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dimanche, 04 novembre 2012

Ciao, Pino

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17:07 Publié dans Hommages | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : hommage, nécrologie, italie, pino rauti, droite italienne | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Addio a Pino Rauti, simbolo del Msi

Addio a Pino Rauti, simbolo del Msi

Pino Rauti era nato a Cardinale (Catanzaro) il 19 novembre del 1926

Giovanissimo partecipò alla nascita del Movimento sociale italiano di cui fu anche leader. Aveva 85 anni. Assunta Almirante: «E’ stato uno dei grandi della destra italiana»
 
 

È morto Pino Rauti. L’ex segretario del Movimento Sociale Italiano, che avrebbe compiuto 86 anni il 19 novembre, si è spento alle 9.30 di questa mattina nella sua casa di Roma. Nel 1946, giovanissimo, contribuì alla nascita del Movimento.  

“E’ stato uno dei bravi, dei grandi di questa destra”. le parole di Assunta Almirante, vedova di Giorgio Almirante, storico leader del Movimento sociale, che ha ricordato i guai giudiziari di Rauti, coinvolto nelle inchieste sul terrorismo stragista neofascista: “Molto ingiustamente è stato indicato come un uomo che aveva commesso errori che è stato accertato che non erano suoi, come la strage di piazza Fontana”. Per la vedova Almirante Rauti “è stato una persona di grande intelligenza, è stato indicato come il fondatore di Ordine nuovo ma era un uomo di partito come pochi ce ne sono stati”.  

 

Il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha espresso«il più profondo cordoglio per la scomparsa di Pino Rauti, uomo politico che ha rappresentato una parte di rilievo nella storia della Destra italiana». «Parlamentare rigoroso, intellettuale di profonda cultura, Rauti - conclude - ha testimoniato con passione e dedizione gli ideali della nazione e della società che appartengono alla storia politica del nostro Paese. Ai familiari esprimo i sentimenti della più intensa vicinanza mia personale e della Camera dei deputati».  

Il «fascista di sinistra», come è stato definito Giuseppe Umberto Rauti, nacque a Cardinale, in provincia di Catanzaro, il 19 novembre 1926. Fascista di sinistra in contrapposizione con il «fascismo di destra» incarnato da Giorgio Almirante, prima, e da Gianfranco Fini poi. L’attenzione di Rauti si concentrava, infatti, sulla socializzazione e sui temi dell’anticapitalismo e del terzomondismo interpretando, dal suo punto di vista, i motivi ispiratori del fascismo. Questo lo ha relegato per lungo tempo in una posizione minoritaria all’interno del Msi, partito che, giovanissimo, contribuisce a fondare alla fine del 1946. Nei primi anni cinquanta contribuisce a dare nuovamente vita all’organizzazione neofascista che rispondeva alla sigla FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria) insieme ad alcuni appartenenti alla corrente così detta «pagana» e «germanica» della prima organizzazione disciolta nel luglio del 1947.  

 

Dopo due attentati a Roma, presso il Ministero degli Esteri e all’ambasciata statunitense, il 24 maggio 1951 furono condotti numerosi arresti nei confronti dei quadri di questa organizzazione, fra questi: Pino Rauti, Fausto Gianfranceschi, Clemente Graziani, Franco Petronio, Franco Dragoni e Flaminio Capotondi. Tra gli arrestati anche il filosofo Julius Evola, considerato l’ispiratore del gruppo. Il processo si concluse il 20 novembre 1951: Graziani, Gianfranceschi e Dragoni furono condannati a un anno e undici mesi. Altri dieci imputati a pene minori. Tutti gli altri vennero assolti. Tra loro Evola, Rauti ed Erra. Con la fine del processo si concluse definitivamente anche l’adozione della sigla FAR. Nel 1954, dopo la vittoria dei fascisti in doppiopetto e la nomina a segretario di Arturo Michelini, dà vita al centro studi Ordine Nuovo. Nel 1956 Ordine Nuovo esce dal MSI. Arriverà ad avere dai 2.000 ai 3.000 iscritti. Successivamente Giorgio Freda ed altri esponenti di estrema destra entreranno a far parte di Ordine Nuovo. Negli anni sessanta e settanta, il nome di questa organizzazione verrà usato per rivendicare una serie di attentati, ai quali Rauti si dichiarerà sempre estraneo. Nel maggio del 1965 l’istituto di studi militari Alberto Pollio organizza un convegno sulla «guerra rivoluzionaria», a Roma all’Hotel Parco dei Principi, che viene finanziato dallo Stato Maggiore dell’esercito: si trattava di un raduno fra fascisti, alte cariche dello Stato e imprenditori: Rauti presenta una relazione su «La tattica della penetrazione comunista in Italia». Il 16 aprile 1968 parte insieme ad altri 51 estremisti di destra (fra cui l’agente del SID Stefano Serpieri, Giulio Maceratini, Mario Merlino, Stefano Delle Chiaie, Franco Rocchetta) da Brindisi per un viaggio di istruzione sulle tecniche di infiltrazione, nella Grecia dei Colonnelli, a spese del governo greco. Con l’arrivo alla segreteria del MSI nel 1969 di Giorgio Almirante, Rauti e un gruppo di dirigenti rientrò nel partito, e alla guida del movimento restò Clemente Graziani.  

 

Il 4 marzo 1972 il giudice Stiz di Treviso esegue mandato di cattura contro Rauti per gli attentati ai treni dell’8 e 9 agosto 1969. Successivamente l’incriminazione si estenderà agli attentati del 12 dicembre. Il 21 novembre 1973 trenta aderenti ad Ordine Nuovo vengono condannati dalla magistratura per ricostituzione del Partito Nazionale Fascista e viene decretato lo scioglimento dell’organizzazione. Nel 1974, con la rivoluzione dei garofani in Portogallo, viene scoperta l’organizzazione eversiva internazionale fascista Aginter Press con la quale ha stretti rapporti anche Rauti attraverso l’agenzia Oltremare per la quale lavora. Nessuna di queste inchieste ha mai accertato qualche reato a suo carico. Successivamente Pino Rauti fu inquisito per la strage di Piazza della Loggia a Brescia e in merito il 15 maggio 2008 è stato rinviato a giudizio. Assolto il 16 novembre 2010 in base all’articolo 530 comma 2 del codice di procedura penale (insufficienza di prove). Nelle richieste del pm Roberto Di Martino, per quanto concerne la posizione di Pino Rauti si afferma che la sua è una «responsabilità morale, ma la sua posizione non è equiparabile a quella degli altri imputati dal punto di vista processuale. La sua posizione è quella del predicatore di idee praticate da altri ma non ci sono situazioni di responsabilità oggettiva. La conclusione è che Rauti va assolto perché non ha commesso il fatto».  

 

Nel 1972 Rauti viene eletto deputato alla Camera nelle file del Msi nel collegio di Roma, dove verrà sempre rieletto fino alle elezioni del 1994. È promotore di una stagione di rinnovamento dentro il partito, lanciando un quindicinale «Linea», e organizzazioni parallele, dal Movimento giovani disoccupati, ai Gruppi Ricerca Ecologica, e sostenendo i Campo Hobbit fu riferimento delle nuove generazioni del Fronte della Gioventù. La sua era detta la componente dei «Rautiani». Nel 1979, al XII congresso del MSI-DN, viene eletto vicesegretario. È animatore di mozioni congressuali come «Linea futura» (1977), «Spazio Nuovo» (1979 e 1982) e «Andare oltre» (1987). Il 14 dicembre 1987, al XV congresso del MSI a Sorrento, raccoglie quasi la metà dei consensi, insieme alla corrente di Beppe Niccolai, per l’elezione a segretario, ma è battuto da Gianfranco Fini, sostenuto dal segretario uscente e padre nobile del partito Giorgio Almirante, ormai gravemente malato.  

 

vendredi, 26 octobre 2012

Hommage à Henry Bauchau

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Robert Steuckers:

Hommage à Henry Bauchau

 

Version abrégée de: http://robertsteuckers.blogspot.be/2012/10/henry-bauchau-un-temoin-sen-est-alle.html/ ).

 
Né à Malines en 1913, issu d’une vieille famille du Namurois, l’écrivain et poète belge Henry Bauchau vient de décéder, le 21 septembre dernier, à l’âge respectable de 99 ans. Qui a-t-il été? Dans les années 30, Henry Bauchau a milité dans tous les cercles intellectuels non conformistes catholiques de Belgique romane, qui entendaient répondre aux défis du communisme et des autres totalitairsmes tout en embrayant sur les désirs de justice sociale des jeunes générations. Cet ensemble de cercles cherchait à actualiser le discours de la “Jeune Droite” de Henry Carton de Wiart, née, comme le mouvement “daensiste” d’Alost, dans le sillage de l’encyclique papale “Rerum Novarum”. Cette “Jeune Droite” d’avant 1914 avait le souci traditionnel de l’éthique –le catholique doit demeurer inébranlable face au mal et au péché— mais n’était nullement anti-sociale, à l’instar des catholiques libéraux autour de Charles Woeste, car l’injustice est tout à la fois manifestation du mal et du péché; cette “Jeune Droite” n’est donc pas détachée des souffrances du menu peuple, également défendu par le Père Daens.
 

 

Dès le début des années 30, en août 1931 pour être exact, l’épiscopat et la direction cléricale de l’Université de Louvain, décident d’organiser un colloque où Léopold Levaux (disciple et exégète de Léon Bloy), le Recteur Magnifique Monseigneur Ladeuze, l’Abbé Jacques Leclercq (dont l’itinéraire intellectuel était parti des rénovateurs-modernisateurs du catholicisme, tels Jacques Maritain et Emmanuel Mounier, pour aboutir à une sorte de catho-communisme après 1945, avec l’apparition sur le théâtre de la politique belge d’un mouvement comme l’UDB qui restera éphémère) et... Léon Degrelle. On le voit: dès août 1931, le catholicisme belge va osciller entre diverses interprétations de son message éthique et social, entre “gauche” et “droite”, selon le principe de la “coïncidentia oppositorum” (chère à un Carl Schmitt en Allemagne). Dans le cadre de ces activités multiples, Bauchau se liera d’amitié à Raymond De Becker, celui que l’on nomme aujourd’hui, en le tirant de l’oubli, l’ “électron libre”, l’homme-orchestre qui, bouillonnant, va tenter de concilier toutes les innovations idéologiques, réclamant la justice sociale, qui émergeront dans les années 30. Quand De Man lance son idée planiste et critique le matérialisme outrancier des sociales-démocraties belge et allemande, De Becker, lié à Maritain et au mouvement “Esprit” de Mounier, cherchera à faire vivre une synthèse entre néo-socialisme (demaniste) et tradition catholique rénovée, où l’accent sera mis sur la mystique et l’ascèce plutôt que sur les bondieuseries superficielles et l’obéissance perinde ac cadaver du cléricalisme disciplinaire. Cet humaniste personnaliste, que fut De Becker, a cru que le bonheur arrivait enfin dans le royaume quand les catholiques ont formé une coalition avec les socialistes (où De Man était la figure de proue intellectuelle). Pour De Becker, et pour Bauchau dans son sillage, les éléments jeunes, qui cherchaient cette synthèse et voulaient jeter aux orties les scories du régime vieilli, aspiraient à un “ordre nouveau” (titre d’une brochure de De Becker dont la couverture a été illustrée par Hergé), un ordre qui ne serait pas une nouveauté radicale, respect des traditions morales oblige, mais une synthèse innovante qui unirait ce qu’il y a de meilleur dans les partis établis, débarrassés de leurs tares, héritage du “vieux monde” libéral, du “stupide 19ème siècle” selon Léon Daudet. Mais l’émergence du mouvement Rex de Degrelle déforce les catholiques dans le nouveau binôme politique formé avec les socialistes de Spaak et de De Man. L’Etat organique des forces jeunes, catholiques et néo-socialistes, n’advient donc pas. La guerre, plus que l’aventure rexiste, va briser la cohésion que ces milieux bouillonnants où De Becker jouait un rôle prépondérant. Disons-le une bonne fois pour toutes: c’est cette “déchirure” au sein des mouvements catholiques personnalistes et droitistes qui a envenimé définitivement la “question belge”, jusqu’à la crise de 2007-2011. Dans l’espace culturel flamand, la crise éthico-identitaire s’est déployée selon un autre rythme (plutôt plus lent) mais, inexorablement, avec les boulevedrsements dans les mentalités qu’a apporté mai 68, une mutation quasi anthropologique qui a notamment suscité les admonestations du nationaliste ex-expressionniste Wies Moens, alors professeur à Geelen dans le Limbourg néerlandais, le déclin éthique n’a pas pu être enrayé par un mouvement conservateur, “katéchonique”. Ni en Flandre ni a fortiori en Wallonie.

 

Avec la défaite de 1940, ce mouvement à facettes multiples va se disperser et, surtout, va être tiraillé entre l’“option belge” (la “politique de présence”), la collaboration, la résistance (royaliste) et l’engouement, dès les déboires de l’Axe en Afrique et en Russie, de certains anciens personnalistes (De Becker excepté) qui vireront au catho-communisme dès la fin de l’occupation allemande. Bauchau oscillera de l’option belge à la résistance royaliste (Armée Secrète). De Becker voudra une collaboration dans le cadre strict de la “politique de présence”. Degrelle jouera la carte collaborationniste à fond. Les adeptes de l’Abbé Leclercq opteront pour l’orientation personnaliste de Maritain et Mounier et chercheront un modus vivendi avec les forces de gauches, communistes compris.

 

Bauchau, dès le début de l’occupation, tentera de mettre sur pied un “Service du Travail Volontaire pour la Wallonie”, qui avait aussi un équivalent flamand. Ce Service devait aider à effacer du pays les traces de toutes les destructions laissées par la campagne des Dix-Huit Jours. Les Volontaires wallons aideront les populations sinistrées, notamment lors de l’explosion d’une usine chimique à Tessenderloo ou suite au bombardement américain du quartier de l’Avenue de la Couronne à Etterbeek. Il avait aussi pour ambition tacite de soustraire des jeunes gens au travail obligatoire en Allemagne. Les tiraillements d’avant juin 1940, entre catholiques personnalistes d’orientations diverses, favorables soit à Rex soit à un “Ordre Nouveau” à construire avec les jeunes catholiques et socialistes (demanistes), vont se répercuter dans la collaboration, première phase. De Becker refusera toute hégémonie rexiste sur la partie romane du pays. Il oeuvrera à l’émergence d’un “parti unique des provinces romanes”, qui ne recevra pas l’approbation de l’occupant et essuiera les moqueries (et les menaces) de Degrelle. La situation tendue de cette année 1942 nous est fort bien expliquée par l’historien britannique Martin Conway (in: Collaboration in Belgium, Léon Degrelle and the Rexist Movement, Yale University Press, 1993). La fin de non recevoir essuyée par De Becker et ses alliés de la collaboration à option belge et le blanc-seing accordé par l’occupant aux rexistes va provoquer la rupture. Bauchau avait certes marqué son adhésion à la constitution du “parti unique des provinces romanes”, mais le remplacement rapide des cadres de son SVTW par des militants rexistes entraîne sa démission et son glissement progressif vers la résistance royaliste. De Becker lui-même finira par démissionner, y compris de son poste de rédacteur en chef du “Soir”, arguant que les chances de l’Axe étaient désormais nulles depuis l’éviction de Mussolini par le Grand Conseil Fasciste pendant l’été 1943.

 

bauchauEnfBleu.gifBauchau participe aux combats de la résistance dans la région de Brumagne (près de Namur), y est blessé. Mais, malgré cet engagement, il doit rendre des comptes à l’auditorat militaire, pour sa participation au SVTW et surtout, probablement, pour avoir signé le manifeste de fondation du “parti unique (avorté) des provinces romanes”. Il échappe à tout jugement mais est rétrogradé: de Lieutenant, il passe sergeant. Il en est terriblement meurtri. Sa patrie, qu’il a toujours voulu servir, le dégoûte. Il s’installe à Paris dès 1946. Mais cet exil, bien que captivant sur le plan intellectuel puisque Bauchau est éditeur dans la capitale française, est néanmoins marqué par le désarroi: c’est une déchirure, un sentiment inaccepté de culpabilité, un tiraillement constant entre les sentiments paradoxaux (l’oxymore dit-on aujourd’hui) d’avoir fait son devoir en toute loyauté et d’avoir, malgré cela, été considéré comme un “traître”, voire, au mieux, comme un “demi-traître”, dont on se passera dorénavant des services, que l’on réduira au silence et à ne plus être qu’une sorte de citoyen de seconde zone, dont on ne reconnaîtra pas la valeur intrinsèque. A ce malaise tenace, Bauchau échappera en suivant un traitement psychanalytique chez Blanche Reverchon-Jouve. Celle-ci, d’inspiration jungienne, lui fera prendre conscience de sa personnalité vraie: sa vocation n’était pas de faire de la politique, de devenir un chef au sens où on l’entendait dans les années 30, mais d’écrire. Seules l’écriture et la poésie lui feront surmonter cette “déchirure”, qu’il lui faudra accepter et en laquelle, disait la psychanalyste française, il devra en permanence se situer pour produire son oeuvre: ce sont les sentiments de “déchirure” qui font l’excellence de l’écrivain et non pas les “certitudes” impavides de l’homme politisé.

 

En 1951, après avoir oeuvré sans relâche à la libération de son ami Raymond De Becker, qu’il n’abandonnera jamais, Bauchau s’installe en Suisse à Gstaad où il crée un Institut, l’Institut Montesano, un collège pour jeunes filles (surtout américaines). Il y enseignera la littérature et l’histoire de l’art, comme il l’avait fait, avant-guerre, dans une “université” parallèle qui dispensait ses cours dans les locaux de l’Institut Saint-Louis de Bruxelles ou dans un local de la rue des Deux-Eglises à Saint-Josse et à laquelle participait également le philosophe liégeois Marcel De Corte. Son oeuvre littéraire ne démarrera qu’en 1958, avec la publication d’un premier recueil de poésie, intitulé Géologie. En 1972, sort un roman qui obtiendra le “Prix Franz Hellens” à Bruxelles et le “Prix d’honneur” à Paris. Ce roman a pour toile de fond la Guerre de Sécession aux Etats-Unis, période de l’histoire qui avait toujours fasciné son père, décédé en 1951. Dans son roman, Bauchau fait de son père un volontaire dans le camp nordiste qui prend la tête d’un régiment composé d’Afro-Américains cherchant l’émancipation.

 

Bauchau-Henry-Mao-Zedon.jpgEn 1973, l’Institut Montesano ferme ses portes: la crise du dollar ne permettant plus aux familles américaines fortunées d’envoyer en Suisse des jeunes filles désirant s’immerger dans la culture européenne traditionnelle. A cette même époque, comme beaucoup d’anciennes figures de la droite à connotations personnalistes, Bauchau subit une tentation maoïste, une sorte de tropisme chinois (comme Hergé!) qui va bien au-delà des travestissements marxistes que prenait la Chine des années 50, 60 et 70. Notre auteur s’attèle alors à la rédaction d’une biographie du leader révolutionnaire chinois, Mao Tse-Toung, qu’il n’achèvera qu’en 1980, quand les engouements pour le “Grand Timonnier” n’étaient déjà plus qu’un souvenir (voire un objet de moquerie, comme dans les caricatures d’un humoriste flamboyant comme Lauzier).

 

Bauchau quitte la Suisse en 1975 et s’installe à Paris, comme psychothérapeute dans un hôpital pour adolescents en difficulté. Il enseigne à l’Université de Paris VII sur les rapports art/psychanalyse. En 1990, il publie Oedipe sur la route, roman situé dans l’antiquité grecque, axé sur la mythologie et donc aussi sur l’inconscient que les mythes recouvrent et que la psychanalyse jungienne cherche à percer. La publication de ce roman lui vaut une réhabilitation définitive en Belgique: il est élu à l’Académie Royale de Langue et de Littérature Française du royaume. Plus tard, son roman Antigone lui permet de s’immerger encore davantage dans notre héritage mythologique grec, source de notre psychè profonde, explication imagée de nos tourments ataviques.

 

bauchauBoulPéri.jpgBauchau est également un mémorialiste de premier plan, que nous pourrions comparer à Ernst Jünger (qu’il cite assez souvent). Les journaux de Bauchau permettent effectivement de suivre à la trace le cheminement mental et intellectuel de l’auteur: en les lisant, on perçoit de plus en plus une immersion dans les mystiques médiévales —et il cite alors fort souvent Maître Eckart— et dans les sagesses de l’Orient, surtout chinois. On perçoit également en filigrane une lecture attentive de l’oeuvre de Martin Heidegger. Ce passage, à l’âge mûr, de la frénésie politique (politicienne?) à l’approfondissement mystique est un parallèle de plus à signaler entre le Wallon belge Bauchau et l’Allemand Jünger.

 

L’an passé, Bauchau, à 98 ans, a sorti un recueil poignant de souvenirs, intitulé L’enfant rieur. Dans cet ouvrage, il nous replonge dans les années 30, avec l’histoire de son service militaire dans la cavalerie, avec les tribulations de son premier mariage (qui échouera) et surtout les souvenirs de “Raymond” qu’il n’abandonnera pas, sans oublier les mésaventures du mobilisé Bauchau lors de la campagne des Dix-Huit Jours. Bauchau promettait une suite à ces souvenirs de jeunesse, si la vie lui permettait encore de voir une seule fois tomber les feuilles... Il est mort le jour de l’équinoxe d’automne 2012. Il n’a pas vu les feuilles tomber, comme il le souhaitait, mais le manuscrit, même inachevé, sera sûrement confié à son éditeur, “Actes Sud”.

 

Bauchau n’est plus un “réprouvé”, comme il l’a longtemps pensé avec grande amertume. Un institut s’occupe de gérer son oeuvre à Louvain-la-Neuve. Les “Archives & Musée de la Littérature” de la Bibliothèque Royale recueille , sous la houlette de son exégète et traductrice allemande Anne Neuschäfer (université d’Aix-la-Chapelle), tous les documents qui le concerne (http://aml.cfwb.be/bauchau/html/ ). A Louvain-la-Neuve, Myriam Watthée-Delmotte se décarcasse sans arrêt pour faire connaître l’oeuvre dans son intégralité, sans occulter les années 30 ni l’effervescence intellecutelle et politique de ces années décisives.

 

Et en effet, il faudra immanquablement se replonger dans les vicissitudes de cette époque; le Prof. Jean Vanwelkenhuizen avait déjà sorti un livre admirable sur l’année 1936, montrant que les jugements à l’emporte-pièce sur la politique de neutralité, sur l’émergence du rexisme, sur la guerre d’Espagne et sur le Front Populaire français, n’étaient plus de mise. Cécile Vanderpelen-Diagre, dans Ecrire en Belgique sous le regard de Dieu, avait, à l’ULB, dressé un panorama général de l’univers intellectuel catholique de 1890 à 1945. Jean-François Fuëg (ULB), pour sa part, nous narre l’histoire du mouvement anarchisant autour de la revue et du cercle “Le Rouge et Noir” de Bruxelles, où l’on s’aperçoit que l’enthousiasme pour la politique de neutralité de Léopold III n’a pas été la marque d’une certaine droite conservatrice (autour de Robert Poulet) mais a eu des partisans à gauche. Enfin, Eva Schandevyl (VUB) nous dresse un portrait des gauches belges de 1918 à 1956, où elle ne fait nullement l’impasse sur le formidable espoir que les idées de De Man avait suscité dans les années 30. Mieux: les Facultés Universitaires Saint-Louis ont consacré en avril dernier un colloque à la mémoire de Raymond De Becker, initiative en rupture avec les poncifs dominants qui avait fait hurler de fureur un plumitif lié aux “rattachistes wallingants”.

 

Le chantier est ouvert. Comprendre l’oeuvre de Bauchau, mais aussi la trajectoire post bellum de De Becker et d’Hergé, est impossible sans revenir aux sources, donc aux années 30. Mais un retour qui doit s’opérer sans les oeillères habituelles, sans les schématismes nés des hyper-simplifications staliniennes et libérales, pour lesquelles les actions etl es pensées du “zoon politikon” doivent se réduire à quelques slogans simplistes que Big Brother manipule et transforme au gré des circonstances.

 

Robert Steuckers.

(Forest-Flotzenberg, 26 octobre 2012).

mercredi, 24 octobre 2012

Un testo inedito di Mariantoni

Un testo inedito di Mariantoni: il perché delle continue sconfitte dei cosiddetti movimenti “Antagonisti”

 
 
Il testo che pubblico questa mattina è un breve saggio pedagogico, "esclusivamente scritto per B. e F", con l'invito esplicito dell'autore "a non mettere in circolazione, per nessun motivo" e la avvertenza, "serve soltanto per la vostra preparazione personale". In morte del maestro, uno dei destinatari della "lezione privata" si è sentito svincolato dalle istruzioni d'uso e me l'ha trasmesso con la preghiera di divulgarlo, in memoria dell'autore. 

 

di Alberto B. Mariantoni

 

Il principale dramma societario del nostro tempo, è che – di fronte ad un sistema politico, economico, sociale e culturale, ormai completamente antiquato, fatiscente ed inoperante (un sistema, cioè, che - non solo, non è più in grado di modificarsi o di rinnovarsi per tentare, in qualche modo, di sopravvivere, ma - non è nemmeno in condizione di scomparire autonomamente… ) – le innumerevoli e variegate forze antagoniste che ufficialmente esistono all’interno delle nostre società e pretendono combattere il sistema che le opprime, non rappresentano, in definitiva, nessuna possibile o probabile alternativa.

Non la rappresentano, in quanto sono assolutamente incapaci di abbozzare una qualsiasi intesa strategica o un qualunque modus operandi tra di loro, per facilitare o favorire l’indispensabile trapasso del vecchio sistemae tentare di collaborare (oppure – dopo averlo spazzato via – competere o rivaleggiare tra di loro, per contribuire) all’urgente, imprescindibile e doverosa edificazione o realizzazione del nuovo.

Il perché di quella loro congenita incapacità, è da ricercarsi – in massima parte – nell’assurdo ed anacronisticoancoraggio ideologico, dottrinario e politico che queste ultime continuano a volere necessariamente mantenere con le mitologie, le tradizioni, gli schemi e la prassi dei secoli precedenti.

Basti pensare, ad esempio, che le suddette forze (come d’altronde quelle che, direttamente o indirettamente, contribuiscono a mantenere artificialmente in vita l’attuale sistema) – per essere politicamente in condizione di distinguersi, definirsi e/o rivaleggiare tra di loro – utilizzano, ancora oggi, dei parametri di identificazione, catalogazione e classificazione che risalgono al 28 Agosto del 1789: il giorno in cui, cioè, nella sala dellaPalla Corda della reggia di Versailles, i deputati dell’allora Assemblea Costituente francese, per meglio facilitare il conteggio dei loro voti (a favore o contro del diritto di veto che Luigi XVIº avrebbe voluto mantenere nel contesto di quel consesso), decisero rispettivamente di schierarsi alla sinistra ed alla destra del tavolo della Presidenza!

Non parliamo, poi, della “palla al piede” ideologica (anacronistico e condizionante retaggio di all’incirca 1700 anni di colonizzazione culturale) che ognuna di quelle forze continua illogicamente e penosamente a trascinarsi dietro… nella speranza – chissà? – di giungere più facilmente e speditamente al traguardo!

Non mi riferisco, naturalmente, all’Ideologia in senso tradizionale (quel corpus culturale, cioè, che tenta di giustificare post eventum quanto una qualsiasi Societas è già stata in grado di edificare o di realizzare), ma piuttosto a quelle “Ideologie” che – a partire da soggettive ed arbitrarie “costruzioni intellettuali” e/o daschemi (religiosi, politici, economici, sociali, culturali, ecc.) preconcetti, dogmatici e statici – non solo ribaltano diametralmente i termini dell’equazione umana e dell’assetto naturale del mondo, ma pretendono intervenire ed agire sulla realtà, suggerendo e/o imponendo una visione delle cose che lascia direttamente o indirettamente credere all’uomo della strada che il reale delle sue naturali percezioni, è sempre e comunqueirreale, e che l’irreale o l’immaginario di quelle soggettive ed arbitrarie descrizioni o costruzioni intellettuali, è la vera realtà.

Conosciamo il limite di quel genere di “Ideologie”…

Le costruzioni intellettuali e/o le rappresentazioni della realtà - che per natura sono sempre riduttive e limitative del reale - pretendono sistematicamente “descrivere”, “imbrigliare”, oppure “determinare”, “modificare”, “sconvolgere” e, qualche volta, perfino “predire”, “prevedere” o “precorrere” la realtà.

Nonostante gli sforzi, però, la realtà, come sappiamo, non si lascia mai interamente descrivere, né tanto menoimbrigliare; meno ancora determinare, sconvolgere o prevedere! E se anche qualcuno di noi, per pura ipotesi, riuscisse davvero a farlo, un miliardesimo di secondo dopo, ci accorgeremmo che la realtà che abbiamo preteso individuare, focalizzare e circoscrivere non corrisponde più alla descrizione o alla rappresentazione che avevamo creduto di avere realizzato.
Panta rei… (tutto scorre) e, “mai lo stesso uomo - ammoniva Eraclito di Efeso –(544/-484) - può bagnarsi nella stessa acqua”…
Una semplice foglia che cade da un albero; un uccello che sfreccia nel cielo; un bruco che ingurgita un briciolo di gelso; un essere che nasce o uno che muore... E la realtà che ci circonda, non corrisponde più alla “realtà” che un attimo prima abbiamo avuto la pretesa di fissare o di immortalare all’interno della nostra costruzione o della nostra rappresentazione.
Una volta espressa e formulata, inoltre, anche la più allettante, fascinosa, razionale, plausibile e credibile dellecostruzioni intellettuali, non può essere nient’altro che un’ingannevole e statica “istantanea” di un esclusivo e particolare momento della realtà: una “foto polaroid”, insomma, all’interno della quale, quel nostro particolare scorcio del presente, già invecchiato dal trascorrere dei secondi, tenta invano di dare delle risposte alle eventuali problematiche dell’avvenire, utilizzando delle chiavi di lettura che, in pratica, sono già svilite o superate dalla Storia e, di conseguenza, completamente illusorie ed inefficienti, sia dal punto di vista del loro possibile impatto sulla realtà che da quello della loro effettiva e concreta capacità di intervento.
Non dimentichiamo, oltre a ciò, che in qualunque costruzione intellettuale, il reale o l’irreale della nostra percezione di ieri, resta cristallizzato, per sempre, all’interno di quella nostra descrizione.
Sarebbe, quindi, un vano esercizio ed una fallace presunzione accademica pretendere di poterlo trasporre o proiettare nel tempo e nello spazio, per farlo, in qualche modo, intervenire dinamicamente e positivamente sugli avvenimenti o sulle circostanze dell’oggi o del domani.
Come è facile dedurlo, in fine, per una visione strettamente “ideologica” della realtà, il domani è sempre e comunque ieri. Dopodomani, è ancora ieri. E dopodomani l’altro, immutabilmente ed inalterabilmente ieri: unoieri virtuale, cioè, che non solo contribuisce a deformare costantemente la nostra percezione dell’oggi e del domani, ed a falsarne sistematicamente le basi di analisi e di giudizio, ma tende soprattutto a suscitare e ad intrattenere, nella nostra psiche, ogni sorta di inutili speranze d’avvenire (ogni volta, vanamente attese ed inutilmente rincorse…), in quanto queste ultime sono incessantemente agognate o concupite con l’occhio immobile ed inespressivo di un passato, mummificato ed inoperante, che in tutti i casi non “macina” più, né potrebbe, d’altronde, essere più in grado di “macinare”…
Per individuare e capire l’altro motivo di fondo, a causa del quale le suddette forze antagoniste non riescono ad unirsi ed a concentrare i loro sforzi su un obbiettivo comune, è sufficiente analizzare la principale conseguenza che deriva dall’adozione, per per i dirigenti ed i loro militanti, di qualsivoglia tipo di costruzione intellettuale e/o di rappresentazione della realtà.
Come sappiamo, infatti, qualsiasi costruzione intellettuale e/o rappresentazione della realtà essendo, allo stesso tempo, un input ed uno stimulus (quindi, una spinta/molla/motivazione ideale ed uno stimolo pratico), ha tendenza a sollecitare l’immaginario e/o la riflessione intellettuale e/o la sensibilità spirituale e/o la ricettività/reattività emotiva di ciascuno ed a suscitare – in coloro che vi si sentono attratti e/o sedotti – l’ambizione, il desiderio e/o il bisogno/necessità di aggregarsi e di riunirsi (ipoteticamente e/o concretamente) all’interno o nel contesto di una factio, factionis, un pars, partis o una secta, ae (cioè, una fazione, un partito o una setta): quel particolare “modello associativo extra-tradizionale” che Friedrich Georg Jünger (1898–1977), nel suo Der Aufmarsch des Nationalismus (1926), designa e qualifica con il nome di Geistgemeinschaft o “Comunità della mente”.
Una Geistgemeinschaft, infatti, è semplicemente una “Comunità ideologica”.
Che cos’è una “Comunità ideologica”?
E’ un modello di società che non ha nulla a che fare o a che vedere con quello di Blutgemeinschaft (Comunità del sangue), ugualmente evocato da Jünger, né con quelli, similmente tradizionali, di Volksgemeinschaft (Comunità di popolo) e/o di Schicksalsgemeinschaft (Comunità di destino).
Inoltre, come il nome stesso lo indica, una “Comunità ideologica” è un modello di ordine/assetto societario che – indipendentemente dalla lingua, la cultura, l’origine etnico-storica, i costumi e le tradizioni particolari dei suoi possibili o probabili affiliati – tende preminentemente a scaturire ed a realizzarsi/concretizzarsi, prendendo direttamente o indirettamente spunto, ispirazione, impulso e/o giustificazione dai contenuti ideologici e/o dallematrici concettuali che emergono o si sprigionano da una costruzione intellettuale.
Una “Comunità ideologica”, in fine – in aperta rottura, opposizione e contraddizione con i vari modelli di Innata Societas esistenti o esistiti – tende caratteristicamente ad organizzarsi e ad operare sotto forma di Simulata Societas.
Che cos’è una Innata Societas?

E’ un ‘modello di società’ che – con tutte le sue possibili ed immaginabili varianti politiche, economiche, sociali e culturali interne – tende naturalmente e spontaneamente a costituirsi e ad organizzarsi, senza l’ausilio di nessun artificio o, se si preferisce, di nessuna costruzione o elaborazione intellettuale, né di nessuna finzione ideologica, politica, giuridica o amministrativa.
Che cos’è una Simulata Societas?
E’ un’imitazione o un succedaneo di Societas naturale: un “sodalizio”, cioè, che cerca di riprodurre o di mimare (oppure, di riformare, migliorare, oltrepassare o sopravanzare) la “società naturale” o “tradizionale”. Un genere di società, insomma, che – per capire il senso che io gli sto dando – può senz’altro essere paragonato ad un “gruppo umano supra-nationale” o ad un “Partito” o ad una “Setta” o ad una “Congregazione” o ad una “Confraternita”.
Quella che io chiamo Simulata Societas, infatti – per potersi realmente costituire ed organizzare; essere in condizione di esistere, di agire o di operare; e, quindi, di durare nel tempo – ha necessariamente bisogno di tutta una serie di costruzioni o di elaborazioni intellettuali, di finzioni ideologiche e di artifizi politici,sociali e culturali che non hanno (anche quando, esteriormente e apparentemente, riescono ad imitare leSocietà tradizionali…) nessuna correlazione, né attinenza, con i motivi naturali e spontanei di aggregazione umana e di coesione civile e politica che invece caratterizzano le autentiche ‘società naturali’ o, se si preferisce, quelli che io chiamo gli originari ed inossidabili modelli di Innata Societas.
Come si forma o si costituisce una Simulata Societas?
Si forma o si costituisce, a partire dall’immagine soggettiva ed arbitraria che ogni singolo affiliato riesce personalmente a costruirsi, forgiarsi o elaborarsi nella sua psiche e/o nel suo animo, a proposito di un certo numero di punti fermi o di principi conduttori che ordinariamente costituiscono la base logica e/o il fondamento ideale dell’iniziale costruzione intellettuale e/o rappresentazione della realtà a cui si fa riferimento.
Per quale ragione, dunque, non c’è, né può mai esserci unità d’intenti, né all’interno, né all’esterno, di una qualsiasi “Comunità ideologica”? Tanto meno, tra “Comunità ideologiche” contrapposte? Meno ancora, tra “Comunità ideologiche” affini?
Per la semplice ragione che i fautori o i propugnatori di Geistgemeinschaft o “Comunità della mente” hanno solitamente tendenza a credere che l’intera umanità possa essere riconducibile ad un unico “modello ideale” di uomo e/o di società: quello stesso “modello”, cioè, che ognuno di loro – senza volerlo e senza saperlo (e probabilmente, senza nemmeno accorgersene!) – si è individualmente ed autonomamente costruito o strutturato nel suo cervello e/o nel suo cuore, a partire (come abbiamo visto…) dalla frazione di immagine, soggettiva ed arbitraria, che è riuscito a focalizzare, estrapolare ed assimilare dal “modello ideale” che è ordinariamente espresso o riassunto dai termini (ugualmente soggettivi ed arbitrari) della costruzione intellettuale che lo descrive, lo presenta o lo lascia intuire.
Quel “modello”, se vogliamo, può al massimo corrispondere alle tendenze, preferenze e/o predisposizioni di chi se lo è soggettivamente costruito o strutturato, e trovare esclusivamente riscontro presso coloro che sono stati illusoriamente persuasi o si sono intellettualmente e/o spiritualmente e/o emotivamente auto-convinti di potervi in qualche modo coincidere, collimare o concordare.
Essendo, però, ottenebrati e fuorviati da quella loro paradossale convinzione (Il fatto, cioè, di essere persuasi che l’intera umanità possa essere riconducibile ad un unico “modello ideale” di uomo e/o di società…), i suddetti fautori o propugnatori sono costantemente ed erroneamente portati a credere che sia più facile, opportuno e/o fecondo – per tentare di “salvare il mondo” o, semplicemente, per cercare di poterlo “cambiare” o “modificare”… – di associarsi unicamente (ciò che, in definitiva, è soltanto una grossolana e flagrante contraddizione in termini!) con i loro “uguali” o con delle persone che ufficialmente affermano di avere le loro “stesse convinzioni” o formalmente pretendono “pensarla allo stesso modo”.
Ora, siccome ogni essere umano è, e resta, unico, originale ed irripetibile – e per giunta quot homines, tot sententiae (tanti uomini, altrettante opinioni) – diventa praticamente inevitabile che all’interno di quelle particolari Comunitas – anche sforzandosi o facendo finta di credere che i possibili o prevedibili adepti della medesima concezione/ interpretazione/ rappresentazione possano realmente pensarla allo stesso modo – un’effettiva e concreta concordanza di opinioni, è quasi sempre improbabile o, quanto meno, estremamente difficile da ottenere o da realizzare.
Non tenendo in considerazione il fatto che ogni uomo è unico, originale ed irripetibile – quindi, potenzialmente complementare – i responsabili delle diverse e variegate forze antagoniste che esistono all’interno delle nostre società, pretendono puerilmente omologare il pensiero e l’azione dell’insieme dei loro adepti, forzandoli ad identificarsi al “modello” personale che essi stessi si sono soggettivamente ed arbitrariamente forgiato o strutturato.
Risultato: chi non la pensa ed agisce esattamente come il “Capo” e/o i suoi “tirapiedi”, è il nemico da avversare e da combattere. Quindi, in definitiva, da marginalizzare o da espellere. Insomma: da eliminare.
Inoltre, tenuto conto del fatto che nessuno al mondo, a causa dell’anzidetta peculiarità umana (il fatto, cioè, che ogni uomo è unico, originale ed irripetibile), può realmente ergersi a modello ideologico per altri suoi simili, né tanto meno riuscire effettivamente a coincidere, collimare o concordare con nessun tipo di “modello ideologico”, meno ancora arrivare intellettualmente e/o spiritualmente e/o emotivamente a corrispondere o a rassomigliare ad altri essere umani, il rapporto quotidiano tra correligionari di una medesima “Comunità ideologica” si riduce quasi sempre ad essere un’ipocrita e/o psico-drammatica relazione di illusoria o simulata collaborazione o cooperazione. E nel migliore dei casi: una continua, costante e snervante guerra di logoramento o un “muro contro muro” di rapporti di forza tra membri maggioritari e minoritari di una medesima, invivibile ed insostenibile conventio ad excludendum.
Che cos’è una conventio ad excludendum?
Letteralmente: è un’assemblea, un’adunanza o un raduno per escludere.

E’ un concetto di società, cioè, che è diametralmente antitetico e contrapposto a quello espresso o manifestato da qualsiasi genere di società tradizionale o Innata Societas, dove la tendenza è piuttosto alla conventio ad consociandum (assemblea, adunanza o raduno per consociare o riunire) o addirittura alla coniunctio oppositorum o alla coincidentia oppositorum (convergenza degli opposti o unione dei contrari; qualcosa, cioè, che mette in risalto la complementarità di ognuno). Qualcosa, cioè, che, per estensione, tende al “superamento degli opposti”, così come aveva fatto notare Nicolas de Cues o Nikolaus Krebs (1401-1464) e largamente approfondito e dimostrato, in seguito, Mircea Éliade (principalmente in: Méphistophélès et l'androgyne, Collection "Idées", No. 435, Gallimard, Paris, 1962).
E’ la ragione per la quale, i responsabili di “Comunità ideologiche” (nel nostro caso: i vari “capi” e “capetti”, “duci” e “ducetti” delle innumerevoli e variegate forze antagoniste che ufficialmente esistono all’interno delle nostre società) – per cercare di evitare, attenuare o contenere il continuo e costante frazionamento e/o l’ineluttabile atomizzazione/scomposizione centrifuga dei loro ranghi – tendono prioritariamente a concentrare l’attenzione dei loro affiliati sugli eventuali nemici interni o esterni (reali o immaginari) che potrebbero minacciare o rimettere in discussione le presupposte credenze comuni e/o la congetturata unità del gruppo.Ed invece di facilitare o di favorire un franco e spassionato dibattito sulle reali problematiche che affliggono le nostre società e trovare tutti insieme le più consone o adeguate soluzioni, preferiscono essenzialmente mettere l’accento su una serie di standard di identificazione esterna (un certo tipo di camicia, un certo tipo di saluto, di distintivo, di bandiera, ecc.) che – resi indispensabili ed imprescindibili – tendono a sostituire o a rimpiazzare quei legami naturali che, in linea di massima, gli ordinari adepti o membri di Geistgemeinschaft o “Comunità della mente” non posseggono, né sono o saranno mai in grado di auto-costituirsi o di auto-strutturarsi.
 

CIAO, ALBERTO

CIAO, ALBERTO

Oggi, una mattina come tante, iniziata non bene e non male, nella normalità, mentre stavo iniziando a dedicarmi alle mie occupazioni quotidiane, squilla il telefono, è un mio / nostro sodale che mi da la triste notizia che Alberto B. Mariantoni è andato oltre.

Mi scorrono nella mente ricordi, immagini, idee, le interminabili discussioni fatte in altrettante interminabili nottate, la voglia di combattere contro questo mondo ingiusto ed inumano. Vado a prendere una sua lettera autografa – e già anche nei tempi di internet c’è ancora chi scrive a mano – scritta in bella calligrafia – perché per Alberto, come per la Tradizione estremo orientale, scrivere bene significava pensare bene, scritta con la penna stilografica, come si faceva una volta, anche se si lamentava che l’inchiostro non era più buono come quello di un tempo, la giro e rigiro tra le mani: non riesco a concentrarmi.

Mi sostiene solamente la consapevolezza che continueremo a stare insieme, anche se non materialmente, perché, ad un certo grado di affinità, gli spiriti si pensano.

Economista, saggista, storico, solo pochissime altre personalità possono vantare di essere state autenticamente ribelli ed eretiche. La sua attenzione si è da sempre focalizzata sulla indispensabilità di uscire dall’apparente insolubile dualismo capitalismo-marxismo. Lo studio dei meccanismi dell’economia e, di conseguenza monetari, attraverso l’analisi delle ricorrenti ed inspiegabili crisi inflazionistiche ed economiche formano, negli ultimi tempi, il nucleo centrale del suo interesse extra-storico e politico.

I suoi articoli e saggi di economia, purtroppo, conoscono una lunga notte. Le sue tesi sconvolgono le classiche coordinate di analisi economico-politica. Come pensare che economia libera ed economia statizzata in realtà abbiamo le medesime matrici e producano i medesimi risultati? Come pensare che esse congiuntamente decidano dei destini delle monete ? Come pensare che esse siano organizzativamente e finalisticamente simili ?

Alberto ancora una volta colpirà nel segno.

Testimone e protagonista del suo tempo non indietreggiò, mai, davanti al suo destino, anche quando questo gli fu avverso. Forse proprio per questa sua coerenza, tutto un “ certo “ ambiente lo ha isolato, contribuendo, tuttavia, a farne un uomo troppo alto per essere intaccato da critiche meschine.

Tante volte varcò la porta della stima personale e del successo, a differenza di altri che a quella porta bussarono, con il cappello in mano, senza mai varcarla.

E questo è, forse, il peccato che questo nostro tempo di nani non gli perdona.

“ A mio giudizio, abbiamo quella illudente e fuorviante percezione della nostra esistenza, in quanto continuiamo testardamente ed incosapevolmente a volere assolutamente “ leggere” o interpretare la realtà che ci contorna, attraverso le lenti deformanti e snaturanti della “visione ideologica” della vita e della storia”, così ci diceva e scriveva.

Ciao Alberto.

Claudio Marconi   FotoAlberto

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/  

 

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

La redazione di “Eurasia” dà l’estremo saluto ad Alberto Bernardino Mariantoni, politologo, saggista storico, esperto di questioni del Vicino Oriente e studioso delle religioni.

Lo ricordiamo come collaboratore della rivista, in particolare col suo storico saggio Dal “Mare Nostrum” al “Gallinarium Americanum”. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente (“Eurasia” 3/2005), il quale ha avuto l’inestimabile merito di sollevare definitivamente la questione dell’occupazione della nostra terra da parte di eserciti stranieri. Dopo tale illuminante articolo, anche i media collaborazionisti cosiddetti “autorevoli” dovettero “correre ai ripari” per tamponare la falla, ovvero la “fuga di notizie”, che rischiava di trasformarsi in un’alluvione; così avvenne che in una trasmissione di una rete televisiva nazionale, citando il saggio di Mariantoni, venne imbastita una ridicola messinscena tra “esperti” i quali, arrampicandosi sugli specchi, cercavano di minimizzare l’inaudita gravità di un apparato tentacolare che, per la sua sola presenza, rende nulla ogni pretesa di indipendenza e sovranità delle nazioni sottoposte a pluridecennale imposizione.

Lo ricordiamo anche come uomo, generoso, tollerante, sempre disponibile e mai “in cattedra”, sebbene, grazie alla sua esperienza diretta delle cose di cui trattava, si sarebbe potuto atteggiare a “professore” più di tanti altri che, per molto meno, fanno sfoggio di conoscenze puramente libresche, imparate dai “bignamini”.

Mariantoni era un “interventista della cultura”, nel più aureo filone dei grandi Italiani che, del loro sapere, non han fatto una base per guadagnare onori e prebende vivendo sempre da “struzzi”, ma lo hanno costantemente messo a disposizione di una “battaglia” sentita come improrogabile: quella per la libertà, l’indipendenza, l’autodeterminazione e la sovranità politica, economica, culturale e militare di tutti i popoli del mondo.

Per chi intendesse saperne di più su questa grande figura di italiano, mediterraneo ed europeo, consigliamo la lettura dei testi contenuti nel suo sito personale: http://www.abmariantoni.altervista.org/

Addio Alberto, che la morte ti sia lieve. Come tu stesso dicevi sempre, è solo la vita che va verso la vita. 

Enrico Galoppini, a nome della Redazione di “Eurasia”

Who was Alberto B. Mariantoni?

Alberto Bernardino Mariantoni è nato a Rieti ( I ), il 7 Febbraio del 1947.

E’ laureato in Scienze Politiche e specializzato in Economia Politica, Islamologia e Religioni del Vicino Oriente. E’ Master in Vicino e Medio Oriente.

Politologo, scrittore e giornalista, è stato per più di vent’anni Corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra e per circa quindici anni sul tamburino di «Panorama». Ha collaborato con le più prestigiose testate nazionali ed internazionali, come «Le Journal de Genève», «Radio Vaticana», «Avvenire», «Le Point», «Le Figaro», «Cambio 16», «Diario de Lisboa», «Caderno do Terceiro Mundo», «Evénements», «Der Spiegel», «Stern», «Die Zeit», «Berner Zeitung», «Il Giornale del Popolo», «Gazzetta Ticinese», «24Heures», «Le Matin», «Al-Sha’ab», Al-Mukhif Al-Arabi», nonché «Antenne2», «Télévision Suisse Romande», «Televisione Svizzera Italiana», ecc.

E’ esperto di politica estera e di relazioni internazionali, con particolare riferimento ai paesi arabi e musulmani e dell’Africa centrale ed occidentale. Ha al suo attivo decine e decine di inchieste e di reportages in zone di guerra e di conflitti politici. E’ autore di oltre trecento interviste ai protagonisti politici ed istituzionali dei paesi del Terzo Mondo e della vita politica internazionale.

Ha insegnato presso la Scuola di Formazione continua dei giornalisti di Losanna. E’ stato Professore invitato presso numerose Università Europee e Vicino-Orientali.

Ha scritto: «Gli occhi bendati sul Golfo» (Jaca Book, Milano 1991); «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (Pygmalion, Paris, 1992); «Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

Dal 1994 al 2004, è stato Presidente della Camera di Commercio Italo-Palestinese.

Nel 2009-2010 ha collaborato, come docente, con lo I.E.M.A.S.V.O - Istituto 'Enrico Mattei' di Alti Studi sul Vicino e Medio Oriente di Roma.

English:

Alberto Bernardino Mariantoni was born in Rieti (Italy), on February 7th, 1947.

He graduated in Political Sciences and specialized in Political Economy, and Islamic studies and Religions of the Middle-East. He is also a post-graduate Master in the Near and Middle East.

As a political commentator, writer and journalist he was – for more than twenty years – permanent correspondent at the United Nations in Geneva (Switzerland). For approximately fifteen years he was included in the list of front-page editorialists of “Panorama” (a major, nationally distributed Italian news magazine). He has collaborated with top-ranking, prestigious national and international media organs, such as “Le Journal de Genève”, “Radio Vaticana”, “Avvenire”, “Le Point”, “Le Figaro”, “Cambio 16”, “Diario de Lisboa”, “Caderno do Terceiro Mundo”, “Evénements”, “Der Spiegel”, “Stern”, “Die Zeit”, “Berner Zeitung”, “Il Giornale del Popolo”, “Gazzetta Ticinese”, “24Heures”, “Le Matin”, “Al-Sha’ab”, and “Al-Mukhif Al-Arabi”, plus “Antenne2”, “Télévision Suisse Romande”, “Televisione Svizzera Italiana”, etc.

He is an expert on foreign politics and international relations, with particular reference to Arabic and Muslim countries, and the countries of Central and West Africa. He has authored many dozens of inquiries into, and reports from, war zones/regions struck by political conflicts. He has also authored more than 300 interviews with political and institutional personages of Third World countries and the international political scene.

He has taught for the continuing professional development school for journalists in Lausanne (Switzerland). He has been ‘guest professor’ at various European and Near-East Universities.

He has written: «Gli occhi bendati sul Golfo» (blindfolded on the Gulf) (published by Jaca Book, Milan, 1991) and «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (the unsaid on the Israel-Arab conflict) (published by Pygmalion, Paris, 1992);«Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

From 1994 to 2004, he was Chairman of the Italian-Palestinian Chamber of Commerce.

In 2009-2010, he collaborated as professor with I.E.M.A.S.V.O – ‘Enrico Mattei’ Advanced Studies Institute on the Near and Middle East, Rome (Italy).

 

mardi, 16 octobre 2012

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

2 ans déjà ! 

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

 
Le 9 octobre 2010, il y a deux ans, disparaissait Maurice Allais à l’âge respectable de 99 ans, qui avait tout annoncé…

Maurice AllaisC’était le seul prix Nobel d’économie français. Né le 31 mai 1911, il part aux États-Unis dès sa sortie (major X31) de Polytechnique en 1933 pour étudier in situ la Grande Dépression qui a suivi la Crise de 1929. Ironie de l’histoire, il a ainsi pu réaliser une sorte de “jonction” entre les deux Crises majeures du siècle. Son analyse, percutante et dérangeante, n’a malheureusement pas été entendue faute de relais.

Fervent libéral, économiquement comme politiquement, il s’est férocement élevé contre le néo-conservatisme des années 1980, arguant que le libéralisme ne se confondait pas avec une sortie de “toujours mois d’État, toujours plus d’inégalités” – qui est même finalement la définition de l’anarchisme. On se souviendra de sa dénonciation du “libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée” et de la “chienlit mondialiste laissez-fairiste”. Il aimait à se définir comme un “libéral socialiste” – définition que j’aime beaucoup à titre personnel.

Il a passé les dernières années de sa vie à promouvoir une autre Europe, bien loin de ce qu’il appelait “l’organisation de Bruxelles”, estimant que la construction européenne avait pervertie avec l’entrée de la Grande-Bretagne puis avec l’élargissement à l’Europe de l’Est.

RIP

Lettre aux français : “Contre les tabous indiscutés”

Le 5 décembre 2009, le journal Marianne a publié le testament politique de Maurice Allais, qu’il a souhaité rédiger sous forme d’une Lettre aux Français.

Je vous conseille de le lire, il est assez court et clair. Je le complète par divers autres textes surtout pour les personnes intéressées – même si cela alourdit le billet.

Maurice Allais

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons —tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 — résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel… téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel… téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

Maurice Allais.

_________________
(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.
(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.

NB : vous pouvez télécharger cet article ici.

Maurice Allais

Présentation par Marianne

Le Prix Nobel iconoclaste et bâillonné

La « Lettre aux Français » que le seul et unique prix Nobel d’économie français a rédigée pour Marianne aura-t-elle plus d’écho que ses précédentes interventions ? Il annonce que le chômage va continuer à croître en Europe, aux États-Unis et dans le monde développé. Il dénonce la myopie de la plupart des responsables économiques et politiques sur la crise financière et bancaire qui n’est, selon lui, que le symptôme spectaculaire d’une crise économique plus profonde : la déréglementation de la concurrence sur le marché mondial de la main-d’œuvre. Depuis deux décennies, cet économiste libéral n’a cessé d’alerter les décideurs, et la grande crise, il l’avait clairement annoncée il y a plus de dix ans.

Éternel casse-pieds

Mais qui connaît Maurice Allais, à part ceux qui ont tout fait pour le faire taire ? On savait que la pensée unique n’avait jamais été aussi hégémonique qu’en économie, la gauche elle-même ayant fini par céder à la vulgate néolibérale. On savait le sort qu’elle réserve à ceux qui ne pensent pas en troupeau. Mais, avec le cas Allais, on mesure la capacité d’étouffement d’une élite habitée par cette idéologie, au point d’ostraciser un prix Nobel devenu maudit parce qu’il a toujours été plus soucieux des faits que des cases où il faut savoir se blottir.

« La réalité que l’on peut constater a toujours primé pour moi. Mon existence a été dominée par le désir de comprendre ce qui se passe, en économie comme en physique ». Car Maurice Allais est un physicien venu à l’économie à la vue des effets inouïs de la crise de 1929. Dès sa sortie de Polytechnique, en 1933, il part aux États-Unis. « C’était la misère sociale, mais aussi intellectuelle : personne ne comprenait ce qui était arrivé. » Misère à laquelle est sensible le jeune Allais, qui avait réussi à en sortir grâce à une institutrice qui le poussa aux études : fils d’une vendeuse veuve de guerre, il a, toute sa jeunesse, installé chaque soir un lit pliant pour dormir dans un couloir. Ce voyage américain le décide à se consacrer à l’économie, sans jamais abandonner une carrière parallèle de physicien reconnu pour ses travaux sur la gravitation. Il devient le chef de file de la recherche française en économétrie, spécialiste de l’analyse des marchés, de la dynamique monétaire et du risque financier. Il rédige, pendant la guerre, une théorie de l’économie pure qu’il ne publiera que quarante ans plus lard et qui lui vaudra le prix Nobel d’économie en 1988. Mais les journalistes japonais sont plus nombreux que leurs homologues français à la remise du prix : il est déjà considéré comme un vieux libéral ringardisé par la mode néolibérale.

Car, s’il croit à l’efficacité du marché, c’est à condition de le « corriger par une redistribution sociale des revenus illégitimes ». Il a refusé de faire partie du club des libéraux fondé par Friedrich von Hayek et Milton Friedman : ils accordaient, selon lui, trop d’importance au droit de propriété… « Toute ma vie d’économiste, j’ai vérifié la justesse de Lacordaire : entre le fort et le faible, c’est la liberté qui opprime et la règle qui libère”, précise Maurice Allais, dont Raymond Aron avait bien résumé la position : « Convaincre des socialistes que le vrai libéral ne désire pas moins qu’eux la justice sociale, et des libéraux que l’efficacité de l’économie de marché ne suffit plus à garantir une répartition acceptable des revenus. » Il ne convaincra ni les uns ni les autres, se disant « libéral et socialiste ».

Éternel casse-pieds inclassable. Il aura démontré la faillite économique soviétique en décryptant le trucage de ses statistiques. Favorable à l’indépendance de l’Algérie, il se mobilise en faveur des harkis au point de risquer l’internement administratif. Privé de la chaire d’économie de Polytechnique car trop dirigiste, « je n’ai jamais été invité à l’ENA, j’ai affronté des haines incroyables ! » Après son Nobel, il continue en dénonçant « la chienlit laisser-fairiste » du néolibéralisme triomphant. Seul moyen d’expression : ses chroniques touffues publiées dans le Figaro, où le protège Alain Peyrefitte. À la mort de ce dernier, en 1999, il est congédié comme un malpropre.

Il vient de publier une tribune alarmiste dénonçant une finance de « casino» : « L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile, jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais, sans doute, il est devenu plus difficile d’y faire face, jamais, sans doute, une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » Propos développés l’année suivante dans un petit ouvrage très lisible* qui annonce l’effondrement financier dix ans à l’avance. Ses recommandations en faveur d’un protectionnisme européen, reprises par Chevènement et Le Pen, lui valurent d’être assimilé au diable par les gazettes bien-pensantes. En 2005, lors de la campagne sur le référendum européen, le prix Nobel veut publier une tribune expliquant comment Bruxelles, reniant le marché commun en abandonnant la préférence communautaire, a brisé sa croissance économique et détruit ses emplois, livrant l’Europe au dépeçage industriel : elle est refusée partout, seule l’Humanité accepte de la publier…

Aujourd’hui, à 98 ans, le vieux savant pensait que sa clairvoyance serait au moins reconnue. Non, silence total, à la notable exception du bel hommage que lui a rendu Pierre-Antoine Delhommais dans le Monde. Les autres continuent de tourner en rond, enfermés dans leur « cercle de la raison » •

Éric Conan

* La Crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999.

Source : Marianne, n°659, décembre 2009.

Maurice Allais

Extraits choisis

J’ai repris certains de ces extraits dans mon livre STOP ! Tirons les leçons de la Crise.

« Depuis deux décennies une nouvelle doctrine s’est peu à peu imposée, la doctrine du libre-échange mondialiste impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux. Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale. Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée. Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline. […]

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. […]

Suivant une opinion actuellement dominante, le chômage, dans les économies occidentales, résulterait essentiellement de salaires réels trop élevés et de leur insuffisante flexibilité, du progrès technologique accéléré qui se constate dans les secteurs de l’information et des transports, et d’une politique monétaire jugée indûment restrictive.

En fait, ces affirmations n’ont cessé d’être infirmées aussi bien par l’analyse économique que par les données de l’observation. La réalité, c’est que la mondialisation est la cause majeure du chômage massif et des inégalités qui ne cessent de se développer dans la plupart des pays. Jamais, des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. […]

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme », dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années ». Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorancede l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas.

Toute cette analyse montre que la libéralisation totale des mouvements de biens, de services et de capitaux à l’échelle mondiale, objectif affirmé de l’Organisation Mondiale du Commerce (OMC) à la suite du GATT, doit être considérée à la fois comme irréalisable, comme nuisible, et comme non souhaitable. […]

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. […]

En fait, on ne saurait trop le répéter, la libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible et n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux, groupant des pays économiquement et politiquement associés, de développement économique et social comparable, tout en assurant un marché suffisamment large pour que la concurrence puisse s’y développer de façon efficace et bénéfique. […]

Chaque organisation régionale doit pouvoir mettre en place dans un cadre institutionnel, politique et éthique approprié une protection raisonnable vis-à-vis de l’extérieur. Cette protection doit avoir un double objectif :

- éviter les distorsions indues de concurrence et les effets pervers des perturbations extérieures;

- rendre impossibles des spécialisations indésirables et inutilement génératrices de déséquilibres et de chômage, tout à fait contraires à la réalisation d’une situation d’efficacité maximale à l’échelle mondiale, associée à une répartition internationale des revenus communément acceptable dans un cadre libéral et humaniste.

Dès que l’on transgresse ces principes, une mondialisation forcenée et anarchique devient un fléau destructeur, partout où elle se propage. […]

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts […]. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services. »

« En réalité, ceux qui, à Bruxelles et ailleurs, au nom des prétendues nécessités d’un prétendu progrès, au nom d’un libéralisme mal compris, et au nom de l’Europe, veulent ouvrir l’Union Européenne à tous les vents d’une économie mondialiste dépourvue de tout cadre institutionnel réellement approprié et dominée par la loi de la jungle, et la laisser désarmée sans aucune protection raisonnable ; ceux qui, par là même, sont d’ores et déjà personnellement et directement responsables d’innombrables misères et de la perte de leur emploi par des millions de chômeurs, ne sont en réalité que les défenseurs d’une idéologie abusivement simplificatrice et destructrice, les hérauts d’une gigantesque mystification. […]

Au nom d’un pseudo-libéralisme, et par la multiplication des déréglementations, s’est installée peu à peu une espèce de chienlit mondialiste laissez-fairiste. Mais c’est là oublier que l’économie de marché n’est qu’un instrument et qu’elle ne saurait être dissociée de son contexte institutionnel et politique et éthique. Il ne saurait être d’économie de marché efficace si elle ne prend pas place dans un cadre institutionnel et politique approprié, et une société libérale n’est pas et ne saurait être une société anarchique.

Cette domination se traduit par un incessant matraquage de l’opinion par certains médias financés par de puissants lobbies plus ou moins occultes. Il est pratiquement interdit de mettre en question la mondialisation des échanges comme cause du chômage.

Personne ne veut, ou ne peut, reconnaître cette évidence : si toutes les politiques mises en œuvre depuis trente ans ont échoué, c’est que l’on a constamment refusé de s’attaquer à la racine du mal, la libéralisation mondiale excessive des échanges. Les causes de nos difficultés sont très nombreuses et très complexes, mais une d’elles domine toutes les autres : la suppression progressive de la Préférence Communautaire à partir de 1974 par “l’Organisation de Bruxelles” à la suite de l’entrée de la Grande Bretagne dans l’Union Européenne en 1973.

La mondialisation de l’économie est certainement très profitable pour quelques groupes de privilégiés. Mais les intérêts de ces groupes ne sauraient s’identifier avec ceux de l’humanité tout entière. Une mondialisation précipitée et anarchique ne peut qu’engendrer partout instabilité, chômage, injustices, désordres, et misères de toutes sortes, et elle ne peut que se révéler finalement désavantageuse pour tous les peuples.»

« En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connaît qu’un seul critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Partout se manifeste une régression des valeurs morales, dont une expérience séculaire a montré l’inestimable et l’irremplaçable valeur. Le travail, le courage, l’honnêteté ne sont plus honorés. La réussite économique, fondée trop souvent sur des revenus indus, ne tend que trop à devenir le seul critère de la considération publique.

En engendrant des inégalités croissantes et la suprématie partout du culte de l’argent avec toutes ses implications, le développement d’une politique de libéralisation mondialiste anarchique a puissamment contribué à accélérer la désagrégation morale des sociétés occidentales. »

[Maurice Allais, extraits rédigés entre 1990 et 2009]

Maurice Allais« Cette doctrine [la « chienlit mondialiste laissez-fairiste »] a été littéralement imposée aux gouvernements américains successifs, puis au monde entier, par les multinationales américaines, et à leur suite par les multinationales dans toutes les parties du monde, qui en fait détiennent partout en raison de leur considérable pouvoir financier et par personnes interposées la plus grande partie du pouvoir politique. La mondialisation, on ne saurait trop le souligner, ne profite qu’aux multinationales. Elles en tirent d’énormes profits.

Cette évolution s’est accompagnée d’une multiplication de sociétés multinationales ayant chacune des centaines de filiales, échappant à tout contrôle, et elle ne dégénère que trop souvent dans le développement d’un capitalisme sauvage et malsain. […]

Cette ignorance [des ressorts véritables de la crise actuelle par les « experts » officiels] et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. » [Maurice Allais, 1998 et 2009]

 

L’analyse de Maurice Allais sur la création monétaire

 « En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex-nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. [...]

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXe et du XXe siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex-nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le “cancer” qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée. [...]

Que les bourses soient devenues de véritables casinos, où se jouent de gigantesques parties de poker, ne présenterait guère d’importance après tout, les uns gagnant ce que les autres perdent, si les fluctuations générales des cours n’engendraient pas, par leurs implications, de profondes vagues d’optimisme ou de pessimisme qui influent considérablement sur l’économie réelle. [...] Le système actuel est fondamentalement anti-économique et défavorable à un fonctionnement correct des économies. Il ne peut être avantageux que pour de très petites minorités. »

[Maurice Allais, La Crise mondiale d’aujourd’hui. Pour de profondes réformes des institutions financières et monétaires, 1998]

« Ce qui, pour l’essentiel, explique le développement de l’ère de prospérité générale, aux États-Unis et dans le monde, dans les années qui ont précédé le krach de 1929, c’est l’ignorance, une ignorance profonde de toutes les crises du XIXème siècle et de leur signification réelle. En fait, toutes les grandes crises des XIXème et XXème siècles ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation. Partout et à toute époque, les mêmes causes génèrent les mêmes effets et ce qui doit arriver arrive. » [Maurice Allais]


« Ce livre est dédié aux innombrables victimes dans le monde entier de l’idéologie libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée, et à tous ceux que n’aveugle pas quelque passion partisane. » [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


Le libéralisme contre le laissez-fairisme

« Les premiers libéraux ont commis une erreur fondamentale en soutenant que le régime de laisser-faire constituait un état économique optimum. » [Maurice Allais, Traité d’économie pure, 1943]

« Le libéralisme ne saurait se réduire au laissez-faire économique ; c’est avant tout une doctrine politique, et le libéralisme économique n’est qu’un moyen permettant à cette politique de s’appliquer efficacement dans le domaine économique. Originellement, d’ailleurs, il n’y avait aucune contradiction entre les aspirations du socialisme et celles du libéralisme.

La confusion actuelle du libéralisme et du laissez-fairisme constitue un des plus grands dangers de notre temps. Une société libérale et humaniste ne saurait s’identifier à une société laxiste, laissez-fairiste, pervertie, manipulée, ou aveugle.

La confusion du socialisme et du collectivisme est tout aussi funeste.

En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connait qu’un critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Les perversions du socialisme ont entrainé l’effondrement des sociétés de l’Est. Mais les perversions laissez-fairistes d’un prétendu libéralisme mènent à l’effondrement des sociétés occidentales. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Une proposition enseignée et admise sans discussion dans toutes les universités américaines et à leur suite dans toutes les universités du monde entier : “Le fonctionnement libre et spontané du marché conduit à une allocation optimale des ressources”.

C’est là le fondement de toute la doctrine libre-échangiste dont l’application aveugle et sans réserve à l’échelle mondiale n’a fait qu’engendrer partout désordres et misères de toutes sortes.

Or, cette proposition, admise sans discussion, est totalement erronée, et elle-ne fait que traduire une totale ignorance de la théorie économique chez tous ceux qui l’ont enseignée en la présentant comme une acquisition fondamentale et définitivement établie de la science économique.

Cette proposition repose essentiellement sur la confusion de deux concepts différents : le concept d’efficacité maximale de l’économie et le concept d’une répartition optimale des revenus.

En fait, il n’y a pas une situation d’efficacité maximale, mais une infinité de telles situations. La théorie économique permet de définir sans ambiguïté les conditions d’une efficacité maximale, c’est-à-dire d’une situation sur la frontière entre les situations possibles et les situations impossibles. Par contre et par elle-même, elle ne permet en aucune façon de définir parmi toutes les situations d’efficacité maximale celle qui doit être considérée comme préférable. Ce choix ne peut être effectué qu’en fonction de considérations éthiques et politiques relatives à la répartition des revenus et à l’organisation de la société.

De plus, il n’est même pas démontré qu’à partir d’une situation initiale donnée le fonctionnement libre des marchés puisse mener le monde à une situation d’efficacité maximale.
Jamais des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. » [Maurice Allais, Discours à l’UNESCO du 10 avril 1999]


La théorie contre les faits

« C’est toujours le phénomène concret qui décide si une théorie doit être acceptée ou repoussée. Il n’y a pas, et il ne peut y avoir d’autre critère de la vérité d’une théorie que son accord plus ou moins parfait avec les phénomènes observés. Trop d’experts n’ont que trop tendance à ne pas tenir compte des faits qui viennent contredire leurs convictions.

À chaque époque, les conceptions minoritaires n’ont cessées d’être combattues et rejetées par la puissance tyrannique des “vérités établies”. De tout temps, un fanatisme dogmatique et intolérant n’a cessé de s’opposer aux progrès de la science et à la révision des postulats correspondant aux théories admises et qui venaient les invalider. […] En fait, le consentement universel, et a fortiori celui de la majorité, ne peuvent jamais être considérés comme des critères de la vérité. En dernière analyse, la condition essentielle du progrès, c’est une soumission entière aux enseignements de l’expérience, seule source réelle de notre connaissance. […]

Tôt ou tard, les faits finissent par l’emporter sur les théories qui les nient. La science est en perpétuel devenir. Elle finit toujours par balayer les “vérités établies”.
Depuis les années 1970, un credo s’est peu à peu imposé : la mondialisation est inévitable et souhaitable ; elle seule peut nous apporter la prospérité et l’emploi.
Bien que très largement majoritaire, cette doctrine n’a cependant cessé d’être contredite par le développement d’un chômage persistant qu’aucune politique n’a pu réduire, faute d’un diagnostic correct.

N’en doutons pas, comme toutes les théories fausses du passé, cette doctrine finira par être balayée par les faits, car les faits sont têtus. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Si utiles et si compétents que puissent être les experts, si élaborés que puissent être leurs modèles, tous ceux qui les consultent doivent rester extrêmement prudents. Tout organisme qui emploie une équipe pour l’établissement de modèles prévisionnels ou décisionnels serait sans doute avisé d’en employer une autre pour en faire la critique, et naturellement de recruter cette équipe parmi ceux qui ne partagent pas tout-à-fait les convictions de la première. » [Maurice Allais, Conférence du 23/10/1967, « L’Économique en tant que Science »]

« Si les taux de change ne correspondent pas à l’équilibre des balances commerciales, le libre-échange ne peut être que nuisible et fondamentalement désavantageux pour tous les pays participants. » [Maurice Allais, Combats pour l'Europe, 1994]


Une application erronée d’une théorie correcte : la théorie des coûts comparés.

« La justification de la politique de libre-échange mondialisé de l’OMC se fonde dans ses principes sur la théorie des coûts comparés présentée par Ricardo en 1817. [NDR : elle explique que, dans un contexte de libre-échange, chaque pays, s’il se spécialise dans la production pour laquelle il dispose de la productivité la plus forte ou la moins faible, comparativement à ses partenaires, accroîtra sa richesse nationale. Ricardo donne l’exemple de l’avantage comparatif du vin pour le Portugal, et des draps pour l’Angleterre]

Mais ce modèle repose sur une hypothèse essentielle, à savoir que la structure des coûts comparatifs reste invariable au cours du temps. En fait, il n’en est ainsi que dans le cas des ressources naturelles. [...] Par contre, dans le domaine industriel, aucun avantage comparatif ne saurait être considéré comme permanent. Chaque pays aspire légitimement à rendre ses industries plus efficaces, et il est souhaitable qu’il puisse y réussir. Il résulte de là que la diminution ou la disparition de certaines activités dans un pays développé en raison des avantages comparatifs d’aujourd’hui pourront se révéler demain fondamentalement désavantageuses dès lors que ces avantages comparatifs disparaitront et qu’il faudra rétablir ces activités. Tel est le cas, par exemple aujourd’hui en France de la sidérurgie, du textile, de la construction navale. [...]

Même lorsqu’il existe des avantages comparatifs de caractère permanent, il peut être tout à fait contre-indiqué de laisser s’établir les spécialisations qui seraient entrainées par une politique généralisée de libre-échange. Ainsi dans le cas de l’agriculture, le libre-échange n’aurait d’autre effet que de faire disparaitre presque totalement l’agriculture de l’Union européenne [ce qui serait] de nature à compromettre son indépendance en matière alimentaire. [...]

Bien plus encore, la théorie simpliste et naïve du commerce international sur laquelle s’appuient les grands gourous du libre-échange mondialiste néglige complètement les coûts externes et les coûts de transition, et elle ne tient aucun compte des coûts psychologiques, très supérieurs aux coûts monétaires, subis par tous ceux que la libéralisation des échanges condamne au chômage et à la détresse. [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


« La concurrence est naturellement malfaisante. Elle devient bienfaisante lorsqu’elle s’exerce dans le cadre juridique qui la plie aux exigences de l’optimum du rendement social. » [Maurice Allais, 1943]

« Je suis convaincu qu’aucune société ne peut longtemps survivre si trop d’injustices sont tolérées. » [Maurice Allais, La lutte contre les inégalités, le projet d’un impôt sur les grosses fortunes et la réforme de la fiscalité, 1979]


« Notre société parait évoluer lentement, mais sûrement, vers une organisation de plus en plus rigide, vers certaines formes de corporatisme, comme celles qui les ont enserrées dans leurs carcans pendant tant de siècles, et que Turgot dénonçait à la veille de la Révolution française. Elle parait se diriger presque inéluctablement vers des systèmes antidémocratiques, tout simplement parce que l’incompréhension de la nature véritable d’un ordre libéral et l’ignorance rendent son fonctionnement impossible, parce que la démocratie, telle qu’elle parait entendue aujourd’hui, mène au désordre, et que des millions d’hommes, pénétrés d’idéologies irréalisables, ne pourront survivre que dans le cadre de régimes centralisés et autoritaires.

Nous visons des temps à de nombreux points semblables à ceux qui ont précédé ou accompagné la décadence de l’empire romain. […] Aujourd’hui comme alors, des féodalités ploutocratiques, politicocratiques et technocratiques s’emparent de l’État. […] Aujourd’hui comme alors, nous assistons indifférents et sans la comprendre, à une transformation profonde de la société qui, si elle se poursuit, entrainera inévitablement la fin de notre civilisation.

Le pessimisme que peut suggérer cette analyse ne conduit pas nécessairement à l’inaction : l’avenir dépend encore, pour une large part, de ce que nous ferons. Mais ceux qui sont réellement attachés à une société libre seront-ils assez lucides, seront-ils capables d’apercevoir les sources réelles de nos maux et les moyens d’y remédier, consentiront-ils à l’effort nécessaire, d’une ampleur tout à fait exceptionnelle, qui pourrait, peut-être, sauvegarder les conditions d’une société libre ?

Le passé ne nous offre que trop d’exemples de sociétés qui se sont effondrées pour n’avoir su ni concevoir, ni réaliser les conditions de leur survie. » [Maurice Allais, conclusion de L’impôt sur le capital et la réforme monétaire, 1977]

Maurice Allais 1943

Sa dernière interview

Extraits de la dernière interview de Maurice Allais, réalisée l’été 2010 par Lise Bourdeau-Lepage et Leïla Kebir pour Géographie, économie, société, 2010/2

L’origine de mon engagement est sans conteste la crise de 1929. [...] Étant sorti major de ma promotion, j’ai pu faire en sorte qu’une bourse d’étude universitaire soit attribuée à plusieurs élèves pour que nous effectuions un voyage d’étude sur place, à l’été 1933. Le spectacle sur place était saisissant. On ne pourrait se l’imaginer aujourd’hui. La misère et la mendicité était présentes partout dans les rues, dans des proportions incroyables. Mais ce qui fut le plus étonnant était l’espèce de stupeur qui avait gagné les esprits, une sorte d’incompréhension face aux évènements qui touchait non seulement l’homme de la rue mais aussi les universitaires, car notre programme de voyage comprenait des rencontres dans de grandes universités : tous nos interlocuteurs semblaient incapables de formuler une réponse. Ma vocation est venue de ce besoin d’apporter une explication, pour éviter à l’avenir la répétition de tels évènements. [...] Pour moi, ce qui compte avant tout dans l’économie et la société, c’est l’homme. [...]

Beaucoup de gens se sont mépris sur mon compte. Je me revendique d’inspiration à la fois libérale et sociale. Mais de nombreux observateurs ne voient qu’un seul de ces aspects, selon ce qu’ils ont envie de regarder. Par ailleurs, j’ai constamment cherché à lutter contre les idéologies dominantes, et mes combats ont évolué en fonction de l’évolution parallèle de ces dogmes successifs. Ceci explique en grande partie les incompréhensions car on n’observe alors que des bribes incomplètes. [...]

{Question : Vous soutenez par exemple, à propos de l’impôt, qu’il faudrait ne pas imposer le revenu du travail mais par contre taxer complètement l’héritage. Pouvez-vous expliquer cette position qui peut paraître très iconoclaste pour bon nombre d’économistes ?}

J’ai qualifié l’impôt sur le revenu de système anti-économique et anti-social, car il est assis sur le travail physique ou intellectuel, sur l’effort, sur le courage. Il est l’expression d’une forme d’iniquité. Baser la fiscalité sur les activités créatrices de richesse est un non sens, tandis que ce que j’ai nommé les revenus « non gagnés » sont pour leur part trop protégés : à savoir par exemple l’appropriation privée des rentes foncières, lorsque la valeur ou le revenu des terrains augmente sans que cette hausse ne résulte d’un quelconque mérite de son propriétaire, mais de décisions de la collectivité ou d’un accroissement de la population. [...]

Je crains que l’économie et la société aient eu durant ces dernières décennies une tendance régulière à oublier le rôle central de la morale, qui est une forme de philosophie de la vie en collectivité. [...]

J’ai depuis toujours, et surtout depuis plus de vingt ans, suggéré des modifications en profondeur des systèmes financiers et bancaires, ainsi que des règles du commerce international. Il faut réformer les banques, réformer le crédit, réformer le mode de création de la monnaie, réformer la bourse et son fonctionnement aberrant, réformer l’OMC et le FMI, car tout se tient. Leur organisation actuelle est directement à l’origine non
seulement de la crise, mais des précédentes, et des suivantes si l’ont n’agit pas. Mes propositions existent et il aurait suffi de s’y référer. Mais ce qui manque est la volonté. Les gouvernements n’écoutent que les conseillers qui sont trop proches des milieux financiers ou économiques en place. On ne cherche pas à s’adresser à des experts plus indépendants. [...]

Les mathématiques ont pris au fil du temps une place excessive, particulièrement dans leurs applications financières. Il ne faut pas imaginer que ceci a toujours existé. [...] Mais par la suite, des économistes ont détourné ces apports, qui sont devenus des instruments pour imposer une analyse, mais sans chercher à la confronter à la réalité. De même, l’utilisation de certains modèles a causé des torts importants à Wall Street. Je rappelle d’ailleurs avoir de longue date demandé une révision de ces comportements, et par exemple l’interdiction des programmes informatiques automatiques qui sont utilisés par les financiers pour spéculer en Bourse.

Liens

Un lien vers des extraits de sa vision sur “la mondialisation, le chômage et les impératifs de l’humanisme

Vous trouverez ici une synthèse de son excellent livre de 1998 La crise mondiale d’aujourd’hui, que je vous recommande particulièrement, pour comprendre la crise actuelle (épuisé, donc à voir d’occasion).

Vous trouverez ici une synthèse de son livre L’Europe en crise

Ici une interview dans La Jaune et la Rouge

Ici un lien vers son article de 2005 : Les effets destructeurs de la Mondialisation

Épilogue

Je signale enfin que la fille de Maurice Allais travaille actuellement (avec difficultés) à la création d’une fondation afin de perpétuer le savoir du grand Maurice Allais. Elle se bat aussi pour préserver sa très riche bibliothèque de plus de 12 000 livres…

Plus d’informations sur sa page Wikipedia et sur l’Association AIRAMA qui lui est consacrée.

Maurice Allais

lundi, 15 octobre 2012

Henry Bauchau: un témoin s’en est allé...

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Robert STEUCKERS:

Henry Bauchau: un témoin s’en est allé...

 

La disparition récente d’Henry Bauchau, en ce mois de septembre 2012, atteste surtout, dans les circonstances présentes, de la disparition d’un des derniers témoins importants de la vie politique et intellectuelle de nos années 30 et du “non-conformisme” idéologique de Belgique francophone, un non-conformisme que l’on mettra en parallèle avec celui de ses homologues français, décrits par Jean-Louis Loubet-del Bayle ou par Paul Sérant.

 

Pour Henry Bauchau, et son ancien compagnon Raymond De Becker, comme pour bien d’autres acteurs contemporains issus du monde catholique belge, l’engagement des années 30 est un engagement qui revendique la survie d’abord, la consolidation et la victoire ensuite, d’une rigueur éthique (traditionnelle) qui ployait alors sous les coups des diverses idéologies modernes, libérales, socialistes ou totalitaires, qui toutes voulaient s’en débarrasser comme d’une “vieille lune”; cette rigueur éthique avait tendance à s’estomper sous les effets du doute induit par ce que d’aucuns nommaient “les pensées ou les idéologies du soupçon”, notamment Monseigneur Van Camp, ancien Recteur des Facultés Universitaires Saint Louis, un ecclésiastique philosophe et professeur jusqu’à la fin de sa vie. Cette exigence d’éthique, formulée par Bauchau et De Becker sur fond de crise des années 30, sera bien entendu vilipendée comme “fasciste”, ou au moins comme “fascisante”, par quelques terribles simplificateurs du journalisme écrit et télévisé actuel. Formuler de telles accusations revient à énoncer des tirades à bon marché, bien évidemment hors de tout contexte. Quel fut ce contexte? D’abord, la crise sociale de 1932 et la crise financière de 1934 (où des banques font faillite, plument ceux qui leur ont fait confiance et réclament ensuite l’aide de l’Etat...) amènent au pouvoir des cabinets mixtes, catholiques et socialistes. L’historien et journaliste flamand Rolf Falter, dans “België, een geschiedenis zonder land” (2012) montre bien que c’était là, dans le cadre belge d’alors, une nouveauté politique inédite, auparavant impensable car personne n’imaginait qu’aurait été possible, un jour, une alliance entre le pôle clérical, bien ancré dans la vie associative des paroisses, et le parti socialiste, athée et censé débarrasser le peuple de l’opium religieux.

 

Un bloc catholiques/socialistes?

 

Les premiers gouvernements catholiques/socialistes ont fait lever l’espoir, dans toute la génération née entre 1905 et 1920, de voir se constituer un bloc uni du peuple derrière un projet de société généreux, alliant éthique rigoureuse, sens du travail (et de l’ascèse) et justice sociale. Face à un tel bloc, les libéraux, posés comme l’incarnation politique des égoïsmes délétères de la bourgeoisie, allaient être définitivement marginalisés. Catholiques et socialistes venaient cependant d’horizons bien différents, de mondes spécifiques et bien cloisonnés: la foi des uns et le matérialisme doctrinaire des autres étaient alors comme l’eau et le feu, antagonistes et inconciliables. La génération de Bauchau et de De Becker, surtout la fraction de celle-ci qui suit l’itinéraire de l’Abbé Jacques Leclerq, va vouloir résoudre cette sorte de quadrature du cercle, oeuvrer pour que la soudure s’opère et amène les nouvelles et les futures générations vers une Cité harmonieuse, reflet dans l’en-deça de la Cité céleste d’augustinienne mémoire, où la vie politique serait entièrement déterminée par le bloc uni, appellé à devenir rapidement majoritaire, par la force des choses, par la loi des urnes, pour le rester toujours, ou du moins fort longtemps. Henri De Man, leader des socialistes et intellectuel de grande prestance, avait fustigé le matérialisme étroit des socialistes allemands et belges, d’une sociale-démocratie germanique qui avait abandonné, dès la première décennie du siècle, ses aspects ludiques, nietzschéo-révolutionnaires, néo-religieux, pour les abandonner d’abord aux marges de la “droite” sociologique ou du mouvement de jeunesse ou des cénacles d’artistes “Art Nouveau”, “Jugendstil”. De Man avait introduit dans le corpus doctrinal socialiste l’idée de dignité (Würde) de l’ouvrier (et du travail), avait réclamé une justice sociale axée sur une bonne prise en compte de la psychologie ouvrière et populaire. Les paramètres rigides du matérialisme marxiste s’étaient estompés dans la pensée de De Man: bon nombre de catholiques, dont Bauchau et De Becker, chercheront à s’engouffrer dans cette brèche, qui, à leurs yeux, rendait le socialisme fréquentable, et à servir un régime belge entièrement rénové par le nouveau binôme socialistes/catholiques. Sur le très long terme, ce régime “jeune et nouveau” reposerait sur ces deux piliers idéologiques, cette fois ravalés de fond en comble, et partageant des postulats idéologiques ou religieux non individualistes, en attendant peut-être la fusion en un parti unique, apte à effacer les tares de la partitocratie parlementaire, à l’époque fustigées dans toute l’Europe. Pour De Becker, la réponse aux dysfonctionnements du passé résidait en la promotion d’une éthique “communautaire”, inspirée par le réseau “Esprit” d’Emmanuel Mounier et par certaines traditions ouvrières, notamment proudhoniennes; c’est cette éthique-là qui devait structurer le nouvel envol socialo-catholique de la Belgique.

 

Les jeunes esprits recherchaient donc une philosophie, et surtout une éthique, qui aurait fusionné, d’une part, l’attitude morale irréprochable qu’une certaine pensée catholique, bien inspirée par Léon Bloy, prétendait, à tort ou à raison, être la sienne et, d’autre part, un socialisme sans corsets étouffants, ouvert à la notion immatérielle de dignité. Les “daensistes” démocrates-chrétiens et les résidus de la “Jeune Droite” de Carton de Wiart, qui avaient réclamé des mesures pragmatiques de justice sociale, auraient peut-être servi de passerelles voire de ciment. Toute l’action politique de Bauchau et de De Becker dans des revues comme “La Cité chrétienne” (du Chanoine Jacques Leclercq) ou “L’Esprit nouveau” (de De Becker lui-même) viseront à créer un “régime nouveau” qu’on ne saurait confondre avec ce que d’aucuns, plus tard, et voulant aussi oeuvrer à une régénération de la Cité, ont appelé l’“ordre nouveau”. Cette attitude explique la proximité du tandem Bauchau/De Becker avec les socialistes De Man, jouant son rôle de théoricien, et Spaak, représentant le nouvel espoir juvénile et populaire du POB (“Parti Ouvrier Belge”). Et elle explique aussi que le courant n’est jamais passé entre ce milieu, qui souhaitait asseoir la régénération de la Cité sur un bloc catholiques/socialistes, inspiré par des auteurs aussi divers que Bloy, Maritain, Maurras, Péguy, De Man, Mounier, etc., et les rexistes de Léon Degrelle, non pas parce que l’attitude morale des rexistes était jugée négative, mais parce que la naissance de leur parti empêchait l’envol d’un binôme catholiques/socialistes, appelé à devenir le bloc uni, soudé et organique du peuple tout entier. Selon les termes mêmes employés par De Becker: “un nouveau sentiment national sur base organique”.

 

Guerre civile espagnole et rexisme

 

Pour Léo Moulin, venu du laïcisme le plus caricatural d’Arlon, il fallait jeter les bases “d’une révolution spirituelle”, basée sur le regroupement national de toutes les forces démocratiques mais “en dehors des partis existants” (Moulin veut donc la création d’un nouveau parti dont les membres seraient issus des piliers catholiques et socialistes mais ne seraient plus les vieux briscards du parlement), en dehors des gouvernements dits “d’union nationale” (c’est-à-dire des trois principaux partis belges, y compris les libéraux) et sans se référer au modèle des “fronts populaires” (c’est-à-dire avec les marxistes dogmatiques, les communistes ou les bellicistes anti-fascistes). L’option choisie fin 1936 par Emmanuel Mounier de soutenir le front populaire français, puis son homologue espagnol jeté dans la guerre civile suite à l’alzamiento militaire, consacrera la rupture entre les personnalistes belges autour de De Becker et Bauchau et les personnalistes français, remorques lamentables des intrigues communistes et staliniennes. Les pôles personnalistes belges ont fait davantage preuve de lucidité et de caractère que leurs tristes homologues parisiens; dans “L’enfant rieur”, dernier ouvrage autobiographique de Bauchau (2011), ce dernier narre le désarroi qui règnait parmi les jeunes plumes de la “Cité chrétienne” et du groupe “Communauté” lorsque l’épiscopat prend fait et cause pour Franco, suite aux persécutions religieuses du “frente popular”. Contrairement à Mounier (ou, de manière moins retorse, à Bernanos), il ne sera pas question, pour les disciples du Chanoine Leclercq, de soutenir, de quelque façon que ce soit, les républicains espagnols.

 

La naissance du parti rexiste dès l’automne 1935 et sa victoire électorale de mai 1936, qui sera toutefois sans lendemain vu les ressacs ultérieurs, freinent provisoirement l’avènement de cette fusion entre catholiques/socialistes d’”esprit nouveau”, ardemment espérée par la nouvelle génération. Le bloc socialistes/catholiques ne parvient pas à se débarrasser des vieux exposants de la social-démocratie: De Man déçoit parce qu’il doit composer. Avec le départ des rexistes hors de la vieille “maison commune” des catholiques, ceux-ci sont déforcés et risquent de ne pas garder la majorité au sein du binôme... De Becker avait aussi entraîné dans son sillage quelques communistes originaux et “non dogmatiques” comme War Van Overstraeten (artiste-peintre qui réalisara un superbe portrait de Bauchau), qui considérait que l’anti-fascisme des “comités”, nés dans l’émigration socialiste et communiste allemande (autour de Willy Münzenberg) et suite à la guerre civile espagnole, était lardé de “discours creux”, qui, ajoutait le communiste-artiste flamand, faisaient le jeu des “puissances impérialistes” (France + Angleterre) et empêchaient les dialogues sereins entre les autres peuples (dont le peuple allemand d’Allemagne et non de l’émigration); De Becker entraîne également des anarchistes sympathiques comme le libertaire Ernestan (alias Ernest Tanrez), qui s’activait dans le réseau de la revue et des meetings du “Rouge et Noir”, dont on commence seulement à étudier l’histoire, pourtant emblématique des débats d’idées qui animaient Bruxelles à l’époque.

 

On le voit, l’effervescence des années de jeunesse de Bauchau est époustouflante: elle dépasse même la simple volonté de créer une “troisième voie” comme on a pu l’écrire par ailleurs; elle exprime plutôt la volonté d’unir ce qui existe déjà, en ordre dispersé dans les formations existantes, pour aboutir à une unité nationale, organique, spirituelle et non totalitaire. L’espoir d’une nouvelle union nationale autour de De Man, Spaak et Van Zeeland aurait pu, s’il s’était réalisé, créer une alternative au “vieux monde”, soustraite aux tentations totalitaires de gauche ou de droite et à toute influence libérale. Si l’espoir de fusionner catholiques et socialistes sincères dans une nouvelle Cité —où “croyants” et “incroyants” dialogueraient, où les catholiques intransigeants sur le plan éthique quitteraient les “ghettos catholiques” confis dans leurs bondieuseries et leurs pharisaïsmes— interdisait d’opter pour le rexisme degrellien, il n’interdisait cependant pas l’espoir, clairement formulé par De Becker, de ramener des rexistes, dont Pierre Daye (issu de la “Jeune Droite” d’Henry Carton de Wiart), dans le giron de la Cité nouvelle si ardemment espérée, justement parce que ces rexistes alliaient en eux l’âpre vigueur anti-bourgeoise de Bloy et la profondeur de Péguy, défenseur des “petites et honnêtes gens”. C’est cet espoir de ramener les rexistes égarés hors du bercail catholique qui explique les contacts gardés avec José Streel, idéologue rexiste, jusqu’en 1943. Streel, rappelons-le, était l’auteur de deux thèses universitaires: l’une sur Bergson, l’autre sur Péguy, deux penseurs fondamentaux pour dépasser effectivement ce monde vermoulu que la nouvelle Cité spiritualisée devait mettre définitivement au rencart.

 

bau9782871064756.jpgLes tâtonnements de cette génération “non-conformiste” des années 30 ont parfois débouché sur le rexisme, sur un socialisme pragmatique (celui d’Achille Van Acker après 1945), sur une sorte de catho-communisme à la belge (auquel adhérera le Chanoine Leclercq, appliquant avec une dizaine d’années de retard l’ouverture de Maritain et Mounier aux forces socialo-marxistes), sur une option belge, partagée par Bauchau, dans le cadre d’une Europe tombée, bon gré mal gré, sous la férule de l’Axe Rome/Berlin, etc. Après les espoirs d’unité, nous avons eu la dispersion... et le désespoir de ceux qui voulaient porter remède à la déchéance du royaume et de sa sphère politique. Logique: toute politicaillerie, même honnête, finit par déboucher dans le vaudeville, dans un “monde de lémuriens” (dixit Ernst Jünger). Mais c’est faire bien basse injure à ces merveilleux animaux malgaches que sont les lémuriens, en osant les comparer au personnel politique belge d’après-guerre (où émergeaient encore quelques nobles figures comme Pierre Harmel, lié d’amitié à Bauchau) pour ne pas parler du cortège de pitres, de médiocres et de veules qui se présenteront aux prochaines élections... Plutôt que le terme “lémurien”, prisé par Jünger, il aurait mieux valu user du vocable de “bandarlog”, forgé par Kipling dans son “Livre de la Jungle”.

 

De la défaite aux “Volontaires du Travail”

 

Après l’effondrement belge et français de mai-juin 1940, Bauchau voudra créer le “Service des Volontaires du Travail de Wallonie” et le maintenir dans l’option belge, “fidelles au Roy jusques à porter la besace”. Cette fidélité à Léopold III, dans l’adversité, dans la défaite, est l’indice que les hommes d’”esprit nouveau”, dont Bauchau, conservaient l’espoir de faire revivre la monarchie et l’entité belges, toutefois débarrassée de ses corruptions partisanes, dans le cadre territorial inaltéré qui avait été le sien depuis 1831, sans partition aucune du royaume et en respectant leurs serments d’officier (Léopold III avait déclaré après la défaite: “Demain nous nous mettrons au travail avec la ferme volonté de relever la patrie de ses ruines”). Animés par la volonté de concrétiser cette injonction royale, les “Volontaires du travail” (VT) portaient un uniforme belge et un béret de chasseur ardennais et avaient adopté les traditions festives, les veillées chantées, du scoutisme catholique belge, dont beaucoup étaient issus. Les VT accompliront des actions nécessaires dans le pays, des actions humbles, des opérations de déblaiement dans la zone fortifiée entre Namur et Louvain dont les ouvrages défensifs étaient devenus inutiles, des actions de secours aux sinistrés suite à l’explosion d’une usine chimique à Tessenderloo, suite aussi au violent bombardement américain du quartier de l’Avenue de la Couronne à Etterbeek (dont on perçoit encore les traces dans le tissu urbain). Le “Front du Travail” allemand ne tolèrait pourtant aucune “déviance” par rapport à ses propres options nationales-socialistes dans les parties de l’Europe occupée, surtout celles qui sont géographiquement si proches du Reich. Les autorités allemandes comptaient donc bien intervenir dans l’espace belge en dictant leur propre politique, marquée par les impératifs ingrats de la guerre. Par l’intermédiaire de l’officier rexiste Léon Closset, qui reçoit “carte blanche” des Allemands, l’institution fondée par Bauchau et Teddy d’Oultremont est très rapidement “absorbée” par le tandem germano-rexiste. Bauchau démissionne, rejoint les mouvements de résistance royalistes, tandis que De Becker, un peu plus tard, abandonne volontairement son poste de rédacteur en chef du “Soir” de Bruxelles, puis est aussitôt relégué dans un village bavarois, où il attendra la fin de la guerre, avec l’arrivée des troupes africaines de Leclerc. L’option “belge” a échoué (Bauchau: “si cela [= les VT] fut une erreur, ce fut une erreur généreuse”). La belle Cité éthique, tant espérée, n’est pas advenue: des intellectuels inégalés comme Leclercq ou Marcel de Corte tenteront d’organiser l’UDB catho-communisante puis d’en sortir pour jeter les bases du futur PSC. En dépit de son engagement dans la résistance, où il avait tout simplement rejoint les cadres de l’armée, de l’AS (“Armée Secrète”) de la région de Brumagne, Bauchau est convoqué par l’auditorat militaire qui, imperméable à toutes nuances, ose lui demander des comptes pour sa présence active au sein du directorat des “Volontaires”. Il n’est pas jugé mais, en bout de course, à la fin d’un parcours kafkaïen, il est rétrogradé —de lieutenant, il redevient sergent— car, apparemment, on ne veut pas garder des officiers trop farouchement léopoldistes. Dégoûté, Bauchau s’exile. Une nouvelle vie commence. C’est la “déchirure”.

 

Comme De Becker, croupissant en prison, comme Hergé, comme d’autres parmi les “Volontaires”, dont un juriste à cheval entre l’option Bauchau et l’option rexiste, dont curieusement aucune source ne parle, notre écrivain en devenir, notre ancien animateur de la “Cité chrétienne”, notre ancien maritainiste qui avait fait le pèlerinage à Meudon chez le couple Raïssa et Jacques Maritain, va abandonner l’aire intellectuelle catholique, littéralement “explosée” après la seconde guerre mondiale et vautrée depuis dans des compromissions et des tripotages sordides. Cela vaut pour la frange politique, totalement “lémurisée” (“bandarloguisée”!), comme pour la direction “théologienne”, cherchant absolument l’adéquation aux turpitudes des temps modernes, sous le fallacieux prétexte qu’il faut sans cesse procéder à des “aggiornamenti” ou, pour faire amerloque, à des “updatings”. L’éparpillement et les ruines qui résultaient de cette explosion interdisait à tous les rigoureux de revenir dans l’un ou l’autre de ces “aréopages”: d’où la déchristianisation post bellum de ceux qui avaient été de fougueux mousquetaires d’une foi sans conformismes ni conventions étouffantes.

 

De la “déchirure” à la thérapie jungienne

 

L’itinéraire du Bauchau progressivement auto-déchristianisé est difficile à cerner, exige une exégèse constante de son oeuvre poétique et romanesque à laquelle s’emploient Myriam Watthée-Delmotte à Louvain-la-Neuve et Anne Neuschäfer auprès des chaires de philologie romane à Aix-la-Chapelle. Le décryptage de cet itinéraire exige aussi de plonger dans les méandres, parfois fort complexes, de la psychanalyse jungienne des années 50 et 60. Les deux philologues analysent l’oeuvre sans escamoter le passé politique de l’auteur, sans quoi son rejet de la politique, de toute politique (à l’exception d’une sorte de retour bref et éphémère par le biais d’un certain maoïsme plus littéraire que militant) ne pourrait se comprendre: c’est la “déchirure”, qu’il partage assurément, mutatis mutandis, avec De Becker et Hergé, “meurtrissure” profonde et déstabilisante qu’ils chercheront tous trois à guérir via une certaine interprétation et une praxis psychanalytiques jungiennes, une “déchirure” qui fait démarrer l’oeuvre romanesque de Bauchau, d’abord timidement, dès la fin des années 40, sur un terreau suisse d’abord, où une figure comme Gonzague de Reynold, non épurée et non démonisée vu la neutralité helvétique pendant la seconde guerre mondiale, n’est pas sans liens intellectuels avec le duo De Becker/Bauchau et, surtout, évolue dans un milieu non hostile, mais dont la réceptivité, sous les coups de bélier du Zeitgeist, s’amoindrira sans cesse.

 

Bauchau va donc rompre, mais difficilement, avec son milieu d’origine, celui d’une certaine bourgeoisie catholique, où l’on forçait les garçons à refouler leurs aspirations artistiques ou poétiques: ce n’était pas “viril” d’écrire des poèmes ou de devenir “artiste-peintre”. Bauchau constate donc, en s’analysant, avec l’aide des thérapeutes jungiens, qu’il s’est joué une comédie, qu’il a été en somme un “autre que lui-même”. Ce n’était pas le cas d’Hergé; celui-ci a bel et bien été lui-même dans la confection de ses bandes dessinées —tâche quotidienne, modeste et harassante— mais sa première épouse, Germaine Kiekens, ne prenait pas le métier de son mari au sérieux car, d’après elle, il manquait de panache: selon Philippe Goddin, le biographe le plus autorisé d’Hergé, elle préférait les hommes d’action au verbe haut, tranché et gouailleur, comme l’Abbé Wallez ou même Léon Degrelle, à son “manneken” de dessinateur, timide et discret. Ce n’est effectivement pas “viril”, dans la logique viriliste du bourgeoisisme (catholique comme libéral), de dessiner des personnages pour enfants.

 

L’exil, volontaire chez Bauchau, se résume par une parole d’Oedipe dans son roman “Oedipe sur la route”: “N’importe où, hors de Thèbes!”, explique la philologue louvaniste Myriam Watthée-Delmotte. La Belgique était devenue pour Bauchau ce que Thèbes était pour Oedipe. Myriam Watthée-Delmotte: “Il choisit donc de s’éloigner de ses cadres d’origine, qui ne lui ont valu que le malheur”. Le monde transparent qu’il a voulu avant-guerre, tout de propreté, ou de “blancheur” dira l’analyste jungien d’Hergé, n’existe pas: il n’y a dans la Cité que traîtrises, lâchetés, veuleries, hypocrisies ... Les postures héroïsantes, mâles, altières, religieuses, servantes, de ceux qui veulent y remédier envers et contre tout, et qu’il a voulu prendre lui-même parce qu’il était dans l’air de son temps, ne se diffusent plus dans une société gangrénée: elles sont vues comme un scandale, comme ennemies, comme liées à un ennemi haï et vaincu, même si l’attitude ultime de Bauchau a été de combattre cet ennemi. En d’autres termes, l’idéal d’un engagement de type scout, au nom d’un christianisme modernisé par Maritain et Mounier (que l’ennemi voulait pourtant combattre et abolir), est considéré dans la “Thèbes nouvelle” comme consubstantiel à l’ennemi, parce que non réductible aux postures officielles, imposées par les vainqueurs américains et soviétiques: le scout pense clair et marche droit, ne mâche pas de gomme aromatisée, ne fume pas de clopes made in USA, ne s’engage pas pour satisfaire ses intérêts matériels, n’est pas animé par la rage stérile de vouloir, en tous lieux, faire “table rase” du passé. “Thèbes”, une fois débarrassée de ces scouts, entre dans le processus fatidique où l’idéal ne sera plus Tintin mais où le modèle à suivre et à imiter, sera celui de Séraphin Lampion. La vulgarité et la médiocrité triomphent dans une Cité qui ne veut plus d’élites mais des égaux à l’américaine ou à la soviétique (Séraphin Lampion: “La musique, c’est bien... mais moi, dans la journée, je préfère un bon demi!”).

 

L’“enfant rieur” souffre toujours...

 

Dans les années d’immédiat après-guerre, Bauchau se débat contre l’adversité, encaisse mal le fait d’être rétrogradé sergent mais reste fidèle à ses amis d’avant 1940, surtout à celui qui l’avait amené, un jour, à Paris, voir le couple Maritain: il accueille la mère de Raymond De Becker, embastillé et voué aux gémonies, d’abord condamné à mort puis à la détention perpétuelle. Il ne laisse pas à l’abandon la vieille maman désemparée, qui avait accueilli chez elle, à Louvain, les amis de son fils dans le cadre du groupe “Communauté” (dont le futur Félicien Marceau). En 1950, il écrit une lettre bien balancée et poignante à Jacques Maritain pour lui demander de signer une pétition en faveur de la libération anticipée de De Becker. La souffrance d’avoir été littéralement “lourdé” par la Belgique officielle ne s’est jamais éteinte; Jean Dubois, ancien des VT, le rappelle dans un entretien accordé à Myriam Watthée-Delmotte, en évoquant un courrier personnel adressé à Bauchau en 1999: “Cela me fait mal de savoir que tu souffres toujours. Il faut se débarrasser de ce sentiment”. Une fois de plus, c’est par l’écriture que Bauchau tentera d’en sortir, en publiant d’abord “Le boulevard périphérique” (2008), où l’officier SS Shadow (L’ombre) est une sorte de “Grand Inquisiteur” à la Dostoïevski, pour qui le mal est inhérent à la condition humaine et qui se sert sans vergogne des forces de ce mal pour arriver à ses fins. Mieux: c’est en combattant ce mal, même s’il est indéracinable, que l’on s’accomplit comme le héros Stéphane, mort noyé alors que Shadow le poursuivait lors d’une opération commando. Et Shadow de ricaner: “c’est moi qui en a fait un héros, tout en poursuivant mes fins, qui ne sont point naïves”. Dans “L’Enfant rieur” (2011), les personnages des années 30 reviennent à la surface: “Raymond” n’est autre que De Becker, l’“Abbé Leclair” est bien sûr l’Abbé Leclercq et “André Moly” n’est sans doute nul autre qu’André Molitor.

 

Dans la littérature d’exégèse de l’oeuvre de Bauchau, on n’explicite pas suffisamment la nature de la thérapie qu’il a suivie chez Blanche Reverchon-Jouve, puis chez Conrad Stein. Quelle était cette thérapie dans le cadre général de la psychanalyse en Suisse (avec la double influence de Freud et de Jung)? Quelle méthode (jungienne ou autre) a-t-on employé pour faire revenir Bauchau à ce qu’il était vraiment au fond de lui-même? Quelle est la pensée psychanalytique de ce Babinski qui fut le maître de Blanche la “Sybille”, fille d’un condisciple français de Freud quand celui-ci étudait auprès de Charcot? Le résultat est effectivement que Bauchau, guéri pour une part de ses tourments, va désormais vivre ce qu’il a toujours voulu vivre au fond de soi, comme De Becker va accepter, grâce à ses lectures de prison, son homosexualité qu’il avait été obligé d’occulter dans les milieux qu’il avait fréquentés. Hergé, pour sa part, va refouler le “blanc” qui le structurait, qui envahissait son intériorité, au point, justement, de ne pas voir ou de ne pas accepter comme faits de monde, les travers infects de l’espèce humaine. Hergé, toutefois, va extraire de lui-même le “diamant pur” (dixit De Becker) et chanter l’indéfectible amitié entre les hommes, entre son Tintin et le personnage de Tchang, au-delà des césures et déchirures qu’imposent les vicissitudes politiques qui ravagent la planète et empêchent les hommes d’être eux-mêmes, de se compléter via leurs affinités électives, comme Tchang l’artiste-sculpteur, disciple chinois de Rodin, avait communiqué à Hergé quelques brillantes techniques de dessin. Bauchau constatera que la trahison, inscrite dans l’âme noire de l’humanité, domine les événements et qu’il est donc impossible de vivre l’éthique pure, “blanche” (l’âme pure, symbolisée par le cheval blanc de Platon), car elle se heurtera toujours à cet esprit malin tissé de trahisons, de méchancetés, de calculs sordides, à l’axiomatique (libérale) des intérêts bassement personnels (axiomatique que l’on considère désormais comme la seule assise possible de la démocratie, comme la seule anti-éthique autorisée, sous peine de basculer dans le “politiquement incorrect” et de subir les foudres des inquisiteurs). Tous les discours sur l’éthique, comme il en a été tenus dans les milieux fréquentés par Bauchau et De Becker avant-guerre, sont condamnés à n’être plus que des discours de façade, tenus par des professeurs hypocrites, des discours entachés de tous les miasmes générés par les mésinterprétations des “droits de l’homme”: ceux qui refusent les abjections de l’âme noire n’ont alors plus qu’une chose à faire, se tourner vers les arts, la poésie, les belles-lettres. Et ne doivent donc plus suivre l’Abbé Leclercq et ses avatars politiciens ou les clercs “aggiornamentisés”, qui déçoivent Bauchau et d’autres de ses anciens adeptes en tentant d’articuler un catho-communisme maritaino-mouniériste dans les années 45-50 puis en montant un PSC social-chrétien, appelé à gouverner de préférence avec les socialistes, quitte à perdre, au fil du temps et au fur et à mesure que les églises se vidaient, son aile droite, qui rejoindra en bonne partie les libéraux, quitte à sacrifier à tous les pragmatismes de piètre envergure pour terminer dans la “plomberie” d’un De Haene ou dans le festivisme délirant d’une Joëlle Milquet.

 

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Après son analyse sous la houlette thérapeutique de Blanche Reverchon-Jouve, de 1947 à 1949, après ses débuts en poésie, après ses premiers romans, Bauchau se révèle, comme Ernst Jünger, à qui il adresse de temps en temps un salut amical, un mémorialiste de très bonne compagnie littéraire: ses “Journaux” sont captivants, on y glane, sereinement, calmement, une belle quantité de “vertus” qui renforcent l’âme. Personnellement, j’ai beaucoup apprécié “La Grande Muraille – Journal de la Déchirure (1960-1965)” et “Passage de la Bonne-Graine – Journal (1997-2001)”. Dans “La Grande Muraille”, en date du 18 novembre 1961, on peut lire: “Dans mon horizon jusqu’ici la mort, si elle existe, n’a pas eu tant de place. Pourquoi? Peut-être parce que j’ai vécu autrement la guerre, qui, à côté de l’horreur, a été pour moi une époque d’espérance. J’étais soutenu par une force vitale puissante qui ne me permettait pas de croire vraiment à ma mort. Après la guerre c’est le désir de réussite, puis l’échec, qui ont été mes sentiments dominants. L’échec m’a paru pire que la mort”. Résumé poignant, sans explications inutiles, du destin de Bauchau. Le 23 novembre de la même année, on lit cette phrase de Lao-Tseu: “Celui qui connaît sa clarté se voile en son obscur”. Puis celle de Heidegger: “Ce qui ne veut que luire n’éclaire pas”. Toute la démarche post bellum de Bauchau s’y trouve: l’attitude altière du chef des VT est toute de clarté mais ignore sa part obscure (celle aussi de Shadow et du dictateur tudesque que ce personnage du “Boulevard périphérique” servait), une part obscure que l’analyse révèlera. En 1962, Bauchau fait la découverte d’Alain (une découverte qu’il partageait d’ailleurs avec Henri Fenet, sans connaître ce dernier, bien évidemment). Pour notre ancien des VT, Alain est le philosophe qui ne démontre pas, qui ne réfute pas ses homologues, mais “qui les suit, les croit sur parole, apprend d’eux jusque dans leurs erreurs” (6 janvier 1962). Alain incite Bauchau à abandonner toute posture expliquante, toute volonté de démontrer quoi que ce soit. Bauchau: “Alain me montre que je me suis trop occupé de moi, et pas assez du monde” (27 février 1962). Et le même jour: “La définition que donne Alain du bourgeois, l’homme qui doit convaincre, et du prolétaire, l’homme qui produit et qui a la sagesse et les limites de l’outil, est saisissante”. Bauchau dit adieu à sa classe bourgeoise qui, dans le Namurois de ses origines, dans le Bruxelles qui deviendra la “tache grise” de son existence, avait opté pour des postures catholiques, non républicaines au sens français du terme, toutes postures étrangères au réel concret, tissées qu’elles étaient de dérives donquichottesques ou matamoresques. “Le goût de l’explication est le grand obstacle. Se rapprocher de la nudité, de l’image et du fait intérieur, lui laisser son abrupt” (4 mars 1962). “... de dix-huit à trente-quatre ans j’ai vécu ma vie comme une grande aventure. Je juge aujourd’hui qu’elle fut mal fondée et sans issue. N’empêche qu’il y avait une vérité dans ce flux qui me soulevait et que parfois je retrouve dans les moments de création. J’étais aveugle, ligoté par le milieu et mes propres erreurs, mais j’ai vécu une aventure dont je dois retrouver le sens obscur pour accomplir ce que je suis. Il y a une justice que je ne puis encore me rendre car ma vue est encore offusquée par mes erreurs et leurs suites” (9 mars 1962).

 

Le 11 septembre 2001 et Francis Fukuyama

 

On le voit, la lecture des journaux de Bauchau est le complément idéal, et, pour les Wallons ou les Belges francophones, “national”, de la lecture des “Strahlungen” et des volumes intitulés “Siebzig verweht” d’Ernst Jünger. Il y a d’ailleurs un parallèle évident dans la démarche des deux hommes, l’un plongé dans les polémiques politiques de la République de Weimar, l’autre dans celles de la Belgique des années 30; ensuite, tous deux opèrent un repli sur les profondeurs de l’âme ou de la spiritualité, sur fond d’exil, avec les voyages de l’Allemand (au Brésil, en Méditerranée...) et l’éloignement volontaire de “Thèbes” du Wallon, en Suisse puis à Paris. Dans “Passage de la Bonne-Graine”, Bauchau, à la date du 11 septembre 2001, écrit, à chaud, quelques instants après avoir appris les attentats contre les tours jumelles de Manhattan: “L’état du monde sera sans doute changé par cette catastrophe. La guerre ne sera plus faite par des soldats mais par n’importe qui, maniant sans vraie direction politique des armes toujours plus puissantes. Ce ne sera plus l’armée adverse mais les fragiles structures des grandes villes mal protégées qui deviendront les objectifs des terroristes ou résistants. Comme Ernst Jünger l’a prévu, nous risquons d’aller vers la guerre de tous contre tous, dans un nihilisme croissant que cherchent à nous masquer le progrès foudroyant mais immaîtrisé des techniques et la dictature de la Bourse sur des chimères de chiffres, de peurs et d’engouements”. Le 19 septembre 2001, Bauchau note: “... la tristesse des événements d’Amérique et des redoutables lendemains qui s’annoncent si les dirigeants américains s’engagent dans le cycle fatal des vengeances”.

 

Le 4 octobre 2001: “Dans le dangereux glissement du monde vers l’assouvissement des désirs, la consommation, la technique, je puis à ma petite place rester fidèle à la vie intérieure et à la vérité artisanale de l’art vécu comme un chemin”. Puis, le 19 octobre, ce message politique que nous pouvons faire nôtre et qui renoue paisiblement, subrepticement, avec l’engagement non-conformiste des années 30: “Dans le ‘Monde’ du 18, un article de Francis Fukijama (sic) qui a annoncé il y a quelque années dans un livre la fin de l’histoire. Il soutient malgré les événements la même thèse, pour lui ‘le progrès de l’humanité au cours des siècles va vers la modernité que caractérisent des institutions telles que la démocratie libérale et le capitalisme (...). Car au-delà de la démocratie libérale et des marchés, il n’existe rien d’autre vers quoi aspirer, évoluer, d’où la fin de l’histoire’. La confusion entre la démocratie et le capitalisme est pour lui totale, alors qu’on peut se demander s’ils ne sont pas en réalité opposés. Considérer qu’il n’y a pas d’autre espérance que l’économie libérale et le marché me semble précisément tuer l’espérance, ce qui caractérise bien notre monde. Ce dont nous avons besoin, c’est d’une ou plusieurs nouvelles espérances, mais pas de celles qu’on tente —en excitant nos désirs— de nous vendre”. En dépit de son constat, fin des années 40, de l’impossibilité d’articuler un quelconque espoir par une revendication tout à la fois politique et éthique, Bauchau, à 88 ans, garde finalement un certain espoir, l’espoir en un retour d’une éventuelle nouvelle vague éthique, en un retour du sacré (bien que non chrétien désormais), en l’avènement d’une synthèse alliant peut-être Confucius, Bouddha et Maître Eckhart, une synthèse portant sur ses ailes un projet politique non démocrato-capitaliste. En formulant furtivement cet espoir, Bauchau cesse-t-il de penser dans la “déchirure”, cesse-t-il, fût-ce pour un très bref instant, fût-ce pour l’instant fugace d’un souvenir, fût-ce pour quelques secondes de nostalgie, de placer ses efforts d’écrivains dans l’espace béant de la “déchirure” permanente, comme le lui avait demandé Blanche Reverchon-Jouve, et renoue-t-il ainsi, pendant quelques minuscules fragments de temps, avec l’idéal de la “réconciliation”, entre catholiques et socialistes, entre “croyants” et “incroyants”? Retour à la case départ? Indice d’un non reniement? Assurément, mais cette fois dans la quiétude.

 

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Programme du colloque  

 

Mission accomplie!

 

Reste à inciter un chacun à lire le dernier beau recueil de poèmes de Bauchau, “Tentatives de louange” (octobre 2011). La boucle est désormais bouclée: le dernier grand personnage de notre non-conformisme des années 30 vient de franchir la ligne entre notre en-deça et un hypothétique au-delà. Il a réussi sa vie, malgré ses hésitations, malgré ses doutes et, mieux, ceux-ci l’ont aidé à accéder à l’immortalité du poète et de l’écrivain: l’université le célèbre, on l’étudie, il s’est taillé, comme Jünger, une niche dans notre espace culturel. Mieux, il est resté admirablement fidèle à son ami maudit, à Raymond De Becker, qu’il n’a jamais laché, comme il le lui avait promis avant-guerre, lors d’une retraite à Tamié en Savoie. L’Université a organisé enfin un colloque, en avril dernier, sur les multiples facettes de ce personnage hors du commun que fut De Becker, ce “passeur”, cet homme qui s’ingéniait à créer des “passerelles” pour faire advenir une meilleure politique et sortir de la cacocratie, ce proscrit mort dans la solitude et le dénuement en 1969. Le Lieutenant Bauchau a accompli sa principale mission, celle d’être fidèle à son serment de Tamié. Nous ne le dégraderons donc pas, pour notre part, car, sur ce chapitre, court et modeste mais intense et poignant, il n’a pas démérité. Il a sûrement appris la tenue de ce colloque sur De Becker aux Facultés universitaires Saint-Louis à Bruxelles, il a donc su, dans les quatre ou cinq derniers mois de sa vie, que son ami avait été quelque peu “réhabilité”: Henry Bauchau peut dormir en paix et les deux amis, jadis en retraite à Tamié, ne seront pas oubliés car ils auront planté l’arbre de leur espoirs (éthico-politiques) et de leurs aspirations à la quiétude, à une certaine harmonie taoïste, dans le jardin de l’avenir, celui auquel les forces catamorphiques du présentisme t du “bougisme” (Taguieff) n’ont pas accès, ne veulent avoir accès, tant elles mettent l’accent sur les frénésies activistes ou acquisitives. Pour l’avenir, nous nous mettrons humblement à la remorque du Lieutenant Bauchau car la politicaillerie a aussi laissé en nous des traces d’amertume sinon des “déchirures”, certes bien moins tragiques et qui ont suscité plutôt notre verve caustique ou notre morgue hautaine que notre désespoir, zwanze bruxelloise et souvenir d’ “Alidor” obligent. Passons à l’écriture. Passons à la méditation, notamment par le biais de ses “journaux” comme nous le faisons depuis tant d’années en lisant et relisant ceux d’Ernst Jünger.

 

Robert STEUCKERS.

(Forest-Flotzenberg, septembre/octobre 2012).

 

Bibliographie:

 

Oeuvres d’Henry Bauchau:

 

-          Tentatives de louange, Actes Sud, Paris, 2011.

-          Le Boulevard périphérique, Actes Sud, Paris, 2008.

-          La Grande Muraille – Journal de la ‘Déchirure’ (1960-1965), Actes Sud, 2005.

-          Oedipe sur la route, Actes Sud, Paris, 1990.

-          Passage de la Bonne-Graine – Journal (1997-2001), Actes Sud, Paris, 2002.

-          Diotime et les lions, Actes Sud, Paris, 1991.

-          Antigone, Actes Sud, Paris, 1997.

-          Poésie, Actes Sud, Paris, 1986.

-          L’enfant rieur, Actes Sud, Paris, 2011.

 

Sur Henry Bauchau:

 

-          Myriam WATTHEE-DELMOTTE, Bauchau avant Bauchau – En amont de l’oeuvre littéraire, Academia/Bruylant, Louvain-la-Neuve, 2002.

-          Geneviève DUCHENNE, Vincent DUJARDIN, Myriam WATTHEE-DELMOTTE, Henry Bauchau dans la tourmente du XX° siècle – Configurations historiques et imaginaires, Le Cri, Bruxelles, 2008.

-          Marc QUAGHEBEUR (éd.), Les constellations impérieuses d’Henry Bauchau, Actes du Colloque de Cerisy (21-31 juillet 2001), AML-Editions/Editions Labor, Bruxelles, 2003. Dans ces actes lire surtout:

-          A) Anne NEUSCHÄFER, “De la ‘Cité chrétienne’ au ‘Journal d’un mobilisé’”, p. 47-77.

-          B) Marc QUAGHEBEUR, “Le tournant de la ‘Déchirure’”, pp. 86-141.

 

Sur le contexte politique:

 

-          Eva SCHANDEVYL, Tussen revolutie en conformisme – Het engagement en de netwerken van linkse intellectuelen in België – 1918-1956, ASP, Brussel, 2011.

 

 

 

mercredi, 10 octobre 2012

Il y a 50 ans disparaissait Georges Desbons

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Il y a 50 ans disparaissait Georges Desbons, fidèle ami de la Croatie

 

par Christophe Dolbeau

 

Le 18 novembre 1935 à Aix-en-Provence, c’est dans un palais de Justice rempli de policiers et bardé de chicanes et de barbelés que s’ouvre le procès des Oustachis. Zvonimir Pospišil, Mijo Kralj et Ivan Raić sont accusés d’avoir pris part, le 9 octobre 1934 à Marseille, à l’attentat qui à coûté la vie au roi Alexandre de Yougoslavie et au ministre français Louis Barthou. La Cour d’Assises est présidée par M. de la Broize et quant aux inculpés, ils sont tous trois défendus par un célèbre avocat parisien, Me Georges Desbons. « L’œil ardent, le visage énergique », ce dernier s’est fait connaître « par son cran et sa combativité de tous les instants » (1) ; ce sont des associations croates de Buenos Aires et de Pittsburgh qui l’ont prié d’assurer la défense des trois accusés, ce qu’il a accepté de faire sans demander d’honoraires.

 

Très au fait des affaires yougoslaves et bien décidé à ne pas laisser ce procès servir d’habillage à une basse opération de vengeance, Me Desbons se montre d’emblée extrêmement offensif. Dès le premier jour, il s’en prend à l’interprète de service qu’il qualifie d’ « œil de la police yougoslave », ce qui lui vaut une réprimande de la Cour. Le lendemain, 19 novembre, l’avocat récidive : il attaque à nouveau l’interprète « yougoslave » (un certain Ilić), conteste les expertises psychiatriques des prévenus et proteste contre les premières irrégularités des débats. Vers 14h30, c’est le clash. S’étant vu refuser la parole, Me Desbons frappe du poing sur la table et lance au président : « Alors, c’est cela la Justice républicaine… Vous n’aurez pas la tête de ces trois hommes. Ni vous, ni votre substitut, ni votre bourreau ! » (2). Outré, le procureur général bondit de son siège et requiert la radiation immédiate de l’avocat qui rétorque aussitôt : « Rien ne me fera courber l’échine ». La Cour se retire quelques instants puis elle annonce la radiation de Me Desbons qui s’exclame : « Je ne partirai pas, je ne céderai qu’à la force ». C’est dans un brouhaha général qu’un gendarme invite alors l’avocat à se retirer : « il sort », écrit l’ancien commissaire de police Georges Paulet, « le torse droit, tête rejetée en arrière, entouré jusqu’au vestiaire par des confrères et des journalistes ». « Ma radiation », dira-t-il, « est l’honneur de ma carrière » (3).

 

Les audiences sont suspendues sine die mais il y aura quelques mois plus tard (février 1936) un second procès à l’issue duquel les accusés, défendus par d’autres avocats, échapperont finalement à la peine de mort (4).

 

De Me Desbons, cet indomptable défenseur qui n’a pas hésité un seul instant à mettre en jeu sa carrière et son gagne-pain, le grand public ne sait, hélas, pas grand-chose et le 50e anniversaire de sa disparition nous offre aujourd’hui l’occasion idoine de jeter quelque lumière sur ce personnage peu banal.

 

Juriste et fin lettré

 

Petit-fils d’un diplomate et d’un député-maire, fils d’un magistrat, Georges Anatole Eugène Desbons appartient à une famille bourgeoise du Sud-Ouest de la France, bien connue dans le milieu de l’élevage équin. Il vient au monde le 5 novembre 1889 dans la petite cité de Maubourguet, au pied des Pyrénées, et reçoit, le jour de son baptême, la bénédiction particulière de Sa Sainteté Léon XIII ; d’abord élève des écoles locales, il poursuit ensuite sa scolarité à Pau puis au Collège Stanislas, un prestigieux établissement catholique de Paris. Fidèle à la tradition familiale, il étudie le droit et s’inscrit dès 1911 au barreau de Paris tout en poursuivant ses travaux en vue de l’obtention d’un doctorat ; sa thèse (1912), qualifiée de « tout à fait remarquable », portera sur « le capitalisme et l’agriculture ». Fidèle à ses racines rurales, il témoigne alors d’un intérêt sincère pour les problèmes de la campagne comme en attestent les ouvrages qu’il consacre au Crédit Agricole (1913), à La coopération rurale au Danemark (1916, préfacé par le ministre radical-socialiste Maurice Viollette) et à La crise agricole et le remède coopératif (1917). Très éclectique, le jeune homme ne se cantonne pas au seul domaine agricole : en 1913, il s’attaque aux abus des cours martiales qu’il dénonce dans « L’agonie de la justice militaire », un article que publie La Revue Socialiste ; il aborde aussi des questions plus techniques comme Le moratorium des loyers ou encore La responsabilité civile des communes, un essai qui paraît en 1915. Exempté d’obligations militaires pour raisons médicales, il se porte néanmoins volontaire en août 1914 et rejoint le front en qualité de simple soldat : il se battra jusqu’à ce que les rigueurs des tranchées viennent à bout de sa santé. Réformé sanitaire, c’est dans l’administration qu’il continue de servir : remarqué pour ses qualités intellectuelles et connu pour être politiquement proche du centre gauche, le ministre René Viviani le nomme, en effet, sous-préfet. Affecté à ce titre dans la ville d’Uzès, Georges Desbons y déploie une grande activité en faveur de la recherche des soldats portés disparus (dont son cousin Jean, futur député) ; il publie même, en 1917, un petit opuscule (Pour le droit par le droit) destiné à aider concrètement les familles dans leurs démarches.

 

Lorsque le conflit mondial s’achève, Me Desbons n’a pas encore 30 ans mais il jouit déjà d’un certain renom et c’est peut-être en raison de cette notoriété naissante que le gouvernement monténégrin, exilé en France, lui confie la défense de ses intérêts. Avocat de la famille royale, Georges Desbons est également le conseil de la Croix-Rouge monténégrine et de l’Office Monténégrin du Commerce Extérieur. Témoin privilégié des excès auxquels se livre l’armée serbe lors de l’annexion du Monténégro, le jeune avocat n’aura dès lors de cesse de dénoncer l’iniquité des traités et les ambitions brutales de Belgrade. En 1920, il préface le petit pamphlet que le Dr Pero Šoć consacre à L’allié martyr, le Monténégro, avant de s’atteler lui-même à la rédaction d’un très gros ouvrage sur L’Agonie du Royaume de Monténégro [à ce jour, ce livre est toujours inédit]. Cet intérêt pour les Balkans l’amène ensuite à se pencher sur le cas de la Macédoine et de la Bulgarie ; paru en 1930 et salué par tout un aréopage d’éminents universitaires, son ouvrage La Bulgarie après le Traité de Neuilly, préfacé par l’ancien ministre Justin Godart, lui vaudra d’être distingué par le roi Boris III. Trois ans plus tard, son livre sur La Hongrie après le Traité de Trianon suscite à nouveau les éloges d’un large éventail de personnalités (dont le général Brissaud-Desmaillet, le Comte Teleki et Joseph Balogh de la Nouvelle Revue de Hongrie) qui toutes saluent son indépendance et son anticonformisme. 

 

Si la politique étrangère est toujours au centre de ses préoccupations, Georges Desbons est également présent sur d’autres plans : dans le domaine purement juridique où il se signale par la publication de diverses études techniques (Le commerce des chiffons et la loi de 1905 sur les fraudes ; Note sur la loi de révision du prix de vente des fonds de commerce) et dans le domaine de la politique coloniale où ses interventions sont nombreuses. Membre de la Société de Géographie Commerciale de Paris (sous l’égide de laquelle il a signé en 1929 une aimable plaquette de 20 pages, dédiée à Une richesse nationale bulgare. La culture des roses et la fabrication de l’essence de roses) et avocat de plusieurs sociétés implantées outre-mer, Me Desbons se rend à plusieurs reprises au Maroc et en Tunisie (deux pays qui salueront son action en lui décernant de hautes décorations) ; cet engagement auprès du monde des affaires ne l’empêche pas, dans le même temps, de défendre les plus humbles comme en témoigne le soutien qu’il apporte aux socialistes tunisiens ou au député progressiste martiniquais Joseph Lagrosillière. Proposé en juin 1934 pour l’attribution de la Légion d’Honneur, en raison « des services incontestables qu’il a rendus à la France coloniale », il figure en bonne place, en octobre 1935, dans le comité de parrainage de l’exposition du tricentenaire du rattachement des Antilles et de la Guyane à la France où il côtoie sénateurs, députés et gouverneurs.

 

Intégrité et indépendance

 

Tel est, en 1935, le profil de l’avocat qui accepte d’assumer la difficile tâche de défendre les Oustachis. Notable du barreau, notoirement proche de la Gauche modérée et plutôt lié à l’establishment, rien ne laisse présager la détermination avec laquelle il va s’employer à faire valoir les droits de ses sulfureux clients. Sauf que Me Desbons a certes de l’ambition et de l’entregent mais qu’il n’est aucunement opportuniste et certainement pas courtisan ; juriste méticuleux, c’est aussi quelqu’un qui connaît parfaitement les arcanes de la politique yougoslave et c’est enfin un homme intègre qui n’entend pas se prêter à une mascarade judiciaire, fût-ce au nom de la raison d’État. Pour le pouvoir – et Pierre Laval le lui avouera plus tard – il faut donc impérativement l’écarter du procès où les effets conjugués de son talent et de sa probité pourraient avoir des conséquences fâcheuses : on se servira pour cela d’un prétexte futile. Interdit de prétoire dès le second jour du procès, Georges Desbons a tout de même réussi, grâce au scandale, à enrayer la machine : le bâtonnier Émile de Saint-Auban et ses confrères n’auront plus qu’à marcher dans ses traces et au final, les accusés échapperont à la guillotine, ce qui n’était pas gagné d’avance. Au-delà du cas des trois inculpés, Me Desbons et ses collègues ont aussi secoué quelques consciences. Le député Lionel de Tastes menace d’interpeller le gouvernement à la Chambre et l’influent quotidien L’Œuvre (12.02.1936) parle ouvertement du « pot aux roses de Marseille », tandis que la revue Esprit (celle d’Emmanuel Mounier) laisse, quant à elle, au jeune sociologue Georges Duveau le soin de tirer la saine conclusion suivante : « …Un Ante Pavelić n’est pas un terroriste professionnel et si les Oustachis en sont venus à une politique d’assassinat et de violences, c’est qu’hélas, la dictature serbe leur donnait les plus tristes exemples et les provoquait aux plus féroces ressentiments. L’affaire des Oustachis prouve ce double dégoût qu’éprouvent tous les hommes de cœur devant les tyrannies policières et gouvernementales » (N°42, mars 1936, p. 998).

 

Au lendemain de l’incident d’Aix-en-Provence, le purgatoire de Georges Desbons n’est pas bien long puisqu’il est officiellement réintégré le 31 mars 1936. L’avocat peut reprendre l’exercice de son métier mais de confortable, sa situation est désormais devenue instable. Certains dossiers lui sont retirés et il lui faut se refaire une clientèle. Après avoir longtemps joui d’un fort coefficient de sympathie, il doit maintenant faire face à de venimeuses critiques : on l’accuse ici d’être fasciste et là d’être communiste (car il est hostile à la révision du Traité de Versailles comme aux accords de Munich) quand on ne le soupçonne pas d’accointances avec la franc-maçonnerie ! Blessé par cette injuste vindicte, Georges Desbons n’en poursuit pas moins son chemin, en toute indépendance. Après la défaite de 1940 et l’avènement de l’ « État Français », il campe sur des positions patriotiques et républicaines. Ancien combattant, il éprouve un grand respect pour le maréchal Pétain mais ne cautionne ni la suspension de la République ni la politique de son ami de jeunesse, Pierre Laval. Sollicité pour occuper un poste de préfet, de maire d’un arrondissement de Paris ou de président d’une Cour d’Appel, il décline d’ailleurs toutes les offres et reste fidèle à sa stricte vocation de défenseur. Résidant en zone occupée, il est en contact avec le franciscain Corentin Cloarec, un prêtre résistant (5), par l’intermédiaire duquel il apporte une aide matérielle à de nombreux enfants et à quelques familles déshéritées. Sur le plan professionnel, il prête gracieusement assistance à de nombreux résistants et réfractaires au travail obligatoire, ce qui lui vaudra d’être perquisitionné à deux reprises par la Gestapo.

 

De l’ambassade à la prison

 

N’ayant jamais perdu le contact avec ses anciens clients oustachis, Me Desbons se félicite, bien sûr, de la proclamation de l’État Indépendant Croate où il ne tarde pas – malgré les fortes réticences de l’Italie et du Reich – à être invité par les nouvelles autorités. Lors de ces visites, l’avocat met à profit les relations privilégiées qu’il entretient avec Ante Pavelić, le général Perčević et Andrija Artuković pour intercéder en faveur de quelques Français évadés des camps allemands. Désireux de lui témoigner la reconnaissance du peuple croate, le Poglavnik lui confère, le 11 janvier 1943, l’Ordre de la Couronne du Roi Zvonimir, l’une des plus hautes décorations de l’État Croate. À son corps défendant, Georges Desbons se trouve au cœur d’un imbroglio diplomatique difficile à résoudre : la France n’a reconnu la Croatie indépendante que de facto et Ante Pavelić souhaiterait obtenir une reconnaissance pleine et entière avec la désignation de Me Desbons comme ambassadeur, ce que l’héritage de Marseille rend fort délicat. En effet, le Poglavnik fait toujours l’objet en France d’une condamnation à mort, tandis que le chef du gouvernement et ministre des Affaires Étrangères français n’est autre que Pierre Laval, le successeur en 1934 de Louis Barthou ; quant au maréchal Pétain, c’est lui qui représentait l’armée française aux obsèques du roi Alexandre ! (6) Dans l’attente d’un dénouement satisfaisant, un accord commercial a été conclu par les deux pays et une permanence diplomatique est assurée à Zagreb par le consul André Gaillard ; faute d’être officiellement nommé ambassadeur, c’est donc en qualité de simple « chef de la légation française » que G. Desbons effectuera, en mars 1944, un dernier séjour à Zagreb.

 

Sitôt Paris libérée (août 1944), les ennemis de Me Desbons reprennent l’offensive, invoquant cette fois ses trois voyages en Croatie pour l’accuser de « collaboration » et de trahison. Il s’agit là, bien entendu, d’une pure calomnie mais elle conduit bel et bien l’avocat à la prison de Fresnes où il va passer plusieurs mois. Sarcastiques, les journaux de l’époque cherchent plus ou moins à le ridiculiser, à l’instar de Paris-Presse (07.02.1945) qui titre : « L’ambassade burlesque de Georges Desbons, le plus extravagant diplomate de Vichy qui ne passa que douze jours en Croatie et termina sa carrière à Fresnes ». Depuis sa cellule, l’avocat, dont la santé se détériore, tempête, proteste et exige l’abandon des poursuites. Finalement, sa libération est ordonnée en mars 1945 mais sans que la procédure soit pour autant abandonnée, ce qui ne saurait le satisfaire. « Le parquet de la Cour de Justice », écrit Le Monde (23.03.1945), « a décidé de mettre en liberté provisoire Georges Desbons, avocat au barreau de Paris, qui entretint d’étroits rapports avec le gouvernement croate et son chef Ante Pavelić. L’inculpé, qui escomptait un non-lieu, a refusé de quitter sa prison où il fait la grève de la faim depuis quatre jours ». En dépit d’un éloquent mémoire en défense et malgré les témoignages favorables de gens aussi éminents que le futur président du Conseil Antoine Pinay, les démêlées judiciaires de Georges Desbons s’éterniseront jusqu’en 1947.

 

Semper fidelis

 

Au sortir de toutes ces épreuves – dont la seule et unique cause, il faut bien le dire, est le procès de 1935 – Me Desbons ne renie rien de son engagement aux côtés des nationalistes croates. « La Croatie a droit à la Justice. Ce droit à la Justice implique la Liberté », réaffirme-t-il en 1954 dans les colonnes de l’almanach du Hrvatski Domobran. Toujours prêt à en découdre avec les diffamateurs, il demeure par ailleurs en contact épistolaire avec le Dr Ante Pavelić qu’il entretient régulièrement de diverses indiscrétions politiques que lui confient des relations bien informées et qu’il tient aussi au courant de ce qui agite la communauté croate de Paris. Approché par toutes sortes de faux amis et d’agents provocateurs qui cherchent à le compromettre, Me Desbons se tient prudemment à l’écart des intrigues, tout en exerçant discrètement son influence sur ceux qu’il appelle « les éléments purs de l’émigration ». « De chez moi », écrit-il au Père Branko Marić (7), « je suis resté l’ami fidèle de votre patrie. Dans la mesure de mes forces et de mes informations vraies, je démolis les échafaudages malhonnêtes, j’évite les erreurs qui, parfois, peuvent avoir de graves conséquences… Autrement dit, je reste identique à moi-même ». L’incontestable aura dont il jouit parmi les jeunes émigrés lui permet de contrecarrer efficacement les manœuvres ambiguës du Père Teodor Dragun, le recteur de la Mission Catholique Croate, et de son bras droit, le journaliste et poète Mato Vučetić (1892-1981), ancien attaché de presse de l’ambassade yougoslave. Hostiles au régime communiste (Vučetić est même le représentant officiel à Paris de Vlatko Maček), ces deux hommes sont également des adversaires déclarés du nationalisme croate ; associés à l’ancien député Roko Mišetić et à quelques Serbes et Slovènes, ils tentent (non sans mal) de mobiliser les expatriés croates derrière la dangereuse chimère d’une troisième Yougoslavie « démocratique ».

 

Désireux de laisser à la postérité son témoignage sur l’affaire de Marseille et de faire enfin connaître à tous ce qu’il aurait dit à Aix-en-Provence si on l’avait laissé plaider, Georges Desbons commence à réunir les pièces essentielles d’un futur gros ouvrage consacré à la question croate. Il n’en verra, hélas, pas la parution (8) car la maladie qui le mine finit par avoir raison de ses forces. Hospitalisé le 16 septembre 1962 à l’Hôpital Saint-Joseph de Paris, il y succombe le mercredi 26 septembre, aux alentours de 22h 30, après avoir reçu les derniers sacrements. Accouru quelques jours plus tôt, c’est son vieil ami, le Père Branko Marić, qui célèbrera la messe de Requiem dans la chapelle de l’hôpital. Arborant sur la poitrine, comme dans un dernier geste de défi, l’étoile de l’Ordre de la Couronne du Roi Zvonimir, le défunt sera inhumé le 1er octobre au cimetière de Saint-Cloud, en présence de deux membres de l’Académie Française et d’une délégation de jeunes patriotes croates. La Croatie venait de perdre un ami aussi fidèle que précieux.

 

 Christophe Dolbeau

 

Notes

 

(1) Georges Paulet, L’assassinat d’Alexandre 1er, Lyon, Éditions du Coq, 1949, 98.

 

(2) Ibid, 113.

 

(3) Ibid, 114.

 

(4) Seuls les accusés en fuite, Pavelić, Kvaternik et Perčević, sont condamnés à mort par contumace ; en cas d’arrestation, ils auraient eu droit à un autre procès.

 

(5) Il sera assassiné le 28 juin 1944 par des agents de l’Abwehr.

 

(6) À propos de Philippe Pétain : dans la nuit du 19 au 20 février 1973, un commando sortira clandestinement le cercueil du maréchal Pétain du cimetière de l’île d’Yeu, dans le but de le transférer à Verdun où le maréchal avait exprimé le souhait de reposer au milieu de ses soldats. Dans ce commando, qui sera arrêté trois jours après par la police, figurait le Croate Marin Špika, membre du Mouvement de Libération Croate.

 

(7) Lettre du 14 janvier 1960.

 

(8) À ce jour, seuls quelques extraits ont été publiés…

lundi, 24 septembre 2012

Henry Bauchau a pris la route des rêves

L’écrivain belge Henry Bauchau a pris la route des rêves

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau
 tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

L’auteur d’«Œdipe sur la route» et de «L’Enfant bleu» s’est éteint à 99 ans. Il laisse une œuvre marquée par les mythes, l’humain et la psychanalyse

On s’apprêtait à fêter son centenaire et le voilà qui s’en va, à 99 ans, dans son sommeil, quelques mois avant son anniversaire. Henry Bauchau était né le 22 janvier 1913 à Malines. Il s’est éteint dans la nuit de jeudi à vendredi à Paris. Il a vécu en Belgique, en Suisse et en France. «Henry Bauchau a écrit jusqu’à son dernier jour. Il voulait, disait-il «mourir la plume à la main», note Myriam Watthee-Delmotte de l’Université de Louvain, l’une des meilleures spécialistes de Bauchau*.

Il laisse derrière lui une œuvre lumineuse, imperméable aux modes, marquée par son histoire personnelle, par les guerres, par la psychanalyse, impressionnée par la beauté du monde, traversée par les grands textes classiques. Les écrits d’Henry Bauchau portent l’écho des grands mythes, mais ne s’éloignent pas de l’homme d’aujourd’hui.

La reconnaissance sera tardive même si son premier recueil de poèmes, Géologie, publié en 1958 (réédité en 2009 par Gallimard) obtient le Prix Max Jacob. Il faudra attendre 2008 et un septième roman pour qu’il reçoive, en France, le Prix du livre Inter. En Belgique, il patiente jusqu’en 1991, lorsqu’il entre à l’Académie royale de langue et de littérature françaises – l’équivalent de l’Académie française. En 1997, son Antigone (Actes Sud), un succès de librairie, lui vaudra le Prix Rossel, le «Goncourt belge».

Toute sa vie, Henry Bauchau a travaillé. Comme avocat dans les années 1930, il a fait des études de droit en Belgique, tout en militant au sein de la jeunesse catholique. Après la guerre – il sera résistant – il s’installe à Paris. Il entreprend deux psychanalyses. La première, qui dure jusqu’en 1950 sous l’égide de la femme du poète Pierre Jean Jouve, Blanche Reverchon, qu’il dénomme la «Sybille», lui indique la voie de l’écriture. La seconde, de 1965 à 1968, auprès de Conrad Stein, fera de lui un thérapeute.

Mais il faut vivre. La poésie, la peinture et le dessin, qu’il pratique également, ne nourrissent pas. En 1951, il déménage en Suisse et ouvre à Gstaad l’Institut Montesano qui accueille notamment de riches et jeunes Américaines. Il enseigne la littérature et l’histoire de l’art. Il tisse des liens. Rencontre Philippe Jaccottet. Publie des livres aux Editions de l’Aire (La Pierre sans chagrin. Poèmes du Thoronet en 1966 ou Célébration en 1972), chez Pierre Castella (La Dogana. Poèmes vénitiens avec la photographe Henriette Grindat, 1967); il écrit dans la revue Ecriture.

En 1973, l’Institut Montesano ferme. C’est le retour à Paris et le début de ses activités de thérapeute. Il utilise l’expression artistique dans les cures qu’il mène auprès d’adolescents en rupture, puis comme psychanalyste. Il rencontre Lionel Douillet, «l’enfant bleu», un jeune aliéné avec lequel il expérimente les vertus de l’art comme thérapie. Il l’encourage à dessiner, le suit pendant une quinzaine d’années et le mène vers une forme d’épanouissement.

Les romans d’Henry Bauchau portent, tout au long de sa vie, la trace de ses interrogations existentielles. La Déchirure (Gallimard, 1966) rejoue ses relations avec sa mère; Le Régiment noir (1972) explore la vie rêvée de son père. Il puise dans les mythes tout en s’ouvrant sur la poésie, le monde et le trajet personnel de chacun: Œdipe sur la route (1990 chez Actes Sud qui l’édite depuis lors) ouvre un cycle œdipien dont fait partie son Antigone de 1997.

Les années 2000 seront marquées par ses souvenirs de jeunesse et ses expériences thérapeutiques: L’Enfant bleu (2004) retrace les relations d’une thérapeute et de son jeune patient; Le Boulevard périphérique (2008) est un trajet vers la mort où surgissent des souvenirs de guerre; Déluge (2010) raconte une libération par la peinture sur fond d’Arche de Noé; L’Enfant rieur (2011) est le récit d’une jeunesse rêvée. «Je pense, disait-il au site Remue.net à propos de ses textes, que c’est le fait de mon attention à la vie courante et en même temps la préoccupation spirituelle qui fait la qualité de mon œuvre, si jamais elle en a.»

* L’hommage de Myriam Watthee-Delmotte et une foule d’informations sur l’écrivain: bauchau.flter.uclac.be

La Lumière Antigone, livret d’Henry Bauchau, musique de Pierre Bartholomée, est donné ce week-end au Temple allemand à La Chaux-de-Fonds. Rens. www.abc-culture.ch

jeudi, 20 septembre 2012

Nicholas Goodrick-Clarke, R.I.P.

Nicholas Goodrick-Clarke, R.I.P.

By John Morgan

Ex: http://www.counter-currents.com/

On Wednesday, August 29, 2012, the British scholar of esotericism, Nicholas Goodrick-Clarke, passed away from cancer at the age of 59. Professor Goodrick-Clarke must have dealt with his illness quite well, as he was at work until only a few hours before his death, according to the testimony of some of his students. This is yet another great blow to our community, following hard on the heels of the loss of two other Englishmen, Jonathan Bowden and Anthony Hancock, earlier this year.

I must admit that I don’t know a great deal about Professor Goodrick-Clarke’s life. My personal contact with him was limited to a few e-mails, although I can attest that he was always a well-wisher to my company, Arktos, and its predecessor, Integral Tradition Publishing. He was always cordial and offered words of support to my own endeavors in the realm of the esoteric. According to his obituaries, he left behind a wife, Clare, who is a Professor of History at the University of Exeter, where he himself taught.

In 2005, Goodrick-Clarke was one of the founding members of the European Society for the Study of Western Esotericism (ESSWE) (http://www.esswe.org/ [2]), an organization which promotes the academic study of Western esotericism and supervises the studies of a number of graduate-level students at several European universities. He was also Professor of Esotericism at the University of Exeter and the Director of the Exeter Centre for the Study of Esotericism, which is the British branch of the ESSWE. I have known a number of students, some of whom travel in our circles, who went through this program and who have spoken highly of it. As such, Professor Goodrick-Clarke was actively engaged in the preservation and promotion of the traditions which form the eternal core of our civilization.

In addition to the program he founded and the students he taught, however, Goodrick-Clarke’s greatest legacy will be the books that he wrote. Most prominent among these is his 1985 study, The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology [3],[1] which remains the definitive work on the subject in any language (it has even been translated into German).

As anyone who has studied National Socialism or the Third Reich in detail will know, tales of secret occult conspiracies at the highest levels of the NSDAP have abounded since at least the 1930s. Prominent among these works are Louis Pauwels and Jacques Bergier’s Morning of the Magicians and Trevor Ravenscroft’s The Spear of Destiny, the former of which claimed that National Socialism was little more than “Guénonism plus tanks”[2] run by occultists of the Vril and Thule societies who convinced the NS leadership that they needed to establish contact with a lost theocratic  civilization in the interior of the Earth, while the latter claimed that the entire history of the Third Reich was nothing more than a prolonged effort by Hitler, inspired by a mushroom trip he had had in his youth in Austria, to obtain the Spear of Longinus that pierced the side of Christ at the crucifixion.

Unfortunately, the vast majority of literature on the relationship between National Socialism and mysticism, both before and since Goodrick-Clarke’s study, has relied upon these and similar sources for their inspiration (or upon even more fantastic claims, such as that Hitler was working with Aleister Crowley).

Occult Roots is unique in that it is one of the few books to be written on this topic in a serious way, and not for the purposes of sensationalism. It is also unique in that it relies largely on primary sources from the German – one is loath to find a single German work referenced in many of the popular books on Nazi occultism. Indeed, entire shelves of other works on the subject could be thrown into the garbage in favor of this book.

Goodrick-Clarke traces the origins and development of Ariosophy, a type of theosophical mysticism infused with myths about the history and destiny of Aryan humanity and a great deal of “Orientalist” and Nordicist philosophies, in late 19th-century Germany. He follows its path through the anti-Semitic Germanenorden and other groups, to the origins of the Thule Society in Munich, which in turn sponsored the founding of the German Workers’ Party in 1919, which was transformed the following year into the National Socialist German Workers’ Party by Hitler.

Goodrick-Clarke’s ultimate conclusion is that, while there was indeed an organizational connection between the NSDAP and Ariosophy in its earliest days, and that some members of the NS leadership evinced interest in Ariosophy at some point in their lives, that “Ariosophy is a symptom rather than an influence in the way that it anticipated Nazism.”[3] The fact is that there is no evidence to support the claim that there was a hidden, mystical agenda behind the politics and strategies of the Third Reich.

As such, Goodrick-Clarke’s book provided a much-needed corrective to the oceans of ink that have been spilled attempting to link the Third Reich to wacky ideas, further consigning what is useful in its legacy to the gutter in the popular imagination. Regrettably, however, works which continue to foster this notion will doubtless continue to be written and published for many years to come, and will sometimes be cited with approval even by those who claim to be on our side.

Goodrick-Clarke later expanded his studies into the realm of post-war Nazi occultism, the first of which, Hitler’s Priestess: Savitri Devi, the Hindu-Aryan Myth, and Neo-Nazism [4][4] was published in 1998. This book holds a special place in my heart, as I came across the book by chance in a bookstore shortly after it was published, and it was the first time that I had come across such figures and movements as Savitri Devi, Julius Evola, and the Traditionalists; the connection between Indian politics and culture and Aryan thought; and the European New Right.

At the time, the book hit me like a bolt of lightning. I had no idea that over in Europe (little was happening in America at that time) an entire intellectual tradition had arisen to defend and propagate the ideas of the “true Right”! So the book allowed me to discover ideas which have come to play a central role in my life ever since, and for that, I must always be grateful to Goodrick-Clarke. I know from others that the book had a similar impact upon them at the time – one must remember that 1998 was in the days before one could learn very much about these subjects on the Internet, as is the case today.

In retrospect, I can see that the book has many flaws, as Goodrick-Clarke based his biography largely on Savitri Devi’s taped autobiographical interviews, and his depiction of the other movements and figures he discusses is shallow, to say the least. Still, until someone willing to delve deeper writes a more definitive biography of Savitri Devi, it is the only resource available, and it remains a good introduction to her life and work.

The next book Goodrick-Clarke wrote on this theme was Black Sun: Aryan Cults, Esoteric Nazism, and the Politics of Identity [5],[5] published in 2002. This is by far the least satisfactory of the three books. Goodrick-Clarke abandoned the scholarly rigor he had employed in Occult Roots, instead compiling a compendium of information derived almost entirely from secondary sources and the Internet. The chapter on Savitri Devi is little more than a summary of Hitler’s Priestess. And, inevitably I suppose given the time it was published, we are dutifully warned that such dangerous ideas could lead to another 9/11, and he continually attempts to link his subjects to terrorism, Islamic and otherwise.

And yet one cannot escape the feeling that Goodrick-Clarke vastly overestimates the power and influence that the groups he discusses actually had or have. As a review of the book at the Vanguard News Network put it at the time, “Want to be a threat to Western civilization? All you need is a post office box and a copy machine. Goodrick-Clarke will do the rest.”[6] I suppose Black Sun could be useful for someone who has never heard of such figures as Miguel  Serrano, James Mason, David Myatt, James Madole or Wilhelm Landig before to serve as an introduction, but as an attempt at a comprehensive study, even from a hostile perspective, it is a dismal failure. (A book which came closer to fulfilling that need, albeit with its own problems and deficiencies, is Kevin Coogan’s Dreamer of the Day[7] about Francis Parker Yockey and his milieu, and for which Goodrick-Clarke provided an Introduction).

Goodrick-Clarke also authored, edited, and translated a few other books unrelated to Nazi esotericism. The most important, in my view, is his 2008 book The Western Esoteric Traditions: A Historical Introduction [6],[8] which is a solid, if far from comprehensive, introduction to some of the most important figures in the tradition for newcomers. The others include a selection from the writings of the German alchemist Paracelsus [7]; another from H. P. Blavatsky [8], founder of the Theosophical Society, as well as a volume of selections from G. R. S. Mead [9], another Theosophist; and translations of books about the Swedish mystic Emanuel Swedenborg [10].

The question which often arises in our circles regarding Goodrick-Clarke is whether or not he was “one of us.” Certainly, to judge by his writings, he comes across as yet another of those career academics, such as Roger Griffin or Stanley Payne, who build their careers on writing book after book about “fascinating fascism” (to borrow Susan Sontag’s term) and yet claim to feel nothing but the obligatory liberal revulsion for it. Since I never had the good fortune of knowing Goodrick-Clarke in person, I cannot say with any certainty, but there do seem to be interesting hints in his Conclusion to Black Sun, that he was more than just an academic critic of the far Right.

The concluding chapter of Black Sun seems to be the author’s attempt to provide at least a minimum of balance against his exaggerated efforts to link the Right with absolute evil in the rest of the book.  Goodrick-Clarke attributes the rise of White racialism to the introduction of racial preferences in Western societies. He writes:

The discriminatory effects of these policies on whites, both potential and actual, has understandably caused some resentment among whites. . . . But liberal support for affirmative action has gone further in producing a climate of white guilt. The causes of black crime, drug involvement and welfare dependence are often sought in white racism. Black on white crime in terms of murder, rape and robbery with violence is many times greater than white on black crime. However, the national media typically highlight instances of white racial attacks, while many reports of black crime are ‘colorblind’ and mostly confined to the local press. The massive overrepresentation of blacks in the penal system, evident testimony of black crime, violence and underperformance are largely ignored by the liberal media, or otherwise invoked as further evidence of black disadvantage and white racism.[9]

Later in the same chapter, he also writes:

The question of whether the United States can actually assimilate such immigrants is begged by policies of bilingualism and multiculturalism in the education system. Assimilation is further undermined by the expansion of affirmative action, originally intended to benefit blacks as a result of civil rights legislation, into a government-mandated discrimination against white Americans (but also blacks in practice) in favor of Third World immigrants. The ascendancy of international human rights over notions of national sovereignty has also led to a progressive erosion of citizenship, whereby illegal aliens are granted welfare, education, government subsidies and even voting rights. These issues are a matter of deep concern to conservative groups in the United States, who see no particular reason to transform the demography of the United States, given its wholly unforeseeable consequences. The conversion of the United States into a ‘colony of the world’ or a ‘universal nation’ is without precedent in the modern world. Similar forces are at work in Europe, especially Britain, where multiculturalism is promoted by left-wing and liberal political agendas in the quest for the electoral support of the growing ethnic minorities. A recent report on the future of multi-ethnic Britain has even questioned whether the national epithet ‘British’ carries a racist taint.[10]

Such comments would certainly not be out-of-place at Counter-Currents or other “New Right” publications, but are surprising coming from the keyboard of an esteemed university professor. Even more shocking, in the passages quoted above, Goodrick-Clarke cites Jared Taylor (specifically, his book Paved with Good Intentions) and Peter Brimelow (Alien Nation) for support in his footnotes – sources which would surely mean professional death if quoted with approval in the work of less established academics.

He concludes the chapter as follows:

We cannot know what the future holds for Western multicultural societies, but the experiment did not fare well in Austria-Hungary, the Soviet Union and Yugoslavia. The multiracial challenges in liberal Western states are much greater, and it is evident that affirmative action and multiculturalism are even leading to a more diffuse hostility toward liberalism. From the retrospective viewpoint of a potential authoritarian future in 2020 or 2030, these Aryan cults and esoteric Nazism may be documented as early symptoms of major divisive changes in our present-day Western democracies.[11]

Goodrick-Clarke is careful to couch his prophecy of a catastrophic failure of liberal democracy only as a possibility, and not necessarily a positive one, but nevertheless, the fact that he even discusses the possibility is greatly at variance with the usual platitudes from the academy about the absolute need for ever-more diversity and multiculturalism in the Western nations.

Whether or not Goodrick-Clarke actually held more sympathy for the milieu he studied than he let on has now become irrelevant, since the Conclusion to Black Sun represents the totality of what he had to say on the matter publicly.  I would hazard to guess that, while he may have seen value in efforts to protect the cultures of the West from foreign influence, he probably had little regard for its more ridiculous and extreme elements, particularly those who make the world of Right-wing politics a playground for their own private obsessions and fantasies.  And, in that, I find little with which to disagree. Efforts to wed the philosophy and politics of the true Right to tales of Nazi UFOs and sinister pseudo-occult orders do more harm than good to those seriously engaged in the dialogues and struggles of our time.

Clearly, Goodrick-Clarke recognized that genuine esotericism was valuable, since he spent his life studying it, but at the same time, he must have made a distinction between genuine esotericism and those who ape its forms in the pursuit of their goals in some dark role-playing game, acted out using real people and very real problems. But genuine esotericism does exist, and it can be a force for good. The Traditionalists have taught us that.

Goodrick-Clarke’s understanding of the real issues at stake was further reinforced for me in our correspondence. When he first contacted me regarding some of Integral Tradition Publishing’s books in 2009, I felt compelled to tell him about how his Occult Roots and Hitler’s Priestess had led me to eventually become involved with ITP. He responded by writing, “Thank you for your appreciative comments regarding the inspiration of my own books.  They were written to give a voice to the excluded discourse of liberal modernity and its neglect of order and truth.”[12] This confirms for me that he was certainly no uncritical citizen of the world that has been produced by liberalism. Although regrettably, I never attempted to get him to discuss his views on this any further, fearing that he might think I was attempting to trick him into saying or writing something that might later come back to haunt him. In retrospect, perhaps I should not have been so cautious.

That said, Professor Goodrick-Clarke is not destined to be remembered as a political figure. He will be remembered for his scholarship – for setting the record straight regarding the relationship between the occult and National Socialism, and also for his efforts to preserve the genuine esoteric strivings of our people which have been sidelined by science, technology, and modernity. For that we should remain forever grateful.

Notes

1. Nicholas Goodrick-Clarke, The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology (New York: New York University Press, 1992).

2. Pauwels and Bergier, The Morning of the Magicians (New York: Stein & Day, 1964), p. 180.

3. The Occult Roots of Nazism, p. 202.

4. Nicholas Goodrick-Clarke, Hitler’s Priestess: Savitri Devi, the Hindu-Aryan Myth, and Neo-Nazism (New York: New York University Press, 1998).

5. Nicholas Goodrick-Clarke, Black Sun: Aryan Cults, Esoteric Nazism, and the Politics of Identity (New York: New York University Press, 2002).

6. The Cat Lady, “Nutty Nazis,” at Vanguard News Network (http://www.vanguardnewsnetwork.com/v1/books8.htm [11]).

7. Kevin Coogan, Dreamer of the Day: Francis Parker Yockey and the Postwar Fascist International (Brooklyn: Autonomedia, 1999).

8. Nicholas Goodrick-Clarke, The Western Esoteric Traditions: A Historical Introduction (Oxford: Oxford University Press, 2008).

9. Black Sun, pp. 303-304.

10. Black Sun, p. 313.

11. Black Sun, p. 313.

12. Personal correspondence, September 16, 2009.

 


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jeudi, 21 juin 2012

Jean Prévost, homme libre et rebelle

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Jean Prévost, homme libre et rebelle

par Pierre LE VIGAN

 

Qui connaît encore Jean Prévost ? Assurément plus grand monde. Cet oubli est de prime abord étonnant. Voici un écrivain français, intelligent bien qu’intellectuel, patriote sans être anti-allemand, anti-hitlérien sans être communiste, il fut aussi maquisard et fut tué dans le Vercors durant l’été 44.

 

La France d’après-guerre a fort peu honoré cet homme, non plus que la France actuelle. L’air du temps est à la contrition mais pas à l’admiration. Jean Prévost a pourtant des choses à nous dire : sur le courage et sur l’intelligence, et sur le premier au service de la seconde comme l’avait rappelé Jérôme Garcin (1).

 

Dominique Venner écrit de son côté : « Pamphlétaire, critique littéraire et romancier, Jean Prévost venait de la gauche pacifiste et plutôt germanophile. C’est le sort injuste imposé à l’Allemagne par les vainqueurs de 1918 qui avait fait de lui, à dix-huit ans, un révolté. Depuis l’École normale, Prévost était proche de Marcel Déat. Il fréquentait Alfred Fabre-Luce, Jean Luchaire, Ramon Fernandez. À la fin des années Trente, tous subirent plus ou moins l’attrait du fascisme. Tous allaient rêver d’une réconciliation franco-allemande. Tous devaient s’insurger contre la nouvelle guerre européenne que l’on voyait venir à l’horizon de 1938. Lui-même ne fut pas indifférent à cet « air du temps ». En 1933, tout en critiquant le « caractère déplaisant et brutal » du national-socialisme, il le créditait de certaines vertus : « le goût du dévouement, le sens du sacrifice, l’esprit chevaleresque, le sens de l’amitié, l’enthousiasme… (2) ». Une évolution logique pouvait le conduire, après 1940, comme ses amis, à devenir un partisan de l’Europe nouvelle et à tomber dans les illusions de la Collaboration. Mais avec lui, le principe de causalité se trouva infirmé. « Il avait choisi de se battre. Pour la beauté du geste peut-être plus que pour d’autres raisons. Il tomba en soldat, au débouché du Vercors, le 1er août 1944.  (3) ».

 

Jean Prévost est d’abord un inclassable : ni communiste, ni catholique, ni même communiste-catholique comme beaucoup, rationnel sans être rationaliste, progressiste sans être populiste au sens démagogique, patriote sans être nationaliste. Un intellectuel nuancé et, dans le même temps, un homme privé vif, tourmenté, sanguin, passionné, exigeant vis-à-vis de lui-même. Un aristocrate. Stendhal dont Prévost fut un bon spécialiste disait que le « vrai problème moral qui se pose à un homme comblé » est : « que faire pour s’estimer soi-même ? ». Jean Prévost fit sien ce problème. Pour y répondre, il « raturait sa vie plutôt que son œuvre ». Et il se « dispersait » dans une multiplicité de centres d’intérêt : critique littéraire, cosmologie et polémologie, philosophie du droit et architecture… En fait, Jean Prévost foisonnait. Sa pseudo-dispersion était profusion. « Jamais de ma vie je n’ai pu rester un jour sans travailler. »

 

Éloigné de tout dandysme, Jean Prévost veut savoir pour connaître. Son travail intellectuel est ainsi un « rassemblement » de lui-même, une mise en forme de son être, qui se manifeste par des prises de position rigoureuses et souvent lucides. Grand travailleur tout autant que grand sportif, Jean Prévost attend que le sport lui fournisse « ce bonheur où tendait autrefois l’effort spirituel ». C’est aussi pour lui un antidote à la civilisation moderne. « Les Grecs, écrit-il, s’entraînaient pour s’adapter à leur civilisation. Nous nous entraînons pour résister à la nôtre. »

 

Malgré la diversité de ses dons, Prévost évoque le mot de Stendhal sur ceux qui « tendent leur filet trop haut ». Il fait partie de ceux qui « pêchent par excès ». Mais c’est un moindre défaut car, comme Roger Vaillant le dit à propos de Saint-Exupéry, « l’action le simplifie ». Et Prévost est un homme d’action. Jean Prévost est aussi aidé par une idée simple et robuste de ses devoirs et de ce qui a du sens dans sa vie : le plaisir, l’amour de ses enfants, les amis, le souci de l’indépendance de son pays.

 

vercors-tombe-jean-prevost-img.jpgTrop païen pour ne pas trouver que la plus détestable des vertus – ou le pire des vices – est la « reconnaissance » envers autrui, trop français pour ne pas avoir le sens de l’humour, « décompliqué des nuances », mais plein de finesse et de saillies (en cela nietzschéen). Jean Prévost se caractérise aussi par la temporalité rapide de son écriture qui est celle du journalisme. C’est ce sens du temps présent qui l’amène (tout comme Brasillach, mais selon des modalités fort différentes), à l’engagement radical, c’est-à-dire, dans son cas, à la lutte armée contre les Allemands dans le maquis du Vercors. C’est là que cet homme, multiple, entier, solaire, trouva sa fin. Il avait écrit : « il manque aux dieux-hommes ce qu’il y a peut-être de plus grand dans le monde; et de plus beau dans Homère : d’être tranché dans sa fleur, de périr inachevé; de mourir jeune dans un combat militaire ».

 

Pierre Le Vigan

 

Notes

 

1 : Jérôme Garcin, Pour Jean Prévost, Gallimard, 1994.

 

2 : Idem.

 

3 : Dominique Venner, dans La Nouvelle Revue d’Histoire, n° 47, 2010.

 

• Publié initialement dans Cartouches, n° 8, été 1996, remanié pour Europe Maxima.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

mardi, 19 juin 2012

Ray Bradbury. Le mille facce di un genio inafferrabile

Ray Bradbury. Le mille facce di un genio inafferrabile

Autore: Gianfranco de Turris

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Parlare di Ray Bradbury significa far correre subito il pensiero ai suoi due capolavori, Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1953), anche se lo scrittore, deceduto ieri a Los Angeles a quasi 92 anni (li avrebbe compiuti il 22 agosto), ha avuto una carriera più che settantennale (avendo esordito a 21 anni nel 1941, su Weird Tales) nel corso della quale ha pubblicato storie di tutti i generi, e non solo quel particolare tipo di fantascienza che a suo tempo si definì «umanistica», comunque tutte caratterizzate dal suo tocco personale, dal suo stile unico, evocativo, dalla singolare aggettivazione che avvolge il lettore senza che se ne accorga.

Con lui scompare uno degli ultimi rappresentanti (è ancora vivo Frederik Pohl, classe 1919) della grande e irripetibile «età d’oro della fantascienza». Pochi lo sapevano, ma negli ultimi anni era bloccato su una sedia a rotelle, però continuava a scrivere con regolarità pur se per interposta persona: ogni mattina per tre ore dettava telefonicamente alla figlia Alexandra, perché non poteva più usare la sua vecchia macchina da scrivere meccanica a causa di un malanno al braccio.

 

A suo tempo, negli anni Cinquanta-Settanta, ciò che colpì di Bradbury fu la visione malinconica e tragica del destino dell’uomo contemporaneo e futuro preda della massificazione totale, dello sradicamento dell’Io individuale e della sua personalità, succube di una macchinificazione della vita, intendendo con questo non solo i marchingegni meccanici e robotizzati, ma anche la virtualità che in America si stava già imponendo a metà del Novecento, mentre da noi ci si sarebbe accorti di tutto questo soltanto a partire dagli anni Ottanta con il moltiplicarsi dei canali televisivi. Non c’è dunque da meravigliarsi che lo scrittore nei suoi ultimi interventi pubblici se la sia presa con gli aggeggi elettronici che hanno invaso la nostra vita e la condizionano. «Abbiamo troppi telefonini. Troppo internet. Dobbiamo liberarci di quelle macchine», ha detto in un’intervista per il suo novantesimo compleanno al Los Angeles Times. Perché meravigliarsene, come fece a suo tempo qualcuno? È la logica conseguenza delle critiche che alle «macchine», anche se di altro genere, Bradbury ha fatto in tutte le sue opere e specialmente in Fahrenheit 451: anche cellulari, iPad, iPod, lettori elettronici, smartphone lo sono e producono conseguenze. Delle chat e di Facebook ha detto: «Perché tanta fatica per chiacchierare con un cretino col quale non vorremmo avere a che fare se fosse in casa nostra?». La sua crociata contro i deficienti e l’incultura risale ai primordi della sua carriera. Un precursore di certe critiche oggi comuni, insomma.

Tutto sta in quel capolavoro antiutopico che è appunto Fahrenheit 451. Un libro che è l’esaltazione dell’uomo e della cultura vera dell’uomo, quella trasmessa dai libri e non dalle finzioni virtuali della televisione. Già nel ’51-53 Bradbury immaginava schermi grandi come una parete e la vita falsa che trasmettevano tramite quelle che oggi si chiamano sitcom e vanno avanti per decenni quasi fosse una realtà parallela a quella del telespettatore, o reality show dove la gente comune diventa protagonista attiva (tema, questo, di molti suoi tragici racconti come il famoso La settima vittima). È contro la pandemia televisiva che lo scrittore si scaglia in difesa di un altro tipo di cultura che questa cercava di sommergere e annullare, e non aveva affatto di mira il senatore McCarthy o una specifica dittatura parafascista o paranazista, come volevano dare a intendere certi critici «impegnati» qui in Italia. Fu lo stesso scrittore, con grande delusione di certi suoi fans, a confermarlo: nel 2007, sempre in un’intervista al Los Angeles Times, affermò che il suo famoso romanzo non si doveva interpretare come una critica alla censura o specificatamente al senatore McCarthy, perché era piuttosto una critica alla televisione e al tipo di (in)cultura che essa trasmette. Insomma, Bradbury ce l’aveva e ce l’ha avuta sino all’ultimo, contro la pseudo-informazione, la pseudo-vita, gli pseudo-fatti, quelli che Gillo Dorfles ha battezzato «fattoidi», e che sono ormai la «normalità» delle tv di tutto il mondo, specie in Italia.

In un’altra intervista ha detto: «I libri e le biblioteche sono davvero una parte importante della mia vita, perciò l’idea di scrivere Fahrenheit 451 è stata naturale. Io sono una persona nata per vivere nelle biblioteche». Scoramento profondo, quindi, di tutti i suoi lettori e analizzatori progressisti: nessuna motivazione politica e/o ideologica dietro il famoso romanzo strumentalizzato in tal senso per decenni, anche se, leggendo bene quel che Bradbury scriveva, non era affatto impossibile afferrarlo. Tanto è vero che spesso, negli Stati Uniti, Bradbury si è platealmente irritato quando qualcuno gli voleva spiegare quel che aveva scritto, le sue intenzioni. Come si vede, la tanto apprezzata e semplicistica equivalenza fantascienza/progressista e fantastico/reazionario è una solenne sciocchezza, anche se purtroppo ancora qualcuno ci crede, magari forzando le tesi espresse dagli scrittori nelle loro opere. Bradbury è sempre stato sostenitore di una cultura umanistica e ci ha dato una fantascienza di questo genere con veri e propri capolavori: ma non sta scritto da nessuna parte che ciò sia sinonimo di progressismo ideologico e politico.

* * *

Tratto da Il Giornale del 7 giugno 2012.

Ray Bradbury ist tot – Chiffre 451

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Götz Kubitschek:

Ray Bradbury ist tot – Chiffre 451

Ex: http://www.sezession.de/

Wer nach den berühmten Dystopien unserer Zeit gefragt wird, nennt George Orwells 1984, Aldois Huxleys Schöne Neue Welt, vielleicht Ernst Jüngers Gläserne Bienen, ganz sicher Das Heerlager der Heiligen von Jean Raspail (wenn er einer von uns ist!) und vor allem den Roman Fahrenheit 451 von Ray Bradbury. „451″ ist eine meiner Lieblingschiffren, und die Hauptfigur aus Bradburys Roman – der Feuerwehrmann Montag – ist Angehöriger der Division Antaios.

Bradbury – geboren 1920 – ist am 5. Juni verstorben. Fahrenheit 451 ist sein bekanntester Roman. In ihm werden Bücher nicht mehr gelesen, sondern verbrannt, wenn der Staat sie findet: Ihre Lektüre mache unglücklich, lenke vom Hier und Heute ab, bringe die Menschen gegeneinander auf. Vor allem berge jedes Stück Literatur etwas Unberechenbares, Freigegebenes, etwas, das plötzlich und an ganz unerwarteter Stelle zu einer Fanfare werden könne. In den Worten Bradburys: „Ein Buch im Haus nebenan ist wie ein scharfgeladenes Gewehr.“

Montag indes greift heimlich nach dem, was ihm gefährlich werden könnte. Er rettet ein paar Dutzend Bücher vor den Flammen, versteckt sie in seinem Haus und vor seiner an Konsum und Seifenopern verlorengegangenen Frau. Heimlich liest er, zweifelt, befreit sich und wird denunziert (von seiner eigenen, an den Konsum und die Indoktrination verlorengegangenen Frau); er kann fliehen und stößt in einem Waldstück auf ein Refugium der Bildung, auf eine sanfte, innerliche Widerstandsinsel, eine Traditionskompanie, eine Hundertschaft von Waldgängern: Leser wandeln auf und ab und lernen ein Werk auswendig, das ihnen besonders am Herzen liegt, um es ein Leben lang zu bewahren, selbst dann noch, wenn das letzte Exemplar verbrannt wäre.

Ich korrespondiere derzeit mit einem bald Achtzigjährigen, der insgesamt sieben Jahre im Gefängnis verbrachte und in dieser Zeit nichts für seinen Geist vorfand als das, was er darin schon mit sich trug. In Dunkelhaft war er allein mit den memorierten Gedichten, Dramenstücken, Prosafetzen, und er war dankbar für jede Zeile, die er in sich fand. Er kannte Fahrenheit 451 noch nicht und las begierig wie ein Student (wie er mir schrieb). Und er schrieb, daß er in Montags Waldstück keinen Prosatext verkörpern würde, wenn er dort wäre, sondern fünfhundert Gedichte – den Ewige Brunnen sozusagen.

Und Sie?

Ellen Kositza:

Nicht jeder kann Bradbury auswendig können

fhlg.jpgIch will direkt an Kubitscheks Bradbury-Text anknüpfen: Sein leicht verbrämter Aufruf, das Memorieren poetischer Texte einzuüben, kommt aus berufenem Munde. Kubitschek kann mehr Gedichte aufzusagen, als ich je gelesen habe, gar auf russisch, ohne daß er die Sprache beherrschte. Ein seltener Fleiß, ich werde mir keine Sorgen machen, wenn er mal ins Gefängnis muß.

In der zeitgenössischen Pädagogik ist vor lauter Selberdenkenmüssen das Auswendiglernen ja stark in den Hintertreffen geraten. Unsere Kinder tun sich nicht besonders schwer damit, es wird ihnen aber kaum – und stets nur minimal – abverlangt. Nun kam es hier im Hause kam  öfters vor, daß die müden Kinder inmitten des Abendgebets gähnen mußten; ein bekanntes Phänomen, das dem Nachlassen der Konzentration und weniger mangelnder Frömmigkeit anzulasten ist. Nun lernen wir seit einigen Monaten das Vaterunser in verschiedenen Sprachen, mühsam Zeile für Zeile zwar (so daß für jede Sprache mehrere Wochen benötigt werden), aber die abendliche Leistung zeigt Wirkung; kein Gähnen mehr.

Jetzt gibt es vermehrt Leute, die sich ihre Lieblingszeilen nicht so gut merken können. Es hat nicht jeder den Kopf dafür. Es gilt nicht mehr für gänzlich unzivilisiert, sich ein nettes Lebensmotto mit Farbe unter die Haut ritzen zu lassen. Dann kann man es stets nachlesen oder sich wenigstens vorlesen lassen. Bekanntermaßen hat sich Roman, der deutsche Kandidat des Europäisches Liederwettbewerb, ein gewichtiges Lebensmotto (samt Mikro!) auf die Brust stechen lassen: Never fearful, always hopeful. Eine hübsche, gleichsam allgemeingültige Ermunterung!

Internationale Sangesgrößen haben es ihm vorgemacht. Rihanna trägt die Weisheit never a failure, always a lesson auf der Haut, Katy Perry schürft noch tiefer und ließ sich (Sanskrit!!) Anungaccati Pravaha!, zu deutsch „Go with the flow!“ stechen, und der intellektuell unangefochtene Star des Pophimmels, Lady Gaga, uferte gar aus und verewigte ihren „Lieblingslyriker Rilke“ mit folgen Worten auf einem Körperteil:

“Prüfen Sie, ob er in der tiefsten Stelle Ihres Herzens seine Wurzeln ausstreckt, gestehen Sie sich ein, ob Sie sterben müßten, wenn es Ihnen versagt würde zu schreiben. Dieses vor allem: Fragen Sie sich in der stillsten Stunde Ihrer Nacht: Muss ich schreiben?“

Aber auch (noch) wenig prominente Zeitgenossen mögen es philosophisch-lyrisch. Jessica, Studentin und Trägerin der Playboy-Preises „Cybergirl des Monats“ läßt auf ihrer glatten Haut in wunderschön geschwungener Schrift das Cicero zugewiesene Motto Dum spiro spero blitzen, und jüngst kamen mir hier im wirklich ländlichen Landkreis zwei weitere tätowierte Kalligraphien unter´s Auge: Einmal in fetter Fraktur an strammer Männerwade unterhalb eines kahlrasierten Schädels Carpe Diem, andermal , als Schultertext: Mann muß Chaos in sich tragen, um einen tanzenden Stern zu gebären. Nietzsche hatte , glaub ich, „man“ geschrieben, aber er schrieb wohl mehr so für Männer, und der Spruchträger war tatsächlich männlichen Geschlechts, also hatte ja alles seine Richtigkeit.

Nun mag mancher Tätowierungen an sich für ein Zeichen von Asozialität halten. Wir mögen es mit Güte betrachten: Schlägt sich darin nicht eine Sehnsucht nach Dauer, nach Absolutheit, nach Schwur und Eid nieder? Nicht jeder hat Geld, Zeit, Fähigkeit und Phantasie, ein Haus zu bauen, einen Baum zu pflanzen, ein Kind zu zeugen. Wenn er schon die eigene Haut zu Markte tragen muß, dann wenigstens symbolisch aufgeladen! Nun fragt sich manche/r schlicht: womit bloß? Stellvertretend möchte ich “ Adrijanaa“ zitieren, die auf einem Forum namens gofeminin händeringend fragt:

Hallo zusammen!
Ich liebe Tattoos und möchte endlich selbst eins haben. Habe mich für ein Zitat auf dem Schulterblatt entschieden (so ähnlichw ie bei Megan Fox). Das Problem: Mir föllt keins ein. Es ist schon irgednwie blöd im Internet nach zu fragen, aber ich bin momentan einfach sowas von einfallslos. Ich lege in diesem Fall auch nicht viel Wert darauf, ob jemand diesen Spruch schon auf eienr Körperstelle besitzt oder nicht. Ein englischer Zitat wäre am besten. Es können Weisheiten, Zitate aus Songlyrics oder Filmen sein. Falls ihr ein paar Ideen habt, wäre ich sehr froh darüber, was von euch zu hören!

LG, Adi

Die Adi wurde dann von einigen „Mitusern“ nachdrücklich gefragt, ob sie denn nicht selbst auf ein paar fesche Zitate käme, die ihr aus der „Seele“ sprächen. Aber:

Ich überleg ja schon die ganze Zeit. . . Hab einige gute Lieder, die ich ganz gerne mag, aber die Texte sind manchmal zu primitiv für ein Tattoo. . . Es ist nicht so einfach

Dabei ist es eben doch ganz einfach! Es gibt bereits einige Netzseiten mit hübschen Sprüchen, die unter die Haut gehen könnten. In einem entsprechenden Ratgeberforum für tätowierbare Sprüche habe ich den hier gefunden:

Wer singt und lacht, braucht Therapie.
Alfred Adler

Das ist tiefsinnig, und mit etwas Mühe könnte man es sogar auswendig lernen – für den Fall, daß man das Zitat im Nacken oder auf dem Po unterbringen will.

lundi, 14 mai 2012

Nolte, Nexus und Nasenring

Nolte, Nexus und Nasenring

von Thor v. Waldstein

Ex: http://www.sezession.de/

gerlich-nolte.jpgÜber die Späten Reflexionen und die Italienischen Schriften Ernst Noltes ist es zwischen Siegfried Gerlich, Thorsten Hinz und Stefan Scheil zu einer Debatte gekommen (Sezession 45 und Sezession 46). Sie hat deutlich gemacht, wie ambivalent der Blick auf das Werk des im 90. Lebensjahr stehenden Geschichtsdenkers sein kann. Das spricht nicht zuletzt für den Autor Nolte, dessen Feder es offensichtlich gelungen ist, geistige Attraktion für ganz unterschiedliche historische Denkansätze zu entfalten.

Dieser Befund deckt sich mit der Erfahrung des Verfassers dieser Zeilen, der fast jedes Werk Noltes gerade wegen dessen nüchtern-sezierendem Stil mit Gewinn gelesen hat, obwohl er die Anhänglichkeit Noltes zu dem »liberistischen Individuum« bzw. zu dem von diesem verkörperten »liberalen System« weder teilt noch versteht. Was aber bei jedem, der Nolte gerecht werden will, bleibt, ist der Respekt vor der souveränen Stoffbeherrschung, vor einer bewundernswürdigen Lebensleistung und vor der Unbeirrbarkeit, mit der Nolte die eigenen wissenschaftlichen Erkenntnisse und Thesen gegen das Meer der bundesdeutschen Anfeindungen spätestens seit dem Habermas-Skandal 1986 (dem sogenannten »Historikerstreit«) verteidigt hat.

Und damit sind wir schon bei dem, was bei dem »Sezession-Autorenstreit« vielleicht etwas zu kurz gekommen ist: nämlich der Erforschung der – eminent politischen – Frage, weswegen Ernst Nolte heute in der Bundesrepublik ein historiographischer Paria ist, der unter dem Verdacht des »Verfassungsfeindes« steht (Stefan Breuer) und dessen Werke wertfrei oder gar positiv zu zitieren der beste Weg sein dürfte, die eigene akademische Karriere gegen die Wand zu fahren. Hat diese Stigmatisierung allein mit mißliebigen wissenschaftlichen Erkenntnissen Noltes zu tun oder offenbart die Causa Nolte nicht vielmehr polit-psychologische Wirkmechanismen, die für das Verständnis des Staates, in dem wir leben, von nicht unmaßgeblicher Rolle sind? Hat Nolte mit seiner zentralen These von dem Kausalnexus zwischen Bolschewismus und Nationalsozialismus möglicherweise an Tabus der »Vergangenheitsbewältigung« gerüttelt, die in tieferen Bewußtseinsschichten der homines bundesrepublicanenses fest verankert sind?

Bekanntlich war es Armin Mohler, der sich 1968 – pikanterweise veranlaßt durch einen Auftrag der Bonner Ministerialbürokratie – erstmals gründlich mit dem Phänomen der Vergangenheitsbewältigung befaßte. 1989 widmete er sich demselben Thema erneut und legte im einzelnen dar, wie die Deutschen seit 1945 am Nasenring der Vergangenheitsbewältigung vorgeführt werden. Ausgangspunkt Mohlers war zunächst die Feststellung, daß es weder möglich noch wünschenswert sei, daß ein Volk seine Vergangenheit bewältige. Nicht nur jedem Individuum, sondern auch einem Volk sei ein Recht auf Vergessen zuzubilligen. Diejenigen, die gleichwohl die Maschinerie der unablässigen Vergangenheitsbewältigung in Gang gesetzt hätten, würden dies in der Absicht tun, sozialpsychologisch determinierte Komplexe heranzuzüchten, um diese anschließend in den Dienst bestimmter politischer Ziele zu stellen. Endstufe sei der entortete Deutsche, der angesichts der NS-Katastrophe nach und nach ein perverses Verhältnis zu den Traditionen seiner Vorfahren entwickle, und dessen Deutschsein man am Ende vor allem daran erkenne, daß er alles sein wolle: Europäer, Weltbürger, Pazifist usw. – nur kein Deutscher mehr. Damit erwies sich die Vergangenheitsbewältigung als konsequente Fortsetzung der nach 1945 von der US-amerikanischen Besatzungsmacht ins Werk gesetzten »Re-education«, also des »Versuchs, den deutschen Volkscharakter einschneidend zu ändern, auf daß die politische Rolle Deutschlands in Zukunft von außen kontrolliert werden könne« (Caspar von Schrenck-Notzing).

Man braucht keine besonders gute Beobachtungsgabe für die Feststellung, daß dieser Versuch einer »Charakterwäsche« der Deutschen heute als weitgehend gelungen angesehen werden kann. Der Prototyp des ferngesteuerten, von historischen Komplexen regelrecht aufgeblasenen Deutschen begegnet einem auf Schritt und Tritt. Es gibt keine Talk-Show, kein Lehrerzimmer, keine Redaktionsstube, keinen Seminarraum, wo man sich nicht laufend der zu Tode gerittenen Distanzierungsvokabel »Nazi« bedient, um die Kappung der historischen Entwicklungslinien Deutschlands als »demokratische Errungenschaft« zu feiern. Kurioserweise läßt sich der Bundesbürger durch dieses permanente »Strammstehen vor den politisierten, mythologisierten Begriffen« (Frank Lisson) nicht in seiner höchstpersönlichen Glückseligkeit stören, was Johannes Gross einmal zu der paradox-treffenden Bemerkung veranlaßte, »die Bundesrepublik Deutschland (sei) ein übelgelauntes Land, aber ihre Einwohner sind glücklich und zufrieden«.

1079598_3049332.jpgJenseits dieser privaten Partydauerstimmung, in der man die eigene Vita der Amüsementsteigerung widmet, weiß der Deutsche von heute aber sehr genau, wo und auf welche Schlüsselworte hin er auf Moll umzuschalten hat: beim Befassen mit dem Düsterdeutschland der Jahre vor Neunzehnhundert-Sie-wissen-schon. Gerät man auf diesem kontaminierten Gelände auch nur unter Verdacht, die geschichtspolitischen Dogmen nicht hinreichend verinnerlicht zu haben oder offenbart man gar Ermüdungserscheinungen bei dem Distanzierungsvolkssport Nummer eins, dem Einprügeln auf die herrlich toten »Nazis«, darf man sich nicht wundern, wenn man eines schönen Tages als »Rechtsextremist« o.ä. aufwacht. Diesem Umstand ist es zu verdanken, daß sich zwischenzeitlich die meisten NS-Forschungsfelder in politisch-psychologische »No-go-areas« verwandelt haben, in denen nicht Erkenntnisdrang, sondern penetranter Dogmatismus den (Buß-)Gang der Dinge bestimmt.

Der Nationalsozialismus ist daher weiter der zentrale »Negativ-Maßstab der politischen Erziehung« (Martin Broszat) und darf im Sinne derer, die sich der politischen (Ver-)Bildung von bald drei Generationen in Deutschland gewidmet haben und weiter zu widmen sich anschicken, gerade nicht historisiert werden. Gefragt ist moralisch-verschwommene Befindlichkeit, nicht wissenschaftlich-präzise Analyse. Auf diesem Terrain herrscht ein zivilreligiös aufgeladener Machtanspruch, der hinter Kant und die Aufklärung zurückfällt und der in der Geschichte der europäischen Neuzeit ohne Beispiel ist. Auf diesem, von Psycho-Pathologien beherrschten Feld ist »souverän …, wer über die Einhaltung von Tabus und Ritualen verfügt« (Frank Lisson).

Es geht also um Macht und nicht um Wahrheit, um Deutungshoheit und nicht um historische Erkenntnis, um Kampagnenfähigkeit und nicht um seriöse wissenschaftliche Methode. Es geht darum, jeglichen jenseits des aufoktroyierten Neusprechs liegenden, originären geistigen Denkansatz zu dem historischen Phänomen des Nationalsozialismus sofort zu skandalisieren und damit seiner Wirkung zu berauben.

Der seit 1986ff. in der Öffentlichkeit der Bundesrepublik Deutschland geführte »Streit um Nolte« ist also in seinem Kern keine historische Fachdiskussion, er ist – neben vielen anderen Beispielen dieser Art – ein besonders sig¬nifikanter Ausdruck eines gesteuerten Debatten¬ablaufs in einem unfreien Land. Noltes Nexus-Theorie ist den Politgewinnlern der deutschen historischen Tragödie 1914ff. ein Dorn im Auge, weil sie durch ihren actio-reactio-Ansatz das NS-Singularitätsdogma und den darauf aufbauenden Machtanspruch der Vergangenheitsbewältigung gefährdet.

Daß Lenin und erst recht Stalin keine russischen Dalai Lamas waren, wissen zwar alle; die Bedrohung Europas durch den bolschewistischen Ideologiestaat aus dem Osten muß aber aktiv beschwiegen werden, um den dialektischen Prozeß, von dem die Geschichte des Zweiten Dreißigjährigen Krieges 1914–1945 wie kaum eine andere Epoche zuvor bestimmt wurde, zu entkoppeln. Das dient zwar nicht dem historischen Verständnis, befördert aber den Tunnelblick auf die deutschen Untaten, mit dem sich auch im 21. Jahrhundert gute Geschäfte und konkrete Politik machen läßt.

Diese selektive, dauerpräsente Vergangenheit darf nicht vergehen. Sie stellt ein wichtiges Instrument dar, auf das auch morgen nicht verzichtet werden kann, soll die Bundesrepublik weiter als ein politisch desorientierter Staat erhalten bleiben, dem die Pflege der deutschen Neurosen wichtiger ist als die Gestaltung der deutschen Zukunft. Deswegen kann es nicht verwundern, daß eben dieses sozialpsychologische Neurosenfeld groteskerweise an Umfang und an Ansteckungskraft in dem Maße zunimmt, wie sich der zeitliche Abstand zum 8. Mai vergrößert.

Die seit bald 70 Jahren währende Dauerbesiegung des Zombies aus Braunau hat freilich ihren Preis: Es ist ein – von dem unablässig rotierenden Freizeit-, Unterhaltungs- und Urlaubskarussell nur mühsam zu übertönendes – Klima der Zukunftslosigkeit in Deutschland entstanden, das durch nichts besser gekennzeichnet wird als durch die Kinderlosigkeit eines Landes, in dem die Attribute deutsch und alt immer häufiger zusammenfallen. Manches spricht dafür, daß die ethnische Abwärtsspirale, in der sich die Deutschen heute befinden, viel zu tun hat mit der mentalen Todessehnsucht, von deren süßlichem Verwesungsduft das unablässige Rattern der Vergangenheitsbewältigungsmaschinerie umschleiert wird.

Die Abwicklung der Deutschen (demographische Implosion und »Umvolkung«) ist dabei nur die letzte Konsequenz eines Geschichtsbildes, das den (Auto-)Genozid der Deutschen seit ca. 1970 als gerechte Strafe für das Geschehen vor 1945 auffaßt. Schließlich kann das abstrakt-moralische Gebot, von deutschem Boden dürfe nie wieder Krieg ausgehen, am besten dadurch erfüllt werden, daß die Deutschen von eben diesem Boden ihrer Väter und Vorväter verschwinden, und zwar endgültig. Bei der Vergangenheitsbewältigung geht es somit um alles andere als um historische Erkenntnis oder um wissenschaftliche Seriosität, es geht um Zukunftsverhinderung, »um die Vernichtung alles dessen, was deutsch ist – was deutsch fühlt, deutsch denkt, sich deutsch verhält und deutsch aussieht« (Armin Mohler).

2261792492.jpgWer als junger Deutscher zu einem solch aberwitzigen »mourir pour Auschwitz« nicht bereit ist, wird gnadenlos mit der »Hitler-Scheiße« (Martin Walser) zugedeckt und läuft Gefahr, als »Heide der Gedenkreligion des Holokaust« (Peter Furth) über Nacht seine sozialen Beziehungen zu verlieren. Denn wer ein Tabu übertreten hat, wissen wir seit Freud, wird selbst tabu. Die dazu erforderliche braune Lava wurde und wird von den Niemöllers, Eschenburgs, Wehlers, Benz’, Knopps e tutti quanti seit Jahrzehnten am Blubbern gehalten. Ein Solitär wie Nolte, der – ganz ohne den Mundgeruch der Bewältigungstechnokraten – die historischen Abläufe 1917ff. nüchtern und mit luziden Zwischentönen analysiert, könnte bei diesem Simplifizierungsgeschäft nur stören.

Es spielt dann auch keine Rolle mehr, daß es gerade Nolte war, der, weil er Hitler verstanden und nicht zu »bewältigen« versucht hat, das geschichtsphilosophisch Einzigartige des NS-Judenmordes präzise herausgearbeitet hat (Der Europäische Bürgerkrieg, S. 514–517). Um die jüdischen Opfer des Nationalsozialismus – darunter eine große Zahl patriotischer Reichsdeutscher, für die das Deutschland des Jahres 2012 einen Alptraum dargestellt hätte – geht es den Matadoren der Vergangenheitsbewältigung ohnehin nicht. Ihr Andenken mißbrauchen sie genauso, wie sie jenes an die Männer schänden, die für das Land der Deutschen als Soldaten ihren Kopf hingehalten haben.

Das selektive Erinnern und das Nichtvergessenwollen erweist sich dabei als der sicherste Weg, eine Zukunft der Deutschen zu verhindern. Denn die Kraft zur geschichtlichen Existenz eines Volkes setzt stets voraus, daß es den Willen hat weiterzuleben. Und diesen Willen kann ein Volk nur dann behaupten, wenn man ihm ein Recht zubilligt, nicht nur mit anderen, sondern zuallererst mit sich selbst in Frieden zu leben. Das wiederum setzt voraus, daß Wunden verheilen und irgendwann ein mentaler Neuanfang stattfindet. Dieser ist indes nur denkbar, wenn zuvor der an allen Orten und zu allen Zeiten ausschlagende »Nazometer« (Harald Schmidt) endlich ausgeschaltet wird. Das Geheimnis der Versöhnung ist eben nicht die Erinnerung, schon gar nicht die sakralisierte und instrumentalisierte Erinnerung der heutigen Hüter unserer Vergangenheit, die sich anmaßen, noch die deutschen Jahrgänge 2000ff. nach dem Pawlowschen Taktstock der Vergangenheitsbewältigung tanzen zu lassen.

Deren Zweck erschöpft sich heute nicht nur in »der totalen Disqualifikation eines Volkes« (Hellmut Diwald); Ziel dieser 27. Januar-Kultur (ausgerechnet Mozarts Geburtstag!) ist es, das seelische Immunsystem der Deutschen – auch an den 364 übrigen Tagen des Jahres – so weit(er) zu zerstören, daß die Deutschen schließlich die ethnische Verabschiedung von ihrem eigenen Grund und Boden, die Zweite Vertreibung der Deutschen, die in vielen Stadtteilen deutscher Großstädte schon weit fortgeschritten ist, mindestens gleichgültig hinnehmen, wenn nicht gar als »Urteil« der Geschichte begrüßen.

Ein altes Kulturvolk Europas, dem die Menschheit in der Musik fast alles, in der neuzeitlichen Philosophie das wesentliche und in den Natur- und Geisteswissenschaften sehr viel zu verdanken hat, wäre dann verschwunden. Ob diese »Endlösung der deutschen Frage« (Robert Hepp) eintritt oder nicht, liegt nicht zuletzt an den Deutschen selbst, denen es freisteht, morgen den Nasenring abzulegen und das zu tun, was für jeden Kirgisen, jeden Katalanen und jeden Kurden selbstverständlich ist: nämlich als Volk frei über die eigene Zukunft zu bestimmen.

Literatur:
Siegfried Gerlich: Ernst Nolte. Profil eines Geschichtsdenker, Schnellroda 2010
Ernst Nolte: Späte Reflexionen, Wien 2011
Ernst Nolte: Italienische Schriften, Berlin 2011

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vendredi, 04 mai 2012

Armin Mohler: Rechter Blick auf die Bundesrepublik

armin-mohler.jpgArmin Mohler: Rechter Blick auf die Bundesrepublik

Ansgar Lange

http://www.jungefreiheit.com/

Armin Mohler wurde am 12. April 1920 in Basel geboren. Der Vater war evangelisch-reformiert, die Mutter katholisch. Die religiöse Prägung Mohlers war schwach. Die Mohler-Kinder wurden nach dem Bekenntnis des Vaters erzogen, aber das Christentum blieb rein äußerlich und wurde höchstens in der calvinistisch geprägten Atmosphäre Basels erfahren. Dafür faszinierten den jungen intellektuellen Schweizer andere Ideengebäude, die für seinen illegalen Grenzübertritt nach Deutschland im Jahr 1942 verantwortlich waren: Mohler fühlte sich mit Deutschland schicksalhaft verbunden und bewunderte Ernst Jüngers Essay „Der Arbeiter“.

1949 wurde der Bücher- und Augenmensch Mohler bei Hermann Schmalenbach und Karl Jaspers über „Die Konservative Revolution in Deutschland 1918–1932. Grundriß einer Weltanschauung“ (Buchausgabe 1950) promoviert. Mohler ging von der „Annahme der Unvereinbarkeit von Christentum und ‚Konservativer Revolution aus. Mohlers Sympathie für seinen Gegenstand, also die konservativen Revolutionäre, war unverkennbar. Mit seinem Buch wollte er – für eine Doktorarbeit ungewöhnlich – Hilfestellung für die rechte Intelligenz in Deutschland leisten.

Eine Feder des Strauß

1953 ging Mohler als politischer Auslandsberichterstatter der Zürcher Tat nach Paris, von 1955 bis 1960 war er in gleicher Funktion auch für die Zeit tätig, außerdem für Christ und Welt (1960-61). Von 1959 an schrieb er auch für Die Welt, zu der Hans Zehrer ihn geholt hatte. Im Jahr 1964 gestattete er sich unter dem Pseudonym „Michael Hintermwald“ auch journalistische Ausflüge in die Deutsche Nationalzeitung und Soldatenzeitung, eine nicht nachvollziehbare publizistische Fehlleistung.

Ab den 1970er und 1980er Jahren wehte ein unfreierer Wind in der deutschen Publizistik. Mohler veröffentlichte von 1970 bis 1997 vor allem in der Zeitschrift Criticón, einer Art konservatives Sammelbecken, zusammengehalten von dem Genie und dem Geld Caspar von Schrenck-Notzings. Was die Zeitungen anbelangt, konnte er – mit wenigen Ausnahmen – ab 1967 nur noch im Bayernkurier, gelegentlich in der Welt sowie später in der Jungen Freiheit schreiben.

Bevor Mohler politisch weitestgehend kaltgestellt wurde, war er als eine Art politischer Berater von Franz Josef Strauß tätig. In der Zeit von Strauß als Finanzminister in der Großen Koalition (1966–1969) gab es regelmäßige persönliche Kontakte zwischen den beiden. Mohler verfaßte auch Reden für den bayerischen Politiker.

Opfer einer „katholischen“ Intrige?

Daß Mohler schließlich vom Etablierten zum Verfemten wurde, beruhte laut Karlheinz Weißmann auf „einer Intrige Paul Wilhelm Wengers“, den er „zu den wichtigsten katholisch-konservativen Journalisten der Nachkriegszeit“ zählt. Als der „Adenauer-Preis“ der Deutschland-Stiftung im Jahr 1967 an Mohler vergeben werden sollte, „entschloß sich Wenger zu Störmanövern“, so Weißmann: „Wenger wurde bei Androhung einer Geld- oder Haftstrafe untersagt, weiter zu behaupten, daß Mohler von der Schweizer Armee zur Waffen-SS desertiert sei und in seiner Heimat zur ‚Fünften Kolonne’ des Nationalsozialismus gehört habe“. Kampagnen in der linken Presse (Stern, Spiegel, Zeit etc.) folgten. Auch in bürgerlichen Medien wie Christ und Welt und FAZ und der Zeitschrift Civis sah sich Mohler Anfeindungen ausgesetzt. Rückendeckung konnte der „Verfemte“ nur noch von der Welt erwarten.

Daß Mohler von katholischer Seite Widerstand entgegengebracht wurde, darf indes nicht verwundern. Schließlich wollte er Strauß zu einer Art neuem Führer der CSU machen, die ihre katholisch-konservativen Wurzeln kappen und sich zu einer modernen nationalen Partei wandeln sollte. Dieser „Ausflug“ in die Parteipolitik scheiterte jedoch. So war Mohler der Ansicht, daß CDU und CSU absolute Mehrheiten erringen würden, wenn sie sich gegen den Atomsperrvertrag, die „Vergangenheitsbewältigung“, die Mitbestimmung sowie die Aufweichung der Bundeswehr wenden würden. Wahrscheinlich hätte die Union mit solchen Themenschwerpunkten keinen Blumentopf bei den Wählern gewonnen. Hier irrte der Intellektuelle, der sonst so viel Wert auf die Betrachtung der Wirklichkeit richtete, und entpuppte sich als abgehobener Theoretiker.

Abschied aus der Parteienpolitik

Mohler, der Christentum und Konservatismus für unvereinbar hielt, wollte aus der CSU eine Rechtspartei machen. Das Wort „konservativ“ war ihm zu verwaschen. Dabei sollte sie dann auch gleich ihr Tafelsilber verscherbeln, nämlich das seiner Sicht „überholte C“ aufgeben und sich von vermeintlichen klerikalen Bindungen lösen. Als Name für eine solche rechte Parteigründung aus der etablierten C-Partei heraus schwebte ihm der Name „Nationale Volkspartei“ vor.

In den letzten 20, 30 Jahren seines Lebens hat sich Mohler von der Parteipolitik verabschiedet. Er widmete sich seiner Tätigkeit als Geschäftsführer der Siemens-Stiftung und organisierte viel beachtete Vortragsreihen – ohne Scheu vor politisch Andersdenkenden, insofern sie nur interessant waren. Als Herausgeber von über zehn Bänden zu gesellschaftlichen und zeitpolitischen Themen war er überaus produktiv. Neben politischen Themen verfaßte Mohler auch eine große Zahl an Artikeln über Kunst und Literatur und schrieb zahlreiche Buchrezensionen und Portraits, vor allem für Criticón.

Ansgar Lange, Politikwissenschaftler und Publizist, 1971 in Arnsberg/Westfalen geboren, Studium der Politischen Wissenschaft, Geschichte und Germanistik in Bonn. Mit Extremen vertraut, da er die die eine Hälfte seines bisherigen Lebens im Sauerland und die andere Hälfte im Rheinland verbracht hat. Auch wenn er die Nähe zum Rhein und das Leben in der beschaulichen Bundesstadt Bonn schätzt, bleibt er im Grunde seiner Seele weiterhin Westfale und Pilstrinker. Langjährige Tätigkeit als Journalist, in der Presse- und Öffentlichkeitsarbeit sowie der Politik.

jeudi, 26 avril 2012

Jonathan Bowden, RIP

Jonathan Bowden, RIP


Ex: http://www.alternativeright.com/

This morning, I was devastated to learn of the death of Jonathan Bowden, the orator, artist, novelist, and writer.  Life on this earth is fleeting, and I am grateful for the fact that over the past three months, I collaborated with Jonathan on a series of podcasts that covered many of his intellectual passions, from  Nietzsche to the New Right to Spengler to Marx.

Around three weeks ago, we were planning an additional one on Ernst Jünger, when I suddenly lost touch with Jonathan.  Knowing he had suffered a breakdown in the past, I felt a definite angst as I would ring his number and receive no answer... In the end, my worst fears were realized.  According to a person close to him, who relayed the news to me, Jonathan succumbed to a cardiac arrest while at his home in Berkshire.

I first encountered Jonathan in 2009 at a conference at which he was the keynote speaker. We met over lunch on the day before he was to talk, and my impression at the time was of a man who was soft-spoken,  professorial, reserved, and a maybe a bit queer. He wore a necklace with a Life Rune etched into a wooden medallion, which gave hints of what was to come...

When Jonathan’s turn at the podium came the next evening, he strode confidently to the stage and announced, in a resonate and booming Heldentenor, that he would not be needing a microphone. Immediately, everyone in the room was on the edge of his seat. What followed was not a talk on a particular topic or issue, but instead a expression of a worldview—or perhaps a channelling of the life-force or the evoking of a demonic spirit.  As Louis Andrews noted afterwards, Jonathan Bowden’s doesn’t give talks or speeches; he gives orations. Perhaps a better descriptor would be performances.

In our age of CGI, virtual reality, and YouTube, it’s easy to forget the power of presence—of experiencing a great performer in person. Experiencing Bowden in 2009 has, for everyone who was there, been much like experiencing Maria Callas singing a Verdi heroine or an address by Mussolini from a Roman balcony. 

And while the first oration I heard was on nothing less than everything—the spiritual, geopolitical, and social condition of Western man in the 21st century—Jonathan could also speak on philosophic and historical topics with a scholar’s discernment and breadth of knowledge, as evidenced by our podcasts.  Indeed, I know of no other person who could combine Bowden’s gifts as a performer with a familiarity with the Western canon one would expect only in a monk.

When I eventually read Jonathan’s novels, I found them to be on the level of Finnegan’s Wake in terms of esoteric, cryptic complexity. On the other hand, in his public engagements, Jonathan could boil down to an essence the thought of difficult thinkers, such as Heidegger and Evola, and present their ideas in ways that were useful to nationalists.  

Though the two of us would have personal conversations, I never felt that I actually knew Jonathan, owing, no doubt, to his distant nature and the fact that I was always intimidated by the fire-breather I had encountered some two years earlier. Nevertheless, Jonathan deeply affected my thinking and I treasure our friendship, as short-lived and limited as it was.

I hope it is not an insult to Jonathan Bowden’s memory to say that he always lived on the edge of madness. This was the source of his power, and it seems to have predestinated that he would have all-too short a life.

Jonathan cannot be replaced, and his words will continue to inspire us. But as we weep, Valhalla rejoices.

 
Richard Spencer

Richard Spencer

A former assistant editor at The American Conservative and executive editor at Taki's Magazine (takimag.com), Richard B. Spencer is the founder and co-editor of AlternativeRight.com

Remembering Jonathan Bowden

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Remembering Jonathan Bowden

By Greg Johnson

http://www.counter-currents.com/

The word on the web is that Jonathan Bowden, the formidable British right-wing orator, modernist painter, and surrealist novelist, is dead of a heart attack at age 49.

I hope instead that Jonathan is just the victim of a terrible online prank. (Lies have been spread about him before.) Or maybe he is playing a prank of his own. If anybody I know could fake his own death, it is Jonathan. I hope he is reading his obituaries right now . . . and roaring with laughter.

I first met Jonathan in Atlanta in October of 2009 while I was the Editor of The Occidental Quarterly. I was organizing a private gathering for TOQ writers and supporters, and I wanted Michael Walker to give the keynote address.

Unfortunately, the final decision fell to somebody who had been completely upstaged by Walker at the 2008 American Renaissance Conference. So, perhaps on the assumption that one Englishman should be as good as another, I was informed that the speaker would be Jonathan Bowden, someone I had never even heard of, much less heard speak. But I was assured that he had an excellent reputation as an orator.

I looked at Bowden’s website and had a good chuckle, imagining how his Nietzscheanism, paganism, and aggressive aesthetic modernism would play in the Bible Belt.

I liked Jonathan’s paintings enough to end up buying two of them and commissioning two more. But I thought his works of fiction were unreadable. The essays he had online, moreover, seemed half-baked. (He was later to write much better ones for Counter-Currents, but it was never his forte.) At the time, I had not seen his YouTube videos, and I foolishly inferred from his writings that he could not be much of a speaker — which, I suspected, was the real reason he had been invited.

The afternoon before the meeting, I received a panicked call from Jonathan. He was at the Atlanta Airport. The individual who was supposed to pick him up was more than 40 minutes late. Jonathan’s mobile phone did not work in the US, and the tardy party was not answering his, so he had no idea what to do. I gave Jonathan my address and told him to jump in a cab.

About 40 minutes later, Jonathan arrived in good cheer. He was wearing a rumpled black suit and tie. Around his neck was a wooden pendant inscribed with an Odal rune. He asked me how I thought it would go over in Atlanta. I suggested that if anyone asks, he simply declare it to be the sign of the fish.

He wore thick spectacles, but when he wanted to read something, he would study it under a magnifying glass he drew from his pocket.

[2]

Jonathan Bowden, "Adolf and Leni"

When he spoke, he gestured dramatically with a long, thin cardboard box labeled “Samurai Sword – Made in Taiwan.” I joked that it must have been a hit at airport security. Then he opened it up, and, with a flourish, unrolled two watercolors that I had purchased from him, “Adolf and Leni” and “Savitri Diva.”

“This is going to be interesting,” I thought.

What impressed me most about Jonathan was not his diverting eccentricity, but his intelligence, vast reading, and devastating wit.

On his own, he could be quiet and pensive. His face would take on an impassive mask-like quality, enlivened only by a penetrating, sometimes unsettling gaze. But when Jonathan had the right kind of audience, he would come alive. He had an endless supply of interesting stories, often told with hilarious impressions. He was one of the funniest, most brilliant, and most intellectually stimulating people I have ever known.

When the night of Jonathan’s speech came, I asked him what he was going to talk about. He said that he had no idea. My stomach tightened. “This is going to be really interesting,” I thought.

Mike Polignano has already told the story of how when Jonathan took the stage, he swept aside the shrieky, malfunctioning microphone and filled a ballroom with his unamplified voice, speaking extemporaneously and fluently for two hours. Jonathan’s speech that night was quite simply the greatest speech I had ever heard. He upstaged all of creation that day.

Naturally, he was not invited back. (He was invited to speak at American Renaissance and the National Policy Institute, although he cancelled both times.)

When Mike Polignano and I started Counter-Currents in June of 2010, Jonathan was very supportive. He wrote 27 original articles and reviews [3] for Counter-Currents. (He also wrote eight more pieces for Counter-Currents under a pseudonym.) He told me that he wrote most of these pieces from memory. He would go to a local public library where he could use a computer for an hour at a time, and he would write an essay as if it were a timed university examination. We discussed publishing a collection of essays on fascistic themes in popular literature to be entitled Pulp Fascism.

There were periods when Jonathan wrote for us weekly, but then he would turn his attention to literary projects. Many of these were available as free E-books on his website, which is no longer online. If anybody has copies of these E-books, we will be glad to make them available from Counter-Currents.

The last thing Jonathan wrote for us, just three days before his reported death on March 29, was a blurb for Kerry Bolton’s Artists of the Right.

The last time I saw Jonathan was in February of this year. We flew him out to San Francisco to speak at a gathering of Counter-Currents writers and friends. Jonathan was in high spirits during his visit to the Bay Area. He was bursting with ideas, plans, and funny stories. His speech, “Western Civilization Bites Back,” is available here [4] in recorded and transcribed form. I also recorded a two hour interview with him about art and culture, which I will make available if it can be recovered from a damaged flash drive.

[5]

Jonathan Bowden, "Medusa Now Ventrix"

He brought me a third painting, “Medusa Now Ventrix,” and accepted a commission to do a fourth (to be entitled “Meat in the Walls”). (He charged me mere tokens — “friend prices.”)

Jonathan Bowden was an enormous asset to our cause, and we at Counter-Currents did everything we could to encourage and aid him in making the most of his talents. The same donor who made possible the trip also allowed us to buy Jonathan a new laptop to make it easier for him to write, and Mike Polignano tutored him on how to use it. We also gave him a podcasting kit, hoping that he would start doing weekly shows.

But his time ran out.

Forty-nine years is not enough time. But we can take some solace in the fact that Jonathan spent his time well: he lived, created, and spoke in the light of the truth as he saw it. That is a fuller, richer life than 99 years of lies, compromise, cowardice, and conventionality.

When I heard that Jonathan had died, I remarked to a friend, “If it is true, we all have to work harder.” But another friend pointed out that this presupposed that we could take Jonathan’s place, and we can’t. He is an irreplaceable talent. All we can do is rejoice in the time he spent with us, and make the most of the time we have remaining. Forty-nine isn’t that far off for a lot of us. We have a world to win. Let’s make every moment count.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/04/remembering-jonathan-bowden/

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2012/04/bowden7.jpg

[2] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2011/01/adolf_and_leni.jpg

[3] 27 original articles and reviews: http://www.counter-currents.com/author/jbowden//

[4] here: http://www.counter-currents.com/2012/03/jonathan-bowdens-western-civilization-bites-back/

[5] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2010/08/bowden4.jpg

mardi, 17 avril 2012

Caspar von Schrenck-Notzing, RIP

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Caspar von Schrenck-Notzing, RIP

Paul Gottfried (2009)
 

PAUL GOTTFRIED is the Raffensperger Professor of Humanities at Elizabethtown College in Pennsylvania.

The death of Caspar von Schrenck- Notzing on January 25, 2009, brought an end to the career of one of the most insightful German political thinkers of his generation. Although perhaps not as well known as other figures associated with the postwar intellectual Right, Schrenck- Notzing displayed a critical honesty, combined with an elegant prose style, which made him stand out among his contemporaries. A descendant of Bavarian Protestant nobility who had been knights of the Holy Roman Empire, Freiherr von Schrenck- Notzing was preceded by an illustrious grandfather, Albert von Schrenck-Notzing, who had been a close friend of the author Thomas Mann. While that grandfather became famous as an exponent of parapsychology, and the other grandfather, Ludwig Ganghofer, as a novelist, Caspar turned his inherited flair for language toward political analysis.

Perhaps he will best be remembered as the editor of the journal Criticón, which he founded in 1970, and which was destined to become the most widely read and respected theoretical organ of the German Right in the 1970s and 1980s. In the pages of Criticón an entire generation of non-leftist German intellectuals found an outlet for their ideas; and such academic figures as Robert Spämann, Günter Rohrmöser, and Odo Marquard became public voices beyond the closed world of philosophical theory. In his signature editorials, Criticón's editor raked over the coals the center-conservative coalition of the Christian Democratic (CDU) and the Christian Social (CSU) parties, which for long periods formed the postwar governments of West Germany.

Despite the CDU/CSU promise of a "turn toward the traditional Right," the hoped-for "Wende nach rechts" never seemed to occur, and Helmut Kohl's ascent to power in the 1980s convinced Schrenck- Notzing that not much good could come from the party governments of the Federal Republic for those with his own political leanings. In 1998 the aging theorist gave up the editorship of Criticón, and he handed over the helm of the publication to advocates of a market economy. Although Schrenck-Notzing did not entirely oppose this new direction, as a German traditionalist he was certainly less hostile to the state as an institution than were Criticón's new editors.

But clearly, during the last ten years of his life, Schrenck-Notzing had lost a sense of urgency about the need for a magazine stressing current events. He decided to devote his remaining energy to a more theoretical task—that of understanding the defective nature of postwar German conservatism. The title of an anthology to which he contributed his own study and also edited, Die kupierte Alternative (The Truncated Alternative), indicated where Schrenck-Notzing saw the deficiencies of the postwar German Right. As a younger German conservative historian, Karl- Heinz Weissmann, echoing Schrenck- Notzing, has observed, one cannot create a sustainable and authentic Right on the basis of "democratic values." One needs a living past to do so. An encyclopedia of conservatism edited by Schrenck-Notzing that appeared in 1996 provides portraits of German statesmen and thinkers whom the editor clearly admired. Needless to say, not even one of those subjects was alive at the time of the encyclopedia's publication.

What allows a significant force against the Left to become effective, according to Schrenck-Notzing, is the continuity of nations and inherited social authorities. In the German case, devotion to a Basic Law promulgated in 1947 and really imposed on a defeated and demoralized country by its conquerors could not replace historical structures and national cohesion. Although Schrenck-Notzing published opinions in his journal that were more enthusiastic than his own about the reconstructed Germany of the postwar years, he never shared such "constitutional patriotism." He never deviated from his understanding of why the post-war German Right had become an increasingly empty opposition to the German Left: it had arisen in a confused and humiliated society, and it drew its strength from the values that its occupiers had given it and from its prolonged submission to American political interests. Schrenck-Notzing continually called attention to the need for respect for one's own nation as the necessary basis for a viable traditionalism. Long before it was evident to most, he predicted that the worship of the postwar German Basic Law and its "democratic" values would not only fail to produce a "conservative" philosophy in Germany; he also fully grasped that this orientation would be a mere transition to an anti-national, leftist political culture. What happened to Germany after 1968 was for him already implicit in the "constitutional patriotism" that treated German history as an unrelieved horror up until the moment of the Allied occupation.

For many years Schrenck-Notzing had published books highlighting the special problems of post-war German society and its inability to configure a Right that could contain these problems. In 2000 he added to his already daunting publishing tasks the creation and maintenance of an institute, the Förderstiftung Konservative Bildung und Forschung, which was established to examine theoretical conservative themes. With his able assistant Dr. Harald Bergbauer and the promotional work of the chairman of the institute's board, Dieter Stein, who also edits the German weekly, Junge Freiheit, Schrenck-Notzing applied himself to studies that neither here nor in Germany have elicited much support. As Schrenck-Notzing pointed out, the study of the opposite of whatever the Left mutates into is never particularly profitable, because those whom he called "the future-makers" are invariably in seats of power. And nowhere was this truer than in Germany, whose postwar government was imposed precisely to dismantle the traditional Right, understood as the "source" of Nazism and "Prussianism." The Allies not only demonized the Third Reich, according to Schrenck-Notzing, but went out of their way, until the onset of the Cold War, to marginalize anything in German history and culture that was not associated with the Left, if not with outright communism.

This was the theme of Schrenck-Notzing's most famous book, Charakterwäsche: Die Politik der amerikanischen Umerziehung in Deutschland, a study of the intent and effects of American re-education policies during the occupation of Germany. This provocative book appeared in three separate editions. While the first edition, in 1965, was widely reviewed and critically acclaimed, by the time the third edition was released by Leopold Stocker Verlag in 2004, its author seemed to be tilting at windmills. Everything he castigated in his book had come to pass in the current German society—and in such a repressive, anti-German form that it is doubtful that the author thirty years earlier would have been able to conceive of his worst nightmares coming to life to such a degree. In his book, Schrenck-Notzing documents the mixture of spiteful vengeance and leftist utopianism that had shaped the Allies' forced re-education of the Germans, and he makes it clear that the only things that slowed down this experiment were the victories of the anticommunist Republicans in U.S. elections and the necessities of the Cold War. Neither development had been foreseen when the plan was put into operation immediately after the war.

Charakterwäsche documents the degree to which social psychologists and "antifascist" social engineers were given a free hand in reconstructing postwar German "political culture." Although the first edition was published before the anti-national and anti-anticommunist German Left had taken full power, the book shows the likelihood that such elements would soon rise to political power, seeing that they had already ensconced themselves in the media and the university. For anyone but a hardened German-hater, it is hard to finish this book without snorting in disgust at any attempt to portray Germany's re-education as a "necessary precondition" for a free society.

What might have happened without such a drastic, punitive intervention? It is highly doubtful that the postwar Germans would have placed rabid Nazis back in power. The country had had a parliamentary tradition and a large, prosperous bourgeoisie since the early nineteenth century, and the leaders of the Christian Democrats and the Social Democrats, who took over after the occupation, all had ties to the pre-Nazi German state. To the extent that postwar Germany did not look like its present leftist version, it was only because it took about a generation before the work of the re-educators could bear its full fruit. In due course, their efforts did accomplish what Schrenck-Notzing claimed they would—turning the Germans into a masochistic, self-hating people who would lose any capacity for collective self-respect. Germany's present pampering of Muslim terrorists, its utter lack of what we in the U.S. until recently would have recognized as academic freedom, the compulsion felt by German leaders to denigrate all of German history before 1945, and the freedom with which "antifascist" mobs close down insufficiently leftist or anti-national lectures and discussions are all directly related to the process of German re-education under Allied control.

Exposure to Schrenck-Notzing's magnum opus was, for me, a defining moment in understanding the present age. By the time I wrote The Strange Death of Marxism in 2005, his image of postwar Germany had become my image of the post-Marxist Left. The brain-snatchers we had set loose on a hated former enemy had come back to subdue the entire Western world. The battle waged by American re-educators against "the surreptitious traces" of fascist ideology among the German Christian bourgeoisie had become the opening shots in the crusade for political correctness. Except for the detention camps and the beating of prisoners that were part of the occupation scene, the attempt to create a "prejudice-free" society by laundering brains has continued down to the present. Schrenck-Notzing revealed the model that therapeutic liberators would apply at home, once they had fi nished with Central Europeans. Significantly, their achievement in Germany was so great that it continues to gain momentum in Western Europe (and not only in Germany) with each passing generation.

The publication Unsere Agenda, which Schrenck-Notzing's institute published (on a shoestring) between 2004 and 2008, devoted considerable space to the American Old Right and especially to the paleoconservatives. One drew the sense from reading it that Schrenck-Notzing and his colleague Bergbauer felt an affinity for American critics of late modernity, an admiration that vastly exceeded the political and media significance of the groups they examined. At our meetings he spoke favorably about the young thinkers from ISI whom he had met in Europe and at a particular gathering of the Philadelphia Society. These were the Americans with whom he resonated and with whom he was hoping to establish a long-term relationship. It is therefore fitting that his accomplishments be noted in the pages of Modern Age. Unfortunately, it is by no means clear that the critical analysis he provided will have any effect in today's German society. The reasons are the ones that Schrenck-Notzing gave in his monumental work on German re-education. The postwar re-educators did their work too well to allow the Germans to become a normal nation again.

mercredi, 11 avril 2012

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Note de SYNERGIES EUROPEENNES: Enfin! Quelques instances officielles enBelgique rendent hommage à Raymond De Becker, peut-être grâce à la fidélité inébranlable que lui témoigne le doyen des lettres francophones du royaume, Henry Bauchau. Ce colloque, dont le programme complet figure en pdf en queue de présentation, fait véritablement le tourde laquestion. Puisse ce colloque être l'amorce d'une renaissance spirituelle et d'une nouvelle irruption d'éthique dans un royaume voué depuis près de six décennies à la veulerie.


La journée d'étude "Autour de Raymond De Becker" a eu lieu les 5 et 6 avril 2012 aux Facultés universitaires Saint Louis.
Raymond de Becker

Étrangement, la figure de Raymond De Becker (Schaerbeek, 30 janvier 1912 – Versailles, 1969), souvent évoquée dans les travaux des historiens, n’a encore fait l’objet d’aucun travail biographique. « Quant à Raymond De Becker », écrivait fort opportunément un « ami » d’André Gide, son histoire reste à écrire, car il semble que son passage du christianisme prophétique au fascisme virulent ait fait de lui un personnage non seulement sulfureux mais tabou » .


Après des études secondaires inachevées à l’Institut Sainte-Marie à Bruxelles, Raymond De Becker trouve à s’employer au sein d’une entreprise d’import-export américaine. Il quitte ce poste après un an pour entrer au secrétariat de l’ACJB à Louvain en tant que secrétaire général de la JIC (Jeunesse indépendante catholique – cercle de jeunesse des classes moyennes) qu’il a créée en mars 1928 avec sept autres jeunes industriels et commerçants. Il entre en contact avec des étudiants de Saint-Louis via Conrad van der Bruggen à l’été 1931 et participe à la fondation de l’Esprit nouveau et des Équipes Universitaires. Il interrompt ses activités fin décembre 1932 après le Congrès de la Centrale Politique de Jeunesse pour entreprendre une retraite mystique en France à Tamié où il a déjà effectué une reconnaisse au mois de septembre précédent de retour d’un voyage à Rome. Il met au point les premiers statuts du mouvement Communauté et revient en Belgique en novembre 1933 après un passage à Paris où il a rencontré André Gide. Ayant fait la connaissance d’Emmanuel Mounier à Bruxelles début 1934, il contribue à la pénétration des groupes Esprit en Belgique. De 1936 à 1938, il est associé au comité de rédaction de La Cité chrétienne puis passe à L’Indépendance belge d’où il est renvoyé en 1939. Il participe alors à la fondation du périodique neutraliste L’Ouest dirigé par Jean de Villers. Durant l’Occupation, il deviendra directeur éditorial des Éditions de la Toison d’Or et rédacteur en chef du « Soir volé ». Il rompra cependant avec la Collaboration en septembre 1943, justifiant sa rupture par l’incertitude manifestée par Léon Degrelle et les rexistes de s’attacher à défendre une structure étatique propre en Belgique. Il sera alors placé en résidence surveillée, d’abord près de Genappe puis à l’hôtel d’Ifen à Hirschegg dans les Alpes bavaroises en Autriche où il côtoie notamment André François-Poncet. Raymond De Becker sera condamné à mort le 24 juillet 1946 par le Conseil de guerre de Bruxelles. Il lui est alors essentiellement reproché d’avoir valorisé la Légion « Wallonie » et d’avoir soutenu en mars 1942 la mise en place du Service du Travail Obligatoire. Il sera cependant libéré en février 1951 mais contraint à l’exil. Il se réfugie en France où il poursuit une activité de publiciste principalement tournée vers la psychanalyse.

Ce colloque ambitionne donc d’aborder sans tabous cette figure capable de se mêler à tout ce qui compte dans les cénacles intellectuels belges et européens de l’entre-deux-guerres. A travers quatre sessions, qui rassembleront des universitaires belges et étrangers, il s’agira de revenir non seulement sur le parcours et les engagements du jeune publiciste dans les années 30 et 40, mais aussi de tenter de mesurer l’influence qu’il a pu exercer sur les nouvelles relèves belges et européennes. Cette démarche, essentielle, est compliquée par le fait que s’étant fourvoyé au nom de l’idée d’Europe unie dans la collaboration avec les nazis, le publiciste est devenu, dans la foulée de l’épuration, un « ami encombrant ».


En ce sens, les contributions devraient aussi permettre d’appréhender l’angle-mort qui apparaît immanquablement dans le parcours de nombreux personnages-clés de l’histoire intellectuelle, politique et artistique (Spaak, mais aussi Hergé, Paul De Man, Bauchau) avant et après la Deuxième Guerre mondiale.


A cet égard, il est encore à espérer que cette rencontre permettra aussi de retrouver la piste de papiers et d’archives « oubliées » ou en déshérence de/sur Raymond De Becker…


Les différentes interventions feront l’objet d’une publication à laquelle sera adjointe la correspondance conservée entre Raymond De Becker et Jacques Maritain conservée au Centre Maritain de Kolbsheim.


Programme du colloque

samedi, 07 avril 2012

Le poète Wies Moens: disparu il y a trente ans

“Brederode” / “ ’t Pallieterke”:
Le poète Wies Moens: disparu il y a trente ans

L’expressionniste flamand qui refusait les “normalisations”

wm1.jpgLe 5 février 1982, Wies Moens quittait ce monde, lui, le principal poète moderne d’inspiration thioise et grande-néerlandaise. Il est mort en exil, pas très loin de nos frontières, à Geleen dans le Limbourg néerlandais. Dans un hebdomadaire comme “’t Pallieterke”, qui cultive l’héritage national flamand et l’idéal grand-néerlandais, Wies Moens est une référence depuis toujours. Il suffit de penser à l’historien de cet hebdomadaire, Arthur de Bruyne, aujourd’hui disparu, qui s’inscrivait dans son sillage. Pour commémorer le trentième anniversaire de la disparition de Wies Moens, “Brederode”, qui l’a connu personnellement, lui rend ici un hommage mérité. L’exilé Wies Moens n’avait-il pas dit, en 1971: “La Flandre d’aujourd’hui, l’agitation politicienne qui y sévit, l’art, la littérature, tout cela ne me dit quasi plus rien. Je ne ressens aucune envie de revenir de mon exil”?

Ces mots, tous pleins d’amertume et de tristesse, nous les avons entendus sortir de la bouche de Wies Moens, alors âgé de 73 ans, lorsque nous l’avons rencontré dans son appartement de Neerbeek (Limbourg néerlandais) pour converser longuement avec lui. Nous avions insisté sur la nostalgie qu’il cultivait à l’endroit de sa chère Flandre, de son pays scaldien chéri, de sa ville de Termonde (Dendermonde) et sur la splendeur des douces collines brabançonnes près d’Asse. En ces années-là, Wies Moens était encore très alerte: il avait une élocution charmante pimentée d’un humour solide, il était un narrateur sans pareil. Mais ce poète, et ce chef populaire par excellence, observait, atterré, le délitement de la culture et l’involution générale du pays, amorcé dans les années 60. Les principes, les valeurs, qu’il avait défendus avec tant d’ardeur, périclitaient: l’inébranlable foi en Dieu du peuple des Flandres, l’esprit communautaire du catholicisme implicite de la population, l’idée de communion entre tous les membres d’un même peuple, la fierté nationale, le sens intact de l’éthique, l’idéal de l’artiste qui sert le peuple, tout cela allait à vau-l’eau.

Avec la vigueur qu’on lui connaissait, avec sa fidélité inébranlable aux principes qu’il entendait incarner, le poète septuagénaire fit une nouvelle fois entendre sa voix: elle s’éleva pour avertir le peuple des risques de déclin qu’il encourait. Il fut l’un des premiers! L’occasion lui fut donnée en 1967 lorsqu’il s’insurgea contre certains professeurs de l’université populaire de Geleen, dont il fut le directeur zélé et consciencieux à partir de 1955. Wies Moens fit entendre ses griefs contre le modernisme vide de toute substance que ces professeurs propageaient. Derrière son dos, la direction de l’université populaire décida de continuer sur cette lancée: Moens donna bien vite sa démission.

Un rénovateur

Wies Moens a été un poète avant-gardiste soucieux de ne pas se couper du peuple: il s’est engagé pour la nation flamande (et grande-néerlandaise) et n’a cessé de promouvoir des idées sociales et socialistes avancées. Dans ce contexte, il voulait demeurer un “aristocrate de l’esprit” et un défenseur de toutes les formes de distinction. Avec sa voix hachée, l’une de ses caractéristiques, le réaliste Wies Moens condamnait tous les alignements faciles sur les affres de décadence et de dégénérescence. On repère cette option dans le poème “Scheiding der werelden” (= “Divorce des mondes”), qu’il écrivit peu après avoir donné sa démission à Geleen en 1967:

“Ik wijs uw aanpassing af,
Die nooit anders is
Dan aanpassing benedenwaarts:
Een omlaagdrukken
Van het Eeuwige naar ’t vergankelijke,
Van het Gave naar ’t ontwrichte,
Van het Grote naar de middelmaat”

“Je rejette vos adaptations
Qui ne sont jamais autre chose
Qu’adaptations à toutes les bassesses
Une pression vers le bas
De l’Eternel vers le mortel
Du grand Don vers la déliquescence
De la Grandeur vers la médiocrité”.

Pendant toute sa vie Wies Moens n’a jamais été autre chose qu’un rénovateur: en toutes choses, il voulait promouvoir élévation et anoblissement. De même, bien sûr, dans ses idéaux politiques, comme, par exemple, celui, récurrent, de la réunification des Pays-Bas déchirés au sein d’un nouvel “Etat populaire Grand-Néerlandais” (= “Dietse Volksstaat”), s’étendant de la Somme au sud de la Flandre méridionale jusqu’au Dollard en Frise. Moens voulait la perfection par l’émergence d’un homme nouveau, aux réflexes aristocratiques immergés dans une foi profonde. Ce nouvel homme thiois (= Diets) serait ainsi la concrétisation du rêve du jeune poète Albrecht Rodenbach: “Knape, die telt een hele man”.

Pour évoquer ici la mémoire de Moens, notre principal poète grand-néerlandais, le rénovateur de notre art poétique moderne (que suivirent de grands poètes néerlandais comme Antoon van Duinkerken et Gabriël Smit), je commencerai par un de ses premiers poèmes, parmi les plus beaux et les plus connus, que plus personne, malheureusement, n’apprend de nos jours. Ce poème nous montre comment “l’esprit nouveau de ces temps nouveaux” d’amour fraternel s’exprimait avec force et hauteur dans les premiers recueils de Moens; prenons, par exemple, ce poème issu du recueil “De Boodschap” (= “Le Message”), de 1920:

“De oude gewaden
zijn afgelegd.
De frisse vaandels
Staan strak
In den morgen.
Aartsengelen
Klaroenen
Den nieuwen dag.

Wie het mes van zijn haat
Sleep op zijn handpalm,
Inkeren zal hij bij den vijand
En reiken zijn mond hem ten zoen!

Wie gin naar verdrukten
En droeg vertedering in ’t hart,
Hij wakkert hen op tot den Opstand
Die het teken van de Gezalfden
Zichtbaar maakt aan het voorhoofd
Der kinderen uit de verborgenheid!

Strak staan
De vaandels in den morgen.
Aartsengelen
Roren de trom.
De jonge karavanen
Zetten aan”.

“Les vieux oripeaux,
nous les avons ôtés.
Les étendards tout neufs
Sont dressés
Dans l’air du matin.
Les archanges
Au clairon annoncent
Le jour nouveau.

Celui qui a aiguisé le couteau
De sa haine dans la paume de la main,
Se repentira auprès de l’ennemi
Et lui tendra la bouche pour un baiser!

Qui porte attention aux opprimés
Et attendrissement en son coeur
Les incitera à la Rébellion,
Signe des Oints,
Rendra celui-ci visible au front
Des enfants des ténèbres!

Dressés sont
Les étendards dans l’air du matin.
Les archanges
Battent le tambour.
Les jeunes caravanes
Se mettent en marche”.

Avec des poèmes de ce genre, aux paroles drues, au symbolisme fort, avec d’autres titres, plus connus, comme “Laat mij mijn ziel dragen in het gedrang” (“Fais que je porte mon âme dans la mêlée”) ou “Knielen zal ik...” (“Et je m’agenouillerai...”) ou encore “Als over mijn hoofd de zware eskadronnen gaan...” (“Quand, au-dessus de ma tête, vont les lourds escadrons...”), Moens faisait fureur chez les jeunes amateurs de poésie, mais aussi chez les plus anciens, au début des années 20. Avec Paul Van Ostaijen, Marnix Gijsen et Karel van den Oever, il fut l’un des principaux représentant de l’expressionnisme flamand, mouvement dans lequel il incarnait le courant humanitaire.

La Flandre, au cours du 20ème siècle, n’a eu que peu de chefs, d’éducateurs du peuple et d’artistes du format de Wies Moens. Le principal de ses contemporains, parmi les artistes serviteurs du peuple et chrétiens, fut Ernest van der Hallen (1898-1948). Tous deux partageaient ce dégoût et cette haine de l’embourgeoisement et de la médiocrité que l’on retrouve chez un Romano Guardini ou un Léon Bloy.

Avant de prendre conscience des anciennes gloires nationales flamandes et néerlandaises, Wies Moens fut pris de pitié pour la misère sociale, pour la déchéance spirituelle et matérielle de la “pauvre Flandre” d’avant la première guerre mondiale. Une immense compassion naquit en lui, dès son enfance. C’est là qu’il faut voir l’origine du grand combat de son existence pour l’éducation populaire, pour l’élévation du peuple et pour sa libération. Il en témoigne dans l’esquisse épique et lyrique de sa vie, qu’il écrivit en 1944 sous le titre de “Het spoor”:

Eer ik uw grootheid zag, kende ik uw nood:
Uw armoe, Volk, ging eerder in mijn hart
Dan in mijn geest de rijkdom van uw roem

“Avant que je n’entrevis ta gloire,
je connus ta misère, ta pauvreté,
ô peuple, et ce fut d’abord en mon coeur
que ta richesse et ta gloire entrèrent,
bien avant qu’elles n’arrivassent en mon esprit”.

La tâche de sa vie a été d’élever le peuple haut au-dessus de ses petites mesquineries, de sa déréliction et de sa minorité: cet acharnement ne lui a rapporté que l’exil, l’ingratitude et l’incompréhension... mais aussi la conscience que “ce bon combat, il l’a mené jusqu’à l’extrême”. L’engagement social de Moens était bien plus vaste et profond que ce qui se fait en ce domaine de nos jours, avec les théories fumeuses du “progressisme”. Le souci que Moens portait au peuple s’est, au fil du temps, mué en un amour, inspiré de l’évangile, pour tout le peuple des Flandres et des Pays-Bas. A l’évidence, il a trouvé la voie du flamingantisme pour incarner cet amour, plus tard celle du nationalisme flamand et thiois, dans une perspective d’élévation du peuple, bien plus vaste que celle des partis de la politique politicienne. Dans les années 20, il émis de vigoureuses tirades contre les étudiants de l’AKVS, “parce qu’ils n’étaient pas assez sociaux”.

Un art au service de la communauté

Ce long et patient travail d’élever le peuple au-dessus de sa misère se reflète dans sa poésie, qui, sur le plan du rythme et du style, a évolué de l’expressionnisme humanitaire à connotations bibliques comme dans les recueils “De Boodschap”, “De Tocht”, “Opgangen” et “Landing” (années 20), tous marqués par un langage luxuriant, imagé et symbolique et un rythme chantant, pour aboutir, dès le milieu des années 30, à une poésie de combat pour le peuple, plus sobre et plus tranchante comme dans les recueils “Golfslag” (1935), “Het Vierkant” (1938) et “Het Spoor” (1944).

Ses derniers poèmes évoquent sa plongée dans la clandestinité, sa condamnation et son exil. “De Verslagene” (= “Le Vaincu”) de 1963 et “Ad Vesperas” de 1967 sont parfois tout compénétrés d’amertume mais, en dépit de cela, témoignent à nouveau d’une foi en Dieu inébranlée mais, cette fois, épurée, notamment dans “Verrijzenistijd” et “Late Psalm” (“Et Dieu fut... se répètent-ils...”). Jusque dans ses derniers vers, Wies Moens est resté le poète de la communauté catholique par excellence, fidèle à sa “foi néerlandaise”, selon laquelle l’art doit demeurer avant tout service à la communauté.

wm2.gifWies Moens ne cessera plus jamais de nous interpeller, surtout grâce à ses premiers poèmes, dont le sublime “Laat mij mijn ziel dragen in het gedrang...”, paru dans le recueil “De Boodschap”. Il l’a écrit à 21 ans, la veille de Noël 1918, quand il était interné à la prison de Termonde, pour avoir été étudiant et activiste. Dans le deuxième ver de ce poème, il esquisse déjà tout le travail qu’il s’assigne, celui d’éduquer le peuple:

“Tussen geringen staan en hun ogen richten naar boven
waar blinken Uw eeuwige sterren”.

“Se trouver parmi les humbles et tourner leurs regards vers le haut
où scientillent Tes étoiles éternelles”.

C’est avec ce poème, et avec d’autres, tirés de ses premiers recueils, qu’il a fortement influencé des poètes et des écrivains catholiques et non catholiques, tant dans les Pays-Bas du Nord qu’en Flandre. Dans le Nord, citons notamment Antoon Van Duinkerken, Gabriël Smit, Henri Bruning et Albert Kuyle. C’est aussi cette poésie au service de la communauté populaire qu’il défendra et illustrera lorsqu’il deviendra le secrétaire de l’association du “Théâtre populaire flamand” (“Vlaamse Volkstoneel”), une association qu’il contribuera à rénover entre 1922 et 1926, ou lorsqu’il sera le correspondant du très officiel quotidien néerlandais “De Tijd” ou encore le collaborateur attitré de revues comme “Pogen”, “Jong Dietsland”, “Dietbrand” et “Volk” (que les Allemands jugeront “trop catholique”).

Contrairement à bon nombre de ses anciens compagnons de combat, Wies Moens n’a jamais fléchi, n’a jamais abandonné les idéaux auxquels il avait adhéré. Au contraire, l’exilé, devenu âgé, n’a cessé de rejeter les édulcorations de l’idéal, toutes les formes de concession. La Fidélité est resté sa vertu la plus forte:

“De Trouw moet blijke’ in onheils bange dagen.
Zij moet als ’t koren lijden harde slagen.
Het kaf stuift weg, men houdt het kostbaar graan!”.

“Elle doit demeurer, la Fidélité, dans les jours de peur et de malheur.
Elle doit éprouver les coups les plus durs, comme le blé.
Car alors l’ivraie partira, virevoltante, et le bon grain, si précieux, demeurera!”.

“Brederode” / “ ’t Pallieterke”.
(article paru dans “’ t Pallieterke”, Anvers, 28 mars 2012).

vendredi, 09 mars 2012

The Struggle of Jean Thiriart

Claudio Mutti:

The Struggle of Jean Thiriart

 

thiriart4400mill.jpgThe last thought I have about Jean Thiriart is a letter that he wrote to me some months before he died: he was searching for a place in the Appenins, where he could have some trekking experience for two weeks. Almost seventy years old, he was full of inner strength: he didn’t parachute since some years before, but he travelled on his aliscafe in the Northern Sea.

In the 70s, as a young activist in “Young Europe”, the organization he leaded, I met him several times. I knew him in Parma in 1964, near a monument that immediately charmed his “Eurafrican” sensibility: it was the monument of Vittorio Bottego, a famous traveler in Juba area. Then I met him in some meetings of “Young Europe” and in a camping on the Alps. In 1967, just before the Zionist aggression against Egypt and Syria, I was in a crowded conference that he had in Bologna, where he explained why Europe had to support the Arabian world against Zionism. In 1968, I participated to a meeting organized by “Young Europe” in Ferrara, where Thiriart completely developed the anti-imperialist line: “Here in Europe, the only anti-American pivot is and will be a European left-wing nationalism […] What I mean is that a popular-oriented nationalism will be necessary for Europe […] a European national-communism would cause a great chain-reaction in terms of enthusiasm […] Guevara said that many Vietnams are necessary, and he was right. We need to transform Palestine into a new Vietnam”. This one was the last speech that I listened to.

Jean-François Thiriart was born in Bruxelles on March 22 1922 in a liberal-oriented family which had come from Lieges. During his youth he was a member of the Jeune Garde Socialiste Unifiée and in the Socialiste Anti-Fasciste Union. During a not short period he cooperated with professor Kessamier, president of the philosophical society Fichte Bund, originated from the national-bolshevist movement; then, with some other far-left elements supporting the alliance between Belgium and the national-socialist Reich, he became a member of the association Amis du Grand Reich Allemand. Because of this reason, he was condemned to death by the Belgian dealers of the Anglo-American forces in 1943: the English radio putted his name in the proscription list that was communicated to the résistance with all the instructions. After the “liberation”, he was condemned through an article of the Belgian Penal Law System, modified by the Belgian dealers of the Atlantists. He remained in jail for some years and, when he was free, the judge decided to forbid him to write.

In 1960, during the decolonization of Congo, Thiriart participated to the foundation of the Comité d’Action et de Défense des Belges d’Afrique, then evolved into the Mouvement d’Action Civique. On March 4th 1962, as a member of this movement, Thiriart met many members of other political European groups, in Venice; the conclusion of these meetings was a common declaration, in which they decided to make common efforts to create a “European National Party, built on the idea of the European Unity, able to fight the American enslavement of Western Europe and to support the reunification with the Eastern nations, from Poland to Bulgaria passing through Hungary”.

However, the project of the European Party failed after a short time, especially because of the micro-nationalist tendencies expressed by Italian and German members of the Venice Manifesto.

The lesson that Thiriart learned from this failure is that the European Party cannot be created by an alliance of micro-national movements, but it must be an European common organization since the beginning. So, in 1963, “Young Europe” was born; it was a movement strongly organized and active in Belgium, Nederland, France, Switzerland, Austria, Germany, Italy, Spain, Portugal and England. The political plan of “Young Europe” is explained inside the European Nation Manifesto, which begins so: “Between the Soviet block and the US block, our role is aimed to the building of a great motherland: a united, powerful and communitarian Europe […] from Brest to Bucharest”. The choice was for a Europe strongly united: “‘Federal Europe’ or ‘Europe of the Nations’ are both conceptions hiding lack of honesty and the inability of the people who support them. […] We condemn micro-nationalisms which keep European inhabitants divided”.

Europe must choose a strong armed neutrality and he must conquer its own atomic capacity; it must “abandon the UN circus” and support Latin America, who “fights for its unity and independence”. The Manifesto tried to find an alternative choice equally distant from the dominant social systems in the two Europes, claiming the “superiority of the worker over the capitalist” and the “superiority of man over the sworm”: “we want a dynamic community with the participation to the work of all men who compose it”. A new concept of organic representation was opposed to parliamentary democracy: “a political Senate, the Senate of European Nation built on the European provinces and composed of the highest personalities in the scientific outlook, in work, in the arts and literature; a syndical House that represents the interests of all the producers of Europe, finally free from the financial tyranny and from the stranger policy”. The Manifesto ended in this way: “We refuse ‘Europe in theory’. We refuse legal Europe. We condemn Strasbourg’s Europe ‘cause of her crime of treason. […] Or we will have a nation or we won’t have the independence. Against this legal Europe, we represent real Europe, Europe of the peoples, our Europe. We are the European Nation”.

After creating a school for political education of the members (that, from 1966 to 1968, published every month a magazine called L’Europe Communautaire), “Young Europe” tried to create a European Communitarian Syndicate and, in 1967, a university association (Università Europea), which was particularly strong in Italy. From 1963 to 1966 a new French magazine was published (Jeune Europe), with a weekly frequency; among the journals in the other countries, there was the Italian one called Europa Combattente, published every month.

From 1966 to 1968 La Nation Européenne was released, while La Nazione Europea was still published even in 1969, edited by the author of this article (one last release was published by Pino Balzano in Naples in 1970). La Nation Européenne, weekly magazine with a big format and, in some releases, composed of almost fifty pages, had important dealers: the political scientist Christian Perroux, the Algerian essayer Malek Bennabi, the deputy Francis Palmero, the Syrian Ambassador Selim el-Yafi, the Iraqi Ambassador Nather el-Omari, the leaders of the Algerian National Liberation Front Chérif Belkachem, Si Larbi and Djamil Mendimred, the president of the OLP Ahmed Choukeiri, the leader of the Vietcong mission in Algiers Tran Hoai Nam, the leader of the Black Panthers Stokeley Carmichael, the founder leader of the Centri d’Azione Agraria the prince Sforza Ruspoli, the writers Pierre Gripari and Anne-Marie Cabrini. Among the permanent reporters there were the professor Souad el-Charkawi (in Cairo) and Gilles Munier (in Algiers).

In the issue of February 1969, there was a long interview by Jean Thiriart with general Juan D. Peron, who admitted that he constantly read La Nation Européenne and completely agreed with its ideals. From his Spanish refuge in Madrid, the former president of Argentine declared that Castro and Guevara were developing the struggle for an independent Latin America, started many years before by the justicialist movement: “Castro – Peron said – is a promoter of the liberation. He had to ask help to an imperialism because the other one menaced to destroy him. But the Cubans’ aim is the liberation of the American Latin peoples. They have no other intention, but that one of the building of the continental countries. Che Guevara is a symbol of this fight. He was a great hero, because he served a great idea, until he became just this idea. He is the man of an ideal”.

Concerning the liberation of Europe, Thiriart projected to build some European Revolutionary Brigades to start the armed struggle against US invader. In 1966, he had a contact with Chinese Foreign Affairs Ministry Zhou Enlai in Bucharest, and he asked him to support the constitution of a political and military structure in Europe, to fight against the common enemy. In 1967, Thiriart was busy in Algiers: “It’s possible, it’s a must to consider a parallel action and hope the military formation of a kind of European revolutionary Reichswehr in Algeria. Nowadays, the governments of Belgium, Holland, England, Germany and Italy are in a different way the satellites of Washington; so, we, national-Europeans, European revolutionaries, we must go to Africa to form the cadres of a future political-military structure that, after serving in the Mediterranean Sea and in the Near Est, could fight in Europe to defeat the quislings of Washington. Delenda est Carthago”.

In the autumn of 1967, Gérard Bordes, headmaster of La Nation Européenne, went to Algeria to meet some members of the executive secretariat of National Liberation Front and Council for the Revolution. In April 1968, Bordes came back to Algeri with a Mémorandum à l’intention du gouvernement de la République Algérienne signed by himself and Thiriart, in which some proposals were contained: “European revolutionary patriots support the formation of special fighters for the future struggle against Israel; technical training of the future action aimed to a struggle against the Americans in Europe; building of an anti-American and anti-zionist information service for a simultaneous utilization in the Arabian countries and in Europe”.

The dialogue with Algeria had no results, so Thiriart started some talks with the Arabian countries of the Middle East. In fact, on June 3rd 1968, a militant of “Young Europe”, Roger Coudroy, fell in a battle against the Zionist army, while he was trying to enter into the occupied Palestine with a group of al-Fatah.

In the Autumn of 1968, Thiriart was invited by the governments of Iraq and Egypt, and by the Ba’ath Party. In Egypt he participated to the meeting of the Arabian Socialist Union, the Egyptian party of government; he was welcomed by several ministries and met the president Nasser. In Iraq he met some political personalities, among whom some leaders of the PLO, and was interviewed by some newspapers and mass media.

Anyway, the first aim of his travel was the trial to be supported in the creation of the European Brigades, which should participate to the national liberation struggle of Palestine and then should become the principal structure of a national liberation army in Europe. The Iraqi government denied its help, under Soviet pressure, so Thiriart’s aim failed. Disappointed by this failure, with no more economic means to support a high-level political struggle, Thiriart decided to stop his political activity.

From 1969 to 1981, Thiriart completely invested his time to his professional and syndical activity in the field of optometry, in which he obtained important promotions: he was president of the European Society of Optometry, of the Belgium National Union of Optometrists and Opticians, of Centre of Studies and Optical Sciences and he was a counselor in several commissions of the European Economic Community. Although this, in 1975 he was interviewed by Michel Schneider for the magazine Les Cahiers du Centre de Documentation Politique Universitaire of Aix-en-Provence and helped Yannick Sauveur to write his university final research about “Jean Thiriart and the European national-communitarianism” (Paris University, 1978). Another research has been published by Jean Beelen about the Mouvment d’Action Civique at the Free University of Bruxelles, six years before.

z_thiriart.gifIn 1981, a terrorist attack by Zionist criminals against his office in Bruxelles was the decisive input for Thiriart to restart political activity. He kept in touch again with the former dealer of La Nation Européenne, the Spanish historian Bernardo Gil Mugarza, who, during a long interview (108 questions), gave him the chance to newly and better explain his political thought. So a new book could take form: it was a book that Thiriart wanted to publish in Spanish and German languages, but it is still unpublished.

In the early 80s, Thiriart worked to a book that was never finished: The Euro-Soviet Empire from Vladivostok to Dublin. The plan of this work was composed of fifteen chapters, every one of which was divided into a lot of paragraphs. As the title of this book shows, the opinion of Thiriart about Soviet Union had completely changed. Left away the old motto “Neither Washington, nor Moscow”, Thiriart assumed a new idea that we could resume in this formula: “With Moscow, against Washington”. Thirteen years before, in truth, Thiriart had expressed his satisfaction about the Soviet military intervention in Prague, denouncing the Zionist plots in the so called “Prague Spring”, in the article Prague, l’URSS et l’Europe (“La Nation Européenne”, n. 29, November 1968), and he had started to define an “attention strategy” about the Soviet Union.

“A Western Europe free from US influence – he wrote – would permit to the Soviet Union to assume a role almost antagonist to the USA. A Western Europe allied, or a Western Europe aggregated to the USSR would be the end of the American imperialism […] If Russians want to separate Europeans from America – and they necessarily have to work for this aim in the long-term – it’s necessary they offer us the chance to create a European political organization against the American golden slavery. If they fear this political organization, the better way to solve this fear consists in the integration with it”.

In August 1992 Thiriart went to Moscow with Michel Schneider, headmaster of the magazine Nationalisme et République. They were welcomed by Aleksandr Dugin, who had already encountered Alain De Benoist and Robert Steuckers (in March), and had interviewed the author of this article for the Moscow TV (in June), after a meeting with the “red-brown” opposition.

The activity of Thiriart in Moscow – where there were also Carlo Terracciano and Marco Battarra as members of the European Liberation Front – was very intense. He did conferences, interviews, participated to a round table with Prokhanov, Ligacev, Dugin and Sultanov in the headquarter of the review Den, that published an article by Thiriart under the title “Europe to Vladivostok”; he had a meeting with Gennady Zyuganov; and another meeting with several members of the “red-brown” opposition, like Nikolai Pavlov and Sergej Baburin; he had a discussion with the philosopher and leader of the Islamic Renaissance Party Gaidar Jemal; he participated to a rally of Arabian students in the streets of Moscow.

On November 23rd, three months his coming-back to Belgium, Thiriart was stroked by a cardiac crisis.

Published in 1964 in French language, Thiriart’s book An Empire of 400 millions of people: Europe, was translated into other six languages. The Italian translation was made by Massimo Costanzo (at that time, dealer of Europa Combattente), who had introduced the work with these words: “The book by Thiriart is destined to receive a great interest because of its precision and its accuracy. But where this accuracy comes from? From a very simple point: the Author has used an essentially political language, far from the smokes of ideologies and from abstract constructions. After a careful reading, you can find even some ideological elements inside the book, but these ones emerge from the political thesis, and not vice-versa, like it was in the national-European field until nowadays”.

The reader of this second Italian edition probably will agree with all what Massimo Costanzo wrote forty years ago. The reader will realize that this book, maybe the most famous one among all the books by Thiriart, is an actual book, able to preview a lot of factors, even if it’s naturally included in the historical situation in which it was written. It was able to preview, because it anticipated the collapse of the Soviet political system about ten years before the “euro-communism”; it’s at step with time, because the description of the US hegemony in Europe is nowadays a real fact.

In my library, I conserve a copy from the first edition of this book (“édité à Bruxelles, par Jean Thiriart, en Mai 1964”). The dedication that the Author wrote inside it contains an exhortation that I extend to young readers of today: “Votre jeunesse est belle. Elle a devant elle un Empire à bâtir”. Unlike Luttwak and Toni Negri, Thiriart well knew that Empire is the right contrary of imperialism and that the United States are not Rome, but Carthago.

(Transl. by A. Fais)

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dimanche, 26 février 2012

En souvenir d’Olier Mordrel

 

Robert Steuckers:

En souvenir d’Olier Mordrel

 
Olier Mordrel fut certes un homme de chair et de sang mais il fut aussi la quintessence, ou une facette incontournable de la quintessence de l’idée bretonne; et, au-delà de cette idée bretonne, il incarnait, en sa personne, la révolte d’un réel et d’un vécu brimés, brimés au nom de dogmes politiques abstraits qui oblitèrent, altèrent et éradiquent les legs populaires pour mieux asseoir une domination sans racines ni humus, portée par des gendarmes, des avocassiers bavards ou des fonctionnaires sans coeur ni tripes. Nul ne pourra contester cette affirmation de la quintessence bretonne incarnée en la personne d’Olier Mordrel, dont je vais esquisser ici un portrait.
 

Disparition des voix énergiques et des regards de feu

 
Cette affirmation, je la fais mienne aujourd’hui, en rendant cet hommage, sans doute trop concis, à ce chef breton, à ce croyant et ce fidèle, dont la foi et la loyauté se percevaient dans un timbre de voix, propre aux hommes vrais des années 20, 30 et 40. Ce type de voix a disparu dans tous les pays d’Europe: c’est, pour moi, un indice patent du déclin que subit notre Europe. Tout comme s’en vont, un à un, ces gaillards au regard de feu dont une formidable dame italienne déplorait la disparition, lors d’un repas convivial à Gropello di Gavirate en août 2006; cette dame, qui irradie la force et la joie, est la belle-mère de notre ami italien Rainaldo Graziani, fils de l’ami d’Evola, Clemente Graziani. Ce dernier, qui avait combattu jusqu’au bout dans les rangs des unités de la “République Sociale”, à peine libéré de son camp de prisonniers de guerre, avait chanté des chants patriotiques dans les rues de Rome; il avait, pour cela, été jeté quinze jours en prison à la “Regina Coeli”, y avait découvert un livre d’Evola et avait immédiatement voulu voir le Maître, pour mettre toutes ses actions futures au diapason de celui qui semblait lui indiquer la seule Voie praticable après la défaite. Pour cette dame, qui, assurément, possède encore ce feu intérieur, les hommes d’hier ont fait place à des mollassons, même parmi ceux qui osent se revendiquer du “bel héritage”. Jean Mabire aussi possédait ce feu intérieur. Son regard me l’a fait entrevoir quand il m’a serré la pince pour la dernière fois, à Bruxelles en décembre 2005, lorsque nous sortions du restaurant où nous avions assisté à une causerie/projection des “Amis de Jean Raspail”. Nous avons, en ce début de 21ème siècle, le triste devoir d’assister à la disparition définitive d’une génération pré-festiviste, qui avait véritablement fait le sel de notre Vieille Europe. Pour moi, Mordrel fut l’un des premiers à disparaître, quinze ans avant l’an 2000. C’est donc avec émotion que je couche ces lignes sur le papier. Sa voix, le regard de feu de Jean Mabire, la voix et les yeux de bien d’autres, comme cette sacrée Julia Widy de Deux-Acren, qui me parla avec force et chaleur de ses engagements passés quand je n’avais que quatorze ans, sont bien davantage que de simples phénomènes optiques et auditifs: ce sont de véritables forces nouménales qui m’interpellent chaque jour que les dieux font et m’incitent ainsi à ne pas capituler et à poursuivre, pour moi-même, pour mes amis et pour ceux qui veulent bien me lire ou m’écouter, la même quête spirituelle que les aînés et réamorcer sans cesse le combat pour une anthropologie axée sur cette valeur cardinale de l’humanité européenne qu’est la dignité, la Würdigkeit.
 

Du “Club des Cinq” à Markale

 
Dès l’école primaire, j’ai été fasciné par les matières de Bretagne, alors qu’adulte, je n’ai jamais eu l’occasion de mettre les pieds dans cette région d’Europe. Dans les versions françaises de la collection enfantine “Le Club des Cinq”, les aventures, toutes fictives, du quatuor, flanqué du chien Dagobert, se déroulent en Bretagne. Le paysage évoque une côte qui n’est pas plane, rectiligne, de dunes et de sable comme la nôtre, en Flandre. Elle est faite d’îles, d’îlots, de récifs, avec, derrière elle, non les Polders que nous sillonnions à vélo derrière Coq-sur-Mer, mais des landes de bruyère, avec des maisons mystérieuses, pleines de souterrains et de passages secrets. Dans mon enfance et ma pré-adolescence, je voulais voir un littoral échancré, que je ne verrai qu’en Grèce en 1972-73 et en Istrie en 2009 et en 2011. Et je ne verrai le littoral de la Bretagne qu’en images, que dans un cadeau d’Olier Mordrel, un beau livre de photos, tout simplement intitulé “La Bretagne”.
 
Ensuite, un condisciple de l’école primaire, Luc Gillet, avait un père ardennais et une mère bretonne: ses allégeances oscillaient entre un patriotisme français (ancien régime) et un “matrionisme” breton. Finalement, à l’âge adulte, quand il a commencé à étudier le droit aux Facultés Universitaires Saint-Louis, c’est l’option bretonne qui a pris le dessus: après avoir potassé son code civil ou son droit constitutionnel, il suivait des cours de biniou. Je l’ai perdu de vue et le regrette. Le mythe chouan était gravé dans ma petite cervelle grâce, comme j’ai déjà eu l’occasion de l’écrire, à un cadeau de communion solennelle, “Le Loup blanc” de Paul Féval, auteur auquel Jean Mabire n’a pas manqué de rendre hommage. Plus tard, la Bretagne ne disparaît pas: notre professeur de latin, l’Abbé Simon Hauwaert avait été un fidèle étudiant de l’irremplaçable Albert Carnoy, professeur à Louvain avant la première guerre mondiale et, après un intermède américain entre 1914 et 1919, pendant l’entre-deux-guerres. Hauwaert, nous exhortait à explorer les racines indo-européennes de notre inconscient collectif, exactement comme Carnoy l’avait fait en publiant, en 1922, un ouvrage concis et fort bien charpenté sur les dieux indo-européens. Outre sa volonté de nous faire connaître à fond les legs gréco-romains et les pièges de la grammaire latine, il insistait sur la nécessité d’aborder en parallèle les mythologies germaniques (en particulier les “Nibelungen”) et celtiques (les “Mabinogion”). En obéissant à cette injonction, j’ai commencé, dès l’âge de seize ans, à lire les ouvrages de Markale sur les mythologies bretonne et irlandaise ainsi que les articles, encore épars, de Guyonvarc’h, récemment décédé.
 
Les études universitaires mettront un terme provisoire à cet intérêt celtisant: l’apprentissage des grammaires allemande et anglaise, les techniques de traduction, les nombreuses heures de cours etc. ne permettaient pas de poursuivre cette quête, d’autant plus qu’il fallait, en marge des auditoriums académiques, rester “métapolitiquement actif”, en potassant Pareto, Monnerot, Mannheim, Sorel, Schmitt, Evola et Jünger, dans le sillage du GRECE, de nos cercles privés (à connotations nationales-révolutionnaires) et des initiatives de Marc. Eemans, le surréaliste non-conformiste avec qui Jean Mabire a entretenu une correspondance.
 

Olier Mordrel téléphone au bureau de “Nouvelle école”

 
En 1978, lors du colloque annuel du GRECE, Jean-Claude Cariou, que je ne connaissais pas encore personnellement, m’indique, assez fier, qu’Olier Mordrel est présent parmi les congressistes et me montre où il se trouve au milieu d’un attroupement de curieux et d’enthousiastes qui voulaient absolument le voir, lui serrer la main, l’encourager, parce qu’ils ne l’avaient jamais vu, depuis son retour, d’abord discret, de ses exils argentin et espagnol. C’est ainsi que la puce nous a été mise à l’oreille: Mordrel était l’auteur du livre “Breizh Atao” (1973), une histoire du mouvement breton le plus radical du 20ème siècle, toute pétrie de souvenirs intenses et dûment vécus, alors que nous, les plus jeunes, ne connaissions la matière de Bretagne que par les travaux de Markale, certes, et plutôt par les chants et les théories “folcistes” sur la musique populaire d’Alan Stivell (auquel j’avais consacré un des mes premiers articles pour “Renaissance Européenne” de Georges Hupin et pour la belle revue “Artus”, à l’époque éditée à Nantes par Jean-Louis Pressensé). C’était effectivement “Artus”, à l’époque, qui nous ré-initiait à la culture bretonne. Quelques années passent, je me retrouve, à partir du 15 mars 1981, dans les locaux du GRECE à Paris pour exercer la fonction de secrétaire de rédaction de “Nouvelle école”. Outre la mission de préparer des conférences pour le GRECE, à Paris, au Cercle Héraclite, à Grenoble, à Strasbourg voire ailleurs, ma tâche a été, en cette année 1981, de réaliser deux numéros de la revue: l’un sur Vilfredo Pareto (avec l’aide du regretté Piet Tommissen), l’autre sur Heidegger (il sera parachevé par mon successeur Patrick Rizzi). Un beau jour, le téléphone sonne. Au bout du fil, la voix d’Olier Mordrel. Il m’explique qu’il vient de terminer la rédaction du “Mythe de l’Hexagone”. Il souhaite me confier le manuscrit pour que je lui donne mon avis. Je suis abasourdi, horriblement gêné aussi. Me confier son manuscrit, à moi, un gamin qui venait tout juste de sortir des écoles? Lui, le vieux combattant, désormais octogénaire? Inouï! Incroyable! Il insiste et quelques jours plus tard, je reçois un colis contenant une copie du tapuscrit. Je l’ai lu. Mais jamais je n’aurais osé formuler la moindre critique sur cet ouvrage copieux, fruit d’une réflexion sur l’histoire de France qui avait mûri pendant de longues décennies, dans le combat, l’adversité, l’amertume, l’ostracisme, l’exil, fruit aussi des longues conversations avec l’attachant Roger Hervé (à qui Mordrel dédiait cet ouvrage). Devant une telle somme, les gamins doivent se taire, fermer leur clapet car ils n’ont pas souffert, ils n’ont pas risqué leur peau, ils n’ont pas mangé le pain amer de l’exil. Quand Olier Mordrel m’a demandé ce que je pensais de son livre à paraître, une bonne semaine plus tard, je lui ai dit que, de toutes les façons, son ouvrage était aussi un témoignage, une vision personnelle en laquelle personne ne pouvait indûment s’immiscer sans en altérer la véracité vécue. Il a été satisfait de ma réponse.
 

Mordrel dans la tradition de Herder

 
J’ai ensuite lu “Breizh Atao” et, plus tard, “L’Idée bretonne” pour parfaire mes connaissances sur le combat breton. La parution du “Mythe de l’Hexagone” a été suivie d’une soirée de dédicaces dans un centre breton au pied de la Tour Montparnasse. Elle m’a permis de faire connaissance avec l’équipe de “Ker Vreizh”, animée à l’époque par Simon-Pierre Delorme, dont l’épouse, hélas décédée, était une brillante germaniste. Et aussi d’Ingrid Mabire, présente lors de l’événement. Cette confrontation avec la quintessence de l’idée bretonne, par l’entremise de Delorme, de Mordrel et surtout, ne l’oublions pas car il ne mérite assurément pas d’être oublié, de Goulven Pennaod, était, pour moi, concomitante d’une lecture de Herder, via la thèse magnifique d’un Professeur d’Oxford, F. M. Barnard (1), et des éditions bilingues proposées à l’époque par Aubier-Montaigne et préfacées tout aussi magistralement par Max Rouché (2). Pour “Nouvelle école”, je voulais rédiger un long article sur Herder et sur le droit qui découle de sa philosophie (via Savigny et Uwe Wesel). Pierre Bérard a partiellement réalisé mes voeux en publiant une longue étude dans la revue-phare du GRECE, une étude elle aussi magistrale, comme tout ce qui vient de ce professeur angevin exilé en Alsace, sur Louis Dumont, disciple français et contemporain de Herder. Un article plus directement consacré à Herder ou un numéro plus complet sur sa pensée (et sur sa postérité prolixe) aurait permis de consolider le lien entre le corpus de la “nouvelle droite”, qui n’est pas nécessairement tourné vers les patries charnelles, et le corpus de tous ceux qui entendent mettre un terme aux abus et aux travers du jacobinisme ou aux déviances dues à la volonté de fabriquer “une cité géométrique” par “dallage départemental” (selon la terminologie utilisée par Robert Lafont, militant occitan). Car Mordrel, volens nolens, est un disciple de Herder, surtout si l’on tient compte de l’aventure éditoriale qu’il a menée avant-guerre en publiant la revue “Stur”.
 

La métapolitique de “Stur”

 
Dans “L’Idée bretonne”, Mordrel résume bien l’esprit qui animait la revue “Stur”, dont le premier numéro sort en juillet 1934. “Stur” se posait comme une “revue d’études indépendante” mais elle ne cherchait pas à se soustraire au combat politique, devenu violent en Bretagne après les échecs électoraux du mouvement “Breizh Atao” dans les années 20. Pour Mordrel, l’idée bretonne devait offrir des solutions aux problèmes réels et concrets de la Bretagne, sinon “elle serait rejetée par le peuple comme un colifichet sans intérêt”. Le but de “Stur” n’était pas de faire de l’intellectualisme: au contraire, la revue préconisait de se méfier des “intellectuels purs”, “étrangers au monde des métiers, dégagés des liens multiples et vivants qui nous rendent solidaires du corps social”. “Nous avions horreur”, poursuit Mordrel dans son évocation de l’aventure de “Stur”, “de cette engeance qui triomphe sans modestie à Paris” car elle a été “élevée dans le royaume des mots, vivant de sa plume ou de sa langue, qui choisit entre les idées et non entre les responsabilités”. Pour “Stur”, les idées ne sont donc pas des phénomènes intellectuels mais des instruments pour “modeler la personne intime de l’homme”. Bref: ne pas vouloir devenir de “beaux esprits” mais des “drapeaux”; n’avoir que “des pensées nouées à l’acte”. 
 
 
 
Les articles de “Stur” ne seront donc pas doctrinaux, car l’énoncé sempiternel d’une doctrine finit par lasser, mais ils ne seront pas pour autant exempts de références à des auteurs ou à des filons philosophiques, lisibles en filigrane. Pour Olier Mordrel, l’apport intellectuel majeur à “Stur” vient essentiellement d’Oswald Spengler, via les articles du regretté Roger Hervé (signant à l’époque “Glémarec”) (3). Hervé/Glémarec retient de l’oeuvre de Spengler plusieurs éléments importants, et les replace dans un combat précis, celui de la Bretagne bretonnante, comme ils pourraient tout aussi bien être replacés dans d’autres combats: 1) pour Hervé, Spengler ne dérive pas sa démonstration d’une idée simple, fixe et pré-établie (comme “l’homme bon” de Rousseau ou la “lutte des classes” de Marx), d’une sorte d’All-Gemeinheit comme auraient dit Ernst Jünger et Armin Mohler, mais la tire des lois de l’évolution historique où l’homme n’est ni bon ni méchant a priori mais “fait le nécessaire ou ne le fait pas”; 2) Spengler, pour Hervé, est un professeur d’énergie dans la mesure où seuls comptent pour lui, sur les scènes de l’histoire, les hommes au caractère trempé, capables de prendre les bonnes décisions aux bons moments. Bref ce que Jean Mabire appellera des “éveilleurs de peuple”...
 

La Bretagne libre dans une grande Europe

 
“Stur” abordera toutes les questions qui découlent de cette vision récurrente d’une “Bretagne excentrée” par rapport aux axes Paris/Le Havre et Paris/Bordeaux. Certes, reconnait “Stur”, la Bretagne se situe en dehors des grandes routes commerciales de l’Hexagone et est, de la sorte, territorialement marginalisée. C’est pourquoi elle doit se choisir un autre destin: retourner à la mer en toute autonomie, retrouver la communauté des peuples de la Manche, de la Mer du Nord et du Golfe de Biscaye donc se donner un destin plus vaste, “européen”, comme celui qu’elle a raté lorsque sa duchesse n’a pas pu épouser Maximilien de Habsbourg à la fin du 15ème siècle. “Stur” reconnaît cependant qu’un indépendantisme isolé ne pourra pas fonctionner (cf. “L’Idée bretonne”, pp. 150-151): la masse territoriale “hexagonale” sera toujours là, aux confins orientaux de l’Armorique, quels qu’en soient ses maîtres (ils auraient pu être anglais si les rois d’Albion avaient vaincu pendant la Guerre de Cent Ans; ils auraient pu devenir allemands à partir de 1940). Pour s’affirmer dans la concrétude géographique du continent et des mers adjacentes, le nouveau nationalisme breton doit affirmer une vision nouvelle: ce ne sera plus celle d’un indépendantisme étroit, comme aux temps héroïques de “Breizh Atao”, qui ne définissait son combat politique que par rapport à l’Etat français et non pas par rapport à l’espace civilisationnel européen tout entier (“Aucun petit Etat ne peut plus être sûr de son lendemain, s’il ne s’est pas volontairement inclus dans un système d’échanges commerciaux et de protection mutuelle”, op. cit., p. 150). Le nouveau nationalisme breton est un aspect, géographiquement déterminé, du nationalisme européen, dont les composantes sont des “ethnies réelles” et non plus des “Etats pluri-ethniques” ou “mono-ethniques” qui briment leurs minorités ou des entités administratives qui éradiquent les longues mémoires. Le peuple breton, dans cette optique, a toute sa place car il est une “véritable ethnie”, dans le sens où il est un “peuple-famille”, tous les Bretons étant plus ou moins “cousins”. Ce vaste “cousinage” —cette homogénéité ethnique— est le résultat d’un amalgame de longue durée entre Pré-Celtes armoricains, Celtes et Gallois, et non pas la revendication d’un type ethnique particulier (nordique ou alpin ou autre), que l’on perçoit comme édulcoré ou “mêlé” dans le monde actuel et qu’un eugénisme étatique se chargerait de reconstituer de la manière la plus pure possible.
 
“Stur” a également abordé la question religieuse, au départ de trois constats: 1) le christianisme a mis longtemps à oblitérer les traditions préchrétiennes, païennes, en Bretagne comme en beaucoup de régions d’Europe; 2) l’Irlande a développé un christianisme particulier avant l’ère carolingienne, l’a exporté par l’intermédiaire de ses missionnaires comme Colomban à Luxeuil-les-Bains et Fergill (Vergilius) à Bregenz dans le Vorarlberg; il s’agira de mettre les linéaments de ce “celto-christianisme” en exergue (“das iro-schottische Christentum”); 3) la religiosité rurale de Bretagne n’a été effacée que fort tardivement, par les missions jésuites des 17ème et 18ème siècles, qui, pour paraphraser l’anthropologue contemporain Robert Muchembled, ont imposé la “culture des élites” (schématique et abstraite) de la Contre Réforme à une “culture populaire” (vivante et concrète).
 

Gwilherm Berthou et la Tradition

 
La plupart des militants bretons étaient catholiques, se percevaient en fait comme de nouveaux chouans contre-révolutionnaires, ennemis des “Bleus”, reprenant un combat interrompu par l’exécution de Cadoudal en 1801, par la répression républicaine et bonapartiste, par le désintérêt de la Restauration pour la question bretonne (une Restauration qui trahissait ainsi a posteriori les chouans). Olier Mordrel rappelle simplement que le premier auteur nationaliste breton à avoir esquissé une critique du christianisme, comme idéologie religieuse oblitérant la spiritualité naturelle du peuple, a été Gwilherm Berthou (alias “Kerverziou”). Berthou préconisera, dans les colonnes de “Stur” d’étudier la mythologie comparée (Rome, monde germanique, monde celtique, Inde védique, etc.), comme l’avait fait de manière simple et didactique Albert Carnoy à Louvain au début des années 20, et comme le fera, plus tard, de manière tout-à-fait systématique, Georges Dumézil. Berthou ouvre de vastes perspectives, vu la pluralité de ses angles d’attaque dans ses recherches religieuses et mythologiques; rappelons aussi, car il fut là un précurseur, qu’il cherchait surtout à dégager les études religieuses, traditionnelles au sens guénonien du terme, de toutes les “cangues kabbalistiques ou martinistes”, du théosophisme et du spiritisme. Sa démarche était rigoureuse: Berthou est allé plus loin qu’un autre chantre du celtisme, le grand poète irlandais William Butler Yeats, auteur de “Visions”, où le celtisme qu’il chante et évoque n’est pas séparable des pratiques spiritistes dont il se délectait. Yeats demeurait dans les spéculations kabbalistiques et “les traditions légendaires de sa race, il les voyait comme un simple panneau décoratif et un sujet de rêverie” (op. cit., p. 154). La Bretagne, profondément religieuse, a fait (sur)vivre certains avatars de la grande “Tradition” dans les liturgies et les croyances de son peuple, pensait Berthou, mais cette ferveur populaire a été brisée par la modernité, comme partout ailleurs, faisant sombrer l’Occident dans un chaos, dont seule une révolution politico-métaphysique de grande ampleur pourra nous sauver. Berthou finira par ne plus guère énoncer ses théories traditionalistes-révolutionnaires dans les colonnes de “Stur”, où il avait dévoilé pour la première fois au public les linéaments de sa quête spirituelle. “Stur”, revue de combat politique et métapolitique tout à la fois, n’était pas le lieu pour approfondir des théories religieuses et métaphysiques. Berthou, sans rompre avec “Stur”, fonde la revue “Ogam”, où s’exprime sans détours aucuns, et avec davantage de profondeur, son traditionalisme révolutionnaire. Dans les multiples expressions de la “Tradition”, Berthou, contrairement à d’autres, ne cherche pas des gourous qui enseignent la quiétude ou le retrait hors du monde effervescent de l’histoire (comme on pourra plus tard le dire de René Guénon), mais, au contraire, il cherche des maîtres qui enseignent énergie et virilité (comme plus tard, Julius Evola avec sa “voie royale du Kshatriya” ou, en Allemagne, un Wilhelm Hauer qui découvre en Inde l’ascèse guerrière du bouddhisme) (4). “Ogam”, à ses débuts (car la revue a eu une longue postérité, bien après 1945), alliait, écrit Mordrel (op. cit., p. 155), “nietzschéisme” et “traditionalisme”. C’est la naissance d’un néo-paganisme breton, ajoute toujours Mordrel, “en décalage de vingt ans sur le néo-paganisme germanique, mais en avance de quarante ans sur le néo-paganisme parisien” (op. cit., p. 155).
 
L’idée bretonne selon Mordrel n’était donc pas une simple idée “vernaculaire”, qui aurait eu la volonté de se replier sur elle-même, mais une vision nouvelle du politique, de l’histoire et de l’Europe.
 

“Le Mythe de l’Hexagone”

 
Revenons au livre, par lequel nous avions fait connaissance au printemps de l’année 1981, je veux dire “Le Mythe de l’Hexagone”. A la relecture de cet ouvrage aujourd’hui un peu plus que trentenaire, il m’apparaît assez peu lié; les chapitres se succèdent à une cadence que l’on pourrait qualifier de fébrile; on peut repérer des idées fécondes mais pas assez exploitées, que l’auteur, on le sent, aurait voulu développer jusqu’au bout de leur logique. C’est cette incomplétude (due aux impératifs typographiques) qui devait inquiéter Mordrel qui, anxieux, demandait à tous, y compris à des gamins comme moi, ce qu’ils pensaient de ce texte quelque peu “testamentaire”. Mais l’ouvrage est une somme qui éveille à quantité de problématiques autrement insoupçonnées ou perçues au travers d’autres grilles d’analyse. Son apparente incomplétude est une invite à creuser, toujours davantage, les filons indiqués par notre homme, à élargir les intuitions mordreliennes. Devenu octogénaire, notre Breton de choc a voulu tout dire de ce qui lui passait par la tête, coucher sur le papier l’ensemble de ses souvenirs, la teneur de ses courriers et conversations avec Hervé et les autres.
 

Olier Mordrel, juge d’instruction et procureur

 
Première interpellation du militant breton Mordrel: “Ne vous fiez jamais aux historiographies stato-nationales toute faites: elles sont des fabrications à usage propagandiste; elles projettent les réalités actuelles sur le passé, et parfois sur le passé le plus lointain”, fonctionnent à coups d’anachronismes. Deux fois condamné à mort par l’Etat français, Mordrel, sans doute en son subconscient le plus profond, voulait tuer symboliquement, avant d’être tué (on ne sait jamais...) ou avant de mourir de sa belle mort, l’instance qui lui avait promis le poteau mais n’avait pu le lui infliger, parce qu’il avait eu la chance, contrairement à d’autres, d’échapper à son implacable ennemie. “Le Mythe de l’Hexagone” est en quelque sorte un duel, entre Mordrel et la “Gueuse”. Celle-ci avait, par deux fois, voulu nier et supprimer la personne Mordrel, comme elle avait nié et supprimé la personne Roos en Alsace, parce que la personne Mordrel affirmait haut et fort, avec belle insolence, sa nature profonde, naturelle, physique et ethnique de Breton, et par la négation/suppression judiciaire de cette personne bretonne particulière, réelle et concrète, la “Gueuse” entamait un processus permanent de négation de toute forme ou expression de “bretonitude”. Inacceptable pour ceux qui s’étaient engagé corps et âme pour une Bretagne autonome. Mordrel, avec “Le Mythe de l’Hexagone”, va jouer le double rôle du juge d’instruction et du procureur: il va systématiquement nier l’éternité dans le temps et l’espace que se donne rétrospectivement la “Gueuse” avec la complicité d’historiographes mercenaires. Non, crie Mordrel, la France n’existait pas déjà du temps des mégalithes: elle n’est pas une unité géographique mais un point de rencontre et de dispersion; “elle comporte des façades qui n’ont ni la même orientation ni les mêmes connections extérieures”; ses frontières dites “naturelles” sont un “mythe”. Voilà le fond du débat Mordrel/France: la Bretagne est une réalité concrète (et non pas un résidu inutile, appelé à disparaître sous l’action du progressisme républicain); la France, elle, est un “mythe”, plutôt un “mensonge” et une “construction” qui nie les réalités préétablies par Dame Nature, qui devrait retrouver ses droits, pour le bien de tous: ainsi, le Rhin, pour Mordrel, n’est en aucune façon une “frontière” mais un creuset et un trait d’union (entre Alsaciens et Badois), alors que la Loire, elle, sépare bien un Nord d’un Sud distincts avant le laminage généralisé par la machine à “géométriser” la Cité.
 
Le chapitre sur le Rhin mérite amplement d’être relu et, surtout, étoffé par d’autres savoirs sur ce fleuve et cette vallée d’Europe. Les géopolitologues connaissent, ou devraient connaître, le maître-ouvrage d’Hermann Stegemann sur l’histoire du Rhin, rédigé en Allemagne au lendemain du Traité de Versailles, en 1922. En Belgique, le chantre du parti annexionniste de 1919, Pierre Nothomb, grand-père de l’écrivain Amélie Nothomb, qui voulait mordre sur le territoire rhénan au lendemain de la défaite du Reich de Guillaume II, terminera sa carrière littéraire en chantant tendrement le creuset ardennais/rhénan/luxembourgeois sans plus aucun relent de germanophobie. De même, le mentor d’Hergé, le fameux Abbé Norbert Wallez, rêvera plutôt d’une symbiose catholique-mystique rhénane/wallonne, après avoir abandonné ses réflexes d’Action Française. Mais ce sont là d’autres histoires, d’autres itinéraires politico-intellectuels, qui auraient bien passionné Olier Mordrel et Jean Mabire.
 

Hypothèses originales

 
Mordrel truffe ensuite “Le Mythe de l’Hexagone” de toutes sortes d’hypothèses originales. Quelques exemples : 1) le noyau de la France actuelle est la “Neustrie” précarolingienne, en voie de “dé-francisation”, c’est-à-dire de “dé-germanisation” (le francique fait totalement place au gallo-roman du bassin parisien) à côté d’une Austrasie mosane, mosellane et rhénane, celle des Pippinides, qui volera au secours de cette Neustrie aux chefs indécis et de l’Aquitaine ravagée au moment du raid maure contre Poitiers (732); 2) il n’y a pas eu d’ébauche de la France avant le 12ème siècle, affirme Mordrel, et d’autres Etats ou royaumes possibles auraient pu émerger sur ce qui est aujourd’hui le territoire de l’Hexagone: par exemple un empire postcarolingien de la Seine à l’Elbe; un double royaume, britannico-francilien autour de Paris et gaulois méridional autour de Bourges (centre géographique de l’actuel Hexagone); une fusion des héritages bourguignon et lorrain, constituant un espace médian entre une Post-Neustrie séquanaise et un bloc impérial germanique s’étendant jusqu’aux confins slaves de la Vistule au Nord ou de la Drave au Sud (Carinthie/Slovénie); l’émergence d’un “Royaume du Soleil” catalan et provençal, de Valence en Espagne à Menton sur l’actuelle frontière italienne, appelé à maîtriser tout le bassin occidental de la Méditerranée, îles comprises, contre les incursions sarrasines (l’Aragon se donnera cette tâche, une fois uni à la Castille); 3) l’historiographie française est encadrée par l’Etat et cherche en permanence à faire disparaître les preuves des impostures ou les traces de crimes abominables (génocides vendéen et franc-comtois); l’honnêteté intellectuelle veut qu’on les dénonce et qu’on leur oppose d’autres visions. Etc.
 
On pourra dire que Mordrel est parfois très injuste à l’endroit de la France mais, ne l’oublions pas, il est une sorte de procureur fictif qui réclame sa tête, comme celui, bien réel, de la “Gueuse” avait réclamé la sienne. Normal: c’est en quelque sorte un retour de manivelle... En attendant, les historiens contemporains, plus sensibles aux histoires régionales que leurs prédécesseurs, redécouvrent la matière de Bourgogne, l’originalité de l’histoire lorraine, comtoise ou savoisienne. Les idées de l’occitaniste Robert Lafont font leur chemin dans les têtes de ceux qui pensent le réaménagement post-centralisateur du territoire. Il est certain que, quant au fond, les idées ethnistes et fédéralistes de Mordrel, exprimées en leur temps sur le mode véhément que prennent toujours ceux que l’on refuse sottement d’écouter, ne soulèveraient plus le tollé chez les bonnes âmes ni le désir d’envoyer l’effronté à la mort comme chez ses juges du 7 mai 1940.
 

Epilogue

 
Yann Fouéré, disparu fin 2011, à l’âge vénérable de 102 ans, a rendu un vibrant hommage à Mordrel dans son livre “La Patrie interdite”, où il campe bien, et chaleureusement, le caractère et l’intransigeance de son compagnon d’armes pour l’autonomie ou la libération de la Bretagne. Cet hommage est d’autant plus admirable que les deux hommes n’avaient pas le même caractère ni, sans doute, les mêmes vues sur le plan pragmatique. Enfin, quand Pierre Rigoulot décide d’interroger les “enfants de l’épuration” pour en faire un livre épais (5), il s’en va questionner deux des trois fils d’Olier Mordrel, qui nous laissent des témoignages intéressants à consulter, pour cerner la personnalité de notre combattant breton: celui de l’aîné, Malo, né en 1928, est mitigé car, chacun le sait, il n’est pas aisé d’avoir un père militant et d’avoir été brinquebalé sur les routes de l’exil, de Sigmaringen au Sud-Tyrol et de l’Italie vaincue aux confins de la pampa de Patagonie; celui de Trystan, né en 1958 en Argentine, prétend s’inscrire dans la trajectoire de son père. Anecdote: ce Trystan, que j’ai perdu de vue depuis fort longtemps, avait voulu m’accompagner lors d’une longue marche entre Ypres et Dixmude, où nous nous arrêtions pour visiter les monuments de la Grande Guerre. Il me parlait de son grand-père, officier des fusiliers-marins bretons engagés à Dixmude en octobre 1914, aux côtés de l’armée belge exténuée par sa retraite et de quelques compagnies de Sénégalais. Et il voulait absolument voir le “Mémorial des Bretons”, au lieu-dit du “Carrefour de la Rose” à Boezinge (6). Pourquoi? D’après Trystan Mordrel, la disparition tragique, suite à une attaque allemande précédée d’une nappe d’ypérite en avril 1915, de beaucoup de soldats bretons des 45ème et 87ème divisions d’infanterie de réserve, aurait constitué le déclic qui fit de l’adolescent Olier Mordrel un combattant breton intransigeant; en effet, les soldats de ces deux divisions étaient des réservistes entre 35 et 45 ans, surnommés, par les jeunes poilus de première ligne, “les pépères”. Dans l’école et le village d’Olier, bon nombre de ses petits camarades de jeu étaient devenus orphelins après cette bataille d’avril 1915. Le sang breton avait été sacrifié, pensait Olier adolescent, en vain, en pure perte. Sentiment équivalent à celui de bon nombre de Flamands, qui créeront après 1918 le “Frontbeweging”. Le “Mémorial des Bretons” du “Carrefour de la Rose” n’a que de petites dimensions mais est terriblement poignant: un vrai dolmen en pierre de Plouagat et un calvaire comme en pays armoricain.
 
J’envoyais systématiquement mes productions à Mordrel qui les lisait attentivement. Dans l’article nécrologique, publié dans le numéro 21/22 de “Vouloir”, Serge Herremans rend hommage à Mordrel disparu: “Olier Mordrel nous a quittés. Avec lui, nous perdons surtout un aîné qui nous a indiqué la voie à suivre pour construire une Europe fédérale mais consciente de son unité géopolitique. Mais nous perdons aussi un lecteur attentif et enthousiaste qui n’a jamais cessé de nous prodiguer moults encouragements. Le plus touchant de ses encouragements fut celui-ci: ‘Vous avez le grand mérite de partir du Vécu’. Pour un combattant de la trempe d’un Mordrel, ce n’est pas un mince compliment. Nous tâcherons de rester à la hauteur de son estime”. Deux ou trois semaines avant de mourir, Olier Mordrel m’avait confié un article, sans doute le tout dernier qu’il ait écrit. Intitulé “Les trois niveaux de la culture” (7), il avait cette phrase pour conclusion: “Pour faire le tableau de la culture de demain, il faudrait la voyance d’un Spengler, la véhémence d’un Nietzsche, le lyrisme d’un Michelet. Qu’il nous suffise d’en préparer les voies”. La dernière phrase est une injonction: que les lecteurs de mes modestes souvenirs en tirent les justes conclusions...
 
Robert Steuckers.
 
 
 
Notes:
1)     F. M. BARNARD, Herder’s Social and Political Thought – From Enlightenment to Nationalism, Clarendon Press, Oxford, 1965.
2)     Max ROUCHE, “Introduction” à a) Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité (Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit), Aubier/Montaigne, éd. bilingue, 1962; et b) Herder, Une autre philosphie de l’histoire (Auch eine Philosophie der Geschichte), Aubier/Montaigne, éd. bilingue, 1964.
3)     Roger Hervé vivait, quand je l’ai connu, dans un petit appartement exigu, en lisière de la Gare Montparnasse à Paris. Il était quasiment aveugle. Il disposait d’une magnifique bibliothèque et d’archives impressionnantes apparemment toutes consacrées à l’oeuvre d’Oswald Spengler, qu’il ne voulait pas aliéner. Lors d’une de mes visites, quand la cécité l’avait considérablement diminué, il m’avait offert une chemise de carton léger magnifiquement décorée de dessins, en bleu sombre, de Xavier de Langlais qui contenait une de ses oeuvres: un atlas très précis de l’histoire de la Bretagne, car Roger Hervé était aussi un excellent cartographe. Je possède aussi une petite plaquette verte intitulée “Actualité de Spengler”. Mais que sont devenus tous ces trésors, accumulés dans son minuscule appartement, après son décès?
4)     Robert STEUCKERS, “Wilhelm Hauer, philosophe de la rénovation religieuse”, sur http://robertsteuckers.blogspot.com/
5)     Pierre RIGOULOT, Les enfants de l’épuration, Plon, Paris, 1993 (voir chapitre: “Malo, Tanguy, Trystan et l’auteur de leurs jours” (pp. 409-430).
6)     Ceux qui souhaitent visiter ces lieux de mémoire de la Grande Guerre, achèteront, dans les librairies militaires anglaises d’Ypres, et liront avec profit le guide que le Major britannique Holts a confectionné avec l’aide de son épouse: Major and Mrs. Holts, Battlefield Guide – Ypres Salient, Leo Cooper/Pen & Sword Books, Barnsley/South Yorkshire (GB), 1997.
7)     Olier MORDREL, “Les trois niveaux de la culture”, in Vouloir, n°21/22, sept.-oct. 1985, pp. 5-7.
 
Livres consultés:
- Yann FOUERE, La Patrie interdite – Histoire d’un Breton, France-Empire, 1987.
- Yann FOUERE, Histoire résumée du mouvement breton de 1800 à 2002, Celtics Chadenn, coll. Brittia, Londres, 2002.
- Olier MORDREL, Breizh Atao – Histoire et actualité du nationalisme breton, Alain Moreau, 1973.
- Olier MORDREL, Le Mythe de l’Hexagone, Jean Picollec, 1981.
-          Olier MORDREL, L’idée bretonne, Albatros, 1981.
-          Olier MORDREL, La Bretagne, Nathan, 1983.

mercredi, 18 janvier 2012

Der beste Feind der Moderne

Der beste Feind der Moderne

Zum 80. Geburtstag des Publizisten und Literaturwissenschaftlers Hans-Dietrich Sander

von Arne Schimmer

Ex: http://www.hier-und-jetzt-magazin.de/

grenzgaenge.jpg„Man könnte über diesen ‚nationalen Dissidenten‘ achselzuckend hinweggehen, wenn nicht ein bestimmter Ton aufmerksam machen würde – ein Ton, der junge Deutsche in der Geschichte immer wieder beeindruckt hat. Konsequent, hochmütig und rücksichtslos – der Kompromiß wird der Verachtung preisgegeben. Mit den ‚feigen fetten Fritzen der Wohlstandsgesellschaft‘ will Sander nichts zu tun haben. Das bringt ihn Gott sei Dank in einen unversöhnlichen Gegensatz zur großen Mehrheit der Bürger der Bundesrepublik Deutschland. Was verhütet werden muß, ist, daß diese stilisierte Einsamkeit, diese Kleistsche Radikalität wieder Anhänger findet. Schon ein paar Tausend wären zuviel für die zivile parlamentarische Bundesrepublik.“ Diese Zeilen stammen aus einem Porträt über Hans-Dietrich Sander, das einer der besten Köpfe der deutschen Linken, der frühere SPD-Bundesgeschäftsführer Peter Glotz, im Jahr 1989 schrieb und in sein Buch Die deutsche Rechte – eine Streitschrift aufnahm. Die Faszination, die für Glotz von Sander ausging, ist auch in späteren Aufsätzen des leider schon im Jahr 2005 verstorbenen SPD-Vordenkers zu spüren, in denen immer wieder Sanders Name erwähnt wird. Glotz gehörte zu den wenigen Intellektuellen, die Sander sofort als geistige Ausnahmeerscheinung auf der deutschen Rechten wahrnahmen; vielleicht empfand er, der seine Autobiographie Von Heimat zu Heimat –Erinnerungen eines Grenzgängers nannte, eine gewisse Verwandtschaft mit Sander, der als junger Mann ein Wanderer zwischen Ost und West, zwischen den Systemen war.

Sander wurde am 17. Juni 1928 im mecklenburgischen Grittel geboren und studierte in West-Berlin Theologie, Theaterwissenschaften, Germanistik und Philosophie, bevor er 1952 unter dem Einfluß von Bertold Brecht in den Ostteil der Stadt wechselte und sich dort offen für den Kommunismus engagierte, was zum Entzug seines Stipendiums an der Freien Universität führte. Schon zuvor hatte Sander in den Jahren 1950/51 eine zweijährige Hospitanz bei Brechts Berliner Ensemble absolviert, später schrieb er Kritiken für die Zeitschrift Theater der Zeit und arbeitete bis 1956 als Dramaturg im Henschelverlag.

Rückkehr in den Westen

Im Dezember 1957 wechselte Sander dann wieder in den Westen nach Hamburg, um dort in der Redaktion der Tageszeitung Die Welt zu arbeiten. Bei seiner Rückkehr bemerkt Sander bei den Westdeutschen mit Entgeisterung eine Mentalität, die er in der autobiographischen Skizze, die sein Buch Der nationale Imperativ beschließt, auf den Nenner „Wir sind zu allem bereit, wenn man uns nur in Ruhe läßt“ bringt. Daß Sander sich trotzdem in zwei Phasen zwischen 1958 und 1962 und 1965 bis 1967 bei der Welt hält, ist nur der schützenden Hand des Chefredakteurs Hans Zehrer zu verdanken, der schon in der Weimarer Republik mit der von ihm herausgegebenen Tat der vielleicht einflußreichste Publizist aus dem Umfeld der „Konservativen Revolution“ war. Nach dem Tod Zehrers muß Sander seinen Hut bei der Welt nehmen und ist nun endgültig nationaler Dissident im eigenen Land. Es folgen eine Promotion bei Hans-Joachim Schoeps in Erlangen über Marxistische Ideologie und allgemeine Kunsttheorie sowie die Fortsetzung seines langen Briefwechsels mit Carl Schmitt. Es ist die Hochzeit des „Kalten Krieges“, aber Sander sieht unter den Trümmern der universalistischen Konzepte die Nation aus den Tiefen der Völker wieder aufsteigen. In der im Zuge des Durchbruchs der Massenkonsumgesellschaft sich vollziehenden Transformation des Staates hin zu einer Dienstleistungsagentur erblickt Sander eine garstige „liberale Restauration“, die das Volk zu einem vom Staatsleben sich abwendenden „Privatpöbel“ (Karl Marx) herabsinken läßt. Die auch von Peter Glotz gerühmte Sensibilität Sanders wird insbesondere beim Blick auf seine Dissertation Marxistische Ideologie und allgemeine Kunsttheorie deutlich. Die zweite, 1974 erschienene Auflage erweitert Sander um drei Exkurse, in denen er unter anderem den „ortlosen Marxismus“ und die „Krisis des Sehens“ behandelt. Schon vier Jahre bevor Jean Baudrillard seinen postmodernen Klassiker über die Agonie des Realen veröffentlicht, konstatiert Sander, daß Kunst und Religion als „primäre Gebilde, die den Bereichen unserer Herkunft ihre Seinsbestimmung gegeben haben“ in einem Ozean der selbstbezogenen Kommunikation und Reflexion untergegangen sind. Nichts in der entzauberten Welt weist über sie selbst hinaus, kein Gott und kein Nomos; es ist eine Welt der vollkommenen Immanenz, die Sander mit Stefan George als eine der „vollendeten Zersetzung“ begreift. Den Prozeß des Verfalls der Transzendenz in der Moderne, der für Sander „urwüchsig und total“ ist, untersucht er in seiner 1988 erschienenen Schrift Die Auflösung aller Dinge. Dieser ist für Sander das Ergebnis einer Kette von Entortungen, die mit der durch ihre Vertreibung erzwungenen Diasporaexistenz der Juden in Gang gesetzt wurde und schließlich in der Moderne kulminierte. Die moderne Welt bringt statt substantiell-personaler bloß noch funktionale „Identitäten“ hervor, die im Dienst einer Gesellschaftsmaschine stehen, die ihrerseits von blinden Bedürfnissen bewegt wird. Der moderne Verbrauchs-„Staat“, der nach Sander gerade die eigentlich vom Staat zu lösenden Aufgaben verfehlt, mißachtet als sozialistischer ebenso wie als kapitalistischer Formprinzip und Repräsentation; er ist „auf Bedürfnissen aufgebaut, die identisch sind mit dem Nichts. Ihr fatalistisches Ziel ist ein sich selbst regierender, selbst regulierender Ablauf von Wirtschaftsprozessen. Mit einem Automaten aber ist keine persönliche, politische, ideologische, keine vernünftige Verbindung möglich“, wie Hugo Ball schon 1924 in einem Aufsatz für die katholische Zeitschrift Hochland über Carl Schmitts Politische Theologie bemerkte.

Herausgeber und Chefredakteur der Staatsbriefe

318Z1nWadlL._SL500_AA300_.jpgWährend Sander in Büchern wie Marxistische Ideologie und allgemeine Kunsttheorie oder Die Auflösung aller Dinge seinen Warnungen vor einer Welt, die nur noch in Funktionalitäten aufgeht, eher die Form kultur- oder literaturwissenschaftlicher Begrifflichkeiten gibt, trägt er seine Argumentation ab 1990 als Herausgeber und Chefredakteur der Zeitschrift Staatsbriefe in einem staatsphilosophischen und politischen Kontext vor. Die Staatsbriefe erscheinen in zwölf Jahrgängen bis zum Dezember 2001; ihr Titelblatt ist immer von einem Oktagon auf grauem Grund geschmückt; dem Grundriß des apulischen Castel del Monte des Stauferkaisers Friedrich II. Wie Ernst Kantorowicz sieht Sander in Friedrich II. den Kaiser der deutschen Sehnsucht, dem es gelang, binnen weniger Jahre das sizilische Chaos zum Staat zu bändigen, die Einmischung des Papstes in innere Angelegenheiten zu beseitigen, die Macht der widerspenstigen Festlandsbarone und Verbündeten Roms zu brechen und ihren gesamten Burgenbestand zu übernehmen und ein straffes, nur ihm verantwortliches Beamtenkorps zu schaffen. Als Einzelner stieß Friedrich II. das Tor zur Neuzeit weit auf – Jahrhunderte, bevor diese wirklich begann. In seinem Genius bündelt sich für Sander all das, was auch heute einem sich selbst absolut setzenden Liberalismus und den von ihm ausgelösten Niedergangsprozessen entgegenzusetzen ist, nämlich die Fähigkeit zur Repräsentation, juristische Formkraft und die Möglichkeit zur Dezision, die politisch-theologischer Souveränität entspringt. Wo die letztgenannten Elemente fehlen, wächst nach Sander die Gefahr der Staatsverfehlung, die in den verschiedenen Formen des Totalitarismus der Moderne gipfelte. Freilich rechnet Sander auch den Liberalismus bzw. Kapitalismus amerikanischer Prägung zu den Formen totalitärer Macht, da er genauso wie Kommunismus und Nationalsozialismus das Ganze von einem Teil her definiere, woraus eine begrenzte Optik resultiere, mit der keine dauerhafte Herrschaft begründet werden kann. Wo im Nationalsozialismus und Kommunismus sich die jeweilige Staatspartei als Teil für das Ganze setzte, wird der Globalisierungsprozeß einseitig von den amerikanischen Wirtschaftsinteressen her gesteuert. Dies hat nach Sander fatale Folgen, die er in einem Aufsatz aus dem Jahr 2007 mit dem Titel Der Weg der USA ins totalitäre Desastre wie folgt beschreibt: „Die USA drangen in die gewachsenen Kulturen ein, lösten die Volkswirtschaften nach und nach auf, zwangen die Völker in politische Strukturen, die zu ihnen nicht paßten, und stellten sie durch beständige Einwanderung in Frage. Schließlich wurde die These laut, die Völker seien nur eine Erfindung der Historiker gewesen. Ist das nicht etwa Völkermord?“ Nein, es kann kein Zweifel bestehen, für Sander ist die Emanzipation des Politischen aus der Ordnung des Staates keine Errungenschaft, sondern ein Verhängnis.

Zwei Neuerscheinungen

Sowohl Sanders kulturwissenschaftliche Arbeiten wie auch seine politische Publizistik sind mit der Raffinesse des Dramaturgen geschrieben. In seinen Leitartikeln für die Staatsbriefe gelingt es ihm immer wieder, dem Leser mit großer Artistik und Plastizität politische Konstellationen und die in ihnen handelnden Charaktere vor die Augen zu führen. Sander ist einer der letzten großen Anreger unter Deutschlands Autoren, er vermag den Leser für die Staatslehren Carl Schmitts und Hermann Hellers, die Kosmologie eines Otfried Eberz, den Begriff der „Aura“ bei Walter Benjamin oder für Preußen als die „Polis der Neuzeit“ zu interessieren. Er ist der Autor von fußnotenschweren Standardwerken über die Literaturgeschichte der DDR oder die marxistische Kunstauffassung ebenso wie von kurzen Aufsätzen, die den Kern eines Problems offenzulegen, den Nerv einer Sache treffen. Seine „Kleistsche Radikalität“ ist für den wohl gedanklich weitesten wie auch tiefgehendsten ordnungspolitischen Entwurf verantwortlich, den die deutsche Rechte seit 1945 hervorbebracht hat. Während man einen Armin Mohler noch als letzten Vertreter der „Konservativen Revolution“ bezeichnen kann, sprengt Sander, der im Gegensatz zu Mohler eher an das Preußentum und die Reichsidee anknüpft, alle Kategorien. Pünktlich zu seinem 80. Geburtstag am 17. Juni sind nun zwei Neuerscheinungen anzuzeigen, die sich dem Jubilar auf unterschiedlichen Wegen nähern. Da ist zum einen die von Heiko Luge herausgegebene Festschrift Grenzgänge – Liber amicorum für den nationalen Dissidenten Hans-Dietrich Sander zu nennen, die schon durch die enorme Bandbreite ihrer Beiträger etwas über den enormen Wirkungskreis der Sanderschen Arbeiten verrät. Unter den Autoren der im Ares-Verlag erschienenen Festschrift finden sich unter anderem Peter Furth, Günter Zehm, Bernd Rabehl, Thorsten Hinz, Björn Clemens, Werner Bräuninger und Günter Maschke. Im Verlag Edition Antaios erscheint dann Ende Juli der Briefwechsel Sanders mit Carl Schmitt, der mit mehr als 300 getauschten Briefen zu den größten noch unveröffentlichten Korrespondenzen Schmitts zählt. Deutet das Erscheinen zweier so ambitionierter editorischer Projekte zu Leben und Werk Sanders auf eine Renaissance des Gelehrten hin, um den es seit der Einstellung der Staatsbriefe Ende 2001 etwas ruhiger geworden war? Zu wünschen wäre es, denn die Erkenntnis wächst nach wie vor an den Rändern, nicht in der saturierten Mitte.

Heft 11/08 – „Der beste Feind der Moderne“ von Arne Schimmer, S. 10 bis 13

jeudi, 12 janvier 2012

Otto Scrinzi: Ein Gründervater des Dritten Lagers ist tot

Otto Scrinzi: Ein Gründervater des Dritten Lagers ist tot 

Ex: http://freigeist-blog.blogspot.com/

130_0.jpgIn der Nacht vom 1. auf den 2. Jänner 2012 verstarb Nationalratsabgeordneter a.D. Dr. Otto Scrinzi im 93. Lebensjahr in seinem Heimatbundesland Kärnten. Mit Otto Scrinzi ist einer der letzten Gründerväter des Dritten Lagers der Zweiten Republik von uns gegangen. Unmittelbar nach der Heimkehr aus der Kriegsgefangenschaft stellte er sich neben seiner Arbeit als Facharzt in den Dienst des staatlichen Gemeinwesens. So begründete der 1918 in Osttirol geborene Scrinzi in seiner nunmehrigen Heimat Kärnten den Verband der Unabhängigen (VDU) mit, wurde dessen Landesobmann und vertrat den VDU 1949 bis 1956 im Kärntner Landtag als Abgeordneter und Klubobmann. Neben seiner landespolitischen Tätigkeit setzte er sich auch als Standesvertreter für die Belange der Kärntner Ärzteschaft ab 1949 ein.
 
Gründervater des Dritten Lagers, Demokrat und Sachpolitiker

 

 

 
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Neben dem Aufbau seiner bürgerlichen Existenz als Arzt setzte sich Scrinzi als untadeliger Demokrat in der Nachkriegszeit vor allem für jene Bevölkerungsschichten ein, die nicht zu den Günstlingen des sich etablierenden schwarz-roten Proporzsystems gehörten: Kriegsheimkehrer, Soldatenwitwen und -waisen und die vielen Volksdeutschen, die als Altösterreicher von den kommunistischen Terrorregimen nach 1945 aus ihrer alten Heimat vertrieben worden waren. Diese Engagement führte ihn an die Wiege von VDU und FPÖ. In seinen Prinzipien als nationalliberaler Volksvertreter unterschütterlich, suchte er immer den Dialog mit den politischen Mitbewerbern und streckte die Hand aus, um als Oppositionspolitiker seine fundierten Argumente in den politischen Diskurs mit einzubringen. Dies machte ihn auch zu einem geschätzten Fachmann in gesundheits- und sozialpolitischen Sachfragen bei SPÖ und ÖVP.

 

Mitbegründer der FPÖ, Obmannstellvertreter und langjähriger Nationalrat

Ab 1956 bemühte er sich mitzuhelfen, die Kärnter Landesgruppe des VDU in die neue Freiheitliche Partei Österreich (FPÖ) zu integrieren. Ab 1966 vertrat Srinzi sein Heimatbundesland Kärnten insgesamt 13 Jahre im österreichischen Nationalrat. Dort setzte er sich in Fragen der Sozial- und Gesundheitspolitik für notwendige Reformen ein und erkannte schon damals die Systemfehler, unter denen wir bis heute zu leiden haben. Sein besonderes Engagement galt über viele Jahre hinweg als Südtirolsprecher der FPÖ dem Engagement für die deutsche und ladinische Volksgruppe in Südtirol. Als Oppositionspolitiker mahnte er bei der österreichischen Bundesregierung  rastlos den Einsatz für die Landsleute im südlichen Tirol ein, und setzte sich lebenslang für die Selbstbestimmung der Südtiroler und eine Rückkehr des südlichen Tiroler Landesteils zu Österreich ein. Als Bundesparteiobmannstellvertreter forderte er in den siebziger Jahren eine grundlegende Erneuerung der FPÖ ein, um das rot-schwarze System erfolgreich überwinden zu können.

Nicht bequem, dafür aber immer prinzipientreu

So konsequent er die Finger in die Wunden der Regierungspolitik von Rot und Schwarz legte, so konsequent mahnte er auch im eigenen politischen Lager Prinzipientreue ein. Als es in der FPÖ in Zeiten einer rot-blauen Koalition 1983 bis 1986 kurzzeitig ein Liebeugeln mit dem FDP-Modell gab, stellte er sich als Präsidentschaftskandidat der „National-Freiheitlichen Aktion“ 1986 zur Verfügung und leitete damit wiederum eine Rückkehr zu einer echten freiheitlichen Politik in der FPÖ ein. Als Funktionsträger im Freiheitlichen Akademikerverband sowie Herausgeber, Schriftleiter und Autor des Magazins Die Aula nahm er in 5 Jahrzehnten in vielfältiger Weise zu gesellschaftspolitischen Grundsatzfragen, jenseits der Tagespolitik Stellung. Mit Otto Scrinzi verliert nicht nur die freiheitliche Gesinnungsgemeinschaft einen geschätzten Repräsentanten und Weggefährten, sondern darüber hinaus Österreich einen Politiker, der stets für die Gemeinschaft, und niemals für den Eigennutz eingestanden ist.Bundesparteiobmann HC Strache würdigte den FPÖ-Gründervater: „Scrinzi war jemand, den man mit Fug und Recht als freiheitliches Urgestein bezeichnen konnte und der die Werte unserer Gesinnungsgemeinschaft immer gelebt hat."