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mercredi, 04 janvier 2012

L’eroe Baltasar Gracian

L’eroe Baltasar Gracian

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Baltasar-Gracian.jpgIl vecchio storico inglese Thomas Carlyle insegnò con inclinazione romantica che l’eroismo ha molte facce, che quasi ogni aspetto della vita può essere interpretato come un momento in cui si può dispiegare una speciale attitudine verso l’ascesi di perfezione. Eroe è il Dio pagano che assomma su di sé tutte le qualità della stirpe, ma eroico può essere allo stesso modo lo spirito sacerdotale, ed eroi possono essere il profeta, il poeta, lo scrittore, il sovrano.

Il singolarissimo teologo spagnolo Baltasar Gracián, vissuto nel Seicento, a tutto questo aveva aggiunto l’eroismo come qualità dell’individuo differenziato che, grazie ad una poderosa fiducia in se stesso, duramente conquistata, perviene al successo nel mondo e al trionfo della sua volontà su quelle altrui. Si eccelle tra gli uomini attraverso l’uso accorto e disciplinato di doti sottili costantemente affinate. Qualcosa di più e di meglio di un moralista alla Montaigne. Un divulgatore di sapienza e di strategie di vita vissuta, tutte tese alla gloria trionfale nel mondo e all’affermazione sui tipi “inferiori” e indifferenziati. Gracián, ammirato e citato da Schopenhauer e da Nietzsche, che lo considerarono quasi un loro maestro e antesignano, scrisse diversi libri di gran successo, diremmo dei veri e propri “manuali del Superuomo”.

Era un gesuita, e dal gesuitismo imparò tutte quelle nozioni di affilata capacità di introspezione e di acuta conoscenza dei tempi e dei modi, che fecero di quell’ordine il tempio della dissimulazione e infine anche della sua degenerazione curiale, l’ipocrisia farisaica. In Gracián, tuttavia, si nota l’assoluta assenza di riferimenti ai dogmi cristiani: per questo, tenuto in sospetto dalla Compagnia di Gesù, fu prima ammonito, poi allontanato nel 1657 dalla cattedra e infine messo in condizione di non nuocere relegandolo presso un convento sperduto, con la tassativa proibizione di scrivere. Lo si accusava di aver intrapreso una precettistica del tutto profana sul saper vivere e, soprattutto, sul saper predominare sulle cose e sul mondo degli uomini, insomma di essere un laicissimo teorico di ciò che oggi chiameremmo una volontà di potenza in piena regola.

La recente pubblicazione de L’eroe (Bompiani), uno dei testi più celebri del trattatista aragonese, è l’occasione per verificare come il pensiero europeo si sia sempre misurato con queste categorie dell’essere e del mostrarsi, del fare e dell’avere ragione della realtà, in maniera che, dai sofisti e dagli stoici fino a Machiavelli, ai moralisti francesi o a Nietzsche e all’esistenzialismo, problema non da poco è sempre stato quello di avere a che fare col dispiegarsi dell’essere tra le penombre dell’apparire e del sembrare. Gracián insegnava la dissimulazione in quanto categoria dell’essere superiore e dell’innalzarsi al di là di se stessi, in un procedimento di continuo esercizio alla protezione dei propri fini. «Impedisca a tutti l’uomo colto di sondare il fondo della sua fonte, se da tutti vuole essere venerato… la metà è più del tutto, perché una metà ostentata e l’altra promessa, son più di un tutto dichiarato».

La velatezza dell’essere, in questo caso, non sarà un volgare atteggiamento di subdolo mascheramento volto all’inganno, ma, molto più sottilmente e nobilmente, lo strumento di una cerca dell’eccellenza, da ottenersi con il freno dei modi, la perfezione in ogni manifestazione di sé e un dosato ombreggiare i propri disegni. Qualcosa di propriamente “politico”, insomma: «Dissimulare una volontà sarà sovranità». In queste proposizioni sembra riecheggiare, in qualche modo, la dialettica heideggeriana circa il velamento della verità, secondo la struttura stessa della parola greca antica, che proponeva non a caso l’alfa privativo: a-lethéia, proprio nel senso che verità è essenzialmente un togliere veli per gradi. La dialettica sottile dell’apparire e del velarsi, lungi dall’essere solo un gioco femmineo di ritrosie seduttive, è in realtà, secondo la logica dell’etica tradizionale, il segreto della gloria. E la gloria, considerata dagli antichi l’unica e insieme la massima via all’eternità, è ugualmente per Gracián il premio al lavoro terreno dell’uomo di valore superiore.

In anni recenti è stato Emanuele Severino – il cui pensiero sappiamo essere sulla scia heideggeriana – a precisare i contorni del significato della gloria dal punto di vista esistenziale e tradizionale: «L’indefinita manifestazione dell’eterno, in cui la Gloria consiste e che indefinitamente si arricchisce, è il senso autentico della nostra destinazione per l’eternità». La gloria ha dunque a che fare col destino. E il destino ha a che fare con la fortuna e la fortuna con l’audacia, persino con l’azzardo. A patto che prima, dentro di sé, il temerario che si senta chiamato sulla via della gloria abbia percepito la concordanza della sua anima, tesa all’impossibile, con gli arcani segreti del fato. Difatti, in un passo de L’eroe si dice per l’appunto che la fortuna è «gran figlia della suprema provvidenza» e che «è regola da maestri compiuti nella politica discrezione notare la propria fortuna e quella dei propri sostenitori». Non diversamente la pensarono, a ben vedere, e magari senza aver letto un riga di Gracián, personaggi come Napoleone, che diceva di preferire generali fortunati a generali ben preparati, oppure come Hitler, che confessò più volte di aver giocato d’azzardo tutta la vita, sicuro di avere dalla sua parte la “provvidenza”. La fanatica fiducia in se stessi, quale suprema attitudine al comando in grado di piegare anche gli eventi sfavorevoli a proprio vantaggio, veniva da Gracián ricordata come dote dell’uomo di tempra superiore. E faceva l’esempio di Cesare, che al marinaio stanco e sfiduciato rivolse l’ammonimento: «Non dubitare, che offendi la fortuna di Cesare». Il dubbio interiore come ingiuria al destino. Quanto di meno cristiano e di più pagano si possa immaginare. Comprendiamo benissimo il motivo per cui lo scrittore venne messo al bando nella Spagna cattolicissima del gran secolo.

Tutto questo ha i contorni del tragico. Poiché in Gracián è ben vivo il senso di una lotta che l’eroe deve intraprendere prima di tutto su se stesso. Il controllo su ciò che appare e sulle occasioni che gli si presentano deve essere il frutto di un drammatico auto-controllo: questa volontà auto-imposta deve essere la sua signoria. Tanto che, se necessario, anche quando dentro l’uomo differenziato tutto lo sospingesse a dir di sì, la sua potenza e il suo comando interiore lo condurranno a un vittorioso dir di no. Questo si inserisce alla perfezione in quel dominio metafisico in cui si attua il contatto fra trascendenza e vita terrena. È ciò che gli antichi greci chiamavano kairòs, l’attimo fuggente, e i romantici tedeschi indicavano come der grosse Zufall, il grande caso fortunato. Saper cogliere il manifestarsi del momento in cui il destino si palesa per cenni: la levigata sensibilità, quasi un istinto lungamente esercitato, saprà all’istante percepire questa epifania subitanea. Un evidenziarsi del sacro che indica il momento dell’agire. Poiché kairòs è suprema saggezza, è intima consonanza con gli interni voleri del fato, ma è anche sentimento di giustizia. Tradizionalmente, ciò che appare nel mondo, nell’immutabilità di ciò che è vero da sempre, oppure nell’improvviso irrompere dell’inatteso attraverso l’attimo, è anche ciò che è giusto: giusto è ciò che sa sopraggiungere al momento opportuno.

Una filosofia del rischio? Piuttosto, un’acuta capacità di percezione delle armonie e delle disarmonie del mondo. Nella sua introduzione a L’eroe, Antonio Allegra precisa che le sollecitazioni di Gracián verso l’affermazione di sé hanno il carattere di una libera alleanza col destino: «Occorre, in ogni caso, agire all’interno dello spazio della fortuna e del mondo: tutto sta nel potere ancora affermare un margine di libertà rispetto alla situazione integralmente mondana che si presenta, che va acutamente interpretata e colta nelle sue nascoste potenzialità». L’individuo differenziato, l’essere superiore costruito su un’elaborata e fanatica fiducia, si esprime attraverso la decrittazione dei segni lasciati cadere dal fato provvidenziale. Si tratta in fondo di un gioco: vince chi sa elaborare al massimo grado la dialettica tra il vivere all’occasione e l’essere uomo integro in grado di interpretare correttamente i segnali. L’individuo potenziato da questa superiore autocoscienza non è scelto dal caso, ma è lui stesso che sceglie l’attimo. Risolutezza e fulminea capacità di ricorrere alla decisione sono i sintomi dello spirito dominatore: «La prontezza fa da oracolo nei dubbi maggiori, sfinge negli enigmi, filo d’oro nei labirinti, e suole aver l’indole del leone, che riserva il massimo sforzo per quando ne ha più bisogno», scrive Gracián. Un manuale di politica: la golpe e il lione di Machiavelli, più un tocco di quel pessimismo barocco e manieristico che piacque tanto a Schopenhauer e che cercava di interpretare la complessità del mondo moderno allora già in agguato: L’eroe venne pubblicato nel 1637, l’anno di uscita del Discorso sul metodo di Cartesio. Ma anche una filosofia dell’intuito. Una vera mistica terrena dell’azione e del primato. In questo senso, la maschera che, secondo, Gracián, l’uomo superiore deve indossare per assicurarsi il dominio sul mondo non è un trucco plebeo, ma il necessario stigma della diversità: l’eroe gioca le sue maestrìe certo di non dover aprire a nessuno il suo cuore. Il mondo intriso di scaltrezze e di indegnità abbisogna di menti in grado di batterlo sul suo stesso terreno, mantenendo giusto il cuore. «Ti voglio singolare», suona l’esortazione con cui Gracián apre il suo pamphlet rivolgendosi al lettore, «qui avrai non una politica né un’economica, ma una ragion di stato di te stesso». La si direbbe una potente anticipazione di figure metapolitiche come l’Anarca jüngeriano oppure l’Autarca evoliano…

La fama di Gracián non si limitò alla sua epoca o ai momenti di insorgenza sovrumanista. In tempi recenti il suo nome ha riscosso un famigerato successo tra le turbe dei manager d’azienda… e il povero Gracián si è visto trascinare via dall’etica tradizionale aristocratica e dal suo stoicismo barocco, fin dentro le maleodoranti stanze dei consigli d’amministrazione, nei grattacieli americani: numerose edizioni dei suoi libri sono state vendute come il pane tra le schiere di yuppies alla ricerca del facile successo attraverso i manuali di auto-stima per piazzisti in carriera. I suoi libri hanno conosciuto l’onta di essere paragonati alle pubblicazioni a grande tiratura in uso sin dagli anni Cinquanta negli USA, ad esempio quelle a cura della Fondazione Carnegie: come vincere la paura degli altri, come avere successo nel lavoro… Noi aggiungiamo: come trascinare un filosofo del sovrumanismo europeo nel fango della morale da insetti tipica del liberalismo americano…

* * *

Tratto da Linea del 24 ottobre 2008.

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mardi, 03 janvier 2012

Poutine contre-attaque: “Ce sont des drones américains qui ont tué Khadafi!”

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Matteo BERNABEI:

Poutine contre-attaque: “Ce sont des drones américains qui ont tué Khadafi!”

Nous assistons désormais à une confrontation sur toute la ligne entre la Russie et les Etats-Unis. Après le différend qui a opposé les deux grandes puissances à propos de la crise syrienne et après la menace de sanctions que fait peser Washington sur quelques fonctionnaires du gouvernement de Moscou, accusés “d’abus en matière de droits de l’homme”, le Premier Ministre russe Vladimir Poutine a attaqué en termes fort durs les autorités nord-américaines. “Muammar Kadhafi a été assassiné au moyen d’aéroplanes sans pilote, qui ont attaqué la colonne de véhicule dans laquelle il se trouvait et l’ont tué sans qu’il n’y ait ni tribunal ni enquête”, a déclaré sans ambages le dirigeant russe au cours d’un long entretien accordé à la télévision d’Etat. Il a également souligné que tout cela ne constitue en rien un “acte démocratique”. La réplique du Pentagone fut immédiate: il a déclaré que les paroles de Poutine étaient “ridicules” et que “la mort de Kadhafi a été attestée par des documents rendus publics, tant sur le plan des circonstances que sur celui des responsabilités”. Cette dernière affirmation du Pentagone ne correspond toutefois en rien à la vérité car les uniques images de la mort du Colonel libyen sont celles qui le montre blessé et capturé par les rebelles; elles ne révèlent rien sur la manière dont Kadhafi a été blessé ni sur qui a porté le coup.

Après avoir évoqué le cas de Kadhafi et l’affaire libyenne, le premier ministre russe a abordé le cas de l’ancien candidat républicain John McCain, qui avait accusé Poutine de malversations lors des récentes élections pour la députation de la Douma de Moscou. “McCain a combattu au Vietnam -a dit Poutine- et je crois, moi, qu’il a les mains sales, sales du sang de citoyens vietnamiens innocents; à ce titre, il ne peut inventer que des histoires sanguinaires”.

Le climat entre Washington et Moscou est de plus en plus tendu. Moscou n’a cessé de critiquer l’interprétation qu’ont donnée les Etats-Unis et la fameuse “coalition des volontaires” de la résolution 1973 des Nations-Unies, en foulant aux pieds faits et principes pour pouvoir agir militairement en Libye.

En dépit du climat international tendu et de la situation difficile dans laquelle se débat le pays nord-africain, le Conseil National de Transition de Benghazi, c’est-à-dire l’organisme qui gouverne actuellement la Libye, adopte une politique étrangère propre. Le 15 décembre 2011, à Rome, le numéro un de ce CNT libyen, Moustafa Abdel Djalil, a rencontré le “néo-président” du Conseil italien, Mario Monti et le Président de la République Giorgio Napolitano afin de réactiver le traité d’amitié italo-libyen. Au départ, le gouvernement “de facto” de Benghazi avait montré beaucoup de perplexité à relancer ce traité, à cause des clauses relatives à l’immigration illégale qu’il imposait. Il a néanmoins pu rentrer à nouveau en vigueur, surtout grâce au déblocage, par l’exécutif italien, des fonds libyens préalablement gelés. Ceux-ci sont dès lors passés de 230 à 600 millions d’euro.

Matteo BERNABEI.

( m.bernabei@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 16 décembre 2011; http://www.rinascita.eu ).

 

Modern art was CIA 'weapon'

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Modern art was CIA 'weapon'

Revealed: how the spy agency used unwitting artists such as Pollock and de Kooning in a cultural Cold War

Ex: http://www.independent.co.uk/news/world/

For decades in art circles it was either a rumour or a joke, but now it is confirmed as a fact. The Central Intelligence Agency used American modern art - including the works of such artists as Jackson Pollock, Robert Motherwell, Willem de Kooning and Mark Rothko - as a weapon in the Cold War. In the manner of a Renaissance prince - except that it acted secretly - the CIA fostered and promoted American Abstract Expressionist painting around the world for more than 20 years.

The connection is improbable. This was a period, in the 1950s and 1960s, when the great majority of Americans disliked or even despised modern art - President Truman summed up the popular view when he said: "If that's art, then I'm a Hottentot." As for the artists themselves, many were ex- com- munists barely acceptable in the America of the McCarthyite era, and certainly not the sort of people normally likely to receive US government backing.

Why did the CIA support them? Because in the propaganda war with the Soviet Union, this new artistic movement could be held up as proof of the creativity, the intellectual freedom, and the cultural power of the US. Russian art, strapped into the communist ideological straitjacket, could not compete.

The existence of this policy, rumoured and disputed for many years, has now been confirmed for the first time by former CIA officials. Unknown to the artists, the new American art was secretly promoted under a policy known as the "long leash" - arrangements similar in some ways to the indirect CIA backing of the journal Encounter, edited by Stephen Spender.

The decision to include culture and art in the US Cold War arsenal was taken as soon as the CIA was founded in 1947. Dismayed at the appeal communism still had for many intellectuals and artists in the West, the new agency set up a division, the Propaganda Assets Inventory, which at its peak could influence more than 800 newspapers, magazines and public information organisations. They joked that it was like a Wurlitzer jukebox: when the CIA pushed a button it could hear whatever tune it wanted playing across the world.

The next key step came in 1950, when the International Organisations Division (IOD) was set up under Tom Braden. It was this office which subsidised the animated version of George Orwell's Animal Farm, which sponsored American jazz artists, opera recitals, the Boston Symphony Orchestra's international touring programme. Its agents were placed in the film industry, in publishing houses, even as travel writers for the celebrated Fodor guides. And, we now know, it promoted America's anarchic avant-garde movement, Abstract Expressionism.

Initially, more open attempts were made to support the new American art. In 1947 the State Department organised and paid for a touring international exhibition entitled "Advancing American Art", with the aim of rebutting Soviet suggestions that America was a cultural desert. But the show caused outrage at home, prompting Truman to make his Hottentot remark and one bitter congressman to declare: "I am just a dumb American who pays taxes for this kind of trash." The tour had to be cancelled.

The US government now faced a dilemma. This philistinism, combined with Joseph McCarthy's hysterical denunciations of all that was avant-garde or unorthodox, was deeply embarrassing. It discredited the idea that America was a sophisticated, culturally rich democracy. It also prevented the US government from consolidating the shift in cultural supremacy from Paris to New York since the 1930s. To resolve this dilemma, the CIA was brought in.

The connection is not quite as odd as it might appear. At this time the new agency, staffed mainly by Yale and Harvard graduates, many of whom collected art and wrote novels in their spare time, was a haven of liberalism when compared with a political world dominated by McCarthy or with J Edgar Hoover's FBI. If any official institution was in a position to celebrate the collection of Leninists, Trotskyites and heavy drinkers that made up the New York School, it was the CIA.

Until now there has been no first-hand evidence to prove that this connection was made, but for the first time a former case officer, Donald Jameson, has broken the silence. Yes, he says, the agency saw Abstract Expressionism as an opportunity, and yes, it ran with it.

"Regarding Abstract Expressionism, I'd love to be able to say that the CIA invented it just to see what happens in New York and downtown SoHo tomorrow!" he joked. "But I think that what we did really was to recognise the difference. It was recognised that Abstract Expression- ism was the kind of art that made Socialist Realism look even more stylised and more rigid and confined than it was. And that relationship was exploited in some of the exhibitions.

"In a way our understanding was helped because Moscow in those days was very vicious in its denunciation of any kind of non-conformity to its own very rigid patterns. And so one could quite adequately and accurately reason that anything they criticised that much and that heavy- handedly was worth support one way or another."

To pursue its underground interest in America's lefty avant-garde, the CIA had to be sure its patronage could not be discovered. "Matters of this sort could only have been done at two or three removes," Mr Jameson explained, "so that there wouldn't be any question of having to clear Jackson Pollock, for example, or do anything that would involve these people in the organisation. And it couldn't have been any closer, because most of them were people who had very little respect for the government, in particular, and certainly none for the CIA. If you had to use people who considered themselves one way or another to be closer to Moscow than to Washington, well, so much the better perhaps."

This was the "long leash". The centrepiece of the CIA campaign became the Congress for Cultural Freedom, a vast jamboree of intellectuals, writers, historians, poets, and artists which was set up with CIA funds in 1950 and run by a CIA agent. It was the beach-head from which culture could be defended against the attacks of Moscow and its "fellow travellers" in the West. At its height, it had offices in 35 countries and published more than two dozen magazines, including Encounter.

The Congress for Cultural Freedom also gave the CIA the ideal front to promote its covert interest in Abstract Expressionism. It would be the official sponsor of touring exhibitions; its magazines would provide useful platforms for critics favourable to the new American painting; and no one, the artists included, would be any the wiser.

This organisation put together several exhibitions of Abstract Expressionism during the 1950s. One of the most significant, "The New American Painting", visited every big European city in 1958-59. Other influential shows included "Modern Art in the United States" (1955) and "Masterpieces of the Twentieth Century" (1952).

Because Abstract Expressionism was expensive to move around and exhibit, millionaires and museums were called into play. Pre-eminent among these was Nelson Rockefeller, whose mother had co-founded the Museum of Modern Art in New York. As president of what he called "Mummy's museum", Rockefeller was one of the biggest backers of Abstract Expressionism (which he called "free enterprise painting"). His museum was contracted to the Congress for Cultural Freedom to organise and curate most of its important art shows.

The museum was also linked to the CIA by several other bridges. William Paley, the president of CBS broadcasting and a founding father of the CIA, sat on the members' board of the museum's International Programme. John Hay Whitney, who had served in the agency's wartime predecessor, the OSS, was its chairman. And Tom Braden, first chief of the CIA's International Organisations Division, was executive secretary of the museum in 1949.

Now in his eighties, Mr Braden lives in Woodbridge, Virginia, in a house packed with Abstract Expressionist works and guarded by enormous Alsatians. He explained the purpose of the IOD.

"We wanted to unite all the people who were writers, who were musicians, who were artists, to demonstrate that the West and the United States was devoted to freedom of expression and to intellectual achievement, without any rigid barriers as to what you must write, and what you must say, and what you must do, and what you must paint, which was what was going on in the Soviet Union. I think it was the most important division that the agency had, and I think that it played an enormous role in the Cold War."

He confirmed that his division had acted secretly because of the public hostility to the avant-garde: "It was very difficult to get Congress to go along with some of the things we wanted to do - send art abroad, send symphonies abroad, publish magazines abroad. That's one of the reasons it had to be done covertly. It had to be a secret. In order to encourage openness we had to be secret."

If this meant playing pope to this century's Michelangelos, well, all the better: "It takes a pope or somebody with a lot of money to recognise art and to support it," Mr Braden said. "And after many centuries people say, 'Oh look! the Sistine Chapel, the most beautiful creation on Earth!' It's a problem that civilisation has faced ever since the first artist and the first millionaire or pope who supported him. And yet if it hadn't been for the multi-millionaires or the popes, we wouldn't have had the art."

Would Abstract Expressionism have been the dominant art movement of the post-war years without this patronage? The answer is probably yes. Equally, it would be wrong to suggest that when you look at an Abstract Expressionist painting you are being duped by the CIA.

But look where this art ended up: in the marble halls of banks, in airports, in city halls, boardrooms and great galleries. For the Cold Warriors who promoted them, these paintings were a logo, a signature for their culture and system which they wanted to display everywhere that counted. They succeeded.

* The full story of the CIA and modern art is told in 'Hidden Hands' on Channel 4 next Sunday at 8pm. The first programme in the series is screened tonight. Frances Stonor Saunders is writing a book on the cultural Cold War.

Covert Operation

In 1958 the touring exhibition "The New American Painting", including works by Pollock, de Kooning, Motherwell and others, was on show in Paris. The Tate Gallery was keen to have it next, but could not afford to bring it over. Late in the day, an American millionaire and art lover, Julius Fleischmann, stepped in with the cash and the show was brought to London.

The money that Fleischmann provided, however, was not his but the CIA's. It came through a body called the Farfield Foundation, of which Fleischmann was president, but far from being a millionaire's charitable arm, the foundation was a secret conduit for CIA funds.

So, unknown to the Tate, the public or the artists, the exhibition was transferred to London at American taxpayers' expense to serve subtle Cold War propaganda purposes. A former CIA man, Tom Braden, described how such conduits as the Farfield Foundation were set up. "We would go to somebody in New York who was a well-known rich person and we would say, 'We want to set up a foundation.' We would tell him what we were trying to do and pledge him to secrecy, and he would say, 'Of course I'll do it,' and then you would publish a letterhead and his name would be on it and there would be a foundation. It was really a pretty simple device."

Julius Fleischmann was well placed for such a role. He sat on the board of the International Programme of the Museum of Modern Art in New York - as did several powerful figures close to the CIA.

Dominique Venner, électrochoc des esprits pour un choc de l’histoire

Dominique Venner, électrochoc des esprits pour un choc de l’histoire

Ex: http://www.ladroitestrasbourgeoise.com/

ChocVenner.jpgDans un livre d’entretien conduit par la journaliste Pauline Lecomte, « Le choc de l’histoire » publié aux éditions « Via Romana », Venner se penche une nouvelle fois sur notre époque en crise. On retrouvera en filigrane la grille d’analyse affûtée qu’il avait déjà exposée dans son ouvrage « Le siècle de 1914 », mais cette fois pour en dépasser le cadre restreint de la discipline historique. 

Selon lui, la grave crise actuelle clos un cycle historique amorcé en 1914 et qui aura secoué tout le XXème siècle. Après avoir favorisé un lent processus de déchristianisation, les idéaux des Lumières ont vu, au cours du dernier siècle,  les grands récits idéologiques qu’ils avaient enfantés s’effondrer les uns après les autres. Après avoir tordu le cou aux aventures fascistes en Europe, le communisme et le capitalisme mondialiste, qui se sont imposés à une Europe réduite à la sujétion, se sont révélés finalement incapables de surmonter les contradictions systémiques internes qui les taraudaient.

Le communisme s’affaissera brutalement sur lui-même sans prévenir, en 1989, laissant le mondialisme des droits de l’homme porté par les Etats-Unis bien seul face à ses propres apories. Passée une brève période d’euphorie, la faillite de Lehmann Brother en 2008 est venue signifier à une planète incrédule la mort par KO technique de la dernière illusion issue des ruines du XXème siècle et partant, le début du déclin de l’empire américain.

Pour Dominique Venner, la grande faute qui caractérisa toutes ces expériences idéologiques fut de ne s’inscrire qu’exclusivement dans le champ trop temporel du politique ou de l’économique. Malgré les prétentions eschatologiques et les abords religieux que ces aventures n’ont jamais manqué d’emprunter, toutes se révélèrent in fine bien incapables de bâtir des modèles durables de société, comme su par exemple le faire en son temps le christianisme. Les mythes du progressisme égalitaire, de l’homme nouveau ou encore de la fin de l’histoire auront finalement buté sur l’amère réalité de leur impossible avènement. Leurs échecs successifs laissent donc aujourd’hui les Européens à la fois exsangues et durement désemparés devant un sérieux questionnement identitaire.

Même le christianisme, passablement épuisé, ne présente plus la moindre possibilité d’un recours. Son universalisme – qui put être un atout lorsqu’il s’agissait de légitimer l’hégémonie de l’Europe sur le monde – se révèle désormais totalement inopérant à offrir des solutions pour des Européens ramenés à un monde multipolaire et violemment chaviré par un rééquilibrage des puissances entre ex-dominés et ex-dominants. Pire encore ! Ce résidu d’universalisme, qui nimbe encore tout l’Occident, les handicape aujourd’hui dans leur capacité à répondre au réveil identitaire, et souvent revanchard, des civilisations concurrentes.

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L’état des lieux est clair : l’Europe, assommée par le traumatisme de deux guerres mondiales, est entrée en dormition depuis plus de 50 ans. Mais l’effondrement annoncé de l’empire américain provoquera inévitablement le retour souverain des nations du vieux continent dans le jeu de l’histoire. Inutile de s’illusionner ! Ce réveil ne se fera pas sans de déchirantes et profondes révisions. La grande démonstration de ce livre tient précisément dans l’évidence que la solution dépasse largement le champ des contingences du politique stricto sensu.

Dépourvue de religion identitaire, à la différence de l’Inde, du Japon ou de la Chine, l’Europe va devoir retrouver ce qui la singularise en renouant avec sa plus longue mémoire. Une mémoire amenée à former les bases d’une mystique identitaire apte à produire un imaginaire collectif opérant face aux nouveaux enjeux de la modernité. Les Européens vont devoir se réarmer moralement s’ils ne veulent pas tomber en servitude. A cet égard, il nous donne l’exemple du renouveau hindouiste actuel en Inde, amorcé grâce à la création par Nagpur en 1925 d’un mouvement identitaire à vocation plus culturelle et spirituelle que politique.

Sur ce chemin qui remonte dans notre plus longue mémoire, Dominique Venner nous indique des pistes. Il nous renvoie d’abord à son ouvrage « Histoire et Tradition des Européens : 30000 ans d’identité » et évoque ensuite une « histoire européenne des comportements [pouvant] être décrite comme le cours d’une rivière souterraine invisible et pourtant réelle. » Pour lui, cette rivière qui coule en nous, souvent à notre insu, prend sa source dans la Grèce antique en général et dans l’œuvre fondatrice d’Homère en particulier. Dans l’Iliade et l’Odyssée, qu’il qualifie de « mémoire des origines », il est possible de retrouver tout l’imaginaire européen dans sa substance la plus parfaite. Notre vision du monde, notre rapport à la nature, au vivant, à la mort, notre cœur aventureux, notre façon d’enchanter les éléments et de sublimer nos sentiments, cette relation entre les hommes et les femmes sur un pied d’égalité, tout est là sous nos yeux, écrit il y a presque 3000 ans déjà.

Venner nous avise toutefois à ne pas confondre tradition et folklore. La vraie tradition consiste à entreprendre des choses neuves dans le même esprit que celui des anciens. Alors que le folklore, c’est justement l’inverse. En exemple, il nous donne des figures contemporaines d’Européens, sur lesquelles, selon lui,  l’esprit de la tradition a indéniablement soufflé. Parmi ceux-ci, il s’attarde longuement sur le cas du colonel Claus von Stauffenberg. Cet officier qui incarna la fidélité à la tradition aristocratique allemande fut l’instigateur décisif de l’attentat manqué contre Hitler.

En conclusion, nous citerons cette phrase de Dominique Venner : « ce n’est pas rien de se savoir fils et filles d’Homère, d’Ulysse  et de Pénélope. »

Olrik

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Mircea Eliade, il genio

Mircea Eliade, il genio

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Ex: http://wwww.centrostudilaruna.it/

Il 13 marzo di cent’anni fa nasceva a Bucarest Mircea Eliade. Fin dall’infanzia i genitori spostano il compleanno al 9 marzo. Al suo nome di battesimo non corrispondeva infatti alcun patrono nel calendario ortodosso, sicché la famiglia decise di festeggiare il giorno 9, che non era consacrato a nessun santo particolare bensì ai Quaranta Martiri uccisi a Sebaste durante le persecuzioni di Luciano.

Studioso del mito e delle religioni, esperto di yoga e sciamanesimo, di occultismo ed esoterismo, romanziere fecondo, saggista dall’erudizione prodigiosa e a suo agio in otto lingue, Eliade è stato tra le intelligenze più acute e versatili del Novecento. Ma l’intelligenza è un dono di dèi invidiosi, un dono avvelenato: il confine che la separa dall’ottusità è mobile.

«Che uomo straordinario sono!», annota il trentaquattrenne intellettuale nel suo Jurnalul din Portugalia, l’inedito diario dei cinque anni, dal 1941 al 1945, trascorsi come consigliere culturale all’ambasciata rumena di Lisbona (in Italia sarà pubblicato da Bollati Boringhieri). Il giovane Eliade, all’epoca ancora sconosciuto al grande pubblico europeo, passa parte delle sue giornate a rileggere alcune sue pagine e si paragona ai grandi della letteratura: «La mia capacità di comprendere e percepire tutto ciò che appartiene alla sfera culturale è illimitata … Comunque sia, i miei orizzonti intellettuali sono più vasti di quelli di Goethe». Il 15 luglio 1943 annota con ineffabile disinvoltura: «Mi rendo conto che dopo Eminescu [il poeta nazionale rumeno], la nostra razza non ha mai più conosciuto una personalità tanto (…) potente e tanto dotata quanto la mia».

I diari integrali saranno desecretati solo nel 2018, ma tutto fa pensare che l’autocritica non appartenesse al pur vastissimo repertorio di Eliade. Né che egli sia mai guarito dalla megalomania di cui evidentemente andava affetto. A quattordici anni aveva già pubblicato il suo primo racconto: Come ho scoperto la pietra filosofale. In un successivo Romanzo dell’adolescente miope (1923) elabora la quasi umiliante scoperta della propria sessualità. Qualche anno dopo, in Gaudeamus (1928), entrano in scena la femminilità e l’amore, e per converso il concetto di «virilità», mutuato dall’adorato Papini, autore di Maschilità. Il suo io è superalimentato dall’ambizione e da una «religione della volontà» fatta di astinenza e disciplina (dormiva cinque ore per non sottrarre tempo allo studio).

Iscrittosi nel 1925 a Lettere e Filosofia dell’università di Bucarest, emerge come leader della giovane «Generazione», un gruppo di intellettuali anticonformisti che aspira a rinnovare la tradizione rumena. Tra gli altri «latini d’Oriente» ci sono Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi superbi Exercises d’admiration), Ionesco, Costantin Noica e Mihail Sebastian, un ebreo a lui molto caro.

Nel 1927 e 1928 visita l’Italia, avendo alle spalle una serie di letture rapaci che mettono le ali alla sua passione per nostra cultura (documentata esaurientemente da Roberto Scagno per Jaca Book). Su tutti Papini ed Evola, a proposito del quale scriverà un testo, Il fatto magico, andato perduto. Dopo la laurea su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, alla fine del 1928, parte alla volta dell’India per studiare la filosofia orientale con Surendranath Dasgupta. Vi rimane fino al dicembre del 1931, imparando il sanscrito e raccogliendo materiali, conoscenze ed esperienze che lo segnano profondamente. C´è anche una storia d’amore con Maitreyi, la figlia di Dasgupta, nella cui casa a Calcutta era andato ad abitare. La ragazza è la protagonista dell’omonimo romanzo, che Eliade pubblica in Romania nel 1933. Sarà un grande successo, che trasfigura Maitreyi in un simbolo dell’immaginario rumeno.

Incrinatisi i rapporti con Dasgupta, viaggia nellHimalaya occidentale soggiornando nell’ashram di Shivananda e facendosi iniziare allo yoga. Nel contempo lavora alla tesi di dottorato, che discute a Bucarest nel ‘33 e pubblica a Parigi nel ‘36 con il titolo Yoga, saggio sulle origini della mistica indiana. Un libro che lo lancerà come autore di culto quando lo yoga si diffonderà in Occidente.

Dal 1933 al 1940 è di nuovo a Bucarest come assistente di Nae Ionescu, il leggendario maestro della giovane Generazione. Ionescu lo avvicina alla Guardia di Ferro, l’organizzazione di estrema destra capeggiata da Codreanu. Costui era convinto, tra l’altro, che gli ebrei cospirassero per fondare una nuova Palestina tra il Mal Baltico e il Mar Nero, e il suo vice, Ion Mota, aveva tradotto in rumeno I protocolli dei Savi di Sion. Eliade non era antisemita, ma all’epoca si lasciò intruppare. Il diario che l’amico ebreo Sebastian tenne fra il 1935 e il 1944, pubblicato nel 1996, è un’accorato lamento per il comportamento ambiguo di Eliade. Che è tutto preso dalle sue carte: pubblica vari saggi (tra cui Oceanografia e Il mito della reintegrazione), romanzi (tra cui Ritorno dal Paradiso, La luce che si spegne, i due volumi Huliganii), un’importante rivista di studi mitologici, Zalmoxis, che richiamerà l’attenzione di Carl Schmitt ed Ernst Jünger.

Alla fine della guerra si trasferisce a Parigi dove, aiutato da Dumézil, insegna all’Ecole des Hautes Etudes. Il Trattato di storia delle religioni (1949) lo consacra come massimo studioso del fenomeno religioso su scala mondiale. Ostile al metodo positivistico e storicista, Eliade riprende la prospettiva aperta da Rudolf Otto e sviluppa uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, le «ierofanie». La sua non è una storia bensì una morfologia del sacro, le cui forme appaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», riattualizzando miti primordiali. Per lui il mito non è affatto arcaico né fuori gioco. Si è piuttosto ritirato negli interstizi della modernità, dove si tratta di scovarlo. Contro la presunta superiorità dell’uomo moderno sui «primitivi».

Nel 1950 è invitato da C.G. Jung al primo incontro di «Eranos» ad Ascona. Nel 1956 passa a insegnare alla Divinity School di Chicago, dove rimarrà fino alla morte (avvenuta il 22 aprile 1986 per un ictus). Dal 1960 al 1972 dirige con Ernst Jünger una straordinaria rivista di storia delle religioni, Antaios. Intanto seguita a pubblicare a ritmo martellante un’infinità di lavori, culminati nella grande Storia delle credenze e delle idee religiose (1976-1983). È anche candidato al Nobel per la letteratura.

Purtroppo, un dettaglio ne stoppa l’apoteosi, e gli schizza addosso una macchia infamante. Un dettaglio biografico, sul quale la sua intelligenza si incaglia e si rovescia in ottusità.

Nel 1972 lo storico Theodor Lavi (pseudonimo di Lowenstein), in base al diario ancora inedito di Sebastian e ad altre testimonianze, rivela su Toladot, una piccola rivista dell’emigrazione rumena in Israele, che Eliade era stato vicino alla Guardia di ferro. Eliade fa finta di nulla, cerca di sbarazzarsi del suo passato come un serpente della sua pelle. Ma la notizia fa il giro del mondo, in Italia è ripresa da Furio Jesi. Un suo viaggio a Gerusalemme nella primavera del 1973 dev’essere annullato in extremis, tra lo sconcerto dell’amico Gershom Scholem. Nei suoi diari, silenzio.

Da quel momento Eliade adopera la sua intelligenza per dissimulare e insabbiare. Cerca coperture, si stringe ad amici insospettabili, come Paul Ricoeur e lo scrittore ebreo Saul Bellow. Quest’ultimo diventa suo intimo, ma nel romanzo Ravelstein inscena il dubbio che lo tormenta. Il protagonista, alias Allan Bloom, mette in guardia l’amico narratore da Radu Grielescu, alias Eliade: è stato «un seguace di Nae Ionescu che fondò la Guardia di Ferro», avverte, un jew-hater che denunciò «la sifilide ebraica che contagiava la raffinata civiltà balcanica», «ti strumentalizza» per «rifarsi una verginità». Il tarlo del sospetto non soffocherà la compassione, e ai funerali di Eliade Bellow prenderà la parola per dire il suo dolore e la sua compassione.

È difficile giudicare del caso Eliade. Come è difficile giudicare di Heidegger, Carl Schmitt o Céline. Certo, la loro opera non può più essere letta solo in chiave scientifica o letteraria, separandola dalla biografia. Eppure, la loro vita mediocre non basta a oscurare la grandezza dell’opera che ha generato. Ci chiediamo: perché intellettuali di tale statura si sono ostinati a tacere il loro passato? La verità è che gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono, e molto più di quello che pensano.

È probabilmente questa saggezza che ha indotto perfino il regista Francis Coppola a rendere omaggio a Eliade. Il suo nuovo film, Youth without Youth, prende spunto da un omonimo racconto di Eliade (Tinerete fara tinerete): un settantenne professore, colpito da un fulmine, diventa più giovane anziché più vecchio, attirando l’attenzione dei servizi segreti. Il professore deve scappare attraverso vari paesi fino in India… Anche questa singolare fortuna è un dettaglio in cui si nasconde il buon Dio, e ci avverte che l’opera di Eliade rimane un capitolo inevitabile della storia intellettuale del Novecento, un passaggio obbligato per capirne le convulsioni.

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Tratto da Repubblica del 12 marzo 2007.

lundi, 02 janvier 2012

Fascism in Albania

Fascism in Albania

 

 

 


 

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It is often stated as a fact that the Italian invasion of Albania was an unprovoked act of aggression by Mussolini who was simply trying to make some territorial acquisition of his own in order to keep pace with the expansion of his ally Nazi Germany. Although it may be often repeated, this is simply not true. Italy had very long-standing interests in Albania but the actual invasion was not something Mussolini had planned out ahead of time. In fact, it came at a very inopportune moment, the very same month that the Spanish Civil War ended, which had been a very hard-fought victory for the Italian forces. It was that same month, when the Italian economy had already been pushed to the limit by wars in Ethiopia and Spain that the Albanian government announced a moratorium on their debts to Italy. Mussolini informed the trumped-up King, Zog, that these debts would have to be repaid as agreed. Previously, Italy had been very friendly with Albania. They had expelled Greek troops from the country in World War I, preserving its independence, had signed a number of friendship and defensive treaties with them and, obviously, had loaned them considerable amounts of money.

Not surprisingly, another issue was Albania giving Italy access to her oil wells at Devoli. This was something that concerned Mussolini greatly as the League of Nations sanctions in Italy during the Ethiopian war had proven to him how much Italy depended on imported oil. The country had virtually no mineral resources of its own, but oil was the most vital necessity and Mussolini did not want Italy to be in a position where foreign powers could starve Italy of such a commodity in the future. There was also the fact that the world community, after the First World War, had pretty much recognized Albania as an Italian protectorate and the Italians had a long history in the region. The ancient Romans had settled on the shores of Albania even before they controlled the whole of the Italian Peninsula and the Republic of Venice had had extensive holdings in Albania. Moreover, the self-promoted King of the Albanians had used the money Italy poured into the country in return for access to oil in order to enrich himself, his family and his own circle of supporters while the rest of the population lived in mild to dire poverty.

 


King Zog, as he called himself (inventing an illustrious ancestry going back to Albanian historical heroes after promoting himself from politician to monarch) was far from an admirable figure or a pitiable victim of Fascist aggression. He had clawed his way to the top and, as his biographer Jason Hunter Tomes wrote, “unable and frankly unwilling to have much faith in any group of his people, Zog strove to keep all classes in unstable equilibrium. Through hours of hideously convoluted talk, he obsessively manipulated his assorted underlings (nearly all older than himself) in an effort to exercise personal control from seclusion”. He was a small-time, puffed up potentate who would be most remembered for making it into the Guinness Book of World records for being the heaviest smoker in the world, sucking down 225 cigarettes a day. His tyrannical rule kept liberal-minded Albanians upset while his abolition of Islamic law and marriage to a Catholic Hungarian-American outraged conservatives in the Muslim nation. His love for poker also did not endear him to the majority of his people (gambling being forbidden in the Muslim religion) and he was involved in numerous feuds and vendettas with rival clans so that he was guarded constantly and lived as a recluse, fearing to go out in public.

Much has been made of the assassination attempts on King Zog as a way of justifying his cowardly, reclusive behavior, but it doesn’t hold water. Mussolini was the subject of more than one assassination attempt and yet it never phased him in the least and he was always going out in public, constantly among his people, his soldiers, in Italy and across the empire. Zog was a cowardly, corrupt back-stabber with delusions of grandeur and that is all there is to it. Even with all of that though, Mussolini might have looked the other way. The breaking point was Albania reneging on her debts and then the information that came to light showing that Zog was conspiring with the Greeks to get him out of the financial pinch his own greed had put him in. The last thing Italy wanted was Greece getting a foothold in Albania again and throwing into jeopardy Italian access to Albanian oil wells and metal mines. When all of this came together, Mussolini had little choice but to act and order Italian armed forces to occupy Albania.

 


The Albanian police and soldiers scattered pretty quickly after the Italian troops landed and King Zog issued, what the international media would later make famous, appeal to his people to rise up and resist the invaders. The problem was that the vast majority of Albanians were too poor to even own a radio so almost no one in his own country even heard him, though the media made sure plenty of people in France and Britain and the United States did, using it as an example of Fascist aggression against a weak, innocent, saintly little country. We assume those hard working Americans had no idea that the King they heard on the radio had never even seen an Italian soldier before he was racing toward the border in a fleet of limousines loaded down with gold bars, fancy furniture, designer suites and evening gowns, lavish jewelry and, of course, crates full of cigarettes. And the fact of the matter is that the occupation of Albania was not really much of an invasion or conquest. Only a handful of Italians were killed and most of the Albanian population came out to cheer their “conquerors” who had delivered them from the backward tribalism Zog had subjected them to. The Albanian people were not stupid and they could see as well as anyone that they were living in an impoverished backwater while Fascism had brought order, stability, jobs and economic efficiency to Italy.

Although no one would want to admit it today, about the only time Albania achieved any level of progress was during the years after Albania was annexed to the Italian Empire on April 16. It was only during those years that Albanian territory expanded to include almost all ethnic Albanians in the region, taking in the contested region of Kosovo, border areas of what is now Montenegro and others. Italian companies invested in Albania and there was a brief economic upsurge before the war brought everything to a standstill. What is more, not even all the Allies who would later feign outrage over the occupation of Albania objected at the time. Even so staunch an enemy of the Fascist government as the British Foreign Secretary Anthony Eden sent Mussolini a personal telegram immediately afterwards thanking him for his swift and correct action and assuring him of British support for the move which most felt surely headed off a much greater Balkan crisis if the corrupt King Zog had been allowed to continue on his way. The only major Allied power that was really upset by it was the French because they were afraid that the annexation of Albania had secured the eastern frontier of Italy leaving them free to focus on the west. They were, perhaps, nervous that Mussolini would next look to reclaim ethnically Italian areas under French control like Savoy, Nice and Corsica.

 


Also untrue is the claim by some that Albania during the Fascist period was totally controlled by Italians. The two viceroys during the period were Italians but the prime ministers of the Albanian government were all Albanians. The first had even been prime minister for Zog (even though the two hated each other which was typical). The next one had fought on the Turkish side against Italy in the Italo-Turkish War of 1912, yet after Albania was annexed he was given a seat in the Roman Senate. Likewise the last two were both born and raised ethnic Albanians, so these were not simply Italian puppets by any means. It was the Albanian government, everyone forgets, that voted to depose King Zog (who had fled the country anyway and was still running) and then voted for the union with Italy. The problem was the war, which had to occupy the full attention of Rome rather than domestic concerns in Albania or Italy. Unlike even Ethiopia, there was not time for much development or progress because the war was the primary focus. So many Albanians continued their feuding ways. Some cooperated, some resisted because they were communists and on the Allied side and some nationalists resisted as well, stupidly so, because it was only with Italian support that their goal of a “Greater Albania” pretty much came true. Of course they also fought each other most of the time also.

So what was the result? Without the Fascists overseeing things it all went to hell PDQ. After the Italian armistice in 1943 the Germans came in for a while, with the same result, some Albanians cooperating and others resisting and others fighting everybody. In the end, with the Allied victory came, of course, the Communist victory (which was World War II in a nutshell; making the world safe for communism) and Enver Hoxha became the new communist dictator of Albania. He had been a communist partisan, leader of an Anti-Fascism committee and all the usual stuff, an avowed Leninist puppet for the international Bolsheviks in Moscow pretty much. Some of his deluded followers even continued on and helped Tito take power in Yugoslavia, so they were helping the very people who were going to strip away all the territory they had gained thanks to the Italians (which of course they wanted to keep). Hoxha was a fawning sycophant for Joseph Stalin and when he finally figured out he had made Albania a puppet of Yugoslavia he reversed course and decided to be a puppet of Soviet Russia. This went so far that when Stalin died, Hoxha actually made all the Albanians get down on their knees and give thanks to the memory of their great Soviet “liberator”.


Hoxha was such a mindless, Stalinist ass hat that relations with the USSR soured when Khrushchev took over and tried to restore at least a little bit of sanity to things. Hoxha denounced Khrushchev as a sell-out but went on praising Stalin as practically a god. He finally drew closer to Mao and the Red Chinese who he thought had more Marxist purity than the Soviets. When China got tired of his insanity he had no choice but to turn back to Russia and even Yugoslavia again -so went the Albanian Communist search for a sugar-daddy. It wasn’t happening. China denounced Albania and so, in his time in power, not only had Hoxha brought oppression, poverty and death to his people, lost them most of their territory and regional standing, but in the whole communist world he had managed to piss off the Yugoslavs, the Soviets and the Maoists, leaving Albania absolutely alone. What an achievement. Under Hoxha and his communist idiots Albania had achieved only one thing; having the absolute lowest standard of living of any country in all of Europe. There was one more leader after him of the communist era who then became the first President of the post-communist era (typical of the Reds, just change your coat and carry on) and there still hasn’t been much improvement since.

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La Syrie est depuis longtemps dans le collimateur des faucons néo-conservateurs

 

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Bernhard TOMASCHITZ:

La Syrie est depuis longtemps dans le collimateur des faucons néo-conservateurs

L’objectif est d’éliminer un ennemi d’Israël!

Le dirigeant de la Syrie, Bachar El-Assad, est mis sous pression. La Ligue Arabe a imposé des sanctions à son régime et les Nations Unies, à leur tour, entrent dans la danse. Le pays serait “au bord de la guerre civile” et la Haute Commissaire de l’ONU pour les droits de l’homme, Navy Pillay, exhorte la communauté internationale à prendre “des mesures effectives pour la protection du peuple syrien”. Comme si tout ce pandémonium n’était pas encore suffisant, on apprend qu’une “Armée syrienne libre”, soit une troupe de rebelles composée pour l’essentiel de déserteurs, attaque de plus en plus souvent des bâtiments abritant des institutions de l’Etat syrien afin de déstabiliser le régime d’El-Assad puis de le renverser.

Que cette “Armée syrienne libre” (ASL) soit réellement composée d’anciens soldats des forces régulières, qui auraient changé de bord,  est une affirmation plus que douteuse. Plusieurs agences de presse arabes sur internet signalent que cette “ASL”, qui prétend aligner 20.000 hommes, aurait reçu le renfort de 600 “volontaires libyens”. Si la teneur de ces dépêches s’avérait exacte, la lutte qui se déroule aujourd’hui en Syrie prendrait une toute autre dimension. En effet, on sait déjà que bon nombre de “rebelles libyens” ont été militairement formés en Afghanistan et ont des liens avec Al Qaeda et d’autres organisations islamistes. C’est par la Turquie que ces “Libyens” ont été infiltrés en Syrie. Cela paraît d’autant plus préoccupant pour nous, Européens de l’Ouest et du Centre de notre sous-continent, que la Turquie est membre, comme nous, de l’OTAN. Or elle fournit des armes aux insurgés syriens depuis longtemps et, par la force des choses, nous implique dans le conflit civil syrien.

Qui plus est, il y a, via la Turquie, un lien entre les rebelles et Israël, Etat qui travaille à l’effondrement du régime d’El-Assad depuis de longues années. Dans le contexte qui nous préoccupe aujourd’hui, il est intéressant de rappeler l’existence d’un rapport rédigé en 1996 par un groupe d’études placé sous la double houlette du faucon néo-conservateur Richard Perle (surnommé le “Prince des Ténèbres”) et du Premier ministre israélien de l’époque, Benjamin Netanyahou. Ce rapport était intitulé “Une nouvelle stratégie pour sauvegarder la sécurité de l’Empire (en anglais: “Realm”)”. Le concept de “Realm” doit se comprendre ici comme synonyme de “domination”, soit la domination américano-israélienne dans la région. Le rapport Perle/Netanyahou explique qu’il ne croit plus à une “paix générale”, concrétisée par “un coup de force décisif” mais évoque la possibilité de prendre toutes sortes de mesures pour affaiblir la Syrie, pays auquel on reproche une belle quantité de manquements. Ainsi, Damas serait impliqué dans le trafic international des stupéfiants, tenterait également de prendre le Liban tout entier sous sa coupe, soutiendrait, conjointement avec l’Iran, des organisations islamistes comme le Hizbollah, ce qui aurait pour corollaire que la Syrie “défierait l’Etat sioniste sur le sol libanais”.

Richard Perle, qui était un des conseillers du Président américain George W. Bush et l’un des principaux architectes de la guerre d’agression contre l’Irak (guerre qui bafouait le droit des gens), propose la stratégie suivante: Israël pourrait “modeler son environnement stratégique en coopérant avec la Turquie et la Jordanie en affaiblissant, en endiguant et même en repoussant les Syriens”. Etape importante dans la réalisation de ce projet: “éliminer Saddam Hussein du pouvoir en Irak”, ce qui fut fait en 2003 sous le prétexte de “diffuser la démocratie dans le monde”. Une fois Saddam éliminé, les ambitions syriennes de devenir une sorte de petite puissance régionale allaient être torpillées. Nos deux auteurs mentionnent expressis verbis la Jordanie comme partenaire: en effet, ce royaume hachémite a signé un traité de paix avec Israël; ce qui explique sans doute que le royaume, dont le régime est fort éloigné du modèle démocratique à l’américaine, a connu la paix jusqu’ici.

L’attitude très rigide contre la Syrie s’explique aussi par le fait que les Israéliens souhaitent annexer définitivement les hauteurs du Golan, occupées depuis 1967. Car, vu la nature du régime de Damas, il est “naturel et aussi moral” qu’Israël rejette toute solution équivalant à une “paix générale” et préfère “endiguer” la Syrie, se plaindre de son armement et de son programme d’acquisition d’armes de destruction massive, que négocier sur la base dite de la “terre pour la paix”, en ce qui concerne les hauteurs du Golan.

Ce projet Perle/Netanyahou de 1996 n’est pas le seul plan imaginé pour bouleverser la région: le fameux plan Yinon de 1982 vise également l’affaiblissement de tous les Etats musulmans de la région. Oded Yinon, haut fonctionnaire attaché au ministère israélien des affaires étrangères, propose, dans son mémorandum, une balkanisation de la région qui serait entièrement remodelée et où ne subsisteraient plus que des Etats arabes petits et moyens, afin qu’Israël puisse conserver sa prépondérance stratégique sur le long terme.

Au nom du “retour à l’initiative stratégique” et pour donner à Israël une marge de manoeuvre afin que l’Etat hébreu puisse “mobiliser toutes ses énergies pour reconstruire le sionisme”, les faucons israéliens insistent pour que les Etats récalcitrants de la région, comme l’Irak en 2003 et la Syrie aujourd’hui, soient “ramenés à la raison”.

Comme Tel Aviv ne peut atteindre cet objectif seul, ou ne pourrait l’atteindre que très difficilement, les Etats-Unis et aussi, dans un deuxième temps, l’Europe, doivent être sollicités et entraînés dans la danse. Et finalement, ne trouve-t-on pas dans le rapport Perle/Netanyahou l’éternelle évocation des “valeurs communes” de l’Occident que partagerait, avec l’Europe et l’Amérique, la “seule démocratie” du Proche Orient.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°49/2011, http://www.zurzeit.at/ ).

 

Qui fut le Baron Max von Oppenheim?

Qui fut le Baron Max von Oppenheim?

Orientaliste, arabisant, archéologue et diplomate, il fut l’artisan d’une politique allemande au Proche Orient pendant la première guerre mondiale

Max_von_Oppenheim.jpgLa famille von Oppenheim est aujourd’hui sous les feux de la rampe: sa banque est accusée par les juges de Cologne de faillite frauduleuse, de malversations immobilières, suites logiques de la faillite de la société commerciale Arcandor (Karstadt/Quelle) en 2009. La société bancaire “Sal. Oppenheim”, ébranlée par la crise immobilière de l’automne 2008, est devenue insolvable et a été reprise par la Deutsche Bank. Ainsi s’est terminée l’histoire d’une famille de banquiers allemands qui a duré 220 ans. Elle avait été fondée en 1789 par un garçon de 17 ans, Salomon Oppenheim junior.

D’une toute autre trempe que les lamentables banquiers de la famille en ce début de 21ème siècle, était le Baron Max von Oppenheim, diplomate, orientaliste et archéologue. Né le 15 juillet 1860 dans la famille d’Albert von Oppenheim, un banquier converti au catholicisme en 1858, le jeune Max a toujours refusé le plan de vie que lui suggérait son père: faire des affaires et devenir banquier à son tour. Dès 1879, il étudie les sciences juridiques à l’Université de Strasbourg et obtient son titre de docteur en droit à Göttingen en 1883. En 1891, il réussit les examens d’”assesseur” à Cologne. L’année suivante, il s’installe au Caire, muni d’une bonne bourse offerte par son père. Max entend apprendre la langue arabe. En Egypte, depuis l’occupation du pays par les Britanniques en 1882, c’est le Consul Général anglais qui gouverne le pays de facto.

Max von Oppenheim entendait vivre en Egypte comme “un simple Mahométan, afin de parfaire sa connaissance de l’arabe et d’étudier l’esprit de la religion islamique, ainsi que les moeurs et les coutumes des indigènes”. Il entreprit pendant son séjour égyptien plusieurs voyages d’étude en Afrique orientale et au Proche Orient. En tant qu’archéologue, il découvrit en 1899 la colline de Tell Halaf, habitée dès la protohistoire  et située sur le territoire de la Syrie actuelle; il géra ensuite les fouilles sur le site de la ville araméenne de Gouzana, vieille de 3000 ans, entre 1910 et 1913 puis entre 1927 et 1929. Sa réputation d’archéologue de premier plan était faite.

En 1896, Max von Oppenheim devient l’un des collaborateurs du Consul Général d’Allemagne au Caire. En 1900, il monte en grade: il est conseiller auprès de la légation et, jusqu’en 1910, assume le poste de ministre résident. A partir de septembre 1914, il organise et dirige à Berlin un bureau de traduction, qui, après avoir perçu des subsides de l’état-major général, devient l’“Office des renseignements pour l’Orient” (NfO ou “Nachrichtenstelle für den Orient”). Le motif qui a poussé l’état-major à financer et à annexer officieusement ce bureau de traduction était la nécessité de connaître l’importance stratégique de la Turquie pour le Reich allemand. Rappellons que la première mission militaire allemande a été envoyée en 1882 et que la construction du fameux chemin de fer vers Bagdad a commencé en 1903. Il convenait également de saisir les intérêts économiques d’une alliance avec l’Empire ottoman: la Deutsche Bank et Siemens avaient fondé en 1899 la “Société des chemins de fer anatoliens”; Krupp était le principal fournisseur d’armements à la Turquie. Enfin, il s’agissait aussi, dès les prémisses annonciatrices de la Grande Guerre, de contrer les campagnes de presse orchestrées contre l’Allemagne par les Anglais et les Français.

Lorsque l’Empereur Guillaume II, en automne 1898, tint quelques propos de table à Damas à l’adresse du Sultan ottoman Abdülhamid II et des 300 millions de musulmans du monde pour dire “que pour le reste des temps, l’Empereur d’Allemagne sera leur ami”, il s’inspirait directement de Max von Oppenheim. Celui-ci avait constaté au début du voyage de l’Empereur: “Plus que jamais, le Sultan est considéré aujourd’hui, dans tout le monde musulman, comme le plus puissant des princes mahométans et le souverain et le protecteur des lieux saints. Pour une grande puissance qui le considèrerait comme ennemi, il peut apparaître comme un adversaire peu dangereux mais serait au contraire un allié précieux dans une lutte contre tout Etat qui aurait de nombreux sujets musulmans”.

En effet, peu après l’entrée de la Turquie dans la Grande Guerre aux côtés de l’Allemagne, en novembre 1914, le Sultan Mohammed V proclame la Djihad. Mais cette proclamation n’a pas les effets souhaités dans le déroulement de la guerre, car les puissances de l’Entente, surtout les Anglais, parviennent, par l’action de leur agent T. E. Lawrence (dit “Lawrence d’Arabie”), à soulever les Arabes contre les Ottomans.

Le bureau NfO, qui ne dépendait pas du gouvernement allemand, mais travaillait étroitement avec le ministère des affaires étrangères, disposait d’un département de presse qui produisait et diffusait pamphlets et tracts, publiait un journal pour les prisonniers musulmans, un organe de dépêches et une revue intitulée “Der Neue Orient” (= “Le Nouvel Orient”). Cette revue recevait partiellement le soutien du ministère des affaires étrangères mais était largement financée par la fortune privée de Max von Oppenheim: c’est ainsi que furent édités plusieurs écrits comme “Indien unter britischer Faust” (= “L’Inde sous la férule britannique”), “Russische Greueltaten” (= “Atrocités russes”), “Englische Dokumente zur Erdrosselung Persiens” (= “Documents anglais sur l’étranglement de la Perse”), de même qu’une chronique illustrée sur le déroulement de la guerre (“Illustrierte Kriegschronik”), en langues arabe, perse, turque, ourdoue et tatar, selon le théâtre d’opération où elle était diffusée.

Après la mise sur pied de la NfO en 1915, Max von Oppenheim fut envoyé à Constantinople pour y créer une nouvelle organisation, qui devait travailler étroitement avec le ministère des affaires étrangères et le NfO. Dejà dans son memorandum de 1914 et dans un écrit sur le travail de propagande à effectuer en Orient au départ de l’ambassade allemande à Constantinople, Oppenheim déclarait: “La propagande turque doit être centralisée à Constantinople tout en étant téléguidée et soutenue par les Allemands mais cela doit être fait de telle manière que les Turcs puissent croire qu’ils ont à leurs côtés des conseillers amicaux et qu’ils sont en fait les seuls et vrais auteurs et diffuseurs de cette propagande”.

Ainsi, sur tout le territoire de l’Empire ottoman, 75 officinesd’information seront installées, entre le début des activités de von Oppenheim en 1915 et l’automne de 1916. Sur les murs de ces bureaux, on pouvait voir des portraits du Sultan, de ministres et de généraux turcs mais aussi des empereurs d’Allemagne et d’Autriche-Hongrie et de généraux allemands. Les visiteurs pouvaient utiliser des pupitres de lecture pour y lire les dépêches du jour, les communiqués militaires et les brochures d’information et de propagande qui apportaient la contradiction à la presse de Turquie et du Levant, généralement dominée par les bureaux français. Les activités de la NfO et l’organisation des officines de propagande étaient gérées sur un mode professionnel et visait à donner une image favorable de l’Allemagne sur le long terme dans tout l’Orient: cette image s’est bien ancrée dans cette région du monde, n’a certes eu aucune influence concrète sur le déroulement des hostilités proprement dites pendant la Grande Guerre mais, en dépit de la défaite des puissances centrales, l’image de l’Allemagne bénéficie toujours là-bas d’une aura positive. C’est indubitablement un résultat tangible des activités de von Oppenheim.

Max von Oppenheim était un idéaliste mais aussi un homme d’esprit pétri de culture politique. Pendant la seconde guerre mondiale, il a résidé à Berlin jusqu’en 1943, avant de s’installer à Dresde. Il est décédé le 15 novembre 1946 des suites d’une pneumonie. Ce “demi-juif”, selon le jargon du Troisième Reich, s’était adressé le 25 juillet 1940 au ministère des affaires étrangères de son pays, en lui adressant un mémorandum. Envoyé au sous-secrétaire d’Etat Theo Habicht, ce mémorandum contenait les grandes lignes d’un projet germano-arabe. A propos de ce projet, l’arabisant et historien du Proche Orient G. Schwanitz écrit: “Max von Oppenheim n’a certes donné aucun titre à son mémorandum mais, s’il fallait en choisir un de pertinent, nous pourrions écrire ‘Révolutionner les territoires musulmans de nos ennemis’”. Deux jours plus tard, le 27 juillet 1940, le sous-secrétaire d’Etat Habicht répond au baron von Oppenheim et lui dit que “les questions soulevées dans son mémorandum sont d’ores et déjà traitées en long et en large par le ministère”.

Ce que visait von Oppenheim en 1940 est entièrement résumé dans l’introduction à son mémorandum: “Comme directeur des informations pour l’Orient auprès du ministère des affaires étrangères et, plus tard, auprès de notre ambassade à Constantinople pendant la Grande Guerre, je me permets, à l’heure où la guerre contre l’Angleterre entre dans sa phase décisive, de proposer ce qui suit: le moment est venu pour nous d’oeuvrer avec énergie contre l’Angleterre au Proche Orient. Deux tâches m’apparaissent urgentes: 1) Fournir à Berlin des informations directes et fiables venues du Proche Orient; 2) Il convient de révolutionner d’abord la Syrie contre les projets d’occupation des Anglais, ensuite de pratiquer la même politique dans les régions arabes voisines comme l’Irak, la Transjordanie, la Palestine et l’Arabie Saoudite. L’objectif serait de clouer là-bas un maximum de forces britanniques, de géner l’exportation de pétrole et, ainsi, d’handicaper sérieusement l’approvisionnement des flottes commerciales et militaires de la Grande-Bretagne, de paralyser le trafic maritime sur le Canal de Suez et de le bloquer pour les Anglais et, finalement, d’anéantir la domination britannique sur le Proche Orient”.

(article anonyme paru dans DNZ, Munich, n°51/2011).

 

dimanche, 01 janvier 2012

Cina e Giappone abbandonano il dollaro

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Cina e Giappone abbandonano il dollaro

 

di Enrico Piovesana

Fonte: eilmensile.it

Giornali e Tg non ne parlano, ma per gli ambienti finanziari globali è la notizia-bomba di queste festività natalizie: la seconda e la terza economia mondiale, Cina e Giappone, hanno siglato un accordo che prevede l’abbandono del dollaro americano come valuta utilizzata negli scambi commerciali tra le due nazioni asiatiche, consentendo quindi un interscambio direttamente in yen e yuan.

 

Finora, circa il 60 per cento degli scambi commerciali tra Cina e Giappone vengono regolati in dollari. L’intesa, siglata lunedì a Pechino al termine dell’incontro tra il premier cinese Wen Jiabao e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda, è un chiaro segnale di sfiducia delle due potenze economiche asiatiche nei confronti della travagliata area euro-dollaro.

 

Questa mossa viene interpretata dagli economisti come il primo passo concreto del governo di Pechino per far diventare la moneta cinese, lo yuan (o renminbi), una valuta di riserva globale sostitutiva al dollaro. Cosa attualmente non ancora possibile, vista la non completa convertibilità della valuta cinese.

 

Per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, il patto Cina-Giappone rappresenta una sfida che evidenzia l’importanza di una ”Europa unita e di una moneta comune che ci dà buone chanches di perseguire i nostri interessi e l’opportunità di realizzarli a livello mondiale”.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

De la germanophobie au FMI, la bêtise européenne dans toute sa splendeur !

De la germanophobie au FMI, la bêtise européenne dans toute sa splendeur !

Ex: http://www.ladroitestrasbourgeoise.com/

Depuis le début de la crise, on a entendu monter en crescendo un petit refrain : « l’Allemagne payera ! ». On se serait cru revenu à Versailles en 1919. Certes, il aura fallu du temps pour que la sauce prenne, car on ne savait pas bien quoi leurs reprocher aux braves Allemands. Élève modèle de la zone euro, le succès économique de l’Allemagne a certes de quoi exaspérer, il faut bien l’admettre :  4ème économie mondiale, 1ère européenne, elle est aujourd’hui le plus grand exportateur mondial de biens devant les États-Unis et la Chine et enregistrait en 2010 un excédent commercial de 150 milliards d’euros.

Après des reformes draconiennes entreprises  sous le mandat de Gerhard Schröder, les Allemands ont vu, comparativement à leur voisins européens, leur niveau de vie baisser de 20 à 30% en 10 ans. Coupes claires dans les budgets sociaux, retraite à 67 ans et introduction d’une dose de capitalisation, gèle drastique des salaires… Jamais des réformes aussi dures n’avaient étaient mises en œuvre dans un pays afin de restaurer ainsi sa compétitivité.

Mais comme toujours en Europe dès qu’une nation prend l’ascendant, la réaction des voisins ne se pas fait attendre. Lorsque la Grèce a trébuché alors qu’on apprenait qu’aucun de ses citoyens ne s’acquittait de ses impôts,  des voix se sont fait entendre pour réclamer que l’Allemagne paie ! Leur argument était un peu simpliste, puisqu’il reposait sur le postulat que, quels que soient les torts grecs, il n’était que justice que les pays riches payent. Et ce sans se poser la question de savoir si les Allemands n’avaient pas déjà durement, à leur façon, payé cette richesse relative qu’on leur reprocherait presque. Pendant ce temps, d’autres voix, plus grinçantes celles-là, aiguisaient  des arguments plus habiles qui faisaient jouer à l’Allemagne un rôle trouble.

De prime abord, cet argument se tient. Il avance notamment l’idée que l’Allemagne aurait mené une sournoise politique déflationniste, dopant ainsi sa productivité, contre ses partenaires européens en siphonnant leurs plans de relance. Il est vrai que pratiquer la déflation compétitive n’est jamais en soi une bonne solution. Cela écrase les classes populaires et s’avère toujours dangereux à terme, car baisser les salaires étrangle la consommation. C’est d’ailleurs ce qui menace l’Allemagne, maintenant que tous les États se plient à la rigueur. Le seul souci est que ce qui est présenté comme des plans de relance ne sont au fond que des incuries budgétaires affligeantes. L’aberrante loi des 35 heures peut-elle décemment être considérée comme un plan de relance ? La réalité est que l’Allemagne s’appliquait à réarmer son économie pendant que le reste de l’Europe, pays latins en tête, se la coulait douce en profitant des crédits à bas taux que leur offrait un mark miraculeusement transformé en euro pour tous.

Qu’importe ! Vu de France, l’Allemagne reste inexcusable ! Un vent de germanophobie, passablement rance, s’est mis à souffler sur l’hexagone. Tous les chroniqueurs ont repris ce crédo en chœur : « c’est la faute à l’Allemagne ! ». Récemment encore, lorsque Merkel refusa de transformer la BCE en « bad bank », déclinant ainsi l’option de la voir racheter les dettes des Etats, tout le monde lui est tombé dessus. L’Allemagne craignait légitimement de voir la BCE devenir un faux-monnayeur et l’euro, une monnaie de singe. Rien n’y faisait ! Preuve était faite que la rigidité allemande était bien à la source de la crise. Il est pourtant facile de comprendre qu’une Allemagne qui comptera 22 millions de retraités en 2020 ne peut décemment accepter une logique inflationniste dont personne ne saurait prédire l’issue.

Car contrairement au dollar, l’euro n’est pas une monnaie d’échange internationale. Faire tourner la planche à billet aboutira fatalement à une explosion inflationniste. Si trop d’euro étaient imprimés pour financer les dettes (on parle ici de plusieurs centaines de milliards), les fonds souverains russe, chinois ou saoudiens se débarrasseraient immédiatement de leur réserve en devise européenne pour se prémunir des effets de la  dévaluation qui s’ensuivrait. Tout cet afflux soudain de monnaie provoquerait en retour, d’abord une chute vertigineuse de l’euro, ensuite une violente poussée inflationniste. Dévaluation et inflation peuvent être des solutions en soi, mais avec 22 millions de retraités-rentiers (1/4 de la population), une politique exclusivement inflationniste pour l’Allemagne tiendrait lieu d’un suicide collectif.

Les Européens seraient donc mieux inspirés de reconnaitre leurs torts partagés pour se mettre d’accord autour d’une solution offensive contre la prédation des marchés.  Une solution qui pourrait par exemple mélanger un savant dosage de restructuration, d’effacement partiel et de monétarisation de la dette ; le tout dans le cadre d’une politique protectionniste garantie par une dévaluation monétaire maitrisée. Bien évidemment, cette solution mettrait sur la paille un certain nombre de banques qu’il faudrait alors nationaliser.

Mais les grandes banques ne l’entendent pas de cette oreille. Elles veulent qu’on leur rembourse tout sans que le système spéculatif, tel qu’il ne tourne pas rond, ne soit trop bousculé. Plutôt que d’affronter les grands argentiers de la finance transnationale, les dirigeants européens préfèrent s’accuser les uns les autres, en s’apprêtant à abandonner aux plans de coupe budgétaire du FMI les nations les plus faibles.  La veulerie des gouvernants européens est totale et leur égoïsme, coupable.

Car que penser d’autre de l’option, évoquée lors du dernier sommet européen, qui autoriserait la BCE à avancer des fonds au FMI pour que celle-ci prête en retour aux Etats européens en difficulté ? Cette solution, envisagée comme un moyen de contourner rapidement les traités européens et de neutraliser un emballement inflationniste, fait froid dans le dos. Elle reviendrait de facto à abdiquer toute souveraineté européenne. L’Europe ne serait plus alors qu’un spectre politique diaphane, sans consistance, qui exécuterait servilement les consignes des experts anglo-saxons du FMI. La bêtise européenne prendrait alors toute sa splendeur !

Olrik

Unrelenting Global Economic Crisis: A Doomsday View of 2012

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Unrelenting Global Economic Crisis: A Doomsday View of 2012
The economic, political and social outlook for 2012 is profoundly negative

 

Introduction

The economic, political and social outlook for 2012 is profoundly negative. The almost universal consensus, even among mainstream orthodox economists is pessimistic regarding the world economy. Although, even here, their predictions understate the scope and depth of the crises, there are powerful reasons to believe that beginning in 2012, we are heading toward a steeper decline than what was experienced during the Great Recession of 2008 – 2009. With fewer resources, greater debt and increasing popular resistance to shouldering the burden of saving the capitalist system, the governments cannot bail out the system.

Many of the major institutions and economic relations which were cause and consequence of world and regional capitalist expansion over the past three decades are in the process of disintegration and disarray. The previous economic engines of global expansion, the US and the European Union, have exhausted their potentialities and are in open decline. The new centers of growth, China, India, Brazil, Russia, which for a ‘short decade’ provided a new impetus for world growth have run their course and are de-accelerating rapidly and will continue to do so throughout the new year.

The Collapse of the European Union

Specifically, the crises wracked European Union will break up and the de facto multi-tiered structure will turn into a series of bilateral/multi-lateral trade and investment agreements. Germany , France , the Low and Nordic countries will attempt to weather the downturn. England - namely the City of London, in splendid isolation, will sink into negative growth, its financiers scrambling to find new speculative opportunities among the Gulf petrol-states and other ‘niches’. Eastern and Central Europe, particularly Poland and the Czech Republic , will deepen their ties to Germany but will suffer the consequences of the general decline of world markets. Southern Europe ( Greece , Spain , Portugal and Italy ) will enter into a deep depression as the massive debt payments fueled by savage assaults on wages and social benefits will severely reduce consumer demand.

Depression level unemployment and under-employment running to one-third of the labor force will detonate year-long social conflicts, intensifying into popular uprisings. Eventually a break-up of the European Union is almost inevitable. The euro as a currency of choice will be replaced by or return to national issues accompanied by devaluations and protectionism. Nationalism will be the order of the day. Banks in Germany , France and Switzerland will suffer huge losses on their loans to the South. Major bailouts will become necessary, polarizing German and French societies, between the tax-paying majorities and the bankers. Trade union militancy and rightwing pseudo ‘populism’ (neo-fascism) will intensify the class and national struggles

A depressed, fragmented and polarized Europe will be less likely to join in any Zionist inspired US-Israeli military adventure against Iran (or even Syria ). Crises ridden Europe will oppose Washington ’s confrontationalist approach to Russia and China .

The US : The Recession Returns with a Vengeance

The US economy will suffer the consequences of its ballooning fiscal deficit and will not be able to spend its way out of the world recession of 2012. Nor can it count on ‘exporting’ its way out of negative growth by turning to previously dynamic Asia, as China, India and the rest of Asia are losing economic steam. China will grow far below its 9% moving average. India will decline from 8% to 5% or lower. Moreover, the Obama regime’s military policy of ‘encirclement’, its economic policy of exclusion and protectionism will preclude any new stimulus from China .

Militarism Exacerbates the Economic Downturn

The US and England will be the biggest losers from the Iraqi post war economic reconstruction. Of $186 billion dollars in infrastructure projects, US and UK corporations will gain less than 5% (Financial Times, 12/16/11, p 1 and 3). A similar outcome is likely in Libya and elsewhere. US imperial militarism destroys an adversary, plunging into debt to do so, and non-belligerents reap the lucrative post-war economic reconstruction contracts.

The US economy will fall into recession in 2012 and the “jobless recovery of 2011” will be replaced by a steep increase of unemployment in 2012. In fact, the entire labor force will shrink as people losing their unemployment benefits will fail to register.

Labor exploitation (“productivity”) will intensify as capitalists force workers to produce more, for less pay, thus widening the income gap between wages and profits.

The economic downturn and growth of unemployment will be accompanied by savage cuts in social programs to subsidize financially troubled banks and industries. The debates among the parties will be over how large the cuts to workers and retirees will be to secure the ‘confidence’ of the bondholders. Faced with equally limited political choices, the electorate will react by voting out incumbents, abstaining and via spontaneous and organized mass movements, such as the “occupy Wall Street” protest. Dissatisfaction, hostility and frustration will pervade the culture. Democratic Party demagogues will scapegoat China ; the Republican Party demagogues will blame the immigrants. Both will fulminate against “the Islamo-fascists” and especially against Iran .

New Wars in the Midst of Crises: Zionists Pull the Trigger

The ‘52 Presidents of the Major American Jewish Organizations’ and their “Israel First” followers in the US Congress, State Department, Treasury and the Pentagon will push for war with Iran . If they are successful it will result in a regional conflagration and world depression. Given the extremist Israeli regime’s success in securing blind obedience to its war policies from the US Congress and White House, any doubts about the real possibility of a major catastrophic outcome can be set aside.

China: Compensatory Mechanisms in 2012

China will face the global recession of 2012 with several possibilities of ameliorating its impact. Beijing can shift toward producing goods and services for the 700 million domestic consumers currently out of the economic loop. By increasing wages, social services and environmental safety, China can compensate for the loss of overseas markets. China ’s economic growth, which is largely dependent on real estate speculation, will be adversely affected when the bubble is burst. A sharp downturn will result, leading to job losses, municipal bankruptcies and increased social and class conflicts. This can result in either greater repression or gradual democratization. The outcome will profoundly affect China ’s market - state relations. The economic crisis will likely strengthen state control over the market.

Russia Faces the Crises

Russia ’s election of President Putin will lead to less collaboration in backing US promoted uprisings and sanctions against Russian allies and trading partners. Putin will turn toward greater ties with China and will benefit from the break-up of the EU and the weakening of NATO.

The western media backed opposition will use its financial clout to erode Putin’s image and encourage investment boycotts though they will lose the Presidential elections by a big margin. The world recession will weaken the Russian economy and will force it to choose between greater public ownership or greater dependency on state funds to bail out prominent oligarchs.

The Transition 2011 – 2012: From Regional Stagnation and Recession to World Crises

The year 2011 laid the groundwork for the breakdown of the European Union. The crises began with the demise of the Euro, stagnation in the US and the outbreak of mass protests against the obscene inequalities on a world scale. The events of 2011 were a dress rehearsal for a new year of full scale trade wars between major powers, sharpening inter-imperialist struggles and the likelihood of popular rebellions turning into revolutions. Moreover, the escalation of Zionist orchestrated war fever against Iran in 2011 promises the biggest regional war since the US-Indo-Chinese conflict. The electoral campaigns and outcomes of Presidential elections in the US , Russia and France will deepen the global conflicts and economic crises.

During 2011 the Obama regime announced a policy of military confrontation with Russia and China and policies designed to undermine and degrade China ’s rise as a world economic power. In the face of a deepening economic recession and with the decline of overseas markets, especially in Europe , a major trade war will unfold. Washington will aggressively pursue policies limiting Chinese exports and investments. The White House will escalate its efforts to disrupt China ’s trade and investments in Asia, Africa and elsewhere. We can expect greater US efforts to exploit China ’s internal ethnic and popular conflicts and to increase its military presence off China ’s coastline. A major provocation or fabricated incident in this context is not to be excluded. The result in 2012 could lead to rabid chauvinist calls for a costly new ‘Cold War’. Obama has provided the framework and justification for a large-scale, long-term confrontation with China . This will be seen as a desperate effort to prop up US influence and strategic positions in Asia . The US military “quadrangle of power” – US-Japan-Australia-South Korea – with satellite support from the Philippines , will pit China ’s market ties against Washington ’s military build-up.

Europe: Deeper Austerity and Intensified Class Struggle

The austerity programs imposed in Europe, from England to Latvia to southern Europe will really take hold in 2012. Massive public sector firings and reduced private sector salaries and job opportunities will lead to a year of permanent class warfare and regime challenges. The ‘austerity policies’ in the South, will be accompanied by debt defaults resulting in bank failures in France and Germany . England ’s financial ruling class, isolated from Europe, but dominant in England , will insist that the Conservatives ‘repress’ labor and popular unrest. A new tough neo-Thatcherite style of autocratic rule will emerge; the Labor-trade union opposition will issue empty protests and tighten the leash on the rebellious populace. In a word, the regressive socio-economic policies put in place in 2011 have set the stage for new police-state regimes and more acute and possibly bloody confrontations with workers and unemployed youth with no future.

The Coming Wars that Ends America “As We Know It”

Within the US , Obama has laid the groundwork for a new and bigger war in the Middle East by relocating troops from Iraq and Afghanistan and concentrating them against Iran . To undermine Iran , Washington is expanding clandestine military and civilian operations against Iranian allies in Syria , Pakistan , Venezuela and China . The key to the US and Israeli bellicose strategy toward Iran is a series of wars in neighboring states, world- wide economic sanctions , cyber-attacks aimed at disabling vital industries and clandestine terrorist assassinations of scientists and military officials. The entire push, planning and execution of the US policies leading up to war with Iran can be empirically and without a doubt attributed to the Zionist power configuration occupying strategic positions in the US Administration, mass media and ‘civil society’.

A systematic analysis of American policymakers designing and implementing economic sanctions policy in Congress finds prominent roles for such mega-Zionists (Israel-Firsters) as Ileana Ros-Lehtinen and Howard Berman; in the White House, Dennis Ross in the White House, Jeffrey Feltman in the State Department, and Stuart Levy, and his replacement David Cohen, in the Treasury. The White House is totally beholden to Zionist fund raisers and takes its cue from the ‘52 Presidents of the Major American Jewish Organization. The Israeli-Zionist strategy is to encircle Iran , weaken it economically and attack its military. The Iraq invasion was the US ’s first war for Israel ; the Libyan war the second; the current proxy war against Syria is the third. These wars have destroyed Israel ’s adversaries or are in the process of doing so.

During 2011, economic sanctions, which were designed to create domestic discontent in Iran , were the principle weapon of choice. The global sanctions campaign engaged the entire energies of the major Jewish-Zionist lobbies. They have faced no opposition from the mass media, Congress or the White Office. The Zionist Power Configuration (ZPC) has been virtually exempt from criticism by any of the progressive, leftist and socialist journals, movements or grouplets – with a few notable exceptions. The past year’s re-positioning of US troops from Iraq to the borders of Iran , the sanctions and the rising Big Push from Israel ’s Fifth Column in the US means expanded war in the Middle East . This likely means a “surprise” aerial and maritime missile attack by US forces. This will be based on a concocted pretext of an “imminent nuclear attack” concocted by Israeli Mossad and faithfully transmitted by the ZPC to their lackeys US Congress and White House for consumption and transmission to the world. It will be a destructive, bloody, prolonged war for Israel ; the US will bear the direct military cost by itself and the rest of the world will pay a dear economic price. The Zionist-promoted US war will convert the recession of early 2012 into a major depression by the end of the year and probably provoke mass upheavals.

Conclusion

All indications point to 2012 being a turning point year of unrelenting economic crisis spreading outward from Europe and the US to Asia and its dependencies in Africa and Latin America . The crisis will be truly global. Inter-imperial confrontations and colonial wars will undermine any efforts to ameliorate this crisis. In response, mass movements will emerge moving over time from protests and rebellions, and hopefully to social revolutions and political power.


James Petras is a frequent contributor to Global Research.  Global Research Articles by James Petras

samedi, 31 décembre 2011

Irak: de geheime 'vuile' oorlog van de VS

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Irak: de geheime 'vuile' oorlog van de VS

Ex: http://www.dewereldmorgen.be/
 
"It’s time for 'no more Mr Nice Guy'", aldus een neoconservatieve strateeg in 2003. "Al die mensen die schreeuwen, ’Weg met Amerika!’ en dansen in de straat als Amerikanen wordt aangevallen? We moeten hen vermoorden." En dat is ook ten overvloede gebeurd. Met de counterinsurgency strategie van de VS en de duistere krachten die de bezetting van Irak tot de grootste hel op de planeet hebben gemaakt.

 

"Opstandelingen in Irak hebben het recht om de Amerikaanse troepen het land uit te dwingen", vertelde Commander General Sir Michael Rose in het BBC programma Newsnight. Hij riep de VS en het VK ook op om hun "nederlaag toe te geven" en de vijandelijkheden te staken in deze “hopeloze oorlog".

De Iraakse opstandelingen zullen hun verzet nooit opgeven, zei hij. "Ik excuseer ze niet voor sommige van de verschrikkelijke dingen die ze doen, maar ik begrijp waarom ze zich verzetten." Op 9 januari 2006 deed Sir Michael Rose een oproep om Tony Blair af te zetten wegens de invasie van Irak in 2003. Hij zei: "Het zou aan niemand mogen worden toegestaan om zijn verantwoordelijkheid te ontlopen als duidelijk wordt dat hij een oorlog heeft ontketend op grond van leugens en drogredenen."

Preventieve mensenjacht

De Amerikaanse en Britse legers, geconfronteerd met een felle weerstand, maar niet bereid om hun nederlaag toe te geven, veranderden drastisch hun tactiek, zoals beschreven door Seymour Hersh in The New Yorker op 15 december 2003: "Een Amerikaanse adviseur zei: 'De enige manier waarop we kunnen winnen, is om over te schakelen op onconventionele middelen. We zullen hun spel moeten spelen. Guerrilla versus guerrilla, terrorisme versus terrorisme. We moeten de Irakezen terroriseren en tot onderwerping dwingen."

(...) "De voorgenomen nieuwe operatie, de zogenaamde 'preemptive manhunting': 'preventieve mensenjacht', zoals een Pentagon-adviseur het noemde - heeft het potentieel om Irak in een (Vietnam) Phoenix Program-scenario te doen belanden' (...) We hebben een meer onconventionele reactie nodig, maar het zal ‘bloedig’ worden".

Bloedig ... Inderdaad. En niet gerapporteerd in de westerse mainstream pers. De Verenigde Staten en Groot-Brittannië organiseerden een 'preventieve mensenjacht' en gebruikten Israël, Iraanse en Iraakse proxykrachten om miljoenen Irakezen te brutaliseren, gevangen te zetten, te martelen en te vermoorden. Miljoenen anderen werden verdreven uit hun huizen, ontheemd en in ballingschap gedreven.

Op 6 november 2003 kopte The New York Times dat de VS had besloten om Iraakse milities in te zetten: "De Amerikaanse bewindvoerder in Irak, Paul Bremer, heeft voorwaardelijke steun verleend aan de oprichting van een Iraaks-geleide paramilitaire strijdkracht om verzetsstrijders op te sporen die ontsnappen aan Amerikaanse troepen. Het zou bestaan uit voormalige leden van de veiligheidsdiensten en milities van politieke partijen."

Drie miljard dollar voor moord en terreur

Op 1 januari 2004 meldde Robert Dreyfuss (nvdr: freelance onderzoeksjournalist) dat de Amerikaanse overheid van plan was om paramilitaire eenheden te creëren, bestaande uit militieleden van de Iraakse Koerden en groepen in ballingschap waaronder de Badr-brigades, het Iraakse National Congress van Ahmed Chalmabi en het Iraakse National Accord van Iyad Allawi, om een campagne op te zetten van terreur en standrechtelijke moorden, vergelijkbaar met het Phoenix-programma in Vietnam: de terreur en moordcampagne die tienduizenden burgers heeft gedood.

"Onderdeel van een geheim fonds van 3 miljard dollar, verscholen in het krediet van 87 miljard dollar voor de oorlog in Irak dat werd goedgekeurd door het Amerikaanse Congres begin november 2003, is bestemd voor de oprichting van een paramilitaire eenheid bemand door milities verbonden met voormalige Iraakse groepen in ballingschap. Experts zeggen dat dit kan leiden tot een golf van buitengerechtelijke executies, niet alleen van gewapende rebellen, maar ook van Iraakse nationalisten, andere tegenstanders van de Amerikaanse bezetting en zou eveneens duizenden burgerslachtoffers onder de Baathisten kunnen maken - tot 120.000 van de naar schatting 2,5 miljoen voormalige Baathpartij-leden in Irak. (...) Het verborgen 3 miljard dollar fonds zal dienen voor geheime ('black') operaties vermomd als een Air Force geclassificeerd programma."

Volgens John Pike, een expert op het gebied van geheime militaire budgetten op www.globalsecurity.org, werd de cash, verspreid over drie jaar, waarschijnlijk rechtstreeks doorgesluisd naar de CIA, waardoor dat agentschap zijn jaarlijks budget van naar schatting 4 miljard dollar met 25 procent zag verhogen.

Operaties in Irak kregen het grootste deel van het geld, de rest diende voor operaties in Afghanistan. Het aantal CIA-officieren in Irak, toen 275, zou aanzienlijk stijgen en worden aangevuld met een groot aantal elite counterinsurgency strijdkrachten van het Amerikaans leger. "Het is tijd voor 'no more Mr Nice Guy'", aldus een neoconservatieve strateeg. "Al die mensen die schreeuwen, ’Weg met Amerika!’ en dansen in de straat als Amerikanen wordt aangevallen? We moeten hen vermoorden."

Tijdens de daaropvolgende periode kwamen rapporten aan het licht over doodseskaders en etnische zuiveringen, beschreven in de pers als 'sektarisch geweld', het nieuwe centrale verhaal van de oorlog en de belangrijkste rechtvaardiging voor de voortdurende bezetting. Een deel van het geweld kan spontaan zijn geweest, maar er is overweldigend bewijs dat het grootste deel ervan het resultaat was van de plannen beschreven door verschillende Amerikaanse experts in december 2003.

Rekrutering van doodseskaderveteranen in Latijns-Amerika

Een Alternet-artikel van 16 juni 2004, getiteld 'Hier komen de Death Squad Veterans', vermeldde: "Blackwater USA heeft rekruteurs gestuurd naar Chili, Peru, Argentinië, Colombia en Guatemala om één enkele reden", aldus een inlichtingenofficier in Koeweit, die anoniem wenst te blijven.

"Al deze landen hebben ervaring met vuile oorlogen en ze hebben militairen die goed getraind zijn in het omgaan met interne subversieve elementen. Ze zijn goed thuis in het afdwingen van bekentenissen van gevangenen." Omdat de veiligheidssituatie in Irak verslechterde in het voorjaar van 2004, begon een meer 'doelgerichte werving'.

In juni 2004 nam generaal David H. Petraeus de opdracht ter harte voor het organiseren van opleidingen voor alle Iraakse leger- en politie-eenheden, na hun nederlaag tijdens de sjiitische en soennitische opstanden twee maanden eerder. Gedurende deze periode was hij voor de vorming van de door de regering gesteunde milities in heel Irak die werkzaam waren als antisoennitische doodseskaders, en die het land bijna in een burgeroorlog hadden gestort. In de herfst van 2004 begon Petraeus met de bewapening, uitrusting en de financiering van de speciale politiecommandos, en noemde ze 'A Horse to Back'.

Salvador Option

De eerste verwijzing naar de Salvador Option en een vergelijking met de wreedheden van doodseskaders in Midden-en Latijns-Amerika in de jaren 1980 werd gemaakt door Ghali Hassan (nvdr: Australisch schrijver en activist) op 12 oktober 2004 in zijn artikel: 'Iraqi Democracy: The El Salvador Model': "De kern van de huidige door de VS aangestelde Iraakse overgangsregering (IGC) bestaat uit de Iyad Allawi-groep van ballingen (INA), de Ahmed Chalabi-groep van ballingen (INC), de Peshmergas van de twee Koerdische partijen, en de Badr Brigade (Hoge Raad voor de Islamitische Revolutie in Irak, SCIRI - momenteel de Dawa-partij, meestal van Iraanse afkomst)."

"Bovendien, elke van deze groepen heeft zijn eigen maffia-achtige doodseskaders en banden met de CIA of de Israëlische Mossad. Toen ze naar Irak kwamen met de Amerikaanse invasie, hebben deze vier groepen het recht in eigen handen genomen en vele onschuldige Irakezen vermoord, waaronder honderden Iraakse wetenschappers en leidende figuren van de Iraakse gemeenschap."

"De bezettingsautoriteiten hebben deze misdaden nooit onderzocht. Zij kwamen Irak binnen in het kielzog van de Amerikaanse tanks. Hun relatie met de bezetter is volkomen symbiotisch. Ze opereren naast elkaar in een wederzijdse voordelige relatie met hun Amerikaanse meesters. Ze nemen deel aan de komende verkiezingen, omdat ze willen dat de bezetting voortduurt."

In januari 2005, meer dan een jaar na de eerste rapporten over de planning door het Pentagon van standrechtelijke moorden en paramilitaire operaties, sierde de Salvador Option de pagina's van Newsweek en andere belangrijke nieuwsbronnen. Het uitbesteden van staatsterrorisme aan lokale proxykrachten werd beschouwd als een essentieel onderdeel van een beleid dat erin geslaagd was de totale nederlaag van de door de VS gesteunde regering in El Salvador te voorkomen.

De Amerikaanse troepen rekruteerden de meest criminele lagen van de Iraakse bevolking. Deze Pentagon-huurlingen, getraind door private security companies zoals DynCorp, vormden de sektarische milities die werden gebruikt om Irakezen te terroriseren en te vermoorden en om een burgeroorlog uit te lokken in Irak.

In 2004 publiceerden twee hoge Amerikaanse legerofficieren een lovende recensie over de Amerikaanse proxyoorlog in Colombia: "presidenten Reagan en Bush steunden een kleine, beperkte oorlog terwijl ze probeerden om Amerikaanse militaire betrokkenheid geheim te houden voor het Amerikaanse publiek en de media. Het huidige Amerikaanse beleid ten aanzien van Colombia lijkt deze zelfde vermomde, stille, mediavrije aanpak te volgen".

Volgens Newsweek zou het Pentagon voorstellen om Special Forces te adviseren, ondersteunen, en mogelijk de Iraakse brigades in te zetten ... om soennietische opstandelingen en hun sympathisanten te treffen. (...)"De soennitische bevolking betaalt geen prijs voor de steun die het geeft aan de terroristen. Vanuit hun oogpunt blijft die steun zonder gevolg. We moeten deze houding veranderen."

Van 1984 tot 1986 leidde kolonel James Steele de Advisory Group van het Amerikaanse leger in El Salvador. Hij was er verantwoordelijk voor de oprichting van speciale operationele strijdkrachten op brigadeniveau tijdens het hoogtepunt van het conflict. Deze strijdkrachten, samengesteld uit de meest brutale soldaten die hij ter beschikking had, herhaalden het soort van operaties waarmee Steele vertrouwd was tijdens zijn dienst in Vietnam.

In plaats van zich te richten op een rechtstreekse strijd met het verzet, bestond hun rol er in om aanvallen uit te voeren op de leiding van de 'opstandelingen', hun aanhangers, hun bronnen en basiskampen. In het geval van de 4de Brigade bijvoorbeeld zorgden dergelijke tactieken ervoor dat een 20-man sterke groep verantwoordelijk was voor 60 procent van de totale verliezen toegebracht door de eenheid. Naast zijn ervaring in El Salvador, had Steele de leiding gehad over de omscholing van Panama's veiligheidstroepen na de afzetting van president Manuel Noriega.

De geheime 'smerige' oorlog van de VS in Irak

Het onthult de fundamentele aard van de 'vuile oorlog', zoals in Latijns-Amerika en de ergste uitwassen van de oorlog in Vietnam. Het doel van de vuile oorlog is niet om de echte verzetsstrijders te identificeren, te arresteren en vervolgens te vermoorden. Het doel van vuile oorlog is de burgerbevolking te treffen.

Het is een strategie van staatsterrorisme en collectieve bestraffing tegen een hele bevolking met het doel ze te terroriseren tot onderwerping. Het is een strategie om de band van de mensen met het verzet af te snijden en de steun van het volk voor de guerrilla te breken.

Dezelfde tactiek, gebruikt in Centraal-Amerika en Colombia, werd geëxporteerd naar Irak. Zelfs de architecten van deze vuile oorlogen in El Salvador (ambassadeur John Negroponte en James Steele) en in Colombia (Steven Casteel) werden overgebracht naar Irak om hetzelfde vuile werk te doen. De beruchte Special Police Commandos, waarin doodseskaders zoals de Badr Brigades en andere milities werden opgenomen, werden door hen aangeworven, opgeleid, bewapend en ingezet tegen de Iraakse bevolking.

Amerikaanse troepen zetten een high-tech operationeel centrum op poten voor de Special Police Commandos op een 'geheime locatie' in Irak. Amerikaanse technici installeerden satelliettelefoons en computers met uplinks naar het internet en het American Forces Network. Het commandocentrum had directe verbindingen met het Iraakse ministerie van Binnenlandse Zaken en met alle Amerikaanse basissen in het land.

Toen het nieuws van de wreedheden, begaan door deze troepen in Irak, in de pers verscheen in 2005, zou Casteel een cruciale rol spelen om de schuld voor deze buitengerechtelijke executies te geven aan 'opstandelingen' met gestolen politie-uniformen, voertuigen en wapens.

Hij beweerde ook dat martelingencentra werden beheerd door malafide elementen van het ministerie van Binnenlandse Zaken, zelfs als feiten aan het licht kwamen van martelingen binnen het hoofdkwartier van het ministerie waar hij en andere Amerikanen werkten. Amerikaanse adviseurs van het ministerie van Binnenlandse Zaken hadden hun hoofdkwartier op de 8ste verdieping, direct boven een gevangenis op de 7de verdieping waar martelingen plaatsvonden.

Westerse media medeplichtig aan doofpotoperatie

De kritiekloze houding van de westerse media tegenover Amerikaanse functionarissen zoals Steven Casteel, heeft verhinderd dat er een wereldwijde populaire en diplomatieke verontwaardiging kwam over de enorme escalatie van de vuile oorlog in Irak in 2005 en 2006, in overeenstemming met de 'vermomde, stille, mediavrije aanpak'.

Toen het verhaal van Newsweek in januari 2005 op de frontpagina’s terechtkwam, verscheen generaal Downing, het voormalige hoofd van de Amerikaanse Special Forces, op NBC. Hij zei: "Dit is onder controle van de Amerikaanse strijdkrachten, van de huidige overgangsregering van Irak. Er is geen reden om te denken dat we een moordcampagne zullen meemaken die onschuldige burgers zal treffen."

Binnen de kortste tijd werd Irak echter overspoeld door precies dit soort moordcampagne die heeft geleid tot willekeurige detentie, marteling, buitengerechtelijke executies en de massale uittocht en ontheemding van miljoenen. Duizenden Irakezen zijn verdwenen tijdens de ergste maanden van deze vuile oorlog tussen 2005 en 2007.

Sommigen werden opgepikt door geüniformeerde milities en opgestapeld in vrachtwagens, anderen leken gewoon te verdwijnen. Iraaks minister van Mensenrechten, Wijdan Mikhail, zei dat haar ministerie meer dan 9.000 klachten ontvangen had in 2005 en 2006, alleen al van Irakezen die zeiden dat een familielid was verdwenen. Mensenrechtenorganisaties schatten het totale aantal veel hoger.

Het lot van de vele vermiste Irakezen blijft onbekend. Velen kwijnen weg in een van de beruchte geheime gevangenissen in Irak. De Iraakse regering heeft instructies gegeven aan de veiligheids- en gezondheidscentra om geen aantallen van vermoorde Irakezen meer vrij te geven aan de media. Elke dag werden tientallen lichamen gevonden in Bagdad.

"We zijn niet bevoegd om cijfers te geven, maar ik kan u vertellen dat we iedere dag lichamen van mannen ontvangen en hun identiteit is onbekend", vertelde een arts van het lijkenhuis in Bagdad aan IPS op 19 februari 2008. Elke dag werden tussen 50 en 180 lichamen gedumpt in de straten van Bagdad, op het hoogtepunt van de sektarische moorden. Velen droegen sporen van marteling, zoals het boren van gaten of brandwonden van sigaretten.

Op 30 april 2006 meldde het BRussells Tribunal: "Na exacte telling en documentatie, heeft de Iraakse Organisatie voor follow-up en monitoring bevestigd dat 92 procent van de 3.498 lichamen, gevonden in verschillende regio's van Irak, zijn gearresteerd door ambtenaren van het ministerie van Binnenlandse Zaken. Er was niets bekend over het lot van de arrestanten tot hun doorzeefde lichamen werden gevonden met sporen van afschuwelijke martelingen. Het is betreurenswaardig en beschamend dat deze misdaden worden verzwegen en dat de bevoegde autoriteiten niet de minste moeite doen om deze misdaden te onderzoeken."

Het effect van het negeren van de link tussen de VS en de door Iran gesteunde Badr Brigade milities, de door de VS gesteunde Wolf Brigade en andere speciale politiecommando-eenheden, of de omvang van de Amerikaanse werving, training, leiding en controle van deze eenheden, was verstrekkend.

Het vervormde de perceptie van de gebeurtenissen in Irak gedurende de verdere escalatie van de oorlog. Hierdoor werd de indruk gewekt dat het zinloos geweld door de Irakezen zelf werd geïnitieerd en het verhulde de Amerikaanse hand in de planning en uitvoering van de meest wrede vormen van geweld. Door de toedekking van de misdaden begaan door de Amerikaanse overheid, hebben nieuwsredacties een belangrijke rol gespeeld bij het voorkomen van de publieke verontwaardiging die de verdere escalatie van deze campagne zou kunnen hebben ontmoedigd.

VS verantwoordelijk voor sektarische geweld

De mate van Amerikaans initiatief in de aanwerving, opleiding, de uitrusting, inzet, leiding en controle van de Special Police Commandos maakte duidelijk dat de Amerikaanse trainers en bevelhebbers de parameters bepaalden waarbinnen deze krachten werden gebruikt. Veel Irakezen en Iraniërs waren zeker schuldig aan verschrikkelijke misdaden in de loop van deze campagne.

Maar de eerste en belangrijkste verantwoordelijkheid voor dit beleid en voor de misdaden die eruit voortvloeiden, berust bij de individuen in de civiele en militaire commandostructuur van het Amerikaanse ministerie van Defensie, de CIA en het Witte Huis, die het Phoenix- of Salvador-terreurbeleid in Irak bedachten, goedgekeurd en uitgevoerd hebben.

Het rapport van het Human Rights Bureau van UNAMI (United Nations Assistance Mission for Iraq), uitgebracht op 8 september 2005, geschreven door John Pace, was zeer expliciet en koppelde de campagne van arrestaties, marteling en buitengerechtelijke executies rechtstreeks aan het ministerie van Binnenlandse Zaken en indirect aan de door de VS geleide multinationale strijdkrachten.

John Pace, die Bagdad verliet in januari 2006, vertelde aan The Independent on Sunday dat tot driekwart van de lijken, opgestapeld in mortuarium van de stad, blijk gaven van schotwonden in het hoofd of verwondingen veroorzaakt door drillbits of brandende sigaretten. Veel van de doden, zei hij, werden uitgevoerd door sjiitische moslimgroepen onder de controle van het ministerie van Binnenlandse Zaken.

Het definitieve VN-Mensenrechtenrapport van 2006 beschreef de gevolgen van dit beleid voor de bevolking van Bagdad, terwijl het de institutionele wortels in de Amerikaanse politiek verwaarloosde. Het 'sektarisch geweld' dat Irak overspoelde in 2006 was niet een onbedoeld gevolg van de Amerikaanse invasie en bezetting, maar maakte er integraal deel van uit.

De VS had niet de bedoeling om de stabiliteit en veiligheid te herstellen in Irak. Ze heeft bewust de stabiliteit ondermijnd in een wanhopige poging om via een verdeel-en-heers-politiek het land te pacificeren en zo nieuwe rechtvaardigingen te fabriceren voor onbeperkt geweld tegen Irakezen die nog steeds de illegale invasie en bezetting van hun land bleven afwijzen.

Mensenrechten zijn niet bestemd voor Irakezen

Wat is het antwoord van het OHCHR (Bureau van de Hoge Commissaris voor de Mensenrechten) op deze Iraakse Killing Fields? Hebben ze een speciale rapporteur voor de mensenrechten voor Irak benoemd? Neen, dat deden ze niet. Ze sloten hun ogen en stapten mee in het fantasieverhaal van een 'bloeiende' democratie in Irak, en herhaalden de fictieve Amerikaanse verhalen over algemene verbeteringen voor het Iraakse volk.

Wat kan meer hypocriet en cynisch zijn dan dit citaat op de Irak-pagina van de website van het OHCHR: "Van 2006 tot 2009 heeft het UNAMI Bureau voor de Mensenrechten een aantal opleidingen verzekerd voor het personeel van het ministerie van Mensenrechten, het ministerie van Justitie, ministerie van Binnenlandse Zaken en het ministerie van Defensie over de relevante regelgeving inzake mensenrechten en het internationaal humanitair recht (IHR), en een aantal high-level seminaries gesponsord over de bescherming van de mensenrechten in het kader van de Iraakse strijd tegen het terrorisme."

"Het UNAMI Bureau voor de Mensenrechten en het OHCHR waren ook actief op de verhoging van de capaciteit van het ministerie van mensenrechten en het ministerie van Justitie door het sponsoren van workshops en trainingen voor hun personeel in Bagdad en de provincies voor de normen over detentie en toezicht op de mensenrechten. Ze hebben geholpen (en helpen nog steeds) met de oprichting van een Iraakse Hoge Commissie voor de Mensenrechten, een Centrum voor Vermiste en Verdwenen Personen en een nationaal centrum voor de rehabilitatie van de slachtoffers van foltering."

De wereldgemeenschap heeft duidelijk het Iraakse volk genegeerd. Mensenrechten zijn niet op hen van toepassing.

De criminele nalatigheid van het Internationaal Strafhof

Zelfs het Internationaal Strafhof (ICC) heeft zich afgewend van het Iraakse volk. "Het Bureau van de Speciale Aanklager heeft meer dan 240 klachten ontvangen over de situatie in Irak. (...) De beschikbare informatie bevat geen redelijke aanwijzingen dat coalitietroepen 'de intentie hadden om geheel of gedeeltelijk, een nationale, etnische, raciale of religieuze groep als zodanig te vernietigen', zoals vereist voor de definitie van genocide (artikel 6). De beschikbare informatie bevat ook geen redelijke aanwijzingen om te besluiten tot een misdaad tegen de menselijkheid, dat wil zeggen een wijdverbreide of stelselmatige aanval gericht tegen een burgerbevolking. (...)"

"De beschikbare informatie geeft geen indicatie dat opzettelijke aanvallen op een burgerbevolking hebben plaatsgegrepen. (...) Na analyse van alle beschikbare informatie werd geconcludeerd dat er een redelijke basis bestaat om te geloven dat misdrijven waren begaan die onder de bevoegdheid van de rechtsmacht van het Hof vallen, namelijk opzettelijke moord en onmenselijke behandeling. (...) De beschikbare informatie op dit moment ondersteunt een redelijke basis voor naar schatting 4 tot 12 slachtoffers van opzettelijke moorden en een beperkt aantal slachtoffers van onmenselijke behandeling, in totaal minder dan 20 personen. Zelfs wanneer er een redelijke basis is om te geloven dat er een misdrijf is gepleegd, is dit niet voldoende voor de opening van een onderzoek van het Internationaal Strafhof.”

Aldus het antwoord van de speciale aanklager van het ICC, Luis Moreno-Ocampo, op 9 februari 2006. Merk op dat dit cynische antwoord werd gegeven meer dan een jaar nadat Fallujah en andere steden in Irak met de grond gelijk waren gemaakt. Victor’s justice?

De aard en omvang van de betrokkenheid van verschillende individuen en groepen binnen de Amerikaanse bezettingsstructuur blijft nog steeds een smerig, duister geheim, maar er zijn veel sporen die kunnen worden gevolgd door een serieus onderzoek, in het bijzonder door de bevoegde speciale rapporteurs van de OHCHR.

Feit: elke Iraakse eenheid van de Nationale Politie was verbonden met minstens twee Amerikaanse officieren, meestal Amerikaanse Special Forces-eenheden. In november 2005 waren bijvoorbeeld de Amerikaanse adviseurs, verbonden aan de Wolf Brigade, afkomstig van de 160ste Special Operations Aviation Regiment, bekend als de 'Nightstalkers'.

De 'surge'

In januari 2007 kondigde de Amerikaanse regering een nieuwe strategie aan, de surge van de Amerikaanse gevechtstroepen in Bagdad en de Al-Anbar-provincie. De meeste Irakezen meldden dat deze escalatie van geweld de levensomstandigheden nog erger maakten dan voorheen, omdat de gevolgen ervan werden toegevoegd aan de geaccumuleerde verwoesting van 4 jaar oorlog en bezetting.

Het geweld van de 'surge' resulteerde namelijk in een vermindering met 22 procent van het aantal artsen, waardoor er slechts 15.500 van het oorspronkelijk aantal van 34.000 overbleven in september 2008. Er was eveneens een sterke stijging van het aantal vluchtelingen en intern ontheemden in de periode 2007-2008.

De escalatie van de Amerikaanse vuurkracht in 2007, met inbegrip van een vijfvoudige toename van luchtaanvallen en het gebruik van Spectre Gunships en artillerie als aanvulling op de 'surge', betekende een verwoestende climax na 4 jaren van oorlog en collectieve bestraffing, toegebracht aan het Irakese volk.

Alle door de weerstand gecontroleerde gebieden zouden worden geviseerd met een overweldigende vuurkracht, voornamelijk uit de lucht, totdat de Amerikaanse grondtroepen konden muren bouwen rond wat er nog van elke wijk overbleef en zo elk district zouden isoleren. Het is vermeldenswaard dat generaal Petraeus de vijandelijkheden in Ramadi vergeleek met de Slag om Stalingrad, zonder scrupules dat hij in deze analogie de rol van de Duitse bezetters aannam. Ramadi werd volledig vernietigd zoals Fallujah in november 2004.

Het VN-Mensenrechtencomité vermeldde in zijn verslagen van 2007 de willekeurige en onwettige aanvallen op burgers en civiele woongebieden en vroeg om een onderzoek. Luchtaanvallen duurden onverminderd voort op bijna dagelijkse basis tot augustus 2008, zelfs toen het zogenaamde 'sektarisch geweld' en het aantal Amerikaanse slachtoffers verminderde.

In alle gemelde incidenten waar burgers, vrouwen en kinderen werden gedood, verklaarde het Centcom-persbureau dat de gedode mensen 'terroristen' waren, 'Al Qaeda-militanten' of 'onvrijwillige menselijke schilden'.

Krachten die betrokken zijn bij Special Operations in Irak

Een ander aspect van de 'surge' of escalatie lijkt een toename te zijn geweest in het gebruik van de Amerikaanse Special Forces-moordteams. In april 2008 verklaarde president Bush: "Op dit moment lanceren de Amerikaanse Special Forces iedere nacht meerdere operaties om Al-Qaeda-leiders in Irak te arresteren of te doden".

De NYT meldde op 13 mei 2009: "Toen generaal Stanley McChrystal de leiding overnam van het Joint Special Operations Command in 2003, erfde hij een insulaire, schimmige Commandowerking met een reputatie van wazige partnerschappen met andere legerorganisaties en inlichtingendiensten. Maar in de loop van de komende vijf jaar werkte hij hard, zeggen zijn collega's, om relaties op te bouwen met de CIA en de FBI. (...)"

"In Irak, waar hij de voorbije vijf jaar geheime commando-operaties overzag, zeggen voormalige ambtenaren van de inlichtingendienst dat hij een encyclopedische, zelfs obsessieve, kennis had over het leven van terroristen, en dat hij zijn gelederen agressief aanspoorde om zoveel mogelijk van hen te doden. (...) Het meeste van wat generaal McChrystal heeft gedaan gedurende zijn 33-jarige carrière blijft geheim, met inbegrip van zijn dienst tussen 2003 en 2008 als commandant van het Gemengd Special Operations Command, een elite-eenheid zo clandestien dat het Pentagon jarenlang geweigerd heeft om het bestaan ervan te erkennen."

De geheimzinnigheid rond deze operaties verhinderde een degelijke rapportage, maar zoals bij eerdere Amerikaanse geheime operaties in Vietnam en Latijns-Amerika, zullen we er mettertijd meer over te weten komen.

Een artikel in de Sunday Telegraph in februari 2007 wees in de richting van een duidelijk bewijs dat Britse Special Forces terroristen aanwerven en opleiden als dubbelagenten in de Groene Zone om etnische spanningen te verhogen. Een elite SAS-vleugel, de zogenaamde Task Force Black, met een bloedig verleden in Noord-Ierland, werkt met immuniteit en gebruikt geavanceerde explosieven. Sommige aanvallen worden toegeschreven aan Iraniërs, soennitische opstandelingen of schimmige terroristische cellen, zoals Al Qaeda.

De SWAT-teams (speciale wapens en tactieken), veelvuldig gebruikt in counter-insurgency operaties, moeten high-risk operaties uitvoeren die buiten de mogelijkheden van de reguliere legereenheden vallen, reageren op terrorisme en opstandige activiteiten  ontmoedigen.

Er werd gemeld dat: "Het Foreign Internal Defense Partnership met soldaten van de coalitie vestigt een professionele relatie tussen de Iraakse veiligheids- en coalitietroepen. De opleiding creëert geschikte strijdkrachten. Soldaten van de coalitie werken zij aan zij met de SWAT-teams, zowel in de opleiding en op de missies."

Op 7 oktober 2010 meldde de officiële website van de Amerikaanse troepen in Irak: "Het Basra SWAT-team heeft getraind met verschillende Special Forces eenheden, waaronder de Navy SEALs en de Britse SAS. De 1e Bn., 68e Arm. Regt., die momenteel onder de operationele controle staan van de Division-Zuid. De 1st Infantry Division heeft de taak voor de opleiding van het SWAT-team op zich genomen."

De Facilities Protection Services (FPS), waarin de 'private contractors' of huurlingen zoals Blackwater zijn opgenomen, worden eveneens ingezet in de counter-insurgency operaties. Ellen Knickmeyer van de Washington Post Foreign Service zei op zaterdag 14 oktober 2006 dat de FPS de drijvende kracht was achter de Iraakse doodseskaders. Dahr Jamail en Ali al-Fadhily beweerden dat de FPS, gecreëerd na de invasie van Irak in 2003, was uitgegroeid tot de belangrijkste leverancier van doodseskaders in Irak.

De Iraq Special Operations Forces (ISOF): daar werd in een vorig artikel reeds uitgebreid over bericht.

De verdeel-en-heers-strategie werd ook toegepast door de wisselende steun aan inheemse strijders en milities. Soms werden sjiitische milities (de Badr Brigades, het Mehdi Army van Moqtada-Al-Sadr) gebruikt door de bezetter om 'soennitische' verzetsgroepen te bestrijden en toen die sjiitische milities te sterk werden, bewapenden de VS soennitische groepen.

Een goed voorbeeld daarvan zijn de Sahwa of Awakening-groepen of Zonen van Irak (SOI). The Awakening-groepen ontstonden in 2005 toen soennitische stammen, die eerder hadden gevochten tegen het Amerikaanse leger en Iraakse regeringstroepen, zich verbonden met de Amerikaanse strijdkrachten en wapens, geld en training aanvaardden.

Er wordt geschat dat er in 2008 ongeveer 100.000 Awakening-strijders waren in Irak. Deze milities bestreden niet alleen Al-Qaeda, het was ook een poging van de VS om het Iraakse verzet te breken. In oktober 2008 heeft de Iraakse regering de verantwoordelijkheid voor het betalen van 54.000 leden van de Awakening Councils overgenomen van het Amerikaanse leger.

Conclusie

De 'vuile oorlog' in Irak duurt onverminderd voort. Zelfs toen president Barack Obama het einde van de gevechten in Irak aankondigde en ook nog nadien, opereerden Amerikaanse troepen samen met hun Iraakse collega’s tegen haarden van het Iraaks verzet.

En de huidige door de VS geïnstalleerde regering zal de beproefde tactieken voortzetten zolang er verzet blijft tegen de uitverkoop van het land en er verzet blijft tegen corruptie en de erbarmelijke staat van de infrastructuur, nutsvoorzieningen en het administratief apparaat.

Laten we niet vergeten dat ieder Iraaks ministerie zijn eigen militie heeft. Zo vaardigde de Iraakse regering op maandag 19 december 2011 een arrestatiebevel uit tegen de soennitische vicepresident Tariq Al-Hashimi, omdat hij een doodseskader zou hebben geleid. Dat is wel bijzonder hypocriet, gezien premier Maliki en alle andere ministers ook milities hebben die als doodseskaders opereren.  

Dirk Adriaensens

Dirk Adriaensens is de coördinator van SOS Iraq en lid van het BRussells Tribunal. Tussen 1992 en 2003 leidde hij verschillende delegaties naar Irak om er de effecten van de sancties te observeren. Hij is ook coördinator van de Global Campaign Against the Assassination of Iraqi Academics.

(wordt vervolgd)

Rébellion n°51

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Russie: enquête sur une tentative de déstabilisation

Russie: enquête sur une tentative de déstabilisation

par Olrik

Ex: http://fr.novopress.info/

putin_youth1.jpgLa nouvelle a inondé la toile comme un raz-de-marée. Il suffisait de taper le mot « élections russes » sur un quelconque moteur de recherche pour que des centaines et des centaines de sites ou de blogs reprenant tous la même dépêche – la plupart du temps à peine retouchée – soient recensés. Cette dépêche faisait état, sans ambages, de fraudes massives aux élections législatives russes du 4 décembre et reprenait comme une vérité biblique un obscur sondage attribué à l’ONG « l’Observateur citoyen ». Or ce sondage, qui a été en fait publié par l’institut FOM, n’est désormais curieusement plus en ligne. Après qu’il ait été rendu public par l’ONG animé par Dmitri Orechkine et repris en boucle par toutes les agences de presse de la planète, ce sondage controversé qui mettait « Russie unie », le parti de Medvedev, à 30% au lieu des 49,5 validées par la commission électorale russe n’est donc plus consultable… Notre enquête commence donc par une étrange et inexplicable disparition. Le sondage qui déclencha l’intense bronca médiatique mondiale et légitima à travers toute la Russie une brulante agitation a disparu… La raison en est simple, ce sondage était un faux grossier !

La fraude est-elle réellement ce qu’on en a dit ?

Mais alors qu’en est-il réellement des fraudes qu’une presse occidentale n’a pas manqué de qualifier de massives ? L’ensemble des irrégularités observées par l’ONG Golos, prétendument indépendante, a été recensé sur le site http://www.kartanarusheniy.ru/. Dans une tribune libre publiée sur l’agence de presse RIA Novosti, l’analyste francophone de la vie politique russe, Alexandre Latsa, s’est livré à un examen méticuleux de tous les cas de fraude. Loin de l’hystérie médiatique occidentale, force est de constater que la baudruche d’un vaste truquage électoral se dégonfle immédiatement. Au total, 7780 incidents divers ont été relevés

lors des dernières élections législatives russes. Cependant, si l’on ramène ces cas litigieux à ceux ne concernant que des « plaintes pour fraude au niveau de la comptabilisation des voix », le chiffre s’effondre littéralement pour ne totaliser qu’à peine 437 incidents. Et encore, ces incidents ne concernent à chaque fois que des écarts de 100 à 300 voix tout au plus. Par ailleurs, l’essentiel d’entre eux se concentre dans les régions du Caucase (une zone quasiment en guerre, ceci expliquant peut-être cela) et dans celle de Moscou. Or, en prenant la fourchette haute des voix en litiges simplement sur la ville de Moscou, on totalise à peine 20.000 votes douteux. Peut-on décemment imaginer que 20.000 voix en litige auraient permis au parti Russie unie de doubler son score sur Moscou ? En comparaison, rappelons qu’aux USA 100.000 voix avaient disparu aux législatives de 1982 à Chicago et que 19.000 bulletins litigieux furent comptabilisés à la présidentielle de 2000 rien qu’en Floride.

Après analyse des éléments à charge, rien ne vient établir que cette élection fût outrancièrement truquée ou que le score de Russie unie fût frauduleusement gonflé. Au contraire, le résultat en recul du parti majoritaire, dont la tête de liste était Medvedev et dont d’ailleurs Poutine s’était démarqué, démontrerait plutôt une normalisation du jeu politique – nous rappellerons aux journalistes occidentaux que Poutine n’est plus membre de Russie unie et œuvre actuellement à la création d’un nouveau parti panrusse. En outre, tous les observateurs s’accordent pour reconnaitre que les temps de paroles entre les compétiteurs ont été scrupuleusement respectés, ce qui, cela dit en passant, est malheureusement de moins en moins le cas en Occident et notamment en France. L’existence même de larges manifestations dénonçant la validité des résultats et qui se sont déroulées sans heurts ni violences, prouve à elle seule qu’un niveau supplémentaire de maturité démocratique a été franchi en Russie. Ajoutons encore que des organisations politiques rassemblant à peine 10% des électeurs entrent au parlement au moment même où en France un parti réunissant entre 17 et 20% des intentions de vote n’a et n’aura sans doute aucun député. Il est donc triste de constater que même sur ce terrain, la Russie se trouve en position de donner des leçons de démocratie à un pays comme la France.

L’ONG Golos est-elle aussi indépendante qu’elle le prétend ?

Mais alors pourquoi une telle agitation dans les chancelleries occidentales ? Pour la comprendre, il suffit de renifler qui se cache derrière l’ONG Golos que dirige M. Gregory Melkoyants, au cœur de la polémique. Cette ONG, qui se présente comme indépendante, s’est montrée extrêmement intrusive dans le processus électoral russe sous prétexte de l’observer. L’Observateur citoyen, une autre ONG également très impliquée dans la controverse et souvent citée par les médias occidentaux, se révèle n’être qu’un des multiples pseudopodes de l’ONG Golos. C’est donc bien Golos l’acteur central de l’agitation. Or si l’on remonte les ficelles de son financement, on découvre que Golos est financée non seulement par la Commission européenne, mais aussi et surtout par le gouvernement américain via l’USAID, une officine plus que controversée et soupçonnée de servir de paravent à la CIA. L’association Golos figure également sur la liste des ONG assistées par la National Endowment for Democracy (NED), une fondation qui s’emploie, depuis 1991, à étendre l’influence de Washington dans tout l’espace ex-soviétique et relaie les directives du Conseil de sécurité nationale étatsunien (NSC). Cerise sur le gâteau, les médias russes ont publié un échange mail dans lequel la responsable de Golos demandait aux responsables de l’USAID combien l’ONG pourrait leur facturer « des dénonciations de fraudes et d’abus ». On est ici vraiment loin d’une ONG indépendante !

Qui se cache derrière Alexeï Navalny ?

Bref, tout indique que nous assistons en Russie à une tentative de déstabilisation selon les méthodes bien éprouvées, notamment en Ukraine, des révolutions de couleur. Mais les simples agissements d’une ONG n’auraient pas suffi. Parallèlement à cela, il s’est déployé sur Internet un intense activisme de bloggeurs dont le plus célèbre, Alexeï Navalny, présente un pedigree plus que troublant. Surfant sur la légitime exaspération populaire que suscite en Russie la corruption à tous les niveaux de l’Etat, cet ex-boursicoteur de 35 ans, encore inconnu il y a trois ans, est devenu la figure de proue de l’opposition à Poutine au point d’en faire désormais un candidat crédible à la présidence de la Russie. D’abord proche des Libéraux pro-occidentaux, Navalny a pris part à la « Marche russe », une manifestation annuelle rassemblant les diverses « extrême-droites » russes et organisée par l’ultra-nationaliste Dmitri Demouchkine. Ce surprenant ralliement ne laisse rien au hasard et le journaliste Oleg Kachine l’analyse bien ainsi : « l’opposition libérale peine à rassembler, il va donc chercher les bras là où ils sont, c’est-à-dire auprès des Russes de la classe moyenne qui se sentent menacés par l’immigration».

Seulement voilà, Navalny traine derrière lui des casseroles qui ne manquent pas de plonger les plus sceptiques dans la circonspection. Diplômé de l’université américaine de Yale, il y a suivi le World Fellows Program, un projet créé par le président de l’université Richard Levin en coopération avec l’ancien président mexicain Zedillo (proche de George Soros) afin de « créer un réseau global de leaders émergents ». Ses participants ont l’honneur d’être formés par des agents étatsuniens ou britanniques notoires comme Lord Malloch Brown (ancien du Foreign Office), Aryeh Neier, présidente de l’Open Society Institute de George Soros, ou encore Tom Scholar, l’ancien chef de cabinet de Gordon Brown. Autre révélation à son sujet : après s’être fait piraté sa boite mail, on apprend que Navalny est salarié de l’association américaine NED (toujours elle) et en lien étroit avec Alexandre Belov, le représentant d’une milice xénophobe viscéralement anti Kremlin: l’ex-DPNI. Lorsqu’il s’agit d’alimenter l’instabilité sociale en Russie, toutes les compromissions semblent donc permises ! En outre, nous n’évoquerons pas ici le cas d’Édouard Limonov, gourou punk des Nationaux-bolcheviques russes, dont les gesticulations outrancières et les provocations burlesques auront finalement fait le jeu du très discrédité libéral Garry Kasparov avec qui il finira par s’allier au mépris de toute cohérence politique élémentaire. Sur ce point nous renvoyons nos lecteurs à l’excellent livre d’Emmanuel Carrère « Limonov », aux éditions POL.

Que pèsent réellement les Libéraux ?

Sans s’étendre sur les finalités géopolitiques et économiques attendues d’un telle déstabilisation, il est permis de douter des progrès démocratiques qui pourraient en ressortir. Rappelons que le rapport des forces en Russie est largement défavorable au courant libéral, et ce de manière écrasante. Le parti Iabloko* plafonne à 4% dans les sondages et peine à mobiliser parmi la population russe, même issue de la classe moyenne. Hormis les libéraux minoritaires, l’ensemble des forces politiques ayant pignon sur rue en Russie sont farouchement anti-occidentales. C’est d’ailleurs la seule position commune par-delà le caractère extrêmement hétéroclite des participants aux grands rassemblements de contestation du 11 et 24 décembre – 30.000 et 50.000 manifestants à Moscou, ce qui reste un succès très relatif pour une agglomération de 14 millions d’habitants. On pouvait y voir en grande majorité des Ultra-nationalistes, des Monarchistes russes, des Communistes radicaux du Front de gauche, quelques Anarchistes, des Nationaux-bolcheviques et, noyés au milieu de tout ça, une maigrichonne poignée de Libéraux esseulés. Pire encore, lors du rassemble du 24 décembre dernier, les principales personnalités du courant libéral comme Garry Kasparov ou Alexeï Koudrine ont été copieusement huées par la foule.

Seul l’intrigant Alexeï Navalny semble jouir d’une réelle célébrité en jouant des malentendus et en surfant sur l’exaspération populaire contre la corruption. On est vraiment loin de ce vent libéral et démocratique chanté par les médias occidentaux. Rappelons également que les leaders du KRPF** (parti communiste) et du LDPR** (nationalistes) – qui ne se sont pas privés de contester les résultats des élections législatives – ont qualifié le rassemblement du 12 décembre de « bêtise orange » et de « machination des services secrets américains ». Rien n’indique donc que la déstabilisation profiterait in fine aux forces pro-occidentales. Ce serait même certainement tout le contraire qui adviendrait. La Russie reste un pays convalescent en proie à de vieux démons. La corruption est endémique et les mafias restent puissantes. A l’instar des révolutions arabes, une révolution des neiges ne ferait qu’ouvrir un boulevard aux franges les plus extrémistes et incontrôlables de la société russe.

Olrik

* Parti libéral russe dont la plupart des leaders sont, soit comme Vladimir Ryzhkov salariés par la NED, soit comme Boris Nemtsov en contact régulier avec des sbires du milliardaire américain George Soros.

** Le KRPF et le LDPR sont avec Russie juste (gauche nationaliste) les trois organisations ayant rassemblé suffisamment de suffrages pour siéger au nouveau parlement. Toutes trois, quoiqu’opposées à Russie unie, sont farouchement nationalistes et anti-occidentales.

Guerre de Crimée, première guerre moderne

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Dirk WOLFF-SIMON:

Guerre de Crimée, première guerre moderne

L’historien britannique Orlando Figes vient de dresser un bilan étonnant de la Guerre de Crimée

La seconde moitié du 19ème siècle a été essentiellement ébranlée par trois faisceaux de faits guerriers qui, selon les historiens militaires, ont marqué de manière déterminante l’évolution ultérieure des guerres: il s’agit de la Guerre de Crimée (1853-1856), de la Guerre civile américaine (1861-1865) et les guerres prussiennes/allemandes (Guerre contre le Danemark en 1864, Guerre inter-allemande de 1866 et Guerre franco-allemande de 1870/71).

Pour l’historien anglais Orlando Figes, la Guerre de Crimée, que l’on avait quasiment oubliée, n’est pas un de ces innombrables conflits qui ont marqué le 19ème siècle mais au contraire son conflit central, dont les conséquences se font sentir aujourd’hui encore. Elle a coûté la vie à près d’un million d’êtres humains, a modifié l’ordre politique du monde et a continué à déterminer les conflictualités du 20ème siècle. De nouvelles impulsions d’ordre technique ont animé le déroulement de ce conflit et par là même révolutionné les affrontements militaires futurs de manière fondamentale. Les conséquences techniques de ces innovations se sont révélées très nettement lors de la guerre civile américaine, survenue quelques années plus tard à  peine. Déjà, cette Guerre dite de Sécession annonçait les grandes guerres entre peuples du siècle prochain.

Orlando Figes a récemment consacré un livre à ce chapitre négligé de l’histoire européenne, où la Russie a dû affronter une alliance entre la Turquie, la France et l’Angleterre (O. Figes, “Crimea”, Penguin, Harmondsworth, 2nd ed., 2011). Il nous rappelle fort opportunément que cette guerre a bel et bien constitué le seuil de nos temps présents et un conflit annonçant les grandes conflagrations du 20ème siècle. L’enjeu de ce conflit est bien sûr d’ordre géopolitique mais ses prémisses recèlent également des motivations religieuses de premier plan. Cette guerre a commencé en 1853 par de brèves escarmouches entre troupes turques et russes sur le Danube et en Mer Noire. Elle a pris de l’ampleur au printemps de 1854 quand des armées françaises et anglaises sont venues soutenir les Turcs. Dès ce moment, le conflit, d’abord régional et marginal, dégénère en une guerre entre grandes puissances européennes, qui aura de lourdes conséquences.

Généralement, quand on parle de la Guerre de Crimée, on ne soupçonne plus trop la dimension mondiale qu’elle a revêtu ni l’importance cruciale qu’elle a eu pour l’Europe, la Russie et pour toute cette partie du monde, où, aujourd’hui, nous retrouvons toutes les turbulences contemporaines, dues, pour une bonne part, à la dissolution de l’Empire ottoman: des Balkans à Jérusalem et de Constantinople au Caucase. A l’époque le Tsar russe se sentait appelé à défendre tous les chrétiens orthodoxes se rendant sur les sites de pélèrinage en Terre Sainte; pour lui, la Russie devait se poser comme responsable de leur sécurité, option qui va donner au conflit toute sa dimension religieuse.

Au-delà de la protection à accorder aux pèlerins, le Tsar estimait qu’il était de son devoir sacré de libérer tous les Slaves des Balkans du joug ottoman/musulman. En toute bonne logique britannique, Orlando Figes pose, pour cette raison, le Tsar Nicolas I comme “le principal responsable du déclenchement de cette guerre”. Il aurait été “poussé par une fierté et une arrogance exagérées” et aurait conduit son peuple dans une guerre désastreuse, car il n’avait pas analysé correctement la situation. “En première instance, Nicolas I pensait mener une guerre de religion, une croisade découlant de la mission russe de défendre les chrétiens de l’Empire ottoman”. Finalement, ce ne sont pas tant des Russes qui ont affronté des Anglais, des Français et des Turcs mais des Chrétiens orthodoxes qui ont affronté des catholiques français, des protestants anglais et des musulmans turcs.

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Orlando Figes a réussi, dans son livre, à exhumer les souvenirs confus de cette guerre en retrouvant des témoignages de l’époque. Certains épisodes de cette guerre, bien connus, comme le désastre de la “charge de la brigade légère” ou le dévouement de l’infirmière anglaise Florence Nightingale ou encore les souvenirs du jeune Léon Tolstoï, présent au siège de Sébastopol, sont restitués dans leur contexte et arrachés aux brumes de la nostalgie et de l’héoïsme fabriqué. Son récit sent le vécu et restitue les événements d’alors dans le cadre de notre réalité contemporaine.

Sous bon nombre d’aspects, la Guerre de Crimée a été une guerre conventionnelle de son époque, avec utilisation de canons, de mousquets, avec ses batailles rangées suivant des critères fort stricts de disposition des troupes. Mais, par ailleurs, cette Guerre de Crimée peut être considérée comme la première guerre totale, menée selon des critères industriels. Il faut aussi rappeller qu’on y a utilisé pour la première fois des navires de guerre mus par la vapeur et que c’est le premier conflit qui a connu la mobilisation logistique du chemin de fer. D’autres moyens modernes ont été utilisés, qui, plus tard, marqueront les conflits du 20ème siècle: le télégraphe, les infirmières militaires et les correspondants de guerre qui fourniront textes et images.

Les batailles fort sanglantes de la Guerre de Crimée ont eu pour corollaire une véritable mutation des mentalités dans le traitement des blessés. La décision de la première convention de Genève de 1864, prévoyant de soigner les blessés sur le champ de bataille, de les protéger et de les aider, est une conséquence directe des expériences vécues lors de la Guerre de Crimée. La procédure du triage des blessés, où les médecins présents sur place répartissent ceux-ci en différentes catégories, d’après la gravité de leur cas et la priorité des soins à apporter, selon la situation, a été mise au point à la suite des expériences faites lors de la Guerre de Crimée par le médecin russe Nikolaï Ivanovitch Pirogov. L’infirmière britannique Florence Nightingale oeuvra pour que le traitement des blessés, qui laissait à désirer dans l’armée anglaise, soit dorénavant organisé de manière rigoureuse. Figes rend hommage à cette icône de l’ère victorienne en rappellant que ses capacités se sont surtout révélées pertinentes dans l’organisation des services sanitaires.

Des 750.000 soldats qui périrent lors de la Guerre de Crimée, deux tiers étaient russes. Les civils qui moururent de faim, de maladies ou à la suite de massacres ou d’épurations ethniques n’ont jamais été comptés. On estime leur nombre entre 300.000 et un demi million. Figes évoque également la “Nightingale russe”, Dacha Mikhaïlova Sevastopolskaïa. Dacha, comme l’appelaient les soldats, avait vendu tous ses biens tout au début de la guerre pour acheter un attelage et des vivres: elle rejoignit les troupes russes et construisit le premier dispensaire pour blessés de l’histoire militaire russe. Sans se ménager, elle soigna les blessés pendant le siège de Sébastopol. A la fin de la guerre, elle fut la seule femme de la classe ouvrière à recevoir la plus haute décoration du mérite militaire.

Le principal but de la guerre, pour les Français et les Anglais, était de vaincre totalement la Russie. C’est pourquoi le siège de Sébastopol, havre de la flotte russe de la Mer Noire, constitua l’opération la plus importante du conflit. Le 8 septembre 1855, le port pontique tombe. Et Léon Tolstoi écrit: “J’ai pleuré quand j’ai vu la ville en flammes et les drapeaux français hissés sur nos bastions”. Tolstoï était officier combattant et rédigea, après les hostilités, ses “Souvenirs de Sébastopol”. Un officier français, quant à lui, note dans son journal: “Nous ne vîmes riens des effets de notre artillerie, alors que la ville fut littéralement broyée; il n’y avait plus aucune maison épargnée par nos tirs, plus aucun toit et tous les murs furent détruits”.

Lors des négociations de paix, la Russie n’a pas dû céder grand chose de son territoire mais elle a été profondément humiliée et meurtrie par les clauses du traité. En politique intérieure, l’humiliation eu pour effet les premières réformes qui impliquèrent une modernisation de l’armée et la suppression du servage. Sur le plan historique, il a fallu attendre 1945 pour que la Russie retrouve une position de grande puissance pleine et entière en Europe. Tolstoï l’avait prédit: “Pendant fort longtemps, cette épopée-catastrophe de Sébastopol, dont le héros fut le peuple russe, laissera des traces profondes dans notre pays”. Orlando Figes a réussi à réveiller chez ses lecteurs les souvenirs et les mythes de ce conflit oublié.

Dirk WOLFF-SIMON.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°49/2011; http://www.jungefreiheit.de/ ).

Version allemande du livre d’Orlando Figes: Krimkrieg. Der letzte Kreuzzug, Berlin Verlag, Berlin, 2011, 747 p., 36 euro.

criméegouttmann.gifEn français, on lira avec autant de profit le livre tout aussi exhaustif d’Alain Gouttmann, La Guerre de Crimée 1853-1856. La première guerre moderne, Perrin, Paris, 2003.

 

Gouttmann évoque l’émergence d’un “nouvel ordre international”, suite à cette Guerre de Crimée.

 

 

 

Réflexions sur les manifestations en Russie

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Alexandre Latsa:

Réflexions sur les manifestations en Russie

Ex: http://fr.rian.ru/

L’année 2011 se termine et avec elle un mois de décembre placé sous le signe des  manifestations politiques. Rappelons les faits: suite aux élections du 04 décembre 2012 qui ont entraîné une baisse de Russie Unie et une forte hausse des partis nationalistes ou de gauche, des fraudes électorales ont été dénoncées. Ces fraudes auraient permis au parti au pouvoir et disposant de la ressource administrative, de gonfler son score et de fausser les résultats. Pourtant, près de deux semaines après les élections, alors que des enquêtes sont en cours suite aux plaintes déposées, le nombre de fraudes recensées dans le pays y compris Moscou ne semble pas avoir faussé notablement le scrutin, dont les résultats sont conformes aux nombreux sondages et estimations d’avant et d’après vote.

Revenons aux manifestations: Le 10 décembre 2011, un grand meeting unitaire  d’opposition avait lieu à Moscou, rassemblant 30 à 40.000 personnes. J’ai déjà décrit la relative incohérence politique de cette manifestation qui rassemblait côte à côte des membres de la jeunesse dorée Moscovite, des nationalistes radicaux, des antifascistes, ainsi que des libéraux et des communistes. Souhaiter le départ à la retraite de Vladimir Poutine n’est pas un programme politique, et quand à la tenue de nouvelles élections, on se demande en quoi elle concerne des dizaines de sous-groupuscules politiques non candidats à la représentation  nationale. 

Le 17 décembre le parti d’opposition libérale Iabloko a rassemblé quelques 1.500 partisans, alors que le meme jour qu’un millier de sympathisants du mouvement eurasien et du syndicat des citoyens russes (Профсоюз Граждан России) se réunissaient pour dénoncer les manipulations oranges et rappeler la nécessité d’un état fort. Le lendemain, le 18 décembre, ce sont près de 3.500 militants du parti Communiste qui se sont réunis. Le 10 décembre, lors de la grosse manifestation dopposition, l’un des leaders de l’opposition liberale, Mikhaïl Kassianov, avait affirmé que "Si aujourd'hui nous sommes 100.000, cela pourrait être 1.000.000 demain". Celui ci a appelé à un printemps politique en Russie, un discours étrangement similaire à celui de l’excessif républicain John Mc Cain ces dernières semaines. Pour autant aucune marée humaine n’a  déferlé dans les villes du pays, au grand dam de nombre de  commentateurs occidentaux qui annonçaient déjà l’Armageddon en Russie, et c’est seulement une neige abondante qui a recouvert le pays le 24 décembre, jour de la manifestation unitaire.

Cette journée du 24 décembre n’aura finalement été un succès qu’a Moscou. En province, dans les autres villes de Russie, la mobilisation aura faibli par rapport aux rassemblements du 10 décembre. A Vladivostok, la manifestation a réuni 150 personnes, contre 450 le 10 décembre. A Novossibirsk 800 personnes ont défilé contre 3.000 le 10 décembre. A Tcheliabinsk dans l’Oural, les manifestants étaient moins de 500 contre 1.000 le 10 décembre, à Iekaterinbourg 800 personnes ont manifesté contre 1.000 le 10 décembre dernier. A Oufa, 200 manifestants se sont rassemblés, soit autant que le 10 décembre. Enfin 500 personnes ont défilé à Krasnoïarsk contre 700 le 10 décembre. Notons qu’à Saint-Pétersbourg, haut lieu de la contestation et bastion libéral en Russie, de 3 a 4.000 personnes ont défilé, contre près de 10.000 le 10 décembre dernier. (Sources : Ria-Novosti et Ridus.ru).

Dans la capitale le 24 décembre, 3 meetings différents ont eu lieu. 2.000 nationalistes du parti nationaliste Libéral-Démocrate de Vladimir Jirinovski, et 3.000 sympathisants du politologue Sergueï Kurginyan ont manifesté séparément pour répondre à la "peste orange". Enfin et surtout dans ce qui est sans doute le plus gros meeting d’opposition de l’année, avenue Sakharov, ce sont 40 à 50.000 personnes qui se sont rassemblées. La manifestation de Moscou s’est déroulée sans incidents notables, si ce n’est à la fin du meeting, quand des radicaux d’extrême droite ont tenté de monter sur la tribune en force, alors même que le leader ultra nationaliste Vladimir Tor (dirigeant du mouvement NazDems) avait pris la parole quelques minutes auparavant. On peut du reste se demander pourquoi les nombreux journalistes occidentaux présents n’ont pas relevé le fait que plusieurs milliers de jeunes nationalistes radicaux sifflaient ou criaient "russophobe" en direction de certains orateurs de diverses confessions et scandaient  des slogans tels que: "les russes ethniques de l'avant", ou "donnez la parole aux russes ethniques". Un deux poids deux mesures pour le moins surprenant.

Dans le pays et donc surtout à Moscou, les rassemblements du 24 décembre ont tourné à la  cacophonie politique totale. Les meetings ont de nouveau rassemblé  toutes les composantes politiques les plus improbables, des nationalistes radicaux aux antifascistes, en passant par les libéraux, les staliniens, les activistes gays et lesbiennes ou quelques stars du Show Business russe. Plus surprenant, toujours lors de la manifestation de Moscou, la présence du milliardaire Prokhorov et de l’ancien ministre des finances Aleksei Koudrine, pourtant proche de Vladimir Poutine. Aleksei Koudrine a d’ailleurs pris la parole, ajoutant à la cacophonie ambiante et déclenchant un record de sifflements du public. Pour la première fois un député d’opposition très connu a  mis le doigt sur cette désunion systémique de la soi disant opposition, en quittant la manifestation avant même de prendre la parole. Même son de cloche pour  l’analyste politique Vitali Ivanov, pour qui l'opposition à Vladimir Poutine est une nébuleuse qui mène des conversations de cuisine.

La prochaine grande journée de manifestation devrait avoir lieu en févier, c’est à dire pendant le mois précédant l’élection présidentielle du 4 mars 2012. Pour autant, on imagine difficilement comment Vladimir Poutine ne serait pas réélu et tout d’abord au vu de la situation économique que connaît le pays. La croissance du PIB devrait frôler les 4,5% en 2011 et sans doute autant en 2012. Le taux de chômage est descendu à 6,3%, la dette du pays est faible, inférieure a 10% du PIB, et les réserves de change sont d’environ 500 milliards de Dollars. L’inflation est à la baisse, estimée pour cette année à 6,5% soit son plus faible niveau depuis 20 ans. La Russie est aujourd’hui la 10ieme économie du monde en produit intérieur brut nominal et la 6eme économie mondiale à parité de pouvoir d'achat. Selon les analyses du centre de recherche britannique CBER la Russie devrait être la 4ieme économie de la planète aux environ 2020.

Il est donc très difficile d’imaginer comment la personne jugée directement responsable de ce redressement économique par la majorité des citoyens pourrait ne pas être réélue. Bien sur il est plausible que la vague de mécontentement se reflète dans les scores de la présidentielle de mars 2012, et que Vladimir Poutine ne soit pas élu au premier tour avec 71% des voix, comme en 2004, ou avec 72% des voix, comme Dimitri Medvedev en 2008, dans une Russie en totale euphorie économique. Celui ci devra probablement envisager un score plus proche de celui de mars 2000 (Vladimir Poutine avait obtenu 52% des voix) voire se préparer à un second tour. Si tel est était le cas, il y affronterait probablement le candidat du parti communiste, Guennadi Ziouganov. Un choix cornélien pour les occidentaux, mais qui refléterait parfaitement la tendance électorale initiée par les dernières élections législatives russes qui ont vu les partis de gauche augmenter fortement leur poids électoral.

L’opinion de l’auteur ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction.

 

* Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie". Il collabore également avec l'Institut de Relations Internationales et Stratégique (IRIS), l'institut Eurasia-Riviesta, et participe à diverses autres publications.

American Psychosis: What happens to a society that cannot distinguish between reality and illusion?…

American Psychosis: What happens to a society that cannot distinguish between reality and illusion?…

By Chris Hedges.

Ex: http://www.attackthesystem.com/

 

american_contact_lenses.jpgThe United States, locked in the kind of twilight disconnect that grips dying empires, is a country entranced by illusions. It spends its emotional and intellectual energy on the trivial and the absurd. It is captivated by the hollow stagecraft of celebrity culture as the walls crumble. This celebrity culture giddily licenses a dark voyeurism into other people’s humiliation, pain, weakness and betrayal. Day after day, one lurid saga after another, whether it is Michael Jackson, Britney Spears or John Edwards, enthralls the country … despite bank collapses, wars, mounting poverty or the criminality of its financial class.

The virtues that sustain a nation-state and build community, from honesty to self-sacrifice to transparency to sharing, are ridiculed each night on television as rubes stupid enough to cling to this antiquated behavior are voted off reality shows. Fellow competitors for prize money and a chance for fleeting fame, cheered on by millions of viewers, elect to “disappear” the unwanted. In the final credits of the reality show America’s Next Top Model, a picture of the woman expelled during the episode vanishes from the group portrait on the screen. Those cast aside become, at least to the television audience, nonpersons. Celebrities that can no longer generate publicity, good or bad, vanish. Life, these shows persistently teach, is a brutal world of unadulterated competition and a constant quest for notoriety and attention.

Our culture of flagrant self-exaltation, hardwired in the American character, permits the humiliation of all those who oppose us. We believe, after all, that because we have the capacity to wage war we have a right to wage war. Those who lose deserve to be erased. Those who fail, those who are deemed ugly, ignorant or poor, should be belittled and mocked. Human beings are used and discarded like Styrofoam boxes that held junk food. And the numbers of superfluous human beings are swelling the unemployment offices, the prisons and the soup kitchens.

It is the cult of self that is killing the United States. This cult has within it the classic traits of psychopaths: superficial charm, grandiosity and self-importance; a need for constant stimulation; a penchant for lying, deception and manipulation; and the incapacity for remorse or guilt. Michael Jackson, from his phony marriages to the portraits of himself dressed as royalty to his insatiable hunger for new toys to his questionable relationships with young boys, had all these qualities. And this is also the ethic promoted by corporations. It is the ethic of unfettered capitalism. It is the misguided belief that personal style and personal advancement, mistaken for individualism, are the same as democratic equality. It is the nationwide celebration of image over substance, of illusion over truth. And it is why investment bankers blink in confusion when questioned about the morality of the billions in profits they made by selling worthless toxic assets to investors.

We have a right, in the cult of the self, to get whatever we desire. We can do anything, even belittle and destroy those around us, including our friends, to make money, to be happy and to become famous. Once fame and wealth are achieved, they become their own justification, their own morality. How one gets there is irrelevant. It is this perverted ethic that gave us investment houses like Goldman Sachs … that willfully trashed the global economy and stole money from tens of millions of small shareholders who had bought stock in these corporations for retirement or college. The heads of these corporations, like the winners on a reality television program who lied and manipulated others to succeed, walked away with hundreds of millions of dollars in bonuses and compensation. The ethic of Wall Street is the ethic of celebrity. It is fused into one bizarre, perverted belief system and it has banished the possibility of the country returning to a reality-based world or avoiding internal collapse. A society that cannot distinguish reality from illusion dies.

The tantalizing illusions offered by our consumer culture, however, are vanishing for most citizens as we head toward collapse. The ability of the corporate state to pacify the country by extending credit and providing cheap manufactured goods to the masses is gone. The jobs we are shedding are not coming back, as the White House economist Lawrence Summers tacitly acknowledges when he talks of a “jobless recovery.” The belief that democracy lies in the choice between competing brands and the accumulation of vast sums of personal wealth at the expense of others is exposed as a fraud. Freedom can no longer be conflated with the free market. The travails of the poor are rapidly becoming the travails of the middle class, especially as unemployment insurance runs out. And class warfare, once buried under the happy illusion that we were all going to enter an age of prosperity with unfettered capitalism, is returning with a vengeance.

America is sinking under trillions in debt it can never repay and stays afloat by frantically selling about $2 billion in Treasury bonds a day to the Chinese. It saw 2.8 million people lose their homes in 2009 to foreclosure or bank repossessions – nearly 8,000 people a day – and stands idle as they are joined by another 2.4 million people this year. It refuses to prosecute the Bush administration for obvious war crimes, including the use of torture, and sees no reason to dismantle Bush’s secrecy laws or restore habeas corpus. Its infrastructure is crumbling. Deficits are pushing individual states to bankruptcy and forcing the closure of everything from schools to parks. The wars in Iraq and Afghanistan, which have squandered trillions of dollars, appear endless. There are 50 million Americans in real poverty and tens of millions of Americans in a category called “near poverty.” One in eight Americans – and one in four children – depend on food stamps to eat. And yet, in the midst of it all, we continue to be a country consumed by happy talk and happy thoughts. We continue to embrace the illusion of inevitable progress, personal success and rising prosperity. Reality is not considered an impediment to desire.

When a culture lives within an illusion it perpetuates a state of permanent infantilism or childishness. As the gap widens between the illusion and reality, as we suddenly grasp that it is our home being foreclosed or our job that is not coming back, we react like children. We scream and yell for a savior, someone who promises us revenge, moral renewal and new glory. It is not a new story. A furious and sustained backlash by a betrayed and angry populace, one unprepared intellectually, emotionally and psychologically for collapse, will sweep aside the Democrats and most of the Republicans and will usher America into a new dark age. It was the economic collapse in Yugoslavia that gave us Slobodan Milosevic. It was the Weimar Republic that vomited up Adolf Hitler. And it was the breakdown in Tsarist Russia that opened the door for Lenin and the Bolsheviks. A cabal of proto-fascist misfits, from Christian demagogues to loudmouth talk show hosts, whom we naïvely dismiss as buffoons, will find a following with promises of revenge and moral renewal. And as in all totalitarian societies, those who do not pay fealty to the illusions imposed by the state become the outcasts, the persecuted.

The decline of American empire began long before the current economic meltdown or the wars in Afghanistan and Iraq. It began before the first Gulf War or Ronald Reagan. It began when we shifted, in the words of Harvard historian Charles Maier, from an “empire of production” to an “empire of consumption.” By the end of the Vietnam War, when the costs of the war ate away at Lyndon Johnson’s Great Society and domestic oil production began its steady, inexorable decline, we saw our country transformed from one that primarily produced to one that primarily consumed. We started borrowing to maintain a level of consumption as well as an empire we could no longer afford. We began to use force, especially in the Middle East, to feed our insatiable thirst for cheap oil. We substituted the illusion of growth and prosperity for real growth and prosperity. The bill is now due. America’s most dangerous enemies are not Islamic radicals but those who sold us the perverted ideology of free-market capitalism and globalization. They have dynamited the very foundations of our society. In the 17th century these speculators would have been hung. Today they run the government and consume billions in taxpayer subsidies.

As the pressure mounts, as the despair and desperation reach into larger and larger segments of the populace, the mechanisms of corporate and government control are being bolstered to prevent civil unrest and instability. The emergence of the corporate state always means the emergence of the security state. This is why the Bush White House pushed through the Patriot Act (and its renewal), the suspension of habeas corpus, the practice of “extraordinary rendition,” warrantless wiretapping on American citizens and the refusal to ensure free and fair elections with verifiable ballot-counting. The motive behind these measures is not to fight terrorism or to bolster national security. It is to seize and maintain internal control. It is about controlling us.

And yet, even in the face of catastrophe, mass culture continues to assure us that if we close our eyes, if we visualize what we want, if we have faith in ourselves, if we tell God that we believe in miracles, if we tap into our inner strength, if we grasp that we are truly exceptional, if we focus on happiness, our lives will be harmonious and complete. This cultural retreat into illusion, whether peddled by positive psychologists, by Hollywood or by Christian preachers, is magical thinking. It turns worthless mortgages and debt into wealth. It turns the destruction of our manufacturing base into an opportunity for growth. It turns alienation and anxiety into a cheerful conformity. It turns a nation that wages illegal wars and administers offshore penal colonies where it openly practices torture into the greatest democracy on earth. And it keeps us from fighting back.

Resistance movements will have to look now at the long night of slavery, the decades of oppression in the Soviet Union and the curse of fascism for models. The goal will no longer be the possibility of reforming the system but of protecting truth, civility and culture from mass contamination. It will require the kind of schizophrenic lifestyle that characterizes all totalitarian societies. Our private and public demeanors will often have to stand in stark contrast. Acts of defiance will often be subtle and nuanced. They will be carried out not for short term gain but the assertion of our integrity. Rebellion will have an ultimate if not easily definable purpose. The more we retreat from the culture at large the more room we will have to carve out lives of meaning, the more we will be able to wall off the flood of illusions disseminated by mass culture and the more we will retain sanity in an insane world. The goal will become the ability to endure…..

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La metaphysique de la guerre

La métaphysique de la guerre

par Kerry Bolton

Ex: http://www.counter-currents.com/

medium_chevalier.jpgIl y a un fond commun à toutes les civilisations basées sur la tradition, remontant à des siècles dans le passé et incluant géographiquement les civilisations nées en Asie, en Europe, et même jusqu’en Amérique centrale et en Amérique du Sud. La base de la civilisation traditionnelle est la création de l’ordre à partir du chaos, comme manifestation cosmique et divine. C’est pourquoi la civilisation elle-même était un produit du cosmique, et tous ses aspects avaient une signification métaphysique. Le « droit divin » des rois plaçait la  souveraineté bien au-dessus de la simple politique au sens moderne : le souverain représentait le point central autour duquel gravitaient les parties les plus lointaines des empires. Une autre marque de la civilisation traditionnelle était l’institution des castes qui étaient également  ordonnées d’une manière divine et cosmique : car la caste de quelqu’un représentait sa condition spirituelle, qui avait été pré-ordonnée avant sa naissance physique. Franchir la limite de sa caste revenait à devenir littéralement un « hors caste » ou paria, inférieur même à l’esclave.

La caste guerrière était la plus estimée du point de vue cosmique, car le guerrier était davantage qu’un « soldat » au sens moderne du mot ; il était un guerrier cosmique dont le devoir dharmique (pour utiliser un mot hindou qui a sa contrepartie dans toutes les civilisations traditionnelles) reflétait l’action des dieux eux-mêmes puisque le guerrier  établissait l’ordre dans le royaume terrestre, de même que les dieux avaient triomphé des forces du chaos et établi l’« ordre » en créant le cosmos.

Guerre sainte

Avec cette analogie ésotérique entre le guerrier terrestre et le héros divin, la guerre devenait la guerre sainte, une action transcendant le terrestre et transformant magiquement le guerrier en un être spirituel. La guerre devenait ainsi « la voie du divin ». La caste guerrière avait ses propres rites religieux. Les samouraïs japonais, par exemple, étaient inspirés par le Zen. Les guerriers nordiques étaient dévoués à Odin, Thor ou Tyr. Les guerriers perses et plus tard romains étaient dévoués à Mithra. Krishna enseigna à Arjuna la doctrine guerrière de la violence détachée, qui transforme la bataille en guerre sainte et Arjuna en guerrier divin.

Pour le guerrier des civilisations traditionnelles, la spiritualité de la guerre garantissait la bénédiction de la divinité. Le guerrier qui était tué à la bataille atteignait souvent lui-même l’état divin, ou atteignait du moins la demeure des dieux, pour habiter parmi eux en tant que guerrier divin. Pour les Aztèques, le plus haut siège d’immortalité, la « Maison du Soleil », était le lieu de résidence non seulement des rois mais aussi des héros. Le guerrier hellénique atteignait l’Olympe en tant que héros divin, alors que les autres allaient dans la pénombre de l’Hadès. De même, les guerriers nordiques tués à la bataille continuaient à combattre et à festoyer avec les dieux Ases au Walhalla, pendant que les autres habitaient dans Hel. Le guerrier islamique dont l’âme était purifiée par le djihad habitait au paradis, de même que leurs homologues européens, les chevaliers des Croisades.

Chevalerie

A travers la guerre, les pulsions humaines et chaotiques du guerrier ainsi que son attachement aux choses matérielles étaient transcendés, et son âme était purifiée. C’est le thème commun de l’éthique spirituelle et guerrière de tous les ordres de chevalerie, dans toutes les civilisations traditionnelles. La guerre était la grande initiation, le rite sacré transcendant la condition humaine inférieure.

Le djihad était appelé le Sentier d’Allah. Le Coran dit : « Que ceux qui veulent échanger la vie contre l’Au-delà combattent pour la cause d’Allah ; qu’ils meurent ou qu’ils vainquent, Nous leur donnerons une riche récompense ». Et aussi : « Vous avez l’obligation de combattre, même si cela vous déplaît ». Le détachement personnel conseillé par le Coran est précisément celui que Krishna enseigne à Arjuna, le chef de la caste des kshatriyas : « Offre-moi toutes tes actions et repose ton esprit sur le Suprême ; libéré des vains espoirs et des pensées égoïstes, délivré du doute, jette-toi dans le combat ».

Deux formes de chevalerie se rencontrèrent au Moyen Orient, représentant la même éthique. Pour les Croisés, il ne s’agissait pas d’un combat politique mais d’une guerre sainte qui transcenda bientôt les résultats matériels et les rivalités nationales et politiques, unissant les Européens en un bloc unitaire que l’Occident n’avait pas connu depuis l’Empire romain. De nouveau, la guerre sacrée devenait un moyen d’initiation intérieure, de transcendance ésotérique. A l’époque, la Croisade était décrite en termes métaphysiques analogues à ceux de l’islam et de l’hindouisme : « Une purification qui est presque un feu du purgatoire, qu’on connaît avant la mort ». Saint Bernard fit l’éloge de la gloire de gagner sur le champ de bataille « une couronne immortelle ». Jérusalem était une cité céleste, un point central de la civilisation de l’Occident, de même que toutes les civilisations et tous les empires traditionnels avaient eu un centre. L’éthique spirituelle et guerrière des Croisades s’exprimait dans des maximes comme « Le paradis est à l’ombre des épées » ; et « le sang des guerriers est plus proche de Dieu que l’encre des savants et les prières des dévots ».

Eclipse de la chevalerie

Aujourd’hui, la civilisation occidentale est entrée dans sa phase de mort. Ce n’est pas une civilisation au sens traditionnel ; c’est pourquoi l’éthique spirituelle de la guerre a disparu. La Première Guerre Mondiale, en dépit de la mécanisation de masse et des motifs économiques bassement matérialistes, fut la dernière guerre à présenter des vestiges de chevalerie traditionnelle dans les deux camps ; ces vestiges se manifestèrent par la fraternisation entre combattants ennemis le Jour de Noël, et plus symboliquement par les honneurs rendus aux aviateurs ennemis tués au combat.

La Seconde Guerre Mondiale refléta la nature vile et non-chevaleresque de la guerre non-traditionnelle par excellence : les bombardements de saturation des Alliés sur des villes comme Dresde ; et une motivation purement basée sur une vengeance talmudique étrangère, se manifestant par l’exécution des chefs politiques et militaires des nations vaincues, à Nuremberg [1] et dans des procès similaires.

Dans une certaine mesure, la Waffen SS peut se comparer aux ordres de chevalerie des Croisades ; ce fut la seule formation militaire de la guerre dont l’éthique était fondée sur l’honneur (« Notre honneur s’appelle fidélité »), et en particulier sur le sens de la guerre « sainte » qui transcenda les frontières nationales et attira des volontaires venant de toute l’Europe, tout comme les Croisades l’avaient fait (on pourrait arguer que, dans un sens totalement différent, certains Juifs la considérèrent aussi comme une « guerre sainte »). Si la Waffen SS fut le dernier vestige de la caste guerrière traditionnelle à se manifester dans la civilisation occidentale [2], alors l’incarnation même de la décadence de l’Occident fut sûrement les GI’s américains paradant à travers l’Europe, pillant les trésors culturels [3], violant, détruisant au marteau les sculptures d’Arno Breker qui avaient décoré les jardins publics d’Allemagne, puis se retirant du Vietnam dans l’humiliation et la stupeur des drogués un demi-siècle plus tard.

Notes du traducteur

1. Les chefs nazis furent pendus en octobre 1946, pendant la période de la fête juive de Sukkot (Fête des Cabanes) ; en mars 1953, six ans et demi plus tard, Staline connut une mort suspecte (et opportune) pendant la fête juive de Pourim…

2. Deux réflexions à ce sujet : « Il ne resta aux survivants que la persécution et la répression. Mais on peut parler d’un échec très relatif, et celui qui connaît le sens de la Guerre Sainte sait à quoi nous faisons allusion… » (Ernesto Milà, Nazisme et ésotérisme, 1990). Et aussi : « C’était le prix à payer, le prix du passage » (Jean-Paul Bourre, Le Graal et l’Ordre Noir, Déterna 1999).

3. Plus récemment les GI’s firent la même chose, en pire, avec les trésors archéologiques de l’Irak. En outre ils passèrent au bulldozer la tombe de Michel Aflak, le fondateur (chrétien !) du parti Baas, et mirent à leur tableau de chasse un nombre exceptionnel de journalistes.

Article paru dans le magazine néo-zélandais The Nexus, n° 8, mai 1997.

Lectures conseillees

– Bhagavad-Gita (si possible la traduction d’Anna Kamensky, une des meilleures)

Métaphysique de la guerre (Julius Evola, brochure)

La doctrine aryenne du combat et de la victoire (Julius Evola, brochure)

 


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vendredi, 30 décembre 2011

Een hedendaagse Russische Sneeuwrevolutie?

Een hedendaagse Russische Sneeuwrevolutie?

Ex: http://solidarisme.be/

 


Op zaterdag 10 december betoogden duizenden Russen voor meer democratie en eerlijke verkiezingen. In heel Rusland kwamen volgens sommige bronnen tot 150.000 mensen op de straat. Er waren betogingen in onder andere Moskou, Sint-Petersburg, Vladivostok, Ekaterinburg, Sverdlovsk, Vologda, Petrozavodsk, Jaroslavl, Kostroma, Novokuznetsk, Abakan, Ulan-Ude en Chita. Er kwamen mensen bijeen voor de Russische ambassades in o.a. Washington, Den Haag, Kiev en Tallinn. In Moskou alleen al kwamen zo'n 25.000 mensen op de straat om te protesteren. Het plein werd door de politie volledig afgeschermd e beschermd. De mensen moesten omwille van de veiligheid door een metaaldetector. De politie was aldus goed geplaatst om het aantal manifestanten te tellen. Het Moskouse Bolotnayaplein stond wereldwijd centraal op de agenda. Wat is er daar eigenlijk aan de hand? Wie zijn de demonstranten? In dit stuk wordt gesproken over de verkiezingen, de machtsverhoudingen, de Russische geopolitiek en de 'revolutie'.

De geopolitieke denktank Euro-Rus blijft neutraal!

Voor we verder gaan, moet er toch iets belangrijks gezegd worden. De geopolitieke denktank 'Euro-Rus' verbindt zich in geen enkel geval aan een of ander regime. De denktank 'Euro-Rus' propageert bepaalde geopolitieke assen omdat deze nu eenmaal in de belangen van ons volk en de andere Europese volkeren ageren. Doet een bepaald regime iets goeds, dan verdient dit onze steun. Zoniet, dan is het andersom. Eenvoudig maar duidelijk.

Verkiezingen en Westerse (Amerikaanse) controle

Op 4 december organiseerde de Russische staat parlementsverkiezingen. Tijdens deze verkiezingen verloor de heersende partij, Edinaya Rossiya (Verenigd Rusland), redelijk wat terrein. Zij daalden naar 49,3% van de stemmen. Tijdens de laatste verkiezingen behaalde de partij nog 64% van de stemmen. De daling is opmerkelijk. Maar laten we toch niet vergeten dat deze machtspartij nog steeds de helft van de stemmen behaalt. Medvedev, Poetin & co moeten aldus redelijk zwaar inleveren. De uitslag kwam aan als een electroshock. De liberale nationalisten van Zjirinovsky (LDPR) behaalden 12,0% en de (nationalistische!) communisten 19,2%. Het liberale, door de VS gesteunde, Yabloko behaalde amper 3,43% van de stemmen.

We kunnen een ding duidelijk stellen: tijdens elke verkiezing, waar ook ter wereld, wordt gesjoemeld. Men kan ervan uitgaan dat dit aldus ook in Rusland is gebeurd. In Rusland werden ooit kiesurnen in het verre achterland gewoon voor de (verborgen) camera bijgevuld met zakken vol bijkomende stembiljetten. Maar dat zien we tenminste nog, in het Westen vervalst men het resultaat tegenwoordig door middel van computersoftware. Met de computer kan een bepaald systeem veel beter de cijfers vervalsen dan daar waar gestemd wordt met potlood. Indien verkiezingen iets zouden veranderen, dan zou men ze gewoon afschaffen, luidt het adagium hier. George Bush Junior (Bilderbergersfavoriet) werd zo jaren geleden verkozen door enorme fraude met 'ontbrekende' stemmen.

Uiteraard moest het Westen via de OSCE waarnemers sturen om te zien of de verkiezingen wel eerlijk verlopen. Op het net kon men lezen hoe ook Vlaams Belangers (een kleine Vlaamsnationale partij met een uitgesproken anti-Russisch en een pro-USA en pro-Israël-programma) 'her en der fraude hebben vastgesteld' (dixit Peter Logghe, volksvertegenwoordiger Vlaams Belang, van 30 november tot en met 5 december in Rusland). Ook Amerika- en Israëlvriend Tanguy Veys bevond zich in Rusland. Om een goede analyse te maken moet men de lokale taal spreken, hopelijk beheersen de gezegende Europese 'gerechtsdeurwaarders' behoorlijk de Russische taal opdat hun zintuigen de juiste interpretatie konden geven aan wat ze beleefden. De twee laatstgenoemden eisen terecht dat in Vlaanderen het Nederlands wordt gesproken wat betreft de officiële gang van zaken. Consequent met dit principe mag men verwachten dat beide hoffelijke heren het Russisch machtig zijn om ginder ter plaatse de rol van objectieve 'gerechtsdeurwaarder' op zich te nemen. Toch?

'Revolutionaire' lucht

Vorig jaar begreep ik al dat er in Rusland een bepaalde vorm van revolutie in de lucht hing. Op het Manezhnaya (rond het Kremlin) kwamen duizenden jongeren bij elkaar om te protesteren tegen de 'etnische criminaliteit'. Men moet weten dat het aantal immigranten in Moskou jaarlijks zeer sterk toeneemt. Parallel met dit sociaal-economisch fenomeen neemt ook de criminaliteit sterk toe. Toen vorig jaar voor de derde keer in relatief korte tijd een Russische voetbalsupporter door niet-Russen werd vermoord, besloten de Russische jongeren op de straat te komen. In verschillende steden kwamen ze massaal op de straat met het Moskouse Manezhnaya als hoogtepunt, met zo'n 7.000 betogers. De overheid reageerde hier nogal brutaal op. De oproerpolitie handelde zeer hard. Er verschenen foto's waar de Russische oproerpolitie (OMON) Russische vlaggen van de jongeren afnam en deze met de laarzen voor hun neus vernietigden. Het was toen heel duidelijk dat de Russische jeugd op punt staat om de revolutionaire weg op te gaan. De verkeerde reactie van de OMON werkt de revolutionaire drang verder aan.

Hierbij komt nog dat de crisis wereldwijd voelbaar is, dus ook in Rusland. Rusland heeft een ultra-kapitalistisch economisch systeem. 'Geen werk' betekent 'geen inkomen'. Behalve in de regio Moskou en Sint-Petersburg, leeft een belangrijk deel van de Russische bevolking in minder luxueuze omstandigheden.

Langs de andere kant blijven oligarchen miljarden dollars binnenrijven dankzij het verder plunderen van de Russische bodemschatten. Rijkeluis Abramovich kocht, om zijn tijd te verdrijven, een jacht waarmee men met de aankoopsom in een dorp voor iedereen een huis zou kunnen kopen. De Russen weten dit ook. Nu de crisis en de criminaliteit toenemen, neemt ook het gemor en het luider wordend protest toe.

Vergelijkingen met vroeger

We kunnen een historische vergelijking maken. In 1917 maakte het beleid verschillende belangrijke vergissingen. Tsaar Nicolaas II werd door sommigen van zijn entourage opzettelijk geboycot met onder andere een hongersnood tot gevolg. De bureaucraten van de regering van Tsaar Nicolaas II reageerde laks op deze rampzalige situatie. Buitenlandse machten speelden in op de begrijpelijke onvrede. Lenin werd vanuit New York over Zürich, doorheen heel Duitsland, opgestuurd om het regime te vervangen. Deze Amerikaanse putch eindigde in de Russische Oktoberrevolutie. De rode droom van Lenin werd al spoedig een rode nachtmerrie.

Vandaag stellen we vast dat:

enerzijds het Russisch beleid een paar zware vergissingen begaat;

anderzijds de VS door middel van lobbies inspelen op de onvrede.

Men mag ervan uitgaan dat de door de VS geprogrammeerde droom ook in Rusland spoedig een nachtmerrie zal worden. Tot hier onze vergelijking met de Russische Revolutie van 1917.

President Poetin en democratie

Toen president Poetin in het jaar 2000 aan de macht kwam, herbouwde en hervormde hij de Russische staat met enig succes. De chaos die voormalig president Jeltsin naliet, werd omgevormd tot begeleide orde. De Russen zagen hun inkomen en zekerheden stijgen. Rusland bevond zich bij zijn aanstelling onder het economisch niveau van het arme Portugal. In 10 jaar Poetin steeg het gemiddelde inkomen zeer sterk. Vandaag verdient een metrobestuurder 1.500 euro per maand. (Dit heb ik zelf in 2008 al zien uithangen in de metrostations, om exact te zijn 66.000 roebel netto.)

Poetins grootste krachttoer was echter het bij elkaar houden van Rusland. De CIA plande openlijk een verdeling van Rusland en dit ten laatste in 2005. Daarvan kwam gelukkig niets in huis.

De prijs voor het stijgen van de Russische welvaart werd betaald door een mindere aanwezigheid van de 'democratie'. De Russen vonden dit niet zo erg. Ze verkozen zekerheden boven democratie. Toen een tijdje geleden de voedselprijzen enorm begonnen te stijgen, verbood president Poetin elke vorm van prijsverhoging in de winkels.

In het Westen weten we ondertussen al wat dit begrip inhoudt. 'Demo(n)cratie' betekent: de rijken aan de macht. 'Democratie' is het Westen zoals het monster van Loch Ness: iedereen spreekt erover maar niemand heeft het ooit gezien. Het moet gezegd worden: Rusland is nog steeds veel democratischer dan de Europese (Sovjet-)Unie.

De oligarchen bleven en blijven het land wel leegroven. Michail Khodorchovsky werd in de gevangenis gestopt. De man leefde goed met zijn van het volk geplunderde buit en was zo gek om tegen de schenen van de Russische macht te schoppen. Hij vloog per direct naar een Siberische gevangenis en leerde er ondertussen al zelf kousen te stoppen. Andere oligarchen maakten een akkoord met het systeem: braaf zijn opdat er verder mag geplunderd worden. Het Russische volk klom onder Poetin op van heel arm naar redelijk normaal. Een klein deel van de olie-inkomsten vloeide wel door naar het volk. Onder president Jeltsin was dit amper het geval. Dit kleine deel zorgde evenwel voor een enorme kapitaalsinjectie voor de Russische middenklasse. Om de Russische middenklasse vandaag te laten groeien, zijn er echter andere maatregelen nodig. Er moeten veel meer roebels vanuit de boorputten naar het ganse volk doorvloeien. Op dit vlak staan de Russische machtshebbers voor duidelijke keuzes.

Het Kremlin en de Kiescommissie

Het staat als een paal boven water dat het Russische machtssysteem (het Kremlin) heel wat vijanden heeft gemaakt. Zeker in het buitenland (de Verenigde Staten) maar ook in het binnenland. Een van de gevoelige punten, is het Russisch kiessysteem.

Het Russisch kiessysteem wordt geleid door een kiescommissie, een soort 'keuringscentrum'. Wie aan de verkiezingen wil meedoen, moet toestemming krijgen van deze Commissie. De Commissie geeft enkel toelating aan partijen die redelijk ongevaarlijk zijn voor het Kremlin. Ongevaarlijk wordt bedoeld in de zin van ofwel 'volgzaam' (LDPR, Rechtvaardig Rusland) ofwel 'ongevaarlijke oppositie' (Jabloko). 'Jabloko' betekent 'appel', overigens, zou Steve Jobs dit leuk gevonden hebben?

De liberalen, die electoraal via Jabloko in Rusland amper een stem halen maar daarentegen massaal de regeringspartij Edinaya Rossiya bevolken, willen nog meer plunderen. Het is een economische wet dat een kapitalist steeds meer wil.

De communisten zitten al jaren vast in de oppositie en willen uitbreken.

De radicalere nationalisten worden door de Commissie steevast geweigerd en kunnen nooit: lijsten indienen, op de Kremlinvriend Vladimir Zjirinovsky (LDPR) na dan.

De Commissie wordt geleid door Vladimir Churov. Omwille van de beschuldigingen aan het hoofd van de commissie 'oneerlijke verkiezingen' - vroegen de manifestanten het ontslag van Vladimir Churov. U begrijpt nu hoe het kiessysteem in Rusland in elkaar zit en waarom men de resultaten van de parlementsverkiezingen betwist.

Het Westen schreeuwt... en betaalt!

Het Westen is gespecialiseerd in 'het tonen aan anderen hoe het moet'. Het Westen wil de eigen cultuur wereldwijd uitdragen/opleggen, wat de nieuwe vorm van economisch kolonialisme is. Enkel het Westen heeft de waarheid in pacht, zo stelt men het althans. Westerse media gebruikten al langer de woorden 'revolutie,' 'Russische Sneeuwrevolutie,' 'Arabische Lente in Moskou', enzovoort. De media spraken zelfs over barsten in het Poetinregime. Franse en Angelsaxische media gebruikten zelfs beelden van buiten Rusland om vervalst verslag uit te brengen. Het Amerikaanse televisiekanaal van de steenrijke oligarch Rupert Murdoch, Fox News, voegde om de geloofwaardigheid te verhogen, beelden toe van... de rellen in Griekenland! Men ziet op de televisie aldus brandhaarden, gebroken ruiten, jongeren die molotovcocktails naar de politie gooien, enzovoort. Op een van de uitstalramen merkt men... Griekse letters. Men ziet er palmbomen en zomerse kledij. Nochtans staan er in Moskou geen palmbomen, toch niet bij mijn weten, en ik ben er regelmatig genoeg. De Fox News-verslaglezer zegt: "dit is Moskou. Dit zijn acties van diegenen die het niet eens zijn met de resultaten van de parlementaire verkiezingen." De zender gaf twee uur later de fout toe. Maar het nieuws is uitgebracht. Duizenden mensen blijven deze beelden geloven. Dit zijn echte Oranje Revolutie technieken.

De ware kiesfraude, die in bepaalde stembureaus, net zoals bij ons, inderdaad gebeurde, valt waarschijnlijk in het niets vergeleken met andere buitenlandse kiesfraude. En nee, niet alleen Congo, neem bijvoorbeeld Chicago 1982. Toen verdwenen er ook plots 100.000 stemmen. Maar dit terzijde.

Er huppelen in Rusland al jaren heel wat mensenrechtenactivisten rond. De Russische vereniging GOLOS ('stem' in het Russisch) keek mee naar het verloop van de stemverrichtingen. GOLOS wordt gefinancierd door het Amerikaanse USAID en NED. GOLOS had pech want er lekte in de Russische media een interne e-mail uit, waar GOLOS aan USAID vraagt hoeveel ze hen mogen 'factureren' voor de gemaakte onkosten om 'fraude en bedrog vast te stellen.' USAID en NED zijn Amerikaanse organisaties die de laatste jaren heel wat 'revoluties' in Oost-Europa ondersteund hebben. De VS hebben zelf aangekondigd dat ze de toelagen aan NGO's werkzaam in Rusland zullen verhogen.

Grote afwezige was Alexej Navalny, een bekende blogger die opriep om voor iedereen te stemmen maar niet voor Edinaya Rossiya. Zijn mailbox werd gekraakt. Hieruit blijkt dat de man door het Amerikaanse NED betaald wordt.

Opvallend was ook het gegeven dat de manifestanten naast witte linten ook bloemen droegen. Dit lijkt enorm op de 'revoluties' in Servië (2000), Georgië (2003) en Oekraïne (2004). De organisatie die de 'sneeuwrevolutie' wil organiseren, Belaya Lenta, legde haar domeinnaam vast in oktober 2011 en registreerde zich in... de Verenigde Staten.

Het klassieke Bilderbergergeblaat van Herman Van Rompuy en Hillary Clinton (Skull and Bones) alsook het geblaat van de Europese (Sovjet-)Unie maken in Rusland terecht weinig indruk.

Poetin 2.0 en de protesten

De regerende partij Edinaya Rossiya verloor sterk, wat overeenkomt met de peilingen en de verwachtingen. Tot hiertoe kunnen we niet spreken van een schandaal. Indien er gefraudeerd werd, dan is het om de partij van net onder naar net boven de drempel van 50% te halen. De Russen die tegen de verkiezingsresultaten demonstreren, willen geen revolutie zoals in 1917, zij willen absoluut geen bloedvergieten, maar zij willen wel dat de regering ook naar hen luistert.

Het staat vast dat Medvedev en Poetin een ander Rusland tegenover zich hebben. De Russische middenklasse laat van zich horen. Het Poetin-contract - verdere plunderingen van de Russische grondstoffen door oligarchen en de daarbij horende corruptie gepleegd door lager personeel in ruil voor stabiliteit en welvaart - loopt ten einde. De jeugd van vandaag is een jeugd die niet meer is opgegroeid in de Sovjet-Unie. Niemand zorgt voor hen. Het sociaal-economisch systeem dat de Sovjet-Unie kende, is vervangen door een hard liberaalkapitalistisch systeem. De jeugd begrijpt dat ze zelf voor hun levensonderhoud moeten voorzien, maar ook dat ze vanuit het systeem geen repressie hoeft te vrezen zoals ten tijde van de Sovjet-Unie.

Een deel van de verdeelde oppositie denkt dat Edinaya Rossiya zonder kiesfraude amper 30% zou gehaald hebben. Nochtans komen de verkiezingsresultaten redelijk overeen met de peilingen die op voorhand werden gehouden. Men kan zich aldus niet van de indruk ontdoen dat er zich in Rusland hetzelfde afspeelt als in Syrië.

Deze (verspreide) oppositie krijgt van het Kremlin een historische kans massaal te betogen. Medvedev schreef zondag op het net: "De burgers van Rusland hebben de vrijheid van meningsuiting en de vrijheid van vergadering. Mensen hebben het recht om de mening die zij hebben uit te drukken. Alles vond zaterdag plaats binnen het kader van de wet." Hij beloofde om de klachten over kiesfraude ernstig te nemen en deze te onderzoeken.

In elk geval is het zo dat het Kremlin heel intelligent met deze protesten omgaat. Door toelating te geven, blazen de demonstranten stoom af. Dit lijkt op de Belgische tactiek om de makke Vlaamse Beweging, die jaarlijks naar IJzerbedevaarten, IJzerwaken en Zangfeesten gaat, stoom te laten afblazen, waarna er niet veel concreets meer gebeurt.

We herhalen het niet genoeg: de Russische oppositie is enorm verdeeld. De betogers waren van verschillende pluimage. Soms is het erg hard zoeken naar een gemeenschappelijke noemer. Wat kan men anders verwachten: liberalen, communisten en nationalisten door elkaar. In sommige steden maakten ze onder elkaar al ruzie over de startplaats van de betoging. Men kon vertegenwoordigers zien van die andere partijen in de Doema, 'Rechtvaardig Rusland' en de 'Kommunistische Partij' (KPRF). Er waren leden van een uiterst links front van Sergej Oedalstsov. Ook de eeuwige vijanden Boris Nemtsov, Michael Kassianov en Vladimir Milov liepen zich warm in de Moskouse koude. Uiteraard ontbrak de partij 'Ander Rusland' van Garry Kasparov niet. Zijn beweging noemt zich 'Solidarity', genoemd naar de Poolse beweging die zich met Amerikaans geld tegen de communistische Poolse machtshebbers heeft afgezet. 'Solidarity' is een mengeling van liberalen, communisten en radicale nationalisten met een gemeenschappelijk programmapunt: zij willen verandering door Poetin weg te stemmen.

Men kan dus niet spreken van een actie georganiseerd door 'de oppositie' maar een actie ten gevolge van stijgende ontevredenheid.

Sommigen vragen zich af hoe zo'n bonte verzameling aan mensen en meningen nog overeenkomen. Het moet gezegd worden: er waren slogans tegen Poetin, maar geen afbraakwerken. In het Westen gebeurt het meer dan eens dat een betoging nadien zwaar uit de hand loopt en de binnenstad wordt gesloopt. Dit was in Moskou zeker niet het geval.

De politie trachtte in geen enkel geval de betoging te beïnvloeden. Er stond geen rem op de te gebruiken slogans en er werden geen identiteitspapieren gecontroleerd. Rond 18u00, rond het einde van de manifestatie, bedankten de organisatoren de politie: "Laten we de politie bedanken, want zij gedroeg zich als ordehandhavers van een ware democratische staat."

Belangrijk is dat men begrijpt dat het gros van de manifestanten niet de door de VS gestuurde marionetten steunen. Dmitri Rogozin, Russisch gezant bij de NAVO, vatte het als volgt samen: "Het blijkt nu dat de mensen ernstige aanspraken maken op de vele aspecten van hun leven. Ogenschijnlijk drukken ze hun mening uit. Van de autoriteiten mag men verwachten dat ze naar de mensen luisteren en diegenen die het geloof in onze wetten beledigen, afstraffen. Tegelijkertijd denk ik dat we voor een ingewikkelde situatie staan. Indien sommigen hier de boot willen doen zinken, zullen sommige vrienden uit het Westen niet aarzelen om hun krachtige mogelijkheden te gebruiken om Rusland te verzwakken. Dit deed het Westen al met Oranje Revoluties te organiseren in de GOS en het 'bombarderen om humanitaire redenen' van andere landen. Daarom moeten Russische patriotten voorzichtig zijn. Ze moeten elkaar respecteren. Hun energie moet gebruikt worden om het land te verbeteren en niet om mensen naar de barricades te sturen." Dmitri Rogozin werd recent officieel lid van de partij Edinaya Rossiya.

Het hoofd van de Raad voor Nationale Strategie, Josif Diskin, zei dat er veel mensen waren, maar het niet zo is dat een bepaalde politieke beweging of partij overduidelijk gesteund werd. De mensen willen gewoon niet als dummies behandeld worden.

Het buitenlands beleid van Poetin

Het buitenlands beleid van Poetin verdient evenwel positieve aandacht. Laat ons niet vergeten dat Poetin en Medvedev veel weg hebben van Sirius A en Sirius B. Dit zijn twee sterren die rond elkaar draaien. Ze horen bij elkaar. Toch zijn het twee aparte sterren met elk aparte eigenschappen, al was het maar omwille van de verschillende grootte. Het is duidelijk dat Poetin de grootste ster is. Medvedev heeft een eigen stellair... ehm, (geo)politiek programma. Kort door de bocht kan men stellen: Medvedev is 'iets Angelsaksisch' en Poetin 'iets meer Duits'.

Met Medvedev aan de macht, kunnen de internationale kapitalistische lobbies op beide oren slapen. De Amerikaanse geopolitici kunnen met Medvedev duimen en vingers aflikken. Met Poetin is dit anders en genuanceerder.

Recent bepleitte Vladimir Poetin nog het opnieuw in leven blazen van de Euraziatische Unie. Hij wil dat zijn land nauwere contacten onderhoudt met de ex-Sovjet Republieken en de voormalige bondgenoten. Er bestaat nu al een vrijhandelszone tussen Rusland, Wit-Rusland en Kazachstan. In 2009 zag dit project het levenslicht onder het alziende oog van Poetin en onder de noemer van een douane-unie. Vanaf 2012 wordt dit een vrije economische ruimte. Poetin beziet deze samenwerking als een noodzakelijkheid voor de Russische geopolitieke belangen anno 2012.

Het Westen reageerde onmiddellijk met angst en negativiteit. Men dacht aan de heroprichting van de Sovjet-Unie. De woorden 'gevaarlijk' kwamen in de mond. In het kielzog van de door de VS gestuurde commentaren, volgt het geopolitiek ongeschoolde deel van de Westeuropese nationalisten.

Het Westen is ook razend op Poetin & co omdat Rusland tot nu toe de totale NAVO-afbraakwerken in Syrië via de nodige afremmanoeuvres heeft tegengehouden. Dankzij het Russisch buitenlands beleid is Iran nog steeds niet aangevallen. Zelfs een kind kan begrijpen dat de VS zich de gebeten hond voelen, zeker nu de VS stilaan Irak en Afghanistan verliezen. Ooit valt ook Pakistan uit hun handen. Eigenlijk staan ze er redelijk selcht voor in continentaal Eurazië, zeker in de regio rond de Kaspische Zee. De VS hebben in het Midden-Oosten dus nieuwe uitvalsbasissen nodig.

Conclusie

De conclusie is tweeledig: nationaal en internationaal.

Internationaal

In Rusland vindt zich een enorme Amerikaanse inmenging in de binnenlandse aangelegenheden plaats. We stellen vast dat aan Amerikaanse zijde een diabolisatiecampagne aan de gang is wat betreft president Poetin 3.0. Het gebraak van Amerikaans minsister van Buitenlandse Zaken Hillary Clinton-Rodham, zij staat zogezegd aan de zijde van het Russische volk, komt totaal ongeloofwaardig over. Haar man stond in 1999 eveneens niet aan de zijde van het Servische volk. De ultra-imperialistische Verenigde Staten, die aan de zijde van de volkeren staan? Zelfs de beste humorist kan hier niets mee aanvangen.

De Verenigde Staten willen Rusland destabiliseren met als doel de komende aanvallen op Syrië en Iran gemakkelijker te verkopen. Rusland is het enige 'tegen-Imperium' dat de honger van de ultra-imperialistische Verenigde Staten kan stoppen. Zonder Rusland was Syrië en Iran al lang platgelegd met bommen, zelfs nucleaire desnoods.

Nationaal

Buiten Poetin, Medvedev en Zjoeganov zijn er geen echte sterke presidentskandidaten. Jammer voor Vladimir Zjirinovsky, maar die maakt geen enkele kans, indien president worden zijn bedoeling is. Jammer voor de betogers, maar ik zie niet in wie een enorm land als Rusland kan leiden. Het is in Europa's voordeel dat Rusland geleid wordt in eigen belangen, zonder dat het land aan de Verenigde Staten en de internationale bankiers wordt uitgeleverd.

Men kan niet spreken van een protestactie georganiseerd door een homogene oppositie, maar wel over een protestactie ten gevolge van begrijpelijke stijgende ontevredenheid. De betogingen verliepen rustig en hoffelijk, zowel van de kant van de betogers als van de kant van de overheid. De manifestanten hadden redelijke verzuchtingen zoals gratis gezondheidszorg en betere voorzieningen voor het onderwijs. Deze verzuchtingen zijn eigenlijk programmapunten van het linkse blok in de Doema (Kommunistische Partij en Rechtvaardig Rusland), dat ongeveer een derde van de verkozenen telt.

Het mag benadrukt worden: de betogers hebben redelijke en gerechtvaardigde verzuchtingen. We kunnen de betogers ten volle begrijpen en hun eisen ondersteunen. We kunnen zeker de patriottische betogers begrijpen die meer bescherming willen voor de ethische Russen. 'Rusland aan de Russen' is immers een courante slogan. De regering beloofde trouwens al naar de verzuchtingen te luisteren. De manifestaties hebben aangetoond dat de Russen op de straat kunnen komen zonder hulp van de VS. De betogers hebben Uncle Sam niet nodig om zich te uiten.

Ja, aan de Russen die hun mening via betogingen op de straat kenbaar maken.

Neen, aan de Amerikaanse perverse bemoeienissen in Rusland.

Ja, aan het recht voor de Russen om oppositie te voeren tegen eender wie in het Kremlin zetelt.

Neen, aan een door de Verenigde Staten gemanipuleerde oppositie.

Een stabiel Rusland is de beste partner en garantie voor het westelijk deel van Europa. Politiek analist Sergej Kurginyan stelt het zo: "Onze strijd, evenals de strijd van andere mensen, moet door de overtuiging van de nationale krachten worden uitgevoerd onder het motto: 'Heropbouwen zonder buitenlandse hulp.' Wie wil er dit nu niet doen met een overheid in het kader van een nationale consensus? Dit mag politiek niet geassocieerd worden met de Amerikanen en hun handlangers van de NAVO."

Kan dit nog beter worden gezegd?

Secular Theocracy: The Foundations and Folly of Modern Tyranny

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Secular Theocracy: The Foundations and Folly of Modern Tyranny

 by David J. Theroux

 Ex: http://www.attackthesystem.com/

 We live in an increasingly secularized world of massive and pervasive nation states in which traditional religion, especially Christianity, is ruled unwelcome and even a real danger on the basis of a purported history of intolerance and “religious violence.” This is found in most all “public” domains, including the institutions of education, business, government, welfare, transportation, parks and recreation, science, art, foreign affairs, economics, entertainment, and the media. A secularized public square policed by government is viewed as providing a neutral, rational, free, and safe domain that keeps the “irrational” forces of religion from creating conflict and darkness. And we are told that real progress requires expanding this domain by pushing religion ever backward into remote corners of society where it has little or no influence. In short, modern America has become a secular theocracy with a civic religion of national politics (nationalism) occupying the public realm in which government has replaced God.

For the renowned Christian scholar and writer C.S. Lewis, such a view was fatally flawed morally, intellectually, and spiritually, producing the twentieth-century rise of the total state, total war, and mega-genocides. For Lewis, Christianity provided the one true and coherent worldview that applied to all human aspirations and endeavors: “I believe in Christianity as I believe that the sun has risen, not only because I see it, but because by it I see everything else.” (The Weight of Glory)[1]

In his book, The Discarded Image, Lewis revealed that for Medieval Christians, there was no sacred/secular divide and that this unified, theopolitical worldview of hope, joy, liberty, justice, and purpose from the loving grace of God enabled them to discover the objective, natural-law principles of ethics, science, and theology, producing immense human flourishing. [2] Lewis described the natural law as a cohesive and interconnected objective standard of right behavior:

This thing which I have called for convenience the Tao, and which others may call Natural Law or Traditional Morality or the First Principles of Practical Reason or the First Platitudes, is not one among a series of possible systems of value. It is the sole source of all value judgements. If it is rejected, all values are rejected. If any value is retained, it is retained. The effort to refute it and raise a new system of value in its place is self-contradictory. There has never been, and never will be, a radically new judgement of value in the history of the world. What purport to be new systems or (as they now call them) “ideologies,” all consist of fragments from the Tao itself. Arbitrarily wrenched from their context in the whole and then swollen to madness in their isolation, yet still owing to the Tao and to it alone such validity as they possess. If my duty to my parents is a superstition, then so is my duty to posterity. If justice is a superstition, then so is my duty to my country or my race. If the pursuit of scientific knowledge is a real value, then so is conjugal fidelity. (The Abolition of Man)[3]

And in his recent book, The Victory of Reason, Rodney Stark has further shown “How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and the Success of the West.”[4] Similarly and prior to the rise of the secular nation-state in America, Alexis de Tocqueville documented in his 1835 volume, Democracy in America, the remarkable flexibility, vitality and cohesion of Christian-rooted liberty in American society with business enterprises, churches and aid societies, covenants and other private institutions and communities.[5]

In his book, The Myth of Religious Violence: Secular Ideology and the Roots of Modern Conflict, William Cavanaugh similarly notes that for Augustine and the ancient world, religion was not a distinct realm separate from the secular. The origin of the term “religion” (religio) came from Ancient Rome (re-ligare, to rebind or relink) as a serious obligation for a person in the natural law (“religio for me”) not only at a shrine, but also in civic oaths and family rituals that most westerners would today consider secular. In the Middle Ages, Aquinas further viewedreligio not as a set of private beliefs but instead a devotion toward moral excellence in all spheres.[6]

However in the Renaissance, religion became viewed as a “private” impulse, distinct from “secular” politics, economics, and science.[7] This “modern” view of religion began the decline of the church as the public, communal practice of the virtue of religio. And by the Enlightenment, John Locke had distinguished between the “outward force” of civil officials and the “inward persuasion” of religion. He believed that civil harmony required a strict division between the state, whose interests are “public,” and the church, whose interests are “private,” thereby clearing the public square for the purely secular. For Locke, the church is a “voluntary society of men,” but obedience to the state is mandatory.[8]

The subsequent rise of the modern state in claiming a monopoly on violence, lawmaking, and public allegiance within a given territory depended upon either absorbing the church into the state or relegating the church to a private realm. As Cavanaugh notes:

Key to this move is the contention that the church’s business is religion. Religion must appear, therefore, not as what the church is left with once it has been stripped of earthly relevance, but as the timeless and essential human endeavor to which the church’s pursuits should always have been confined…. In the wake of the Reformation, princes and kings tended to claim authority over the church in their realms, as in Luther’s Germany and Henry VIII’s England…. The new conception of religion helped to facilitate the shift to state dominance over the church by distinguishing inward religion from the bodily disciplines of the state.[9]

For Enlightenment figures like Jean-Jacques Rousseau who dismissed natural law, “civic religion” as in democratic regimes “is a new creation that confers sacred status on democratic institutions and symbols.”[10]And in their influential writings, Edward Gibbon and Voltaire claimed that the wars of religion in the sixteenth and seventeenth centuries were “the last gasp of medieval barbarism and fanaticism before the darkness was dispelled.”[11] Gibbon and Voltaire believed that after the Reformation divided Christendom along religious grounds, Protestants and Catholics began killing each other for more than a century, demonstrating the inherent danger of “public” religion. The alleged solution was the modern state, in which religious loyalties were upended and the state secured a monopoly of violence. Henceforth, religious fanaticism would be tamed, uniting all in loyalty to the secular state. However, this is an unfounded “myth of religious violence.” The link between state building and war has been well documented, as the historian Charles Tilly noted, “War made the state, and the state made war.”[12] In the actual period of European state building, the most serious cause of violence and the central factor in the growth of the state was the attempt to collect taxes from an unwilling populace with local elites resisting the state-building efforts of kings and emperors. The point is that the rise of the modern state was in no way the solution to the violence of religion. On the contrary, the absorption of church into state that began well before the Reformation was crucial to the rise of the state and the wars of the sixteenth and seventeenth centuries.

Nevertheless, Voltaire distinguished between “state religion” and “theological religion” of which “A state religion can never cause any turmoil. This is not true of theological religion; it is the source of all the follies and turmoils imaginable; it is the mother of fanaticism and civil discord; it is the enemy of mankind.”[13]  What Rousseau proposed instead was to supplement the purely “private” religion of man with a civil or political religion intended to bind the citizen to the state: “As for that man who, having committed himself publicly to the state’s articles of faith, acts on any occasion as if he does not believe them, let his punishment be death. He has committed the greatest of all crimes: he has lied in the presence of the laws.”[14]

As a result, the Enlightenment set in motion what has become today’s secular theocracy that is authoritarian and hypocritical for not just its denial of moral condemnation of secular violence, but its exaltation of such violence as highly praiseworthy.


[1] C.S. Lewis, “Is Theology Poetry?” in The Weight of Glory and Other Addresses (San Francisco: HarperOne, 2001).

[2] C.S. Lewis, The Discarded Image: An Introduction to Medieval and Renaissance Literature (New York, Cambridge University Press, 1994).

[3] C.S. Lewis, The Abolition of Man (San Francisco: HarperOne, 1974), 44.

[4] Rodney Stark, The Victory of Reason: How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success (New York: Random House, 2006).

[5] Alexis de Tocqueville, Democracy in America, trans. Delba Winthrop (Chicago: University of Chicago Press, 2002).

[6] William T. Cavanaugh, The Myth of Religious Violence: Secular Ideology and the Roots of Modern Conflict (Oxford: Oxford University Press, 2009), 62–68.

[7] Ibid, 70.

[8] Ibid, 79–83.

[9] Ibid, 83–84.

[10] Ibid, 113.

[11] Ibid, 127.

[12] Charles Tilly, “Reflections on the History of European State-Making,” in The Formation of National States in Western Europe, ed. Charles Tilly (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1975), 42.

[13] Cavanaugh, 128.

[14] Jean-Jacques Rousseau, The Social Contract, trans. Willmoore Kendall (South Bend, IN: Gateway, 1954), 149.

 


David J. Theroux is the Founder, President and Chief Executive Officer of The Independent Institute and Publisher of The Independent Review.

Céline contre le Spectacle

Céline contre le Spectacle par Stéphane Zagdanski

« Savez-vous ce que l'on demande d'abord à un fou lorsqu'il arrive à l'hôpital ? L'heure qu'il est et où il se trouve. L'heure, je peux vous la dire: onze heures du matin, et c'est aujourd'hui dimanche. Où je me trouve ? Eh bien ! dans un monde de cinglés où il faut vraiment faire un effort pour garder son bon sens, un effort de modestie, surtout ! Nous sommes au siècle de la publicité et la publicité compte désormais plus que l'objet. »

Dès l’adolescence, Céline se montre angoissé par la mort – ce qui est commun –, et soucieux de ne pas noyer cette angoisse sous la parlotte – ce qui l’est moins. À quinze ans, étudiant en Angleterre tandis que sa tante Joséphine agonise, il écrit à ses parents : « Aussitôt que l'échéance finale sera arrivée, écris-moi un mot ou envoie-moi un télégramme. “Mort” suffit. En un mot, puisque tout espoir est perdu… »
« “Mort” suffit » ! Cette idée qu’en bavardant on masque la fatalité qui, en coulisses, fait de toute vie une « mort à crédit », Céline n’y renoncera jamais. C’est à partir d’elle qu’il fomentera son acerbe critique sociale, virulemment anarchiste, d’une perspicacité à toute épreuve tant que la paranoïa antisémite ne s’en mêle pas. Cette lucidité en fera un des rares précurseurs de la critique du Spectacle que Debord, par d’autres biais et selon un tout autre système de références, a poussée à son comble.

Les lecteurs de Voyage au bout de la nuit se souviennent de la déclaration de foi anarchiste de Bardamu qui ouvre le roman. Mais a-t-on remarqué que l’intervention primordiale d’Arthur Ganate est frappée au sceau du pessimisme le plus froid concernant la propagande du progrès : « Siècle de vitesse ! qu’ils disent. Où çà ? Grands changements ! qu’ils racontent. Comment çà ? Rien n’est changé en vérité. Ils continuent à s’admirer et c’est tout. » Tout Céline est déjà là, qui critiquera dans les années 50 la télévision, la radio et la publicité comme machines à abrutir en flattant la vanité humaine des « perruchelets paoniformes ».
La guerre de 14, bien sûr, appose un poinçon de sang au pessimisme substantiel de Céline. Il a, comme il l’écrit dans Voyage, « l’imagination de la mort », les autres non. Ce qui signifie qu’il ne se paye pas de mots, les autres si. À Joseph Garcin, qui a connu comme lui cet « enfer dont il ne faudrait pas revenir », il écrira le 1er septembre 1929 : « Vous avez saisi l'essentiel, le reste n'est que fatras de mots sans portée... ».

Dès 1916, dans une lettre à son père où il raconte avoir lu tous les journaux parus en France, il témoigne de son incroyance radicale en toute propagande, remarquant comme le mensonge s’appuie sur un certain style faisandé qu’il passera sa vie à vitupérer : L’« éloge pompeux de réformes qui s'imposent », s’accompagne « de phrases cascadeuses, ridicules de rhétorique empanachée ». Et 40 ans avant le « Ne travaillez jamais » de Debord, Céline avoue : « On prétend que le travail anoblit, je prétends qu'il avilit. »

En 1914, Céline n’a pas seulement côtoyé et étudié la mort, il a vu la déliquescence de toutes les vanités ; les hommes se sont révélés à lui comme autant d’écorchés de l’âme dans leurs petitesses sans fard. C’est aussi à cette déchéance, si peu conforme au mythe de l’Empire colonial, qu’il assistera en Afrique après la guerre, dont il rend également compte dans Voyage. « Sur la Meuse et dans le Nord et au Cameroun », écrit-il à Garcin en 1933, « j'ai bien vu cet effilochage atroce, gens et bêtes et lois et principes, tout au limon, un énorme enlisement… ». La même année, à son ami Élie Faure qui tente de le convaincre du bien-fondé du socialisme, Céline énonce le principe de son inconvertibilité idéologique, de ce qu’il nommera plus tard, concernant son anarchisme, sa « boussole personnelle, indéréglable » : « Crever pour le peuple oui – quand on voudra – où on voudra, mais pas pour cette tourbe haineuse, mesquine, pluridivisée, inconsciente, vaine, patriotarde alcoolique et fainéante mentalement jusqu'au délire. » C’est l’époque où Céline admire encore Bergson et Freud, dont le pessimisme structurel l’influence grandement. Céline écrit en 1933 à Albert Thibaudet : « L'énorme école freudienne est passée inaperçue. Toute la haine raciale n'est qu'un truc à élections. Le tourment esthétique n'est même pas murmurable. » Il demande à son amie juive viennoise Cillie Ambord de lui traduire Trauer und Melancholie, et lui écrit juste après l’accession d’Hitler au pouvoir : « Je suis bien content de vous savoir pour le moment en sécurité mais la folie hitler va finir par dominer l'Europe pendant des siècles encore. Mr Freud n'y peut rien. » Et en bon freudien, Céline se doute que nazisme et fascisme prospèrent sur la servitude volontaire : « Ici », écrit-il à Garcin le 15 février 1934, « c'est l'hystérie collective, voilà le fascisme en route, on attend l'homme à poigne avec ou sans moustaches. Les Français sont masochistes. Progrès ? où quand ? je ne vois qu'une vieille nation ratatinée. »

Ce qui caractérise la lucidité de Céline, c’est qu’il ne choisit aucun camp. Ni le socialisme ni le fascisme, ni l’URSS ni l’Amérique. Écoeuré par l’humain en soi, il rédige en 1934 Mea Culpa, un premier pamphlet, avant Bagatelles, qui reste un chef-d’oeuvre de clairvoyance concernant la servitude volontaire, une déclaration de guerre à toutes les utopies, tous les optimismes : « Il faudrait buter les flatteurs, c'est ça le grand opium du peuple... L'Homme il est humain à peu près autant que la poule vole. Quand elle prend un coup dur dans le pot, quand une auto la fait valser, elle s'enlève bien jusqu'au toit, mais elle repique tout de suite dans la bourbe, rebecqueter la fiente. C'est sa nature, son ambition. Pour nous, dans la société, c'est exactement du même. »

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Peder Jensen, alias “Fjordman”, inspirateur d’Anders Breivik?

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Manfred KLEINE-HARTLAGE:

 Peder Jensen, alias “Fjordman”, inspirateur d’Anders Breivik?

Immédiatement après le massacre perpétré à Oslo en juillet dernier, paraissait dans la presse norvégienne une photographie de l’homme censé avoir inspiré, par ses écrits, le tueur Anders Breivik. Ce soupçon était erroné mais le dévoilement de l’identité de “Fjordman” a surpris: l’écrivain préféré de Breivik ne ressemblait pas du tout à l’homme de droite ou d’extrême-droite telle que l’imaginent les médias de gauche. Peder Jensen, que le monde ne connaissait via internet que sous le pseudonyme de “Fjordman”, travaillait dans une institution sociale: les attentats et leur suite, qui l’ont forcé à dévoiler son identité, lui ont coûté son emploi.

Jensen, âgé de 36 ans, n’est pas né animé par des idées conservatrices: il les a acquises par l’étude. Il est issu d’une famille incarnant parfaitement l’établissement de gauche, qu’il n’a cessé de critiquer. Comme beaucoup de critiques de l’islamisme, que l’on peut ranger dans la catégorie des “contre-djihadistes”, il est un homme jadis socialisé à gauche de l’échiquier politique; il n’a révisé ses idées que fort tard, quand il a été confronté à l’islamisme. Le tournant dans son évolution date du 11 septembre 2001, une journée au cours son long séjour au Caire. Ce n’est pas tant le fait que dix-neuf musulmans auraient perpétré l’attentat qui l’ont fait changer d’avis sur l’islam alors qu’il apprenait la langue arabe dans la capitale égyptienne: c’est davantage le spectacle de millions de musulmans applaudissant au carnage qui l’a interpellé.

Depuis 2005, cet arabisant norvégien, à la vie tranquille, gèrait un blog sous le nom de “Fjordman” et, par le biais de ses articles bien argumentés, reposant sur les critères de cette discipline que les Allemands appellent la “Kulturkritik”, il touchait des centaines de milliers sinon des millions de lecteurs. L’impact de son travail est surtout dû au fait qu’il ne se contentait pas de critiquer l’islam ou l’islamisme. Il posait une question cruciale: pourquoi laisse-t-on l’islamisme se déployer? Fjordman, arabisant patenté, ne se bornait pas à disséquer la culture islamique mais se penchait de manière fort critique sur notre propre culture occidentale, où il repérait un masochisme suicidaire, des illusions infantiles et un oubli permanent de l’histoire. Il n’hésitait pas, sur base de ses diagnostics, à citer les noms des vecteurs européens, américains et occidentaux de cette déchéance intellectuelle.

Au fil des années, les essais de Fjordman devenaient de plus en plus sombres et pessimistes, parce que ses questions devenaient de plus en plus pertinentes et profondes. Fjordman a donc commencé sa carrière comme critique de l’islamisme mais, au fur et à mesure que sa quête progressait, il est devenu un fin critique des fondements de notre propre civilisation occidentale. Désormais, on peut suivre pas à pas cette évolution intellectuelle dans une première édition allemande de ses écrits, publiée fin novembre 2011.

Au départ, les positions de Fjordman étaient plutôt pro-américaines mais elles ont cédé la place à un anti-globalisme radical. La critique fjordmanienne du “globalisme” a ainsi reçu la priorité par rapport aux articles critiques sur l’islamisation de l’Europe. La crise de notre civilisation, conclut Jensen/Fjordman, dérive de l’acceptation a-critique de l’idéologie mondialiste (”One-World-Ideology”), que l’on considère aujourd’hui comme une évidence incontournable. C’est là que Jensen/Fjordman va plus loin qu’une simple critique de l’islamisme. Les élites occidentales font tout pour sacrifier à une utopie perverse les structures nées de l’histoire et les identités concrètes des peuples; or cette utopie mondialiste est inhumaine, elle relève d’une inhumanité qui ne se révèlera à tous que lorsqu’il sera trop tard...

Manfred KLEINE-HARTLAGE (*).

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°49/2011; http://www.jungefreiheit.de ).

(*) Manfred Kleine-Hartlage est le co-éditeur du livre intitulé “Fjordman. Europa verteidigen. Zehn Texte” (Edition Antaios – http://www.antaios.de )


Europa verteidigen Fjordman
Europa verteidigen

Zehn Texte
240 Seiten, broschiert, 19.00 €


ISBN: 978-3-935063-66-1
19,00 EUR
incl. 7 % UST exkl. Versandkosten
Als Internet-Publizist ist Fjordman seit einigen Jahren in der sogenannten Counterjihad-Szene ein Begriff: islamkritisch, multikultikritisch, liberalismuskritisch, ein belesener Essayist.
Die Herausgeber Martin Lichtmesz und Manfred Kleine-Hartlage haben zehn der besten Texte Fjordmans ausgewählt, die Übersetzungen bearbeitet und ein Buch zusammengestellt, das durch die Radikalität seines Tons provoziert und zugleich diese Radikalität rechtfertigt: Es geht um die Verteidigung des Eigenen. Dieses Eigene ist Europa.
In einem flankierenden Essay nimmt Martin Lichtmesz den Fall des Attentäters von Oslo und Utoya unter die Lupe: Anders Breivik berief sich in einem Pamphlet mehrfach auf Fjordmans Analysen. Er hat damit geistiges Terrain vermint, das es nun wiederum freizuräumen gilt.


Vorwort:
Der Fjordman Peder Jensen
von Manfred Kleine-Hartlage

Overtüre:

Vorbereitung auf Ragnaräck
Erster Text von Fjordman

I. Akt Islamkritik

Warum wir uns nicht auf moderate Moslems verlassen können
Zweiter Text von Fjordman

Was kostet Europa die islamische Zuwanderung?
Dritter Text von Fjordman

Vierzehn Jahrhunderte Krieg gegen die europäische Zivilisation
Vierter Text von Fjordman

II. Akt Kulturkritik

Political Correctness - die Rache des Marxismus
Fünfter Text von Fjordman

Die Wurzeln der Antidiskriminierung

Sechster Text von Fjordman

Westlicher Feminismus und das Bedürfnis nach Unterwerfung

Siebter Text von Fjordman

Die vaterlose Zivilisation

Achter Text von Fjordman

III. Akt Globalismus/EU

Die EU und die globalistische Allianz
Neunter Text von Fjordman

Wenn Verrat zur Norm wird

Zehnter Text von Fjordman


Nachwort

Fjordman verteidigen

Martin Lichtmesz

Ausgang

Entwurf einer Europäischen Unabhängigkeitserklärung

von Fjordman

Anhang

Anmerkungen
Quellennachweis

 

Immixtion américaine en Russie

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Bernhard TOMASCHITZ:

Immixtion américaine en Russie

Après le vote pour la Douma, les Etats-Unis n’ont pas hésité à s’immiscer dans les affaires intérieures de la Russie

Les élections pour le parlement russe du 4 décembre ont suscité quelques turbulences politiques. Sous prétexte qu’il y aurait eu manipulations, les manifestations se multiplient à Moscou et à Saint Pétersbourg. L’Occident en profite pour tirer à boulets rouges sur les dirigeants russes. Pour ce motif, le premier Ministre russe Vladimir Poutine a annoncé que des mesures de rigueur seront prises contre ceux qui se mêlent de la politique russe “sur ordre de l’étranger”. “Nous sommes obligés de protéger notre souveraineté et nous nous sentons contraints d’y réfléchir”, a souligné Poutine, tout en reprochant à la ministre américaine des affaires étrangères Hillary Rodham Clinton d’avoir donné le signal pour que se déchaîne la vague de protestations et de manifestations. Ensuite, Poutine a ajouté, sur un ton très critique, “le travail actif a commencé avec le soutien du ministère américain des affaires étrangères”.

Tandis que bon nombre de commentateurs, dans les médias occidentaux inféodés au système, déclaraient que le premier ministre russe souffrait de paranoïa, nous pouvons tout de même objectivement constater que les reproches formulés par Poutine ne sont pas dénués de fondements. En effet, qui a joué un rôle-clef dans cette effervescence protestataire, tant avant qu’après le scrutin? Indubitablement, l’association “Golos” (= “La Voix”), soi-disant indépendante et posée comme “organisation non gouvernementale”. Ses “experts” (auto-proclamés) ont bénéficié de vastes colonnes dans les journaux occidentaux quelques jours avant les élections pour décrire le système semi-autoritaire de Poutine comme une abominable tyrannie obscurantiste. “Golos” a agité les esprits en Occident sous prétexte que des manifestants avaient été arrêtés.

En fait, “Golos” est tout autre chose qu’une ONG indépendante. Ainsi, on peut lire sur le site internet de l’“International Republican Institute”, une fondation du Parti Républicain: “Golos est une association qui a été fondée en 2000 pour protéger les droits des électeurs; elle reçoit des subsides des autorités américaines responsables du développement à l’échelle mondiale (USAID), du groupe ‘National Endowment for Democracy’ et de l’ambassade britannique. Le ‘National Democratic Institute’ offre la formation des cadres et l’International Republican Institute fournit une aide en offrant des vidéos d’information pour les électeurs”. Les autorités américaines de l’USAID sont directement inféodées au ministère américain des affaires étrangères et ont toujours joué un rôle prépondérant quand il s’est agi de s’immiscer dans les affaires intérieures de pays tiers. En règle générale, les subsides transitent par la NED (“National Endowment for Democracy”), considérée comme le bras civil de la CIA. La NED “sponsorise” soit directement des projets de “soutien à la démocratie” à l’étranger soit verse l’argent aux fondations des partis démocrate et républicain qui, à leur tour, apportent un soutien financier à des instances proches d’eux, émanant de la “société civile” du pays étranger placé dans le collimateur.

Le processus appliqué à la Russie pouvait se lire dans le “plan stratégique” de l’USAID pour les années de 2007 à 2012. Dans le texte de ce plan, les auteurs reprochent au Kremlin de court-circuiter les projets américains en Europe orientale, dans les Balkans et dans le Caucase, c’est-à-dire dans des régions qui doivent à terme être “ancrées” dans les structures euro-atlantistes. Washington s’insruge également contre la politique de Poutine au cours de ses deux premiers mandats: il a en effet visé et fait progresser l’indépendance économique et énergétique de son pays. Pour torpiller cette politique étrangère, économique et énergétique, il convient donc d’importer en Russie “les valeurs de la démocratie, des droits de l’homme et de la liberté”, tout en tentant d’imbriquer la vaste Fédération de Russie dans “l’économie mondiale”, c’est-à-dire dans l’ordre économique et dans le projet de globalisation ébauchés par la Maison Blanche et par Wall Street. 

En 2009, la NED a versé 75.234 dollars à “Golos” pour organiser des “audits officiels” et des campagnes de signatures. En 2007, la NED avait déjà versé 49.500 dollars à l’association russe. Le CIMA, ou “Center for International Media Assistance”, une branche de la NED, joue un rôle de premier plan dans tout appui aux forces politiques visant à instaurer quelque part dans le monde la “démocratie libérale” de type américain: depuis des années, ce centre apporte son soutien à des journalistes pro-américains, en les formant ou en leur offrant des programmes d’échange.

Le NDI (“National Democratic Institute”) démontre l’importance des fondations des partis américains dans l’immixtion constante de Washington dans les affaires intérieures russes. La NDI déclare officiellement qu’elle est active en Russie depuis le début des années 90, afin d’y “renforcer les institutions démocratiques”, en déployant quantité d’incitants pour qu’à terme il y ait “une plus grande participation des citoyens aux processus décisionnels” et pour que certaines organisations civiles et certains partis politiques soient renforcés en Russie grâce à “des échanges internationaux d’expériences acquises”. “Golos”, dans ce vaste complexe d’opérations stratégiques”, est un partenaire importants de la NDI: l’association subversive russe coopère effectivement avec la NDI depuis le jour même de sa fondation. Aujourd’hui, “Golos” est en mesure d’aller observer les élections dans 48 régions de la Fédération de Russie.

Mutatis mutandis, la situation observable aujourd’hui en Russie ressemble à celle que l’on pouvait constater en Ukraine lors de la “révolution orange”, il y a sept ans. En Ukraine aussi, on a évoqué des “fraudes électorales” pour mettre le feu aux poudres et pour déclencher la révolte. Et une fois de plus, on a vu se pointer à l’horizon le spéculateur boursier Georges Sörös. L’organisation que ce personnage soutient, le “Human Rights Watch”, vient d’entamer une campagne de presse, où elle se plaint que “Golos” est victime d’une “campagne de dénigrement” orchestrée par les autorités russes...

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°50/2011; http://www.zurzeit.at ).

 

Une grande transformation

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Une grande transformation

par Georges FELTIN-TRACOL

 

En 2009, le journaliste Christopher Caldwell faisait paraître Reflections on the revolution in Europe, clin d’œil appuyé à l’ouvrage contre-révolutionnaire du Whig Edmund Burke publié en 1790. Les Éditions du Toucan viennent de sortir sa traduction française sous le titre d’Une révolution sous nos yeux. Alors que les maisons d’éditions institutionnelles se gardent bien maintenant de traduire le moindre ouvrage qui irait à l’encontre de la pesante pensée dominante, saluons cette initiative qui permet au public francophone de découvrir un point de vue divergent bien éloigné de l’agencement ouaté des studios de radio et des plateaux de télévision.

 

caldwell.jpgÉditorialiste au Financial Times (le journal officiel de la City) et rédacteur au Weekly Standard et au New York Times Magazine, Christopher Caldwell relève du courant néo-conservateur anglo-saxon. Il en remercie même William Kristol, qui en est l’une des têtes pensantes. L’édition française est préfacée par la démographe Michèle Tribalat qui, avec son compère Pierre-André Taguieff, semble ébaucher une sensibilité néo-conservatrice dans l’Hexagone plus charpentée que les guignols de la triste revue Le meilleur des mondes.

 

On pourrait supposer qu’Une révolution sous nos yeux est un lourd pensum ennuyeux à lire composé de douze chapitres réunis en trois parties respectivement intitulées « Immigration », « L’islam » et « L’Occident ». Nullement ! Comme la plupart des enquêtes journalistiques anglo-saxonnes, les faits précis et détaillés sont étayés et argumentés. Il faut avouer que le sujet abordé est risqué, surtout en France…

 

« Ce livre, avertit l’auteur, évitera l’alarmisme et la provocation vaine, mais il évitera aussi l’euphémisme et cette façon de se coucher (à titre préventif) qui caractérise tant d’écrits sur les questions relatives à l’ethnicité (p. 53). » Qu’aborde-t-il donc ? « Ce livre, répond Caldwell, traite de l’Europe, de comment et pourquoi l’immigration et les sociétés multi-ethniques qui en résultent marquent une rupture dans son histoire. Il est écrit avec un œil rivé sur les difficultés que l’immigration pose à la société européenne (p. 52). 

 

 

Partant des déclarations prophétiques en avril 1968 du député conservateur Enoch Powell au Midland Hotel de Birmingham consacrées aux tensions raciales à venir, l’auteur estime que « l’immigration n’améliore pas, ne valorise pas la culture européenne; elle la supplante. L’Europe ne fait pas bon accueil à ses tout nouveaux habitants, elle leur cède la place (p. 47) ». Pourquoi ?


Les racines du mal

 

Avant de répondre, Christopher Caldwell rappelle que « l’immigration de masse a débuté dans la décennie postérieure à la Seconde Guerre mondiale. […] En Grande-Bretagne, en France, aux Pays-Bas et en Scandinavie, l’industrie et le gouvernement ont mis en place des politiques de recrutement de main-d’œuvre étrangère pour leurs économies en plein boom (p. 25) ». Par conséquent, « l’Europe devint une destination d’immigration, suite à un consensus de ses élites politiques et commerciales (p. 25) ». Il insiste sur le jeu du patronat qui préfère employer une main-d’œuvre étrangère plutôt que locale afin de faire baisser les salaires… Il y a longtemps que l’immigration constitue l’arme favorite du capital (1). Or « les effets sociaux, spirituels et politiques de l’immigration sont considérables et durables, alors que ses effets économiques sont faibles et transitoires (pp. 69 – 70) ».

 

Il importe d’abandonner l’image du pauvre hère qui délaisse les siens pour survivre chez les nantis du Nord… « Pour Enoch Powell comme pour Jean Raspail, l’immigration de masse vers l’Europe n’était pas l’affaire d’individus “ à la recherche d’une vie meilleure ”, selon la formule consacrée. C’était l’affaire de masses organisées exigeant une vie meilleure, désir gros de conséquences politiques radicalement différentes (p. 31, souligné par l’auteur). » Dans cette « grande transformation » en cours, en raison du nombre élevé de pratiquants parmi les nouveaux venus, l’islam devient une question européenne ou, plus exactement, le redevient comme au temps du péril ottoman et des actes de piraterie maritime en Méditerranée jusqu’en 1830… Dorénavant, « l’immigration jou[e] un rôle aussi perturbateur que le nationalisme (p. 402) ».

 

Très informé de l’actualité des deux côtes de l’Atlantique, Christopher Caldwell n’hésite pas à comparer la situation de l’Europe occidentale à celle des États-Unis. Ainsi, les remarques politiques ne manquent pas. L’auteur estime par exemple que, pour gagner les électeurs, Nicolas Sarközy s’inspire nettement des méthodes de Richard Nixon en 1968 et en 1972.

 

À la différence de Qui sommes-nous ? de Samuel P. Huntington qui s’inquiétait de l’émergence d’une éventuelle Mexamérique, Caldwell pense que les Latinos, souvent catholiques et occidentalisés, peuvent renforcer et améliorer le modèle social étatsunien. L’auteur remarque même, assez justement, que « les Américains croient que l’Amérique, c’est la culture européenne plus l’entropie (p. 447) ». En revanche, l’Europe est confrontée à une immigration pour l’essentiel musulmane. L’Europe ne serait-elle pas dans le même état si l’immigration extra-européenne était principalement non-musulmane ? L’auteur n’y répond pas, mais gageons que les effets seraient semblables. Le problème majeur de l’Europe n’est pas son islamisation qui n’est qu’une conséquence, mais l’immigration de masse. Il serait temps que les Européens comprennent qu’ils deviennent la colonie de leurs anciennes colonies…

 

L’injonction morale multiculturaliste

 

Si cette prise de conscience tarde, c’est parce que « le multiculturalisme, qui demeure le principal outil de gestion de l’immigration de masse en Europe, impose le sacrifice des libertés que les autochtones européens tenaient naguère pour acquises (p. 38) ». L’imposture multiculturaliste (ou multiculturelle) – qui est en fait un monothéisme du marché et de la consommation – forme le soubassement fondamental de l’Union européenne et des « pays occidentaux [qui] sont censés être des démocraties (p. 435) ». Néanmoins, sans la moindre consultation électorale, sans aucun débat public véritable, « sans que personne ne l’ait vraiment décidé, l’Europe occidentale s’est changée en société multi-ethnique (p. 25) ».

 

À la suite d’Alexandre Zinoviev, d’Éric Werner et d’autres dissidents de l’Ouest, Christopher Caldwell observe la démocratie régresser en Occident avec l’adoption fulgurante de lois liberticides contre les hétérodoxies contemporaines. En effet, « l’Europe de l’après-guerre s’est bâtie sur l’intolérance de l’intolérance – un état d’esprit vanté pour son anti-racisme et son antifascisme, ou brocardé par son aspect politiquement correct (p. 128) ». Après la lutte contre l’antisémitisme, l’idéologie multiculturaliste de la tolérance obligatoire s’élargit aux autres minorités raciales et sexuelles et renforce la répression. Il devient désormais tout aussi grave, voire plus, de dénigrer un Noir, un musulman, un homo ou de nier des faits historiques récents que de violer une fillette ou d’assassiner un retraité ! « Peu à peu, les autochtones européens sont […] devenus moins francs ou plus craintifs dans l’expression publique de leur opposition à l’immigration (p. 38). » Rôdent autour d’eux de véritables hyènes, les ligues de petite vertu subventionnées grassement par le racket organisé sur les  contribuables. Et garde aux « contrevenants » ! Dernièrement, une Londonienne, Emma West, excédée par l’immigration et qui l’exprima haut et fort dans un compartiment de transport public, a été arrêtée, accusée de trouble à l’ordre public et mise en détention préventive. « Le journal Metro puis un journaliste de la chaîne américaine C.N.N. ont lancé un appel à la délation sur Twitter (2) ». La police des transports a même appelé à la délation sur Internet pour connaître l’identité de cette terrible « délinquante » ! Sans cesse soumis à une propagande « anti-raciste » incessante, « les Européens ont commencé à se sentir méprisables, petits, vilains et asexués (p. 151) ». Citant Jules Monnerot et Renaud Camus, Caldwell voit à son tour l’antiracisme comme « le communisme du XXIe siècle » et considère que « le multiculturalisme est presque devenu une xénophobie envers soi-même (p. 154) », de l’ethno-masochisme ! Regrettons cependant que l’auteur juge le Front national de Jean-Marie Le Pen comme un parti « fasciste », doctrine disparue depuis 1945…

 

La mésaventure d’Emma West n’est pas surprenante, car « l’État-nation multiculturel est caractérisé par un monopole sur l’ordre moral (p. 413) ». Les racines de ce nouveau moralisme, de ce néo-puritanisme abject, proviennent du traumatisme de la dernière guerre mondiale et de l’antienne du « Plus jamais ça ! ». « Ces dernières années, l’Holocauste a été la pierre angulaire de l’ordre moral européen (p. 356) ». Il était alors inévitable que « le repentir post-Holocauste devient le modèle de régulation des affaires de toute minorité pouvant exiger de façon plausible d’un grave motif de contrariété (p. 357) ». Être victime est tendance, sauf quand celle-ci est blanche.

 

Dans cette perspective utopique d’harmonie interraciale, il paraît certain qu’aux yeux des tenants du politiquement correct et du multiculturalisme, « l’Islam serait tout simplement la dernière catégorie, après le sexe, les préférences sexuelles, l’âge et ainsi de suite, venue s’ajouter au langage très convenu qu’ont inventé les Américains pour évoquer leur problème racial au temps du mouvement des droits civiques (pp. 234 – 235) ». Pour Christopher Caldwell, c’est une grossière erreur, lui qui définit l’islam comme une « hyper-identité ».

 

Le défi musulman

 

Le choc entre l’islam et l’Occident est indéniable : le premier joue de son dynamisme démographique, de son nombre et de sa vigueur spirituel alors que le second se complaît dans la marchandise la plus indécente et la théocratie absconse des droits de l’homme, de la femme, du travelo et de l’inter… Les frictions sont inévitables entre la conception traditionnelle phallocratique musulmane et l’égalitarisme occidental moderne. Allemands et Scandinaves sont horrifiés par les « crimes d’honneur » contre des filles turques et kurdes « dévergondées » par le Système occidental. Les pratiques coutumières de l’excision, du mariage arrangé et de la polygamie choquent les belles âmes occidentales qui exigent leur interdiction pénale. Mais le musulman immigré n’est-il pas lui même outré par l’exposition de la nudité féminine sur les panneaux publicitaires ou de l’homoconjugalité (terme plus souhaitable que « mariage homosexuel ») ?

 

Caldwell rappelle que le Néerlandais Pim Fortuyn combattait l’islam au nom des valeurs multiculturalistes parce qu’il trouvait la religion de Mahomet trop monoculturelle et donc totalitaire. Des mouvements populistes européens (English Defence League, Vlaams Belang, Parti du Peuple danois, Parti de la Liberté de Geert Wilders, etc.) commettent l’erreur stratégique majeur de se rallier au désordre multiculturel ambiant et d’adopter un discours conservateur moderne (défense de l’égalité homme – femme, des gays, etc.) afin d’être bien vus de la mafia médiatique. Par cet alignement à la doxa dominante, ils deviennent les supplétifs d’un système pourri qui reste l’ennemi prioritaire à abattre.

 

Pour l’auteur d’Une révolution sous nos yeux, l’islam est dorénavant la première religion pratiquée en Europe qui connaît l’immense désaffection des églises. L’homme étant aussi un être en quête de sacré, il est logique que la foi mahométane remplit un vide résultant de décennies de politique laïciste démente. Et ce ne seront pas les tentatives désespérées de Benoît XVI pour réévangéliser le Vieux Continent qui éviteront cette incrustation exogène parce que Caldwell démontre – sans le vouloir – le caractère profondément moderniste du titulaire putatif du siège romain : l’ancien cardinal Ratzinger est depuis longtemps un rallié à la Modernité !

 

Dans ce paysage européen de l’Ouest en jachère spirituelle, « les musulmans se distinguent par leur refus de se soumettre à ce désarmement spirituel. Ils se détachent comme la seule source de résistance au multiculturalisme dans la sphère publique. Si l’ordre multiculturel devait s’écrouler, l’Islam serait le seul système de valeur à patienter en coulisse (p. 423) ». Doit-on par conséquent se résigner que notre avenir d’Européen soit de finir en dhimmi d’un quelconque califat universel ou bien en bouffeur de pop corn dans l’Amérique-monde ?

 

Puisque Caldwell souligne que « l’immigration, c’est l’américanisation (p. 446) », que « l’égalité des femmes constitu[e] un principe ferme et non négociable des sociétés européennes modernes (p. 317) » et que « vous pouvez être un Européen officiel (juridique) même si vous n’êtes pas un “ vrai ” Européen (culturel) (p. 408) », il est temps que, hors de l’impasse néo-conservatrice, le rebelle européen au Diktat multiculturel occidental promeuve une Alter-Europe fondée sur l’Orthodoxie traditionnelle ragaillardie, un archéo-catholicisme antétridentin redécouvert et des paganismes réactivés, une volonté de puissance restaurée et des identités fortes réenracinées. « L’adaptation des minorités non-européennes dépendra de la perception qu’auront de l’Europe les autochtones et les nouveaux arrivants – civilisation florissante ou civilisation décadente ? (p. 45) » Ni l’une ni l’autre; c’est la civilisation européenne qu’il faut dans l’urgence refonder !

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Pour preuve supplémentaire, lire la chronique délirante d’Ariel Wizman, « Pourquoi les immigrés sont les meilleurs alliés du libéralisme », dans L’Express, 7 décembre 2011.

 

2 : Louise Couvelaire, dans M (le magazine du Monde), 10 décembre 2011. Pour soutenir au moins moralement Emma West, on peut lui envoyer une carte postale à :

 

Mrs Emma West

co HMP Bronzfield

Woodthorpe Road

Ashford

Middlesex TW15 3J2

England

 

• Christopher Caldwell, Une révolution sous nos yeux. Comment l’islam va transformer la France et l’Europe, préface de Michèle Tribalat, Éditions du Toucan (25, rue du général Foy, F – 75008 Paris), coll. « Enquête & Histoire », 2011, 539 p., 23 €.

 


 

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jeudi, 29 décembre 2011

Concurrence géopolitique dans le Pacifique

 

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Bernhard TOMASCHITZ:

 

Concurrence géopolitique dans le Pacifique

 

Les Etats-Unis veulent contrer la montée en puissance de la Chine: ils projettent d’encercler l’Empire du Milieu!

 

Dans les rapports bilatéraux entre les Etats-Unis et la Chine, la méfiance réciproque est désormais de mise. Lors de sa visite en Australie, le Président américain Obama a en effet déclaré: “J’ai pris une décision d’ordre stratégique: en tant qu’Etat riverain du Pacifique, les Etats-Unis joueront dans l’avenir un plus grand rôle dans la mise en valeur de cette région; c’est là une politique à mener sur le long terme”. De plus, les Etats-Unis entendent bâtir une base militaire à proximité de la ville de Darwin dans le Nord de l’Australie, où seront plus tard casernés 2500 soldats d’élite. Obama veut en plus créer une zone de libre-échange dans le Pacifique qui comprendrait l’Australie, le Japon, Singapour et le Vietnam, tandis qu’il n’y aurait aucune place pour la Chine dans ce projet.

 

 

Quand ils prennent acte de ces projets stratégiques, les Chinois craignent d’être encerclés par les Etats-Unis. Soupçon parfaitement justifié! Déjà en 2006, les Etats-Unis et l’Inde avaient signé un accord d’ampleur assez vaste par lequel la Nouvelle Delhi se voyait reconnaître au niveau international comme puissance nucléaire. Outre cet accord américano-indien, les Etats-Unis entretiennent des bases militaires au Japon et en Corée du Sud. Si dorénavant l’Axe liant les puissances d’Asie aux Etats-Unis se voit prolongé jusqu’en Australie, alors l’influence de la Chine restera limité à ses seules eaux côtières.

 

 

Les projets de Washington doivent se percevoir comme une tentative d’endiguer la Chine, tant que cela est encore possible. Car le développement économique de l’Empire du Milieu s’effectue à une vitesse de croissance inégalée, ce qui agace et inquiète les Etats-Unis, encore plus préoccupés par l’éveil d’une politique étrangère chinoise bien consciente des enjeux planétaires. Au Conseil de Sécurité de l’ONU, les Chinois ne cessent de torpiller les projets américains, comme, par exemple, quand il s’agit d’infliger à l’Iran des sanctions encore plus draconiennes. Dans la lutte pour la domination économique des Etats riches en matières premières, notamment en Afrique et en Asie centrale, Beijing et Washington sont devenus de véritables rivaux. A tout cela s’ajoute que le modèle chinois, couplant une économie libéralisée et un appareil d’Etat autoritaire, exerce une attraction de plus en plus évidente sur les pays en voie de développement et sur les pays émergents qui préfèrent opter pour un avenir politique différent de celui suggéré par la “démocratie libérale” de type américain. De ce fait, la Chine n’est plus seulement un concurrent économique des Etats-Unis mais elle les défie en agissant justement sur leur point le plus sensible: celui de vouloir incarner et propager de manière monopolistique la seule démocratie de facture occidentale, au détriment de toutes les autres formes possibles de gouvernance. Ce n’est donc pas un hasard si, un jour, Obama a déclaré, en s’adressant à la Chine d’un ton assez menaçant: “Nous continuerons à expliquer, y compris à Beijing, quelle est la signification pour nous du maintien des normes internationales et du respect des droits de l’homme pour le peuple chinois”.

 

 

Il y a plus: la modernisation des forces armées chinoises, et surtout de la marine de guerre de l’Empire du Milieu, montre que Beijing n’entend pas se contenter, dans l’espace pacifique, d’un rôle de “junior partner”, soumis à la volonté américaine. Le renforcement militaire chinois a pour effet que les frais d’entretien de l’empire américain doivent désormais être révisés à la hausse dans la région, notamment pour garantir la sécurité d’alliés comme le Japon ou la Corée du Sud et surtout Taiwan. Plusieurs incidents confirment ce nouvel état de choses: la marine chinoise s’attaque de plus en plus souvent à des navires de prospection vietnamiens ou philippins qui oeuvrent en Mer de Chine du Sud, espace marin dont les riverains se querellent à propos du tracé des frontières maritimes et, partant, sur la superficie de leur zone d’influence économique. Lors de ces escarmouches, ce ne sont pas tant les Vietnamiens ou les Philippins qui sont les destinataires des menaces chinoises mais avant tout les Etats-Unis.

 

 

Les Chinois, dans ce contexte, s’inquiètent surtout de l’amélioration constante des rapports américano-vietnamiens, en dépit du souvenir cuisant de la guerre du Vietnam. Le Vietnam communiste a certes libéralisé son économie en s’inspirant du modèle chinois et s’est ouvert aux investisseurs étrangers mais les relations avec le grand voisin du Nord n’en demeurent pas moins empreintes de méfiance pour des raisons historiques. Pendant des siècles, les Vietnamiens ont dû payer tribut aux empereurs de Chine et, pendant la seconde moitié du 20ème siècle, la Chine n’a jamais omis de toujours briser, avant qu’ils ne se concrétisent, les rêves vietnamiens de devenir une puissance régionale, en dépit de la “fraternité communiste” censée unir Hanoi à Beijing. Quant au Vietnam, le pays le plus densément peuplé de l’Indochine, il a toujours revêtu une signification particulière pour les Chinois: en effet, la puissance étrangère qui contrôlera ce pays limitera ipso facto et de manière considérable l’influence de Beijing dans la région et fera courir à la Chine le risque d’être encerclée.

 

 

Où l’affaire risque bien de devenir explosive, c’est quand les relations américano-vietnamiennes se trouvent renforcées par les activités du consortium pétrolier américain Exxon dans les eaux de la Mer de Chine du Sud. Fin octobre, l’Energy Delta Institute annonçait qu’Exxon avait découvert devant les côtes du Vietnam “des gisements de gaz d’une ampleur assez considérable” dans une région qui est également revendiquée par la Chine. La situation, déjà âprement concurrentielle, pourrait dès lors prendre une tournure plutôt dangereuse. Car, au même moment, le ministère de la défense américain travaillerait, selon le “Financial Times”, “à développer rapidement une nouvelle stratégie prévoyant une bataille aérienne et navale, afin d’acquérir à terme les moyens de contrer les plans chinois visant à empêcher les forces armées américaines de pénétrer dans les mers voisines de la Chine”.

 

 

Berhard TOMASCHITZ.

 

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°48/2011; http://www.zurzeit.at ).