture. Le père, Ali ben Sleiman, a voulu sortir de sa condition mais n’en a guère les moyens. Comme la plupart des Jurûd, il ne dispose ni des réseaux d’affaires dont bénéficient les Shamsites [13], ni des réseaux de pouvoir en général accaparés par les Matawira. Après la tentative familiale infructueuse de donner des signes d’allégeance aux Français, il mise tout sur ses fils pour lesquels il consentira de lourds sacrifices en vue de leur assurer une instruction la plus complète possible. Intelligent et rusé, discret et opiniâtre, doté d’une force physique peu commune, Hafez el-Assad, né en 1930, adhère au Parti Baath alors qu’il est encore lycéen sur l’instigation de Zaki Arsouzi et de son disciple Wahib Ghanem, également Alaouite d’Alexandrette, qui est un ami de la famille. Après avoir animé la section étudiante du parti au lycée de Lattaquieh, où il rencontre beaucoup de ceux qui seront ses compagnons de route, Hafez el-Assad passe son baccalauréat à Banyas puis se présente à l’école des officiers de Homs en 1950. Nanti de ses épaulettes de sous- lieutenant, il choisit l’aviation et rejoint en 1952 la toute nouvelle école de l’air d’Alep. Comme au lycée, il noue dans ces deux écoles les liens d’amitié, de confiance et de solidarité de promotion, les “réseaux”, qui le conduiront au pouvoir. Si dans son environnement les Alaouites comme son “co-pilote” Mohammad el-Khouli dominent, Assad sait aussi rechercher l’amitié de Sunnites modestes, provinciaux, hostiles aux bourgeois damascènes comme Naji Jamil, originaire de Deir ez-Zor – son équipier à l’Ecole de l’Air dont il fera son premier coordinateur des services de sécurité – ou Moustafa Tlass, né à Rastan – son compagnon à l’Ecole de Homs – qui deviendra son inamovible ministre de la Défense – assez forts pour l’aider, pas assez pour lui nuire…

On voit déjà se dessiner l’esquisse du dispositif ternaire qui reste encore aujourd’hui le schéma de base de toutes les stratégies du Président syrien, toujours entouré de trois cercles concentriques constitués chacun de trois éléments fidèles à sa personne et rivaux entre eux, donc manipulables. Si les Kalbiyyeh sont bien représentés dans son entourage, il sait qu’il lui faut composer avec les autres tribus alaouites qui ne verraient certainement pas d’un bon oeil l’un des moins prestigieux d’entre eux monopoliser le devenir communautaire. Il se lie donc à des représentants d’autres tribus comme Mohammed Omran (jeune cheikh d’un des clans les plus prestigieux des Haddâdîn) et Salah Jedid (du plus puissant des clans Matawira à l’époque), avec lesquels il formera en 1960 le noyau d’un comité militaire hostile à l’union avec l’Egypte, ou Mohammed el-Khouli (Haddâdîn), qui sera le chef de son premier “service de renseignements” personnel quand il sera lui-même le chef de l’armée de l’air. En 1958, il épouse Anisseh Makhlouf, d’une famille aisée de la prestigieuse confédération des Haddâdîn. Elle lui donnera cinq enfants et la collaboration fidèle de tout son clan puisque Adnan Makhlouf, son plus proche cousin, est depuis plus de vingt ans le chef de la garde présidentielle.

Quand, confrontés à la double pression des Anglo-Saxons pour un alignement de la Syrie sur le Pacte de Baghdad et des jeunes officiers subalternes pour une politique encore plus indépendante et nationaliste, les dirigeants bourgeois de Damas, soutenus par la “vieille garde” du Baath, s’en remettent à la tutelle de l’Égypte

Al-Bitar, Louai al-Atassi et Nasser en mars 1963.

nassérienne le 12 janvier 1958, les Alaouites comprennent vite qu’ils sont victimes d’un marché de dupes. Rapidement confirmés dans cette opinion par les maladresses de l’administration égyptienne qui les marginalise aussi bien en tant que minorité que dans leurs privilèges de fonction si difficilement acquis, ils entreprennent une série de manoeuvres souterraines pour sortir de l’union qui reçoivent vite l’adhésion de tous les laissés pour compte de l’unité. Le comité militaire clandestin, alors constitué autour de Omrane, Jedid et Assad, va devenir pour presque dix ans le creuset où va s’élaborer la prise du pouvoir par les prétoriens alaouites aux dépens des Sunnites de Damas d’abord, puis des politiciens du Baath et enfin des “aventuristes” de la communauté. Hafez el-Assad et ses fidèles y développent jusqu’au raffinement l’art de l’action clandestine, les vertus de la patience et de la discrétion, l’habileté des manipulations complexes.

Le 28 septembre 1961, un premier coup d’État militaire à Damas prononce la rupture avec Le Caire et rétablit une République bourgeoise dominée par ses éléments traditionnels contre lesquels la réaction égyptienne ne peut qu’être mesurée. Le 8 mars 1963, un second pronunciamento militaire conduit par le capitaine druze Salim Hatoum renverse le régime civil, rappelle les officiers limogés, dont Hafez el-Assad, pendant la période unioniste ou la république “sécessionniste” et remet le pouvoir au parti Baath renforcé par sa prise du pouvoir en Irak un mois plus tôt. L’armée passe cependant sous le contrôle du comité militaire animé par les Alaouites. Devenu chef de l’Armée de l’Air, Assad y met sur pied, dès 1963 et dans la plus stricte illégalité, un service de renseignements efficace relayé dès 1965 au niveau de l’action par une milice au statut ambigu, les Détachements de Défense (saraya ad-difaa) qu’il confie à son frère Rifaat, passé en 1962 de l’administration des douanes au service de l’Armée. Le 23 février 1966, un nouveau putsch militaire chasse la vieille garde politique du Baath. Le Chrétien Aflaq et le Sunnite Bitar prennent le chemin de l’exil, remplacés par l’aile gauchiste du Parti pilotée par des militaires populistes sous la direction de Salah Jedid. Ce dernier commet l’erreur des bourgeois damascènes en abandonnant le contrôle de l’armée pour se consacrer à une action politique qu’il veut  résolument socialiste et nationaliste sans référence réelle aux intérêts particuliers de sa communauté. Hafez el-Assad devient ministre de la Défense et asseoit son emprise sur l’Armée, laissant son rival s’user en projets généreux et utopiques, sans omettre de saisir toute occasion de saper subtilement son pouvoir et ses plans. Le 25 février 1969, l’Armée prend le contrôle du pays et, sans chasser Salah Jedid, l’oblige à mettre un terme à ses expériences progressistes devenues impopulaires et à son monopole sur les décisions politiques en rappelant aux affaires des membres de l’establishment traditionnel ainsi que des ténors de diverses formations politiques. Jouant sur ce pluralisme qu’il a suscité, Hafez el-Assad, sans apparaître personnellement, fait prononcer le 12 novembre 1970 la destitution de Jedid, l’arrestation des officiers qui lui sont encore hostiles et prend enfin le contrôle de l’État qui lui sera officiellement confié début 1971 par son accession à la Présidence largement plébiscitée.

 Notes

[1] En 1994, la Syrie compte environ 13 millions d’habitants. Les minorités non sunnites et/ou non arabes représentent environ 35% de la population (extrapolations selon la méthode préconisée par Seurat, 1980:92): Alaouites (12%), Chrétiens de diverses obédiences (7%), Kurdes (6%), Druzes (5%), Arméniens (3%), Divers (Juifs, Tcherkesses, Assyriens, etc…environ 2%).

[2] “La guerre sainte est légitime…contre ces sectateurs du sens caché, plus infidèles que les Chrétiens et les Juifs, plus infidèles que les idôlatres, qui ont fait plus de mal à la religion que les Francs…”. (Cité par Pipes 1989:434.)

[3] Si l’on prend cette évolution en considération, les controverses entre Perthes (1992:105-113) et Landis (1993:143-151) ou entre Pipes (1989:429-450) et Sadowsky (1988:168), que l’auteur n’a ni vocation ni surtout autorité à trancher, peuvent apparaître comme la vision d’un même phénomène selon deux perspectives différentes.

[4] D’où le nom d’Alaouites qui leur a été donné par les Sunnites (‘Alawiyyîn, partisans de Ali); comme il a été donné, sans qu’il y ait aucun lien entre eux, à l’actuelle dynastie filalienne marocaine qui revendique sa descendance au Prophète via Abdallah Kamil, l’un des arrière petit fils de Ali et Fatima, qui serait venu s’installer au Tafilalet. Selon les périodes, les Alaouites de Syrie se désignent eux-mêmes sous le nom d’Alaouites quand ils souhaitent entretenir la confusion sur leur appartenance à l’Islam chiite ou sous celui de Nosaïris quand ils entendent être clairement distingués des Musulmans.

[5] Jusqu’aux années 60, les familles aisées des grandes villes de Syrie et du Liban “embauchaient” comme bonnes à tout faire des fillettes alaouites dès l’âge de huit ou dix ans. L’enfant étant mineur, une somme forfaitaire était versée , au titre de sa rémunération et pour solde de tout compte, au père ou au représentant légal qui abandonnait de facto tout élément de puissance parentale au profit de l’employeur. Prise en charge, mais non rémunérée, par la famille d’accueil, l’enfant entrait alors dans une vie de quasi-esclavage. La mémoire collective de cette pratique séculaire courante, que l’on se garde bien d’évoquer aujourd’hui, a pesé extrêmement lourd dans les formes de l’établissement du pouvoir alaouite en Syrie et dans son comportement au Liban.

[6] La taqiya (aussi connue sous le nom persan de ketman) est, très grossièrement, la faculté laissée au croyant de dissimuler son appartenance ainsi que de mentir ou de ne pas tenir ses engagements pour protéger la collectivité ou sa propre personne en tant que membre de la communauté.

[7] Voir carte

[8] Littéralement, “ceux qui habitent le jurd (zone de la montagne où rien ne pousse)”. De fait, avec la cession du Sandjak, cette confédération s’est trouvée pratiquement réduite en territoire syrien à sa composante Kalbiyyeh sous le nom desquels on la désigne usuellement..

[9] Une légende tenace veut que Hafez el-Assad se rattache au clan Noumeïtila de la confédération des Matawira, sans doute parce que ces derniers ont été les premiers de la communauté à investir les circuits de pouvoir en Syrie et qu’il était alors inconcevable qu’un Kalbiyyeh pût avoir des prétentions à ce sujet. On remarque aussi que Qardaha, village situé à l’extrémité sud du territoire des Jurûd, à quelques kilomètres de Matwa, est limitrophe du territoire des Matawiras. La même confusion s’attache à d’autres responsables actuels du régime (Mohammed el-Khouli, Ali Aslan). Voir sur ce point Le Gac (1991:78-79).

[10] Sur le passage d’un référentiel de solidarité à l’autre, voir Khalaf (1993:178-194)

[11] Il convient de noter que de 1946 à 1958 , sous la pression des diplomaties anglo-saxonnes pour la constitution d’un Pacte anti-soviétique ancré à Baghdad et pour la protection des accès aux ressources pétrolières, le Moyen Orient était dominé par les faits séoudite et hachémite. L’édification d’un grand “Royaume arabe” était encore un mythe vivace et la seule alternative offerte était le ralliement, à partir de 1952, au panarabisme nassérien peu sensible aux intérêts minoritaires.

[12] Plusieurs auteurs cités par Pipes (1989:429) font allusion à des réunions “secrètes” tenues dans les années 60 entre responsables civils, militaires et religieux de la communauté pour mettre au point une stratégie clandestine de prise et de gestion du pouvoir organisée dans ses moindres détails. L’impartialité de ces auteurs -quand ils ne se réfugient pas dans l’anonymat – est cependant sujette à caution et ils n’apportent guère d’éléments incontestables permettant d’étayer l’idée d’une démarche aussi élaborée.

[13] Les quatre grandes confédérations alaouites se partagent en “shamsites” (Haddâdîn, Khayyâtîn) et en “Qamarites” (Jurûd, Matawira) suivant des considérations subtiles sur l’importance religieuse respective qu’ils accordent au Soleil (shams) et à la Lune (qamar). Lors de sa brève existence sous le mandat français, l’État des Alaouites s’était doté d’un drapeau représentant un soleil flamboyant sur fond blanc, témoignant à la fois une distance par rapport aux couleurs et symboles traditionnels de l’Islam et la dominance des confédérations du sud.

lundi, 23 janvier 2012

L’Argentine, nouvelle cible de l’Empire britannique

banderaargentina.jpg

L’Argentine, nouvelle cible de l’Empire britannique

 

Ex: http://mbm.hautetfort.com                                                                                                                                                   

 

20 janvier 2012 (Nouvelle Solidarité) – Le ministre des Affaires étrangères argentin, Hector Timerman a rappelé aujourd’hui ce célèbre fait historique à la communauté internationale, alors que David Cameron, Premier ministre britannique arrivait hier à convaincre son Conseil national de sécurité de discuter de la défense de l’enclave coloniale dans les îles Malouines (rebaptisées Falkland Islands par sa Majesté).

 

Cameron s’est ridiculisé devant le Parlement anglais, arguant que la rencontre avec ses principaux chefs militaires et du renseignement était nécessaire pour envoyer un « message clair » à l’Argentine, accusée d’agir comme un « agresseur colonial » !

Timerman a aussitôt retourné l’accusation : « le Royaume-Uni est synonyme de colonialisme ». N’est-il pas en effet un peu exagéré que l’Angleterre accuse l’Argentine d’être colonialiste alors que cette dernière est elle-même la victime d’une situation héritée « du colonialisme » acceptée par les Nations-Unies.

De son côté, le Ministre de l’intérieur argentin Florencio Randazzo a interprété les remarques de Cameron comme étant offensantes à la lumière de l’histoire de la Grande-Bretagne. « Les annales montrent sans ambiguïté comment elle s’est comportée dans le monde ».

Mais les Britanniques comptent aller bien plus loin que la simple défense de « leur » enclave colonialiste dans la région. Le Secrétaire d’Etat aux Affaires Etrangères William Hague a affirmé les semaines précédentes que l’Angleterre avait l’intention de rétablir la domination directe dont l’Empire a bénéficié au XIXe siècle sur la région ibéro-américaine. Hague a expliqué au Daily Telegraph le 14 Janvier dernier que son voyage au Brésil, qu’il vient d’entamer, « inverse des décennies de retrait britannique en Amérique Latine... Maintenant je pense qu’il est clairement compris par tous dans les capitales de la région que l’Empire britannique s’étend et qu’il est de retour ».

L’attaque britannique (et c’est une attaque !) vise à refaire du Brésil une base stratégique forte de L’Empire, un rôle colonial relégué au Brésil, et ce depuis que la famille royale portugaise y fut emmenée sur des bateaux de guerre en 1807 pour mettre en place ce que devait être « l’Empire brésilien ». Hague souligne dans le Telegraph le fait que le Royaume-Uni est particulièrement intéressé par le Brésil, se vantant que le gouvernement de Cameron est entrain de « tripler, voire quadrupler nos efforts dans la relation avec le Brésil ». Son voyage était l’ouverture d’un dialogue stratégique « Royaume-Uni - Brésil », les Malouines, l’Iran et la Syrie étant bien loin dans son agenda.

Et si la Libye devenait le nouveau sanctuaire d’al-Qaïda ?

Et si la Libye devenait le nouveau sanctuaire d’al-Qaïda ?

La nébuleuse djihadiste serait-elle en passe de quitter le Pakistan pour la Libye?

Des sympathisants d’Oussama Ben Laden le 6 mai 2011. Reuters/Naseer Ahmed

 

D’après le Guardian,  qui cite des sources proches de mouvements islamistes en Afrique du Nord, Al-Qaida serait progressivement en train de migrer des zones tribales du Pakistan vers l’Afrique du Nord. Derrière cette nouvelle stratégie se cache notamment un homme, Abu Yahya al-Libi, numéro 2 officieux d’Al-Qaida qui semble suivre les événements libyens de très près. Deux membres très expérimentés d’Al-Qaida auraient déjà rejoint la Libye et plusieurs autres djihadistes ont récemment été arrêtés en chemin. Sous les coups des forces de l’OTAN en Afghanistan et au Pakistan, les militants d’Al-Qaida chercheraient à trouver refuge en Afrique du Nord et dans le Sahel, des régions qui leur offrent actuellement des conditions optimales pour prospérer.

Nébuleuse djihadiste en Afrique

L’influence d’Al-Qaida au Maghreb Islamique s’accroît en Afrique. Au Nigeria, la secte Boko Haram qui a revendiqué les attentats sanglants contre la communauté chrétienne, a vu plusieurs de ses combattants nouer des liens avec AQMI et les Shebabs en Somalie. «Les liens entre l’AQMI et Boko Haram étaient très faibles au départ, mais depuis deux ans environ on peut penser qu’il y a davantage de ramifications, notamment sur le plan logistique» explique Philippe Hugon, directeur de recherche à l’IRIS. Les enlèvements de plus en plus fréquents de ressortissants occidentaux au Mali et au Niger, ainsi que les combats en Somalie entre les milices shebab et les soldats kenyans et éthiopiens, confirment que les combattants islamistes n’ont jamais été aussi puissants dans cette partie du monde.

L’Afrique du Nord et plus précisément l’Algérie et la Libye pourraient être les prochaines destinations des djihadistes. Dans une récente vidéo datée du 5 décembre, Abu Yahya al-Libi a expliqué que la révolution libyenne ne sera réellement achevée que lorsque la charia aura été proclamée. S’adressant aux combattants libyens, il leur a ordonné de ne pas rendre leurs armes, sous peine d’être à nouveau «réduits en esclavage» comme sous le régime du colonel Kadhafi. Cette vidéo n’est pas la première. Le 29 octobre dernier, il avait exprimé le même message aux combattants libyens.

Des armes françaises aux mains d’al-Qaïda?

La question des armes apparaît primordiale. Depuis plusieurs semaines, les autorités libyennes peinent à désarmer les katibas ayant combattu les troupes de Mouammar Kadhafi. De nombreux pays, dont la France, ont fourni des armes aux combattants rebelles. Sauf que ces armes circulent rapidement via un trafic d’armes organisé en Libye et au nord du Sahel.  Mokhtar Belmokhtar, l’un des leaders d’Aqmi, a d’ailleurs affirmé en avoir «tout naturellement» récupéré une partie.

Alors que «deux membres très expérimentés d’Al-Qaida» seraient actuellement en Libye, on peut soupçonner Abu Yahya al-Libi, ressortissant libyen, d’être très attentif à leurs prochaines actions. Celui-ci (dont le vrai nom est Mohamed Hassan Qaïd) est souvent présenté comme le réel successeur d’Oussama Ben Laden.

Aussi bon théologien que grand communiquant (entre 2001 et 2002, à Karachi, au Pakistan, il occupa le poste de webmaster pour le site Internet des talibans Al-Imarah al-Islamiyah), il était à la fin des années 1980 parmi les premiers membres du Groupe de combat islamique libyen (GCIL) avant de faire l’essentiel de sa «carrière» en Afghanistan et au Pakistan. Arrêté par les services de renseignements pakistanais le 28 mai 2002 et incarcéré à la prison de Bagram en Afghanistan, il réussit à s’échapper le 10 juillet 2005, construisant ainsi une grande partie de sa légende auprès des aspirants djihadistes. Abu Yahya al-Libi, officiellement directeur du comité de droit d’al-Qaida, serait le véritable numéro 2 de l’organisation, selon Jarret Brachman, expert américain en contre-terrorisme, qui estime qu’il a l’aura et les compétences pour être le nouveau maître à penser d’Al-Qaida. «Je ne parle pas de chef au sens propre, mais d’un pouvoir bien plus important et imprévisible: le pouvoir d’inspirer.»

Des membres d’al-Qaïda parmi les combattants anti-Kadhafi?

En juillet, certains, citant la division «intelligence» de l’Otan, estimaient à 200 à 300 hommes le nombre de membres d’Al-Qaïda parmi les combattants libyens anti-Kadhafi. Ces djihadistes avaient été recrutés au début des années 1990 par deux lieutenants d’Oussama Ben Laden: Abu Laith al-Libi (sans lien de parenté), aujourd’hui décédé, et Abu Yahya al-Libi.

Plus nombreux, les anciens miliciens du GICL d’Abdelhakim Belhadj auraient rompu définitivement avec Al-Qaida en 2007 (bien que Belhadj affirme n’avoir jamais eu de lien avec Oussama Ben Laden).

«Le nouveau maître de Tripoli» et ses troupes semblent avoir joué le jeu de la coopération avec les occidentaux et le Qatar lors de la guerre civile libyenne jusqu’à devenir «l’islamiste fréquentable aux yeux des occidentaux». Une arrivée massive de combattants d’Al-Qaida et de djihadistes internationalistes dans la région pourrait donc clairement changer la donne.

Arnaud Castaignet

Krantenkoppen Januari 2012 (3)

Krantenkoppen

Januari 2012 (3)

UNGARN: JOBBIK-PARTEI SETZT EUROPA-FAHNE IN BRAND:
 
 
KRITIEK OP HONGARIJE IS ZWAAR BEVOOROORDEELD:
"De Hongaarse regering krijgt zoveel kritiek omdat zij christelijk-conservatief is. (...) Maar wie de nieuwe Hongaarse grondwet goed leest en het Hongaarse nieuws objectief volgt, kan maar één ding concluderen: Orbán is goed voor zijn volk, dat nog steeds terecht massaal achter hem staat."
 
 
BOE-GEROEP VOOR ORBAN IN EUROPARLEMENT:
"De Hongaarse premier Viktor Orbán (...) was naar Straatsburg gekomen om (...) informatie uit de eerste hand te geven over nieuwe wetgeving in Hongarije (...): 'Wij koesteren christelijke gevoelens, wij geloven erin deel uit te maken van een natie en wij vinden dat familie belangrijk is. Misschien zijn we met dit standpunt een minderheid in Europa, maar we hebben het recht op onze mening'."
http://www.trouw.nl/tr/nl/4496/buitenland/article/detail/3127985/2012/01/19/Boe-geroep-voor-Orban-in-Europarlement.dhtml
 
 
COURT CONVICTS 4 ISRAELIS OF HEADING INTERNATIONAL HUMAN TRAFFICKING RING:
"The Tel Aviv District Court convicted Thursday 4 Israelis of heading a massive human-trafficking ring that reached out of Israel’s borders to such countries as Cyprus, Belgium and England, forcing hundreds of women into prostitution. (...) [They] used a network [of] hundreds of young women in towns and villages in Russia, Ukraine, Belarus, Moldova and Uzbekistan":
 
 
HOMOSEKSUALITEIT KAN WORDEN GENEZEN:
"In de verklaring noemen 162 rabbijnen en joodse leiders homoseksualiteit een ziekte die niet is aangeboren":
http://www.nu.nl/binnenland/2716937/homoseksualiteit-kan-worden-genezen.html
 
 
RUSSIA WARNS US AGAINST ATTACK ON IRAN:
Russia has warned that it would consider any NATO military action against Iran a ‘direct threat’ to its national security. (...) The comments come one day after the secretary of the Security Council of the Russian Federation, Nikolai Patrushev, warned about the Israeli lobby’s efforts to drag the US into a military confrontation with Iran: 'There is a likelihood of a military conflict escalation, to which the Americans are being pushed by Israel'.
http://americanfront.info/2012/01/15/russia-warns-us-against-attack-on-iran/
 
 
REGIONALE ECONOMIE LOST CRISES OP:
"In de afgelopen decennia heeft in politiek en bedrijfsleven de nadruk op mondiale vrije markten, winstmaximalisatie, schaalvergroting en schaalvoordelen gelegen. Als gevolg van dit beleid nam het aantal lokale bedrijven af, net zoals de diversiteit (overal zien we dezelfde producten). Tegelijk zagen we een stijging van de inkomensongelijkheid en de mondiale onbestuurbaarheid. 
Financiële, ecologische en sociale problemen zijn zo opgeschaald van lokaal naar mondiaal niveau. De efficiëntie uitgedrukt in geld is gestegen, maar de tijd-, materie- en energie-efficiëntie (die veel belangrijker zijn) zijn steeds verder gedaald. Het is tegenwoordig veel goedkoper paperclips, kerstballen en kleding te fabriceren in China en deze vervolgens naar Nederland te transporteren, dan deze zelf hier te maken. (...) Nagenoeg al onze productieketens zijn verspillend qua tijd, materie en energie. En dus oneconomisch. (...)
Het kleiner maken van markten versterkt de lokale economie. Waarom een bloemkool de halve wereld over sturen als hij in de supermarkt om de hoek kan worden verkocht? Als je alleen maar kijkt naar het financiële effect, zie je al grote voordelen: van een product, dat plaatselijk is geproduceerd en wordt verkocht in een winkel van een lokale eigenaar, blijft zeker de helft van de winst in de eigen regio. Als je eenzelfde product koopt in een internationale winkelketen, die het centraal inkoopt, blijft hooguit 15% van de winst hier. De rest gaat naar producenten elders en naar anonieme aandeelhouders, die dat geld weer anoniem beleggen. Zo verdwijnt steeds meer geld van consumenten en kleine ondernemers naar de geldhandel van multinationals en banken. (...)
In veel gevallen is een regionale economie voordeliger. Zo leidt besluitvorming op regionaal niveau tot meer transparantie en directe aansprakelijkheid; inwoners van een regio houden eerder rekening met de natuur en de gemeenschap, omdat zij zich betrokken voelen en zelf moeten leven met de gevolgen. Het is gemakkelijker om op regionaal niveau productieprocessen te volgen en aan te passen. Regionale productie leidt tot minder transport. Daarnaast zijn werknemers in regionale economieën onafhankelijk van besluiten van multinationals en internationale financiële instellingen om bijvoorbeeld de activiteiten te verplaatsen naar ontwikkelingslanden. 
Ook biedt een regionale economie de mogelijkheid om een complementaire munteenheid in te voeren die ongevoelig is voor fluctuaties op de wereldmarkt. Regionale energie en voedselproductie maakt een regio onafhankelijk van prijsstijgingen van de mondiale markten.
Zelfs de diversiteit binnen de wereldgemeenschap neemt toe als overal bloeiende regionale economieën ontstaan; elke regio heeft de vrijheid om de economie en de productieketens op zijn eigen manier te organiseren waardoor er een grote variatie van leefstijlen ontstaat."
 
 
WIE VOLGT IN VERLAGING VAN KREDIETWAARDIGHEID?
"Duitsland kan volgens experts zijn ‘AAA’-status verliezen. Volgens de Duitse regeringsadviseur Clemens Fuest zit de eurozone in een 'downgrade'-spiraal naar beneden, waar moeilijk uit valt te ontsnappen. (...) De kans dat Duitsland daardoor zijn topoordeel van 'AAA' verliest is volgens hem ‘50-50’.":
http://fd.nl/economie-politiek/500223-1201/wie-volgt-in-verlaging-van-kredietwaardigheid?visited=true
 
 
LINDE-CHEF: RIETZLE LIEBÄUGELT MIT EURO-AUSTRITT:
"Als erster Chef eines Dax-Konzerns hat sich Linde-Chef Wolfgang Reitzle offen einen möglichen Austritt Deutschlands aus dem Euro-Raum gezeigt. Er (...) sei 'nicht der Meinung, dass der Euro um jeden Preis gerettet werden muss'. (...) Und 'wenn es nicht gelingt, die Krisenländer zu disziplinieren, muss Deutschland austreten'.":
http://www.handelsblatt.com/unternehmen/industrie/reitzle-liebaeugelt-mit-euro-austritt-deutschlands/6068498.html
 
 
IRAN WARS EPISODE 1: THE GULF MENACE:
"Today Iran's Revolutionary Guards operate over 1,500 small boats, which can be easily hidden in the coastal zone and do not need a large port to provide supplies. Most of these boats can be or already are equipped with short-range missiles and mines. An unexpected attack of a group of such boats can bring down almost any vessel that dares to enter Iranian waters":
https://rt.com/news/iran-military-power-conflict-565/
 
 
ISRAELI AGENTS POSED AS CIA TO RECRUIT TERRORISTS:
"Washington was initially unaware that agents working for Mossad, the Israeli intelligence agency, were recruiting Iranian terrorists under the guise that they would be hired and trained by the CIA":
http://rt.com/usa/news/israel-cia-mossad-iran-763/