Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

dimanche, 17 mai 2015

Capire la Russia

capirelarussia-cover.jpg

Capire la Russia

Intervista a Paolo Borgognone

L'autore di "Capire la Russia" (Zambon Editore, 2015) traccia un quadro delle dinamiche politiche e sociali nella Russia postsovietica degli ultimi 25 anni. [Alberto Melotto]

 

di Alberto Melotto

Ex: http://www.megachip.info

"Il puritanesimo è l'ossessionante paura che qualcuno, da qualche parte, possa essere felice". Questo aforisma di Henry Louis Mencken ci sembra appropriato ad introdurre il volume Capire la Russia di Paolo Borgognone (Zambon Editore, 2015) che non è soltanto una cronaca degli ultimi venticinque anni di tempestosi rapporti fra il ricco mondo consumista e il (non più) misero mondo comunista, ansioso di liberarsi degli umili stracci di Cenerentola. E' innanzitutto lo studio di un sentimento atavico, pressoché impossibile da estirpare, venato di bluastre striature di fanatismo, come tutte le pulsioni tristi: la russofobia. Come tanti alunni di scuola elementare, ingobbiti nella lettura di un abbecedàrio della paura, ripetiamo quel che ci è stato insegnato fin dalla più tenera età: meglio diffidare di tutto ciò che viene da est. In altre parole: viviamo in una perenne condizione di strabismo culturale e politico.

Molti vedono il fascismo dove non c'é, lo stesso Borgognone ha dovuto subire questa accusa per non aver descritto gli anni di Putin in maniera manichea e pregiudizievolmente ostile, e non lo sanno vedere dove, invece, è purtroppo assai presente, ovvero l'Ucraina e gli stati baltici ormai prede di movimenti neo-nazisti che non si nascondono più nei vicoli oscuri della storia, ma riemergono baldanzosi, per tornare a macchiarsi di crimini odiosi. E ancora: paventiamo la rinascita di un Impero russo, e non ci accorgiamo che un altro Impero, quello statunitense, ci obbliga a muoverci sullo scacchiere internazionale come marionette obbedienti, ad appoggiare regimi che sventolano il simbolo della svastica nel cuore dell'Europa.

Nel volume Capire la Russia si può trovare una dettagliata descrizione del golpe di EuroMaidan: qui si parla di influenti attori dell'establishment statunitense che incitano la folla (peraltro interessata: un tanto al giorno per farsi riprendere dalle tv, tre volte tanto per mettersi a picchiare i poliziotti) a liberarsi dal giogo del cosiddetto dittatore corrotto Viktor Janukovyc per legarsi mani e piedi ai voleri della tecnocrazia di Washington e Bruxelles. C'è il racconto di una Russia, offesa e calpestata negli anni novanta del secolo scorso che prova, faticosamente, a riprendere contatto con la propria identità, anche attraverso il ricorso alla fede ortodossa.

Milioni di persone, donne e uomini, che intravedono nel luccichìo del bazar d'occidente qualche sinistro bagliore, in grado di confondere per qualche istante ma non di accecare per sempre. Come dice Giulietto Chiesa nell'introduzione al libro di Borgognone, la Russia si è risvegliata. Diversamente dalla nostra opinione pubblica, che ancora è immersa in un sonno malsano, popolato di nemici immaginari. Come ulteriore invito alla lettura, proponiamo di seguito alcune domande all'autore di Capire la Russia.


***

borogoWS_241733.jpg

Nel tuo volume appare chiaro il giudizio negativo su Boris Eltsin e il suo decennio di privatizzazione selvaggia di un'intera nazione, vorrei che ci spiegassi meglio cosa pensi di Michail Gorbacev, a tuo avviso il suo ruolo è stato quello di un improvvido legislatore, inconsapevole di quel che sarebbe accaduto con il suo programma di riforme, oppure la sua opera si può focalizzare come una sostanziale complicità nei confronti del processo di occidentalizzazione forzata della Russia/Urss?

Il mio giudizio politico su Mikhail Gorbaciov è decisamente negativo. Tale giudizio è corroborato dalle parole stesse dell'ultimo segretario generale del PCUS, che lo scorso anno, ricordando l'epoca della perestrojka, ebbe a dire: «Sembrava che avessimo preso Dio per la barba». Da questa dichiarazione, di esplicita autocritica per «l'eccesso di sicurezza in se stessi» degli architetti "comunisti riformisti" del crollo dell'URSS, si deduce l'elevato tasso di pressapochismo, improvvisazione e impreparazione politica ed economica dei fautori della perestrojka, eurocentrici sostenitori della "ristrutturazione" semicapitalistica dell'URSS mediante l'inoculazione, nel sistema sovietico, di consistenti dosi di liberismo mutuate direttamente dal modello thatcheriano (gli economisti "riformisti" del PCUS infatti, da Abalkin ad Aganbegjan, passando per Petrakov, Javlinskij e Shatalin, non avevano una teoria e un programma economici propri).

La conversione dell'economia sovietica a forme protocapitalistiche ispirate al capitalismo di libero mercato favorì e consolidò l'ascesa politica di una "nuova classe" di imprenditori privati, nati e cresciuti tra i settori di classe media del Komsomol e tra i manager dell'industria statale, che dopo il 1991 assunse indirettamente il controllo politico del Paese (modello del "governo indiretto dei businessmen") e che, in Occidente, è conosciuta (e, ahimè, mediaticamente riverita) con il nome di "oligarchia". Fu sotto Gorbaciov che si svilupparono le forme embrionali della futura plutocrazia cleptocrate filoccidentale che, con la presidenza Eltsin, dominò e rapinò la Russia fino a distruggerne ogni residuo di Stato sociale assistenziale e nazionale sovrano. Il gorbaciovismo politico non fu meno improvvisato del gorbaciovismo economico. Gorbaciov favorì dunque quella che Costanzo Preve ha definito la «controrivoluzione dei ceti medi sovietici» che, tra il 1989 e il 1991, affossò l'URSS.

In questo ambito, infatti, il versante politico della perestrojka, la glasnost', attraverso l'allentamento dei meccanismi di controllo e repressione nei confronti del secessionismo e dello sciovinismo interno alle repubbliche sovietiche a struttura europea e assimilate per via militare all'area eurasiatica dopo il 1940-'45 (Paesi baltici, Volinia, Galizia, Bessarabia), "scoperchiò il Vaso di Pandora" dei nazionalismi radicali russofobici, tra i fattori determinanti, nel 1991, lo smantellamento dell'URSS come Stato unitario. In ambito internazionale infine, Gorbaciov favorì il processo di riduzione dell'URSS e della Russia a semi-colonia dell'Occidente (si veda a riguardo il vergognoso trattato sull'autolimitazione della dislocazione degli armamenti convenzionali sul territorio sovietico, firmato da Gorbaciov con la controparte occidentale nel 1990).

Di fatto, Gorbaciov e la sua cricca (Shevardnadze, Jakovlev, ecc.) di "riformisti" teorizzarono, propugnarono e favorirono la metamorfosi del sovietismo in liberalismo. E il liberalismo è un'ideologia e una prassi politica radicalmente incompatibile con l'inconscio collettivo (tradizionalista) russo. Per questo motivo, Gorbaciov non gode di particolari simpatie in patria (in "compenso" però è, comprensibilmente quanto interessatamente, molto amato dagli intellettuali e dalle classi dirigenti neoliberali occidentali).

Gennadij Zjuganov, leader del Partito Comunista Russo KPRF, nei primi anni '90 stabilì rapporti con alcuni ambienti della destra italiana, con i quali aveva in comune l'idea di salvaguardare la sovranità statuale dalla globalizzazione made in USA. Tu guardi con curiosità al cambiamento portato avanti da Marine Le Pen "l'ultima marxista di Francia" all'interno del suo Front National. Ci vuoi spiegare se e come è possibile un dialogo tra forze così diverse, sul tradizionale asse destra-sinistra, per ridare prospettiva politica e centralità al Vecchio Continente, l'Europa?

Bisognerebbe domandarlo al premier ellenico, Alexis Tsipras, leader di un partito di sinistra radicale (Syriza) che, nel gennaio 2015, ha costituito un'anticonformista maggioranza di governo non con i socialdemocratici filo-UE e filo-NATO de Il Fiume bensì con Greci Indipendenti, un partito nazional-conservatore di destra, ma rigorosamente anti-austerity e russofilo. Se Tsipras avesse ragionato attraverso gli anacronistici schemini ideologici novecenteschi della post-sinistra italiana (argine politico contro "la destra" genericamente intesa, persistenza del dogma ideologico dell'"antifascismo in totale assenza di fascismo", dialogo discontinuo ma sempre possibile e alleanze a corrente alternata con i "democratici" di centrosinistra, russofobi, pro-UE e pro-NATO), a quest'ora la Grecia non avrebbe un esecutivo timidamente sovranista e critico nei confronti della geopolitica atlantista, bensì sarebbe in balìa di un vuoto politico interno o, peggio, avrebbe un esecutivo di centrosinistra Syriza-To Potami, supinamente di complemento ai diktat neoliberali di Bruxelles e ai desiderata neocoloniali di Washington.

Personalmente, pur rimanendo un antifascista sostenitore della persistenza della dicotomia destra/sinistra (sebbene ridefinita su nuovi assi e trasformata dopo il 1989), sono al contempo un critico e un oppositore radicale della società liberale postmoderna centrata sull'egemonia ideologica del Politicamente Corretto e pertanto mi trovo dichiaratamente d'accordo con Giulietto Chiesa quando sostiene: «Io comincio a pensare che l'Italia si possa salvare soltanto attraverso una grande alleanza democratica e popolare» e non tramite la stantia e falsa di riproduzione "dialettica" tra un centrodestra neoliberale, pseudo-conservatore, perbenista e atlantista e un centrosinistra ultraliberale, libertario, pseudo-progressista e atlantista.

La dicotomia centrodestra/centrosinistra riproduce pedissequamente il modello di sfruttamento, alienazione e controllo tardocapitalistico. Occorre, nella fase attuale, connotata dalla radicalizzazione delle politiche di guerra neocoloniale verso l'esterno e di smantellamento dei residui di sovranità, socialità e democrazia dei singoli Stati all'interno, cominciare a pensare a qualcosa di nuovo. D'altronde, a fronte dell'emergenza della guerra di liberazione, tra il 1944 e il 1945, Togliatti non si era alleato, nel CLN, persino con i monarchici? In Russia invece, l'antitesi europea destra/sinistra non ha alcun valore, la storia del grande Paese eurasiatico lo dimostra e solo chi è male informato o in malafede può far finta di non vederlo.

Nel pensiero di Alexander Dugin, attratto dall'idea di "socialismo nazionale" ma anche da autori tabù come Julius Evola, si identifica la Russia come segnata da un destino assai particolare e scomodo, essere parte fondante di un impero, questa nozione non è contraddittoria rispetto all'idea di un nuovo polo geopolitico, area comune euroasiatica sottratta all'influenza statunitense? Perché gli europei dovrebbero fidarsi della Russia? Il tempo dell'autocrazia, di marca zarista o staliniana è davvero finito?

Occorre innanzitutto distinguere nettamente tra le definizioni di "impero" e di "imperialismo", che non sono sinonimi, contrariamente a quanto veicolato dalla vulgata mediatica russofobica corrente. L'"impero" è principalmente una categoria metafisica, un «servizio religioso», per citare le parole di Alain de Benoist. L'"impero" è, nel caso eurasiatico, l'epifania della "Terza Roma", bizantina, ortodossa, profondamente influenzata dalla tradizione dei "popoli della steppa" (unni, tataro-mongoli), un ancestrale e non sempre lineare crogiuolo di identità tradizionali, popoli, culture, lingue, religioni e vissuto storico, unificato dalla comune consapevolezza di appartenere e votarsi a una "missione universale".

La categoria di "impero" è ostile al particolarismo etnico dello Stato nazionale, al nazionalismo borghese, al razzismo, a ogni forma d'intolleranza religiosa. L'"impero" ha peculiarità geopolitiche tellurocratiche. Si configura, nell'ambito della geopolitica dei grandi spazi, o dei blocchi geopolitici continentali, in opposizione all'imperialismo, ossia alla strategia talassocratica anglosassone di compimento della teoria liberaldemocratica postmoderna della "fine capitalistica della Storia" e del trionfo illimitato della società tecno-mercantile dei consumi, dei desideri e dell'alienazione di massa. L'imperialismo utilizza i nazionalismi etnici e gli sciovinismi campanilistici per aprire delle fratture politiche all'interno delle singole unità statuali che vuole ricondurre al proprio dominio.

L'imperialismo è omologatore e tende allo scioglimento, nella postmoderna "società liquida", delle identità collettive, riconvertite in tribalizzati atomi di consumo e desiderio capitalistico. L'"impero" è invece custode geloso di identità e culture premoderne. Quella russa è una «nazione costitutiva di impero» (cit. Alain de Benoist), gli USA non sono che una «democrazia imperialista». Naturalmente, non vedo incomponibilità tra l'idea moderna di Stato-Nazione e l'idea premoderna di "impero", perché gli Stati possono sopravvivere, seppure ridimensionati rispetto ad alcune prerogative sovrane, come unità nazionali interne al summenzionato blocco continentale eurasiatico.

Il modello da seguire è, a mio avviso, quello della nascente Unione eurasiatica indicata da Putin. Per quel che riguarda i temuti "residui autocratici stalinisti" in Russia, credo che essi siano presenti più nella letteratura e nella pubblicistica scandalistica (infogossip politico) occidentali che non nella realtà delle cose. Oggi la Russia tende verso la concretizzazione di un sistema politico interno di «democrazia sovrana» nazionalmente orientata all'autonomia geopolitica ed economica, che ricorda più il gollismo francese o il neoperonismo argentino che non lo stalinismo. Il modello politico di «democrazia sovrana» dovrebbe essere guardato con particolare attenzione da chi, nei Paesi della UE, si oppone alla riduzione dell'Europa al rango di vassallo strategico degli USA per il tramite della NATO, del Trattato transatlantico di libero scambio e libero commercio (TTIP) e dell'invasività dei modelli consumistici, televisivi e mediatici più in generale, provenienti da Oltreoceano.

Negli anni '70 Pier Paolo Pasolini affermava non esservi più una vera distanza tra un giovane comunista e un giovane fascista, i due tipi erano antropologicamente affini, a suo dire: in questo senso, la Russia odierna è riuscita a preservare una propria diversità rispetto ad alcuni deleteri stili di vita occidentali, quali l'uso smodato di tecnologie, l'individualismo sfrenato, la chiusura nel particolare? Esiste ancora una comunità nazionale in Russia, e se la risposta è positiva, ciò si deve anche, paradossalmente, all'attacco mediatico e militare che viene dal blocco atlantico?

Dopo il 1991, la Russia è diventata un Paese capitalistico a regime neoliberale oligarchico. Ciò significa che l'allora cricca "democratica" di Eltsin e dei Chicago Boys (tutti economisti liberisti, thatcheriani, provenienti dalle cellule dipartimentali universitarie del PCUS, ossia tutti rampanti intellettuali di classe media forgiatisi all'interno delle strutture ideologiche del Partito comunista, una burocrazia che mirava esclusivamente alla perpetuazione e alla salvaguardia dei propri privilegi castali, anche al prezzo di convertire se stessa alla più ferrea fede politica neoliberale) brigò per mutare la "struttura nazionale russa" (tradizionalista, eurasiatista e socialista) in direzione liberale, atlantista e liberista.

Eltsin e i "democratici", dopo il 1991, posero in essere un vero e proprio tentativo di ingegneria sociale volto a eliminare gli ancestrali contenuti tradizionalisti, eurasiatisti e socialisti dell'inconscio collettivo russo mediante la promozione degli pseudo-valori liberaldemocratici occidentali all'interno del corpo sociale russo. Il tentativo eltsiniano di occidentalizzazione della società russa diede inizialmente i suoi frutti perché buona parte dei ceti medi autoctoni, all'inizio degli anni Novanta del XX secolo, aveva effettivamente rivestito se stessa di abiti mentali neoliberali. Importante citare, a riguardo, le seguenti parole del noto politologo neocon e pervicacemente atlantista Samuel P. Huntington: «Un sondaggio condotto nel 1992 su un campione di 2069 russi europei indicava che il 40 per cento degli intervistati era "favorevole all'Occidente", il 36 per cento "contrario all'Occidente e il 24 per cento "incerto"». (S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano, 1996, p. 206).

Nel febbraio 2015, vent'anni dopo e al culmine dell'offensiva atlantista contro la Russia, l'81 per cento dei russi intervistati da un sondaggio Levada Center esprimeva un'opinione «negativa» o «molto negativa» rispetto agli USA e il 71 per cento avversava allo stesso modo la UE. L'attacco mediatico, politico, economico e militare condotto dal blocco atlantico contro la Russia aveva suscitato la reazione patriottica e identitaria antioccidentale dei russi, che sembravano aver finalmente archiviato le alchimie ingegneristico-sociali dei mad doctors radunati attorno a Boris Eltsin tra il 1991 e il 1999. Tuttavia, la sensibilità nazionalpatriottica di ampia parte della società politica russa non deve essere ravvisata esclusivamente come elemento di istintiva risposta identitaria dinnanzi alla giusta percezione del pericolo atlantista, divenuto evidente con il processo di espansione a Est della NATO.

La maggior parte dei russi non è patriottica perché si sente accerchiata dall'Alleanza atlantica ma in quanto strutturalmente adattata a un inconscio collettivo che potrei definire "conservatore" e "rivoluzionario" al contempo. L'inconscio collettivo identitario ("conservatore-rivoluzionario" o "nazional-bolscevico") russo affonda le sue radici nella storia dell'immenso Continente-Impero eurasiatico e non è pertanto un fattore di mera contingenza difensiva. Tra l'altro la "struttura russa", tradizionalista e nazional-bolscevica, rifiuta l'esclusivismo etnonazionalista, la xenofobia e lo sciovinismo tipico degli Stati-Nazione borghesi e coloniali europei. Nel momento in cui, segnatamente sotto Pietro il Grande, la Russia ebbe tentazioni scioviniste e coloniali, ciò fu dovuto all'adozione, da parte dello "zar riformatore", degli «obiettivi diplomatici che le suggerivano gli stranieri» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Napoli, 2014, p. 87).

Determinante, nel novero del complesso di valori culturali identitari alla radice della particolare e del tutto originale "struttura russa", il ruolo esercitato dalla spiritualità ortodossa come fattore di mobilitazione delle masse in chiave nazionalpatriottica (si veda l'alleanza antifascista tra "trono e altare" stabilita tra Stalin e la Chiesa Ortodossa Russa nel 1941, come motore ideologico della Grande Guerra Patriottica). In definitiva, sono perfettamente d'accordo con Giulietto Chiesa, nel momento in cui, in una recente intervista, ha affermato: «La Russia, indipendentemente da chi la comanda, è la Russia: ha una sua cultura a parte. Non potrà mai diventare un Paese consumistico stile Usa. Sarebbe bene che l'Occidente lo capisse una volta e per tutte» (A. De Alberti, Giulietto Chiesa: «Putin autocrate? Solo per USA e UE», intervista a Giulietto Chiesa, in «Lettera 43», 2 maggio 2015).

La tregua in Ucraina sembra ormai essere stata definitivamente spazzata via, quali scenari dovremo aspettarci nei prossimi mesi?

Non azzardo previsioni sul futuro, mi limito all'analisi del presente. E ritengo che l'unica chance che le forze europee d'opposizione alla guerra e all'imperialismo hanno per fermare la spedizione coloniale portata avanti dalle truppe e dalle milizie ultranazionaliste di Kiev nella Novorossija è quella di battersi per l'uscita dei Paesi che ne fanno parte dalla NATO. La sconfitta del fascismo oggi passa per la fuoriuscita dalla NATO. L'orologio nucleare, che alla mezzanotte segnerà l'ora della guerra atomica, attualmente indica le 23:57.

Rifuggo dall'agitare scenari apocalittici e catastrofisti ma rilevo come sia in corso una guerra (politica, economica, militare, mediatica e culturale) d'aggressione degli USA e dei loro lacchè della NATO contro la Russia. Chi in Italia si oppone a tale strategia bellica, alla «quarta generazione della guerra» (la guerra politica e psicologica), deve battersi per promuovere l'uscita del Paese dalla NATO. Una sfida titanica quanto essenziale per ritrovare la sovranità nazionale e, in prospettiva, la sovranità di un Continente europeo che non può non essere alleato della Russia in funzione anti-egemonica.<7p>

L'Europa non potrà essere sovrana, neanche culturalmente, fintantoché sarà militarmente presidiata da truppe nordamericane. Concludo riportando alla memoria una frase del compianto Costanzo Preve, che nel 2010 disse: «Sarebbe stata possibile la filosofia di Socrate con una guarnigione militare persiana a presidio dell'Acropoli di Atene?». La risposta è assai semplice: no. Allo stesso modo, non è possibile lo sviluppo di un pensiero filosofico europeo autonomo fino a quando l'Europa sarà, dal punto di vista geopolitico e militare, un vassallo degli USA.

(9 maggio 2015)

samedi, 16 mai 2015

Nouveaux programmes scolaires: détruire l’identité nationale

cancres.jpg

Nouveaux programmes scolaires: détruire l’identité nationale

Les programmes scolaires revisités par Mme Najat Vallaud-Belkacem mettent l’islam en valeur et tentent d’abolir la transmission de la culture française et européenne. Cette entreprise, fort bien ciblée, est parfaitement corrélée au processus d’immigration de peuplement invasive, de colonisation et d’islamisation. Les nouveaux programmes prévoient qu’une partie de  l’histoire de France sera facultative (chrétienté médiévale) mais l’histoire de l’islam (truquée, on peut le prévoir…) obligatoire.

La logique islamisatrice

On croit rêver : en effet, dans les nouveaux programmes du collège concoctés par la ministre de l’Éducation nationale, Mme Najat Vallaud-Belkacem, l’histoire de la chrétienté médiévale, des Empires byzantin et carolingiens ou de la période des Lumières devient facultative. En revanche, en 5e, l’étude des débuts de l’expansion de l’islam est… obligatoire ! Le Conseil supérieur des programmes (CSP), peuplé d’islamo-gauchistes, a parfaitement validé ces choix. Ils entrent dans le projet d’effacer progressivement le récit de la mémoire historique nationale française au profit de l’identité des ”nouvelles populations”, selon le souhait du think-tank Terra Nova. Pour l’essayiste Dmitri Casali « on veut gommer les racines chrétiennes de la France ». C’est vrai, mais ce constat est insuffisant, il faut aller plus loin encore. Il s’agit tout simplement d’islamiser (et d’arabiser) l’enseignement de la mémoire historique dès l’adolescence.

Mais on cherche aussi à faire reculer dans les programmes tout ce qui pourrait heurter les musulmans le christianisme, les Lumières, etc.  « À croire qu’il ne faut pas heurter certaines sensibilités religieuses », remarquait pudiquement Hubert Tison, secrétaire général de l’association des professeurs d’histoire-géographie. Tout cela sous le prétexte d’ ”alléger les programmes” qui seraient trop chargés. En réalité, dans les collèges à forte proportion ou à majorité d’élèves musulmans issus de l’immigration, pour ne pas ”créer de problèmes”, on laisse aux professeurs le soin de faire l’impasse sur les sujets qui fâchent.

En revanche, tous les élèves, même dans les classes sans musulmans, devront obligatoirement étudier l’histoire de l’islam ! On se doute qu’elle sera enjolivée et expurgée de ses sombres réalités – comme par exemple l’esclavagisme des Africains, les raids barbaresques, les persécutions d’infidèles, etc. Derrière cette démission, cette soumission à l’islam, on retrouve aussi les pratiques soft-totalitaires de l’Éducation nationale, adepte du bourrage de crâne idéologique. Parmi les enseignements obligatoires, on trouve la traite négrière transatlantique et les conquêtes coloniales présentées comme des agressions ; toujours le même objectif : culpabiliser l’histoire de France.

Abolition et substitution  de la mémoire

casemanqu.jpgMme Najat Vallaud-Belkacem sait ce qu’elle fait. Avec la complicité des idéologues de l’Éducation nationale et la bénédiction de François Hollande, elle milite activement pour accélérer l’islamisation. En tant que féministe, adepte de la théorie du genre, égalitariste forcenée, elle semble ne pas percevoir l’insurmontable contradiction de sa position. Mais peu importe : pour elle, sans doute, la dépossession de l’identité française est prioritaire et corrélée à une volonté de procéder à une acculturation arabo-musulmane. Tout se passe comme si l’islam devait devenir, par force, ”notre histoire”, comme si nous devions l’incorporer dans notre mémoire. Cela correspond au dogme (de type stalinien) de l’idéologie dominante, maintes fois asséné en dépit de toute vérité historique, selon lequel ”la France a toujours été un pays musulman” ou un pays d’immigration et de mélanges permanents, sans identité fixe. Un récent rapport sur l’intégration parle, sans rire, de la « dimension arabo- orientale de notre identité ». Le n’importe quoi, le mensonge historique, au service du fanatisme idéologique. 

Dans les nouvelles réformes de déconstruction de l’identité européenne de la France, on trouve également le torpillage de l’enseignement du grec ancien, du latin et de l’allemand, destinés à disparaître progressivement  ou à devenir anecdotiques et marginaux. Et à cela, s’adjoint logiquement  le renforcement des ”enseignements de langues et de cultures d’origine” (ELCO). Il s’agit de faire apprendre les cultures et surtout les langues de leurs origines ethniques aux jeunes élèves issus de l’immigration, majoritairement l’arabe et le turc, qu’ils maîtrisent souvent mal ou pas du tout. Ces enseignements concernent aujourd’hui 92.500 élèves dont 87.000 dans le primaire, population scolaire en augmentation de 16%  de 2010 à 2015. En parallèle, l’enseignement grammatical et lexical de la langue française est volontairement torpillé. Les deux entreprises sont logiquement liées.

Il s’agit, outre la furie égalitariste et anti-élitiste du nivellement par le bas (notamment avec la suppression des classes bilangues), terriblement nuisible pour les classes modestes, de supprimer de l’enseignement non seulement l’héritage du christianisme mais aussi celui de la culture gréco-latine, pareillement reniés. Ethnocide culturel.

Les idiots de la République

C’est assez extraordinaire : la République renonce à l’intégration et à la francisation – encore plus à l’assimilation. Elle promeut le communautarisme ethnique et l’islamisation (tout en prétendant combattre l’islamisme !). En réalité, le pouvoir a pris acte des réalités démographiques et de l’immigration massive qu’il a favorisé depuis des décennies. M. Valls a déclaré le 5 mai 2015 devant les députés, fustigeant ceux qui s’opposaient à la réforme des programmes : « c’est une nostalgie que vous essayez de défendre, une nostalgie d’une France qui est celle du passé ».  Autrement dit, la ”nouvelle France” doit abolir la mémoire et l’identité de l’ ”ancienne France”. Les Français de souche doivent renoncer à leur identité et à leur ethnicité mais….pas les immigrés  allochtones ! Quant aux étrangers qui ont choisi l’assimilation française et européenne, ils sont tout autant méprisés.      M. Valls a avoué par ailleurs que «  le terme d’intégration ne veut plus rien dire ». Il lui préfère celui de « citoyenneté » Naïveté totale : la citoyenneté républicaine est totalement incompatible avec l’islam ! Et la vraie citoyenneté (voir Aristote) n’est possible qu’entre sociétaires qui possèdent les mêmes valeurs, la même mémoire ; autrement, c’est la rupture communautariste assurée avec, au bout, la guerre civile probable. Cette idéologie d’un angélisme crétin et, au fond, haineuse de l’identité européenne et française, a également été formulée par M. Sarkozy (mais, chez lui, par calcul politicien et non par fanatisme idéologique comme chez M. Valls) quand il a déclaré, repentant : « quand j’étais président de la République, je n’aurais pas du parler d’identité nationale mais dire que je voulais défendre les valeurs de la République ». Quelle république ? Une future république islamique ?

Il y a fort à parier que la droite, si elle revient au pouvoir en 2017, n’osera pas remettre en cause les mesures de démolition de Mme Vallaud-Belkacem.

France-aujourd-hui.jpg

Vers l’inévitable affrontement

La conscience nationale, les traditions autochtones sont donc traitées de ”nostalgie” ringarde, voire criminelle, par les collaborateurs de l’immigration massive et de l’islamisation. En revanche, les ” nouveaux Français” issus de l’immigration sont choyés comme jamais ; leur religion, leur culture, leurs langues sont mises en valeur et enseignées. Outre les nombreux privilèges, subventions, protections dont ils bénéficient par ailleurs. Ils sont flattés parce que leur nombre croissant fait peur. La tradition et la mémoire sont suspectes voire détestables quand elles concernent la France, son identité et son histoire ; mais elles sont formidables quand elles concernent les populations migrantes et, en particulier l’islam ; cet islam sur la véritable nature duquel on se bouche les yeux, soit par bêtise et ignorance, soit par pusillanimité et lâcheté.

Tout cela est parfaitement antidémocratique puisque la majorité des Français refuse cette politique de capitulation et de soumission. Mais la démocratie n’est pas le bac à sable de l’idéocratie de la gauche idéologue ou de la droite capitularde.  Cependant ces nouvelles mesures imposées par l’oligarchie à l’Éducation nationale sont la conséquence logique de l’immigration hors contrôle et du différentiel démographique intérieur : elle  a pris acte, avec jubilation, qu’intégration et assimilation étaient désormais quantitativement impossibles. C’est aux Français de souche de s’adapter, de renoncer à eux-mêmes, à leur enracinement. Leur histoire est terminée, forclose.  L’oligarchie (voir les analyses de Terra Nova) se dit et espère que dans pas si longtemps la véritable minorité visible, ce seront les Français de souche.

Mais est-ce bien sûr que cette stratégie réussisse ? Pas certain. Car les oligarques à la tête de la République française ont négligé les effets dialectiques de leurs décisions. À toutes choses, malheur est bon.  Autrement dit, en renforçant le communautarisme, notamment musulman (et en combattant par ailleurs l’islamisme et son terrorisme, contradiction absolue), les gouvernants renforcent par ailleurs la rupture  polémique  entre la France de souche et la ”nouvelle population”. Ils confortent des identités hostiles les unes envers les autres, dans leur rêve ”républicain” pacificateur. Ils préparent la guerre civile ethnique globale, qui impliquera évidemment, nécessairement l’islam, en Europe même.  Ils jouent avec le feu comme des enfants avec des allumettes. Ceux qui ont créé le chaos, irresponsables, seront dévorés, comme les enfants de Saturne. 

Articles connexes:

Quand juifs et homosexuels ont mis la barre très à droite

Marine-Lepen-Gay-C-Tim-Douet_0082_image-gauche.jpg

Quand juifs et homosexuels ont mis la barre très à droite
 
La débandade socialiste se mesure à la rapidité du renversement idéologique, du déplacement des clivages. Juifs et homosexuels ont mis la barre très à droite, jusqu’à se réclamer du nationalisme ou du conservatisme. On en voit les effets jusqu’au FN.
 
Administrateur civil, écrivain
Ex: http://bvoltaire.fr

Quelle ingratitude ! Les socialistes ont donné aux homos le droit de se marier comme des petits bourgeois, de mener une existence aussi banale que des hétéros, entre la marmaille à élever, le pavillon à construire et le brunch du dimanche à organiser.

Et quels n’ont pas été les efforts de Valls et Cazeneuve pour contenter le ban et l’arrière-ban du CRIF et des associations godillots de l’antiracisme qui gravitent autours du Parti socialiste comme les mouches au-dessus de l’étron !

Tout ça pour que Marine Le Pen fasse « carton plein chez les pédés », comme dirait Frédéric Mitterrand, et qu’Éric Zemmour, petit juif français né à Trappes, soit devenu la coqueluche de la France traditionnelle, et non moins éternelle, que l’on n’entendait plus.

L’histoire d’amour de la gauche française avec les juifs et les homosexuels aura duré cent ans, depuis l’affaire Dreyfus d’une part, et l’emprisonnement d’Oscar Wilde, son exil et sa triste mort en France, d’autre part.

La débandade socialiste se mesure à la rapidité du renversement idéologique, du déplacement des clivages. Juifs et homosexuels ont mis la barre très à droite, jusqu’à se réclamer du nationalisme ou du conservatisme. On en voit les effets jusqu’au FN, où la querelle de légitimité familiale se double de divergences sur la ligne stratégique et la nature des nouveaux adhérents.

En 2013, Finkielkraut, fils de juifs polonais, et en 2014, Zemmour, fils de juifs pieds-noirs, nous ont dit toute l’affection qu’ils avaient pour le pays qui a fait ce qu’ils sont devenus. De L’identité malheureuse aux Quarante années qui ont défait la France, ces deux cris d’amour à la nation française ont affolé le Landerneau médiatique et le parti dévot.

Il y avait de quoi. Il suffit de comparer, d’une décennie l’autre, ce qu’a été l’intelligentsia juive, ou se réclamant du judaïsme, du trio de la LCR trotskiste Krivine-Weber-Bensaïd à la gogauche atlantiste et droits-de-l’hommiste Kouchner-BHL-Glucksmann jusqu’aux néo-souverainistes Zemmour, Finkielkraut et Élisabeth Lévy.

mlpjuifs.jpg

De même, si le FN est devenu un repaire d’homosexuels, cela gêne surtout ses adversaires car faisant s’effondrer un pan de leur argumentaire : comment un parti sectaire, intolérant et quasi nazi, où les deux passe-temps favoris seraient de chasser le métèque et casser du pédé, peut en accueillir toute une tripotée qui s’y sentent chez eux comme des poissons dans l’eau ?

Les pédés ont viré à droite, depuis Pim Fortuyn et Jörg Haider à l’étranger, bien avant Philippot, depuis que le look Fred Perry – crane rasé, réappropriation parodique de la figure de la classe ouvrière blanche – a saisi le Marais. À l’extrême gauche anti-institutionnelle de Foucault, Barthes et Genet succéda le communautarisme queer de Guibert, Dustan et Eribon, puis la figure exemplaire de Renaud Camus, jadis proche de Barthes, puis l’auteur du Tricks à l’esthétique camp, jusqu’à sa sensibilité national-identitaire actuelle.

Le pourquoi est délicat si l’on ne veut pas tomber dans l’essentialisme. Une raison tient à la dynamique du minoritaire : on sent mieux l’air du temps, et le vent tourner, quand on n’appartient pas à la majorité qui fait la doxa. L’autre raison est un retour du refoulé : ceux qui sont allés le plus loin dans la détestation de la tradition, de la nation et du pater familias ont été les premiers à les redécouvrir.

Est-ce à dire que si l’on n’est pas juif, homosexuel, noir ou d’une communauté « opprimée », on est moins légitime à s’exprimer ? Eh bien oui. Au point qu’il faut que la majorité s’organise en « de souche » pour se faire entendre. La République unitaire est morte. Bienvenue dans la société communautarisée.

vendredi, 15 mai 2015

Pulverfass Mazedonien

MACEDONIA-POLICE_0_0.JPG

Pulverfass Mazedonien

von Frank Marten

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Am Wochenende lieferten sich mazedonische Streitkräfte mit albanischen Separatisten Feuergefechte. Mazedonien droht ein neuer Bürgerkrieg. Balkan-​Experte Frank Marten zu den historischen und ethnischen Hintergründen.

Die Vergangenheit scheint den kleinen Balkanstaat fest im Griff zu haben. 22 Tote, Dutzende Verletzte und zahlreiche zerstörte Bauten gab es am Wochenende – das erinnert an scheinbar längst vergangene Zeiten. Der Zwischenfall vor einigen Tagen im mazedonischen Städtchen Kumanovo könnte ein schlechtes Omen für die Zukunft Mazedoniens sein.

Der Vielvölkerstaat Mazedonien

Wer diesen Konflikt verstehen will, muss die ethnische Zusammensetzung des Landes betrachten. Die Bevölkerung der Republik Mazedoniens ist heterogen aufgeteilt: Knapp 64 Prozent sehen sich als slawische Mazedonier, die vor allem im Süden, im Westen und im Zentrum des Landes ansässig sind. Rund 25 Prozent der in der kleinen Republik lebenden Bevölkerung sind dagegen Albaner, die vor allem im Osten des Landes und an den Grenzen zum Kosovo und der Republik Albanien leben. Als politisches und kulturelles Zentrum dieser großen Minderheit gilt die Stadt Tetovo im Nordwesten des Landes an der Grenze zum Kosovo. Es handelt sich um die drittgrößte Stadt Mazedoniens.

Dementsprechend ist es nicht verwunderlich, dass gerade dort die Idee der Separation albanischer Gebiete von Mazedonien die meisten Anhänger findet. Beflügelt von dem Erfolg der „Befreiungsarmee des Kosovo“ (UCK) gründete sich um die Jahrtausendwende ein mazedonischer Ableger. Dessen Ziel war die Lossagung der albanisch besiedelten Gebiete Mazedoniens und der Anschluss dieser Gebiete an Albanien. Besonders umkämpft waren 2001 die Gebiete rund um Tetovo und das Grenzgebiet zum Kosovo sowie zur Republik Albanien.

Die UCK im Kosovo

In den knapp sechsmonatigen Kämpfen zwischen albanischen Separatisten und mazedonischen Sicherheitskräften begingen beide Seiten schwere Menschenrechtsverletzungen gegenüber der anderen Ethnie und ihren sakralen Bauten. Denn die Mehrheit der albanischen Mazedonier sind Muslime. Beendet wurde der Aufstand durch den Vertrag von Ohrid vom August 2001. Dieser gab den Albanern mehr Rechte als jemals zuvor in der mazedonischen Geschichte. Beispielsweise wurde die albanische Sprache nun als Kommunalsprache anerkennt. Gebieten mit eine überwiegend albanisch sprechenden Bevölkerung wurden im Rahmen des Abkommens mehr Selbstverwaltung und Entscheidungsgewalt eingeräumt.

Das Abkommen beendete zwar das Blutvergießen, nicht jedoch das durch den Aufstand ausgelöste Misstrauen zwischen den Ethnien. Der frühere mazedonische UCK-​Chef Ali Ahmeti gründete nach dem Aufstand die albanische Partei „Demokratische Union für Integration“, die die drittgrößte Partei im Land darstellt. Sie hat sich die Ausweitung der Rechte der Albaner auf die Fahnen geschrieben. Dennoch sei angemerkt, dass Ahmeti zu den eher moderaten Kräften gehört und auf Wahlen anstatt Blutvergießen setzt.

Die demographische Landnahme

Der überwiegende Teil der Mazedonier fürchtet eine Übernahme ihres Landes durch die albanische Minderheit. Schon jetzt bekommen albanische Mütter wesentlich mehr Kinder als mazedonische Frauen. Und dieser Prozess scheint sich ohne Unterbrechung fortzusetzen. Das Misstrauen auf beiden Seiten ist hoch. Knapp sieben Jahre nach der Beendigung des Aufstandes wurde im albanisch besiedelten Bezirk der Hauptstadt Skopje das „Museum der Freiheit“ eröffnet. Es sorgte vor allem mit der Zurschaustellung der Erfolge und Symbole der mazedonischen UCK für Furore innerhalb Mazedoniens.

Der Zwischenfall von Kumanovo bestärkte die Mazedonier in ihrem Misstrauen gegenüber den albanischen Nachbarn. Die UCK, die nach dem Aufstand von 2001 von der Bildfläche verschwunden war, taucht nun wie der Phoenix aus der Asche mit einem lauten Donnerschlag wieder auf. Dennoch ist wenig über den Vorfall bekannt: Laut der mazedonischen Regierung sollte es sich um eine Razzia gegen albanische Separatisten gehandelt haben, die vor einigen Wochen einen Grenzposten zur albanischen Grenze für einige Stunden übernommen hatten.

Verschwörungen um Kumanovo

Aus der Razzia entwickelte sich ein Feuergefecht zwischen den Separatisten und den mazedonischen Sicherheitskräften. Laut der mazedonischen Regierung, bestehend aus einer Koalition der christlich-​konservativen VMRO-​DPMNE mit der national-​albanischen DIU, seien diese vom Ausland aus gesteuert worden. Doch dieser Aussage wird sowohl aus dem Kosovo als auch aus Albanien widersprochen. Manche Oppositionelle vermuten hinter dem Vorfall von Kumanovo jedoch ein Ablenkungsmanöver der umstrittenen Regierung.

Denn die steht seit Wochen unter dem Protest der Straße. Grund dafür sei die illegale Abhörung von knapp 20.000 kritischen Journalisten und Oppositionellen gewesen, so internationale Medienberichte. Bauscht die mazedonische Regierung den Vorfall also medial auf, um somit von ihren eigenen Schandtaten abzulenken?

Nachbarstaaten heizen den Konflikt an

Wie dem auch sei – die Antwort der Nachbarstaaten ließ nicht lange auf sich warten. So kritisierten sowohl Albanien als auch das Kosovo die Vorgehensweise der mazedonischen Sicherheitskräfte. Sie forderten die mazedonische Regierung zur Einhaltung der Bestimmungen von Ohrid auf. Bulgarien, das sich als Schutzmacht Mazedoniens sieht, forderte eine lückenlose Aufklärung des Vorfalls. Diese Forderung teilt auch die Republik Serbien, die nach dem Vorfall bereits Polizeitruppen an der serbisch-​mazedonischen Grenze stationierte. Dort geht die Angst vor einem „Großalbanien“ um. Denn die UCK fordert auch die Angliederung von Teilen Südserbiens an das von ihr angestrebte „Großalbanische Reich“.

Die Angst vor einem erneuten Aufstand der Albaner ist nicht unbegründet: Durch die desolate Wirtschaftslage des Balkanstaates und die um sich greifende Korruption teilen viele Albaner den Wunsch eines geeinigten Großalbaniens unter der Flagge des schwarzen Adlers. Die mazedonische Politik sollte sich nun ihrer desolaten Lage bewusst werden und die Probleme im Land, die sie teilweise selbst zu verantworten hat, mit demokratischen Mitteln bekämpfen: „Nein“ zum albanischen Separatismus, „Ja“ zur regionalen Selbstverwaltung unter dem Schutz des mazedonischen Staates. Das bismarcksche Prinzip von „Zuckerbrot und der Peitsche“ könnte auch im tiefsten Balkan funktionieren. Von einem erneuten Blutvergießen hat niemand etwas – weder die Albaner noch die Mazedonier.

Anm. d. Red.: BN-​Autor Frank Marten hat mehrere Auslandsaufenthalte im Balkan, darunter auch im Kosovo und in Mazedonien, verbracht. Hier berichtet er über seine Reise in den Kosovo.

Front contre Front

mlpjmlp.jpg

Front contre Front

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

Alors que les politologues opposent le « vieux » FN de « Jean-Marie » au nouveau « FN » de « Marine », la classe politique, de gauche comme de droite, prétend au contraire que le FN n’a pas changé, ou alors simplement de manière cosmétique, que le nouveau est la continuité de l’ancien, à quelques « détails » près. Cette crise familiale et politique est-elle le choix de l’efficacité au détriment de l’authenticité, une véritable rupture ou une continuité masquée ?

Le FN de JMLP : provocations et incohérences.

Jean-Marie Le Pen, choisi comme figure de proue par une partie de la droite radicale et activiste, lassée des combats de rue en 1972, Dominique Venner rejetant la proposition qui lui avait été faite d’en être l’animateur, a voulu rassembler le camp dit de « droite nationale » autour de sa personne. Il était relativement indifférent aux querelles de chapelle et admettait tant d’anciens résistants que d’anciens collaborationnistes, dans la mesure où tous lui faisaient allégeance. Néanmoins, son parti fut une succession de départs et d’arrivées, au gré de diverses scissions liées à sa personnalité ou à ses positions fluctuantes. Dès 1973, la plupart des fondateurs du FN partirent « faire Front » puis en 1983 ce fut le départ de ceux qui allaient fonder le PNF. La plus grande scission, dont le FN n’a jamais réussi à se remettre, même en 2015, fut celle emmenée par Bruno Mégret.

Rappelons que cette scission était la conséquence non seulement de l’attitude de Le Pen, attisée par un clan épurateur dont sa fille Marine était une des animatrices les plus acharnées, mais aussi de choix tactiques différents. Toutefois, contrairement à ce qui a été souvent dit ces derniers mois, et affirmé aussi par Mégret lui-même, la « dédiabolisation » qu’il envisageait n’avait rien à voir avec celle de Marine Le Pen aujourd’hui. Il s’agissait simplement de ne plus donner d’armes aux adversaires par le biais de déclarations intempestives et/ou nostalgiques d’époques dont l’évocation n’apportait rien de bon, mais sans le moindre renoncement idéologique. Mégret a ainsi emmené avec lui les opposants les plus radicaux à l’immigration avant de les perdre au gré de ses défaites électorales.

Les provocations attiraient l’attention des media sur le parti et plaisaient à une partie de l’électorat. Ce côté anti-système était un positionnement confortable, même s’il amenait à se faire attaquer par toute l’intelligentsia politique et médiatique, car il évitait les remises en question douloureuses. Mais d’un point de vue politique c’était improductif puisque les chances réelles de succès étaient nulles. En 2002, la punition au second tour des présidentielles infligée à Jean-Marie Le Pen fut significative et sa réaction personnelle démontra qu’il avait compris qu’il n’aurait pas le pouvoir. Il l’avait sans doute compris dès 1995 en vérité. Alors tout ça pour quoi ?

Par ailleurs, le FN était un rassemblement hétéroclite sans aucune colonne vertébrale idéologique. Les néo-droitiers autour de Mégret et de Le Gallou avant 1998 avaient tenté de lui offrir une ligne. La revue « Identité » animée par Jean-Claude Bardet, le « Conseil Scientifique » du FN et d’autres structures la préparaient. Mais cette ligne rencontra l’opposition non seulement du président du parti mais de toute la coterie autour de lui. Les évolutions idéologiques, dans un sens plus souverainiste, les clins d’œil appuyés à l’islam, les renoncements doctrinaux, étaient au contraire défendus par JMLP, même s’il n’a jamais été un acharné de l’opposition à la construction européenne, à la différence de sa fille.

En outre, Le Pen lui-même n’était pas cohérent et oscillait entre ces deux positionnements, étant à la fois séduit par les thèmes nouveaux apportés par ceux qui allaient devenir les « mégretistes » et inquiet de l’ascension de son lieutenant au sein du parti. L’idée même de partager le trône avec lui était impensable. Mais ce discours « pré-identitaire » se heurtait aussi de front aux nostalgies coloniales du chef, à ce propos célèbre de jeune député en 1958 où il proposait un avenir français à la « jeunesse algérienne ». Lorsqu’on lit sous sa plume l’évocation d’une « Europe boréale » et la dénonciation implicite du « grand remplacement », on oublie son discours d'Argenteuil de 2007 adressé aux « branches de l’arbre France ». Le Pen a toujours hésité entre un nationalisme ethnique, pro-européen, et un nationalisme universel, potentiellement ouvert aux immigrés.

Enfin, en 1998, il osait évoquer à propos des mégretistes une « minorité extrémiste et même raciste », reprenant ainsi les accusations du système politico-médiatique à l’égard de gens qui quelques semaines auparavant étaient ses compagnons de route.
C’est oublier qu’il est plus que probable que les « mégretistes » n’ont fait que réagir par anticipation à une prévisible épuration envisagée par les courtisans, dont Samuel Maréchal (son gendre) et Marine Le Pen (sa fille), et admise implicitement par Le Pen.

Le FN de MLP : acheter la paix civile avec ses adversaires.

La stratégie de Marine Le Pen est le contraire exact de celle de son père. Elle dit vouloir le pouvoir et non témoigner. Mais, à la lire, on a l’impression que ce pouvoir est une fin en soi, et non le moyen de mener une autre politique. Son « FN » renonce à des convictions pour choisir des positions, fluctuantes au gré du vent. S’il lui faut garder un parfum d’acide, pour conserver un électorat dégoûté par la classe politique, et qui choisit le FN car différent (selon lui), le fond est considérablement allégé, les propositions les plus dures clairement adoucies ou abolies, y compris le refus de l’immigration passée. Le FN désormais se contente de réclamer un arrêt de l’immigration et une politique d’assimilation que certains jugent totalement illusoire, à l’instar de Julien Rochedy. Par ailleurs, il souffre d’un déficit de pensée. Le parti est en effet incapable de garder ses rares têtes pensantes, les privant de toute expression décomplexée. Chauprade a ainsi été fortement marginalisé suite à des propos hétérodoxes sur la question du « conflit entre civilisations ».

Le seul « intellectuel » du FN de Marine Le Pen semble donc Florian Philippot, qui sert à la fois de mentor politique de la présidente, de coach moral, de stratège en chef et d’épurateur n°1. Il est clairement à la manœuvre, même s’il s’en défend, et je dirais même surtout parce qu’il s’en défend, dans l’éviction de Jean-Marie Le Pen. Il a l’oreille de sa chef puisqu’il pense comme elle sur à peu près tous les thèmes.

Si Le Pen fille a au moins une conviction, c’est son rejet de l’idée européenne, qu’elle partage avec Philippot. C’est sur ce thème là qu’elle aura le plus de mal à faire son aggiornamento. Mais pour le reste, elle est prête à faire de son parti « le premier parti anti-raciste et anti-fasciste de France », pour reprendre une boutade de son père. Elle ira jusqu’au bout pour supprimer toutes les aspérités dérangeantes. Elle se guide aux sondages et études d’opinion, dans une certaine mesure seulement, et surtout aux media. Ce sont eux qui dictent sa politique de sanctions à l’intérieur du parti, eux qui traquent le moindre individu hétérodoxe en son sein. Elle préférera toujours un ancien socialiste ou gauchiste repenti à un nationaliste droitier.

En clair, pour accéder à une part de pouvoir, elle est prête à tout, alors qu’au contraire son père n’était prêt à rien. C’est là une différence fondamentale.

Deux lignes, deux échecs.

La ligne provocatrice à la JMLP menait à une impasse. Elle permettait certes d’obtenir entre 15 et 17% des voix à chaque élection, mais elle s’usait à la longue, en même temps que l’âge du capitaine augmentait. En 2007, il finit par tomber à 10% des voix et aux législatives suivantes le parti tomba à 4.3%. L’aventure risquait de se terminer comme elle avait commencé. La refondation était indispensable. Mais elle alla dans le sens exactement contraire, allant d’un extrémisme à un autre, d’un entêtement stérile à un renoncement qui ne l’est pas moins.

jmlpmlpmmlp.jpg


Si dans les urnes le FN de « Marine » réussit mieux, avec 25% aux européennes et à peu près autant aux départementales, c’est dû à un contexte social et politique plus que dégradé. Si JMLP lui-même n’aurait plus été capable de réaliser ces scores, n’importe quel remplaçant un minimum jeune et dynamique l’aurait pu. Il n’y a pas vraiment de plus value « Marine ». Elle attire certes de nouveaux électorats. Elle en fait fuir aussi certains, notamment en raison de son programme économique anxiogène et pathétiquement europhobe.

MLP échouera pour les raisons exactement opposées à celles de son père. Elle échouera en diluant le discours dans le « politiquement correct », en stérilisant intellectuellement le parti. Elle n’a pas réussi à conserver la démarche de rassemblement de son père. Mais en revanche le « principe du chef » s’est aggravé. L’autoritarisme interne règne par la terreur. Tout intellectuel digne de ce nom ne saurait accepter une stérilisation mentale. Tout homme de conviction ne pourrait que se heurter à cette ligne dictée par ses adversaires.

Pour le moment, sa chance formidable est que la diabolisation dont elle est l’objet continue, alors même qu’elle fait des efforts immenses pour y mettre fin. On lui prête ainsi un crypto-programme. Ses adversaires comme ses électeurs la prétendent beaucoup plus dure sur le fond qu’elle ne l’est vraiment. On l’imagine avec une main de fer dans un gant de velours. Mais c’est au contraire une main molle dans un gant de fer. Et à un moment donné, cela se verra. A un moment donné, ses électeurs découvriront le pot aux roses, à savoir que sur les questions essentielles qui les animent, et notamment l’immigration, elle a déjà renoncé avant même de se battre. Peut-être en 2017, peut-être après, cette supercherie médiatique sera découverte. Pour peu qu’un parti identitaire, et pourquoi pas pro-européen, émerge, et elle sera ringardisée et rapidement écartée du jeu. Car la raison d’être de son parti, et la cause de ses succès, a toujours été ce thème, un thème « diabolisant » qu’elle accuse de lui interdire l’accès aux portes du palais présidentiel.

Enfin, l’obsession présidentielle, qu’elle partage avec son père, nécessitant d’atteindre les 50% des voix, ce qu’aucun parti révolutionnaire n’a jamais été capable de réussir au XXème siècle dans aucun pays européen, la perdra. Elle est incapable de passer cette barre. Ses reniements se paieront par des électeurs en moins qui ne seront même pas compensés par des électeurs en renfort. Et si malgré tout, elle réussissait, elle ne tiendrait pas quinze jours, prise dans ses contradictions. Elle aurait déjà le plus grand mal à se choisir un premier ministre. Et de toute façon le pouvoir n’est plus depuis longtemps à l’échelle nationale, or c’est la seule échelle qu’elle puisse envisager. Au mieux, elle isolera la France comme Syriza isole la Grèce. Et finalement elle cédera.

Et pendant ce temps là, la situation de la France et de l’Europe s’aggravera et cette « voie de garage » représentera une « voie de blocage » face à de vraies solutions audacieuses qui pourraient émerger et « capitaliser » de nombreux électeurs. Entre l’extrémisme de forme du père et la mollesse de fond de la fille, il existe une troisième voie aussi éloignée de l’une que de l’autre. Elle devra se chercher non seulement en dehors de ce parti, dont la direction est verrouillée au moins pour vingt ans, mais en dehors même de son créneau politique. Car toute solution sera européenne ou ne sera pas.

Thomas FERRIER (PSUNE/LBTF)

Brzezinski et la formation des «élites hostiles» en Europe

Screen-Shot-2014-07-22-at-10.20.15-fbe1fe-840x550.png

Brzezinski et la formation des «élites hostiles» en Europe

Auteur : Nicolas Bonnal
Ex: http://zejournal.mobi

La grande obsession américaine n’est plus de conquérir le peuple, mais de contrôler ses élites. Rien de plus simple : il suffit d’imposer le culte des universités américaines, et l’on se retrouve avec les Young Leaders et les élites hostiles aux manettes ; dette, austérité, immigration et guerre humanitaire au menu.

C’est le fameux et immortel Zbigniew Brzezinski, architecte de la nouvelle guerre froide avec la Russie, qui décrit la nouvelle caste dominante dans sa Révolution technétronique (publié en 1969), qui exalte froidement un homme synthétique et cybernétique, des nations désossées et liquéfiées. Je cite un passage de cet anglais de laboratoire dont le mentor d’Obama a le secret, et qui montre que l’on n’aurait jamais dû renoncer au français comme langue diplomatique – mais nos rois très chrétiens sont partis…

« La création d’une grille globale d’informations facilitant l’interaction intellectuelle en continu et le partage du savoir renforcera le trend présent vers la formation d’élites internationales et l’émergence d’un langage scientifique commun. »

Le stratège devrait quand même indiquer que cette langue internationale est, depuis le traité de Versailles, l’anglais administratif, que nos ministres parlent mieux que leur langue natale. On se souvient, par exemple, de Christine Lagarde qui bredouillait ses premiers discours en français sur LCP. C’est sans doute pour cela qu’elle imposa l’anglais à son ministère, et que Sarkozy a donné un nom américain à son petit parti.

Brzezinski souligne ensuite que les intérêts des nouvelles élites européennes ne seront plus nationaux mais – quel beau mot ! – fonctionnels. Il insiste sur le rôle des universitaires : comme on sait, une grande partie des désastreux Premiers ministres et Présidents de France et d’Italie (Barre, Prodi, Hollande, etc.) sont avant tout des profs d’éco et de peu trépidants universitaires d’extraction keynésienne ou néolibérale, tous soumis à la doxa et à l’enseignement made in America, qui ont assuré à ce beau pays son bellicisme, son immigration clandestine, sa dette, ses déficits ou sa violence urbaine.

Le résultat, Brzezinski s’en moque : pour lui, ce qui importe, c’est l’abolition des frontières et la stricte coalescence de ces élites de mondains et de pédants. L’euro aura marqué cette rage d’unifier à tout prix contre les intérêts économiques et culturels des peuples concernés.

Enfin notre vieux renard prévoyait la réaction populaire et nationale à venir. C’était en 1969. Trois ans plus tard, on créait le Front national.

« Tout cela pourrait créer un fossé entre ces élites et les masses politiquement activées, dont le nativisme exploité par des leaders politiques pourrait marcher contre les élites cosmopolites. »

Une remarque : il n’y a rien de mal à être cosmopolite. Au XVIIIe siècle, nos élites aristocratiques étaient cosmopolites. Aujourd’hui, nos élites de péquenots sont américanisées. Ce n’est pas tout à fait la même chose…


- Source : Nicolas Bonnal

jeudi, 14 mai 2015

Échec du coup d'État US en Macédoine

macéd95808.jpg

Échec du coup d'État US en Macédoine

Auteur : Thierry Meyssan

Ex: http://zejournal.mobi

La Macédoine vient de placer hors d'état de nuire un groupe armé dont elle surveillait les commanditaires depuis au moins huit mois. Elle a prévenu ainsi une nouvelle tentative de coup d'État, planifiée par Washington pour le 17 mai. Il s'agissait d'élargir à la Macédoine le chaos déjà installé en Ukraine de manière à prévenir le passage d'un gazoduc russe vers l'Union européenne.

L’affaire de Kumanavo

La police macédonienne a lancé, le 9 mai 2015, à l’aube, une opération pour arrêter un groupe armé qui s’était infiltré dans le pays et qu’elle soupçonnait de préparer divers attentats.

La police avait évacué la population civile avant de donner l’assaut.

Les suspects ayant ouvert le feu, il s’ensuivit une dure bataille qui fit 14 morts du côté des terroristes et 8 du côté des forces de l’ordre. 30 personnes ont été faites prisonnières. On dénombre quantité de blessés.

Pas une action terroriste, mais une tentative de coup d’État

La police macédonienne était manifestement bien renseignée avant de lancer son opération. Selon le ministre de l’Intérieur, Ivo Kotevski, le groupe préparait une très importante opération pour le 17 mai (c’est-à-dire lors de la manifestation convoquée par l’opposition albanophone à Skopje).

L’identification des suspects a permit d’établir qu’ils étaient presque tous anciens membres de l’UÇK (Armée de libération du Kosovo).

Parmi ceux-ci, on trouve :

- Sami Ukshini, dit « Commandant Sokoli », dont la famille joua un rôle historique au sein de l’UÇK.
- Rijai Bey, ancien garde du corps de Ramush Haradinaj (lui-même trafiquant de drogues, chef militaire de l’UÇK, puis Premier ministre du Kosovo. Il fut jugé par deux fois par le Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie pour crimes de guerre, mais acquitté car 9 témoins cruciaux furent assassinés durant son procès).
- Dem Shehu, actuel garde du corps du leader albanophone et fondateur du parti BDI, Ali Ahmeti.
- Mirsad Ndrecaj dit le « Commandant de l’Otan », petit fils de Malic Ndrecaj commandant de la 132e Brigade de l’UÇK.

Les principaux chefs de cette opération, dont Fadil Fejzullahu (mort pendant l’assaut), sont des proches de l’ambassadeur des États-Unis à Skopje, Paul Wohlers.

Ce dernier est fils d’un diplomate états-unien, Lester Wohlers, qui joua un rôle important dans la propagande atlantiste et dirigea le service cinématographique de l’U.S. Information Agency. Le frère de Paul, Laurence Wohlers, est actuellement ambassadeur en République centrafricaine. Paul Wohlers lui même, ancien pilote de la Navy, est un spécialiste du contre-espionnage. Il fut directeur adjoint du Centre d’opérations du département d’État (c’est-à-dire du service de surveillance et de protection des diplomates).

Pour qu’il n’y ait aucun doute sur les commanditaires, le secrétaire général de l’Otan, Jens Stoltenberg, intervenait avant même la fin de l’assaut. Non pas pour déclarer sa condamnation du terrorisme et son soutien au gouvernement constitutionnel de Macédoine, mais pour transformer le groupe terroriste en une opposition ethnique légitime : « C’est avec une vive inquiétude que je suis les événements se déroulant à Kumanovo. J’adresse toute ma sympathie aux familles des personnes tuées ou blessées. Il est important que tous les dirigeants politiques et responsables de communauté s’emploient ensemble à rétablir le calme et fassent procéder à une enquête transparente pour déterminer ce qui s’est passé. J’appelle instamment chacun à faire preuve de retenue et à éviter toute nouvelle escalade, dans l’intérêt du pays et de l’ensemble de la région. »

Il faut être aveugle pour ne pas comprendre.

En janvier 2015, la Macédoine déjouait une tentative de coup d’État au bénéfice du chef de l’opposition, le social-démocrate Zoran Zaev. Quatre personnes étaient arrêtées et M. Zaev se voyait confisquer son passeport, tandis que la presse atlantiste commençait à dénoncer une « dérive autoritaire du régime » (sic).

violents-combats-nord-macédoine-180013512.jpg

Zoran Zaev est publiquement soutenu par les ambassades des États-Unis, du Royaume-Uni, d’Allemagne et des Pays-Bas. Mais il n’existe à ce jour de trace dans la tentative de coup d’État que de la responsabilité US.

Le 17 mai, le parti social-démocrate (SDSM) de Zoran Zaev devait organiser une manifestation. Il devait distribuer 2 000 masques de manière à empêcher la police d’identifier les terroristes au sein du cortège. Durant la manifestation, le groupe armé dissimulé par ces masques devait attaquer diverses institutions et lancer une pseudo-« révolution » comparable à celle de la Place Maidan de Kiev.

Ce coup d’État était coordonné par Mile Zechevich, un ancien employé d’une des fondations de George Soros.

Pour comprendre l’urgence de Washington à renverser le gouvernement de Macédoine, il faut revenir sur la guerre des gazoducs. Car la politique internationale est un grand échiquier où chaque mouvement de pièce provoque des conséquences sur les autres.

La guerre du gaz

 

Le gazoduc Turkish Stream devrait passer à travers la Turquie, la Grèce, la Macédoine et la Serbie pour déservir l’Union européenne en gaz russe. A l’initiative du président hongrois, Viktor Orbán, les ministres des Affaires étrangères des pays concernés se sont réunis le 7 avril à Budapest pour se coordonner face aux États-Unis et à l’Union européenne.

Depuis 2007, les États-Unis tentent de couper les communications entre la Russie et l’Union européenne. Ils sont parvenus à saboter le projet South Stream en contraignant la Bulgarie à annuler sa participation, mais le 1er décembre 2014, à la surprise générale, le président russe Vladimir Poutine lançait un nouveau projet en réussissant à convaincre son homologue turc Recep Tayyip Erdo?an de faire accord avec lui bien que la Turquie soit membre de l’Otan. Il était convenu que Moscou livrerait du gaz à Ankara et que celui-ci en livrerait à son tour à l’Union européenne, contournant ainsi l’embargo anti-russe de Bruxelles. Le 18 avril 2015, le nouveau Premier ministre grec, Aléxis Tsípras, donnait son accord pour que le gazoduc traverse son pays. Le Premier ministre macédonien, Nikola Gruevski, avait, quant à lui, discrètement négocié en mars dernier. Enfin, la Serbie, qui faisait partie du projet South Stream, avait indiqué au ministre russe de l’Énergie, Aleksandar Novak, lors de sa réception à Belgrade en avril, qu’elle était prête à basculer sur le projet Turkish Stream.

Pour stopper le projet russe, Washington a multiplié les initiatives :
- en Turquie, il soutient le CHP contre le président Erdo?an en espérant lui faire perdre les élections ;
- en Grèce, il a envoyé le 8 mai, Amos Hochstein, directeur du Bureau des ressources énergétiques, pour sommer le gouvernement Tsípras de renoncer à son accord avec Gazprom ;
- il prévoyait —à toutes fins utiles— de bloquer la route du gazoduc en plaçant une de ses marionnettes au pouvoir en Macédoine ;
- et en Serbie, il relance le projet de sécession du bout de territoire permettant la jonction avec la Hongrie, la Voïvodine.

Dernière remarque et non des moindres : le Turkish Stream alimentera la Hongrie et l’Autriche mettant fin au projet alternatif négocié par les États-Unis avec le président Hassan Rohani (contre l’avis des Gardiens de la Révolution) d’approvisionnement avec du gaz iranien.


- Source : Thierry Meyssan

mercredi, 13 mai 2015

Fuite TTIP/TAFTA: La proposition de l’UE est une menace pour les valeurs démocratiques

bonnes_raisons_de_stopper_tafta_.jpg

Fuite TTIP/TAFTA: La proposition de l’UE est une menace pour les valeurs démocratiques

Auteur : Corporate Europe Observatory
Ex: http://zejournal.mobi

Selon une nouvelle fuite concernant une proposition de la Commission Européenne pour les négotiations du partenariat de commerce et d’investissement transatlantique entre l’UE et les Etats-Unis (TTIP), les initiatives législatives des Etats membres de l’UE devront être examinées minutieusement pour leurs impacts potentiels sur les intérêts des entreprises privées.

 

La proposition fait partie d’un vaste projet de “coopération réglementaire”. Les groupes de la société civile ont déjà dénoncé des versions précédentes de ce plan, le jugeant propice à tuer dans l’oeuf ou à saper en amont les réglementations d’intérêt public. D’après eux, les nouveaux éléments détaillés dans cette nouvelle fuite aggravent le problème.

 

Les groupes de la société civile ont qualifié les plans d’“échanges réglementaires” d’affront à la démocratie parlementaire. “C’est une insulte aux citoyens, aux politiciens élus et à la démocratie elle-même”, dénonce Max Bank de Lobby Control.

 

La proposition d’“échanges réglementaires” forcera les lois rédigées par des politiciens élus démocratiquement à passer par un processus de criblage (notation) très lourd. Ce processus aura lieu dans les 78 Etats, pas seulement à Bruxelles et à Washington DC. Les lois seront évaluées selon leur compatibilité avec les intérêts économiques des grandes entreprises. La responsabilité de ce criblage reviendra à l’Organe de Coopération Réglementaire, un conclave permanent et non-démocratique de technocrates Européens et Américains.

 

“La Commission et les autorités américaines pourront exercer des pressions excessives sur les gouvernements et les politiques à travers cette mesure car ces acteurs puissants seront parachutés dans les procédures législatives nationales. Les deux vont également certainement partager le même programme politique: soutenir les intérêts des multinationales,” a déclaré Kenneth Haar de Corporate Europe Observatory.

 

“La proposition de la Commission introduit un système qui met en danger chaque nouvelle réglementation protégeant l’environnement, la santé et les travailleurs aux niveaux Européen et des Etats Membres. Cela crée un labyrinthe bureaucratique pour les régulateurs, payé par les contribuables, qui réduira la volonté politique d’adopter des lois dans l’intérêt général,” estime Paul de Clerck des Amis de la Terre Europe.

 

Le criblage prévu dans les “échanges sur les réglementations” pourrait avoir lieu avant qu’une proposition de loi soit formellement mise sur le bureau des députés et ce jusqu’à ce qu’elle soit adoptée, et ce également sur les lois existantes, donnant des opportunités continuelles pour diminuer ou retarder les actes réglementaires. Les articles 9 et 11 sont les plus explicites sur ce point.

 

“Ce qui certainement le plus effrayant est l’application potentielle de ce dispositif aux réglementations existantes – ce qui ne paralysera pas seulement les lois futures mais constitute également un retour en arrière,” s’inquiète David Azoulay du Centre pour le Droit International pour l’Environnement (CIEL).

 

“Non seulement cela va créer un processus outrageusement lourd pour l’examen des lois futures, mais toute loi d’intérêt général existante qui ne conviendrait pas aux intérêts commerciaux, et ce des deux côtés de l’Atlantique, sera soumise au même processus de mise en conformité aux intérets des entreprises.”

 

Notes : document “fuité” ici

 

Das Schicksal der Deutschbalten

Riga-middelalder-med-Svarthodenes-hus-til-hoyre.jpg

Das Schicksal der Deutschbalten

von Georg Schäfer

Ex: http://www.blauenarzisse.de

baltend.jpgVor fast 100 Jahren wurden die meisten Deutschen aus dem Baltikum vertrieben. Die komplexe Vorgeschichte schildert Siegfried von Vegesacks packende Romantrilogie Die Baltische Tragödie.

Die Worte von Leutnant Kay im Roman Die Geächteten von Ernst von Salomon stoßen heute bei vielen Deutschen auf Unverständnis: „Riga. Eine deutsche Stadt immerhin, von Deutschen begründet, aufgebaut und bewohnt.“

Vielen heutigen Deutschen ist die Leidensgeschichte der Baltendeutschen unbekannt. Dabei lebten sie fast 700 Jahre im Baltikum und gehörten der zur oberen sozialen Schicht an. Die letzten Jahre der deutschen Siedlung im Baltikum und den Untergang dieser Kultur beschreibt von Vegesacks Romantrilogie von 1935.

Kindheit auf dem Blumbergshof

Der baltendeutsche Schriftsteller hat hier eine stark autobiographische Darstellung vorgelegt: Sie beginnt mit der unbeschwerten Kindheit auf einem Gutshof in Livland, das im Gebiet des heutigen Estlands und Lettlands liegt. Aurel von Heidenkampf wächst auf dem Blumbergshof, irgendwo in Livland, sorgenfrei auf. Zahlreiche lettische Diener umsorgen ihn und seine Familie von früh bis spät. Aurel spürt schon früh, dass eine unsichtbare gläserne Mauer die Welt der deutschen Herren und der lettischen Knechte trennt. Diese Mauer wird etwa dann sichtbar, wenn sich die lettischen Bauernkinder nicht trauen, die Kinder der deutschen Herren bei einer Rauferei zu stark anzugehen. Denn andernfalls müssten sie befürchten, dass ihren Vätern das gepachtete Land gekündigt wird.

Aurel bleibt bei der Bewertung dieser sozialen Verhältnisse zwiegespalten. Einerseits erkennt er das Unrecht, dass der lettischen Bevölkerung widerfährt und schämt sich für sein luxuriöses Leben. Andererseits aber kann er auch nicht aus den Traditionen seiner Familien und der deutschen Oberschicht ausbrechen. Aurels Familie besteht neben seinen drei Brüdern und einer Schwester auch aus vielen Tanten und Onkeln. Diese Tanten und Onkeln sind untereinander sehr verschieden. Zum einen ist da der „angerusste“ Onkel Jegor, der in einem hohen Posten der russischen Regierung in Sankt Petersburg dient. Denn zu dieser Zeit stand das Baltikum unter der Herrschaft des Zarenreiches.

Die Russifizierung der Baltendeutschen

Eine andere Position nimmt Aurels Onkel Rembert ein, der sich gegen den Einfluss der russischen Regierung und der russischen Nationalisten auf das Baltikum verwehrt. Auf Aurel wirkt er wie ein alter Ordensritter. Die Idylle der frühen Kindheit wird allerdings immer wieder durch die Verlusterfahrungen gestört, die Aurel macht. Alle Personen, zu denen er eine innere Bindung herstellt, versterben bald darauf. Zuerst sterben seine Betreuerin, sein Hauslehrer, sein Cousin und sein engster Freund Boris. Schließlich folgt der Vater, nachdem Aurel zu ihm ein innigeres Verhältnis aufgebaut hat.

Nach dem Tod des Vaters zieht die Familie nach Riga. Hier erlebt Aurel, die starke Russifizierungsbestrebungen der russischen Regierung in der Schule, der sich die Baltendeutschen ausgesetzt sehen. Aurel weigert sich, die Erklärung „ Ich bin ein Russe!“ des russischen Geschichtslehrers zu schreiben. Sein Widerstand wird mit Schikane bestraft. Daraufhin nimmt Aurel eine noch stärkere russland-​kritische Haltung an. In Riga wird er von den dort lebenden Verwandten aus zwei völlig unterschiedlichen Seiten kritisiert. Sein russlandfreundlicher Onkel Jegor fordert Aurel und die Balten insgesamt auf, mehr Integrationswillen gegenüber dem russischen Zarenreich zu zeigen.

Vom Baltikum nach Berlin

Seine Klavierlehrerin, Tante Arabelle, hingegen kritisiert die baltische Gemütlichkeit. Sie schätzt den Arbeitssinn der Reichsdeutschen. Aurel orientiert sich aber am stärksten an seinem Onkel Rembert. Rembert fordert für die Baltendeutschen gegenüber der russischen Regierung ihre verbrieften Rechte ein. Eine starke Belastungsprobe für die Baltendeutschen ist die Revolution von 1905. Die schwappt von Russland auch nach Livland über. Die zuvor von der russischen Regierung aufgehetzten Letten ermorden deutsche Gutsbesitzer und brennen deren Höfe nieder. Auch einige von Aurels Verwandten fallen dem lettischen Mob zum Opfer. Erst durch eine russische Militärintervention kann das Gemetzel gestoppt werden.

Doch gleichzeitig lässt die russische Regierung die Hintermänner entkommen. Es ist klar, dass die Baltendeutschen dem zwiespältigen Treiben der russischen Regierung hoffnungslos ausgeliefert sind. Sie sind Herren ohne Heer, so der Titel des zweiten Bandes. Die Weltgeschichte überrollt die gemütlichen Balten. Doch für Aurel geht das Leben weiter. Nach dem Gymnasium studiert er – nach langem Ringen – zunächst Geschichte in Dorpat im heutigen Estland, um dort wie seine Brüder Mitglied bei der Studentenverbindung Livonia zu werden. Nachdem er bei einer Mensur am Auge verletzt wird, bricht er sein Studium ab. Er studiert danach in Berlin Musik. Berlin jedoch bleibt Aurel fremd, ebenso wie die Reichsdeutschen. Er ist irritiert und auch verletzt von ihnen als „Deutsch-​Russe“ abstempelt zu werden. Haben doch gerade die Auslandsdeutschen aufgrund der Verteidigung ihres Volkstums ihr Deutschtum stärker bewahrt als die Reichsdeutschen.

Doch trotz der Ablehnung fühlt er, dass in Deutschland auch nach siebenhundert Jahren noch immer seine Wurzeln liegen. Wieder zuhause angekommen, währt das Glück nur kurz. Schon kurz darauf, nach dem Ende des Ersten Weltkriegs, werden die Deutschen endgültig von den Letten aus dem Baltikum vertrieben. Die deutsche Kultur im Baltikum geht in den Wirren des Russischen Bürgerkriegs und des Kampfes zwischen Freikorps und Letten unter.

Ein unheimlich aktuelles Werk

Siegfrieds von Vegesacks Roman ist ein epochales Werk. Man findet keinen besseren Roman, wenn man sich mit dem Schicksal der Deutschen im Baltikum beschäftigen möchte. Hieran ändert auch der Schreibstil von Vegesack nichts. Die zum Teil bandwurm-​artigen Sätze stören den Lesefluss aber nur leicht. Zudem wohnt seinem Werk auch eine zum Teil ungeahnte Aktualität inne. Wird unsere deutsche Kultur nicht auch immer mehr durch eine große, fremde Macht von außen beeinflusst? Und drohen uns nicht, wenn auch unter anderen Vorzeichen, ähnliche Bürgerkriegsszenarien wie im Baltikum? Die Antwort auf diese Fragen finden sich in von Vegesacks Trilogie.

Siegfried von Vegesack: Die baltische Tragödie. Reihe Die Vergessene Bibliothek. Verlag F. Sammler 2004. 520 Seiten. Gebunden. 19,90 Euro.

Réflexions générales sur le concept d’ « Eurasie »

 

 
 
Robert Steuckers :
Réflexions générales sur le concept d’ « Eurasie »
 
 
Conférence préparée pour une rencontre eurasiste à Marseille, le 12 juillet 2014, présentée lors des « Rencontres eurasistes » de Bruxelles, le 18 octobre 2014
 
Quand on parle d’eurasisme actuellement, on a tendance à y voir une sorte d’ersatz des idéologies défuntes, qui devrait incessamment en prendre le relais, comme le voulaient par ailleurs les eurasistes des années 20 et 30, dont les démarches ont été analysées avec minutie par le Professeur Marlène Laruelle (1). Celle-ci démontre le caractère éminemment russe de la démarche eurasiste des années 20 et 30. Par conséquent, si l’Europe, le sous-continent indien, la Chine et d’autres puissances d’Asie centrale ou d’Asie orientale adoptent une stratégie « eurasienne » ou « eurasiste », le concept d’un eurasisme nouveau, conforme aux aspirations de l’Europe ou de ces autres puissances petites ou grandes, doit certes garder son noyau théorique russe, vu la qualité des arguments développés par les eurasistes de l’émigration russe de Berlin, Prague, Bruxelles et Paris entre 1920 et 1940 mais il doit aussi être élargi pour en faire la pratique naturelle des puissances du BRICS et donner corps à la géopolitique pragmatique suggérée à tous par le président kazakh Nazarbaïev, qui assure aujourd’hui les destinées de l’Etat le plus central de la masse continentale eurasienne, du « Heartland » tel qu’il fut théorisé par Sir Halford John Mackinder en 1904. 
 
Les Chinois et les Japonais (la filière géopolitique « mandchoue » de l’école dite de Tokyo, inspirée par les thèses grandes-continentales de Karl Haushofer) apporteront certainement leur pierre au nouvel édifice et la tâche de futures « rencontres eurasistes » pourraient fort bien être d’illustrer et de commenter des travaux réalisés à l’autre extrémité de la masse continentale eurasienne car la raison pragmatique nous induit tout naturellement à penser que l’avenir de l’Extrême-Orient aurait bien sûr tout à gagner d’un apaisement des tensions récentes entre la Chine et le Japon et à une réactivation des projets d’une grande « sphère de coprospérité est-asiatique » (Daitoa Kyoeiken), théorisés immédiatement avant la seconde guerre mondiale par le Prince Konoe, par le ministre japonais des affaires étrangères Matsuoka Yosuke et par le géopolitologue Sato Hiroshi (qui parlait également d’une « sphère de coprospérité des mers du Sud ») (2). Sato Hiroshi se réclamait de Haushofer dans la mesure où celui-ci estimait dans ses écrits que le Japon avait pour mission historique de contrôler les espaces de la « zone des moussons », dont la géopolitique américaine d’aujourd’hui reparle d’ailleurs avec grande précision, formulant un projet de contrôle serré de cette zone au départ de bases situées dans l’Océan Indien pour que Washington hérite définitivement, ou du moins durablement, des atouts que possédait l’Empire britannique jusqu’en 1947, année où les deux puissances rivales du sous-continent indien ont acquis leur indépendance (3).
 
De Krymski a Beckwith
Pour nous Européens de l’Extrême-Occident de la masse continentale eurasienne, une théorie eurasiste n’est possible qu’à la condition d’intégrer dans toute démarche politique ou diplomatique future et « eurasienne » le fait archéologique et linguistique indo-européen, comme l’admettait aussi un historien russe pré-eurasiste mais indo-européanisant du 19ème siècle, Agafangel Efrimovitch Krymski (1871-1942). En effet, avant la ruée des cosaques du Tsar vers le Pacifique, à partir de la fin du 16ème siècle, les peuples européens n’ont connu de projection vers le centre de la masse eurasienne qu’à l’époque de la conquête de ces vastes espaces steppiques par des peuples cavaliers proto-iraniens, comme le démontre avec une remarquable érudition le Professeur Christopher I. Beckwith (4) qui voit l’idéal politico-religieux le plus emblématique des peuples d’Eurasie formulé implicitement dès l’époque axiale de cette première migration vers le centre de l’Asie, vers les hauts plateaux iraniens puis vers la Chine (au-delà de la Dzoungarie), migration portée par des guerriers montés sur chars, aventureux, regroupés en « comitatus » autour d’un « prince » énergique, fondateur de structures politiques solides, figure charismatique qu’il faut imiter et reproduire sans cesse pour la gloire du peuple ou de la lignée dont on est issu. Pour Beckwith, l’idée eurasienne, l’idée seule capable de donner vigueur aux « empires de la Route de la soie » et des périphéries que Mackinder nommaient les « rimlands », est directement issue de ces premières vagues de la diaspora indo-européenne en Asie centrale, en Iran (y compris dans le royaume moyen-oriental de Mitanni) et au-delà de l’Indus dans le sous-continent indien, sous l’impulsion de la caste des kshatryas.
 
Pour Beckwith, ce modèle est certes d’origine européenne, se manifeste pour la première fois chez ces Proto-Iraniens, mais il a été repris successivement par tous les fondateurs d’empires de cette très vaste région, qu’ils aient été européens, huns, turcs, mongols, mandchous, etc. Tout théoricien ouest-européen d’un eurasisme nouveau doit donc intégrer ce fait protohistorique de la diaspora indo-européenne (ou proto-iranienne) dans ses réflexions (géo)-politiques, savoir qu’elle a un droit d’aînesse sur le plan axiologique, les ressacs qui ont suivi cette première expansion proto-iranienne, à partir des invasions hunniques ayant acculé l’Europe dans le cul-de-sac de la péninsule européenne, entre Mer Noire et Atlantique (res nullius à l’époque).
 
L’Europe-cul-de-sac
Aucune perspective géopolitique valable ne peut vouloir ce statut médiocre d’isolé en cul-de-sac, où semblent aujourd’hui se complaire les eurocrates, animés par des idéologies boiteuses, amnésiques, méprisables qui font dire à l’écrivain russe contemporain Edouard Limonov que l’Europe occidentale est devenue un « Grand Hospice ». Déjà au 12ème siècle, l’érudit anglais Guillaume de Malmesbury justifiait les Croisades non pas par le désir pathologique de faire la guerre à ses voisins mais de sortir de ce cul-de-sac pour récupérer les ports d’accès aux routes de la soie, pour ne pas mariner dans un isolement qui conduit à l’implosion, ce que confirme par ailleurs la grande spécialiste allemande contemporaine de l’histoire d’Arménie, Tessa Hofmann (5), quand elle évoque les royaumes arméniens de Cilicie aux 13ème et 14ème siècles. Après avoir reçu l’amical aval du grand Empereur Frédéric I Barberousse, ceux-ci branchaient, via les éléments croisés qui structuraient et protégeaient la région, l’Europe occidentale du moyen-âge sur le commerce d’Asie, première tentative de rompre l’encerclement, l’enclavement, qui étouffait l’Europe en occupant durablement la région d’Antioche, en tenant à distance les éléments seldjouks qui prétendaient couper les communications. Les Arméniens du « Comté d’Edesse » ont initié les caravaniers italiens aux routes de la Soie : c’est au départ des ports ciliciens, aux mains des Arméniens et des Croisés, que Nicola et Marco Polo entreprendront leurs voyages vers les immensités asiatiques ou vers la Cour du Grand Khan.
 
« Shatterbelt » et « gateway regions »
 
Quand on se complait dans l’idée médiocre d’une « Europe-cul-de-sac », on pose les limites orientales de l’Europe, limites purement théoriques, totalement dépourvues de pertinence, sur les Monts Oural alors que le sommet le plus élevé de cette chaine de collines est de 1600 m, exactement comme le Chasseral dans le Jura suisse. Entre l’Europe proprement dite, celle de l’espace civilisationnel médiéval, et les autres espaces impériaux d’Asie, de Perse et d’Inde, se situe un « shatterbelt » de zones mixtes, de zones de transit que le géopolitologue américain contemporain Saul B. Cohen (6) nomme également les « gateway regions » ou les « gateway states » : la Cilicie arménienne du temps des Croisades était une porte d’accès au « gateway » géant qu’est la Route de la soie ; l’Ukraine d’aujourd’hui est une autre « gateway region » et c’est, par la force des choses, une zone de fortes turbulences géopolitiques, tout comme le Nord de la Syrie et tout l’espace bouleversé par les forces de l’EIIL, un espace qui est bel et bien le correspondant actuel et l’extension vers la Perse de la Cilicie des 13 et 14ème siècles, mais un espace cette fois bouleversé de fond en comble, au point de ne plus pouvoir jouer pleinement son rôle de « gateway ». Début 2015, les observateurs les plus pertinents des effervescences en gestation pronostiquent d’ores et déjà de nouvelles zones de turbulence en Moldavie et au Turkménistan voire un affaiblissement programmé de l’Europe par une variante nouvelle des  « révolutions de couleur », sous la forme d’une confrontation entre populations autochtones (opérations PEGIDA en Allemagne et « Je suis Charlie » en France) et immigrés musulmans qui grèvera dangereusement les budgets des Etats et fragiliseront l’euro, suite à la crise grecque et à la victoire probable de l’extrême-gauche hellénique.
 
Cette brûlante actualité doit nous obliger à signaler les débuts d’une constante de l’histoire : les cavaliers proto-iraniens de la protohistoire, et leurs successeurs scythes ou alains, ont lié le vaste « shatterbelt » entre l’Europe et l’Inde, entre l’Europe et la Chine. Cette réalisation n’a suscité que nostalgies : l’Empire romain voulait rétablir la liaison avec l’Inde et la Chine, on le sait désormais comme le prouve l’importance de certains ports antiques en Mer Rouge, le site caravanier transarabique de Pétra en Jordanie ou les campagnes des empereurs romains en Mésopotamie. L’histoire des vagues successives de peuples cavaliers indo-européens vers l’Inde et la Chine devrait donc relever d’un savoir indispensable, digne complément des anciennes « humanités » (sabotées par des politiciens veules et criminels), nécessaire noyau d’une future paedia renaissanciste, dont les jalons ont été posés par Iaroslav Lebedynsky, auteur de monographies précises sur chacun des peuples cavaliers de la grande « gateway region » steppique entre Europe et Chine.
 
Attila pénètre dans la trouée pannonienne
 
Les momies du Tarim (7), comme les démonstrations du Prof. Christopher I. Beckwith, et les analyses grammaticales et sémantiques de la langue tokharienne, parlée par les ressortissants de ce peuple dont proviennent les momies, prouvent l’influence prépondérante de ces peuples cavaliers, charistes et tisserands sur le développement initial de la civilisation chinoise. Ces peuples, descendants des Proto-Iraniens, ainsi que les Tokhariens et apparentés, garderont une maîtrise complète de l’espace steppique eurasien dont la qualité stratégique est celle d’un « shatterbelt » selon Cohen, jusqu’en + /- 200 av. J. C. A ce moment-là une confédération de peuples nomades hunniques, qui reprend à son compte le haut degré d’organisation sociale des Proto-Iraniens et de leurs descendants, que l’on peut dire inspirés par les valeurs insignes et fondatrices du proto-zoroastrisme, provoque, par ses coups de butoir, le reflux des Indo-Européens en Asie centrale. Leurs successeurs huns se heurteront au barrage des empires : la Chine tient le coup, Rome s’effondre dès que les cavaliers du chef Attila pénètrent dans la trouée pannonienne, le territoire de l’actuelle Hongrie, point central et névralgique du dispositif impérial romain sur l’axe fluvial danubien. Le choc survenu en Pannonie provoque l’effondrement de l’Empire romain, y compris en Méditerranée. Celle-ci, bien que d’importance cardinale, ne suffisait pas pour en conserver la cohérence et l’unité.
 
 
Les tenants d’une vision scolaire et étriquée de l’histoire antique de Rome considèrent que celle-ci est une civilisation exclusivement « méditerranéenne », axée sur ce que Mussolini, pétri de nostalgie romaine, appelait la « Mare Nostrum ». Rome, on l’oublie trop souvent, était également une civilisation rhénane-mosellane autour de Trêves et de Cologne. Elle se déployait également le long de l’axe danubien. Donc le long de deux voies de circulation posées sur un axe Ouest-Est, la Méditerranée et le Danube, lequel était toutefois partiellement interrompu à hauteur des « portes de fer » (sur l’actuelle frontière serbo-roumaine) ou « cataractes de l’Ister ». Tout empire, qu’il soit perse, romain ou chinois, est aussi un réseau de communications : Rome, et par conséquence, l’Europe, reposait dans l’antiquité 1) sur les voies maritimes méditerranéennes dès que Caïus Julius reçoit le titre de « Caesar » pour avoir vaincu les pirates de la Méditerranée (son premier triomphe) ; 2) sur les voies de communications terrestres que furent les routes romaines ; 3) sur les voies fluviales au départ de la rive occidentale du Rhin et de la rive méridionale du Danube. L’impérialité romaine en Europe est donc la maîtrise de ces trois modes de communications que la restauration impériale pippinide/carolingienne voudra remettre en état de fonctionnement après la déchéance des derniers Mérovingiens : l’effondrement du Bas Empire avait été suivi d’une désagrégation du système des routes romaines, si bien que seules les communications par voies d’eau permettaient encore le transport de masse.
 
Le partage de Verdun de 843
 
On ne répétera jamais assez que le fameux partage de Verdun de 843 partage en fait des systèmes fluviaux entre les héritiers du fils de Charlemagne : à la Francie occidentale, les bassins de la Somme, de la Seine, de la Loire et de la Garonne, soit ce que les historiens et cartographes appellent désormais l’ « espace gallique » ; à la Lotharingie centrale, dévolue à l’aîné Lothaire et détentrice de la titulature impériale, les bassins de la Meuse, du Rhin, du Rhône et du Pô ; à la Francie orientale, dévolue au jeune et vigoureux Louis, les bassins fluviaux parallèles de la grande plaine nord-européenne et le devoir de reconquérir le Danube sur toute sa longueur, jusqu’à la Mer Noire, accès à la mythique Colchide des Argonautes et porte de la Perse. Louis établit ses capitales à Francfort sur le Main, entre la Rhénanie urbanisée et le reste de son royaume, et à Ratisbonne (Regensburg) sur le Danube, afin, justement, de se projeter vers l’aval du grand fleuve central. Ce partage de Verdun était sage et la mort prématurée de Lothaire donnera au jeune Louis la titulature impériale, après quelques vicissitudes guerrières, soit le double « espace lotharingien et germanique », au détriment de Charles le Chauve, roi de la Francie occidentale, dont les successeurs n’auront de cesse de vouloir usurper l’héritage de Lothaire, en le grignotant pendant près de dix siècles, arrêtant sa fringale territoriale par l’annexion illégitime de la Savoie en 1861 et ne laissant comme lambeaux intacts qu’une Belgique écervelée et amnésique, un Luxembourg comme coffre-fort, une Hollande isolée au nord du Rhin et de la Meuse et aliénée mentalement par un calvinisme anti-impérial (bien décrit par le philosophe allemand Christoph Steding), une Italie padanienne prospère mais liée à l’Adriatique et à la zone alpine, une Suisse, dont le territoire romand s’étend entre l’arrière-pays jurassien au sud de Bâle et Genève, là où les fleuves commencent seulement à être navigables, rendant cette Suisse au-delà de Bâle et de Genève inintéressante, contrairement au réseau routier de la Franche-Comté, pour les impérialistes galliques ou ouest-franciens, à partir de Philippe le Bel et de Louis XI. Les querelles innombrables et incessantes qui ont suivi la mort du malheureux Lothaire vont donc déterminer pendant plus de mille ans l’histoire de la péninsule occidentale de la masse territoriale eurasienne et l’empêcher de faire le grand bon en avant pour récupérer en Asie centrale son droit d’aînesse, héritage des « comitati » rassemblés autour de princes cavaliers énergiques, une quinzaine de siècles avant notre ère. 
 
 
Toynbee et la Bithynie
 
L’objectif des sages qui ont présidé à l’élaboration du Traité de Verdun était donc de laisser le bassin danubien au plus jeune et au plus vigoureux des héritiers du fils de Charlemagne, pour qu’il puisse faire face aux Hongrois et réorganiser le Danube jusqu’à son delta, afin d’y restaurer une impérialité « romaine », portée cette fois par les Francs et/ou les Germains. Le but était d’atteindre la Mer Noire et de renouer avec un système de communications permettant de commercer avec les Byzantins et les Perses voire avec tous les peuples qui vivaient au-delà de cette Perse mythique, de cet Orient qui avait été « indo-européen » avant d’être récemment islamisé. La Mer Noire, mer intérieure, est, pour les Européens de l’Ouest, la porte vers l’Eurasie, tout comme elle est, pour les Russes, un accès potentiel à la Méditerranée orientale, nécessité que postule leur volonté d’être tout à la fois les héritiers de la civilisation grecque (qui fut un Axe nord-sud, pontique/est-méditerranéen, dont le Bosphore était un goulot d’étranglement en position centrale) et de l’impérialité byzantine. Arnold Toynbee, qui a animé le « Royal Institute of International Affairs », instance compilant une immense documentation et téléguidant l’action des diplomates et stratégistes britanniques, était byzantinologue : pour lui, la civilisation grecque, posée comme matrice de la civilisation européenne (ce qui n’est que partiellement vrai à nos yeux !), est une civilisation qui lie l’espace aride du bout de la péninsule balkanique baignée par l’Egée mais tire ses substances vitales, son blé, son bois, de la maîtrise de l’espace pontique. Il n’y a pas de civilisation grecque sans les ressources de la Crimée, qui passent par le Bosphore. Autour de ce Bosphore, plus particulièrement en Bithynie, écrit Toynbee, se trouve un territoire qui, si on le domine durablement, donne tout à la fois la clef de la Méditerranée, l’accès aux routes de la soie ou à la « gateway region » de Scythie (l’actuelle Ukraine !), permet aussi l’accès à la Perse par la Colchide transcaucasienne, etc. Rome hérite de cette puissance en conquérant la Bithynie : elle sera, immédiatement après César, maîtresse du Danube, de la Crimée et de l’espace pontique et entrera en conflit avec l’Empire perse qui, lui, cherchera à se projeter vers la Méditerranée orientale : Byzance, puis l’Empire ottoman, hériteront de ce clivage Rome/Perse. Et l’adversaire ottoman de l’Europe entre le 14ème et le 18ème siècle a acquis sa puissance et sa force d’expansion immédiatement après avoir consolidé ses positions en Bithynie, ce qui lui a permis de conquérir l’Anatolie occidentale et une bonne partie des Balkans, avant même la chute de Constantinople. 
 

 

Charlemagne, incarnation d’une impérialité devenue romano-germanique, ne s’opposait nullement à Byzance, à l’Empire romain d’Orient, dirigé par le Basileus : le modèle qui le fascine, et qu’il adoptera pour embellir sa capitale d’Aix-la-Chapelle, sera précisément byzantin. Le Dom d’Aix-la-Chapelle, édifié sur un plan octogonal, reflète une splendeur byzantine, surtout depuis sa restauration récente. Charlemagne respectait donc le droit d’aînesse de l’Empire romain d’Orient et visait à lier territorialement son Empire franc à celui du Basileus. Pour y parvenir, il fallait dégager la trouée pannonienne au niveau de la puszta hongroise et rétablir le contact avec les Byzantins à hauteur des « portes de fer ». Pour réaliser un tel projet impérial, il fallait creuser une voie d’eau entre le Main et le Danube, entre le bassin rhénan dont les eaux se jettent dans la Mer du Nord et le bassin danubien, dont les eaux coulent vers la Mer Noire. En 793, Charlemagne ordonne le creusement d’un canal, que l’on appellera la fosse caroline ou fossa carolina ou Karlsgraben. Elle servira pendant un temps assez long au cours du haut moyen-âge, avant de s’enliser et de décourager les marchands vu la difficulté que constituait le système des biefs élémentaires de l’époque, mais elle s’avèrera utile dans les opérations logistiques, d’abord pour mettre un terme définitif à la domination des Avars sous Charlemagne, ensuite pour repousser les envahisseurs magyars, définitivement battus par Othon I en 955 à Lechfeld, permettant l’établissement définitif du Saint Empire Romain de la Nation germanique. Il y a à nouveau impérialité en Europe, à partir de la victoire d’Othon, parce qu’il n’y a plus de blocage hostile, porté par un élément quelconque niant ou ignorant l’héritage romain, en Pannonie.
 
Restaurer l’Empire par la maîtrise de la Pannonie
L’objectif stratégique de Charlemagne à Othon I a bel et bien été la maîtrise du Danube et de la plaine pannonienne car, dès que ce plan se réalise, il y a alors retour automatique à une impérialité à la romaine puisque Rome entretenait de nombreuses légions en Hongrie actuelle, dont les bains chauds de Budapest sont un souvenir remarquable, au même titre que ceux d’Aix-la-Chapelle. Autre preuve de restauration impériale : l’impérialité romaine était l’alliance de la sédentarité latine et de la mobilité cavalière (et eurasienne !) des foederati iazyges et roxolans (étudiés par Lebedynsky), dont les humanités un peu figées de nos curricula scolaires d’antan ne nous parlaient pas encore. Rome en effet, comme Athènes jadis avec sa police scythe, tablait sur le concours de cavaliers aguerris issus de la steppe : on les appelle surtout des Sarmates dans les sources classiques mais les unités qui servaient en Pannonie portaient les noms tribaux de Iazyges et de Roxolans. Ces cavaliers expérimentés étaient chargés de protéger cette trouée pannonienne contre les attaques des Daces ou des tribus germaniques comme les Quades ou les Marcomans. 
 
Par la conversion des Hongrois, la Pannonie, après la victoire d’Othon I, retrouve une garnison permanente de cavaliers de la steppe, de cavaliers eurasiens, qui promettent fidélité à l’Europe (à la « chrétienté » dans le langage médiéval), de toujours se ranger du côté de celle-ci et d’interdire à toute invasion venue de la steppe de bouleverser encore l’ordre néo-romain. Les Hongrois ont toujours tenu cette promesse, en laissant passer les Croisés, en luttant héroïquement contre les Turcs aux 15ème et 16ème siècles, en se sacrifiant deux fois dans les rues de Budapest en 1945 (pour protéger Vienne) et en 1956. Aujourd’hui toutefois, le parti nationaliste hongrois Jobbik, dégoûté sans nul doute par la veulerie et l’impéritie criminelle des cliques eurocratiques (qui cultivent avec une obstination pathologique le déni de toute romanité donc de toute européanité vraie et héritée), parie pour un eurasisme pantouranien, renouant avec quelques antécédents : les idées pantouraniennes des transfuges hongrois, devenus généraux dans l’armée ottomane, après la révolte de 1847-1848 matée par les Autrichiens ; les visions du turcologue judéo-hongrois Armin Vambéry, théoricien d’un pantouranisme dont les Hongrois de l’Empire des Habsbourgs seraient partie prenante, tout comme pour son homologue et coreligionnaire judéo-lorrain David Léon Cahun ; l’idéologie pantouranienne du géographe Pal Teleki (1879-1941, suicidé), futur ministre des affaires étrangères et premier ministre anglophile du gouvernement Horthy avant la deuxième guerre mondiale. Il semble que ce pantouranisme hongrois d’avant le néo-nationalisme actuel du mouvement Jobbik ait été une manœuvre occidentale, franco-britannique, pour disloquer l’Empire des Habsbourgs, ruiner tout nouveau tandem austro-hongrois ou germano-hongrois et balkaniser la Mitteleuropa, comme l’a fait le Traité de Versailles de 1919.  
 
 
Des Sicambres à Parzival
 
L’impérialité romaine puis l’impérialité othonienne recèlent donc toutes deux une dimension eurasienne, non retenues par les humanités édulcorées et figées ad usum Delphini ou par certains eurasistes russes des années 20 et 30 qui fustigeaient la civilisation « romano-germanique » en la décrétant imperméable à tout dynamisme d’origine eurasienne ou fondamentalement étrangère à la civilisation byzantine. Les éléments scythes puis sarmates ont été déterminants dans le façonnage du mental germanique, dépositaire de la titulature impériale, comme le note bien le Prof. Beckwith. Par ailleurs, de nouvelles études tendent à prouver que les éléments sicambres de la confédération franque, originaires de Cologne et de sa région et dont sont issus les Mérovingiens, avaient des origines sarmates (8), tout comme les mythes arthuriens, faussement dits « celtiques », en Britannia. Les idéaux sarmates, ceux du « comitatus » proto-iranien selon Beckwith, serviront, tout comme le « fottowat » musulman imprégné de traditions persanes (Saladin !) et non arabes, à faire éclore, dans le sillage des Croisades, le noyau dur de la civilisation européenne médiévale, c’est-à-dire les ordres de chevalerie, exprimée notamment par le mythe de Parzival (Perceval chez Chrétien de Troyes) dans l’œuvre de Wolfram von Eschenbach, qui s’inspire des mythes arthuriens, considérés aujourd’hui comme relevant du sarmatisme romain, et les introduit en Germanie continentale. Perceval est le frère en esprit du Perse Feirefiz, dont la mère est de « peau brune ». Le mythe forgé par Wolfram von Eschenbach vise à ramener au souvenir des chevaliers la tradition cavalière, chevaleresque du « comitatus » proto-iranien (et eurasien) partagée par l’impérialité germanique et l’impérialité kurde ou persane, tout en constatant une différenciation d’ordre racial. 
 
Revenons à l’époque carolingienne. Si l’objectif de Charlemagne et de ses successeurs compétents était de restaurer la communication sur le Danube, de déboucher en Mer Noire et de relier l’Ouest et l’Est à hauteur du Bosphore byzantin, à la même époque, des éléments européens non romanisés, très éloignés du monde romain et méditerranéen, entreprennent une percée plus à l’Est : les Vikings scandinaves et les Varègues suédois, dont la plaque tournante stratégique et commerciale a été le port de Haithabu, atteignent la Volga et le comptoir de Bolgar et restaurent de la sorte un commerce eurasien en prise tout à la fois sur la Volga qui mène à la Caspienne et de la Caspienne à la Perse et de la Perse à Bagdad et sur les routes de la Soie menant vers le centre de la masse continentale eurasienne et vers la Chine.  
 
 
Limes danubien et axe gothique
 
Rome était certes, depuis l’issue des guerres puniques, une puissance méditerranéenne mais elle était présente aussi sur la rive occidentale du Rhin, avec des villes comme Trêves, Cologne, Bonn, Mayence, Arlon, Tongres, Metz, Strasbourg, et sur la rive méridionale du Danube avec Castra Regina (Regensburg/Ratisbonne), Vindobona (Vienne), Aquincum (Budapest) et Colonia Singidunum (Belgrade). Plus loin, au-delà des « portes de fer », en province de Moesia Inferior, avec Novae (Svishtov), Durostorum (Silistra), etc. Jean de Brem, dans son Testament d’un Européen, d’inspiration romanisante et byzantinisante (les eurasistes russes les plus sourcilleux ne pourront nous reprocher cette lecture…), rappelle l’évacuation des régions aujourd’hui bavaroises et le remplacement de la population celte romanisée ou de souche italienne par les nouveaux venus, les Bajuwaren germaniques. Face à ce limes du delta hollandais jusqu’à celui du Danube, se regroupent une masse d’Européens non romanisés, les Germains, principalement, et leurs alliés, issus de peuples divers. Ils occupent la rive orientale du Rhin et la rive septentrionale du Danube et, surtout sous l’impulsion des Goths, maîtrisent, à l’époque du Bas-Empire ce qu’il conviendra ultérieurement d’appeler l’ « axe gothique », soit la ligne qui va de la Mer Baltique à la Mer Noire, jusqu’à la Volga. Il s’agit de l’extension d’une culture dite de Wielbark, surgie sur les rives de la Baltique, à l’embouchure de la Vistule, suite à une occupation de populations venues de l’actuelle Gothie suédoise et de l’île de Gotland, pour s’étendre au 3ème siècle jusqu’au delta du Danube et jusqu’à l’embouchure du Dniestr, sous le nom de culture de Tcherniakov. 

 

 
Portées par les Goths, préalablement issus de la Suède actuelle, les cultures de Wielbark et de Tcherniakov contribuent au « membrage » territorial de l’Europe en dehors de l’orbe romaine. La juxtaposition conflictuelle de ces deux blocs, dont le premier est avéré, ancré dans l’histoire antique, et l’autre en gestation, va créer au-delà de l’espace romanisé un barrage gothique dans le « shatterbelt » ukrainien, sarmatisé après avoir été dominé par les Scythes, et une sarmatisation partielle de l’élément goth, créant, de ce fait, une fusion germano-eurasienne féconde et relativement homogène, qui ne sera que de brève durée et n’aura pas le temps de se cristalliser : en 369, les Huns ­ -qui ont soumis les Alains, autre peuple cavalier indo-européen dont descendent les actuels Ossètes-, franchissent le Don, limite fluviale du pouvoir d’Ermanarich, roi wisigoth. Le verrou gothique du « shatterbelt » steppique ukrainien a sauté : les Huns seront rapidement sur le Danube et sur le Rhin. Rome vacille puis s’effondre. L’Empire finira par disparaître car sans verrou gothique et sans verrou romain, il n’y a pas d’impérialité possible en Europe.
 
La présence tatar/mongole empêche tout membrage de l’axe gothique
 
Mais si les Huns et les Alains ont indubitablement repris à leur compte l’idéal du « comitatus » des cavaliers proto-iraniens, leur pouvoir sur les peuples est éphémère, sans doute à cause d’une hypertrophie impériale, les cavaliers hunniques et leurs alliés contraints s’étant trop éloignés de l’espace premier de leur rassemblement. Plus tard, les Avars ont pris leur relais dans la plaine pannonienne, ont parfois été les alliés des Byzantins et ont influencé tous les peuples slaves et germaniques du bassin danubien, de la zone anciennement dace des Carpathes et de la Bohème. Ils seront progressivement éliminés par les Pippinides et les Carolingiens. Les Magyars seront battus par Othon I. De même, les Mongols et les Tatars, présents en Russie et en Ukraine de 1235 à 1480, n’exigent qu’allégeance et tribut sans occuper réellement le terrain. L’Europe a failli tomber à la même époque car les hordes mongoles arrivent sur la Vistule et battent les armées impériales et polonaises à Liegnitz en Silésie et atteignent l’Adriatique après avoir battu les Hongrois puis les Croates. La mort du Grand Khan Ögödei oblige les Mongols, respectueux de leurs coutumes, de retourner vers leurs bases de départ pour participer à l’élection d’un nouveau chef suprême. Le joug tatar, comme l’appellent les Russes, après s’être imposé de 1235 à 1480, a empêché un nouveau « membrage » territorial sur l’ancien « axe gothique », détruit en sa période de gestation par la première invasion hunnique, annihilé une seconde fois quand s’écroule la Russie kiévienne, expression d’une fusion varèguo-slave. Le choc avec les hordes tataro-mongoles, pourtant peu nombreuses, a brisé le « membrage » en gestation du binôme Varègues/Slaves sur l’axe baltique/pontique, tourné vers Byzance, donc vers l’espace pontique, le Bosphore, l’Egée et le bassin oriental de la Méditerranée et capable, comme le diront plus tard Catherine II de toutes les Russie et son ministre Potemkin, de souder une civilisation néo-hellénique, rajeunie par les éléments slaves, baltes et germaniques. Ce projet n’a jamais pu être réalisé. L’Europe reste alors enclavée, elle fait du sur-place ou ne réussit que de petites opérations ponctuelles de « désenclavement » (9), dont aucune n’a une réelle ampleur, confirmant le constat de Guillaume de Malmesbury : l’Europe est un sous-continent assiégé, battu en brèche par des ennemis acharnés. Son expansion future n’est pas due à sa malignité, à un désir sauvage de dominer autrui mais à une nécessité de se désenclaver, d’échapper à des étaux mortels, mis en œuvre eux, par des adversaires qui n’ont ni nos scrupules ni un souci de l’ « Autre » comme on le dit aujourd’hui, suite aux réflexions du philosophe Levinas.
 
Un seul objectif : se désenclaver !
 
Pour le Prof. Jean-Michel Sallmann, l’histoire de l’Europe est constitué d’une série de tentatives, d’abord timides ensuite grandioses, de désenclavement.  1) Les Croisades seront une première tentative de sortir de l’étau imposé par les Seldjoukides et leurs successeurs après leur victoire contre les Byzantins à Manzikert en 1071. L’appel d’Urbain II (alias Eudes de Châtillon) aux Francs à Clermont-Ferrand le 27 novembre 1095 demande, suite aux appels du Basileus Alexis I, de libérer la « Romania », soit l’espace jadis romain, d’une « race étrangère », mais non pas une race au sens ethnologique du terme (concept biologisant et darwinien inconnu à l’époque). Par « race », Urbain II et ses contemporains entendent un ensemble uni par une même idée et une même fidélité à l’Empire ou à ce qui demeure de cet Empire dans les esprits (comme l’explique parfaitement Jean de Brem dans son Testament d’un Européen). Finalement, ces expéditions vers le Levant furent un échec géopolitique dès la fin du 13ème siècle, sauf qu’elles permirent une deuxième forme de désenclavement, celle amorcée en parallèle à ces Croisades, soit 2) le développement des entreprises commerciales italiennes, essentiellement génoises et vénitiennes, lesquelles s’implantent en Crimée (en Tauride) pour se brancher sur les routes de la Soie du nord, grâce à une tolérance mongole pour le commerce que n’auront plus les Tatars de Crimée et d’Ukraine quand ils chercheront la protection des Turcs contre les Russes dans cette « gateway region ». Là aussi, les Italiens seront évincés du commerce centre-asiatique, au bénéfice d’un autre commerce, transatlantique celui-là, que domineront durablement des puissances atlantiques désormais liées aux Amériques. Il faudra attendre l’entrée en Crimée des troupes de Catherine II de Russie pour restaurer potentiellement un commerce liant le reste de l’Europe à l’Asie centrale, et au-delà de ses immensités territoriales, de ses déserts et de ses massifs montagneux (Altaï, Himalaya), à la Chine et à l’Inde, deux « marchés » plus accessibles au commerce maritime, plus rapide et moins onéreux, dominé par les Anglais.
 
Trois tentatives de faire sauter les verrous tatar et ottoman
 
Il y aura trois tentatives majeures pour faire sauter les verrous tatar et/ou ottoman : une offensive russe, une volonté portugaise de contourner l’Afrique et la longue guerre mené par l’Espagne pour maîtriser toute la Méditerranée. Sous l’impulsion de marchands anglais, qui se souvenaient vraisemblablement des initiatives scandinaves entre les 9ème et 12ème siècles, le Tsar Ivan le Terrible voudra rétablir sous son autorité un ensemble territorial partant de la Mer Blanche pour aboutir à la Caspienne, à Astrakhan, tout en rassemblant les terres que baigne la Volga au profit de son empire qui se pose comme l’héritier de Byzance, éliminée par le Sultan Mehmet II en 1453. Il y réussira mais sans rouvrir les routes commerciales de Marco Polo, à cause du maintien d’une présence tatar sous la protection de la Sublime Porte ottomane en Ukraine actuelle, en une zone pleinement qualifiable de « gateway area ». En compensation, l’œuvre géopolitique d’Ivan le Terrible rouvre la voie sibérienne aux cosaques, qui atteindront le Pacifique après un siècle de chevauchées. L’action géopolitique ante litteram d’Ivan le Terrible amorce le reflux tatar/mongol mais renforce simultanément la volonté de résistance ottomane qui, paradoxalement et en dépit de la volonté russe de devenir la « Troisième Rome », adopte les stratégies byzantines « antilatines » et « anticatholiques » en Méditerranée, en Mer Noire et dans le bassin danubien, autant d’actualisations des stratégies jadis préconisées par Justinien et ses généraux. Il y a eu fusion entre la géopolitique byzantine et la géopolitique ottomane dès la prise de Constantinople : le fameux film turc à grand spectacle relatant l’œuvre militaire de Mehmet II met en scène des Grecs pro-ottomans.

 

 
La tentative portugaise est plus grandiose. Sous l’impulsion du Prince Henri le Navigateur (1394-1460), Anglais du clan des Lancastre par sa mère, une école s’établit à Sagres au Portugal qui compile le savoir géographique disponible à l’époque, attirant à elle des savants de toutes origines. Dès l’âge de vingt ans, l’Infant Henri obtient de son père Jean I qu’il lance une campagne contre les pirates maures de Ceuta. La conquête de ce nid de pirates barbaresques permet de découvrir que la richesse des royaumes maures de l’actuel Maroc et de l’Andalousie musulmane provenait des richesses africaines, dont l’or de l’actuel Ghana, ramenées par les caravanes transsahariennes. Tout en préconisant un harcèlement systématique de la côte marocaine afin de contrer toute contre-offensive maure, Henri conçoit alors le projet de lancer des expéditions maritimes par cabotage le long des côtes atlantiques de l’Afrique pour contourner ces pistes caravanières et pour assurer un transport plus rapide et quantitativement plus important au bénéfice du Portugal. Les recherches de l’école géographique de Sagres permettent d’amorcer le désenclavement de l’Europe via les côtes africaines et via les immensités océaniques de l’Atlantique :   en 1419-1420, les explorateurs Joao Gonçalves Zarco et Tristao Vaz Teixeira découvrent Madère ; en 1427, Diego de Silves découvre les Açores ; en 1434, Gil Eanes franchit le Cap Bojador ; en 1444, année de la bataille fatidique de Varna contre les Ottomans, Nuno Tristao arrive jusqu’à l’embouchure du fleuve Sénégal ; après la mort de l’Infant Henri, Rui de Sequiera arrive au Bénin en 1472 puis, entre 1482 et 1486, Diego Cam atteint l’embouchure du fleuve Congo et pousse jusqu’aux côtes de l’actuelle Namibie. Entre 1487 et 1488, Bartolomeu Dias double le Cap de Bonne Espérance. En 1498, Vasco de Gama arrive à Calicut en Inde. La route vers le sous-continent indien, vers les épices et vers les régions du monde que les Romains aspiraient à explorer, est enfin accessible aux Européens, qui viennent de réussir à se désenclaver, grâce à l’impulsion première de l’Infant Henri, grâce au travail intellectuel de l’école de Sagres. L’ère de la suprématie européenne commence. 

 

 

L’Espagne ne cherchera pas à contourner la masse continentale africaine, projet qu’elle estime sans doute démesuré, et envisage de maîtriser d’abord les deux bassins de la Méditerranée, contre les Ottomans et les Barbaresques, puis de donner, à terme, des coups de bélier sur les côtes orientales de la Grande Bleue afin de rouvrir les voies classiques du commerce eurasien au départ des ports syriens et d’Alexandrie. Cette aventure –le rêve alexandrin de Charles-Quint et de Philippe II-  avait commencé dès les 13ème et 14ème siècles par les conquêtes aragonaises des îles (Baléares, Sardaigne, Sicile, Italie du Sud et parties du Péloponnèse grec). En 1565, Philippe II prend Malte. La prise de Chypre par les Ottomans ne sera pas compensée par la victoire de Lépante en 1571. Les projets espagnols de désenclaver l’Europe par le « fond » de la Méditerranée n’aboutiront pas, en partie à cause de l’alliance entre les monarques français et l’ennemi ottoman, exemple flagrant de trahison civilisationnelle, à l’origine du déclin irrémédiable de l’Europe aujourd’hui et explication au tropisme musulmaniste de la « République » maçonnique et laïcarde, en dépit d’une incompatibilité de cette idéologie stupide et vulgaire avec toute position religieuse de grande profondeur temporelle, quelle qu’elle soit. L’Espagne se tournera alors vers l’exploitation des Amériques et gardera ses conquêtes dans le Nouveau Monde jusqu’au début du 19ème siècle.
 
Cette rétrospective sur les tentatives européennes de désenclaver notre sous-continent nous montre que les conflits sont permanents et que les zones-clefs de la géostratégie peuvent redevenir, après les périodes plus ou moins longues d’apaisement, des enjeux déclencheurs de nouveaux conflits chauds. Les confrontations pour maîtriser ces zones-clefs sont donc des permanences de l’histoire qu’aucune idéologie iréniste, qu’aucun discours pacifiste, ne peuvent effacer ou rendre caduques. Nous avons vu que le conflit franco-allemand de 1870 à 1945 (ou à 1963, lors de la rencontre De Gaulle/Adenauer qui scelle la nouvelle amitié franco-allemande) a été un conflit pour la maîtrise de l’espace dit « lotharingien » puis pour le Danube et surtout le Pô, parce que les rois de France voulaient une fenêtre sur l’Adriatique pour avoir accès justement au commerce que tentait de rétablir Venise. Au-delà de cet enjeu des guerres d’Italie, de la conquête de la Franche-Comté (« El camino espanol ») par Louis XIV et des campagnes de Napoléon III en Lombardie au 19ème siècle, ces guerres incessantes visaient aussi, quelque part, à établir des têtes de pont est-méditerranéennes ou pontiques pour accéder aux routes de la soie : les croisades françaises visent à prendre Alexandrie, de même que le commerce italien qui entend également conserver et consolider ses avantageux avant-postes en Crimée, jusqu’au moment où les Tatars, oublieux des sagesses de leurs khans antérieurs, s’allieront aux Ottomans qui verrouilleront tous les accès méditerranéens et pontiques au commerce eurasien pour ne laisser aux Européens que les routes ouvertes par les Portugais ou l’exploitation du Nouveau Monde.
 
Le projet ? Ré-enclaver l’Europe !
 
Aujourd’hui, le Levant est ravagé par les miliciens de l’EIIL jusqu’en Mésopotamie, empêchant du même coup tout développement de la région au profit d’une synergie eurasienne. La « gateway region » ukrainienne est bloquée au niveau du Donbass par une guerre permanente que l’on voudra maintenir et entretenir sur la très longue durée, afin d’installer un « abcès de fixation » purulent qui aura pour double fonction d’entraver l’acheminement d’hydrocarbures russes vers l’Ouest et de fragiliser l’Ukraine, privée ainsi de ses régions industrielles et mise à charge d’une Union Européenne déjà financièrement exsangue. La Crimée va bientôt être coincée entre ce Donbass bloqué par une guerre interne aux conséquences imprévisibles et une Moldavie/Transnistrie que l’on s’apprête, dans certains cénacles de stratégistes d’Outre-Atlantique, à porter en ébullition pour imposer un nouveau verrou qui parachèvera le ré-enclavement de l’Europe, ennemi principal de Washington. A ces deux foyers de turbulences sur le « gateway » ukrainien et à l’implosion du Levant et de l’Irak, s’ajoutent la réactivation probable des conflits tchétchène et daghestanais, du conflit russo-géorgien, de manière à créer des blocages de longue durée non seulement de part et d’autre de la Crimée, mais aussi entre l’espace maritime pontique et la Caspienne. Par ailleurs, au départ d’un Afghanistan abandonné par les soldats de la coalition atlantiste, des djihadistes, que l’on posera comme « incontrôlables », s’infiltreront au Turkménistan pour bloquer les communications au-delà de la Caspienne. L’ancienne route maritime portugaise, dans l’Océan indien, le long des côtes de l’Afrique orientale, est, elle, partiellement interrompue en une zone océanique importante, au large de la Somalie par la piraterie que l’on combat soi-disant avec les flottes ultra-modernes de l’OTAN mais qui fait preuve d’une résilience finalement fort suspecte, tant et si bien que deux verrous y sont présents implicitement : entre Madagascar et la côte orientale de l’Afrique, au niveau du Kenya, et à la sortie de la Mer Rouge. On le voit : l’ennemi, c’est l’Europe qu’il faut ré-enclaver et qu’il faut faire imploser de l’intérieur en la livrant en permanence à des politiciens écervelés et en y déversant constamment des populations hétérogènes et inassimilables, débarquant à Lampedusa et sur les îles de l’Egée grecque. Toutes les avancées de l’Europe hors de son enclavement médiéval sont rendues nulles et non avenues par les stratégistes américains, héritiers des thèses et projets de Brzezinski.
 
Un chaos « néo-mongol » en Asie centrale ?
 
L’objectif essentiel des volontés européennes de désenclaver notre sous-continent était de renouer des relations commerciales avec l’Inde et la Chine, qui, à elles deux, faisaient au total au moins 35% du commerce mondial jusqu’au milieu du 19ème siècle. Dans l’Océan Indien, qui devient une « route de la soie » maritime et remplace les voies terrestres, les Britanniques prendront le relais des Portugais et des Hollandais mais excluront le reste de l’Europe : la France de Louis XV est chassée des Indes, la compagnie d’Ostende au service de l’Empereur d’Autriche est également sabotée, tandis que la Russie avance ses pions en Asie centrale, menaçant à terme les Indes anglaises. La maîtrise russe de la « terre du milieu » (avant que le géographe Halford John Mackinder ne forge le concept en 1904) s’oppose à la maîtrise britannique de l’« océan du milieu », en une confrontation binaire Terre/Mer que soulignera notamment Carl Schmitt. Cette dialectique induit la notion de « Grand Jeu », où le protagoniste russe cherche, au 19ème siècle, surtout sous Alexandre II, à parachever l’œuvre d’Ivan le Terrible en « rassemblant les terres » au sud de ses conquêtes antérieures de Sibérie septentrionale, région très inhospitalière où ne passait aucune « route de la soie ». En poussant vers la Perse et vers les terres islamisées et iranisées des Turkménistan et Ouzbékistan actuels, la Russie tsariste s’emparait de plusieurs tracés des anciennes routes de la soie, reliant notamment les villes de Samarkand, de Merv et de Boukhara. Un embranchement de ce réseau de voies terrestres partait vers l’Inde sur le chemin emprunté jadis par les conquérants perses et afghans de la vallée du Gange : à Londres, on imaginait déjà que les cosaques du Tsar allaient s’élancer sur les mêmes pistes et arriver à Bénarès et à Calcutta. Simultanément, surtout après le complètement du chemin de fer transsibérien jusqu’à Vladivostok et Kharbin en Mandchourie, les Russes s’emparent de l’espace où s’étaient rassemblées, vers 200 avant notre ère, les premières coalitions hunniques et mongoles qui avaient éliminé d’Asie centrale les royaumes indo-européens, tokhariens ou autres, avant de disloquer l’Empire gothique en gestation en Ukraine et, par suite, l’Empire romain. La conquête russe de cet antique espace de rassemblement hunno-mongol rend impossible, jusqu’à nos jours, toute nouvelle dislocation, par coups de butoir hunniques ou mongols, de cet immense espace réunifié cette fois par les Tsars –et non plus par des khans mongols qui ont trop souvent souhaité le vide et la « désurbanisation » totale en ces terres immenses entre la Mandchourie et l’Ukraine. Les Tsars, eux, font œuvre « romaine » en construisant des voies de communications, telles les tracés du chemin de fer transsibérien, et en jalonnant ce tracé de nouveaux centres urbains. Raison pour laquelle certains observateurs n’ont pas hésité à qualifier la volonté américaine de bouleverser l’Asie centrale, parfois par djihadismes interposés, de « néo-mongolisme », vu qu’elle a parfois souhaité un chaos généralisé et durable, afin d’affaiblir les empires périphériques, russe ou chinois. Serait dès lors « néo-mongole » la stratégie de bouleverser le Turkménistan et peut-être aussi l’Ouzbékistan (plus lié à l’Organisation de Shanghaï) par des nouveaux talibans venus d’un Afghanistan laissé volontairement dans le chaos le plus absolu, après le départ des troupes américaines qui ont, bien évidemment, subtilement préparé ce désordre artificiel… sans en avoir l’air et surtout contrairement aux intentions proclamées par les médias. Le Turkménistan détient d’immenses réserves d’hydrocarbures, exportables vers l’Europe, qui cherche des alternatives à une trop grande dépendance russe : le projet de bouleverser la paix intérieure dont jouit encore ce pays, sous prétexte que son pouvoir présidentiel serait trop « fort », et donc pas assez « démocratique » au regard des innombrables ONG américaines, n’est pas seulement un projet antirusse mais avant tout un projet antieuropéen, qui vise à freiner encore davantage l’approvisionnement en hydrocarbures de notre sous-continent. 
 
Accès à la Mer Rouge
 
Il faudra cependant attendre 1783 pour que Catherine II, Impératrice de toutes les Russies, reprenne la Crimée aux Tatars inféodés aux Ottomans. Du coup, la Russie, auparavant éloignée de tout littoral utile, bénéficie du tremplin pontique de l’antique civilisation hellénique et des comptoirs génois et vénitiens, mais en l’articulant forcément dans une direction nord-sud. Ce nouvel état de choses menace la puissance devenue quasi globale de l’Angleterre depuis la guerre de Sept Ans, où elle a évincé la France des Indes et du Canada. Albion craint une pression permanente et dangereuse sur la future artère méditerranéenne qu’elle compte bien ouvrir en s’emparant de l’Egypte et en creusant un canal entre la Méditerranée et la Mer Rouge pour réactiver le commerce avec l’Inde que les Romains entretenaient au départ des ports égyptiens de Bérénice et de Myos-Hormus en direction du Yémen et du Gujerat indien. Le bassin oriental de la Méditerranée et l’accès à la Mer Rouge doivent dès lors demeurer sous contrôle anglais et sans aucune pression venue d’ailleurs en Europe : ni d’une Autriche qui se découvrirait une vocation adriatique, égéenne et est-méditerranéenne ni d’une Russie qui se projetterait de l’espace pontique vers Alexandrie et la vallée du Nil ni d’une France révolutionnaire ou bonapartiste qui s’installerait en Egypte, à l’ombre des pyramides « d’où quarante siècles la contempleraient » ni d’une France de la Restauration qui appuierait trop généreusement Mehmet Ali. Parce que sa puissance globale en gestation postule de conserver le sous-continent indien et de maîtriser l’Océan du Milieu, soit l’Océan Indien, l’Angleterre des Pitt et de leurs successeurs doit être la seule puissance capable de contrôler le corridor Méditerranée à son profit, à l’exclusion de toutes les autres puissances européennes. L’installation des Russes en Crimée est donc un casus belli potentiel, tout comme la campagne d’Egypte de Bonaparte sera considérée comme un danger mortel pour le dispositif anglais entre la métropole britannique et les possessions indiennes.
 
L’eurasisme informel du 18ème siècle
 
En effet, entre la fin de la guerre de Sept Ans et la Révolution française, surtout sous le règne de Louis XVI, une sorte d’unité stratégique eurasienne existe, même si, au départ, elle était encore privée de la mobilité qu’offrent les flottes. Louis XVI fait la paix avec l’Autriche de Marie-Thérèse et de Joseph II ; l’Autriche est alliée des Russes contre les Ottomans dans le bassin danubien et en Mer Noire. L’Europe connaît un bond en avant en tous domaines, vu la neutralisation de l’ennemi ottoman pluriséculaire, puis les explorations maritimes, favorisées par Louis XVI, par la Tsarine et ses successeurs, vont bon train (10) : les puissances de cette alliance informelle se dotent, après la Guerre de Sept Ans, de flottes capables d’exercer la pression que craignent les Pitt à Londres. Aujourd’hui, cette tradition européenne et eurasienne, au sens de cette alliance informelle du 18ème siècle, est reprise par Don Sixto Enrique de Borbon, héritier, pour les légitimistes carlistes, de la Couronne d’Espagne (11) et non pas seulement par des nostalgiques marginalisés d’une forme ou d’une autre de « national-bolchevisme ». Après la parenthèse des guerres contre la Révolution française et l’Empire napoléonien, l’Europe, cette fois avec l’Angleterre, cherchera à restaurer cet espace pacifié de l’Atlantique au Pacifique par la mise en œuvre d’un nouveau système, celui de la Sainte-Alliance, née lors du Congrès de Vienne de 1814 que l’historien allemand contemporain Eberhard Straub considère comme un exemple de sagesse politique, dans la mesure où son système de sécurité collective a procuré un siècle de paix à l’Europe, qui a pu ainsi s’imposer au monde tout en conservant sa diversité (12).
 
La Doctrine de Monroe
 
L’alliance franco-austro-russe du 18ème siècle, bien qu’informelle, et la Sainte-Alliance du Congrès de Vienne ont été des espaces eurasiens unis, stratégiquement unifiés. Ils ont toutefois été de courte durée. La Révolution française, que quelques historiens français comme Olivier Blanc (13) considèrent comme une fabrication des services de Pitt, bouleverse l’équilibre européen en déployant une idéologie délirante et déstabilisatrice qui a ruiné toute coopération harmonieuse entre la France, l’Autriche et la Russie. Blanc a exploré les archives de manière méticuleuse pour étayer ses thèses. Au départ de son travail, on peut avancer l’hypothèse que les services de Pitt visaient à faire exploser la France de Louis XVI qui misait sur le développement d’une flotte capable d’intervenir en tous points du globe, d’une flotte qui avait battu les Anglais à Yorktown en 1783. L’objectif de Pitt était aussi de saboter les efforts austro-russes contre l’Empire ottoman pour éviter cette double pression sur le Bosphore et la Méditerranée orientale et pour obliger les Autrichiens à affronter les hordes révolutionnaires française aux Pays-Bas méridionaux et en Rhénanie. Il s’agissait de générer le chaos dans toute l’Europe pour éviter une alliance paneuropéenne ou la domination du sous-continent par une puissance trop hégémonique. D’où, pour Straub, la phobie de Metternich et des congressistes viennois pour les théories dites « démocratiques », plus ou moins dérivées des idées révolutionnaires françaises, parce qu’on les devinait génératrices d’un chaos sans fin.
 
Dans une première phase, qui a duré une bonne douzaine d’années, le bloc européen de la Sainte-Alliance suscite les craintes d’une puissance émergente, viscéralement hostile à la vieille Europe au nom d’un fondamentalisme protestant et bibliste, camouflé derrière un rationalisme et un « déisme » de façade et de circonstances, détaché de tout héritage historique concret : les Etats-Unis d’Amérique. Ceux-ci craignaient que les puissances européennes ne portent assistance à l’Espagne confrontée aux nouveaux nationalismes démocratiques des populations indigènes et créoles des vice-royaumes du Nouveau Monde. En 1823, en réaction au danger potentiel que représentait la Sainte-Alliance eurasienne, le Président James Monroe énonce sa célèbre doctrine de « l’Amérique aux Américains », forgeant de la sorte une politique qui deviendra constante : celle du refus de toute ingérence européenne dans le Nouveau Monde. Les Etats-Unis ne craignaient pas seulement un éventuel secours porté à l’Espagne ruinée et désormais incapable de se réaffirmer dans les Amériques : ils craignaient aussi et surtout la présence russe en Alaska et en Californie, voire aussi la possible alliance entre Russes et Espagnols sur la côte pacifique de l’Amérique du Nord, qui aurait verrouillé la marche en avant des Etats-Unis vers la bi-océanité, clef de leur future puissance globale. On oublie souvent de mentionner que Monroe, quand il a énoncé sa doctrine, avait l’aval plus ou moins secret de la Grande-Bretagne qui, elle aussi et en dépit de la guerre qui venait de l’opposer aux jeunes Etats-Unis en 1812, ne désirait pas voir d’autres puissances européennes intervenir dans les Amériques, où elle cherchait à contrôler seule certains marchés, notamment en Argentine. La Doctrine de Monroe sera complétée par le « corollaire Roosevelt » après la guerre hispano-américaine de 1898, qui arrache à l’Espagne Cuba et les Philippines, un corollaire qui stipule que toute politique que les Etats-Unis pourraient considérer comme contraire à leurs intérêts serait traitée comme un acte d’agression. C’est ce « corollaire Roosevelt » qui justifie encore et toujours aujourd’hui les interventions américaines dans le monde, ainsi que l’espionnage des réseaux ECHELON et Prism (l’affaire Snowden) dirigé essentiellement contre l’Europe. Le « corollaire Roosevelt » est interprété de manière très vaste : le développement optimal d’une technologie quelconque, mais surtout aéronautique ou spatiale, même dans un pays « allié », est considéré comme une agression contre les intérêts des firmes concurrentes américaines donc contre l’intérêt des Etats-Unis en tant que puissance.
 
Crise grecque et question d’Orient
 
La cohérence eurasienne de la Sainte-Alliance sera, nous l’avons dit, de courte durée. Ce seront principalement les deux puissances occidentales, la France et la Grande-Bretagne, qui la saborderont progressivement. Les premières lézardes à l’édifice eurasien, que fut la Sainte-Alliance, ont été : le soutien aux Grecs révoltés contre la Sublime Porte ; l’indépendance belge ; la Guerre de Crimée, qui sanctionne la rupture entre un Occident colonial, qui n’est plus centré sur l’Europe même (14), et un « Orient » centre-européen et russe, toujours fidèle à l’esprit premier de la Sainte-Alliance ; l’intervention anglo-française en Chine, lors des guerres dites de l’opium. Eberhard Straub montre que cette Sainte-Alliance, soucieuse de maintenir l’Europe en état de stabilité durable, garantissait l’intégrité de l’Empire ottoman. La révolte grecque et le mouvement des Philhellènes (dont Lord Byron) induisent trois puissances de la Sainte-Alliance à rompre avec l’idéal metternichien et antirévolutionnaire de stabilité européenne : l’objectif n’est pas tant de sauver les Grecs du joug ottoman, car on ne s’était jamais fort soucié d’eux, mais d’obtenir des concessions, des bases pour prendre Constantinople et se projeter vers la Méditerranée (les Russes) ou pour s’installer dans la capitale ottomane et verrouiller le Bosphore pour éviter justement cette projection russe vers Chypre, l’Egée et l’Egypte. Metternich voit dans ce soutien, purement tactique, une amorce de « balkanisation » de l’Europe, une balkanisation qui ne serait pas tant territoriale que mentale : les Européens cesseraient de poursuivre ensemble, dans la cohérence, des politiques stabilisantes communes, qui constitueraient l’essence même du nouvel ordre équilibré voulu par les congressistes de Vienne. Le Tsar Nicolas I voulait toutefois un partage des dépouilles ottomanes, où chaque bénéficiaire trouverait son intérêt mais les deux puissances occidentales, qui agissaient davantage dans les intérêts des Ottomans que dans ceux des Russes, ont refusé cet expédient qui aurait pu, finalement, sauver la cohérence de la Sainte-Alliance. Anglais et Français, rappelle Straub, se méfiaient du résultat à long terme d’un accord général qui affaiblirait définitivement l’Empire ottoman qui n’aurait alors plus eu d’autre solution que de demander son inféodation à l’Empire russe, exactement comme aujourd’hui, la Turquie d’Erdogan et de Davutoglu joue sur deux tableaux, sur l’Occident et sur la Russie, dans l’espoir de se hisser au rang d’une puissance régionale incontournable. Metternich, face à la première crise grecque des années 20 du 19ème siècle qui déclenche ce que l’on a appelé la « question d’Orient », accuse Lord Palmerston d’être un « tyran » dans la mesure où c’est l’Angleterre qui mène une politique égoïste, contraire aux intérêts du continent dans son ensemble. L’objectif anglais, lui, était de contrôler la Méditerranée sans aucune possibilité d’être contrecarré par une autre puissance européenne, quitte à soutenir toute sorte de mouvements séditieux de nature révolutionnaire (selon Metternich), comme aujourd’hui une politique comparable se déploie en Syrie afin qu’aucun môle de puissance régionale, alliée à la Russie ou à une autre puissance européenne, qui se montrerait challengeuse, ne puisse émerger.
 
Indépendance belge et Guerre de Crimée
 
Deuxième lézarde dans l’édifice de la Sainte-Alliance : l’indépendance belge. Une fois de plus, c’est l’Angleterre qui craint le développement du Royaume-Uni des Pays-Bas, disposant d’une flotte hollandaise de haute qualité, d’une industrie textile en Flandre (la Lys autour de Courtrai et Wijnegem) et en Wallonie (vallée de la Vesdre), d’un binôme charbon/acier à Mons, Charleroi et Liège, d’une présence en Insulinde à la charnière de l’Océan Indien et du Pacifique, d’anciennes colonies en Afrique du Sud (colonie du Cap) et dans l’île Maurice qui auraient pu revenir dans le giron néerlandais et surtout d’une aura dans une Allemagne du Nord qui parle des dialectes très proches du néerlandais. Ce Royaume-Uni des Pays-Bas aurait parfaitement pu attirer à lui, plutôt que la Prusse, les régions d’Allemagne du Nord. Pour briser ce môle germanique continental potentiel en face de ses côtes, à une nuit de navigation du cœur de Londres, jadis incendiée par la flotte de l’Amiral de Ruyter lors des guerres anglo-hollandaises du 17ème siècle, il fallait lui faire subir une sécession définitive, affaiblissant les deux lambeaux subsistants. 
 
Troisième lézarde, encore plus profonde : la Guerre de Crimée. Après le soutien français apporté en 1839-1840 au khédive d’Egypte, Mehmet Ali, en révolte contre la Sublime Porte, les deux puissances occidentales, la France et l’Angleterre, se muent en protectrices de l’Empire ottoman pour contenir la Russie au nord du Bosphore. Bismarck reste neutre, de même que la Belgique de Léopold I, qui est un ancien officier de l’armée du Tsar Alexandre. Cette intervention franco-anglaise en Mer Noire vise l’endiguement de la Russie, le maintien d’un Empire ottoman désarticulé, affaibli, incapable d’autonomie et à la merci des pressions occidentales qui entendent garder les mains complètement libres en Méditerranée orientale et en Egypte. Elle génère également l’anti-occidentalisme russe, comme l’attestent d’ailleurs le Journal d’un écrivain de Dostoïevski et les souvenirs de Tolstoï, officier combattant sur le front de Crimée. La Guerre de Crimée provoque donc une rupture profonde entre l’Ouest et la Russie qui alimentera toutes les idéologies antioccidentales qui germeront ultérieurement, qu’elles aient été de facture slavophile ou eurasiste et que cet eurasisme ait été tsariste ou communiste (stalinien). 
 
 
La ruine de la Chine des Qing
 
Parallèlement à ces trois lézardes –question grecque, révolution belge et Guerre de Crimée-  les deux puissances occidentales participent à la ruine de la Chine, présente dans le Sinkiang (le « Turkestan chinois ») et au Tibet, deux composantes importantes du puzzle centre-asiatique à l’époque de gloire des routes de la soie. La première guerre de l’opium, menée par l’Angleterre contre le Céleste Empire, se déclenche parce que le protectionnisme chinois, porté par une bureaucratie bien organisée, barre l’accès au commerce que les Anglais voudraient illimité. Le protectionnisme des empereurs Qing crée un déséquilibre commercial en défaveur des Anglais qui importent plus de marchandises chinoises qu’ils n’en exportent vers le Céleste Empire. Obligés de payer en lingots d’argent, métal précieux qu’ils ne possèdent pas en grandes quantités, les Anglais, pour importer leur thé, vendent de l’opium indien contre l’argent qu’ils ont préalablement cédé pour obtenir le breuvage traditionnel des après-midi londoniens. Ils inversent alors le déséquilibre commercial : l’Empereur, en envoyant son haut fonctionnaire zélé Lin Zexu, riposte en interdisant les fumeries d’opium, en confisquant les ballots de drogue et en imposant de sévères restrictions. Ces mesures entraînent l’intervention britannique et la première guerre de l’opium (1839-1842) qui s’achève par le Traité de Nankin, où la Grande-Bretagne obtient pleine satisfaction. La seconde guerre de l’opium (1856-1860) se déclenche immédiatement après la Guerre de Crimée, sous prétexte d’un non respect des clauses du Traité de Nankin de 1842. La France, alliée de l’Angleterre, participe à la curée et, en 1860, cette guerre se solde par la prise de Pékin et le pillage du Palais d’été. La Chine est contrainte d’accepter les stipulations de la Convention de Pékin (1860), qui reprennent les clauses humiliantes des traités précédents. Cette défaite entame considérablement le prestige des empereurs Qing : la Chine, auparavant superpuissance économique, déchoit en un pays déficitaire, rétif à la modernisation technique, et en une nation esclave de la consommation d’opium. La situation déplait à de larges strates de la population chinoise, ce qui aboutit à la révolte dite des Taiping, qui éclate dès 1851. Le pouvoir central mettra quinze ans à mater ce soulèvement, dirigé par un certain Hong Ziuquan, qui se prenait pour le frère de sang de Jésus-Christ (15). 
 
 
Dislocation de l’Empire des Qing
 
L’affaiblissement du pouvoir impérial permet aux Britanniques de progresser en Birmanie, ancien Etat tributaire de la Chine, et aux Français de s’emparer de l’Annam et de tout le Vietnam dans les années 80 du 19ème siècle. Les maoïstes s’inspireront de cette révolte des Taiping, 80 ou 90 ans plus tard, car elle prêchait un certain égalitarisme et rejetait les hiérarchies politiques traditionnelles, qui venaient de prouver leur incompétence à maintenir la Chine dans son statut de grande puissance impériale. Simultanément, vu le discrédit dans lequel le pouvoir Qing était tombé, d’autres révoltes secouent la Chine au même moment, risquant de précipiter l’Empire dans un chaos indescriptible où s’affrontent des entités rivales. La révolte des Taiping constitue sans doute la guerre civile la plus meurtrière de l’histoire : de vingt à trente millions de morts. La Chine en ressort démographiquement affaiblie. Elle passe de 410 millions d’habitants en 1851 à 350 millions en 1873 (16). Indépendamment des ravages cruels que cette révolte a fait subir à la Chine, elle servira, en dépit d’une inspiration chrétienne bizarre donc non chinoise, non autochtone, de modèle aux nationalismes futurs et au maoïsme (qui est un nationalisme chinois à la sauce communiste). L’idéologie des nationalismes et communismes chinois, irréductibles à leurs modèles européens car sinisés en profondeur, a pour socle principal un refus des « traités inégaux », pareils à ceux imposés par les Britanniques suite aux deux guerres de l’opium, ce qui induit aujourd’hui, alors que la Chine se redresse et reprend la place prépondérante qu’elle détenait jadis dans l’économie mondiale, une volonté de laisser à chaque entité politique le droit de déterminer librement ses choix, sans que ceux-ci ne soient oblitérés par des idéologies universalistes (17), imposées par des puissances hégémoniques occidentales et contraires aux principes du mos majorum à la chinoise, c’est-à-dire du culte des ancêtres, et à la sage notion de perpétuation des schémas connus qu’il convient de ne pas modifier, au nom d’un équilibre et d’une harmonie issus d’une méditation des pensées taoïstes. Les Taiping, en s’inspirant d’une interprétation très biscornue des évangiles, n’avaient pas opté pour un « schéma connu », confucéen ou taoïste, parce que les schémas connus, à leurs yeux, avaient justement déchu et précipité la Chine dans une incapacité à saisir les clefs de la puissance moderne, elles, bien instrumentalisées par l’ennemi britannique. Après la longue guerre civile, l’Impératrice régente Cixi lancera timidement la Chine sur la voie d’une modernisation technologique insuffisante, selon un rythme trop lent, jugeront plus tard les révolutionnaires du Kuomintang du Dr. Sun Ya Tsen, qui proclameront la république en 1912.
 
L’extraversion des deux puissances occidentales s’est traduit, tout au long du 19ème siècle, par des interventions répétées sur des théâtres non européens, par un désintérêt croissant et par un mépris affiché pour les autres puissances européennes non extraverties (selon la terminologie adoptée par Constantin Frantz), dont elles n’ont jamais tenu compte des besoins et des aspirations. Elles n’ont eu de cesse de camoufler leur mépris derrière des discours ronflants, idéologiques ou moralisants, avec l’appui d’une presse haineuse déversant des flots de logorrhées bellicistes ou dépréciatives contre les Russes, par exemple, ou contre les Allemands et les Autrichiens, considérés comme des « barbares » grossiers, incultes parce que ne partageant pas les schémas révolutionnaires, jacobins ou manchesteriens. Cette attitude, en ruinant la pentarchie de la Sainte-Alliance, a provoqué quantité de déséquilibres stratégiques en Europe, comme l’avait prévu Frantz, ce qui a conduit à l’explosion d’août 1914. Et à la fin de l’excellence européenne.
 
De la dangerosité perverse des modernités
 
Toutefois, aux yeux du Prof. Beckwith, les modernisations/centralisations, par l’action des communistes, affecteront les grandes entités politiques de la masse continentale eurasiatique, surtout la Chine et la Russie maitresses des vastes régions de l’Asie centrale, où des syncrétismes séduisants avaient été forgés par des cultures aujourd’hui disparues. Ces modernisations vont éradiquer la diversité linguistique et religieuse, les synthèses fécondes qui ont innervé la région, laissant derrière elles un désert culturel, que les postcommunismes actuels ne parviennent pas à combler, surtout que la planète entière subit, depuis la chute du Mur de Berlin, un tropisme « néolibéral » préoccupant, bien plus incapable de restaurer les assises des vieilles cultures centre-asiatiques que ne l’étaient les communismes dans leurs diverses moutures. Beckwith conclut à la dangerosité perverse des modernités. L’explorateur italien Giuseppe Tucci (1894-1984), polyglotte et orientaliste, est sans nul doute celui qui nous a, de la manière la plus didactique, dressé un tableau des religions syncrétiques de cette Asie centrale et du Tibet (18) : un dossier à ouvrir afin de parfaire le long travail de restauration qu’il faudra bien entreprendre pour guérir l’humanité des maux de la modernité et des faux traditionalismes qu’elle génère dans son sillage pour perpétrer par procuration, par succession ininterrompue d’opérations « fausse bannière », son œuvre de destruction et de mort, comme le montre l’instrumentalisation du fondamentalisme des salafistes et des wahhabites, dont les pauvres schémas n’arrivent pas à la cheville des anciens syncrétismes, à dominante musulmane, nés et morts à Samarkand et à Boukhhara.
 
Pour sortir la Chine de la misère où l’avaient plongé les guerres de l’opium et les pressions britanniques, le premier mouvement républicain, le Kuo Mintang du Dr. Sun Yatsen, s’inspirera indirectement, après sa prise du pouvoir en 1911-1912, des thèses de l’Allemand Friedrich List, qui entendaient généraliser un développement intérieur, c’est-à-dire un colonialisme intérieur et non pas tourné vers l’extérieur et vers les périphéries non européennes. List a inspiré le développement des communications par canaux et voies de chemin de fer en Allemagne (projet concret visant à réaliser le testament politique du Roi Frédéric II de Prusse) et en Belgique (à l’invitation de Léopold I). Sollicité comme « expert ès-développement » avant la lettre, il a également influencé l’organisation territoriale des Etats-Unis dans la première moitié du 19ème siècle, préconisant, notamment, de relier la région des grands lacs, fertile en céréales, à l’Atlantique par un système de canaux, donnant ainsi le coup d’envoi à la puissance agricole que sont demeurés les Etats-Unis depuis lors, dont la meilleur arme, selon Eagleburger, assistant de Kissinger et conseiller de Nixon, est la surproduction de denrées alimentaires (« Food is the best weapon in our arsenal »). Plus tard, List a été considéré comme le théoricien du développement autonome et de l’indépendance économique nationale ou continentale, surtout dans les pays du dit « tiers monde » qui venaient d’accéder à l’indépendance. Il avait des disciples chinois, dont le dernier en date est assurément Deng Xiaoping, promoteur de la Chine post-maoïste. Dans la France gaullienne, l’économiste François Perroux se plaçait dans son sillage et plaidait en faveur d’une indépendance semi-autarcique que d’autres, comme André Grjébine, moderniseront dans le cadre européen, sans obtenir l’oreille des eurocrates.
 
Kang Youwei et Liang Qichao
 
Les idées de List vont bien entendu inspirer les précurseurs chinois du mouvement national et républicain du Kuo Mintang. Dans un ouvrage largement distribué dans les pays anglo-saxons et en Allemagne, l’historien indien du développement  Pankaj Mishra (19), qui enseigne en Angleterre, rappelle le travail patient des hauts mandarins chinois qui ne voulaient pas voir leur patrie impériale sombrer dans un marasme définitif. Parmi eux, Liang Qichao et son maître Kang Youwei. Tous deux entendaient imiter le mouvement Meiji japonais, moderniser et généraliser l’enseignement, les structures de l’Etat et les forces armées. Ils se heurteront à une forte résistance des éléments passéistes. Les nationalistes étatistes du Kuo Mintang et les communistes de Mao seront tous deux, à leur manière, les héritiers de cette volonté modernisatrice de Liang Qichao et Kang Youwei, pionniers du renouveau chinois, inspirés par l’ère Meiji japonaise, dès la fin du 19ème siècle. Les idées de Liang Qichao et de Kang Youwei sont néanmoins pétries de confucianisme, catalogue de principes inébranlables dont ils ne se déferont jamais, alors que la tentation des premiers nationalistes du Kuo Mintang était de rejeter l’héritage confucéen comme responsable du retard et des défaites chinoises. De même, en dépit des discours communistes lors de la « longue marche » et de la prise du pouvoir, en dépit de la révolution culturelle maoïste des années 60 du 20ème siècle, mise ultérieurement sur le dos de la « Bande des quatre » (dont la veuve de Mao), le confucianisme n’a cessé d’irriguer la pensée politique chinoise dans sa volonté de récupérer son statut de grand empire historique : il a marqué les avatars du Kuo Mintang dans la gestion de l’île de Formose, devenue la « Chine nationaliste » ; il a marqué tout aussi profondément la gestion communiste de la Chine continentale. Il a accompagné le pays dans sa marche hors du premier carcan communiste pour le faire évoluer vers le système original qui, aujourd’hui, lui a redonné une puissance incontournable, bien qu’elle soit, in fine, plus quantitative que qualitative, car calquée sur le modèle occidental et social-darwiniste, comme l’avait d’ailleurs prévu un disciple de Kang Youwei, fasciné par le social-darwinisme occidental à la fin du 19ème siècle, Tan Sitong, décapité sur ordre de l’Impératrice douairière en 1898, suite à l’éviction de l’héritier réformiste du trône chinois, Guangxu. Celui-ci avait reçu, sans les formalités inutiles de la vieille étiquette impériale, Liang Qichao, Kang Youwei et Tan Sitong pour faire passer, sur le mode accéléré, des réformes modernisatrices, bien que toujours confucéennes dans leur esprit, suite à l’écrasante défaite subie par la Chine face aux armées japonaises en 1895 : l’expérience a duré exactement 103 jours, explique Pankaj Mishra, avant d’être brutalement réprimée par Cixi, appuyée par le vieux mandarinat et les partisans obtus des vieilles structures vermoulues de la dynastie Qing. Il ne restait plus que la voie nationaliste et républicaine, antimandchoue, celle d’un bouleversement radical comme le voulait Sun Yatsen. Elle aboutira en 1911-1912.
 
Rigidités mentales de l’occidentalisme et du fondamentalisme
 
En dépit du sort tragique du malheureux Tan Sitong  -qui avait délibérément choisi le martyr, parce qu’un homme insigne, disait-il, devait accepter la mort pour assurer le triomphe final de ses idées qui ne voulaient que le bien public-  le mélange éclectique de pensées pragmatiques confucéennes et d’idées occidentales, libérales, nationalistes ou communistes, procure à la Chine contemporaine une pensée politique finalement plus souple que l’actuelle panacée occidentale où dominent, en dépit des paroles en apparence « progressistes », des rigidités mentales dérivées des calvinisme et puritanisme fondamentalistes, alliés au wahhabisme et au salafisme dans le monde musulman. De telles pensées refusent obstinément les syncrétismes et les éclectismes idéologiques et philosophiques qui, au cours de l’histoire, ont apporté l’harmonie aux empires et aux Etats. Ce sont des schémas para-théologiques fondamentalistes qui se profilent derrière les idéologies figées que professe l’Occident et qui contribue à son ressac. Elles se présentent sous des couleurs politiques différentes, tout en partageant en filigrane les mêmes postulats fondamentalistes, souvent déguisés en « progressismes », en pseudo-avatars de l’idéologie des « Lumières » : c’est tantôt ce que l’on appelait justement le « libéralisme doctrinaire » au 19ème siècle, revenu à l’avant-plan, suite à Thatcher et Reagan, sous le nom de « néo-libéralisme », tantôt le marxisme non marxien (car Marx ne répétait pas des schémas figés et irréalistes comme ses piètres disciples), tantôt le discours sur les droits de l’homme, où ceux-ci servent de référence au prêchi-prêcha du « politiquement correct » et d’instruments de subversion maniés par les services américains pour bouleverser les Etats qui résistent à leur hégémonie ou entendent garder des barrières quelconques pour préserver leurs outils industriels nationaux. Via une quantité d’ONG, ces idéologies figées et répétitives servent d’instruments dans une lutte sans répit contre les syncrétismes féconds dans les mondes arabe, turc ou orthodoxe. Le monde asiatique avait réagi contre cette instrumentalisation du discours sur les droits de l’homme dès le début des années 90, où les diverses doctrines de Clinton avaient imposé ce discours comme référentiel unique et non critiquable. Au fil du temps, ce référentiel, soustrait à toute critique, est devenu le socle inamovible du « politiquement correct », débouchant sur ce que Georges Orwell avait défini comme le « goodthink ». L’alliance paradoxale du « politiquement correct » et des fondamentalismes télé-évangéliques, chrétiens-sionistes ou salafistes a conduit la planète au blocage actuel, au chaos qui agite le « rimland » géopolitique de la Libye aux frontières de l’Iran et au Pakistan, à la confusion totale qui marque les esprits en Occident, où la caste politique est désormais incapable de distinguer ce qui peut consolider le Bien public de ce qui le disloque et le ruine. 
 
Ce chaos sur les « rimlands » méditerranéens, moyen-orientaux ou musulmans, de la frontière tunisienne à l’Indus est né de la volonté de l’hegemon américain. Au départ d’un soutien à apporter aux mudjahiddins afghans contre les protecteurs soviétiques d’un régime laïque à Kaboul, Zbigniew Brzezinski voulait se servir du levier islamiste pour finir par contrôler la Route de la Soie dans l’Asie centrale musulmane, soviétique jusqu’à la dislocation de l’URSS. Le fondamentalisme islamiste était alors un pur instrument et on n’imaginait pas à Washington que des éléments de ce golem à têtes multiples pourraient un jour devenir incontrôlables et poursuivre un agenda non dicté par une tierce puissance ou se montrer indisciplinés et commettre des actions non souhaitées par leurs commanditaires de départ. En 2012, Brzezinski lui-même constate l’échec de son projet stratégique (20) mais, malgré cet aveu, bien étayé, Washington a réactivé en 2013-2014 la stratégie qu’il préconisait en Ukraine. 
 
 
De la position centrale de l’Iran
 
Sur fond de quel autre projet, cette réactivation des projets initiaux de Brzezinski sur la « gateway region » ukrainienne  s’est-elle déployée ? Le projet de contrôler la Route de la Soie centre-asiatique est, simultanément, un projet d’unir politiquement, sous la férule d’un hégémonisme américain, la zone d’intervention virtuelle de l’USCENTCOM, le commandement militaire américain au centre de la masse continentale eurasiatique. L’espace géographique dévolu à l’USCENTCOM a pour centre l’Iran. Dans un premier temps, les Etats-Unis visaient à annuler le pouvoir d’attraction que ce centre iranien pouvait éventuellement déployer dans sa périphérie, de l’Egypte à l’Inde. Le rayonnement de la « civilisation iranienne » était un projet du Shah qui était parvenu à faire la paix avec les Saoudiens (annulant de la sorte l’antagonisme chiites/sunnites revenu à l’avant-plan pour ravager le Proche et le Moyen Orient aujourd’hui), à soutenir financièrement l’Afghanistan voisin, à tisser des liens féconds avec l’Inde, à forger des accords industriels et énergétiques avec l’Europe et à pactiser dans un projet gazier avec l’URSS de Brejnev. Il fallait briser ce rayonnement iranien sur le « rimland » de l’Océan Indien et le nouveau tandem pétrolier irano-saoudien. Le Shah, bien qu’officiellement « allié », devait dès lors être éliminé : on lui a balancé la révolution de Khomeiny pour ruiner ses projets et affaiblir ses partenaires européens qui venaient de vivre les Trente Glorieuses. Mais le golem Khomeiny s’est avéré récalcitrant et les projets atomiques, que l’ayatollah ne souhaitait pas développer (il avait lancé une « fatwa » contre les armes atomiques), ont été repris par Ahmadinedjad, figure diabolisée à souhait par le pouvoir médiatique américain sur la planète. L’Iran était décrété « Etat voyou ». Son pouvoir d’attraction n’était pas entièrement éliminé mais sérieusement limité. Cependant, l’Iran, de par sa centralité sur le territoire dévolu à l’USCENTCOM ou au « Greater Middle East », est incontournable. L’intervention en Afghanistan n’a apporté aucun autre résultat que le chaos au bout de quatorze ans. Onze ans de présence américaine en Irak se solde par un déchaînement de violence encore plus spectaculaire. D’où certains stratégistes envisagent une autre stratégie (21) : ôter à l’Iran le statut d’ « Etat voyou » et en refaire un allié afin de dominer le centre même de l’espace du « Plus grand Moyen Orient ». Cette stratégie, d’abord complètement isolée dans un « paysage idéologique américain » dominé par le bellicisme intransigeant des « néo-conservateurs » faisant chorus autour des deux présidents Bush, est désormais envisagée comme une solution possible par davantage de stratégistes, sans nul doute parce que les clivages religieux du Moyen Orient se sont avérés plus résilients que prévus. Les différences entre chiites et sunnites avaient été considérées comme superficielles, comme des enfantillages archaïques appelés à disparaître. La suite des événements a prouvé le contraire : les peuples du Moyen Orient tiennent à leurs religions et ne veulent pas se noyer dans l’océan des hommes sans substance et sans qualités que génère le libéralisme occidental. En Irak, le pouvoir chiite, mis en place par les Américains suite à l’élimination du nationaliste arabe sunnite Saddam Hussein, se sent plus proche de la « civilisation iranienne », dominée par l’islam chiite, que du wahhabisme sunnite saoudien, qui soutient désormais des forces djihadistes sunnites en Irak, pour éviter une extension géopolitique indirecte des « Perses », par chiites irakiens interposés, alors que, pourtant, ces chiites irakiens avaient été hissés au pouvoir par les Américains, alliés des Saoudiens : une contradiction majeure des stratégistes d’Outre-Atlantique qui aura des répercussions inattendues et catastrophiques. De même, l’Afghanistan, de langue iranienne (indo-européenne), où les Pachtounes dominants sont sunnites et où la minorité asiatique persophone des Hazaras est chiite, n’est toujours pas pacifié : les bases arrières pakistanaises des talibans, d’abord alliés puis ennemis, plongent le Pakistan dans le chaos ; l’Iran, lui, reste stable dans un environnement totalement bouleversé. L’élection de Hassan Rohani en 2013 a facilité l’apaisement mais le jeu demeure complexe et les relations irano-américaines ambigües, surtout parce qu’un alignement sur les BRICS pourrait s’avérer tout aussi intéressant pour l’Iran qu’un retour dans le système atlantiste global visant l’endiguement permanent de la Russie et de la Chine. Israël, qui a bénéficié jusqu’ici du statut de seul allié privilégié des Etats-Unis, craint le rapprochement irano-américain qui relativiserait considérablement sa position au Proche et au Moyen Orient où son ennemi le plus tenace reste le Hezbollah chiite libanais, iranophile par une sorte de nouvelle convergence panchiite, peu perceptible sur l’échiquier régional avant l’intervention américaine en Irak. Le regard à porter sur une éventuelle position rétrogradée d’Israël doit tenir compte d’une mutation notable : la tradition juive avait toujours été de s’allier avec les Perses contre les puissances venues de l’Ouest (les Romains puis les Byzantins), dans le souvenir du Cyrus de la Bible, expliquant aussi le patriotisme des juifs d’Iran ; Netanyahu, lui, pratique une politique juive « hérodienne », favorable à la puissance hégémonique venue de l’Ouest, en l’occurrence les Etats-Unis, qui prennent le relais d’une Angleterre que les ancêtres idéologiques du Likoud, son parti, avait soit combattue au nom de l’anticolonialisme soit favorisée au nom d’une alliance contre le fascisme et le nazisme.
 
De la stratégie eurasienne d’Obama
 
Dans ce contexte trouble et bouleversé, quelle est donc la stratégie eurasienne d’Obama ? Quels en sont les contours et les visées ?
 
 Obama vise, semble-t-il, à contrôler la Mer Noire, à réaliser à son profit les clauses du Traité de Paris de 1856 : arracher la Mer Noire à toute forme d’hégémonisme russe. L’objectif d’Obama est de contrôler ou d’empêcher l’utilisation maximale des gazoducs et oléoducs « South Stream » ; cette politique, une fois de plus, vise davantage l’Europe, premier concurrent des Etats-Unis et « ennemi métaphysique » dans la mesure où c’est l’Allemagne qui en est le centre névralgique et que tout retour de l’Allemagne à l’avant-plan sur l’échiquier politique et économique international, surtout par le biais d’un tandem énergétique germano-russe, est la hantise des anciens trotskistes devenus « néo-conservateurs » et bellicistes à tous crins car leur idéologie est inspirée in fine par les puritanismes les plus échevelés, ennemis de toute forme de diplomatie harmonieuse et d’équilibres syncrétiques.
 
2)     Le contrôle de la Mer Noire implique un retour des Etats-Unis et de l’OTAN en Géorgie et en Azerbaïdjan, en exploitant les ressources de l’allié turc, exactement comme au temps de la Guerre de Crimée.
 
3)     Ce projet de domination de l’espace pontique implique aussi d’aider financièrement l’Arménie à se désenclaver, alors qu’elle est un allié-clef de la Russie et, accessoirement, de l’Iran dans le Caucase.
 
4)     Même si cela n’apparaît pas directement aujourd’hui, ce faisceau de stratégies dans l’espace pontique doit aussi compter sur une réactivation de la subversion wahhabite en Tchétchénie et au Daghestan, de façon, cette fois, à interrompre potentiellement le transit des hydrocarbures non plus seulement à hauteur du Donbass ukrainien mais cette fois dans l’espace transcaucasien, entre la Mer Noire et la Caspienne. Nous aurions affaire, si cette stratégie finit par s’inscrire dans les faits, à une double interruption des flux énergétiques en direction de l’Europe. 
 
5)     La visée finale de cette stratégie pontique de l’ « administration » Obama est bien sûr d’affaiblir l’Europe, puisque la Russie vend alors ses hydrocarbures ailleurs en Asie, à des clients que les Etats-Unis ne peuvent guère influencer. Pour les Russes, la partie est nulle. Le North Stream achemine le gaz vers l’Allemagne, à l’abri de toute subversion dans l’espace pontique, mais le reste de l’Europe orientale et centrale est affaibli par le fonctionnement déficitaire du système South Stream, ce qui implique ipso facto un affaiblissement du centre germanique de l’Europe et une balkanisation es volontés européennes, mutatis mutandis, comme le craignait Metternich. 
 
6)     Au-delà de cet affaiblissement de l’Europe toute entière, la stratégie américaine actuelle semble vouloir joindre l’espace pontique à l’espace iranien, justement en agissant dans le Caucase, en Géorgie (l’antique Colchide), en Azerbaïdjan, en Arménie et sur le flanc septentrional de la chaîne montagneuse caucasienne. De la Roumanie à l’Afghanistan, nous verrions alors se reconstituer le verrou d’endiguement, rêvé par tous les stratégistes anglo-saxons depuis Pitt. Simultanément, ce verrou géopolitique sur le rimland qui courrait d’Ouest en Est serait doublé d’un verrou placé sur un axe nord-sud et couperait l’Europe, ennemi principal, de ses approvisionnements russes et caucasiens, ou ne tolérerait qu’un approvisionnement qui passerait par un contrôle turc, tandis que les hydrocarbures iraniens seraient déviés vers d’autres Etats clients. 
 
7)     Autre facette de cette stratégie entre Danube et Indus (sur l’antique territoire de l’Empire macédonien d’Alexandre le Grand) : centrer autour de l’Iran, redevenu ami, dépouillé de son statut infâmant d’ « Etat voyou », les territoires placés, de manière informelle et virtuelle, dans l’orbite de l’USCENTCOM ; simultanément, pour couper l’Europe et la Chine voire l’Inde d’autres approvisionnements en matières premières diverses et indispensables, puis pour prendre solidement pied en Afrique, en développant l’AFRICOM.
 
8)     La Chine ne doit pas seulement être contenue en Afrique, où elle a déployé une diplomatie sans imposer de contraintes idéologiques comme le fait l’Occident, mais aussi ailleurs, surtout dans le Pacifique. Il faut empêcher, mais ce sera difficile, son approvisionnement optimal en hydrocarbures, comme cela avait été pratiqué contre le Japon en 1940-1941. Pour parvenir à endiguer la Chine, on réhabilite l’OTASE, équivalent en Asie orientale de l’OTAN. On cherche à embrigader la Thaïlande et le Vietnam dans une politique d’endiguement et à empêcher la Birmanie (le Myanmar) de faire aboutir dans ses ports les terminaux pétroliers et gaziers de la Chine dans le Golfe du Bengale.
 
Cette politique internationale belligène d’Obama, qui n’est jamais qu’un avatar logique des stratégies guerrières pensées par les néoconservateurs avant ses mandats, a suscité, on s’en doute, la riposte « eurasienne » de la Russie et de la Chine :
 
1)     Les gazoducs sibériens acheminent désormais une bonne partie du pétrole et du gaz russes vers la Chine et non plus vers l’Europe, en passant par l’Ukraine secouée par des troubles civils, fabriqués par les ONG américaines.
 
2)     Remplacer le dollar par d’autres devises pour les échanges internationaux.
 
3)     Inclure l’Iran dans l’Organisation de Shanghai donc dans le groupe BRICS.
 
Cette priorité, qui consiste, en fin de compte, à contrôler tout le rimland de la Grèce à la Mer de Chine du Sud, est handicapée par le chaos persistant qui bouleverse le Proche Orient et la Mésopotamie irakienne. Ce chaos empêche l’organisation optimale, pourtant promise, d’un « Plus Grand Moyen Orient ». Ces désordres sanglants ne peuvent constituer un modèle séduisant. D’autres acteurs, en apparence alliés des Etats-Unis, poursuivent d’autres projets, comme le Qatar ou l’Arabie Saoudite qui ne se soucient guère de l’établissement d’un « Greater Middle East » et donnent la priorité à l’élimination de toutes les factions musulmanes qui ne s’alignent pas sur les canons rigoristes du wahhabisme saoudien. Cette priorité induit un état de guerre permanent de tous contre tous qui n’autorise aucune installation d’un pouvoir solide, syncrétique et pacificateur. Du coup, des voix s’élèvent pour dire « qu’il manque un Saddam » (22), corroborant ainsi les paroles prophétiques prononcées par le Raïs vaincu et écrasé au pied de la potence… L’Irak, disait-il, en cet instant fatidique, « était plongé dans un enfer ». Le baathisme, même sous la poigne très rude des militaires irakiens, était un système plus efficace, plus générateur d’ordre et de paix civile, que le chaos installé depuis l’invasion américaine. De même, Bachar El-Assad apparaît comme un allié potentiel contre les débordements incontrôlables de l’EIIL, en dépit des diabolisations qu’il a subies dans les médias au début de la guerre civile syrienne. La stratégie consistant à armer des factieux déséquilibrés ou d’anciens vaincus de guerres civiles antérieures ou des minorités religieuses et/ou ethniques ou des politiciens falots et véreux aspirant à s’emparer d’un pouvoir qu’ils ne pourraient pas tenir avec leurs seules forces s’avère un fiasco : il aurait mieux valu préconiser un développement harmonieux à la chinoise.
 
L’harmonie confucéenne, idéologie chinoise, asiatique, confucéenne ou bouddhiste recèle plus de possibles féconds que les fondamentalismes puritains américains ou wahhabites saoudiens. Et quand le fanatisme puritain se camoufle derrière une interprétation facile, médiatisable et caricaturale de l’idéologie des droits de l’homme, qui confine à l’hystérie avec Carter, Bill et Hillary Clinton ou encore Bernard-Henri Lévy, le chaos s’installe et l’enfer (pavé de bonnes intentions) descend sur terre comme en Libye, en Syrie, en Irak ou dans le Donbass. Les droits de l’homme, dans leur application, disaient déjà les Chinois au début des années 90 du 20ème siècle, doivent être tempérés par les messages pacificateurs des religions traditionnelles, surtout le confucianisme qui prêche l’harmonie. Qui dit religion apaisante dit automatiquement capacité à forger des syncrétismes harmonieux et féconds, comme le voulait le Shah avec son idée de « civilisation iranienne » qui est parvenu à signer une paix avec le roi Fayçal d’Arabie Saoudite, réduisant à néant, dans les années 70 du 20ème siècle, le contentieux pluriséculaire entre Chiites et Sunnites. Autre syncrétisme pacificateur : les baathismes syrien et irakien qui, bien que devenus ennemis, ont chacun procuré la paix intérieure à leurs pays respectifs. Quant au kémalisme, reposant sur le syncrétisme alaouite turc et sur l’appareil militaire (hostile aux fondamentalismes et aux terribles simplifications des zélotes religieux), il offrait, finalement, une plus large marge de manœuvre à la Turquie et ses dernières manifestations, avant la mise au pas fondamentaliste perpétrée par Erdogan, avaient fait montre de velléités eurasistes, liées idéologiquement à ses positions parfois pantouraniennes, plus conformes à la position pontique de la Turquie, réduite sur le plan territorial suite aux clauses du Traité de Lausanne de 1923 et dépouillée des ressources énergétiques de l’actuel Kurdistan irakien (gisements de Kirkouk et de Mossoul). 
 
L’alliance entre les puritains de Boston (avec leurs avatars télé-évangélistes, chrétiens-sionistes et autres), les trotskistes de la côte est, mués en néoconservateurs pour qui la notion trotskiste de « révolution permanente » s’est transformée en pratique de la « guerre permanente », et les wahhabites djihadistes saoudiens qui ont plongé la Libye, la Syrie et l’Irak dans le chaos, est une alliance que l’on peut sereinement qualifier de calamiteuse, vu l’absence de résultats acceptables au regard de la simple bienséance. Face à elle, l’eurasisme est donc un antidote où entrent en jeu les valeurs asiatiques, bouddhistes et confucéennes non dérivées du tronc abrahamique et les volontés syncrétiques des grands khans mongols dont Marco Polo fut un conseiller pendant dix-sept ans. A ce corpus de religions asiatiques et à cette volonté de syncrétisme s’ajoutent les idéaux équilibrants et apaisants que nous lègue Aristote, avec son idée de « nomos » de la terre, reprise au 20ème siècle par Carl Schmitt. Il ne s’agit nullement d’un « nomos » figé, comme pourrait nous le faire croire l’aristotélisme scolastique ou la pratique metternichienne en marge de la Sainte-Alliance, mais d’un « nomos » dynamique, que le philosophe Heidegger, sous l’impulsion du futur archévêque de Fribourg Conrad Gröber, a exploré, prouvant que les concepts grecs étaient plus « fluides », plus souples, que ne l’avaient imaginé les scolastiques : ceux-ci, prêtaient le flanc aux critiques, souvent antireligieux, qui percevaient l’aristotélisme des « Anciens » comme une charpente trop rigide, rejetée par les « Modernes ». Confucianisme chinois et aristotélisme tablant sur un « nomos » irrigué de concepts fluides impliquent la mise en œuvre d’une diplomatie planétaire diamétralement différente de la pratique occidentale dominante aujourd’hui et opposée à l’anti-diplomatie du néoconservateur Robert Kagan à l’époque du fameux Axe Paris-Berlin-Moscou de 2003 quand l’Europe et la Russie se sont opposées, de concert mais hélas trop brièvement, au bellicisme américain en Irak. Cet axe éphémère était une réactualisation de l’alliance implicite franco-austro-russe du 18ème siècle, flanquée des bonnes politiques maritimes du Roi Louis XVI et de la Tsarine Catherine. 
 
La réémergence d’un Axe Paris-Berlin-Moscou, difficile à raviver depuis la trahison du gaullisme par Sarkozy et Hollande, renoue avec les meilleurs traditions du siècle des Lumières, où les Lumières n’étaient pas réduites aux piètres schémas vociférés par un Bernard-Henri Lévy. Il s’agissait de neutraliser le cycle infernal des guerres mondiales et des guerres permanentes commencé avec la Guerre de Sept Ans en 1756 (23). L’eurasisme est donc cette réponse nécessaire et équilibrante à des forces génératrices de désordres criminels et destructeurs.
 
Robert Steuckers, octobre 2014 (rédaction finale, janvier 2015). 
 
Notes :
 
(1) Marlène LARUELLE, L’idéologie eurasiste russe ou comment penser l’empire, L’Harmattan, Paris, 1999.
(2) Christian W. SPANG, Karl Haushofer und Japan – Die Rezeption seiner geopolitischen Theorien in der deutschen und japanischen Politik, Iudicium Verlag, München, 2013.
(3) Robert KAPLAN, Monsoon – The Indian Ocean and the Future of American Power, Random House, New York, 2011.
(4) Christopher I. BECKWITH, Empires of the Silk Road – A History of Central Eurasia from the Bronze Age to the Present, Princeton University Press, Princeton, 2009.
(5) Tessa HOFMANN, Annäherung an Armenien – Geschichte und Gegenwart, Verlag C. H. Beck, München, 1997-2006.
(6) Sur Saul B. Cohen, cf. David CRIEKEMANS, Geopolitiek – ‘Geografisch geweten’ van de buitenlandse politiek ?, Garant, Antwerpen/Apeldoorn, 2007.
(7)   J. P. MALLORY & Victor H. MAIR, The Tarim Mummies. Ancient China and the Mystery of the Earliest Peoples from the West, Thames & Hudson, London, 2000.

(8) Reinhard SCHMOECKEL, Die Indoeuropäer - Aufbruch aus der Vorgeschichte, Verlag Bublies, Schnellbach, s.d.

 (9) Jean-Michel SALLMANN, Le grand désenclavement du monde – 1200-1600, Payot, Paris, 2011.
(10) Pour comprendre la volonté russe de se projeter vers le Pacifique, lire: Owen MATTHEWS, Glorious Misadventures – Nikolai Rezanov and the Dream of a Russian America, London, Bloomsbury, 2013-2014.
(12) Eberhard STRAUB, Der Wiener Kongress – Das grosse Fest und die Neuordnung Europas, Stuttgart, Klett-Cotta, 2014.
(13) Olivier BLANC, Les hommes de Londres – Histoire secrète de la Terreur, Paris, Albin Michel, 1989.
(14) Cf. notre article consacré à Constantin Frantz : in Jean-François MATTEI, Les Œuvres philosophiques (deux tomes), volume III de l'Encyclopédie philosophique universelle, Paris, PUF, 1992.
(16) John KING FAIRBANK, The Great Chinese Revolution 1800-1985, 1986, p. 81.
(17) Robert STEUCKERS, “Les amendements chinois au nouvel ordre mondial”, sur http://robertsteuckers.blogspot.be/2014/04/les-amendements-chinois-au-nouvel-ordre.html
(18) Giuseppe TUCCI, Les religions du Tibet et de la Mongolie, Payot, 1973.
(19) Pankaj MISHRA, Aus den Ruinen des Empires – Die Revolte gegen den Westen und der Wiederaufstieg Asiens, S. Fischer, Frankfurt a. M., 2013.
(20) Robert STEUCKERS, « Etonnantes révisions chez les grands stratégistes américains », cf. http://robertsteuckers.blogspot.be/2013/08/etonnantes-revisions-chez-les-grands.html
(21) Robert BAER, Iran – l’irrésistible ascension, J.C. Lattès, Paris, 2008; Trita PARSI, Treacherous Alliance – The Secret Dealings of Israel, Iran, and the U.S., Yale University Press, 2007; Barbara SLAVIN, Bitter Friends, Bosom Enemies – Iran, the U.S., and the Twisted Path to Confrontation, St. Martins Press, New York, 2007.
(22) Wayne MADSEN, “Missing Saddam”, cf. http://euro-synergies.hautetfort.com/apps/search/?s=missing+saddam
(23) Robert STEUCKERS, “Historical Reflections on the Notion of “World War””, cf. http://robertsteuckers.blogspot.be/2014/02/historical-reflections-on-notion-of.html

mardi, 12 mai 2015

Rassegna Stampa (12-V-2015)

legge il giornale.jpg

Rassegna Stampa (12-V-2015)

  • Terra promessa
    di Piero Cammerinesi [12/05/2015]
    Fonte: Il giornale del Ribelle

La Macedonia sarà un’altra Majdan

La Macedonia sarà un’altra Majdan

Dovrebbe essere interesse primario del nostro governo fornire tutto l'aiuto possibile al premier Gruevski per garantire la stabilità del territorio macedone. Se, come il nordafrica, anche i balcani precipitano nel caos, l'Italia in primis, ma l'Europa tutta, si troverà circondata da guerre guerreggiate.
 
 
 
Ex: http://www.lintellettualedissidente.it 
 

Macedoine-municipalites-map.gifSoros, Nuland e la loro felice compagnia stanno cercando in ogni modo di mettere a ferro e fuoco la Repubblica di Macedonia. I loro burattini all’ interno del territorio macedone, ovvero l’attuale leader dell’ opposizione nonchè presidente del partito social democratico Zoran Zaev, insieme al vecchio presidente macedone Branko Cervenkovski, stanno però fallendo una mossa dopo l’altra. Non è servito a nulla comprare giornali locali, fare centinaia di siti internet uniti ad una propaganda pressante sui siti web, non è servito neppure possedere le televisioni “24 Vesti” o “Telma”, il popolo Macedone è ben informato e sta eroicamente resistendo, tenendo bene a mente i fatti ucraini di piazza Majdan. Nonostante abbia un PIL di poco più di 10 miliardi di dollari, nulla se paragonato ad esempio al denaro gestito dai grandi fondi d’investimento internazionali come i 4000 miliardi di Blackrock, l’attuale presidente Gruevski sta lottando con onestà e coraggio per evitare lo scenario peggiore, resistendo ad ogni tipo di attacco, come ad esempio l’accusa di aver spiato 20000 macedoni, in realtà operazione orchestrata dalla CIA come ha ammesso in un incontro privato, segretamente ripreso, proprio Zoran Zaev.  I motivi  per cui la Macedonia è sotto attacco sono: il ruolo di anello debole dei paesi balcanici per la costruzione del gasdotto Turkish stream – Balkan stream e oltretutto la pace nei balcani favorirebbe la messa in atto della “nuova via della seta cinese” collegando commercialmente il porto greco del Pireo all’ Ungheria, dunque al cuore dell europa attraverso Macedonia e Serbia.

Ma gli squali della grande finanza non si arrendono così facilmente e stanno puntando tutto sulla manifestazione del 17 maggio. Lo scopo dei manifestanti sarà quello di rimanere in piazza con le tende per giorni, replicando il copione delle altre rivolte colorate o delle primavere arabe. L’atmosfera viene riscaldata dai recentissimi eventi di Kumanovo, dove 80 uomini armati si sono scontrati con la polizia causando diversi feriti e 8 morti tra le forze di sicurezza. La stampa occidentale e l’opposizione macedone hanno subito accusato il governo di aver orchestrato tutto. In realtà si è trattata di un operazione eterodiretta, quei guerriglieri provenivano certamente dal Kosovo e fanno parte di quei mercenari a basso costo che l’intelligence del west tiene sempre pronti all’ attacco come dei cani da combattimento. Il governo Serbo si è subito dimostrato attento ed ha mandato proprie forze armate al confine con la Macedonia per evitare il diffondersi della violenza. Gruevski avrà la capacità di resistere, si spera riuscendo ad evitare scenari da guerra civile. Anche il governo albanese ha oggi esortato le comunità albanesi della Macedonia a non restare in piazza. Ma il governo macedone non può essere abbandonato da noi europei.Dovrebbe essere interesse primario del nostro governo fornire tutto l’aiuto possibile al premier Gruevski per garantire la stabilità del territorio macedone. Se, come il nordafrica, anche i balcani precipitano nel caos, l’Italia in primis, ma l’Europa tutta, si troverà circondata da guerre guerreggiate.

 

La CIA déclenche une attaque sous faux drapeau en Macédoine

mk.png

La CIA déclenche une attaque sous faux drapeau en Macédoine pour contrer le projet gazier russo-grec

par Yann de Kerguezec
Ex: http://breizatao.com

Alors que la Russie vient de nouer un partenariat énergétique stratégique avec la Turquie et la Grèce pour un gazoduc commun devant rejoindre la Serbie, la Hongrie, l’Autriche et l’Italie. La CIA a réagi en déclenchant une agitation islamo-nationaliste albanaise depuis le Kosovo en Macédoine. Un exemple caricatural de l’alliance stratégique islamo-atlantiste en Europe.

Alternative au projet South Stream

De la même façon que la Russie achemine son gaz en Allemagne via le gazoduc “North Stream” (“Courant Nord”), Moscou entend garantir son partenariat avec l’Union Européenne en développant un projet analogue pour l’Europe méridionale et centrale, “South Stream” (“Courant Sud”) tout en contournant l’Ukraine.

Les USA, soucieux de briser une alliance stratégique euro-russe afin de s’assurer de la domination mondiale au détriment des Européens et des Russes, tentent en effet de créer un “cordon sanitaire” tourné contre Moscou partant des états baltes jusqu’à la Mer Noire, Ukraine incluse. D’où le coup d’état mené à Kiev par la CIA dans ce pays en février 2014.

Suite à cet événement, Washington a obtenu l’abandon du soutien bulgare au projet “South Stream” qui devait voir le jour :

 

Vladimir Poutine, actant de la soumission de la Bulgarie aux USA, annonçait formellement, début décembre 2014, l’abandon du projet “South Stream” (source) :

“Comme nous n’avons toujours pas reçu la permission de la Bulgarie, nous pensons que dans la situation actuelle la Russie ne peut pas poursuivre la réalisation de ce projet”.

Accord russo-turco-grec

La Turquie ambitionnait de faire transiter du gaz d’Asie Centrale et d’Orient –  en concertation avec les USA – sur son territoire vers l’Europe dans le cadre du projet de gazoduc “Nabucco”. Ce concurrent direct au projet “South Stream” a été progressivement abandonné et Moscou vient d’offrir à Ankara une alternative : le “Turkish Stream”.

Ce gazoduc permettra de livrer, dès 2016, la Turquie en gaz à un prix revu à la baisse par Gazprom (source). Avec l’arrivée d’Alexis Tsipras au pouvoir à Athènes, le nouveau gouvernement grec est à la recherche de toutes les opportunités économiques possibles.

Moscou a profité de ce changement politique pour proposer aux Grecs l’extension du projet turco-russe à la Grèce. Ce qu’a rapidement accepté le gouvernement d’extrême-gauche. Cet accord entre la Russie et la Grèce avait été salué par l’Allemagne, Berlin s’opposant de plus en plus fermement à l’ingérence américaine dans les affaires euro-russes (source).

La Macédoine en ligne de mire de la CIA

Avec la création de ce “Turkish Stream”, la Russie dispose d’une alternative au South Stream pour l’acheminement de son gaz vers l’Italie, la Serbie et la Hongrie. Aussi, les efforts américains en Ukraine et en Bulgarie pour couper l’accès du gaz russe au marché européen sont-ils sérieusement menacés d’échec.

Cette perspective d’un accord entre la Grèce et la Russie fait littéralement paniquer Washington qui a envoyé il y a deux jours un émissaire à Athènes pour exiger de la Grèce qu’elle abandonne son partenariat avec Moscou (source). Le ministre de l’Energie grec a redit la volonté de la Grèce de maintenir son projet de participation au projet russe.

Mais pour réaliser le “Balkans Stream”, alternative au “South Stream”, il faut que la Russie puisse faire transiter le gazoduc conjoint par la Macédoine.

Agitation albano-islamiste fomentée par la CIA

La CIA a donc décidé d’agiter ses fidèles vassaux de la mafia albanaise. Ainsi, une attaque menée depuis le Kosovo, un non-état où est située une des plus grandes bases américaines en Europe (Camp Bondsteel), a frappé le territoire macédonien au non d’un séparatisme albanais sur les frontières de l’actuelle Macédoine. Après avoir tué 22 personnes, les assaillants se sont ensuite repliés vers leur base arrière, protégés par les forces de l’OTAN.

Le but de la manoeuvre est clair : faire échec à l’alternative d’acheminement de gaz russe en Europe en menaçant de guerre indirectes les autorités macédoniennes susceptibles de rejoindre l’accord entre Russes, Grecs et Turcs.

En guise de hors d’oeuvre, les Macédoniens ont vu une résurgence récente de l’action des musulmans albanais sur leur territoire. D’abord une action contre 4 policiers s’était déroulée fin avril (source).

Le but est bien sûr de mener une guerre non-conventionnelle identique à celle menée en Syrie par les USA et leurs vassaux,  en agitant leurs alliés musulmans locaux.

Dans le même temps, des provocations multiples de la part des ultranationalistes musulmans d’Albanie ont visé la Serbie, comme l’annonce faite en avril d’une annexion “inéluctable” du Kosovo par Tirana (source). Une façon indirecte pour Washington de faire chanter Belgrade, au cas où le gouvernement serbe accepterait de faire transiter le gaz russe vers l’Europe centrale, Hongrie et Autriche notamment.

Révolution colorée en Macédoine

En parallèle, l’OTAN et les USA pourraient tenter de créer une crise politique visant à mettre au pouvoir un gouvernement fantoche, sur le modèle ukrainien, afin de contrecarrer le projet russe établi en concertation avec les Serbes, les Grecs et les Hongrois.


- Source : Yann de Kerguezec

Entretien avec Alexandre del Valle et David Engels

Pourquoi l'Occident gagnerait à cesser de vouloir exporter son modèle

Ex: http://www.atlantico.fr

Entretien avec Alexandre del Valle et David Engels

L'idéal occidental consistant à vouloir exporter -parfois par la force- ses valeurs démocratiques et morales, considérées comme supérieures, est remis en question depuis plusieurs décennies.

Atlantico : Alors que la crise ukrainienne continue et ce malgré les échecs de l'Union européenne, l'idéal occidental consistant à exporter les valeurs démocratiques est remis en question. D'où sont partis les premiers foyers de résistance, et aujourd'hui qui sont les plus grands opposants au modèle occidental ?

Alexandre del Valle : Les premiers foyers de résistance sont partis des expériences anti-coloniales et même, avant, de l’ex-Union soviétique qui portait un projet global de lutte contre "l’impérialisme" occidental et les sociétés libéral-démocratiques. Mais les anti-colonialistes anti-occidentaux - qui ont combattu le modèle occidental et la domination des coloniale européenne – et les marxistes soviétiques s’inspiraient encore de références occidentalo-européennes (marxisme-léniniste ; nationalisme, socialisme, etc).

Après la chute de l’ex-URSS, on a assisté à une mutation dans l’anti-impérialisme et dans le tiersmondisme, car la lutte contre la domination occidentale ne s’est plus faite au nom d’idées européennes, mais au nom d’une exigence de "seconde décolonisation". Je m’explique : si jadis les anti-colonisateurs luttaient physiquement contre les dominateurs européens au nom de valeurs et idéologies progressistes ou subversives d’origine européenne, à partir de la fin de la Guerre froide, l’idéologie marxiste-léniniste et le vieil anti-impérialisme de gauche ont perdu leur "sponsor" russe post-soviétique et ont dû chercher d’autres sources idéologiques dans leur lutte contre l’Occident. C’est alors que dans le monde arabe et même musulman, le nationalisme kémaliste et progressiste ou le nationalisme arabe anti-impérialiste ont été détrônés par l’islamisme. Celui-ci s’est présenté comme la seule formule réellement susceptible de se débarrasser de la domination occidentale d’un point de vue politique, idéologique et spirituel.

Economist.jpg

Le nationalisme laïc a donc peu a peu été remplacé par une formule "national-islamiste" supposée plus "indigène". Dans nos banlieues, on a observé aussi les conséquences de cette véritable lame de fond identitaire et géopolitique mondiale : l’identité nationale des pays d’accueil européens et même l’identité nationale d’origine des parents d’immigrés musulmans ont été détrônées par une nouvelle identité transnationale islamique, "muslim", à la fois capable de répondre à un besoin d’indigénisme, à un rejet (à la mode) de tout ce qui ressemble à l’Occident-blanc-judéo-chrétien, et d’être en phase avec la mondialisation, elle-aussi transnationale. Cela ne veut pas dire que la mondialisation a supprimé l’identité, mais que le double phénomène de mondialisation marchande et de fin du monde bipolaire ont fait ressurgir les appartenances identitaires de type civilisationnelles.

Dans ce contexte, et durant ces années 1990 marquées par des embargos et guerres "humanitaires" livrés au nom du "droit d’ingérence" et des droits de l’homme contre des pays souverains jugés "non occidentaux" ou "ennemis de l’Occident" (Serbie-Yougoslavie ; Irak de Saddam, Syrie, Iran, Cuba, Libye, Afghanistan, etc), nos valeurs universelles comme l’humanisme, les droits de l’Homme, la laïcité et la démocratie ont été grandement discréditées car associées à des entreprises "impérialistes". La demande d’islamisme, d’indigénisme, d’identité "locale", de "désoccidentalisation" est depuis observée partout, de l’Amérique latine avec les mouvements amérindiens indigénistes anti-occidentaux (Bolivie, Equador, Perou, Vénézuela, Chiapas, etc), à l’Asie (Singapour, Malaisie, Indonésie, Chine, etc), sans oublier les sociétés islamiques. Cette "seconde décolonisation" ne concerne pas seulement des dictatures "anti-impérialistes" tiersmondistes socialistes, comme Cuba et le Vénézuéla "bolivariste", ou staliniennes, comme la Corée du Nord, mais aussi des pays en phase avec la mondialisation marchande et la modernité technologique, comme Singapour, qui prône un modèle "confucéen" autoritaire, la Malaisie, marquée par "l’asiatisme islamique" du vieux leader Mahatir, sans oublier la Chine post-maoiste qui allie le capitalisme mercantiliste, le nationalisme, le néo-confucianisme et le marxisme dans le cadre d’une stratégie globale de lutte asymétrique contre l’Occident et ses valeurs au nom d’un ordre multipolaire.

David Engels : Tout d’abord, insistons sur le fait que ces valeurs "universalistes" ne sont pas le propre de la culture occidentale, mais un phénomène typique pour la phase terminale de toute civilisation historique. Marquées par la lassitude, le multiculturalisme, la remise en question de soi et une certaine désillusion, toutes les civilisations développent graduellement un cadre de vie basé sur des valeurs essentiellement cosmopolites, rationalistes, individualistes et désincarnées. Pensez à la société multiculturelle de la Rome impériale, au Caire des Fatimides ou au Xi’an des Han : vous trouverez partout le même type de valeurs, peut-être pas dans les mots, mais dans les faits. Ainsi, la "démocratie" à l’occidentale n’a de véritablement démocratique que le nom, et désigne désormais un croisement entre oligarchie et technocratie. Le respect des droits de l’homme, au lieu de se fonder sur une véritable définition humaniste de l’homme et de sa dignité spirituelle, a engendré une notion de droit entièrement chosifiée exaltant l’individu au détriment de la communauté. La "liberté", finalement, s’est muée en libéralisme et a mené au capitalisme ultralibéral dont le continent paie les frais en ce moment même.

La résistance à cette situation a des racines très diverses, venant à l’origine tantôt de gauche (par l’opposition à l’exploitation du travailleur), tantôt de droite (par l’opposition à la destruction de nos valeurs culturelles), et tantôt de la part des peuples non-européens (par l’opposition à l’impérialisme économique ou politique). Cette dispersion idéologique ne facilite pas la tâche à ceux qui s’opposent au système, d’autant plus que le décalage entre l’idéal abstrait des valeurs universalistes et leur réalisation concrète dans la vie quotidienne est habilement exploité par ses défenseurs. Ainsi, qui s’oppose aux dérives technocratiques est décrié comme "anti-démocratique", celui qui critique l’individualisme outrancier est fustigé de "réactionnaire", et celui qui se lève contre l’ultra-libéralisme est libellé "nationaliste", etc. À l’extérieur, parmi les opposants les plus importants au modèle "universaliste" occidental, on notera évidemment tout d’abord l’islam fondamentaliste, dont toute la genèse et la diffusion sont beaucoup moins des phénomènes inhérents à la dynamique du monde musulman qu’à celle du monde occidental lui-même ; le modèle dictatorial chinois, essentiellement basé sur la volonté acharnée de retrouver le statut perdu de puissance mondiale d’abord par la voie économique, puis politique ; et finalement l’État russe, rejetant les dérives idéologiques et économiques de l’Occident afin de légitimer son propre régime autoritaire.

Les populations migrantes qui cherchent aujourd'hui à atteindre les côtes européennes sont-elles toujours attirées par les valeurs occidentales d'égalité et d'accueil ou sont-elles poussées par d'autres motivations ?

Alexandre del Valle : Une minorité de ces migrants, légaux ou illégaux (notamment les militants laïques des droits de l’homme, les chrétiens persécutés fuyant la christianophobie, et les libéraux persécutés en pays musulman ou dans les dictatures africaines ou asiatiques), est réellement attirée par nos valeurs qui représentent pour eux une voie de salut et un idéal. Il faudrait d’ailleurs selon moi enfin définir une stratégie globale "d’immigration choisie" visant à privilégier le plus possible l’accueil des personnes qui viendraient chez nous par amour de nos valeurs. Il est d’ailleurs regrettable qu’à l’époque des sondages, de l’intelligence artificielle et du neuromarketing, nos politiques n’ont rien d’autre à répondre qu’il est impossible de "trier" donc de choisir qui peut venir chez nous. Aux termes d’une funeste confusion, l’idée même de sélection est assimilée aujourd’hui une forme de "discrimination" et de "racisme". Ce "démographiquement correct", fondée sur une vision immigrationniste de principe et sur l’idée que l’accueil sans limites des migrants illégaux ou légaux a conduit nos élites terrifiées par la bienpensance médiatique à subir une immigration incontrôlée puis à abdiquer toute politique d’assimilation, elle aussi jugée "discriminatoire"…

 

clandestins-secourus-marine-italienne.jpg

En revanche, on ne peut nier qu’une grande part des migrants, légaux ou clandestins, issue d’Afrique noire, des pays arabes, de Turquie ou d’Asie, ne vient pas chez nous parce par amour de nos valeurs, mais simplement par esprit de survie ou par opportunisme économique (appel d’air des aides sociales et rêve d’Eldorado européen). Cette lapalissade n’en est pas moins impossible à énoncer aujourd’hui sans être stigmatisé, tant le lobby immigrationniste radical a réussi à criminaliser les termes réalistes de ce débat pourtant vital pour notre avenir collectif. En fait, c’est toute la conception européenne et française du droit d’asile, de la gestion des frontières, puis nos politiques d’intégration et d’immigration qui doivent être repensées de façon à la fois réaliste et à l’aune des intérêts bien compris de nos concitoyens puis de nos capacités d’intégration sociales et économiques.

David Engels : C’est une question complexe dont la réponse définitive ne pourrait être donnée que par les statistiques ; et malheureusement, vu la nature de plus en plus délicate de la discussion sur l’immigration, les chiffres s’y rapportant sont de plus en plus difficilement accessibles ou ne sont même plus prélevés. Néanmoins, je crois que les raisons qui poussent la majorité des populations migrantes à se déplacer en Europe sont essentiellement d’ordre matériel : il ne s’agit que rarement d’une population cultivée et prospère qui est simplement à la recherche de plus de démocratie et de liberté, mais plutôt d’une population vivant dans la misère économique et l’oppression politique et prête à se rendre n’importe où pour autant que cela leur assure à la fois la survie et la sécurité. Évidemment, il va de soi que la misère et l’oppression dont souffraient ces immigrés chez eux sont souvent causées (ou accompagnées) par une situation politique marquée par la corruption, la persécution, l’autoritarisme et l’incompétence, de manière à ce que motivation humanitaire et motivation politique deviennent inséparables.

Toutefois, si l’on examine le comportement de beaucoup de migrants après leur arrivée dans leur société d’accueil, il semble que la volonté de s’assimiler et d’adopter les valeurs occidentales disparaisse de plus en plus. Au contraire, l’oppression de la femme, la soumission à l’autorité religieuse, le choix d’activités économiques opérant souvent en dehors de la légalité et une attitude très revendicatrice face à l’État et à la société d’accueil en général suggèrent que l’enthousiasme pour les valeurs de la société d’accueil n’a dû être que bien rarement la motivation principale de l’immigration. Et notre société actuelle, au lieu de faciliter l’intégration, exalte une "tolérance" sans restriction face à l’"autre" et, tout en se vautrant littéralement dans le rejet de sa propre identité culturelle en raison de ses nombreux "crimes", en appelle à la "compréhension" des "spécificités culturelles" des étrangers ...

Quel prix l'Occident paie-t-il pour cette résistance à ses valeurs ? Le terrorisme ?

Alexandre del Valle : Le terrorisme islamiste de type salafiste-djihadiste que nous connaissons depuis des décennies - et qui a de plus en plus tendance à se "démocratiser" à travers les cas de "loups soi-disant solitaires" à la Merah ou à la Ghlam – n’est selon moi que la partie immergée la plus tragique de ce vaste phénomène qu’est la "seconde décolonisation" antioccidentale. Celui-ci passe en effet aussi par le rejet des valeurs universelles des droits de l’homme, perçues comme une "arrogance néo-impériale". On retrouve ce phénomène aussi en Turquie, à travers la voie apparemment "douce" - mais non moins anti-occidentale (sur le plan philosophique) - du nationalisme islamiste du président-néo-sultan Erdogan, qui démantèle progressivement la laïcité kémaliste, issue de l’idéologie occidentale, donc "apostate".

Pour les islamistes turcs qui votent en faveur d’Erdogan, lutter contre les idées laïques d’Atatürk, père de la Turquie moderne face aux envahisseurs européens vainqueurs de la première guerre mondiale, est la nouvelle façon de lutter pour l’indépendance de la Nation turque. Face à l’apostat Mustapha Kémal Atatürk, qui a aboli le Califat et supprimé la Charià’, l’AKP au pouvoir prépare le rétablissement informel du Califat sunnite pendant que Da’ech le rétablit concrètement…

Le rejet de l’influence des idées occidentales se traduit aussi par une nouvelle façon de concevoir la démocratie elle-même : l’Iran khomeinyste et les Frères musulmans portent un modèle de "démocratie islamique" différent du modèle individualiste et matérialiste-laïque occidental ; de même, la Russie, l’Egypte d’Al-Sissi ou le Venézuéla proposent un modèle de "démocratie contrôlée" ou "souveraine". Quant à la Chine, elle explique sans complexe que la démocratie n’est pas le meilleur modèle puisqu’il conduit à l’anarchie et au chaos… La Chine maoïste-capitaliste montre qu’un pays dictatorial peut briguer le statut de première puissance tout en rejetant la démocratie libérale. Pour les nations du nouveau monde multipolaire, l’universalité des droits de l’homme n’est qu’un cache-sexe de "l’arrogance occidentale". A ce titre, la globalisation, pas toujours si "heureuse" que ne l’estiment les mondialistes, n’est en fait qu’un champ de déploiement de puissances, d’échanges et de concurrences au sein d’un monde de plus en plus multipolaire et de moins en moins occidental.

David Engels : Certes, le terrorisme est l’une des voies les plus spectaculaires par lesquelles s’exprime l’opposition à l’universalisme ultra-libéral. Mais ce n’est que le pic de l’iceberg, car il y a bien pire.

D’un côté, pensons à la transformation de plus en plus accélérée de notre propre société par l’immigration de masse et par la redistribution de la fortune. Ces deux phénomènes risquent non seulement de cliver de plus en plus nos sociétés de manière politique, mais aussi de provoquer, à la longue, la disparition pure et simple du modèle de vie occidental. Déjà maintenant, la ville de taille moyenne, peuplée dans sa large majorité d’Européens de souche, animée essentiellement par l’activité de la classe moyenne et ayant comme principaux constituants sociaux des familles nucléaires, a pour ainsi dire disparu suite à l’immigration, la paupérisation, la désindustrialisation et la destruction de la famille traditionnelle. Il ne s’agit que d’une question de temps avant que n’éclatent de violentes luttes motivées à la fois par la haine communautaire et le ressentiment économique.

Et d’un autre côté, notre mécompréhension totale du monde non-européen et notre volonté missionnaire d’exporter ces mêmes valeurs universalistes ainsi que le modèle politique et économique qui les sous-tend a profondément déstabilisé nos États voisins, déjà largement animés par des ressentiments post-coloniaux. Ainsi, parce que les médias nous montraient nuit et jour des foules promenant des bannières où figuraient des mots comme "liberté", "démocratie" ou "égalité", nous avons accueilli avec empressement la déstabilisation du Maghreb, du Moyen Orient, de grandes parties de l’Afrique et de l’Ukraine ; puis, une fois ces pays sombrés dans l’anarchie et un grand nombre de ces prétendus combattants pour la "liberté" identifiés comme fondamentalistes et radicaux, nous avons simplement fermé les yeux et attendu que quelqu’un intervienne, idéalement les États-Unis, que nous aurions pu, du même coup, critiquer pour leur interventionnisme. Le résultat : de la Tunisie en passant par la Libye, l’Égypte, le Soudan, la Palestine, la Syrie, l’Iraq, l’Iran, le Caucase, l’Ukraine et la Russie (et j’en passe), nous sommes entourés d’États qui non seulement ont un piètre avis de notre crédibilité politique et morale, mais qui, de manière largement justifiée, attribuent leurs malheurs actuels au dilettantisme, à la lâcheté et à l’hypocrisie de notre politique extérieure.

ukr512641c.jpg

Que perdrait l'Occident à renoncer à étendre ses valeurs au monde ? Que pourrait-il y gagner?

Alexandre del Valle : Les pays d’Occident ne pourront relever ces défis du monde en voie de multipolarisation et de désoccidentalisation idéologique qu’en renouant avec la realpolitik et en effectuant un recentrage autour de leurs intérêts géocivilisationnels bien compris. Cela ne signifie aucunement un "repli" sur soi, comme l’insinuent les partisans de l’utopie du Village Global et de "Mc World", mais qu’au lieu de tenter sans succès aucun d’exporter nos valeurs chez les autres à coups d’embargos et de "bombardements humanitaires", nous ferions mieux de défendre chez nous ces mêmes valeurs universelles qui ne sont pas forcément celles d’autres nations.

Avant de vouloir démocratiser l’Egypte, la Syrie, la Tunisie, le Yémen ou la Libye, lors des révolutions arabes, ou jadis l’Irak lors des deux guerres de 1990 et 2003, sans oublier l’Ukraine et la Géorgie depuis les années 2000 avec les "révolutions  de couleur" appuyées par l’Occident pour affaiblir la Russie dans son ‘étranger proche’, les dirigeants occidentaux seraient bien inspirés de défendre chez eux la démocratie affaiblie par l’incurie des politiques irresponsables, la laïcité menacée par le communautarisme et l’islamisme, et bien sûr leurs frontières, mises en danger non pas par la République islamique iranienne, Da’ech, la Chine, l’Irak de Saddam, Kadhafi, ou la Russie de Poutine, mais par des politiques de court terme de renonciation au principe de souveraineté. Mais les partisans d’une conception assimilationniste de l’intégration ont été habilement discrédités et soumis à la reductio ad hitlerum par les nouveaux inquisiteurs du "cosmopolitiquement correct". Je décrits les armes rhétoriques et procédés de manipulation-désinformation de ces derniers dans mon ouvrage Le Complexe occidental, petit traité de déculpabilisation (Toucan).  

egypte-manifestations.jpg

Il y a tout de même une bonne nouvelle dans le constat apparemment pessimiste de l’émergence d’un monde multipolaire de moins en moins d’accord avec l’universalisme arrogant de l’Occident ex-colonial: si l’avenir est au retour de la Realpolitik et à l’apparition de pôles géopolitiques autonomes défendant leurs intérêts de façon décomplexée (monde sino-confucéen, Inde ; Russie OCS-CEI ; Occident ; monde arabo-musulman sunnite et pôle chiite pro-iranien ; Amérique latine néo-indigéniste, Sud est asiatique, etc), alors les nations occidentales confrontées à une adversité déclarée et multiforme se sentiront elles-aussi de plus en plus autorisées à défendre leurs propres intérêts de façon décomplexées. Ainsi, de même que la christianophobie planétaire (qui menace les chrétiens, de la Chine au Nigéria en passant par l’Irak, la Syrie, la Libye ou l’Inde et tout récemment jusque dans nos banlieues) va pousser les Européens désenchantés à redevenir fiers de leur identité, de même, la montée d’une haine anti-occidentale planétaire va conduire de nombreux Occidentaux à se décomplexer.

Immanquablement, nombre d’Occidentaux qui constatent le rejet de notre modèle partout où nous l’avons imposé par les "guerres humanitaires" à la BHL-Kouchner et qui déplorent les conséquences de l’échec de l’intégration dans nombre de nos banlieues vont exiger de plus en plus dans l’avenir que nos politiques défendent nos intérêts chez nous au lieu de l’exporter sans succès aucun ailleurs. Le recentrage civilisationnel et géopolitique que je prône dans le "complexe occidental" va se faire naturellement et logiquement.

David Engels : Je ne peux parler ici que de l’Europe, non pas des États-Unis. Le problème réside dans l’ambiguïté propre à notre "universalisme", car les valeurs qui le caractérisent se manifestent essentiellement, dans la réalité, par la création d’une structure économique basée sur le modèle de la croissance et de la spéculation et qui a donc besoin d’expansion pour perdurer. Ainsi, l’ultra-libéralisme doit impérativement tenter de transformer l’ensemble de la terre habitée en zone de libre-échange afin d’assurer un maximum de mobilité et donc un maximum de rentabilité pour la production, la vente et, surtout, la spéculation. Cela implique aussi l’exportation d’un modèle politique encourageant et protégeant ce système économique et remplaçant donc obligatoirement toute expression immédiate de la volonté populaire par un régime oligarchique et technocratique, empêchant tout phénomène d’opposition par l’exaltation de l’individualisme et de l’égoïsme, et déconstruisant tous les réseaux de solidarité comme les régions, nations, religions et civilisations par l’affaiblissement des États et la promotion de grands mouvements de population par l’immigration. Dès lors, il est impossible de changer de politique extérieure sans changer de système intérieur, et il est logique qu’un tel changement de système s’accompagnerait tout d’abord par l’ostracisation économique et politique d’une telle Europe par les autres puissances "universalistes".

Quelles seraient les conséquences de cette nouvelle donne sur l'équilibre des puissances ?

Alexandre del Valle : Les pays européens et les Etats-Unis vont devoir tirer les leçons du passé. Ils seront tôt ou tard obligés d’accepter un nouvel ordre international multipolaire fondé sur l’équilibre des puissances et donc le respect de la souveraineté et de la différence de chaque pôle géo-civilisationnel composant ce nouvel échiquier planétaire. Cela devra inciter tôt ou tard à rééquilibrer la répartition des pouvoirs au niveau global en fonction des nouveaux rapports de force géopolitiques et économiques : l’Inde, l’Afrique du Sud, le Nigeria et le Brésil devront intégrer le club décideur privilégié qu’est le Conseil de Sécurité permanent des Nations Unies.

Les Etats Unis devront accepter que le dollar soit concurrencé par les puissances européennes et asiatiques. Le FMI et d’autres instances mondiales conçues par les Occidentaux seront réformées et adaptées. L’Otan devra être adaptée à la réalité qu’est la disparition de la menace soviétique marxiste planétaire. Elle devra prendre acte et traduire dans les décisions stratégiques le fait que la Russie poutinienne n’est plus un empire soviétique à prétention mondiale mais une nation souveraine décidée à ne pas être affaiblie ennuyée dans son étranger proche".

Je pense que l’acceptation de cet ordre multipolaire sera la seule façon d’empêcher le spectre d’un "choc multipolaire global". Comme l’a bien montré Vilfredo Pareto, face à une évolution des rapports de force, soit on accepte et l’on accompagne une nécessaire "circulation des élites", donc on partage un peu le gâteau avec les autres, ne serait-ce que pour conjurer une révolte convulsive, soit on s’y refuse et la réalité des nouveaux rapports de force fera accéder ces nouvelles élites au pouvoir plus tard mais de façon plus violente…

David Engels : Je ne crois pas que l’Europe, en refusant de continuer dans sa voie actuelle consistant à jouer à la fois l’apôtre de la démocratie tout en accélérant systématiquement la libéralisation et donc la paupérisation de la population mondiale, doive abandonner toute prétention à faire de la politique extérieure ; tout au contraire. Mais cette politique extérieure future devrait tout d’abord être basée sur le sain respect du bien-être de notre continent : il est tout simplement absurde que l’Europe continue à payer de l’aide au développement à la Chine, comme c’est toujours le cas maintenant, et finance donc la mise en place d’industries qui supplantent systématiquement les nôtres !

De plus, si l’Europe veut être prise au sérieux par le reste du monde, elle devrait enfin se déclarer loyale à son propre modèle culturel et le protéger partout où il est en danger au lieu de se comporter comme un genre d’avatar des Nations Unies. Un exemple : les États arabes financent massivement la construction de nouvelles mosquées et d’instituts de recherche partout dans le monde européen, mais les Européens eux-mêmes, insistant sur leur laïcité, regardent sans ciller l’éradication du christianisme partout dans le Proche-Orient !

Et finalement, l’Europe devrait penser enfin à ses nécessités stratégiques et donc, au lieu de s’isoler de partout juste pour conserver l’appui des lointains États-Unis, se souvenir des liens culturels et économiques qui l’unissent à la Russie, tenter de créer une zone de sécurité de l’autre côté de la Méditerranée et développer une position amicale claire face aux tentatives de la Chine de s’approprier de plus en plus l’espace de l’Asie Centrale.

 

euroyyyn14212.jpg

 

Ceci est d’autant plus urgent que le résultat de l’actuel mélange entre lâcheté et hypocrisie est l’émergence de régimes de plus en plus totalitaires et ethniquement et culturellement de plus en plus homogènes partout à nos frontières, alors que l’Europe elle-même devient un ensemble multiculturel de plus en plus rapiécé et sans aucune cohérence ou solidarité interne. Avec cette politique, il est inévitable que nous devenions, tôt ou tard, le champ de bataille des conflits entre les grands groupements culturels et idéologiques qui s’affermissent de jour en jour et que nous soyons donc déchirés de l’intérieur, tout comme le fut l’Allemagne de l’époque de la Guerre des Trente Ans. Cessons enfin de vouloir européaniser le monde afin d’au moins empêcher la mondialisation et donc la dissolution de l’Europe !

Un tel scénario est-il seulement possible ? Quand bien même l'Occident voudrait se désengager, le pourrait-il ?

Alexandre del Valle : Oui. L’Occident peut se désengager. Je vous donne trois exemples de cette faisabilité qui ne signifierait pas une perte d’intérêts: 1/ la Libye : les 3 puissances occidentales bélligérantes qui ont attaqué la Libye en 2011, détruit l’Etat et fait tuer Kadhafi ont-elles remporté et gagné quelque chose ? NON. Kadhafi était bien plus enclin à composer avec les grandes compagnies et les gouvernements de ces pays avant sa chute que ne le font les clans qui se partagent le nouveau pouvoir révolutionnaire depuis la chute du Guide libyen. 2/: la Russie : Moscou est-il plus ouvert qu’avant  aux investissements des compagnies pétrolières occidentales et aux biens et services américains et européens depuis que nous avons soutenu ses ennemis géorgiens et ukrainiens puis fait entrer dans l’OTAN ou dans l’UE la Pologne, les Pays baltes foncièrement revanchards-anti-russes? La réponse est également non. L’Occident voit maintenant la Russie humiliée et revancharde se jeter dans les bras de la Chine qui rêve de bouter les Américains hors de la Mer de Chine, de Corée du Sud, du Japon, des Philippines et de Taïwan... 3/ L’Irak est il plus "pro-occidental" depuis 2003 (renversement du régime nationaliste laïque de Saddam Hussein) qu’avant ? Trois fois non, car la République islamique iranienne chiite et l’islamisme radical sunnite de Da’ech sont les grands vainqueurs. Tous deux combattent l’Occident dans ses intérêts et ses valeurs profondes. Et le pétrole n’est pas plus facilement exploité par les compagnies occidentales qu’avant.

L’Occident pourrait donc écouter Pareto : organiser la circulation des élites mondiales avant qu’elles ne se rebellent toutes contre lui ; composer avec des modèles alternatifs ou opposés du point de vue idéologique, mais capables de trouver des terrains d’ententes économiques et géopolitiques. L’Inde demeure par exemple un pays Non-Aligné, mais nous avons trouvé maints point d’ententes avec ce pays, tout comme nous le faisons déjà avec des pays comme la Turquie ou l’Indonésie ou la Malaisie. On peut avoir des modèles fort différents et s’entendre si chacun accepte que l’autre soit différent. L’Occident a tout à gagner à accepter le monde multipolaire tel qu’il est, sauf à se préparer à faire la guerre à tous de façon continuelle, ce qui a déjà montré ses limites, puisque les Occidentaux ne peuvent plus assurer le services après vente de leurs guerres aériennes contre-pruductives (Kosovo, Afghanistan, Irak, Libye, et même Mali).

En revanche, il est clair que si l’Occident cesse de donner des leçons de morale au reste du monde, s’il cesse de discréditer ses valeurs en intervenant dans les affaires des autres, personne ne lui reprochera de défendre ses intérêts idéologiques, économiques, sécuritaires et identitaires chez lui. Finalement, lorsque des nations non-démocratiques qui persécutent leurs minorités ou la liberté d’expression chez elles nous donnent des leçons de morale en termes de lutte contre l’"islamophobie" ou le "racisme", ces pays bien plus intolérants que nous à la christianophobie et la judéophobie décomplexées ne font que retourner contre nous et nos valeurs universalistes notre propre discours moralisateur. Si nous cessons de nous mêler de leurs affaires et si nous cessons de professer un droitsdelhommisme ambivalent, souvent cache-sexe d’un néo-colonialisme idéologique, alors ils n’auront plus de prises sur nous. Et chacun pourra respecter la différence de l’autre. Bref, des nations occidentales décomplexées, plus souverainistes et moins universalistes seront plus respectées par les nouveaux acteurs du monde multipolaire dont ils partageront en fait le souci de la défense de l’intérêt national. Car l’Etat-nation est en pleine renaissance et la mondialisation marchande, qui ne l’a pas tué et que les Occidentaux ont confondue avec leur utopie universaliste, n’est qu’un champ d’action, de concurrence et de mise en relation des Nations.

David Engels : Possible, oui. Mais non sans une réforme fondamentale, peut-être même un écroulement préalable du système actuel. Les Européens seront-ils prêts à payer un tel prix afin de rétablir une véritable solidarité entre citoyens et à transformer l’Europe en un bloc politique fier de sa culture et prêt à renoncer en partie au luxe importé à grands frais afin de devenir économiquement autarcique ? Pas encore, je crois. Mais, dans un certain sens, je suis "optimiste" : tous les indicateurs nous montrent que le système actuel va, du moins en Europe, vers sa perte, et que le prochain crash n’est plus très loin. C’est peut-être à ce moment que les citoyens se réveilleront et se solidariseront afin de construire une nouvelle Europe construite à la fois autour du respect de notre propre passé et de la lutte intransigeante contre l’exploitation sociale.

*A lire aussi : Alexandre del Valle, "Le complexe occidental, petit traité de déculpabilisation", 2015, Editions du Toucan.

Read more at

http://www.atlantico.fr/decryptage/pourquoi-occident-gagnerait-cesser-vouloir-exporter-modele-david-engels-alexandre-del-valle-2133335.html#7V1fcsO5KSROEWcE.99

GRANDE BRETAGNE: ENCORE UNE DÉFAITE JOUISSIVE DE LA SONDOCRATIE

cartoonbritelec.jpeg

GRANDE BRETAGNE: ENCORE UNE DÉFAITE JOUISSIVE DE LA SONDOCRATIE
 
Lire et relire les analyses de la grosse presse

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
 
Depuis  des  jours et ce matin encore dans le Figaro, alors que par les médias audiovisuels, on connaissait les résultats, on nous a expliqué tout le contraire du réel ? C’en était fini du bipartisme. La Grande Bretagne éclatée entre petits partis allait  devenir ingouvernable.

Patatras tout faux, sondeurs et analysés ridiculisés….. Une fois de plus.

«Après les experts, sondagiers, politiciens, journaleux et tout le reste, l’élection est finalement entre les mains des gens les plus intelligents de tous : les électeurs». C’est par ce tweet que le gourou de la com de David Cameron, Jim Messina, a lancé la soirée électorale. Et il ne s’est pas trompé : l’électeur a réservé à tous les spécialistes politiques et à tous les sondeurs la plus grande surprise.

Le parti conservateur de David Cameron a remporté les élections législatives de jeudi, avec au moins 326 sièges, ce qui lui assure la majorité absolue. «Je vais maintenant former un gouvernement conservateur de majorité», a-t-il annoncé, cinq ans après les élections de 2010 où les Tories avaient eu besoin des libéraux-démocrates pour gouverner. Les travaillistes étaient très loin, distancés à 232 sièges. Le Labour a été laminé en Ecosse, où les indépendantistes du SNP ont raflé 56 des 59 sièges de députés en jeu dans leur région autonome, jusqu'ici considérée comme un fief travailliste inexpugnable. 

Le Labour est d'abord et avant tout victime du tsunami nationaliste qui a déferlé sur l'Ecosse, le SNP décuplant presque sa représentation à la Chambre des Communes. Le compteur des libéraux-démocrates, alliés des conservateurs dans le gouvernement sortant, restait quant à lui bloqué à 8 députés, contre 56 préalablement. Nigel Farage, le chef de file du parti europhobe Ukip, battu à South Thanet, a été le premier à démissionner, suivi peu après par le leader libéral-démocrate Nick Clegg, 48 ans, qui a jeté l'éponge au sortir d'une nuit «dévastatrice», selon sa propre expression. Enfin, le patron des travaillistes Ed Miliband, a suivi le même chemin, en endossant «l'entière responsabilité de la défaite».

Ed Miliband est le fils de deux Polonais juifs, Marion Kozak et Ralph Miliband, marxiste né à Bruxelles. Son père a fui la Belgique au cours de la Seconde Guerre mondiale et sa mère la Pologne sous l'ère communiste. Il est le frère de David Miliband, homme politique et ancien ministre, également membre du Labour. Il est athée et souhaitait être le premier Premier ministre britannique juif.

cartoon2015britelec.jpeg


Les tactiques de campagne alarmistes des Tories promettant l’apocalypse pour l’économie dans le cas de l’avènement d’un gouvernement travailliste dépensier et d’un SNP partisan de la dislocation de l’Union ont, semble-t-il, convaincu l’électeur, qui continuera d’avaler pendant cinq ans sa potion d’austérité et aura son mot à dire sur un maintien ou non dans l’Union Européenne.

Une des promesses de campagne de David Cameron était la tenue d’un référendum dans les deux ans à venir sur le maintien ou non de la Grande-Bretagne dans l’Union européenne. Dans un premier temps, en juin, lors du sommet européen, David Cameron exposera clairement ses exigences pour récupérer plus d’autonomie auprès de Bruxelles. Patrick Dunleavy, politologue à la LSE, l'appelle «le référendum Brexit», en référence au risque d'une sortie britannique du groupe des 28. Selon lui, David Cameron qui plaide en faveur d'une renégociation des liens de son pays avec l'ensemble qu'il a rejoint en 1975 -au moment où l'Europe était un marché commun et non un projet politique- sera tenté «d'avancer le scrutin à l'an prochain». Afin de crever l'abcès. C'est que son parti a eu une fâcheuse tendance à se déchirer sur l'Union Européenne ces dernières décennies.

Mais l’autre enseignement est pour le FN. Le Parti pour l'indépendance du Royaume-Uni (UKIP), qui prône la sortie de l'Union européenne devrait certes confirmer son statut de troisième parti du royaume en voix mais devra se contenter d'un seul siège. Quand un parti de  gouvernement se positionne sur un discours contestataire, aidé par le mode  de scrutin, il rafle la mise. A bonne entendeur et bonne entendeuse salut!

lundi, 11 mai 2015

Le Groupe État islamique en Ukraine

soros3950930.jpg

Le Groupe État islamique en Ukraine: les États-Unis lâchent leurs « agents du chaos » en Eurasie

Auteur : Mahdi Darius Nazemroaya
Traduction Julie Lévesque
Ex: http://zejournal.mobi

Le soi-disant État islamique en Irak et en Syrie (EI) ou Daech est-il actif dans l’Ukraine post-Euromaïdan? On ne peut répondre exactement à cette question. Autrement dit, la réponse est à la fois oui et non.

Cela dit, qu’est-ce que Daech? Il s’agit d’un groupe peu structuré de milices, tout comme son prédécesseur Al-Qaïda. Son réseau comprend des groupes originaires du Caucase, lesquels se battent en Syrie et en Irak. Ceux-ci sont maintenant en Ukraine et l’utilise comme tremplin vers l’Europe.

Les Agents du chaos et la guerre pour l’Eurasie

Les conflits en Ukraine, en Syrie, en Irak, en Libye et au Yémen sont tous des fronts de la guerre multidimensionnelle menée par les États-Unis et leurs alliés. Cette guerre vise à encercler l’Eurasie et la Chine, l’Iran et la Russie sont les principaux objectifs.

Les États-Unis veulent également conquérir ces pays dans l’ordre suivant : d’abord l’Iran, suivi de la Russie et enfin la Chine comme dernière partie de l’ensemble que compose cette « Triple-Entente eurasienne ». Ce n’est pas une coïncidence si les conflits en Ukraine, en Syrie, en Irak, en Libye et au Yémen sont près des frontières de l’Iran et de la Russie, puisque Téhéran et Moscou sont les premiers objectifs à long terme de Washington.

Les conflits en Ukraine, en Syrie, en Irak, en Libye et au Yémen sont liés au même titre que les forces violentes, racistes, xénophobes et religieuses déchaînées pour agir comme « agents du chaos ». Ce n’est pas une simple coïncidence si le 10 septembre, 2014, Newsweek publiait un article titré « Des combattants volontaires nationalistes ukrainiens commettent des crimes de guerre rappelant l’États islamique ». Qu’elles le sachent ou non, ces forces déviantes, qu’il s’agisse des milices ultranationalistes Pravy Sektor en Ukraine ou des coupeurs de tête Al-Nosra et Daech, servent toutes un même maître. Ces agents du chaos créent différentes vagues de « chaos constructif » afin d’empêcher l’intégration eurasienne et un ordre mondial libre de diktats étasuniens.

Le « chaos constructif » déclenché en Eurasie finira par faire des ravages en Inde. Si New Delhi pense qu’on le laissera tranquille, il se trompe. Les mêmes agents du chaos le tourmenteront aussi. L’Inde constitue elle aussi une cible, tout comme la Chine, l’Iran et la Russie.

Étrange alliance entre Daech et les ultranationalistes ukrainiens

Que des liens ténus existent entre les divers agents du chaos ne devrait surprendre personne. Ces agents servent le même maître et ils ont les mêmes ennemis, dont l’un est la Fédération de Russie.

C’est dans ce contexte que Marcin Mamon a signalé la connexion de Dasech avec l’Ukraine. Il explique même que certains combattants du Caucase sentent qu’ils ont une dette envers les Ukrainiens comme Alexander Muzychko.

Mamon est un cinéaste et documentariste polonais ayant produit un certain nombre de documentaires sur la Tchétchénie, comme The Smell of Paradise (L’Odeur du paradis, 2005) avec Mariusz Pilis, pour le programme Storyville de la British Broadcasting Corporation. Il est également ouvertement sympathique à la cause des séparatistes tchétchènes contre la Russie dans le Caucase du Nord.

Les voyages de Mamon en Afghanistan et son interaction avec les combattants séparatistes tchétchènes ont amené le cinéaste polonais à avoir des contacts avec Daech en Syrie et en Turquie. Cela l’a incroyablement conduit vers une nouvelle voie : l’Ukraine.

BzGzsxrIIAAdxat.jpg

« À ce moment là, je ne savais même pas qui j’allais rencontrer. Je savais seulement que Khalid, mon contact en Turquie avec l’État islamique, m’avait dit que ses “frères” étaient en Ukraine et que je pouvais leur faire confiance », écrit-il à propos de sa rencontre dans une « rue pleine de nids-de-poule à Kiev, à l’est du fleuve Dniepr, dans une zone connue sous le nom de « Rive gauche ». Dans un article précédent, Mamon explique que ces soi-disant « ”frères” sont des membres de l’EI et d’autres organisations islamiques clandestines, [présentes] sur tous les continents et dans presque tous les pays, y compris désormais en Ukraine ». Il explique également que « Khalid, qui utilise un pseudonyme, dirige une branche clandestine de l’État islamique à Istanbul. Il est venu de Syrie pour aider à contrôler le flot de volontaires qui arrivent en Turquie de partout dans le monde et veulent se joindre au djihad mondial. Il voulait alors me mettre en contact avec Ruslan, un “frère” luttant avec les musulmans en Ukraine ».

Les ultranationalistes ukrainiens comme Muzychko sont également devenus des « frères » et ont été acceptés dans ce réseau. Mamon explique que les combattants tchétchènes l’ont accepté « même s’il ne s’est’ jamais converti à l’islam » et que « Muzyczko et d’autres volontaires ukrainiens s’étaient joints aux combattants tchétchènes et avaient participé à la première guerre tchétchène contre la Russie, [où ils avaient] commandé un groupe d’Ukrainiens bénévoles appelé Viking, lesquels ont combattu sous les ordres du célèbre chef militant tchétchène Chamil Bassaïev ».

Pourquoi l’EI est-il au service de bataillons privés en Ukraine?

Que faut-il comprendre lorsque des séparatistes tchétchènes et le réseau transnational de « frères » liés à l’EI sont recrutés ou utilisés pour remplir les rangs des milices privées utilisées par des oligarques ukrainiens? C’est une question très importante qui démontre par ailleurs clairement comment ces éléments sont des agents du chaos.

Marcin Mamon a voyagé en Ukraine pour rencontrer le combattant tchétchène Isa Munaïev. Il explique ainsi ses antécédents : « Même avant son arrivée en Ukraine, Munaïev était bien connu. Il a lutté contre les forces russes dans les deux guerres de Tchétchénie. Dans la seconde, il était le commandant à Grozny. Après la prise de la capitale tchétchène par les forces russes entre 1999 et 2000, Munaïev et ses hommes se sont réfugiés dans les montagnes, d’où il a combattu jusqu’en 2005, lorsqu’il a été grièvement blessé et est allé suivre un traitement en Europe. Munaïev a vécu au Danemark jusqu’en 2014. Puis, la guerre a éclaté en Ukraine et il a décidé qu’il était temps de se battre à nouveau contre les Russes. »

Ce qui précède est un passage important, car il illustre la façon dont les États-Unis et l’UE ont soutenu les militants qui luttent contre la Russie. Aux États-Unis comme dans l’UE, le refuge que le Danemark a donné à Isa Munaïev n’est pas remis en cause, alors que l’appui allégué de Moscou aux soldats des Républiques populaires de Donetsk et Lougansk est considéré comme criminel. Pourquoi le deux poids deux mesures? Pourquoi est-il acceptable que les États-Unis, l’UE et l’OTAN soutiennent des mouvements séparatistes et des milices dans d’autres parties du monde, chose que l’on interdit aux autres pays qui sont critiqués lorsqu’ils font de même?

« Un homme plus âgé portant une veste en cuir m’a présenté à Munaïev. « Notre bon frère Khalid a recommandé cet homme, dit-il. (Khalid est aujourd’hui l’un des leaders les plus importants de l’État islamique. Khalid et Munaïev se sont connus durant les années passées à lutter ensemble en Tchétchénie) », explique Marcin Mamon sur les liens entre les séparatistes tchétchènes et Daech.

Munaïev est venu en Ukraine pour établir « un bataillon privé qui se multiplierait par la suite en plusieurs dizaines de bataillons privés qui ont surgi pour se battre aux côtés du gouvernement ukrainien et fonctionnent séparément de l’armée ». Sa milice, le bataillon Djokhar Doudaïev, porte le nom du président séparatiste de Tchétchénie.

Gidsland Schotland

nicola-sturgeon.jpg

Gidsland Schotland

Hopelijk breekt het regionalistische succes de linkse geesten open

door Tom Garcia
Ex: http://www.doorbraak.be

Het resultaat van de Britse verkiezingen is vooral een duidelijke les voor links.

De conservatieve Tories van David Cameron hebben de verkiezingen in het Verenigd Koninkrijk gewonnen. De vraag is echter hoe verenigd dat koninkrijk nog wel is. Cameron beloofde immers al meer autonomie voor de deelstaten als hij verkozen zou worden, wellicht heeft dit hem ook extra stemmen opgeleverd. Maar het duidelijkste signaal komt van de tweede grootste deelstaat, Schotland.

Na het referendum over onafhankelijkheid in september, dat maar nipt in het voordeel van de nee-stemmers uitdraaide, haalt de links-nationalistische partij SNP nu niet gewoon een absolute meerderheid in Schotland, maar sleept ze zowat àlle Schotse zetels in de wacht. De voorzitster van de partij, Nicola Sturgeon, vatte het als volgt samen: ‘Schotland heeft duidelijk gekozen voor meer Schotland en minder besparen.’

De grote verliezers zijn de eurosceptische UKIP, de Liberal Democrats, maar vooral de traditioneel linkse Labour. Deze laatsten hebben zich vooral mispakt aan het sterke regionalistische gevoel dat in Schotland (en andere Britse regio’s) leeft. Bij het Schotse referendum vormden ze zelfs één front met de ‘aartsvijand’ de Conservatives om het nee-kamp te steunen.

Links moet herbronnen

Eén ding is dus duidelijk: klassiek links krijgt ook in Groot-Brittannië klappen. De zogenaamde ‘derde weg’ waarbij de sociaaldemocratie de vrije markt in de armen nam, is een doodlopende straat gebleken. Het socialistische ‘internationalisme’ werd overvleugeld en overschaduwd door de globalisering. De gewone man blijft achter met het gevoel een speelbal te zijn in de handen van het internationale grootkapitaal. En ook politiek lijken de belangrijke beslissingen ver boven zijn hoofd bedisseld en genomen te worden.

De drang en wil om het heft weer in eigen handen te nemen, groeit gestaag en uit zich op verschillende manieren: via regionalistische partijen, burgerbewegingen en dergelijke. En telkens holt de klassieke sociaaldemocratie achter de feiten aan. Dat is zowat in alle Europese landen zo: Labour in het VK, PSOE in Spanje, PS in Frankrijk, PASOK in Griekenland, de sp.a in Vlaanderen.

Wat opvalt, is dat in zowat al die landen het ‘antwoord’ uit linkse hoek komt. Een links dat in regionalisme een antwoord ziet op de groeiende macht van supranationale instellingen, grote holdings en financiële mastodonten. Een links dat complexloos kiest voor de eigen gemeenschap, wat iets totaal anders is dan het eigen volk. Regionalisme heeft helemaal niks te maken met etniciteit of afkomst, maar alles met gemeenschapsvorming.

scotvotes.png

En in Vlaanderen?

In Vlaanderen zit het nationalisme vast in een rechtsconservatieve partij en een etnocentrische partij. Van gemeenschapsvormend regionalisme is dus geen sprake. Op de één of andere manier lijkt het enige antwoord te moeten komen van het definiëren en tegen elkaar opzetten van bevolkingsgroepen waarbij de eerste stap telkens van de ander moet komen, waardoor iedereen blijft stilstaan natuurlijk.

Er is nochtans ruimte voor een linkse, regionalistische mobilisatie. Een beweging, vereniging, partij, wat dan ook voor mensen van eender welk pluimage die graag de handen in elkaar willen slaan om aan een sterke gemeenschap te bouwen. Die niet tégen maar vóór zijn.

Kan dat dan niet binnen België? In theorie wel. In theorie kan je zelfs van de wereld één grote gelukkige familie maken. Maar in de praktijk blijkt, zoals in alle families overigens, dat de leden van die familie niet allemaal dezelfde noden en wensen hebben en al zeker niet op hetzelfde moment. Er ís ontegensprekelijk een verschil tussen Vlamingen en Walen en dat heeft niets met de mensen an sich te maken. Natuurlijk hebben Walen en Vlamingen dezelfde basisbehoeften, maar er is meer onder de zon. Economisch, bijvoorbeeld, zijn beide regio’s helemaal anders geëvolueerd: Wallonië als overwegend industrieel gebied, Vlaanderen meer ambachtelijk. De sociale strijd heeft daardoor ook verschillende accenten gekend en bijgevolg zijn beide regio’s ook politiek heel anders gekleurd. Dat is niet goed of niet slecht, dat is gewoon zo.

Denk gerust links en Vlaams

Wil dat dan zeggen dat we ons in ons eigen kleine wereldje moeten terugtrekken? Helemaal niet. Regio’s kunnen ook niet op zichzelf bestaan. Interactie en samenwerking met andere regio’s zal er altijd zijn en moeten zijn. Maar die interactie kan alleen verrijkend zijn als elke regio sterk staat en bijvoorbeeld niet compleet afhankelijk is van een andere regio of een groter geheel. Zelf zo sterk mogelijk staan om het geheel zo sterk mogelijk te maken. Wat kan daar mis mee zijn?

Concreet: de Schotse ‘nationalisten’ van SNP streven inderdaad naar een onafhankelijk Schotland. Maar dan een Schotland met een sterke sociale zekerheid, een Schotland waar iedereen welkom is en dat iedereen de beste kansen op een menswaardig leven wil bieden. Een Schotland dat gelooft in een gezonde leefomgeving en sterk en kwalitatief onderwijs. Een Schotland dat graag in de eerste plaats zijn gemeenschap ziet genieten van de winsten die het genereert. Een Schotland dat zo een sterkere gemeenschap kan bouwen, die op haar beurt een versterking voor andere gemeenschappen vormt.

Wat is er bekrompen of kortzichtig aan hetzelfde te willen voor Vlaanderen?

dimanche, 10 mai 2015

Großbritannien im Umbruch

Blow-Up-Britain-WIDER_SE.jpg

Großbritannien im Umbruch

von Johannes Konstantin Poensgen

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Die Folgen der britischen Unterhaus-​Wahlen sind noch denkbar unklar. Die alte britische Parteienlandschaft könnte danach weniger dank der UKIP, sondern aufgrund von Schottlands Linksnationalisten zerfallen.

Wenn heute Abend alle Stimmen ausgezählt sind, wird nichts entschieden sein. Das ist ungewöhnlich in dem Land mit dem konsequentesten Mehrheitswahlrecht der Welt. Normalerweise sorgt es dafür, dass nur die beiden größten Parteien – seit einem Jahrhundert die „Tories“, heute repräsentiert in der „Conservative Party“ und die sozialdemokratische „Labour“ – eine bedeutende Zahl von Parlamentssitzen gewinnen können.

Indem es kleinere Parteien von der Macht ausschließt, hat das Mehrheitswahlrecht dem Vereinigten Königreich seit der „Glorious Revolution“ von 1688 im Ganzen betrachtet stabile Regierungsverhältnisse beschert.

Schottische Linksnationalisten drängen nach oben

Inzwischen erlebt Britannien jedoch einen Umbruch seines Parteiensystems. Der reicht noch weit über jene Krise hinaus, an deren Ende die konservativen „Whigs“ durch die Labour Party ersetzt, dass de facto existierende Zweiparteiensystem aber auf diese Weise wiederhergestellt wurde. Bei den aktuellen Wahlen ist die absolute Mehrheit einer Partei – erreicht bei 326 der insgesamt 650 Sitze – sehr unwahrscheinlich. Eine Regierungskoalition ist aber auch nicht in Sicht.

Das sichtbare Erdbeben dieser Wahl steht bereits fest. Die „Scottish National Party“ (SNP) schlägt in den schottischen Umfragen alle anderen Bewerber um Längen aus dem Feld. Nur reichlich ein halbes Jahr nach der knapp verlorenen Abstimmung um die schottische Unabhängigkeit wird die linksnationale Partei fast sämtliche Sitze in ihrer Heimat abräumen. Von Labour, der traditionell dominierenden Partei in Schottland, fühlen sich die meisten Schotten nicht mehr repräsentiert. Sie wird nur noch als Teil eines abgehobenen Westminster-​Klüngels angesehen. Die Attraktivität der SNP beruht aber auch darauf, dass sie noch großzügigere Sozialleistungen verspricht als Labour – und nach Möglichkeit das Vereinigte Königreich dafür aufkommen soll.

Regional– und Minderheitenparteien sind in Westminster, dem Sitz des britischen Parlaments, ganz normal. Wenngleich das Mehrheitswahlrecht sehr hohe Schranken für inhaltliche Oppositionsparteien wie etwa die UKIP errichtet, so fördert es die Vertreter regionaler Interessen. Diese dürfen eine Handvoll Vertreter nach Westminster schicken und sind ansonsten ohne Belang. Die SNP jedoch reitet auf der Welle einer massiven Unzufriedenheit der Schotten mit dem gesamten Londoner Establishment. Hier geht es um alle 59 Sitze, die Schottland im House of Commons zu vergeben hat. Die SNP wird aller Wahrscheinlichkeit nach über 50 davon gewinnen.

Vor allem Labour hat Angst vor der SNP

Das schadet zunächst der Labour Party, die Schottland seit Jahrzehnten dominiert und mit der die SNP inhaltlich viele Gemeinsamkeiten hat. Das Bündnisangebot der SNP-​Vorsitzenden Nicola Sturgeon an Labour wurde von dessen Vorsitzenden Ed Miliband aber zurecht als unheilvolles Danaergeschenk abgewiesen. Die Schotten wollen eine Minderheitsregierung der Labour Party unterstützen, nicht als Koalitionspartner, aber von Gesetzesvorlage zu Gesetzesvorlage. Dabei besteht das Ziel der SNP vor allem darin, möglichst viele Transferzahlungen für Schottland herauszuschlagen, wenn es nicht doch noch gelingen sollte die Unabhängigkeit wieder auf die Tagesordnung zu setzen.

Sich zur Geisel einer Separatistenpartei zu machen, die zudem unter nationaler Selbstbestimmung in etwa dasselbe versteht wie Alexis Tsipras, nämlich auf anderer Leute Kosten zu leben, und auch noch die Labour-​Wähler stiehlt, ist für Miliband keine angenehme Vorstellung. Er hat bereits jede Zusammenarbeit ausgeschlossen.

Nicola-Sturgeon-Britain-election-2015-cartoon.jpg

Neuwahlen? Minderheitsregierung?

Eher will er die Briten erneut an die Urne schicken, in der wagen Hoffnung, dass sich die Anziehungskraft der SNP irgendwie mit der Zeit abnutzt. Sollte sich jedoch diese Partei dauerhaft als Vertreterin Schottlands etablieren, verlöre Labour eine wichtige Hochburg. Eine Alleinregierung von Labour wäre damit für die Zukunft ausgeschlossen und regelmäßige Koalitionen mit der in England äußerst unpopulären SNP sind auch nicht möglich. Das Bündnis SNP-​Labour ist allerdings die einzige realistische Koalition. Sollte Miliband sich nach der Wahl nicht doch umentscheiden und den gewaltigen Vertrauensverlust in Kauf nehmen, bliebe außer Neuwahlen nur eine Minderheitsregierung.

Das sähe folgendermaßen aus: Der britische Premierminister wird verfahrenstechnisch betrachtet nicht vom Parlament gewählt, sondern vom Monarchen ernannt. Der einmal ernannte Premier braucht dann aber die Unterstützung des House of Commons für die Thronrede des Monarchen, in der das Regierungsprogramm niedergelegt ist. Queen Elisabeth soll diese Rede am 27. Mai halten. Um Premier zu werden bzw. zu bleiben, werden der amtierende Premierminister und Vorsitzende der „Conservative Party“ David Cameron und Miliband also die Stimmen der diversen Kleinparteien einsammeln müssen. Diese werden sich das natürlich etwas kosten lassen. Doch die verabschiedete Thronrede wäre dann nur der Anfang des Spießrutenlauf. Bei jeder Gesetzesvorlage, die nicht auch von der großen Oppositionspartei getragen wird, wird dieses Spiel von vorne beginnen. Fünf Jahreshaushalte wird die neue Regierung auf diese Weise durchbringen müssen.

Symptom einer gesamteuropäischen Umwälzung

Bleibt diese unselige Situation wenigstens auf die nächsten fünf Jahre beschränkt? Nein, das ist kein Betriebsunfall. Diese Wahlen sind nur das Symptom einer Umwälzung, die ganz Europa im Griff hat. Es entlädt sich eine diffuse Frustration über das Establishment. Das Kartell der etablierten Parteien wird von vielen nur noch als inzestuöser Klüngel wahrgenommen. Problemlösungskompetenz spricht man ihm nicht mehr zu, oft genug wird ihm auch schon der Wille zur Problemlösung abgesprochen. Wo sich ein Kanal findet, dem Unmut Luft zu machen, wird dieser genutzt.

In Schottland ist dieser Unmut durch die Kombination einer regionalen Separatistenbewegung mit den Besonderheiten des britischen Wahlrechts nur besonders wirksam geworden. Im restlichen Britannien fordert inzwischen die „UK Independence Party“ (UKIP) die etablierten Parteien heraus. Sie wird bei dieser Wahl zwar nur wenige Sitze gewinnen. Doch durch ihr Erstarken sah sich Cameron bereits zu dem Wahlversprechen genötigt, 2017 ein Referendum über den Verbleib in der Europäischen Union abzuhalten. Aber auch Labour steht seitens dieser Richtung unter Druck. In vielen Wahlkreisen Nordenglands, jener Gegend, in der die Labour Party die Vergewaltigung tausender weißer Mädchen durch Migrantengangs über anderthalb Jahrzehnte lang beaufsichtigte, ist UKIP bereits die zweitstärkste Kraft.

Die Entwicklung in Britannien folgt einem Muster des Vertrauensverlustes der politischen Klasse, der neue ungewohnte Bewegungen nach oben spülen kann. Die akute politische Situation in Britannien hängt stark mit den dortigen Umständen zusammen. Im Kern folgt ganz Europa diesem Trend. Eines nicht all zu fernen Tages werden die jetzigen Oppositionsbewegungen vor der Frage stehen, was sie mit der errungenen Macht anfangen wollen. Mit etwas Glück wird dann etwas Ausgegoreneres auf der Tagesordnung stehen als der nationale Sozialismus der griechischen Linkspartei „Syriza“ oder der SNP.

Sancties tegen Rusland treffen centraal Azië hard

caucase_asie_centr.jpg

Door: Henk Jurgens

Ex: http://www.doorbraak.be

Sancties tegen Rusland treffen centraal Azië hard

De Centraal-Aziatische republieken lijden zwaar onder het Europees embargo van Russische producten.

In Rusland werken miljoenen gastarbeiders uit de voormalige Sovjetrepublieken. Velen van hen zijn er illegaal. Allen sturen ze geld naar hun families thuis, veel geld. Volgens de Wereldbank hangt 21% van de Armeense economie, 31,5% van de economie van Kirgizië, 42% van de Tadzjiekse en 12% van de Oezbeekse economie af van deze geldzendingen. Veel van de arme gezinnen op het platteland zijn hiervan volledig afhankelijk.

Volgens The Guardian werken er 2,4 miljoen Oezbeken in Rusland. Zes tot zevenhonderdduizend zijn legaal, de anderen leven zonder geldige papieren. Oezbekistan heeft ongeveer 29 miljoen inwoners. The Moscow Times berichtte dat er in 2014 meer dan 200 000 illegale Tadzjieken door de Russen de grens zijn overgezet. Er wordt geschat dat er nog ruim een miljoen Tadzjieken in Rusland leven. Tadzjikistan heeft acht miljoen inwoners.

De exacte cijfers over de gastarbeiders zijn onbekend. Zoals overal op de wereld doen ook de gastarbeiders het werk dat de autochtonen niet willen doen. En nu het economisch slechter gaat als gevolg van de lage olieprijs en de sancties verdringen de Russen de gastarbeiders weer uit hun slecht betaald, ongeschoold werk. In het eerste kwartaal van 2015 is de Russische economie al met 2% gekrompen. De centrale bank van Rusland voorziet voor het jaar 2015 een economische krimp van 4%. Begin dit jaar heeft de Russische regering wetgeving afgekondigd waardoor het moeilijker wordt voor gastarbeiders van buiten de EEU om een verblijfsvergunning te krijgen. De EEU, de Euraziatische Economische Unie, is door Rusland opgericht om een vrijhandelszone tussen de voormalige Sovjetrepublieken, vergelijkbaar met die van de EU, te krijgen. Kazachstan, Wit-Rusland, Armenië en Kirgizië zijn lid, Oezbekistan en Tadzjikistan niet. Immigranten van buiten de EEU moeten voor ze een verblijfsvergunning krijgen eerst inburgeringcursussen volgen en examens afleggen in de Russische taal en de Russische geschiedenis. Verder betalen ze drie keer zoveel voor een werkvergunning in Moskou dan immigranten uit de EEU. In 2010 werkten 72% van de Tadzjiekse gastarbeiders in Moskou.


Als gevolg van de sancties tegen Rusland en de lage olieprijs is de Russische roebel gedevalueerd. Het naar huis gestuurde geld is daardoor minder waard. Niet alleen is er voor de gastarbeiders minder werk, hun inkomen daalde ook dramatisch. De Wereldbank verwacht dat ze in 2015 voor 10 miljard USD minder naar huis kunnen sturen. Volgens The Economist overweegt een kwart van de gastarbeiders om weer naar huis te gaan, maar thuis is er geen werk. De vrees voor sociale onrust als gevolg van werkloosheid en armoede is bij de politieke elite van de thuislanden groot.

Een land als Tadzjikistan staat onder grote politieke druk vanuit Moskou om lid van de EEU te worden. Door de devaluaties van de roebel is de somoni, de Tadzjiekse munt, ten opzichte van de roebel 35% meer waard geworden. De export naar Rusland staat daardoor onder grote druk.
Ook Oezbekistan overweegt, volgens The Diplomat, zich bij de EEU aan te sluiten. Het land was een belangrijke partner voor de Verenigde Staten tijdens hun oorlog in Afghanistan maar nu Amerika zich uit Afghanistan terug trekt vervalt de noodzaak hun bevoorrading via Oezbekistan te laten lopen.


Kirgizië is inmiddels tot de EEU toegetreden. Het is een klein, arm land met 5,5 miljoen inwoners. Volgens The Diplomat controleert Rusland de economie van Kirgizistan. Buiten de Vallei van Fergana, de vallei tussen Kirgizië, Oezbekistan en Tadzjikistan, met zijn vruchtbare landbouwgronden is er weinig economische activiteit. Alleen de toeristenindustrie is een beetje in opkomst zoals ik tijdens mijn verjaardag in 2009 in Bishkek, de hoofdstad, heb mogen ervaren.

Net als in Turkmenistan en Oezbekistan hangt ook de export van de Kazachse olie en gas af van Russische pijpleidingen. Kazachstan heeft nauwe economische banden met Rusland. In 2013 bedroeg de Russische export naar Kazachstan 17,7 miljard USD en de Kazachse export naar Rusland $5,8 miljard. Afgelopen jaar is de handel met Rusland echter met 20% afgenomen. Het land heeft vooral veel last van goedkope Russische producten die de markt overspoelen. In februari vroegen ondernemers de regering de import van een aantal Russische producten, waaronder auto's, voedsel en fruit drastisch te beperken. Goedkope Russische producten verdringen de Kazachse. De Tenge, de Kazachse munt, is het afgelopen jaar met 20% ten opzichte van de US dollar gedevalueerd maar de roebel devalueerde nog veel meer. Een roebel was in juni 2014 nog 5,44 tenge waard, begin 2015 was dit gedaald tot 3 tenge.

Het Amerikaanse ratingbureau Standard & Poor verwacht dat het bruto nationaal product van Kazachstan in 2015 met 1,5% zal dalen. Dit komt voornamelijk door de lage olieprijzen. Ruim 20% van het bnp en ruim 60% van de export komt voor rekening van de olie- en gasindustrie. De Kazachse begroting gaat uit van een olieprijs van 80 USD per vat. Op het ogenblik ligt dit rond de $60. Het land zit dan ook door de sancties tegen Rusland en de lage olie- en gasprijs op de wereldmarkt in grote economische problemen. Het is dan ook geen wonder dat president Nazarbaev samen met Lukashenko, de president van Wit-Rusland, er alles aan doet om de burgeroorlog in de Oekraïne te beëindigen en daardoor de sancties tegen Rusland te laten opheffen. Afgelopen december sloot hij een contract met Kiev om Kazachse steenkool aan Oekraïne te gaan leveren. Ook de Minsk-akkoorden die min of meer tot een staakt-het-vuren in Oost Oekraïne hebben geleid zijn na bemiddeling van de beide presidenten tot stand gekomen.

Er zijn berichten dat ook ambassadeurs van de Europese Unie met Russische parlementariërs gaan praten over een mogelijke beëindiging van de sancties. Om de burgeroorlog in de Oekraïne definitief te beëindigen is een dialoog met Rusland noodzakelijk. Ook de NAVO-top die jarenlang in het geheim met de Russische militairen in gesprek was moet weer met de Russen gaan praten. Het is onverantwoord dat deze discussies zijn stil gevallen.
Natuurlijk moeten de Russen zich uiteindelijk uit Oost-Oekraïne terug trekken, maar dat geldt ook voor de ruim duizend Amerikaanse trainers en waarnemers die het leger van Kiev 'adviseren'.


Voor de arme gezinnen op het platteland van Centraal-Azië is beëindiging van de sancties tegen Rusland op kort termijn noodzakelijk.

 

Egipto, Grecia y Chipre crean un frente unido contra la Turquía de Erdogan

Ex: http://www.elespiadigital.com

Por segunda vez en seis meses los líderes de Egipto, Grecia y Chipre (la parte greco-chipriota) se han reunido la pasada semana en Nicosia, la capital chipriota, con el fin de crear una coalición antiturca en Oriente Medio y el Este del Mediterráneo. Ellos también discutieron la situación en Palestina, la explotación de las reservas de gas y la lucha contra el terrorismo.

La cumbre tripartita -a la que acudió el presidente egipcio, Abdel Fattah al Sisi, el de Chipre, Nicos Anastasiades, y el primer ministro griego, Alexis Tsipras- discutió temas de tipo económico, político y de seguridad y tuvo lugar dentro del marco dirigido a crear un frente unido contra Turquía en un momento en el que este último país hace gala de una actitud expansionista y de agresión contra sus vecinos.

En relación al terrorismo la cumbre discutió los asuntos regionales, en especial el crecimiento del EI y sus actividades en la región del Mediterráneo, desde el Norte del Sinaí hasta las costas de Libia. Sisi dijo que el EI supone una amenaza directa a Egipto, y Grecia y Chipre mostraron también su preocupación por las actividades del grupo terrorista en el Mediterráneo. Grecia señaló que Turquía permite al EI cruzar su territorio, sin ningún obstáculo, para dirigirse a Siria e Iraq.

En el tema de Palestina, los participantes llamaron a una reanudación de las negociaciones de paz con vistas al establecimiento de un estado palestino con su capital en Jerusalén Este. La declaración final de la cumbre también subrayó que “Egipto hará esfuerzos para lograr un acuerdo de cese el fuego a largo plazo en la Franja de Gaza”.

Cooperación contra Turquía

Por su parte, los tres líderes han acordado ejercer un contrapeso al impacto negativo de las políticas turcas en la región y, sobre todo, su apoyo al terrorismo. Ellos mostraron la necesidad de colaborar en este sentido para alcanzar la estabilidad en la región a la vez que promueven los intereses económicos de los tres países.

Existe también una disputa histórica en lo que respecta a la ocupación del Norte de Chipre por Turquía desde hace 40 años. Grecia está preocupada por las aspiraciones expansionistas del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, y su respaldo a las organizaciones terroristas. Egipto, por su parte, ve a Turquía como una amenaza a la estabilidad por su apoyo al grupo de los Hermanos Musulmanes.

Grecia y Chipre están considerados como los mayores apoyos de Sisi en la Unión Europea y han trabajado para impedir la imposición de sanciones contra el Egipto de Sisi tras el derrocamiento de Mohammed Mursi y de los Hermanos Musulmanes.

samedi, 09 mai 2015

Élections en Angleterre: que des bonnes nouvelles?

MAIN-Election-2015.jpg

Élections en Angleterre: que des bonnes nouvelles?
 
Malgré trois millions de suffrages pour UKIP – ce qui n’est pas rien –, les eurosceptiques anglais sont pour le moment rayés de la carte électorale.
 
Journaliste, écrivain
Nicolas Gauthier est auteur avec Philippe Randa des Acteurs de la comédie politique. 29 € À commander en ligne sur francephi.com.
Ex: http://www.bvoltaire.fr
 

Quand on voit les fortunes abandonnées en sondages et enquêtes d’opinion par les hommes politiques, on se dit parfois qu’ils gagneraient à lâcher quelque menue monnaie à la diseuse de bonne aventure du coin de la rue. Ainsi, les travaillistes anglais, il y a quelques jours donnés par les organismes sondagiers pour grands vainqueurs des élections législatives de ce jeudi dernier, viennent-ils de se faire rétamer dans les grandes largeurs par les conservateurs.

Ce qui, à l’heure où ces lignes sont rédigées, nous donne à peu près cette configuration : conservateurs à un siège de la majorité absolue, travaillistes à la ramasse et forte poussée des indépendantistes écossais. En queue de peloton, les libéraux-démocrates, éternelle “troisième force”, sont aux pâquerettes et ne pourront manifestement pas réintégrer le prochain gouvernement. UKIP, le parti anti-européen de Nigel Farage, devrait se contenter d’un ou deux élus. Quant aux autres, écologistes, unionistes d’Irlande du Nord et divers-on-ne-sait-trop-quoi, c’est la capitulation en rase campagne ; même s’il est un fait que là-bas, le scrutin n’est guère favorable aux formations politiques les plus modestes.

Contrairement aux coutumes françaises, où nos leaders politiques, malgré des échecs à répétition, ont une indéniable tendance à ne jamais vouloir quitter le bateau, toutes dents accrochées au bastingage, Ed Miliband, leader du Parti travailliste, envisagerait d’illico donner sa démission. Ce qui n’est évidemment pas le cas de son adversaire, le conservateur David Cameron, prêt à rempiler pour un nouveau mandat.

Est-ce un triomphe pour autant ? Un sauvetage momentané, ou une sorte de victoire en trompe-l’œil, plutôt. En effet, malgré trois millions de suffrages pour UKIP – ce qui n’est pas rien –, les eurosceptiques anglais sont pour le moment rayés de la carte électorale. Quant à la défaite de Miliband, elle est simplement due au triomphe des nationalistes écossais, terre traditionnellement acquise aux travaillistes, ce qui a, de fait, torpillé leur parti d’origine, plus efficacement qu’un U-Boot. D’où les déclarations tout en demi-teintes de David Cameron – « C’est un avenir plus brillant pour tout le monde », a-t-il tweeté –, mais déclarations qui n’ont rien de rodomontades. Bref, il constate mais ne plastronne pas.

britainelec.jpgIl plastronne d’ailleurs d’autant moins qu’il a promis, d’ici 2017, un référendum sur la sortie de l’Angleterre du magma européen. Tiendra-t-il ses promesses ? On murmure que certains politiciens persisteraient à honorer cette obscène habitude… Mais là, il lui faudra compter avec les voix de Nigel Farage. Et celles des nationalistes écossais. Et, surtout, avec les menaces de la City qui menace de se délocaliser – tel Renault délocalisant une vulgaire usine Logan en Roumanie- ses activités dans ce no man’s land allant du Liechtenstein aux Îles Caïman tout en passant par Singapour.

À échéance de deux ans, nous pourrions donc bien voir un Royaume-Uni coupé en deux ; les Écossais indépendantistes pèsent actuellement plus de 45 % dans leurs urnes locales : première bonne nouvelle. Et une Angleterre larguée de l’Europe, de ce “Vieux monde” qu’ils aiment tant à railler et qu’ils ont, de longue date, empêché de devenir puissance politique mondiale, préférant le réduire à un banal marché commun : deuxième bonne nouvelle.

La troisième bonne nouvelle, c’est que tout ceci pourrait advenir plus tôt que prévu. Youpi.

Aveuglement européen devant les offensives des pays du Golfe

carteyemen.jpg

Aveuglement européen devant les offensives des pays du Golfe

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Le pouvoir en France se réjouit du fait que François Hollande ait été l'«invité d'honneur» du sommet du Conseil de coopération du Golfe (CCG). Ce serait le premier chef d'Etat occidental à bénéficier de cet « honneur », ce dont Barack Obama, jusque là l'allié le plus fidèle des dits pays du Golfe, n'a jamais pu faire.
 
Pourquoi cette défaveur momentanée des Etats-Unis? Parce que ceux-ci négocient un accord avec l'Iran sur le nucléaire. Parce que, également, les intérêts américains dans le Golfe ne recoupent pas nécessairement ceux de certains des Etats du Conseil de Coopération. François Hollande ne souffre pas de ces handicaps. Il s'est montré l'héritier le plus fidèle de la politique américaine des années précédentes. Il a même à plusieurs occasions endossé les aspects les plus extrémistes de cette politique, contre Bashar al Assad notamment. Il peut par ailleurs jouer un rôle utile d'intermédiaire entre les pays du Golfe et l'Union européenne, notamment lorsque celle-ci manifeste des inquiétudes en matière de droits de l'Homme ou de liberté de la concurrence.

Bien évidemment, les services rendus par la France aux monarchies pétrolières justifient quelques contreparties. C'est le cas notamment du contrat Rafale au Qatar, qui pourrait être suivi d'un contrat du même ordre en provenance de l'Arabie saoudite. Pour que la France ne se fasse pas d'illusions cependant, le Qatar et ses alliées du Golfe n'ont pas tardé à présenter la contre-partie attendue de ce modeste avantage, notamment l'ouverture de lignes aériennes supplémentaires pour Qatar-Airways, au détriment immédiat du groupe Air-France/Lufthansa. Ce dernier vient de rappeler qu'il risque de ne pas s'en relever. Déjà en difficulté, il pourra ne pas résister à la concurrence des compagnies du Golfe. Concernant Air France, en s'installant dans des aéroports régionaux français, les avions qataris risquent de détourner le trafic vers le hub de Doha, au détriment de Paris. Air France sera sans doute obligé de revoir le nombre de ses vols, entrainant les pertes d'emplois en conséquence.

Les Émirats arabes unis, qui sont, eux aussi, intéressés par des avions de combat, pourraient faire la même demande auprès des autorités françaises pour leur compagnie aérienne Etihad. L'Etat, bien que participant au capital d'Air France, ne fera pas pourtant la moindre objection.

On ne fait pas les comptes

Cette affaire a mis en évidence une situation défavorable à l'Europe que nul gouvernement n'ignorait mais que tous acceptent car on ne discute pas avec des Etats arabes riches des milliards que nous leurs versons indirectement par notre insatiable appétit de pétrole, au lieu de rechercher avec plus de détermination des énergies de substitution. Aucune autorité ne fait le bilan de ce que rapportent aux Européens les cadeaux de certains Etats du Golfe, en contrepartie des coûts actuels et futurs des pertes de souveraineté qu'ils leur consentent. Concernant les compagnies aériennes, ainsi, l'Europe qui continue à afficher haut et fort sa volonté de faire régner en son sein une concurrence libre et non faussée, ferme les yeux sur la concurrence déloyale des compagnies du Golfe, qui touchent de la part de leur gouvernement des subventions estimées à plus de 40 milliards de dollars pour ces dernières années.

yemen_arabie_saoudite_95.jpg

 

Ces subventions permettent, entre autres, à ces compagnies d'acquérir les dernières générations d'avions, d'y offrir des services aux passagers sans égal et bien évidemment de travailler à perte aussi longtemps que nécessaire pour éliminer la concurrence. Elles peuvent aussi, plus directement acheter purement et simplement des compagnies européennes en difficulté, comme ce fut récemment le cas d'Alitalia rachetée agressivement par la compagnie d'Abou Dhabi Etihad. Si les Etats européens ne réagissent pas pour imposer, y compris au sein de la Commission européenne, un néo-protectionnismedans les secteurs stratégiques, ce sera bientôt aussi le sort d'Air France et de Lufhansa. Le passager européens naïf croira continuer à voler sous les couleurs européennes, sans s'apercevoir qu'il sert dorénavant les intérêts d'ennemis déterminés de l'Europe.

Les autres secteurs stratégiques

La cas des compagnies aériennes n'est que la façade aujourd'hui visible de l'entrée, concurrence libre et non faussée oblige, des capitaux pétro-arabes dans de nombreuses entreprises et services publics européens. Certains de ceux-ci ne sont pas considérés comme stratégiques (comme en ce qui concerne le Musée du Louvre...encore que...), mais d'autres le sont évidemment, comme en ce qui concerne les industries de technologies avancées, travaillant ou non pour la défense.

Or les capitaux du Golfe ne se bornent pas à rester dans le rôle de « sleeping partners » ou partenaires dormant, uniquement soucieux de récupérer quelques profits. Ils participent directement à une conquête de l'Europe, non seulement économique mais politique. Celle-ci se fait bien évidemment en premier lieu au détriment des travailleurs et des représentations politiques européennes. Le lobbying exercé par les représentants occultes de ces capitaux arabe s'exerce en permanence et influence dorénavant toutes les décisions, tant des Etats nationaux que de la Commission européenne. Mais personne n'en parle.

Qui connait dans nos démocraties l'influence sur les décisions diplomatiques et économiques du prince saoudien multi-milliardaire Al Waleed bin Talal bin Abdulaziz al Saud. Soyez certains qu'il ne se borne pas à investir dans les casinos. L'avenir de l'Europe repose dorénavant en partie entre ses mains et celles de ses semblables.

Jean Paul Baquiast

vendredi, 08 mai 2015

L'Islande, fer de lance de l'Europe boréale?

icelandscenery.jpg

L’Islande, fer de lance de l’Europe boréale?
 
Europe boréale : avec ces deux mots, Jean-Marie Le Pen ne retournait pas seulement aux « fondamentaux » du parti, mais aussi aux mythes de fondation européens.
 
Écrivain, journaliste
Ex: http://www.bvoltaire.fr
 

L’historien Nicolas Lebourg ne s’y est pas trompé en décelant que « le passage peut-être le plus important (pour le Front national] de l’article est celui où le président d’honneur du parti parle d’“Europe boréale”. » Il faisait référence au fameux entretien que Jean-Marie Le Pen a accordé à Rivarol le 9 avril dernier.

Europe boréale : avec ces deux mots, Jean-Marie Le Pen ne retournait pas seulement aux « fondamentaux » du parti, mais aussi aux mythes de fondation européens.

L’adjectif « boréal » vient du grec boreas, le vent du Nord. D’où l’Hyperborée, continent mythique « au-delà du vent du Nord », où le dieu grec Apollon partait se ressourcer, juché sur son char tiré par des cygnes blancs. L’Hyperborée représente le socle légendaire, immuable, de la Tradition primordiale dont sont issues toutes les grandes civilisations, selon les philosophes Julius Evola et René Guénon, continent immense désormais enfoui en partie sous les glaces, qui englobait la totalité de l’Europe (y compris la Russie) et de l’Arctique.

L’Islande, « Terre de glace », est un petit pays de 320.000 habitants où le peuple détient réellement le pouvoir, notamment par référendum. Du coup, après la crise bancaire de 2008, où on a vu les banques régner sur l’Europe (logique « démocratique » ?), ce petit peuple a décidé, lui, de réagir avec bon sens et de mettre en prison les responsables de la crise : les banquiers. Dans la foulée, les Islandais ont dévalué leur monnaie, décidé de ne pas adhérer à l’Union européenne et projettent de quitter l’OTAN.

Les Islandais sont-ils pour autant acculés à la misère ? Refuse-t-on de commercer avec eux ? Pas du tout, leur économie est florissante : 4,2 % de croissance et un taux de chômage de 3 % ! L’Islande est le pays le moins pollué du monde et se trouve à la quatrième place des pays les plus sûrs du monde. Enfin, et c’est ici symbolique, le peuple a décidé par référendum de construire un temple dédié à la religion native païenne, l’Ásatrú, à la place… d’une mosquée.

Plus au sud, un autre petit pays est déstabilisé par l’Ordre mondial, représenté par les États-Unis, l’Union européenne (véritable ennemie de l’Europe des peuples), l’OTAN et leurs alliés islamiques : il s’agit de l’Ukraine, berceau du plus grand pays du monde, la Russie, qui, lui aussi, fait partie de l’Europe boréale. L’Ukraine est aussi en partie le berceau des Indo-Européens avec la civilisation des Kourganes. La plus grande crainte des mondialistes serait de voir réunies l’Europe de l’Est et celle de l’Ouest. C’est pourquoi, déjà, avec la création du Kosovo, ils avaient implanté au cœur de l’Europe un État islamique et mafieux.

La philosophe Chantal Delsol voit la prochaine guerre opposer les « partisans de l’émancipation et ceux de l’enracinement dont la Russie prendrait la tête ». Verra-t-on, comme dans le film Excalibur, sortir des glaces l’épée du Grand Monarque qui viendra rétablir l’Europe des origines ?

Une américanisation de plus en plus poussée

Gcvvf.png

LA TRAHISON DE LA DROITE FRANÇAISE
 
Une américanisation de plus en plus poussée

Alexandre Latsa
Ex: http://metamag.fr

Beaucoup d’encre a coulé sur la volonté de l’ex/futur patron de la droite française de transformer l’UMP en « Républicains », à quelques mois d’une élection primaire qui devrait vraisemblablement se tenir début 2016.


Il est vrai, le nom UMP (qui signifiait d'abord Union pour la majorité présidentielle, avant de devenir l'Union pour un mouvement populaire) est devenu de plus en plus lourd à porter. Après une défaite électorale inexcusable en 2012, après la pitoyable élection interne de 2012 au cours de laquelle « deux abrutis » (dixit Nicolas Sarkozy) avaient maladroitement tenté de se mettre sur orbite en vue de la présidentielle de 2017, c'est l'affaire Bygmalion qui allait achever de ternir l'image du premier parti de droite français, en ajoutant au mensonge et à la tricherie les magouilles financières.


Pour sortir de l'impasse dans laquelle la droite s'est elle-même fourvoyée, sans pouvoir cette fois accuser le parti socialiste, il fallait trouver une solution. L'urgence se fait d'autant plus sentir qu'avec la poussée électorale continue du Front National, les cadres de la droite UMP, les futurs Républicains, sont de plus en plus écartelés entre les souhaits de leurs électeurs et la discipline morale et politique que leur impose l'appartenance à l'oligarchie nationale.


Retour de la France vers les valeurs traditionnelles et le patriotisme


De retour à la direction de l'UMP, bien que poursuivi par les affaires, Nicolas Sarkozy semble s'être transformé en Janus français de la politique. Tantôt il joue le centre pour ne laisser aucun espace au tandem Juppé/Fillon, tantôt il doit occuper son aile droite afin de pouvoir bénéficier d'un potentiel de report de voix qui lui permettrait de l'emporter comme en 2007, grâce aux voix de l'extrême-droite.


En matière de politique internationale, Nicolas Sarkozy semble être frappé par le même virus que Jacques Attali, virus que certains membres de l'UMP comme Alain Juppé nomment « russophilie » ou que certains journalistes qualifient de « tentation de Moscou ». Il faut cependant noter que la droite française n'est pas devenue russophile en totalité, puisque Bruno Le Maire par exemple, personnalité de l'aile droite de l'UMP, paraît opposé à tout compromis avec la Russie en affirmant que: « Vladimir Poutine ne comprend que le rapport de force et la fermeté » (sic).


Quoi qu'il en soit, Nicolas Sarkozy, bien qu'il semble prétendre à concourir pour la présidence française, ne s'est pas privé d'un clin d'œil à la culture américaine en « américanisant » le nom du parti qu'il espère mener au pouvoir. Ce tropisme maladif qui frappe la droite française est sans doute la plus belle réussite d'un demi-siècle de soft-power politique américain au sein des élites françaises.


am5366130_p.pngLes prises de position non hostiles à la Russie de certains leaders politiques francais ne peuvent cependant modifier l'ADN de la grande majorité de la droite française d'aujourd'hui. Tendance qui va voir la tenue d'une primaire 100% endogène en 2016, sans aucun parti ou tendance ni souverainiste, ni gaulliste.


Les politiciens qui dirigent la droite sont soit convertis au libéralisme dominateur, soit au libertarisme progressiste qui est en contradiction avec les valeurs sociétales traditionnelles françaises. Quant au reste, il est membre conscient ou inconscient du dispositif américain dans l'Hexagone. En effet, environ 25% de nos députés sont membres du groupe d'amitié France-Amérique. Dans ce groupe relativement discret qui est dirigé, c'est tout un symbole, par Louis Giscard d'Estaing, fils de l'ancien président français Valéry Giscard d'Estaing, on trouve un bon nombre de députés de droite, en compagnie de députés socialistes.

Cette américanisation, loin d'être toujours discrète, est un état de fait que le président russe, lors de sa dernière séance de questions réponses, a commenté sur le ton de la plaisanterie: à la question de savoir s'il avait des discussions géopolitiques fréquentes avec ses homologues européens, il a répondu en souriant qu'il « est difficile de parler à des gens qui chuchotent même chez eux de peur des écoutes américaines. Et ceci n'est pas une blague, je ne plaisante pas ».


Du reste, c'est précisément en Russie que la droite française pourrait trouver le modèle qui lui manque pour prendre, et surtout conserver, le pouvoir sur la longue durée. La Russie, régime politique présidentiel fortement inspiré par la 5ème république française, est en effet dirigée par un bloc politique allant du centre à la droite de la droite, mais avec un chef de l'Etat qui se fait visiblement une certaine idée de la Russie, une idée souverainiste.
Les grandes lignes directrices de la gouvernance russe, ses valeurs suprêmes en quelques sortes, sont définies sans ambiguïté. On y trouve entre autres la souveraineté, le patriotisme, le conservatisme moral et sociétal, la nécessité d'un Etat fort et la conscience des Intérêts supérieurs du pays.


Des valeurs suprêmes qui font cruellement défaut à la France d'aujourd'hui, mais que nos dirigeants, durant 15 siècles d'histoire monarchique puis républicaine jusqu'à mai 1968, avaient pourtant défendues sans relâche.


Source

mercredi, 06 mai 2015

Une coalition sino-russo-iranienne opposée à l’Otan débute-t-elle à Moscou?

mosctehepek.jpg

Une coalition sino-russo-iranienne opposée à l’Otan débute-t-elle à Moscou?

La Conférence de Moscou sur la sécurité internationale, en avril, a été une occasion de faire savoir aux Etats-Unis et à l’OTAN que d’autres puissances mondiales ne les laisseront pas faire comme ils l’entendent.

Le thème portait sur les efforts communs de la Chine, de l’Inde, de la Russie et de l’Iran contre l’expansion de l’OTAN, renforcés par des projets de pourparlers militaires tripartites entre Pékin, Moscou et Téhéran.

Des ministres de la Défense et des responsables militaires venus du monde entier se sont réunis le 16 avril au Radisson Royal ou Hotel Ukraina, l’une des plus belles réalisations de l’architecture soviétique à Moscou, connue comme l’une des Sept sœurs construites à l’époque de Joseph Staline.

L’événement de deux jours, organisé par le ministère russe de la Défense était la quatrième édition de la Conférence annuelle de Moscou sur la sécurité internationale (CMSI/MCIS).

Des civils et des militaires de plus de soixante-dix pays, y compris des membres de l’OTAN, y ont assisté. A part la Grèce, toutefois, les ministres de la Défense des pays de l’OTAN n’ont pas participé à la conférence.

Contrairement à l’année dernière, les organisateurs de la CMSI n’ont pas transmis d’invitation à l’Ukraine pour la conférence de 2015. Selon le vice-ministre russe de la Défense Anatoly Antonov, «à ce niveau d’antagonisme brutal dans l’information par rapport à la crise dans le sud-est de l’Ukraine, nous avons décidé de ne pas envenimer la situation à la conférence et, à ce stade, nous avons pris la décision de ne pas inviter nos collègues ukrainiens à l’événement.»

A titre personnel, le sujet m’intéresse, j’ai suivi ce genre de conférences pendant des années, parce qu’il en émane souvent des déclarations importantes sur les politiques étrangères et de sécurité. Cette année, j’étais désireux d’assister à l’ouverture de cette conférence particulière sur la sécurité. A part le fait qu’elle avait lieu à un moment où le paysage géopolitique du globe est en train de changer rapidement, depuis que l’ambassade russe au Canada m’avait demandé en 2014 si j’étais intéressé à assister à la CMSI IV, j’étais curieux de voir ce que cette conférence produirait.

Le reste du monde parle: à l’écoute des problèmes de sécurité non euro-atlantiques

La Conférence de Moscou est l’équivalent russe de la Conférence de Munich sur la sécurité qui se tient à l’hôtel Bayerischer Hof en Allemagne. Il y a cependant des différences essentielles entre les deux événements.

Alors que la Conférence sur la sécurité de Munich est organisée autour de la sécurité euro-atlantique et considère la sécurité globale du point de vue atlantiste de l’OTAN, la CMSI représente une perspective mondiale beaucoup plus large et diversifiée. Elle représente les problèmes de sécurité du reste du monde non euro-atlantique, en particulier le Moyen-Orient et l’Asie-Pacifique. Mais qui vont de l’Argentine, de l’Inde et du Vietnam à l’Egypte et à l’Afrique du Sud.  La conférence a réuni à l’hôtel Ukraina tout un éventail de grands et petits joueurs à la table, dont les voix et les intérêts en matière de sécurité, d’une manière ou d’une autre, sont par ailleurs sapés et ignorés à Munich par les dirigeants de l’OTAN et des Etats-Unis.

Le ministre russe de la Défense Sergey Shoigu, qui a un rang d’officier équivalent à celui d’un général quatre étoiles dans la plupart des pays de l’OTAN, a ouvert la conférence. Assis près de Shoigu, le ministre des Affaires étrangères Sergey Lavrov a aussi pris la parole, et d’autres responsables de haut rang. Tous ont parlé du bellicisme tous azimuts de Washington, qui a recouru aux révolutions de couleur, comme l’Euro-Maïdan à Kiev et la Révolution des roses en Géorgie pour obtenir un changement de régime. Shoigu a cité le Venezuela et la région administrative spéciale chinoise de Hong Kong comme exemples de révolutions de couleur qui ont échoué.

Le ministre des Affaires étrangères Lavrov a rappelé que les possibilités d’un dangereux conflit mondial allaient croissant en raison de l’absence de préoccupation, de la part des Etats-Unis et de l’OTAN, pour la sécurité des autres et l’absence de dialogue constructif. Dans son argumentation, Lavrov a cité le président américain Franklin Roosevelt, qui a dit:

«Il n’y a pas de juste milieu ici. Nous aurons à prendre la responsabilité de la collaboration mondiale, ou nous aurons à porter la responsabilité d’un autre conflit mondial «Je crois qu’ils ont formulé l’une des principales leçons du conflit mondial le plus dévastateur de l’Histoire: il est seulement possible de relever les défis communs et de préserver la paix par des efforts collectifs, basés sur le respect des intérêts légitimes de tous les partenaires » , a-t-il expliqué à propos de ce que les dirigeants mondiaux avaient appris de la Seconde Guerre mondiale.

Shoigu a eu plus de dix réunions bilatérales avec les différents ministres et responsables de la Défense qui sont venus à Moscou pour la CMSI. Lors d’une réunion avec le ministre serbe de la Défense Bratislav Gasic, Shoigu a dit que Moscou considère Belgrade comme un partenaire fiable en termes de coopération militaire.

Russie

De g. à dr.: Sergei Lavrov, ministre des Affaires étrangères, Sergei Shoigu, ministre de la Défense, Nikolai Patrushev, secrétaire au Conseil de sécurité et Valery Gerasimov, chef de l’état-major général, participant à la 4e Conférence de Moscou sur la sécurité (RIA Novosti / Iliya Pitalev)

Une coalition sino-russo-iranienne: le cauchemar de Washington

Le mythe que la Russie est isolée sur le plan international a de nouveau été démoli pendant la conférence, qui a aussi débouché sur quelques annonces importantes.

Le ministre kazakh de la Défense Imangali Tasmagambetov et Shoigu ont annoncé que la mise en œuvre d’un système de défense aérienne commun entre le Kazakhstan et la Russie a commencé. Cela n’indique pas seulement l’intégration de l’espace aérien de l’Organisation du traité de sécurité collective, cela définit aussi une tendance. Cela a été le prélude à d’autres annonces contre le bouclier de défense antimissile de l’OTAN.

La déclaration la plus vigoureuse est venue du ministre iranien de la Défense Hossein Dehghan. Le brigadier-général Dehghan a dit que l’Iran voulait que la Chine, l’Inde et la Russie s’unissent pour s’opposer conjointement à l’expansion à l’est de l’OTAN et à la menace à leur sécurité collective que constitue le projet de bouclier antimissile de l’Alliance.

Lors d’une réunion avec le ministre chinois des Affaires étrangères Chang Wanquan, Shoigu a souligné que les liens militaires de Moscou avec Beijing étaient sa «priorité absolue». Dans une autre rencontre bilatérale, les gros bonnets de la défense iraniens et russes ont confirmé que leur coopération sera une des pierres angulaires d’un nouvel ordre multipolaire et que Moscou et Téhéran étaient en harmonie quant à leur approche stratégique des Etats-Unis.

Après la rencontre de Hossein Dehghan et la délégation iranienne avec leurs homologues russes, il a été annoncé qu’un sommet tripartite se tiendrait entre Beijing, Moscou et Téhéran. L’idée a été avalisée ensuite par la délégation chinoise.

Le contexte géopolitique change et il n’est pas favorable aux intérêts états-uniens. Non seulement l’Union économique eurasienne a été formée par l’Arménie, la Biélorussie, le Kazakhstan et la Russie au cœur post-soviétique de l’Eurasie, mais Pékin, Moscou et Téhéran – la Triple entente eurasienne – sont entrés dans un long processus de rapprochement politique, stratégique, économique, diplomatique et militaire.

L’harmonie et l’intégration eurasiennes contestent la position des Etats-Unis sur leur perchoir occidental et leur statut de tête de pont en Europe, et même incitent les alliés des Etats-Unis à agir de manière plus indépendante. C’est l’un des thèmes centraux examinés dans mon livre The Globalization of NATO [La mondialisation de l’OTAN].

L’ancien grand ponte états-unien de la sécurité Zbigniew Brzezinski a mis en garde les élites américaines contre la formation d’une coalition eurasienne «qui pourrait éventuellement chercher à contester la primauté de l’Amérique». Selon Brzezinski, une telle alliance eurasienne pourrait naître d’une «coalition sino-russo-iranienne» avec Beijing pour centre.

«Pour les stratèges chinois, face à la coalition trilatérale de l’Amérique, de l’Europe et du Japon, la riposte géopolitique la plus efficace pourrait bien être de tenter et de façonner une triple alliance qui leur soit propre, liant la Chine à l’Iran dans la région golfe Persique/Moyen-Orient et avec la Russie dans la région de l’ancienne Union soviétique», avertit Brzezinski.

«Dans l’évaluation des futures options de la Chine, il faut aussi considérer la possibilité qu’une Chine florissante économiquement et confiante en elle politiquement – mais qui se sent exclue du système mondial et qui décide de devenir à la fois l’avocat et le leader des Etats démunis dans le monde –  décide d’opposer non seulement une doctrine claire mais aussi un puissant défi géopolitique au monde trilatéral dominant», explique-t-il.

C’est plus ou moins la piste que les Chinois sont en train de suivre. Le ministre Wanquan a carrément dit à la CMSI qu’un ordre mondial équitable était nécessaire.

La menace pour les Etats-Unis est qu’une coalition sino-russo-iranienne puisse, selon les propres mots de Brzezinski, «être un aimant puissant pour les autres Etats mécontents du statu quo».

russie

Un soldat pendant un exercice impliquant les systèmes de missiles sol-air S-300/SA sur le terrain d’entraînement d’Ashuluk, dans la région  d’Astrakhan (RIA Novosti / Pavel Lisitsyn)

Contrer le bouclier anti-missile des Etats-Unis et de l’OTAN en Eurasie

Washington érige un nouveau Rideau de fer autour de la Chine, de l’Iran, de la Russie et de leurs alliés au moyen de l’infrastructure de missiles des Etats-Unis et de l’OTAN.

L’objectif du Pentagone est de neutraliser toutes les ripostes défensives de la Russie et des autres puissances eurasiennes à une attaque de missiles balistiques US, qui pourrait inclure une première frappe nucléaire. Washington ne veut pas permettre à la Russie ou à d’autres d’être capables d’une seconde frappe ou, en d’autres termes, ne veut pas permettre à la Russie ou à d’autres d’être en mesure de riposter à une attaque par le Pentagone.

En 2011, il a été rapporté que le vice-Premier ministre Dmitri Rogozine, qui était alors envoyé de Moscou auprès de l’OTAN, se rendrait à Téhéran pour parler du projet de bouclier antimissile de l’OTAN. Divers articles ont été publiés, y compris par le Tehran Times, affirmant que les gouvernements de Russie, d’Iran et de Chine projetaient de créer un bouclier antimissile commun pour contrer les Etats-Unis et l’OTAN. Rogozine, toutefois, a réfuté ces articles. Il a dit que cette défense antimissile était discutée entre le Kremlin et ses alliés militaires dans le cadre de l’Organisation du traité de sécurité collective (OTSC).

L’idée de coopération dans la défense entre la Chine, l’Iran et la Russie, contre le bouclier antimissile de l’OTAN est restée d’actualité depuis 2011. Dès lors, l’Iran s’est rapproché pour devenir un observateur dans l’OTSC, comme l’Afghanistan et la Serbie. Beijing, Moscou et Téhéran se sont rapprochés aussi en raison de problèmes comme la Syrie, l’Euro-Maïdan et le pivot vers l’Asie du Pentagone. L’appel de Hossein Dehghan à une approche collective par la Chine, l’Inde, l’Iran et la Russie contre le bouclier antimissile et l’expansion de l’OTAN, couplé aux annonces faites à la CMSI sur des pourparlers militaires tripartites entre la Chine, l’Iran et la Russie, vont aussi dans ce sens.

Les systèmes de défense aérienne russes S-300 et S-400 sont en cours de déploiement dans toute l’Eurasie, depuis l’Arménie et la Biélorussie jusqu’au Kamchatka, dans le cadre d’une contre-manœuvre au nouveau Rideau de fer.  Ces systèmes de défense aérienne rendent beaucoup plus difficiles les objectifs de Washington de neutraliser toute possibilité de réaction ou de seconde frappe.

Même les responsables de l’OTAN et le Pentagone, qui se sont référés aux S-300 comme le système SA-20, l’admettent. « Nous l’avons étudié nous sommes formés pour le contrer depuis des années. Nous n’en avons pas peur, mais nous respectons le S-300 pour ce qu’il est: un système de missiles très mobile, précis et mortel », a écrit le colonel de l’US Air Force Clint Hinote pour le Conseil des relations étrangères basé à Washington.

Bien qu’il y ait eu des spéculations sur le fait que la vente des systèmes S-300 à l’Iran serait le point de départ d’un pactole provenant de Téhéran dû aux ventes internationales d’armes, résultat des négociations de Lausanne, et que Moscou cherche à avoir un avantage concurrentiel dans la réouverture du marché iranien, en réalité la situation et les motivations sont très différentes. Même si Téhéran achète différentes quantités de matériel militaire à la Russie et à d’autres sources étrangères, il a une politique d’autosuffisance militaire et fabrique principalement ses propres armes. Toute une série de matériel militaire – allant des chars d’assaut, missiles, avions de combat, détecteurs de radar, fusils et drones, hélicoptères, torpilles, obus de mortier, navires de guerre et sous-marins – est fabriqué à l’intérieur de l’Iran. L’armée iranienne soutient même que leur système de défense aérienne Bavar-373 est plus ou moins l’équivalent du S-300.

La livraison par Moscou du paquet de S-300 à Téhéran est plus qu’une simple affaire commerciale. Elle est destinée à sceller la coopération militaire russo-iranienne et à renforcer la coopération eurasienne contre l’encerclement du bouclier anti-missiles de Washington. C’est un pas de plus dans la création d’un réseau de défense aérienne eurasienne contre la menace que font peser les missiles des Etats-Unis et de l’OTAN sur des pays qui osent ne pas s’agenouiller devant Washington.

Par Mahdi Darius Nazemroaya –  23 avril 2015

Mahdi Darius Nazemroaya est sociologue, un auteur primé et un analyste géopolitique.

Article original : http://rt.com/op-edge/252469-moscow-conference-international-security-nato/

Traduit de l’anglais par Diane Gilliard

URL de cet article : http://arretsurinfo.ch/une-coalition-sino-russo-iranienne-opposee-a-lotan-debute-t-elle-a-moscou/