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vendredi, 30 mars 2012

De Spaanjaarden laten zich niet doen !

De Spaanjaarden laten zich niet doen ! Video over de volkse protestbeweging "Yo no pago"

Les Espagnols ne se laissent pas faire ! Video sur le mouvement populaire et protestataire "Yo no pago"

Die Spanier lassen sich nicht tun ! Video über die Protestbewegung "Yo no Pago"

The Spaniards refuse to be cheated ! A video about the protest movement "Yo no pago" !

 

jeudi, 29 mars 2012

L'Intelligence Francese e Mohammed Merah

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L'Intelligence Francese e Mohammed Merah

di Lorenzo Adorni

Fonte: nuovimondi.org


Mohammed Merah, secondo le informazioni di cui disponiamo in queste ore, si era addestrato nei campi dei mujahidin afghani. L'attentatore di Tolosa, quindi, non era un neonazista ma, un fondamentalista islamico jihadista. Noto sia alle forze dell'ordine che all' intelligence francese. La sua giovane età, 24 anni, è un aspetto non secondario e particolarmente interessante, infatti, lo colloca all'interno di una “terza generazione” di mujahidin addestrati in Afghanistan.

Per comprendere il caso di Mohammed Merah è necessario compiere alcuni passi a ritroso, nella storia degli scorsi anni, attraverso un percorso complesso, di assoluto interesse.

L' Afghanistan non è la Destinazione Finale

Possiamo individuare “tre grandi fasi” di adesione e partecipazione al jihad mediante l'addestramento nei campi dei mujahidin afghani. Una “prima fase”, conseguente all'invasione sovietica, in cui soggetti provenienti principalmente dal Medio Oriente, si recavano in Afghanistan per addestrarsi ed intraprendere la lotta contro l'invasore. La maggior parte di questi mujahidin ha poi fatto ritorno nei rispettivi paesi d'origine, portando con se una serie di conoscenze e tutta l'esperienza maturata durante la guerra. Solo una minoranza, anche se significativa e composta principalmente da sauditi, si è stabilità permanentemente in Pakistan, vicino al confine con lo stesso Afghanistan.

Successivamente al ritiro sovietico, contrariamente a quanto si possa credere, la prassi di recarsi in Afghanistan per ricevere un addestramento militare da mujahidin non si è mai interrotta. Durante gli anni novanta è proseguita in una “seconda fase”, nella quale è andata sensibilmente aumentando la provenienza dei combattenti, sempre musulmani, dall' Europa, dai Balcani e dalle Repubbliche dell' ex Unione Sovietica. L'aspetto fondamentale di questo periodo resta il ritorno in patria dei mujahidin che, una volta addestrati, tornavano a combattere le guerre presenti nei propri paesi di origine, in particolar modo nei Balcani e in Cecenia. Così come ad aderire a organizzazioni terroristiche presenti nel Maghreb o in Egitto. Questo periodo vede anche la comparsa di una nuova organizzazione: i taliban. In costante ascesa nello scenario afghano.

Vi è poi una “terza fase” quella successiva all' 11 Settembre 2001, inevitabilmente legata alle guerre in Afghanistan e in Iraq, che ha visto la provenienza di combattenti da tutto il mondo, e di cui sappiamo ancora poco, o nulla.

L' Intelligence Francese dal GIA alle Pratiche di Infiltrazione dei Mujahidin Afgani

La Francia si è trovata in prima linea nella lotta al terrorismo, di matrice fondamentalista islamica, negli anni novanta. Il GIA algerino, vedeva al suo interno la partecipazione sia di una “prima generazione” composta da algerini ex-combattenti in Afghanistan, contro i sovietici, così come una “seconda generazione”, addestratasi in quella che abbiamo definito “seconda fase”.

All'interno delle cellule terroristiche del GIA, fra “prima” e “seconda generazione” esisteva un' assoluta continuità, anche con chi non era fondamentalista e non si era mai recato in Afghanistan.Proprio negli anni del contrasto al GIA algerino, l'intelligence francese elaborerà i suoi metodi di lavoro per confrontarsi con il fondamentalismo islamico. Da questo punto di vista, l' intelligence francese è riuscita a svolgere un ruolo significativo proprio sfruttando questa “seconda generazione”, infiltrandola e riuscendo ad ottenere ampie conoscenze sul fenomeno, sia sul terrorismo di matrice algerina sia sul nuovo fenomeno dei mujahidin di provenienza europea.

L' intelligence francese ha potuto porsi ad un livello superiore di analisi, godendo di una visione d'insieme, ottenendo informazioni sui terroristi, ben oltre le loro attività sul territorio francese. Riguardo ad esempio le strutture dei mujahidin in Afghanistan, le relative basi di appoggio in territorio pachistano, i referenti delle organizzazioni non solo in Afghanistan e in Pakistan ma, anche in Europa. Nonché i canali di approvvigionamento delle armi e degli esplosivi, i contatti europei e mediorientali per gli spostamenti di uomini e risorse finanziarie. A ciò si sono aggiunte le informazioni sui metodi di addestramento militare, sulle tecnologie disponibili e sui materiali utilizzati per confezionare ordigni esplosivi.

Inoltre tramite l'utilizzo di fotografie scattate al di fuori di mosche o centri cultura islamici ritenuti di matrice più fondamentalista, è stato possibile rintracciare gli spostamenti di molti mujahidin, europei, che in Afghanistan avevano condiviso mesi di addestramento con le risorse infiltrate. La loro semplice presenza, in una determinata città d' Europa, poteva essere il segnale della presenza di una organizzazione terroristica sconosciuta. Grazie a questo metodo si è resa possibile l' individuazione di nuove organizzazioni e il loro monitoraggio, con un investimento più ridotto di risorse e mezzi.

Nel complesso questa attività ha permesso di raggiungere risultati particolarmente significativi non solo nei confronti del GIA ma, anche per la conoscenza più complessiva del fenomeno del terrorismo islamico.

Il Caso di Merah, l'Attentatore di Tolosa

Dopo l' 11 Settembre 2001, il terrorismo di matrice islamica fondamentalista ha fatto la sua ricomparsa in Europa, anche se con finalità diverse da quelle manifestatesi in precedenza.Fra le intelligence europee, quella francese ha goduto di una maggiore esperienza, altamente specifica, matura sia durante le azioni di contrasto condotte in Nord Africa e in Francia, sia per una quasi ventennale esperienza di infiltrazione nei gruppi fondamentalisti islamici. Dal 2001 ad oggi, ha contrastato il terrorismo seguendo i propri metodi operativi , spesso non coordinando le proprie attività, in particolar modo gli arresti, con le altre intelligence d' Europa.

Ed è proprio per questo motivo che restano molti aspetti da chiarire riguardo il caso di Mohammed Merah. L'attentatore di Tolosa si era recato in Pakistan, proseguendo poi in Afghanistan, fino a giungere nei campi di addestramento dei fondamentalisti. Arrestato in Afghanistan, evaso, successivamente riarrestato e consegnato dagli statunitensi ai francesi. Generalmente una figura di questo genere, se lasciata libera di circolare, è prassi che vengano monitorata con un livello più o meno inteso, a seconda dei casi specifici. Alla comparsa dei primi dubbi riguardo le sue attività, verrebbe subito trattenuta dalla polizia per comprendere la sua reale pericolosità.

Qui incontriamo una prima stranezza. Infatti Merah si era già riproposto come un fanatico mostrando, anche a sconosciuti, dei video di attività dei fondamentalisti islamici, video che fra l'altro, mostravano decapitazioni e uccisioni sommarie. Nonostante fosse stato nuovamente segnalato alle forze dell'ordine, nessuna misura restrittiva è stata presa nei suoi confronti.

Giunti a questo punto, sono ormai fin troppo evidenti gli errori di valutazione da parte dell' intelligence francese. Errori perseguiti con la non immediata individuazione del soggetto come responsabile dell' omicidio dei tre paracadutisti. Fatto che gli ha permesso di realizzare il massacro alla scuola ebraica.

L'ultima stranezza riguarda l'intervento delle forze speciali. Durato troppo a lungo e condotto con metodi assolutamente singolari. Una volta rimasto solo nell'edificio, Merah non aveva nessun modo di garantirsi una protezione. Non aveva con se ostaggi. Non poteva infliggere danni a persone nelle vicinanze. Nemmeno se avesse fatto esplodere il suo appartamento, come accaduto in Spagna nel 2004, durante l'azione nei confronti dei terroristi responsabili degli attentati di Madrid.Invece è riuscito nel suo intento, di blindare il suo appartamento con i suppellettili di cui disponeva, ed impegnare le forze speciali in un lungo scontro a fuoco inteso e prolungato causando feriti, anche gravi, fra le forze dell' ordine. Per finire, resta inspiegabile, al momento, il fatto che le forze speciali francesi non abbiano deciso di utilizzare un gas paralizzante per colpire il terrorista, evitando così lo scontro a fuoco. Avrebbero potuto usare un gas anche in maniera massiccia, senza il rischio di coinvolgere gli altri inquilini dell'edificio, ormai da tempo evacuati. Eppure non lo hanno fatto.

Molti di questi dubbi troverebbero una semplice spiegazione se venisse confermata la notizia, proposta da alcuni fra i principali quotidiani francesi, secondo cui Merah non era nient'altro che uno dei tanti, l'ennesimo, infiltrato dei servizi segreti francesi all'interno dei gruppi fondamentalisti islamici. Questa pratica di infiltramento, di cui abbiamo discusso, prosegue da decenni e proprio per questo, la notizia non ci stupirebbe. Inoltre, sembrerebbe trovare un'ulteriore conferma, considerando che un uomo, dei servizi segreti francesi, è stato visto ripetutamente entrare e uscire dall'appartamento di Merah, nelle ore precedenti l'intervento delle forze speciali. Notizia confermata dalla stampa francese. Secondo la quale, sulla lista dei prossimi obbiettivi dello stesso Merah, sarebbe comparso anche il nome di un agente dei servizi segreti francesi di origine magrebina.

Viste le esperienze e le informazioni disponibili relative sia ad esse, sia riguardo il percorso di altri infiltrati, è altamente probabile che Merah stesse già lavorando per i servizi segreti francesi, prima di recarsi in Afghanistan. Questo fatto troverebbe ulteriore conferma dalla facilità con cui è stato ceduto dagli americani ai francesi e da questi rimesso in libertà. Inoltre l'esercito statunitense, che sembra disporre di una lunga serie di informazioni su Merah, conferma che il soggetto ha viaggiato a lungo e per tutto il medio oriente.

Catturandolo vivo, forse, i media avrebbero potuto comprendere ulteriori aspetti, oltre a quelli emersi fin'ora. Se avesse veramente lavorato, fornendo informazioni, per i servizi segreti. Quale genere di trattamento gli fosse stato riservato, durante questa sua collaborazione. Cosa lo avesse realmente spinto a compiere il triplice omicidio dei militari francesi, prima di portare a termine il massacro alla scuola ebraica. Inoltre avrebbe potuto fornire informazioni anche riguardo il fenomeno dei mujahidin musulmani di origine europea, fenomeno forse troppo sottovalutato dai media. Tutto questo, nel mezzo della campagna elettorale per le elezioni presidenziali.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Toulouse gunman was informant of French intelligence?

Toulouse gunman was informant of French intelligence?

Ex: http://rt.com/

An undated and non-datelined frame grab from a video broadcast March 21, 2012 by French national television station France 2 who they claim to show Mohamed Merah (Reuters / France 2 Television / Handout)

An undated and non-datelined frame grab from a video broadcast March 21, 2012 by French national television station France 2 who they claim to show Mohamed Merah (Reuters / France 2 Television / Handout)

 

Mohamed Merah, the notorious killer shot in a stand-off with police a week ago in Toulouse, is still stirring controversy in France. An ex-chief of the French spy agency says Merah might have acted as an informant to the local equivalent of the FBI.

­The speculation comes as Yves Bonnet, a former intelligence chief, says Merah might have passed information onto the DCRI, a French domestic intelligence agency.

He was known to the DCRI, not especially because he was an Islamist, but because he had a correspondent in domestic intelligence,” Bonnet told La Dépêce newspaper on Monday.

When you have a correspondent, it’s not completely innocent,” he remarked.

On Tuesday the assumption, worthy of a huge scandal, was rebuffed by DCRI head Bernard Squarcini.

Merah was indeed interviewed by a local intelligence agent in November 2011, Squarcini said, but this was because the agency “wanted to receive explanations about his trip to Afghanistan.

As Merah stated he went to Afghanistan in 2010 and 2011 as a tourist, he was let go but placed on a watch list. Merah “did not serve as an informant to the DCRI or any other French intelligence service,” stressed the DCRI head.

Previously, French officials said “no evidence” indicated that Merah was linked to terror groups or that the shooting spree, which took the lives of seven people in Toulouse earlier this month, was ordered by al-Qaeda.

Nevertheless, the 23-year-old Frenchman of Algerian descent had been tracked for several years before the tragic events in France’s south. Authorities put him down as a radical Islamist. Besides his trips to Afghanistan, the man was also understood to have visited Pakistan and received training in militant camps. This made the US add Merah’s name to its no-fly list as a suspected terrorist.

At the same time, French domestic intelligence seems to have viewed Merah as one of many. The DCRI "follows a lot of people who are involved in Islamist radicalism,” said French Interior Minister Claude Geant on Friday, defending the work of the spy agency. “Expressing ideas, showing Salafist opinions is not enough to bring someone before justice."

Merah carried out three deadly attacks in and around Toulouse, killing three French soldiers, three Jewish children and a rabbi. Local police and security forces spent thirty-two hours sieging the house Merah resided in before a sniper shot him in the head.

Affamer les vaincus

Dag KRIENEN:

Affamer les vaincus: le sort des prisonniers de guerre allemands de l’US Army après le 8 mai 1945

 

Dix pourcents seulement des 3,8 millions de soldats allemands pris prisonniers par les Américains pendant la seconde guerre mondiale ont été embarqués sur des navires à destination des Etats-Unis, où ils ont été plus ou moins traités jusqu’en mai 1945 selon les règles régies par le droit des gens. 3,4 millions de prisonniers issus des rangs de la Wehrmacht ont toutefois subi d’autres formes de détention.

 

Dès la fin de l’été 1944, après le débarquement en Normandie, que les Allemands appellent l’ “invasion”, les autorités militaires américaines créent des “camps de transit” (“Durchgangslager”) partout en Europe occidentale, où les prisonniers de guerre sont “internés provisoirement” et triés, où seuls ceux auxquels on ne pouvait imposer un travail étaient transportés en direction des Etats-Unis. Il y régnait des conditions misérables. Les prisonniers recevaient un minimum de soins et devaient généralement dormir à même le sol. Leur sort s’améliorait considérablement toutefois dès qu’on les embrigadait dans les “US-Labour Service Units” (= “les Unités du Service américain du travail”), qui devaient prester toutes sortes de services dans les bases arrière de l’armée américaine.

 

Pour ceux qui seront pris prisonniers et détenus ultérieurement sur le sol allemand, la même règle générale était de rigueur: seuls ceux qui acceptaient de travailler pour les Américains recevaient des soins corrects et étaient hébergés dans de bonnes conditions. Mais peu de détenus, sur les trois millions qui végétaient dans ces camps de “prisonniers de la capitulation”, ont pu “bénéficier” de ce privilège. Ils s’étaient rendus au cours des dernières phases de la guerre, en faisant confiance à la propagande américaine qui leur promettait un traitement conforme à la convention de Genève, ou ils avaient été ramassés et rassemblés par des unités américaines dès que les hostilités avaient cessé.

 

Pratiquement aucun de ces hommes n’a reçu un traitement correct. Les Américains ont délibérément enfreint les règles du droit des gens: ils justifient aujourd’hui leurs actes en arguant que les denrées alimentaires manquaient partout en Europe en 1945. Dans les états-majors américains, où étaient prises les directives principales quant au traitement des prisonniers de guerre, le manque de vivres n’a pas vraiment joué de rôle déterminant, au contraire de l’intention bien prononcée de punir de manière drastique l’ensemble des soldats allemands captifs.

 

L’essayiste allemand contemporainThorsten Hinz, dans son ouvrage récent consacré à la “psychologie de la défaite”, a démontré que les Allemands se sont tous retrouvés en 1945 dans un immense et unique “camp de rééducation”, étendu à tout le territoire de l’ancien Reich. Ce fut le premier pas sur le chemin de la “rééducation démocratique”: il consistait à montrer aux Allemands qu’ils étaient entièrement sous la coupe du bon vouloir de leurs vainqueurs, de façon à briser définitivement toute volonté d’affirmation nationale et collective. La directive JCS-1067 des autorités d’occupation américaines visait à imposer une grande et rude leçon générale d’humilité, en imposant “famine et froid” à tous ceux qui étaient tombés en leur pouvoir. Le futur gouverneur militaire américain en Allemagne, Lucius D. Clay, a certes bien dit et écrit que cette politique de “famine et de froid”, à propos de laquelle le consensus régnait dans les cercles gouvernementaux américains en 1945, ne devait pas conduire à la mort par famine et par froid de la masse du peuple allemand. Mais de cette déclaration de Clay, il ressort toutefois bel et bien que la distribution de vivres, certes devenus rares, aux prisonniers de guerre allemands étaient la dernière des priorités pour les Américains.

 

Pour le sort des prisonniers pris au moment de la capitulation, cette insouciance a eu des conséquences fatales. Dans ce contexte, cela n’a plus guère d’importance de rappeler que le commandant-en-chef des forces américaines en Europe, le Général Eisenhower, ait donné l’ordre le 4 mai 1945 de traiter tous les nouveaux prisonniers de guerre allemands comme des “Disarmed Enemy Forces” (DEF), de façon à ce qu’ils ne tombent plus sous la protection de la convention de Genève. Par ce tour de passe-passe, les Américains se débarrassaient de l’obligation de loger, d’alimenter et de soigner médicalement ces DEF et la confiaient aux Allemands. Toutefois, indépendamment de leur statut, tous les prisonniers rassemblés ont été, dans un premier temps, concentrés dans des “camps de transit” improvisés: on se souviendra surtout des abominables “Rheinwiesenlager” (= des “camps-prairies” de Rhénanie). On a maintes fois décrit les conditions affreuses qui régnaient dans ces “camps-prairies”: nous n’en donnerons qu’un bref résumé dans le présent article. Concentrer ainsi des centaines de milliers d’hommes, après les avoir “filtrés” et dépouillé de toutes leurs affaires personnelles, et puis les laisser à eux-mêmes, enfermés dans des camps gigantesques pendant des semaines, où se bousculaient parfois près de 100.000 captifs, répartis dans des “cages” séparées de 5000 à 15.000 soldats, sans qu’il n’existe la moindre infrastructure; vivre les uns sur les autres sans un toit au-dessus de la tête, à même le sol d’un champ, sans installations hygiéniques ou seulement avec des installations improvisées, sans soins médicaux, sans nourriture ou avec seulement une nourriture insuffisante pendant les premiers jours, avec les mauvais traitements infligés par les gardiens et par les plus corrompus des prisonniers hissés au rang de “police du camp” sont autant de manquements qui ont conduit à des souffrances indicibles et à la mort d’innombrables prisonniers.

 

On ne peut par dire a posteriori que toutes ces souffrances ont été planifiées volontairement dans tous leurs détails mais la terrible expérience subie par ces millions d’hommes, où le prisonnier perd toute dignité et tout sens de la solidarité à cause de la faim et de la misère, fut bel et bien le lot de tous les porteurs d’uniforme allemands pris par les Américains en 1945. La lutte constante pour recevoir une nourriture chiche dans les “cages”, a poussé jusqu’à l’absurde les vieux idéaux de la discipline militaire et de la camaraderie entre soldats. Tout cela cadre bien avec la première “thérapie de choc”, qui allait être suivie par la politique plus vaste de “rééducation”.

 

Après avoir infligé aux prisonniers de guerre allemands cette épouvantable leçon, les Etats-Unis n’avaient aucun intérêt à les retenir captifs indéfiniment. Après que les Américains aient sélectionné quelque 300.000 hommes pour leurs “Labour Service Units”, ils ont commencé à libérer les autres. A partir de juin 1945, ils ont libéré les plus vieux et les plus jeunes (surtout les très jeunes) puis ceux qui avaient un métier important pour l’économie du ravitaillement; à partir d’août, ce fut le tour de la grande masse des prisonniers. Les Allemands concentrés pêle-mêle dans ces “camps de transit” sans être correctement enregistrés, devaient êtretriés et répartis éventuellement dans d’autres lieux de détention; pour ces malchanceux, la captivité a duré encore plus longtemps.

 

D’autres encore subirent des épreuves complémentaires: ils ont été accusés de crimes de guerre ou retenus comme témoins de tels crimes, et donc leur détention a été prolongée; enfin, une masse importante a été transférée dans les pays alliés pour y forunir une main-d’oeuvre forcée. Au début de l’année 1946, il y avait encore en Europe un million de prisonniers de guerre allemands détenus officiellement par les Américains (dont une bonne partie en France et en Italie). Au début de l’année 1947, il n’y en avait plus que 40.000.

 

Les conditions de vie de ces prisonniers, dans les camps gérés par l’armée américaine sur le sol allemand, étaient contraires au droit des gens, dans la mesure où les délégués de la Croix Rouge internationale avaient reçu expressément l’interdiction de les visiter. Ces conditions se sont améliorées à partir de juillet 1945. Les “camps de transit” ont été démantelés les uns après les autres ou transformés en camps de prisonniers plus ou moins normaux. Dans les camps résiduaires, l’hygiène s’est progressivement améliorée, de même que les soins médicaux et le logement. L’alimentation des prisonniers étaient encore mesurée chichement mais devenait plus régulière. Comparé au sort de leurs homologues retenus prisonniers aux Etats-Unis, celui des prisonniers allemands en Europe restait misérable à la fin de l’année 1945 mais moins mortel, potentiellement, qu’au début de l’été.

 

En mai et en juin 1945, les “camps-prairies” de Rhénanie et les autres camps de prisonniers organisés par l’armée américaine en Allemagne, avec une nourriture totalement insuffisante, des conditions d’hygiène déplorables, l’obligation de dormir à la belle étoile ou dans des trous de terre creusés par les prisonniers eux-mêmes, l’exposition aux pluies incessantes et à la boue qui en résultait, ont entraîné la mort d’innombrables malheureux. L’adjectif “innombrable” est bien celui qui sied ici car nous ne possédons toujours pas de chiffre fiable quant aux nombre de décès qu’a entraînés l’administration pleinement consciente de cette “leçon de famine et de froid”. Cela explique le choc qu’a provoqué la parution en 1989 du livre du journaliste canadien James Bacque, consacré aux prisonniers de guerre allemands dans les camps américains et français en 1945 et 1946; Bacque avance le chiffre d’un million de morts dans les camps américains.

 

Dag KRIENEN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°49/2010; trad. franç.: mars 2012; http://www.jungefreiheit.de/ ).

mercredi, 28 mars 2012

Gérard Romsée: mythe et réalité

Edwin TRUYENS:

Gérard Romsée: mythe et réalité

 

Recension: Evrard RASKIN, Gerard Romsée. Een ongewone man, en ongewoon leven, Hadewijch, Antwerpen-Baarn, 1995, 449 pages.

 

Gérard Romsée est né à Guigoven, dans la province du Limbourg, le 11 octobre 1901, fils de Joseph Romsée (1872-1933) et de Louise Boogaerts (1869-1928). Trois ans auparavant, un frère, Paul, était né dans le même foyer. Gérard Romsée descendait, par son grand-père paternel, d’une famille wallonne. Son père s’était inscrit au barreau des avocats mais n’e plaida que rarement. Il bénéficiait de riches émoluments comme intendant et, de plus, ses propres biens lui procuraient des revenus substantiels. La langue du foyer familial était le français.

 

A partir de septembre 1914, le jeune Gérard suit le curriculum des humanités gréco-latines au Collège Notre-Dame de Tongres, études suivies en grande partie en français. Lorsqu’éclate la guerre, il se révèle patriote passionné. Il est radicalement anti-allemand et s’oppose à l’activisme flamand. En 1916, il fonde une sorte de société secrète, la “Main Noire” (= “De Zwarte Hand”), dont les membres jurent de se porter volontaires dans l’armée belge dès l’âge de dix-huit ans, en passant par les Pays-bas pour rejoindre le front de l’Yser. En 1917, toutefois, Romsée se rend compte que le Mouvement Flamand défend pour l’essentiel une cause fondamentalement juste. C’est l’affaire Paul Vandermeulen qui a provoqué ce déclic. Cet aumônier limbourgeois aux armées plaidait la cause des soldats flamands sur le front de l’Yser. Il réagissait contre le fait que le corps des officiers était constitué, quasi intégralement, de francophones et que les soldats flamands étaient commandés exclusivement en français. Et lorsque Paul Vandermeulen, plus tard, se prononça en faveur d’une flamandisation de l’Université de Gand, l’armée lui infligea une sanction disciplinaire. On l’exila alors dans l’île française de Cézembre où l’armée belge avait organisé un camp pénitentiaire. Ces faits furent rapidement connus à l’arrière, y compris dans le Limbourg occupé: la jeunesse des collèges catholiques réagit avec fureur. Outre l’affaire Vandermeulen, il faut aussi mentionner l’influence patente du prêtre Eugeen Froidmont (1891-1957) qui fit évoluer Romsée du patriotisme belge à la cause flamande.

 

A l’automne de l’année 1920, Romsée s’inscrit à l’Université Catholique de Louvain. Il y étudie le droit et la philosophie thomiste. Il s’engage également dans les rangs de l’association catholique étudiante KVHV et dans l’association Saint Thomas. Dès l’année académique 1921-1922, le mouvement étudiant flamand se radicalise. Les 12, 13 et 14 avril 1924, ils organisent à Louvain le 19ème Congrès des Etudiants Grand-Néerlandais (“Grootnederlands Studentenkongres”). Ce congrès est ponctué de plusieurs bagarres; au cours de l’une d’entre elles l’étudiant wallon Gaby Colbacq tire trois coups de pistolet sur le Flamand Albert Vallaeys. Celui-ci survit mais les Flamands réagissent avec davantage de vigueur. A la suite de ces incidents, les autorités académiques interdisent le 3 mai 1924 toute activité future. Le KVHV n’a pas l’intention d’obéir à cette injonction. On avance la date des élections du praesidium. Paul Beeckman est élu nouveau président (praeses) et écrit aussitôt une lettre aux autorités académiques qui laisse bien entendre que le KVHV ne tiendra pas compte de la mesure prise par celles-ci. Beeckman est chassé de l’université. Romsée, qui avait été élu vice-président, prend la direction de l’association. Le débat avec les autorités académiques se poursuit mais, finalement, Romsée et Tony Herbert sont à leur tour chassés de l’université. Pour Romsée, c’est très grave: en représailles, son père lui interdit de pénétrer encore dans le foyer parental.

 

Comme Romsée ne peut plus étudier à l’université, il ne pourra pas devenir docteur en philosophie thomiste, car il s’agit là d’un diplôme scientifique. Mais il poursuit ses études de droit en toute indépendance et obtient son doctorat dès le 11 août 1926. Il s’installe comme avocat à Anvers. Quelque temps après, il se réconcilie avec son père et, peu après cette réconciliation, sa mère décède.

 

La 26 mai 1929, Romsée est élu député sur une liste du KVV (“Katolieke Vlaamse Volkspartij”; = “Parti Populaire Catholique Flamand”). Il est co-signataire du projet fédéral d’Herman Vos le 23 avril 1931. Le 10 décembre 1933, le KVV du Limbourg décide de s’adjoindre au VNV nationaliste. Le VNV pouvait alors être considéré comme l’organisation politique qui apportait l’unité parmi les formations nationalistes éparpillées. Mais cette unité demeurait fort fragile. A l’intérieur du VNV, on constatait une opposition assez tranchée, notamment entre Reimond Tollenaere, très radical, et Gérard Romsée, considéré comme “modéré”. Lorsque Tollenaire revient en 1940, après avoir été déporté dans le sud de la France en “train fantôme”, il exige que Romsée soit démis de ses fonctions au sein du “Conseil de Direction” du VNV (“Raad van Leiding”).

 

Pendant la seconde guerre mondiale, Romsée devient d’abord gouverneur du Limbourg, ensuite secrétaire-général pour les affaires intérieures en date du 31 mars 1941. L’Administration militaire allemande (“Militärverwaltung”) exige cependant que Romsée soit nommé secrétaire-général de la justice. Le Comité des secrétaires généraux ne veut pas satisfaire cette exigence allemande parce que Romsée n’a pas la confiance de la magistrature. En tant que secrétaire général, il s’efforce d’assurer le bon fonctionnement de l’administration. Il est toutefois isolé dans le comité des secrétaires généraux. Au sein de ce groupe, le VNV ne compte qu’un seul membre outre Romsée, en l’occurence Victor Leemans. Celui-ci manifeste aussi une nette indépendance d’esprit et n’apporte pas toujours son soutien à Romsée. On ne peut pas affirmer que Romsée soit un instrument des Allemands, dépourvu de toute volonté personnelle. Il se montre certes prêt à aller un peu plus loin dans la mise en oeuvre des ordonnances allemandes que ses collègues et la Militärverwaltung est très satisfaite de ses services. Le 6 février 1943, Romsée nomme Emiel Van Coppenolle commandant-en-chef de la gendarmerie.

 

A la fin de la guerre, Romsée fuit le pays. Il ne craint pas seulement la répression et sait aussi que Rex le vise car il s’est toujours montré réticent à nommer des rexistes à des postes importants. Son frère Paul est fusillé le 9 septembre 1944 par des membres du groupe “Partisans Armés”. Le 5 mai 1945, Romsée est à nouveau en Belgique et se constitue prisonnier. Il est jugé par l’Auditorat militaire de Bruxelles le 17 février 1947 et par le Conseil de Guerre le 27 mai 1948. La Cour le condamne à vingt ans de prison et à dix millions de francs de dommages et intérêts à l’Etat.

 

Romsée est libéré le 23 mars 1951. Il participe à la constitution du “Vlaamse Volksbeweging” en 1953 (= “Mouvement Populaire Flamand”), participe à quelques réunions mais se retire complètement de la politique en 1956. Il épouse sa nièce, Paule Romsée, le 18 mai 1955. Le mariage religieux est béni le 23 mai 1955. Il meurt le 14 avril 1976.

 

Cette brève notice biographique, qui se réduit à l’essentiel, induira plus d’un lecteur à se poser la question: cette biographie est-elle si intéressante qu’il a fallu lui consacrer tout un livre? Oui, car pour bien connaître l’histoire du nationalisme flamand pendant l’entre-deux-guerres et pendant la seconde guerre mondiale, il fallait absolument une étude scientifique sur Romsée. Pendant la seconde guerre mondiale, Romsée a entretenu des contacts jusqu’en juin 1943 avec la Cour, plus précisément avec Robert Capelle, secrétaire de Léopold III, qui ne condamnait pas la gestion de Romsée. Après sa  sortie de prison, Romsée ne s’est guère tu quant à ses activités du temps de guerre mais n’a jamais dit qui était sa personne de contact au Palais. En gardant le silence, il a, sans le vouloir, contribué à la naissance d’un mythe. Quoi qu’il en soit, c’est un fait évident: Romsée fut l’un des rares nationalistes qui, pendant une brève période, s’est retrouvé au coeur du pouvoir en Belgique. Ce membre du VNV du Limbourg était déjà accepté dans les salons avant la guerre.

 

Romsée n’a pas seulement été une figure importante du nationalisme flamand, il était aussi un personnage étonnant. Sa personnalité était très renfermée; manifestement, il avait des difficultés à nouer des relations affectives normales. Il était profondément croyant et a souvent cultivé l’idée de devenir prêtre ou de se retirer dans un couvent. Il avait un grand sens du devoir et une incroyable capacité de travail. Il était un homme raisonnable et érudit. On lui accorde encore et toujours la réputation d’avoir appartenu à l’aile démocratique du VNV, bien qu’un examen plus précis de la question permet de déduire que rien ne le confirme vraiment. On le compte parmi les modérés mais était problablement plus radical qu’il n’en donnait l’impression. On estime aussi qu’il appartenait à l’aile fédéraliste du VNV mais semble plutôt avoir été un “Grand-Néerlandais” convaincu. Evrard Raskin cite notamment un article de Romsée paru dans “De Bilzenaar”, le 18 août 1934: “On peut se représenter la Grande Néerlande comme un Etat fédéral des Flamands et des Néerlandais. Si un tel fédéralisme avec la Hollande se réalisait par la volonté exclusive du peuple flamand, alors ce fédéralisme pourrait être plus facilement mis en place que tout fédéralisme avec la Wallonie et il faudrait lui donner la préférence. Car les Flamands et les Hollandais forment ensemble la même communauté populaire et culturelle: le peuple néerlandais, lié par l’usage d’une seule et même langue néerlandaise” (p. 136).

 

Evrard Raskin, ancien député de la Volksunie, nous livre un travail bien fait, volumineux, agréable à lire et bien étayé. Il a comblé une lacune dans l’histoire du nationalisme flamand. Cet historien et ce jursite, né en 1935, a réussi à faire oublier cet arrière-goût désagréable que nous avait laissé la rédaction de ses mémoires politiques en 1980.

 

Edwin TRUYENS.

(recension parue dans “Kort Manifest”, n°84, sept.-oct. 1997).

Le Japon et le défi russo-chinois par realpolitiktv


Le Japon et le défi russo-chinois par realpolitiktv

Charles Maurras e la denuncia della decadenza

Charles Maurras e la denuncia della decadenza

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Esiste una corrente del pensiero, radicata in un sentimento del mondo, che corre lungo tutta la storia umana; corre in avanti, perché vi è obbligata, ma con lo sguardo costantemente rivolto all’indietro, verso un eterno passato: è la reazione.

Teognide, poeta greco vissuto tra il il VI e il V secolo a.C., è uno dei primi esponenti di tale ordine di idee a noi noti. La sua invettiva aristocratica nei confronti della decadenza è archetipo di ogni forma di sentimento reazionario posteriore: “Ma ora ciò che agli occhi dei nobili è male si cangia in bene per i plebei: di leggi strane esultano. Ogni senso di rispetto è morto, impudenza e tracotanza hanno sopraffatto la giustizia e dominano per tutta la contrada”.

Charles Maurras raccolse quest’eredità sul finire del XIX secolo; trovò la sua missione nella difesa della “Dea Francia”, “meraviglia di tutte le meraviglie”, una Francia idealizzata, quella dell’Ancien Régime, perennemente minacciata dalla sovversione. E come fosse stato un Nietzsche prestato alla politica, scelse di combattere. Proprio come accadde a Nietzsche, in gioventù odiò la Comune di Parigi del 1871 per l’autentico terrore che suscitò in lui l’idea che i comunardi avessero potuto distruggere il Louvre. Come Nietzsche considerava la bellezza qualcosa di estremamente fragile; la bellezza artistica come quella sociale, la suprema “civiltà” di cui per Maurras era espressione per eccellenza la Francia di un tempo. Il pensare che essa fosse potuta scomparire con il declino di una casta che vedeva la propria vita imperniata sulle idee di “otium et bellum”, era un’idea inaccettabile. “Ogni passo in avanti non fa che complicare, creare divari, differenziare”. Se tutto questo fosse finito, sarebbe stata la vittoria dell’oscuro “caos originario” del mondo, da cui l’uomo (in particolare il francese) era faticosamente emerso nel corso dei secoli. La bellezza che ancora conferiva senso al mondo era in pericolo. “Tutto questo pianeta [...] di giorno in giorno si raffredda, imbruttisce e imbarbarisce”.

Maurras fu un “ateo devoto” ante litteram: propugnò un cattolicesimo intransigente, difendendo persino il famigerato “Sillabo”, documento con cui la Chiesa dichiarò guerra alla modernità, e lo difese in maniera esclusivamente strumentale (e proprio per questo fu poi scomunicato), intendendo il cattolicesimo come elemento d’ordine e pilastro dell’identità francese. La sua dottrina politica era costituita da un nazionalismo monarchico, nemico mortale della rivoluzione francese e di ogni forma di democrazia, liberalismo e socialismo, idee che riteneva strettamente imparentate; e ognuna di queste non era che un passo in avanti verso il baratro dell’anarchia. “Tre o quattro basse idee sistematizzate da imbecilli sono riuscite, in buona misura, a vanificare, da un secolo a questa parte, mille anni di storia francese”. Osservava con orrore e ripugnanza i “barbari del profondo”, nemici interni pronti a scagliarsi contro ciò che restava delle “belle ineguaglianze” che produssero la civiltà, e distruggerle in nome dei princìpi della rivoluzione. Infatti, la Francia idealizzata che aveva in mente Maurras non coincideva con il popolo francese: “il disordine rivoluzionario, fondato su una filosofia individualistica” per lo scrittore provenzale poteva contare su “altrettanti complici di quanti siano, in Francia, i mediocri, gli invidiosi, gli imbecilli e gli straccioni”, che a suo dire erano molti. Come Donoso Cortés vedeva venire il tempo “delle negazioni assolute e delle affermazioni sovrane”, e riteneva la democrazia non una forma di governo, bensì una forma di anarchia, una “congiura permanente contro il bene pubblico”.

Charles Maurras fu forse, più di ogni altro, un affascinante concentrato di tutte le passioni, fobie ed ossessioni della tradizione controrivoluzionaria; memorabile resta la sua soluzione, ideata per risolvere il cruciale problema che tormentava la società della sua e della nostra epoca: “Esiste un solo mezzo per migliorare la democrazia: distruggerla”.

Conversation avec Jean-Yves Le Gallou

Conversation avec Jean-Yves Le Gallou

mardi, 27 mars 2012

Le culte solaire chez les peuples germaniques

 

Frithjof HALLMAN:

Le culte solaire chez les peuples germaniques

 

Contrairement aux Grecs et aux Romains, qui adoraient des divinités solaires, les Germains considéraient que la puissance du soleil, qui donnait vie à tous les êtres, était, pour eux, une des puissances les plus sacrées. Les innombrables symboles solaires que l’on découvre sur les parois rupestres du Nord de l’Europe depuis l’âge du bronze, souvent sous la forme de roues solaires, en témoignent de manière fort éloquente. Certains d’entre ces symboles ont plus de 3500 ans. Jusqu’ici, il a été quasiment impossible d’interpréter avec précision ces signes gravés dans les rochers. Par ailleurs, le déchiffrement des signes trouvés, au nombre d’environ 7500, sur un rocher canadien, à Petersborough dans la province d’Ontario, nous donne l’espoir d’un jour pouvoir déchiffrer les milliers de grafittis de l’Ultima Thulé scandinave. C’est un professeur britannique, Barry Fell, qui nous a donné la clef d’un tel déchiffrement. Les deux alphabets de runes primitives, qu’il est parvenu à déchiffrer, il les a appelés “Tifinag” et “Ogham”. Son oeuvre peut se comparer au dévoilement du mystère des hiéroglyphes égyptiens par le Français Champollion et à la découverte du sens des anciens alphabets grecs du “Linéaire A” et du “Linéaire B” par Michael Ventris. Grâce à Champollion et à Ventris des pans entiers de la culture antique et protohistorique nous sont désormais accessibles.

 

Les spécialistes allemands des religions et des mythologies, le Dr. Wolfram Goegginger et le Prof. Gustav Mensching ont, dans un ouvrage reproduit récemment en facsimilé, Volksreligion und Weltreligion im deutschen Brauchtum (= Religion populaire et religion universelle dans les coutumes allemandes; Faksimile-Verlag, Brème, 266 pages, 1996) ont surtout mis en exergue les cultes solaires germaniques et souligné leur grande importance. Le livre, dans sa première édition, date de 1944 et avait été publié auprès d’une maison d’édition de Riga en Lettonie. L’ensemble du stock avait été détruit lors d’un bombardement allié, alors qu’on le transportait vers l’Allemagne. La nouvelle édition fait donc oeuvre utile. On considère désormais ce travail comme un ouvrage standard dans la littérature sur l’histoire des religions.

 

Thèse initiale du travail: au départ de la religion populaire germanique primitive, on peut évoquer diverses fêtes du printemps, du soleil et de l’hiver, assorties de traditions précises, tant et si bien que la pratique de cette religion populaire peut être considérée comme une création purement germanique. On ne s’étonnera pas, dès lors, que l’Eglise, au moment où le christianisme pénétrait dans l’espace germanique et scandinave, ait tout mis en oeuvre pour détruire ces traditions mythiques bien ancrées depuis la nuit des temps, comme d’ailleurs toutes les autres coutumes et monuments “païens” de nos lointains ancêtres.

 

On comprendra aisément que des populations contraintes de vivre dans de sombres forêts pendant près d’une demie année d’obscurité vont adorer l’astre solaire avec une vénération plus forte que les peuples du Sud.

 

En partant d’une présentation de l’essence de la religion chrétienne, pour laquelle, comme pour l’islam et le bouddhisme, l’individu est central, nos deux auteurs montrent, dans leur ouvrage, que la religiosité des anciens Germains est affirmatrice de la vie au contraire de la religion chrétienne qui méprise le monde et s’affirme anti-vitaliste.

 

Nous n’avons pas la place ici d’énumérer, même sommairement, toutes les coutumes principales de la liturgie annuelle pratiquée par nos ancêtres, raison pour laquelle il conviendrait d’acheter et de lire ce livre remarquable, qui comble une formidable lacune dans l’histoire des pratiques religieuses en Europe.

 

Nos auteurs évoquent notamment les combats printaniers contre les dragons, représentant les puissances hivernales et mortifères, des fêtes de la fertilité et des rites liés aux plus anciennes divinités (Odin, Thor, Frigga, etc.), ainsi que les fêtes de l’Ostara et du Huld, qui, elles, évoquent la reprise de parole de Dieu. Parmi les cultes commentés, signalons le “labourage sacré”, au moment où commence le printemps; ces cultes indiquent que ces peuples avaient acquis un degré élevé de culture comme le montrent aussi les nombreux dessins rupestres où figurent des chariots et des nefs à haute étrave ou haut étambot. Ces populations n’étaient donc pas des nomades primitifs en état d’errance perpétuelle, comme le prétendaient les missionnaires chrétiens, en pensant qu’ils leur apportaient les premiers éléments de religion.

 

Les dessins rupestres représentent souvent, dans un contexte religieux, des arbres de vie (apparemment l’Arbre du Monde, le Frêne Yggdrasil), ce qui implique un culte des arbres et de la forêt omniprésente sous ces latitudes. L’arbre de Noël en est un écho, surtout lorsqu’il est décoré d’artifices lumineux, ainsi que la fête qu’il célèbre, celle du Jul. On sait que ces coutumes ne viennent pas d’Orient mais de l’espace germanique et scandinave, à partir duquel elles se sont répandues dans le monde. Ce n’est pas un hasard si le missionnaire Boniface fit abattre le chêne dédié à Thor à Hohengeismar en Hesse dès son arrivée en Germanie en l’an 724! De même, l’Arbre de Mai, dénommé soit “Maistande” (le mât de Mai) ou “Maibaum”/”Meiboom” est le symbole de la nouvelle vie en phase de germination. Les jeux festifs du moment solsticial sont encore considérés en Scandinavie comme la plus importante des fêtes de la Lumière, placée sur le même plan que la Noël. L’Eglise a débaptisé cette fête du solstice d’été en l’appelant “feux de la Saint Jean”.

 

Dans ce livre magnifiquement relié et reproduit en facsimilé sur les cultes et les traditions, la première partie est due à la plume de W. Goegginger, tandis que la seconde, dont l’auteur est G. Mensching, traite de l’opposition qui existe naturellement entre religiosité populaire (ou naturelle) et religiosité universaliste, en assortissant cette distinction de premier ordre de réflexions fort profondes. Mensching oppose donc les religiosités purement naturelles aux religiosités qui se borne à n’exercer qu’un culte. Les religiosités naturelles représentent dès lors l’idéal de communauté, de dimensions tribales ou populaires; les religiosités universalistes, elles, reposent sur une anthropologie strictement individualiste. Dans sa conclusion, Mensching écrit: “La vie, et non pas les dieux, est ce qui est relève réellement du divin dans le domaine de la religiosité germanique... Au-dessus de nous, il y a immanquablement le Dieu éternel, le waltand got, l’incompréhensible, celui qui nous envoie notre destin, qui nous prodigue notre salut, la force originelle de toute religion et de toute force”.

 

Frithjof HALLMANN.

(recension parue dans “Mensch und Mass”, n°2/1998).

Open Society or Survival

Open Society or Survival


Ex: http://www.alternativeright.com/

Of all the idols of our age, none has demanded so much blood sacrifice and the dissipation of resources as that of democracy. From the Hindu Kush to our television screens, the liberal order betrays its totalitarian nature. We send armies and airborne robots into Asia’s wastelands to kill for the universal rights of man. Mass democracy can never be recognized for the deviant political philosophy it is, nor can it be restricted to the West alone; equality must reign everywhere unchallenged. Modern man is infallible, and in his militant faith he pursues no less than the entirety of the world subjugated to his will. How else may a New Jerusalem of pleasure and profit be realized, if not through the monumental force of a united humanity?

Eurasia remains the key to fulfilling this mad dream. Even as the United States continues its grinding and bloody counterinsurgency in Afghanistan and across Dar al-Islam, Washington has found the cash to promote “civil society” and “the rule of law” in Russia. The Obama Administration is looking to apply $50 million to NGOs and similar initiatives in Moscow and other regions throughout the country. Thus stated Ambassador Michael McFaul:

We have proposed to the US Congress to create a new civil society fund for Russia. We proposed that 50 million dollars in a neutral way, by the way, in terms of new money. That’s what I hear in Moscow that when you talk to real human rights organizations and what they really need, they need that kind of support.

 

While $50 million would be negligible in sustaining the Pax Americana’s military operations, it makes for a tidy sum when directed toward political subversion. (Among other projects, expect a new stream of nauseating parades and Pussy Riot church provocations.) Vladimir Putin’s third presidential term will begin this spring, but U.S. policy planners have been emboldened by a recent surge in opposition activism in Russia. Along with continuing pressure on Moscow’s peripheries, their strategy is still centered on creating the infrastructure for revolution, the most cost-effective way that an embattled Third Rome could fall to American power. After all, the United States seeks to destabilize Russia with an ultimate view to her dismemberment and exploitation by the lords of international usury.

The Freedom Agenda grants Washington carte blanche to undermine sovereign nations on whim in the name of “human rights” and a long-term mandate for global governance. Exporting to the world its model of social chaos, the United States aims for the establishment of a unified, market-driven Open Society across the earth. Should some insolent tribe refuse the imperial model, it must prepare for the inevitable assault- if not by bombardment or sanctions, then at the very least through intelligence operations and psychological warfare.

Peoples who would defy postmodern Mammonism must have a clear ideological framework for resistance. In the case of Russia, such a basis for thought and action is conspicuously absent among ruling elites. Popular legitimacy can only derive from the quantitative “will of the people”; the Kremlin carries out elections in imitation of Western stage-management and assiduously tracks approval ratings from the middle class. Putin and his assorted clans will have nothing to counteract a deadening reductive-materialist worldview if they share it with their geopolitical adversaries.

Russia spent a century enacting the social experiments of the modern West; she can afford neither lives nor time for yet another ruinous undertaking. Babel and its missionaries must be repudiated. War for the national soul begins at the visceral level of shared faith and kinship; these values form the traditional organic state, guardian of sacred heritage and culture. And there is no greater weapon in this struggle than the loyal heart.

Rendering judgment on democracy, the White émigré leader Ivan Ilyin gave us a principled and articulate rejection of the liberal dispensation and its incipient totalitarianism. It is no accident that today’s Free World is on the fast track to tyranny. The bloodless abstractions of liberty and equality bequeathed to us by Locke, Rousseau and their disciples have birthed mechanisms of control undreamt of by ancient despots. “Government by the people” has in fact served to corrupt and dissolve whole peoples according to the design of an antitheist and anti-human Money Power. Is escape from the democratic Panopticon even possible? Yes, though it demands of us a fateful choice: languishing toward oblivion in the Open Society, or our arrival at the harsh conclusions necessary to chart a future.

 

*** 

On Formal Democracy

Essay by Ivan A. Ilyin. Taken from the collection “Nashi Zadachi” and translated by Mark Hackard.

There are two different understandings of the state and politics: the mechanistic and the organic. The mechanistic asserts instinctive man and his private interests; it measures life quantitatively and formalistically. The organic derives from the human spirit and ascends to national unity and its common interests; it is qualitative, searching out spiritual roots and solutions.

We shall first examine the mechanistic view.

It sees in man first and foremost the instinctive individual with its “desires” and “needs”: every person wishes to work less, enjoy himself more and relax; procreate and accumulate; maintain his irresponsible opinions and express them without hindrance; to find the like-minded and associate with them wherever they may be; to depend upon no-one and wield as much power and influence as possible. After all, men are born “equal”, and hence each of them must be provided equal rights for the assertion of their desires and needs: these are the inalienable rights of liberty which cannot abide restriction. Therefore every person should have an equal voice in affairs of state. For so many people there will be so many equal voices. Whatever a man may fancy is to be affirmed, and let there be no interference in this. Allow like-minded men of all nations to unite freely; let the votes be counted; the majority will decide…

As to the quality of the desires, plans and enterprises of all these men of one mind, and especially the motives and intentions of voters, no-one may concern himself. All of this is protected by inviolable “freedom”, equality and the secret vote. Every citizen as such is considered already reasonable, enlightened, well-intentioned and loyal, incorruptible and honorable; each man is given the opportunity to discover his “valor” and veil all his designs and schemes with words about “the common good”.

Until he is caught, this man is not a thief; until taken red-handed, he demands complete respect. He who has not been implicated at the scene of a crime (for example, treason, foreign espionage, conspiracy, bribes, waste, fraud, call-girl rings, counterfeiting) – is considered a political “gentleman” independent of his profession and a full citizen. Most important are liberty, equality and vote-counting. The state is a mechanical equilibrium of private (personal and group) agendas; the state is built as a compromise of centrifugal forces, played out in the performances of political actors. And politics should move according to the results of mutual distrust and competing intrigues.

Unfortunately this view (as much as I know) is nowhere expressed in such a frank and precise form. It is not a doctrine; it is simply an unspoken political dogma, rooted in the world and taken as the self-evident essence of democracy. All men are formally free; all men are formally equal and contend with each other for power, for the sake of their own interests, yet under the pretense of a common benefit.

Such a formal and quantitative conception of the state renders its fate dependent on whom, how and what shall fill a vacuum of content, as well as that indifferent-drifting quality people afford themselves through formal “liberty”. State and government are but a mirror or arithmetic sum of what is made in the soul of the human mass and its sense of justice. Something stews within this at once opaque and unassailable cauldron: any interference is forbidden as “pressure”, and any constraint or action is denounced as “an infringement upon freedom”. Every citizen is secured the right to crooked and deceptive political paths, to disloyal and treasonous designs, to the sale of his vote, to base motives for voting, to underground plots, unseen treachery and secret dual citizenship- to all those crudities which are so profitable to men and so often tempt them.

The citizen is given the unlimited right to temptation and the corruption of others, as well as the subtle transactions of self-prostitution. He is guaranteed the freedom of disingenuous, lying, and underhanded speech, and the ambiguous, calculated omission of truth; he is granted the liberty to believe liars and scoundrels or at least pretend to believe them (in self-interest simulating one political mood or its complete opposite). And for the free expression of all these spiritual seductions he is handed the ballot. Motivations for voting must be free; the formation of parties tolerates no constraint; to limit political propaganda is to exercise coercion.

To judge and condemn for “political views” is not permitted: this would signify an assault upon another’s “conscience” and persecution of his beliefs (in German, Gessinungsjustiz). Freedom of opinions should be total; government officials will not dare infringe upon this or attempt its curtailment. And the most stupid, most harmful, ruinous and foul “opinion” is sacrosanct, already by virtue of the fact that there is a destructive fool or traitor who has proclaimed it, all the while hiding behind its inviolability. Is it possible to make him only passively hold his beliefs? How are we to keep him from putting these thoughts into action, through whispers, conspiracy, secret organizations, and the covert accumulation of arms?

It is understood that all of this immediately disarms the state before enemies and subversives; at the same time it guarantees these enemies and subversives total liberty and impunity. The government is obliged to secure the people the freedom to be seduced, while revolutionaries and traitors are assured the freedom to seduce. It is natural that another election’s results will show the success of this guaranteed seduction. And so the regime will continue until the seduction undermines the very idea of voting and readiness to submit to the majority (for according to the recently stated revolutionary formula of the Belgian Spaak: “The minority is not required to submit to the majority”). Then voting is replaced by rebellion, and the organized totalitarian minority seizes power.

This means that the formalistic-quantitative concept of the state opens the doors wide open to every political adventure, coup and revolution, as we observe from year to year in South America, for example. And in truth, the scoundrels of the world would have to be complete fools if they did not notice and exploit this excellent opportunity for the seizure of power. Admittedly, American gangsters did not reach this point and kept their atrocities out of politics, and the Sicilian Mafiosi have also been satisfied with private income. But to arrive at such a conclusion is not at all difficult. Nature abhors a vacuum; as noble motives (religious, moral, patriotic, and spiritual) weakened and withered in human souls, into the empty space of formal liberty would inevitably surge ridiculous, evil, perverse and avaricious plans advanced by totalitarian demagogues of the Left and Right.

Formal liberty includes the freedom of secret treason and overt destruction. From the very beginning the mechanistic and arithmetical competition of private desires prepared within people’s hearts the possibility of blind escalation and civil war. As long as centrifugal forces agreed to moderate their demands and find a compromise, the state could maintain balance over the chasm; but the prophets of class struggle rebelled and brought upon us the moment of civil war. How can the formal-mechanistic conception of the state oppose them? By the urging of great persuaders? Cries over our perishing freedom? Or ideas of sentimental humanitarianism, forgotten conscience and trampled honor? But this would mean “interference”, thereby denouncing formal liberty and the mechanistic conception of politics! This would entail a loss of faith in political arithmetic and a fall into pure democratic heresy!

For formal democracy does not allow any doubt as to the good intentions of the free citizen. Jean-Jacques Rousseau once taught that man by his nature is rational and good, and the one thing he lacks is freedom. We need only to not hinder him in drawing from his good-natured heart the guiding “general will”, wise, unerring and salvific…Just don’t bother him, and he shall draw it forth!

People came to believe this two centuries ago. The French Encyclopedists and revolutionaries believed, and after them anarchists, liberals and proponents of formal democracy around the world. They believed to such a degree that they even forgot about their faith and its dangers: it was decided that this system is the truth most undoubted, and that in politics it demands veneration before liberty, a respectful formalism and an honest count of the votes. And now two centuries of this practice have set contemporary politicians before the greatest political earthquake in world history…

What can they do? Curtail formal liberty? Reject the mechanism of private desire? Abolish the arithmetic of voting? But this would mean to doubt the sacred dogmata of modern democracy! Who shall risk such a feat? Who will disavow himself? And how will he oppose totalitarians from both the Left and the Right?

If this is a dead end, then what next? Assent to the deformations and atrocities of a totalitarian regime?! Impossible!

 

Mark Hackard

Mark Hackard

Mark Hackard has a a BA in Russian from Georgetown University and an MA in Russian, East European, and Eurasian Studies from Stanford University.

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999, inizio dei "bombardamenti democratici" sulla Jugoslavia

di Andrea Salomoni

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

http://sites.etleboro.com/thumbnails/news/18433_NATO_bombs_hit_downtown_Belgrade_1999.jpg

Il 24 Marzo del 1999, iniziarono i bombardamenti "democratici" sulla Jugoslavia e la criminale aggressione contro il suo popolo; mentre il 10 giugno venivano stipulati gli accordi di pace a Kumanovo, e dopo 13 anni ecco che la verità faticosamente si fa largo anche a livello ufficiale:...Altro che “genocidi e fosse comuni mai trovate”, “diritti umani negati” e “pulizie etniche” mai avvenute, se non dopo l’occupazione della NATO, e compiuta dalle bande criminali dell’UCK nei confronti dei serbi e di tutte le minoranze non albanesi, oltre che contro gli albanesi jugoslavisti. A dodici anni dalla fine dell’aggressione la verità lentamente emerge, altro che “ingerenza umanitaria”, ecco a cosa miravano i criminali bombardamenti “terapeutici” sulla Jugoslavia. Erano semplicemente mire imperialiste, soltanto che ora non lo diciamo più noi "complottisti" come facciamo dal 1999, adesso ci sono le prove e le dimostrazioni. Sotto trovate una cartina della Serbia Montenegro, con indicati gli obiettivi e gli interessi che la NATO ha richiesto al nuovo governo, docile vassallo dell’occidente, come condizione per entrare nella lista d’attesa per la Partnership per l’organizzazione atlantica e per poter aspirare ad entrare un giorno, nell'Europa dei padroni. La cartina vale forse più che tutte le analisi, ipotesi, disquisizioni teoriche fin qui fatte, nella sua fredda sinteticità è come l’esibizione dell’arma del delitto, tutte le menzogne, le falsità, gli alibi degli aggressori, crollano come un castello di carte. La cartina è su ciò che si discusse tra i vertici NATO e il nuovo governo serbo montenegrino; rappresenta gli obiettivi e gli interessi ritenuti “necessari” dall’Alleanza atlantica e dagli USA: porti, aeroporti, caserme, siti logistici per installazioni radar, zone considerate strategiche per basi, ecc. ecc. Nella regione balcanica, ora che sono state portate la libertà e la democrazia…occidentali, ovviamente, la situazione di agibilità e sovranità, per i popoli e stati è sinteticamente questa:

in Ungheria l’ex base sovietica di Tasar è ora la principale base militare americana fino alla Russia; 

in Albania sono state posizionate le basi navali più grandi, oltre all’aeroporto vicino a Tirana;  

in Macedonia sono state occupate dalle truppe Nato le due più grandi caserme del paese a Tetovo e a Kumanovo, oltre all’aeroporto di Petrovac, Skoplije e al poligono militare di Krivolak; 

la Bosnia Erzegovina è stata adibita per l’aviazione: l’aeroporto di Dubrovac, Tuzla è diventato base aerea Nato, così come a Brcko e Bratulac, sono state messe due basi terrestri; 

i maggiori porti della Croazia sono stati adibiti per le unità navali, mentre all’aeroporto vicino Pula c’è ora una base dell’Alleanza oltre al poligono di Slunj vicino Djakova.

 

Dalla Romania è stata presa la base navale di Costanza, l’aeroporto militare vicino a Bucarest, le basi terrestri vicino Timisoara, a Costanza, Kluza e Vlaskoj, ma ne sono richieste altre tre per ultimare il dislocamento delle truppe nella regione. 

 In Bulgaria è stata collocata una base navale a Varna e una terrestre a Sarafovo Infine in Kosovo vi è Camp Bondstel a Urosevac e un'altra base a Gnjlane. Da questo scenario geo-militare dei Balcani una cosa salta immediatamente all’occhio, in quest’elenco manca solamente un paese, che ancora non risulta “occupato” da basi straniere, ed è la Serbia Montenegro, ex Repubblica Federale Jugoslava; ecco svelato l’arcano dei mille contorcimenti mass mediatici, inventati per giustificare l’aggressione e lo smantellamento di quell’ultmo pezzo di Jugoslavia, che aveva una gravissima colpa per questi tempi: quella di pretendere e difendere la propria indipendenza e sovranità e quella di non volere truppe straniere a casa propria. E questo nel ventunesimo secolo è una colpa gravissima, perché si diventa un ostacolo “de facto” ai piano geo-strategici dell’imperialismo americano, e non può essere ammesso. O si accetta o si viene spazzati via, certo le motivazioni pro forma vengono trovate e pianificate attraverso la disinformazione strategica, c’è sempre un buono e sacro motivo democratico per aggredire un popolo o un paese “ non asservibile” con pressioni o dollari.  Qui come in Iraq, come in Palestina, Libia, Libano, Siria, Iran, Cuba, Corea del Nord, Venezuela, Bielorussia ecc. ecc perché la lista è continuamente suscettibile di cambiamenti o aggiornamenti, a seconda degli eventi che accadono. E così si può tranquillamente capire come, nelle trattative tra un nuovo governo serbo montenegrino, creato, sponsorizzato e finanziato per arrivare al potere, scalzando un governo di unità nazionale che impediva questi scenari in terra serba, la discussione è come fosse una riunione amministrativa di riscossione di quanto dovuto. Ai “Quisling” locali il governo amministrativo, alla NATO ed agli USA il potere di decidere e comandare, a casa di altri. Il ministro della difesa, nei colloqui di Londra per poter entrare nella Partnership Nato ha ricevuto le seguenti richieste, ritenute necessarie per “armonizzare” le relazioni tra la nuova Serbia e l’occidente:

la stazione radar di Kopaonik, la più avanzata tecnologicamente dell’esercito serbo ed anche strategica per qualsiasi minima concezione difensiva del paese e quella di Pesterska;

basi aeree a Batajnica vicino Belgrado, Zlatibor, Kraljevo, Nis e Visoravan:basi terrestri a Novi Sad, Pancevo, e Nis;

le basi navali di Herceg Novi e Bar sulla costa montenegrina.

Oltre alla richiesta di una consistente riduzione degli effettivi dell’esercito federale, a cui l’ossequiente nuovo governo “libero” ha risposto con una proposta  di passare da 70.000 militari a circa 35.000. Quindi trasformare quello che era  l’esercito più forte e organizzato di tutti i Balcani, in una poco più di milizia territoriale, debole e quindi sottomessa e ubbidiente. Già, perché una delle clausole presupponeva anche la presenza di “esperti militari” statunitensi nei vertici degli Stati Maggiori serbo montenegrini. 

E qualcuno osa chiamare tutto questo…libertà?

Queste trattative e richieste sono la dimostrazione che le aggressioni ai popoli e paesi “renitenti o resistenti”, non cessano con il rumore dei bombardamenti “intelligenti”, ma proseguono con la distruzione degli stati sociali, delle condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione, con le politiche di privatizzazioni e svendite delle ricchezze nazionali, nell’immiserimento che investe la stragrande maggioranza della società, ed infine con l’asservimento militare, ultimo passaggio per annientare completamente qualsiasi inversione di tendenza politica, essendo coscienti che il malessere e il disagio sociali, prima o poi si trasformeranno in lotte e conflittualità. 

Così saranno garanti della pace sociale e degli interessi di coloro, che nel frattempo parallelamente, si sono  formati ed arricchiti : le borghesie “compradore” locali, veri e propri pirati e banditi in doppiopetto, ma legati a doppio filo con gli interessi del capitale straniero; che sono altro da quella borghesia nazionale che perlomeno, aveva trovato un alleanza con le forze patriottiche e popolari, per resistere all’invasione e asservimento economico, politico e sociale del paese, in un ottica di interesse nazionale.

Questi gli obiettivi e le richieste fatte dalla NATO, al governo della Serbia Montenegro, per diventare uno Stato “democratico, libero ed europeo”. 


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

R. Steuckers: Spreekbeurt - Antwerpen - 2011

 

Spreekbeurt - Antwerpen - 2011

lundi, 26 mars 2012

Le plan Vigipirate écarlate après Toulouse. Cui prodest ?

Le plan Vigipirate écarlate après Toulouse. Cui prodest ?

par Gustave LEFRANÇAIS

« Les bombes-fusées qui tombaient chaque jour sur Londres étaient probablement lancées par le gouvernement de l’Océania lui-même, juste pour maintenir les gens dans la peur ”. »

George Orwell, 1984

Dans le monde du spectacle de la marchandise où les intérêts agissants de la dictature démocratique des Mafia de l’argent sont à la fois si bien et si mal cachés, il convient toujours pour saisir les mystères du terrorisme d’aller au-delà des rumeurs médiatiques policières puisque le protègement des secrets de la domination opère continûment par fausses attaques et véridiques impostures.

Le leurre commande le monde du fétichisme de la marchandise et aujourd’hui d’abord en tant que leurre d’une domination qui ne parvient plus à vraiment s’imposer au moment où l’économie historique de la crise manifeste explosivement la crise historique de l’économie elle-même.

Du meurtre d’Aldo Moro par les Brigades rouges étatiques aux attentats pentagonistes du 11 septembre et en passant évidemment par les tueries calculées de Toulouse et de Montauban, la société du spectacle de l’indistinction marchande ne cesse de s’éminemment montrer comme le monde de l’inversion universelle où le vrai est toujours réécrit comme un simple moment nécessaire de la célébration du faux. Derrière les figurants, les obscurs tirages de ficelles et les drapeaux factices, les vrais commanditaires sont adroitement camouflés puisqu’ils résident invariablement dans ces lieux impénétrables et énigmatiques, inaccessibles à tout regard, mais qui du même coup les désignent par cette ruse de la raison qui rend précisément percevable ce qui se voulait justement in-soupçonnable.

Le masquage généralisé se tient derrière le spectacle qui donne ainsi à infiniment contempler quelque chose en tant que complément décisif et stratégique de ce qu’il doit empêcher simultanément que l’on voit et, si l’on va au fond des choses, c’est bien là son opération la plus importante; obliger à sans cesse observer ceci pour surtout ne point laisser appréhender cela.

Par delà chaque tueur fou opportunément manipulé dans les eaux troubles du djihadisme téléguidé, existe, en premier lieu, l’incontournable réalité du gouvernement du spectacle de la marchandise lequel dorénavant possède tous les moyens techniques et tous les pouvoirs gestionnaires d’altérer et de contre-faire l’ensemble de la production sociale de toute la perception humaine mise sous contrôle. Despote absolu des écritures du passé et tyran sans limite de toutes les combinaisons qui arrangent le futur, Big Brother pose et impose seul et partout les jugements sommaires de l’absolutisme démocratique des nécessités du marché de l’inhumain.

On commet une très lourde erreur lorsque l’on s’exerce à vouloir expliquer quelque attentat en opposant la terreur à l’État puisqu’ils ne sont jamais en rivalité. Bien au contraire, la théorie critique vérifie avec aisance ce que toutes les rumeurs de la vie pratique avaient si facilement rapporté lors des très enténébrées disparitions de Robert Boulin et de Pierre Berégovoy. L’assassinat n’est pas étranger au monde policé des hommes cultivés de l’État de droit car cette technique de mise en scène y est parfaitement chez elle en tant qu’elle en est désormais l’articulation de l’un des plus grands quartiers d’affaires de la civilisation moderne.

Au moment arrivé de la tyrannie spectaculaire de la crise du capitalisme drogué, le crime règne en fait comme le paradigme le plus parfait de toutes les entreprises commerciales et industrielles dont l’État est le centre étant donné qu’il se confirme là finalement comme le sommet des bas-fonds et le grand argentier des trafics illégaux, des disparitions obscures et des protections cabalistiques.

Plus que jamais, il est temps d’en finir avec toutes les mystifications et tous les malheurs historiques de l’aliénation gouvernementaliste afin de commencer à pressentir la possibilité de situations humaines authentiques.

Des êtres humains sans étiquette.

Gustave Lefrançais

N.D.L.R. : Après les événements de Toulouse, le Système veut renforcer la surveillance d’Internet en pénalisant la consultation régulière de sites « terroristes ». Nul doute que bientôt consulter Europe Maxima sera un crime… La Résistance anti-sécuritaire commence !


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

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MÄNNERBUND

MÄNNERBUND

 

 

 

Domineert Qatar straks de gehele Arabische ruimte?

Domineert Qatar straks de gehele Arabische ruimte?

Ex: Nieuwsbrief Deltastichting Nr. 57 - Maart 2012
 
Het lijkt onwaarschijnlijk dat het kleine Arabische emiraat Qatar, gelegen aan de Perzische Golf, het schiereiland dat grenst aan Saoedi-Arabië, de ganse Arabische ruimte politiek zou kunnen domineren. En toch, toch zijn er bepaalde elementen die wijzen op het stijgende politieke belang van het kleine Qatar.
 
Qatar maakte, net als zovele andere Arabische gebieden, deel uit van het Ottomaanse Rijk. De Turkse overheersing kende een einde aan het begin van de Eerste Wereldoorlog, en Qatar werd een protectoraat van het Verenigd Koninkrijk, waarvan het onafhankelijk werd in 1971. Enige tijd was er sprake van dat het deel zou uitmaken van de emiraten, die momenteel de Verenigde Arabische Emiraten uitmaken, maar die vlieger ging uiteindelijk niet op.
 
Qua bevolking is het land in enkele decennia volledig gewijzigd. Door de vondst van aardolie kwam een sterke immigratie op gang. In 2005 bijvoorbeeld is de grote meerderheid van het land afkomstig uit andere landen, andere Arabische staten, maar ook uit landen als Indonesië, India, Pakistan, Iran, en zelfs het Verenigd Koninkrijk.  In 2003 werd een nieuwe grondwet ingevoerd, die de godsdienstvrijheid, de vrije meningsuiting en het recht op vergaderen en vereniging vastlegde, maar ook het verbod voor moslims om zich tot een andere godsdienst te bekeren. 20% van de bevolking van Qatar, die van, 47.000 in 1950 steeg tot 1,7 miljoen, zou nog autochtoon Qatari zijn.
 
Dat Qatar internationaal wel degelijk een rol speelt, kan men onder andere hiervan aflezen dat het wereldkampioenschap voetbal er in 2022 doorgang zal vinden.
 
Waar moet het belang van deze kleine oliestaat worden gezocht? En waarom zou het politiek zo’n belangrijke rol kunnen spelen? Natuurlijk speelt de olierijkdom een belangrijke rol. Maar ook met de vaststelling dat Qatar door de oprichting van het satellietkanaal Al Jazeera in 1996 zowat het belangrijkste informatienetwerk van de Arabische wereld is geworden.

In de verschillende vormen van Arabische revolte die in de afgelopen maanden aan ons televisiescherm voorbij trokken, speelden Facebook, Twitter en andere sociale netwerken een belangrijke rol, maar ook Al Jazeera, eigendom van de emir van Qatar, sjeik Hamad Bin Khalifa Al-Thani.  Maar Qatar is ook de verblijfplaats van sjeik Yoessoef al Qaradawi, de geestelijke leider van de Moslimbroeders, die na hun verkiezingsoverwinning in Egypte zowat de belangrijkste pionnen zijn geworden op het schaakbord van de Arabische sjeik Hamad Bin Khalifa Al-ThaniLente en van de Egyptische politiek. Ook al Qaradawi heeft heel wat aan Al Jazeera te danken en aan de media-aandacht die hij erdoor kreeg. Wekelijks was hij te zien en te horen in een uitzending “de sjaria en het leven”, waar hij vragen beantwoordde van toehoorders uit de ganse islamitische wereld.

Qatar is inderdaad zowat een veilige haven voor opinievluchtelingen van alle soort. De voormalige buitenlandminister van Saddam Hoessein bijvoorbeeld, Nadschi Sabri, vond er onderdak, maar ook Hamas-functionarissen, socialistische politici uit Zuid-Jemen, of moslimbroeders uit Egypte.  Er zijn geen politieke gevangenen in Qatar, er bestaat tolerantie en een bepaalde mate van vrijheid.

Maar er is meer. Op het moment dat de grote staten Egypte en Syrië in de maalstroom van volksopstanden terecht kwamen, was het het kleine Qatar dat als het ware een soort bemiddelaar en onderhandelaar werd van de Arabische Liga. Dit werd duidelijk in Libië, waar Qatar het enige Arabische land was dat actief de interventies van de NAVO ondersteunde. In het geval van Syrië werd de rol nog duidelijker.  Want welk Arabisch land zou durven optreden tegen de hevigste tegenstander tegen Israël, de hevigste en meest fundamentele verzetshaard? Toch is het opnieuw Qatar dat de leiding neemt. Vooral de minister van Buitenlandse Zaken, Hamad Bin Jassim Bin Jabr Al-Thani verkondigde al luid dat hij met Arabische troepen wil tussenkomen. Hij heeft het zover gekregen dat de Arabische Liga hierin meegaat. Gedeeltelijk toch.

De invloed van Qatar stijgt dus. Zo zou Qatar momenteel ook bij het bestuur van de radikaal-islamitische Palestijnse Hamas aan het onderhandelen zijn om haar leider Chaled Maschaal van Damascus naar Jordanië over te brengen, en begin januari ontving de Jordaanse koning Abdoellah II de leider van Hamas in zijn land. Er zou zelfs sprake zijn om de Hamas-leider naar Qatar over te brengen, waarmee Syrië zijn laatste medestander in de soennitische islam kwijtgespeeld is.

Chaled MaschaalNeen, daarmee houdt het niet op, want ook in het conflict in Aghanistan is Qatar actief. Eerste zichtbare resultaat hiervan: de radikaal-islamitische Taliban opende in januari een officiële vertegenwoordiging in het emiraat. Via dit kantoor zouden vredesgesprekken op gang komen. En in die vredesgesprekken zouden ook de VSA en de EU kunnen worden betrokken. Kaboel houdt de boot voorlopig af en heeft aangedrongen op bilaterale gesprekken …met Qatar.
 
Qatar heeft ook in het verleden al nieuwe paden betreden. Als enig land op het Arabisch schiereiland – waar in Saoedi-Arabië joden niet worden toegelaten – heeft Qatar een joodse handelsmissie op zijn grondgebied geopend. Sinds 2008 is er zelfs een ambassade, maar het begin van de Gaza-oorlog in 2009 drukte zelfs Qatar eventjes met de neus op de werkelijkheid: de ambassade werd gesloten.
 
Vermeldenswaard is tenslotte de vraag van Midden-Oosten-expert Guido Sternberg (geciteerd in het Duitse conservatieve tijdschrift Junge Freiheit) of het conflict met Syrië de vijandschap van Teheran tegen Qatar zal verscherpen.  “In het licht van de krachtverhoudingen tussen de beide landen is dit een zeer riskante politiek”, aldus de expert. Qatar geldt als het meest vrije islamitische land in het Midden-Oosten, maar het kan niemand ontgaan dat ook hier de islam staatsgodsdienst en de sjaria staatsrecht is. Het blijft afwachten welke dominante rol dit emiraat in de Arabische wereld, waar de kaarten politiek en geopolitiek volledig door elkaar worden geschud, zal spelen.
 
Peter Logghe
 

dimanche, 25 mars 2012

Terrorisme en France: Stigmates d’une opération psychologique

Terrorisme en France: Stigmates d’une opération psychologique des services de renseignement et d’actions fausses-bannières

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Le dénouement prévisible de l’affaire de Toulouse avec la mort du forcené retranché Merah fait poser une question immédiate suite aux déclarations multiples des autorités et du ministre de l’intérieur ces dernières heures disant “qu’ils voulaient Merah vivant pour l’amener devant la justice”… 

Néanmoins, ils décident de donner l’ordre de prendre l’appartement d’assaut, sachant depuis la veille au soir à 22h45 que le forcené refusera de se rendre. Pourquoi donc ne pas attendre ?.. Il n’y a pas de situation d’otages… Rien ne presse plus vraiment; Merah doit dormir à un moment ou un autre. Sauf suicide, il était quasi assuré de le cueillir plus tard.

Question: pourquoi ne pas avoir attendu ?… Ce qui amène une autre question: les autorités voulaient-elles Merah vraiment vivant ?.. Maintenant, il ne parlera plus… Avait-il des choses à dire ? On ne le sera jamais. C’est peut-être mieux pour certains…

Affaire classée, qui ne rendra malheureusement pas la vie aux victimes. (Resistance71)

Prison de Bagram

Mohamed Merah, le suspect dans les meurtres de sept personnes dont celles d’une école juive de Toulouse, France, correspond au profil d’un membre d’Al Qaïda manipulé par les services de renseignement. D’après la BBC, il était sur le radar des autorités françaises à cause de ses visites en Afghanistan et dans le “nid à militants” de la province du Waziristan au Pakistan. De manière plus spécifique, Merah était contrôlé par la DCRI française “depuis des années”, d’après les dires de Claude Guéant, ministre de l’intérieur français.

Merah, un citoyen français d’origine algérienne, a été arrêté le 19 Décembre 2007 et condamné à trois ans de prison pour avoir posé des bombes dans la province du sud Afghanistan de Kandahar. En Avril 2011, les Etats-Unis ont admis avoir opéré des prisons militaires secrètes en Afghanistan où des suspects de terrorisme étaient détenus et interrogés sans avoir été inculpés de quoi que ce soit.

Le tristement célèbre centre de détention de la base aérienne de Bagram est géré par le Joint Special Operation Command et le Defense Counterintelligence and Human Intelligence Center (DCHC). Celui-ci “est responsable de développer une capacité d’opérations offensives de contre-espionage pour le ministère de la défense, qui pourrait comprendre des efforts pour pénétrer, corrompre et mettre hors d’état de nuire, des activités du renseignement des forces étrangères, dirigées contre les Etats-Unis”, rapporta Secrecy News en 2008 après que le gouvernement ait annoncé la création du DCHC.

Le pentagone et la CIA se spécialisent dans la création de terroristes cela faisant partie d’une doctrine de soi-disant guerre masquée et non conventionnelle, datant de la fin de la seconde guerre mondiale (voir Michael McClintock’s Instruments of Statecraft: U.S. Guerilla Warfare, Counterinsurgency, and Counterterrorism, 1940-1990 pour plus de détails).

Bien que virtuellement ignoré par la presse de masse, c’est un fait établi que la CIA et les services de renseignement pakistanais ont créé ce qui est connu sous le nom d’Al Qaïda de ce qu’il restait des moudjahidines afghans après la fin de la guerre secrète à 3 milliards de dollars de la CIA contre l’URSS en Afghanistan.

Ce fut le soi-disant Safari Club, organisé sous le contrôle de la CIA et avec la participation des services de renseignement de la France, d’Egypte, d’Arabie Saoudite, du Maroc et d’Iran (alors sous le régime du Shah), qui ont poussés pour faire croire à une menace tirée par les cheveux du terrorisme international avant et durant la guerre fabriquée par la CIA en Afghanistan (voir Peter Dale Scott, Launching the U.S. Terror War: the CIA, 9/11, Afghanistan, and Central Asia).

Les agences de renseignement se sont spécialisées dans la création secrète et pas si secrète de terroristes qui sont ensuite utilisés pour donner une raison d’être (en français dans le texte) cynique au lancement d’interventions militaires dans le monde ainsi qu’à fournir un prétexte pour construire une état policier en perpétuel expansion. Un cas d’école de cette stratégie est le fiasco du terroriste au slip piégé de Noël 2009, qui fut par la suite exposé comme étant une action fausse bannière, faite pour pousser à l’acceptation des chambres de sécurité scanners dans les aéroports américains, scanners qui émettent de dangereuses radiations et permettent la prise de photo nue des passagers qui y sont soumis.

Le fait que Mohamed Merah fut détenu par le Joint Special Operations Command en Afghanistan ainsi que son évasion supposée de la prison de Sarposa orchestrée par les Talibans (également une créaton de la CIA et des services pakistanais de l’ISI), pose certaines questions sur les attaques ayant eu lieu en France, où une élection nationale doit bientôt avoir lieu.

Le Telegraph de Grande-Bretagne rapporte que les attaques menées par Merah, soi-disant connecté avec Al Qaïda, joueront en la faveur de la candidate du Front National Marine Lepen, qui n’a que très peu de chances de devenir un jour présidente de la France.

Cela a en outre donné un prétexte à Nicolas Sarkozy de mettre le sud de la France en alerte maximum et d’annuler les réunions des candidats à la présidentielle dans cette région. Sarkozy gagnera de ces attaques terroristes et joue le rôle d’un leader fort dans une crise nationale.

A court terme, il est plus que certain que cela bénéficiera au président Sarkozy. “Il a pris l’affaire en compte très vite. Il s’est hâté sur les lieux. Il a suspendu sa campagne électorale. Il a parlé en tant que président de la république”, écrit Gavin Hewett pour la BBC.

Article original en anglais : French Terror Attack: All the Hallmarks of an Intelligence Psy-op and False Flag

Traduction par Résistance 71

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Alors que le protectionnisme revient au cœur des discours politiques en France depuis l’entrée en campagne des candidats à la présidentielle, l’Organisation mondiale du commerce (OMC) s’est inquiétée, lors de sa dernière conférence interministérielle à la mi-décembre, de la montée des barrières douanières depuis le début de la crise financière en 2008.

Nos élites font du ski... (caricature anglaise, 2009)

Selon l’OMC, le nombre de mesures protectionnistes initiées en 2011 s’élève à 340, contre 220 en 2010.

De son côté, l’organisme suisse Global trade alert (GTA) – qui recense l’ensemble des mesures commerciales dans le monde – avertissait, dans un rapport publié en novembre 2011, que trois mesures protectionnistes sont prises pour une mesure libéralisante depuis juillet 2011, et que les tensions commerciales ont atteint leur plus haut niveau depuis le « pic » de 2009.

UNE PERTE POTENTIELLE DE 800 MILLIARDS DE DOLLARS

Il n’en fallait pas plus pour que le directeur général de l’OMC, Pascal Lamy, appelle les membres de l’organisation à « restaurer un climat de confiance », qui est selon lui « une partie de la solution à la crise actuelle ». Reprenant l’inusable métaphore de la tempête protectionniste, il prévenait que si d’« importantes mesures protectionnistes » étaient mises en place, elles pourraient coûter 800 milliards de dollars à l’économie mondiale.

Il s’agit pour l’OMC d’éviter une redite de la Grande Dépression des années 1930, qui avait vu le commerce mondial se contracter dangereusement sous l’effet des barrières douanières, jusqu’à dissoudre les liens économiques entre des pays repliés sur eux-mêmes. Or cette dissolution n’est pas étrangère à l’entrée en guerre de 1939.

D’où l’idée, en 1947, de négocier un accord international sur les tarifs douaniers et le commerce (General agreement on tariffs and trade, GATT), qui a abouti en 1995 à la création de l’OMC, dont le rôle est d’arbitrer les relations commerciales tout en limitant le protectionnisme. Mais la libéralisation des échanges est loin d’être un processus linéaire, et quand un pays se trouve en difficulté économique, les acquis sont la plupart du temps remis en cause.  

L’ARGENTINE, GRANDE CHAMPIONNE

Les pays émergents sont, de loin, les plus friands de dispositifs protectionnistes. L’Argentine se taille la part du lion, avec 192 mesures, selon GTA. Si celles-ci ont fleuri après la crise qu’a traversé le pays en 2002, elles se font plus nombreuses encore depuis le début de la crise financière de 2008.

Dans le viseur de la présidente, Cristina Kirchner : le contrôle des importations. Sa dernière victime ? Le Royaume-Uni, qui a vu, à l’occasion du 30e anniversaire du conflit des Malouines, en février, ses exportations limitées.

Critiquées par les autres pays du Mercosur (Paraguay, Brésil et Uruguay) – qui représentent 25% des exportations et 31% des importations argentines -, ces mesures s’inscrivent pourtant dans un mouvement initié fin 2011 par l’alliance sud-américaine elle-même, qui a décidé en décembre d’augmenter temporairement ses taxes d’importation pour les produits provenant de l’extérieur du bloc. De son côté, le Brésil – qui compte 81 mesures protectionnistes – a augmenté sa taxation sur les véhicules importés, surtout ceux qui viennent de pays extérieurs au Mercosur.

Au nom de l’intérêt national, les autres pays émergents cherchent également à se protéger : la Russie (172 mesures recensées) se concentre elle aussi sur son industrie automobile, puisqu’un tiers des véhicules devront être équipés d’un moteur ou d’une transmission fabriqués localement jusqu’en 2020.

La Chine (95 mesures recensées) annonçait quant à elle en décembre la mise en place, pour deux ans, de nouvelles taxes douanières sur certains véhicules américains. D’ailleurs, l’OMC dénonçait en décembre la prolifération des aides « régionales » en faveur de l’automobile, qui atteignent désormais 48 milliards de dollars en cumulé, soit 37 milliards d’euros.

L’Inde (101 mesures recensées) n’est pas en reste puisque, sous la pression populaire, elle a pour le moment renoncé à ouvrir le secteur de la distribution. Début mars, elle a décrété un embargo sur ses exportations de coton, avant de revenir sur sa décision en raison de l’envolée des cours.

DE LA NÉGOCIATION AU CHANTAGE

Si le protectionnisme reprend de la vigueur avec la crise, les différends commerciaux ont de leur côté diminué… depuis 2008, et ce, contrairement aux précédentes périodes de ralentissement économique. Pascal Lamy indiquait fin février que le nombre d’enquêtes sur les cas de dumping s’est établi à 153 en 2011, contre 213 en 2008.

Tout un symbole, après plus de vingt ans, la « guerre des hormones » entre les Etats-Unis et l’Union européenne vient de prendre fin. Une autre s’apprête toutefois à prendre le relais autour des « terres rares », métaux précieux sur lesquels la Chine a le quasi-monopole, puisqu’elle possède un tiers des réserves accessibles, et plus de 95% du marché. Les États-Unis, l’Union européenne et le Japon ont d’ores et déjà porté plainte auprès de l’OMC.

Moins nombreux donc, les contentieux n’en sont pas moins durs, et ils frôlent parfois le chantage, comme quand la Chine décide de conditionner son aide à l’Union européenne à l’abandon de deux enquêtes anti-dumping et anti-subventions lancées par cette dernière. Ou prend d’importantes mesures de rétorsion en gelant la commande de 45 Airbus en riposte à la taxe carbone, mise en place par l’Union européenne – et ce, même si celle-ci est bien conforme aux règles édictées par l’OMC.

LES ÉMERGENTS EN LIGNE DE MIRE

Pour autant, malgré la pression nouvelle que les pays émergents mettent sur les pays développés, « le problème du protectionnisme n’est pas uniquement lié à ces pays. C’est particulièrement vrai dans le cas de l’Europe, puisque l’essentiel des échanges commerciaux des pays membres se font au sein de l’Union européenne », explique Mathieu Plane, économiste à l’OFCE.

« Avec la division internationale du travail, nous ne produisons pratiquement plus dans les secteurs à faible valeur ajoutée, comme le textile, qui demande beaucoup de main-d’œuvre à bas coûts. Nous n’avons donc pas intérêt à prendre des mesures protectionnistes contre la Chine dans le secteur textile, puisque tout ce qu’on y gagnerait, c’est l’augmentation des prix des produits importés que nous n’avons pas intérêt à produire », argumente-t-il.

Avant de relativiser la menace du géant asiatique. « La Chine ne représente que 8% des importations françaises. De fait, les principaux concurrents et partenaires de la France, ce sont les autres pays de l’UE, qui représentent environ 60% de nos échanges commerciaux – Allemagne en tête, avec 17%. »

C’est pourquoi, pour M. Plane, « plutôt que d’envisager des barrières douanières aux frontières de l’UE » – comme propose de le faire notamment Nicolas Sarkozy avec un « Buy European Act » calqué sur le modèle américain -, « il serait préférable d’éviter les comportements non-coopératifs existant au sein de l’UE, comme la mise en place de la TVA sociale en France ou la compression des coûts salariaux en Allemagne, mesures qui ont pour objectif de gagner des parts de marché au détriment de ses voisins européens ».

Le Monde

Les États-Unis sont-ils la nouvelle Arabie Saoudite ?

Les USA vont rétablir leur économie et finances grâce à l'or noir US qu'ils ont décidé d'exploiter. Ainsi l'Arabie Saoudite perdra de son importance géostratégique et pourra, à son tour, subir les affres de la déstabilisation pour le remodelage régional.

Assis sur un tas d’or (noir) : Les États-Unis sont-ils la nouvelle Arabie Saoudite ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Pas plus tard que fin 2013, les Etats-Unis pourraient être devenus le plus important producteur mondial d'énergie, estiment les économistes de Citi. 

 
Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles.

Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles. Crédit Reuters

Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles, s'accordent à dire les observateurs. Le seul point sur lequel ils divergent est la question du "quand". 2017 pour Goldman Sachs, fin 2013 pour Citi. La réalité est probablement quelque part entre les deux.

En tout cas, même les plus raisonnables s'accordent sur ce point : dans les huit années à venir, grâce à des progrès technologiques considérables, la production de pétrole et gaz naturel va exploser en Amérique du Nord. Aux Etats-Unis plus particulièrement, mais aussi au Canada et au Mexique. A tel point que Citi en vient à appeler la région "le nouveau Moyen-Orient".

Les principaux gisements nord-américains.

Dans le même temps, l'Arabie Saoudite et de la Russie, qui sont actuellement les deux plus gros producteurs mondiaux, vont voir leur production se tasser, à mesure que se rapproche l'épuisement de leurs réserves, comme l'indique le graphique ci-dessous, présenté par Citi.

Ci-dessus, les perspectives de croissance des principaux producteurs énergétiques évaluées par Citi.

Cette petite révolution pour le marché mondial de l'énergie, qui pourrait bien faire enfin baisser le prix du pétrole, devrait aussi profondément bouleverser la physionomie de l'économie américaine. "Pour le mieux", assure Citi.

Dans le "meilleur des cas", estiment les analystes du groupe, le PIB américain devrait augmenter de 2 à 3,3% - c'est à dire de 370 à 624 milliards de dollars. A l'horizon 2020, le boom de l'énergie devrait avoir contribué à la création de 3,6 millions d'emplois, 600 000 directement dans le secteur de l'extraction du gaz naturel et du pétrole et 1,1 million dans l'industrie. C'est 1,1% de chômeurs en moins, note Citi. L'export d'énergies fossiles devrait permettre au pays de réduire de 80 à 90% son déficit commercial, à 0,6% du PIB en 2020 contre 3% aujourd'hui. De ce simple fait, la valeur du dollar pourrait augmenter de 1,6 à 5,4 %.

"Si notre analyse est bonne", écrivent les analystes de Citi, "alors dans à peine huit ans, l'état de l'économie américaine pourrait être à l'exact opposé de ce qu'elle est aujourd'hui". Cela pourrait même bénéficier à l'économie mondiale dans son ensemble. En effet, la domination américaine dans la production énergétique pourrait provoquer, à elle seule, la baisse de 14% du prix du pétrole. Le cours de l'or noir pourrait également baisser de 2,5% supplémentaires grâce à la réduction de la consommation d'énergie.

L'augmentation régulière des prix du baril de pétrole au cours de la dernière décennie et la dépendance accrue de l'économie occidentale face aux ressources des pays du Moyen-Orient semblent avoir malgré tout profité aux Etats-Unis. La recherche américaine s'est concentrée de manière agressive sur l'amélioration des méthodes de détection et de forage des nappes de pétrole, en réservant leur application à l'Amérique du Nord. L'administration américaine n'a jamais été dupe sur le potentiel énergétique du pays, et l'exploitation relativement limitée de ses ressources en énergies fossiles ressemble aujourd'hui, et de plus en plus, à une sage gestion. L'utilisation des nouvelles techniques de prospection au Texas, notamment, démontrent actuellement toute leur finesse.

Selon le New York Times, les cinq dernières années ont permis de perfectionner considérablement le forage horizontal et la fracturation hydraulique, utilisés depuis des décennies par l'industrie pétrolière. Et ils sont désormais assistés d'instruments électroniques et informatiques de pointe, capable de simuler la structure et le potentiel des puits avant même leur excavation. La fibre optique joue un rôle majeur dans le travail des ingénieurs, qui peuvent déterminer, grâce à elle, l'orientation des couronnes, des tricônes et autres trilames, ainsi que de déterminer où, quand, et avec quelle pression injecter l'eau de forage. Les instruments de mesure sismique utilisés durant le travail de creusage permettent de déterminer la fragilité et la porosité des sous-sols, afin de ne pas endommager les puits en cours d'exploitation, et d'éviter de provoquer des failles et des infiltrations dans les autres nappes attenantes. Fini les puits noyés sous le sable, les roches l'eau. Le forage par étapes permet de consolider les puits et de creuser avec plus de précision, pour une exploitation plus durable et, paradoxalement, plus rapide.

Les roches dures du Bassin Permien du Texas de l'ouest, actuellement creusées par Apache Corporation, étaient jugées trop résistantes pour les lames diamantées des outils de forage il y a encore quelques années. Leur viabilité économique était même remise en question. Aujourd'hui, les 40 000 hectares du champ de pétrole de Deadwood, encore presque inexploités en 2010, font figure de mine d'or, grâce aux nouveaux adhésifs et alliages, qui renforcent l'efficacité du diamant des outils. Les moteurs souterrains, plus puissants, peuvent ainsi permettre un creusage plus rapide. Un puits creusé en 30 jours peut à présent être foré en moins de 10 jours, avec des économie de 500 000 dollars. Le vice-président d'Apache, en charge de l'exploitation du bassin Permien, ne se cache pas des opportunités offertes par ces nouveaux procédés. "En épargnant cet argent, explique-t-il, nous pouvons passer plus de temps sur le forage et améliorer notre productivité."

Le champ de Deadwood, symbole de ces innovations et des nouvelles méthodes d'exploitation pétrolière à l'Américaine, a permis à Apache de creuser 213 puits et de produire 9 000 barils par jour. Avec 13 derricks en action, la société espère forer plus de 1 000 puits sur le secteur, et atteindre un chiffre de 20 000 barils par jour. Au minimum.

 

NOTA BENE :

Je vous avais déjà posté en mars/avril 2011, tout juste un an, les affirmations de Lindsay Williams qui avait prédit le "printemps arabe", fondées sur des informations divulguées par des sources éminemment placées dans l'industrie pétrolière. Au vu de l'information d'aujourd'hui sur Atlantico, il semble que ces informations s'avèreraient exactes. Je vous relivre, en cette date anniversaire, ce document PDF.

Lindsey Williams avait prédit les Révolutions Arabes en 1980.pdf

samedi, 24 mars 2012

NOTRE EPOQUE, UN CUL DE SAC CIVILISATIONNEL

NOTRE EPOQUE, UN CUL DE SAC CIVILISATIONNEL

Par Jure Georges Vujic

http://www.juregeorgesvujic.com/

 Et si nous vivions dans un cul de sac civilisationnel ? la question quelque peu prémonitoire pourrait très bien être posée par Arthur Koestler qui déjà dans « les Somnanbules » avait détecté les impasses d’une rationalité  technoscientiste qui continue de jouer á l’apprenti sorcier au mépris de toutes règles morales et éthiques. Le cul de sac est prosaiquement apparenté á une voie sans issue, une impasse dans laquelle on ne peut ni avancer ni reculer. Oui, notre civilisation technicienne, matérialiste et americanocentrée prend l’allure d’un cul de sac généralisé, une impasse á la fois sociale, existentielle, culturelle, et spirituelle. Le degré d’autonomisation et les dommages collatéraux d’une technoscience livrée á elle-même, d’une société oú règne l’anomie généralisée , d’une économie financialiste et virtuelle déconnéctée de la réalité sociale et du monde du travail, d’une politique lilliputienne et poltrone inféodée aux intérêts de l’oligarchie financière, d’une culture mielleuse  et narcissique révèlent ce manque de point d’ancrage structurant et articulant, cet absence de pivot téléologique vertèbrant, qui permet l’envol et la projection dans le monde d’une civilisation qui n’est qu’après tout qu’une vision du monde singulière. Et ce cul de sac est précisément une impasse sur la possibilité d’une « présence au monde » spécifique, car il devient de plus en plus difficile de pratiquer l’ »être-lá « Heideggerien, confiné dans  l’espace cathodique d’un cul de sac qui n’offre aucune ouverture. Si comme les 68-huitards l’aiment á dire que « la société de jadis était bloquée », alors l’on pourrait surenchérir et dire que la société contemporaine elle est enkystée par excès de (non) sens. Mais plutôt que de parler de voie sans issue qui peut être ouvre l’unique possibilité nihiliste de rentrer dans le mur, notre civilisation ressemble plus á un cul de sac sous forme de gyroscope, ce curieux appareil qui tourne sur lui-même, un axe qui regarde sa propre rotation, un axe qui n’a aucune vertu axiologique si ce n’est lui-même.  Ce cul de cas gyroscopal  reproduit ad vitam aeternam un conformisme de pensée et de mouvement qui paralyse toute potentialité de synthèse-dépassement, de sublimation voir de transcendance. Plus cette machine civilisationnelle gyroscopale croit matériellement et techniquement, plus son degré de spiritualité décroit. Le cul de sac mental est cet impossibilité de penser « l’inédit » car l’impensable est déjà pensé et contenu dans l’hyper-évènementiel alors que l’innommable se dissout dans l’inflation de signes. En effet, cette mégamachine ne peut se reproduire et perdurer, comme toute structure totalitaire, sans la complicité  passive et le conformisme de ses composantes. Le poète polonais Czeslaw Milozc parlait avec raison dans son livre «  la pensée captive », du règne de l’ »homme gyroscopal » cet individu générique issu d’un cocktail de mimétisme généralisé, le prototype d’un personnage qui s’accommode de toutes les régimes politiques, le type même d’opportuniste qui retourne sa veste á  bon escient. Nombreuses sont les figures littéraires et philosophiques de ce type d’individu interchangeable très en vogue dans les démocraties parlementaires contemporaines: du Ketman de Czeslaw Milozs, l’homme caméléon, « le dernier homme » Nietzchéen, de l’équilibriste social sociologue David Riesman, de l’homme du mensonge de Scott Peck jusqu’à la figure humouristique du Zelig de Woody Allen et l’opportuniste de Dutronc. Et ce n’est pas par hasard  que L’effet gyroscopique est également observable dans un powerball et dans  le jeu de yo-yos. Car comment  ne pas comparer les successives politiques néolibérales et monétaristes visant á  assainir la crise financière au jeu sournois d’un  yo-yo, qui pour guérir les maux de la dérégulation et de la libéralisation du marché, préconisent les mêmes  remèdes empoisonnées monétaristes du Consensus de Washington., de rigueur budgétaire, de hausse des impôts,  et de l’illusion déflationniste, qui servent les grandes fortunes. Tout le monde fait semblant de ne pas savoir alors que tout le monde sait très bien qu’il s’agit du bis repetita cynique d’un mensonge bien rôdé. Personne n’est dupe mais tout le monde consent á la duperie.  Il n’est point nécessaire que le yoyo néolibéral ne résoudra rien et qu’il finira par revenir toujours á la case de départ. Et si la globalisation était l’axe même de ce gyroscope sociétal ?, qui par le levier de l’uniformisation et du consumérisme du marché  n’en finit pas de démultiplier les culs de sac culturels, mentales, linguistiques et ethniques, ou l’histoire, les traditions, « l’excellence », la valeur et les différences sont réductibles á la forme capital et á la consommation ostentatoire. En effet que l’on parte du point A en Alaska ou a New Delhi jusqu’á l’extrême du point C en Australie en passant par le point B á Paris ou Moscou, on finit toujours par retrouver au bout de ce cul sac occidentiste une seule et même boite á conserve de Coca cola, dans laquelle il ne nous reste plus qu’á shooter.  Quoi de plus déprimant et claustrophobe que de demeurer dans une société ou tout est jetable, recyclable et monnayable. Notre cul de sac est indéniablement cette impossibilité de se dépayser, de s’isoler dans le silence dans ce que Jean Raspail aimait á nommer ces « isolats », les quelques ilots  de liberté et de résistance qui nous restent . Et peut être de dire en toute liberté « mort aux vaches » et « merde aux cons », tout en sachant qu’il s’agit encore lá d’un  façon quelque peu  misérable de réenchanter le monde…

Géopolitique de la France

 
Géopolitique de la France
Géopolitique de la France
Pascal Gauchon
Puf

2012
 
Auteur, il y a quelques années, d'un remarquable Modèle français devenu aujourd'hui un classique, Pascal Gauchon - qui enseigne l'économie en classe préparatoire et a déjà publié un Dictionnaire de géopolitique et de géoéconomie lance une nouvelle collection consacrée à la géopolitique dont le premier volume a pour sujet la France et il a tenu à traiter lui-même d'un domaine qui n'a rien d'évident, nombre d'observateurs et de commentateurs ayant admis une fois pour toutes que la France, intégrée à l'Europe et plongée dans la mondialisation, n'avait plus vocation à demeurer une puissance autonome, ce qui constitue une condition nécessaire pour constituer un sujet géopolitique. Le sous-titre de l'ouvrage - Plaidoyer pour la puissance - peut donc faire figure de provocation mais la solidité de la documentation utilisée et la qualité d'un argumentaire fondé sur une réflexion originale et sur un regard qui va bien au delà des limites généralement fixées à la seule analyse économique permettent à l'auteur d'affirmer son propos et de délivrer un message qui, sans tomber dans les excès et les simplifications d'un manifeste n'en ouvre pas moins des perspectives plus optimistes que celles attribuées à la « France qui tombe » décrite par certains. L'historien revient tout d'abord sur la construction de l'espace national, sur la genèse d'un hexagone dont Fernand Braudel a montré dans son Identité de la France qu'il s'inscrit dans les paysages et dans les conditions qui furent celles de l'installation humaine dans la très longue durée. Celle qui explique les quinze milliards de tombes chères à Pierre Chaunu et, sur un mode plus littéraire à Maurice Barrès attaché « à la terre et aux morts ». Mais la « doulce France » s'est également construite à partir du travail de ses habitants et des transformations qu'ils ont imposées à une nature certes généreuse mais qu'il a cependant fallu maîtriser. Le survol de l'Histoire pointe justement les moments où la France des rois, de la Grande Nation révolutionnaire ou de Napoléon est apparue en mesure de dominer l'Europe, et les séquences marquées par la défaite ou le déclin, enrayés à plusieurs reprises par des sursauts venus de loin et combinant la vitalité réveillée d'u peuple rebelle et l'imaginaire d'un destin collectif porté un temps par la foi chrétienne, avant que le messianisme révolutionnaire et les valeurs de la liberté n'ouvrent sur des temps nouveaux sur le point aujourd'hui d'être révolus. Le poids de l'Etat, l'attachement au modèle politique et social laborieusement défini au cours des deux derniers siècles, la crise identitaire née de l'ouverture sur l'Europe et le monde et de la renaissance des régions font l'objet d'analyses claires et pertinentes qui fournissent une riche matière à réflexion, particulièrement bien venue dans les temps d'incertitude que nous connaissons aujourd'hui. La tradition centralisatrice, la crise de l'Etat-nation et celle de l'aménagement du territoire, la faillite des « élites » attachées avant tout à leur reproduction contrastent avec la richesse des atouts disponibles. Pascal Gauchon recense ainsi tous les aspects de la puissance française, des performances agricoles à l'autonomie nucléaire, des incontestables succès industriels aux réussites des entreprises de services, sans dissimuler les difficultés nées d'une mondialisation qui s'opère souvent au détriment de pans entiers de l'activité nationale. Il confronte les faiblesses françaises sur le terrain de la compétitivité aux atouts qui font l'attractivité incontestable d'un territoire doté depuis longtemps d'excellentes infrastructures. Il conclut son « plaidoyer pour la puissance » en dénonçant les « géopolitiques du nirvana » oublieuses du réel et des rapports de forces, fondées sur la seule idéologie et la seule bien-pensance, des références dont ne peuvent que se gausser les autres puissances. Mais, sur ce terrain, la France n'est pas plus mal lotie que l'Europe et certains acteurs ont encore la volonté de lui conserver un rang de « moyenne grande puissance », résultante de la combinaison de ce qui lui reste de hard power avec les capacités d'influence que lui procure le tout nouveau soft power. Familier du temps long des historiens, Pascal Gauchon parie sur le retour du réel, qui peut être aussi le retour du tragique dans un monde aveuglé par les illusions de la mondialisation, heureuse : « Laissons faire le temps, qui ramènera au monde réel du rapport des forces et du conflit. Si la France ne va pas à ses ennemis, ses ennemis viendront à elle. Alors les conditions d'une autre géopolitique que celle du nirvana seront posées... ».

vendredi, 23 mars 2012

La svolta di De Ambris per la guerra del 1914 è la chiave per comprendere quella di Mussolini

La svolta di De Ambris per la guerra del 1914 è la chiave per comprendere quella di Mussolini

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Pigra è la storiografia italiana, malata di retorica e paralizzata dal conformismo; pigra e intollerabilmente cortigiana è, da sempre, la cultura italiana, nata all’ombra delle signorie del Rinascimento e che non ha mai smentito, neppure oggi, all’ombra dei poteri forti economici e finanziari, l’antico vizio della piaggeria e della servile adulazione.

 


Si continua a dire ed a ripetere che la svolta di Mussolini, direttore dell’«Avanti!», nell’ottobre del 1914, dal neutralismo all’interventismo, svolta che gli costò la direzione del giornale e l’espulsione dal Partito Socialista Italiano, fu un inqualificabile esempio di opportunismo, di camaleontismo, di doppiogiochismo; che nacque da spregevoli motivazioni di ambizione personale e che venne poi sostenuta, passato egli alla direzione del suo nuovo giornale «Il popolo d’Italia», da inconfessabili finanziamenti da parte di oscure forze interessate a trascinare l’Italia in guerra e di potenze straniere aventi il medesimo obiettivo.

Non solo: si continua a dire ed a ripetere che quella svolta, venendo da un uomo che, ancora nel 1911-12, in occasione della guerra di Libia, si era schierato per il più intransigente militarismo, e che ancora durante la Settimana rossa del 1914, in qualità di consigliere comunale a Milano, si era pronunciato per la rivoluzione e contro lo Stato borghese, era la dimostrazione della sua doppiezza, del suo cinismo, del suo disprezzo assoluto per gli ideali che aveva fino ad allora professato; con essa, finalmente, egli aveva gettato la maschera, mostrando il suo vero volto di traditore, di spergiuro, di aspirante dittatore e nemico del popolo.

Quante falsità, quante sciocchezze, quanta ipocrisia.

Tutte quelle cose sono state dette e ripetute da scrittori, giornalisti, professori e anche dalla maggioranza dei signori storici di professione, non per altra ragione che per un abietto conformismo verso il Pensiero Unico dominante dopo la cosiddetta Liberazione: debitamente progressista, “democratico” e antifascista; un Pensiero Unico che pretende di dividere il Bene e il Male, nella storia, con un taglio netto, ponendo, guarda caso, gli sconfitti della guerra civile del 1943-45 dalla parte del secondo ed i vincitori, guarda caso, dalla parte del primo: questi ultimi tutti onesti, intemerati, idealisti, laddove i loro avversari erano spregevoli mercenari di Hitler, senza dignità, senza onore, senza patria.

La verità è che, nei mesi cruciali fra il luglio del 1914 e il maggio del 1915, Mussolini non fu affatto il solo a compiere quella svolta; la compirono molti, moltissimi altri esponenti della sinistra democratica, molti socialisti, molti sindacalisti rivoluzionari, perfino un certo numero di anarchici; così come l’avevano compiuta, prima di loro - e anche questo viene passato sotto silenzio, o non viene ricordato a sufficienza - la grande maggioranza dei loro “compagni” francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi (ovviamente sui rispettivi fronti contrapposti degli Imperi Centrali e della Triplice Intesa).

Mussolini non fu affatto l’eccezione, la pecora nera, il traditore dell’ultima ora; le sue esitazioni, i suoi dubbi tormentosi, la sua sofferta decisione di abbandonare il neutralismo per l’interventismo furono, invece, il risultato di un percorso che fu condiviso da una schiera di uomini di specchiata fede socialista, o sindacalista-rivoluzionaria, o anarchica; uomini che non amavano la monarchia dei Savoia, che non amavano lo Stato liberale, che non amavano l’esercito, il militarismo, il colonialismo; che erano sempre stati dalla parte degli ultimi, dei contadini, degli operai, dei disoccupati; che si erano battuti da leoni sulle barricate durante gli scioperi e le sommosse, che avevano fatto la galera e il confino, che erano fuggiti all’estero, quando la reazione poliziesca infuriava contro le Camere del lavoro e contro le Leghe operaie; uomini dei quali tutto si può dire o pensare, tranne che fossero dei venduti, degli opportunisti o dei voltagabbana.

L’elenco sarebbe così lungo che potrebbe riempire pagine e pagine; ma chi ha una conoscenza anche superficiale della storia del movimento sindacale italiano, sa bene che le cose stanno così; e dunque gli storici di professione, che lo sanno per forza, allorché si ostinano a presentare il “caso” Mussolini come l’eccezione che conferma la regola (del neutralismo socialista), mentono sapendo di mentite: spudoratamente, senza ombra di vergogna.

Prendiamo il caso dell’esponente forse più famoso e certo, allora, il più popolare, del sindacalismo rivoluzionario - insieme a Filippo Corridoni, come lui divento interventista e andato volontario, fra i primissimi, a morire nelle trincee del Carso -: quello di Alceste De Ambris.

Prestigioso segretario della Camera del lavoro di Savona nel 1903; di quella della Lunigiana nel 1907; espatriato a Lugano nel 1908, dopo che cavalleria e carabinieri ebbero preso d‘assalto la roccaforte “rossa” dell’Oltretorrente parmigiano; poi esule in Brasile per due anni; di nuovo a Lugano, per battersi contro la guerra di Libia, era stato nel 1912 tra i fondatori dell’Unione Sindacale Italiana, nata dalla scissione con la componente socialista riformista; e solo nel 1913 aveva potuto rientrare in Italia, portato in trionfo dai lavoratori di Parma, essendo stato eletto deputato nelle liste del Partito Socialista: questo era l’uomo, limpido e trasparente nella sua fede rivoluzionaria, senza orpelli e senza maschere.

Ebbene, De Ambris fin dall’agosto del 1914 maturò la convinzione che la parola d’ordine dei neutralisti fosse ormai sterile e sorpassata dagli avvenimenti; ben prima di Mussolini, dunque, che attese l’ottobre, ebbe il coraggio di dire a voce alta, in articoli e pubbliche manifestazioni, quel che altri vecchi dirigente socialisti e sindacali sentivano e pensavano, ma non osavano: a costo di rendersi impopolare, a costo di essere accusato di voltafaccia, a costo di attirarsi l’ira e il disprezzo di quei lavoratori che lo avevamo osannato e che di lui si erano sempre fidati, per istinto, sentendolo sinceramente dalla loro parte, con assoluta chiarezza e coerenza.

Il suo ragionamento può apparire lineare o no, può essere condiviso o no, ma non nasceva da alcun torbido e inconfessabile tornaconto privato. Egli partiva dalla pura e semplice constatazione che l’Internazionale aveva clamorosamente fallito: che non solo non aveva saputo impedire la guerra mediante uno sciopero generale, ma che ogni partito socialista aveva sposato in pieno la causa della “guerra patriottica” sostenuta dalle rispettive borghesie nazionali. Inoltre, dopo l’invasione del Belgio e della Francia settentrionale da pare delle armate tedesche, alla metà di agosto del 1914 si andava delineando una rapida e schiacciante vittoria degli Imperi Centrali: non c’era ancora stata la battaglia della Marna e, giudicando la situazione da sinistra, la sconfitta della Triplice Intesa non poteva non apparire come un disastro per la causa della rivoluzione sociale, mentre la sua vittoria sarebbe stata vista come il male minore.

Ora, compiendo un errore di sopravvalutazione del “peso” militare che l’Italia allora possedeva (un errore, peraltro, condiviso dagli Alleati, che corteggiarono fino alla stipulazione del Patto di Londra questo futuro «alleato di prima classe», come lo definì un uomo politico inglese), De Ambris pensava che, intervenendo al fianco dell’Intesa, essa avrebbe potuto spostare i rapporti di forza a favore di quest’ultima e scongiurare, così, la temuta vittoria delle Potenze Centrali.

Questo, come obiettivo immediato di un intervento italiano nella guerra mondiale; come obiettivo a medio termine, invece, egli pensava che tale intervento avrebbe rimesso in movimento le forze sociali antiborghesi e avrebbe preparato il terreno a uno sviluppo della situazione in senso rivoluzionario, secondo la vecchia formula internazionalista di trasformare la guerra imperialista della borghesia in una guerra rivoluzionaria del proletariato per la propria emancipazione.

Il 18 agosto De Ambris avrebbe dovuto parlare ad un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana sul tema del sindacalismo rivoluzionario di fronte alla guerra; pienamente consapevole della gravità di quanto si accingeva a fare, e cioè ad abbattere la formula “sacra” dell’opposizione alla guerra imperialista, dirà poi di aver trascorso una vigilia travagliata, ma di aver sentito il dovere di dire quello che tutti gli altri ormai pensavano, compreso suo fratello Amilcare.

Così, dunque, si espresse Alceste De Ambris nel suo discorso, poi pubblicato in un articolo intitolato «I sindacalisti e la guerra», apparso su «L’Internazionale» del 22 Agosto 1914 (cit. in: Renzo de Felice, «Mussolini il rivoluzionario», Torino, Einaudi, 1965, 1995, pp. 235-36):

«Compagni, io non vi ripeterò… le ragioni di principio che ci rendono irriducibilmente contrari ad ogni guerra fra le nazioni…Ma se possiamo e dobbiamo insistere su questa base essenziale del sindacalismo, non è detto però che si possa e si debba di conseguenza chiudere gli occhi davanti alla realtà, contentandoci di una negazione dogmaticamente assoluta… Io credo del resto che il fatto prodigioso al quale abbiamo la sventura o la sfortuna  di assister avrà tali conseguenze da costringere tutti i partiti e tutte le filosofie ad una revisione, spezzando ogni abitudine mentale  a qualunque principio s’ispiri; come ha fatto - e forse in misura anche più larga - la rivoluzione francese dell’ottantanove… I fatti si sono incaricati di far giustizia di tutte queste illusioni e di tutti questi sofismi. Oggi la guerra è una tremenda realtà. Il pacifismo borghese e l’internazionalismo socialista hanno fatto contemporaneamente bancarotta… È tempo di finirla cl comodo sistema di addossare tutte le responsabilità dei fatti storici ai gruppi dirigenti. Il popolo ha pure la sua parte di responsabilità, almeno fino a che non abbia fatto sentire il suo dissenso in maniera evidente e vigorosa. Anche il tacere - di fronte a certi delitti - significa complicità… La vittoria ella Germania e dell’Austria ci porterebbe forse a ripetere le triste parole di Herzen il quale, dopo le giornate del giugno 1848, affermava che l’Europa occidentale era ormai morta e che per il rinnovamento e la continuazione della storia non restavano più che due  sorgenti: l’America da un lato e la barbarie orientale dall’altra… Se dovessero prevalere il kaiserismo e il pangermanismo degli imperi centrali, non vi sarebbe alcuna forza atta a controbilanciarli… La vittoria antitedesca, al contrario, ci lascia sperare una serie di benefizi di carattere economico, politico e morale che permetterebbero un rigoglioso sviluppo di tutte le forze di progresso dell’umanità…; forse la rivoluzione dei popoli tedeschi liberati… il socialismo sollevato dall’ossessione pan germanica e divenuto veramente internazionale; il sindacalismo autonomista e libertario al posto del centralismo autoritario… Certo, essa non è ancora la NOSTRA rivoluzione; ma è forse necessaria, per liberare il mondo dai detriti ingombranti del sopravvissuto medioevo. Ad ogni modo, poiché non è più nelle nostre forze di evitarla, bisogna prepararci a fare coraggiosamente il nostro dovere in suo confronto… Il fatto che l’Italia… si trova oggi fuori del conflitto, non deve bastare per indurci ad un’indifferenza ignava. Siamo e saremo sempre contro ogni calcolo di egoismo nazionale, dovremo perciò insorgere e negare il nostro sangue per qualsiasi mira di conquista territoriale o di allargamento del prestigio statale, poiché tutto ciò è per lo meno estraneo asl nostro interesse... Ma non è egualmente estraneo al nostro interessere il permettere che trionfi o sia soffocato un principio di libertà necessario alla preparazione del nostro avvenire… Se domani la grande lotta richiedesse il nostro intervento per impedire il trionfo della reazione feudale militarista, pan germanica, potremo noi rifiutarlo? O pure non sentiremo risuonare nei nostri cuori, come furiosi colpi di campane a martello l’epica invocazione lanciata da Blanqui nel 1870, quando i tedeschi valicarono le frontiere di Francia?... Compagni! Io pongo la domanda: Che faremo qualora la civiltà occidentale fosse minacciata d’esser soffocata dall’imperialismo tedesco e solo il nostro intervento potesse salvarla? A voi la risposta!»

Questo discorso ebbe un clamore fortissimo e suscitò un vero e proprio terremoto. Per un momento sembrò che tutti si sarebbero scagliati contro l’oratore; poi, invece, inattesa, ma decisiva, giunse l’approvazione di Filippo Corridoni, che in quel momento si trovava in carcere e che, dal carcere, aveva maturato la stessa evoluzione di pensiero vissuta da De Ambris.

Il tabù era stato infranto, il dado era tratto: il 3 novembre, a Parma, nel cuore del sindacalismo rosso, Alceste De Ambris presentò commosso alla folla un comizio di Cesare Battisti, che perorava, da socialista, la causa della liberazione della sua Trento (e di Trieste) dal dominio austriaco.

Fu un errore, un miraggio, una illusione? Può darsi: ma furono in molti a crederci, in quei giorni, all’estrema sinistra; Mussolini non fu il solo, e le sue ragioni non furono spregevoli, né meschine.


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jeudi, 22 mars 2012

DÍA DE SAN PATRICIO. IRLANDA, DE LA PAZ AL CONFLICTO MIGRATORIO.

DÍA DE SAN PATRICIO. IRLANDA,  DE LA PAZ AL CONFLICTO MIGRATORIO.

 
 
Enrique RAVELLO

Ex: http://enricravello.blogspot.com/

Hoy 17 de marzo los irlandeses celebran el día de su identidad.  Es el día de San Patricio, el monje que cristianizó la Isla Esmeralda. En San Patricio se une lo celta con lo cristiano, una simbiosis que dio nacimiento a esa peculiar y ancestral religiosidad que caracteriza a los irlandeses.  Esa simbiosis que dio lugar a la edad de oro de la cultura irlandesa en la transición de la Antigüedad a la Edad Media. Nacido en Escocia pero patrón de Irlanda, San Patricio simboliza también la profunda relación entre los pueblos celtas de las islas británicas, apuntemos que Escocia (Scot-land) debe su nombre a los escotos una tribu proveniente de Irlanda.  
La celebración anual de esta festividad por parte de los irlandeses de todo el mundo confirma la permanencia de la identidad como una referencia de identificación de los pueblos frente al universalismo despersonalizador.  Mañana correrán ríos de cerveza negra por todos los centros irlandeses de Europa, América y Oceanía, ríos que se convertirán en mares si Irlanda gana a Inglaterra en el partido de rugby que le enfrenta en el mítico estadio londinense de Twickenham . Hay que señalar que Irlanda e Irlanda del Norte juegan bajo una sola selección, la de la camiseta verde y el trébol de cuatro hojas.
Este año Irlanda recordará a San Patricio en paz, hace años que dejaron de oírse el ruido de las balas y de las bombas. El largo conflicto que terminó con dos finales diferidos. El primero en 1921 con la firma del Tratado anglo-irlandés y el reconocimiento del Estado Libre de Irlanda al año siguiente, que ponen fin a siglos de injusta colonización británica de la isla; dicho Tratado deja fuera del Estado irlandés  a 6 condados del norte de la isla, habitados por una mayoría protestante que quisieron permanecer bajo la Corona británica. El segundo en 1998 cuando se pone fin al conflicto que en esos 6 condados de Irlanda del Norte había enfrentado a la minoría católica partidaria de unirse a la República de Irlanda, con la mayoría protestante escocesa leal al Reino Unido. En otro artículo abordaremos el proceso de paz y la situación actual de Irlanda del Norte, pero con sus difíciles equilibrios y sus heridas aún sin cicatrizar, irlandeses y escoceses conviven y gobiernan conjuntamente en el norte de la Isla Esmeralda.
Hoy es otro el problema que afecta a todos los irlandeses (del norte y del sur), a su identidad europea y a su futuro: la inmigración masiva. Inmigración que se inició a finales de los años 70, recordamos cuando visitamos por primera vez la Isla Esmeralda, en 1984, cuando en España no habíamos oído hablar de la inmigración, la presencia de paquistaníes empezaba a ser intensa.
En la década del 2000 la República de Irlanda experimentó un “boom” económico, asistimos al “despertar del tigre celta”, y con él la llegada masiva de inmigrantes, fue entonces cuando la población extranjera llegó hasta el 12%. Si bien con la crisis que afectó de lleno a la economía irlandesa, los inmigrantes de origen polaco y lituano están volviendo a sus países de origen, no ocurre lo mismo con los inmigrantes de origen extraeuropeo que pretenden instalarse permanentemente en Irlanda, causando los mismos problemas que en el resto de países de Europa occidental.
La situación en Irlanda del Norte es aún más conflictiva. Con el cese de las armas y le llegada de la Paz, Irlanda del Norte se convirtió en el destino de muchos inmigrantes que buscaban vivir de los subsidios gubernamentales.  En su mayoría eran gitanos rumanos. Sus continuos actos de pillaje, robos y amenazas, no fueron recibidos precisamente con “tolerancia” por las comunidades católicas y protestante norirlandeses, acostumbradas a defender su territorio y su identidad de forma contundente.  Especialmente los trabajadores protestantes reaccionaron con determinación ante los atropellos de los gitanos rumanos, de tal modo que una gran parte de éstos se vieron obligados a abandonar Belfast,  ciudad en la que se habían concentrado. En 2006 se contabilizaron unos 900 incidentes entre norirlandeses y gitanos, en los que los norirlandeses fueron la parte vencedora.
Confiamos en que esa Irlanda, católica y protestante, celta y anglosajona, nacionalista y unionista, indomable y orgullosa de su pasado, siga celebrando su San Patricio por muchos años siendo lo que siempre ha sido: una tierra europea.
 
Enric Ravello
Secretario Relaciones Nacionales e Internacionales de Plataforma per Catalunya.
 

mercredi, 21 mars 2012

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

 

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre - Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

Jean Bonnevey
Ex: http://www.metamag.fr/
 
Les apprentis sorciers de l’exportation démocratique dans le monde arabo-musulman par la subversion technologique ou la guerre sont en train de récolter les fruits de leur irresponsabilité libyenne. Comme annoncé, ici et ailleurs, par tous les esprits critiques non sclérosés par un sectarisme idéologique, la Libye, sans Kadhafi, se dirige vers tout, sauf vers la démocratie.
 
Elle se dirige vers une nouvelle guerre civile, alors même que les islamistes les plus durs prêtent main forte à leurs compagnons de route syriens, sous les yeux attendris d'Alain Juppé. Bengazi. La capitale cyrénaïque s'est doté d'un conseil autonome, étape vers l’indépendance souhaitée. A Tripoli, le CNT menace donc d'utiliser la force pour empêcher l'Est du pays de se soustraire à son influence. L'Est du pays veut profiter de son pétrole et se débarrasser de cet Ouest et ce Sud coûteux et suspects au regard des premiers révolutionnaires.
 

La Cyrénaïque a proclamé son autonomie
 
Promise par Alain Juppé et d’autres à un avenir stable, fondé sur des bases démocratiques, la Libye post-Kadhafi va de fait de mal en pis. Jusque-là, c'est en grande partie la situation sécuritaire qui était la plus préoccupante. C’était la loi des milices et des tribus dans le chaos.
 
 
Le Conseil national de transition, qui fait déjà face à une situation plus que délicate, se voit confronté aux aspirations séparatistes, ou officiellement autonomistes, des chefs de tribus et de milices de l'Est libyen à Benghazi, d'où est partie la révolte. Les «autonomistes» revendiquent un système fédéral. Dans un communiqué conjoint, ils avaient fait état de l'élection d'Ahmed Zoubaïr el-Senoussi à la tête de la Cyrénaïque.
 
La Cyrénaïque autonome : une forte odeur de pétrole
 
La région s’estime marginalisée durant les 42 années de règne du colonel. Des milliers de personnes ont assisté à la cérémonie, au cours de laquelle a également été nommé un Conseil chargé de gérer les affaires de cette région, qui fut longtemps indépendant de la Tripolitaine. Ce Conseil reconnaît toutefois le Conseil national de transition, qualifié de «symbole de l'unité du pays et représentant légitime aux sommets internationaux».
 
A cette prétention d’éloignement, le président du Conseil national de transition, Moustapha Abdeljalil, a répondu «Nous ne sommes pas préparés à une division de la Libye», dans des propos diffusés par la télévision, appelant ses frères de cette région baptisée «Cyrénaïque» au dialogue. Il les a ainsi mis en garde contre les «restes» de l’ancien pouvoir, en précisant qu'ils devraient savoir que des «infiltrés» et des restes du régime déchu tentaient de les utiliser. «Nous sommes prêts à les en dissuader, même par la force», a averti Abdeljalil.
 
Soutien officialisé des Islamistes libyens au rebelles syriens
 
Ce n’est pas tout. Les Islamistes, bien présents comme l’avait dit le défunt colonel, sont actifs déjà en dehors des frontières. L'ambassadeur russe à l'ONU a accusé le gouvernement libyen d'abriter un camp d'entraînement pour des rebelles syriens qui ont mené des actions contre le régime de Damas.
 
"Nous avons reçu des informations selon lesquelles il existe en Libye, avec le plein soutien des autorités, un centre d'entraînement spécial pour des rebelles syriens; ces personnes sont ensuite envoyées en Syrie pour attaquer le gouvernement en place", a lancé Vitali Tchourkine, lors d'une réunion du Conseil de sécurité dédiée à la Libye, en présence du Premier ministre par intérim, Abdel Rahim al-Kib. "Cette situation est totalement inacceptable sur le plan légal et de telles activités sapent la stabilité au Moyen-Orient", a renchéri l'ambassadeur, provoquant la fureur du responsable libyen.
 
Le diplomate a, par ailleurs, souligné que son pays était certain que l'organisation extrémiste, Al-Qaïda, est présente en Syrie. D'où cette question à présent: est-ce que l'exportation de la rébellion démocratique libyenne va se transformer en une exportation du terrorisme dans le moyen orient? Question accessoire, BLH et Juppé sont-ils toujours aussi contents d’eux ?

Céline, profeta de la decadencia

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Céline, profeta de la decadencia

GISELLE DEXTER Y ROBERTO BARDINI

Ex: http://www.elmanifiesto.com/


"Rencorosos, dóciles, violados, robados, con las tripas fuera y siempre jodidos. (...) Hemos nacidos fieles y así morimos". El autor de esta frase es un médico, físico y viajero francés a quien nadie conoce por su verdadero apellido: Destouches.

En cambio, los ambientes literarios y culturales de todo el mundo reconocen su talento magistral como escritor bajo el nombre que eligió para entrar –sin saberlo, entonces– por la puerta grande de la literatura: Louis Ferdinand Céline (1884-1961). La frase citada pertenece, precisamente, a la obra que lo consagró internacionalmente: Viaje al fin de la noche.

Céline sucumbió, junto con un grupo de jóvenes y talentosos intelectuales franceses, a lo que Benito Mussolini llamó "la tentación fascista", en el período que va de la primera a la segunda guerra mundiales. Este "pecado", con variantes, también se dio en Bélgica, Holanda, Noruega, Finlandia, Croacia, Polonia y Hungría. Ninguno de estos países, sin embargo, contó con una congregación de autores tan brillante, trágica y malograda como la de Francia. Entre sus principales exponentes figuran, entre otros, Pierre Drieu la Rochelle y Robert Brasillach. A todos ellos se les aplicó, según los casos, la ley del "encierro, destierro o entierro"; todos ellos recibieron el despectivo apodo de colabos, es decir "colaboracionistas" con el enemigo.

Una intelectual italiana antifascista y feminista, María Antonietta Machiochi, define a Céline como "el más genial de los escritores nazifascistas". A muchos historiadores, literatos y críticos les resulta muy difícil digerir esta doble realidad que incluye el reconocimiento a su genialidad como escritor y su identidad "políticamente incorrecta". Y, por si fuera poco, hay que agregar una faceta más: su rabioso antijudaísmo.

"Uno de los gigantes de nuestra época"

Lo cierto es que no existe polémica acerca de su talento; casi todos los prólogos a sus obras incluyen, junto con el repudio a su elección ideológica, las alabanzas al estilo literario: "escritura hablada", "anárquica expresividad", "grafía desquiciada". Entre las etiquetas también hay que incluir "absoluto cinismo", "pesimismo radical", "nihilismo deslumbrante". Sus admiradores políticos, incluso, lo llaman "el profeta de la decadencia europea"... Y se podría continuar.

Uno de sus adversarios, Jean Paul Sartre, quien antes de convertirse en filósofo existencialista había sido simpatizante comunista, escribe en 1946: "Tal vez Céline sea el único que permanezca de todos nosotros". Etienne Lalou, novelista, cronista de L’Express y productor de radio y televisión, dice: "Céline ha restituido al francés hablado sus títulos de nobleza y, sin él, una parte de la literatura moderna no sería lo que es". Lalou, un creador alejado de cualquier cosa vinculada a Hitler y Mussolini, lo llama "uno de los gigantes de nuestra época".

Céline es voluntario en la Primera Guerra Mundial, de la que regresa con el 75 por ciento de su cuerpo mutilado. Al terminar el conflicto, comienza a estudiar medicina. Egresa en 1924, con una tesis sobre el médico húngaro Felipe Ignacio Semmelweis (1818-1865), a quien un colega contemporáneo definió como "un poeta de la bondad". Esa tesis se convertirá en 1937 en Semmelweis, una bella biografía sobre el investigador que luchó contra la fiebre puerperal hasta el último día de su vida. En la nota preliminar de este libro, el novelista español Juan García Hortelano (1928-1992) escribe:

"La agresividad, componente indispensable de la obra maestra, alcanza en Céline al universo entero y verdadero. En el caos, el asesinato, la injusticia, el terror y la debilidad juegan la partida; el que pueda envidar, gana; sólo perderán los débiles, para quienes la opción se limita a la fuga o la muerte. Céline, en absoluto partidario del suicidio, es el primer escapista que, refractario a la mentira, no huye. Tampoco se apiada (...).Destruye el mundo, minuciosamente (...), con el arma que supo manejar. Céline es un lenguaje nuevo. Del francés hablado, mal hablado, destiló un sistema de ruptura de la lengua, en el que reside toda su gloria".

Novela "irreductible y salvaje"

Céline se alista en la marina. De 1924 a 1928 integra misiones de la Sociedad de Naciones en África y Estados Unidos; por su cuenta, visita la Unión Soviética. Al regreso a Francia, trabaja en una clínica estatal en Clichy, un suburbio al norte de París, donde prácticamente sólo atiende a pobres. En 1940, se presenta nuevamente al ejército como voluntario pero es rechazado por las secuelas de sus heridas anteriores.

Su obra incluye los siguientes títulos: Viaje al fin de la noche (1932), Muerte a crédito (1936), Mea Culpa (publicado luego de su regreso de la Unión Soviética, 1936), Bagatelles pour un massacre (1937), L´école des cadavres (1938), Les Beaux Draps (1941), Guignol´s Band (1943), Casse Pipe (1949), Feerie pour une autre fois (1952), De un castillo a otro (1957), Norte (1960) y Rigodon, publicada después de su muerte.

Con Viaje al fin de la noche gana el premio Renaudout. Ferdinand Bardamu, el protagonista de la novela, es un héroe desilusionado y castigado que vive experiencias extremas, siempre al borde del abismo: herido en la Primera Guerra mundial, enamorado de una prostituta sin futuro, víctima de un trabajo embrutecedor en las colonias francesas en África, perseguidor del "sueño americano" –que no se parece al del publicitado mito– y de nuevo en Francia como médico rural de campesinos miserables.

Las reflexiones de Viaje al fin de la noche sobre la condición humana son amargas. Robert Saladrigas escribe en "Céline, el recluso de Dinamarca" (La Vanguardia, Cataluña, 24 de julio de 2002): "Novela única, irreductible, salvaje; un sólido monumento literario contra el que nada han podido el tiempo, los tifones de la historia ni la aberrante ideología de quien la escribió con un talento que desborda cualquier esquema en el que se pretenda encajarla. Es difícil no pensar en una poderosísima creación de la naturaleza que resulta literalmente abrumadora". En Viaje al fin de la noche se lee:

"Los hombres se aferran a sus cochinos recuerdos, a todas sus desgracias, y no se les puede sacar de ahí. Con eso ocupan el alma. Se vengan de la injusticia de su presente revolviendo en su interior la mierda del porvenir. Justos y cobardes que son todos, en el fondo. Es su naturaleza. (...) Os lo digo, infelices, jodidos de la vida, vencidos, desollados, siempre empapados de sudor; os lo advierto: cuando los grandes de este mundo empiezan a amarlos es porque van a convertirlos en carne de cañón".

Un destino trágico

Después de la caída del régimen de Vichy, la vida de Céline será una sucesión de sufrimientos que parecen copiados de sus propias novelas. Y parece confirmarse que la vida imita al arte hasta en sus aspectos más desgarradores.

Radio Londres, portavoz de la Resistencia Francesa, ofrece una recompensa por su captura, vivo o muerto. En 1944, Céline se retira de Francia junto con las tropas alemanas. Hace una escala en Alemania, donde paradójicamente sus libros están prohibidos. De ahí, busca refugio en la neutral Dinamarca. El Consejo Nacional de los Escritores, vinculado con la Resistencia, divulga una "lista negra" con doce autores colaboracionistas; él, desde luego, es uno de ellos. Entre los escritores denunciantes se encuentran muchos envidiosos del talento del "profeta de la decadencia", que no pueden tolerar el éxito de Viaje al fin de la noche.

En septiembre de 1945, un juez le dicta orden de arresto por "traición a la patria". Poco después, una denuncia anónima informa a la embajada francesa en Copenhague que el fugitivo se encuentra en esa ciudad. El 17 de diciembre de 1945, Céline es encarcelado. El novelista permanecerá en una celda de la severa prisión de Vestre Faengsel durante 16 agónicos meses. Entre otros vejámenes, sus carceleros lo mantienen sin calefacción en pleno invierno danés. Hay que tomar en cuenta que había quedado mutilado después de la Primera Guerra; además, estaba enfermo y se le agravaron sus dolencias hasta límites insoportables: enteritis, pelagra y reumatismo. Céline sale en libertad el 24 de junio de 1947, sin cargos, con 40 kilos menos.

El juicio al escritor "maldito" se lleva a cabo el 21 de febrero de 1950, en París, en ausencia de acusado y de un abogado defensor; lo condenan a un año de prisión, pena inferior a la cumplida con carácter preventivo en Dinamarca. Puede regresar a Francia recién el primero de julio de 1951. A seis años de terminada la guerra, toda su obra ha sido destruida.

Se establece con su mujer y decenas de gatos y perros en Meudon, cerca de París. En 1953 abre un consultorio médico para atender a personas sin recursos. Se hace imprimir tarjetas de presentación en las que se lee: "Louis Ferdinand Céline - Ave del paraíso". Recibe siete u ocho cartas diarias con insultos y amenazas; y otras tantas llenas de admiración y elogios. Unas y otras lo tienen sin cuidado. Escribe: "Anarquista soy, he sido, sigo siendo. ¡Y me traen sin cuidado las opiniones!"

Poco a poco, Céline recupera el prestigio literario que, a pesar de todo, le pertenece. Pero el sistema se lo devuelve a regañadientes, haciendo constar siempre que había sido –y continuaba siendo– un "maldito". En 1953, la editorial Gallimard edita nuevamente sus libros. De la larga lista de sus obras, cuatro continúan prohibidas a casi medio siglo de haber sido escritas: Bagatelles pour un massacre, L´école des cadavres, Les Beaux Draps y Mea Culpa. Y esto en Francia, país que se reconoce a sí mismo como cuna del liberalismo, precursor de la moderna democracia, practicante del lema Igualdad, fraternidad, solidaridad.

El marginado vuelve a escribir. Relata sus experiencias durante el exilio en De un castillo a otro (1957), Norte (1960) y Rigodon, publicada póstumamente. En 2002 se divulgan sus Cartas de la cárcel. Son casi 200 mensajes originalmente escritos en el áspero papel de baño carcelario, recopilados por su biógrafo François Gibault. "Sufro mi destino. No sé de qué crímenes soy culpable. Pero esta incertidumbre puede durar –me temo– años", dice Céline en una de sus cartas. Y en otra: "Es duro tener un mundo entero de odio contra uno".

En el prefacio, Gibault, refiriéndose a los panfletos antisemitas de Céline, explica que éste "sabía lo que había escrito antes de la guerra y por qué lo había escrito". Pero cuando se descubrió el genocidio judío "aquellos panfletos adquirían un cariz trágico que nadie había descubierto ni denunciado en el momento de su publicación, mientras que él mismo aparecía como un asesino". Sus escritos, elaborados para evitar la guerra, "pero con las exageraciones sin las cuales Céline no habría sido el que era y que aparecían a la luz de los acontecimientos como incitaciones a la matanza, servían de pretexto, pese haber sido escritos antes del genocidio, para una partida de caza en la que el objetivo era él".

Carlos Manzano, traductor de Cartas de la cárcel –y de la mayoría los libros de Céline en español– respalda las afirmaciones de François Gibault: "Él sentía desprecio por los alemanes, nunca fue colaborador de los nazis. Siempre lo negó y nunca se pudo demostrar nada; después, cuando volvió a Francia, se encerró y nunca quiso hablar con la prensa ni con nadie".

En mayo de 2002, el primer manuscrito de Viaje al fondo de la noche fue subastado en París por casi un millón 800 mil dólares. Las 876 páginas del original –llenas de tachaduras y correcciones– quedaron en Francia ya que la Biblioteca Nacional interpuso su derecho prioritario para que el texto no salga del país. Para los especialistas, el hallazgo del texto tiene un valor inestimable, ya que permite comprender los mecanismos mediante los cuales se construyó una de las obras más importantes y sombrías del siglo XX. Durante más de 40 años, el original fue motivo de las más increíbles versiones: se decía que fue perdido, recuperado y quemado por Céline; también que estaba oculto en Argentina, en manos de nazis refugiados.

La suma que se pagó por el histórico escrito de Céline superó el monto en que fue subastado, en 1988 por la casa Sotheby’s, el manuscrito de El proceso, de Franz Kafka: un millón y medio de dólares. El texto del primer tomo de En busca del tiempo perdido, de Marcel Proust, otro clásico, fue rematado en 2001 por Christie’s en poco más de un millón de dólares.

Dejemos algunas reflexiones finales por cuenta de Andreu Navarra Ordoño, autor de "Céline: el hombre enfadado" (revista Babab Nº 11, Madrid, enero de 2002), quien define a Viaje al fondo de la noche como "una de las más feroces sátiras contra la civilización occidental". El escritor español se pregunta: "¿Es injustificado desentenderse del mundo cuando éste se ha convertido en una estafa universal, en algo así como una trampa a gran escala? ¿Cómo no hubiera podido enfadarse ante semejante espectáculo? ¿Niega Céline alguna vez las acusaciones de que fue objeto? En absoluto. Sí nos ofrece sus reflexiones, nunca alegaciones".

Céline falleció en Meudon en 1961, a los 77 años. En algún momento de su vida, escribió: "En este mundo vil, nada es gratuito. Todo se expía: el bien, como el mal, se paga tarde o temprano. El bien mucho más caro, lógicamente".

© Giselle Dexter y Roberto Bardini

I miti che generano depressione

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I miti che generano depressione

di Claudio Risé

Fonte: Claudio Risè [scheda fonte]

Un europeo su dieci è depresso. Le donne il doppio degli uomini, e i giovani più degli adulti. Lo rivela l’ultimo sondaggio importante svolto in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania, che conferma i dati precedenti. Sappiamo così che non aumenta. Ma cosa succede quando si entra in depressione, e perché accade?
Alcuni aspetti diventano sempre più evidenti: ad esempio i tratti “sociali” della depressione, i suoi legami col lavoro, la famiglia, e il modello di sviluppo attuale.
I depressi vengono messi in difficoltà dal carattere “performativo” del nostro modello sociale che richiede in continuazione di “funzionare” bene nei diversi campi, dal lavoro alla sessualità.
Ridurre la persona a produttore (di denaro, successo, piacere), suscita in molti l’ansia di “misurare” direttamente quanto siano adeguati alle richieste degli altri e del collettivo. A questo punto, se non si è sostenuti da una forte autostima, e da molta concretezza e umiltà, è facile deprimersi.
Il modello della “persona di successo” è, infatti, per definizione, ideale e irraggiungibile, come dimostrano le stesse biografie delle star, che rivelano in continuazione improvvisi squarci di infelicità, disordine, o vere e proprie malattie.
La bellezza, l’essere attraenti, è una dote di partenza, non è completamente costruibile con la chirurgia o altri artifici: dà più sicurezza apprezzarsi per come si è che inseguire una perfezione inesistente.
L’altro grande Idolo del nostro modello culturale poi, il potere, richiede a sua volta (per solito) grandi durezze e sacrifici per ottenerlo, (magari sul piano della coerenza, gusti, o moralità personali), e prima o poi va necessariamente lasciato, o comunque viene tolto.
Adeguarsi a queste richieste collettive: performance elevate, bellezza, potere, suscita dunque di per sé prima ansia, e poi depressione. Si diventa come bambini piccoli e esageratamente prepotenti, che su una giostra vogliano raggiungere il cavallo di legno che c’è davanti invece di godersi il loro giro. E quando il giro è finito piangono.
Da questo punto di vista la depressione, se attraversata con consapevolezza, può invece essere un importante passaggio formativo e una straordinaria scuola di vita, come ha ricordato nei suoi lavori (tra cui l’ultimo: Elogio della depressione) Eugenio Borgna, che ha introdotto in Italia la psichiatria fenomenologica.
Certamente non è facile, come del resto buona parte delle esperienze formative dell’esistenza.
Il rifiutare questo “lato difficile” della formazione personale, e il cercare di aggirarlo con tecniche, o con vere e proprie menzogne, come la “vendita del successo” in cui consiste molta pseudo educazione contemporanea, non fa altro che produrre nuove depressioni e altri disagi. Tra questi, è piuttosto interessante l’attuale svalutazione mediatica e culturale dell’importanza nella vita delle persone di un rapporto di coppia stabile.
Del consumismo complessivo e della relativa esaltazione dell’individuo, col suo fascino e potere, fa parte infatti la celebrazione della fine della famiglia-coppia stabile, sostituita da famiglie aperte e variabili, inframmezzate da lunghi periodi di stato “single”. Peccato però che proprio le persone che vivono da sole, single, divorziati, separati o vedovi siano nel gruppo di testa dei depressi (in Europa e nel mondo).
Lo stabile e profondo rapporto d’amore con l’altro, così come la ricca e complessa socialità della famiglia, col suo dialogo tra generazioni e società circostante, sostiene infatti, oggi e da sempre, la formazione e sviluppo della persona. E quindi il suo benessere.


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