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jeudi, 08 septembre 2011

Piet Tommissen o dell'ostinazione - In Memoriam

Piet Tommissen o dell'ostinazione 

In memoriam (1925-2011)

Günter Maschke

Si è spento lo scorso 21 agosto Piet Tommissen, sociologo ed economista belga, noto per i suoi studi su Vilfredo Pareto e Carl Schmitt, del quale fu amico e bibliografo e alla cui opera, a lungo negletta, ha dedicato una quantità di scritti che hanno contribuito a diffonderla su scala internazionale. Molto stretto fu anche il suo rapporto con Julien Freund. Tommissen – “il matto” come lo definiva amabilmente Gianfranco Miglio – è stato senz’altro uno degli esponenti più in vista della tradizione del realismo politico europeo e un punto di riferimento per tutti i giovani studiosi che a questa tradizione si sono richiamati nel corso degli anni. Lo ricordiamo pubblicando l’omaggio che in occasione dei suoi 75 anni, nel 2000, gli ha dedicato Günter Maschke, a sua volta amico ed editore di Schmitt, nonché curatore di alcune sue importanti raccolte di scritti.

Cicerone disse una volta: «Niente fa più impressione dell’ostinazione». Questa frase potrebbe applicarsi perfettamente alla vita e all’opera dell’economista politico fiammingo Piet Tommissen, che ha festeggiato lo scorso 20 marzo i suoi 75 anni conservando intatta la sua impressionante energia lavorativa.

Quanti cercano ancora la prova dell’evidenza che ogni cultura riposa sull’atto gratuito, sul lavoro prestato senza remunerazione, la troveranno nella persona di Piet Tommissen. Dopo la Seconda guerra mondiale, Carl Schmitt era il capro espiatorio favorito nella sfera delle scienze giuridiche e politiche tedesche, ma anche, occorre ripeterlo, la «quercia sotto cui i cinghiali venivano a cercare i loro tartufi» (Roman Schnur dixit). Durante questo buio periodo, il giovane Piet Tommissen ha dato la sua amicizia a Schmitt, insieme ad alcuni, rari fedeli amici tedeschi; ha presto redatto la prima bibliografia di Carl Schmitt in condizioni difficili (Versuch einer Carl-Schmitt-Bibliographie, Academia Moralis, Düsseldorf 1953). E quando dico «condizioni difficili», voglio ricordare ai miei contemporanei che Tommissen ha effettuato questo lavoro molto prima che esistessero ovunque, come oggi, delle fotocopiatrici in cui è possibile riprodurre testi a bizzeffe. Tommissen ritrascriveva a mano, con la sua penna a inchiostro, centinaia di articoli di Schmitt o li batteva su una vecchia macchia per scrivere da viaggio, con carta carbone, per aspera ad astra. Ha effettuato questo lavoro quand’era uno studente senza mezzi, nei duri anni del dopoguerra in cui ogni viaggio esplorativo verso Plettenberg (dove Schmitt si era ritirato) presentava continue difficoltà finanziarie. È dunque con inizi così difficili che Tommissen, nel corso degli anni, è divenuto il migliore esperto, e il più meticoloso, dell’opera di Carl Schmitt.

I frutti di questo lavoro così disinteressato si ritrovano oggi in innumerevoli articoli e studi, in nuove bibliografie e, a partire dal 1990, in una collana di libri battezzata «Schmittiana» che esce presso Duncker & Humblot a Berlino. Oggi noi riteniamo tutti che simili lavori siano facili da realizzare, ma fu lungi dall’essere così all’epoca eroica del giovane studente e del giovane economista Tommissen. Direi persino di più: senza la marea di contributi e di dettagli apportati e scoperti da Tommissen, l’impresa di diffamazione internazionale che ha orchestrato il boicottaggio e l’ostracismo contro Schmitt – e contribuito così alla sua gloria! – apparirebbe ancora più sciocca e pietosa perché non avrebbe alcun valido argomento, né saprebbe nulla delle tante sfaccettature delle sua persona.

Tommissen, che ha studiato le scienze economiche alla Haute Ecole économique Sint-Aloysius a Bruxelles e all’Université des Jésuites di Anversa, ha dovuto lavorare, accanto alle sue ricerche, per guadagnarsi il pane come procuratore industriale. Accede al titolo di dottore nel 1971 presentando una tesi su Vilfredo Pareto. Intitolata De economische epistemologie van Vilfredo Pareto (Sint-Aloysius Handelshogeschool, Bruxelles 1971), questa tesi può essere considerata come una delle più importanti e fondamentali opere mai redatte sul grande uomo. Ogni ricercatore che desiderasse dedicarsi seriamente all’italiano Pareto dovrebbe acquisire almeno una conoscenza passiva dell’olandese. Il che non mi impedisce di rimpiangere che Tommissen non abbia scritto il suo libro in tedesco o in francese: ma, ahimè, la gloria è ingiusta, mostruosa per le lingue minoritarie. In questo lavoro, noi incontriamo già tutto Tommissen: un osservatore interdisciplinare che si serve di questa interdisciplinarietà con la massima naturalezza, come se fosse evidente; un autore che possiede la grande arte di mettere in esergo i legami tra le cose più diverse. Alla lettura di questa tesi, non acquisiremo solo conoscenza dei problemi fondamentali dell’economia politica europea fino agli anni che hanno immediatamente seguito la Prima guerra mondiale, ma anche di tutto lo sfondo politico, filosofico e psicologico che animava il «solitario di Céligny». Tommissen ci restituisce con amore e espressività tutto questo sfondo, di solito ignorato da molti autori, troppo legati alla superficie dei testi. Nessun altro studio dettagliato renderà pertanto la tesi di Tommissen caduca.

Ma si capirebbe male il personaggio Tommissen se lo si considerasse solo come uno specialista di Schmitt e Pareto, lui che ha insegnato dal 1972 al 1990 alla Haute Ecole d’Economie Sint-Aloysius di Bruxelles in cui curava la collana «Eclectica» che contiene montagne di tesori, di aneddoti e dettagli sempre inaspettati su Schmitt. Pochi ricercatori sanno in Germania che conosce anche bene Georges Sorel, Julien Freund e il pensiero politico francese del XIX e del XX secolo. Tommissen ha sempre dichiarato, expressis verbis, che voleva praticare le «scienze umane nel senso più ampio del termine».

Un esempio particolarmente sorprendente di concretizzazione di questa volontà è il suo libro Economische Systemen (Uitgeverij N.V., Deurne, 1987). In poche pagine, Tommissen vi abbozza la storia delle idee economiche dall’antichità alla Cina post-maoista e le innumerevoli note e considerazioni fondate che ha aggiunto al testo ci aprono a quel dramma che è la storia economica dell’umanità e ci comunicano le radici e le fondamenta politiche, culturali e ideologiche dell’uomo lavoratore nel corso della storia. Un buon libro rende la lettura di cento altri superflua e ci incoraggia a leggerne ancora altre migliaia. Ecco! Straordinarie conoscenze in letteratura e storia dell’arte… Ma in tutti i lavori di economia e scienze politiche scritti da Tommissen il lettore è costantemente sorpreso dalle sue straordinarie conoscenze della letteratura e della storia dell’arte, poiché aveva a lungo accarezzato l’idea di studiare la filologia germanica e la storia dell’arte. Conosce ad esempio il dadaismo e il surrealismo europei in tutte le loro varianti. Non aveva ancora trent’anni quando invitava già nelle Fiandre per tenervi delle conferenze autori tedeschi come Heinz Piontek e Heinrich Böll (e sarei tentato di aggiungere: quando questi erano ancora degli scrittori interessanti!).

Solo quanti sono consapevoli dell’enorme lavoro prestato da Tommissen hanno il diritto di pronunciare una critica: questo maestro della nota a piè di pagina esagera talvolta nel suo zelo di voler dire tutto, poiché sottovaluta spesso le conoscenze dei suoi lettori. Ma in Tommissen non vi è alcun orgoglio a motivare la sua azione, né alcuna vanità, perché è il calore umano incarnato. Per lui, l’uomo è nato per aiutare il suo prossimo e per ricevere da questo un aiuto equivalente. Tanto che Tommissen, l’eminenza, non ha alcuna vergogna di imparare qualcosa, anche d’infima importanza, in uno scrittoretto appena uscito dalla pubertà e senza esperienza.

Una fedele dedizione a Pareto e Schmitt

Sempre felice di dare un’informazione, sempre alla ricerca di informazioni da altri con la più squisita amabilità, Tommissen ha permesso la nascita di molti lavori scientifici e ha seminato molto più di quanto i tanti ingrati lascino intendere al loro pubblico. Un uomo di questa natura così particolare e valida merita i nostri omaggi perché ha dedicato volontariamente e fedelmente una grande parte della sua vita a quelli che considera i suoi maestri: Vilfredo Pareto e Carl Schmitt. Viene in mente un brillante saggista e sovrano narratore come Adolf Frisé che per molti decenni non ha esitato a esplorare l’opera di Robert Musil e a diffonderla. Spesso la luce che brilla sotto il moggio è la più viva! Ad multos annos, Piet Tommissen!

lundi, 05 septembre 2011

Adieu au Professeur Piet Tommissen (1925-2011)

 

Adieu au Professeur Piet Tommissen (1925-2011)

 

Quelques jours après avoir lu l’hommage publié par “Junge Freiheit” suite au décès du Professeur Helmut Quaritsch, l’ancien éditeur de la revue “Der Staat” (Berlin), j’apprenais, jeudi 1 septembre, en feuilletant sur le comptoir même du marchand de journaux mon “’t Pallieterke” hebdomadaire, dont je venais de prendre livraison, la mort du Professeur Piet Tommissen, qu’évoque avec une belle émotion le journal satirique anversois. Deux géants mondiaux des sciences politiques viennent donc de disparaître cet été, nous laissant encore plus orphelins depuis les disparitions successives de Panayotis Kondylis, de Julien Freund, de Gianfranco Miglio ou d’Armin Mohler.

 

A la recherche de Pareto et Schmitt

 

J’avais appris, tout au début de mon itinéraire personnel, où, forcément, les tâtonnements dominaient, qu’un certain Professeur Tommissen avait publié des ouvrages sur Vilfredo Pareto et Carl Schmitt. Nous savions confusément que ces auteurs étaient extrêmement importants pour tous ceux qui, comme nous, refusaient la pente de la décadence que l’Occident avait empruntée dès les années 60, immédiatement après les “technomanies” et les américanismes des années 50. Nous voulions une sociologie et, partant, une politologie offensives, contructrices de sociétés ayant réagi vigoureusement, “quiritairement” contre l’éventail d’injustices, de dysfonctionnements, d’enlisements, de déliquescences que le complexe bourgeoisisme/économicisme/libéralisme/parlementarisme avait induit depuis la moitié du 19ème siècle. Pareto démontrait (et Roberto Michels plus sûrement encore après lui...) quelles étaient les étapes de l’ascension et du déclin des élites politiques, destinées au bout de trois ou quatre générations à vasouiller ou à se “bonzifier” (Michels). Nous voulions être une nouvelle élite ascendante. Nous voulions bousculer les “bonzes”, leur indiquer la porte de sortie. Naïveté de jeunesse: ils sont toujours là; pire, ils ont coopté les laquais de leur laquais. Nous connaissions moins bien Schmitt à l’époque mais nous devinions que sa définition du “politique” impliquait d’aller à l’essentiel et permettait de trier le bon grain de l’ivraie dans le kaléidoscope des agitations politiques et politiciennes du 20ème siècle: que ce soit sous la république de Weimar, dans le marais politicard de la pauvre Belgique de l’entre-deux-guerres (le “gâchis des années 30” dira le Prof. Jean Vanwelkenhuyzen), dans les turpitudes des Troisième et Quatrième Républiques en France auxquelles De Gaulle, formé par René Capitant, disciple de Carl Schmitt, tentera de mettre un terme à partir de 1958.

 

Première rencontre avec Piet Tommissen dans la rue du Marais à Bruxelles

 

Il y avait donc sur la place de Bruxelles, un professeur d’université qui s’occupait assidûment de ces deux géants de la pensée politique européenne du 20ème siècle. Il fallait donc se procurer ses ouvrages et les lire. J’avais vu une photo du Professeur Tommissen dans un numéro d’ “Eléments” ou dans une autre publication du “Groupe de Recherches et d’Etudes sur la Civilisation Européenne”. Ce visage rond et serein m’avait frappé. J’avais retenu ces traits lisses et doux et voilà qu’en février ou en mars 1975, en sortant des bâtiments réservés aux romanistes et germanistes des Facultés Universitaires Saint-Louis, rue du Marais à Bruxelles, je vois tout à coup le Prof. Piet Tommissen, campé devant l’entrée du 113, à l’époque occupé par la “Sint-Aloysius Handelhogeschool”, où il dispensait ses cours. Il était impressionnant, non seulement par la taille mais aussi, faut-il le dire, par le joyeux embonpoint qu’il affichait, lui qui fut aussi un très fin gourmet et un bon amateur de ripailles estudiantines, ponctuées de force hanaps de blonde cervoise. Je suis allé vers lui et lui ai demandé, sans doute un peu emprunté: “Bent u Prof. Tommissen?”. Une certaine appréhension me tourmentait: allait-il envoyer sur les roses le freluquet que j’étais? Que nenni! Le visage rond et lisse de la photo, ancrée dans le recoin d’une de mes circonvolutions cérébrales, s’est aussitôt illuminé d’un sourire inoubliable, effet d’une sérénité intérieure, d’une modestie et d’une bonté naturelles (et sans pareilles...). Cette amabilité contrastait avec l’arrogance qu’affichaient jadis trop d’universitaires, souvent à fort mauvais escient. Le Prof. Tommissen était à l’évidence heureux qu’un quidam cherchait à se procurer ses ouvrages sur Pareto et Schmitt. Il m’a indiqué comment les obtenir et je les ai achetés.

 

Piet Tommissen et Marc. Eemans

 

Ensuite, plus aucune nouvelle de Tommissen pendant au moins trois longues années. Je le retrouve plus tard dans le sillage de son ami Marc. Eemans, avec qui il avait édité de 1973 à 1976 la revue “Espaces”. Je rencontre Eemans, comme j’ai déjà eu plusieurs fois l’occasion de le rappeler, à l’automne 1978, sans imaginer que le peintre surréaliste et évolien était lié d’une amitié étroite avec le spécialiste insigne de Pareto et Schmitt. L’histoire de cette belle amitié, ancienne, profonde, intense, n’a pas encore été explorée, n’a pas (encore) fait l’objet d’une étude systématique. De tous les numéros d’ “Espaces”, je n’en possède qu’un seul, depuis quelques semaines seulement, trouvé chez l’excellent bouquiniste ixellois “La Borgne Agasse”: ce numéro, c’est celui qui a été consacré par le binôme Tommissen/Eemans à l’avant-gardiste flamand Paul Van Ostaijen, dont on connait l’influence déterminante sur l’évolution future de Marc. Eemans, celui-là même qui deviendra, comme l’a souligné Tommissen lui-même, “un surréaliste pas comme les autres”. A signaler aussi dans les colonnes d’ “Espaces”: une étude de Tommissen sur la figure littéraire et politique que fut l’étonnant Pierre Hubermont (auquel un étudiant de l’UCL a consacré naguère plusieurs pages d’analyses, surtout sur son itinéraire de communiste dissident et sur son socialisme particulier dans un mémoire de licence centré sur l’histoire du “Nouveau Journal”; cf. Maximilien Piérard, “Le Nouveau Journal 1940-1944 - Conservation révolutionnaire et historisme politique – Grandeur et décadence d’une métapolitique quotidienne”; promoteur: Prof. Michel Dumoulin; Louvain-la-Neuve, 2002).

 

“De Tafelronde” et “Kultuurleven”

 

Tommissen, comme Schmitt d’ailleurs, n’était pas exclusivement cantonné dans les sciences politiques ou l’économie: il était un fin connaisseur des avant-gardes littéraires et artistiques, s’intéressait avec passion et acribie aux figures les plus originales qui ont animé les marges enivrantes de notre paysage intellectuel, des années 30 aux années 70. On devine aussi la présence de Tommissen en coulisses dans l’aventure de la fascinante petite revue d’Eemans et de Gaillard, “Fantasmagie”. “Espaces” fut une aventure francophone de notre professeur flamand, par ailleurs très soucieux de maintenir et d’embellir la langue de Vondel. Mais ses initiatives et ses activités dans les milieux d’avant-gardes ne se sont pas limitées au seul aréopage réduit (par les circonstances de notre après-guerre) qui entourait Marc. Eemans. En Flandre, Tommissen fut l’une des chevilles ouvrières d’une revue du même type qu’ “Espaces”: “De Tafelronde”, à laquelle il a donné des articles sur Ernst Jünger, Jean-Paul Sartre, Stefan George, Apollinaire, Edgard Tijtgat, Alfred Kubin, etc. Parallèlement à “Espaces” et à “De Tafelronde”, Piet Tommissen collaborait à “Kultuurleven”, qui a accueilli bon nombre de ses articles de sciences politiques, avec des contributions consacrées à Henri De Man, Carl Schmitt, Vilfredo Pareto et des notules pertinentes sur Thom et sa théorie des catastrophes, sur René Girard, Rawls et Baudrillard, sans oublier Heidegger, Theodor Lessing et Otto Weininger.

 

“Dietsland Europa”

 

Tommissen n’avait pas peur de “se mouiller” dans des entreprises plus audacieuses sur le plan politique comme “Dietsland-Europa”, la revue du “flamingant de choc”, un coeur d’or sous une carapace bourrue, je veux parler du regretté Bert Van Boghout qui, souvent, par ses aboiements cinglants, ramenait les ouailles égarées vers le centre du village. On sait le rôle joué par des personnalités comme Karel Dillen, futur fondateur du “Vlaams Blok”, et par le Dr. Roeland Raes, dans le devenir de cette publication qui a tenu le coup pendant plus de quarante années sans faiblir. Tommissen et moi, nous nous sommes ainsi retrouvés un jour, en l’an de grâce 1985, au sein de la rédaction d’un numéro spécial de la revue de Van Boghout sur Julius Evola, dossier qui sera repris partiellement par la revue évolienne française “Totalité” de Georges Gondinet. C’était au temps béni du meilleur adjoint que Van Boghout ait jamais eu: l’étonnant, l’inoubliable Frank Goovaerts, qui pratiquait les arts martiaux japonais jusque dans l’archipel nippon, traversait chaque été la France en moto, jouait au bridge comme un lord anglais et était ouvrier sur les docks d’Anvers; il fut assassiné dans la rue par un dément en 1991. Dans les colonnes de “Dietsland-Europa”, Tommissen a évoqué son cher Carl Schmitt, qui le méritait bien, le livre de Bertram sur Nietzsche, Hans Freyer (dont on ne connait que trop peu de choses dans l’espace linguistique francophone), Pareto, les courants de droite sous la République de Weimar, la théorie schmittienne des grands espaces et la notion évolienne de décadence.

 

L’appel de Carl Schmitt: devenir des “Gardiens des Sources”

 

Au cours de cette période —j’ai alors entre 18 et 24 ans— j’apprends, sans doute de la bouche d’Eemans, que la Flandre, et plus particulièrement l’Université de Louvain, avait connu pendant l’entre-deux-guerres, à l’initiative du Prof. Victor Leemans, une “Politieke Academie”, dynamique think tank focalisé sur tous les thèmes de la sociologie et de la politologie qui nous intéressaient. Tommissen s’est toujours voulu incarnation de l’héritage, réduit à sa seule personne s’il le fallait et s’il n’y avait pas d’autres volontaires, de cette “Politieke Academie”. Il a oeuvré dans ce sens, en laissant un maximum de traces écrites car, on le sait, “les paroles s’envolent, les écrits restent”. C’est la raison pour laquelle il est resté un “octogénaire hyperactif”, comme le soulignait très récemment Peter Wim Logghe, rédacteur en chef de “Teksten , Kommentaren en Studies”. Pourquoi? Parce que, dans ses “Verfassungsrechtlichen Aufsätze” et plus particulièrement dans la 5ème subdivision de la 17ème partie de ce recueil, intitulée “Savigny als Paradigma der ersten Abstandnahme von der gesetzesstaatlichen Legalität”, Carl Schmitt a réclamé, non pas expressis verbis mais indirectement, l’avènement d’une sorte de centrale intellectuelle et spirituelle, qu’il évoquait sous le nom poétique de “Hüter der Quellen”, “les Gardiens des Sources”. Voilà ce que Tommissen a voulu être: un “Gardien des Sources”, dût-il se maintenir à son poste comme le soldat de Pompéi ou d’Herculanum, en dépit des flots de lave qui s’avançaient avec fureur face à lui. Quand la lave refroidit et se durcit, on peut en faire de bons pavés de porphyre, comme celui de Quenast. Avec la boue “enchimiquifiée” et les eaux résiduaires de la société de consommation, on tuera jusqu’à la plus indécrottable des chienlits. Petite méditation spenglerienne et pessimiste...

 

La “Politieke Academie”

 

Nous aussi, nous interprétions, sans encore connaître ce texte fondamental de Schmitt, notre démarche métapolitique, au dedans ou en dehors de la “nouvelle droite”, peu importait, comme une démarche de “gardien des sources”. Alors qu’avons nous fait? Nous avons entamé une recherche de textes émanant de cette “Politieke Academie” et de ce fascinant Prof. Leemans. Nous avons trouvé son Sombart, son Marx, son Kierkegaard, que nous comparions aux textes sombartiens édités par Claudio Mutti et Giorgio Freda en Italie, aux rares livres de Sombart encore édités en Allemagne, notamment chez DTV; nous cherchions à redéfinir les textes marxiens à la lumière des dissidents de la IIème et de la IIIème Internationales (Lassalle, Dühring, De Man,...). Mais la “Politieke Academie” avait des successeurs indirects: nous plongions dans les trois volumes de monographies didactiques sur la vie et l’oeuvre des grands sociologues contemporains que la célèbre collection “Aula” offrait à la curiosité des étudiants néerlandais et flamands (“Hoofdfiguren uit de sociologie”); seul germaniste dans le groupe, j’ajoutais les magnifiques ouvrages de Helmut Schoeck (dont: “Geschichte der Soziologie – Ursprung und Aufstieg der Wissenschaft von der menschlichen Gesellschaft”). Tout cela constituait un complexe de sociologie et de sciences politiques tonifiant; avec cela, nous étions à des années-lumière des petits exercices insipides de statistiques étriquées et de meccano “organisationnel” à l’américaine, nappé de la sauce vomitive du “politiquement correct”, qu’on propose aujourd’hui aux étudiants, en empêchant du même coup l’avènement d’une nouvelle élite, prête à amorcer un nouveau cycle sociologique parétien, en coupant l’herbe sous les pieds d’avant-gardistes qui sont tout à la fois révolutionnaires et “gardiens des sources”.

 

A cette époque de grande effervescence intellectuelle et de maturation, nous avons rencontré le Professeur Tommissen à la tribune du “Centro Studi Evoliani” de Marc. Eemans, où il a animé une causerie sur Pareto et une autre sur Schmitt. Nous connaissions mieux Pareto grâce à l’excellent ouvrage de Julien Freund sur le sociologue et économiste italien, paru à l’époque chez Seghers. Notre rapport à Schmitt, à l’époque, était indirect: il passait invariablement par l’ouvrage de Freund: “Qu’est-ce que le politique?”. De Carl Schmitt lui-même, nous ne disposions que de “La notion du politique”, publié chez Calmann-Lévy, grâce à l’entremise de Julien Freund, sans que nous ne connaissions véritablement le contexte de l’oeuvre schmittienne. Celle-ci n’était accessible que via des travaux académiques allemands, difficilement trouvables à Bruxelles. Finalement, j’ai obtenu les références nécessaires pour aller commander les ouvrages-clefs du “solitaire de Plettenberg” chez ce cher librairie de la rue des Comédiens, au coeur de la vieille ville de Bruxelles. Résultat: une ardoise, alors considérable, de 5000 francs belges, que mon père est allé apurer, tout à la fois catastrophé et amusé. Une bêtise d’étudiant, à ses yeux... Nous étions au printemps de l’année 1980 et une partie de l’ardoise (il n’y avait pas seulement les 5000 francs résiduaires payés par mon géniteur...) avait été généreusement offerte par le Bureau de traduction de Mr. Singer, chez qui j’avais effectué mon stage pratique obligatoire de fin d’études. Singer, germanophone issu de la communauté israélite berlinoise, aimait les étudiants qui avaient choisi la langue allemande: il voulait toujours leur offrir des livres qui exprimaient la pensée nationale allemande, sinon des ouvrages qui communiquaient à leurs lecteurs l’esprit prussien de discipline. Quand je lui ai suggéré de me financer du Carl Schmitt, Singer, déjà octogénaire et toujours sur la brèche, était enchanté. Et voilà comment, de Tommissen à Singer, et de “Over en in zake Carl Schmitt” jusqu’à la pharamineuse commande au libraire de la rue des Comédiens, a commencé mon itinéraire personnel de schmittien en herbe. Inutile de préciser, que cet itinéraire est loin d’être achevé...

 

“Nouvelle école”: Tommissen à mon secours

 

En 1981, très exactement à la date du 15 mars, je débarque avec mes parents et mes bagages à Paris, où me reçoivent les amis Gibelin et Garrabos. J’étais devenu le secrétaire de rédaction de “Nouvelle école”, la très belle revue de l’inénarrable et fantasque de Benoist. Celui-ci, avec l’insouciance et l’impéritie de l’autodidacte parisien prétentieux, avait décidé de me faire fabriquer des numéros de “Nouvelle école” sur Pareto et sur Heidegger. C’est évidemment de la candeur de journaliste. Comment peut-on demander à un galopin de tout juste 25 ans, qui n’a pas étudié les sciences politiques ou la philosophie, de fabriquer de tels dossiers en un tourne-main? Tout simplement parce qu’on est un farfelu. Mais, moi, on ne m’a jamais appris à discuter, d’ailleurs Schmitt abhorrait la discussion à l’instar de Donoso Cortès. Il fallait obéir aux ordres et aux consignes: il fallait agir et produire ce qu’il fallait produire. Donc il a bien fallu que je m’exécute, sans trop gaffer. Comment? Eh bien, en m’adressant aux deux seules personnes, que je connaissais, qui avaient pratiqué Pareto à niveau universitaire: Bernard Marchand et Piet Tommissen! Bernard Marchand avait rédigé un mémoire à l’UCL sur les néo-machiavéliens, tels que James Burnham les avait présentés. Il nous a livré, à titre d’introduction, une version adaptée et complétée de son mémoire. Tommissen est ensuite venu à mon secours et m’a confié des textes de lui-même et d’un certain Torrisi. Guillaume Faye, plus branché sur les sciences politiques, a commis un excellent texte sur la notion de doxanalyse qu’il avait tiré de sa lecture très attentive des oeuvres de Jules Monnerot. D’où: première mission accomplie! Réaction grognone de de Benoist, dans l’affreux bouge dégueulasse de restaurant, qui se trouvait à côté des bureaux du GRECE, rue Charles-Lecocq dans le 15ème, et où il avait l’habitude de se “restaurer”: “C’est la colonisation belge... Je vais finir par m’appeler Van Benoist et, toi, Guillaume, tu t’appeleras Van Faye...”. Il ne manquait plus que “Van Vial” et “Van Valla” au tableau... Après cette parenthèse parisienne, où les anecdotes truculentes et burlesques ne manquent pas, il fallait que j’accomplisse mon service militaire et que je mette la  dernière main à mon mémoire de fin d’études, commencé en 1980.

 

La défense orale de mon mémoire: encore Tommissen à mon secours!

 

Vu la maladie puis le départ à la retraite de mon promoteur de mémoire, Albert Defrance, je ne présente mon pensum au jury qu’en septembre 1983. Ce n’est pas un mémoire transcendant. Ecole de traduction oblige, il s’agit d’une modeste traduction, annotée, justifiée et explicitée dans son contexte. Mais elle entrait dans le cadre des sciences politiques, telles que nous les concevions. Au début, j’avais souhaité traduire un des ouvrages de Helmut Schoeck mais ceux-ci étaient tous trop volumineux pour un simple mémoire dit de “licence” (selon le vocabulaire belge, avant l’introduction du vocabulaire de Bologne). Finalement, le seul ouvrage court brossant un tableau intéressant des pistes sociologiques et politologiques que nous aimions explorer était celui d’Ernst Topitsch et de Kurt Salamun sur la notion d’idéologie. Mais problème: Defrance s’intéressait à la question mais il n’était plus là. Mon cher professeur de grammaire allemande, Robert Potelle, reprend le flambeau mais avoue, avec la trop grande modestie qui le caractérise, qu’il n’est pas habitué à manier le vocabulaire propre à ces disciplines. Frau Costa, notre professeur d’histoire allemande, fait preuve de la même modestie exagérée (“Wie haben Sie einen solchen Wortschatz meistern können?”), alors que son cours sur le passage de Weimar au national-socialisme, avec la fameuse “Ermächtigungsgesetz” fut une excellente introduction à une problématique abordée par Schmitt. Que faire? Comment trouver un universitaire germanophone spécialisé dans la thématique? C’est simple: appeler Tommissen pour qu’il soit l’un de mes lecteurs extérieurs. Rendez-vous est pris à Grimbergen, dans le foyer, antre et bibliothèque de notre professeur. Tommissen accepte: il aime la clarté et la concision de Topitsch et Salamun. Lors de la défense orale, Tommissen aiguille le débat sur une note, que j’avais ajoutée, sur la notion wébérienne de “Wertfreiheit”. Ce terme est intraduisible en français. Seul Julien Freund avait forgé une traduction acceptable: “neutralité axiologique”. En effet, si je suis “libre”, donc “frei” donc en état de “liberté”, de “Freiheit”, et si je suis dépourvu de tout “jugement impromptu de valeur”, donc si je suis “neutre”, quand j’observe une réalité sociologique ou politique, qui, elle, véhicule des valeurs, je suis en bout de course “libre de toute valeur”, donc “axiologiquement neutre”, chaque fois que je pose un regard scientifique sur un phénomène social ou politique. Weber plaçait aussi cette notion de “Wertfreiheit” dans le contexte de sa distinction entre “éthique de la responsabilité” (“Verantwortungsethik”) et “éthique de la conviction” (“Gesinnungsethik”). Ni l’une ni l’autre ne sont dépourvues de “valeur” mais la responsabilité implique un recul, un usage parcimonieux et raisonnable des ressources axiologiques tandis que la conviction peut, le cas échéant, déboucher sur des confrontations et des blocages, des paralysies ou des déchaînements, justement par absence de recul et de parcimonie comportementale.

 

Voilà ce que j’ai pu répondre, en bon allemand, et ainsi obtenir une distinction. Je la dois indubitablement à l’ascendant de Tommissen et à sa manière habile de poser effectivement la question principale qu’il convenait de poser face à ce mémoire, modeste traduction.

 

La bibliothèque de Grimbergen

 

L’un des premiers textes de Piet Tommissen fut un récit de son voyage, avec son épouse Agnès, chez Carl Schmitt, à Plettenberg en Westphalie. Avec grande tendresse, Tommissen a décrit ce voyage, la réception profondément amicale que lui avait prodiguée Carl Schmitt. A mon tour de raconter aussi deux ou trois impressions de ma visite à Grimbergen, pendant l’été 1983: accueil chaleureux d’Agnès et Piet Tommissen, visite de la bibliothèque. Dans la pièce de séjour, il y avait ce fauteuil du maître des lieux, tout entouré d’étagères construites sur mesure, croulant sous le poids des livres du mois, potassés pour écrire le prochain article ou essai. Tout, dans la maison, était agencé pour faciliter la lecture. La bibliothèque de Grimbergen était fabuleuse: elle mérite bien la comparaison avec les autres grandes bibliothèques privées que j’ai eu l’occasion de visiter: celle d’Alain de Benoist évidemment; celle de Mohler, vue à Munich en plein été torride de 1984; celle, luxuriante et chaotique de Pierre-André Taguieff, véritable labyrinthe où évoluait un gros chat teigneux et espiègle; celle, somptueuse, dans la villa de Miglio, vue en mai 1995 à Côme et celle de Peter Bossdorf, la plus magnifiquement agencée, vue en automne 2010. Cette évocation des grandes bibliothèques est évidemment un clin d’oeil à Tommisen: celui-ci s’enquerrait toujours des livres achetés par ses hôtes et leur demandait d’évoquer leurs bibliothèques...

 

Pierre-André Taguieff à Bruxelles

 

Plus tard, début des années 90, quand Pierre-André Taguieff préparait son ouvrage “Sur la nouvelle droite”, paru en 1994 chez Descartes & Cie, il avait sollicité un rendez-vous avec Tommissen et avec moi-même: le soir de cette journée, nous avons dîné dans un restaurant minuscule, uniquement destiné aux gourmets, en compagnie de mon camarade Frédéric Beerens et d’un majestueux ami de Tommissen, affublé d’une énorme barbe rousse qui lui couvrait un poitrail de taureau. Discussion à bâtons rompus, surtout entre Taguieff et Tommissen sur la personnalité de Julien Freund. On reproche à Taguieff certains travaux jugés inquisitoriaux sur la “nouvelle droite” ou sur les mouvements populistes (l’ouvrage de Taguieff sur “L’illusion populiste” est d’ailleurs le plus faible de ses ouvrages: les chapitres concernant la Flandre et l’Autriche ne comportent aucune référence en langue néerlandaise ou allemande!). Mais il faut rendre hommage au philosophe qui a critiqué le “bougisme” contemporain et a assorti cette critique d’un appel à la résistance de toutes les forces politiques qui n’entendent pas s’aligner sur les poncifs dominants. Ensuite, l’oeuvre majeure de Pierre-André Taguieff, “L’effacement de l’avenir” deviendra indubitablement un grand classique: on y découvre un excellent constat de faillite du “progrès”, une critique extrêmement pointue du présentisme ainsi qu’une critique fort pertinente des nouvelles formes de fausse démocratie qui ne sont, explique Taguieff, que des “expertocraties”. On peut évoquer ici le “double langage” de Taguieff, non pas au sens orwellien du terme, où la “liberté” serait l’ “esclavage”, mais dans le sens où nous avons affaire à un théoricien en vue de la gauche mitterrandienne et post-mitterrandienne, obsédé par le joujou “racisme” comme il y avait un “joujou nationalisme” du temps de Rémy de Gourmont, un intellectuel post-mitterrandien qui a pondu une triclée de travaux sur cette notion-joujou qui n’a pas d’autre existence ou de statut que ceux de “bricolages médiatiques”; au fond: s’il existe à l’évidence des préjugés raciaux, cela n’empêchera nullement le pire des racistes de trouver un jour son bon “nègre”, son “bon arbi” ou son juif favori. Même le Troisième Reich recrutait Blancs, Blacks et Beurs, et Indiens bouddhistes, hindouistes, musulmans ou sikhs, pourvu qu’il s’agissait de lutter contre la ploutocratie britannique. Et le plus acharné des anti-racistes fulminera un jour contre un représentant quelconque d’une autre race que la sienne ou sera agité par un prurit antisémite; dans la vie quotidienne les exemples sont légion. Quant aux Blancs, ils sont tout aussi victimes de préjugés raciaux que les autres.

 

Taguieff situe ses propres travaux sur le racisme et l’anti-racisme dans le cadre d’un axe de recherches inauguré par l’Américain Gordon W. Allport (“The Nature of Prejudice”, 1ère éd., 1954): le danger que recèle ce genre de démarche, qui est propre à un certain libéralisme totalitaire, est d’amorcer une critique des “préjugés” qui amènera à un rejet puis à un arasement des “valeurs”, posées derechef comme des “irrationalités” à gommer, des  valeurs sans lesquelles aucune société ne peut toutefois fonctionner, sans lesquelles toute société devient, pour reprendre la terminologie du Prof. Marcel De Corte, principal collaborateur d’Eemans au temps de la revue “Hermès” (1933-1939), une “dissociété”. Taguieff est conscient de ce danger car son idéologie “républicaine” (certes plus nuancée que les insupportables vulgates que l’on entend ânonner à longueur de journées) n’est pas dépourvue de “valeurs”, notamment de “valeurs citoyennes”, qui risquent l’arasement au même titre que les valeurs catholiques, conservatrices ou “raciques” (dans la mesure où elles sont vernaculaires), pour le plus grand bénéfice de l’idéologie présentiste qui conçoit la société non pas comme une communauté de destin mais comme un supermarché. Taguieff est donc ce penseur post-mitterrandien, qui a partagé l’illusion de la grande foire multiraciale annoncée par les “saturnales de touche-pas-à-mon-pote” (dixit Louis Pauwels), et, simultanément, le penseur d’une “nouvelle révolution conservatrice” à la française, une “révolution conservatrice” qui critique de fond en comble la notion fétiche de progrès. C’est en ce sens que j’ai voulu présenter ses ouvrages lors d’une université d’été de “Synergies Européennes” en Basse-Saxe. Taguieff mérite maintenant plus que jamais ce titre de “théoricien révolutionnaire-conservateur” car il a oeuvré d’arrache-pied pour poursuivre, défendre et illustrer l’oeuvre de Julien Freund. Quant à la critique des préjugés, mieux vaut se plonger dans les écrits et les pamphlets de ceux qui luttent contre le festivisme (Philippe Muray), facteur d’un impolitisme total, ou contre les vrais préjugés et débilités du “politiquement correct” comme Elizabeth Lévy, Emmanuelle Duverger ou Robert Ménard. Ce sont là critiques bien plus tonifiantes.

 

Après le dîner avec Tommissen et son ami barbu, Beerens et moi avons ramené notre bon Taguieff à son hôtel: n’ayant pas le coffre et l’estomac breugheliens comme les nôtres, il est revenu de nos agapes en état de franche ébriété; sur la banquette arrière de la petite Volkswagen de Beerens, il émettait de joyeuses remarques: “je suis un être dédoublé, ha ha ha, un bon joueur d’échecs, hi hi hi, je parle avec tout le monde, hu hu hu, et je roule tout le monde, ha ha ha!”. Enfin un intellectuel parisien qui se comportait comme nos joyeux professeurs qui manient allègrement la chope de bière, comme Tommissen ou l’angliciste Heiderscheidt, ou comme l’heideggerien Gadamer, qui participait, presque centenaire, aux canti de ses étudiants et tenait à respecter les règles des festivités estudiantines. Dommage que Taguieff ne soit pas resté longtemps ou ne soit jamais revenu: on en aurait fait un bon disciple de Bacchus et du Roi Gambrinus! En réalité, c’est vrai, il est un “être dédoublé”, in vino veritas, mais il ne “roule” pas tout le monde, il séduit tout le monde, tant les tenants de la gôôôche de toujours que les innovateurs qui puisent dans le vrai corpus de la “révolution conservatrice”!

 

La Foire du Livre à Francfort

 

Mais où Tommissen était le plus présent, sans y être physiquement, c’était à la Foire du Livre de Francfort, que j’ai visitée de 1984 à 1999, ainsi qu’en 2003. Pour moi, la Foire du Livre de la métropole hessoise a toujours été “maschkinocentrée”, c’est-à-dire centrée autour de la truculente personnalité de Günter Maschke, cet ancien révolutionnaire de mai 68, devenu schmittien, un des plus grands schmittiens de la Planète Terre au fil du temps. Et qui dit Günter Maschke, dit Carl Schmitt et tout l’univers des schmittiens. Après avoir arpenté pendant toute la journée les énormes halls de la Foire, nous nous retrouvions fourbus le soir chez Maschke, pour discuter de tout, mais pas dans une ambiance compassée, faite de sérieux papal: nous avons sorti les pires énormités, en riant comme des collégiens ou des soudards qui venaient d’achever une bataille. A la table, outre le grand expert militaire suisse Jean-Jacques Langendorf, et le Dr. Peter Weiss, directeur de la maison d’édition “Karolinger Verlag”, nous avions très souvent le bonheur d’accueillir le grand philosophe grec Panayotis Kondylis et l’écrivain allemand Martin Mosebach. Dans ces joyeuses retrouvailles annuelles, Maschke évoquait toujours Tommissen avec le plus grand respect. En effet, de 1988 à 2003, Piet Tommissen a publié ses miniatures sur Carl Schmitt dans la série “Schmittiana”, chez le prestigieux éditeur berlinois Duncker & Humblot, acquerrant la célébrité dans l’univers restreint des bons politologues, qui sont tous, évidemment, des schmittiens, où qu’ils vivent sur le globe! Le système Tommissen, celui de la note pertinente, y a fait merveille: en quoi consiste l’excellence de ce système? Eh bien, il aiguille le train de la recherche vers des voies souvent insoupçonnées. Schmitt a rencontré telle personnalité, lu tel livre, participé à tel colloque: Tommissen explicitait en peu de mots l’intérêt de cette rencontre, de cette lecture ou de cette participation pour le reste ou la suite de l’oeuvre et ouvrait simultanément des perspectives nouvelles et inédites sur la personnalité rencontrée, l’auteur du livre lu par Schmitt ou les organisateurs du colloque qui avait bénéficié de sa participation. La même méthode vaut bien entendu pour Eemans et le champs énorme que celui-ci a couvert en tant que peintre avant-gardiste, éditeur de revues originales, historien de l’art. On a pu se moquer de cette méthode: à première vue et pour un esprit borné, elle peut paraître désuète mais, à l’analyse, elle porte des fruits insoupçonnés. Enfin, en 1997, nous avons pu célébrer la parution de “In Sachen Carl Schmitt” auprès de “Karolinger Verlag”, avec une analyse des textes satiriques de Carl Schmitt et une autre sur la correspondance Schmitt/Michels.

 

Alberto Buela et Horacio Cagni à Bruxelles

 

J’ai eu aussi le bonheur de recevoir un jour à Bruxelles le Dr. Alberto Buela et le Dr. Horacio Cagni du CNRS argentin. Ils voulaient voir trois personnes: Tommissen, dont ils n’avaient pas l’adresse, Christopher Gérard, l’éditeur de la revue “Antaios”, et moi-même. Ce ne furent que joie et libations. D’abord en l’estaminet aujourd’hui disparu que fut “Le Père Faro” à Uccle, ensuite sur la terrasse de “chez Karim”, Place de l’Altitude Cent, où la faconde de Buela, philosophe, professeur d’université, sénateur et rancher argentin, fascinait les autres clients et même les passants qui s’arrêtaient et commandaient un verre de vin, pour avoir l’insigne plaisir de l’entendre discourir! Bref, comme me disait en juin dernier un animateur de la radio “Méridien Zéro” (Paris): la métapolitique par la joie ! “Metapolitik durch Freude”! Le lendemain: à quatre, Buela, Cagni, Gérard et moi, nous prenions le train vers Vilvorde, où nous attendait Tommissen pour nous véhiculer jusqu’à Grimbergen. Nouvelle visite de la bibliothèque où le maître des lieux me montre une collection complète de mes “Orientations”, magnifiquement reliée et placée dans la bibliothèque aux côtés d’autres revues du même acabit. Et toujours le fauteuil, entouré d’étagères sur mesure... Ensuite, libations dans une salle jouxtant l’Abbaye et la Collégiale Saint Servais de Grimbergen: les bières de l’Abbaye, généreusement offertes par Tommissen, ont coulé dans nos gosiers. Thème du fructueux débat entre Tommissen et Buela: Carl Schmitt et l’Amérique latine. On sait que Buela écrit inlassablement des articles philosophiques à dimensions véritablement politiques (au sens de Schmitt et de Freund),  et qui gardent une mesure grecque, au départ d’auteurs hispaniques, marqués par la tradition espagnole et par l’antilibéralisme de Donoso Cortès, qui ont tant fasciné Carl Schmitt.

 

Visite à Uccle

 

Après la mort prématurée de son épouse Agnès, Tommissen, au fond, était inconsolable. La grande maison de Grimbergen était devenue bien vide, sans la bonne fée du foyer. Notre professeur a pris alors la décision de s’établir à Uccle, dans un complexe résidentiel pour seniors, où il s’est acheté un studio, dans lequel il a empilé la quintessence de sa bibliothèque. Là il rédigera ses “Buitenissigheden”, ses “Extravagances”, et sans doute les dernières livraisons de ses “Schmittiana”. Je lui ai rendu visite deux fois, d’abord avec ma future épouse Ana, ensuite avec mon fils. Lors de notre première visite, il m’a offert ses “Nieuwe Buitenissigheden”, avec de la matière à traiter fort bientôt car, en effet, ce petit volume aux apparences fort modestes, contient trois thématiques qui m’intéressent: Wies Moens comme avant-gardiste et “révolutionnaire conservateur” flamand et nationaliste. Un auteur qui fascinait également Eemans et a sans doute contribué à déterminer ses choix, quand il entra en dissidence définitive et orageuse par rapport au groupe surréaliste bruxellois, autour de Magritte, Mariën, Scutenaire et les autres. Il me reste à travailler cette matière “Moens” et à l’exposer un jour au public francophone. Deuxième thématique: la “Politieke Academie”, dont il s’agira de réactiver les projets jusqu’à la consommation des siècles. Troisième thématique: la théorie de Brück, qui fascinait les rois Albert I et Léopold III, et qui sous-tend une variante du “suprématisme” anglo-saxon. Mais, infatigable, et porté par la ferme volonté d’écrire jusqu’à son dernier souffle, pour témoigner, révéler, arracher à l’oubli ce que ne méritait pas de l’être, Tommissen avait également sorti en 2005, “Driemaal Spengler”, un recueil de trois maîtres articles sur Oswald Spengler, parmi lesquels une étude sur la réception de l’auteur du “Déclin de l’Occident” en Flandre. La réception, lors de cette première visite à l’appartement d’Uccle, fut joviale. Notre professeur était au mieux de sa forme.

 

Juillet 2011: ultime visite

 

Notre dernière visite, début juillet 2011, cinq semaines avant sa disparition et sous une chaleur caniculaire, avait pour objet premier de lui communiquer, entre autres documents, une copie d’un entretien que l’on m’avait demandé sur Marc. Eemans et le “Centro Studi Evoliani”. Cet entretien se référait souvent à la monographie que Tommissen avait consacrée au “surréaliste pas comme les autres”. Cet entretien a plu à beaucoup de monde, y compris au nationaliste révolutionnaire évolien Christian Bouchet et à l’inclassable post-communiste Alain Soral qui l’ont immédiatement affiché sur leurs sites respectifs. Pour définir les positions d’Eemans dans cet univers avant-gardiste et surréaliste, je ne pouvais pas trouver de meilleur inspirateur que Tommissen. J’ai trouvé notre Professeur assez fatigué mais il faut dire aussi que l’après-midi de notre visite était particulièrement chaud, lourd et malsain. La conversation s’est déroulée en trois volets: Eemans et les cercles politico-littéraires ou politico-philosophiques des années 30 en Belgique, avec surtout la présence à Pontigny de Raymond De Becker qui y évoqua le néo-socialisme de De Man et Déat, un thème récurrent dans les recherches de Tommissen; le cercle “Communauté” fondé par Henry Bauchau et De Becker; leur “académie” à laquelle participait Marcel De Corte, également collaborateur de la revue “Hermès” d’Eemans; l’évolution de Bauchau et De Becker vers la psychanalyse jungienne (et les retombées de cet engouement sur Hergé) et la participation de De Becker à la revue “Planète” de Louis Pauwels. Sans compter l’impasse dans laquelle s’est retrouvée l’intelligentsia “conservatrice” ou “révolutionnaire-conservatrice” ou “non-conformiste des années 30” en Belgique, à partir du moment où l’Action Française de Maurras est condamnée par le Vatican en 1926; pour remplacer l’idole Maurras, désormais à l’index, une partie de cette intelligentsia va changer de gourou et adopter Jacques Maritain. Les vicissitudes de cette transition, que n’a pas vécu l’intelligentsia flamande, expliquent sans doute le peu de rapports entre les intellectuels des deux communautés linguistiques, ou le caractère très ténu de leurs références communes. Enfin, l’étude de Tommissen sur le rapport entre Francis Parker Yockey et la chorégraphe flamande Elsa Darciel (cf. euro-synergies.hautetfort.com/ ). Au cours de l ‘entretien, mon fiston et moi-même fûmes gâtés: deux volumes autobiographiques de Tommissen (“Een leven vol buitenissigheden”) et un volume avec la bibliographie complète des oeuvres de notre professeur. Deuxième volet: Tommissen n’a cessé d’interroger mon fils sur les innovations à la KUL, sur l’état d’esprit qui y règne, sur les matières qui y sont enseignées, etc. Troisième volet, avec mon épouse; Tommissen n’importunait jamais les dames avec ses engouements politiques ou philosophiques, il passait aux thèmes de la vie quotidienne et de la famille. Il nous a dit: “Aimez-vous et profitez des bons côtés de la vie”. Ce fut notre dernière rencontre.

 

Nous avions promis de nous revoir en septembre pour poursuivre nos conversations: cette année les voies du dépaysement estival nous ont menés tour à tour en Zélande, dans l’Eifel et les Fagnes, au Cap Blanc-Nez et sur la côte d’Opale, dans la Baie de la Somme, à Oslo, dans les Vosges et en Franche-Comté, sur le Chasseral suisse et sur les bords du Lac de Neuchâtel. Le 21 août, deux jours après notre retour de cette escapade dans le Jura, Piet Tommissen s’éteignait à Uccle. Une magnifique et émouvante cérémonie a eu lieu à Grimbergen le 26 août, ponctuée par le “Gebed aan ’t Vaderland”.

 

Avec la disparition de Piet Tommissen, ce sont des pans entiers de souvenirs, de la mémoire intellectuelle de la Flandre, qui disparaissent. Mais, avec lui, une chose est sûre: nous savons ce que nous devons faire jusqu’à notre dernier souffle de vie. Nous devons témoigner, lire, recenser, repérer des anecdotes en apparence futiles mais qui expliquent les transitions, notamment les transitions qui partent de la gauche officielle pour aboutir à des gauches non conformistes comme celles que parcoururent Pierre Hubermont ou Walter Dauge en Wallonie, celles qu’empruntèrent Eemans ou Moens qui, tous deux, mêlent étroitement avant-gardes, militantisme flamand et engouements philosophiques traditionnels. Nous devons aussi rester des schmittiens, attentifs à tous les aspects de l’oeuvre du “catholique prussien du Sauerland”. Car il s’agit de demeurer, envers et contre toutes les déchéances, tous les impolitismes et tous les festivismes, des “Gardiens des sources”.

 

En attendant, nous devons encore dire “Merci! Mille mercis!” à Piet Tommissen, pour sa gentillesse et pour son érudition.

 

Robert STEUCKERS.

Rédigé, grande tristesse au coeur, à Forest-Flotzenberg, le 4 septembre 2011.

mardi, 30 août 2011

Hommage à Paul Jamin (1911-1995)

Picard/’t Pallieterke:

Hommage à Paul Jamin (1911-1995)

 

A l’occasion du centenaire de sa naissance

 

dupont.jpgL’un des derniers numéros du journal satirique bruxellois “Père Ubu/Pan” (11 août 2011) comprenait un encart fort intéressant: quatre pages consacrées à Paul Jamin (1911-1995), qui fut, pendant de longues décennies, le principal caricaturiste de “Pan” d’abord, de “Père Ubu” ensuite. Aujourd’hui les deux feuilles ont fusionné pour devenir “Ubu/Pan”, le seul hebdomadaire satirique de droite en Belgique francophone (et les critiques acerbes de cette feuille disent qu’elle est “islamophobe”). Paul Jamin a été indubitablement l’un des meilleurs caricaturiste dans la Belgique d’après guerre.

 

C’est parce qu’on célèbre le centième anniversaire de sa naissance qu’“Ubu/Pan” a voulu attirer l’attention de ses lecteurs. Jamin était natif de Liège. Sa biographie peut se lire en parallèle avec la période la plus effervescente de l’histoire au 20ème siècle. Jamin et sa famille émigrèrent assez tôt à Bruxelles. Au départ, il ne semblait pas prédestiné au dessin. A l’école, les résultats qu’il obtenait dans cette branche étaient au mieux “bons”. Jamin avait toutefois des talents cachés. Il avait à peine dix-sept ans quand il fut impliqué dans le lancement du supplément-jeunesse du quotidien catholique de droite “Le Vingtième Siècle”. Pour ceux qui connaissent bien l’univers de la bande dessinée, ce supplément-jeunesse, baptisé “Le Petit Vingtième”, est une référence. Car c’est dans cet encart que furent publiées les premières aventures de Tintin. Jamin et Georges Remi (alias “Hergé”) étaient tous deux des protégés du charismatique Abbé Norbert Wallez, patron du “Vingtième Siècle”. Le journal étaient d’obédience conservatrice et autoritariste, résolument catholique, et cultivait une sympathie certaine pour le régime de Benito Mussolini en Italie.

 

On ne doit pas sous-estimer l’influence de Paul Jamin sur “Le Petit Vingtième”. Trop d’analystes de cette époque font l’équation entre cet encart destiné à la jeunesse et Hergé mais il ne faut pas oublier que ce fut Jamin qui patronna la naissance de Quick et Flupke et fut l’inspirateur de leurs innombrables gags. Il y a plus à dire encore à ce propos: au moins un biographe d’Hergé signale, en conclusion, que c’est grâce à Jamin que des personnages comme les Dupont/Dupond n’ont pas disparu des aventures de Tintin. Hergé voulait les supprimer mais Jamin a pu le convaincre de ne pas le faire.

 

Bon élève de l’Abbé Wallez, Jamin n’était pas insensible au charme des idées d’Ordre Nouveau. On ne s’étonnera pas, dès lors, qu’en 1936, il ait abandonné “Le Petit Vingtième” pour rejoindre “Le Pays Réel”, le journal de combat de Rex et de son leader flamboyant, Léon Degrelle. Jamin et Degrelle sont alors devenus amis pour la vie. Jamin publia dans “Le Pays Réel” quantité de caricatures sous le pseudonyme de “Jam”. N’oublions pas que Rex, à ce moment-là, était un jeune mouvement politique encore très proche de l’aile droite du “pilier catholique” et de l’Action catholique. Ce n’est que lorsque le Cardinal Van Roey estima que c’était péché de voter pour les listes de Rex que le mouvement bascula dans la marginalité (“Il essaie de me crosser” disait Degrelle).

 

Mais Jamin est toujours resté fidèle à Degrelle. Y compris lorsque ce dernier s’est rapproché de l’occupant allemand pendant la seconde guerre mondiale. Jamin appartenait aux cercles d’Ordre Nouveau qui demeuraient “belgicains”. Dans le petit univers médiatique francophone de Belgique, ces groupes de la collaboration belgicaine ont été délibérément effacés des mémoires. Jamin, qui en faisait partie, estimait, tout comme le Roi Léopold III et son entourage d’ailleurs, que le salut pouvait venir d’une nouvelle Europe sous domination allemande. Aux yeux de Jamin, il fallait essayer de tirer le meilleur profit de cette situation. “Jam” ne se contenta pas dès lors du seul “Pays réel” mais dessina aussi ses caricatures mordantes pour “Le Soir” (alors sous contrôle allemand), pour “Le Nouveau Journal” (de Robert Poulet) et pour le “Brüsseler Zeitung”. On n’insistera jamais assez sur le fait que les collaborateurs du “Nouveau Journal” de Poulet étaient convaincus qu’ils plaidaient pour une “politique d’accomodement” avec les nationaux-socialistes, avec l’approbation du Palais de Laeken.

 

Après l’entrée des troups anglaises dans Bruxelles en septembre 1944, on n’a tenu compte d’aucune de ces nuances: Jamin fut arrêté et condamné à mort. Il échappa au peloton d’exécution mais ne fut libéré qu’en 1952. Il reprit une carrière de caricaturiste sous le pseudo d’”Alidor” dans les colonnes du journal satirique “Pan”. Tout comme dans “’t Pallieterke”, le journal satirique anversois, les figures politiques qu’étaient Achiel Van Acker, Paul-Henri Spaak, Théo Lefebvre et Gaston Eyskens constituaient les principales têtes de Turc. “Alidor” commit aussi des dessins pour le “Standaard”, “De Vlaamse Linie” et “Trends”. On ne peut affirmer avec certitude s’il a été engagé dans ces deux dernières publications par le Sénateur Lode Claes (Volksunie) qui avait son mot à dire dans chacune d’elles.

 

On remarquera que Jamin ornait toujours sa signature “Alidor” d’une petite couronne. C’est une allusion à Léopold III, prétend aujourd’hui “Ubu/Pan”. Alidor était un léopoldiste convaincu mais après la guerre et la question royale, il ressentait une réelle frustration: Léopold III, à ses yeux, avait laissé froidement tomber les hommes qui l’avaient soutenu.

 

Jamin n’a jamais pris ses distances par rapport à Léon Degrelle. Il allait régulièrement lui rendre visite dans son exil espagnol. Il faut encore mentionner que Jamin a quitté “Pan” en 1990 parce qu’il n’était pas d’accord avec le nouveau propriétaire de la feuille, Stéphane Jourdain. Au cours des dernières années de sa vie, Jamin a donc dessiné pour “Père Ubu”, un journal qu’il a fondé avec son ami Henri Vellut (qui, pendant la campagne des Dix-Huit Jours, en mai 1940, avait perdu un oeil). En 2010, quinze ans après sa mort, “Pan” et “Père Ubu” ont fusionné.

 

PICARD/ ’t Pallieterke.

(texte paru dans ’t Pallieterke, Anvers, 24 août 2011).

 

 

lundi, 11 juillet 2011

Un très grand Européen

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Un très grand Européen

par Georges FELTIN-TRACOL

Kuk-doppeladler3.jpgLe 4 juillet 2011 à Pöcking en Bavière est décédé à l’âge de 98 ans un ardent Européen, Otto de Habsbourg-Lorraine. Moralement atteint par la disparition, dix-huit mois plus tôt, de son épouse, la princesse Regina de Saxe – Meiningen, qu’il avait rencontrée au hasard d’une action caritative dans un camp de réfugiés hongrois en Allemagne à la fin des années Quarante, et physiquement affaibli par une mauvaise chute à son domicile, l’archiduc Otto ne montrait plus ces derniers temps cette formidable vitalité qu’il avait su déployer tout au cours de sa vie marquée par les tragédies du XXe siècle.

Né le 20 novembre 1912 en Autriche-Hongrie, Otto de Habsbourg-Lorraine est l’aîné de l’archiduc Charles et de la princesse Zita de Bourbon-Parme. En 1916, il voit son père succéder à François-Joseph Ier et devenir le nouvel empereur Charles Ier d’Autriche et roi Charles IV de Hongrie. Proche de son cousin l’archiduc François-Ferdinand assassiné, le 28 juin 1914, à Sarajevo, le nouvel empereur-roi tente dès 1917 d’arrêter l’immense carnage européen en souhaitant négocier une paix séparée avec la France. Il soutient les initiatives diplomatiques secrètes de ses beaux-frères, les princes Sixte et Xavier de Bourbon-Parme, ainsi que celles du maréchal Smuts, le Premier ministre du dominion sud-africain. Hélas, ces approches sont torpillées par la sinistre figure de ce cancer de la politique française qu’est le Parti radical et radical-socialiste, Clemenceau.

La fin de la Grande Guerre en 1918 entraîne la révolution, la chute de la dynastie autrichienne et l’éclatement de l’ensemble danubien au profit d’une application aveugle des idées nationalitaire et stato-nationale. Écarté du pouvoir et surveillé par les Alliés, l’empereur Charles essaye à deux reprises en 1921 de reprendre sa couronne en Hongrie, mais il y renonce devant le refus du régent Horthy et de l’Entente. Trahi et malade, l’empereur-roi s’exile sur l’île de Madère et il y meurt en 1922, laissant une veuve et huit enfants.

En dépit de conditions matérielles difficiles, l’impératrice Zita inculque à ses enfants le sens du devoir. Elle « insistait sur la discipline de la vie. Je ne sais pas si cela correspondait à son caractère ou si elle s’était crue obligée, à la mort de mon père, de le remplacer. Toujours est-il que son éducation fut très sévère, mais je lui en suis profondément reconnaissant aujourd’hui (1) ». Véritable maîtresse-femme, l’Impératrice affronte les épreuves avec dignité et abnégation. Sa fidélité à son époux défunt fait qu’elle ne signera jamais la moindre déclaration de loyauté à la République autrichienne…

Axée sur l’histoire et la politique, l’instruction du jeune Otto est aussi linguistique. Son apprentissage est polyglotte puisqu’il va bientôt s’exprimer couramment sept langues (l’allemand, le hongrois, le français, l’espagnol, l’anglais, l’italien et le latin). Très jeune, il apprend aussi le croate et, à la suite de séjours fréquents au bord du golfe de Biscaye, il s’initie au basque… Bien plus tard, dans l’enceinte du Parlement européen, il prononcera une allocution en latin. Seul Bruno Gollnisch, qui lui a rendu hommage dans un communiqué, pourra lui répondre.

Sa facilité pour les langues et son appétence pour l’histoire lui font prendre conscience du fait européen, et ce dès l’Entre-deux-guerres. « Qui connaît l’histoire sait que, par le passé de ma famille, je suis lié à de nombreuses régions de ce continent, que ce soit la Flandre ou le Brabant, l’Espagne, le Portugal, l’Allemagne, la Lorraine, la Lituanie et la Hongrie, la Suisse actuelle, l’Italie et la Bourgogne. N’étais-je pas, de ce fait, le légataire d’une vocation européenne avant la lettre ? (2) »

Ce n’est pas un hasard s’il écrit en 1967 une biographie de Charles Quint (3). C’est en 1936 qu’il rencontre à Paris un autre passionné de l’Europe : le comte Richard Coudenhove-Kalergi, auteur de la Paneurope. Certes, Coudenhove-Kalergi conçoit l’unité continentale européenne comme le dernier palier avant l’avènement d’une Fédération mondiale. Cette idée ne lui appartient pas en propre puisque ce « zonisme » se retrouve tout aussi bien chez Denis de Rougemont ou Jacques Maritain avec une propension « planétarienne » marquée, que chez Carl Schmitt ou Karl Haushofer (4). Comme la langue d’Ésope, la politogénèse européenne peut être un agent au service du mondialisme ou un amplificateur de puissance majeur des identités enracinées. A contrario des vieilles thèses européistes, il importe aujourd’hui de la considérer comme le facteur oppositionnel le plus efficient au projet d’État mondial.

Dans les années Trente, la mue européenne d’Otto de Habsbourg-Lorraine n’est pas encore complète. Après avoir lu Mein Kampf et cerné la personnalité de son auteur, il cherche à empêcher l’Anschluss de l’Autriche par l’Allemagne. Il devient l’ennemi personnel d’Hitler qui le fait condamner à mort. En 1937, le chancelier autrichien Schuschnigg envisage un instant de lui confier la direction d’un gouvernement d’union nationale afin de résister aux menées de Berlin. Schuschnigg recule cependant sous la pression conjuguée de l’Allemagne, de l’Italie et de la Petite-Entente (le Tchécoslovaque Bénès déclarant préférer Hitler aux Habsbourg…).

Entre 1940 et 1944, Otto de Habsbourg-Lorraine quitte l’Europe en feu et s’installe aux États-Unis. Le conférencier découvre l’American way of life, son matérialisme et l’absence de profondeur historique : « Je ne suis devenu un vrai Européen que quand je vivais aux États-Unis, et surtout lorsque j’ai tourné le dos aux gratte-ciel de New York (5). »

De retour sur le « Vieux Continent » à la fin du second conflit mondial, Otto de Habsbourg-Lorraine se fait l’avocat de la cause européenne qu’il juge vitale pour l’avenir du continent d’autant qu’après le national-socialisme, l’Europe se retrouve menacée par le danger communiste. Membre de la W.A.C.L. (Ligue anti-communiste mondiale) et adhérent dès 1948 – 1949 à la Société du Mont Pèlerin au sein de laquelle il soutient l’école néo-libérale autrichienne, von Mises en particulier, et aussi l’ordo-libéralisme de Wilhelm Röpke, l’Archiduc ne cesse d’avertir ses compatriotes du péril soviétique qu’il confond souvent avec la politique expansionniste traditionnelle de la Russie. En 1994, il « n’accepterai[t] l’idée de l’admission de la Russie à la Communauté européenne qu’après qu’elle ait décolonisé. C’est géographiquement et culturellement un pays européen, mais avec ses immenses possessions de l’Oural à l’Océan Pacifique, ce que l’on appelle la Sibérie, elle ne sait même pas elle-même si elle est européenne ou non (6) ».

Son libéralisme est assez pragmatique. Il conteste les empiétements tentaculaires de l’État sur les petits entrepreneurs et les classes moyennes. En 1967, la revue Janus consacre un dossier sur le « capitalisme populaire » auquel collaborent Denis de Rougemont et Otto de Habsbourg-Lorraine.

Pour vivre, l’Archiduc devient journaliste et couvre la fin de la guerre civile chinoise. Puis, il suit les combats en Indochine et voyage en Asie – Pacifique. De ses reportages sort L’Extrême-Orient n’est pas perdu (7), une enquête sur les futurs « Tigres » et « Dragons » alors tout juste décolonisés et risquant de passer sous la coupe bolchevique. L’acuité de l’époque le rend atlantiste quand bien même son atlantisme demeure raisonnable. À partir des années Soixante, il applaudit la politique étrangère du général de Gaulle. Au sein des cénacles atlantistes, il revendique l’égalité entre les deux rives de l’Atlantique et condamne la sujétion de l’Europe aux États-Unis. Sans succès. Pis, en 1990 – 1991, il approuvera l’intervention occidentale au Koweït contre l’Irak.

Soucieux de participer à l’aventure européenne, outre la présidence de l’Union paneuropéenne internationale de Coudenhove-Kalergi, Otto de Habsbourg-Lorraine devient en 1979 député européen à Strasbourg – Bruxelles après avoir acquis la nationalité allemande un an plus tôt. Élu de Bavière, il fait partie de la très droitière C.S.U. (Union chrétienne sociale) de Franz Josef Strauss. Pendant vingt ans, il y développe une certaine idée de l’Europe, car « ce qui distingue notre continent des autres, c’est son immense passé, avec ses éléments que sont la spiritualité chrétienne et le bon sens formé par la sagesse grecque et par le droit romain (8) ». C’est aussi un grand militant de la diversité culturelle intrinsèque de l’Europe. « Dans une Europe “ pluriculturelle ” et non pas “ multiculturelle ”, une Europe pluraliste donc, la coexistence des cultures et des langues me paraît […] possible et même souhaitable (9). » Son plaidoyer en faveur du pluralisme culturel s’inspire du précédent institutionnel de la Double-Monarchie habsbourgeoise…

Hostile à toute langue hégémonique – dont l’anglais -, et déçu que le latin ne soit plus la langue véhiculaire de la civilisation européenne, Otto de Habsbourg-Lorraine suggère de faire du français la langue officielle de l’ensemble européen. À cet effet, il organise et préside le Comité international pour le français, langue européenne, ce qui lui permet en 1970 d’être associé étranger à l’Institut de France. Son intérêt pour la langue de Molière n’est pas anecdotique. Il n’oublie pas qu’il est Capétien par sa mère et que sa famille est originaire de Lorraine avec le duc François qui devint empereur du Saint-Empire (François Ier) et époux de Marie-Thérèse d’Autriche. C’est en souvenir de ce passé lorrain que le duc de Bar qu’il est aussi, épousa à Nancy, le 10 mai 1950, la princesse Regina. Par ailleurs, toujours par héritage familial, ce descendant de la Maison de Bourgogne est de 1922 à 2001 le chef souverain de la Toison d’Or dont les actes sont rédigés en français (10). C’est en 2007 qu’il « abdique » finalement sa charge de prétendant impérial et royal au profit de son fils aîné, l’archiduc Charles, déjà Grand-Maître de la Toison d’Or.

L’esprit bourguignon a toujours sous-tendu l’idéal politique d’Otto de Habsbourg-Lorraine. « Connaissant l’impossibilité d’imposer au continent le gouvernement d’une seule nation, l’Europe future devra être gérée dans le cadre d’un système d’harmonisation des intérêts qui ne sera que le legs administratif de la Franche-Comté (11). » Un jour peut-être, les Européens redécouvriront ce principe supranational et enraciné parce que « l’histoire est un perpétuel recommencement. Mais on ne peut pas la considérer sur ce plan linéaire. Elle progresse en dents de scie, sans retour intégral à ce qui fut (12) ». Il est clair que, pour lui, « la forme de l’Empire fut continuellement soumise à des changements. Mais son âme, pour laquelle se battent les puissances les plus diverses, est demeurée intacte (13) ».

Il est navrant, déplorable même, qu’Otto de Habsbourg-Lorraine ne fut jamais président du Parlement européen, seulement son doyen, ni même le premier président du Conseil européen à la place du fantomatique Herman van Rompuy. Sa rectitude morale et son catholicisme fervent l’ont desservis auprès de politiciens médiocres et sans grand dessein. À ces postes, il aurait pu concrètement réorienter les institutions européennes vers une nouvelle légitimité dont la portée est supérieure au concept de souveraineté. Il estimait en tout cas que « l’idée de sacré peut être restauré dans ses droits. Les gens en ont besoin (14) » et que « l’idée européenne a de profondes racines chrétiennes. D’où la certitude que l’avenir de l’Europe est inimaginable sans un renouveau de la religion (15) ».

Pendant la Guerre froide, il craint que l’Europe devienne le lieu d’affrontement effectif entre les deux Super-Grands. Dans Europe. Champ de bataille ou grande puissance (16), il condamne la conférence de Yalta, dénonce la mainmise soviétique d’une partie du continent, regrette les pratiques diplomatiques policées du Congrès de Vienne (1814 – 1815) et avance la notion féconde de patriotisme européen. Attentif à la Décolonisation, Otto de Habsbourg-Lorraine renouvelle les thèses eurafricaines de Coudenhove-Kalergi en promouvant l’urgence impérieuse d’une vraie coopération euro-africaine afin que le continent noir ne rallie pas le camp de Moscou (17)…

Cet adversaire farouche de l’U.R.S.S. contribue aussi à sa dislocation. Le 19 août 1989, il organise à Sopron en Hongrie un pique-nique de l’Union paneuropéenne qui permet à des Allemands de l’Est de se réfugier en R.F.A. Il se réjouit de la chute du Mur de Berlin et de la fin du « Rideau de fer ». Son aide auprès des peuples libérés d’Europe centrale et orientale est telle qu’en 1991, plusieurs mouvements politiques hongrois lui demandent de se porter candidat à la présidence de la République hongroise de leur pays. Otto de Habsbourg-Lorraine décline cette proposition parce qu’il ne veut pas se contenter d’une fonction honorifique. Dans les années 1960, il avait déjà refusé le trône d’Espagne !

Dans la décennie 1990, il soutient les différents traités européens (Maastricht, Amsterdam, Nice, voire Lisbonne et le traité constitutionnel). Il se satisfait de la fin de la Yougoslavie et des indépendances slovène et croate. Pendant la guerre en Bosnie-Herzégovine, il appelle les Européens à intervenir militairement contre les Serbes. Le siège de Sarajevo entre 1993 et 1995 restera longtemps à ses yeux la honte de l’Europe. Ce fervent catholique n’a toutefois pas peur d’écrire que « face au matérialisme, totalitaire ou rampant, notre allié naturel, c’est l’islam (18) ».

Son parti-pris pro-bosniaque ne l’empêche pas néanmoins de s’inquiéter du devenir démographique de l’Europe. Constatant le flot ininterrompu des vagues migratoires extra-européennes et sachant que « si les Européens renoncent à assurer leur descendance, d’autres peuples occuperont les places vides (19) », il n’est « pas favorable à une politique d’intégration, s’agissant d’une immigration massive […] qui nous crée des problèmes parce que nous ne sommes pas un continent d’immigration. C’est un des grands problèmes. Et nous ne le résoudrons qu’en donnant graduellement aux autres continents la possibilité d’accéder à notre niveau de vie sur leurs propres terres, et non en attirant chez nous la masse de leur population. Il faut leur faire comprendre que la solution des problèmes africains n’est pas dans les quartiers contournant la gare du Nord à Paris, mais en Afrique (20) ».

Son attachement sincère aux patries charnelles européennes se manifeste à diverses reprises. Il tient à saluer depuis la tribune du Parlement européen les délégations venues de Catalogne, d’Écosse ou de Transylvanie. Il participe au Liber amicorum de Marcel Regamey, adepte du fédéralisme intégral différencié et fondateur de la Ligue vaudoise (21).

Recensant l’ouvrage de Jean Sévilla, Le Chouan du Tyrol. Andreas Hofer contre Napoléon, Jean Mabire relevait qu’« à toute fédération il faut un fédérateur. Je ne suis pas de ceux qui sourient de la monarchie; je crois que le seul qui puisse aujourd’hui y prétendre sur notre continent se nomme Otto de Habsbourg-Lorraine. En complément de ce livre sur Andreas Hofer, je viens de lire d’un trait son essai : L’idée impériale. Histoire et avenir d’un ordre supranational […]. Que d’idées à y reprendre ! (22) »

Fin analyste de l’histoire sans sombrer dans un pessimisme crépusculaire, Otto de Habsbourg-Lorraine a bien saisi les défis de notre temps et diagnostiqué les maux de nos sociétés gâteuses et frivoles. On pourrait penser que son inhumation, le 17 juillet, dans la crypte des Capucins à Vienne signifie l’enterrement de l’Europe. Il n’en est rien, car, incarnation de notre mémoire du futur, l’Archiduc est à jamais un Européen d’avant-hier et d’après-demain. Il a posé les fondements de ce qui sera.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, entretiens avec Jean-Paul Picaper, Paris, Critérion, 1994, p. 22.

2 : Idem, p. 65.

3 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Charles Quint, Paris, Hachette, 1967, réédité en Charles Quint, un empereur pour l’Europe, Bruxelles, Éditions Racine, coll. « Les racines de l’histoire », 1999.

4 : Sur le « zonisme », cf. Bernard Bruneteau, « L’Europe nouvelle » de Hitler. Une illusion des intellectuels de la France de Vichy, Monaco, Éditions du Rocher, coll. « Démocratie ou totalitarisme », 2003.

5 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 249.

6 : Idem, p. 100.

7 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’Extrême-Orient n’est pas perdu, Paris, Hachette, 1962.

8 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 250.

9 : Idem, p. 214.

10 : Il existe aujourd’hui deux ordres de la Toison d’Or. La branche autrichienne, authentique et légitime, reconnue par l’Autriche comme personnalité juridique de droit international, provient directement de son fondateur, le duc de Bourgogne, Philippe le Bon, qui imposa une direction héréditaire, d’où sa transmission successive par mariage aux Habsbourg, puis aux Lorraine d’Autriche. Conservée par Philippe V au mépris des règles fondatrices, la Toison d’Or espagnole est devenue au fil du temps une contrefaçon puisque le principe héréditaire n’est plus respecté avec Joseph Ier Bonaparte, Isabelle II et Amédée Ier. Par ailleurs, outre sa reconnaissance par la République française (ce qui en est une preuve supplémentaire), le nombre de récipiendaires, plus obligatoirement catholiques, est désormais illimité. Enfin, la décision d’attribution, écrite en espagnol, est contresignée par le Président du gouvernement. Le dévoiement est complet.

11 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 196. La Franche-Comté est, au Moyen Âge, le comté libre (franc) de Bourgogne qui relève du Saint-Empire romain germanique alors que le duché de Bourgogne dépend du royaume de France.

12 : Idem, p. 83.

13 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’idée impériale. Histoire et avenir d’un ordre supranational, Nancy, Presses universitaires de Nancy, coll. « Diagonales », 1989, p. 202.

14 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., p. 266.

15 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’idée impériale, op. cit., p. 214.

16 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Europe. Champ de bataille ou grande puissance, Paris, Hachette, 1966.

17 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Européens et Africains. L’entente nécessaire, Paris, Hachette, 1963.

18 : Otto de Habsbourg-Lorraine, L’idée impériale, op. cit., p. 209.

19 : Idem, p. 177.

20 : Otto de Habsbourg-Lorraine, Mémoires d’Europe, op. cit., pp. 250 – 251.

21 : Collectif, Mélanges à Monsieur Marcel Regamey à l’occasion de son septante-cinquième anniversaire, Lausanne, Cahiers de la Renaissance vaudoise, n° 102, 1980.

22 : Jean Mabire, « Andreas Hofer et le double visage de notre Europe », dans Le Choc du Mois, n° 40, mai 1991, p. 43.


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In Memoriam - Vladimir Dimitrijevic & Otto von Habsburg

mardi, 31 mai 2011

Fuad Rifka est mort...

 

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Fuad Rifka est mort…

 

L’hebdomadaire allemand Der Spiegel annonce discrètement le décès, survenu le 14 mai dernier dans sa quatre-vingt-unième année. Né sur la frontière entre la Syrie et le Liban, Fuad Rifka avait étudié à Tübingen dans les années 60. Der Spiegel rappelle ses paroles : « Mon séjour à Tübingen a été comme un séisme dans mon existence ». Après de bonnes études de philosophie, il passe dans cette ville universitaire du Baden-Würtemberg une thèse de doctorat sur l’esthétique selon Martin Heidegger puis retourne au Liban en 1966 pour y enseigner ce que l’on appelait là-bas la « philosophie occidentale » et pour poursuivre sa belle carrière de poète. Avant de partir pour l’Allemagne, il avait cofondé une revue d’avant-garde à Beyrouth, Shi’r, dont l’objectif était de révolutionner la poésie de langue arabe. Outre la publication de ses superbes recueils de poésie, Fuad Rifka a composé une anthologie de la poésie allemande du 20ème siècle et a traduit les œuvres de Hölderlin, de Trakl, de Rilke, de Novalis et de Goethe en arabe, ce qui lui a valu d’être nommé membre correspondant de l’Académie allemande de la langue et des lettres. Le monde arabe vient de perdre son germaniste le plus sublime, en même temps qu’un poète bilingue arabe/allemand d’une exceptionnelle qualité qui, peut-être mieux que les germanophones eux-mêmes, a su traduire en vers l’idée cardinale de son maître Heidegger, celle de la sérénité, de la Gelassenheit, face aux éléments et à la nature.

 

(source : Der Spiegel, n°21/2011).

jeudi, 19 mai 2011

Rede aan het graf van Joris van Severen

Rede aan het graf van Joris Van Severen (05/03/2011)

Ex: http://www.kasper-gent.org/ 

Beste vrienden uit alle Nederlanden,

Vandaag staan we aan het graf van Joris Van Severen, de Leider van het Verdinaso. Zijn persoon, zijn gedachten, zijn invloed en zijn werk doen ons ook vandaag nog steeds bezinnen over de taak die wij te vervullen hebben.

Wij hebben Joris Van Severen nooit gekend. Om hem te kennen zijn wij aangewezen op overgeleverde literatuur.  Wat kan Joris Van Severen nog betekenen voor de jeugd van vandaag? Welke boodschap heeft de jeugd van vandaag weten te bereiken?

Wel beste vrienden, het antwoord is niet meteen duidelijk. Ook wij leren nog dagelijks dingen bij over het Verdinaso, over Joris Van Severen en over de politiek-filosofische achtergrond van zijn denken. Hoe dan ook stellen wij vandaag een diepe malaise vast, die knaagt aan de fundamenten van ons volk en onze gemeenschap. Net zoals Joris Van Severen zien wij absoluut geen heil in partijpolitiek, centjes- of biernationalisme. Wij zien geen heil in neoliberalisme, kapitalisme, particratisme, modernisme, individualisme, collectivisme, communisme, zionisme. Vaak ondergesneeuwde Dinaso-idealen bieden ook voor de actuele situatie een gegronde uitweg, een nieuwe een radicale oplossing die ons volk nodig heeft.

Zo kan de Vlaamse Beweging kan ons geen uitweg aanbieden. Hun gezellig samenzijn onder de ijzertoren ten spijt, zouden ze beter iets nuttig doen voor ons volk en pakweg gaan boeren. Met hun eurregionalistische discours versterken ze fundamenteel de macht van de Europese superstaat, een superstaat die fundamenteel gebaseerd is op Atlantische en kankervolle idealen. Hun discours verscheurt ons volk der Nederlanden nog meer in broedertwist en schande. Ook Joris Van Severen kwam tot dezelfde conclusies. Het enige levensvatbare model is dat van de Bourgondische Nederlanden, een model waarin alle Dietsers verenigd worden in één staat, onder één kroon en met één doel: als volk LEVEN.

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Vervolgens is er het liberaal-kapitalisme. Het heeft onze samenleving ontworteld. Het heeft het geld, het winstbejag en de multinationale onderneming centraal geplaatst. Het heeft ons volk tot productieapparaat der aandeelhouders gemaakt. Het heeft de economie losgetrokken van volk en staat. Het heeft het economisch overleven van ons volk afhankelijk gemaakt van een ‘race to the bottom’ inzake lonen en arbeidsvoorwaarden. Consumentisme en individualisme is de norm geworden.

Vrienden uit alle Nederlanden, economisch links en rechts propageren elkaar te bestrijden, maar in werkelijkheid bestrijden zij de mens, het volk en de maatschappij. Het is noodzakelijk dat wij streven naar een duurzame en organische economie, rekening houdende mens, volk, en capaciteit waarmee God onze Aarde geschapen heeft.

Vanuit beide invalshoeken geeft Van Severen ons een duidelijke boodschap mee. Herinneren wij ons volgende woorden: “Alles wat het liberalisme in Dietsland heeft ontbonden, zullen wij weer binden. Het volk aan zijn wezen, zijn grond en zijn staat; de ledematen van het volk aan het volksgeheel, aan het volkslichaam en aan zijn hoofd”.

Verder bouwde Joris Van Severen ook een keurelite op. Een stijlvolle, aaneen geschraagde groep van mensen die vol overgave strijden voor hetzelfde ideaal. Zelf was hij een man met een grote openheid en een uitzonderlijk samenvattend vermogen. De hoeveelheid politieke en literaire werken die hij raadpleegde, zijn eigen intellectuele arbeid en het feit dat hij de heersende consensus onverkort én onderbouwd in vraag durft stellen verdient onze allergrootste bewondering. De kritiek was groot, maar het simpele feit dat ze tot de dag van vandaag in alle hevigheid blijft aanhouden bewijst alleen maar hoe sterk, hoe volledig en hoe consequent het intellectueel werk dat Van Severen verricht heeft wel is. Een profeet wordt jammer genoeg nooit gehoord in eigen land.

Van Severen wou de morele en intellectuele volmaaktheid bereiken, zonder hierdoor beïnvloed te worden door externe en verleidelijke factoren. De walgelijke hebzucht van het amoreel kapitalisme,parasitaire partijpolitieke en parlementaire stelsels en de gewetensloze manipulatie van de onbewuste massa kregen bij Van Severen geen kans. Als jeugd dienen wij ditzelfde nobele doel voor ogen te nemen en ons niet te laten verleiden door de grote en duivelse demonen van onze tijd. Wij dienen diezelfde elite te vormen die Joris Van Severen voor ogen had. Stijlvol, ordevol, moreel, intellectueel, doelbewust.

Beste vrienden uit alle Nederlanden, moge op onze banen dan ook de hernieuwde stap van het marsbereide, nieuwe Dietsland weerklinken.

Voor Dietsland en Orde!

 

Uitgesproken door Thomas B., vice-Praeses KASPER 2009-2011, aan het graf van Joris Van Severen te Abbeville, 5 maart 2011.

vendredi, 13 mai 2011

Gerd-Klaus Kaltenbrunner is overleden

Gerd Klaus Kaltenbrunner is overleden
 
Ex: Deltanieuwsbrief nr. 47 - Mei 2011

Gerd Klaus Kaltenbrunner“Conservatisme is een ‘elitaire’, men kan ook zeggen ‘esoterische’ aangelegenheid (…).  Het misverstand als zou de conservatief een theorielozen, een onfilosofische, ja, zelfs antifilosofische pragmaticus zijn, lijkt onuitroeibaar. Ik heb nochtans met veel kracht en overtuiging aangetoond dat het een misverstand is, toen ik het over die domeinen had, die man als ‘conservatieve mystiek’ zou kunnen omschrijven (…). Een zekere zin voor de onoplosbare complexiteit van de werkelijkheid, de erkenning van het feit dat men over het leven slechts brokstukgewijs rationeel kunnen spreken, de aandacht voor de tegenstelling, voor het tragische en voor het gedeeltelijk demonische dat door de geschiedenis waart, een constitutionele scepsis tegenover de ‘grote oplossingen’”. Woorden van Gerd Klaus Kaltenbrunner, een grote Oostenrijkse mijnheer, die bij menig jonge Europeaan de grondvesten van een degelijke conservatieve ideeënwereld heeft gelegd.

Kaltenbrunner werd in 1939 in Wenen geboren, maar na zijn studies in de Rechten in 1962 trok hij naar Duitsland en werkte er bij uitgeverijen als lektor. In 1972 publiceerde hij een verzamelwerk Rekonstruktion des Konservatismus, en ontwierp hiermee, enkele jaren na 1968, de basis voor een conservatieve tegenactie. Hij ging in het werk uit van de idee dat het conservatisme eerst de hegemonie op het geestelijke vlak moet veroveren, vooraleer politieke consequenties te trekken.

Gerd Klaus Kaltenbrunner wou niet zomaar ‘conserveren’: hij was er veeleer op uit het ‘moderne’ conservatieve denken mee gestalte te geven – met daarin natuurlijk dat wat eeuwig een Europese waarde had. De door hem opgezette en gepubliceerde Herderbücherei Initiative  - een reeks die liep van 1974 tot 1988 – bracht op een hoog niveau conservatieve auteurs, wetenschappers, onderzoekers en andere bijeen, die rond bepaalde thema’s (soms) baanbrekende bijdragen brachten.  Interessante titels waren (en zijn): Die Zukunft der Vergangenheid (1975), Plädoyer für die Vernunft: Signale einer Tendenzwende (1974).  Gerd Klaus Kaltenbrunner legde ook een bijzondere ijver aan de dag om de bronnen voor het conservatieve denken open en toegankelijk te houden. Hij publiceerde een driedelig werk Europa. Seine geistigen Quellen in Porträts aus zwei Jahrtausenden (1981-1985). Ook het werk Vom Geist Europas heeft niets van zijn waarde verloren en verdient het zeker op opnieuw gelezen te worden.

Hierna werd het stil rond Kaltenbrunner. Hij trok zich – na de ontgoocheling over het uitblijven van een échte conservatieve wende – terug als een lekenmonnik in Kandern, afgesneden van alle moderne communicatiemiddelen. Hij trok ook voorgoed een streep onder het metapolitieke werk. Nochtans loont het de moeite, zeker in deze tijden van ideeënarmoede ter linker en rechter zijde de moeite om de stijl en de onderwerpen die Gerd Klaus Kaltenbrunner nauw aan het hart lagen, te bestuderen.  Met TeKoS hebben wij in elk geval niet op het overlijden van deze bescheiden, overtuigdconservatieve intellectueel gewacht om bijdragen van hem te publiceren. In ons nummer 127 brachten wij een vertaling van Elite. Erziehung für den Ernstfall, in het Nederlands: Zonder Elite gaat het niet. Wij groeten u met bijzondere veel respect, meester Kaltenbrunner!

(Peter Logghe)

mardi, 03 mai 2011

G.-K. Kaltenbrunner ist verstorben

Gerd-Klaus Kaltenbrunner ist verstorben

Götz Kubitschek

Ex: http://www.sezession.de/

 

kaltenbrunner-99x150.jpgGestern ist – wie ich eben erfahren habe – Gerd-Klaus Kaltenbrunner verstorben. Daß ich zuletzt einen seiner Essays in der reihe kaplaken nachdrucken konnte, ist nur eine Marginalie im Leben dieses für eine gewisse Zeitspanne wichtigsten Publizisten der deutschen Nachkriegsrechten.

Ich hatte zu Kaltenbrunners 70. Geburtstag vor zwei Jahren einen Beitrag veröffentlicht (Sezession 28/ Februar 2009). Online ist er hier zu finden.

Und im Oktoberheft 2010 der Sezession (Nr. 38) hatten wir in einer Personenreihe unter dem Titel „Konservative Intelligenz“ selbstverständlich auch einen Eintrag zu Kaltenbrunner veröffentlicht. Im Gedenken an ihn veröffentlichen wir diese Vita hier noch einmal:

Gerd-Klaus Kaltenbrunner wurde 1939 in Wien geboren, übersiedelte nach einem Studium der Rechtswissenschaft 1962 nach Deutschland und arbeitete zunächst für verschiedene Verlage als Lektor. Noch in dieser Eigenschaft gab er den Sammelband Rekonstruktion des Konservatismus (1972) heraus und konnte damit wenige Jahre nach ’68 die Grundlagen für einen möglichen politischen Gegenentwurf liefern. Kaltenbrunner ging dabei von der Einsicht aus, daß der Konservatismus zunächst die Hegemonie im Geistigen erlangen müsse, bevor politische Konsequenzen durchsetzbar seien. Im Hintergrund stand seine Überzeugung, daß die »ökonomischen Verhältnisse« nur den Rahmen für die entscheidenden Ereignisse abgeben: Ideen und Utopien siegen demnach einfach dadurch, »daß sich genügend ›Verrückte‹ finden, die bereit sind, dafür zu kämpfen und sich, wenn’s sein muß, auch töten zu lassen«. Kaltenbrunner sah seine Aufgabe im Bewahren der Tradition des Konservatismus sowie im gegenwartsbezogenen Weiterdenken. Die von ihm initiierte und herausgegebene Taschenbuchreihe Herderbücherei Initiative (1974–1988) diente diesem Ziel. Auf hohem Niveau wurden aktuelle Fragen von verschiedenen Autoren auf dem Hintergrund der konservativen Tradition bearbeitet.

032693_1-234x300.jpgKaltenbrunners Einleitungen wurden dabei lagerübergreifend als scharfsinnig und bedenkenswert gelobt. Die schönen, oft mehrdeutigen Titel der einzelnen Bände prägten sich ein: Die Zukunft der Vergangenheit (1975), Tragik der Abtrünnigen (1980), Unser Epigonen-Schicksal (1980). Bereits der erste Titel Plädoyer für die Vernunft: Signale einer Tendenzwende (1974) wurde als »Tendenzwende« zu einem Schlagwort unter Konservativen und Rechten. Parallel zu den aktuellen Analysen kümmerte sich Kaltenbrunner weiterhin um die Quellen des Konservatismus. Sein dreibändiges Werk Europa. Seine geistigen Quellen in Portraits aus zwei Jahrtausenden (1981–1985) und die Fortsetzung Vom Geist Europas (1987–1992) sind hier zu nennen. Mit dem Begriff Konservatismus war auch Kaltenbrunner nicht glücklich: Mit der Weltbewahrung allein wäre es nicht getan und geborene Konservative gebe es im Zeitalter des Fortschritts nicht mehr. Kaltenbrunner bemühte sich deshalb um eine konservative Theorie. Nach dem 75. Band wurde die Initiative-Reihe eingestellt. Kaltenbrunner beschäftigt sich seither mit Biographien zur Geschichte des frühen Christentums. Seine letzten Veröffentlichungen tragen esoterischen Charakter: Johannes ist sein Name (1993) Dionysius vom Areopag (1996). Kaltenbrunner lebt zurückgezogen im Schwarzwald und publiziert nicht mehr.

mardi, 15 février 2011

Jean Mabire, l'écrivain soldat

Jean Mabire, l'écrivain soldat

Ex: http://lepolemarque.blogspot.com/


Avant l’écrivain militaire à succès, il y eut Jean Mabire le chasseur alpin, le lieutenant de réserve déjà trentenaire rappelé sous les drapeaux pour effectuer sa période dans le djebel algérien. Une arme pas comme les autres, à laquelle Mabire resta fidèle toute sa vie. Rien pourtant ne prédestinait l’écrivain normand à coiffer la célèbre tarte bleu-roi des chasseurs. Son attirance pour les troupes d’élite et autres hommes de guerre (deux titres de revue qu’il dirigea dans les années quatre-vingt) ne s’explique pas non plus sans cette connaissance intime qu’il acquit en Algérie de la guerre et de ceux qui la font. Chacun à sa manière, Philippe Héduy et Dominique Venner ont chanté le caractère initiatique de cette guerre qui refusait de dire son nom. Après deux numéros « Vagabondages » et « Patries charnelles », le Magazine des Amis de Jean Mabire a donc choisi de rendre hommage dans sa dernière livraison à l’écrivain et au soldat.
Le toujours dynamique Bernard Leveaux ouvre la marche avec un retour sur la série de livres que J. Mabire consacra aux unités parachutistes, son autre saga (pas moins de onze volumes) avec l’histoire de la Waffen-SS. Légion Wallonie, Les Panzers de la Garde noire, Mourir à Berlin… Éric Lefèvre, son documentariste, assurément aujourd’hui l’un des meilleurs connaisseurs du sujet en France, revient dans « L’Internationale SS » sur cette partie incontournable de l’œuvre de Mabire, à laquelle on aurait toutefois tort de la résumer. La biographie du maître − son passage au 12e BCA − n’est pas oubliée et l’on comprend, en lisant son article « Chasseur un jour… », pourquoi le capitaine (H) Louis-Christian Gautier dut se faire violence pour ne pas médire des troupes de montagne !
Le dossier est encore complété par la relecture, confiée à votre serviteur, du livre Les Samouraïs (« La plume et le sabre ») et les souvenirs très vivants des années de service en Rhodésie d’Yves Debay, rédacteur en chef de la revue Assaut (le bien titré « Mercenaire ! »).
À chaque parution, une publication qui se bonifie, sur le fond comme sur la forme.

L. Schang

Les Amis de Jean Mabire 15 route de Breuilles 17330 Bernay Saint-Martin (cotisation à partir de 10 euros)
Retrouvez aussi l’AAJM en ligne sur son site : http://amis.mabire.free.fr

lundi, 17 janvier 2011

Bernard Lugan salue Vladimir Volkoff

Bernard Lugan salue

Vladimir Volkoff

vendredi, 31 décembre 2010

Roald Amundsen

Roald Amundsen’s The South Pole: An Account of the Norwegian Antarctic Expedition in the Fram, 1910–1912

Alex KURTAGIC

Ex: http://www.counter-currents.com/

Roald Amundsen
The South Pole: An Account of the Norwegian Antarctic Expedition in the Fram, 1910–1912
London: Hurst & Company, 2001
(First Published in 1912 by John Murray)

Having reviewed Apsley Cherry-Garrard’s account of Robert Falcon Scott’s Terra Nova Expedition, and having over the Yuletide read Scott’s diaries from the latter, I deemed it opportune to read Roald Amundsen’s account of his pioneering journey to the South Pole. After all, Scott and Amundsen reached the Pole within a month of each other, and this is, so to speak, the other side of the story.

If you are not familiar with the history of Antarctic exploration, for this review to make sense you will need to know that in the year 1910 two teams of explorers, one British, lead by Scott, and the other Norwegian, led by Amundsen, set sail to Antarctica, with the aim of being the first to reach the South Pole. Both men were successful, but Amundsen arrived first and he and his team returned to their base, and then home, without incident; while Scott and his men perished on the Ross Ice Shelf during their return journey. Scott’s tent was found eight months later by a rescue party, who discovered Scott’s frozen body and those of two of his party of five, along with their diaries. Scott’s fate turned him into a tragic national hero, and, being a skilled wordsmith, it was his story that was told across the English-speaking world: his diaries underwent numerous editions and re-prints, from popular to lavishly-illustrated, and became mandatory reading for schoolchildren, until eventually his tale was made into a film in 1948, starring John Mills. Amundsen’s story, on the other hand, had a much more limited readership and is, therefore, less well known.

Scott’s and Amundsen’s accounts, however, are equally interesting, albeit for entirely different reasons. While Scott’s possesses romance and pathos, Amundsen’s is engaging on a technical level: here is where you learn how to mount a successful expedition, and get a sense of the Norwegian temperament as well.

The South Pole is a considerable work, spanning 800 pages in the modern reprint edition (the original edition came in two volumes). It begins with Amundsen’s preparations in Norway in 1909 and concludes with Amundsen’s disembarkation at Hobart, Tasmania, in 1912; what lies in between is more or less as detailed a relation of events as Cherry’s own, written ten years later. Amundsen’s tone and style is very different from that of the Englishmen: the 43-year-old Scott was anxious and prone to depression; the 36-year-old Cherry (writing nearly a decade after the events) was more philosophical and psychological; the 39-year-old Amundsen, by contrast, is colder, calmer, relatively detached, and prone to ironic understatement. In some ways, his tone is very similar to mine in Mister, except my diction and syntax are somewhat more baroque.

Amundsen arrived in Antarctica in January 1911, and established his base, Framheim, on the Ross Ice Shelf (then known as “the Barrier”), at the Bay of Whales, 803 miles away from the South Pole and 350 miles to the East of Scott’s base, in Cape Evans, Ross Island. This placed Amundsen’s base 60 miles nearer to the Pole than Scott’s – a considerable distance considering that it was to be covered without the aid of motorized transport.

Amundsen111.jpgThe shore party consisted of 97 dogs and eight humans, all Norwegian: Olav Bjaaland, Helmer Hanssen, Sverre Hassel, Oscar Wisting, Jørgen Stubberud, Hjalmar Johansen, Kristian Prestrud, and Roald Amundsen. Like Scott, they built a hut, but, unlike Scott, when the snow and drift started to cover it, Amundsen’s party allowed it to be buried, and expanded their living quarters by excavating a network caverns in the ice, where they set up their kennel and their workshops. This not only afforded them more space, but also insulated them from the elements.

During the Winter months leading up to the polar journey, Amundsen and his team continuously optimized their equipment, testing it and refining it for the conditions on the ground. Scott’s team were doing exactly the same over at their base, of course, but it seems, from this account, that Amundsen went further, being extra meticulous and paying close attention to every detail. Boots and tents were redesigned; sledges and cases were shaved down to make them lighter; stacking, storage, and lashing techniques were perfected, and so on. In the end, Amundsen ended up with truly excellent equipment and highly efficient arrangements. For example: while Scott’s parties had to pack and unpack their sledges every time they set up camp, Amundsen’s sledges were packed in such a way that everything they needed could be retrieved without unlashing the cases or disassembling the cargo on their sledges. This was a significant advantage in an environment prone to blizzards and where temperatures are often so low that touching metal gives instant frostbite.

Amundsen had spent time observing and learning from the Inuit and possessed a thorough understanding of working with dogs. Scott, on the other hand, although the most experienced Antarctic explorer of the age and indeed a valuable source of information for Amundsen and his men, had become reluctant to use dogs due to their poor performance during the Discovery Expedition he had lead in 1901-1903, during which many of the animals visibly suffered. The problem, however, was not so much dogs in general but the choice of dogs, and Amundsen’s chosen breed of canine was better adapted for Antarctic conditions. So much so, in fact, that Amundsen eventually decided to travel by night, because his dogs preferred the colder temperatures.

The postmortem examination of Scott’s and Amundsen’s expeditions have led experts to conclude that Amundsen’s decision to base his transport on dogs was decisive in the outcome of their respective polar journeys. Scott’s transport configuration, relying on motorized sledges, ponies, dogs, and man-hauling has been described as ‘muddled’. This is certainly the conclusion one draws from reading the accounts of the two expeditions. Amundsen’s dogs afforded him with pulling power that was up to seven times greater than Scott’s. What is more, Amundsen’s men ate the dogs along the way, in the measure that they were no longer needed because of the staged depoting of supplies for the return journey; this provided them with an additional source of fresh meat (the other was seal meat, obtained at the edge of the barrier), which they needed to stave off scurvy. Scott’s party, on the other hand, was blighted by the early failure of the motorized sledges and the poor performance of the ponies. Although he and his men ate the ponies, they relied heavily – and once on the plateau exclusively – on man-hauling. Man-hauling is far more strenuous than skiing, like Amundsen’s men did, and this soon led to a deterioration in Scott’s party’s physical condition.

Amundsen_llega_al_Polo_Sur.jpgThis takes us to the diet. Scott’s understanding of a polar explorer’s nutritional requirements was the best that could be expected from the Edwardian era, so he cannot be blamed for having had inadequate provisions. Indeed, having learned from his failed bid for the Pole in 1902 and from Shackleton’s own failure in 1909 (in both cases the men starved and developed scurvy), Scott paid close attention to nutrition and worked closely with manufacturers to obtain specially-formulated food supplies. Moreover, Scott also had the Winter party (Cherry, Edward Wilson, and Henry Bowers) experiment with proportions during their journey to Cape Crozier to secure Emperor penguin eggs. Yet, the fact remains that, in terms of its energy content, his diet of pemmican, biscuits, chocolate, butter, sugar, and tea fell well short of what was needed. Ranulph Fiennes and Mike Stroud, the first explorers ever to achieve the unsupported (you-carry-everything) crossing of the Antarctic, found their caloric consumption averaging 8,000 calories a day, and sometimes spiking at over 11,500 calories a day. The Scott team’s intake was around 4,000, and the result was, inevitably, starvation, cold, and frostbites. Worse still, lack of vitamin C, the primary cause of scurvy, caused wounds to heal very slowly, a situation that eventually led to the breakdown and death of 37-year-old Petty Officer Edgar Evans in Scott’s South Polar party. Amundsen’s men had an abundant supply of fresh meat, coming from dog and seals, as well as the typically Scandinavian wholegrain bread, whortleberries, and jam, so they were very well supplied of vitamin C. With a lower caloric consumption (typically at 5,000 calories a day), they were very well fed throughout their journey, and Amundsen was able to progressively increase rations well beyond requirements. As a result, Amundsen’s men remained strong, staved off scurvy, and suffered no frostbites.

Scott blamed the failure of his expedition on poor weather and bad luck. Amundsen, who greatly respected Scott, says in the present volume, written before he learnt of Scott’s fate:

I may say that this is the greatest factor — the way in which the expedition is equipped — the way in which every difficulty is foreseen, and precautions taken for meeting or avoiding it. Victory awaits him who has everything in order — luck, people call it. Defeat is certain for him who has neglected to take the necessary precautions in time; this is called bad luck.

It would be too harsh to say this applied to Scott, because Amundsen did, after all, enjoy relatively good weather (he even eventually dispensed with the very warm fur outfits we see in the photographs), whereas unseasonably low temperatures and harsh conditions hit Scott’s party during the return journey across the Ross Ice Shelf. (Remember this is a huge geographical feature: a platform, hundreds of miles long, comprised entirely of iron-hard ice up to half a mile deep, flat (except near land) in every direction as far as the eye can see – it is so large that it has its own weather system.) Similarly, on their approach to the Pole, Scott’s team had found conditions on the plateau, particularly after 87°S, especially severe, with bitter head-on winds, rock-hard sastrugi, and snow frozen into hard, abrasive crystals – this made pulling sledges especially difficult. Imagine pulling 200 lb sledges on sandpaper, day after day, week after week, with 50-70 degrees of frost, eating less than half what you need. It must be remembered, at the same time, that the Antarctic was for most part terra incognita: Scott’s furthest South in the Discovery Expedition was 82°17′S, a latitude located on the Ross Ice Shelf; Shackleton’s 88°23′S, somewhere on the plateau; no one knew what the South Pole looked like or what they would find there, and Scott only had Shackleton’s verbal account of the conditions on the Beardmore Glacier and Antarctic plateau to go by. Today we know that the continent, approximately the size of Europe and once located on the Earth’s equator, is under a sheet of ice several kilometers deep; that the ice covers 98% of its surface; that the plateau, extending a thousand kilometers, is nearly 10,000 feet above sea level; that there are mountain ranges and nunataks in its more Northernly latitudes; and much more. Also today there is an enormous American-run research station on the South Pole, as well as dozens of stations spread across the continent; we have radio and satellite communications, high resolution imaging, mountains of very detailed data; we also have aeroplanes and motor vehicles able to operate in the Antarctic airspace and terrain. None of this existed in 1911. Much of the nutritional, meteorological, and glaciological knowledge we have today was discovered decades later. The early explorers were doing truly pioneering work on a landscape as mysterious and as alien as another planet.

It is interesting to note that both Amundsen and Scott were quite surprised to find themselves descending as they approached the South Pole. Indeed, once past the glaciers that give access to the Antarctic plateau from the Ross Ice Shelf, the Pole is hundreds of feet below the plateau summit on that side of the continent.

Amundsen222.jpgAmundsen’s original ambition had been to conquer the North Pole. For most of his life, he tells us, he had been fascinated by the far North. That he turned South owed to his being beaten to the North Pole by the American explorers Fredrick Cook (in 1908) and Robert Peary (in 1909), who made independent claims. Therefore, upon reaching the South Pole, Amundsen experienced mixed feelings: he says that it did not feel to him like the accomplishment of his life’s ambition. All the same, aware of the controversies surrounding Cook’s and Peary’s polar claims, he determined to make absolutely certain that he had indeed reached the geographical South Pole, and spent several days taking measurements with a variety of instruments within a chosen radius. He named his South Pole station Polheim. There he left a small tent with a letter for Scott to deliver to the King Haakon VII of Norway, as proof and testimony of his accomplishment in the event he failed to return to base safely.

As it happens, subsequent evaluations of the Polar party’s astronomical observations show that Amundsen never stood on the actual geographical Pole. Polheim’s position was determined to be somewhere between 89°57’S and 89°59’S, and probably 89°58’5’’ – no further than six miles and no nearer than one and a half miles from 90°S. However, Bjaaland and Hanssen, during the course of their measurements, walked between 400 and 600 meters away from the Pole, and possibly a few hundred meters or less. Scott, arriving a month later, did not manage to stand on the actual Pole either. This, however, was the best that could be done with the instruments available at the time.

Amundsen’s success resulted not only from his careful planning and good fortune, but also from his having set the single goal of reaching the South Pole. Comparatively little science was done on the field, as a result, although geological samples were brought back, both from Amundsen’s Polar party as well as Kristian Pestrud’s Kind Edward VII Land’s party, and meteorological and oceanographical studies were conducted. Scott’s expedition, by contrast, was primarily a scientific expedition, and was outfitted accordingly. It was certainly not designed for a race. Conquering the Pole was important in as much as the expedition’s success or failure was to be judged by the press and the numerous private sponsors on that basis: a hundred years ago, the whole enterprise of polar exploration was fiercely nationalistic in character, in marked contrast to the internationalist character of Antarctic research since the signing of the Antarctic Treaty of 1959.

Scott found out about Amundsen’s plans while on route to the Antarctic. Needless to say that this caused a great deal of anger, particularly as Amundsen had kept his plans secret until he was well on his way. Scott’s men obviously hoped that Amundsen would be having a rough time on his side of the barrier (indeed, he experienced lower temperatures, but, on the other hand, he enjoyed fewer blizzards). Yet, when the Englishmen aboard the Terra Nova paid a visit to the Norwegians at Framheim, they quite naturally had a number of questions but were otherwise cordial. They all took it like the soldiers a number of them were.

It is inspiring to read the accounts from the heroic era of Antarctic exploration. They highlight the most admirable qualities of European man, and serve as an example to modern generations in times when men of the caliber we encounter in these tales have (apparently) become rare. Enthusiasts have noted the marked difference in tone between the books written by explorers Fiennes and Stroud in the early 1990s, and the books and diaries written by Scott, Amundsen, and Douglas Mawson a hundred years ago: the latter, they say, come across as far more stoic, far harder, and able to write poetically about the hostile Antarctic environment even in the most adverse of situations. This perhaps not surprising when one considers that European civilization was at its zenith in terms of power and confidence in the years immediately preceding the Great War. I think truly hard men still exist, but sensibilities have obviously changed, perhaps because of the outcome of two great European civil wars, perhaps because the equality-obsessed modern culture encourages men to adopt feminine qualities in the same measure that it encourages women to adopt masculine ones. Whatever the reasons, this type of literature is most edifying and a healthy antidote to all the whining, fretting, and apologizing – not to mention in-your-face fruitiness from certain quarters – that has become so prevalent in recent decades.

The South Pole is not as intimidating as it might at first appear: there are numerous photographs and the print is quite large, so a fast reader can whiz through this tome at the speed of light, if he or she so wishes. In addition, it is not all Amundsen’s narrative: the last 300 pages consist of Kristian Pestrud’s account of his journey to King Edward VII’s land; first lieutenant Thorvald Nilsen’s account of the voyage of the Fram; and scientific summaries dealing with the geology, oceanography, meteorology, and the astronomical observations at the Pole. Pestrud’s and Nilsen’s contributions are also written in a tone of ironic detachment, blending formality with humor, which suggests to me, having met and dealt with Norwegians over the years, that this might be characteristic of the Norwegian temperament.

There is certainly more to Antarctic literature than conspiracy theories about Zeta Reticulans and Nazi UFOs.

TOQ Online, March 3, 2010

jeudi, 30 décembre 2010

Arno Breker & the Pursuit of Perfection

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Zeus Hangs Hera at the World’s Edge:
Arno Breker & the Pursuit of Perfection

Jonathan BOWDEN

Ex: http://www.counter-currents.com/

Arno Breker (1900–1991) was the leading proponent of the neo-classical school in the twentieth century, but he was not alone by any stretch of the imagination. If we gaze upon a great retinue of his figurines, which can be seen assembled in the Studio at Jackesbruch (1941), then we can observe images such as Torso with Raised Arms (1929), the Judgment of Paris, St. Mathew (1927), and La Force (1939). All of these are taken from the on-line museum and linkage which is available at:

http://ilovefiguresculpture.com/masters/german/breker/bre...

The real point to make is that these are dynamic pieces which accord with over three thousand years of Western effort. They are not old-fashioned, Reactionary, bombastic, “facsimiles of previous glories,” mere copies or the pseudo-classicism of authoritarian governments in the twentieth century (as is usually declared to be the case). Joseph Stalin approached Breker after the Second European Civil War (1939–1945) in order to explore the possibility for commissions, but insisted that they involved castings which were fully clothed. At first sight, this was an odd piece of Soviet prudery — but, in fact, politicians as diverse as John Ashcroft (Bush’s top legal officer) and Tony Blair refused to be photographed anywhere near classical statuary for fear that any proximity to nudity (without Naturism) might lead to their tabloid down-fall.

breker2.jpgAll of Breker’s pieces have precedents in the ancient world, but this has to be understood in an active rather than a passive or re-directed way. If we think of the Hellenism which Alexander’s all-conquering armies inspired deep into Asia Minor (and beyond), then pieces like the Laocoön at the Vatican or the full-nude portrait of Demetrius the First of Syria, whose modelling recalls Lysippus’ handling, are definite precursors. (This latter piece is in the National Museum in Rome.) Yet Breker’s work is quite varied, in that it contains archaic, semi-brutalist, unshorn, martial relief and post-Cycladic material. There is also the resolution of an inner tension leading to a Stoic calm, or a heroic and semi-religious rest, that recalls the Mannerist art of the sixteenth century. Certain commentators, desperate for some sort of affiliation to modernism in order to “save” Breker, speak loosely of Expressionist sub-plots. This is quite clearly going too far — but it does draw attention to one thing . . . namely, that many of these sculptures indicate an achievement of power, a rest or beatitude after turmoil. They are indicative of Hemingway’s definition of athletic beauty — that is to say, grace under pressure or a form of same.

This is quite clearly missed by the well-known interview between Breker and Andre Muller in 1979 in which a Rottweiler of the German press (of his era) attempts to spear Breker with post-war guilt. Indeed, at one dramatic moment in the dialogue between them, Muller almost breaks down and accuses Breker of producing necrophile masterpieces or anti-art (sic). What he means by this is that Breker is artistically glorifying in war, slaughter, and death. As a Roman Catholic teacher of acting once remarked to me, concerning the poetry of Gottfried Benn, it begins with poetry and ends in slaughter. Yet the answer to this ethical ‘plaint is that it was ever so. Artistic works have always celebrated the soldierly virtues, the martial side of the state and its prowess, and all of the triumphalist sculpture on the Allied side (American, Soviet, Resistance-oriented in France, etc. . . .) does just that. As Wyndham Lewis once remarked in The Art of Being Ruled, the price of civility in a cultivated dictatorship (he was thinking of Mussolini’s Italy) might well be the provision of an occasional Gladiator in pastel . . . so that one could be free from communist turmoil, on the one hand, and able to continue one’s work in serenity, on the other. Doesn’t Hermann Broch’s great post-modern work, The Death of Virgil, which dips in and out of Virgil’s consciousness as he dies, rather like music, not speculate on his subservience to the Caesars and his pained confusion about whether the Aeneid should be destroyed? It survived intact.

Nonetheless, the interview provides a fascinating crucible for the clash of twentieth century ideas in more ways than one. At one point Muller’s diction resembles a piece of dialogue from a play by Samuel Beckett (say End-Game or Fin de Partie); maybe the stream-of-consciousness of the two tramps in Waiting for Godot. For, whether it’s Vladimir or Estragon, they might well sound like Muller in this following exchange. Muller indicates that his view of Man is broken, crepuscular, defeated, incomplete and misapplied — he congenitally distrusts all idealism, in other words. Mankind is dung — according to Muller — and coprophagy the only viable option. Breker, however, is of a fundamentally optimistic bent. He avers that the future is still before us, his Idealism in relation to Man remains unbroken and that a stratospheric take-off into the future remains a possibility (albeit a distant one at the present juncture).

brekerhumilite.jpgAnother interesting exchange between Muller and Breker in this interview concerns the Shoah. (It is important to realise that this highly-charged chat is not an exercise in reminiscence. It concerns the morality of revolutionary events in Europe and their aftermath.) By any stretch, Breker declares himself to be a believer and that the criminal death through a priori malice of anyone, particularly due to their ethnicity, is wrong. At first sight this appears to be an unremarkable statement. A bland summation would infer that the neo-classicist was a believer in Christian ethics, et cetera. . . . Yet, viewed again through a different premise, something much more revolutionary emerges. Breker declares himself to be a “believer” (that is to say, an “exterminationist” to use the vocabulary of Alexander Baron); yet even to affirm this is to admit the possibility of negation or revision (itself a criminal offense in the new Germany). For the most part contemporary opinion mongers don’t declare that they believe in Global warming, the moon shot, or the link between HIV and AIDS — they merely affirm that no “sane” person doubts it.

Similarly, even Muller raises the differentiation in Breker’s work over time. This is particularly so after the twin crises of 1945 and 1918 and the fact that these were the twin Golgothas in the European sensibility — both of them taking place, almost as threnodies, after the end of European Civil Wars. Germany and its allies taking the role of the Confederacy on both occasions, as it were. Immediately after the War — and amid the kaos of defeat and “Peace” — Breker produced St. Sebastien in 1948, St. George (as a partial relief) in 1952, and the more reconstituted St. Christopher in 1957. (One takes on board — for all sculptors — the fact that the Church is a valuable source of commissions in stone during troubled times.) All of this led to a celebration of re-birth and the German economic miracle of recovery in his unrealized Resurrection (1969) which was a sketch or maquette to the post-war Chancellor Adenauer. Saint Sebastien is interesting in its semi-relief quality which is the nearest that Breker ever comes to a defeated hero or — quite possibly — the mortality which lurks in victory’s strife. Interestingly enough, a large number of aesthetic crucifixions were produced around the middle of the twentieth century. One thinks (in particular) of Buffet’s post-Christian and existential Pieta, Minton’s painting in the ‘fifties about the Roman soldiery, post-Golgotha, playing dice for Christ’s robes, or Bacon’s screaming triptych in 1947; never mind Graham Sutherland’s reconstitution of Coventry Cathedral (completely gutted by German bombing); and an interesting example of an East German crucifixion.

This is a fascinating addendum to Breker’s career — the continuation of neo-classicism, albeit filtered through socialist realism, in East Germany from 1946–1987. An interesting range of statuary was produced in a lower key — a significant amount of it not just keyed to Party or bureaucratic purposes. In the main, it strikes one as a slightly crabbed, cramped, more restricted, mildly cruder and more “proletarianized” version of Breker and Kolbe. But some decisive and significant work (completely devalued by contemporary critics) was done by Gustav Seitz, Walter Arnold, Heinrich Apel, Bernd Gobel, Werner Stotzer, Siegfried Schreiber, and Fritz Cremer. His crucifixion in the late ‘forties has a kinship (to my mind) with some of Elisabeth Frink’s pieces — it remains a neo-classic form whilst edging close to elements of modernist sculpture in its chthonian power and deliberate primitivism. A part of the post-maquette or stages of building up the Form remains in the final physiology, just like Frink’s Christian Martyrs for public display. Perhaps this was the nearest a three-dimensional artist could get to the realization of religious sacrifice (tragedy) in a communist state.

Anyway, and to bring this essay to a close, one of the greatest mistakes made today is the belief that the Modern and the Classic are counterposed, alienated from one another, counter-propositional and antagonistic. The Art of the last century and a half is an enormous subject (it’s true) yet Arno Breker is one of the great Modern artists. One can — as the anti-humanist art collector Bill Hopkins once remarked — be steeped both in the Classic and the Modern. Living neo-classicism is a genuine contemporary tradition (post Malliol and Rodin) because photography can never replace three-dimensionality in form or focus. Above all, perhaps it’s important to make clear that Breker’s work represents extreme heroic Idealism . . . it is the fantastication of Man as he begins to transcend the Human state. In some respects, his work is a way-station towards the Superman or Ultra-humanite. This remains one of the many reasons why it sticks in the gullet of so many liberal critics!

One will not necessarily reassure them by stating that Breker’s monumental sculptures during his phase of Nazi Art were modeled (amongst other things) on the Athena Parthenos. The original was over forty feet high, came constructed in ivory and gold, and was made during the years 447–439 approximately. (The years relate to Before the Common Era, of course.) The Goddess is fully armoured — having been born whole as a warrior-woman from Zeus’ head. There may be Justice but no pity. A winged figure of Victory alights on her right-hand; while the left grasps a shield around which a serpent (knowledge) writhes aplenty. A re-working can be seen in John Barron’s Greek Sculpture (1965), but perhaps the best thing to say is that the heroic sculptor of Man’s form, Steven Mallory, in Ayn Rand’s Romance The Fountainhead is clearly based on Thorak: Breker’s great rival. Yet the “gold in the furnace” producer of a Young Woman with Cloth (1977) remains to be discovered by those tens of thousands of Western art students who have never heard of him . . . or are discouraged from finding out.

lundi, 27 décembre 2010

In Memoriam - Dernière vision de Jean Parvulesco

In Memoriam
Dernière vision de Jean Parvulesco
 
par Nicolas Bonnal
 

J’ai pu le revoir peu avant sa disparition, avec ma femme Tatiana, que je voulais lui présenter. Je joins ici nos photos communes, les seules que nous n’ayons jamais faites ensemble d’ailleurs. Il nous a reçu dans son légendaire, bel et discret appartement du boulevard Suchet, situé au bout du monde parisien, tout près de cet énigmatique Ranelagh dont il parlait si bien. D’habitude je l’écoutais conspirer planétairement à la Rotonde, tout près de cette Muette où jadis chassaient nos rois. Il nous a offert une tarte aux figues, fruit symbolique s’il en fût, une bonne bouteille de vin blanc qui siège en bonne place dans nos mémoires maintenant. Nous avons aussi absorbé quelques citrons et même une bonne eau minérale gazeuse. Il faisait beau dans ce bout du monde parisien, et nous avons eu bien du mal à le quitter.

Il s’est montré très affable, sensible, amical, évoquant un ou deux amis évanouis, l’orthodoxie, l’avenir de l’Europe, qui dépend tellement de Poutine. Il m’a épargné tous les messages gnostiques et géopolitiques qui l’ont rendu célèbre dans le monde entier auprès d’une clique d’initiés nippons, chiliens ou italiens, et nous sommes restés assez silencieux. Je lui ai confirmé que dans la biographie remarquable d’Antoine de Baecque consacrée à Godard, il figure en bonne place, comme cinéphile roumain décalé et inspirateur du grand passage de Melville. Jean Parvulesco, prophète du nihilisme contemporain et de la fin de la guerre des sexes, remportée par les femmes, celles des Vuitton, du portable et des pensions élémentaires.

***

Malade depuis des années, avec une maladie qui frappe au choix les yeux ou les jambes - lui aura souffert des jambes comme le roi pêcheur dont il est comme l’émanation -, Jean Parvulesco garde son aura de chercheur et d’écrivain des énigmes. Jusqu’au bout il reste ce personnage de fiction génialement mis en scène par Godard, un homme à facettes et à placards secrets. Un homme de l’être, au sens heideggérien, un personnage de roman qui joue le rôle d’un écrivain métaphysicien et comploteur devant les ténèbres béantes du parisianisme agonisant. Ses derniers livres sont d’ailleurs remarquablement denses et bien écrits, et enfin convenablement présentés et corrigés par son éditeur, le montrent plus sensible que jamais à la conspiration des paysages notamment parisiens, à la psychogéographie initiatique parisienne.

Il a toujours espéré. Quelque chose. Mais après moi, il a compris qu’il n’y a pas de retour, que les ténèbres, les qlipoths ou écorces mortes de la kabbale - les enveloppes, les pods de la science-fiction cauchemardesques ou de la technologie de la communication - sont passées. Nous traversons le désert de la post-apocalypse, cela va prendre encore du temps, et bouffer notre espace. Paris désert gagné par la conspiration des atroces maîtres carrés ? Du reste son épouse devra quitter l’appartement qu’il devait à Eric Rohmer, son ami de toujours décédé peu avant. Il nous faudra veiller sur elle. Paris nié par ses prix, effacé par nos maîtres, privé de pauvres, privé d’artistes, privé de présences réelles. Et soumis cette fois à la domination sans partage du Capital et de son enfant le néant.

***

J’ai fini par l’aimer comme un très bon ami ou comme mon oncle chartreux, un peu aussi à la manière de Serge de Beketch. Au-delà des conspirations des noces polaires, des noces rouges, des états galactiques et de l’Ecosse subversive, il y a un être humain, un confident, un presque père. C’est comme cela aussi que l’on devient chrétien, n’est-ce pas ?

***

Nous avons descendu le splendide escalier de son immeuble art-déco, qui évoque notre dernière grande époque, ce premier tiers du vingtième siècle oublié maintenant. Nous sommes repartis dans la nuit d’octobre, avons mis un temps infini à quitter son quartier, ce seizième du bout du monde, si proche d’ailleurs de Radio Courtoisie, pays où l’on n’arrive jamais, d’où l’on ne repart pas plus. Peu de temps après j’ai commencé mon roman comique et ésotérique, le premier en dix ans, intitulé les Maîtres carrés, que l’on pourra lire en ligne sur le site de Serge de Beketch, la France-courtoise.info. Il y tient le rôle héroïque et décalé de l’initiateur et du conspirateur qu’il est resté depuis qu’il est trépassé, au sens littéral et donc initiatique du terme. Jean, nous pensons, donc nous vous suivons.

samedi, 25 décembre 2010

Hommage à Saint-Loup

Hommage à Saint-Loup

Pierre VIAL

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Il y a vingt ans aujourd’hui disparaissait Saint-Loup. En la mémoire de ce héros, nous publions un texte de Pierre Vial, L’Homme du Grand Midi, paru dans Rencontres avec Saint-Loup, publié par l’association des Amis de Saint-Loup. C’est du même ouvrage que sont extraits les illustrations de Marienne.

L’Homme du Grand Midi

europe-saint-loup.jpgJ’ai découvert Saint-Loup en décembre 1961. J’avais dix-huit ans et me trouvais en résidence non souhaitée, aux frais de la Ve République, pour incompatibilité d’humeur avec la politique qui était alors menée dans une Algérie qui n’avait plus que quelques mois à être française. On était à quelques jours du solstice d’hiver – mais je ne savais pas encore, à l’époque, ce qu’était un solstice d’hiver, et ce que cela pouvait signifier. Depuis j’ai appris à lire certains signes.

Lorsqu’on se retrouve en prison, pour avoir servi une cause déjà presque perdue, le désespoir guette. Saint-Loup m’en a préservé, en me faisant découvrir une autre dimension, proprement cosmique, à l’aventure dans laquelle je m’étais lancé. à corps et à cœur perdus, avec mes camarades du mouvement Jeune Nation. Brave petit militant nationaliste, croisé de la croix celtique, j’ai découvert avec Saint-Loup, et grâce à lui, que le combat, le vrai et éternel combat avait d’autres enjeux, et une toute autre ampleur, que l’avenir de quelques malheureux départements français au sud de la Méditerranée. En poète – car il était d’abord et avant tout un poète, c’est-à-dire un éveilleur – Saint-­Loup m’a entraîné sur la longue route qui mène au Grand Midi de Zarathoustra. Bref, il a fait de moi un païen, c’est-à-dire quelqu’un qui sait que le seul véritable enjeu, depuis deux mille ans, est de savoir si l’on appartient, mentalement, aux peuples de la forêt ou à cette tribu de gardiens de chèvres qui, dans son désert, s’est autoproclamée élue d’un dieu bizarre – « un méchant dieu », comme disait 1’’ami Gripari.

J’ai donc à l’égard de Saint-Loup la plus belle et la plus lourde des dettes – celle que l’on doit à qui nous a amené à dépouiller le vieil homme, à bénéficier de cette seconde naissance qu’est toute authentique initiation, au vrai et profond sens du terme. Oui, je fais partie de ceux qui ont découvert le signe éternel de toute vie, la roue, toujours tournante, du Soleil Invaincu.

Chaque livre de Saint-Loup est, à sa façon. un guide spirituel. Mais certains de ses ouvrages ont éveillé en moi un écho particulier. Je voudrais en évoquer plus particulièrement deux – sachant que bien d’autres seront célébrés par mes camarades.

Au temps où il s’appelait Marc Augier, Saint-Loup publia un petit livre, aujourd’hui très recherché, Les Skieurs de la Nuit. Le sous-titre précisait : Un raid de ski-camping en Laponie finlandaise. C’est le récit d’une aventure, vécue au solstice d’hiver 1938, qui entraîna deux Français au-delà du Cercle polaire. Le but ? « Il fallait,se souvient Marc Augier, dégager le sens de l’amour que je dois porter à telle ou telle conception de vie, déterminer le lieu où se situent les véritables richesses. »

Le titre du premier chapitre est, en soi, un manifeste : « Conseil aux campeurs pour la conquête du Graal. » Tout Saint-Loup est déjà là. En fondant en 1935, avec ses amis de la SFIO et du Syndicat national des instituteurs, les Auberges laïques de la Jeunesse, il avait en effet en tête bien autre chose que ce que nous appelons aujourd’hui « les loisirs » – terme dérisoire et même nauséabond, depuis qu’il a été pollué par Trigano.

Marc Augier s’en explique, en interpellant la bêtise bourgeoise : « Vous qui avez souri, souvent avec bienveillance, au spectacle de ces jeunes cohortes s’éloignant de la ville, sac au dos, solidement chaussées, sommairement vêtues et qui donnaient à partir de 1930 un visage absolument inédit aux routes françaises, pensiez-vous que ce spectacle était non pas le produit d’une fantaisie passagère, mais bel et bien un de ces faits en apparence tout à fait secondaires qui vont modifier toute une civilisation ? La chose est vraiment indiscutable. Ce départ spontané vers les grands espaces, plaines, mers, montagnes, ce recours au moyen de transport élémentaire comme la marche à pied, cet exode de la cité, c’est la grande réaction du XXe siècle contre les formes d’habitat et de vie perfectionnées devenues à la longue intolérables parce que privées de joies, d’émotions, de richesses naturelles. J’en puise la certitude en moi-même. À la veille de la guerre, dans les rues de New York ou de Paris, il m’arrivait soudain d’étouffer, d’avoir en l’espace d’une seconde la conscience aiguë de ma pauvreté sensorielle entre ces murs uniformément laids de la construction moderne, et particulièrement lorsqu’au volant de ma voiture j’étais prisonnier, immobilisé pendant de longues minutes, enserré par d’autres machines inhumaines qui distillaient dans l’air leurs poisons silencieux. Il m’arrivait de penser et de dire tout haut : « Il faut que ça change… cette vie ne peut pas durer » ».

Conquérir le Graal, donc. En partant à ski, sac au dos, pour mettre ses pas dans des traces millénaires. Car, rappelle Marc Augier, « au cours des migrations des peuples indo-européens vers les terres arctiques, le ski fut avant tout un instrument de voyage ». Et il ajoute : « En chaussant les skis de fond au nom d’un idéal nettement réactionnaire, j’ai cherché à laisser derrière moi, dans la neige, des traces nettes menant vers les hauts lieux où toute joie est solidement gagnée par ceux qui s’y aventurent ». En choisissant de monter, loin, vers le Nord, au temps béni du solstice d’hiver, Marc Augier fait un choix initiatique.

« L’homme retrouve à ces latitudes, à cette époque de l’année, des conditions de vie aussi voisines que possible des époques primitives. Comme nous sommes quelques-uns à savoir que l’homme occidental a tout perdu en se mettant de plus en plus à l’abri du combat élémentaire, seule garantie certaine pour la survivance de l’espèce, nous avons retiré une joie profonde de cette confrontation [...]. Les inspirés ont raison. La lumière vient du Nord… [...] Quand je me tourne vers le Nord, je sens, comme l’aiguille aimantée qui se fixe sur tel point et non tel autre point de l’espace, se rassembler les meilleures et les plus nobles forces qui sont en moi ».

Dans le grand Nord, Marc Augier rencontre des hommes qui n’ont pas encore été pollués par la civilisation des marchands, des banquiers et des professeurs de morale.

Les Lapons nomades baignent dans le chant du monde, vivent sans état d’âme un panthéisme tranquille, car ils sont : « en contact étroit avec tout un complexe de forces naturelles qui nous échappent complètement, soit que nos sens aient perdu leur acuité soit que notre esprit se soit engagé dans le domaine des valeurs fallacieuses. Toute la gamme des croyances lapones (nous disons aujourd’hui « superstitions » avec un orgueil que le spectacle de notre propre civilisation ne paraît pas justifier) révèle une richesse de sentiments, une sûreté dans le choix des valeurs du bien et du mal et, en définitive, une connaissance de Dieu et de l’homme qui me paraissent admirables. Ces valeurs religieuses sont infiniment plus vivantes et, partant, plus efficaces que les nôtres, parce qu’incluses dans la nature, tout à fait à portée des sens, s’exprimant au moyen d’un jeu de dangers, de châtiments et de récompenses fort précis, et riches de tout ce paganisme poétique et populaire auquel le christianisme n’a que trop faiblement emprunté, avant de se réfugier dans les pures abstractions de l’âme ».

Le Lapon manifeste une attitude respectueuse à l’égard des génies bienfaisants, les Uldra, qui vivent sous terre, et des génies malfaisants, les Stalo, qui vivent au fond des lacs. Il s’agit d’être en accord avec l’harmonie du monde :

« passant du monde invisible à l’univers matériel, le Lapon porte un respect et un amour tout particuliers aux bêtes. Il sait parfaitement qu’autrefois toutes les bêtes étaient douées de la parole et aussi les fleurs, les arbres de la taïga et les blocs erratiques… C’est pourquoi l’homme doit être bon pour les animaux, soigneux pour les arbres, respectueux des pierres sur lesquelles il pose le pied. »

C’est par les longues marches et les nuits sous la tente, le contact avec l’air, l’eau, la terre, le feu que Marc Augier a découvert cette grande santé qui a pour nom paganisme. On comprend quelle cohérence a marqué sa trajectoire, des Auberges de Jeunesse à l’armée européenne levée, au nom de Sparte, contre les apôtres du cosmopolitisme.

Après avoir traversé, en 1945,  le crépuscule des dieux. Marc Augier a choisi de vivre pour témoigner. Ainsi est né Saint-Loup, auteur prolifique, dont les livres ont joué, pour la génération à laquelle j’appartiens, un rôle décisif. Car en lisant Saint-Loup, bien des jeunes, dans les années 60, ont entendu un appel. Appel des cimes. Appel des sentiers sinuant au cœur des forêts. Appel des sources. Appel de ce Soleil Invaincu qui, malgré tous les inquisiteurs, a été, est et sera le signe de ralliement des garçons et des filles de notre peuple en lutte pour le seul droit qu’ils reconnaissent – celui du sol et du sang.

Cet enseignement, infiniment plus précieux, plus enrichissant, plus tonique que tous ceux dispensés dans les tristes et grises universités, Saint-Loup l’a placé au cœur de la plupart de ses livres. Mais avec une force toute particulière dans La Peau de l’Aurochs.

Ce livre est un roman initiatique, dans la grande tradition arthurienne : Saint-Loup est membre de ce compagnonnage qui, depuis des siècles, veille sur le Graal. Il conte l’histoire d’une communauté montagnarde, enracinée au pays d’Aoste, qui entre en résistance lorsque les prétoriens de César – un César dont les armées sont mécanisées – veulent lui imposer leur loi, la Loi unique dont rêvent tous les totalitarismes, de Moïse à George Bush. Les Valdotains, murés dans leur réduit montagnard, sont contraints, pour survivre, de retrouver les vieux principes élémentaires : se battre, se procurer de la nourriture, procréer. Face au froid, à la faim, à la nuit, à la solitude, réfugiés dans une grotte, protégés par le feu qu’il ne faut jamais laisser mourir, revenus à l’âge de pierre, ils retrouvent la grande santé : leur curé fait faire à sa religion le chemin inverse de celui qu’elle a effectué en deux millénaires et, revenant aux sources païennes, il redécouvre, du coup, les secrets de l’harmonie entre l’homme et la terre, entre le sang et le sol. En célébrant, sur un dolmen, le sacrifice rituel du bouquetin – animal sacré car sa chair a permis la survie de la communauté, il est symbole des forces de la terre maternelle et du ciel père, unis par et dans la montagne –, le curé retrouve spontanément les gestes et les mots qui calment le cœur des hommes, en paix avec eux-mêmes car unis au cosmos, intégrés – réintégrés – dans la grande roue de l’Éternel Retour.

De son côté, l’instituteur apprend aux enfants de nouvelles et drues générations qui ils sont, car la conscience de son identité est le plus précieux des biens : « Nos ancêtres les Salasses qui étaient de race celtique habitaient déjà les vallées du pays d’Aoste. » et le médecin retrouve la vertu des simples, les vieux secrets des femmes sages, des sourcières : la tisane des violettes contre les refroidissements, la graisse de marmotte fondue contre la pneumonie, la graisse de vipère pour faciliter la délivrance des femmes… Quant au paysan, il va s’agenouiller chaque soir sur ses terres ensemencées, aux approches du solstice d’hiver, et prie pour le retour de la la lumière.

Ainsi, fidèle à ses racines, la communauté montagnarde survit dans un isolement total, pendant plusieurs générations, en ne comptant que sur ses propres forces – et sur l’aide des anciens dieux. Jusqu’au jour où, César vaincu, la société marchande impose partout son « nouvel ordre mondial ». Et détruit, au nom de la morale et des Droits de l’homme, l’identité, maintenue jusqu’alors à grands périls, du Pays d’Aoste. Seul, un groupe de montagnards, fidèle à sa terre, choisit de gagner les hautes altitudes, pour retrouver le droit de vivre debout, dans un dépouillement spartiate, loin d’une « civilisation » frelatée qui pourrit tout ce qu’elle touche car y règne la loi du fric.

Avec La Peau de l’Aurochs, qui annonce son cycle romanesque des patries charnelles, Saint-Loup a fait œuvre de grand inspiré. Aux garçons et filles qui, fascinés par l’appel du paganisme, s’interrogent sur le meilleur guide pour découvrir l’éternelle âme païenne, il faut remettre comme un viatique, ce testament spirituel.

Aujourd’hui, Saint-Loup est parti vers le soleil.

Au revoir camarade. Du paradis des guerriers, où tu festoies aux côtés des porteurs d’épée de nos combats millénaires, adresse-nous, de tes bras dressés vers l’astre de vie, un fraternel salut. Nous en avons besoin pour continuer encore un peu la route. Avant de te rejoindre. Quand les dieux voudront.

Pierre Vial

Source : Club Acacias.

samedi, 18 décembre 2010

Actualidad de Werner Sombart

Archives- 1968

Actualidad de Werner Sombart

 

AEI/ Un gran financiero norteamerica­na, batió su propio “record” conclu­yendo en cinco minutos, por teléfo­no, cinco grandes contratos que le proporcionaron una ganancia supe­rior al millón de dolores.

(De los periódicos) 

Werner_Sombart_vor_1930.jpgLa noticia del apresurado y dichoso financiero yanqui, nos trae al re­cuerdo la figura del gran economis­ta alemán profesor Werner Sombart, que ejerció docencia, justamente sonada, como profesor de Economía Política, en la Uni­versidad de Berlín, y cuya obra es una ver­dadera pena que aun no haya sido tra­ducida —que sepamos— al castellano.

Para Werner Sombart, el alma del bur­gués capitalista moderno recuerda el alma del niño a través de un singularísimo pa­recido. El niño, dice, posee cuatro valores fundamentales, que inspiran y dominan su vida toda. 

a) El tamaño, que se manifiesta en su admiración hacia el hombre adulto y más aun hacia el gigante. El burgués moderno —nos referimos siempre a la gran burgue­sía capitalista, especie tal vez a extinguir en este mundo supersónico que ha heredado la tragedia de la economía liberal— estima asimismo el tamaño en cifras o en es­fuerzo. Tener “éxito” en su lenguaje sig­nifica sobrepasar siempre a los demás, aunque en su vida interior, si es que la tiene, no se diferencia en nada de ellos. ¿Ha visto usted en casa de mister X, el Rembrandt que vale 200.000 dólares? ¿Ha contemplado el yate del presidente, que se encuentra desde esta mañana en el puerto, y cuyo valor sobrepasa el millón?…

b) La rapidez de movimientos, tradu­cida en el niño en el juego, en el carrusel, en no saber estarse quieto. Rodar a 120 por hora, tomar el avión más rápido, con­cluir un negocio por teléfono, no reposar, batir “records” financieros de ganancia constituye para el burgués moderno ilu­sión idéntica.

c) La novedad. El niño deja un juguete por otro, comienza un trabajo y lo aban­dona también, por otro, a su vez aban­donado. El hombre de empresa moderno hace lo mismo llamando a esto “sensa­ción”. Si los bailes, en los negocios, en la moda, en los inventos, lo que hoy es “sensacional” mañana se transforma en antigualla, como sucede con los modelos de los coches. Se vive angustiosamente al día, hasta que el corazón falle…

d) El sentimiento de “su poderío”. El niño arranca las patas a las moscas, des­troza nidos, destruye todos sus juguetes… El empresario que “manda” sobre 10.000 trabajadores se encuentra orgulloso de su poder, como el niño que ve a su perro obedecerle a una señal. El especulador afortunado en bolsa o enriquecido por el estraperlo se siente orgulloso de su safio poderío mirando por encima del hombro al prójimo. No existe en él caridad, como generalmente no existe caridad en el niño. Si analizamos este sentimiento veremos que en el fondo es una confesión invo­luntaria e inconsciente de debilidad: “Om­ina crudelitas ex infrimitate”, supo decir nuestro Séneca. 

EL CAPITALISMO MODERNO

Para el genial autor de “El capitalismo moderno”, un hombre grande, natural e interiormente, no concedería nunca un particular valor al poderío externo. El poder no presenta ningún atractivo sin­gular para Sigfrido, pero resulta irresisti­ble para Mimo. Una generación verdade­ramente grande, a la que preocupan los problemas fundamentales del alma huma­na, no se sentirá “engrandecida” ante unos inventos técnicos y no les concederá más que una relativa importancia, la impor­tancia que merecen como elementos del poder externo. En nuestra época resulta tristemente sintomático el que algunos po­líticos, que sólo han sabido sumir al mun­do en el estupor y en la sangre, se deno­minen asimismo como “grandes”.

Para Sombart, el capitalismo burgués que tiene como objetivo la acumulación indefinida e ilimitada de la ganancia, se ha visto hasta nuestros días, pues hoy el concepto se halla en plena crisis aunque su derrumbamiento no sea tal vez inmediato, favorecido por las circunstancias siguien­tes:

1) Por el desenvolvimiento de la téc­nica.

2) Por la bolsa moderna, creación del espíritu sionista, por medio de la cual se rea­bra a través de sus formas exteriores la tendencia hacia el infinito, que caracteriza al capitalismo burgués en su incesante ca­rrera tras el beneficio. 

Estos procesos encuentran apoyo en los siguientes aspectos: 

a) La influencia que los sionistas comen­zaron a ejercer sobre la vida económica europea, con su tendencia hacia la ganan­cia ilimitada, animados por el resentimien­to que, como sabemos, juega tan gran pa­pel en la vida moderna, según Max Scheler nos ha magníficamente demostrado, y por las enseñanzas de su propia religión, que los hace actuar en el capitalismo mo­derno como catalizadores.

b) En el relajamiento de las restric­ciones que la moral y las costumbres im­ponían en sus comienzos al espíritu capi­talista de indudable tinte puritano en la aguda y profunda tesis de Weber. Relaja­miento consecutivo a la debilitación de los principios religiosos y a las normas de ho­nor entre tos pueblos cristianos.

c) La inmigración o expatriamiento de sujetos económicos activos y bien dotados, que en el suelo extraño no se consideran ya ligados con ninguna obligación y es­crúpulo. Nos hallamos así, de nuevo ante el interrogante que se plantea el maestro.

¿Qué nos reserva el porvenir? Los que ven que el gigante desencadenado que lla­mamos capitalismo es un destructor de la naturaleza de los hombres, esperan que llegará un día en que pueda ser de nuevo encadenado, rechazándole hasta los lími­tes franqueados. Para obtener este resul­tado se ha creído encontrar un medio en la persuasión moral. Para Sombart, las tendencias de este género se encuentran aproadas hacia un lamentable fracaso. Para el autor de “El burgués”, el capita­lismo que ha roto las cadenas de hierro de las más antiguas religiones hará saltar en un instante los hilos que le tiendan es­tos optimistas. Todo lo que se pueda hacer en tanto que las fuerzas del gigante que­den intactas, consiste en tomar medidas susceptibles de proteger a los hombres, a su vida y a sus bienes, a fin de extinguir como en un servicio de incendios las brasas que caigan sobre las chozas de nuestra civili­zación. El mismo Sombart señala como sintomático el declive del espíritu capita­lista en uno de sus feudos más intocables: Inglaterra, y esto lo decía en 1924…

El saber lo que sucederá el día en que el espíritu capitalista pierda la fuerza que todavía presenta no interesa particular­mente a Sombart. El gigante, transforma­do en ciego, será quizá condenado, y cual nuevo Sisifó arrastra el carro de la civi­lización democrática. Quizá, escribe, asis­tamos nosotros al crepúsculo de los dio­ses, y el oro sea arrojado a las aguas del Rhin, erigiéndose en trueque valores más altos.

¿Quién podrá decirlo? El mañana, esa cosa que llamamos Historia, quizá. Por ello, más que Juicios, “a priori”, preferimos aquí dar testimonios. Lo que pasa, y lo que pue­da pasar en la ex dulce Francia, funda­mentalmente burguesa y con sentido de la proporción hasta ahora, podrá ser un gran indicio histórico. 

José Mª. CASTROVIEJO

ABC, 19 de junio de 1968.

vendredi, 03 décembre 2010

Seppuku vor 40 Jahre: Yukio Mishima

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Seppuku vor 40 Jahren: Yukio Mishima

von Daniel Napiorkowski

Ex: http://www.sezession.de/

Vor 40 Jahren beging der japanische Schriftsteller Yukio Mishima feierlich Selbstmord. Seine Tat war konsequent. In einem Abschiedsbrief an seinen englischen Übersetzer, den Wissenschaftler Donald Keene, schrieb er: »Es war schon seit langem mein Wunsch, nicht als Literat, sondern als Soldat zu sterben«.

Als solcher starb er auch. Mit vier Kameraden aus der »Schildgesellschaft«, seiner kleinen Privatmiliz, drang er, bewaffnet mit Samuraischwertern und gekleidet in eine Phantasieuniform, am Vormittag des 25. November 1970 in das Hauptquartier der japanischen Selbstverteidigungsstreitkräfte in Tokio ein. Dort nahm er einen General als Geisel und forderte als Gegenleistung für dessen Freilassung, eine Rede vor den Soldaten der Garnison halten zu dürfen. Über tausend Soldaten versammelten sich auf dem Kasernenhof des Quartiers, während Mishima sich auf den Balkon stellte, die Hände in die Hüften stützte und einen Appell auf die Kaiserherrschaft, die altehrwürdige Tradition Japans und den Samuraigeist hielt.

Der Appell blieb unverstanden, Mishima erntete Spott und Beschimpfungen aus der Menge und brach die Rede vorzeitig ab. Er zog sich mit seinen Begleitern in ein Zimmer zurück und beging seppuku, die traditionelle japanische Form des Selbstmords durch Bauchaufschneiden, wie sie auch die Samurai praktiziert haben. Noch bevor Mishima unter Schmerzen starb, köpfte ihn einer seiner Begleiter. So hatte man es abgesprochen, und vereinbart war auch, daß ihm ein anderer Begleiter (pikanterweise Mishimas Geliebter Morita) in den Tod folgte. Das Bild von Mishimas abgetrenntem Kopf, den immer noch ein Stirnband mit dem Symbol der aufgehenden Sonne zierte, ging um die Welt.

Ein anderer Abgang Mishimas ist nur schwerlich vorstellbar. Der Großteil seines Lebens gleicht einer zeremoniellen Selbstinszenierung, und der Großteil seines künstlerischen Schaffens kreist um den Gedanken des Selbstmords: Ungezählt sind seine literarischen Arbeiten, in denen der Suizid als ästhetisches Ritual idealisiert wird; ungezählt sind seine Auftritte, bei denen er sich als Schauspieler in Film und Theater in langen, schmerzvollen Akten selbst tötet.

Als Kind und Jugendlicher war der am 14. Januar 1925 als Kimitake Hiraoka in Tokio geborene Mishima schmächtig, unnatürlich blaß und zurückhaltend. Seine dominante Großmutter, die einen großen Einfluß auf die gesamte Familie ausübte, verbat ihm den Umgang mit gleichaltrigen Jungen; er durfte nur mit Mädchen spielen. Männerkörper – vor allem Samuraikrieger und europäische Ritter, die er aus Bilderbüchern kannte – übten daher bereits im Kindesalter einen besonderen Reiz auf ihn aus. Als er eines Tages erfuhr, daß der Ritter auf einem seiner Lieblingsbilder eine Frau, Jeanne d’Arc, sei, war er darüber sehr enttäuscht.

Als Heranwachsender verbrachte Mishima seine Freizeit vornehmlich mit Lesen, wobei ihn auch europäische Literatur, insbesondere Raymond Radiguet – dessen Roman Der Teufel im Leib (1923) vielfach verfilmt wurde –, Oscar Wilde und Rainer Maria Rilke, prägte. Später wird er Thomas Mann als den Schriftsteller benennen, den er am meisten schätzt. Da bei Mishima irrtümlich eine beginnende Tuberkulose diagnostiziert wurde, mußte er den Militärdienst im Zweiten Weltkrieg nicht leisten.

Um dem Eindruck der Verletzlichkeit entgegenzuwirken, widmete sich Mishima fortan intensiv dem Kampf- und Kraftsport. Dank einer gnadenlosen Selbstdisziplin hatte er schon bald den muskelgestählten Körper, den er sich wünschte. Nicht selten wurden Mishima später Narzißmus und dandyhafte Züge nachgesagt; tatsächlich zeigen ihn viele seiner Bilder in heroischer Samuraipose mit nacktem, eingeöltem Oberkörper oder herrisch dreinblickend in dunklem maßgeschneidertem Anzug. Mishima wurde sein eigenes Ideal, er wurde der Held, den er als Kind so bewundert hatte.

Nachdem seine ersten schriftstellerischen Schritte weitgehend unbeachtet blieben, gelang ihm 1949 mit Geständnis einer Maske sein erster Erfolg. Das streckenweise autobiographische Werk ist das Porträt eines sensiblen, von Selbstzweifeln bedrängten Jungen an der Schwelle zum Erwachsensein. Bereits hier treten zahlreiche Themen auf, die sich wie rote Fäden durch Mishimas Werk ziehen: die Todessehnsucht, die erotische Zuneigung zu Knaben, die auffallende Betonung von Brust- und vor allem Achselhaar an männlichen Körpern.

Ein weiteres stets wiederkehrendes Motiv in seinem Werk ist die Figur des Heiligen Sebastian, des römischen Soldaten, der zum christlichen Märtyrer wurde. In Geständnis einer Maske bewirkt der Anblick eines Gemäldes des italienischen Barockmalers Guido Reni, das den Heiligen, malträtiert und halbnackt an einen Baum gefesselt, abbildet, die erste Ejakulation des Erzählers; 1966 veröffentlichte Mishima eine Übersetzung von Gabriele d’Annunzios Bühnenwerk Märtyrertum des heiligen Sebastian und ließ sich von dem japanischen Fotografen Kishin Shinoyama in der Pose, die Guido Reni für sein Sebastian-Gemälde ausgewählt hatte, fotografieren: mit nacktem, von mehreren Pfeilen durchbohrtem Oberkörper – wobei ein Pfeil markant aus seiner linken, schwarz behaarten Achselhöhle herausragt.

Obwohl Mishima zu einem auch international erfolgreichen und gefeierten Schriftsteller avancierte, schrieb er auch weiterhin immer wieder etliche anspruchslose Auftragsarbeiten, die in Magazinen oder als Fortsetzung in Tageszeitungen veröffentlicht wurden. Auf dem quantitativen Höhepunkt seines Schaffens entstanden bis zu drei Romane und ein Dutzend Kurzgeschichten im Jahr. Aus der breiten Masse der in den 50er Jahren entstandenen Werke stechen insbesondere Die Brandung (1954), eine zeitgenössische japanische Interpretation der antiken Liebesgeschichte um Daphnis und Chloe, und Der Tempelbrand (1956) hervor. Hierin erzählt Mishima von dem authentischen Fall eines Priesteranwärters, der im Nachkriegsjapan einen der schönsten buddhistischen Tempel, der den Bombenhagel im Zweiten Weltkrieg unbeschadet überstanden hat, anzündet.

Neben seinen Romanen schrieb Mishima auch zahlreiche Theaterstücke und trat selbst als Schauspieler von NÕ-Stücken auf. NÕ bezeichnet ein klassisches japanisches Theater, das traditionell nur von Männern gespielt wird und sich vornehmlich mit Motiven der japanischen Mythologie befaßt. 1957 verbrachte Mishima ein halbes Jahr in den USA, wo er sich u.a. die Aufführung seiner Stücke anschauen wollte. Verbittert und unvermittelt brach er seinen Aufenthalt am Silvestertag ab. Auch wenn ihn gewisse Aspekte am amerikanischen Lebensstil reizten, ödete ihn auf Dauer die dortige Selbstsucht, die Fixierung auf Materielles ab, wie sein englischer Übersetzer Keene mit Blick auf das – leider nicht ins Deutsche übersetzte – »Reisebilderbuch« Mishimas feststellt.

Insoweit blieb sein Verhältnis zum Westen, insbesondere zu den USA zeitlebens ein gespaltenes. Am deutlichsten drückte Mishimas eigenes Haus diese Ambivalenz aus: Es bestand aus einem westlich und einem traditionell japanisch möblierten Trakt. Überhaupt zeichnete eine gewisse Zerrissenheit Mishimas Leben aus: Privat changierte es zwischen Bürgertum und Provokation. Er heiratete und wurde Vater zweier Kinder, nachts durchstreifte er hingegen die einschlägigen Homosexuellen-Bars in Tokio. Künstlerisch machte der weltweit anerkannte, mehrmals für den Literaturnobelpreis vorgeschlagene Schriftsteller Seitensprünge, indem er auch Rollen in billig produzierten Trashfilmen spielte.

Als Mishima 1968 erneut als einer der engeren Kandidaten für den Literaturnobelpreis diskutiert wurde, schmeichelte ihm dies natürlich. Die Wahl fiel schließlich auf den Japaner Kawabata Yasunari. Mishima eilte zu Yasunari, um ihm als erster gratulieren zu dürfen, und auch auf den gemeinsamen Fotos bei der Pressekonferenz macht Mishima einen erfreuten Eindruck. Doch so ganz ist ihm die Beherrschung nicht geglückt; sein Biograph Henry Scott Stokes, der Mishima auch privat gut kannte, beobachtete in den kommenden Tagen eine gewisse Enttäuschung und Niedergeschlagenheit. Vielleicht waren dies jene seltenen Momente, die Mishima ohne Maske zeigten: sensibel und von Selbstzweifeln bedrückt.

In den 60er Jahren streifte sich Mishima allmählich eine weitere Maske über: er entdeckte die Politik. Bereits in den 50er Jahren trat die japanische Kommunistische Partei mit der Anregung an ihn heran, über einen Eintritt in die Partei nachzudenken; diesem Kuriosum darf jedoch kaum eine ernstzunehmende Relevanz beigemessen werden. Literarisch näherte sich Mishima erstmals im Jahre 1960 politischen Themen an. Der Roman Nach dem Bankett erzählt von den Verstrickungen eines Diplomaten in politische Machtstrukturen, zweifelhafte Geldgeschäfte und private Liebschaften. Die Geschichte beruht auf einem authentischen Fall – die Romanfigur ist an einen ehemaligen liberalen Außenminister Japans angelehnt –, Mishimas eigene politische Position bleibt aber unklar.

Die im selben Jahr erschienene Kurzgeschichte Patriotismus ist hingegen eine deutliche Verbeugung vor dem Ethos des japanischen Soldatentums. Als Hintergrund der Geschichte dient der Ni-Ni-Roku-Aufstand vom 26. Februar 1936, bei dem sich eine Reihe junger Offiziere infolge außenpolitischer Diskrepanzen zwischen Regierung und militärischer Führung gegen letztere erhob und dabei den Tod fand. Patriotismus beschreibt den letzten Abend eines jungen, frisch verheirateten Leutnants, der gemeinsam mit seiner Frau den Freitod wählt, um nicht gegen seine Kameraden – die aufständischen Offiziere – vorgehen zu müssen. In einer bis dato nicht bekannten Detailliertheit schildert Mishima den Selbstmord als einen zeremoniellen Akt, als selbstverständliche Antwort auf einen moralischen Interessenkonflikt. In der fünf Jahre später unter seiner Regie entstandenen Verfilmung spielte Mishima die Rolle des jungen Offiziers selbst. Auch hier gleicht der Suizid einem feierlichen Ritual.

Das schicksalhafte Jahr 1968 ließ auch Japan nicht unberührt. Auch hier herrschte eine politische und gesellschaftliche Unruhe, deren Stifter mehrheitlich links standen. Mishima beobachtete die Entwicklung mit Interesse und suchte zu den wenigen rechten Studentengruppen Kontakt. Im Sommer 1968 gründete er eine paramilitärische Vereinigung, die sogenannte Schildgesellschaft (japanisch: Tatenokai), die sich ausschließlich aus jungen Studenten rekrutierte und die für die Rückkehr der klassischen Kaiserherrschaft eintrat. Es war der Versuch, eine an ästhetischen Idealen und traditionellen japanischen Vorstellungen orientierte Elite aufzubauen.

Mishima machte die jungen Männer mit den Tugenden des bushido, dem Verhaltenskodex der Samurai, vertraut und unterrichtete sie in Karate sowie in Schwertkampf. Er ließ eigene Uniformen schneidern, ein Wappen entwerfen und kreierte sogar eine eigene Hymne. Aufgrund der strengen Aufnahmevoraussetzungen hatte die Schildgesellschaft niemals mehr als hundert Mitglieder, was Mishima nur recht war; er sprach von der »kleinsten Armee der Welt und der größten an Geist«.

Die öffentliche Resonanz auf die Schildgesellschaft fiel erstaunlich dürftig aus. Dies überraschte um so mehr, als die Schildgesellschaft mit ausdrücklicher Genehmigung des damaligen Verteidigungsministers Nakasone sogar in den Militärkasernen der japanischen Armee exerzieren durfte. Die japanischen Medien beachteten Mishimas private Miliz trotzdem kaum, und wenn, dann nahmen sie sie als den Spleen eines exzentrischen Schriftstellers wahr, der eine »Spielzeugarmee« unterhielt. Auch das Verhältnis zwischen Mishimas Schildgesellschaft und anderen politisch rechtsstehenden Organisationen blieb von einem gewissen Desinteresse geprägt. Erst posthum entdeckten einige Gruppierungen aus dem Umfeld der japanischen »Neuen Rechten« – allen voran die nationalistische Issuikai, die erst kürzlich auch europaweit auf sich aufmerksam machte, nachdem sie mehrere Delegierte europäischer Rechtsparteien zum traditionellen Besuch des Yasukuni-Schrein eingeladen hatten – die politische Strahlkraft Mishimas. Seit 1972 veranstaltet die Issuikai gemeinsam mit anderen rechten Gruppierungen alljährlich ein Heldengedenken mit anschließendem Besuch an Mishimas Grab.

Im Mai 1969 nahm Mishima die Einlandung radikaler linker Studenten zu einer Podiumsdiskussion an der Universität von Tokio an. Es entwickelte sich ein teilweise recht aggressives Streitgespräch, während dem Mishima seine politischen Standpunkte, insbesondere seine Verehrung des Kaisers bekräftigte, aber auch Berührungspunkte zu den linken Studenten betonte. Auch er wolle Unruhe hineinbringen, auch er hasse Menschen, die »in Ruhe dasitzen«. Er schloß seine Rede mit einem Versprechen: »Eines Tages werde ich aufstehen gegen das System, so wie ihr Studenten aufgestanden seid – aber anders.« Es bleibt unklar, wie weit Mishimas Absicht eines Staatsstreichs bereits im Mai 1969 ausgereift war. Daß er je an einen politischen Erfolg seiner Aktion geglaubt hat, darf wohl bezweifelt werden. Vielmehr bildete der naive, zum Scheitern verurteilte Umsturzversuch nur einen Vorwand, nur einen ansprechenden Rahmen für die Inszenierung seines eigenen Todes, den er so viele Male zuvor eingeübt hatte.

Mishima erwartete wenig Lohnendes von der Zukunft. In einem Artikel von 1962 schrieb er: »In der Bronzezeit betrug die durchschnittliche Lebenserwartung der Menschen achtzehn Jahre; zur Römerzeit waren es zweiundzwanzig. Damals muß der Himmel voll gewesen sein mit schönen, jungen Menschen. In letzter Zeit muß es dort oben erbärmlich aussehen.« Auch in seinen Romanen griff er mehrmals den Gedanken auf, Selbstmord zu begehen, solange der Körper noch schön und muskulös ist. Mishima selbst befand sich 1970 mit seinen 45 Jahren körperlich in bester Verfassung. Die kommenden Jahre würden jedoch unweigerlich ein Abnehmen seiner physischen Kräfte bedeuten.

Literarisch war er auf dem Höhepunkt seines Schaffens. Mit Die Todesmale des Engels – das Manuskript hierzu korrigierte er noch am Vorabend seines Todes und adressierte es an seinen Verleger – beendete er sein monumentales, vierbändiges Epos Das Meer der Fruchtbarkeit, an dem er die letzten sechs Jahre gearbeitet hatte. Zudem entfremdete er sich zunehmend von einer Gesellschaft, die für Begriffe wie Ehre und Tradition immer weniger empfänglich war. Alles Kommende hätte dem Gesamtkunstwerk Yukio Mishima an Glorie genommen. Das Todesfanal aber vollendete es auf eine morbide Weise.

(Mishima ist Angehöriger der Division Antaios)

dimanche, 28 novembre 2010

Alexis Carrel: A Commemoration

Alexis Carrel:
A Commemoration, Part 1

Kerry BOLTON

Ex: http://www.counter-currents.com/

[M]en cannot follow modern civilization along its present course, because they are degenerating. They have been fascinated by the beauty of the sciences of inert matter. They have not understood that their body and consciousness are subjected to natural laws, more obscure than, but as inexorable as, the laws of the sidereal world. Neither have they understood that they cannot transgress these laws without being punished.

They must, therefore, learn the necessary relations of the cosmic universe, of their fellow men, and of their inner selves, and also those of their tissues and their mind. Indeed, man stands above all things. Should he degenerate, the beauty of civilization, and even the grandeur of the physical universe, would vanish. . . . Humanity’s attention must turn from the machines of the world of inanimate matter to the body and the soul of man, to the organic and mental processes which have created the machines and the universe of Newton and Einstein.[1]

acarrel.jpgAlexis Carrel, an observer of the material universe, was one among a unique lineage of scientists who sought out solutions to what they considered were the primary problems confronting the modern world. For Carrel the material progress that was jumping by leaps and bounds from the 19th century across into his century was causing moral, physical and spiritual degeneration. While scientists, then as now overspecialized, and devoid of a broad perspective, were making new discoveries in the physical and social sciences, problems of degeneration and its ultimate consequences were not being sufficiently addressed in a holistic manner.

Within the same lineage of genius that was to consider these problems, we might also include Jung and Konrad Lorenz, Raymond Cattell, and the new generation of sociobiologists. For example Lorenz, the father of ethology, also applying his observations of the natural world to the state of modern man, came to conclusions analogous to those of Carrel, and also attempted to warn of the consequences:

All the advantages that man has gained from his ever-deepening understanding of the natural world that surrounds him, his technological, chemical and medical progress, all of which should seem to alleviate human suffering . . .  tends instead to favor humanity’s destruction.[2]

For Jung there were problems for humanity inherent in his modern Civilization insofar as the unconscious is a layered structure each representing different eras of history from the primeval to the present. Therefore much about the psyche comes from the past, including the distant past, and there are aspect of the psyche that are not attuned to modern Civilization. Man’s psyche has not in totality caught up with the Civilization that he has created.[3] It was also a problem that Carrel sought to resolve.

However, what is even more unique about Carrel, is the extent to which he departs from the atheism of certain of today’s sociobiolgists (Richard Dawkins being an obvious example) giving the spiritual and metaphysical primary acknowledgement, as did Jung in his departure from Freudian psychoanalysis.

Scientific Background

Carrel was born in Lyons om June 28, 1873, and died in Paris on November 5, 1944. Graduating with a doctorate from Lyons, he taught operative surgery at the University, and worked at Lyon Hospital, which included experimental work. From 1906 he worked at the Rockefeller Center for Medical Research, New York, where he undertook most of his experiments in surgery, and was awarded a Nobel Prize in Physiology and Medicine in 1912 for developing a method of suturing blood vessels.

During World War I Carrel served as a Major in the French Army Medical Corps and co-invented the widely used Carrel-Dakin method of cleaning deep wounds, which was particularly effective in preventing gangrene and is credited with saving thousands of lives.

Carrel’s studies centered around tissue and organ transplantation, in 1908 devising methods for the transplanting of whole organs. In 1935 he invented in collaboration with US aviator and bio-mechanic Charles Lindbergh a machine for supplying a sterile respiratory system to organs removed from the body.

Carrel received honors throughout the world for his pioneering medical work, which has laid the basis for today’s organ transplant operations; his work with tissue cultures also having contributed significantly to the understanding of viruses and the preparation of vaccines.

In 1935, at the instigation of a group of friends, Carrel wrote Man the Unknown which caused antagonism with the new director of the Rockefeller Institute, Herbert S. Gasser. In 1939 Carrel retired and his laboratories and Division of Experimental Surgery were closed.

When World War II erupted Carrel returned to France as a member of a special mission for the French Ministry of Health, 1939–1940. Returning briefly to the USA, Carrel went back to France in 1941 via Spain. Although declining to become Minister of Public Health, he became Director of the Carrel Foundation for the Study of Human Problems, which was established by the Vichy Government, a position he held until his death. Here young scientists, physicians, lawyers, and engineers came together to study economics, political science, and nutrition, reflecting the eclectic nature of the holistic approach Carrel insisted upon as being necessary for the diagnosis and treatment of Civilization.

When the Allied forces occupied France in August, 1944, Carrel was suspended from his post and accused of being a “collaborator.”[4] Although he was cleared of charges of “collaboration,” embittered by the accusations he died two weeks later of a heart attack.[5]

Man the Unknown

The book for which the great physician had already received ridicule in 1935 in a quip-filled sneer in Time Magazine, but that became a world-wide bestseller, and the one most commonly associated with Carrel, is Man the Unknown, a scientific diagnosis of the maladies of modern civilization.[6].

Like Jung and Lorenz, the fundamental question for Carrel was that man’s morality and soul were not in accord with his modern civilization, his industrialization, and mass production. This was having a degenerating effect morally, physically, and spiritually.

As a physiologist Carrel explains the constitution of man physiologically and mentally, but these are just the material manifestations from which moral and spiritual lessons must be drawn in reconstituting civilization in accord with man’s spiritual and moral natures, which include an innate religious sense and a mysticism that has been enervated by materialism. Hence some of the questions posed by Carrel are:

We are very far from knowing what relations exist between skeleton, muscles, and organs, and mental and spiritual activities. We are ignorant of the factors that bring about nervous equilibrium and resistance to fatigue and to diseases. We do not know how moral sense, judgment, and audacity could be augmented. What is the relative importance of intellectual, moral, and mystical activities? What is the significance of aesthetic and religious sense? What form of energy is responsible for telepathic communications? Without any doubt, certain physiological and mental factors determine happiness or misery, success or failure. But we do not know what they are. We cannot artificially give to any individual the aptitude for happiness. As yet, we do not know what environment is the most favorable for the optimum development of civilized man. Is it possible to suppress struggle, effort, and suffering from our physiological and spiritual formation? How can we prevent the degeneracy of man in modern civilization? Many other questions could be asked on subjects which are to us of the utmost interest. They would also remain unanswered. It is quite evident that the accomplishments of all the sciences having man as an object remain insufficient, and that our knowledge of ourselves is still most rudimentary.[7]

A primary concern for Carrel was with the artificiality of modern civilization, from modes of dwelling to food production, including the factory raising of hens, questions which have in just recent years come into vogue with the “Left.” The question of factory and other forms of work drudgery and their adverse impact upon both menial and mental workers is regarded by Carrel as a major issue of concern in having a degenerative effect.

The environment which has molded the body and the soul of our ancestors during many millenniums has now been replaced by another. This silent revolution has taken place almost without our noticing it. We have not realized its importance. Nevertheless, it is one of the most dramatic events in the history of humanity. For any modification in their surroundings inevitably and profoundly disturbs all living beings. We must, therefore, ascertain the extent of the transformations imposed by science upon the ancestral mode of life, and consequently upon ourselves.[8]

The environment, including accommodation and working conditions, while materially very much better than those of our ancestors, has become artificial, is not rooted to any community, or family; no craft or individual creativity is involved. “Everywhere, in the cities, as well as in the country, in private houses as in factories, in the workshop, on the roads, in the fields, and on the farms, machines have decreased the intensity of human effort.” The types of food available is an important aspect considered by Carrel, and one which has in recent years been brought up especially by “Green” politicians[9] in the West. It is an example of what Carrel means by the material abundance yet simultaneous lowering of quality of modern civilization leading to human degeneration rather than elevation:

The aliments of our ancestors, which consisted chiefly of coarse flour, meat, and alcoholic drinks, have been replaced by much more delicate and varied food. Beef and mutton are no longer the staple foods. The principal elements of modern diet are milk, cream, butter, cereals refined by the elimination of the shells of the grain, fruits of tropical as well as temperate countries, fresh or canned vegetables, salads, large quantities of sugar in the form of pies, candies, and puddings. Alcohol alone has kept its place. The food of children has undergone a profound change. It is now very artificial and abundant. The same may be said of the diet of adults. The regularity of the working-hours in offices and factories has entailed that of the meals. Owing to the wealth which was general until a few years ago, and to the decline in the religious spirit and in the observance of ritualistic fasts, human beings have never been fed so punctually and uninterrupted.[10]

Now of course the problems of artificial diet of which Carrel was warning seventy-five years ago have reached the point of almost tragic-comic proportions with the virtually global phenomena of “fast food,” and the obesity problem that is becoming a real health issue in the West.[11]

The consequences not only of abundant – albeit un-nutritious food – coupled with an ease of life and the advances in medicine that have eliminated many diseases have paradoxically seen an increase in degenerative nervous diseases:

But we are confronted with much graver problems, which demand immediate solution. While infantile diarrhea, tuberculosis, diphtheria, typhoid fever, etc., are being eliminated, they are replaced by degenerative diseases. There are also a large number of affections of the nervous system and of the mind. In certain states the multitude of the insane confined in the asylums exceeds that of the patients kept in all other hospitals. Like insanity, nervous disorders and intellectual weakness seem to have become more frequent. They are the most active factors of individual misery and of the destruction of families. Mental deterioration is more dangerous for civilization than the infectious diseases to which hygienists and physicians have so far exclusively devoted their attention.[12]

What Carrel is suggesting throughout is that quantity has been substituted for quality, from food to arts. It is a problem arising from the mass nature of liberalism and socialism, and of capitalism, that also bothered the literati at the turn of the 19th and beginning of the 20th centuries,[13] and has continued apace with the technological advances of communications over just the past few years. Universal education and the mass communication of literature etc. has expanded the reading public for example, but has not encouraged the maintenance of cultural standards. Mass-marketing requires quantity and a fast turnover whether in computers or in what now passes for “literature” and “art.”

In spite of the immense sums of money expended on the education of the children and the young people of the United States, the intellectual elite does not seem to have increased. The average man and woman are, without any doubt, better educated and, superficially at least, more refined. The taste for reading is greater. More reviews and books are bought by the public than in former times. The number of people who are interested in science, letters, and art has grown. But most of them are chiefly attracted by the lowest form of literature and by the imitations of science and of art. It seems that the excellent hygienic conditions in which children are reared, and the care lavished upon them in school, have not raised their intellectual and moral standards.

Modern civilization seems to be incapable of producing people endowed with imagination, intelligence, and courage. In practically every country there is a decrease in the intellectual and moral caliber of those who carry the responsibility of public affairs. The financial, industrial, and commercial organizations have reached a gigantic size. They are influenced not only by the conditions of the country where they are established, but also by the state of the neighboring countries and of the entire world. In all nations, economic and social conditions undergo extremely rapid changes. Nearly everywhere the existing form of government is again under discussion. The great democracies find themselves face to face with formidable problems—problems concerning their very existence and demanding an immediate solution. And we realize that, despite the immense hopes which humanity has placed in modern civilization, such a civilization has failed in developing men of sufficient intelligence and audacity to guide it along the dangerous road on which it is stumbling. Human beings have not grown so rapidly as the institutions sprung from their brains. It is chiefly the intellectual and moral deficiencies of the political leaders, and their ignorance, which endanger modern nations.[14]

Carrel in his preliminary remarks concludes with one of the primary symptoms of cultural decay, that of declining birthright, which Spengler and others have commented upon in the same context also, and it is a problem taken up again in Man The Unknown and in his posthumously published Reflections on Life. Indeed, as this is written there have been some media remarks and commentary of New Zealand having the second highest abortion rate in the developed world (after Sweden) and as usual ‘sexual health experts’ are trotted out to offer superficial explanation such as lack of adequate sex education for the young (which according to the experts should begin at pre-school level).[15]

Finally, we must ascertain how the new mode of life will influence the future of the race. The response of the women to the modifications brought about in the ancestral habits by industrial civilization has been immediate and decisive. The birth rate has at once fallen. This event has been felt most precociously and seriously in the social classes and in the nations which were the first to benefit from the progress brought about, directly or indirectly, by the applications of scientific discoveries. Voluntary sterility is not a new thing in the history of the world. It has already been observed in a certain period of past civilizations. It is a classical symptom. We know its significance.[16]

Spengler wrote of this problem also as symptomatic of the senile “Winter” cycle of a Civilization where woman repudiates her womanliness in her desire to be “free.” There arises the phenomena of the “sterility of civilized man.”[17] “The continuance of the blood-relation in the visible world is no longer a duty of the blood and the destiny of being the last of the line is no longer felt as a doom.”[18] While the “primary woman, the peasant woman, is mother….,” in Late Civilization there emerges “emancipated woman,” and in this cycle which lasts for centuries, there is an “appalling depopulation,” and the whole cultural pyramid crumbles from the top down.[19]

Carrel’s premise, reminiscent of the passage previously quoted from Jung, is:

Modern civilization finds itself in a difficult position because it does not suit us. It has been erected without any knowledge of our real nature. It was born from the whims of scientific discoveries, from the appetites of men, their illusions, their theories, and their desires. Although constructed by our efforts, it is not adjusted to our size and shape.[20]

The mental cost for the workers caused by mass industrialization are addressed by Carrel in terms that are not found by the democratic and Marxist champions of the proletariat, yet Carrel well after his death, has been smeared as an inhumane “Nazi.”

In the organization of industrial life the influence of the factory upon the physiological and mental state of the workers has been completely neglected. Modern industry is based on the conception of the maximum production at lowest cost, in order that an individual or a group of individuals may earn as much money as possible. It has expanded without any idea of the true nature of the human beings who run the machines, and without giving any consideration to the effects produced on the individuals and on their descendants by the artificial mode of existence imposed by the factory. The great cities have been built with no regard for us. The shape and dimensions of the skyscrapers depend entirely on the necessity of obtaining the maximum income per square foot of ground, and of offering to the tenants offices and apartments that please them. This caused the construction of gigantic buildings where too large masses of human beings are crowded together. Civilized men like such a way of living. While they enjoy the comfort and banal luxury of their dwelling, they do not realize that they are deprived of the necessities of life. The modern city consists of monstrous edifices and of dark, narrow streets full of gasoline fumes, coal dust, and toxic gases, torn by the noise of the taxicabs, trucks, and trolleys, and thronged ceaselessly by great crowds. Obviously, it has not been planned for the good of its inhabitants.[21]

These are questions that have never been resolved, either by capitalist or by communist states. Despite our increased standards of living—albeit largely based on debt—the “banality of luxury” has been accepted as desirable as modern man has adapted to, rather than resisted, the pervasive era of mass production and consumption as the new universal religion. The aspects described by Carrel as he observed them in 1935, have multiplied by many times.

Notes

1. Alexis Carrel, Man the Unknown (Sydney: Angus and Robertson Ltd., 1937); Preface, xi.

2. Konrad Lorenz, Civilized Man’s Eight Deadly Sins (1974), 26. The full text is online at: http://www.scribd.com/doc/34473621/Konrad-Lorentz-Civiliz.... The basic question asked by ethologists in regard to the behavior patterns of a species is: “What for?” Lorenz asks what the answer is when such a question is applied to many behavior patterns of modern Civilization. (p. 4).

3. Jung wrote of this schizoid state: “Our souls as well as our bodies are composed of individual elements which were all already present in the ranks of our ancestors. The ‘newness’ of the individual psyche is an endlessly varied recombination of age-old components. Body and soul therefore have an intensely historical character and find no place in what is new. We are very far from having finished with the Middle Ages, classical antiquity and primitivity as our modern psyches pretend. Nevertheless we have plunged into a cataract of progress which sweeps us into the future with ever wilder violence the farther it takes us from our roots.” C. G. Jung, Memories, Dreams, Reflections, 263.

4. “Alexis Carrel,” http://www.pbs.org/wnet/redgold/innovators/bio_carrel.html

5. Alexis Carrel, Reflections on Life (Hawthorn Books 1952), “The author and his book,” http://chestofbooks.com/society/metaphysics/Reflections-O...

6. The full text of the 1939 Harper’s edition of Man the Unknown can be read online: http://www.soilandhealth.org/03sov/0303critic/030310carre...

7. Man the Unknown, ch. 1: 1, “The Need for a better knowledge of man.”

8. Man the Unknown, ch. 1: 3.

9. E.g. New Zealand’s retiring Green Party Member of Parliament Sue Kedgley, was particularly noted for her campaigns on the chemical adulteration of food.

10. Man the Unknown, ch. 1: 3.

11. Eric Schlosser, Fast Food Nation (Middlesex: Allen Lane, Penguin, 2001).

12. Man the Unknown, Ch. 1: 4.

13. K. R. Bolton, Thinkers of the Right (Luton: Luton Publications, 2003).

14. Man the Unknown.

15. That “sex education” of the proportions advocated by the “experts” has for decades been practised by Sweden, which nonetheless tops all states in terms of abortion rates, seems to have been missed by the “experts.” The major myth of the “experts” in accounting for New Zealand’s high abortion rate is that most abortions are performed among poorly educated Polynesian/Maori teenagers. The median age for abortions in 2009 was 24. Over 50% were of European origin. Statistics New Zealand: Abortion Statistics Year Ended December 2009, http://www.stats.govt.nz/browse_for_stats/health/abortion...

16. Man the Unknown, ch. 1: 4.

17. Oswald Spengler, The Decline of the West, 1926, (London: George Allen and Unwin, 1971), 103.

18. The Decline of the West, 104.

19. The Decline of the West, 105.

20. Man the Unknown, ch. 1: 4.

21.  Man the Unknown.

Alexis Carrel:
A Commemoration, Part 2

Our life is influenced in a large measure by commercial advertising. Such publicity is undertaken only in the interest of the advertisers and not of the consumers. For example, the public has been made to believe that white bread is better than brown. Then, flour has been bolted more and more thoroughly and thus deprived of its most useful components. Such treatment permits its preservation for longer periods and facilitates the making of bread. The millers and the bakers earn more money. The consumers eat an inferior product, believing it to be a superior one. And in the countries where bread is the principal food, the population degenerates. Enormous amounts of money are spent for publicity. As a result, large quantities of alimentary and pharmaceutical products, at the least useless, and often harmful, have become a necessity for civilized men. In this manner the greediness of individuals, sufficiently shrewd to create a popular demand for the goods that they have for sale, plays a leading part in the modern world.[1]

These problems of modern civilization were addressed during the Medieval era, under religious sanction, and under organization sanction via the Guilds, and yet our era is regarded as “progressive” and full of unlimited possibilities and that of the past as superstition-ridden and ignorant.

Man is for Carrel first a spiritual being, who has entered a degenerative state through artificial behavior patterns induced by industrialization.

The definition of good and evil is based both on reason and on the immemorial experience of humanity. It is related to basic necessities of individual and social life. However, it is somewhat arbitrary. But at each epoch and in each country it should be very clearly defined and identical for all classes of individuals. The good is equivalent to justice, charity, beauty. The evil, to selfishness, meanness, ugliness. In modern civilization, the theoretical rules of conduct are based upon the remains of Christian morals. No one obeys them. Modern man has rejected all discipline of his appetites. However, biological and industrial morals have no practical value, because they are artificial and take into consideration only one aspect of the human being. They ignore some of our most essential activities. They do not give to man an armor strong enough to protect him against his own inherent vices.

In order to keep his mental and organic balance, man must impose upon himself an inner rule. The state can thrust legality upon people by force. But not morality. Everyone should realize the necessity of selecting the right and avoiding the wrong, of submitting himself to such necessity by an effort of his own will. The Roman Catholic Church, in its deep understanding of human psychology, has given to moral activities a far higher place than to intellectual ones. The men, honored by her above all others, are neither the leaders of nations, the men of science, nor the philosophers. They are the saints–that is, those who are virtuous in a heroic manner. When we watch the inhabitants of the new city, we fully understand the practical necessity of moral sense. Intelligence, will power, and morality are very closely related. But moral sense is more important than intelligence. When it disappears from a nation the whole social structure slowly commences to crumble away. In biological research, we have not given so far to moral activities the importance that they deserve. Moral sense must be studied in as positive a manner as intelligence. Such a study is certainly difficult. But the many aspects of this sense in individuals and groups of individuals can easily be discerned. It is also possible to analyze the physiological, psychological, and social effects of morals. Of course, such researches cannot be undertaken in a laboratory. Field work is indispensable. There are still today many human communities which show the various characteristics of moral sense, and the results of its absence or of its presence in different degrees. Without any doubt, moral activities are located within the domain of scientific observation.[2]

Alexis_Carrel_02.jpgWhile Carrel has been deemed since 1944 to be a “fascist,” a “collaborator,” and a “Nazi,” his championing of the individual rather than the mass does not sit well with stereotypical images. Like others skeptical of democracy and equality, he opposed the leveling tendencies of the modern era, be they in the form of capitalism or Marxism, both of which had accepted the same formulation of man and society, Carrel in Reflections on Life calling the Liberal bourgeois the elder brother of the Bolshevist.

Modern society ignores the individual. It only takes account of human beings. It believes in the reality of the Universals and treats men as abstractions. The confusion of the concepts of individual and of human being has led industrial civilization to a fundamental error, the standardization of men. If we were all identical, we could be reared and made to live and work in great herds, like cattle. But each one has his own personality. He cannot be treated like a symbol.[3]

One symptom of mass society is that of mass education, and Carrel here focuses on the role of the family and especially the mother as the prime educator of the child before any institution. This championing of the family rather than the State is contrary to all collectivist schemes, which seek to eliminate the family as an obstacle to State totality.

Children should not be placed, at a very early age, in schools where they are educated wholesale. As is well known, most great men have been brought up in comparative solitude, or have refused to enter the mold of the school. Of course, schools are indispensable for technical studies. They also fill, in a certain measure, the child’s need of contact with other children. But education should be the object of unfailing guidance. Such guidance belongs to the parents. They alone, and more especially the mother, have observed, since their origin, the physiological and mental peculiarities whose orientation is the aim of education. Modern society has committed a serious mistake by entirely substituting the school for the familial training. The mothers abandon their children to the kindergarten in order to attend to their careers, their social ambitions, their sexual pleasures, their literary or artistic fancies, or simply to play bridge, go to the cinema, and waste their time in busy idleness. They are, thus, responsible for the disappearance of the familial group where the child was kept in contact with adults and learned a great deal from them.[4]

It is relevant to note here that the family was indeed the basis of the Vichy regime that sought a “National Revolution” based on the dictum “Work, Family, Homeland.” Among the family-orientated measures of the Vichy regime was the “Mother-at-home” allowance,[5] the type of legislation that is still being sought in the Western democracies. The “family allowance” increased with the birth of each child.[6] Maternity welfare provided for women to be taken by a hospital one month before and one month after the birth of a child,[7] a measure that would today in our liberal “welfare states” now seem utopian.

Likewise, Carrel lamented the phenomena of mass production and man as factory fodder, where there was once craft centered on a religious ethos rather than a strictly economic one.

The neglect of individuality by our social institutions is, likewise, responsible for the atrophy of the adults. Man does not stand, without damage, the mode of existence, and the uniform and stupid work imposed on factory and office workers, on all those who take part in mass production. In the immensity of modern cities he is isolated and as if lost. He is an economic abstraction, a unit of the herd. He gives up his individuality. He has neither responsibility nor dignity. Above the multitude stand out the rich men, the powerful politicians, the bandits. The others are only nameless grains of dust. On the contrary, the individual remains a man when he belongs to a small group, when he inhabits a village or a small town where his relative importance is greater, when he can hope to become, in his turn, an influential citizen. The contempt for individuality has brought about its factual disappearance.[8]

Again, Carrel seems to be alluding in his ideal for a return to the medieval ethos. And again, one finds here also that Carrel’s social critique is far from misanthropic, as has been more recently claimed by his post-mortem “anti-fascist” avengers. He is a physician trying to diagnose and treat the cancerous growth of the mass tyranny of the modern era.

Carrel’s conclusion is that man, who has transformed the material world through science, is also capable of transforming himself. But he will not transform himself without necessity, because he has become complacent amidst the artificial lifestyle of industrial civilization.

While surrounded by the comfort, the beauty, and the mechanical marvels engendered by technology, he does not understand how urgent is this operation. He fails to realize that he is degenerating. Why should he strive to modify his ways of being, living, and thinking?[9]

Carrel regarded the Great Depression as a fortuitous opportunity, because of the undermining of public confidence in the economic system, which might impel people to seek a redirection.

Has not modern life decreased the intelligence and the morality of the whole nation? Why must we pay several billions of dollars each year to fight criminals? Why do the gangsters continue victoriously to attack banks, kill policemen, kidnap, ransom, or assassinate children, in spite of the immense amount of money spent in opposing them? Why are there so many feeble-minded and insane among civilized people? Does not the world crisis depend on individual and social factors that are more important than the economic ones? It is to be hoped that the spectacle of civilization at this beginning of its decline will compel us to ascertain whether the causes of the catastrophe do not lie within ourselves, as well as in our institutions. And that we will fully realize the imperativeness of our renovation.

…The spontaneous crash of technological civilization may help to release the impulses required for the destruction of our present habits and the creation of new modes of life.[10]

What Carrel called for was the creation of a new ruling state of renaissance men who would be educated in all the arts and sciences, having renounced ordinary life to form a ruling class better capable of creating a new civilization in keeping with man’s true nature, than can politicians and plutocrats.

Indeed, the few gifted individuals who dedicate themselves to this work will have to renounce the common modes of existence. They will not be able to play golf and bridge, to go to cinemas, to listen to radios, to make speeches at banquets, to serve on committees, to attend meetings of scientific societies, political conventions, and academies, or to cross the ocean and take part in international congresses. They must live like the monks of the great contemplative orders, and not like university professors, and still less like business men. In the course of the history of all great nations, many have sacrificed themselves for the salvation of the community. Sacrifice seems to be a necessary condition of progress.[11]

Eugenics was also a significant aspect of Carrel’s beliefs, and the matter for which he is most smeared, although eugenic ideas among physiologists at that time were the norm, and what Carrel advocated was on par with the sterilization measures already undertaken by many states of the USA,[12] and was at that time even advocated by socialists, as was particularly the case in Sweden. Hence, Carrel stated:

Eugenics may exercise a great influence upon the destiny of the civilized races. Of course, the reproduction of human beings cannot be regulated as in animals. The propagation of the insane and the feeble-minded, nevertheless, must be prevented. A medical examination should perhaps be imposed on people about to marry, as for admission into the army or the navy, or for employees in hotels, hospitals, and department stores. However, the security given by medical examination is not at all positive. The contradictory statements made by experts before the courts of justice demonstrate that these examinations often lack any value. It seems that eugenics, to be useful, should be voluntary. By an appropriate education, each one could be made to realize what wretchedness is in store for those who marry into families contaminated by syphilis, cancer, tuberculosis, insanity, or feeble-mindedness. Such families should be considered by young people at least as undesirable as those which are poor. In truth, they are more dangerous than gangsters and murderers. No criminal causes so much misery in a human group as the tendency to insanity. Voluntary eugenics is not impossible. […]None should marry a human being suffering from hidden hereditary defects. Most of man’s misfortunes are due to his organic and mental constitution and, in a large measure, to his heredity. Obviously, those who are afflicted with a heavy ancestral burden of insanity, feeblemindedness, or cancer should not marry. No human being has the right to bring misery to another human being. Still less, that of procreating children destined to misery.[13]

It is clear that for all the slander against Carrel as a eugenicist, his position on the matter was moderate for the time, and was to be voluntary, based on a combination of education and financial rewards. However, also of great importance in Carrel’s system was education and culture.

Children must be reared in contact with things which are the expression of the mind of their parents. It is imperative to stop the transformation of the farmer, the artisan, the artist, the professor, and the man of science into manual or intellectual proletarians, possessing nothing but their hands or their brains. The development of this proletariat will be the everlasting shame of industrial civilization. It has contributed to the disappearance of the family as a social unit, and to the weakening of intelligence and moral sense. It is destroying the remains of culture. All forms of the proletariat must be suppressed. Each individual should have the security and the stability required for the foundation of a family.[14]

Elsewhere Carrel writes again of the undesirability of mass proletarianization and the need for a new economic system:

The artisan, on the contrary, has the legitimate hope that some day he may become the head of his shop. Likewise, the peasant owning his land, the fisherman owning his boat, although obliged to work hard, are, nevertheless, masters of themselves and of their time. Most industrial workers could enjoy similar independence and dignity. The white-collar people lose their personality just as factory hands do. In fact, they become proletarians. It seems that modern business organization and mass production are incompatible with the full development of the human self. If such is the case, then industrial civilization, and not civilized man, must go.[15]

In the same paragraph Carrel emphasis the basic social unit as being the family, predicated on sound and lasting marriage for the raising of healthy children, and the education of women geared to raising children.

Marriage must cease being only a temporary union. The union of man and woman, like that of the higher anthropoids, ought to last at least until the young have no further need of protection. The laws relating to education, and especially to that of girls, to marriage, and divorce should, above all, take into account the interest of children. Women should receive a higher education, not in order to become doctors, lawyers, or professors, but to rear their offspring to be valuable human beings.[16]

Feminism has resulted in what we might call the proletarianization of women, whether in menial or intellectual arenas, as increasing numbers especially over the past several decades have opted for jobs rather than children, even for the sake of their social life, or have been leaving child bearing to increasingly later ages until procreation becomes a problem. If Carrel were alive today, he would undoubtedly have much to say about the decline fertility rates among males also, perhaps looking at environmental and nutritional factors for explanations. At any rate the question of food quality is broached by Carrel several times in Man the Unknown, for example:

We now have to reestablish, in the fullness of his personality, the human being weakened and standardized by modem life. Sexes have again to be clearly defined. Each individual should be either male or female, and never manifest the sexual tendencies, mental characteristics, and ambitions of the opposite sex. Instead of resembling a machine produced in series, man should, on the contrary, emphasize his uniqueness. In order to reconstruct personality, we must break the frame of the school, factory, and office, and reject the very principles of technological civilization.

The effect of the chemical compounds contained in food upon physiological and mental activities is far from being thoroughly known. Medical opinion on this point is of little value, for no experiments of sufficient duration have been made upon human beings to ascertain the influence of a given diet. There is no doubt that consciousness is affected by the quantity and the quality of the food.[17]

Carrel, as a social-physician in the closing paragraphs of his seminal work again shows that what he was advocating was of a humane character; that he was not a social-Darwinist with a disregard for the weaker elements of society:

The brutal materialism of our civilization not only opposes the soaring of intelligence, but also crushes the affective, the gentle, the weak, the lonely, those who love beauty, who look for other things than money, whose sensibility does not stand the struggle of modern life. In past centuries, the many who were too refined, or too incomplete, to fight with the rest were allowed the free development of their personality. Some lived within themselves. Others took refuge in monasteries, in charitable or contemplative orders, where they found poverty and hard work, but also dignity, beauty, and peace. Individuals of this type should be given, instead of the inimical conditions of modern society, an environment more appropriate to the growth and utilization of their specific qualities.[18]

Notes

1. Man the Unknown.

2. Man the Unknown, ch. 4: 3.

3. Man the Unknown, ch. 7: 10.

4. Man the Unknown, ch. 7: 10.

5. Decree of October 11, 1940.

6. Laws of November 18, 1940; February 15, 1941.

7. Law no. 3763, September 2, 1941.

8. Alexis Carrel, Man the Unknown, ch. 7: 10.

9. Man the Unknown, ch. 7: 10., ch. 8: 1.

10. Man the Unknown, ch. 7: 10.

11. Man the Unknown,  ch. 8:3.

12. Indiana became the first US state to enact a sterilization law in 1907, directed towards the “feebleminded.” In 1927 the US Supreme Court ruled 8 to  that sterilization laws for the mentally handicapped were not unconstitutional, Justice Holmes writing of the decision: “It is better for all the world, if instead of waiting to execute degenerate offspring for crime, or to let them starve for their imbecility, society can prevent those who are manifestly unfit from continuing their kind.” As late as 1970 the Nixon Administration increased Medicaid funding for the voluntary sterilization of low-income Americans. The last forcible sterilization occurred in the USA in 1981, in Oregon, under the direction of the Oregon Board of Eugenics. Social democratic Sweden was particularly active with a eugenic sterilization program from 1934, the laws not being repealed until 1976. Around 31,000 had been sterilized, by far the majority forcibly.

13. Man the Unknown, ch. 8:7.

14. Man the Unknown, ch. 8:7.

15. Man the Unknown, ch. 8:12.

16. Reflections on Life, ch. 8: 12.

17. Reflections on Life, ch. 8: 12.

18. Reflections on Life, ch. 8: 12.

Alexis Carrel:
A Commemoration, Part 3

Three of Carrel’s books were published posthumously, Reflections on Life[1] being particularly instructive in further explicating Carrel’s views on civilization. Here Carrel states that the great problem of the day is for man to increase not only his intelligence, but also a robustness of character and morality, and to maintain a spiritual outlook, these qualities having atrophied and failed to keep pace with technical evolution.[2] Based on his experiments and observations Carrel states that the organism is greatly malleable and changed by circumstances of environment. This two-way interaction between environment and genes seems often to be overlooked in a dichotomy existing between genetic determinists and environmental determinists. Therefore, what Carrel presents is a synthesis, writing:

The formation of body and mind depends on the chemical, physical and psychological conditions of the environment and on physiological habits. The effects of these conditions and these habits on the whole make-up of the individual ought to be exactly studied with reference to all activities of body and mind.[3]

Throughout his life he also emphasized the importance of the spiritual and the religious, and he remained a Christian.

AcaHomInco.gifCarrel proceeds with the first chapter to trace the dissolution of traditional communal bonds with the ancestral traditions being undermined from the time of the Renaissance, through to the Reformation, and the revolutions of France and America, enthroning of rationalism and heralding the rise of liberalism and Marxism:

The democratic nations fail to recognize the value of scientific concepts in the organization of communal life. They put their trust in ideologies, those twin daughters of the rationalism of the Age of Enlightenment. Yet neither Liberalism nor Marxism bases itself on an exhaustive observation of reality. The fathers of Liberalism, Voltaire and Adam Smith, had just as arbitrary and incomplete a view of the human world as Ptolemy had of the stellar system. The same applies to those who signed the Declaration of Independence, to the authors of the Declaration of the Rights of Man and of the Citizen as also to Karl Marx and Engels.[4]

At the root of these ideologies of capitalism and socialism alike is economic reductionism, which has given rise to the artificiality of a civilization that Carrel condemned for fostering a weakened state of humanity, physiologically, morally, spiritually, and mentally:

The principles of the Communist Manifesto are, in fact, like those of the French Revolution, philosophical views and not scientific concepts. The Liberal bourgeois and the Communist worker share the same belief in the primacy of economics. This belief is inherited from the philosophers of the eighteenth century. It takes no account of the scientific knowledge of the mental and physiological activities of man we possess today nor of the environment which these activities need for their ideal development. Such knowledge shows that primacy belongs not to economics, but to man’s own humanity. Instead of trying to find how to organize the State as a function of the human, we are content to declaim the principles of the Declaration of Independence and of the French Revolution. According to these principles, the State is, above all, the guardian of property; the head servant of banking, industry and commerce.[5]

This liberty has brought nothing real to the multitude of proletarianized masses.

The liberty enjoyed by the majority of men does not belong to the economic, intellectual or moral order. The dispossessed have merely the liberty to go from one slum or one public house to another. They are free to read the lies of one paper rather than another, to listen to opposing forms of radio propaganda and, finally, to vote. Politically they are free; economically they are slaves. Democratic liberty exists only for those who possess something. It allows them to increase their wealth and to enjoy all the various goods of this world. It is only fair to admit that, thanks to it, Capitalism has achieved a vast expansion of wealth and a general improvement in health and in the material conditions of life. But it has, at the same time, created the proletariat. Thus it has deprived men of the land, encouraged their herding together in factories and appalling dwellings, endangered their physical and mental health and divided nations into mutually hostile social classes. The Encylopedists had a profound respect for the owners of property and despised the poor. The French Revolution was directed against both the aristocracy and the proletariat It was content to substitute the rat for the Hon; the bourgeois for the noble. Now Marxism aims at replacing the bourgeois by the worker. The successor of Capitalism is Bureaucracy. Like Liberalism, Marxism arbitrarily gives first place to economics. It allows a theoretical liberty only to the proletariat and suppresses all other classes. The real world is far more complex than the abstraction envisaged by Marx and Engels.[6]

Here, as in many other places of Carrel’s writing, we see this his concern is for humanity, for the poor and oppressed that have been reduced to a mass and meaningless existence in the name of “economic liberty,” and it soon becomes apparent that the Marxists and liberals who smeared Carrel as some type of fiendish Nazi doctor with a depraved outlook on humanity, are either lying or ignorant. If Carrel spoke “against” the proletariat it was in defense of the “worker” as artisan, craftsmen, tiller, and in opposition to a process that continues to deprive man of his humanity:

Human labor is not something which can be bought like any other commodity. It is an error to depersonalize the thinking and feeling being who operates the machine and to reduce him, in industrial enterprise, to mere “manpower.” Homo oeconomicus is a fantasy of our imagination and has no existence in the concrete world.[7]

Carrel’s adherence to the Christian faith as the basis of civilized values is a refreshing surprise from the usual atheism and materialism of scientific social commentators. Carrel maintains that Christianity provides the foundations for social bonds above all other beliefs, whether rationalistic or metaphysical.

In an unknown village of Palestine, on the shores of Lake Tiberias, a young carpenter announced some astonishing news to a few ignorant fishermen. We are loved by an immaterial and all-powerful Being. This Being is accessible to our prayers. We must love Him above all creatures. And we ourselves must also love one another.

A new era had begun. The only cement strong enough to bind men together had been found. Nevertheless, humanity chose to ignore the importance of this new principle in the organization of its collective life. It is far from having understood that only mutual love could save it from division, ruin and chaos. Nor has it realized that no scientific discovery was so fraught with significance as the revelation of the law of love by Jesus the Crucified. For this law is, in fact, that of the survival of human societies.[8]

It was this Christian faith that molded the heroic ethos and chivalry of the West, Christianity providing the feeling of “the beauty of charity and renunciation” above the “savage and lustful appetites.” Man, or better said the Westerner,

was drawn to the heroism which, in the hell of modern warfare, consists in giving one’s life for one’s friends; and in having pity on the vanquished, the sick, the weak and the abandoned. This need for sacrifice and brotherhood became more defined in the course of centuries. Then appeared St. Louis of France, St. Francis of Assisi, St. Vincent de Paul and a numberless legion of apostles of charity.[9]

It is this ethos of individual sacrifice and renunciation which Carrel states has been increasingly obliterated by the ideologies of the modern era, and which is required again to overcome the problems of the present, particularly in developing a ruling caste that he wished to see emerge and live for the service of humanity.

Even in our own base and egotistical age, thousands of men and women still follow, on the battlefield, in the monastery or in that abomination of desolation the modern city, the path of heroism, abnegation and holiness.[10]

“Our civilization,” by which Carrel must mean Western Civilization, “has, in truth, forgotten that it is born of the blood of Christ; it has also forgotten God,” but there remains a basic discernment of the beauty of the Gospels and the Sermon on the Mount.[11] As a scientist Carrel sees Christian morality not as some contrivance to maintain a ruling class, but as reflecting fundamental laws of life that are in accord with nature, and in keeping with the survival imperative. On the other hand just as mistaken are those moralists who see Christianity as negating the need for humanity to act in accordance with the discoveries of nature being revealed by science. [12] Here again, Carrel is proposing a synthesis, rather than a dichotomy. Therefore the Christian commandment against killing is applicable in a broad sense, there being many ways of killing, and the destroyers or killers of humanity include,

The profiteer who sends up the price of necessities, the financier who cheats poor people of their savings, the industrialist who does not protect his workmen against poisonous substances, the woman who has an abortion and the doctor who performs it are all murderers. Murderers, too, are the makers of harmful liquor and the wine growers who conspire with politicians to increase the consumption of drink; the sellers of dangerous drugs; the man who encourages his friend to drink; the employer who forces his workers to work and live in conditions disastrous to their bodies and minds.[13]

Carrel was not preaching any doctrine of pandering to the weak, any more than a misanthropic crushing, but rather one of the strengthening of humanity by disposing of the artificiality that has become the basis of civilization, and has halted human ascent. In this respect there is a certain coincidental resemblance to the Nietzschean over-man, when not misinterpreted or misconstrued as something monstrous. Hence man must again become re-acclimatized to harsh environmental conditions, as a matter of will and self-discipline.

The rules to follow are many, but simple. They consist in leading our daily life as the structure of our body and mind demands. We must learn to endure heat, cold and fatigue; to walk, run and climb in all extremes of weather. We must also avoid as much as possible the artificial atmosphere of offices, flats and motorcars. In the choice of the quantity of food we eat we ought to follow modern principles of nutrition. We should sleep neither too much nor too little and in a quiet atmosphere. . . . We should also accomplish daily, outside of our professional work, some definite task of an intellectual, aesthetic, moral or religious nature. Those who have the courage to order their existence thus will be magnificently rewarded. . . .[14]

As in Man the Unknown, Carrel was concerned with the affects of declining birth rates, as a symptom of decline, which he states has social and economic causes and which can consequently be reversed by the State proving generously for the rearing of healthy children. Education is also required to make eugenically sound and conscious decisions when mating, an issue which is perhaps more than any others raised by Carrel,[15] anathema to liberal sensibilities.

Healthy children and family life proceeds for Carrel on the basis of a reconnection with the soil.

The family must be rooted once more in the soil. Everyone should be able to have a house, however small, and make himself a garden. Everyone who already has a farm should beautify it. He should adorn it with flowers, pave the road which leads to it, destroy the briars which choke the hedges, break up the boulders which hinder the passage of the plow, and plant trees whose branches will shade his great-grandchildren. Finally, the works of art, the old houses, the splendid buildings and cathedrals in which the soul of our forefathers expressed itself must be piously preserved. We should also set ourselves against the profanation of the rivers, the tranquil hills and the forests which were the cradle of our ancestors. But our most sacred duty is to bring about a revolution in teaching which will make the school, instead of a dreary factory for certificates and diplomas, a center of moral, intellectual, aesthetic, and religious education.[16]

The return to the soil was a major aim of the Vichy regime. Uncultivated land could be granted with the aid of state allowances, and freedom from rent for the first three years, and thereafter a rental half that of similar land in the area.[17] State subsidies of up to 50% were available for new farm buildings.[18] Farm laborers, who had been increasingly leaving the land for the cities for better pay, were encouraged to take up farming themselves. State gratuities were given to all farmers who provided rural apprenticeship training, and agricultural education was reorganized, and centers established.[19]

As one should expect for a physiologist attempting to apply his observations of the natural world to the formation of a more natural human social order, the type of society Carrel advocated was what has been called the “organic state,” where each individual is in general part of at least one social organ, from the family outward, each individual and each social organ contributing by their innate character to the well-being of the entire social organism. The organic state is thus analogous to the living human organism where, where the brain – the government – co-ordinates the individual organs for the healthy functioning of the whole organism. This is contrary to the modern era where everyone is divided in to atomized individuals, or competing classes, and a myriad of other self-serving interests, to the detriment of the whole. Carrel repudiated that notion of society being held together by a “social contract” between individuals, as per the idea that has come down to us from liberalism, as the very act of being born makes an individual an automatic part of society. The coming together for common interests into social organs is a natural process.

Every individual is a member of several organismic and organic groups. He belongs to tie family, the village, and the parish and also, perhaps, to a school, a trade union, a professional society or a sports club. Thus a relatively small number of completely developed individuals can have a great influence on many community groups.[20]

Hence, an industrial enterprise, should according to such organic laws function as a social organism rather than as a disharmonic or diseased organism of contending interests, which one might compare to a cancer-afflicted body. What Carrel alludes to in his analogy of the industrial enterprise where solidarity replaces class warfare, is that the worker of an enterprise share in the profits of that enterprise; “when he cooperates in an enterprise which belongs to him and to which he belongs.”[21]

In his concluding chapter Carrel states: “Communities and industrial enterprises should be conceived as organisms whose function is to build up centers of human brotherhood where all are equal in the sense in which the Church understands men’s equality; that is to say, in the sense that all are children of God.”[22]

The suppression of the Proletariat and the liberation of the oppressed should not come about through class warfare but through the abolition of social classes.

What is needed is to suppress the Proletariat by replacing it with industrial enterprise of an organismic character. If the community has an organismic character, it matters little whether the state or private individuals own the means of production, but individual ownership of house and land is indispensable.[23]

One can discern in this organic conception of society the influence of the social doctrine of the Church combined with the observations of the biologist. It is no wonder that Carrel agreed to work with the Vichy Government in attempting to solve social problems, as the Vichy was one of numerous regimes, often inspired by Catholic social doctrine, which attempted to implement the organic or “corporate state.”[24]

What ideology then did Carrel adhere to? Apparently, none that had been operative.

Despite the smear that Carrel was a “Nazi,” he regarded National Socialism, Marxism, and liberalism as all having failed, as had the civilizations of the Classical and Medieval eras.[25] Neither is an entire answer to be found in a religious, scientific or a political system alone. There must be a holistic approach.

The break-up of Western civilization is due to the failure of ideologies, to the insufficiency both of religion and science. If life is to triumph, we need a revolution. We must reexamine every question and make an act of faith in the power of the human spirit. Our destiny demands this great effort; we ought to devote all our time to the effort of living since this is the whole purpose of our being on earth.

All men who are determined to make a success of living in the widest sense should join together as they have done in all times. Pythagoras made the first attempt, but it is the Catholic Church which has hitherto offered the most complete of such associations. We must give up the illusion that we can live according to instinct, like the bees. True, the success of life demands, above all, an effort of intelligence and will. Since intelligence has not replaced instinct we must try to render it capable of directing life.[26]

Carrel reconciles religious faith and metaphysics with science and natural law. Hence the Christian foundations of Carrel’s organic society are reiterated. He states that the reasons the “white races” have failed despite “their Christianity” is because the Christian ethos has not been sufficiently applied in practical terms to the questions presented by science. Carrel ends optimistically however in stating that unlike prior civilizations, this Civilization has the means of diagnosing its ills and therefore has the opportunity of halting the cycle of decay.

For the first time in the history of the world, a civilization which has arrived at the verge of its decline is able to diagnose its ills. Perhaps it will be able to use this knowledge and, thanks to the marvelous forces of science, to avoid the common fate of all the great peoples of the past. We ought to launch ourselves on this new path from this very moment. . . .

Before those who perfectly perform their task as men, the road of truth lies always open. On this royal road, the poor as well as the rich, the weak as well as the strong, believer and unbeliever alike are invited to advance. If they accept this invitation, they are sure of accomplishing their destiny, of participating in the sublime work of evolution, of hastening the coming of the Kingdom of God on earth. And, over and above, they will attain all the happiness compatible with our human condition.[27]

Post-Mortem Vilification

Carrel was spared the indignities of the democratic post-war era, and although he was cleared of being a “collaborationist” his doctrine of human ascent with its intrinsic opposition to liberalism, Marxism, capitalism, and rationalism, has made him the subject of smears in more recent years. The renewed “interest” was prompted in 1997 when Front National leader Jean-Marie Le Pen suggested that Carrel was the founder of ecology, which resulted in a mean-spirited campaign to get streets named after Carrel changed.[28] In 1998 a Left-wing petition was circulated to get the name of rue Alexis-Carrel in Paris changed, with the media quipping about Carrel’s supposed advocacy of brutal “Nazi-style” eugenics measures, and his so-called “dubious role” in wartime France. Hence Ben MacIntyre, journalist, for some reason felt himself qualified to remark that Carrel’s best-seller, Man the Unknown, was “pseudo-science,” one of Carrel’s most callous recommendations apparently having been to advocate the humane execution of the criminally insane.[29]

While it is something of a cliché when writing a tribute to a perhaps long forgotten individual of seemingly prophetic vision, to state that the subject had a message more relevant now than in his own time, this surely is in a myriad of ways a claim that can legitimately be made for Alexis Carrel. The many symptoms of decay he noted in his own time, from the artificiality of industrial life to the chemical adulteration of food, the standardization of life, and the rising rates of abortion are now with Western Civilization in a phase that is acute. [30]

Notes

1. Alexis Carrel, Reflections on Life. The book in its entirety has been published online: http://chestofbooks.com/society/metaphysics/Reflections-O...

2. Reflections on Life, “Preface.”

3. Reflections on Life.

4. Reflections on Life, ch. 1.

5. Reflections on Life, ch. 1.

6. Reflections on Life, ch. 1.

7. Reflections on Life, ch. 1.

8. Reflections on Life, ch. 3:6.

9. Reflections on Life, ch. 3:6.

10. Reflections on Life, ch. 3:6.

11. Reflections on Life, ch. 3:6.

12. Reflections on Life, ch. 4:3.

13. Reflections on Life, ch. 5: 2.

14. Reflections on Life, ch. 5: 3.

15. Reflections on Life, ch. 5: 8.

16. Reflections on Life, ch. 5: 4.

17. Law of August 27, 1940.

18. Law of April 17, 1941.

19. Laws of July 8, 1941, and August 25, 1941.

20. Reflections on Life, ch. 6: 10.

21. Reflections on Life, ch. 6: 10.

22. Reflections on Life, ch. 9: 3.

23. Reflections on Life, ch. 9: 3.

24. Other corporate states directly inspired by Catholic social doctrine included Salazar’s Portugal, Franquist Spain and the Austria of Dollfuss.

25. Reflections on Life, ch. 9: 2.

26. Reflections on Life, ch. 9: 2.

27. Reflections on Life, ch. 9: 3.

28. David Zen Mairowitz, “Fascism a la Monde,” Harper’s, October 1997.

29. Ben MacIntyre, “Paris Left wants eugenics advocate taken off street,” The Times, January 6, 1998.

jeudi, 25 novembre 2010

Jean Parvulesco nei cieli

Jean Parvulesco nei cieli

Ex: http://centrostudinadir.org/

 

Jean Parvulesco nacque in Valachia, Romania, nel 1929.
Nel 1948, non ancora ventenne, questo grande ammiratore di Codreanu sfuggì il comunismo attraversando il Danubio a nuoto. Fu catturato in Jugolsavia dove rimase prigioniero per due anni in un campo di lavoro prima di raggiungere Parigi nel 1950.
Si legò ad alcune componenti golliste ma sostenne l’Oas e collaborò con la Nouvelle Droite del Grece. Amico di Raymond Abélio, di Aurora Cornu, di Louis Powell, questo guenoniano che conobbe Ava Gardner, Carole Bouquet e tante altre belle donne, dialogò con  Martin Heidegger, Ezra Pound, Julius Evola e fu amico di cuore di Guido Giannettini.
Giornalista, politico, metafisico, mistico, Parvulesco ha lasciato un’impressionante mole di romanzi intrisi di mistero – esistenziale ma anche cosmico e simbolico – i cui personaggi oscillano tra il meraviglioso e l’autobiografico.
Tanto che fu notato e ammirato da registi francesi di primo piano quali  Eric Rohmer, Jean-Luc Godard o Barbet Schroeder. In “A bout de souffle” Goddard fece impersonare il vero Parvulesco dall’attore Jean-Pierre Melville.
Per l’occasione, Parvulesco, alla domanda su quali fossero le sue ambizioni, replicò: “diventare immortale e poi morire”.
Nell’ultima uscita pubblica, in studio televisivo lo scorso giugno,  ostentò invece uno straordinario silenzio.
Era evidentemente pronto all’ultimo passaggio e all’immortalità e decise di lasciarci il segnale più rumoroso e incisivo: il silenzio appunto.
Nel suo ultimo libro, Un retour en Colchide, appena pubblicato dalla Guy Trédaniel, scrisse  “non siamo noi che decidiamo l’ora. Io faccio quel che posso ma non so se sarò presto costretto ad abdicare. D’altronde ho l’impressione che il momento della fine stia sopraggiungendo”.
E’ asceso ai cieli la sera di domenica  nella sua Parigi.

Gabriele Adinolfi

mercredi, 24 novembre 2010

Jean Parvulesco ou la conspiration permanente - In memoriam Jean Parvulesco

Christopher Gérard - http://archaion.hautetfort.com/

Jean Parvulesco ou la conspiration permanente

In memoriam Jean Parvulesco 

Vous allez nous manquer, vieux conspirateur!

Sit tibi terra levis

 "Notre solitude est la solitude des ténèbres finales"

 

JPmanteau.jpgNous retrouvant il y a peu dans son pigeonnier du XVIème, un spritz à la main, nous refaisons l'Empire, et le voici qui s'exclame: "je suis un conjuré depuis… 1945". Tout est dit de cet écrivain énigmatique (près de quarante volumes publiés, et toujours clandestin comme en 62) qui, livre après livre, creuse le même sillon pourpre, celui du gaullisme de la Forêt Noire, un gaullisme mâtiné de tantrisme et de géopolitique eurasienne. L'homme a connu Heidegger et Pound; il a fréquenté l'amiral Dönitz (après le 8 mai 45, semble-t-il) et Maurice Ronet; il a été l'ami et le confident d'Abellio et du regretté Dominique de Roux. Godard l'a fait apparaître dans A bout de souffle sous les traits de Melville, Rohmer lui a donné un rôle dans L'arbre, le maire et la médiathèque. De son perchoir, le Prêtre Jean reste en contact avec les activistes des profondeurs, de Moscou à Buenos Aires. Mieux, il suit à la trace les écrivains secrets d'aujourd'hui, la fine fleur de l'underground: Dupré, d'Urance, Mata, Bordes, Novac, Mourlet, Marmin et quelques autres rôdeurs.

Deux livres imposants marquent son retour sur la scène, un roman, Un Retour en Colchide, et un recueil d'essais, La Confirmation boréale. Deux aérolithes que nous devons au courage d'éditeurs qu'il convient de saluer. La démarche de Jean Parvulesco peut se définir comme suit: irrationalité dogmatique. Roman de cape et d'épée, journal intime, programme d'action révolutionnaire: le Prêtre Jean mêle le tout pour révéler ses intuitions et poursuive le combat contre "le gouffre noir de l'aliénation ". Comprenne qui devra.

Que faire des sept cents cinquante pages qu'il lance parmi nous comme des grenades à l'assaut? En parler? Difficile, même si Michel d'Urance nous propose une pénétrante préface au Retour en Colchide. Les lire en sirotant un pur malt. Retrouver Vladimir Dimitrijevic et le "sous-sol conspiratif de la rue Férou" en rêvant à la revanche de Nicolas II. Se rendre compte à quel point L'Age d'Homme est une oasis dans un milieu éditorial où toute œuvre non subalterne est impitoyablement neutralisée. Comprendre le message subversif de L'Anglaise et le Duc, de L'Astrée, précieux chefs d'œuvre de son ami Eric Rohmer. Imaginer la résurgence du bloc continental et l'avènement de l'impensable. Repérer les arrière-pensées des théoriciens du meurtre du père. Divaguer sur la conversion du monde orthodoxe à un catholicisme hyperboréen. Oser dire que l'Islam, en tout cas dans sa version exotérique, constitue "le danger absolu, le danger de l'extinction finale de tout ce qui a fait et fait encore l'Histoire européenne du monde, depuis Rome jusqu'à nos jours". Rome, justement, celle que Parvulesco arpentait la nuit après ses visites à Julius Evola. Mémoriser quelques citations, dont celle-ci, de H. Carossa: "cacher et conserver, c'est aux sombres époques le seul office sacré". Invoquer l'Archange Michel, vainqueur des ténèbres, afin qu'il nous guide sur le sentier de l'Etre, le "sentier aryen".

Allez, le missile est tiré.

 

Christopher Gérard

 

Jean Parvulesco, La Confirmation boréale. Investigations, Alexipharmaque, 396 p., 27 euros. Et Un Retour en Colchide, Trédaniel, 356 p., 23 euros.

 

Qui était donc Jean Parvulesco?

Etrange et attachant personnage que cet écrivain mythiquement né à Lisieux en 1929, compatriote d'Eliade, ami d'Abellio (voir son essai Le Soleil rouge de Raymond Abellio, Ed. Trédaniel) comme de Dominique de Roux, lecteur de Bloy, Meyrink, Lovecraft. De Jean Parvulesco un expert en clandestinité tel que Guy Dupré a pu écrire qu’il témoignait de "l'entrée du tantrisme en littérature". Et en effet, chacun des romans de Jean Parvulesco peut aussi être lu comme un rituel de haute magie. C'est dire si l'œuvre reste dans l'ombre, d'autant que son auteur ne mâche pas ses mots sur notre présente déréliction. A ses vaticinations qui prédisent sans trembler un cataclysme purificateur Parvulesco ajoute des visions géopolitiques d'une troublante acuité. Avec une habileté démoniaque, l'écrivain passe d'un registre à l'autre, tantôt aux lisières du burlesque (camouflage?), tantôt prophétique - et toujours servi par une écriture hypnagogique.

050-LES-BLAH_i.jpgEternel conjuré, Jean Parvulesco est surtout un infatigable travailleur: il signe aujourd'hui son dixième roman depuis 1978, parmi lesquels le mythique Les Mystères de la Villa Atlantis (L'Age d'Homme), qui, avec tous les autres, forme une somme où l'ésotérisme et l'érotisme se mêlent au Grand Jeu. Fidèle au mot de son ami de Roux, Parvulesco aura appliqué Nerval en politique …et vice versa. L'homme a survécu aux camps de travail staliniens, s'est évadé d'une geôle titiste, a traîné ses bottes dans les décombres de Vienne, avant de suivre les cours de Jean Wahl à la Sorbonne, d'approcher Heidegger, Evola et Pound.

Jean Parvulesco ou la littérature de l'extrême.

Ses deux récents livres, publiés par Alexipharmaque, l'étonnante maison d'Arnaud Bordes, illustrent bien les obsessions de cet auteur qui incarne une tradition mystique et combattante. Le Sentier perdu nous fait rencontrer Ava Gardner et Dominique de Roux, tout en évoquant (invoquant?) Thérèse de Lisieux ou Leni Riefenstahl. Tout Parvulesco se retrouve dans ces couples improbables. Est-ce un journal, un essai sur le gaullisme révolutionnaire, un roman chiffré, un programme d'action métapolitique? Le sujet: la fin d'un monde en proie à la grande dissolution dans l'attente d'un embrasement cosmique. Une spirale prophétique, pour citer l'un de ses essais. Dans la Forêt de Fontainebleau se présente lui (faussement) comme un roman stratégico-métaphysique sur le rôle messianique de la France, clef de voûte du bloc continental, et du catholicisme comme unique voie de salut. J'ignore ce que pensent les évêques de ce catholicisme mâtiné de tantrisme et de tir au Beretta, mais après tout qu'importe. Enfin, Parvulesco actualise le mythe du Grand Monarque, en l'occurrence Louis XVI, miraculeusement sauvé du néant par une conspiration d'élus. Rites érotiques et meurtres rituels, cisterciens et barbouzes, Versailles et le Vaucluse: pas un temps mort dans ce roman sans pareil!

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mardi, 23 novembre 2010

Derniers livres de Jean Parvulesco

Derniers livres de Jean Parvulesco: le roman fantastique "Un retour en Colchide» et le volume des enquêtes géopolitique "La confirmation boréale"

Ex: http://roncea.ro/

Ganditorul roman de geniu Jean Parvulesco a murit la Paris, la varsta de 81 de ani. Acestea sunt ultimele sale carti, publicate in 2010:

La confirmation boréale – volum aparut pe 08.01.2010

Tendintele actuale ale conspiratiei mondialiste comanda efectelor circumstantiale ale istoriei vizibile. Ai nostri, cei care suntem dincolo de “Europa ca mister”, noi comandam cauzelor, pentru ca sunt cauzele cele care ne comanda, in mod direct. Cauzele invizibile, abisale, escatologice si providentiale, “cauzele primare”. Terorii ratiunii democratice totalitare, noi opunem linia de front a irationalitatii dogmatice a istoriei insasi.

Un retour en Colchide – aparut pe 10.10.2010

Prophétique et activiste, l’oeuvre romanesque de Jean Parvulesco est le vecteur d’un engagement personnel total contre le ” mystère d’iniquité ” et pour l’avènement de l’être sur les décombres apocalyptiques de l’Histoire.
Jusqu’à présent, tous ses romans auront été comme autant de modalités de ce combat final, comme autant de dévoilements de son enjeu mystique. Mais avec Un retour en Colchide, Jean Parvulesco procède à un fantastique retournement de perspective : ce n’est plus dans le monde réel, ou prétendument tel, que tout se joue, mais dans celui des essences pures et de leurs épiphanies, cette Colchide idéale dont l’auteur, troquant la plume du romancier ” noir ” pour le calame du chroniqueur ” blanc “, invente et inventorie ici les voies d’accès, les passes (et aussi les impasses).

Celles-ci ne laissent pas d’être extrêmement singulières (et dangereuses), puisque c’est dans les songes qu’elles se trouvent offertes au noble voyageur. Roman ou chronique, peu importe d’ailleurs puisque le monde des songes est le vrai monde, celui où les puissances infernales tombent le masque et où la Vierge, sous les espèces les plus délicates et les plus inattendues, montre le chemin de son doigt consolateur.

N’hésitons pas à le dire, Un retour en Colchide inaugure un nouveau cycle de la grande littérature occidentale, comme l’Odyssée avait inauguré celui que Jean Parvulesco a lui-même liquidé avec Dans la forés de Fontainebleau. Roman d’extrême avant-garde, donc, qui rompt avec toutes les formes avérées du genre en faveur d’une multiplicité de possibles (dont celui d’une littérature kamikaze). Car les décombres de l’Histoire sont évidemment aussi ceux du roman même, du roman qui a oublié l’être, c’est-à-dire, en fin de compte et tout bien pesé, à peu près tout ce que la littérature de fiction a produit depuis Chrétien de Troyes.
On aura compris qu’avec Un retour en Colchide, Jean Parvulesco ne s’adresse pas aux esprits paresseux et frileux, mais à tous ceux que grisent le vin blanc de l’Antarctique et les grands vents de la bonne aventure. Ceux-là ne seront pas déçus ! Ils verront des corbeaux en veille aux frontières polaires de la Jérusalem céleste, ils franchiront le Dniepr avec Nicolas II dans toute sa gloire, ils liront des dépêches d’agences delphiques, ils rencontreront des putains célestes, Vladimir Poutine et Robert Bresson.
Et une fois la dernière page lue, ils ne pourront résister au désir de revenir à la première et de recommencer.

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Jean Parvulesco a rejoint la Terre du Milieu

Jean Parvulesco a rejoint la Terre du Milieu

anrdh87s.jpgDans son Ouverture de la Chasse publiée en 1968, Dominique de Roux évoque la spécificité géopolitique et eschatologique de la Roumanie en ces termes : "Comme le Tibet, la Roumanie est un pays circulaire, un pays central - une Fondation du Milieu - qui tourne catastrophiquement sur lui-même, de gauche à droite dans ses périodes amères ou fastueuses, de droite à gauche dans les Temps de ses ordalies. Evidemment, les notions eidétiques de gauche, de droite, se trouvent utilisées, là, dans leur sens le plus intérieur, le plus interdit". Et puis, plus loin : "Bucarest c'est l'Assomption de l'Europe comme le dirait Raymond Abellio, une latinité antérieure, innocente ou peut-être pure, dans ses profondeurs interdites, et choisir l'Europe n'est-ce pas choisir cette plus grande latinité".
Après avoir évoqué les grandes lignes de la dynamique de la Tradition, je consacrai la seconde partie de ma conférence donnée le 14 octobre dernier au Doux Raisin sur "l'Esotérisme Révolutionnaire" à l'indication de voies de salut pour ré-orienter soi-même et le monde. Parmi ces voies possibles, j'évoquai l'Empire Eurasiatique de la Fin cher à Jean Parvulesco, ce Roumain du néolithique. Au-delà de ses engagements politiques, centrés sur la volonté de construction d'un pôle carolingien franco-allemand, Parvulesco savait qu'ils se devaient d'être accompagnés d'une nouvelle religion dont un des prophètes était Saint Maximilien Kolbe. Il voulait s'opposer à la conspiration mondiale contre la Vierge, en renouant avec l'orthodoxie russe et en intégrant le shintoïsme minéral à l'Europe johannique intérieure : Jean Parvulesco brûlait du désir de voir un jour la statue de la Vierge au Kremlin, et il se mettait à genoux devant la très sainte figure d'Amaterasu qu'il assimilait à Marie. Il savait que le Graal se trouve dans une des grottes du Fujiyama.
Je l'avais eu au téléphone ce 14 octobre, quelques minutes avant ma conférence : il était excessivement essouflé, et sa voix avait un son rauque et spectral. Il m'avait dit avant de raccrocher : "Je suis couché, je ne peux plus me relever". Avant-hier, alors que je discutai de son oeuvre avec Pierre Hillard à Toulon, j'ai réellement senti une aile de corbeau m'assombrir le visage. Je ne sais pas si Jean Parvulesco lisait Edgar Poe.
 
 Trop tard, on arrive toujours trop tard, tout arrive toujours trop tard.
 
 La personne de Parvulesco était idéalement modelée par Dieu pour servir de phare à une génération assoiffée, la nôtre. Mais nous sommes trop jeunes pour avoir côtoyé Eustache, Parvulesco et Pasolini, et nous sommes trop vieux pour nous trouver d'autres maîtres.

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Le décès de Jean Parvulesco

Le décès de Jean Parvulesco

L’écrivain Jean Parvulesco, né en Roumanie en 1929, est décédé le dimanche 21 novembre à l’âge de 81 ans.

984949610.jpg« Devenir immortel… et puis mourir ». C’était la grande ambition que lui confiait Jean-Luc Godard dans À bout de souffle, qui lui prêtait les traits de Jean-Pierre Melville. L’écrivain d’origine roumaine, Jean Parvulesco s’est éteint le 21 novembre à l’âge de 81 ans. Entre littérature, cinéma, et engagement politique, sa trajectoire artistique se distingue par sa singularité. Il n’a pas 20 ans lorsqu’il fuit le régime communiste de son pays et réussit à rejoindre Paris. Il y fréquente différents milieux artistiques, dont celui de la Nouvelle Vague. Son personnage apparaît dans À bout de souffle, et il a un petit rôle dans un film d’Éric Rohmer. En politique, Parvulesco est proche de la Nouvelle Droite, lié à certains gaullistes, ainsi qu’à l’Organisation de l’Armée secrète (OAS). Il commence à écrire dans les années 1960 et entame une carrière de journaliste. De nombreux articles sont publiés notamment dans le quotidien Combat. Son entrée en littérature ne s’effectue qu’à la fin des années 1970. Le recueils de poèmes, Traité de la chasse au faucon (L'Herne, 1978), est très remarqué. Une dizaine d’essais et une trentaine de romans, dont La servante portugaise (éd. L’âge d’homme), suivront. Un retour en Colchide, son dernier roman, est paru en 2010 chez Guy Trédaniel.

Jean Parvulesco est mort...

Jean Parvulesco est mort...

JeanParvulesco_Paris2000-217x300.jpgJean Parvulesco est né en Roumanie (Valachie) en 1929 et vient de mourir à Paris le soir du dimanche 21 novembre 2010. De la Nouvelle Vague à la littérature, sa vie très singulière a représenté une trajectoire personnelle à la fois solitaire et engagée collectivement.

 

Avant l’âge de 20 ans, vers 1948, il décide de fuir le régime communiste et traverse le Danube à la nage. Il est emprisonné dans des camps politiques de travaux forcés en Yougoslavie et parvient à rejoindre finalement Paris, en 1950, qu’il ne quittera presque plus. Il suit les séminaires de Jean Wahl à la Sorbonne puis fréquente les milieux les plus divers, dans une pauvreté contre laquelle il se débattu toute son existence.

 

Débute alors ce destin étrange et riche, où se mêleront l’écriture et l’action, et de nombreuses rencontres avec des cinéastes, des écrivains, des activistes, et des personnalités de zones différentes de l’échiquier politique. Proche de certains milieux de la Nouvelle Droite, il fut également lié à certains gaullistes, mais aussi à l’OAS, chiraquien atypique, apologiste du traditionalisme de René Guénon, influença le politologue russe Alexandre Douguine… Personnalité indépendante, il fut ami avec Raymond Abellio, Aurora Cornu, avec Louis Pauwels, discuta avec Martin Heidegger, Ezra Pound, Julius Evola… et connut Ava Gardner, Carole Bouquet et bien d’autres. Journaliste, il commence à écrire dans les années 60 et jusqu’à sa mort en passant de Combat à Pariscope, de Nouvelle Ecole à l’Athenaeum, de Rébellionà la Place royale ou Matulu : La tendance politique, l’objet ou la diffusion d’un média ne le préoccupait jamais. Pour lui, seul comptait ce qu’il appelait la littérature, l’acte de dire par le texte, véritable « expérience de la clandestinité».

 

Il mena cette expérience jusqu’à des retranchements personnels toujours mystérieux, où l’écrivain ne se distinguait plus vraiment du personnage, et le personnage de l’homme lui-même. Ce caractère unique, cet esprit qui semblait au-delà de toutes les difficultés du quotidien, à la vitalité exceptionnelle, à la culture secrète et souvent magnifique, lui valut d’être remarqué et apprécié par Eric Rohmer, Jean-Luc Godard ou Barbet Schroeder. Dans A bout de souffle, Jean-Luc Godard fait interpréter par Jean-Pierre Melville le rôle de Parvulesco (voir notre vidéo ci-dessous), qui aura cette réplique restée célèbre à une question sur son « ambition dans la vie » : « Devenir immortel… et puis mourir ». Dans L’Arbre, le maire et la médiathèque d’Eric Rohmer, il joue le rôle de « Jean Walter », proche de celui qu’il était en vrai, au côté d’Arielle Dombasle et de François-Marie Banier.

 

Au-delà de cette présence au cinéma, l’œuvre qui restera est son œuvre littéraire. Il commence à écrire des livres vers 50 ans, avec notamment leTraité de la chasse au faucon (L’Herne, 1978), recueil de poèmes remarqué, et un premier roman, La servante portugaise (L’Age d’Homme, 1987), publié récemment en Russie. Une trentaine de romans et une dizaine d’essais composent son œuvre. Deux éditeurs jouèrent un rôle primordial dans la publication de celle-ci : Guy Trédaniel et Vladimir Dimitrijevic. Sa façon d’écrire, rejetée ou adulée, intéressa fortement des personnalités comme Guy Dupré, pour qui elle constitue « l’entrée du tantrisme en littérature », Dominique de Roux, Michel Mourlet, Michel Marmin, Jean-Pierre Deloux ou Olivier Germain-Thomas (qui lui consacra une émission « Océaniques » sur FR3 en 1988).

 

Le 8 juin 2010, il est invité sur le plateau de l’émission « Ce soir (ou jamais!) » par Frédéric Taddéï sur France 3. Auprès de Dominique de Villepin, de Marek Halter ou Philippe Corcuff, il restera étonnamment silencieux. Son dernier livre, Un retour en Colchide, vient de paraître chez Guy Trédaniel. Il y notait, à sa façon, que « ce n’est pas nous qui décidons de l’heure. Moi, par exemple, je fais tout ce que je peux faire, mais je ne sais pas s’il ne faudra pas que je sois obligé d’abdiquer. D’ailleurs, j’ai l’impression que le moment de la fin arrive ».

 

 

Source Mécanopolis

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samedi, 16 octobre 2010

Maurice Allais

Maurice Allais

ex: http://www.telegraph.co.uk/ 

Maurice Allais, who died on October 9 aged 99, was a Nobel Prize winner who warned against "casino" stockmarket practices that eventually precipitated the current global financial crisis; he also claimed to have disproved Einstein's General Theory of Relativity.

 
Photo: AFP/GETTY

In the 1990s he delighted eurosceptics by his opposition, almost unique among French economists, to the single European currency; europhobes were less enthused when he revealed that he was against it because the currency's introduction should have been preceded by wholesale European political union.

He had won his Nobel for Economics in 1988. But he might also have been a candidate for the award in Physics, a discipline in which he was best known for his discovery that Earth's gravitational pull appears to increase during a solar eclipse.

Fluctuations have since been measured during 20 or so total solar eclipses, but the results remain inconclusive, and the "Allais effect", as it is known, continues to confound scientists. Allais himself had little doubt that the effect indicated a flaw in Einstein's theory of relativity. Indeed, he had little time for Einstein who, he claimed, had plagiarised the work of earlier scientists such as Lorentz and Poincaré in his 1905 papers on special relativity and E=mc2.

As an economist, Allais had reason to complain that others had been given credit that was his due. In his first major work, A la Recherche d'une Discipline Economique (1943), he proved mathematically that an efficient market could be achieved through a system of equilibrium pricing (when prices create a balance in demand with what can be supplied).

It proved vital in guiding the investment and pricing decisions made by younger economists working for the state-owned monopolies that proliferated in Western Europe after the Second World War – and for the authorities regulating private sector monopolies in an age of denationalisation.

He was awarded the Nobel for his "pioneering contributions to the theory of markets and efficient utilisation of resources", but the award was late in coming. His work has been compared favourably with that carried out at the same time or later by the American Paul Samuelson and the British economist John Hicks, both of whom won Nobel Prizes in the 1970s. Allais's work also served as a basis for the analysis of markets and social efficiency carried out by one of his former pupils, Gerard Debreu, who won the Nobel Economics Prize in 1983 after he became an American citizen, and Kenneth Arrow, who won the prize in 1972.

The main reason why Allais was overlooked for so long appears to be that he did not publish in English until late in his career and as a result did not gain the international recognition that was his due. Paul Samuelson felt that, had Allais's early works been in English, "a generation of economic theory would have taken a different course".

The son of a cheese shop owner, Maurice Allais was born in Paris on May 11 1911. After his father died in captivity during the First World War, he was raised by his mother in reduced circumstances.

A brilliant student at the Lycée Louis-le-Grand, Allais trained as an engineer at the Ecole Polytechnique and worked for several years as a mining engineer. He turned to economics after being appalled by the suffering he saw during a visit to the United States during the Great Depression. He taught himself the subject and soon began to teach it at the Ecole Nationale Supérieure des Mines de Paris, introducing a mathematical rigour into the French discipline, which at that time was mostly non-quantitative.

Allais's most important contributions to economic theory were formulated during the Second World War, when French academics, working under German occupation, were largely cut off from the outside world.

John Hicks, one of the first Allied economists in Paris after the liberation, recalled making his way to an attic where, once his eyes had adjusted to the dark, he could see a group with miners' lamps on their heads listening to a lecturer at a board. The lecturer was Allais, and he was talking about whether the interest rate should be zero per cent in a no-growth economy. This foreshadowed his second major publication, Economie et Intérêt (1947), a massive work on capital and interest which has formed the basis for the so-called "golden rule of accumulation". This states that to maximise real income, the optimum rate of interest should equal the growth rate of the economy.

Allais's book also included the suggestion that in stimulating an economy it is helpful to use a simple model consisting of two generations, young and old. At each step, the old generation dies, the young generation grows old, and a new young generation appears. The model, now known as the overlapping generations model, got little attention at the time, but more than a decade later Paul Samuelson introduced the same idea independently.

Allais's work had more than theoretical importance. When France rebuilt its economy on a combination of state dirigisme and market economics, Allais provided the theoretical framework needed to allow planners to resist the short-termism of politicians and set optimum pricing and investment strategies.

During the 1950s he pioneered a new approach when, in examining how people respond to economic stimuli, he asked a group to choose among certain gambles, and then examined their decisions. He discovered that the subjects acted in ways that were inconsistent with the standard theory of utility, which predicts that people will behave as rational economic beings. As a result he created the "Allais Paradox", an equation that predicts responses to risk.

Allais, who served as director of research at the National French Research Council, remained active and independent-minded until well into his eighties. Shortly before the stock market crash of 1987 he wrote a paper warning that the situation presented "three fundamental analogies with that which preceded the Great Depression of 1929-1934: a great development of promises to pay, frenetic speculation, and a resulting potential instability in credit mechanisms, that is, financing long-term investments with short-term deposits."

In 1989 he warned that Wall Street had become a "veritable casino", with loose credit practices, insufficient margin requirements and computerised trading on a non-stop world market – all contributing to a dangerously volatile financial climate.

In a recent article he argued that a "rational protectionism between countries with very different living standards is not only justified but absolutely necessary".

Allais was a prolific writer, both in the length of his pieces (his books typically ran to 800 or 900 pages) and in the variety of subjects he addressed. As well as works on economic theory and physics, he also wrote books on history.

Maurice Allais was appointed an officer of the Légion d'honneur in 1977 and grand officer in 2005. He was promoted to Grand Cross of the Légion d'honneur earlier this year.

His wife, Jacqueline, died in 2003, and he is survived by their daughter.