lundi, 28 mai 2012
Il Canale di Suez alla luce della “primavera egiziana”
Il Canale di Suez alla luce della “primavera egiziana”
Eliana Favari
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/
Il Presidente della Suez Canal Port Authority ha recentemente annunciato che, nonostante la grave crisi economica che ha colpito l’Egitto negli scorsi mesi e la diminuzione del numero di navi che hanno attraversato il Canale, i guadagni provenienti dai traffici nel 2011 sono aumentati di quasi mezzo milione di dollari rispetto all’anno precedente. Il Canale di Suez oltre ad essere una delle più importanti fonti di reddito del Paese è anche un indicatore delle attività commerciali mondiali. Gli interessi vitali che gravitano attorno ad esso coinvolgono, oltre all’Egitto, vari attori della comunità internazionale, a cominciare da Israele e Stati Uniti.
A livello globale e regionale l’importanza geopolitica e commerciale del Canale di Suez, che tra non molto compirà 150 anni, non può essere sottovalutata. Il Canale è la più breve via di navigazione internazionale che collega il Mar Mediterraneo con Port Said e il Mar Rosso. La sua importanza, dettata in primo luogo dalla particolare posizione geografica, è legata sia all’evoluzione del trasporto marittimo degli ultimi anni (2/3 del commercio mondiale avviene via mare) che del commercio mondiale in generale. Secondo gli ultimi dati ufficiali, quotidianamente passa per il Canale l’8% del commercio mondiale marittimo e circa 2,4 milioni di barili di petrolio. Inoltre, attraverso il gasdotto SuMed, che collega Ein Sukhna sul Golfo di Suez con Sidi Krir sulla costa del Mediterraneo, passa ogni giorno l’equivalente di 2,5 milioni di barili di petrolio (circa il 5,5% della produzione mondiale)1. Durante la crisi che ha portato alla caduta di Mubarak è bastato lo spettro della sua chiusura (com’era già accaduto all’inizio della Guerra dei sei giorni del 1967) per influire sul prezzo del greggio, ma l’allarme è rientrato quando la giunta militare ha deciso l’invio di unità speciali a guardia delle sue rive. Gli scenari di crisi ipotizzati sulle gravi conseguenze negative per l’economia marittima a seguito dell’eventuale chiusura del Canale sono drammatici. Di certo verrebbero penalizzati quei paesi, come ad esempio l’Italia, la cui economia dipende completamente dal trasporto marittimo. Questo è già avvenuto tra il 1967 e il 1975, durante i lunghi anni della chiusura del Canale nel corso dei quali sono state adottate strategie alternative e a costi maggiori, sviluppando il trasporto del petrolio con superpetroliere lungo la rotta del Capo di Buona Speranza.
Nei mesi successivi alle rivolte, nel febbraio 2011, è sorto un nuovo caso che ha rotto la monotona routine del Canale di Suez: il transito di due navi da guerra iraniane dirette in Siria ha messo in allarme in primo luogo Israele. Dopo giorni di annunci e smentite, due navi da guerra iraniane sono entrate nel Canale di Suez e si sono dirette verso il Mediterraneo per una missione di addestramento. Era la prima volta in trent’anni che le navi militari iraniane attraversavano il canale. Le relazioni tra Egitto e Iran si sono interrotte dopo la Rivoluzione islamica iraniana del 1979 e con il Trattato di pace tra Egitto e Israele dello stesso anno. Questa operazione, definita una “provocazione” dal Ministro degli Esteri israeliano, è stata considerata il primo passo verso il riavvicinamento tra i due Paesi. In molti hanno visto nell’atteggiamento dell’Iran un tentativo di rompere il suo isolamento e di estendere la sua influenza nel Medio Oriente, in parte anche a causa dell’attuale instabilità del suo alleato principale della regione, la Siria. Questa prospettiva ha allarmato soprattutto gli storici alleati dell’Egitto, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, ma anche Israele e gli Stati Uniti.
Le questioni fin qui esposte inducono a riflettere sulla complessità degli interessi che ruotano attorno al canale di Suez, ed è bene quindi analizzare gli aspetti storico-giuridici correlati per avere un chiaro punto della situazione. L’art. I della Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888 relativa alla libera navigazione del Canale di Suez che ancor oggi ne disciplina il regime di transito recita: “Il Canale marittimo di Suez sarà sempre libero ed aperto, in tempo di guerra come in tempo di pace, ad ogni nave mercantile o da guerra, senza distinzione di bandiera”2. Secondo questo accordo (di cui è parte anche l’Italia) il Canale è soggetto ad un regime di demilitarizzazione. Questo significa che nessun atto di ostilità può essere compiuto al suo interno, ma esso può essere usato da nazioni belligeranti, in tempo di guerra, per eseguire azioni in aree esterne. Tale regime fu strettamente osservato nel corso delle due guerre mondiali, ed anche nel 1936 durante la campagna dell’Italia contro l’Etiopia. Al termine della crisi di Suez del 1956 seguita alla nazionalizzazione della Compagnia del Canale da parte del presidente Nasser, l’Egitto s’impegnò con la Dichiarazione del 24 luglio 1957 a “mantenere libero il Canale e non interrompere la navigazione a favore di tutte le Nazioni entro i limiti e in accordo con le previsioni della Convenzione di Costantinopoli del 1888”3. L’impegno dell’Egitto a rispettare tale regime non impedì tuttavia di applicare il divieto di transito nei confronti di navi israeliane. Il divieto fu successivamente esteso a qualsiasi carico diretto in Israele, a prescindere dalla bandiera della nave utilizzata per il trasporto, con motivazioni di vario genere riconducibili, in sostanza, alla tesi che il governo egiziano avesse il diritto, in ragione delle ostilità in corso, di adottare misure difensive. La situazione di ostilità tra i due paesi sfociò nel conflitto del giugno 1967, durante il quale Israele occupò la Penisola del Sinai sino alle rive del Canale, mentre l’Egitto bloccò il transito della via d’acqua mediante l’affondamento di quindici navi. Il Canale fu chiuso sino al 1975.
La situazione e le relazioni tra i due Paesi cambiarono con il Trattato di pace del 1979 seguito agli accordi di Camp David tra Sadat, Begin e Carter secondo il quale le “navi di Israele godranno del diritto di libertà di transito attraverso il Canale di Suez e delle sue rotte di avvicinamento lungo il Golfo di Suez ed il Mediterraneo sulla base della Convenzione del 1888…”4. Lo stesso Trattato riconosce inoltre che lo Stretto di Tiran ed il Golfo di Aqaba sono vie d’acqua internazionali aperte alla libertà di navigazione di tutte le Nazioni. In aggiunta a questo riconoscimento internazionale dei diritti di Israele, un’ulteriore garanzia è costituita dal Memorandum bilaterale del 1979 con cui gli Stati Uniti, sulla base del Trattato di Pace dello stesso anno, si impegnano ad adottare le misure necessarie a proteggere gli interessi di Israele relativi alla libertà di passaggio nel Canale e alla navigazione nello Stretto di Tiran e nel Golfo di Aqaba. Tali previsioni sono volte in sostanza ad impedire un nuovo blocco marittimo a Israele.
In teoria, quindi, nulla impedisce all’Iran di far transitare proprie navi. A fronte dei diritti di Israele garantiti dagli accordi appena ricordati vi è il generico diritto di cui gode l’Iran, al pari di qualsiasi altra nazione, di avvalersi del regime stabilito dalla Convenzione del 1888. Correttamente, perciò, l’Autorità del Canale ha gestito il caso in modo asettico adottando un basso profilo. Le unità iraniane (una vecchia fregata di costruzione britannica ed una grossa nave appoggio, entrambe dotate di armamento tradizionale) hanno atteso nei pressi di Jedda qualche giorno. Poi sono entrate nel Canale di Suez dirigendosi verso il Mediterraneo per una missione di addestramento ad attività antipirateria in Siria. Apparentemente niente di straordinario, dunque, anche se pare che l’Egitto negli ultimi trent’anni avesse sempre fatto in modo che l’Iran non avanzasse richieste di transito. Da questo punto di vista è chiaro che l’Iran ha abilmente sfruttato la caduta di Mubarak per mettere piede nel Mediterraneo e testare la politica estera del nuovo governo militare egiziano. Peraltro l’Egitto dopo il 1975 ha sempre autorizzato il transito di unità israeliane, compresi i sommergibili classe “Dolphin” dotati di missili balistici diretti nel Golfo Persico. Altro problema è che la presenza iraniana nel Mediterraneo è stata considerata una sfida ravvicinata alla sicurezza di Israele. Ma questo non riguarda il Canale, quanto piuttosto l’assetto geopolitico dello stesso Mediterraneo che, è bene ricordarlo, non è né un mare chiuso come il Mar Nero né una zona smilitarizzata.
Un mese dopo il passaggio delle navi iraniane, il ministro degli Esteri egiziano, Nabil al-Arabi, e il suo omologo iraniano, Ali Akbar Salehi, hanno espresso pubblicamente la volontà di rilanciare i rapporti tra i loro Paesi. «Egiziani ed iraniani meritano di avere relazioni reciproche che riflettano la loro storia e civiltà: l’Egitto non considera l’Iran come un Paese nemico», ha dichiarato al-Arabi, mentre secondo Salehi «le buone relazioni tra i due Paesi aiuterebbero a riportare la stabilità, la sicurezza e lo sviluppo nell’intera regione»5. Ma a preoccupare maggiormente Israele sono state le successive dichiarazioni del Ministro egiziano, il quale ha riconosciuto Hezbollah come parte del tessuto politico e sociale del Libano ed ha affermato di voler intraprendere relazioni più distese con la Siria e con Hamas. A conferma di ciò, non solo è stato riaperto il valico di Rafah, ma i leader di Hamas si sono incontrati con le autorità egiziane per la prima volta alla sede del Ministero degli Esteri, e non in un hotel: un segnale che l’Egitto considera Hamas un partner diplomatico e non più solo un “rischio per la sicurezza”.
Tuttavia, secondo alcuni analisti il riavvicinamento tra Egitto e Iran non dovrebbe causare troppe preoccupazioni perché, per il momento, non si tradurrà in un’alleanza strategica e non andrà ad alterare le alleanze già esistenti sia con i Paesi arabi del Golfo come l’Arabia Saudita che con gli Stati Uniti. La portavoce del Ministero degli Esteri egiziano ha infatti dichiarato: «L’Iran è un vicino regionale con il quale si sta cercando di normalizzare le relazioni. L’Iran non è percepito né come un nemico, come lo era durante l’ex regime, né come un amico»6.
Un personaggio chiave che ha sempre spinto per la ripresa dei rapporti tra i due paesi è Amr Mousa, ex segretario della Lega Araba, ex Ministro degli Esteri egiziano e uno dei favoriti alla successione di Mubarak. Attraverso una politica filo-iraniana, alternativa agli USA ed all’Arabia Saudita, e soprattutto ostile ad Israele, Mousa ha cercato il consenso dei vari partiti formatisi dopo lo tsunami politico causato dalle proteste di febbraio, trovando nell’islamismo il collante giusto per conquistare il potere. Sulla stessa linea si muove Fahmi Howeydi, analista esperto in geopolitica, giornalista e intellettuale. L’ipotesi lanciata da Howeydi ha una logica perfetta, cercando di aggirare il millenario ‘scisma’ tra sunniti e sciiti. Secondo Howeydi il nuovo Egitto dovrebbe rispondere alle richieste del popolo, e quindi prendere le distanza dall’Occidente e dal suo alter ego regionale: Israele. Inoltre, per consolidare la stabilità del Medio Oriente si dovrebbe puntare alla creazione di una triplice alleanza tra Iran, Egitto e Turchia. Una politica estera in grado di mantenere buoni rapporti, ma più equilibrati, con gli USA e di ristabilire l’influenza del paese come leader regionale è fortemente sostenuta a livello popolare dalla maggior parte degli egiziani. La caduta del regime di Mubarak ha creato una situazione politica in cui l’Egitto si è schierato maggiormente a favore del popolo palestinese e sta prendendo le distanze da Israele. Tuttavia, l’Egitto e l’Iran hanno opinioni divergenti sulla questione palestinese: l’Egitto chiede ulteriori negoziati nella regione per una Palestina stabile, mentre l’Iran continua ad incoraggiare la resistenza nei confronti di Israele. D’altra parte, l’Egitto è ben consapevole dell’importanza crescente dell’Iran nel Medio Oriente e della sua influenza su alcune forze regionali, tra cui Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, e gli sciiti in Iraq. Tuttavia, il pieno significato dei rapporti tra Egitto e Iran non è ancora stato rivelato e non è chiaro come si svilupperanno, in particolare in seguito alle elezioni presidenziali egiziane che sono in corso in questi giorni.
* Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).
NOTE:
1 http://www.suezcanal.gov.eg/
2 Fabio Caffio, Glossario di Diritto del Mare, “Supplemento alla Rivista Marittima”, nr 5/2007.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Gomaa Hamadalla, Egyptian FM: Gulf fears of Egypt-Iran détente ‘unjustified’, “al-Masry al-Youm”, 17 aprile, 2011.
6 Davis D. Kirkpatrick, In Shift, Egypt Warms to Iran and Hamas, Israel’s Foes, “New York Times”, 28 aprile 2011, accessibile su http://www.nytimes.com/2011/04/29/world/middleeast/29egypt.html?_r=2 [1] (ultimo accesso effettuato il 15 maggio 2011).
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Il mito cosmogonico degli Indoeuropei
di Giorgio Locchi
Ex: http://www.centrostudilaruna.it/
«Ich sagte dir, ich muß hier warten, bis sie mich rufen»
(Oreste, in Elektra di Hugo von Hoffmanstahl)
Il Rig-Veda dell’India antica e l’Edda germanico-nordica presentano due grandi miti cosmogonici, che concordano tra loro a tal punto che vi si può vedere a giusto titolo una duplice derivazione di un mito indoeuropeo comune. Di tale mito delle origini è forse possibile trovare qualche eco presso i Greci. Roma, come vedremo, non ha mai perso il ricordo del “protagonista” di questo dramma sacro che era, per i nostri antenati indoeuropei, l’inizio del mondo. Ma il dramma stesso non ci è pervenuto, nella sua integralità, che tramite l’intermediazione dei germani e degli indoari, di cui scopriamo così che essi ebbero, almeno quando entrarono nella “storia scritta”, e più che ogni altro popolo europeo, la “memoria più lunga.
Grazie ai suoi ammirevoli lavori sulla ideologia trifunzionale, Georges Dumézil ha da lungo tempo messo in luce un aspetto fondamentale, assolutamente originale, della Weltanschauung e della religione degli indoeuropei. Non meno essenziale, non meno originale ci appare la credenza istintiva nel primato dell’uomo (e dell’umano) che testimonia il mito cosmogonico indoeuropeo “conservato” nel Rig-Veda e nell’Edda. Per l’indoeuropeo, in effetti, l’uomo è all’origine dell’universo. E’ da lui che procedono tutte le cose, gli dèi, la natura, i viventi, lui stesso infine in quanto essere storico. Tuttavia, come rimarca Anne-Marie Esnoul, «questo cominciare non è che un un cominciare relativo: esiste un principio eterno che crea il mondo, ma, dopo un periodo dato, lo riassorbe» (La naissance du monde, Seuil, Parigi 1959). L’uomo, presso gli indoeuropei, non è soltanto all’origine dell’universo: è l’origine dell’universo, in seno al quale l’umanità vive e diviene. Giacché all’inizio, dice il mito, vi era l’Uomo cosmico: Purusha nel Rig-Veda, Ymir nell’Edda, Mannus, citato da Tacito, presso i germani del continente (Manus, in quanto antenato degli uomini, essendo parimenti conosciuto presso gli indiani).
Nel decimo libro del Rig-Veda, il racconto dell’inizio del mondo si apre così:
«L’Uomo (Purusha) ha mille teste;
ha mille occhi, mille piedi.
Coprendo la terra da parte a parte
la oltrepassa ancora di dieci dita.
Purusha non è altro che quest’universo
Ciò che è passato, ciò che è a venire.
Egli è signore del dominio immortale,
perché cresce al di là del nutrimento».
E’ da Ymir, Uno indiviso anche lui, che procede la prima organizzazione del mondo. Il Grimnismál precisa:
«Della carne di Ymir fu fatta la terra,
il mare del suo sudore, delle sue ossa le montagne,
gli alberi furono dai suoi capelli,
e il cielo del suo cranio».
Le cose avvengono nello stesso modo nel Rig-Veda:
«La luna era nata dalla coscienza di Purusha,
dal suo sguardo è nato il sole,
dalla sua bocca Indra e Agni,
dal suo soffio è nato il vento.
Il dominio dell’aere è uscito dal suo ombelico,
dalla sua testa evolse il sole,
dai suoi piedi la terra, dal suo orecchio gli orienti;
così furono regolati i mondi».
Purusha è anche Prajapati, il «padre di tutte le creature». Giacché gli dèi stessi non costituiscono che un “quartiere” dell’Uomo cosmico. Ed è da lui solo che in ultima istanza proviene l’umanità. Si legge nel Rig-Veda:
«Con tre quartieri l’Uomo (Purusha) s’è elevato là in alto,
il quarto ha ripreso nascita quaggiù».
Essendo “Uno indiviso”, l’Uomo cosmico è uno Zwitter, uno Zwitterwesen, un essere asessuato o, più esattamente, potenzialmente androgino. Riunisce in sé due sessi, in maniera ancora confusa. La teologia indiana nota d’altronde che il “maschio” e la “femmina” sono nati dalla «suddivisione di Purusha», così come tutti gli altri “opposti complementari”. Ymir, quanto a lui, dormiva nei ghiacci dell’abisso spalancato (Ginungagap) tra il sud e il nord, quando due giganti, uno maschio e l’altro femmina, si sono formati come escrescenze sotto le sue ascelle. E’ parimenti da lui, o dal ghiaccio fecondato da lui, che è nata la prima coppia umana, Bur e Bestla, genitori dei primi Asi (o dèi sovrani), Wotan (Odhinn), Wili e We.
Nell’interpretazione di questi grandi miti cosmogonici non bisogna mai dimenticare che per la mentalità indoeuropea la generazione reciproca è un processo assolutamente normale: gli “opposti logici” sono sempre complementari e perfettamente equivalenti: si pongono mutualmente. E’ così che l’uomo dà nascita a, o tira da se stesso, gli dèi, mentre gli dèi a loro volta danno nascita agli uomini (o insufflano loro lo spirito e la vita). Secondo il racconto dell’Edda, più precisamente nella Voluspá:
«Tre Asi, forti e generosi,
arrivarono sulla spiaggia:
trovarono Ask e Embla,
(che erano ancora) privi di forza.
Senza destino, non avevano sensi,
né anima, né calor di vita, né un colore chiaro.
Odhinn donò il senso, Hoenir l’anima,
Lodur donò la vita e il colore fresco».
In tutta evidenza, in questo racconto, i tre Asi giocano il ruolo dei primi “eroi civilizzatori”. Ask (ovvero “frassino”) e Embla (ovvero “orma”) rappresentano un’umanità ancora “immersa nella natura”, interamente sottomessa alle leggi della specie, testimone di un’era trascorsa, quella di Bur. Se ci si pone al momento della società indoeuropea caratterizzata dalla tripartizione funzionale, ci si accorge d’altronde che le classi che assumono rispettivamente le tre funzioni appaiono come discendenti del dio Heimdal e di tre donne umane. Il Rigsmál racconta come Heimdal, avendo preso le sembianze di Rigr, generò Thrael, capostipite degli schiavi, con Ahne (“antenata”), Kerl, antenato capostipite dei contadini, con Emma (“nutrice”) e Jarl, capostipite dei nobili con “Madre”. Nel Rig-Veda, per contro, gli antenati delle classi sociali sorgono direttamente dall’Uomo cosmico primordiale:
«La bocca di Purusha divenne il brahmino,
il guerriero fu il prodotto delle sue braccia,
le sue coscie furono l’artigiano,
dai suoi piedi nacque il servo».
Così come la distribuzione delle classi è sufficiente a dimostrare, la “versione” del Rig-Veda è probabilmente la più fedele al racconto originale indoeuropeo. Non è escluso cionostante che la “versione” germanica si riallacci anch’essa ad una fonte molto antica. Heimdal, in effetti, è una figura tra le più misteriose. Dumézil ha messo ben in evidenza la particolarità essenziale di questo dio, corrispondente germanico dello Janus romano e del Vaju indiano. Cronologicamente, Heimdal è il primo degli Asi, il più vecchio degli dèi. E’ anche un dio che vede tutto: «ode l’erba spuntare sul prato, la lana crescere dalla pelle delle pecore, nulla sfugge al suo sguardo acuto», ed è questa la ragione per cui svolge il ruolo di guardiano di Asgard, la «dimora degli Asi». Dalui è proceduto l’inizio, da lui procederà anche la fine, il Ragnarok (o “crepuscolo degli dèi”) che annuncerà lui stesso dando fiato al corno. Heimdal riunisce dunque in sé tutti i caratteri dell’”Essere supremo”, oggetto di una più antica credenza che Raffaele Pestalozzi attribuiva all’umanità primitiva (cioè agli umani della fine del mesolitico), ma corresponde anche al “dio dimenticato” di cui parla Mircea Eliade, oscura reminiscenza in seno alle religioni “evolute” di una preesistente concezione della divinità. Il che lascia supporre che Heimdal non sia che una proiezione dell’”Essere supremo” degli antenati degli indoeuropei in seno alla società dei “nuovi dèi”, nello stesso modo in cui Ymir lo prolunga, in quanto “principio universale, a livello della cosmogonia (1). Una tale interpretazione è suscettibile di gettare una nuova luce sul “problema di Janus”, altra divinità misteriosa, di cui abbiamo detto che corrispondeva a Roma allo Heimdal germanico. Innumerevoli discussioni hanno avuto luogo sull’etimologia del nome “Janus”. Da qualche tempo, sembra che un accordo si stia formando nel senso di ricollegarlo alla radice indoeuropea *ya, che ha a che fare con l’idea di”passare”, di “andare”. Ma tale spiegazione non sembra molto convincente, e ci si può domandare se non vale la pena di mettere il nome “Janus” in relazione con le radici *yeu(m) o *yeu(n) (da cui il latino jungo, “congiungere”, “coniugare”), che esprimono l’idea di “unire”, di “accoppiare ciò che è separato”, dunque di “gemellare i contrari” (gli “opposti logici”). Ciò spiegherebbe bene il carattere ambiguo di questo deus bifrons, che è, come Ymir, uno Zwitter.
Si sa, del resto, che un antichissimo appellativo di Janus, di cui i romani dell’epoca di Augusto non comprendevano più esattamente il significato, è Cerus Manus, che si traduce come “buon creatore” (da *krer, “far crescere”, e da un ipotetico *man, “buono”). Noi pensiamo piuttosto che “Manus” non è che un fossile alto-indoeuropeo conservato nel latino antico, che rinvia perfettamente a “Mannus” e significa “uomo” come in germanico ed in sancrito. Il latino immanis non significa d’altronde affatto “cattivo”, “malvagio”, bensì “prodigioso”, “smisurato” (inumano: fuori dalla misura umana). Si comprende allora perché Janus, che è come Heimdal il dio dei prima (delle cose “cronologicamente prime”) è considerato, in quanto Cerus Manus, l’antenato delle popolazioni del Lazio, così come Mannus è l’antenato delle popolazioni germaniche.
Il rituale vedico, essenzialmente imperniato sulla nozione di sacrificio, fa precisamente dello smembramento, della “suddivisione” dell’Uomo cosmico (Purusha), il prototipo stesso del sacrificio. Ora, nei testi “speculativi”, questo sacrificio di Purusha ci è presentato sotto due aspetti: da un lato Purusha sacrifica se stesso, inventando così il «sacrificio imperituro»; dall’altro, sono gli dèi che sacrificano Purusha e lo “smembrano”. La questione si pone dunque di sapere se gli indiani hanno “interpretato” o se al contrario hanno conservato la tradizione indoeuropea in tutta la sua purezza. Questa ultima eventualità ci sembra la più verosimile, non fosse che per il fatto che all’origine ogni mito è al tempo stesso storia del rito e proiezione del rito stesso. D’altra parte, la medesima doppia immagine si ritrova nell’Edda. Allo “smembramento” di Purusha corrisponde, sotto una forma desacralizzata, ma sempre presente, lo “smembramento” di Ymir da parte degli Asi, figli di Bur. Quanto all’altro aspetto del sacrificio dell’Uomo cosmico, quello dell’autosacrificio, basta riportarsi alla Canzone delle Rune (Runatals-thattr) per trovarne una forma trasposta, quanto Wotan dichiara:
«Lo so: durante nove notti
sono rimasto appeso all’albero scosso dai venti
ferito dalla lancia, sacrificato a Wotan,
io stesso a me stesso sacrificato,
appeso al ramo dell’albero di cui non si può
vedere da quale radice cresca»
Odhinn-Wotan, dio sovrano, non è certo l’Uomo cosmico, e tanto meno ne gioca il ruolo in seno alla società degli dèi (2). Nondimeno, anche se non è all’origine dell’universo, Wotan è all’origine di un nuovo ordine dell’universo. Gli spetta dunque di inaugurare mercè il suo proprio sacrificio su Ygdrasil, l’albero-del-mondo, la “seconda epoca” dell’uomo (l’epoca propriamente storica). Odhinn-Wotan si sacrifica non più, come Purusha, per “suddividersi” e “liberare” così i contrari grazie ai quali l’universo deve acquisire la sua fisionomia, bensì per acquisire il sapere (il “segreto delle rune”) che gli permetterà di organizzare, o più esattamente di riorganizzare, l’universo. A dire il vero, questo “rimaneggiamento” del mito originale non sorprende: la Weltanschauung germanica ha sempre sottolineato e amplificato l’immaginazione storica degli indoeuropei, mettendo l’accento su un divenire ove sia il passato, sia il futuro, sono contenuti nel presente, pur venendone trasfigurati.
Per secoli il mito cosmogonico indoeuropeo non ha cessato di ispirare e di nutrire l’immaginazione degli indiani antichi. Forse la sua ricchezza non appare da nessuna parte, in tutto il suo splendore, meglio che nel magnifico poema di Kalidasa, il Kumarasambhava, in cui Purusha è Brahma, divina personificazione del sacrificio:
«Che tu sia venerato, o dio dalle tre forme
Tu che eri ancora unità assoluta, prima che la creazione fosse compiuta,
Tu che ti dividevi nei tre gunas, da cui hai ricevuto i tuoi tre appellativi.
O mai nato, il tuo seme non fu sterile allorché fu eietto nell’onda acquosa!
Tuo tramite l’universo sorse, che si agita e che è senza vita,
e di cui tu sei festeggiato nel canto come l’origine.
Tu hai dispiegato la tua potenza sotto tre forme.
Tu solo sei il principio della creazione di questo mondo,
ed anche la causa di ciò che esiste ancora e che alla fine crollerà.
Da te, che hai suddiviso il tuo proprio corpo per poter generare,
derivano l’uomo e la donna in quanto parte di te stesso.
Sono chiamati i genitori della creazione, che va moltiplicandosi.
Se, tu che hai separato il giorno e la notte secondo la misura del tuo proprio tempo,
se tu dormi, allora tutti muoiono, ma se vivi, allora tutti sorgono.
[...]
Con te stesso conosci il tuo proprio essere.
Tu ti crei da te stesso, ma anche ti perdi,
con il tuo te stesso conoscente, nel tuo proprio te stesso.
Sei il liquido, sei ciò che è solido, sei il grande e il piccolo,
il leggero e il pesante, il manifesto e l’occulto.
Ti si chiama Prakriti, ma sei conosciuto anche come Purusha
che in verità vede Prakriti, ma da lei non dipende.
Tu sei il padre dei padri, il dio degli dèi. Sei più alto del supremo.
Tu sei l’offerta in sacrificio, ed anche il signore del sacrificio.
Sei il sacrificato, ma anche il sacrificatore.
Tu sei ciò che si deve sapere, il saggio, il pensatore,
ma anche la cosa più alta che sia possibile pensare».
Questo inno di Kalidasa è uno degli apici della “riflessione poetica” indiana sulla tradizione dei Veda. Esplicita a meraviglia tutti i sottintesi del mito cosmogonico indoeuropeo, nello stesso tempo in cui riconduce ad unità le variazioni (successive o meno) del tema originario. L’opposizione di Purusha e Prakriti (che corrisponde, in qualche modo, alla natura naturans) è estremamente rivelatrice, soprattutto se la si mette in parallelo con quella di Purusha e dell’”onda indistinta” rappresentata da Ymir e dall’”abisso spalancato”. E’ per il fatto di «vedere Prakriti senza dipenderne» che l’Uomo cosmico è all’origine dell’universo. Giacché l’universo non è che un caos indistinto, sprovvisto di senso e di significato, da cui solo lo sguardo e la parola dell’uomo fanno sorgere la moltitudine degli esseri e delle cose, ivi compreso l’uomo stesso, alla fine realizzato. Il sacrificio di Purusha, se si preferisce, è il momento apollineo tramite cui si trova affermato il principium individuationis, «causa di ciò che esiste e che ancora esisterà», fino al momento in cui questo mondo «crollerà», ovvero sino al momento dionisiaco di una fine che è anche la condizione di un nuovo inizio.
In una Weltanschauung di questo tipo, gli dèi sono essi stessi un “quartiere” dell’Uomo cosmico. “Uomini superiori” nel senso nietzschano del termine, essi perpetuano in un certo modo il ricordo trasfigurato e trasfigurante dei primi “eroi civilizzatori”, di coloro che trassero l’umanità dal suo stato “precedente” (quello di Ask e di Embla), e fondarono davvero, ordinandola per mezzo delle tre funzioni, la società umana, la società degli uomini indoeuropei. Questi dèi non rappresentano il “Bene”. Non rappresentano neppure il Male. Sono al tempo stesso il Bene e il Male. Ciascuno di loro, di per ciò stesso, presenta un aspetto ambiguo (un aspetto umano), il che spiega perché, mano mano che l’immaginazione mitica ne svilupperà la rappresentazione, la loro personalità tenderà a sdoppiarsi: Mitra-Varuna, Jupiter-Dius Fidius, Odhinn/Wotan-Tyr, etc. In rapporto all’umanità presente, che essi hanno istituito in quanto tale, questi dèi corrispondono effettivamente agli “antenati”. Legislatori, inventori della tradizione sociale, e, in quanto tali, sempre presenti, sempre agenti, restano nondimeno assoggettati in ultima istanza al fatum, votati molto umanamente a una “fine”.
Si tratta, in conclusione, di dèi non creatori, ma creature; dèi umani, e tuttavia ordinatori del mondo e della società degli uomini; dèi ancestrali per l’”attuale” umanità: dèi, infine, “grandi nel bene come nel male” e che si situano essi stessi al di là di tali nozioni.
Ciò che chiamiamo il “popolo indoeuropeo” è in effetti una società risalente agli inizi del neolitico, il cui mito si è precisamente costruito a partire dalla nuova prospettiva inaugurata dalla “rivoluzione neolitica”, per mezzo di una riflessione sulle credenze del periodo precedente, riflessione che è alla fine sfociata in una formulazione rivoluzionaria dei temi della vecchia Weltanschauung.
Se, come pensa Raffaele Pestalozzi, autore di L’omniscience de dieu, la credenza in un “Essere supremo” (da non confondere con il dio unico dei monoteisti!) era propria all’”umanità primitiva”, cioè ai gruppi umani della fine del mesolitico, allora il mito cosmogonico indoeuropeo può effettivamente essere considerato come una formulazione rivoluzionaria in rapporto a tale credenza (o, se si preferisce, come un discorso che fa scoppiare, superandoli, il linguaggio e la “ragione” del periodo precedente). Giunti a questo punto, siamo in diritto di pensare che, per gli antenati “mesolitici” degli indoeuropei, l’”Essere supremo” non era forse che l’uomo stesso, o più esattamente la “proiezione cosmica” dell’uomo in quanto detentore del potere magico. Ugualmente, possiamo constatare al tempo stesso che questa idea di un Essere supremo, propria agli indoeuropei, non è affatto comune a tutti i gruppi umani usciti dal mesolitico, o, almeno, che essa non appare più tale ad altri gruppi di uomini ugualmente condotti dalla rivoluzione neolitica a “riflettere” sulle credenze antiche.
L’Oriente classico, ad esempio, ha “riflesso”, immaginato e interpretato le credenze “mesolitiche” in una direzione diametralmente opposta a quella presa dagli indoeuropei. La Bibbia ebraica, summa della Weltanschauung religiosa levantina, si situa, in effetti, agli antipodi della “visione” indoeuropea. Vi si ritrova purtuttavia, come antico tema offerto alla “riflessione”, l’idea di un Essere supremo confrontato, all’inizio del mondo, ad una «terra deserta e vuota, dalle tenebre plananti sull’abisso» (Genesi, I, 1). Questo “abisso spalancato”, è vero, è immediatamente presentato come risultante da una antecedente creazione di Elohim-Jahvé. Ora, Jahvé non ha tratto l’universo da una suddivisione e “smembramento” di sé. L’ha creato ex nihilo, a partire dal nulla. Non è affatto la coincidentia oppositorum, l’”Uno indiviso”, non è l’Essere e il Non-essere al tempo stesso. E’ l’Essere: «Io sono colui che è». Di conseguenza, e dal momento che l’universo creato non saprebbe essere l’uguale del dio creante, il mondo non ha essenza, ma soltanto un’esistenza, o, più esattamente, una sorta di “essere di grado inferiore”, di imperfezione. Mentre il politeismo degli indoeuropei è il “rovescio” complementare di ciò che si potrebbe chiamare il loro mono-umanismo (equivalente d’altronde a un pan-umanismo), il monoteismo ebraico appare come la conclusione di un processo di riassorbimento, come la riduzione all’unicità di Elohim-Jahvé di una molteplicità di dèi non umani, personificanti forze naturali (3), in breve come lo sbocco di una speculazione che ha anch’essa ricondotto la pluralità delle cose a un principio unico, che in tal caso non è l’uomo ma la materia e l’energia (la “natura”).
Per il fatto di essere un dio unico, non ambiguo, che non è per nulla il luogo in cui si risolvono e coincidono gli “opposti logici”, Jahvé rappresenta evidentemente il Bene assoluto. E’ dunque del tutto normale che si mostri sovente crudele, implacabile o geloso: il Bene assoluto non può non essere intransigente rispetto al Male. Ciò che è molto meno logico, per contro, è la concezione biblica del Male. Non potendo derivare dal Bene assoluto, il Male, in effetti, non dovrebbe esistere in un mondo creato, a partire dal nulla, da un dio “di una bontà infinita”. Ora, il Male esiste: il che pone un problema molto serio. La Bibbia prova a risolvere il problema facendo del Male la conseguenza accidentale della rivolta di certe creature, tra cui in primo luogo Lucifero, contro l’autorità di Jahvé. Il Male appare così come come il rifiuto manifestato da una creatura di giocare il ruolo che Jahvé le ha assegnato. La potenza di questo Male è considerevole (poiché deriva dalla ribellione di una creatura angelica, dunque privilegiata), ma, comparata alla potenza del Bene, ovvero di Jahvé, essa è praticamente pari a nulla. L’esito finale della lotta tra il Bene e il Male non è dunque minimamente in dubbio. Tutti i problemi, tutti i conflitti, sono risolti in anticipo. La storia è puro decadimento, effetto dell’accecamento di creature impotenti.
Così, sin dall’inizio, la storia si trova privata di qualsiasi senso. Il primo uomo (la prima umanità) ha commesso la colpa di cedere ad una suggestione di Satana. Egli ha, di conseguenza, ricusato il ruolo che Jahvé gli aveva assegnato. Ha voluto toccare il pomo proibito ed entrare nella storia.
Creatore dell’universo, Jahvé gioca ugualmente, in rapporto alla società umana “attuale”, un ruolo perfettamente antitetico a quello degli dèi sovrani indoeuropei. Jahvé è non l’”eroe civilizzatore” che inventa una tradizione sociale, ma l’onnipotenza che si oppone alla “colpa” di Adamo, cioè alla vita umana che questi ha voluto gustare, alla civilizzazione urbana, uscita dalla rivoluzione neolitica, a cui rinvia implicitamente il racconto della Genesi. Come sottolinea Paul Chalus in L’homme et la réligion, Jahvé non ha che odio per “coloro che cuociono i mattoni”. Quando li vede costruire Babele e la celebre torre, grida: «Se cominciano a fare ciò, nulla impedirà loro ormai di compiere ciò che avranno in progetto di fare. Andiamo, scendiamo a mettere confusione nel loro linguaggio, di modo che non si comprendano più l’un l’altro» (Genesi, XI, 6-7). Jahvé, aggiunge Paul Chalus, «li disperse da là su tutta la terra, ed essi smisero di costruire città». Ma già ben prima di questo evento Jahvé aveva rifiutato le primizie che gli offriva l’agricoltore Caino, e non aveva “guardato” che la pia offerta d’Abele. Il fatto è che Abele non era un allevatore, ma semplicemente un nomade che aveva abbandonato la caccia per la razzia, che prolungava la tradizione “mesolitica” in seno alla nuova civiltà uscita dalla rivoluzione neolitica, e che ne ricusava il modo di vivere. Ulteriormente, la missione di Abramo, il nomade che aveva disertato la città (Ur), e quella della sua discendenza, sarà di negare e ricusare dal di dentro ogni forma di civiltà “post-neolitica”, la cui esistenza stessa perpetua il ricordo d’una “rivolta” contro Jahvé.
L’uomo, in rapporto al “dio” della Bibbia, non è veramente un “figlio”. Non è che una creatura. Jahvé l’ha fabbricato, così come ogni altro essere vivente, nello stesso modo in cui un vasaio modella un vaso. L’ha fatto “a sua immagine e somiglianza” per farne il suo intendente sulla terra, il guardiano del Paradiso. Adamo, sedotto dal demonio, ha ricusato questo ruolo che il Signore voleva fargli giocare. Ma l’uomo resterà sempre il servo di Dio. «La superiorità dell’uomo sulla bestia è nulla, perché tutto è vanità», nota Paul Chalus. «Tutto va verso un identico luogo: tutto viene dalla polvere, e tutto ritorna alla polvere» (Ecclesiaste).
L’uomo, secondo l’insegnamento della Bibbia, non ha dunque che da rammentarsi perpetuamente che è polvere, che ogni Giobbe merità il destino che gli riserva il capriccio di Jahvé, e che l’esistenza storica non ha senso, se non quello che implicitamente gli si dà rifiutando attivamente di attribuirgliene uno. Con la loro voce terribile, i profeti di Israele ricorderanno sempre agli eletti di Jahvé la necessità imperiosa di questo rifiuto, così come gli eletti riconosceranno sempre, nelle loro disgrazie, la conseguenza e la giusta sanzione di una trasgressione (o di un semplice oblio) del comandamento supremo di Jahvé.
Il cristianesimo “romano”, nato dall’”arrangiamento costantiniano”, corrisponde sin dall’inizio al tentativo di stabilire, in seno al mondo “antico” trasformato da Roma in orbis politica, un compromesso tra le Weltanschauungen indoeuropee e una religione giudaica, che Gesù si sarebbe sforzato di adattare alla civilizzazione imperiale romana (4). Il dio unico è diventato, tramite il gioco di un “mistero” dogmatico, un dio “in tre persone”. Ha “integrato” la vecchia nozione di Trimurti, di “Trinità”, e le sue “persone” hanno grosso modo assunto le tre funzioni delle società indoeuropee, sotto una forma d’altronde “invertita” e spiritualizzata. Pur essendo creatore e sovrano, Jahvé continua nondimeno a ricusare il doppio aspetto: il Male è provincia esclusiva di Satana. Al vecchio nome che gli dà la Bibbia si è sostituito il nuovo nome di “deus pater“, il «padre eterno e divino» riverito dagli indoeuropei. Ma Jahvé non è davvero padre che della sua “seconda persona”, di questo figlio che ha inviato sulla terra per svolgervi un ruolo opposto a quello dell’”eroe fondatore”; di questo figlio che si è alienato a questo mondo per meglio rinviare all’oltremondo, e che, se rende a Cesare ciò che è di Cesare, non lo fa che perché ai suoi occhi ciò che appartiene a Cesare non riveste alcun valore; di questo figlio, infine, la cui funzione non è più di “fare la guerra”, ma di predicare una pace gelosa, di cui soli potranno beneficiare gli uomini “di buona volontà”, gli avversari di questo mondo, coloro a cui è riservato il solo nutrimento d’eternità che vi sia, la grazia amministrata dalla terza “persona”, lo Spirito Santo.
L’uomo, creatura e prodotto fabbricato, è il servo dei servi di Dio, «escremento» (stercus), come dirà così bene Agostino. Tuttavia, nello stesso tempo, è ora anche il fratello del figlio incarnato di Jahvé, il che fa di lui un “quasi-figlio” di Dio, a condizione che sappia volerlo e meritarlo, tutte cose che dipendono dalla grazia che amministra il creatore secondo criteri insondabili. Il giorno verrà dunque in cui l’umanità si dividerà definitivamente (per l’eternità) in santi e dannati. Giacché vi è ben un Valhalla biblico, il Paradiso celeste, ma è ormai riservato agli anti-eroi. L’Inferno, quando ad esso, appartiene agli altri.
Questo compromesso ha modellato per secoli la storia di ciò che viene chiamata la “civilizzazione occidentale”. Per secoli, secondo le loro affinità profonde, l’uomo “pagano” e l’uomo “levantino” hanno ciascuno potuto vedere nel dio “uno e trino” la loro propria divinità. Ciò spiega idee e confusioni ben numerose: a cominciare dall’assimilazione di Gesù, Sigfrido e Barbarossa da parte di un Wagner, o il “dio bianco delle cattedrali” caro a Drieu La Rochelle, e, d’altra parte, il Gesù di Ignazio di Loyola, il dio del prete-operaio e Jesus Christ Superstar.
Constatiamo oggi, e in modo certo, che l’”arrangiamento” costantiniano alla fine non arrangiò proprio nulla, e che la giornata dell’«In hoc signo vinces» fu un imbroglio, le cui conseguenze si esercitarono a detrimento del mondo greco-romano-germanico. Sino ad una data relativamente recente, la Chiesa di Roma e le chiese cristiane sono restate, in quanto potenze secolari organizzate, attaccate a tutte le apparenze del vecchio compromesso. Ma da tempo ormai hanno cominciato a riconoscere l’autentica essenza del cristianesimo. Ed ecco che l’irrappresentabile Jahvé, sbarazzato dalla maschera del Dio-Padre luminoso e celeste, è ritrovato e proclamato. Ben prima che le chiese ci arrivassero, tuttavia, il “cristianesimo profano” (demitizzato e secolarizzato), ovvero l’egualitarismo in tutte le sue forme, aveva a modo suo ritrovato la verità secondo la Bibbia. Il “rifiuto della storia”, la volontà proclamata di “uscire dalla storia” (per ritornarne alla natura), la tendenza riduzionista mirante a “riassorbire l’umano nel fisico-chimico”, tutti i materialismi deterministi, la condanna marcusiana di un’arte che tradirebbe la “verità” integrando l’uomo alla società, l’ideologia egualitaria infine che intende ridurre l’umanità al modello dell’anti-eroe, al modello dell’eletto ostile ad ogni civiltà concreta perché non vi vuole vedere che infelicità, miseria, sfruttamento (Marx); repressione (Freud); o inquinamento: tutto ciò non ha cessato di restituire ai nostri occhi, e continua ancora a restituire – nel momento stesso in cui una nuova rivoluzione tecnica invita a superare le “forme” che aveva imposto la rivoluzione precedente – l’immobile visione jahvaitica, visione “eterna” se mai ve ne furono, poiché se limita ad una negazione senza cessa ripetuta di ogni presente carico d’avvenire.
Il “Sì” da parte sua non può essere “eterno”. Essendo un “Sì” al divenire, diviene esso stesso. Nella storia che non cessa di ri-proporsi, per mezzo di nuove fondazioni, questo “Sì” deve a se stesso il fatto di assumere sempre una forma e un contenuto parimenti nuovi. Il “Sì” è creazione, opera d’arte. Il “No” non esiste che negando un valore a tale opera. In un mondo in cui il clamore di voci divenute innumerevoli tende a persuaderci del contrario il mito cosmogonico indoeuropeo ci ricorda che il “Sì” resta sempre possibile: che un nuovo Ymir-Purusha-Janus può ancora risvegliarsi dall’”onda indistinta” in cui giace addormentato; che appena ieri, forse, si è già risvegliato, si è già sacrificato a se stesso, che ha già dato vita a Bur e Bestla, e che presto dei nuovi Asi, dèi luminosi, verranno a loro volta alla vita e intraprenderanno allora, in un mondo differente, sorto dalle rovine caotiche del vecchio, la loro eterna missione di “eroi civilizzatori”, assumendo così, serenamente, lo splendido e tragico destino dell’uomo che crea se stesso, e che avendo dato nascita a se stesso accetta anche, nell’idea della propria fine, la condizione di ogni avventura storica, di ogni vita.
Note
(1) Di Purusha, corrispondente indoario di Ymir, il Rig-Veda del resto dice espressamente che ha «mille teste e mille occhi», cosa che mostra bene che all’origine l’Uomo cosmico era dotato di onniveggenza. Secondo Pestalozzi, l’onniveggenza era precisamente uno degli attributi dell’”Essere supremo” primitivo.
(2) Questo ruolo, come abbiamo visto, si trova parzialmente proiettato nel personaggio di Heimdal.
(3) Jahvé confessa d’altronde di essere «geloso» degli altri dèi. Il termne stesso di Elohim non è forse plurale (plurale storico, e non di maestà)?
(4) Non è evidentemente il caso qui di entrare nei dettagli di tale complessa questione, cui si accenna pertanto unicamente a grandi linee.
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dimanche, 27 mai 2012
NATO. "1984" rivisitato. Quando "La guerra è pace"
NATO. "1984" rivisitato. Quando "La guerra è pace"
di Ross Ruthenberg
Global Research
Considerando lo stato attuale della pace nel mondo e della politica della Responsabilità di Proteggere (R2P) della NATO e per mantenere un giusto senso di equilibrio, il libro di George Orwell "1984" dovrebbe essere rivisitato periodicamente. Nello spirito del vertice NATO di Chicago, vi presento alcune citazioni di quel libro di testo-per-domani:
* "Se il Partito poteva impossessarsi del passato e dire, di questo o quell'av-venimento, che non era mai accaduto, ciò non era forse ancora più terribile della tortura o della morte?."
* "Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d'azione del pensiero? Hai mai pensato, Winston, che entro il 2050, al massimo, nessun essere umano potrebbe capire una conversazione come quella che stiamo tenendo noi due adesso? Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all'attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia significa non pensare, non dover pensare. Ortodossia è incoscienza. "
* "Gli uomini di governo di tutte le epoche hanno sempre tentato d'imporre una concezione del mondo assolutamente arbitraria ai loro seguaci".
* Poi il volto del Grande Fratello si dissolse, per lasciare il posto ai tre slogan del Partito, vergati in lettere maiuscole:
LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L'IGNORANZA È FORZA"
* Una volta che gli capitò di accennare alla guerra contro l'Eurasia, lei lo lasciò di stucco affermando con noncuranza che secondo lei questa guerra non esisteva. Le bombe a razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo dell'Oceania, «per mantenere la gente nella paura». Un'idea del genere non lo aveva mai neanche sfiorato."
* Lo scopo di condurre una guerra è sempre quello di poter partire da posizioni di vantaggio nella guerra successiva.
* Lo scopo essenziale della guerra è la distruzione, non necessariamente di vite umane, ma di quanto viene prodotto dal lavoro degli uomini. La guerra è un modo per mandare in frantumi, scaraventare nella stratosfera, affondare negli abissi marini, materiali che altrimenti potrebbero essere usati per rendere le masse troppo agiate e, a lungo andare, troppo intelligenti.
* Il Ministero della Pace si occupa della guerra, il Ministero della Verità fabbrica menzogne, il Ministero dell'Amore pratica la tortura, il Ministe-ro dell'Abbondanza è responsabile della generale penuria di beni. Queste contraddizioni non sono casuali, né si originano dalla semplice ipocrisia: sono meditati esercizi di Bipensiero. È infatti solo conciliando gli opposti che diviene possibile conservare il potere all'infinito."
* Ha detto anche che sbagliavano ad equiparare l'alleanza militare ad una "macchina da guerra". "Se questa è la base per le proteste, in realtà è basata sulla mancanza di conoscenza. La nostra organizzazione è un movimento per la pace."
[Oh, aspetta! Questo non è il Ministero della Verità che parla, è il segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen! [1]]
Segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen
Io e tanti altri abbiamo fatto fatica a capire perché abbiamo bisogno di una "macchina da guerra" mondiale nella società di oggi e, finalmente, Fogh Rasmussen, leader titolare della NATO, ha fornito l'illuminazione:
La NATO è un "movimento per la pace"!
Ora capisco che la NATO lanciando il più grande numero di bombe dalla seconda guerra mondiale, in Jugoslavia nei primi anni '90 in realtà stava solo coprendo la zona con lanci di pace.
Adesso è chiara la recente iniziativa di pace della NATO in Libia, vale a dire esercitare semplicemente la loro responsabilità di proteggere, utilizzando gli strumenti della pace, come missili, bombe, ecc
La missione decennale della NATO in Afghanistan in realtà appare chiara come una missione di "diffusione della pace" vicino e lontano, mentre rimproverava duramente gli indigeni, se non capivano.
Poi c'è in corso la marcia verso la pace in Siria sostenuta da Stati Uniti e NATO, con l'aiuto di molti amici della Siria come l'Arabia Saudita. Non sembra che il leader della Siria, Assad, se la beva che la Guerra è Pace e la pace è ciò che viene riversato su di lui e il suo paese, proveniente dalla Turchia, Iraq, ecc
La Russia non dovrebbe essere preoccupata per l'accerchiamento di sistemi missilistici Aegis dispiegati intorno a loro, in quanto si tratta semplicemente di un "amichevole anello di pace".
Infine, beh, non proprio alla fine, come ci ricorda "1984" "Lo scopo di condurre una guerra è sempre quello di poter partire da posizioni di vantaggio nella guerra successiva." (promemoria: la guerra è pace), cosa che rende ormai chiaro a me e, auspicabilmente, ai milioni di cittadini iraniani che dovrebbero solo tenere duro durante le numerose sanzioni debilitanti imposte su di loro, perché la pace è in arrivo!
La NATO e gli amici/partner ora stanno anche preparando le loro offerte di pace e gli strumenti di consegna, perché pienamente consapevoli della responsabilità di proteggeri! Pace a tutti!
"Tutto è svanito nella nebbia. Il passato è stato cancellato, la cancellazione è stata dimenticata, la menzogna è diventata verità".
Ross Ruthenberg è un analista politico di di Chicago rossersurf@comcast.net
Nota
[1] Estratto da: "The stage is set for summit, protests", di Bob Secter, reporter del Chicago Tribune, 20 maggio 2012
Andy Thayer, uno degli organizzatori, ha detto che lui e i suoi colleghi Giovedi hanno incontrato brevemente un alto ufficiale della NATO chee gli ha detto: "siamo molto consapevoli dell'immensa violenza e dell'oppressione che gli Stati Uniti e gli Stati Uniti nella loro veste NATO, fanno al mondo, e che nessuna parola della NATO o pronunciamento del vertice stesso potranno mettere in ombra questo ".
Parlando al comitato di redazione del Tribune Sabato, il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen ha detto che riconosce il diritto dei manifestanti di esprimersi, ma ha detto anche che sbagliavano ad equiparare l'alleanza militare ad una "macchina da guerra".
"Se questa è la base per le proteste, in realtà è basata sulla mancanza di conoscenza. La nostra organizzazione è un movimento per la pace.", ha detto Rasmussen, ex primo ministro della Danimarca.
"Durante più di 60 anni, la NATO è stata il fondamento della sicurezza in Europa e Nord America. E grazie alla NATO, abbiamo mantenuto la pace e la stabilità in Europa durante quel lungo periodo, dalla 2° Guerra Mondiale. E' il più lungo periodo di pace nella storia d'Europa. Questo è un bel successo. Questo è quello che io chiamo un movimento per la pace", ha detto.
Citando il ruolo della NATO nel contribuire a riunificare l'Europa, sviluppare nuove democrazie dopo la caduta del comunismo e sviluppare azioni per proteggere i civili in Libia, Rasmussen ha detto: "Non è giustificato chiamare la NATO una macchina da guerra. Ma ancora una volta, in una società libera, è un diritto costituzionale esprimersi - anche se le vostre dichiarazioni non sono giustificate o errate o imprecise ".
http://www.chicagotribune.com/news/local/ct-met-hd-nato-chicago-0520-20120520,0,1571541.story
Fonte: Global Research 21 Maggio 2012
Traduzione: Anna Moffa per ilupidieinstein.blogspot.it
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TOMISLAV NIKOLIC PRESIDENTE. SERBIA EN EL BUEN CAMINO.
TOMISLAV NIKOLIC PRESIDENTE. SERBIA EN EL BUEN CAMINO.
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Николай Емелин
Николай Емелин - «Русь» (Внуки Сварога)
Николай Емелин концерт
Merci à:
http://fierteseuropeennes.hautetfort.com/
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Martin Heidegger e la Rivoluzione conservatrice
Giorgio Locchi:
Martin Heidegger e la Rivoluzione conservatrice
SULLA "RIVOLUZIONE CONSERVATRICE" IN GERMANIA
Armin Mohler utilizzò l'espressione "Rivoluzione conservatrice", introdotto da Thomas Mann e Hugo von Hofmannsthal, per designare un ampio, complesso e, sotto il profilo dottrinario, variegato insieme di tendenze politiche, letterarie, filosofiche, artistiche, che, tra il 1918 e l'avvento del Nazionalsocialismo al potere, criticarono da Destra sia la Repubblica di Weimar e le dottrine democratico-liberali in genere. sia le ideologie social-comunistiche, nonostante certi sconfinamenti di alcune sue espressioni anche verso questi due ultimi orizzonti ideologici. Si trattava comunque di tendenze che avevano quale proprio minimo comune denominatore la critica alla "civiltà illuministico-borghese", ricollegandosi in ciò al Neo-romanticismo di fine Ottocento, e alle "idee del 1789", senza ripetere, però, pedissequamente. i temi già fatti valere dal pensiero Controrivoluzionario e Reazionario, in seguito ad una più attenta considerazione delle conseguenze derivanti dalla cosiddetta "modernizzazione".
Lo scritto di Mohler, Die Konservative Revolution in Deutschland. 1918-1932. Ein Handbuch, frutto di una ricerca per la tesi di laurea, fu pubblicato nel 1950 e, in seconda edizione, nel 1972. Per la traduzione italiana abbiamo dovuto aspettare il 1990. grazie alle Edizioni Akropolis e La Roccia di Erec. Purtroppo, la ricezione non è stata pari quanto meno all'attesa di quella traduzione, molto probabilmente perché si attendeva un testo di dottrina politica, mentre si tratta per lo più di un testo di filosofia della politica, quindi, bisognoso di un pubblico molto più coltivato culturalmente.
Se non proprio il termine "Rivoluzione conservatrice", espressioni analoghe sono ricorrenti in vari teorici — penso, ad esempio, a Sergio Panunzio — che le utilizzarono per designare il significato complessivo delle rivoluzioni nazionali che negli anni Venti e Trenta portarono al governo di importanti Stati europei, tra cui l'Italia, governi di ispirazione fascista. Si interessarono direttamente ad Autori riconducibili alla Rivoluzione conservatrice tedesca, Evola. Delio Cantimori, V. Beonio Brocchieri, Lorenzo Giusso e, anche se in chiave critica, Balbino Giuliano e Guido Manacorda.
Nel dopoguerra, nell'ambito della cosiddetta "Cultura di destra", l'attenzione al movimento meta-politico qui considerato, non poteva non passare attraverso la ricostruzione del Mohler. Possiamo ricordare di Stefano Mangiante, La cultura di destra in Germania ("Ordine Nuovo", n. 1-2, 1965) e gli scritti di un altro studioso, anch'esso scomparso prematuramente, ossia di Adriano Romualdi, la cui tesi di laurea discussa con Renzo De Felice, venne pubblicata postuma nel 1981, con il titolo Correnti politiche ed ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932.
Profondo conoscitore della cultura tedesca, Giorgio Locchi si interessò a più riprese della Rivoluzione conservatrice e di quelli che devono senz'altro essere considerati come i due ispiratori principali di essa: Friedrich Nietzsche e Richard Wagner. Il saggio che qui di seguito viene riproposto, venne pubblicato dal periodico "La Contea" (N° 34). Locchi discusse del libro di Mohler nell'articolo La Rivoluzione conservatrice in Germania, pubblicato ne "La Destra" del gennaio 1974.
MARTIN HEIDEGGER E LA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE
Il dibattito sul cosiddetto "caso Heidegger, recentemente ridivampato in Francia e di là un po' ovunque in Europa, ha dimostrato soprattutto questo: che il confronto col pensiero dì Heìdegger costituisce un'imperiosa necessità per chiunque, scevro da illusioni, si interroghi sui fondamentali problemi dei nostri tempi e sul destino delle genti d'Europa. Ma anche va dimostrato che del pensiero di Heìdegger circolano, dominando imperterrite, interpretazioni (sempre fondate su un aspetto particolare, isolato dal generale contesto), che lo stesso Heidegger ha più volte sdegnosamente confutate e rigettate: esistenzialismo, nichilismo, misticismo, pseudo-teologia, "rifiuto della Tecnica" e così via. Chiedersi — cito il titolo di un dibattito televisivo francese — se "esista un legame tra il pensiero di Essere e Tempo (1927) e l'adesione di Heidegger al Partito Nazionalsocialista 1 1933)", chiedersi cioè se esista un legame tra l'analitica heideggeriana dell'esistenza storica delFuomo e la visione del mondo nazionalsocialista, z interrogazione che presuppone una conoscenza genuina e non già un'interpretazione abusiva o pretestuosa del pensiero di Heidegger, così come d'altra parte esige una visione non riduttrice del Nazionalsocialismo e della sua Weltanschauung.
Quel che non cessa dì sorprendere in tutti gli studi dedicati al pensiero di Heidegger è il fatto che, sempre, la seconda conclusiva sezione di Essere e Tempo testo fondamentale, è totalmente ignorata, come "non letta". L'attenzione degli studiosi e degli interpreti si fissa sulla critica heideggeriana della concezione "metafisica" dell'essere come presenza (Anwesenhei) e sul primo approcio ancora puramente descrittivo della fenomenalità del Dasein, allorquando — e non fosse che per davvero comprendere quella critica e penetrare quella enomenalità — dovrebbe soprattutto soffermarsi sulla concezione che Heidegger espone della temporalità del Dasein, dell'esistenza istoriale dell'uomo. La tanto discussa e, dai più, tanto esaltata guanto malcompresa "rottura" con la "Metafisica"
occidentale scaturisce in effetti proprio da questa nuova concezione della temporalità. È questa concezione della temporalità a fondare la visione heideggeriana della storia ed è dunque in essa e a partire da essa che va eventualmente ricercata la natura del rapporto esistente tra il pensiero di Heidegger e la "visione del mondo" nazionalsocialita. Esprimerò subito, per evitare ogni pur comoda ambiguità, la mia convinzione: questa parentela esiste, è quanto mai intima e. nella sua articolazione, spiega l'adesione attiva dell'autore di Essere e Tempo alla NSDAP e la sua fervida partecipazione alle attività del regime su un piano non soltanto universitario (1933-34). L'abbandono del rettorato e di ogni attività politica a partire dalla seconda metà del 1934 coincidono con una evoluzione di pensiero che progressivamente conduce Heidegger, sempre formalmente membro della NSDAP, su posizioni critiche nei confronti del regime: ma la sua critica resta critica all'interno e non comporta mai, neanche nel dopoguerra, la minima concessione alle ideologie democratiche, la minima simpatia per gli avversari del Terzo Reich.
ROTTURA CON LO SPIRITO DELL'OCCIDENTE
La "rottura" di Heidegger col pensiero filosofico tradizionale dell'Occidente, cioè — come egli diceva — con la "Metafisica" occidentale, è stata recepita dalla filosofia cattedratica come un novum clamoroso, come una svolta storica del pensiero europeo. Heidegger stesso lo ha creduto e, si può dire, orgogliosamente proclamato. Ma, di fatto, la sua "rottura" con la Metafisica altro non è, quando è proclamata, che l'aspetto "moderno" di una rottura con lo "spirito dell'Occidente" propria di tutta una corrente dì pensiero emersa nella seconda metà del XIX secolo, corrente che, con riferimento a Nietzsche, possiamo chiamare "tendenza sovrumanista" in opposizione alla bimillenaria tendenza egalitarista che, con il suo inerente inconscio nihilismo, ha conformato e conforma il destino dell'Occidente. Preannunciata in una delle "due anime" viventi nel petto dei Romantici, questa tendenza sovrumanista trova infatti, in rottura con lo spirito dell'Occidente, la sua prima manifestazione storica nell'opera artistica e negli scritti "metapolitici" di Richard Wagner. Dopo Wagner e, pretestuosamente, contra Wagner, Nietzsche rivendica a sé il merito della "rottura", proclamandosi "dinamite della storia", fondatore del movimento che dovrà opporsi al bimillenario nihilismo dell'Occidente giudeo-cristiano. Ereditata ora da Wagner ora da Nietzsche, la rottura investe già all'inizio di questo secolo larghissima parte della cultura tedesca, che Ernst Tròltsch potè così opporre allo "spirito occidentale", e sfocia più tardi, dopo la prima guerra mondiale, non soltanto in Germania ma quasi ovunque in Europa, nelle varie correnti letterarie, artistiche, ideologiche e infine politiche d'una "Rivoluzione Conservatrice", di cui, a dispetto di quanto si vorrebbe far credere, sono parte integrante i vari movimenti fascisti.
Evidentemente ciò che permette di accomunare Wagner e Nietzsche e Heidegger ed i tanti autori e movimenti della "Rivoluzione Conservatrice" (giustificando l'uso di questo termine generico) non è certamente una filosofia, non è una ideologia in senso stretto, bensì — per così dire a monte di "ideologie" o filosofie quanto mai diverse e magari divergenti — un comune sentimento, una comune intuizione dell'uomo, della storia e del mondo, che drasticamente si oppone alla concezione che tradizionalmente fonda e sottende teologie, filosofie, ideologie, strutture politiche del cosiddetto "Occidente". La tendenza sovrumanista, cioè la rottura con la dominante tradizione occidentale, si manifesta sempre come "rivolta contro il mondo moderno", come condanna del nostro presente epocale e volontà di opporsi ad una situazione obbiettiva interpretata come trionfo del "nihilismo" e rovinoso declino dell'Europa. Di qui l'esigenza di una rivoluzione radicale, che peraltro anche è concepita come un rinnovamento delle origini: tratto politicamente essenziale che permet-
te di distinguere nel modo più netto ciò che è Rivoluzione Conservatrice e Fascismo da ciò che è soltanto o "reazione" o "conservatismo" o "progressismo".
UN RINNOVAMENTO DELLE ORIGINI
La visione della storia che da Wagner e Nietzsche fino alla Rivoluzione Conservatrice determina la "rivolta contro il mondo moderno" — come ho gin indicato — trova il suo fondamento in una nuova intuizione dell'uomo, della storia e del mondo. Questa intuizione nuova è, nella sua radice, intuizione della tridimensionalità della temporalità del Dasein, della "istorialità" umana. Armin Mohler. nel suo fondamentale studio sulla Rivoluzione Conservatrice in Germania, ha esaurientemente dimostrato che, alla concezione unidimensionale e "lineare" del tempo, Nietzsche e gli autori conservatori-rivoluzionari oppongono una concezione tridimensionale del tempo-della-storia. A dir vero. parlare a proposito di Nietzsche e di questi autori di una "concezione" della tridimensionalità del tempo è improprio: intuita, la tridimensionalità del tempo, al pari di tutte le "idee" che ne discendono. è affermata non già concettualmente, bensì con ricorso ad un Leitbild suggestivo ed evocatore, ad una "immagine conduttrice", quella della "Sfera" temporale (da non confondere, come quasi sempre avviene, col "cerchio" o "anello", proiezione della Sfera nel tempo unidimensionale della "sensorialità"). Questo ricorso a "immagini" si imponeva — come ha ben visto Mohler — perché il linguaggio ricevuto è, nella sua "razionalità", tutto impregnato della concezione unidimensionale del tempo ed ad essa dunque obbedisce. Un aspetto peculiare della grandezza di Heidegger sta proprio nel suo tentativo, intrapreso con Essere e Tempo, di destrutturare il linguaggio ricevuto e ricreare un linguaggio nuovo al fine, per l'appunto, di concettualizzare la tridimensionalità della temporalità storico-esistenziale, nonché le "idee" che essa immediatamente genera.
Nella misura in cui si constatò incompreso. Heidegger finì col giudicare fallito il tentativo di Essere e Tempo e ripiegò più tardi su una Sage, su un "dire mito-poetico" che, a parer mio, è stato icor più mal compreso, provocando non pochi Iuívoci e abbagli. La novità rivoluzionaria del nguaggio filosofico di Heìdegger spiega vera-lente l'incomprensione che oggi ancora circonda 'argomentazione conclusiva di Essere e Tempo e n particolare — qui potremmo ironicamente innotare: come è logico — il quarto ed ì] quinto capitolo della seconda sezione, rispettivamente dedicati a "Temporalità e Quotidianeità" ed a "Temporalità e Istorialità". Chi peraltro riesce a penetrare il linguaggio di Essere e Tempo e saprà fare propria, eventualmente sviluppandola, la concettualizzazione della temporalità tridimensionale, anche avrà trovato la chiave che meglio di qualsiasi altra permette di comprendere i "discorsi" della Rivoluzione Conservatrice ed i fenomeni politici da questa generati e cioè in primo luogo di comprendere la "razionalità", fondamentalmente diversa da quella della "Metafisica".
LA TEMPORALITÀ COME "SFERA"
Germanico Gallerani (nello scorso numero de "La Contea") ha creduto di poter opporre Heidegger, "uomo rivolto al passato", ad una Konservative Revolution, "rivolta al futuro". È vero l'esatto contrario: è proprio l'identico atteggiamento nei confronti di passato presente e avvenire il "sintomo" più appariscente della loro parentela spirituale. La Rivoluzione Conservatrice è rivoluzione perché "rivolta al futuro" e tuttavia "conservatrice" perché si richiama sempre ad un lontano "passato". Quanto ad Heidegger basti ricordare una sua definizione del Dasein, dell'uomo in quanto esistente istoriale: "un Essente, che nel suo essere è essenzialmente zukúnftig", cioè essenzialmente esistente nella dimensione temporale dell'avvenire. E proprio perché zukiinftig — spiega Heidegger — il Daseín "è cooriginariamente gewesend", esistente nella dimensione della "divenutezza", e "può dunque tramandare a sé stesso una possibilità ereditata e ad essa consegnarsi". Nel quadro della temporalità tridimensionale, della "istorialità", rivendicazione di un passato e progetto d'avvenire coincidono nel modo più intimo.
Il progetto avvenire che il Dasein sceglie nel "passato", contro altre, una possibilità di esistenza istoriale: "Il Daseín — esplicativamente aggiunge Heidegger — sceglie i suoì propri Eroi" e, cioè, sceglie tra le possibilità offerte dal "passato" (Vergangenheit) la sua propria "divenutezza" (Gewesenheit). Conservator-rivoluzionari e fascismi possono così progettare tutti, rivoluzionaria-mente, un "uomo nuovo" e. nondimeno, richiamarsi ad una passata possibilità d'esistenza: alla più lontana "germanità", alla `romanità" repubblicana o imperiale, ad una "cattolicità" confusa con l'origine della nazione e dei suoi antichi istituti imperiali o monarchici. Allo stesso modo, sul terreno puramente filosofico, Wagner si richiama alla ancestrale "religione" indoeuropea (di cui il "cristianesimo originario", "non giudaìzzato". sarebbe secondo lui una semplice evoluzione), Nietzsche ed Heidegger al pensiero pre-socratico ed Evola, drasticamente, ad una originaria "Tradizione" postulata in una nebulosa pre-istoria. La "rivolta contro il mondo moderno", l'assunto rivoluzionario sono determinati dalla natura stessa del "regresso in una passata possibilità d'esistenza istoriale", cioè dalla natura della "ripetizione" (Wiederholung): perché — così Heidegger — "la ri-petizione non intende far ritornare ciò che una volta è stato, bensì piuttosto offre una replica contraddittoria (erwidert) alla passata possibilità di esistenza" ed è così "simultaneamente, in quanto attualità, la revoca di tutto ciò che in quanto passato determina l'Oggí". "La ripetizione nè si affida al passato, nè mira ad un progresso, l'uno e l'altro essendonella attualità indifferenti all'esistenza istoriale". (Traducendo queste concezioni sul terreno della grande politica Martin Heidegger afferma nella sua Introduzione alla Metafisica che il popolo tedesco, "popolo di mezzo preso nella più dura tenaglia [tra America e Russia] e popolo più d'ogni altro minacciato", può realizzare il suo destino istoriale "soltanto laddove sappia creare in se stesso un'eco, una possibilità d'eco per la missione assegnatagli e comprenda creativamente la sua Tradizione" e cioè, "in quanto istoriale esponga, a partire dal centro del suo divenire storico, se stesso e con ciò la storia dell'Occidente nell'originaria regione delle potenze dell'Essere").
UNA "COMUNITÀ DI DESTINO"
L'atteggiamento di Heidegger nei confronti di "passato" e "attualità" ed "avvenire" non soltanto è essenzialmente identico — conforme — a quello della Rivoluzione Conservatrice e dei movimenti fascisti, bensì anche conferisce alla comune visione-della-storia un saldo fondamento concettuale. Quel che nel discorso conservator-rivoluzionario e fascista è ancora soltanto Leitbild, "immagine conduttrice", diviene con Heidegger concetto. Se in questa sede è evidentemente impossibile mostrare come per l'appunto l'analitica heideggeriana dell'esistenza istoriale concettualizzi, fondandosi sul principio della temporalità tridimensionale del Dasein, tutti i Leitbilder, tutte le "immagini conduttrici" della visione-del-mondo della Rivoluzione Conservatrice e dei movimenti fascisti, mi sembra nondimeno opportuno mettere qui in luce la traduzione concettuale che Heidegger offre di un Leitbild quanto mai rilevante, quello della "comunità di destino", ritrovata a seconda delle correnti o nel "popolo" o nella "nazione" o nella "razza" (questa a sua volta assai diversamente intesa).
E la temporalità tridimensionale dell'esistenza —afferma Heidegger — a "rendere possibile l'istorialità autentica, cioè quel che chiamiamo destino istoriale". Poiché il Dasein, in quanto essere-almondo, è anche co-essere, essere-con-Altri, ìl destino (Schicksal) di un Dasein è anche sempre Geschick, commesso destino comune, "la (cui) forza si libera grazie alla comunicazione ed alla lotta". Ora il "destino" scaturisce da una scelta istoriale pro-veniente dalla dimensione avvenire del Dasein: e nella comunicazione e nella lotta si riconoscono un comune destino coloro che hanno compiuto un'identica scelta istoriale e ad essa restano risolutamente fedeli. Ogni scelta istoriale implica però sempre la "ri-petizione", la "replica a una passata possibilità dell'esistenza istoriale" e, insieme, un "progetto d'avvenire". La "comunità di destino" si rivela dunque essa stessa costituita da una scelta istoriale (che è selettiva e che dunque può essere giudicata non-umanista da un punto di vista egalítarista). Questo significa che nazione popolo razza, in quanto comunità riconosciuta di
destino, se sempre costituiscono una replica contraddittoria (Erwiderung) della passata possibilità d'esistenza su cui si è portata la scelta istoriale, d'altro lato sempre hanno natura "pro-gettuale" e, nel presente oggettivo, restano un "da farsi", una "missione". La prassi politica dei regimi fascisti implica così una "disciplina selettiva" (Zucht, in tedesco) per l'appunto intesa a conformare il "materiale umano" dell'Oggi all'idea di nazione o popolo o razza scaturente dalla scelta istoriale compiuta. (In questo senso i fascismi sono "azione cui è immanente un pensiero" sempreché per pensiero si intendano insieme "ri-petizione" [nel senso che Heidegger dà a questo termine] e "progetto"). Altamente significativa e profonda è in questo contesto la distinzione che Heidegger introduce in Essere e Tempo fra "Tradition" e "Ueberlieferung", cioè — potremmo tradurre - fra "tradizione subita" e "tradizione scelta". "La tradizione — afferma Heidegger in Essere e Tempo — priva di radici l'istorialità del Dasein", essa "cela e addirittura fa dimenticare la sua stessa origine". La "Ueberlieferung", per contro, si fonda "espressamente sulla conoscenza dell'origine delle possibilità d'esistenza istoriale" e consiste nella "scelta" di una di queste possibilità, scelta che sempre proviene dalla dimensione avvenire del nostro Dasein. Solo una concezione del genere riesce a conciliare fedeltà alla tradizione e assunto rivoluzionario teso alla creazione di un "uomo nuovo".
IL "RETTORE DEI RETTORI"
Mohler, nel già citato saggio sulla Rivoluzione Conservatrice in Germania, mette espressamente tra parentesi il Nazionalsocialismo. Egli indica nondimeno che le correnti della Rivoluzione Conservatrice oggetto del suo studio vanno considerate "come i trotzkisti del Nazional socialismo". Implicitamente egli situa così il nazionalsocialismo al centro stesso della Rivoluzione Conservatrice così come dopo di lui ha fatto il marxista Jean-Pierre Faye (da non confondere col neo-destrista Guillaume Faye), che vede in Hitler "l'ospite muto" che accoglie in sé i discorsi che gli provengono dalla Destra e dalla Sinistra della Rivoluzione Conservatrice, tacitamente li sintetizza e, subito, li trasforma in azione. Conto tenuto di ciò e di quanto è stato precedentemente esposto, mi sembra ovvio affermare — così abbordando l'aspetto più concreto del dibattito suscitato dal libro di Farias — che lo Heidegger di Essere e Tempo va situato al centro del vasto campo della Rivoluzione Conservatrice e dunque su una posizione assai vicina a quella del movimento nazionalsocialita, quand'anche — inutile precisarlo - filosoficamente più "alta". Che dunque, al contrario di molti esponenti della Destra e della Sinistra della Rivoluzione Conservatrice, Heidegger non abbia scelto nel 1933 un settario distacco ed abbia invece prontamente aderito alla NSDAP ed attivamente partecipato poi per quasi due anni ad attività non soltanto politiche del regime, tutto ciò è non già frutto d'un abbaglio, d'una speranza mal riposta, del "fascino" subito nel contesto di un conturbante momento storico, bensì è frutto di una coerenza col proprio stesso pensiero e con le idee politiche a questo pensiero inerenti. Ciò non significa che nel 1933 tutte le idee politiche di Heidegger coincidano esattamente con quelle manifestate del discorso del nazionalsocialismo. È tuttavia evidente che, agli occhi di Heidegger, le differenze non investono l'essenziale: e — val la pena di osservare — neanche l'antisemitismo da sempre iscritto nel programma del partito fa ostacolo all'adesione.
L'evoluzione successiva ( a partire dalla seconda metà del 1934) dell'atteggiamento di Heidegger nei confronti del regime è certo avviata da contingenze umane, ma trova la sua causa profonda in una evoluzione di pensiero, quella stessa che indusse Heidegger ad abbandonare il "cammino" di Essere e Tempo, la cui annunciata seconda parte non fu dunque mai scritta. Lo Heidegger di Essere e Tempo aveva veduto nel movimento nazionalsocialista la traduzione politica dell'auspicata fine della Metafisica, cioè un sovvertimento della tradizione occidentale ed un superamento del nihilismo. Probabilmente egli si attendeva pertanto che il suo pensiero fosse riconosciuto dal regime come "filosofia del movimento". Avversato da altri universitari nazisti come il Krieck, protetti da
Rosenberg, Heidegger dovette abbandonare ogni speranza di imporre le sue idee in campo educativo e di divenire, come ad un certo momento era sembrato possibile, il "rettore dei rettori" delle Università germaniche. Nel 1935, un anno dopo le dimissioni dal rettorato, nel suo corso di introduzione alla Metafisica, egli ancora rivendicava al proprio pensiero, contro le varie "filosofie dei valori" alla Krieck, l'autentica comprensione della "intima verità e grandezza del movimento" nazionalsocialista, ritrovata "nell'incontro fra la Tecnica segnata da un destino planetario e l'uomo dei tempi nuovi". In questo stesso corso anche si annunciava però una critica del regime, che troverà in seguito la sua più compiuta seppur "cifrata" formulazione nella lettera Zur Seinsfrage (Sul problema dell'Essere) indirizzata a Ernst Jiinger nel 1953. È una critica — sia detto subito — che a mio avviso non situa Heidegger fuori dal vasto spazio della Rivoluzione Conservatrice. bensì - quanto meno nella trasparente intenzione dello stesso Heidegger — al di là dell'oggi in un "avvenire", che apparirà infine precluso alla volontà umana e potrà semmai soltanto essere concesso da "un dio".
SOLO UN "DIO" CI POTRÀ SALVARE
La "posizione" politica assunta dall'ultimo Heidegger deve essere messa in relazione con la sua interpretazione del pensiero di Nietzsche, la quale anche coinvolge la Rivoluzione Conservatrice (Jiinger) ed il movimento nazionalsocialista. Allo stesso modo in cui l'ultimo Nietzsche, dopo aver esaltato l'opera di Wagner, aveva voluto vedere in essa non già la promessa di una "rigenerazione" del mondo e della storia, bensì il "colmo della decadenza" ed una "fine", Heidegger ritiene fallito il tentativo nietzschiano di "dinamitare la storia" e "superare il nihilismo" occidentale. Secondo Heidegger, Nietzsche avrebbe il merito incontestabile di avere per primo "scoperto" e denunciato il "nihilsmo" della cultura occidentale, ma del nihilsmo non avrebbe saputo individuare la causa, situata a torto nel sovvertimento platonico-cristiano del "valori" anzichè nel-
l'oblio dell'Essere. Il pensiero di Nietzsche non costituirebbe dunque un superamento (Verwindung) della Metafisica, bensì capovolgerebbe la Metafisica stessa, portandola al suo ultimo compimento. Questa critica — non va dimenticato — ha un risvolto apologetico: in quanto ultima, più compiuta forma del metafisico oblio dell'Essere, il pensiero di Nietzsche costituisce nel giudizio di Heidegger un "passaggio obbligato", una ineludibile "necessità" sul cammino che potrebbe condurre al superamento della Metafisica e del nihilismo.
Nella citata lettera Zur Seinsfrage Heidegger proietta questa sua critica di Nietzsche sul "Lavoratore" jungeriano, interpretato come la moderna configurazione della Volontà-di-Potenza inerente al progetto di Nietzsche, e — non senza una segreta ironia nei confronti di Ernst Jiinger —sul regime nazionalsocialista in quanto realizzazione del progetto inerente al "Lavoratore" jùngeriano: ma questo anche significa che agli occhi di Heidegger la forma politica nazionalsocialista, in
quanto traduzione del capovolgimento nietzscheniano della Metafisica; supera storicamente la forma delle democrazie liberali o socio-comuniste. (Ovverosia, per dirla nel sinistrese di un LacoueLabarthe [cfr.: La Fiction da Politiquel: "Il nazismo è per Heidegger un umanismo che riposa su una determinazione dell'humanitas più possente di quella su cui riposa la democrazia, pensiero ufficiale del capitalismo, cioè del nihilismo secondo cui tutto vale").
Ai fini del dibattito aperto dal libro di Farias, poco importa qui la convinzione degli uni o degli altri che l'interpretazione di Heidegger costituisca o non costituisca una falsificazione del pensiero e della "posizione" di Nietzsche. Importante a questi fini è la spiegazione che essa offre dell'atteggiamento assunto da Heidegger nel dopoguerra e di quel suo "silenzio" che tanto esaspera il pretesto imperante "umanismo", proprio perché sostanzia un rifiuto di condannare chi, nel confronto coi suoi avversari, appare incondannabile.
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samedi, 26 mai 2012
Samuel Huntington aurait-il raison?

Samuel Huntington aurait-il raison?
Ardavan Amir-Aslani constate l'irruption du fait religieux en politique







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Polyanytsi - Поляниці
Polyanytsi - Поляниці
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Au sommaire du numéro 53 de la revue Rébellion :

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Pour en finir avec le multiculturalisme
Pour en finir avec le multiculturalisme
par Laurent Ozon
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vendredi, 25 mai 2012
Simon Leys, l’intempestif
Simon Leys, l’intempestif
Un des rares écrivains vivants que l’on devrait déclarer d’utilité publique
En ce temps-là, tout anticommuniste était un chien. Achat obligé en Chine sous peine de travaux forcés, le Petit Livre Rouge se vendait comme des petits pains à Saint-Germain-des-Prés. Philippe Sollers s’exaltait à traduire les poèmes du Grand Timonier dans Tel Quel. Et parce qu’il avait osé le premier un essai critique sur la Révolution culturelle avec Les Habits neufs du président Mao (1971), la sinologue maoïste Michelle Loi ne trouvait rien de plus honnête que de révéler le véritable patronyme de Simon Leys dès le titre de son libelle contre lui Pour Luxun. Réponse à Pierre Ryckmans (Simon Leys), espérant ainsi que celui-ci devienne persona non grata en Chine. Il est vrai que l’on ne s’en prenait pas comme ça à la « Révo. Cul. » et à ses laudateurs dont Jean-François Revel dirait plus tard que s’ils n’avaient pas de sang sur les mains, ils en avaient sur la plume.
Autant le négationnisme nazi arriva après le nazisme, autant le négationnisme stalinien et maoïste commença tout de suite, et non par le biais de quelques extrémistes délirants et isolés, du reste immédiatement exclus des thébaïdes intellectuelles mais bien par celui de l’ensemble des maîtres-censeurs du Flore et dont certains sont toujours honorés sur les plateaux de télévision, tel l’inoxydable Alain Badiou qui se donne encore le droit, comme le rappelle, mi-consterné mi-amusé, Leys, d’écrire à propos de Lénine, Staline, Mao, Guevara et autres bienfaiteurs du XXème siècle qu’ « il est capital de ne rien céder au contexte de criminalisation et d’anecdotes ébouriffantes dans lesquelles depuis toujours la réaction tente de les enclore et de les annuler. » Rien que pour cette piqûre de rappel, d’autant plus nécessaire que l’amnésie historique, partie intégrante du programme totalitaire, continue, comme l’a bien vu Frédéric Rouvillois, à être la règle auprès d’un grand nombre d’intellectuels, la lecture de ce Studio de l’inutilité devrait être déclarée d’utilité publique. En vérité, ce Belge qui résista aux tanks de l’intelligentsia des années 70 et suivantes, fut notre homme de Tian’anmen à nous.
Pour autant, l’intérêt de ce Studio n’est pas seulement d’ordre purgatif. Intempestif en politique, Simon Leys l’est tout autant en littérature – et c’est là que le plaisir commence. Esprit curieux, érudit toujours plaisant, il n’est jamais là où on l’attend. Peut-être est-ce dû à cette « belgitude » qui, comme chez Henri Michaux sur lequel s’ouvre ce recueil d’essais, est la marque d’une carence originelle, d’une « conscience diffuse d’un manque » que l’auteur de L’ange et le Cachalot va tenter de compenser par la singularité et le paradoxe – l’inadaptation étant toujours la chance de l’esprit libre. Et l’adaptation trop grande provoque la malchance de l’artiste – celle qui finira par toucher Michaux lui-même qui, en voulant, à la fin de sa vie, corriger son œuvre de sa spontanéité originelle, la gâchera en lui donnant un tour bien trop culturel pour être artistique. C’est qu’entre temps, Michaux sera pour sa gloire et son malheur devenu français – c’est-à-dire à l’époque un intellectuel de gauche se rangeant à l’opinion la plus avantageuse et la plus dépravée, au fond la plus utile, celle qui permet, écrit Simon Leys, de « délivrer des brevets de bonne conduite et des médailles récompensant l’effort méritant, qu’il s’agisse de la Chine de Mao ou du Japon d’après guerre » et qu’il se serait sans doute bien gardé de faire s’il était resté belge.
Se garder de tous les clichés de la « francitude », au risque de perdre les pouvoirs qu’elle donne, telle sera la probité de Simon Leys qui, à l’instar de Simone Weil qu’il admire, choisira toujours la justice plutôt que son camp. En plus de rester fidèle à ses goûts, ce qui dans notre pays où tout le monde aime ou déteste la même chose est aussi une preuve d’héroïsme. Ainsi, lorsqu’Antoine Gallimard et Jean Rouaud le contactent pour savoir quel est pour lui « le roman du XX ème siècle », il ne propose pas, comme tout un chacun, l’énième chef-d’œuvre de Céline, Proust ou Kafka, mais remet à l’honneur d’autres titres moins côtés quoique tout aussi importants, tels Le nommé Jeudi de Chesterton et L’agent secret de Conrad, deux romans qui mettent en scène terroristes et contre-terroristes et qui à leur manière parlent de cette possession révolutionnaire qui fut la marque abominable du XX ème siècle et qu’un Dostoïevski avait déjà anticipée dans ses Possédés. Paradoxe personnel de Leys dont on connaît l’amour de la mer mais qui choisit de Conrad, l’un des plus grands écrivains maritimes s’il en est, le roman le plus urbain, le moins épique, et qui en guise d’eau ne parle que de la pluie londonienne. Mais cohérence métaphysique de Leys qui voit dans cet Agent secret la volonté de Conrad, apatride comme lui, de décrire la terrifiante réalité européenne du début du siècle avec ses conspirations prométhéennes, son nihilisme délirant, sa future violence continentale.
A l’instar de René Girard et de Conrad, Leys est un romantique qui connaît mieux que personne les mensonges du romantisme que seul l’art romanesque peut dévoiler. Y compris ceux qui se mêlent justement de mer et de navigation, sa passion-répulsion. Car la mer réelle n’est pas celle qu’ont fantasmée nombre d’auteurs (et parmi les plus grands comme Baudelaire), en faisant une sorte d’évasion du quotidien, d’horizon paradisiaque, d’aventure féérique comme la rêvait le pauvre Marius dans la trilogie de Pagnol. Non, la vérité que seuls les marins savent mais taisent est que « la mer est invivable ». La mer est stupide, plate, monotone, stérile, cruelle. La mer rappelle que la Nature n’est pas cette bonne maman accueillante sur laquelle se sont pâmés Charles Trenet et Renaud mais bien cette marâtre qui traite sans pitié les hommes et les marins de surcroît. Le « rêve nautique » est plein de noyade, de scorbut, de discipline inhumaine – aussi faux et aussi mortifère que le rêve maoïste. Mais l’amnésie poétique a la vie aussi dure que l’amnésie idéologique. Que sait-on exactement de Magellan et de son voyage aussi héroïque qu’infernal (et qu’il ne termina pas, se faisant tuer à mi-route par des indigènes philippins) ? Au-delà de la performance, indiscutable pour l’époque, de ce premier tour du monde et qui allait changer la donne du monde, « ce que l’expédition démontra – faisant de Magellan l’involontaire ancêtre idéologique de la globalisation, c’est la circumnavigabilité du globe : tous les océans communiquent. »
A partir de Magellan, le monde ne sera en effet plus qu’une affaire de communication, commercialisation, médiatisation, aliénation – et mal de mer. Alors, certes, on peut toujours rêver d’une cité parfaite, comme celle qu’organisèrent pour un temps sur leur île les fameux « naufragés des Auckland » en 1865 (et qui inspirera à Jules Verne quelques années plus tard son Ile mystérieuse), on peut toujours rêver, à l’instar de Simon Leys lui-même, d’une université castalienne où professeurs et étudiants se retrouveraient pour la seule quête de la connaissance pure et de la vérité désintéressée (quoique, rajoute malicieusement l’auteur, « les étudiants constituent un élément important, mais pas toujours indispensable » !), l’on peut toujours imaginer une tour d’ivoire aristocratique dans laquelle se protéger du monde, le problème est que, comme le disait Flaubert, l’on ne pourra jamais éviter cette « marée de merde [qui] en bat les murs, à les faire crouler. » La merde de l’utile, évidemment.
Simon Leys, Le Studio de l’inutilité, Flammarion, 2012.
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Hommage à Schoendoerffer...
Hommage à Schoendoerffer...
Le numéro de mai 2012 de la revue Le spectacle du monde est en kiosque.
Le dossier est consacré à un hommage au cinéaste Pierre Schoendoerffer, récemment décédé. On pourra y lire, notamment, des articles de Michel Marmin ("Le cinéaste des valeurs perdues"), de Bruno de Cessole ("L'heure des héros fatigués"), de Jérôme Leroy ("Willsdorf ou la gloire du sous-off"), de Marc Charuel ("Soldat de l'image") et de Philippe Franchini ("De l'Indochine au Vietnam"), ainsi qu'un entretien avec Jacques Perrin ("Pierre aura été un modèle pour beaucoup").
Hors dossier, on pourra aussi lire des articles de François Bousquet ("Drieu dans la Pléiade", "Virginia Woolf au féminin") ou de Jean-François Gautier ("Claude Debussy, génie tutélaire"). Et on retrouvera aussi les chroniques de Patrice de Plunkett et d'Eric Zemmour ("La fin des modérés").
00:05 Publié dans Cinéma, Revue | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : revue, cinéma, schoendoerffer, film, 7ème art | |
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La beauté de l'imperfection...
La beauté de l'imperfection...
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Les éditions Arléa viennent de publier Les Lieux et la poussière - Sur la beauté de l'imperfection, un essai de Roberto Peregalli, dans lequel il dénonce la laideur froide et sans défaut de l'habitat moderne. Architecte milanais, Roberto Peregalli a suivi des études de philosophie et a été influencé par sa lecture d'Heidegger. Il est déjà l'auteur d'un essai intitulé La cuirasse brodée (Le Promeneur, 2009).
"Les Lieux et la poussière est un essai en douze chapitres sur la beauté et la fragilité. La beauté de notre monde périssable, la fragilité des choses et des vies, la nostalgie qui habite les objets etles lieux.
Roberto Peregalli voit les façades des maisons comme des visages. Il regarde le blanc, le verre, ou la lumière des temples, descathédrales, de la pyramide du Louvre. Il dénonce l’effroi provoqué par le gigantisme et l’inadaptation de l’architecture moderne, la violence de la technologie. Il s’attarde sur le langage et la splendeur des ruines, de la patine et et de la pénombre. Il dénonce l’incurie de l’homme quant à son destin.
Roberto Peregalli nous renvoie à notre condition de mortel. Il nous rappelle combien tout est fragile dans notre être et notre façon d’être. Combien tout est poussière. Combien nous oublions de prendre soin de nous dans notre rapport aux choses et au monde.
Son texte a la force soudaine de ces objets qu’on retrouve un jour au fond d’un tiroir et qui disent de façon déchirante et immédiate tout ce que nous sommes, et que nous avons perdu.
À la façon de Tanizaki, dans Éloge de l’ombre, il dévoile avec sensibilité et intelligence l’effondrement de valeurs qui sont les nôtres et qui méritent d’être en permanence repensées et préservées."
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“Le Complexe de Narcisse”, recension de l’ouvrage de C. Lasch
“Le Complexe de Narcisse”, recension de l’ouvrage de C. Lasch
par Guillaume FAYE
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« Partout, la société bourgeoise semble avoir épuisé sa réserve d’idées créatrices (…) La crise politique du capitalisme reflète une crise générale de la culture occidentale. Le libéralisme (…) a perdu la capacité d’expliquer les événements dans un monde où règnent l’État-Providence et les sociétés multinationales et rien ne l’a remplacé. En faillite sur le plan politique, le libéralisme l’est tout autant sur le plan intellectuel ».
Ce diagnostic porté par Christopher Lasch, l’un des observateurs les plus lucides de l’actuelle société américaine, donne le ton du réquisitoire qu’il a fait paraitre contre la mentalité et l’idéologie décadente des sociétés bourgeoises, sous le titre de The Culture of Narcissism (en traduction française, Le complexe de Narcisse). Dans cet essai, Lasch s’efforce de donner une description aussi précise que possible d’une « nouvelle sensibilité américaine » que l’on retrouve aujourd’hui, plus ou moins atténuée ou déformée, dans la plupart des pays industriels. Conclusion générale de son analyse l’individualisme traditionnel propre à l’idéologie libérale ne se traduit plus aujourd’hui, contrairement à ce qui se passait encore dans les années 60, par une politisation de l’opinion ou une radicalisation de la recherche du bien-être économique, mais par un repli radical sur le “moi” individuel. Ce repli correspond à la poursuite effrénée du “bonheur intérieur”. L’homme contemporain part à la recherche de lui-même, sans illusions politiques, mû par une angoisse qu’il tente d’apaiser par un recours systématique à toutes les formes de sécurité. C’est le triomphe de Narcisse.
Passant en revue l’évolution de la littérature, du système d’éducation, des médias de masse et du discours politique, C. Lasch dresse ainsi la “géographie” d’un narcissisme contemporain dans lequel il n’est pas éloigné de voir, à juste titre, le stade ultime du déclin d’une civilisation.
L’« invasion de la société par le moi » produit, dit-il, une course sans limites vers la « sécurité physique et psychique ». Équivalant à une existence menée dans un perpétuel présent, elle interdit « tout sens de la continuité historique ». Les modes “psy”, les obsessions sexuelles étalées dans le discours public, la frénésie des “expérimentations personnelles”, le désintérêt pour le travail, “l’égotisme” d’une famille nucléaire essentiellement consommatrice, la “théâtralisation de l’existence”, le mimétisme vis-à-vis des “vedettes” de la scène ou de la chanson, sont autant de traits caractéristiques du narcissisme.
« Cette concentration sur soi définit (…) le mouvement de la nouvelle conscience », note Lasch, qui ajoute : « La recherche de son propre accomplissement a remplacé la conquête de la nature et de nouvelles frontières ». Sur le plan politique, un tel comportement s’observe à gauche aussi bien qu’à droite. La gauche était d’ailleurs, depuis longtemps, acquise à une idéologie de refus de la vie-comme-combat. La droite, elle, a peu à peu été gagnée aux valeurs de la pensée rationnelle, calculatrice et bourgeoise. La fuite devant la lutte aboutit ainsi à un psychisme « misérabiliste », que Lasch décrit en ces termes : l’homme « est hanté, non par la culpabilité, mais par l’anxiété (…) Il se sent en compétition avec tout le monde pour l’obtention des faveurs que dispense l’État paternaliste. Sur le plan de la sexualité (…) son émancipation des anciens tabous ne lui apporte pas la paix (…) Il répudie les idéologies fondées sur la rivalité, en honneur à un stade antérieur du développement capitaliste. Il exige une gratification immédiate et vit dans un état de désir inquiet et perpétuellement inassouvi ».
L’origine de ce « complexe de Narcisse », état psychologique ultime de la mentalité individualiste, est à rechercher dans la décomposition d’une société qui, fondée sur l’égalité et l’autonomie individuelle, s’est peu à peu transformée en jungle sociale. « La culture de l’individualisme compétitif est une manière de vivre qui est en train de mourir — note à ce propos C. Lasch. Celle-ci, dans sa décadence, a poussé la logique de l’individualisme jusqu’à l’extrême de la guerre de tous contre tous, et la poursuite du bonheur jusqu’à l’impasse d’une obsession narcissique de l’individu pour lui-même. La stratégie de la survie narcissique (…) donne naissance à une « révolution culturelle qui reproduit les pires traits de cette même civilisation croulante qu’elle prétend critiquer (…) La personnalité autoritaire n’est plus le prototype de l’homme économique. Ce dernier a cédé la place à l’homme psychologique de notre temps — dernier avatar de l’individualisme bourgeois ».
Soumis aux “experts” et dominé par les psychiatres, l’homme contemporain s’est donc anxieusement lancé à la poursuite de son “moi”. Démobilisé dans ses instances profondes, imperméable à toute visée politique de longue durée, inapte à la compréhension d’un destin collectif, indifférent à l’histoire, il planifie, comme un comptable, l’obtention de son bonheur intime. Ce dernier, jusqu’à la fin des années 60, se confondait avec la réussite matérielle et le bien-être du confort domestique. C’était l’époque de la deuxième “révolution industrielle”, animée par une idéologie de la compétition individuelle et caractérisée par l’accession massive des classes moyennes au standing de la bourgeoisie aisée. Mais aujourd’hui, l’idée de bonheur a pris une autre résonance. Elle a dépassé sa connotation purement matérielle pour se doter d’une portée “psychologique”. Il s’agit maintenant de sécuriser son “moi”, de “partir à la recherche de soi-même”, sur la base d’une introspection presque pathologique. À la quête du bonheur économique, dont les limites apparaissent désormais clairement, s’ajoute la recherche du “bonheur intérieur”. L’idéal mercantile du bien-être petit-bourgeois conserve sa vigueur, mais il ne suffit plus à étancher la soif de l’homme contemporain. Celui-ci veut accéder à la “félicité psychique”. Il se tourne vers une série d’utopies nouvelles. L’État-Providence est là pour lui promettre la “bonne vie” sans le stress, le maximum de droits avec le minimum de devoirs, le confort à peu de frais, la prospérité matérielle dans la quiétude du “moi”.
Toutefois, les gourous du mieux-vivre, s’ils ont rejeté les valeurs de compétition et de risque, n’ont pas abandonné pour autant les aspirations matérialistes de la bourgeoisie traditionnelle. Narcisse, obsédé par son désir d’apaiser ses “tensions” psychologiques, de réaliser ses “pulsions” libidinales, n’entame pas une critique sur le fond de la société de consommation. Il veut l’abondance, mais sans avoir à se battre pour l’obtenir ; la richesse, mais sans effort, et, en plus, la plénitude sexuelle et l’apaisement de ses conflits quotidiens.
L’impossibilité évidente de satisfaire en même temps ces exigences contradictoires donne à la mentalité narcissique une conscience à la fois infantile et douloureuse. Plus l’individu se replie sur lui-même, plus il se découvre des “problèmes” nouveaux et insolubles. La recherche du bonheur débouche sur une angoisse qui n’est plus regardée comme un défi, mais comme une menace. La nouvelle bourgeoisie narcissique est une classe fragile, inquiète, hypersensible, superficielle, instable.
Une autre cause du narcissisme contemporain, qui « recroqueville le moi vers un état primaire et passif dans lequel le monde n’est ni crée ni formé », réside dans la permissivité sociale et la bureaucratisation. La permissivité détruit les normes de conduite collectives. Loin de libérer, elle isole. Elle fait exploser le sens. Privé du cadre éducatif et des institutions hérités, l’individu ne sait plus comment se comporter. Il s’en remet alors ans injonctions éphémères que lui distillent les médias, la publicité, les “manuels” d’éducation sexuelle, etc. Les conseils (intéressés) des magazines ou de la télévision se substituent à l’expérience intériorisée de la tradition familiale ou communautaire. Les règles de vie ne sont plus trouvées que par fragments ou par accident, dans le champ anonyme et frustrant du “discours public”. Le “surmoi” social s’est effondré. Les normes de comportement, auxquelles nulle société n’échappent, ne proviennent plus que des structures dominantes, économiques et techniques, de la société, Privé d’autodiscipline, puisqu’il n’intériorise pas les règles sociales, l’individu se heurte brutalement aux interdits socio-économiques qu’il découvre en arrivant à l’âge adulte : règles bureaucratiques, pratiques bancaires, impératifs commerciaux, etc. Élevé dans le mythe d’une “liberté” formelle, il supporte de moins en moins bien ces contraintes et réagit en se renfermant d’autant plus sur lui-même.
La bureaucratisation des activités sociales accentue la tendance. Déchargeant les hommes des soucis de la lutte quotidienne, elle donne aux hommes l’illusion de l’irresponsabilité. L’individu se découvre étranger à ceux qui l’entourent, à ceux qui partagent son existence quotidienne et à qui, désormais, plus rien ne le lie. La mentalité d’assistance, le recours perpétuel à des “droits” que rien ne vient plus fonder, la sécurisation de la vie privée par la bureaucratisation de l’État-Providence décharge l’individu de son rôle actif. Que lui reste-t-il à faire alors, puisque rien ne l’attache plus aux autres, sinon à se passionner pour lui-même ?
Le déclin des idéaux révolutionnaires et du marxisme orthodoxe a fait perdre l’espoir d’une transformation radicale de la société. L‘idéologie égalitaire a reporté ses visées dans le domaine des contre-pouvoirs insignifiants et des micro-aménagements quotidiens. L’égalitarisme ne laisse plus entrevoir de “paradis social”, mais seulement des “paradis individuels”. L’utopie du bonheur s’affaiblit sur le plan collectif et se rétracte au niveau intime et personnel. Nous en sommes à l’ère, prévue (et voulue) par l’École de Francfort, des “révolutions minuscules”.
La “fin de l’histoire”, elle aussi, est recherchée sur le plan individuel après l’avoir usé sur le plan social et collectif, Même la société “bonheurisée” et privée de véritable histoire politique que nous connaissons actuellement apparaît comme trop astreignante. Elle ne constitue pas encore un refuge suffisamment sécurisant contre le stress. Elle n’endort pas encore assez. L’individu, en se repliant sur sa sphère psychique, prend mentalement sa retraite dès l’âge de 20 ans. La société n’entend plus sortir directement de l’histoire ; c’est l’individu qui se retire de la société.
Oublieuse de toute notion de continuité historique, de toute perception dense des liens sociaux, la société narcissique incite à vivre pour soi-même et à n’exister que dans l’instant. Tel est d’ailleurs le sens de la plupart des messages publicitaires. Tel est aussi le “discours” distillé à longueur de temps par des magazines, de plus en plus nombreux, qui se spécialisent dans la résolution “catégorielle” des problèmes individuels (parents, enfants, jeunes femmes, amateurs de vidéo, etc.) et l’étude “micro-dimensionnelle” de la vie quotidienne. Dans cette recherche, nulle place n’est laissée à l’accomplissement personnel dans le sens d’un style aristocratique ou d’un dépassement de soi. On en reste aux fantasmes stéréotypes, à la planification “micro-procédurière”, à l’introspection complaisante d’un “moi” de plus en plus étiolé. « La survie individuelle est maintenant le seul bien », observe C. Lasch. Le XXIe siècle, à ce rythme, ne sera pas un siècle religieux, mais un siècle thérapeutique.
Dans cette perspective, le culte de la fausse intimité, l’intensification artificiel le des rapports subjectifs, la simplification primitiviste des “rituels” de séduction et d’approche, constituent des formes maladroites de compensation par rapport au cynisme social et à l’absence de valeurs partagées. L’existence de liens entre l’individu et des valeurs de type communautaire reste en effet une nécessité inéluctable dans toute société, quand bien même la conscience individuelle les refuse. Les liens affectifs individuels demeurent insuffisants pour donner aux individus un sens à leur existence. Ainsi, paradoxalement, la vague actuelle de “sentimentalité” qui tend à isoler l’individu à l’intérieur du couple, et le couple à l’intérieur de l’ensemble de la société, débouche sur la mort de toute affection authentique et sur la fragilisation des rapports d’union. L’amour comme l’amitié, pour être durables, doivent s’insérer dans un cadre plus large que celui défini par leurs protagonistes immédiats. Or, c’est cette dimension communautaire que le “narcissisme” attaque dans ses racines. Lorsque l’individu ne peut plus ni percevoir ni “idéaliser” le groupe, la cité, la communauté à laquelle il appartient, il est obligatoirement conduit à intensifier ses rapports infimes de façon si hypertrophique qu’il finit en fait par les détruire. C’est ainsi, par ex., que la vague récente de “néoromantisme”, évoquée par Edouard Shorter (Naissance de la famille moderne, Seuil, 1979), ne débouche pas sur l’amour, mais sur l’égotisme et sur l’obsession de soi.
De même, les fausses expérimentations vitales, qui ne reposent sur aucune habitude culturelle, sur aucun besoin intériorisé, dépersonnalisent l’individu au lieu de le recentrer, le “débranchent” en quelque sorte du monde vécu sans lui fournir “l’autre dimension” souhaitée. N’ayant pas trouvé le bonheur dans la consommation matérielle et le confort économique, la nouvelle bourgeoisie “narcissique” tente de l’atteindre dans une consommation de “produits spirituels”, dont la qualité laisse, évidemment, fort à désirer. Les États-Unis, et plus spécialement la sphère “californienne”, sont particulièrement en pointe dans ce style d’entreprises, dont certains essaient de nous persuader qu’elles constituent la naissance d’une nouvelle culture ou la source possible d’un renouveau de la spiritualité.
La description que donne C. Lasch est convaincante de bout en bout. Pourtant, Lasch semble ne pas tirer toutes les conclusions de son propos, probablement parce qu’il se trouve lui-même immergé dans une société américaine dont il n’ose pas remettre en cause les idéaux fondateurs (dont le “narcissisme” est pourtant l’aboutissement). C’est pourquoi il propose, de façon assez peu crédible un retour à des valeurs anciennes auxquels il n’envisage à aucun moment de donner un nouveau fondement. (Certains pourront voir là un essai de réactivation du puritanisme américain traditionnel).
Ce n’est pourtant pas, à notre avis, dans un quelconque “ordre moral” que réside la solution au “mal de vivre” de Narcisse. La solution ne peut procéder d’une manipulation sociale, d’une transformation des institutions, d’une évolution mécanique des codes sociaux ou d’un discours purement moral, Pour en finir avec “l’idéologie de la compassion” et la mentalité de “l’avoir-droit narcissique”, toute attitude répressive ou, au contraire, de simple lamentation, ne peut que se révéler sans effet. Seuls peuvent mobiliser les individus en tant que parties intégrantes d’un peuple, des projets d’essence politique et culturelle, fondés sur des valeurs (et des contre-valeurs) entièrement opposées à celles qui ont présidé à la naissance de la “république universelle” des États-Unis d’Amérique. Ce n’est pas, bien entendu, d’outre-Atlantique, que l’on peut les attendre.
◘ Le complexe de Narcisse : La nouvelle sensibilité américaine, traduit par Michel Landa, Robert Laffont, coll. Libertés 2000, 1981. [Version remaniée : La Culture du narcissisme, Champs-Flam, 2006]
► Guillaume Faye, Nouvelle École n°37, 1982.
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jeudi, 24 mai 2012
Conferentie Syrië – 26 mei 2012 – Brussel /
Conferentie Syrië – 26 mei 2012 – Brussel /
Conférence Syrie – 26 mai 2012 – Bruxelles /
Conference Syria – 26 May 2012 – Brussels
Version française plus bas / English invitation: scroll down
Beste vrienden
Hiermede nodigen wij u uit op de conferentie ‘Syrië anders bekeken’ van de Mediawerkgroep Syrië op zaterdag 26 mei 2012 van 13.30 tot 18 uur in de zaal van de Sint-Niklaaskerk, Steenstraat 44 te 1000 Brussel (vlakbij de Grote Markt).
Priester Daniël Maes, norbertijn van Postel en afkomstig uit Arendonk, draagt zorg voor de mannenvleugel in het zesde eeuwse klooster Mar Yakub in Qâra, gelegen op 90 kilometer van Damascus. Hij is er ook verantwoordelijk voor het eerste seminarie van de katholieke priesteropleiding. Door vele contacten ter plaatse kreeg priester Maes het voorbije jaar de unieke kans om vast te stellen wat er werkelijk gaande is in Syrië. Hij zal ons daarover uitvoering informeren.
Eveneens krijgen we een overzicht van de actuele geschiedenis van Syrië door historicus Bahar Kimyongür en een recent reisverslag door journalist Kris Janssen.
Op het programma staan nieuwe video’s, foto’s, muziek en een gezellig samenzijn met een babbel en een drankje.
Als u wilt weten wat er zich werkelijk het voorbije jaar afspeelde in Syrië, loop dan gewoon even langs en noteer nu reeds 26 mei 2012 in uw agenda. En breng gerust een aantal vrienden mee. Tot dan!
* * * * *
Journalisten nodigen wij graag uit op de persconferentie van de Mediawerkgroep Syrië op zaterdag 26 mei 2012 om 12 uur stipt in de zaal van de Sint-Niklaaskerk, Steenstraat 44 te 1000 Brussel (vlakbij de Grote Markt). Priester Daniël Maes zal de aanwezige media toelichten over de laatste stand van zaken in Syrië en antwoorden op vragen van journalisten.
* * * * *
Met vriendelijke groeten,
namens Mediawerkgroep Syrië
Email: werkgroepsyrie@gmail.com
Blog: http://mediawerkgroepsyrie.wordpress.com
Facebook: http://www.facebook.com/MWSyria
Twitter: @MWSyria
Chers amis,
Nous voulons vous inviter à une conférence ‘Syrie autre regard’ du Groupe-Média Syrie. L’événement aura lieu le samedi 26 mai 2012 dans la salle de l’église Saint-Nicolas, Rue de Pierre 44, 1000 Brussel (tout près de la Grande Place). Et ça de 13.30 h à 18.00 h. Prêtre Daniël Maes, Norbertin de l’abbaye de Postel et originaire de Arendonk, donnera un exposé sur la situation actuelle en Syrie. Daniël Maes prend soin de la section masculine du monastère Mar-Yacub (6iéme siècle) à Qâra, à une 90 kilomètres de Damascus. Il est aussi le responsable pour le premier séminaire catholique de la Syrie. Par ses nombreux contacts sur place, ce prêtre a eu l’unique occasion de constater ce qui se passe vraiment en Syrie. C’est un témoin de première main. Il nous en informera d’une manière détaillée.
Prévus également: un aperçu de l’histoire actuelle de la Syrie par l’historien Bahar Kimyongür et un reportage de voyage du journaliste Kris Janssen.
Sur le programme aussi des vidéos, des fotos, de la musique… Et tout cela dans une atmosphère de convivialité (boisson et bavarde).
Si vous voulez vraiment savoir ce qui s’est passé vraiment en Syrië l’année passée, n’hésitez pas et rejoignez nous le 26 mai. Et notez déjà cette date dans votre agenda. Amenez sûrement quelques amis. A bientôt donc!
* * * * *
Nous avons l’honneur d’inviter les journalistes à une conférence de presse du Groupe-Média Syrië. Et ça le samedi 26 mai 2012 à 12.00 h à la minute. La conférence aura lieu dans la salle de l’église Saint-Nicolas, Rue de Pierre 44, 1000 Bruxelles (tout près de la Grande Place).
* * * * *
Cordialement votre,
Groupe-Média Syrie
Email: werkgroepsyrie@gmail.com
Blog: http://mediawerkgroepsyrie.wordpress.com
Facebook: http://www.facebook.com/MWSyria
Twitter: @MWSyria
Dear Sir, Madam,
Priest Daniel Maes from Arendonk, Norbertine monk at Postel Abbey, is in charge of men’s quarters at the 6thC monastery in Mar Yakub at Qara, 90 kilometres from Damascus. He is also responsible for the first seminary at the Catholic seminary. Continually communicating with locals, priest Maes is uniquely in the position to know what is really going on in Syria and will inform the public.
The public part of the meeting, from 13:30 to 18:00 p.m., offers beside the presentation of priest Maes, an overview of Syria’s contemporary history by historian Bahar Kimyongür and a recent inside report by journalist Kris Janssen. The programme includes new footage and photos as well as music and an opportunity to socialize and share a drink.
If you are interested in what is really going on in Syria from last year onwards, just block 26 May 2012 in your diary, walk in and feel free to bring your friends. Until then!
* * * * *
The Media Group Syria would like to invite journalists to a special press conference on Saturday May 26th at 12:00 a.m. in the hall of St Nicholas Church, Steenstraat / rue des Pierres 44, 1000 Brussels (near the Grand Place). At the press conference priest Daniël Maes will present his findings, explain the current situation in Syria and answer questions from journalists.
* * * * *
Media Workgroup Syria
Email: werkgroepsyrie@gmail.com
Blog: http://mediawerkgroepsyrie.wordpress.com
Facebook: http://www.facebook.com/MWSyria
Twitter: @MWSyria
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Al-Qaeda Involvement with Syrian Rebels
Assad’s Motives for Claiming Al-Qaeda Involvement with Syrian Rebels
Ex: http://www.counter-currents.com/
Whenever you see something in the mainstream media, it’s always a good idea to ask yourself, “who benefits” from the situation and how it is portrayed. Besides the damning evidence Israel was directly involved [2] in the 9/11 terrorist attacks, that question is why I’m highly skeptical about the terrorist network, Al-Qaeda.
Al-Qaeda’s actions appear to benefit (perceived) Jewish interests and the hostile elite within Anglosphere much more than it benefits the Muslims it claims to represent. If anything, Al-Qaeda seems to act against the interests of Arab Muslims (as well as white people).
So when I heard Gaddafi’s claim [3] that, “al-Qaeda is behind the Libyan uprising,” last year, I dismissed it as Gaddafi making a very ineffective, naïve, and embarrassing appeal to those in the West (1). Given his character and history, I wouldn’t have put it past him.
Now Assad’s government in Syria is also claiming Al-Qaeda is playing a role [4] in the violence aimed at overthrowing the Syrian government. This, and my better grounding in the global political situation (especially concerning Russia) made me reflect more on the situation.
I’ve come to suspect two things. First, that, Al-Qaeda operatives probably were involved in overthrowing Gaddafi’s government and are currently involved in the attempt to overthrow the Syrian government. To what extent, I don’t know, but this would make a lot of sense if Al-Qaeda is actually an Israeli-Neocon front group or is somehow bribed into serving their interests. Second, that instead of a poorly thought-out appeal to the West, claiming Al-Qaeda is involved in the rebel’s terrorism may actually be very smart political positioning – at least in Assad’s case. Let me explain.
By claiming Al-Qaeda is involved with but not necessarily the only group behind the rebels, Syria leaves room for its allies, namely Russia, to strike a deal with Anglosphere that allows the West a way to save face if it backs down from supporting the overthrow of Assad’s government.
If a deal cannot be struck, the Assad government has not claimed that Al-Qaeda is exclusively behind the rebellion and therefore can still point the finger at Western governments (i.e. the United States, Israel, and the U.K.). Such an accusation may be more powerful than you would think given the West’s long track record of intervention in the Middle East. If promoted enough by allies like Russia and China, exposing Western involvement in the violent terrorism in Syria could critically undermine Anglosphere’s ever-decreasing credibility on Middle Eastern affairs and threaten to unite most of the world in anger against the primary culprits—America, Israel, and the U.K.—who are already growing more and more isolated on the international political plain.
In an admittedly unlikely scenario, it’s even possible that bringing captured Al-Qaeda operatives into the international limelight [5] could expose the unseemly connections between Al-Qaeda and the governments and groups who actually run and/or support it.
Whoever runs Al-Qaeda and whatever role it is really playing, I think the motive for claiming Al-Qaeda involvement in the conflict is primarily to leave options open for political maneuvering by allies like Russia that have the power to dissuade Anglosphere from further pursuing Syrian regime change. In any case, there’s a lot more to this than meets the eye, and it behooves us to read between the lines and ask, “why is this being said,” and “who benefits from this?”
1. http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/01/gaddafi-libya-al-qaida-lifg-protesters [6]
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/05/assads-motives-for-claiming-al-qaeda-involvement-with-syrian-rebels/
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"ITINERAIRE ENTRE POLEMOS ET MITTELEUROPA"
"ITINERAIRE ENTRE POLEMOS ET MITTELEUROPA"
Méridien Zéro reçoit ce dimanche Jean-Jacques Langendorf, historien, écrivain et essayiste suisse, spécialiste des problèmes de stratégie et de défense ainsi que Laurent Schang, animateur du blog Le Polémarque pour évoquer avec eux les grands problèmes stratégiques européens.
Pour écouter:
http://meridienzero.hautetfort.com/archive/2012/05/17/emission-n-97-itineraire-entre-polemos-et-mittel-europa.html
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Le Dictionnaire des polémistes
Un nouveau Bouquin de Synthèse nationale :
Le Dictionnaire des polémistes,
d'Antoine de Rivarol à François Brigneau,
Tout au long de l’année 2011, Robert Spieler a proposé aux lecteurs de Rivarol, l’hebdomadaire de l’opposition nationale et européenne, une série d’articles consacrés aux polémistes qui marquèrent l’histoire de la presse depuis la Révolution française, jusqu’au milieu du XXe siècle. Il reprend ainsi le travail effectué par Pierre Dominique dans son ouvrage publié au début des années 60 (et aujourd’hui épuisé) Les Polémistes français depuis 1789.
Ce Dictionnaire des polémistes rassemble tous ces articles. Vous retrouverez ici les grands noms qui, en leur temps, marquèrent les esprits. Ils n’hésitaient pas à dénoncer les puissants du moment. Beaucoup parmi eux payèrent très cher leur engagement. Aujourd’hui, la liberté d’expression se heurte encore aux ukases du politiquement correct et, comme hier, des lois liberticides, beaucoup plus insidieuses sans doute, empêchent les vrais polémistes de s’exprimer…
Robert Spieler, ancien député, fondateur d’Alsace d’abord, Délégué général de la Nouvelle Droite Populaire, est aussi l’un des journalistes de l’hebdomadaire Rivarol. Chaque semaine il décortique avec délectation et cynisme l’actualité dans sa fameuse Chronique de la France asservie et résistante.
■ Commandez le Dictionnaire des Polémistes :
Règlement à la commande par chèque à l’ordre de Synthèse nationale à retourner à :
Synthèse nationale 116, rue de Charenton 75012 Paris
18, 00 € l’exemplaire (+ 3 € de port)
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mercredi, 23 mai 2012
Ces ministres de François Hollande qui ont été formés par les Américains
Washington sur Seine ?
Ces ministres de François Hollande qui ont été formés par les Américains
Ex: http://mbm.hautetfort.com/
La French American Fondation est connue pour sa formation, les "Young Leaders", réservée à une dizaine de jeunes surdiplômés chaque année. Sur les huit socialistes sélectionnés comme Young Leaders depuis François Hollande en 1996, six rentrent dans son gouvernement cette semaine. Le plus "atlantiste" n'est pas toujours celui qu'on croit...

Sur les huit socialistes sélectionnés comme Young Leaders depuis François Hollande en 1996, six rentrent dans son gouvernement cette semaine. Crédit Reuters
Exit Alain Juppé, Valérie Pécresse, Nathalie Kosciusko-Morizet, Laurent Wauquiez, Jeannette Bougrab... Place à François Hollande, Pierre Moscovici, Arnaud Montebourg, Marisol Touraine, Najat Vallaud-Belkacem, Aquilino Morelle (plume du Président), etc.
« Enfin des têtes nouvelles ! » entend-t-on ici ou là. Nouvelles ? Tout est relatif, quand on sait décrypter la liste ci-dessus : en fait, tous ces « Young Leaders » de l’UMP ont laissé la place à des « Young Leaders » du Parti socialiste. Car François Hollande et Pierre Moscovici depuis 1996, Marisol Touraine et Aquilino Morelle depuis 1998, Arnaud Montebourg depuis 2000 et Najat Vallaud-Belkacem depuis 2006, sont tous des « Young Leaders ». Tous ont été minutieusement sélectionnés et « formés » par ce très élitiste réseau Franco-Américain, inconnu du grand public, sponsorisé entre autres par la banque Lazard. En d’autres termes, ils ont tous postulé et se sont fait parrainer pour être admis à suivre ce programme phare mis en place par la FAF, la French American Fondation. La FAF est elle-même un organisme à cheval sur Paris et New-York, créée en 1976 conjointement par les présidents Ford et Giscard d’Estaing. A noter qu’entre 1997 et 2001, John Negroponte présida la FAF, avant de devenir entre 2005 et 2007, sous Georges Bush, le premier directeur coordonnant tous les services secrets américains (DNI), dirigeant l’US States Intelligence Community (qui regroupe une quinzaine de membres, dont le FBI et la CIA).
Crée en 1981, ce programme Young Leaders permet de développer « des liens durables entre des jeunes professionnels français et américains talentueux et pressentis pour occuper des postes clefs dans l’un ou l’autre pays ». Pressentis par qui ? Par un très strict comité de sélection, composé majoritairement d’anciens Young Leaders, qui ne retient qu’une dizaine d’admis par an. Seuls 13 hommes ou femmes politiques ont été admis depuis 1995, soit moins d’un politique par an en moyenne. Ces heureux « élus » sont choisis comme d’habitude parmi l’élite française : seuls 4% des Young Leaders français ne sont pas diplômés de l’ENA ou pas titulaires d’au moins un diplôme Bac+5, les trois quarts sont des hommes, à 80 % Parisiens... Autant dire qu’on reste en famille avec ce gratin issu de nos grandes écoles. Une spécificité française, qui, comme le souligne un rapport de la FAF, assure « une fonction de "reproduction sociale" de la "classe dominante " […] dans un pays où la simple notion de leadership renvoie aux "diplômes" et non aux qualités intrinsèques de la personne comme c’est souvent le cas outre-Atlantique ». Bref, notre nouveau président et ses nouveaux ministres cités ici sont de purs produits de nos grandes écoles, « ces acteurs influents (qui) personnifient la "pensée dominante" depuis de nombreuses décennies » selon la FAF.
Dès que l’on parle de réseaux d’influence, certains de leurs membres crient aux « obsédés du complot » et s’empressent généralement de préciser que le rôle de telles organisations est marginal et informel. Pour ce qui est de l’efficacité des « Young Leaders », les chiffres parlent plus que tous les longs discours : sur les 8 socialistes sélectionnés comme Young Leaders depuis François Hollande en 1996, 6 rentrent dans son gouvernement cette semaine. (Ne restent sur la touche, pour le moment, que Bruno Le Roux, qualifié par beaucoup de « ministrable », et Olivier Ferrand, l’ambitieux président du think-tank Terra Nova ayant permis l’élection de François Hollande aux élections primaires ; deux candidats impatients de rejoindre leurs camarades Young Leaders au gouvernement). Beau tir groupé, comme s’en enorgueillit à juste titre le site américain (http://www.frenchamerican.org : «The French-American Foundation is proud to have five Young Leader in the cabinet of President François Hollande, himself a Young Leader in 1996”), tandis que le site français n’en dit pas un mot (http://www.french-american.org). Il est vrai que, depuis l’affaire DSK, chacun aura compris que les deux pays n’ont pas la même culture de la transparence…
En septembre 2006, lors de sa visite aux États-Unis, Nicolas Sarkozy avait prononcé un discours à la French American Foundation (FAF), rappelant la nécessité de « rebâtir la relation transatlantique », paraphrasant ainsi les statuts de la fondation dont l’objectif est de « renforcer la relation franco-américaine considérée comme un élément essentiel du partenariat transatlantique ». A ceux nombreux qui me demandent, à l’occasion de la visite de François Hollande à Barack Obama, « pourquoi est-ce que les journalistes ne nous parlent pas de ça, à propos de François Hollande, au lieu de nous parler de son séjour d’étudiant et de son goût des cheeseburgers dont on a rien à faire? ». Qu’ils demandent donc la réponse aux journalistes qui ont l’art de nous servir ces hamburgers, préparés par les communicants, en prenant leurs lecteurs pour des cornichons ! Qu’ils la demandent en particulier aux Young Leaders des médias, aujourd’hui actionnaires ou directeurs des principales rédactions, ces copains de promo de certains de nos nouveaux ministres pour certains d’entre eux : de Laurent Joffrin (Nouvel Observateur) à Denis Olivennes (Europe 1, Paris Match et du JDD), en passant par Matthieu Pigasse, Louis Dreyfus et Erik Izraelewicz (Le Monde)… Et la liste hommes de médias Young Leaders est longue, comme on peut la lire plus intégralement dans l’enquête très documentée « Ils ont acheté la presse » de Benjamin Dormann, sur l’envers du décor de ces réseaux d’influence auxquels appartiennent désormais tant d’hommes clés des médias (ce qui explique que la presse évite d’en faire écho).
A New-York, la venue de François Hollande et de sa nouvelle équipe était attendue sereinement. Vu de la FAF, « Welcome à la Hollande team » ; on reste en terrain connu, tout est sous contrôle, on est même fier d’avoir autant de ses poulains dans la place, nous l’avons vu. Que les angoissés se rassurent : « le changement, ce n’est pas pour maintenant », n’en déplaise à Jean-Luc Mélenchon, l’allié peu atlantiste du Président !
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La boussole s’est rompue par Costanzo PREVE
La boussole s’est rompue
par Costanzo PREVE
I
On ne peut décemment demander au marin de partir en mer sans compas, surtout lorsque le ciel est couvert et que l’on ne peut s’orienter par les étoiles. Mais qu’arrive-t-il, si l’on croit que le compas fonctionne, alors qu’il est falsifié par un aimant invisible placé dessous ? Eh bien, voilà une métaphore assez claire de notre situation présente.
II
En Italie, avec le gouvernement Monti, les choses sont devenues à la fois plus claires et plus obscures. Plus claires, parce qu’il est bien évident que la décision politique démocratique (dans son ensemble, de gauche, du centre, de droite) a été vidée de tout contenu; et que nous sommes devant une situation que n’avaient jamais imaginée les manuels d’histoire des doctrines politiques (bien évident : du moins pour ces deux pour cent de bipèdes humains qui entendent faire usage de la liberté de leur intelligence; je ne tiendrai pas compte ici des quatre-vingt dix-huit pour cent restant).
En bref, nous sommes devant une dictature d’économistes, à légitimation électorale référendaire indirecte et formelle. Il est évident que cette dictature s’exerce pour le compte de quelqu’un, mais ce serait se tromper que de trop « anthropomorphiser » ce quelqu’un : les riches, les capitalistes, les banquiers, les Américains, etc. Cette dictature d’économistes est au service d’une entité impersonnelle (que Marx aurait qualifiée de « sensiblement suprasensible »), qui est la reproduction en forme « spéculative » de la forme historique actuelle du mode de production capitaliste (1). À ce point de vue, les choses sont claires.
Ce qui n’est pas clair du tout, et même obscur, c’est la manière dont cette junte d’économistes peut « conduire l’Italie hors de la crise ». Elle est au service exclusif de créanciers internationaux; son unique horizon est la dette. La logique du modèle néo-libéral consiste à « délocaliser » de Faenza jusqu’en Serbie la fabrication des chaussures Omca, afin de pouvoir payer les ouvrier deux cents euros.
Dans cette situation, le maintien du clivage Droite/Gauche n’est plus seulement une erreur théorique. C’est potentiellement un crime politique.
III
Dernièrement, je suis resté ébahi en lisant un tract du groupuscule La Gauche critique. Je ne comprenais même pas pourquoi, et puis tout d’un coup j’ai cru comprendre. Le terme même de « gauche critique » est une contradiction, puisque le présupposé principal et très essentiel de toute critique, sans lequel le terme de « critique » perd tout son sens, est justement le dépassement de cette dichotomie « Droite/Gauche ». On ne peut plus être à la fois critiques, et de gauche; non plus que de droite, ce qui revient au même.
Je viens de renvoyer au dernier livre de Diego Fusaro. Dans cette histoire philosophique du capitalisme, depuis ses origines au XVIe siècle jusqu’à aujourd’hui, ces deux petits mots, Droite et Gauche, n’apparaissent absolument jamais, par ce fait tout simple et nu que la mondialisation capitaliste, et la dictature des économistes qui nécessairement en est la forme, a entièrement vidé ces catégories de leur sens. Norberto Bobbio (2) pouvait encore en parler en toute bonne foi, en un temps où existait encore une souveraineté monétaire de l’État national, et où les partis de « gauche » pouvaient appliquer des politiques économiques de redistribution plus généreuses que celle des partis « de droite ». Mais aujourd’hui, avec la globalisation néo-libérale, le discours de Bobbio ne correspond plus à la réalité.
Il y a, bien sûr, un problème, du moment que la dictature « neutre » des économistes a cependant toujours besoin d’être légitimée constitutionnellement par des élections, fussent-elles vides de tout sens de décision. C’est donc ici que se met en scène une comédie à l’italienne; personnages : la « gauche responsable » : Bersani, D’Alema, Veltroni, tout le communisme togliattien recyclé; le bouffon qui fait la parade, Vendola, dont on sait bien a priori que ses suffrages iront de toute façon au Parti démocrate (3); les « témoins du bon vieux temps » Diliberto et Ferrero, dont les suffrages iront toujours au même Parti démocrate, sous le prétexte du péril raciste, fasciste, populiste, etc.; les petits partis à préfixe téléphonique (respectivement Pour la refondation de la IVe internationale bolchevique, Refondateurs communistes), de Turigliatto et Ferrando, fidèles au principe olympique « L’important n’est pas de vaincre, mais de participer »; enfin, les « Témoins de Jéhovah » du communisme (Lutte communiste), dans l’attente du réveil du bon géant salvifique, la classe ouvrière et salariée mondiale (4).
L’idéal serait que, selon la fiction du romancier portugais José Saramago, personne n’allât plus voter; je souligne : personne. Si personne n’allait plus voter, la légitimation formelle de la dictature des économistes s’écroulerait. Le magicien capitaliste trouverait encore le moyen de tirer un nouveau lapin de son chapeau, mais on s’amuserait bien en attendant. Hélas ! Cela est un rêve irréalisable. La machine Attrape-couillons est trop efficace pour qu’on la laisse tomber en désuétude.
IV
Et pourtant, la solution pourrait bien être à la portée de la main : une nouvelle force politique radicalement critique à l’égard du capitalisme libériste mondialisé, et tout à fait étrangère au clivage Droite/Gauche. Une force politique qui laisse tomber tous les projets de « refondation du communisme » (la pensée de Marx est encore vivante, mais le communisme historique est mort), et qui retrouve plutôt des inspirations solidaristes et communautaires (5). En théorie, c’est l’œuf de Christophe Colomb; en théorie, il faudra encore plusieurs décennies, à moins d’improbables accélérations imprévues de l’histoire, pour que l’on comprenne bien que la boussole est hors d’usage, et que « droite » et « gauche » ne sont plus désormais que des espèces de panneaux de signalisation routière.
V
Et c’est ici que je vais donner l’occasion à tous les scorpions, araignées, et vipères de m’accuser : « Preve fasciste ! ». Il est vrai que, si l’on a peur de briser les tabous, mieux vaut se reposer et lire des romans policiers.
Voici : un cher ami français vient de m’envoyer le livre qu’a écrit Marine Le Pen (6). Je sais déjà qu’on va parler d’une astucieuse manœuvre d’infiltration populiste par l’éternel fascisme; mais ce livre, lisez-le, au moins. Il est étonnant. Moi, il ne m’étonne pas, puisque je connais bien la dialectique de Hegel, l’unité des contraires, et la logique du développement tant de la gauche que de la droite depuis une vingtaine d’années.
Voyons cela. À la page 135, Marine Le Pen écrit : « Je n’ai pour ma part aucun état d’âme à le dire : le clivage entre la gauche et la droite n’existe plus. Il brouille même la compréhension des enjeux réels de notre époque ». Je vois que ses principales références philosophiques dont deux penseurs « de gauche » : Bourdieu et Michéa (p. 148). Je vois que Georges Marchais, ce représentant du vieux communisme français, est cité, favorablement. Plus de Pétain ni de Vichy. Sarkozy est condamné tant pour sa politique extérieure au service des États-Unis que pour sa politique intérieure qui aggrave l’inégalité sociale. Sur la question du marché, sa principale référence théorique est Polanyi (p. 26). Le non français à la guerre d’Irak de 2003 est revendiqué (p. 37). Marx est cité (p. 61); le grand économiste Maurice Allais est souvent cité, pour soutenir l’incompatibilité du marché et de la démocratie. Mais surtout, j’y ai retrouvé avec plaisir ce qui me séduisait dans le communisme des années soixante, à savoir que la parlotte polémique à courte portée marche derrière, et non devant : le livre commence par un long chapitre intitulé, à la française « Le mondialisme n’est pas un humanisme ». La globalisation est très justement qualifiée d’« horizon de renoncement », et il y est réaffirmé que « l’empire du Bien est avant tout dans nos têtes », ce qui est vrai.
Je pourrais continuer. Je sais que j’ai donné aux vipères et aux scorpions une belle occasion de m’outrager; et c’est ce qui va arriver.
Mais pour moi, tout ce que je veux, en réalité, c’est faire réfléchir.
VI
Pour comprendre ce que sont aujourd’hui la Droite et la Gauche, nul besoin de s’adresser à des défenseurs « idéal-typiques » de la fameuse dichotomie, en termes de valeurs éternelles et de catégories de l’Esprit, comme un Marco Revelli. Il suffit de lire des défenseurs du système comme Antonio Polito (dans le Corriere della sera, 25 février 2012). Polito dit ouvertement que la compétition politique peut désormais avoir lieu dans le seul cadre, tenu pour définitif, de l’économie globalisée; que tout le reste, du pitre Nichi Vendola (Mouvement pour la gauche) à Forza Nuova (d’« extrême droite »), n’est qu’agitation insignifiante; que cela est notre destin.
Que proposent donc les « gauches » encore en activité, d’Andrea Catone à Giacche et à Brancaccio ? Une relance du keynesisme et de la dépense publique en déficit, à l’intérieur de l’Union européenne ? Une nouvelle mise en garde après tant d’autres contre la menace du racisme, de la Ligue du Nord, du populisme ? Une « alter-globalisation à visage humain » ? À présent que le Grand Putassier n’occupe plus le devant de la scène, avec quoi va-t-on continuer à fanatiser comme des supporters de foot le « peuple de gauche » ?
Si on lit le dossier « Chine 2020 » de la Banque mondiale, récemment présenté à Pékin, on verra que la dictature des économistes s’étend sur le monde entier. Aujourd’hui, la révolution n’est pas mûre; elle n’est à l’ordre du jour ni selon sa variante stalinienne (Rizzo), ni selon sa variante trotskiste (Ferrando). Ni même le réformisme, puisque le réformisme suppose la souveraineté de l’État national. Et il y en a encore qui jouent comme des enfants avec la panoplie du petit fasciste contre le petit communiste ? Ou du petit communiste contre le petit fasciste ? Aujourd’hui, l’ennemi, c’est la dictature des économistes néo-libéraux. Avec ceux-ci, pas de compromis ! Voilà le premier pas. Si on le fait, on pourra faire les suivants.
Deux mots encore à propos de la manie du vote compulsif.
Il est probable que l’américanisation intégrale et radicale, bien plus grave encore que l’européisme, que va apporter le gouvernement Monti, produise une diminution de la participation électorale des Italiens, qui depuis 1945 a toujours atteint des niveaux délirants. Cette compulsion électoraliste, qui est évidente chez les personnes âgées, était liée à l’opposition Démocratie chrétienne/Parti communiste; elle s’est prolongée, par inertie, au temps de Craxi, de Prodi, et de Berlusconi. Mais à présent que l’État prend tout et ne donne plus rien, elle devrait diminuer; pas assez vite, hélas ! Il y aura toujours du champ pour des clowns comme les Casini, les Veltroni, les Vendola, etc.
À côté de cet affaiblissement du vote compulsif, on notera un second aspect de l’américanisation : le déclin des débats sur la politique extérieure. Aux États-Unis, il est naturel que les gens ne sachent pas où sont l’Afghanistan, l’Irak, la Syrie, etc., dont les bombardements sont confiés à d’obscurs spécialistes. Les temps où tous s’intéressaient à la Corée ou au Vietnam sont bien passés, irréversiblement. Toute la caste journalistique, sans aucune exception, est devenus une parfaite machine de guerre qui produit joyeusement du mensonge.
Au temps de la guerre du Golfe de 1991, il y avait encore de la discussion; puis elle s’est tue. On a eu alors ce que Carl Schmitt a appelé la reductio ad hitlerum, c’est-à-dire l’attribution de tous les malheurs de la société et du monde à de féroces dictateurs, et l’invention (dont l’origine est « de gauche ») de peuples unis contre les dictateurs. Les peuples furent médiatiquement unis contre des Hitler toujours nouveaux, ennemis des droits de l’homme. Le jeu commença avec Caucescu, continua avec Noriega, puis ce furent Saddam Hussein, Ahmadinejad, Milosevic, Kadhafi, et maintenant Assad. L’histoire a été abolie; on l’a remplacée par un canevas de comédie, toujours le même : un peuple uni contre le féroce dictateur; le silence coupable de l’Occident; les « bons » dissidents, auxquels est réservé le droit à la parole. Depuis un an, je n’ai jamais entendu à la télévision manipulée un seul partisan d’Assad, et pourtant, la Syrie en est pleine.
C’est seulement lorsque le jeu se durcit qu’il importe que les durs commencent à jouer. Tant que règne la comédie italienne de la parodie Droite/Gauche, il en est toujours comme de ces spectacles de catch américain où tout n’est que simulation devant des spectateurs idiots.
État national, souveraineté nationale, programme de solidarité et de communauté nationale, non à la globalisation sous toutes ses formes, et à la dictature des économistes anglophones !
Notes
1 : cf. Diego Fusaro, Minima mercatazlia. Philosophie et capitalisme, Bompiani, Milan, 2012.
2 : Norberto Bobbio (1909 – 2004). Turinois, professeur de philosophie politique, socialiste, célèbre en Italie. Plusieurs de ses ouvrages ont été traduits en français. Signalons, Droite et gauche, Paris, Le Seuil, 1996; L’État et la démocratie internationale. De l’histoire des idées à la science politique, Bruxelles, Éditions Complexe, 1999. Ce dernier ouvrage est considéré comme son œuvre majeure. Costanzo Preve a correspondu avec lui et a écrit une étude critique courtoise, mais radicale, de sa pensée, comme forme classique d’un politiquement correct de gauche : Les contradictions de Norberto Bobbio. Pour une critique du bobbioisme cérémoniel, Petite plaisance, 2004.
3 : Fondé en 2007, par une coalition de divers courants de gauche et centristes (démocrates chrétiens); d’une tonalité analogue au Nouveau Centre, allié de l’U.M.P. en France.
4 : Respectivement trotskiste à la manière du Parti des travailleurs [aujourd’hui remplacé par le Parti ouvrier indépendant, N.D.L.R. d’E.M.] ou de Lutte ouvrière, et refondateur communiste. Susceptibles de s’unir dans une sorte de « front de gauche » à l’italienne. Diliberto et Ferrero cités auparavant sont les chefs de file d’autres courants gauchistes et « refondateurs communistes ».
5 : Preve a quant à lui retrouvé l’inspiration aristotélicienne; à ses yeux, la communauté est la société même.
6 : Marine Le Pen, Pour que vive la France, Grancher, Paris, février 2012.
• Écrit à Turin, le 3 mars 2012, et mis en ligne le jour même sur le site italien ComeDonChisciotte.
Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com
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Os Guardas Brancos Contra a Internacional Vermelha
Os Guardas Brancos Contra a Internacional Vermelha
por Pavel Tulaev
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mardi, 22 mai 2012
Etats-Unis : Mitt Romney et le rétroviseur néoconservateur
Etats-Unis : Mitt Romney et le rétroviseur néoconservateur
Par *,
Diplômé de l’Institut d’Etudes Politiques de Bordeaux (Affaires Internationales)
Ex: http://mbm.hautetfort.com/
Etats-Unis. Suite aux retraits successifs de Rick Santorum (10 avril 2012), de Newt Grinwich (3 mai) et de Ron Paul (14 mai) dans la course à l’investiture républicaine, Mitt Romney, ancien gouverneur du Massachusetts, est en passe de devenir le candidat officiel du « Parti de l’Eléphant ». Fort de son expérience d’ancien consultant en stratégie et de fondateur d’un fonds d’investissement, Mitt Romney a jusqu’alors critiqué le bilan de l’Administration Obama sur le plan économique. A l’approche des échéances électorales en novembre 2012, un éclairage mérite d’être fait sur son programme en matière de politique étrangère.
MITT ROMNEY est surtout connu pour ses qualités de manager et de financier dont il a fait preuve dans l’organisation des Jeux Olympiques d’Hiver de Salt Lake City en 2002. Engagé depuis 1994 en politique, il devient gouverneur du Massachussetts en 2002 au sein d’un bastion historique du Parti Démocrate. En 2008, il essuie un échec aux Primaires Républicaines en terminant en 3ème place derrière Mike Huckabee et John Mac Cain. En 2012, il est en position de force face à ses rivaux républicains et incarne l’unique espoir d’alternance pour son Parti, porté notamment à sa droite par les revendications des Tea Parties [1].
Mormon et francophone [2], Mitt Romney a été vivement critiqué au sein de son parti comme n’étant pas un véritable conservateur. Il est affublé du surnom de RINO [3] – ou républicain sur le papier – pour son côté « libéral » et progressiste dans le domaine des mœurs. Peu loquace sur les questions stratégiques et de défense, il a surtout attaqué le bilan de Barack Obama d’un point de vue économique et social, tout au long des primaires républicaines, en faisant valoir son expérience pratique de la vie économique américaine.
Pourtant, à mesure que la campagne des primaires républicaines progresse, il commence à prendre aussi position sur les enjeux internationaux et dévoile progressivement sa stratégie pour remettre « l’Amérique au leadership du 21ème siècle ». A l’instar des hommes providentiels auxquels il fait constamment référence - Lincoln, Eisenhower & Reagan -, il croit à la « destinée manifeste » des Etats-Unis et affirme que la puissance des Etats-Unis et la stabilité du Monde sont inextricablement liées. Il compare le Président B. Obama à Jimmy Carter et se voit en incarnation moderne de Ronald Reagan qui aurait la capacité d’instaurer la « paix par la force ». Dans la lignée des faucons néoconservateurs, il exprime une vision globalement binaire et manichéenne du Monde, qui ressasse les thèses du clash des civilisations de Samuel Huntington.
Faire du 21ème siècle « un siècle américain »
Au sein de son Livre Blanc [4], Mitt Romney identifie clairement les menaces probables : la montée en puissance de l’Asie (Chine & Russie), le fondamentalisme Islamique, les conséquences des Révolutions Arabes, le risque d’implosion des Etats faillis et la menace présentée par les « rogue States ». Pour faire du 21ème siècle « un siècle américain », il est nécessaire selon M. Romney de raffermir les liens, distendus par l’Administration Obama, avec les alliés traditionnels (ex : Israël), d’adopter une ligne plus dure face aux ennemis désignés (ex : Iran et Russie) et de redresser la puissance américaine sur les plans économique, militaire et stratégique.
Malgré quelques hésitations au début de la campagne, la « fermeté » constitue dorénavant l’alpha et l’oméga de la politique étrangère de M. Romney. Il tente ainsi de se démarquer des positions de B.Obama, qu’il dépeint comme irresponsable dans sa décision de se retirer d’Afghanistan en 2014. Par le passé, Mitt Romney a été critiqué pour la modération de son soutien porté aux troupes en opérations extérieures. Son inconstance en matière de questions stratégiques lui a d’ailleurs valu le sobriquet de « girouette » par les journalistes américains. Par exemple, il a émis des réserves publiques sur le budget alloué à la capture de Ben Laden avant de se féliciter publiquement de son décès et d’affirmer que « même Jimmy Carter l’aurait capturé » [5].
Dans le but de couper court aux propos de ses détracteurs, Mitt Romney s’est entouré d’une équipe d’experts issue du carcan traditionnel du Parti Républicain. Pour la plupart en activité sous les présidences de G. Bush Sr et de G.W Bush, l’équipe de conseillers de Mitt Romney rassemble quelques figures emblématiques des théoriciens néoconservateurs, tel que les historiens Robert Kagan et Eliot Cohen, les diplomates de renom Richard Williamson et Mitchell Reiss ou encore des anciens responsables du renseignement comme Michael Chertoff, Michael Hayden et Coper Black [6].
Les priorités stratégiques de Mitt Romney : « a new big stick policy »
Dans sa stratégie de retrait d’Afghanistan, M. Romney s’interdit de négocier avec les Talibans [7] et promet de retirer les troupes de façon prudente, en prenant en compte les recommandations opérationnelles des commandants militaires. Le cœur de sa critique à l’encontre de B. Obama réside dans l’instrumentalisation politicienne du retrait, dont il accuse son adversaire démocrate, et de l’abandon supposé de la population afghane au joug des Talibans. Toutefois, le récent accord signé entre B. Obama et H. Karzaï, sur l’ « après 2014 » en Afghanistan, est susceptible de prouver à l’opinion publique que B. Obama entend promouvoir la stabilité à moyen terme en Afghanistan et prive en même temps Mitt Romney de son argument central.
Par ailleurs, M. Romney s’est récemment attiré les foudres du Kremlin en désignant la Russie comme « l’ennemi numéro 1 » des Etats-Unis [8]. Il dénonce la stratégie de « flexibilité » de B. Obama qui nuit aux intérêts américains, en particulier sur le dossier de la défense anti-missile ou celui du désarmement nucléaire (Traité New Start 2010). Concernant l’Iran, Mitt Romney est favorable à une intensification des sanctions économiques (5ème round) et considère comme parfaitement crédible l’option militaire en territoire iranien. En cela, il est peu ou prou aligné sur la position du gouvernement israélien de Benjamin Netanyahu, qui affirme que laisser l’Iran enrichir son uranium correspond à signer l’arrêt de mort de l’Etat hébreu.
En désaccord total avec l’ouverture politique de B. Obama au monde arabe (exprimée dans le fameux discours du Caire 2009), il a promis de faire son premier déplacement en tant que Président des Etats-Unis dans la ville de Jérusalem, considérée comme capitale incontestable d’Israël. Peu attaché à la diplomatie multilatérale, il a parallèlement menacé de bloquer les fonds américains alloués aux Nations-Unies, si ces derniers venaient à reconnaître ipso facto l’Etat palestinien.
L’outil militaire est un élément central dans la vision des relations internationales de Mitt Romney. Le réarmement des Etats-Unis est, par conséquent, une priorité indiscutable [9]. Il s’oppose en cela frontalement avec la stratégie de coupures dans le budget américain opérées par l’Administration Obama.
Promue par l’Administration Obama, la réduction du budget de défense américain devrait s’élever à 487 milliards de dollars dans les 10 ans à venir. Pour Mitt Romney, ces coupes amputent les capacités militaires américaines et participent à une politique d’affaiblissement général des Etats-Unis. Le remède préconisé par Mitt Romney réside dans la constitution d’un budget irréductible de 4% du PIB alloué à la Défense et des investissements capacitaires importants dans la défense (notamment dans la Marine) afin de redresser la puissance militaire américaine.
Pour autant, la sauce ne prend pas. On comprend aisément pourquoi Mitt Romney n’insiste pas sur ces questions, à la vue des sondages récemment publiés par The Washington Post et ABC News. En matière d’affaires internationales, les citoyens américains font confiance à 53% à B. Obama contre 36% à M. Romney [10]. Le retrait des troupes d’Afghanistan devient une priorité fondamentale pour les citoyens américains et les velléités bellicistes des conseillers de Mitt Romney sont relativement mal perçues par l’électorat américain.
Conclusion
Après avoir tiré les leçons des primaires de 2008, Mitt Romney a fait montre de toute son habileté politique lors des primaires de 2012. Jugé trop libéral sur les questions sociales, il a intentionnellement durci son discours afin de récupérer les voix des électeurs les plus conservateurs.
En temps de paix, la même stratégie pourrait s’avérer payante sur les questions internationales. Dans la situation actuelle, c’est tout le contraire : après les traumatismes irakien et afghan, l’opinion publique n’est pas prête à l’engagement des forces américaines dans un autre conflit d’envergure. Alors, M. Romney, sous influence de ses conseillers néoconservateurs, ressort la rengaine chère aux Républicains de la critique acerbe de la « mollesse démocrate » comparant B. Obama à J. Carter.
Une nouvelle fois, M. Romney est dans l’obligation de se confronter au principe de réalité [11] : depuis 4 ans, B. Obama n’a pas lésiné sur l’utilisation de l’outil militaire comme le prouve, entre autres, sa décision du renfort afghan en 2009 (« the Surge ») ou l’approbation de l’opération des « Navy Seals » visant O. Ben Laden. Sans expérience de gestion de crises internationales, le prix Nobel de la Paix 2009 a passé avec brio son épreuve du feu et prouvé ses qualités de « chef de guerre », comparables à un Theodore Roosevelt et aux antipodes d’un Jimmy Carter.
En qui concerne les questions internationales, M. Romney est donc pris au piège. S’il adopte une position trop dure et trop belliciste - en somme néoconservatrice - vis-à-vis des « rogue states », il risque d’effrayer de nombreux électeurs qui ne veulent pas d’un nouvel engagement militaire. S’il n’arrive pas à se différencier suffisamment de la politique étrangère menée actuellement par B. Obama, les électeurs choisiront sans doute l’original à la copie.
Dès lors, on comprend mieux pourquoi Mitt Romney préfère concentrer la quasi intégralité du débat politique sur les questions intérieures. Joe Biden, Vice-Président des Etats-Unis, a bien compris le dilemme dans lequel se trouvait le candidat républicain en affirmant le 27 avril 2012 : « Si Mitt Romney a une vision de politique étrangère, c’est en regardant dans le rétroviseur ».
Copyright Mai 2012-Coulon/Diploweb.com
Plus
Voir sur le Diploweb.com l’article d’Amy Green, "Etats-Unis - Clash des générations. Les Baby Boomers vs. les Millennials : vers une véritable révolution dans la politique américaine ?" Voir
Voir sur le Diploweb.com l’article de Mehdi Lazar, "(re) Lire Huntington : ce que "Le choc des civilisations" nous apprend des Etats-Unis et de l’administration Bush jr", Voir
Voir le Diploweb.com l’entretien de Jean-François Fiorina avec Olivier Zajec, "Etats-Unis : quelles perspectives stratégiques ?" Voir
[1] En référence à la Boston Tea Party (1773), ils désignent un mouvement politique antiétatique qui dénonce les dépenses gouvernementales et les levées fiscales effectuées par l’Administration Obama depuis 2009.
[2] Il a effectué un séjour de 2 ans et demi en France (Nantes et Bordeaux) en tant que missionnaire mormon lors de sa jeunesse. Il garde l’image d’un pays archaïque et peu enclin au changement. « L’Amérique de Mitt Romney ». Soufian Alsabbagh. Editions Demopolis 2011 p 35.
[3] RINO : Republicans In Name Only.
[4] Livre Blanc de Mitt Romney « An American Century : A strategy to secure America’s enduring interests and ideals » (octobre 2011). mittRomney.com/sites/default/files/shared/AnAmericanCentury-WhitePaper_0.pdf
[5] edition.cnn.com/2012/04/30/politics/campaign-wrap/index.html (consulté le 01-05-2012)
[6] Liste exhaustive des conseillers disponible sur le site officiel de M.Romney : mittromney.com/blogs/mitts-view/2011/10/mitt-romney-announces-foreign-policy-and-national-security-advisory-team
[7] Cette intransigeance –digne de John Bolton (ancien ambassadeur américain aux Nations Unies)- lui a valu de se brouiller avec certains de ses conseillers, comme James Shinn, auteur de « Afghan peace talks : a primer » (Rand Corporation, 2011), qui considèrent qu’une solution politique viable au conflit afghan ne peut faire l’impasse sur la négociation avec les Talibans. nytimes.com/2012/05/13/sunday-review/is-there-a-romney-doctrine.html ?pagewanted=1#
[8] thehill.com/video/campaign/218201-Romney-calls-russia-our-no-1-geopolitical-foe (consulté le 01-05-2012)
D. Medvedev a réagi expressément en demandant à ce que « chacun utilise sa tête et consulte sa raison quand il s’exprime en public, ainsi qu’il vérifie la date : nous sommes maintenant en 2012 et pas au milieu des années 70 ».
[9] mittRomney.com/blogs/mitts-view/2011/10/fact-sheet-mitt-Romneys-strategy-ensure-american-century
[10] cbc.ca/news/world/story/2012/04/18/us-Romney-foreign-policy.html (consulté le 02-05-2012)
[11] Clip de Campagne du Parti Démocrate contre la politique étrangère de Mitt Romney « Mitt Romney Versus Reality » : youtube.com/watch ?v=VrfxymxuyxA
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Maurice Bardèche, Européen fidèle
Maurice Bardèche, Européen fidèle
par Georges FELTIN-TRACOL
Après avoir écrit pour la même collection la biographie condensée d’Henri Béraud, de Léon Daudet, de Henry de Monfreid, de Hergé et de Saint-Loup, Francis Bergeron évoque cette fois-ci la vie d’une personne qu’il a bien connue : Maurice Bardèche.
On sait que Bardèche fut l’exemple-type de la méritocratie républicaine hexagonale. Ce natif d’un village du Cher en 1907 montra très tôt de belles dispositions intellectuelles pour l’étude et la littérature. Excellent élève, ce boursier se retrouve à l’École normale supérieure (E.N.S.) où il allait côtoyer une équipe malicieuse constituée de José Lupin, de Jacques Talagrand (le futur Thierry Maulnier) et de Robert Brasillach, l’indéfectible ami. « Brasillach lui fait du thé, lui offre des gâteaux catalans. Mais la culture littéraire de Brasillach date un peu; Bardèche lui fait découvrir à son tour Proust, alors qu’il vient d’obtenir le prix Goncourt, Barrès, dont les funérailles nationales datent tout juste de deux ans, et Claudel, ancien de Louis-le-Grand, dont l’œuvre est déjà reconnue (p. 16). »
À l’E.N.S., Maulnier et Brasillach commencent à publier dans la presse tandis que « Bardèche […] se destine réellement à l’enseignement supérieur, et […] voit son avenir dans l’approfondissement de la connaissance des grands textes et des grands auteurs (p. 20) ». À côté de sa passion littéraire, Maurice Bardèche éprouve de tendres sentiments pour la sœur de son ami Robert, Suzanne Brasillach. Ils se marient en juillet 1934 et partent en voyage de noce pour l’Espagne en compagnie de Robert qui vivra avec eux jusqu’en 1944 ! Francis Bergeron raconte qu’au cours de ce voyage, Maurice Bardèche faillit mourir dans un accident de la route. Bardèche fut trépané et conserva sur le front un « enfoncement dans le crâne (p. 26) ».
On ne va pas paraphraser cet ouvrage sur le talentueux parcours universitaire de Bardèche qui suscita tant d’aigreurs et de jalousie. Sous l’Occupation, si Robert Brasillach travaille à Je suis partout, Bardèche préfère se tenir à l’écart des événements et se dévoue à Stendhal et à Balzac. Or le mois de septembre 1944 marque un tournant majeur dans la destinée du jeune professeur : il est arrêté, puis emprisonné. Il voit ensuite son cher beau-frère jugé, condamné à mort et exécuté le 6 février 1945. Dorénavant, « la vie et, plus encore, peut-être, le martyre et la mort de Robert [vont] occup[er] une place centrale tout au long de l’existence de Maurice (p. 43) ». Guère attiré jusque-là par la politique, Maurice Bardèche s’y investit pleinement et va produire une œuvre remarquable, de La lettre à François Mauriac (1947) à Sparte et les Sudistes (1969). En outre, afin de publier les œuvres complètes de Robert Brasillach, il fonde une maison d’édition courageuse et déjà dissidente, Les Sept Couleurs.
Le respectable spécialiste de littérature du XIXe siècle se mue en fasciste, terme qu’il endosse et qu’il revendique d’ailleurs fièrement dans Qu’est-ce que le fascisme ? (1961). Dès la fin des années 1940, il se met en relation avec d’autres réprouvés européens dont les militants du jeune M.S.I. (Mouvement social italien). En 1952, il participe au célèbre congrès de Malmö qui lance le Mouvement social européen dont le bulletin francophone est Défense de l’Occident (titre ô combien malvenu, car les positions qui y sont défendues ne rappellent pas l’occidentalisme délirant d’Henri Massis – il faut comprendre « Occident » au sens d’« Europe » et de « civilisation albo-européenne pluricontinentale »). Sorti en décembre 1952, ce titre est dirigé par Bardèche. Si le M.S.E. s’étiole rapidement, miné par des divergences internes et des scissions, Défense de l’Occident devient une revue qui accueille aussi bien les nationaux que les nationalistes, les nationalistes-révolutionnaires que les traditionalistes. La revue disparaîtra en novembre 1982. Francis Bergeron n’en cache pas l’ensemble inégal du fait, peut-être, d’une forte hétérogénéité thématique visible à la lecture de ses nombreux collaborateurs.
Par fascisme, Bardèche soutient une troisième voie hostile au capitalisme et au socialisme. Mais son fascisme, anhistorique et éthéré, cadre mal avec les réalités historiques du fascisme. Dès 1963 dans L’Esprit public, Jean Mabire rédigeait un article roboratif intitulé « L’impasse fasciste » repris successivement dans L’écrivain, la politique et l’espérance (1966), puis dans La torche et le glaive (1994). Au-delà des blessures vives de la Seconde Guerre mondiale, « Maît’Jean » esquissait de nouvelles perspectives européennes et authentiquement révolutionnaires.
Déjà marqué par son fascisme assumé, Maurice Bardèche accepte d’être un paria de l’histoire parce qu’il ose un avis révisionniste sur les événements contemporains. « Ses exercices de “ lecture à l’envers de l’histoire ”, comme il les appelle lui-même, font partie des points les plus détonants de son discours. Ils démontrent son courage tranquille, et ne peuvent que susciter l’admiration. Sur le fond, il y aurait certes beaucoup à dire, explique Bergeron. De toute façon, comme l’a rappelé Bardèche lui-même à Apostrophe, on ne peut plus s’exprimer librement sur ces questions (p. 87). » Saluons toutefois sa clairvoyance au sujet de la mise en place d’une justice internationale mondialiste. Déjà prévue dans l’abjecte traité de Versailles de 1919, cette pseudo-justice planétaire se réalise à Nuremberg et à Tokyo avant de réapparaître dans les décennies 1990 et 2000 à La Haye pour l’ex-Yougoslavie, à Arusha pour le Rwanda et avec l’ignominieuse Cour pénale internationale qui veut limiter la souveraineté des États.
Tout en étant fasciste et après avoir prévenu en 1958 le camp national du recours dangereux à De Gaulle, Maurice Bardèche n’hésite pas à vanter le caractère fascisant des régimes de Nasser et de Castro, et à faire preuve dans Défense de l’Occident d’une grande lucidité géopolitique. « Bardèche […] faisait bouger les lignes de la vision géopolitique de son camp (p. 67). » Cet anti-sioniste déterminé encourage le panarabisme et, dès l’automne 1962, appelle les activistes de l’Algérie française à délaisser leur nostalgie et à relever le défi de la nouvelle donne géopolitique. Il est l’un des rares à cette époque à prôner une entente euro-musulmane contre le condominium de Yalta.
C’est sur la question européenne que Maurice Bardèche a conservé toute sa pertinence. Quand on lit L’œuf de Christophe Colomb (1952) ou Sparte et les Sudistes, on se régale de ses fines analyses. Bardèche réfléchissait en nationaliste français et européen. À la fin de l’opuscule, avant l’habituelle étude astrologique de Marin de Charette et après les annexes biographiques, bibliographiques, de commentaires sur Bardèche et de quelques-unes de ses citations les plus marquantes, Francis Bergeron reproduit l’entretien que lui accorda Bardèche dans Rivarol du 5 avril 1979 (avec les parties supprimées ou modifiées par Bardèche lui-même). Cet entretien est lumineux ! « Devons-nous accepter […] de ne pas nous défendre contre la concurrence sauvage, déclare Bardèche, accepter le chômage, le démantèlement d’une partie de notre industrie, la dépendance à laquelle nous risquons d’être contraints ? » On croirait entendre un candidat à l’Élysée de 2012… Le sagace penseur de la rue Rataud estime que « l’Europe qu’on nous prépare ne sera qu’un bastion avancé d’un empire économique occidental dont les États-Unis seront le centre »… Il prévient qu’« il ne faut pas que l’Europe ne soit que le cadre agrandi de notre impuissance et de notre décadence », ce qu’elle est désormais. Il importe néanmoins de ne pas rejeter l’indispensable idée européenne comme le font les souverainistes nationaux. L’Europe demeure plus que jamais notre grande patrie civilisationnelle, identitaire et géopolitique. « L’Europe indépendante constitue un idéal ou plutôt un objectif », juge Bardèche avant d’ajouter, prophétique, que « la crise économique peut nous aider à la faire plus vite qu’on ne le croit ».
Ce nouveau « Qui suis-je ? » est bienvenu pour découvrir aux plus jeunes des nôtres l’immense figure de ce fidèle Européen de France, ce magnifique résistant au politiquement correct !
Georges Feltin-Tracol
• Francis Bergeron, Bardèche, Pardès, coll. « Qui suis-je ? », (44, rue Wilson, 77880 Grez-sur-Loing), 2012, 123 p., 12 €.
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A Arte de Alexey Guintovt
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lundi, 21 mai 2012
Ein idealistischer Prophet der Tat
Ein idealistischer Prophet der Tat
Johann Gottlieb Fichte war nicht nur ein gewaltiger Tribun und einer der größten Philosophen, die die Welt je trug, er war vor allem auch ein bis ins letzte aufrechter, ja knorriger Mann, dem man nichts vormachen konnte. Man muß lesen, wie unnachsichtig er gegen alle Formen ziviler Geschmeidigkeit ankämpfte, wie abgrundtief seine Verachtung für beifallheischendes Literatengeschmeiß und karrierebedachte Katzbuckelei war und wie schneidend er diese Verachtung zu formulieren verstand.
Er war kleiner Leute Kind, Sohn eines Bandwirkers aus der Oberlausitz, hatte dank der Unterstützung des örtlichen Gutsbesitzers Haubold von Miltitz das berühmte Elitegymnasium Schulpforta besuchen können und danach jahrelang das Hauslehrer- und Hofmeisterschicksal der damaligen deutschen Intellektuellen geteilt. Es bedeutete für ihn viel, als er 1794 als Professor nach Jena berufen wurde, aber gerade diese Stelle verscherzte er sich bald wieder durch seine Unnachgiebigkeit.
Ein von ihm mit einem Nachwort versehener Artikel von Friedrich Karl Forberg im Philosophischen Journal hatte der Vermutung Ausdruck gegeben, daß die Existenz Gottes nicht notwendig sei für die Errichtung einer moralischen Wertordnung. Das hatte das äußerste Mißfallen diverser Obrigkeiten erregt, der berüchtigte „Atheismusstreit“ brach aus, Sachsen und Preußen drohten, die Universität Jena zu boykottieren und ihr sämtliche Fördermittel zu entziehen.
Meinungsfreiheit aus Prinzip
Fichte stimmte nicht mit dem fraglichen Aufsatz überein, doch um des Prinzips der wissenschaftlichen Freiheit willen warf er sich stürmisch in den Kampf und ließ „gerichtliche Verantwortungsschriften“ und „Appellationen an das Publikum“ erscheinen. Nicht Forberg, sondern Fichte rückte unversehens in den Fokus der Auseinandersetzung. Er wurde aus seinem Lehrverhältnis entlassen, und aufgehetzte Studenten warfen ihm abends die Fenster ein.
Der zuständige sachsen-weimarische Minister, Johann Wolfgang von Goethe, der Fichte als Person an sich sehr achtete, kommentierte spöttisch: „Eine unangenehme Art, von der Existenz der Außenwelt Kenntnis zu nehmen.“ Seine Worte bezogen sich auf die Philosophie Fichtes, seine „Wissenschaftslehre“, die das berühmte „Ding an sich“ der Kantischen Theorie seiner Objektivität entkleidet und zum Produkt der dialektischen Vernunft gemacht hatte.
Goethe vermochte in Fichte nur eine Neuausgabe des seinerzeitigen englischen Bischofs George Berkeley (1685–1753) zu sehen, der das Vorhandensein einer unabhängig vom individuellen Bewußtsein existierenden Außenwelt leugnete und die Gegenstände als bloße individuelle Vorstellungen auffaßte. Die Reduktion Fichtes auf Berkeley und andere „subjektive Idealisten“ und Sensualisten ging jedoch völlig an der wesentlichen Problematik vorbei.
Das Ich setzt sich sein Nicht-Ich
Entscheidend war, daß Fichte als erster ein einheitliches voluntaristisches System entwarf, das keines Anstoßes von außen bedurfte, weil das Prinzip seiner Bewegung in ihm selbst ruhte. Es handelte sich bei diesem Prinzip nicht um irgendeinen biologischen „Trieb“, sondern um jenen Widerspruch in jedem denkenden Selbstbewußtsein, daß sich das „Ich“ nur dann als Ich denken kann, wenn es gleichzeitig auch ein „Nicht-Ich“ denkt.
Fichte konstatierte, daß sich der allgemeine Widerspruch zwischen Ich und Nicht-Ich in jeder konkreten Situation des Ich wiederhole. Immer und überall könne es nur im Nicht-Ich seine Bestimmung finden, es sei also ins Nicht-Ich hinein entfremdet, und sein wesentliches Bestreben sei es, diese Entfremdung aufzuheben und sich mit seinen konkreten Bestimmungen zu vereinigen. Dadurch aber entstehe der Weltprozeß wie auch der Prozeß jedes Individuums.
Diese Dialektik, als deren Schöpfer also mit Fug Fichte gelten kann, ist ungeheuer folgenreich gewesen: Hegel faßte ein wenig später die Entfremdung des Ich ins Nicht-Ich als „Negation“ und das Bestreben des Ich, das Nicht-Ich einzuholen, als „Negation der Negation“, baute diese Begriffe zu einer kompletten Methode aus und faßte mit ihrer Hilfe das ganze Material der damaligen Wissenschaften zu seinem epochemachenden System zusammen. Marx bediente sich bei seinen ökonomischen Analysen ebenfalls der Dialektik und gelangte dadurch zu seiner revolutionären Theorie vom Proletariat als der leibhaftigen Negation der bürgerlichen Gesellschaft.
Ein prophetischer Philosoph der Tat
Aber nicht genug damit. Dadurch, daß Fichte nicht gewillt war, die Dialektik zu objektivieren, mußte er folgerichtig zu dem Schluß gelangen, daß die Empfindung der äußeren Gegenstände nichts anderes sei als der freie Wille des Ich, sich Gegenstände zu setzen, um sie später wieder „einzuholen“, also zu zerstören. Der Denker war in erster Linie Täter, mag sein Untäter. Er formte die Welt nach seinem Willen – und nach dem Willen Gottes, von dem das Ich gleichsam ein „Teilchen“ und ein „Fünklein“ war.
Fichte war der Prophet der Tat, das Ich hatte sich bei ihm unentwegt an sozialen und politischen Konstellationen abzuarbeiten. So war er also, wie wir heute sagen würden, ein ungeheuer „engagierter“ Denker, der sich ungeniert und mit der ganzen Kraft seiner schier dämonischen Rhetorik in die politischen Händel einmischte. Er war nach seiner Vertreibung aus Jena nach Berlin gegangen, und dort stieg er in kürzester Zeit zu einem der bekanntesten Publizisten des Reiches auf.
Deutschland sah sich um die Jahrhundertwende vom 18. zum 19. Jahrhundert den massiven Angriffen und Vereinnahmungen Napoleons ausgesetzt, und der Widerstand dagegen trug entscheidend zur Formierung des Landes als moderne Nation bei. Und Fichte war (mehr noch als Herder) von der Geschichte tatsächlich dazu ausersehen, diesen objektiven Prozeß klar und machtvoll ins öffentliche Bewußtsein zu heben. Seine „Reden an die deutsche Nation“ von 1808 waren ausdrücklich als Medizin gedacht, welche den Widerstand gegen die Fremdherrschaft und den Prozeß der Nationwerdung befördern sollte.
„Wo das Licht ist, ist das Vaterland“
Nichts Dümmeres gibt es, als Fichte als geborenen „Franzosenfresser“ und die „Reden“ als Ausdruck eines ignoranten Chauvinismus hinzustellen. In den ersten Jahren der Revolution von 1789 hatte Fichte Frankreich ja noch als Hort der Freiheit gefeiert, man denke an Schriften wie „Zurückforderung der Denkfreiheit von den Fürsten Europas“. „Ubi lux, ibi patria“, schrieb er da, „wo das Licht ist, ist das Vaterland“.
Erst unter dem Einfluß der Napoleonischen Kriege gab der Philosoph seine transrheinische Begeisterung auf. „Der Staat Napoleons“, hieß es nun in den „Reden“, „kann nur immer neuen Krieg, Zerstörung und Verwüstung erzeugen. Man kann damit zwar die Erde ausplündern und wüste machen und sie zu einem dumpfen Chaos zerreiben, nimmermehr aber sie zu einer Universalmonarchie ordnen.“
Zur selben Zeit, da Fichte vor größter Öffentlichkeit in Berlin seine Reden an die deutsche Nation hielt, trug er vor akademischem Publikum auch seine „Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters“ vor, will sagen: seine Geschichtsphilosophie, die natürlich ein überzeitliches, jeder politischen Aktualität enthobenes historisches Schema zu liefern begehrte. Dennoch bereitet es hohen Reiz, die „Reden“ sich in den „Grundzügen“ spiegeln zu lassen und umgekehrt.
Deutschland zum Licht heben
Fichte unterschied drei gesellschaftliche Grundstadien. Da ist erstens das „arkadische Zeitalter“, in dem primitive Zustände und allenfalls ein „Vernunftinstinkt“ herrschen, und zweitens das sogenannte „Zeitalter der vollendeten Sündhaftigkeit“, in dem das Gemeinwesen sich von sich selbst entfremdet hat und in unendlich viele divergierende Individuen auseinandergefallen ist. In dieser Sündhaftigkeit, daran läßt der Philosoph keinen Zweifel, leben wir jetzt.
Abgelöst aber wird diese Ära der Sündhaftigeit, drittens, vom „elysischen Zeitalter“, dem Zeitalter der „Vernunftkunst“. Dieses letzte Zeitalter, meint Fichte, wird sich erheben, wenn die sündhafte Willkür der Individuen ihren Höhepunkt erreicht hat und sie nur noch wie Atome konturlos durcheinanderschwirren. Angesichts der politischen Zustände im damaligen Deutschland mag der Geschichtsdenker ernsthaft überzeugt gewesen sein, daß das Zeitalter der Sündhaftigkeit nun also komplett sei und es „nur“ noch der Zusammenfassung aller individuellen Energien bedürfe, um Deutschland zu einem Land des Lichts und der Vernunft emporzuheben.
Wenn Fichte gut von den Deutschen sprach, dann sprach er immer in der Zukunft. In den „Reden“ betont er an vielen Stellen, daß eine Erhebung aus dem gegenwärtigen Zustande einzig unter der Bedingung denkbar sei, daß dem deutschen Volk eine neue Welt aufginge. Johann Gottlieb Fichte starb im Januar 1814, mitten im Siegeslärm der Befreiungskriege, am Lazarettfieber, das seine Frau, die in einem Hospital verwundete Landsturmleute pflegte, von daher mitgebracht hatte.
Ein tragisch-banaler, früher Tod. Aber er ersparte dem großen Philosophen immerhin so manche Enttäuschung, die die Nachkriegszeit mit ihren Demagogenverfolgungen und ihrer feigen Biedermeierei mit sich brachte. Sein Vermächtnis weht uns heute wundersam ungebrochen an.
13:04 Publié dans Histoire, Philosophie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, allemagne, philosophie | |
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