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dimanche, 31 mai 2009

Passaggi al Bosco - E. Jünger nell'era dei Titani

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L. Bonesio, C. Resta,

PASSAGGI AL BOSCO.
Ernst Jünger nell’era dei Titani

ed. Mimesis, 2000

 

Ernst Jünger- Il tesserino militare da volontario della Ia Guerra Mondiale

 

Ex: http://www.maschiselvatici.it/

Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne sull’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia.

Ernst Jünger

«Jünger è stato se stesso e costituisce categoria umana a sé, come per tutti gli uomini sarebbe doveroso»[i]. Queste parole pronunciate da Quirino Principe alla scomparsa dell’autore tedesco, avvenuta il 17 febbraio del 1998 alla soglia dei 103 anni, mentre infuriavano i goffi tentativi di inserire il suo pensiero, le sue opere e scelte di vita in questo o quell’orientamento filosofico o politico, rappresentano, forse, l’unica descrizione possibile di una figura gigantesca come quella di Jünger. Scrittore, filosofo, poeta, guerriero, ma anche entomologo: il suo orgoglio più grande era quello di aver dato il proprio nome ad una famiglia di insetti. Uomo di pensiero aristocratico e d’azione, Ernst Jünger è oggi - dopo decenni di colpevole silenzio e di censure dovute alla mediocrità disinformata di alcuni e alla malafede di altri - una delle figure intellettuali europee più discusse e controverse. Mentre le sue opere vengono finalmente pubblicate da grandi case editrici, nel panorama degli studi critici italiani spicca, per completezza e profondità di analisi, il bellissimo libro di Luisa Bonesio e Caterina Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, ed. Mimesis. Si tratta di un volume che ripercorre rigorosamente l’intera opera del pensatore tedesco, dalla sua formazione sui campi di battaglia della prima Guerra Mondiale alle speculazioni dell’ultimo Jünger ritirato a Wilflingen, il villaggio della Svevia superiore, ignorato persino da molte carte geografiche e circondato da un meraviglioso paesaggio di boschi e prati, in cui lo scrittore tedesco trascorse l’ultima parte della sua vita avventurosa. Una vita lunga, piena, attiva e contemplativa assieme, che ha registrato la presenza di Jünger in eventi storici decisivi. Parafrasando il titolo di un saggio di Moreno Marchi dedicato ad alcuni scrittori francesi, anche di Jünger si può senz’altro affermare che ha vissuto con il sangue e con l’inchiostro. Lasciandoci in eredità se stesso, la sua esemplare statura, le sue qualità di uomo libero, prima e oltre la sua ricchissima produzione letteraria. Costringendoci inoltre - magnifico dono - a fare i conti in qualche modo con la sua persona, con il suo pensiero. Non è possibile prescindere da Ernst Jünger, infatti, se si desidera affrontare responsabilmente questioni cruciali del nostro tempo, come la tecnica, il nichilismo, la libertà, l’identità, l’organizzazione politica degli spazi planetari.
Egli ha attraversato tutto il Novecento divenendone uno dei suoi più lucidi testimoni. E’ riuscito a cogliere l’essenza profonda dei processi che segnano la modernità; e ciò non in virtù di uno sguardo intellettualistico (o cartesiano), bensì grazie alla sua straordinaria e misteriosa sensibilità stereoscopica che gli ha consentito di cogliere «le cose nella loro corporeità più segreta e più immobile»
[ii]. Non a caso, il nazionalbolscevico Ernst Niekisch coniò per Jünger la bellissima definizione di sismografo per sottolinearne le capacità di comprensione finanche dei più piccoli e “sotterranei” segnali del tempo. Capacità non disgiunte da un’indiscutibile e profetica veggenza, quasi come se Jünger disponesse di particolari ed invisibili antenne, non troppo dissimili da quelle dei suoi amatissimi insetti.
Benché l’eccezionale ricchezza dell’opera e della vita di Ernst Jünger renda praticamente infiniti gli argomenti da esaminare e gli spunti di riflessione da approfondire, questa raccolta di saggi di Luisa Bonesio e Caterina Resta rappresenta, sicuramente, la più riuscita esplorazione della totalità del pensiero jüngeriano, nei suoi nuclei teorici fondamentali, che sia mai stata pubblicata in Italia. Un libro indispensabile, dunque, per chi già conosce ed apprezza lo scrittore tedesco; ed un libro che, pur essendo molto più di una semplice “introduzione” all’opera di Jünger, per l’obiettività inconsueta ed immune dal vergognoso “brigantaggio politico” che molto spesso ha contraddistinto l’approccio al pensiero jüngeriano, è utilissimo anche per chi poco conosce di questo autore di riflessioni attualissime. Egli appartiene a quella schiera di uomini che si plasmarono nelle trincee della prima Guerra Mondiale e la cui vita fu segnata in modo indelebile da quei tragici avvenimenti[iii]. Ferito quattordici volte, si vide attribuire la croce Pour le mérite, il più importante riconoscimento dell’esercito tedesco. E fu proprio la guerra, l’esperienza fondamentale del giovane Jünger e il fattore stimolante delle sue prime speculazioni. Jünger riconobbe subito il travestimento moderno del fenomeno bellico nella guerra di materiali (Materialschlacht). «Il genio della guerra si è congiunto con il genio del progresso»[iv]: così la battaglia tradizionale evolve in una specie di combattimento in cui uomini e macchine sembrano affratellati. E’ la fine dei valori eroici tradizionali. L’assalto dei giovani volontari tedeschi, molti dei quali Wandervögel, presso Langemarck il 10 novembre 1914, è spesso ricordato da Jünger come un evento emblematico: l’entusiasmo e l’idealismo romantico delle migliori leve di una generazione si scontrarono con il fuoco delle artiglierie nemiche; e non ci fu nulla da fare. Eppure il capitano Jünger non reagisce alla guerra moderna cantando le virtù di quella antica, bensì scorge la grandezza dell’uomo, del guerriero che diventa tecnico, anche nelle tempeste d’acciaio. E, soprattutto, si rende presto conto della grande svolta che l’Occidente sta vivendo.
Lo sviluppo tecnologico, che ha modificato i sistemi di combattimento, sconvolge la vita anche in tempo di pace. La mobilitazione totale (nel suo duplice aspetto, tecnico e spirituale) si impone nel mondo del lavoro che assume dunque un carattere totale. Con incredibile chiarezza Jünger intravede, tra le due guerre mondiali, l’avvento della figura dell’Operaio o Lavoratore (Der Arbeiter), il «milite del lavoro»
[v] che mobilita il mondo con la tecnica. Non si tratta di una grandezza economica, come vorrebbero liberalismo e marxismo, bensì di un tipo d’uomo che si riconnette ai requisiti dell’epoca attuale. Una figura metafisica che sconvolge l’in-forme mondo del dominio (apparente) borghese. Quest’ultimo, assieme alle categorie concettuali del razionalismo cartesiano, è il bersaglio polemico di tutta l’opera dell’autore tedesco. Posto che anche il “borghese”, per Jünger, non è il rappresentante di una classe sociale ma il tipo d’uomo che nega ogni valore metafisico ed il modello di vita che, fondandosi sul bisogno infantile di sicurezza, rimuove le forze elementari della natura. Secondo Jünger, la figura dell’Operaio è destinata a sostituire l’individuo borghese, sorto dall’Illuminismo e slegato da ogni appartenenza, il cui tempo è tramontato. Il primo conflitto mondiale segna proprio la fine del “tempo dell’io individuale” (Ichzeit) e l’inizio “del tempo del noi collettivo” (Wirzeit). Lo spazio del lavoro non conosce più confini e l’azione dell’homo technicus è la sua spinta unificatrice. Come osserva Resta, ben prima dell’invenzione di internet lo scrittore europeo comprese perfettamente il modo reticolare con cui la tecnologia impone il suo dominio.
Tuttavia, se negli anni Trenta Jünger ha ancora fiducia nelle capacità del Lavoratore di dominare le macchine nell’attesa che la tecnica si spiritualizzi, giungendo al suo “punto di perfezione” e facendo dunque emergere il fondo immobile ed elementare del vorticoso processo di unificazione tecnica del pianeta, il catastrofico secondo conflitto mondiale, agli occhi dello scrittore tedesco, rende evidente l’inadeguatezza dell’Operaio. Il quale lungi dal controllare i suoi strumenti sembra essere diretto da loro, in un processo che tende alla costruzione di una terra senza confini e senza dèi, in cui trionfa un orribile e volgare “paesaggio da officina”. Con il passare del tempo, insomma, Jünger sembra diventare più pessimista circa le capacità dell’Operaio di costruire un ordine armonico dopo e oltre la distruzione. Perciò scorge da un lato la necessità di una unificazione politica del mondo nella quale l’organizzazione (il meccanismo tecnologico) non schiacci l’organismo (la sostanza vitale, le diverse culture ed identità). Il fondamento di questo Stato mondiale (Weltstaat) - che riscopre il modello politico imperiale, l’unico capace di garantire unità nella varietà
[vi], nell’era della crisi degli Stati nazionali - deve essere una Nuova Teologia in grado di portare l’uomo a riscoprire la relazione col divino, relazione indispensabile per governare l’accelerazione del nostro tempo ed evitare gli esiti più devastanti e nichilistici del titanismo tecnologico. Dall’altro lato, però, Jünger ritiene che questa rinnovata alleanza con gli dèi debba realizzarsi prima di tutto nel cuore del singolo. Considerato che il Lavoratore, figura titanica, non si rivela all’altezza di questo compito, lo scrittore tedesco individua allora nuove figure (il Ribelle, l’Anarca) capaci di operare quei passaggi oltre il muro del tempo che restituiscono libertà ed autenticità al singolo che sappia avvicinarsi al fondo immobile, originario e atemporale della realtà.
Di fronte al nichilismo della modernità, che Jünger giudica come un processo di riduzione (Reduktion) e svanimento (Schwund) di ogni sostanza, che agisce attraverso il tecnicismo e sistemi d’ordine di grandi dimensioni, l’autore tedesco guadagna ora una prospettiva nuova che gli consente di mutare l’atteggiamento nei confronti della tecnica. Quest’ultima, lungi dall’indebolire il “borghese”, appare ora agli occhi di Jünger come lo strumento di diffusione all’intero globo del suo potere dissacrato e dissacrante. La forma del Lavoro, di cui Jünger aveva subito il fascino, manifesta in maniera sempre più evidente il suo volto terrificante, distruttivo ed omologante. E’ la crescita del deserto di cui parla Nietzsche: l’omogeneizzazione dei paesaggi naturali e culturali procede di pari passo con l’inaridimento spirituale. Nel mezzo di questo gorgo nichilistico, secondo Jünger, sarebbe illusorio cercare la salvezza difendendo romanticamente istituzioni destinate ad essere travolte. La “cultura museale” e il percorso verso il nulla sono anzi, per lo scrittore tedesco, le due facce della stessa falsa medaglia. Nel panorama uniforme ed indifferenziato della modernità desertificante - di cui un altro simbolo è il Titanic, la nave lussuosa e tecnologica che corre velocissima verso l’impatto con l’iceberg in un’irreale atmosfera di festa – le piccole élites o i singoli non disposti a barattare la propria libertà ed identità per un po’ di comfort, possono resistere all’inglobamento nel Leviatano (il nichilismo, lo Stato moderno ridotto ad oggetto nichilistico), solo recuperando la dimensione della selvatichezza, della Wildnis. Natura incontaminata (Wildnis) e bosco (Wald) sono allora simboli di quella terra selvaggia non corrotta dall’organizzazione - intesa come l’ordine tecnico e scientifico che restringe, fino ad annientarla, la libertà dell’uomo; l’ordine del nulla, insomma - che cresce ovunque, nel petto del singolo e nel deserto, come un’oasi. La stupenda immagine del ricorso alla Selva rappresenta proprio il distacco dagli impersonali automatismi dei ritmi meccanici. E’ l’incontro con se stessi nella riscoperta delle forze elementari della natura, sacrificate dalla modernità occidentale sull’altare di una ragione eletta a divinità. Ma non si tratta di una passeggiata, né di una facile ritirata. Il bosco è infatti la grande dimora della morte. E il Ribelle dei boschi (Waldgänger), aprendosi alle forze elementari e trascendenti della natura, sa che il rischio, il pericolo, l’aspetto avventuroso dell’esistenza, il dolore, la violenza, la stessa morte (tutto ciò contro cui il “borghese” si illude di potersi “assicurare”), sono manifestazioni della natura, costituiscono il fondo primordiale (Urgrund) della vita. I tentativi volti alla negazione di queste forze non sono solo vani ma anche pericolosi: come insegna la psicologia del profondo, i contenuti rimossi della psiche rischiano di possedere completamente l’individuo, o la collettività, che quei contenuti ha negato.
I passaggi al bosco, dunque, sono praticabili, come spiega perfettamente Bonesio, laddove l’uomo riesce ancora a sentire la sacralità della natura, nella sua totalità, pensando ad essa al di fuori degli schemi riduttivi della scienza moderna che la banalizza ad oggetto di analisi e manipolazione. Ma l’approccio alla natura non può nemmeno essere di tipo romantico, giacché questo definisce la bellezza della natura solo in funzione dei canoni estetici dell’uomo, rimanendo così in una prospettiva antropocentrica. Bisogna imparare di nuovo a guardare la natura rispettandone i simboli meravigliosi. Ed anche in questo il Maestro Jünger ha molto da insegnarci.

Paolo Marcon


[i] Q. Principe, Ultimo Titano del ‘900 o primo del Duemila, in “Lo Stato”, 1998, n. 9, p. 63.

[ii] E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in id., Foglie e pietre, trad. it., Milano, 1997, p. 109.

[iii] «La guerra è il padre di tutte le cose, anche il nostro […] Essa ci ha martellato e temprato perché diventassimo ciò che siamo. Per tutto il tempo che la ruota della vita girerà in noi, la guerra sarà il suo asse» (E. Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis, cit. in C. Risé, Misteri, guerra e trasformazione. Le battaglie del Sé, Milano, 1997, p. 26).

[iv] E. Jünger, La mobilitazione totale, in id., Foglie e pietre, op. cit., p. 114.

[v] L’espressione è di Delio Cantimori. Cfr. D. Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in id., Tre saggi su Jünger, Moeller van den Brück, Schmitt, Roma, 1985, pp. 17-43.

[vi] «Due principi supremi dovranno essere sanciti nella costituzione, qualunque struttura essa abbia: i principi dell’unità e della varietà. Il nuovo impero deve essere unico nelle sue articolazioni, ma nel rispetto delle loro specificità» (E. Jünger, La pace, trad. it., Parma, 1993, p. 52).


 

Ecco una bibliografia con le principali opere di Jünger in ordine cronologico!

  *1920.Nelle tempeste d'acciaio, Guanda.Diario tenuto da Ernst durante la prima guerra mondiale.Opera fondamentale che lo rese famoso come scrittore di guerra.Vi descrive, in modo realistico, la "guerra di materiali" (Materialschlacht), una nuova specie di combattimento dovuto all’impiego della tecnica nelle operazioni militari, in cui l’uomo diventa meno importante della forza delle macchine.

*1924.Boschetto 125, Guanda.Ancora sulla prima guerra mondiale.Racconta la vita di trincea.

*1929.Il cuore avventuroso, Guanda.Diario visionario che propone una serie di immagini talvolta sconvolgenti, che attaccano la società del dopoguerra.

*1932.L'Operaio, Guanda. E' l'opera più "pallosa" di Jünger, ma importante anche per rendersi conto dell'evoluzione del suo pensiero.Qui prima espone la sua fondamentale Teoria della Forma, o Figura (Gestalt), e poi individua la figura dell'Operaio (Der Arbeiter), come figura del nostro tempo.E' colui che mobilita il mondo con la Tecnica. Sostanziale giudizio positivo della tecnica come strumento di accelerazione e superamento del nichilismo.

*1934.Foglie e pietre, Adelphi.Raccolta di saggi tra cui l’importantissimo "La Mobilitazione Totale".Questa è un processo legato all’avvento della figura dell’Operaio e all’evoluzione delle tecniche di guerra (nelle battaglie di materiali tutti sono mobilitati).Ma è uno stato di cose che si impone, in tempo di pace, nel mondo del lavoro.

*1936.Ludi africani, Guanda.Racconto della sua esperienza di legionario.Con questo libro Jünger sembra denunciare il carattere illusorio della fuga romantica dalla società borghese.

*1939.Sulle scogliere di marmo, Guanda. Bellissimo!!! Romanzo utopico che presenta una critica neanche troppo velata al Nazismo.Da leggere assolutamente. Curiosità: qui il Forestaro è una figura negativa...bisognerebbe studiarla questa cosa...

*1941-1942.La pace, Guanda.Guarda oltre la guerra mondiale e pensa agli assetti futuri.Si dice che questo libro sia stato letto da Rommel mentre preparava il colpo di stato fallito contro Hitler.

*1941-1945.Irradiazioni, Guanda. Diario della seconda guerra mondiale.

*1950.Oltre la linea, Adelphi.Saggio sul nichilismo in cui introduce il tema della Wildnis.

*1951.Trattato del Ribelle, Adelphi.In questo testo Jünger descrive la figura del Waldgänger (colui che passa il bosco). Vedi recensione negli "Abbiamo letto".

*1953.Il nodo di Gordio, Il Mulino.Riflessioni su occidente e oriente, scritto con Schmitt.

*1954.Il libro dell'orologio a polvere, Adelphi. Riflessioni sul tempo: era un grande appassionato di clessidre.

*1959.Al muro del tempo, Adelphi. Ancora sul tempo in una prospettiva critica rispetto alle concezioni lineari.

*1960.Lo Stato mondiale, Guanda. Importante per capire la dimensione imperiale della globalizzazione.

*1977.Eumeswil, Guanda. Romanzo utopico in cui individua la figura dell' Anarca, un tipo d'uomo che "può trasformarsi in Ribelle, ma può anche vivere tranquillamente al riparo di un'oscura funzione".

 

jeudi, 28 mai 2009

H. J. Schoeps - Preussischer Patriot und bekennender Jude

Hans-Joachim Schoeps

Preußischer Patriot und bekennender Jude

Hans-Joachim Schoeps – geboren vor 100 Jahren

Ex: http://eisernekrone.blogspot.com/





„Mich bewegt sehr und richtet auf, daß es noch immer Konservative gibt, die die Tradition nicht abbrechen lassen, sondern die den Bogen schlagen wollen – von vorgestern nach übermorgen.“
„...stelle ich fest, (...) daß es füglich bei mir keine Entwicklung gegeben hat. Ich bin immer Konservativer, Preuße und Jude gewesen.“

Preußischer Patriot und bekennender Jude



Heute, am 30. Januar 2009, ist der 100. Geburtstag des deutsch-jüdischen Wissenschafters, Publizisten und Patrioten Hans-Joachim Schoeps. Ein bleibendes wissenschaftliches Vermächtnis, das die engeren Betätigungsfelder seiner Studien überschreitet und als Institution überdauert, ist die von ihm gegründete Gesellschaft für Kulturwissenschaft in Potsdam. Ein weiteres, die gemeinsam mit dem Religionswissenschafter Ernst Benz (siehe unsere Würdigung "Der Adel der menschlichen Seele" - von der deutschen Mystik bis zum Übermenschen) ins Leben gerufene „Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte“. Seine gesammelten wissenschaftlichen und publizistischen Werke sind in einer 16-bändigen Ausgabe im Olms-Verlag zwischen 1990 und 2005 als Nachdrucke erschienen. Schwerpunkt seiner Forschungen, insbesondere als Professor für Religionsgeschichte in Erlangen, war zum einen das Judentum, insbesondere auch im Verhältnis zum frühen Christentum, man kann sagen Randfragen der Judaistik, die aber eine gewisse Brisanz sowohl für Christen wie Juden besitzen. Und zum anderen, der Staat Preußen, von diesem her auch das, was man als „deutsche Frage“ sich zu bezeichnen angewohnt hat. Insbesondere sein sowohl wissenschaftlichen Ansprüchen wie allgemeinverständlicher Darstellung gerecht werdendes Buch „Preußen. Geschichte eines Staates“ (1) ist als geschichtliche Einführung bis heute unübertroffen. Eine von Schoeps veranstaltete Preußen-Anthologie „Das war Preußen. Zeugnisse der Jahrhunderte“ wurde im übrigen von Julius Evola ins Italienische übersetzt. (2)
Da Hans-Joachim Schoeps nicht nur distanzierter Forscher gewesen ist, sondern sowohl Juden- wie Preußentum als die beiden Koordinaten seines eigenen Lebens betrachtet hat, wurde für ihn ein politisches Engagement als Nationalkonservativer, Monarchist und jüdischer Patriot geradezu zur Pflicht. Seine wesentliche Prägung hat Schoeps durch die bündische Jugendbewegung (3) und deren Deutung durch Hans Blüher erfahren; Schoeps war es dann auch, der Blühers zentrales Werk, „Die Rolle der Erotik in der männlichen Gesellschaft“, nach dem Zweiten Weltkrieg im Klett-Verlag neu herausgegeben hat. Blühers christlichem Antijudaismus hat er sich im „Streit um Israel“, einer in Briefform gehaltenen Auseinandersetzung auf höchstem Niveau, in direkter Konfrontation gestellt. (4) Für seinen Versuch, einem patriotischen, aber nicht „assimilierten“ (also letztlich apostatischen) Judentum auch im deutschen Aufbruch von 1933 einen Platz zu behaupten, gegen die de facto bestehende Allianz von Nationalsozialismus und Zionismus, die eine solche Position für unmöglich erklärt hat, wurde er Zeit seines Lebens und über den Tod hinaus angefeindet und hat sich gar noch von dem CSU-Klampfensänger Wolf Biermann als „Heil-Hitler-Jude“ anpöbeln lassen müssen. 1970 veröffentlichte Schoeps die Dokumente dieses Beharrungskampfes unter dem Titel „Bereit für Deutschland. Der Patriotismus deutscher Juden und der Nationalsozialismus“.
In Zeiten der beinahe vollständig vollzogenen Identifikation des Judentums mit dem Zionismus ist die Voraussetzung für das Verständnis des inneren wie äußeren Ringens eines „deutschbewußten Juden und jüdischbewußtes Deutschen“ (5), der den Zionismus mindestens ebenso entschieden ablehnte wie die Assimilation, und der auch niemals das zionistisch besetzte Palästina besuchte („Erst wenn der Messias gekommen ist, reise ich“), so gut wie nicht gegeben. Dazu kommt, daß Schoeps auch keineswegs ein Haredi, oder wie der eigentlich diffamierende Ausdruck heißt: „ultraorthodoxer“ Jude, dem man solchen messiaserwartenden Antizionismus selbst von Zionistenseite in gewissem Rahmen noch nachsieht, (6) gewesen ist, sondern große Sympathien für das Judenchristentum der Ebioniten (7), also eine spezielle jüdisch-christliche, vom Heidenchristentum unterschiedene Frömmigkeit hegte, und auch den, nach unserer Ansicht eigentlich traditionellen, den Talmud ablehnenden Karäern, die von den „orthodoxen“ Juden aber als häretisch betrachtet werden, Interesse entgegenbrachte.
1950 schreibt Schoeps über sein Verhältnis zu den zeitgenössischen Juden: „Die Juden glauben ja garnicht so [er bezieht sich auf sein eigenes, 1938 erschienenes Buch „Grundlehren des jüdischen Glaubens“]. Die glauben entweder an garnichts oder an Geld oder an den israelischen Staat. Und die Orthodoxen (=Rechtgläubigen) sind orthoprax und verketzern den Glauben überhaupt als Gojim naches. [...] Ich repräsentiere die Juden so wenig wie diese den jüdischen Glauben. Die Mentalität, die mir als jüdisch entgegentritt, wohin ich mich wende, ist mir so fern und fremd – ich gestehe häufig antipathisch. [...] Es kommt hinzu: 95-100% der in Europa lebenden Juden sind Zionisten, d.h. sie geben sich der nationalistischen Seuche hin, die ich wie die Pest hasse. Ich bin der Meinung, daß die Welt – wenigstens meine Welt – daran zugrundegeht.“ (8)
Nicht nur der zionistischen, sondern auch der mystisch-magischen Strömung, Kabbala und deren Wiederentdeckung und –belebung durch Gershom Scholem oder Oskar Goldberg, stand er ablehnend gegenüber. Dabei stehen sich kabbalistische Ekstase und zionistischer Aufbruch nicht so fern wie es scheinen mag. Sie haben in der Bewegung des „falschen Messias“ Sabbatai Zwi einen Kreuzungspunkt, der zugleich Schoepsens persönliche „Familientragödie“ darstellt. „Vieles ist möglich, aber Pseudomessianismus darf es in unserer Familie nie wieder geben. Kein biederer Protestant kann auch nur von ferne ahnen, was das Prinzip ‚sola fide’ ins Jüdische übersetzt beinhaltet. In meinem Fall tat sich ein Abgrund auf. Es hätte ja bedeutet, daß ich dem feigen Betrüger Sabbatai Zewi (Schapse Z’wi), an den meine Vorfahren auch nach dessen Selbstverrat vom 15. September 1666 inbrünstig geglaubt haben, weshalb man sie die ‚Schepse’ nannte, nachträglich Indemnity erteilt hätte. Das durfte ich nicht. (...) Adolf Hitler war doch nur ein dummer Mörder. Der Schapse Z’wi nach 1666 übertrifft ihn an Gemeinheit. – Und diesem Manne haben wir geglaubt. Im übrigen ist es von zweitrangiger Bedeutung, ob zum Prinzip ‚sola fide’ im Namen von Sabbatai Zewi, Martin Luther oder gar Karl Marx aufgerufen wird.“ (9) Der Verdacht gegenüber Gnostizismus und Mystizismus, das Gesetz ebenso außer Kraft zu setzen, wie die Zionisten das Verbot der Errichtung eines staatlichen Gebilde vor dem Erscheinen des Messias (tatsächlich haben die Sabbatianer als erste zu einer Einwanderungsbewegung nach Palästina aufgerufen), schmiedet in Schoeps Weltanschauung das Gesetz des Judentums (ohne seine ghettomäßige Ausgestaltung im orthodoxen Talmudjudentum) an den gerechten Staat Preußen. Die Problematik liegt hier offen als luthersche Ambiguität vor uns: die Gewissens- und Glaubensverinnerlichung im Verhältnis zur äußeren legitimen Autorität. Eine Flucht aus dieser Spannung kann zum Rückfall in das „Heidentum“ führt, auf den an den Beispielen Nationalsozialismus und Zionismus noch einzugehen ist.
In seiner Religionsgemeinschaft isoliert, brachte sich Schoeps als Vorsitzender monarchistischer und stockkonservativer Verbände vollends ins Abseits des Zeitgeistes. Auch die bundesdeutschen Konservativen dachten nicht daran, ihm zu folgen. Caspar von Schrenck-Notzing konnte mit einigem Recht schreiben: „Als Historiker Preußens war Schoeps am erfolgreichsten. Wenig Erfolg beschieden war ihm jedoch bei dem Versuch der Übertragung dieses Konservativismus in die Gegenwart.“ (10)
Paradox erscheint es da, daß er dennoch zum (Doktor-)Vater einer „Neuen Rechten“ oder eines neuen Nationalismus werden konnte. Durch seine Dissertanten Robert Hepp, (11) Hans-Dietrich Sander, (12) Hellmut Diwald und andere (13) wirkt sein politisch-wissenschaftlicher Einfluß, wenn auch eher untergründig und selektiv, fort.
Das Verständnis für seine Person hat sich bis heute nicht gerade erhöht. Dabei könnte Schoeps gerade wegen seiner Außenseiterstellung als Ausnahmegestalt ein Licht auf die Widersprüche und auch innere Größe einerseits der preußischen Geschichte und andererseits der zumeist mehr beschworenen als analysierten deutsch-jüdischen Symbiose werfen.

Nationalsozialistischer und zionistischer "Baalskult"



Schoeps bekannte, daß ihm alles „Völkische“, ob Nazismus oder Zionismus – die er zumindest diesbezüglich ausdrücklich auf die gleiche Stufe stellte - widerwärtig sei und seiner wie jeder politischen Theologie als biologische Theologie oder Bio-Theologie entgegenstünde. "Das goldene Kalb ist Symbol des baalischen Jungstiers, die angebetete Zeugungskraft der Allnatur, niemand anderes als der Blut- und Bodengötze. Überall wo die biologischen Kräfte vergottet werden, Rasse, Blut und Boden letzte Werte sind, ist der kanaaitische Baal am Werk."(14) In Nazismus wie Zionismus, in jedem völkischen Biologismus. Das historische Israel der Sinai-Gesetzgebung habe immer mit dem Baalskult gekämpft, so Schoeps.
Wenn man Baal, der solaren Gottheit Syriens, Gerechtigkeit widerfahren lassen will, so ergänze ich, muß man jedoch anerkennen, daß die im äußeren Kampf zwischen Juden- und Heidentum entgegenstehenden Gestalten beide korrekte und konkrete Ausprägungen der einen Tradition sind. Wenn allerdings das „auserwählte Volk“ im Sinne eines Monotheismus, diese Erwählung (15) als Selbstvergottung mißversteht, weil es den Bund zwischen Gott und Israel so versteht wie die Syrer ihre Beziehung zu Baal, so liegt eine monströse Entartung und Verkehrung der monotheistischen Sendung vor, wie umgekehrt dann auch, wenn ein heidnisches Volk – oder ein neuheidnisch gedachtes wie im Fall des Nationalsozialismus – sich als ein auserwähltes Volk analog Israel zu erheben versucht. In beiden Fällen kommt es zu der von Schoeps am Beispiel des zionistischen Judentums beklagten Hybris: „Denn auch das Judentum selber trägt die Möglichkeit des baalischen Selbstmißverständnisses von der Sinai-Gesetzgebung bis zum letzten Zionistenkongreß in sich – und immer dann wird der Abfall zum Baal akut, wenn das Bekenntnis statt zum ewigen Gott zur Ewigkeit des eigenen Volkes und seines – welches Mißverständnis – auserwählten Bluts sich Bahn bricht.“ (16) Mit dem historischen Baalskult und seine Umwandlung in den Sol Invictus des römischen Imperiums hat dieser beschriebene Vorgang offensichtlich wenig bis nichts zu tun. (17)
Schoeps spricht in Bezug auf das Buch „Wir Juden“ des Zionisten Joachim Prinz von „nackter Lebensverherrlichung und Diesseitsbejahung ohne Ausblick auf ein anderes, und sei es auch nur wie bei Nietzsche durch das Medium des schlechten Gewissens hindurch, daß ein anderes besseres Wissen verdrängt worden ist.“ (18) Da springt doch die Nähe zu der Unterscheidung von Leben und „Mehr-als-Leben“ ins Auge, die der Baron Julius Evola gerade als „Heide“ getroffen hat. (19) Evola stand wie auch Schoeps der „Konservativen Revolution“ nahe, auch wenn diese nach Schoeps „ein Unbegrif des Publizisten Armin Mohler“ sein soll. (Der Begriff wurde in Wirklichkeit auch von dem von Schoeps geschätzten Edgar Julius Jung explizit und affirmativ verwendet.) Die Kritik von Schoeps an der völkischen Bewegung, inklusive des „jüdisch-völkischen“ Zionismus, ist nicht von einem exklusiv jüdischen Standpunkt zu verstehen. Er wird auch nicht nur selbstverständlich von einem Christen geteilt werden müssen, sondern ist allgemein der Unterschied zwischen Tradition als Überlieferung von einem übernatürlichen und überindividuellen Ausgangspunkt her und der modernen Auffassung – mit bereits manchen antiken Vorläufern – von dem bloß natürlichen, animalischen Ursprung des Menschen und einem Kollektivismus der Pseudoüberwindung des Individualismus, dem Kollektiv-Individualismus, der die geordnete Wirklichkeit (den Kosmos) de facto nihilistisch negiert, so viel er auch an zu bloßem Tand werdenden Mythen der Überlieferung in Beschlag zu nehmen versucht (im Fall des biologistischen Nationalsozialismus die germanische Mythologie und im Fall der Zionisten die biblische Geschichte Israels.)
Schoeps Deutschtumsbekenntnis ist genausowenig völkisch-biologisch wie sein jüdisches. Gerade angesichts des völkischen Aufbruchs 1933, dessen begrenzte Gültigkeit Schoeps „um die Wahrung des bedrohten Volkskörpers willen“ anerkannte - was ihm heute als unverzeihlich vorgeworfen wird -, hat er die eigentliche deutsche Sendung als Erbe des mittelalterlichen Reichs hervorgehoben, die „Leibwerdung eines objektiven Ordnungsauftrages“, der geschichtlich stets „in einem übervölkisch-staatlichen Bezirk seine Ansatzpunkte gefunden“ hat. Als Wesensbestandteil des „preußisch-deutschen Staatsethos“ bezeichnet Schoeps in seiner dialektischen Sprache das „sich vor einem Objekt Verantworten“. Aber „im Bekenntnis zu Blut und Rasse droht die Gefahr einer Selbstverabsolutierung, die echter Objektverantwortung nicht mehr zu bedürfen scheint, weil es fraglich wird, ob die übersteigerte Verherrlichung der eigenen völkischen Art die in der staatlichen Ebene liegende Frage nach der geschichtlichen Sinnerfüllung oder Sinnverfehlung überhaupt noch zu konzipieren vermag.“ (20) Diese an das „Dritte Reich“ gerichteten Sätze entfalten aber auch ihre erschreckende Aktualität, wenn man die selbstgerechte und autistische Haltung des Zionistenstaats gegenüber der Weltöffentlichkeit betrachtet, es wird einem klar, daß von einem solchen Standpunkt, der das Volk an die Stelle Gottes gesetzt hat, aus keine Selbstkritik, keine Korrektur des eingeschlagenen Weges mehr möglich ist, ohne das Projekt insgesamt zu negieren. Dies ist der von Schoeps diagnostizierte molochitische, also letztlich selbstverschlingende Zug, dessen Zug die reine nihilistische Vergötzung der eigenen Macht ist. „Verfallenheit an die Naturmagie und nie zu sättigender Machttrieb - also Baal und Moloch in einer Gestalt - manifestieren sich im modernen Götzen, der mit Hilfe magischer Bannformeln und kultischer Riten ganze Lebensräume unter seine Gewalt bringt.“ (21)
Dies war nach Schoeps Ansicht im nationalsozialistischen, antipreußischen Großdeutschland der Fall - tatsächlich hat ja ein süddeutsch-österreichisches Pseudopreußentum all das zum Vorbild eigener Machtausübung genommen, was Preußenkarikaturen entspringt und in der Tat eine Projektion der Barbarei des englischen Imperialismus war (wir würden aber eine ergänzende, leider unterlegene Strömung im Dritten Reich anerkennen, für die etwa Carl Schmitt, Christoph Steding und auch Julius Evola stehen.) Bemerkenswert ist daher die sachliche und wenig dramatisierende, sondern scheinbar einer pessimistischen Grundstimmung entsprechende Bilanz von Schoeps, dessen Eltern in deutschen Konzentrationslagern ums Leben gekommen sind: „In Deutschland hat man ja gesehen, was dabei herauskommt, wenn ein Volk nationalistischen Kräften ausgeliefert wird und sich füglich von Gott und den sittlichen Gesetzen emanzipiert. Sie fragen mich, wie ich als Jude das deutsche Verhalten in der Hitlerzeit religiös beurteile? Ich kann nur sagen: folgerichtig und normal. Denn das steht eben zu erwarten, wenn sich Nationalismus und Technik verbünden. Ich habe mich über die ‚deutschen Greuel’ niemals gewundert, sie entsprechen ja nur der Abgründigkeit der menschlichen Existenz. Ich habe mich höchstens über die Zeiten gewundert bzw. sie bewundert, wo die Greuel gebändigt werden konnten wie etwa im Hl. Allianz genannten Staatenbund christlicher Monarchien. In der Zeit des hochseligen Königs Friedr. Wilh. IV. gab es zum letzten Mal pax christiana, die auch immer pax judaica ist.“ (22) Diese Bändigung des unter der Ordnung verborgenen Chaos ist für Schoeps in der biblischen Schöpfung verankert, wo dem Tohuwabohu (dem Wüsten und Leeren) von Gott die Ordnung aufgeprägt wird, ohne daß diese chaotischen Mächte aber völlig beseitigt werden: „Das Gesetz ist überhaupt nur gegeben worden, weil im Anfang das Chaos war, und die Menschen nahmen es an, weil sie im Chaos nicht untergehen wollten. Nur auf diesem Untergrund hat die gesetzliche Lebensordnung ihren tiefen Sinn. (...) Mir scheint die Verbürgerlichung der Religion hat uns Juden allesamt vergessen lassen, daß die Welt unheimlich, vielleicht sogar tückisch ist. Warum nimmt die jüdische Theologie Genesis 1,2 nie ernst? Da ist doch die Rede vom Tohu-wa-bohu, in das die Ordnungen der Schöpfung hineingelegt worden sind. Man sollte sich mit dem Besitztitel der Auserwählung nicht darüber hinwegtäuschen, daß unter der Schöpfungswelt noch immer das Tohu-wa-bohu liegt – als der grollende Abgrund. Wie hat man das vergessen können? Kann man denn ernstlich das Gesetz erfüllen, es sei denn auf der Flucht vor den Elementargewalten einer höchst unsicheren Welt?“ (23)
Diese tief in der Bibel verankerte konservative Grundhaltung, die fern allen „revolutionären jüdischen Geistes“ und der messianischen Verneinung der bestehenden Ordnung ist, bildet den einen, traditionsgebundenen Strom des Judentums, der geschichtlich leider oft nicht der dominante gewesen ist.

Um die Reichstheologie



Nach diesen negativen Bestimmungen gilt es die positive politische Theologie – Reichstheologie – ins Auge zu fassen, von der Schoeps nicht nur meinte, daß jüdische Deutsche ihren Anteil daran haben könnten, sondern aufgrund der Kontinuität der Reichsvorstellung vom alten Israel an, sogar in besonderer Weise. Die Herleitung des Reichs nicht von Rom, sondern von Jerusalem, stieß erwartungsgemäß auf Widerspruch in Plettenberg, beim konservativ-revolutionären Exegeten der „Politischen Theologie“, Carl Schmitt.
„23.5.48
[...] Begegnung mit Joachim Schoeps: Erst durch Cramer von Laue [Schüler von C.S.] , dann jetzt durch den (mir als erster Sonntagsmorgengruß entgegenspringenden) Satz aus dem Blüherschen Streitgespräch um Israel 1933 (S. 50): 'Und dies (daß die jüdische Auserwähltheit das Vorbild des mittelalterlichen Reiches war) ist auch der Grund, warum ein gläubiges Judentum kaiserlich (nicht königlich) gestimmt ist!' Nein, Joachim Schoeps, das ist nicht der Grund! Der Grund liegt in Joh. 19, 15, und das christliche Reich der Kaiser des Mittelalters hatte eine Legitimation als ein katechon [Original in griechisch] nach 2. Tess. 6/7.“
So Carl Schmitt in seinem Glossarium. (24) Schoeps könnte auch darauf verweisen, daß die Übernahme des Erzengels Michael als Engel des deutschen Volkes (herabgesunken zum charakteristischen „deutschen Michel“), die Kontinuität des israelischen Reichsgedanken belegt. Carl Schmitt könnte einiges für seine christliche Rechtfertigung des Imperiums vorbringen. Letztlich muß man wohl feststellen, daß beide politischen Theologien im mittelalterlichen Reich verbunden oder überlagert gewesen sind, sich aber in den katholisch-protestantischen bzw. österreichisch-preußischen Gegensatz auseinanderentwickelt haben.
Drei Jahre nach dem erwähnten Tagebucheintrag Schmitts kam es, angestoßen durch die Zusendung eines Aufsatzes über Donoso Cortés durch Schoeps, zu einem kurzen Briefwechsel zwischen den beiden politisch-theologischen Kontrahenten. Schmitt in einer ersten Reaktion an Armin Mohler, in einem Brief vom 25.8.1951: „Ich bin überrascht, dass er sich an der gegen mich gerichteten Verschwörung des Totschweigens nicht beteiligt.“ (25) Wenig später gibt es ein persönliches Treffen, von dem Schmitt dann Mohler in einem Brief vom 12.11.1951 berichtet: „Vorige Woche habe ich Prof. Schoeps persönlich kennen gelernt; darüber gelegentlich mehr. Er hat mir gut gefallen.“ (26)
Im bereits erwähnten „Streit um Israel“ ist der Streitpartner nicht Schmitt, sondern konkret Blüher, und richtet sich der Stoß gegen ein (ausschließlich) „blutshaftes“ Verständnis von Deutschsein, von der her eine „jüdisch-preußische Symbiose“ immer nur widernatürlich erscheinen kann. So heißt es kurz nach der von Schmitt monierten Stelle: „das mittelalterliche Reich, das sacrum imperium, war gegründet durch den sakralen Ordnungsauftrag; der Kaiser als der ‚wahre Nachbildner Davids’ – so heißt es sogar noch in der Augsburgischen Konfession – sollte einstehen für Gerechtigkeit und Frieden. Im Reiche ist das Kaisersein ein Amt, wie der im kaiserlichen Dienste stehende Adel in ausgezeichneter Weise ein Amtsadel ist und damit im Gegensatz zum heidnischen Schwertadel und analog zum Priestertum eine geistige Angelegenheit. Und nur dasjenige Preußen, das sich als Erben des mittelalterlichen Kaiserreiches weiß, hat geschichtliche Bedeutung und echte Sachbeziehung zu den Positionen des Offenbarungsglaubens. Mir geht es stets nur um das ‚geistige’ Gebilde Preußen und nicht um das naturale, das letzten Endes immer nur die Objektivation eines bluthaft-vitalen Seins, einer ganz bestimmten, in Norddeutschland vorzugsweise beheimateten Struktur darstellt. In Ihren [Blühers] Darstellungen wittere ich aber immer wieder diese naturale Verkehrung [...]“ (27)
Schoeps hat auf verschiedene Weise versucht, die Möglichkeit des „preußischen Juden“ als „legitime historische Figur“, mehr noch: als „überzeugende Figur“ zu begründen. Der schwächste Ansatz ist der bei einer allgemeinen „Seelenverwandtschaft“ zwischen dem Bewohner der Wüste und der norddeutschen Weite. Die spezifisch preußische Beharrung der geprägten Form – sinnbildlich im Kasernenbau - angesichts der alles auflösenden Weite der Landschaft hat er sehr plastisch herauszuarbeiten verstanden, aber was soll dem von hebräischer Seite entsprechen - etwa das Wanderheiligtum des Bundeszelts? Stärker vermag auf den ersten Blick die Parallele zwischen dem jüdischen Gesetzesgehorsam und der preußischen Pflichtauffassung („das moralische Gesetz in uns“) einzunehmen. Hier sehen wir im übrigen wieder Schmitt auf der anderen Seite, der des Urteils, christlich-personalistisch als Entscheidung nicht als bloße Anwendung gedacht, gegenüber dem – bei Schmitt sicher auch jüdisch konnotierten - Gesetz. (28) Ganz am Rande sei vermerkt, daß die Sharia des Islam, zumindest in der dschafaritischen Rechtsschule, gerade weil das islamische Gesetz nicht so explizit und detailliert aufgelistet aufzufinden ist wie die mosaischen Gesetze, sondern in den Rechtsquellen, inklusive der Vernunft, aufgesucht werden muß und einer persönlichen Führung bedarf (Quelle der Nachahmung) die Vorzüge der beiden Systeme zu vereinen vermag, und die Nachteile – Starrheit bzw. Willkürlichkeit – vermeidet. (29)
Das Verhältnis von auctoritas und veritas kann für Schoeps aber auch in Preußen problematisch werden, wenn die „unbedingten Gehorsam“ verlangende Obrigkeit selbst keine – göttliche – Autorität über sich mehr kennt, der Staat also absolut wird. Für Schoeps eine heidnische Entartung, gegen die gerade das Festhalten am mittelalterlichen Reichsgedanken, das Gottesgnadentum, mobilisiert wird. Der moderne, rein säkulare Staat kann von ihm daher nur als die Monstrosität - das "kälteste Ungeheuer" Nietzsches - gesehen werden, die er auch ist, ob er sich nun nationalsozialistisch, bolschewistisch oder liberalistisch maskiert.
Die Linie zwischen einem totalen Staat als einzige Vermittlung des Göttlichen und einem totalen Staat anstelle des Göttlichen ist natürlich eine feine, aber nicht wirklich die zwischen jüdisch-christlich und heidnisch. So kann Franco Freda, den platonischen Staat vor Augen, heidnischer Apologet des „wahren Staates“ in seiner „Auflösung des Systems“ (30) schreiben: „Betonen wir nochmals daß die Wirklichkeit dessen, was heilig und göttlich ist, und die Heiligkeit dessen, was die wirkliche politische Struktur ist, das Fundament des wahren Staates bilden muß: denn wenn sich ein Staat, ein politisches Regime nicht durch das Faktum legitimeren läßt, daß es eine spirituelle Gültigkeit besitzt, spirituelle Ziele verfolgt, kann es nichts Organisches und Zentriertes repräsentieren: es wird nichts als eine tote, materialistische und soziale Anhäufung sein, resultierend aus der allen Organismen ohne Lebenskraft eigenen Erstarrung.“ Freda führt den Bruch „zwischen dem sogenannten laikalen Bereich des Staates und der abstrakten Ebene des ‚spirituellen’, der gegenüber diesem autonom bleibt“, einer moralischen „Welt des Gewissens“ einerseits und einer ausschließlich „profanen und laikalen, von jener göttlichen Potentialität ausgeschlossenen“ andererseits – man vergleiche Carl Schmitts „Leviathan“! – auf „die jüdisch-christliche Infektion vor zweitausend Jahren “ zurück. Die von Schoeps auf die kaiserlich-reichische Linie bis David und von Schmitt auf die katechontische Funktion des römischen Imperiums zurückgeführte sakrale Dimension des Staates als Ordnungserhalter gegenüber dem materialistischen Chaos, wird von Freda also gerade als das Heidnische angesehen (gegen alle Neuheiden, die nach der Trennung von Diesseits und Jenseits, gerade das Jenseits als christlich-jüdische „Erfindung“ wegstreichen.) Wir sehen uns scheinbar einer babylonischen Sprachverwirrung der Politischen Theologie gegenüber, die sich mit Hilfe der von René Guénon erörterten Doktrin lösen läßt. Nicht im exklusiven Rückgang auf das Königtum Davids, nicht allein auf das getaufte römische Kaisertum nach Konstantin, nicht auf die ausschließlich heidnisch-platonische Tradition, sondern auf die gemeinsame primordiale Stiftung durch den "König der Welt", in der biblischen Gestalt der Priester-König Melchisedek, der Gerechtigkeit und Frieden durch Herrschaft gewährleistet.

Martin A. Schwarz


(Alemannia Judaica - Der jüdische Friedhof in Erlangen)

(1) Berlin: Propyläen 1966, zahlreiche Neuauflagen.
(2) Schoeps, Das war Preußen. Zeugnisse der Jahrhunderte. Eine Anthologie; Honnef: Peters 1955; ital.: Questa fu la Prussia. Testimonianze sul prussianesimo; Rom: Volpe 1965. Die Übersetzung erschien unter Evolas üblichem Übersetzerpseudonym Carlo d’Altavilla.
(3) Die nicht wenige Fragen aufwerfende Identifikation des (Männer-)Bündischen mit dem jüdischen B’rith, Bund Gottes mit den Menschen, bleibt in unserer Darlegung ausgeblendet. Es sei nur bemerkt, daß Schoeps hier sein jüdisch-deutsches Bekenntnis so weit ins Metaphysische trägt, daß man an die Schwelle der Frage gelangt, ob man nach Schoeps überhaupt wirklich voll und ganz Deutscher sein kann als Nicht-Jude. Jedenfalls beansprucht er als Jude Deutscher zu sein und als Deutscher Jude.
(4) Hans Blüher / Hans Joachim Schoeps, Streit um Israel. Ein jüdisch-christliches Gespräch. Hamburg: Hanseatische Verlagsanstalt 1933.
(5) So der Titel der einzigen ihm gewidmeten Monographie:
Richard Faber, Deutschbewusstes Judentum und jüdischbewusstes Deutschtum. Der Historische und Politische Theologe Hans-Joachim Schoeps; Würzburg: Königshausen und Neumann 2008. Faber, dessen Bücher oftmals monomanisch um interessante bis abseitige Themen der Kultur- und Ideengeschichte, vorzüglich der konservativ-revolutionären bis faschistischen, kreisen, selten analytisch, sondern suggestiv und selbstreferentiell, immer auf der Suche nach der „Pointe der Pointe“, die sich aber oft nur dem als Pointe erweist, der schon weltanschaulich von Faber eingelullt nur mehr auf die Bestätigung wartet. Der als Dissertant von Mohammed Rassem (Freund Sedlmayrs und Bewunderer Schoeps) zu Jacob Taubes gewechselte Faber hat sich ein gewisses Feeling für die „Konservative Revolution“ erlesen, das seinem Faible fürs Faschistenriechen entgegenkommt. Die Grundthese seiner zahlreichen, anscheinend schnell heruntergeschriebenen Bücher ist gegen Mohler gerichtet und besagt, daß die „Konservative Revolution“ primär römisch gewesen sei und nicht nietzscheanisch-antirömisch.
Ich will nicht leugnen, daß diese kurze Würdigung von Schoeps der Faberschen Arbeit manche Hinweise verdankt, die es gegen den politisch-korrekten Strich Fabers zu bürsten galt. Zum Titel und der Formulierung ist noch zu sagen, daß Schoeps weitaus mehr preußisch als deutsch gewesen ist, oder anders gewendet, Deutschtum ganz von Preußen her gedacht hat.
(6) Im zionistisch besetzten Palästina sind die Haredim vom Wehrdienst befreit, siedeln sich aber schwer bewaffnet als kolonialistische Vortrupps in noch vorwiegend arabisch besiedeltem Land an – theoretisch antizionistisch, praktisch ultrazionistisch, mit talmudistischer Chutzpah das Göttliche Verbot umgehend, das sie mit dem Mund weiter bekennen.
(7) Siehe z.B.: Schoeps, Judenchristentum und Gnosis; u.a. zu finden in: Schoeps, Ein weites Feld. Gesammelte Aufsätze; Berlin: Haude & Spener 1980. Schoeps entwirft Ebioniten und Gnostiker (Marcioniten) als zwei geradezu idealtypische Gegensätze, wobei Gnosis unter dem Gesichtspunkt der Ablehnung des Schöpfergottes gesehen wird (also mit der universalen Gnosis als esoterischer Wahrheit jeder echten Tradition absolut nichts gemeinsam hat.) Für die Ebioniten war Jesus vor allem als Erfüllung des Gesetzes, d.h. als (vollkommener) Gerechter relevant und nicht als Messias-König. Es ist von der ebionitischen Auffassung auch nicht weit zu Schoeps’ preußischen Staat als Gerechtigkeit auf Erden, gegen den keine Auflehnung möglich ist.
(8) Brief an Schalom Ben Chorim, 18.3.1950, in: Julius H. Schoeps (Hg.), Auf der Suche nach einer jüdischen Theologie. Der Briefwechel zwischen Schalom Ben Chorim und Hans-Joachim Schoeps; Frankfurt am Main: Athenäum 1989, S. 56. Orthographie beibehalten.
(9) Schoeps, Ja – nein – und trotzdem. Erinnerungen – Begegnungen – Erfahrungen; Mainz: v. Hase & Koehler 1974; S. 139 f.
(10) Criticón, Nr. 28, 3./4.1975, S. 55.
(11) Hepps Dissertation „Politische Theologie und theologische Politik“ atmet natürlich unmittelbar, aber auch seine erste Veröffentlichung „ Selbstherrlichkeit und Selbstbedienung. Zur Dialektik der Emanzipation“ noch den Schoepschen Geist, des Denkens „von oben“ und ist mit großem Vergnügen zu lesen, anders als seine in die „Politische Biologie“ wenn auch nicht „Bio-Theologie“ abdriftende, allerdings auf einem realen Problem beruhende „Endlösung der deutschen Frage“, die ihn berühmt und wohl auch berüchtigt gemacht hat.
(12) In der Schoeps-Dissertation „Marxistische Ideologie und allgemeine Kunsttheorie“ ist bekanntlich die verschwiegene Beziehung von Walter Benjamin und Carl Schmitt erstmals aufgedeckt worden. „Der nationale Imperativ“ ist bereits durch den Titel preußisch konnotiert, wieweit auch der Sandersche Nationalismus in der Substanz mehr preußisch als völkischnational ist, wäre aufzuzeigen. Aber sicher hat Sander auch in die andere Richtung ausgeschwungen, als dialektischer Denker, dem es um die Totalität von Idee und Wirklichkeit angelegen ist. Sanders „Auflösung aller Dinge“ hat schließlich nochmals das Skandalon des Blüher/Schoeps-„Streits um Israel“ aufgenommen, eindeutig auf der Blüher-Seite anknüpfend. Sanders Kollege Robert Hepp hat dieses Buch einer scharfen (unveröffentlichten) Kritik unterzogen, ohne explizit die Schoepsche Gegenposition zu beziehen.
(13) Zu nennen wären etwa noch: Werner Maser (Frühgeschichte der NSDAP), Günther Deschner (die deutsche Gobineau-Rezeption), Hans-Joachim Schwierskott (über Moeller van den Bruck.)
(14) Schoeps, Was ist der Mensch? Philosophische Anthropologie als Geistesgeschichte der neuesten Zeit; Göttingen: Musterschmidt 1960, S. 325.
(15) Für das richtige, traditionsgemäße Verständnis dieses Begriffs, siehe: Charles-André Gilis, La profanation d'Israël selon le droit sacré; o.O. o.J (=2003); Neuauflage: Paris: La Turban noir 2008.
(16) Ebd., S. 325, zitiert nach Faber, S. 40.
(17) Vgl. für eine korrekte Darstellung: Franz Altheim, Der unbesiegte Gott. Heidentum und Christentum; Hamburg: Rowohlt 1957; auszugsweise auch hier:
Der unbesiegte Gott (2) - Helios von Emesa.
(18) Schoeps, „Bereit für Deutschland!“ Der Patriotismus deutscher Juden und der Nationalsozialismus. Frühe Schriften 1930 bis 1939. Eine historische Dokumenation; Berlin: Haude & Spener 1970; S. 175.
(19) Und im übrigen hat Evola auf dieser Basis seine „Rassentheorie“ entwickelt, die dementsprechend nicht unter die Kritik der Rasseverherrlichung fällt, da diese bei Schoeps wie allgemein unter Rasse eben gerade „Blut“ und Biologie versteht. Der immer wieder vorgebracht Vorwurf, Evola hätte eine nationalsozialistische Rassetheorie vertreten ist daher völlig falsch. Eher schon läßt sich fragen, warum das „Mehr-als-Leben“ gerade mit dem aus der Biologie stammenden Wort Rasse belegt werden soll, was tatsächlich nicht einsichig ist.
(20) Ebd., S. 106.
(21) Schoeps, Was ist der Mensch?, S. 327.
(22) Brief an Schalom Ben-Chorin, 18.3.1950, in: Auf der Suche, S.55.
(23) Schoeps, Bereit, S. 151.
(24) Carl Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951; Berlin: Akademie 1991, S. 153.
(25) Armin Mohler (Hg.), Carl Schmitt – Briefwechsel mit einem seiner Schüler; Berlin: Akademie 1995, S. 101.
(26) Ebd., S. 109.
(27) Schoeps/Blüher, S. 50 f.
(28) Carl Schmitt, Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis; München: Beck 1912; Neuauflage für März 2009 vorgesehen.
(29) Exkurs: Schoeps und der Islam

In seinem Buch „Gottheit und Menschheit. Die großen Religionsstifter und ihre Lehren“ (Stuttgart: Steingrüben 1950) nimmt Schoeps auch zum Islam Stellung, es hat aber den Anschein, dies geschähe mehr der Vollständigkeit halber als von Interesse oder Kompetenz her. Schoeps reiht einige der Platitüden der Orientalistik über den unoriginellen, allzumenschlichen usw. Propheten des Islam aneinander und charakterisiert den Islam als in seinem Prädestitationsdenken und seiner Schicksalsgläubigkeit „calvinistisch“, was genauso sinnvoll ist, wie das Christentum – unter Ausblendung all seiner anderen Strömungen – als calvinistisch zu bezeichnen. Tatsächlich schreibt Schoeps auch von der entgegengesetzten „pantheistischen“ Strömung, die Einseitigkeit durch eine zweite ergänzend. Denn in Wirklichkeit ist Ibn Arabi als wichtigster Vertreter des esoterischen Islam genausowenig pantheistisch wie Shankara, Meister Eckart oder Lao-Tse, deren grundsätzliche Identität mit seiner „Mystik“ oder vielmehr Gnosis aufgezeigt werden kann. Auch das beklagte „allzumenschliche“ also anscheinend unethische Verhalten des Propheten muß hinterfragt werden, denn es beruht auf einigen späten Hadithen. Träte uns Muhammad als fehlerlose Idealgestalt entgegen, wären die Orientalisten sofort bei der Stelle, um den geschichtlichen Wahrheitsgehalt dieser Stellen in Zweifel zu ziehen. Tatsächlich sind diese Berichte über Fehler und unmoralisches Verhalten aber Hadithen – vorwiegend aus der „Hadithfabrik“ von
Abu Huraira - zu entnehmen, die die Rechtfertigung des unislamischen Verhaltens der Umayyaden-Kalifen bezweckten, in deren Dienst die Hadithverfasser standen. Schiiten anerkennen keinen einzigen dieser Hadithe.
Von dieser Ausgangsbasis aus zweiter Hand – eben der westlichen Orientalistik – ist es dann schon bemerkenswert, daß Schoeps' eigenes Urteil durchaus die Größe des Islam erkennt: „Wäre Muhammed nur ein verschlagener Schlaukopf oder ein Sozialreformer oder ein religiöser Fanatiker gewesen, so hätte er niemals die Wirkung ausgeübt, die er hervorgebracht hat und die durch seinen Tod in keiner Weise aufgehalten wurde. So wirkt eben doch eine echte, original konzipierte Religionsidee. Muhammed war der große Reformer Arabiens; die Strenge und Nüchternheit, die den staatlich-politischen Sinn schärfen und ausbilden half, trägt bei ihm die Zeichen seiner Herkunft aus der Wüste. Auf seine religionsgeschichtliche Bedeutung hin geurteilt, ist der Islam der bisher letzte, ganz große Versuch zur Errichtung einer theokratischen Herrschaft in der Welt gewesen. Von der altrömischen Zeit abgesehen ist die Durchdringung des staatlichen öffentlichen und privaten Lebens mit der Religion, die Verbindung und der Zusammenschluß beider, niemals wieder ideell so eng gewesen wie in der Stiftung Muhammeds: dem Islam.“ (S. 125)
(30) Franco Giorgio Freda, La disintegrazione del sistema, Padova: Edizioni di Ar 2000 (EA: 1969); eigene Übersetzung, unveröffentlicht.

„Bereit für Deutschland!“

„Zionisten wie Nazis sind völkische Bewegungen, die von unten her den Staat aufbauen wollen. Wir denken grundsätzlich von oben her: Königtum und Obrigkeit von Gottes Gnaden.“
Brief an Schalom Ben-Chorin, 18.3.1950

„Hat man es mit Personen zu tun, die - Gott behüte - selbständige Denker sind und daher in keine der üblichen Schubfächer und Klassifizierungen hineinpassen, dann bezeichne man sie einfach als 'faschistisch' oder 'faschistoid', denn das macht bei minderbemittelten Leuten immer großen Eindruck. Gerade das Letztere ist ein wichtiger Punkt, der mit dem atemberaubenden Bildungsgrad der heutigen 'Journaille' zusammenhängt. Es ist ihr in der Regel gar nicht möglich: 'nationalistisch', 'reaktionär', 'konservativ', 'preußisch' zu unterscheiden, weil sie nicht weiß, daß jede dieser Bezeichnungen höchst verschiedenartige Phänomene und Sachverhalte deckt. Beispielsweise bedeutet konservativ das Gegenteil von reaktionär und preußisch das Bekenntnis zum Antinationalismus.“
Ja - Nein - und trotzdem

lundi, 25 mai 2009

Spengler e l'Italia

Spengler e l’Italia

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/



Se si cercano nell’opera di Spengler (sopra in foto) indicazioni riguardanti la situazione politica e spirituale della nazione italiana, si troverà che non esiste un pensiero unitario al riguardo. Al di là dell’ammirazione espressa in Neubau des deutschen Reiches (1924) e in Jahre der Entscheidung (1933) verso Benito Mussolini – ammirazione che però non si estende al fascismo come movimento o ideologia ma rimane circoscritta alla figura cesarea del Duce, alla cui personalità Spengler riconduce tutto il fenomeno fascista in Italia – l’opinione di Spengler sull’anima italiana non è lusinghiera.

In Preußentum und Sozialismus (1919), gli Italiani, insieme ai Francesi, sono le nazioni anarchiche contrapposte alle nazioni socialiste (Spagnoli, Inglesi, Prussiani). «Nel XV secolo, l’anima di Firenze si rivoltava contro lo spirito gotico […]. Quello che noi chiamiamo Rinascimento è la volontà antigotica di un’arte composta e di una formazione intellettuale raffinata; è, assieme alla gran quantità di Stati predoni, alle repubbliche, ai condottieri, alla politica del “momento per momento” descritta nel classico libro di Machiavelli, al ristretto orizzonte di tutti i disegni di potenza – compresi quelli del Vaticano in quel periodo – una protesta contro la profondità e la vastità della coscienza cosmica faustiana. A Firenze è nato il tipo del popolo italiano». Nei frammenti storici, ascriverà l’anima di Firenze all’origine etrusca, ma non si dilungherà altrimenti sull’Italia.

Il secolo italiano si sarebbe dunque svolto e concluso già all’inizio del meriggio della Kultur faustiana, tra il ‘400 e il Sacco di Roma (1527), con cui inizia l’influenza spagnola. Allo spirito spagnolo Spengler attribuisce la creazione sia della corte asburgica di Vienna sia del Papato della Controriforma, tuttora dominato dallo spirito gotico-spagnolo e dall’idea universale dell’ultramontanismo, creazione dello spirito spagnolo così come il capitalismo è creazione dello spirito inglese e il socialismo lo è dello spirito prussiano. Questo spirito è anche ponte tra il socialismo prussiano e il periodo gotico: Bismarck per esempio è considerato l’ultimo uomo di Stato di stile spagnolo.

Questa analisi prosegue ora lasciandosi dietro gli scritti di Spengler, ma sempre alla luce del suo pensiero e traendone le giuste conseguenze. Esaurito il proprio secolo, la nazione italiana ha subìto varie influenze mischiate ed innestate sul proprio spirito: dalla politica francese del Piemonte madamista o della Serenissima al tramonto, al genio spagnolo di un Eugenio di Savoia, all’illuminismo all’inglese di un Francesco di Lorena, diventando campo di battaglia tra le idee e le nazioni faustiane. Anche il nostro Risorgimento reca i segni di uno scontro tra lo spirito spagnolo ormai al tramonto (l’Austria e il Papa), i limitati sussulti della Francia (Napoleone III), il liberalismo inglese (Mazzini, Garibaldi) e l’influenza prussiana (Cavour, Crispi). Di stampo italo-francese è stato poi l’intervento nel 1915, che mirava a Trento e Trieste, senza vedere la lotta titanica tra Inglesi e Prussiani. Dopo esser tornata protagonista col cesarismo mussoliniano, è sprofondata al ruolo di provincia, in seguito alla guerra mondiale.

Se ora si volesse, sempre con una visione storica di carattere spengleriano, inquadrare la giusta chiave per la riscossa nazionale dell’Italia – posto che, a nostro parere, il tentativo d’una nazione europea isolata rischia di risultare sterile – bisogna tenere conto e della situazione storica attuale e della storia del popolo italiano. Il cesarismo avanza, ma la lotta tra socialismo e capitalismo è ancora aperta, ed è inutile dire che il posto dell’Italia, come delle altre nazioni europee, non può che essere in una coalizione continentale d’animo prussiano anziché in una coalizione atlantica d’animo inglese, come oggi.




Il giudizio sull’anarchismo degli Italiani è impietoso ma vero, e spiega molti dei problemi del nostro Paese; ma l’Italia non è solo Firenze. Lasciando da parte lo spirito gotico-spagnolo asburgico-papale, in opposizione al quale essa si è formata, è a Roma che si deve guardare. Per Spengler, l’impero romano fu grande in un periodo di cesarismo, ed essendo l’animo di un popolo legato al paesaggio, è naturale che gli Italiani siano eredi di Roma e destinati a riscoprirne il destino di restare saldi di fronte al futuro. Così, se alla Germania Spengler mostrava il socialismo prussiano quale forma politica, è un “socialismo romano” che l’Italia deve riscoprire.

dimanche, 17 mai 2009

Hans-Joachim Schoeps

Karlheinz WEISSMANN - http://www.sezession.de/

Vor einhundert Jahren wurde der Historiker Hans-Joachim Schoeps geboren

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Vor einhundert Jahren, am 30. Januar 1909, wurde Hans-Joachim Schoeps in Berlin geboren. Er kam als Sohn eines renommierten Berliner Arztes zur Welt, studierte nach dem Schulabschluß in Heidelberg, Marburg, Berlin und Leipzig Germanistik, Geschichte und vergleichende Religionswissenschaft. 1932 wurde er zum Dr. phil. promoviert. Gleichzeitig hatte er das Erste Staatsexamen abgelegt, konnte aber im folgenden Jahr wegen der nationalsozialistischen Machtübernahme nicht mehr in das Referendariat eintreten; aus denselben Gründen scheiterte auch der Versuch, sich zu habilitieren.

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Schoeps war in den zwanziger Jahren mit der Jugendbewegung in Berührung gekommen und hatte Kontakt zu verschiedenen Gruppen der „Konservativen Revolution“. Er gehörte damit zu dem kleinen Kreis deutsch-jüdischer Intellektueller, die dieser Bewegung nahestanden, so etwa Rudolf Borchardt, Ernst Kantorowicz und Hans Rothfels. Verbindungen bestanden vor allem zu Zeitschriften wie Die Tat, in der 1930 ein erster im eigentlichen Sinn politischer Aufsatz aus seiner Feder erschien, und Der Ring, die nachhaltig durch die Ideen Moeller van den Brucks geprägt war. Bemerkenswert ist auch, daß Schoeps die unter Konservativ-Revolutionären verbreitete Einschätzung  des Nationalsozialismus teilte, wenn er einerseits den „aufgeregten Kleinbürger Hitler“ verabscheute, andererseits meinte, daß man nur in der HJ noch „Gläubigkeit, Begeisterung und Leidenschaft“ finde, wenngleich sie für die falschen Ziele eingesetzt würden. Diese Bemerkungen stammen aus einem Brief, den Schoeps im November 1932 an den von ihm – trotz seiner scharf antijüdischen Position – hoch verehrten Hans Blüher schrieb. Beide hatten in Korrespondenzform ein Streitgespräch geführt, das noch 1933 unter dem Titel Streit um Israel als Buch veröffentlicht wurde. Darin betonte Schoeps einerseits sein Deutschtum im Sinne des preußischen Staatsethos, andererseits seine jüdische Identität. Diese verstand er allerdings nicht im zionistischen Sinn – das jüdische „Weltvolk“ war seiner Meinung nach im Jahre 70 mit der Zerstörung des Tempels und Jerusalems untergegangen –, sondern theologisch, wobei er neben dem Bundesschluß am Sinai auch die Möglichkeit anerkannte, daß Gott mit anderen Völkern ähnliche Bünde abgeschlossen habe.

Und was nun gar heute alles konservativ ist: Dieses vermickerte Kleinbürgertum, das Ruhe und Ordnung will, die Leute, die Angst haben, daß man ihnen ihre Geldsäcke klaut – aber darüber hinaus für keinen Sechser Haltung und Courage. – Schoeps 1932

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Dieser „theonome Konservatismus“ ähnelte sehr stark der in den zwanziger Jahren von evangelischen Theologen entwickelten „Volksnomoslehre“ und führte Schoeps mit seinen politischen Vorstellungen in eine weltanschauliche Position zwischen allen Fronten. Daraus erklärte sich letztlich seine heute so stark irritierende Bemühung, für die deutschen Juden im „Dritten Reich“ eine selbständige Position als „Stand“ zu erreichen, weshalb er von Regierungsstellen ebenso wie von den an „Dissimilation“ interessierten Zionisten wie von der Emigration mit Feindseligkeit verfolgt wurde.

Der von Schoeps zu Ostern 1933 gegründete „Vortrupp. Gefolgschaft deutscher Juden“ sollte zusammen mit anderen konservativen jüdischen Organisationen, vor allem dem „Nationalverband deutscher Juden“, trotz dauernder Zurückweisung die patriotische Einsatzbereitschaft der verfemten Minderheit demonstrieren, hatte damit aber keinen Erfolg. Im Dezember 1938 mußte Schoeps fluchtartig das Land verlassen und emigrierte nach Schweden. Seine Eltern kamen in den Lagern ums Leben, sein Vater, der während des Ersten Weltkriegs als Regimentsarzt des Garde du Corps gedient hatte, konnte bis zum Schluß nicht glauben, daß eine „nationale Regierung“ Hand an ihn und seine Familie legen würde.

Die erzwungene Muße im skandinavischen Exil nutzte Schoeps, um seine Studien zur vergleichenden Religionsgeschichte fortzusetzen. Er arbeitete als Dozent an der Universität Uppsala und soll bei seiner Rückkehr mehr als dreizehn Kilogramm Manuskriptpapier bei sich gehabt haben, Material für sieben wissenschaftliche Werke. Den häufig kommunistisch orientierten Gruppen des Exils stand er ablehnend gegenüber. Unermüdlich versuchte er die Differenz zwischen Deutschland und dem NS-Regime klarzustellen. Insofern war es nur konsequent, daß er unmittelbar nach Kriegsende in das zerstörte Deutschland zurückkehrte. Er habilitierte sich 1946 in Marburg und wurde ein Jahr später auf den eigens geschaffenen Lehrstuhl für Religions- und Geistesgeschichte an der Universität Erlangen berufen, zeitgleich begann er mit der Herausgabe der Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte.

Schoeps‘ Vorstellung von „Geistesgeschichte“ knüpfte zwar an Dilthey an, verstand sich aber darüber hinausgehend als „Zeitgeistforschung“. In mehr als drei Jahrzehnten publizierte er zahreiche Monographien und Sammelwerke auf diesem Gebiet. Dabei zeichneten sich sehr deutlich zwei Schwerpunkte ab: die Geschichte des Urchristentums – insbesondere der „Judenchristen“ – und die Geschichte des preußischen Staates, vor allem seiner konservativen Denker.

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Dieses Interesse am „anderen Preußen“ hing vor allem mit der Sympathie zusammen, die Schoeps nach wie vor der konservativen preußischen Tradition entgegenbrachte. Fast alle seine politischen Stellungnahmen in der Nachkriegszeit müssen aus diesem Zusammenhang heraus verstanden werden. Bereits seine Rede zum 250. Jahrestag der ersten preußischen Königskrönung, dem 18. Januar 1951, über „Die Ehre Preußens“ (so der Titel der gedruckten Fassung) sorgte für Aufsehen. Zu Beginn der Ansprache hieß es: „Ich möchte mit der Feststellung beginnen, daß wir eines teuren Toten hier gedenken, der, vom Strome der Geschichte zum Licht getragen, in diesen Strom wieder zurückgetaucht ist. Staaten werden immer nur durch die Kräfte getragen und erhalten, durch die sie geschaffen worden sind. Preußen war ein königlicher Staat, und darum mußte Preußen sterben, als sein Königtum dahinstarb. Preußen hat am 9. November 1918 zu bestehen aufgehört und nicht erst 1933 oder gar 1945. Als durch Beschluß des Alliierten Kontrollrates vom 25. Februar 1947 der Staat Preußen, dessen Stammlande damals aber zum großen Teil unter fremder Herrschaft standen, offiziell aufgelöst wurde, haben alle alten Preußen dies als einen seltsamen Akt der Leichenschändung empfunden.“

Eine ähnlich irritierende Wirkung wie das Plädoyer eines deutschen Juden für den preußischen Staat hatten auch Schoeps’ später erhobene Forderung nach Einrichtung eines „Oberhauses“ und sein Eintreten für die Wiederherstellung der Monarchie. Je weiter sich die Linkstendenzen in der westdeutschen Gesellschaft in den sechziger Jahren verstärkten, desto schärfer wurde Schoeps im Ton und desto weniger schützte ihn seine jüdische Herkunft. Die Angriffe kamen dabei von verschiedenen Seiten: einmal von dem notorischen Ariel Goral, der Schoeps in einem Flugblatt wegen seiner Bemühungen um den jüdischen „Stand“ zwischen 1933 und 1936 als „braunen Juden“ beschimpfte, und zum anderen von der APO, der endlich eine Handhabe gegen den Konservativen zur Verfügung stand, der schon verschiedentlich energische Maßnahmen gegen den neuen linken Extremismus verlangt hatte und sich jetzt als „erfahrener Faschist“, „Nazi-Jude“ oder „jüdischer Obersturmbannführer“ verunglimpft sah.

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Auf Unterstützung brauchte Schoeps nicht zu hoffen. Die Philosophische Fakultät seiner Universität hatte schon 1968 eine Solidaritätserklärung mit 33 gegen 5 Stimmen abgelehnt. Der „Fall Schoeps“ erregte bundesweit Aufsehen und zog jetzt Angriffe auch in der überregionalen Presse, etwa in Zeit und Spiegel, nach sich. Schließlich nahm unter der neuen sozialliberalen Regierung das Verteidigungsministerium die Vereinbarung über eine Sonderausgabe des Buches Preußen. Geschichte eines Staates für die Bundeswehr zurück. Schoeps geriet in den folgenden Jahren immer weiter in die Isolation.

Als er im Wintersemester 1976/77 zur Emeritierung anstand, versuchte er alles, um eine geplante Umwidmung seines Lehrstuhls zu verhindern. Im Rahmen der Vereinbarung zwischen der katholischen Kirche und dem bayerischen Staat über die sogenannten Konkordatslehrstühle war vorgesehen, an die Stelle des Erlanger Lehrstuhls für Religions- und Geistesgeschichte einen solchen für Politische Wissenschaften treten zu lassen.
Alle Versuche von Schoeps, das – und damit die Beschädigung seiner intellektuellen Hinterlassenschaft – zu verhindern, schlugen fehl, bis es ihm gelang, durch direkte Intervention bei der bayerischen Regierungsspitze wenigstens zu erreichen, daß die Geistesgeschichte im Rahmen der künftigen Lehrveranstaltungen einen besonderen Schwerpunkt bilden sollte. Vor allem auf Betreiben des landläufig als „konservativ“ geltenden Historikers Michael Stürmer wurde nach dem Tod von Schoeps am 8. Juli 1980 das noch bestehende „Seminar für Religions- und Geistesgeschichte“ liquidiert, sein Lehrstuhl eingezogen beziehungsweise umgewidmet und 1994 sogar die Bibliothek – darunter neunhundert von den Erben leihweise übergebene Titel – an ein Antiquariat verkauft.

Die ’Überwindung der Massengesellschaft’ wird in unserem Geschichtsraum vielleicht überhaupt nur noch vom Geist, von den Ideen und Institutionen des Preußentums her möglich sein. Denn Preußen war der einzige deutsche Staat, der mehr als ein Staat war, mit dem sich eine Idee verknüpft hat, durch die Menschen gebunden wurden und noch heute gebunden werden können. … Derlei ist heute vollkommen unzeitgemäß – aber gefordert. Gerade die Unzeitgemäßheit ist paradoxerweise die größte Chance für Preußens Wiederkehr. Erst in der Zukunft wird man das klar erkennen können. – Schoeps 1982

Man hat Hans-Joachim Schoeps immer wieder seine unkritische Haltung gegenüber der preußischen Vergangenheit vorgeworfen, seinen anachronistischen Royalismus, und selbst Wohlwollende glaubten, daß er sich allzu sehr nach Schnallenschuh und Perücke am Hof zu Sanssouci sehnte. Aber damit trifft man nicht den Kern der Sache. Hier hat einer mit bemerkenswerter Unbeirrbarkeit nicht nur daran festgehalten, daß es möglich sein müsse, Deutscher und Jude, Preuße und Jude zu sein, sondern auch darauf beharrt, daß „unser armes Land“ seine Wunden heilen lassen sollte und daß ohne die preußische Substanz staatliche Existenz gar nicht möglich sei. Damit war er in der ersten Nachkriegszeit durchaus repräsentativ für eine starke Minderheit der Deutschen, die eine Totalrevision der Geschichte für unwahrscheinlich hielt, dann akzeptabel, weil ihm Herkunft und Schicksal einen gewissen Schutz gewährten, schließlich einsam wie jeder, der im Ernst auf dem Wert der preußischen Lektion beharrte.


vendredi, 15 mai 2009

Eugen Rostenstock-Huessy und die Deutsche Revolution

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Erich Ritter von Kuehnelt-Leddhin - http://www.monarchieliga.de

Eugen Rosenstock-Huessy und die Deutsche Revolution

Rosenstock-Huessy zu hören, war sicherlich immer leichter als ihn zu lesen, denn sein brillanter Geist und sein großes Wissen verleiteten ihn stets dazu, panoramisch zu wirken, und in der Konversation mit ihm konnte man sich nicht seiner Persönlichkeit entziehen. Er hatte nach Amerika emigrierend zuerst den Versuch gemacht, einen gesicherten Platz in Harvard zu finden, doch der dem Christentum zuneigende Philosoph Alfred Whitehead warnte ihn, daß seine Universität völlig kommunistisch orientiert sei. Ein „Begräbnis erster Klasse in der theologischen Fakultät“ ausschlagend, begab er sich schließlich in das damals weniger „fortschrittliche“ Dartmouth College, in dem zu dieser Zeit ältere Traditionen noch lebendig waren.

Ich hatte während meiner amerikanischen Professuren 1937 - 1947 nur zweimal Gelegenheit, Rosenstock-Huessy zu sehen. Bei diesem Zusammentreffen hatte ich in New York die Zeit, mit ihm eingehend über den Nationalsozialismus zu sprechen. Es war ein sehr ruhiges, leidenschaftsloses Gespräch, obwohl Rosenstock keineswegs als Phlegmatiker angesehen werden konnte und Hyperbeln keineswegs abhold war. Doch erregte das Thema ihn nicht über Gebühr, und er behandelte den Nationalsozialismus, der ihn doch in doppelter Weise um seine Heimat gebracht hatte, mit christlicher Gelassenheit, vielleicht aber auch, weil ihn dieses mörderisch-skurrile Phänomen nicht vordergründig interessierte.

Es waren dies Gelegenheiten gegen Ende des Krieges oder knapp nach dem Krieg: ich kann das nicht mehr genau feststellen, da ich kein Tagebuch führe. Ich muß allerdings auch gestehen, daß wir, obwohl geeint durch den christlichen Glauben, nur zu oft auf verschiedenen Gleisen fuhren; die ganze Art des Schauens, Wägens und Beurteilens waren öfters anders, wobei aber er, der amerikanischer Staatsbürger wurde, viel weniger von seiner neuen Heimat beeinflußt wurde, als ich, der Ausländer, der zufällig in Amerika „gelandet“ war und in fast jeder Nacht von der Heimkehr träumte. Er war zwar der um 21 Jahre ältere, doch war ich in diesem Zwiegespräch wahrscheinlich der „amerikanisiertere“.

Natürlich sah auch Rosenstock im „Umbruch“ von 1933 eine wahre Zäsur in der Geschichte des Herzens von Europa, aber doch nicht eine Revolution und als solche figuriert die Machtübernahme auch nicht in Rosenstocks „Die europäischen Revolutionen“, auch der Marcia su Roma der Faschisten nicht, der historisch-genetisch, aber keineswegs charakterlich-inhaltlich mit dem Nationalsozialismus eine gemeinsame Wurzel besitzt. Mit der Entstehungsgeschichte dieser beiden, viel zu oft in einen Topf geworfenen Bewegungen fing auch unser Gespräch an.

Ich erwähnte, daß 1896 unter der Führung von Klofáč, Střibrný und Franke eine Gruppe von tschechischen Sozialdemokraten sich von der Sozialdemokratischen Partei trennten und eine Nationalsozialistische Partei gründete, die alsbald auch im Wiener Reichsrat vertreten war. Diese Nationalsozialisten bejahten weiter den Sozialismus, waren aber zugleich davon überzeugt, daß dieser zumindestens in der Gegenwart nicht auf internationaler, sondern nur auf nationaler Grundlage realisierbar war. Als tschechische Nationalisten bekämpften sie höchst natürlich die deutsche Minderheit in den drei Ländern der heiligen Wenzelskrone, eine Minderheit, die aber augenscheinlich reicher und auch industriell entwickelter und kapitalkräftiger war. Wichtig war auch bei dieser Parteigründung ihr geschichtliches Leitbild: die Bewegung und der Kampf der fanatischen Hussiten, also der Taboriten im 15. Jahrhundert. Sie waren die ersten nationalen Sozialisten gewesen, die das deutsche (katholische) Element in einem richtigen Genozid auszurotten versucht hatten - ein einzigartiges Ereignis im spätmittelalterlichen christlichen Europa. Mit ihnen hatten die tschechischen Nationalsozialisten ihr Image d'Epinal. Einst die tschechische Nationalschande unter den Gebildeten, war diese totalitäre paramilitärische Bewegung nunmehr im Zeitalter des Nationalismus umbewertet worden. Schon in der Mitte des 19. Jahrhunderts sahen Tschechen in den hussitischen Taboriten wahre Nationalhelden; Jan Hus war es freilich als wahrer Märtyrer schon früher gewesen.

Die nationalistische Welle, die Rosenstock so sehr bedauerte, nahm im Rahmen der Nationaldemokratie einen Parteiencharakter an und verrichtete in ganz Europa ihr Zerstörungswerk. Die Donaumonarchie bot ihr dazu eine ideale Gelegenheit. Es waren aber die Deutschen des Habsburgerreiches, die eigentlich in dieser ursprünglich eher romantischen Bewegung die Vorkämpfer waren. Dieser Nationalismus war natürlich eine Folge der Französischen Revolution als auch der Befreiungskriege.

In Österreich entstand eine deutschnationale Bewegung, die unter die Führung von Georg v. Schönerer geriet. Einem kleinen Teil der deutschen Arbeiterschaft in Böhmen, Mähren und Schlesien war diese aber viel zu „bürgerlich“ und daher kam es 1903 zur Geburt der D.A.P., der „Deutschen Arbeiterpartei“. In dieser wurde schon wenige Jahre später der Vorschlag gemacht, sie in „Nationalsozialistische Arbeiterpartei“ umzubenennen, doch wurde dieser Plan zuerst einmal fallengelassen, denn man fürchtete von Kritikern, vor allem von „Schönererianern“ als Nachahmer der tschechischen Nationalsozialisten ausgelacht zu werden. Das aber sollte sich später ändern.

Rosenstock hörte meinem Bericht aufmerksam, ja gespannt zu, gerade weil er viel eher Geschichtsphilosoph als Geschichtsforscher war. Er schien aufgeregt, als ich ihm weiter berichtete, wie ein sozialistischer italienischer Journalist jahrelang als Freund des unglückseligen Cesare Battisti im österreichischen Trient weilte, wo er in aller Wahrscheinlichkeit von diesem Reichsratsabgeordneten Battisti erfuhr, daß im „Hohen Haus“ in Wien Nationalsozialisten als Vertreter der tschechischen Arbeiterklasse Sitz und Stimme hatten. Der Journalist war von dieser nationalistisch-sozialistischen Synthese derart beeindruckt, daß er später nach seiner Ausweisung durch die österreichischen Behörden nicht nur ein Büchlein über die Aussichtslosigkeit der irridentistischen Bewegung im Trentino, sondern auch ein Buch über Jan Hus und die Revolution, die durch seinen tragischen Tod entfacht wurde, in Rom anno 1913 veröffentlichte. Es hieß Giovanni Hus il Vendico und ist wissenschaftlich eigentlich wertlos, historisch aber doch voll Bedeutung, denn es zeigt, in welcher Richtung die Gedanken dieses Publizisten der äußersten Linken sich bewegten.

Sein radikal anarcho-sozialistischer Vater hatte ihm einen spanischen Taufnamen gegeben, nach dem Revolutionär Mexikos, Benito Juárez. Rosenstock erriet gleich, daß es sich um Benito Mussolini handelte, der 1919 den Faschismus ins Leben rief, wobei er den Namen einer alten linken Bauernbewegung aus Mittelitalien kopierte. Die Fascas, wie wir wohl alle wissen, sind ein rein republikanisches Symbol, der Faschismus war auch republikanisch, sozial-sozialistisch, aber nationalistisch im romanisch-britischen, d.h. staatlichen und nicht im ethnischen, also germano-slawischen Sinn. Trotz gemeinsamer Wurzel haben jedoch Faschismus und Nationalsozialismus einen verschiedenen Grundcharakter. Der Nationalsozialismus, wie wir sehen werden, ist die ältere Bewegung, und den Nationalsozialismus als „Faschismus“ zu bezeichnen, ist eine rein moskowitische Sprachregelung, die aber von linken Sympathisanten im Westen mit lakaienhafter Ergebenheit sorgfältig befolgt wird. Die Realisierung der faschistischen Vision war selbstverständlich nicht die Dyarchie von 1922 bis 1943, sondern die Repúbblica Sociale Italiana.

Für Rosenstock war natürlich der Unterschied zwischen dem Fascismo und dem Nationalsozialismus äußerst interessant. Immer betonte er „Jedes Volk macht seine Revolution. Wir beide stimmten aber darin überein, daß der Faschismus ohne den Triumph des Nationalsozialismus ein relativ unbedeutendes mediterran-exotisches Phänomen geblieben wäre, das im Anfang allenthalben auf überraschende Sympathien stieß, nicht zuletzt, weil die bessere Organisation in Italien das Leben der Touristen auf mannigfache Art erleichterte. Daher die Begeisterung eines Liberalen wie Lloyd George oder eines Sozialisten wie George Bernard Shaw für den Duce. Ich kannte schließlich auch amerikanische Demokraten, die sich für den Faschismus erwärmten und möchte da auf George D. Herron hinweisen, eines fanatischen „Demokratisten“, der Wilsons linke Hand in der Außenpolitik war, seinerzeit den österreichischen Friedensvorstoß im Februar 1918 zunichte gemacht hatte, aber 1925 als glühender Verehrer des Fascismo starb. Alles wurde anders durch den Einfluß von Hitler und den enormen Eindruck, den ab 1938 die deutsche Tüchtigkeit auf Mussolini machte. Er wurde dann zum Kopisten. Das hätte allerdings nicht so kommen müssen.

Wir sprachen auch von Hannah Arendt, die große Unterschiede zwischen den beiden Bewegungen gemacht hatte, und da war Rosenstock wahrlich in seinem Element, denn nationale Unterschiede waren für ihn stets von großer Bedeutung und über diese hatte er ja immer nachgedacht und geschrieben, besonders aber über die Gegensätze im französischen und deutschen Volkscharakter. Wir debattierten damals auch die Frage, inwieweit der Faschismus eine verzweifelte „südliche“ Reaktion eines doch recht anarchisch veranlagten Volkes in einem industriell-technischen Zeitalter auf Ordnung, Gehorsam, Pünktlichkeit und den Reichtum im Norden Europas war. Von dort kamen ja die geldkräftigen Touristen, die den Werken Botticellis, Leonardos und Michelangelos als auch der antiken Vergangenheit Roms ihre Verehrung darbrachten, sich aber über die Zugverspätungen, schlecht funktionierenden Badezimmer, die Taschendiebe und Bettler entrüsteten. Diese Problematik fehlte jedoch bei den Deutschen völlig.

Wir kamen dann wieder auf die Vorgeschichte des Nationalsozialismus zu sprechen. Die D.A.P., die Deutsche Arbeiterpartei, ursprünglich nur in den drei nordwestlichen Ländern der Habsburgermonarchie vertreten, bereitete sich langsam auch in der Alpen- und Donauregion aus. Im Nordwesten gab es lediglich den Kampf gegen die Tschechen, die „blutsaugerischen“ Unternehmer und Banken als auch gegen einen grundbesitzenden Adel, der nicht national, sondern heimatlich-vaterländisch dachte. Fragte man einen typischen Vertreter des Hochadels, ob er sich deutsch oder tschechisch fühle, antwortete er in der Regel scharf: „böhmisch!“, „mährisch!“ oder „schlesisch!“, wenn nicht „österreichisch“! Doch in Innerösterreich, vor allem in Wien, gab es den „Antisemitismus“, der eigentlich eher bei den Tschechen als bei den Deutschböhmen vorhanden war, und in Wien war es, wo die D.A.P. im Mai 1918 ihren ersten Kongreß außerhalb des Nordwestens abhielt. Auf diesem Kongreß erfolgte die Namensänderung: die D.A.P. wurde in D.N.S.A.P., „Deutsche Nationalsozialistische Arbeiterpartei“, umgetauft. Damals war Hitler noch an der Westfront, aber in Aussig, dem Hauptsitz der DAP-DNSAP, wurden schon zahlreiche Zeitschriften, Bücher, Pamphlete, Plakate gedruckt, viele mit dem Hakenkreuz verziert. Das Wiener Programm der DNSAP war demokratisch, sozialistisch und als Folge des demokratischen Mehrheitsprinzips gegen unpopuläre Minderheiten gerichtet, als da sind: der Adel, die Reichen, die Juden, die Kleriker. Für die Banken wurden „demokratische Kontrollen“ gefordert, ebenso für die Aufstiegsmöglichkeiten in der Armee. Die Habsburgermonarchie mit ihrer nationalen Vielfalt wurde in Bausch und Bogen abgelehnt und ein „großdeutsches“ Reich gefordert. Es war dies das Programm einer typischen Linkspartei.

Im November zerfiel die Monarchie, in den ersten Wahlen der Tschechoslowakei bekam die DNSAP 42.000 Stimmen und im Frühjahr 1919 brachte der Ingenieur Rudolf Jung die ganze Literatur der DNSAP zu Hitler nach München, der ursprünglich eine „sozialrevolutionäre“ Partei gründen wollte - und auf Anraten Jungs die rote Fahne wählte. Es gab nun mit einer Namensumstellung vier deutsche nationalsozialistische Parteien: eine österreichische, deutsche und sogar eine polnische (mit dem Sitz in Bielitz) - dazu die ursprüngliche, die „tschechoslowakische“, die Národně socialistická strana československá. In den tschechischen Lexika figurierten die tschechischen und die deutschen Nationalsozialisten immer zusammen! Von dieser böhmisch-mährischen Wurzel wußte Rosenstock ein wenig, hatte ihr aber keine Bedeutung zugemessen, sah aber in der „Deutschen Revolution“ (einem Begriff, dem er nur sehr zögernd zustimmte) eine Entwicklung analog jener der Französischen Revolution, einer Revolution, die sich nach dem Sturz der Bastille ohne Unterlaß radikalisierte. Und das tat auch die Deutsche Revolution. Das Wort von Theodor Heuss: „Alles war daran nicht falsch, aber das Ganze war falsch“, war in dieser Diskussion nicht gefallen, doch vielleicht- ich sage „vielleicht“ - war dies auch die Ansicht Rosenstocks. Man darf da nicht vergessen, daß er einmal, 1926, Mitbegründer eines Arbeitslagers für Arbeiter, Bauern und Studenten gewesen war. Ich meinte aber, daß in der deutschen - in der „legalen Revolution“, um einen Ausdruck Carl Schmitts zu gebrauchen - eine gewisse linke Fatalität steckte, wobei der Historiker, der die Geschichte wirklich kennt, das Wort „Unabänderlichkeit“ sehr ungern in den Mund nimmt. Rosenstock, der stark am Rhythmus der Revolutionen festhielt, war über meine stete Rückkehr zu den Begriffen „links“ und „rechts“ nicht allzu glücklich und zwar gerade, weil er das sprachliche Element in der Geschichte für sehr wichtig hielt. Er schwelgte manchmal geradezu in der Sprachanalyse.

Ich versuchte „links“ und „rechts“ als echte Antithesen darzustellen und solche berühren sich in ihren Extremen nie. Der Glaube an die Extremberührung - les extrêmes se touchent - ist eine fausse idée claire, denn extrem groß und klein, nah und fern, schwer und leicht, gut und böse wachsen nie zusammen. Nun aber ist die linke Vision vom idealen Staat stets ein Gebilde von einer Sprache, einer Rasse, einer Nation, einer Partei, einem Führer, einer Sitte, einer Klasse, eines Einkommens, einer Schulform, eines Bildungsniveaus, eines Gesetzes, also eines zentralistischen Staates, der keine Abweichungen von der Norm duldet. In ihm regiert (in der Theorie) das Volk, zumeist versinnbildlicht durch einen Mann, der kein Vater, sondern ein „Bruder“ ist - Big Brother. Nun ist dies ein anti-personalistischer Traum, also ein Alptraum.

Rosenstock, der gerne in Kategorien dachte, wußte jedoch nicht, warum ich unbedingt dieser Vision ein linkes Etikett aufkleben wollte. Ich betonte daraufhin, daß ich ebenso wie er selbst eine solche unnatürliche Ordnung verdamme, und in allen Sprachen - sowohl im Sanskrit, in den ural-altaischen Idiomen als auch in der Bibel – „links“ einen negativen und „rechts“ einen positiven Charakter tragen. Im Deutschen ist, zum Beispiel, „rechts“ mit dem Recht, mit richtig, rechtlich, gerecht, redlich verwandt. Im Italienischen ist sogar die Linke (la sinistra) vom Unglücksfall (il sinistro) nur im Genus verschieden. In der Heiligen Schrift werden nicht nur beim Jüngsten Gericht die Erlösten auf die rechte und die Verdammten auf die linke Seite Christi gestellt.

Dabei kam man gleich auf die psychologischen Grundlagen von „links“ und „rechts“ zu sprechen. Ich betonte, daß der Linke auf das Zwillingspaar Gleichheit und Nämlichkeit (identity, sameness) eingestellt ist. Wir alle haben mit dem Tierreich einen Trieb zur Nämlichkeit gemeinsam: wir sind manchmal tatsächlich in der Stimmung, mit Menschen unserer Kultur, Sprache, Rasse, Geschlecht, Alter, politischer Überzeugung, Religion, künstlerischem Geschmack usw. zusammenzukommen. Wenn dies zu einer Dauerhaltung wird, entsteht Misogynie (oder Misandrie), Xenophobie, Rassismus, geistige Verengung, Kleinkariertheit, Intoleranz und dergleichen mehr. Glücklicherweise hat jedoch der Mensch auch den entgegengesetzten Trieb, den er mit dem Tierreich nicht teilt, und das ist ein diversitärer Trieb, der sich in einer Freude am Wandel und an der Verschiedenheit, die sich nicht nur in der Begegnung mit andersdenkenden Menschen, sondern vor allem in der Reiselust äußert, das heißt ganz andere Erdbewohner zu treffen, andere Speisen zu essen, eine fremde Musik zu hören, ungewohnte Pflanzen zu sehen, ein neues Klima zu erfahren, eine exotische Architektur zu studieren und Kunstprodukte zu genießen, die uns überraschen. Einem Hund kann man dasselbe Futter tagaus-tagein vorsetzen, wir aber brauchen als Menschen „Abwechslung“.

Die Natur ist variabel und frei, daher auch voller Ungleichheiten. Das Blumenbeet und das Kartoffelfeld müssen „angelegt“ werden. Wollen wir eine gerade Gartenhecke, so müssen wir sie brutal mit einer Schere immer wieder schneiden. Und deshalb besteht auch ein unüberbrückbarer Gegensatz zwischen Gleichheit, Nämlichkeit und Freiheit. Gleiche sind wir nur in der Tyrannis, am wenigsten sind wir „Gleiche vor Gott“, denn wenn Judas Iskarioth dem heiligen Johannes, dem Täufer gleich wäre, müßte das Christentum gleich abtreten. Die Linke steht also für Gleichheit, Nämlichkeit und die „gleichmacherische“ Knechtschaft. Nationalsozialismus und kommunistischer Internationalsozialismus sind einander weitgehend ähnlich, denn sie sind beide extrem links, beide Erben der Französischen Revolution und also keineswegs „Extreme, die sich berühren“. Es war also gar nicht so zufällig, daß der Zweite Weltkrieg nur auf Grund der deutsch-sowjetischen Allianz möglich wurde. Rosenstock hörte mir aufmerksam zu. In seine Systematik war das nicht allzu leicht einzuordnen. Er bestand darauf, daß die Existenz ein Kreuz sei, das in vier Richtungen weise: in die Zukunft, aber auch in die Vergangenheit, nach außen und nach innen. Sie sei weder linear noch zirkular. Für Rosenstock war diese Kreuzform der Existenz von zutiefst christlicher Symbolbedeutung. Irgendwie war er doch ein Mystiker, der sich weder auf die evangelische, noch auf die katholische Seite schlagen wollte, aber auch nicht wie Wilhelm Röpke als „erasmisch“ bezeichnet werden wollte. Dafür war Rosenstock zutiefst vom Ostchristentum fasziniert und machte Rom für den kirchlichen Bruch zwischen Ost und West hauptverantwortlich. Dem Taufschein nach war Rosenstock ein evangelischer Christ geworden und seine christliche Schau war stets präsent. Für Karl Muth, katholisch und aufgeschlossen, aber kein „Modernist“, hatte er die größte Verehrung.

Rosenstock wußte natürlich nicht nur von der gemeinsamen fränkisch-karolingischen Wurzel Frankreichs und des Römisch-Deutschen Reichs, sondern bekräftigte sie immer wieder, doch wies er andererseits auch auf die deutschfranzösischen Unterschiede hin. Organisation ist ein französisches Wort, schrieb er, das aber von Kant übernommen wurde, und Organisation war die Stärke des Nationalsozialismus vom Beginn an, während sie sich in der Französischen Revolution erst entwickelte und in ideologisch gefärbten Angriffskriegen später ihren konkretesten Ausdruck fand. In Frankreich, aber vielleicht noch mehr in Deutschland, bestätigte sich dann das Rosenstock-Wort, daß man vom rechten Pfad abkommen kann, wenn man am geraden Weg bleibt und in Deutschland verlief alles erbarmungslos gradlinig. Das Reich ging gradlinig in den Untergang - ohne den Common Sense, der die „Angelsachsen“ auszeichnet. Freilich: Die Franzosen können genau so pèlerins de l'absolu - ein Bloy-Wort - wie die Deutschen sein! Es gibt da eben ein „absolutistisches“ Rückgrat von Europa, das mit Gibraltar beginnt und über Spanien, Frankreich, Deutschland und Polen nach Rußland führt. In dieser Region gilt das „Alles oder Nichts“ und dort werden auch von den Grundprinzipien die letzten, ja mörderisch-logischen Schlußfolgerungen gezogen.

Rosenstock wies in dieser Beziehung auf Descartes und Kant hin, zwei „lieblose Junggesellen“, wie er sich ausdrückte, die in einer blutlosen Geistigkeit lebten. Sehr analog war Rosenstocks Kritik an John Dewey und Konfuzius, die in ihrer Philosophie keinen Raum für die Leidenschaften, für das Unerwartete und Unfaßbare übrigließen, doch überraschte mich ein wenig der Umstand, daß Rosenstock die Vortragsserie Deweys in China nach dem Ersten Weltkrieg nicht erwähnte, diesen Beitrag des amerikanischen Instrumentalismus zum chinesischen Pragmatismus, der in der Folge fast umweglos zu Maos „zündenden Platitüden“ in seinem roten Büchlein und indirekt auch zu den unsagbaren Schrecken der sogenannten „Kulturrevolution“ geführt hat.

Schon die Wahlschlachten der Nationalsozialisten im demokratischen Rahmen zeichneten sich genau so durch eine hervorragende Organisation aus wie ihr Regieren und darin standen sie auch den blutrünstigen französischen Demokraten nicht nach, die aber allerdings nicht wie die National- und Internationalsozialisten ihre Untaten in entlegenen Lagern und Kellern ausführten, sondern am hellichten Tag mit voller Beteiligung und zum Gaudium des Volkes. Nicht umsonst waren der sadistische Marquis de Sade und der masochistische Neurotiker Rousseau die intellektuellen Väter der Französischen Revolution gewesen. Frankreich und Deutschland! Man vergesse da nicht den französischen Beitrag zur grundlegenden Modernisierung Preußens, durch die Réfugiés, den auch Friedrich II. in seinem Ersten Testament anerkannte, und die Bewunderung des linken Frankreich für das fortschrittliche und aufgeklärte Preußen. Danton nannte Preußen den natürlichen Alliierten Frankreichs und das Comité du Salut bezeichnete die Allianz Frankreichs mit Österreich im Jahre 1756 als größten Unsinn der Bourbonen. Diese Sympathien führten schließlich zum Basler Sonderfrieden.

Es war ganz natürlicherweise dieser aufgeklärte, fortschrittliche, religiös äußerst geschwächte Norden und Osten der Weimarer Republik, in dem die Nationalsozialisten ihre erdrückende Mehrheit bekamen und Spenglers These vom Preußischen Sozialismus - diesmal im nationalen Gewand - ihre Bestätigung fand. Dies bezeugt ganz eindeutig die Wahlkarte. Das will aber nicht bedeuten, daß der deutsche Süden restlos unschuldig ist. August M. Knoll stellte richtig fest, daß Hitler der Mann war, der den österreichischen Wahnsinn in den Dienst des deutschen Schwertes stellte.

Über Preußen und Österreich hatte meines Wissens Rosenstock kaum Aussagen gemacht. Für ihn war der Nationalsozialismus ein Stück rasanter Dummheit. Man erinnere sich da an das alte Witzwort: „Selig sind die Armen im Geiste, denn ihrer ist das Dritte Reich“. Rosenstock aber schrieb: „Hitler war die Antwort des von allem Denken enthobenen Volkes. Angebrüllt werden ist besser als objektiv ausgedacht werden. Denn das Böse, das aus den Herzen kommt, hat Luther gesagt, ist immer noch lebensspendender als das Gute, das aus dem Kopf stammt. Das ist natürlich auch eine Kritik an der Demokratie, um die man nicht herumkommt, wenn man sich an Plato erinnert, der die Tyrannis als Folge der Demokratie sah, und auch nicht Aristoteles vergißt, der uns ermahnt hatte, in der Demokratie ein Regierungssystem zu sehen, in dem die Stimmen gezählt und nicht gewogen werden. Stimmt man mit den Erkenntnissen der Antike überein, darf man sich nicht an Rosenstocks Feststellung stoßen, daß die Masse der Deutschen das Denken nie erlernt hatte, was aber natürlich für alle Massen auf dem weiten Erdenrund zutrifft. Und Masse, wie Rosenstock hervorhob, kommt vom lateinischer Massa, d.h. Teig, und ein Teig läßt sich nun einmal kneten. Dies hatte der Nationalsozialismus mit dem deutschen Volk vor und nach der „Machtübernahme“ gründlichst getan.

Doch die Nationalsozialisten taten eben noch etwas - nicht ganz anderes wohl aber Dazugehörendes: sie füllten den Alltag des modernen Menscher aus, was ja auch die Kommunisten in Rußland taten und was Rosenstock „anerkennend“ bemerkte. Das ist natürlich ein Problem der Moderne und erinnert auch an einen Ausspruch von Karl Kraus, der mit Ironie gesagt hatte daß wenn man dem Menschen die Politik wegnimmt, ihm gar nichts mehr übrigbliebe als sein Innenleben. In der Sowjetunion war es tatsächlich nicht nur die Arbeit, die daseinsausfüllend wirken sollte, sondern auch die marxistische Heilslehre, die in der Zweiten Revolution des Jahres 1917 von der RSDAP, der Russischen Sozialdemokratischen Arbeiterpartei, in Szene gesetzt wurde. (Erst 1918 nannten sich die radikalen Vertreter der RSDAP „Kommunisten“.) Die Wichtigkeit der Arbeit, ja, die Heiligung der Arbeit hat auch das katholische, in Spanien gegründete Opus Dei erkannt.

Für die Nationalsozialistische Arbeiterpartei waren konstruktive Volksgenossen eben auch nur die „Arbeiter der Stirne und der Faust“, die Werktätigen im roten Jargon. Für die Arbeit muß es allerdings auch eine Muße geben und dafür war dann Kraft durch Freude, wobei die Freude da nicht Selbstzweck war, sondern nur der Kraft diente.

Es war aber bei weitem eben nicht nur die Arbeit, sondern vor allem die weltanschauliche Ausfüllung eines doch größtenteils religiösen Vakuums, das von größter Bedeutung war. Was das Leben des Menschen in der Vergangenheit ausfüllte, war zwar oft harte, aber kreative Handarbeit, wenn nicht gar künstlerische oder kunstverwandte Schöpfung, wie z.B. beim Schneider, Schuster, Tischler, Baumeister. Dazu kamen früher vier hochwichtige Elemente: Religion, Familienleben, vaterländische Begeisterung und noch zivile Vereinigungen. Alles das wurde kollektiviert, in Frage gestellt, bedroht, an den Rand gedrängt. Der „Sinn des Lebens“ entfloh, die Treuebindungen nach oben und unten zerbrachen. Dafür gab es Parteien und Parteiungen mit Wahlschlachten, wahre Orgien von Treueerschütterungen und Treuebrüchen. Die alle Bürger verbindenden Loyalitäten zerbrachen. Vergessen wir nicht, daß allein schon das Wort „Partei“ („Teil“) auf einen Zwist hinweist. Das gewählte Staatsoberhaupt, anders als der Monarch, wurde von einem Teil des Volkes gewünscht, von den anderen abgelehnt, wenn nicht gehaßt oder verachtet.

In dieses Vakuum stieß eine Ideologie vor, die in einem archaischen Land wie Rußland nur ein sehr kleines Segment der Bevölkerung ergriff, in den modernen deutschen Landen ebenso wie in Frankreich am Ende des 18. Jahrhunderts jedoch ein sehr großes. Hier, in einer von der Monotonie geplagten Gesellschaft war auf einmal durch die Synthese „der beiden Jahrhundertkräfte“ (Pfitzner), durch Nationalismus und Sozialismus, den Massen ein neuer Lebensinhalt geboten worden. Und da war nach 1933 eine Regierung vorhanden, die energisch handelte, die eine dynamische, aufregende Politik betrieb, die nach Jahren der Erniedrigung die ganze Welt in Atem hielt. „Viele Deutsche wurden Nazis“, schrieb Rosenstock, „denn schlechte Entscheidungen sind besser als gar keine“. Als es dann am Ende des „Tausendjährigen Reiches“ und nach dem Zusammenbruch offenbar wurde, daß die schlechten Entscheidungen unsagbar dumm und zugleich verbrecherisch waren, verlor die braune Masse bis auf kleine Minderheiten ihren Glauben.

Über die Untaten zeigte sich Rosenstock-Huessy nicht erstaunt. Er zitierte mir gegenüber Dostojewskij: „Wenn es Gott nicht gibt, dann ist alles erlaubt!“ Ich aber treffe manchmal, wenn auch sehr selten, Nationalsozialisten, die von ihrem Glauben nicht loskommen, weil es ihnen vor dem Nichts graut, aber öfters ehemalige Braune, die zu keiner Alternative gefunden haben und bitter die Jahre beklagen, in denen sie vor Begeisterung lichterloh gebrannt hatten und bereit gewesen waren, für ihre Ersatzreligion jedes Opfer zu bringen, denn der Mensch ist nun einmal ein ideologisch-religiöses Wesen; er lebt nicht durch Brot allein, er ist nicht nur auf den Genuß ausgerichtet, sondern auch auf Askese und Opfer. „Alles in der Welt läßt sich ertragen, nur nicht eine Reihe von schönen Tagen!“, wie schon Goethe sagte.

Eine Hinwendung zur Religion löst für solche Menschen dieses Problem, aber die Gnade des Glaubens läßt sich nicht „verordnen“ und eine Bekehrung zur Liberaldemokratie ist zumeist eine eitle Hoffnung. Heute stehen wir sogar dem Neologismus der „Demokratieverdrossenheit' gegenüber, und Professor Allan Bloom hat uns in seinem amerikanischen Beststeller The Closing of the American Mind gestanden, daß die großen Europäer stets rechts standen. Wer könnte sich auch einen nicht jugendlich-enthusiastischen, sondern reifen Sokrates, Plato, Aristoteles, Dante, Shakespeare, Leibniz, Vico, Pascal, Kant, Schiller, Goethe, Hegel, Schelling, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Spengler, Freud, Solowjew oder Berdjajew als Protagonisten unserer heutigen Demokratie oder des Sozialismus vorstellen? Die liberale, parlamentarische Demokratie ist ja auch keine geschlossene Ideologie, sondern eigentlich nur ein Rahmen, in den durch Wahlen ein Bild eingelegt wird. Und auf Grund dieses vorher nicht festgelegten Bildes regiert dann nicht „das Volk“, eine reine Abstraktion, sondern die Vertreter einer Mehrheit über eine Minderheit.

In seinem großen Werk Die europäischen Revolutionen spricht er, sich an Polybius anlehnend, von einem historisch wiederholten Kreislauf von der Monarchie über die Aristokratie zur Demokratie, betont aber ganz richtig, daß diese Staatsformen nie in völliger Reinheit, sondern stets mit anderen gemischt vorkommen. Rosenstocks Denken war eigentlich zu elitär, um sich für die - sagen wir - betont demokratische Staatsform zu erwärmen. Er hatte die Erfahrung der Krisen und der Wandlung der Weimarer Republik hinter sich. Das glaubte ich aus unserer Diskussion herauszuhören. Politische Denker wie Rousseau und Thomas Paine hielt er für ein ganz großes Unglück. Seine Bejahung Amerikas widerspricht dem nicht, da das Wort „Demokratie“ weder in der Unabhängigkeitserklärung, noch in der Verfassung der USA aufscheint, und die Gründerväter der Union, die sich in der Verfassung nicht einmal als Republik bezeichnet, überzeugte Antidemokraten waren. Drüben machte sich erst nach 1828 der Einfluß der Ideen der Französischen Revolution massiv bemerkbar. Ob Rosenstock in Dartmouth, wo er lehrte, antidemokratische Äußerungen machte? Leicht möglich. Wie Rosenstock einmal betonte, zeichnet sich die geistige Welt der amerikanischen Universitäten durch einen völligen Mangel an Originalität aus; es bleibe die Rolle von importierten Europäern im Professorat, den stark konformistischen Charakter der dortigen Hochschulen zu durchbrechen. Er gab aber auch zu, daß es europäisch-kontinentale Gedankengänge gäbe, die den Amerikanern nicht immer gut tun.

Rosenstock wurde amerikanischer Staatsbürger, bezeichnete sich aber nicht als Refugee, vielleicht weil ihm die Gesellschaft der meist linksdralligen Emigraille nicht sympathisch war, und stellte fest, daß ihm das preußische Kultusministerium bis zur Kriegserklärung Hitlers an Amerika monatlich 150 Dollar schickte. In seinen Büchern benützte er zwar die „Wir-Form“ für Amerikaner, doch paßte er in die amerikanische Szene eigentlich nicht hinein. Sein enormes Wissen schreckte die Amerikaner, sie verstanden ihn wenig, doch muß man gestehen, daß Georg Müller in seinem Nachwort zu Rosenstock Ja und Nein recht hatte, als er schrieb, wie schwierig es sei, eine systematische Einführung zur Ideenwelt Rosenstocks zu verfassen. Dem muß man wohl zustimmen, zugleich aber protestierte Rosenstock in seiner Soziologie, daß man ihn als „unsystematisch“ betrachte. Auch ich muß sagen, daß ich selbst es mühevoll finde, immer und überall dem roten Faden seiner Gedankenwelt nachzuspüren. In Dartmouth hatte er jedoch eine Gruppe von Jüngern um sich. Er hatte sie zweifellos fasziniert.

In vielerlei Beziehung war Rosenstock sehr deutsch. Ich glaube - beweisen kann ich es nicht -, daß seine Exilierung ihn doch so schmerzte, daß er deswegen an einer öffentlichen Distanzierung zu seiner Heimat Abstand nahm. Man kann sich gar nicht vorstellen, welch ungeheurer Blödsinn in Amerika, das ja eine gigantische Insel im Weltmeer ist, über Deutschland gesagt, geschrieben und auch gefilmt wurde. Die ganze psychologische Kriegsführung war eine Fortsetzung der Propaganda des Ersten Weltkrieges, und die marxistischen Emigranten, wie Gustav Stolper festgestellt hatte, waren daran furchtbar schuldig. Rosenstock war für interne Propagandazwecke nicht benützbar und dasselbe konnte man von Brüning sagen, dem ich erst drüben begegnet bin und der einen ganz großen Eindruck auf mich machte. Die Linke griff ihn wegen seiner Passivität wütend an.

Was in Deutschland geschehen war, entsetzte, aber überraschte ihn eigentlich nicht. Er bekräftigte, daß „die Massen keinen Rückblick und keinen Sinn für die Zukunft haben“. Auch bestand er darauf, daß jede Revolution ihre Abwehr viel grausamer gestalte als jede vorhergehende (oft nur angebliche) Unterdrückung. Sicherlich waren die Französische und die Russische Revolution zu einer Zeit liberaler Reformen ausgebrochen und die Weimarer Republik war viel eher chaotisch als repressiv. Die russische Revolution zerstörte übrigens nicht die Monarchie, sondern eine demokratische Republik unter der Führung Kerenskis, eines hellen Narren und verkappten Sozialrevolutionärs. Wir stehen hier einfach sowohl primitiven Leidenschaften als einem Sieg von Ideen gegenüber. „Ideas Have Consequences“, um den Titel eines amerikanischen konservativen Buches zu zitieren. Die Mischung von Leidenschaften mit Ideen führen jedoch allzuleicht zur Unerbittlichkeit. Der Sturz monarchischer Patriarchalität hat überall nur die entsetzlichsten Folgen gehabt Nicht nur in Europas drei Kaiserreichen, sondern auch in Spanien, Jugoslawien, Rumänien, Bulgarien, China, Iran, Afghanistan, Äthiopien; sie hat auch Portugal, Italien, Griechenland und Brasilien nichts Gutes gebracht.

Der „Restauration“ in Deutschlands Westen nach 1945 stand Rosenstock mit einer gewissen Skepsis gegenüber, denn er empfand sich als ein wichtiger Anreger des Kreisauer Kreises vor 1933, dessen Ideen keine Verwirklichung fanden. Auch entdeckte er, daß die deutsche Jugend an derselben Sterilität litt wie die amerikanische. An einer Universität im Herzen Europas hätte es Rosenstock wahrscheinlich nicht leicht gehabt. Revolution und Krieg hatten ihm eigentlich doch übel mitgespielt. Er hat Deutschland nach dem Krieg zwar wiedergesehen, war aber doch fern von der Heimat in Vermont im 85. Lebensjahr gestorben - ein Riese, der in unsere kleinkarierte Welt nicht mehr hineingepaßt hat.

mardi, 12 mai 2009

E. J. Jung - Vordenker eines neuen Staates

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Edgar Julius Jung -

Vordenker eines neuen Staates
Geschrieben von Daniel Bigalke   
http://www.blauenarzisse.de/

Der Jurist und politische Philosoph Edgar Julius Jung (1894-1934) ist heute entweder gar nicht mehr bekannt oder wird von den wenigen, die sich seines Namens erinnern und dies mit Abneigung tun, als Vordenker des Nationalsozialismus gewertet. Seine publizistische Tätigkeit in der Weimarer Republik hätte Hitler den Weg bereitet und sei nationalistisch, so schreibt selbst der CDU-Politiker Friedberg Pflüger in einem Buch von 1994. Daß Jung aber als Vordenker einer Theorie von Demokratie und Staat gesehen werden muß, die allein aus dem Phänomen seiner Zeit zu verstehen und mit heutigen Maßstäben von „Demokratie“ nicht zu messen ist und daß er deshalb eines der ersten Opfer des Nationalsozialismus wurde, dies zu benennen ist es höchste Zeit.

Edgar Julius Jung empfand sich als nationalbewußt, nicht als nationalistisch. Er sah sich als übernationalen Kosmopoliten, der dem kulturellen Leben eines jedes Volkes eine Eigengesetzlichkeit zubilligte und auch dem „Reich“ eine sittlich verpflichtende übernationale Größe zukommen ließ. Dies wurde zuletzt einzig in Johann Gottlieb Fichtes (1762-1814) „Reden an die deutsche Nation“ zum Ausdruck gebracht, welche dann die Befreiungskriege gegen die napoleonische Herrschaft in Preußen 1813 initiierten. Jung schrieb in seinem Hauptwerk „Die Herrschaft der Minderwertigen. Ihr Zerfall und ihre Ablösung“ (1927): „Die kulturelle Vergewaltigung, die der (…) Nationalstaat im Gefolge hat, ist ihm [dem neuen Staate – Anm. d. V.] fremd, weil auch das kulturelle Leben des Volkes seiner Eigengesetzlichkeit untersteht.“ Gegen den Primat des Nationalstaates stellt er also die Pluralität der je spezifischen Völker und Kulturen, die zu überfallen und mit einem globalen Demokratie-Muster zu vergewaltigen eine pure lebensundienliche Anmaßung sei. Diese läßt sich vielmehr und merklicher heute im Verhalten der USA auf dem südasiatischen Kontinent feststellen. Doch zurück zum Hauptwerk Jungs.

Neue Eliten statt Pseudo-Eliten

Der Jurist und Theoretiker der Jungkonservativen, der auch als Mitglied des Freikorps Epp gegen die Münchner Räteherrschaft agierte und zudem den „Rheinisch-Pfälzischen Kampfbund“ gegen separatistische Bestrebungen im Reiche gründete, veröffentlichte sein Buch, um die Notwendigkeit einer Konservativen Revolution zu verdeutlichen. Damit meinte er die Erhaltung der überindividuellen Werte des Menschen, die Förderung der „Hochwerte“ gegen jene „Werte“, die der Zersplitterung der Gemeinschaft, des Volkes und des dialogischen Solidarprinzips zwischen Ich und Du entgegenwirkten. Sie nämlich propagierten den puren Individualismus, der als simulierte Freiheit über den lebensfremden Mechanismus des Stimmzettels sich unrechtmäßig legitimiere. Die Eiferer des Materialismus, des Profits und ausschließlich individueller Wohlfahrt gelte es zu beseitigen, was für Jung lediglich in der Diktion Nietzsches einer Beseitigung der „Unfähigen“ gleichkommt. Daß der Begriff der „Minderwertigkeit“ nach Jungs eigener Aussage womöglich unglücklich gewählt sei, sollte nicht darüber hinwegtäuschen, daß es ihm nur um eine Ablösung der oligarchisch im Parlament abgeschotteten Pseudo-Eliten ging, die sich anmaßten, die Stimme vieler Hunderttausend repräsentieren zu können. Damit war Jung freilich aufgefordert, eine alternative politische Theorie anzubieten, welche wesentlich im Gefolge seines Lehrers Vilfredo Pareto (1848-1923) eine Zirkulation der Eliten erstrebte.

Die Wiedergeburt neuen deutschen Denkens

Jungs Kulturkritik trug dabei den Charakter einer Hochschätzung von Stand und Genossenschaft im Staate. Dieser Staat sollte sich im Rahmen einer ausdrücklichen Wiederverchristlichung realisieren. Er sah hierfür metaphysisch begründete überindividuelle Werte als Basis aller Gemeinschaft für notwendig an. Damit bietet Jung als einer der ersten noch vor Armin Mohler eine inhaltliche Definition des Prinzips der Konservativen Revolution an. In seinem Essay „Deutschland und die Konservative Revolution“ schreibt er dazu:

„Konservative Revolution nennen wir die Wiederinachtsetzung all jener Gesetze und Werte, ohne welche der Mensch den Zusammenhang mit der Natur und mit Gott verliert und keine wahre Ordnung aufbauen kann.“

So verwundert es nicht, daß das Mittelalter als ideeller Fluchtpunkt für das Maß künftiger Neugestaltung galt, um mit ihm – so das Vorwort in „Die Herrschaft der Minderwertigen“ – die Schaffung „geistiger Vorbedingungen“ für die „deutsche Wiedergeburt“ voranzutreiben. Aus dem Gefühl der Bedrängnis ihres politisch-geistigen Erbes resultiert bei den Denkern der Konservativen Revolution ein Affekt gegen die als geistlos-partikularistisch bewertete Parteiendemokratie. Im Vorwort zum Hauptwerk Jungs steht: „Die Revolution des Geistes hat jetzt eingesetzt.“ Sie wendet sich gegen die „geistig seelische Verödung“. Jung stellt damit sein wesentliches Ziel heraus und gilt nicht ohne Grund als wichtiger Vertreter seiner geistigen Strömung: Er spürte in sich den „Drang nach Ewigkeit, begleitet von dem Bewußtsein der Begrenztheit irdischen Lebens“. Er steht damit zugleich in einer längeren geistigen Tradition, nämlich derjenigen des Deutschen Idealismus, dessen wichtigstes Prinzip die Begründung menschlicher Existenz in Freiheit, die sich nicht in abstrakten Gesinnungen erschöpfe, sondern die sich im Bewußtsein irdischer Endlichkeit praktisch in Recht, Staat und Nation zu realisieren habe. Der Politologe Bernhard Willms betonte für die jüngere Gegenwart diesen zeitlos gültigen Aspekt des deutschen Denkens als das „Streben nach jener Idee als der Einheit von allgemeiner Wirklichkeit und individuellem Bewusstsein.“

Systemalternative jenseits des Nationalsozialismus

Als gedankliches Ziel tritt eine realitätsbezogene Übereinstimmung von sittlich-subjektivem Wollen und wirklich-politischem Sein zutage, die mit parteipolitischer Gesinnung und oberflächlichem Parteihader als strukturelle Veränderung nicht erreichbar ist. Kurz: Würden Wahlen etwas bewirken, hätte man sie längst abgeschafft. Edgar Jung wollte aus diesem Grund die Dekadenz des parlamentarischen Systems ablösen, nicht aber aus an sich menschenverachtenden Motiven heraus, sondern aus dem tiefsten Willen zur Erhaltung „hochwertigerer“ und humanerer Alternativen, die sich in einem organischen Staat über den zeitweisen Weg einer kommissarischen Diktatur geführt von einer tatsächlichen Elite realisieren sollten. Kommissarische Diktatur meint hier im Gegensatz zu souveräner Diktatur die Rettung einer verfassungsmäßigen Ordnung und ein politisches Agieren innerhalb derselben. Kurz: Systemveränderung durch systemeigene Möglichkeiten – eben Metapolitik. Zwar erwog Jung schon lange ein Selbstmordkommando zur Ermordung Hitlers, gegenüber dem er eine tiefe Aversion hatte, entschied sich aber dennoch für den systemkonformen publizistischen Weg

.„Wir müssen verhindern, daß Hitler auch nur einen Tag an die Macht gelangt.“

So sprach er bei einer Harzburger Tagung im Jahre 1931. Er befürchtete im Nationalsozialismus den entfesselten Nihilismus und seine parteipolitische Demagogie seitens der ersten klassenübergreifenden „Volkspartei“ noch vor der CDU oder SPD, nämlich der NSDAP. Innerhalb der Weimarer Republik wirkte Jung nunmehr „systemkonform“ als Redenschreiber für den Politiker Franz von Papen, dessen Marburger Rede vor Studenten er schrieb. Sie wurde am 17. Juni 1934 durch Franz von Papen gehalten und führte zu Jungs sofortiger Verhaftung am 25. Juni.

Die Marburger Rede und das Ziel ewiger Werte

In dieser Rede übte Jung über die Autorität von Papens gleichwohl massive Kritik an den Mißständen der nationalsozialistischen Herrschaft. Er reklamierte ein geordnetes Wachstum, sprach sich gegen Kollektivismus in Wirtschaft und Gesellschaft aus und erteilte dem Nationalsozialismus eine Absage. Papen forderte die ständische Neuordnung nach wilhelminischem Vorbild als ein Alternativmodell und verlangte die Abschaffung der NSDAP als Überbleibsel des Parteiensystems. Im Ganzen handelt es sich um eine Darstellung wichtiger Gedanken Edgar J. Jungs. Er verdeutlichte damit, daß der Nationalsozialismus nur ein temporäres Durchgangsstadium im Zuge eines gesamteuropäischen Umwandlungsprozesses sei. Am 1. Juli 1934 wurde Jung deshalb bei Oranienburg erschossen. Es ahnten zu dieser Zeit nur wenige, daß dieser Akt zugleich der fortschreitenden Vernichtung der eigentlichen konservativen Opposition gleichkam.

Nationalbewußt – nicht nationalistisch

Diese Opposition nämlich bot mit Jung eine Definition des konservativen Elements an, das zu leben und umzusetzen weiterhin lohnenswert ist. Dieses Element besagt, daß es nicht konservativ ist, ein notwendiges Geschehen aufhalten zu wollen. Konservativ ist nur die Erhaltung ewiger Werte und nie zeitlich dominierender Werte. Zu den zeitbedingten Werten zählen zum Beispiel die Vorhaben in Parteiprogrammen, die nur Produkt der sozialen Rivalitäten bestimmter Zeiten sind. Ein offenes, nicht-repressives, nicht-rassistisches, tiefgründiges, nicht nationalsozialistisches, nicht parteipolitisches und damit undogmatisches Denken mit durchaus internationaler Perspektive ging mit Jungs Tod zu Ende. Diese Tragödie wiederum stellte die Deutschen gerade in Anbetracht des entschiedenen Widerstandes beispielsweise Stauffenbergs gegen Hitler vor eine noch höhere Aufgabe, die Jung selbst im Vorwort zu seinem Hauptwerk artikulierte: „Man muß dem deutschen Volke zutrauen, daß es seine Kräfte umso mehr anstrengt, je tiefer ihm der Abgrund dargestellt wird, aus dem es sich emporzuarbeiten hat.“ Wenige Deutsche taten dies verzweifelt in ihrem Widerstand gegen Hitler weiterhin. Sie wurden nach dem 20. Juli 1944 gnadenlos ausgemerzt. Mit ihnen verschwanden – mit Jung zu sprechen – die wenigen Erlesenen, die wenigen zur humanen selbstlosen Elite geeigneten, welche Jung gewiß zu den „Hochwertigen“ gezählt hätte.

mercredi, 06 mai 2009

Democrazia come partecipazione: Moeller van den Bruck

Democrazia come partecipazione: Moeller van den Bruck


«La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino»


Si fa presto a dire “democrazia”. Termine che mette effettivamente i brividi, a chi abbia un po’ di esperienza circa il modus operandi dei “democratici” d’Italia e del mondo. Ma si può essere sostenitori della democrazia nonostante i democratici? Può una democrazia essere organica, comunitaria, nazionale, antiliberale e antioligarchica? In un’epoca di tecnocrazia e grandi potentati transnazionali che espropriano i popoli di ogni brandello di sovranità può la partecipazione essere la bandiera di una politica non conforme? Arthur Moeller van den Bruck (1876 – 1925, in foto) avrebbe risposto in modo affermativo a tutte queste domande. Ma andiamo con ordine. Chi era, innanzitutto, l’autore che porta un nome tanto imponente e ridondante?

Nato il 23 aprile 1876 a Solingen, Moeller è considerato uno dei padri nobili e degli spiriti animatori della vasta corrente di pensiero conosciuta come “Rivoluzione conservatrice”. Chiamato Arthur dal padre in onore di Schopenhauer, il futuro cantore dei “popoli giovani” comincia, nelle sue prime uscite pubbliche, ad affiancare al cognome paterno anche quello – di origine olandese – della madre: Elise van den Bruck. Si forma su Nietzsche, Dostoewskij, Langbehn, Chamberlain e Gobineau. Nella giovinezza un po’ bohémien fa la conoscenza di Rudolf Steiner, August Strindberg, del pittore völkisch Fidus, Edvard Munch, Dimitri Merezkowskij, Theodor Däubler ed Ernst Barlach. Dal 1904 al 1910 scrive l’opera enciclopedica Die Deutschen (I Tedeschi) un ritratto dei maggiori geni della cultura tedesca, mentre nel 1906 inizia la traduzione delle opere complete di Dostoewskij. Nel 1913 pubblica Die italienische Schönheit (La bellezza italiana). Nel 1914 parte volontario. Nel 1916 pubblica Der prussische Stil (Lo stile prussiano) e, dopo la disfatta, nel giugno 1919 lo troviamo tra i fondatori dello Juniklub, comunità nazionalconservatrice di Berlino, e di Gewissen, importante rivista nazionalista. Del 1919 è il suo saggio politico Das Recht der jungen Völker (Il diritto dei popoli giovani). Nel 1923 pubblica invece il suo libro più celebre, Das dritte Reich (Il terzo Reich, traduzione italiana di Luciano Arcella, Settimo Sigillo, Roma 2000). Nel 1925 si suicida a Berlino.

Nel suo saggio più celebre, che porta un titolo oggi piuttosto impegnativo come Il terzo Reich (ma ricordiamo che il testo uscì 10 anni prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo e che l’autore si tolse la vita otto anni prima che Hitler divenisse cancelliere), Moeller traccia una originale visione politica basata su alcune istantanee fissate in modo vivido e caustico. Il libro è in effetti composto da diversi capitoli, ognuno dei quali prende le mosse da un termine del lessico politico e da una breve frase introduttiva. Das dritte Reich, per fare un esempio, si apre con il capitolo intitolato “Rivoluzionario – Vogliamo vincere la rivoluzione”, seguito da “Socialista – Ogni popolo ha il suo socialismo”. E così via. Ora, il quarto capitolo del saggio è dedicato esattamente alla democrazia ed ha per titolo: “Democratico – La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino”. Frase già di per sé rivelatrice, non c’è che dire. Come nel resto del libro, Moeller prende le mosse dalla situazione concreta della Repubblica di Weimar, per poi passare a considerazioni di tipo più generale. Leggiamo quindi l’inquadramento generale del problema in questi termini: «La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino. Ed il destino del popolo, dovremmo dire, è pertinenza del popolo. La domanda è sempre la stessa: come è realizzabile una effettiva partecipazione?». Con il Parlamento, risponderebbe il liberale. Moeller la pensa diversamente. Per lui il Reichstag è «la struttura incaricata della diffusione delle frasi fatte». Il problema, per il teorico della konservative Revolution, non sono tuttavia le istituzioni, ma lo spirito che le anima. La democrazia, scrive Moeller, esiste da prima del Parlamento. Essa era anzi intrinseca nella mentalità degli stessi antichi Germani. «Fra i neoconservatori – spiega Alain de Benoist– la nozione di Reich non è a priori antagonistica nei confronti della democrazia. Di fronte a questo tipo di regime, i membri dello Juniklub non professano, d’altronde, alcuna ostilità di principio. Cercano piuttosto di creare una “democrazia tedesca” – così come si pronunziano per un “socialismo tedesco”. È un atteggiamento, molto caratteristico in loro, mirante a “nazionalizzare” una dottrina piuttosto che non a respingerla».

Esiste una democrazia tutta tedesca, quindi, che non ha a che fare con il parlamentarismo. Quest’ultimo «in Germania non ha nessuna tradizione», e la Germania stessa «è un paese troppo nobile per il parlamentarismo». In questo quadro, «la volontà di democrazia è volontà di autocoscienza politica di un popolo: essa è la sua autoaffermazione nazionale. La democrazia è l’espressione dell’autostima di un popolo, oppure non è nulla».
In concreto, «si potrebbe immaginare in Germania una democrazia che si prenda cura soprattutto della vita del popolo, che sia in grado di radicare la repubblica nella specificità del paese, nella differenza delle componenti etniche e nell’armonia generale del popolo. Non la forma dello Stato, ma lo spirito dei cittadini realizza la democrazia. La sua base è il senso del popolo […]. Se vogliamo salvare la democrazia tedesca dobbiamo rivolgerci lì dove l’elemento umano e l’elemento tedesco non sono stati contaminati: al popolo stesso, al carattere originario di questo popolo, che può sussistere anche in questo Stato. E potremmo forse dire che vi sarà vera democrazia in Germania solo quando non vi saranno più “democratici”. Vi sono popoli che si sono sollevati mediante la democrazia. Vi sono altri popoli che sono andati in rovina con la democrazia. La democrazia può significare stoicismo, concezione repubblicana, inflessibilità, durezza. Ma allo stesso tempo può significare liberalismo, chiasso parlamentare, lassismo».

Ora, cosa ci trasmettono queste parole al di là della problematica “tedesca, troppo tedesca” e fatti salvi tutti i mutamenti di contesto dal 1923 a oggi? L’idea, ad esempio, che la partecipazione è la base di ogni organismo politico sano, così come la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità. L’intuizione che dall’èra delle masse non si torna indietro e che essa rappresenta il campo di battaglia in cui si scontrano differenti concezioni del mondo. La consapevolezza che le battaglie antistoriche sono sempre perdenti e che è necessario “cavalcare la tigre” dei fenomeni in atto senza essere da loro cavalcati. Ma di tutto questo, va da sé, ci sarà tempo di riparlare.

mercredi, 15 avril 2009

L'influence d'Oswald Spengler sur Julius Evola

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

L'influence d'Oswald Spengler sur Julius Evola

par Robert Steuckers

 

«Je traduisis de l'allemand, à la demande de l'éditeur Longanesi (...) le volumineux et célèbre ouvrage d'Oswald Spengler, Le déclin de l'Occident. Cela me donna l'occasion de préciser, dans une introduction, le sens et les limites de cette œuvre qui, en son temps, avait connu une renommée mondiale».  C'est par ces mots que commence la série de paragraphes critiques à l'égard de Spengler, qu'Evola a écrit dans Le Chemin du Cinabre  (op. cit.,  p. 177). Evola rend hommage au philosophe allemand parce qu'il a repoussé les «lubies progressistes et historicistes», en montrant que le stade atteint par notre civilisation au lendemain de la première guerre mondiale n'était pas un sommet, mais, au contraire, était de nature «crépusculaire». D'où Evola reconnaît que Spengler, surtout grâce au succès de son livre, a permis de dépasser la conception linéaire et évolutive de l'histoire. Spengler décrit l'opposition entre Kultur  et Zivilisation, «le premier terme désignant, pour lui, les formes ou phases d'une civilisation de caractère qualitatif, organique, différencié et vivant, le second les formes d'une civilisation de caractère rationaliste, urbain, mécaniciste, informe, sans âme»   (ibid., op. cit., p.178). 

Evola admire la description négative que donne Spengler de la Zivilisation,  mais critique l'absence d'une définition cohérente de la Kultur,  parce que, dit-il, le philosophe allemand demeure prisonnier de certains schèmes intellectuels propres à la modernité. «Le sens de la dimension métaphysique ou de la transcendance, qui représente l'essentiel dans toute vraie Kultur, lui a fait défaut totalement»  (ibid., p. 179). Evola reproche également à Spengler son pluralisme; pour l'auteur du Déclin de l'Occident,  les civilisations sont nombreuses, distinctes et discontinues les unes par rapport aux autres, constituant chacune une unité fermée. Pour Evola, cette conception ne vaut que pour les aspects extérieurs et épisodiques des différentes civilisations. Au contraire, poursuit-il, il faut reconnaître, au-delà de la pluralité des formes de civilisation, des civilisations (ou phases de civilisation) de type "moderne", opposées à des civilisations (ou phases de civilisation) de type "traditionnel". Il n'y a pluralité qu'en surface; au fond, il y a l'opposition fondamentale entre modernité et Tradition.

Ensuite, Evola reproche à Spengler d'être influencé par le vitalisme post-romantique allemand et par les écoles "irrationalistes", qui trouveront en Klages leur exposant le plus radical et le plus complet. La valorisation du vécu ne sert à rien, explique Evola, si ce vécu n'est pas éclairé par une compréhension authentique du monde des origines. Donc le plongeon dans l'existentialité, dans la Vie, exigé par Klages, Bäumler ou Krieck, peut se révéler dangereux et enclencher un processus régressif (on constatera que la critique évolienne se démarque des interprétations allemandes, exactement selon les mêmes critères que nous avons mis en exergue en parlant de la réception de l'œuvre de Bachofen). Ce vitalisme conduit Spengler, pense Evola, à énoncer «des choses à faire blêmir» sur le bouddhisme, le taoïsme et le stoïcisme, sur la civilisation gréco-romaine (qui, pour Spengler, ne serait qu'une civilisation de la "corporéité"). Enfin, Evola n'admet pas la valorisation spenglérienne de l'«homme faustien», figure née au moment des grandes découvertes, de la Renaissance et de l'humanisme; par cette détermination temporelle, l'homme faustien est porté vers l'horizontalité plutôt que vers la verticalité. Sur le césarisme, phénomène politique de l'ère des masses, Evola partage le même jugement négatif que Spengler.

Les pages consacrées à Spengler dans Le chemin du Cinabre  sont donc très critiques; Evola conclut même que l'influence de Spengler sur sa pensée a été nulle. Tel n'est pas l'avis d'un analyste des œuvres de Spengler et d'Evola, Attilio Cucchi (in «Evola, la Tradizione e Spengler», Orion,  n°89, Février 1992). Pour Cucchi, Spengler a influencé Evola, notamment dans sa critique de la notion d'«Occident»; en affirmant que la civilisation occidentale n'est pas la civilisation, la seule civilisation qui soit, Spengler la relativise, comme Guénon la condamne. Evola, lecteur attentif de Spengler et de Guénon, va combiner éléments de critique spenglériens et éléments de critique guénoniens. Spengler affirme que la culture occidentale faustienne, qui a commencé au Xième siècle, décline, bascule dans la Zivilisation,  ce qui contribue à figer, assécher et tuer son énergie intérieure. L'Amérique connaît déjà ce stade final de Zivilisation  technicienne et dé-ruralisée. C'est sur cette critique spenglérienne de la Zivilisation  qu'Evola développera plus tard sa critique du bolchévisme et de l'américanisme: si la Zivilisation  est crépusculaire chez Spengler, l'Amérique est l'extrême-Occident pour Guénon, c'est-à-dire l'irreligion poussée jusqu'à ses conséquences ultimes. Chez Evola, indubitablement, les arguments spenglériens et guénoniens se combinent, même si, en bout de course, c'est l'option guénonienne qui prend le dessus, surtout en 1957, quand paraît l'édition du Déclin de l'Occident  chez Longanesi, avec une préface d'Evola. En revanche, la critique spenglérienne du césarisme politique se retrouve, parfois mot pour mot, dans Le fascisme vu de droite  et Les Hommes au milieu des ruines. 

Le préfacier de l'édition allemande de ce dernier livre (Menschen inmitten von Ruinen,  Hohenrain, Tübingen, 1991), le Dr. H.T. Hansen, confirme les vues de Cucchi: plusieurs idées de Spengler se retrouvent en filigrane dans Les Hommes au milieu des ruines;  notamment, l'idée que l'Etat est la forme intérieure, l'«être-en-forme» de la nation; l'idée que le déclin se mesure au fait que l'homme faustien est devenu l'esclave de sa création; la machine le pousse sur une voie, où il ne connaîtra plus jamais le repos et d'où il ne pourra jamais plus rebrousser chemin. Fébrilité et fuite en avant sont des caractéristiques du monde moderne ("faustien" pour Spengler) que condamnent avec la même vigueur Guénon et Evola. Dans Les Années décisives (1933), Spengler critique le césarisme (en clair: le national-socialisme hitlérien), comme issu du titanisme démocratique. Evola préfacera la traduction italienne de cet ouvrage, après une lecture très attentive. Enfin, le «style prussien», exalté par Spengler, correspond, dit le Dr. H.T. Hansen, à l'idée évolienne de l'«ordre aristocratique de la vie, hiérarchisé selon les prestations». Quant à la prééminence nécessaire de la grande politique sur l'économie, l'idée se retrouve chez les deux auteurs. L'influence de Spengler sur Evola n'a pas été nulle, contrairement à ce que ce dernier affirme dans Le chemin du Cinabre. 

 

 

lundi, 06 avril 2009

Spengler: An Introduction to his Life and Ideas

Spengler: An Introduction to His Life and Ideas

Keith Stimely

Oswald Spengler was born in Blankenburg (Harz) in central Germany in 1880, the eldest of four children, and the only boy. His mother's side of the family was quite artistically bent. His father, who had originally been a mining technician and came from a long line of mineworkers, was an official in the German postal bureaucracy, and he provided his family with a simple but comfortable middle class home. [Image: Oswald Spengler.]

The young Oswald never enjoyed the best of health, and suffered from migraine headaches that were to plague him all his life. He also had an anxiety complex, though he was not without grandiose thoughts -- which because of his frail constitution had to be acted out in daydreams only.

When he was ten the family moved to the university city of Halle. Here Spengler received a classical Gymnasium education, studying Greek, Latin, mathematics and natural sciences. Here too he developed his strong affinity for the arts -- especially poetry, drama, and music. He tried his hand at some youthful artistic creations of his own, a few of which have survived -- they are indicative of a tremendous enthusiasm but not much else. At this time also he came under the influence of Goethe and Nietzsche, two figures whose importance to Spengler the youth and the man cannot be overestimated.

After his father's death in 1901, Spengler at 21 entered the University of Munich. In accordance with German student-custom of the time, after a year he proceeded to other universities, first Berlin and then Halle. His main courses of study were in the classical cultures, mathematics, and the physical sciences. His university education was financed in large part by a legacy from a deceased aunt.

His doctoral dissertation at Halle was on Heraclitus, the "dark philosopher" of ancient Greece whose most memorable line was "War is the Father of all things." He failed to pass his first examination because of "insufficient references" -- a characteristic of all his later writings that some critics took a great delight in pointing out. However, he passed a second examination in 1904, and then set to writing the secondary dissertation necessary to qualify as a high school teacher. This became The Development of the Organ of Sight in the Higher Realms of the Animal Kingdom. It was approved, and Spengler received his teaching certificate.

His first post was at a school in Saarbrücken. Then he moved to Düsseldorf and, finally, Hamburg. He taught mathematics, physical sciences, history, and German literature, and by all accounts was a good and conscientious instructor. But his heart was not really in it, and when in 1911 the opportunity presented itself for him to "go his own way" (his mother had died and left him an inheritance that guaranteed him a measure of financial independence), he took it, and left the teaching profession for good.

Historical Explanation of Current Trends

He settled in Munich, there to live the life of an independent scholar/philosopher. He began the writing of a book of observations on contemporary politics whose idea had preoccupied him for some time. Originally to be titled Conservative and Liberal, it was planned as an exposition and explanation of the current trends in Europe -- an accelerating arms race, Entente "encirclement" of Germany, a succession of international crises, increasing polarity of the nations -- and where they were leading. However in late 1911 he was suddenly struck by the notion that the events of the day could only be interpreted in "global" and "total-cultural" terms. He saw Europe as marching off to suicide, a first step toward the final demise of European culture in the world and in history.

The Great War of 1914-1918 only confirmed in his mind the validity of a thesis already developed. His planned work kept increasing in scope far, far beyond the original bounds.

Spengler had tied up most of his money in foreign investments, but the war had largely invalidated them, and he was forced to live out the war years in conditions of genuine poverty. Nevertheless he kept at his work, often writing by candle-light, and in 1917 was ready to publish. He encountered great difficulty in finding a publisher, partly because of the nature of the work, partly because of the chaotic conditions prevailing at the time. However in the summer of 1918, coincident with the German collapse, finally appeared the first volume of The Decline of the West, subtitled "Form and Actuality."

Publishing Success

To no little surprise on the part of both Spengler and his publisher, the book was an immediate and unprecedented success. It offered a rational explanation for the great European disaster, explaining it as part of an inevitable world-historic process. German readers especially took it to heart, but the work soon proved popular throughout Europe and was quickly translated into other languages. Nineteen-nineteen was "Spengler's year," and his name was on many tongues.

Professional historians, however, took great umbrage at this pretentious work by an amateur (Spengler was not a trained historian), and their criticisms -- particularly of numerous errors of fact and the unique and unapologetic "non-scientific" approach of the author -- filled many pages. It is easier now than it was then to dispose of this line of rejection-criticism. Anyway, with regard to the validity of his postulate of rapid Western decline, the contemporary Spenglerian need only say to these critics: Look about you. What do you see?

In 1922 Spengler issued a revised edition of the first volume containing minor corrections and revisions, and the year after saw the appearance of the second volume, subtitled Perspectives of World History. He thereafter remained satisfied with the work, and all his later writings and pronouncements are only enlargements upon the theme he laid out in Decline.

A Direct Approach

The basic idea and essential components of The Decline of the West are not difficult to understand or delineate. (In fact, it is the work's very simplicity that was too much for his professional critics.) First, though, a proper understanding requires a recognition of Spengler's special approach to history. He himself called it the "physiogmatic" approach -- looking things directly in the face or heart, intuitively, rather than strictly scientifically. Too often the real meaning of things is obscured by a mask of scientific-mechanistic "facts." Hence the blindness of the professional "scientist-type" historians, who in a grand lack of imagination see only the visible.

Utilizing his physiogmatic approach, Spengler was confident of his ability to decipher the riddle of History -- even, as he states in Decline's very first sentence, to predetermine history.

The following are his basic postulates:

1. The "linear" view of history must be rejected, in favor of the cyclical. Heretofore history, especially Western history, had been viewed as a "linear" progression from lower to higher, like rungs on a ladder -- an unlimited evolution upward. Western history is thus viewed as developing progressively: Greek >Roman >Medieval >Renaissance >Modern, or, Ancient > Medieval >Modern. This concept, Spengler insisted, is only a product of Western man's ego -- as if everything in the past pointed to him, existed so that he might exist as a yet-more perfected form.

This "incredibly jejune and meaningless scheme" can at last be replaced by one now discernible from the vantage-point of years and a greater and more fundamental knowledge of the past: the notion of History as moving in definite, observable, and -- except in minor ways -- unrelated cycles.

'High Cultures'

2. The cyclical movements of history are not those of mere nations, states, races, or events, but of High Cultures. Recorded history gives us eight such "high cultures": the Indian, the Babylonian, the Egyptian, the Chinese, the Mexican (Mayan-Aztec), the Arabian (or "Magian"), the Classical (Greece and Rome), and the European-Western.

AthenaEach High Culture has as a distinguishing feature a "prime symbol." The Egyptian symbol, for example, was the "Way" or "Path," which can be seen in the ancient Egyptians' preoccupation -- in religion, art, and architecture (the pyramids) -- with the sequential passages of the soul. The prime symbol of the Classical culture was the "point-present" concern, that is, the fascination with the nearby, the small, the "space" of immediate and logical visibility: note here Euclidean geometry, the two-dimensional style of Classical painting and relief-sculpture (you will never see a vanishing point in the background, that is, where there is a background at all), and especially: the lack of facial expression of Grecian busts and statues, signifying nothing behind or beyond the outward. [Image: Atlas Bringing Heracles the Golden Apples in the presence of Athena, a metope illustrating Heracles' Eleventh Labor, with Athena helping Heracles hold up the sky. From the Temple of Zeus in Olympia, c. 460 BC.]

The prime symbol of Western culture is the "Faustian Soul" (from the tale of Doctor Faustus), symbolizing the upward reaching for nothing less than the "Infinite." This is basically a tragic symbol, for it reaches for what even the reacher knows is unreachable. It is exemplified, for instance, by Gothic architecture (especially the interiors of Gothic cathedrals, with their vertical lines and seeming "ceilinglessness"). [Image: Amiens choir.]

The "prime symbol" effects everything in the Culture, manifesting itself in art, science, technics and politics. Each Culture's symbol-soul expresses itself especially in its art, and each Culture has an art form that is most representative of its own symbol. In the Classical, they were sculpture and drama. In Western culture, after architecture in the Gothic era, the great representative form was music -- actually the pluperfect expression of the Faustian soul, transcending as it does the limits of sight for the "limitless" world of sound.

'Organic' Development

3. High Cultures are "living" things -- organic in nature -- and must pass through the stages of birth-development-fulfillment-decay-death. Hence a "morphology" of history. All previous cultures have passed through these distinct stages, and Western culture can be no exception. In fact, its present stage in the organic development-process can be pinpointed.

The high-water mark of a High Culture is its phase of fulfillment -- called the "culture" phase. The beginning of decline and decay in a Culture is the transition point between its "culture" phase and the "civilization" phase that inevitably follows.

The "civilization" phase witnesses drastic social upheavals, mass movements of peoples, continual wars and constant crises. All this takes place along with the growth of the great "megalopolis" -- huge urban and suburban centers that sap the surrounding countrysides of their vitality, intellect, strength, and soul. The inhabitants of these urban conglomerations -- now the bulk of the populace -- are a rootless, soulless, godless, and materialistic mass, who love nothing more than their panem et circenses. From these come the subhuman "fellaheen" -- fitting participants in the dying-out of a culture.

With the civilization phase comes the rule of Money and its twin tools, Democracy and the Press. Money rules over the chaos, and only Money profits by it. But the true bearers of the culture -- the men whose souls are still one with the culture-soul -- are disgusted and repelled by the Money-power and its fellaheen, and act to break it, as they are compelled to do so -- and as the mass culture-soul compels finally the end of the dictatorship of money. Thus the civilization phase concludes with the Age of Caesarism, in which great power come into the hands of great men, helped in this by the chaos of late Money-rule. The advent of the Caesars marks the return of Authority and Duty, of Honor and "Blood," and the end of democracy.

With this arrives the "imperialistic" stage of civilization, in which the Caesars with their bands of followers battle each other for control of the earth. The great masses are uncomprehending and uncaring; the megalopoli slowly depopulate, and the masses gradually "return to the land," to busy themselves there with the same soil-tasks as their ancestors centuries before. The turmoil of events goes on above their heads. Now, amidst all the chaos of the times, there comes a "second religiosity"; a longing return to the old symbols of the faith of the culture. Fortified thus, the masses in a kind of resigned contentment bury their souls and their efforts into the soil from which they and their culture sprang, and against this background the dying of the Culture and the civilization it created is played out.

Predictable Life Cycles

Every Culture's life-span can be seen to last about a thousand years: The Classical existed from 900 BC to 100 AD; the Arabian (Hebraic-semitic Christian-Islamic) from 100 BC to 900 AD; the Western from 1000 AD to 2000 AD. However, this span is the ideal, in the sense that a man's ideal life-span is 70 years, though he may never reach that age, or may live well beyond it. The death of a Culture may in fact be played out over hundreds of years, or it may occur instantaneously because of outer forces -- as in the sudden end of the Mexican Culture.

Also, though every culture has its unique Soul and is in essence a special and separate entity, the development of the life cycle is paralleled in all of them: For each phase of the cycle in a given Culture, and for all great events affecting its course, there is a counterpart in the history of every other culture. Thus, Napoleon, who ushered in the civilization phase of the Western, finds his counterpart in Alexander of Macedon, who did the same for the Classical. Hence the "contemporaneousness" of all high cultures.

In barest outline these are the essential components of Spengler's theory of historical Culture-cycles. In a few sentences it might be summed up:

Human history is the cyclical record of the rise and fall of unrelated High Cultures. These Cultures are in reality super life-forms, that is, they are organic in nature, and like all organisms must pass through the phases of birth-life-death. Though separate entities in themselves, all High Cultures experience parallel development, and events and phases in any one find their corresponding events and phases in the others. It is possible from the vantage point of the twentieth century to glean from the past the meaning of cyclic history, and thus to predict the decline and fall of the West.
Needless to say, such a theory -- though somewhat heralded in the work of Giambattista Vico and the 19th-century Russian Nikolai Danilevsky, as well as in Nietzsche -- was destined to shake the foundations of the intellectual and semi-intellectual world. It did so in short order, partly owing to its felicitous timing, and partly to the brilliance (though not unflawed) with which Spengler presented it.

Polemic Style

There are easier books to read than Decline -- there are also harder -- but a big reason for its unprecedented (for such a work) popular success was the same reason for its by-and-large dismissal by the learned critics: its style. Scorning the type of "learnedness" that demanded only cautionary and judicious statements -- every one backed by a footnote -- Spengler gave freewheeling vent to his opinions and judgments. Many passages are in the style of a polemic, from which no disagreement can be brooked.

To be sure, the two volumes of Decline, no matter the opinionated style and unconventional methodology, are essentially a comprehensive justification of the ideas presented, drawn from the histories of the different High Cultures. He used the comparative method which, of course, is appropriate if indeed all the phases of a High Culture are contemporaneous with those of any other. No one man could possibly have an equally comprehensive knowledge of all the Cultures surveyed, hence Spengler's treatment is uneven, and he spends relatively little time on the Mexican, Indian, Egyptian, Babylonian, and Chinese -- concentrating on the Arabian, Classical, and Western, especially these last two. The most valuable portion of the work, as even his critics acknowledge, is his comparative delineation of the parallel developments of the Classical and Western cultures.

Spengler's vast knowledge of the arts allowed him to place learned emphasis on their importance to the symbolism and inner meaning of a Culture, and the passages on art forms are generally regarded as being among the more thought-provoking. Also eyebrow-raising is a chapter (the very first, in fact, after the Introduction) on "The Meaning of Numbers," in which he asserted that even mathematics -- supposedly the one certain "universal" field of knowledge -- has a different meaning in different cultures: numbers are relative to the people who use them.

"Truth" is likewise relative, and Spengler conceded that what was true for him might not be true for another -- even another wholly of the same culture and era. Thus Spengler's greatest breakthrough may perhaps be his postulation of the non-universality of things, the "differentness" or distinctiveness of different people and cultures (despite their fated common end -- an idea that is beginning to take hold in the modern West, which started this century supremely confident of the wisdom and possibility of making the world over in its image.

Age of Caesars

But is was his placing of the current West into his historical scheme that aroused the most interest and the most controversy. Spengler, as the title of his work suggests, saw the West as doomed to the same eventual extinction that all the other High Cultures had faced. The West, he said, was now in the middle of its "civilization" phase, which had begun, roughly, with Napoleon. The coming of the Caesars (of which Napoleon was only a foreshadowing) was perhaps only decades away. Yet Spengler did not counsel any kind of sighing resignation to fate, or blithe acceptance of coming defeat and death. In a later essay, "Pessimism?" (1922), he wrote that the men of the West must still be men, and do all they could to realize the immense possibilities still open to them. Above all, they must embrace the one absolute imperative: The destruction of Money and democracy, especially in the field of politics, that grand and all-encompassing field of endeavor.

'Prussian' Socialism

After the publication of the first volume of Decline, Spengler's thoughts turned increasingly to contemporary politics in Germany. After experiencing the Bavarian revolution and its short-lived Soviet republic, he wrote a slender volume titled Prussianism and Socialism. Its theme was that a tragic misunderstanding of the concepts was at work: Conservatives and socialists, instead of being at loggerheads, should united under the banner of a true socialism. This was not the Marxist-materialist abomination, he said, but essentially the same thing as Prussianism: a socialism of the German community, based on its unique work ethic, discipline, and organic rank instead of "money." This "Prussian" socialism he sharply contrasted both to the capitalistic ethic of England and the "socialism" of Marx (!), whose theories amounted to "capitalism for the proletariat."

In his corporate state proposals Spengler anticipated the Fascists, although he never was one, and his "socialism" was essentially that of the National Socialists (but without the folkish racialism). His early appraisal of a corporation for which the State would have directional control but not ownership of or direct responsibility for the various private segments of the economy sounded much like Werner Sombart's later favorable review of National Socialist economics in his A New Social Philosophy [Princeton Univ. Press, 1937; translation of Deutscher Sozialismus (1934)].

Prussianism and Socialism did not meet with a favorable reaction from the critics or the public -- eager though the public had been, at first, to learn his views. The book's message was considered to "visionary" and eccentric -- it cut across too many party lines. The years 1920-23 saw Spengler retreat into a preoccupation with the revision of the first volume of Decline, and the completion of the second. He did occasionally give lectures, and wrote some essays, only a few of which have survived.

Political Involvement

In 1924, following the social-economic upheaval of the terrible inflation, Spengler entered the political fray in an effort to bring Reichswehr general Hans von Seekt to power as the country's leader. But the effort came to naught. Spengler proved totally ineffective in practical politics. It was the old story of the would-be "philosopher-king," who was more philosopher than king (or king-maker).

After 1925, at the start of Weimar Germany's all-too-brief period of relative stability, Spengler devoted most of his time to his research and writing. He was particularly concerned that he had left an important gap in his great work -- that of the pre-history of man. In Decline he had written that prehistoric man was basically without a history, but he revised that opinion. His work on the subject was only fragmentary, but 30 years after his death a compilation was published under the title Early Period of World History.

His main task as he saw it, however, was a grand and all-encompassing work on his metaphysics -- of which Decline had only given hints. He never did finish this, though Fundamental Questions, in the main a collection of aphorisms on the subject, was published in 1965.

In 1931 he published Man and Technics, a book that reflected his fascination with the development and usage, past and future, of the technical. The development of advanced technology is unique to the West, and he predicted where it would lead. Man and Technics is a racialist book, though not in a narrow "Germanic" sense. Rather it warns the European or white races of the pressing danger from the outer Colored races. It predicts a time when the Colored peoples of the earth will use the very technology of the West to destroy the West.

Reservations About Hitler

There is much in Spengler's thinking that permits one to characterize him as a kind of "proto-Nazi": his call for a return to Authority, his hatred of "decadent" democracy, his exaltation of the spirit of "Prussianism," his idea of war as essential to life. However, he never joined the National Socialist party, despite the repeated entreaties of such NS luminaries as Gregor Strasser and Ernst Hanfstängl. He regarded the National Socialists as immature, fascinated with marching bands and patriotic slogans, playing with the bauble of power but not realizing the philosophical significance and new imperatives of the age. Of Hitler he supposed to have said that what Germany needed was a hero, not a heroic tenor. Still, he did vote for Hitler against Hindenburg in the 1932 election. He met Hitler in person only once, in July 1933, but Spengler came away unimpressed from their lengthy discussion.

His views about the National Socialists and the direction Germany should properly be taking surfaced in late 1933, in his book The Hour of Decision [translation of Die Jahre der Entscheidung]. He began it by stating that no one could have looked forward to the National Socialist revolution with greater longing than he. In the course of the work, though, he expressed (sometimes in veiled form) his reservations about the new regime. Germanophile though he certainly was, nevertheless he viewed the National Socialists as too narrowly German in character, and not sufficiently European.

Although he continued the racialist tone of Man and Technics, Spengler belittled what he regarded as the exclusiveness of the National Socialist concept of race. In the face of the outer danger, what should be emphasized is the unity of the various European races, not their fragmentation. Beyond a matter-of-fact recognition of the "colored peril" and the superiority of white civilization, Spengler repeated his own "non-materialist" concept of race (which he had already expressed in Decline): Certain men -- of whatever ancestry -- have "race" (a kind of will-to-power), and these are the makers of history.

Predicting a second world war, Spengler warned in Hour of Decision that the National Socialists were not sufficiently watchful of the powerful hostile forces outside the country that would mobilize to destroy them, and Germany. His most direct criticism was phrased in this way: "And the National Socialists believe that they can afford to ignore the world or oppose it, and build their castles-in-the-air without creating a possibly silent, but very palpable reaction from abroad." Finally, but after it had already achieved a wide circulation, the authorities prohibited the book's further distribution.

Oswald Spengler, shortly after predicting that in a decade there would no longer be a German Reich, died of a heart attack on May 8, 1936, in his Munich apartment. He went to his death convinced that he had been right, and that events were unfolding in fulfillment of what he had written in The Decline of the West. He was certain that he lived in the twilight period of his Culture -- which, despite his foreboding and gloomy pronouncements, he loved and cared for deeply to the very end.


Journal of Historical Review, 17/2 (March/April 1998), 2-7. The illustrations, with the exception of the Spengler photo, do not appear in the original article.

vendredi, 03 avril 2009

Arthur Moeller van den Bruck

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Il y a 70 ans mourrait Arthur Moeller van den Bruck

 

«C'est une question que vous adressez au destin de l'Allemagne, lorsque vous me demandez qui fut Arthur Moeller van den Bruck», déclarait sa veuve Lucy en 1932, dans le seul et unique interview qu'elle a accordé pour évoquer la mémoire de son mari. En effet, la vie de Moeller van den Bruck, le protagoniste le plus significatif de la Révolution Conservatrice de l'entre-deux-guerres, reflète parfaitement l'esprit du temps. Mais si son époque l'a marqué, il l'a marquée tout autant. Le Juni-Klub qu'il avait fondé avec Heinrich von Gleichen en 1919 quand il devinait l'effondrement du Reich, la révolution spartakiste et les affres du Diktat de Versailles, devait devenir la cellule de base d'un mouvement “jeune-conservateur”. Un an plus tard, le Juni-Klub déménage et se fixe au numéro 22 de la Motzstraße à Berlin, pour déployer de nouvelles activités. Outre les soirées de débat, le Juni-Klub s'empressa de mettre sur pied un “collège politique” pour parfaire la formation politique des “nationaux”. En 1923, le Juni-Klub acquiert le droit de dé­cerner des diplômes reconnus par l'Etat et entame une activité journalistique intense. Finalement jusqu'à 50 journaux importants ou revues au tirage plus restreint ont été chercher leurs éditoriaux ou leurs bonnes feuilles dans les locaux de la Motzstraße. Dans tout le territoire du Reich, ces structures de for­mation et de publication se multiplient et se donnent un nom, Der Ring (= L'Anneau), qui symbolise le mou­vement national naissant, quadrillant le pays.

 

Le périodique le plus significatif des Jeunes-Conservateurs fut Gewissen,  une revue rachetée en 1920, dont la forme fut entièrement remodelée par Moeller. La revue a tout de suite suscité un grand intérêt et a eu les effets escomptés, comme l'atteste une lettre de Thomas Mann à Heinrich von Gleichen (1920): «Je viens de renouveler mon abonnement à Gewissen,  une revue que je décris comme la meilleure publication allemande, une publication sans pareille, à tous ceux avec qui je m'entretiens de politique». Moeller était véritablement le centre de toutes ces activités. En écrivant des brochures et d'innombrables articles, il façonnait le mouvement, lui donnait son idéologie, ses lignes directrices. Mais sa forte personnalité jouait un rôle tout aussi intense, rassemblait les esprits. Pourtant, jamais il n'écrivit de grande œuvre politique, mis à part des ouvrages de référence indispensables, comme Das Recht der jungen Völker  [= Le Droit des peuples jeunes] (1919), puis l'ouvrage collectif écrit de concert, notamment avec Heinrich von Gleichen et Max Hildebert Boehm, et destiné à devenir la base d'un programme “jeune-conservateur”, Die Neue Front  [= Le Front Nouveau] (1922) et, bien sûr, le plus connu d'entre tous ses livres, Das Dritte Reich (1923). Bien entendu, ce titre fait penser, par homonymie, au “Troisième Reich” des nationaux-so­cialistes, ce qui a nuit à la réputation de l'auteur et du contenu de l'ouvrage. Pourtant, Moeller émettait de sérieuses réserves à l'endroit de Hitler et de la NSDAP. Malgré son opposition, Hitler put parler un jour à la tribune du Juni-Klub en 1922, mais Moeller en tira une conclusion laconique, négative: «Ce gaillard-là ne comprendra jamais!». Après le putsch de Munich, Moeller commenta sévèrement l'événement dans Gewissen:  «Hitler a échoué à cause de sa primitivité prolétarienne».

 

Le mouvement jeune-conservateur

 

L'influence prépondérante de Moeller van den Bruck peut parfaitement se jauger: en 1924, quand une grave maladie le frappe et le contraint à abandonner tout travail politique, les structures mises en place se défont. Le 27 mai 1995, après plusieurs mois de souffrances, Moeller met volontairement un terme à ses jours. Ce sera Max Hildebert Boehm qui prononcera le discours traditionnel au bord de sa tombe: «Le chef, le bon camarade, l'ami cher, auquel nous rendons aujourd'hui un dernier hommage, est entré comme un homme accompli, comme un homme “devenu”, dans notre cercle de “devenants” (... trat als ein Gewordener in unseren Kreis von Werdenden)».

 

Pour Moeller, comme pour tant d'autres, la Première Guerre mondiale et ses conséquences ont constitué un grand tournant de l'existence. En effet, quand Moeller s'est définitivement donné au travail politique, il était déjà un homme accompli, un “devenu”. Né le 23 avril 1876 à Solingen, il avait derrière lui un chemine­ment aussi extraordinaire que typique. Il appartenait à une génération qui n'avait plus pu s'insérer dans la société du tournant du siècle; adolescent, il avait interrompu sa formation scolaire et s'était installé d'abord à Leipzig, où il fit la connaissance du dramaturge et poète Franz Evers, qui l'accompagnera long­temps et marquera plusieurs stades cruciaux de son existence. Ses seuls intérêts, à l'époque, étaient lit­téraires et artistiques. Ce jeune homme très sérieux avait un jour suscité la remarque ironique d'un audi­teur: «Vous avez-vous? Le jeune Moeller a ri aujourd'hui!». En 1896, il part pour le centre de la vie intellec­tuelle du Reich: Berlin.

 

Le style prussien

 

C'est dans la capitale allemande qu'il épousera un amour de jeunesse, Hedda Maase, qui partageait ses passions. Plus tard, elle a rédigé un mémoire détaillé sur son époque berlinoise, où elle décrit son mari: «Il s'habillait de façon très choisie et cherchait à exprimer l'aristocrate intérieur qu'il était à tous les niveaux, dans ses attitudes, dans les formes de son maintien, dans son langage». Un héritage leur permettait de vivre sans travailler; ainsi, ils pouvaient passer beaucoup de temps dans les cafés littéraires et dans les restaurants, et discuter des nuits entières avec des hommes et des femmes partageant leur sensibilité: parmi eux, Richard Dehmel, Frank Wedekind, Detlev von Liliencorn, le peintre et dessinateur Fidus, Wilhelm Lentrodt, Ansorge ou Rudolf Steiner. Ces réunions donnait l'occasion de pratiquer de la haute voltige intellectuelle mais aussi, assez souvent, comme Moeller l'avoue lui-même, de rechercher “le royaume au fond du verre”. Avec sa femme, il traduit, dans ces années-là, des ouvrages de Baudelaire, de Barbey d'Aurevilly, de Thomas de Quincey, de Daniel Defoë et surtout d'Edgar Allan Poe. Entre 1899 et 1902, il achève un ouvrage en douze volumes: Die moderne Literatur in Gruppen- und Einzeldarstellungen.

 

En 1902, Moeller quitte précipitamment Berlin sans sa femme, qui épousera plus tard Herbert Eulenberg. En passant par la Suisse, il aboutit à Paris. Il y restera quatre ans, parfois en compagnie d'Evers. Il édite plusieurs ouvrages, Das Variété (1902), Das Théâtre Français (1905) et Die Zeitgenossen (= Les Contemporains) (1906), flanqués de huit volumes, écrits entre 1904 et 1910, Die Deutschen. Unsere Menschengeschichte  (= Les Allemands. Notre histoire humaine). A Paris, Moeller avait fait la connais­sance de deux sœurs originaires de Livonie (actuellement en Lettonie), Less et Lucy Kaerrick, et de Dimitri Merejkovski. Ces amitiés ont permis l'éclosion du plus grand travail de Moeller: la première édition allemande complète de l'œuvre de Dostoïevski. Plus tard, Moeller épouse Lucy Kaerrick. En 1906, il voyage en Italie avec Barlach et Däubler, ce qui lui permettra de publier en 1913 Die italienische Schönheit  [= La beauté italienne]. En 1907, il retourne en Allemagne et accomplit sur le tard son service militaire, pour exprimer son engagement en faveur de l'Allemagne qu'il n'avait jamais cessé de manifester à l'étranger. Ensuite, il voyage encore dans tous les pays d'Europe. Quand éclate la Première Guerre mondiale, il est affecté dans une unité territoriale (Landsturm).  C'est à cette époque qu'il aura plusieurs longues conversations avec un jeune juriste, Carl Schmitt. En 1916, Moellers change d'affectation: il se retrouve dans le “département étranger” de l'état-major de l'armée de terre. La même année paraît un de ses meilleurs livres: Der preußische Stil  [= Le style prussien], recueil d'articles et d'essais antérieurs mais dont la portée ne s'était nullement atténuée.

 

Guido FEHLING.

(article paru dans Junge Freiheit, n°21/1995).

vendredi, 27 mars 2009

Revolutionary Conservative: Interview with Jonathan Bowden

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REVOLUTIONARY CONSERVATIVE:

INTERVIEW WITH JONATHAN BOWDEN

Interviewed by Troy Southgate - http://www.rosenoire.org/

REVOLUTIONARY CONSERVATIVE: INTERVIEW WITH JONATHAN BOWDEN As conducted by Troy Southgate

Jonathan Bowden is the Chairman of the New Right and a man I am proud to regard both as a like-minded spirit and a friend. The following interview was conducted in the summer of 2007.

Q1: Your family background is a heady mix of Irish and Mancunian and you were brought up in rural Kent. Would you say that any of this helped to shape your intellectual development in any significant way?

JB: One’s origins obviously influence the way everything turns out in the end. I actually spent many of my formative years in the south Oxfordshire countryside, but I do admit that the Kent coast offers a certain draw. I was born in Pembury maternity hospital in mid-Kent in 1962 and the family later branched out into Bearstead after that. I remember a blue Volkswagen beetle, an extremely low-lying bungalow, roundabouts, that sort of thing… it was all very middle-class. I especially recall a Gothic moment from my own childhood; it concerned a mad woman or witch who lived up the way. She seemed to be a sort of Grendel’s mother – you know the kind. Anyway, rumour had it that she used to sit stark naked behind her letter box, dressed only in a black balaclava helmet, and any woman passing by would then be subjected to ferocious abuse. Scatology wasn’t the word for it, if you take my drift. Then, after a certain time had elapsed, the police would be called and she’d be sat there, dressed up to the nines, with cream teas and all the rest of it. It was essentially an elaborate attempt to flirt with, seduce or just fraternise with the local policemen. Then, as soon as they’d departed and she’d promised to behave, our wired sister would be back at the letter box fulminating. All other women were the object of her hate. No feminist sisterhood in evidence there, then. Its sexual hysteria and related screamings – I remember it all as if it were yesterday. My mother was terrified of her. We always had to go round the other way. Gothic or macabre things like that have always intrigued me – it’s the hint of chaos underneath bourgeois suburban conformism, you see. Life – when you stop to consider it – is really a painting through which people articulate their own death. What interests me is the artistry to it; it’s what our forebears, the Elizabethans, used to call the skull beneath the skin.

Q2: A few years ago now, you published a series of books under a different name. Tell us more about the themes involved and what you were trying to achieve at the time.

JB: Yes, I admit that your question is along the right lines. I’ve written a great deal down in the years and under various names – one of them happened to be John Michael McCloughlin, as I recall. I’ve certainly written between thirty and fifty books – depending on how you choose to look at it. At one level I’ve composed purely for myself – fiction, plays, non-fiction, memoirs, belle lettres, higher journalism, lyrics, prosody, experimental or stream-of-consciousness work, you name it. At present it’s all beginning to appear on the internet. My website – www.jonathanbowden.co.uk – contains one full manuscript. It’s an e-Book in PDF format. It’s entitled Apocalypse TV and consists of at least 100,000 words. It’s approximately 240 pages. A Platonic dialogue between a Christian and a pagan voice, it deals with Turner Prize art or the “Sensation” exhibition, criminology and the murders of Fred and Rose West, the concept of Political Correctness, all sorts of things. A short story, A Ballet of Wasps , also exists on the site. Hopefully – and before too long – a great deal of material will appear in this way. It’s essentially got to be scanned, edited, converted to PDF and then uploaded. A play which you have read, Troy, called Lilith Before Eve , has recently been added to the site. The following three short stories, Golgotha’s Centurion, Wilderness’ Ape and Sixty-foot Dolls , will appear relatively soon. There are also four more plays known as Glock’s Abattoir, We are Wrath’s Children!, Evolution X and ,i>Stinging Beetles, for example. Ultimately, one of my life tasks is to put all of it online and then see if publishers, small outfits, that sort of thing, would be willing to do hard copy versions. One point of interest: the publisher Integral Tradition Publishing has expressed an interest in possibly treating Apocalypse TV in the way I describe – although whether this will ever extend to a desire to publish full novels of mine, such as Al-Qa’eda Moth or The Fanatical Pursuit of Purity, is altogether another issue. But, rest assured, I will bring out everything I’ve ever done over time, even if it’s only in e-Book form on the internet. Politics is just a side-line, you see; artistic activity is what really matters. The one alters effects; the other changes the world. As Bill Hopkins once told me, one man sat writing alone in a room can alter the entire cosmos. It’s the ability – through a type-writer or whatever else – to radically transform the consciousness of one’s time. Cultural struggle is the most interesting diversion of all. There’s a Lancastrian truism that my mother retailed to me: “truth is a knife passing through meat”. Well, in this particular freeway one special coda stands out – you must become your own comet streaking across the heavens – all else is just a matter of flame, spent filament, rock or tissue, en passant, which slopes off to the side. Avoid those stray meteor shoals casting off to one’s left; they are just the abandoned waifs and strays of a spent becoming. Let your life resemble a bullet passing through screens: everything extraneous to one’s task recalls such osmotic filters. (I’d especially like to thank Daniel Smalley and Sharon Ebanks for their manifold assistance with these websites. Sharon’s earlier contribution was the following: www.jonathanbowdenart.co.uk). Do you wish to survey something I’ve just written? It’s a bit of a prosody based on a Futurist painting by Fortunato Depero called Skyscrapers & Tunnel (1930).

Do they make the most Of a tubular scene-scape Designed without cost And collapsing into date Crepe rape spate fate constant ingrate?

Q3: Please tell us how you came to be involved in the Western Goals Institute, a vociferously anti-liberal and anti-communist tendency which originated in 1989 as an offshoot of the American ultra-conservative group of the same name.

JB: Yes, the organisation known as Western Goals was a bit of a shape-shifting entity – it began as Western Goals UK and then transformed itself, eventually, into the Western Goals Institute. Later still it recomposed itself into the British chapter of the World League for Freedom and Democracy; a group which, as it didn’t believe in either freedom or democracy, was rather amusing. I gave them my support – I was actually deputy chairman for a while – because I agreed with a merciless prosecution of the Cold War. Right-wingers of every type and race aligned across the globe against communism. The war had to be fought tooth and branch. I essentially concurred with Louis Ferdinand C’eline’s mea culpa about Marxist-Leninism – after having toured the Soviet Union on the proceeds of Journey to the End of the Night and Death on Credit. Don’t forget that the third world war, to use a different nomenclature for the Cold War, proved to be an alliance between Western hawks or rightist liberals and neo-fascism across the Third World. Groups like Unita, Renamo, Broad National Front (FAN), the Triple A, the United Social Forces, The Konservative Party and HNP, the Contras and Arena – never mind Ba’athism… all of these tendencies were Ultra in character. Had they all been Caucasian in profile, such groups would have seemed indistinguishable from the OAS or VMO. It was vitally necessary to delouse those “communist peons of dust”… to adopt a line from a stanza by Robinson Jeffers. I have always believed with Mephistopheles in Goethe’s Faust, whether paraphrased by Sir Oswald Mosley or not, that in the beginning there is an action.

Q4: Shortly afterwards you founded the Revolutionary Conservative Caucus with Stuart Millson. What were the reasons behind the establishing of this group and, realistically, how much do you think it managed to achieve?

JB: Ah yes, the Revolutionary Conservative Caucus and all that jazz. Where have one’s salad days gone? Anyway, the RCC was set up by Millson and myself as a cultural struggle tendency. Never really conservative, except metaphysically, it wanted to introduce abstract thought into the nether reaches of the Conservative and Unionist party – an area habitually immune to abstract thought, possibly any thought at all. There have always been such ginger groups – Rising, National Democrat and later Scorpion, Nationalism Today, Perspectives, the European Books Society, the Spinning Top Club, the Bloomsbury Forum and now the New Right. The important thing to remember is that these groups are fundamentally similar – irrespective of distinct semiotics. The system of signs may jar, but, in truth, all of them are advocating radical inequality and meaning through transcendence… that’s the key. As to accomplishments or achievements… well, they were really twofold: first, the mixing together of ultra-conservative and neo-fascist ideas; second, a belief in the importance of meta-politics or cultural struggle. By dint of a third or more casual reading, various publications like Standardbearers , Oswald Spengler’s essay Man & Technics , the ‘Revolutionary Conservative Review’, a brief and intermediate magazine called Resolution and the ultra-conservative journal Right Now… all of these formulations came out of this nexus. It’s a creative vortex, you see? Let’s take one example: my interview with Bill Hopkins in Standardbearers… this links right back to the fifties Angry Young Men and to Stuart Holroyd’s productions in Northern World, the journal of the Northern League. This interconnects – like Colin Wilson writing for Jeffrey Hamm’s Lodestar – with not only Roger Pearson but also the fact that members of the SS were in the Northern League.

Sic cum transierint mei Nullo cum strepitu dies Plebeius moriar senex. Illi mors gravis incubat Qui notus nimis omnibus Ignotus moritur sibi.

It’s this which has to be avoided.

Q5: Your first association with the New Right was as a guest speaker at the very first meeting in January 2005. What made you want to become more involved with the group and what role do you think it can play in the future?

JB: I became involved because of a residual respect for what the New Right and GRECE were trying to achieve. For my own part, this has something to do with the fact that the New Right wishes to bring back past verities in new guises. It ultimately recognises an inner salience; whence the Old Right enjoyed a Janus-faced discourse: whether esoteric or exoteric in character. Do you follow? Because the outer manifestation tended to be conspiratorial, however defined. Whereas the innermost locution rebelled against old forms, postulated a Nietzschean outlook and adopted a pitiless attitude towards weakness in all its forms. Irrespective of this, the New Right recognises that fascism and national-socialism were populist or mass expressions of revolutionary conservative doctrines. Indeed, the Conservative Revolution is tantamount to Marxism on the other side: the truth of the matter is that Evola, Junger, Spengler, Pound, Moeller van den Bruck, Bardeche, Revillo P. Oliver, Rebatet, Brasillach, Jung, Celine, Wyndham Lewis, Yockey, Bill Hopkins and Arthur Raven Thompson, say, are actually to the right of their respective political movements. It’s the same with the extreme left on the other side – whether we’re talking about Adorno, Horkheimer or Althusser. Who’s ever really read Sartre’s The Dialectic of Critical Reason? As to any influence our group might have… well, perhaps it would be best to put it in this manner. I think that the New Right can prove to be a nucleus for illiberal thinking, albeit of a revolutionary and conservative character. Take, for example, Tomislav Sunic’s thesis, Against Democracy; Against Equality – a History of the European New Right. In this purview it becomes obvious that the Conservative Revolution was the seed-bed or think tank for fascism and national-socialism, much in the manner that theoretical Marxism was for communism. In the latter’s case, one only has to think of Adorno and Horkheimer’s The Dialectic of Enlightenment as the forcing house for ‘sixties revolutionism – far more, say, than Marcuse or the Situationists. Percy Bysshe Shelley, in Paul Foot’s terms Red Shelley, once described poets as the unacknowledged legislators of mankind. But, in all honesty, if we were to substitute the word intellectual or philosopher for poet then you might be nearer the mark. (All of which isn’t to take away for a moment the impact of poets like Kipling, Robinson Jeffers or the blind and recently deceased bard John Heath Stubbs, for example). Yet, I say again, one thing that we must deliberate upon is the power of conception. A man who possesses an idea or a spiritual truth is the equivalent of fifty men. Every pundit, tame journalist, academic or mainstream politician is mouthing hand-me-down ideas from a philosopher of yesteryear. At one level artists and intellectuals have no power whatsoever; undertake a parallax view or examine it in a reverse mirror, then you will see that they are matters of the universe. For those who have heard of Mosley, Degrelle, Jose Antonio Primo de Riveria, Mussolini, even at a push Julius Caesar; figures of Bardeche, Thomas Carlyle, Spengler and Lawrence R. Brown will remain forever arcane and mysterious. But fate’s mysterious witching hour knows that you can never have one without the other.

Q6: How did you reconcile your role as Chairman of the New Right, a self-proclaimed elitist and anti-democratic group, with your former position as Cultural Officer of the British National Party (BNP)?

JB: I feel that there was no great contradiction between the New Right and the British National Party. It’s a conundrum that revolves around the exoteric-esoteric fissure mentioned before. The British National Party is a populist or nativist group – it currently has about fifteen percent electoral support across Britain. No campaign and one leaflet garners a tenth of votes. Any sort of campaign nets 15%+; whereas a full-on methodology, Eddy Butler style, can get up to a fifth or a quarter of the vote. Bearing in mind that England is now fifteen per cent non-white then these margins represent an even higher proportion of Caucasia. Given this, the party represents a plebiscitary wing, the organisation’s inner spine are (for the most part) traditional nationalists; whereas their mental fodder needs to be provided by groupings like the New Right. Hierarchically speaking, the new reformats the old, albeit with a new cloak. Let’s put it this way: New Right sensibility sublimates Julius Evola’s The Metaphysics of War into Nietzsche’s The Will to Power. You have to understand that on the doorstep a small proportion of electors can vaguely recollect what country they’re living in… never mind anything else. Philosophy blinds them to a dance of sharp-toothed wolves. My, what large teeth you have, Granny – said little Red Riding Hood. Never mind: the real point is to achieve transcendence or becoming. Let’s begin with Voice of Freedom turning into Identity, inter alia, which leaps upwards to New Imperium – a step to the side of which might really be Bill Hopkins’ essay, Ways Without Precedent, in the volume of essays which served as the Angry Young Men’s manifesto. It was called Declarations. Yet perhaps even a step beyond this actually exists. Doesn’t one of Elisabeth Frink’s sculptures of a Soldier’s massive cranium – or one of her Goggle-heads, perchance – indicate a move ahead into aesthetic puissance? Everything that exists is about to transmute into a superior variant, an intellectual and spiritual speck of light which exists over it. As a BNP activist who’d been electioneering in the streets of East London once told a journalist; “If there’s nothing above you then there’s nothing to aspire to”.

Q7: Is there any real difference between the natural ascendancy of the strong over the weak – a recurring theme in your speeches – and the ruthlessness of capitalist economics?

JB: Again, as before, my answer has to begin and end with a postulation of hierarchy tout court. Do you see? It all has to do with the fact that economics is the lowest level of social reality. It remains purely material. Despising it is no good; what you have to do must be to effectively transcend it. The neo-utilitarian economist, Arthur Marshall, who was active at the turn of the twentieth century once famously described his subject as the dismal science. Just so… literary-minded types have always preferred belletrists of finance, whether J.K. Galbraith or Hilaire Belloc’s Economics for Helen. What you need to do is accept the market as the basis for a national economy that will be mainly privately owned, as Tyndall advocated in the Eleventh Hour, and then impose implacable political ethos on it from above. Politics must master economics; businessmen must be made to be spiritually subordinate to spiritual verities: the supreme expression of which is Art. Money then serves higher interests to which it is beholden – not the other way around. In all vaguely autocratic systems the economy operates in the way I’ve described. Ultimately you have to teach people not that money is the root of all evil – that’s purblind Biblical moralising – but that capital proves to be little more than fuel. To start up your car you need to put the key in the slot. Economic activity then has to serve the national community – not the reverse. As to the alleged ruthlessness of capitalist economics – that’s largely Darwinian romanticism. Does an eagle suffer from pity as it tears its prey to pieces in the stump of a tree? Anyway, do you really suppose that we have an unfettered market after over a century of state intervention or social democratic manipulation of its mechanisms? The only real success the far-left’s ever had was to provide shot-gun marriages for statist institutions in the West. New liberals designed pension, health, credit, insurance and social housing schemes in order to buy off proletarian rebellion from below. It owed as much to the far-right as the accredited Left – hence Skidelsky’s hero-worshipping of Mosley in his biography of that name. (This author moved from being right social democrat to a left conservative at a later date). Likewise, Sir Oswald Mosley’s New Party contained Marxian economists and social commentators like John Strachey – later to be Minister of Food in the post-war Labour government. The real point has to be the metaphysical guiding post behind Mosley’s post-war treatise, The Alternative. Subordinate economics to the meaning of politics not its management. The whole point of a political class is to impose a morality on the market – as Heseltine, of all people, once said, market economics has no ethical system otherwise. Von Hayek’s methodology of the implicit moral goodness of markets (because self-correcting) is flawed. But de Benoist’s attack on an advocacy of jungle law – whether directed at von Mises, Hayek, Friedman, etc… falls sheer. Why so? Because all that’s wrong with primitivism, brutalism and what Ragnar Redbeard called Might is Right has to be an absence of culture. That’s the salient point to remember. No Sistine chapel ceilings would ever have been painted without a systematic metaphysic to master gold. Put it in its proper place, why don’t you? Yet you can only do so after its creation. In this custodianship Sir Digby Jones, the former director general of the CBI, has to find himself subordinated to the manifestation of those eight symphonies by Sir Peter Maxwell Davies.

Q8: How ‘new’ is the New Right?

JB: It is clear to me that the New Right is diverse and diachronic in form. Like the refracted sides of a cerulean gem it casts many different slants afoot. All of these shimmer and break against a dark glass. To be truthful, the biggest disjunctions between old and new have to do with reductionism, conspiracy and revisionism. The old accepts the first two categories and could be said to have reformulated itself by virtue of the third. Perhaps we could go as far as to say that Revisionism is the reworking of the Old Right in modern guise – revisionist literature could then be considered to be the Old Right’s research and development. Just so… maybe Butz, Samning, Steiglitz, Baron, Berg, Harry Elmer Barnes, Rudolf, Mattogno, Graf, Faurisson, Zundel, Rassinger, Joachim Hoffmann, Heddessheimer, et al, are really Maurras, Weininger, Brasillach, Drieu la Rochelle, Celine, Barres, Revilo P. Oliver, Yackey, Ezra Pound, Jack London and Rossenberg… all come round again. I think, in these circumstances, that the New Right is a differentiated codex or semiotic – it enables a great deal of radical conservative material to return, maybe in a new guise. Although another point should be made, in that ultra-Right movements tend to have an occult trajectory. They manifest two sides: the esoteric and the exoteric. This can be considered to be a polarity between internal and external. For the masses Jean Respail’s Camp of the Saints or Christopher Priest’s Fugue for a Darkening Island; for the elite Count Arthur de Gobineau’s Essay on the Inequality of the Human Races . To quote yet another example – for mass taste Kolberg or Der Ewige Jude; for elitist consumption Leni Riefenstahl’s Olympia or the Italian film industry’s version of Ayn Rand’s We the Living. Even Hans Jurgen Syberberg’s seven hour epic, Hitler: a Film from Germany, strives for neutrality in an area where only negative partisanship is allowed. In this context Steukers, Sunic, Gottfried, De Benoist, Walker, Lawson, Krebs and so forth, are the inner elitism or vertical dimension amidst a general carnival. They are less the meat in the sandwich than the inner pagan and non-humanist core to ideas which the residuum cannot grasp unless they are put in a more basic form. It must only be true the less it is understood, in other words… By virtue of our silk-screening, reductive and metaphysical conspiracies are materialisms. They are explanations on a physical level. New Right discourse internalises and sublimates this doxa; it circulates it as spiritual velocity. Aesthetically speaking, what can be transmuted – for a philistine or mass public – as Max Nordau’s Degeneration becomes Ortega Y Gasset’s The De-humanisation of Art at a more advanced illustrative push. Perhaps, even as a reverse dialectic, Wyndham Lewis’ The Demon of Progress in the Arts provides an overlapping negation to Y Gasset’s thesis – all prior to a new or renewed synthesis. Ethnically speaking, one might aver that The Turner Diaries amount to the outside face of the Bell Curve’s Junction. Artistically again, doesn’t Ayn Rand’s The Fountainhead provide a fusion, in mock-libertarian guise, of internal and external messages in a bottle? Whereby the heroic modernist Roark – based loosely on the living example of Mies van der Rohe – overlaps with the neo-classical sculptor ‘Steve’. A character which was loosely based on Gustav Thorak, an artist who’s heroic figurine, Atlas, outside the grand central station in Chicago influenced Ayn Rand’s last right-anarchist novel, Atlas Shrugged. I would go so far as to say that the New Right is a toxic cerebration to the Old Right’s fist: in musical terms it’s Screwdriver becoming Laibach and then morphing into Carl Orff. But isn’t Verese’s noise brought back into focus by Igor Stravinsky’s The Right of Spring? After the performance of which – the master Stravinsky had to be guarded at his concerts, like a prize fighter. Diaghilev strove to remain highly jealous throughout.

Q9: You have a keen interest in Modernism. Why does this form of artistic expression appeal to you most and what, in your opinion, makes Modernism so superior to Modern Art?

JB: Ah yes, the issue of Modernism… I’m an ultra-rightwing modernist, let’s make that clear. Even though some of my work is traditional, restorationist, historical and semi-classic in spirit… nonetheless, I’m a modernist, even on some occasions an Ultra-modernist. Let’s be definite about this: some of my pictures do relate to Bosch, Redon, Klimt, Bacon, Pacher, ancient Greek sculpture and so on, but primarily I wish to create new and ferocious forms. They must come from within; what you really require is an image the like of which no-one has ever seen before, even dreamt of prior to your conception. Bacon always declared that he wanted to paint the perfect cry, after the fashion of the nurse on the steps facing the White Guards in Battleship Potemkin. I never wished to paint the greatest scream a la Poussin’s Massacre of the Innocents. No. For my part, I wanted to paint the most ferocious image of my time – these works are not neurotic, paranoid, schizoid, disturbed or mentally ill, as some might suggest… they are passionate integers of fury. The effort is to project strength and power. One cares nothing for the aesthetic standards of the masses; they are children who only like what they know or feel comfortable with. What really matters has to be the ecstasy of becoming – early or classic modernism happened to be exactly that. It was an attack on sentimentality; it proved to be an art purely for intellectuals. It was anti-humanist, elitist, inegalitarian, vanguardist, misanthropic, sexist, racist and homophobic – all good things. It gave witness to the neo-classic bias within the Modern that related to the theories of T.E. Hulme, a revolutionary conservative, and Ortega Y Gasset, a mild fascist. In the latter’s Dehumanisation of Art he preaches a new style against the Mass – that notion has always intoxicated me; to trample upon the masses and synthesise them into a new evolutionary surge has to be our object. The failure of extremist conservatism, fascism and national-socialism was material; revolutionary right-wing ideas may only really flourish spiritually: art has to be its vehicle; the stars its limit… homo stultus, the putty. Early modernism found itself penetrated by these ideas… only much later did it become a vehicle for liberal humanism. A move which in and itself related to the academic, restorative and conservative aesthetic tendencies in Soviet and Nazi art. One of the ironies is that revolutionary art becomes liberal wall-paper; while revolutionary movements adopted philistinism as their watchword. Their anti-formalism became a rigid fear of upsetting the majority. Art partly exists to disturb expectations, but liberal anti-objectivism has gradually dissolved this influence. An image like Tato’s March on Rome becomes more and more diffuse… until you end up with a David Hockney sketch, a Yorkshire scene bathed in light, and adorning a corporate office anywhere in the world. But let’s not fall into the trap of talking about the revolution betrayed – that’s such a bore. Also, revolutions are always betrayed; that’s their purpose. It’s only then that we recognise the salient truth: namely, they are part of life’s warp and weft. They have to be taken - to use Truman Capote’s axiom – in Cold Blood. A dilemma which brings us to the exposed issue of post-modernism, I dare say.

Q10: A talented and accomplished artist, you have produced over 200 paintings of your own. What first motivated you to take up painting, and how would you describe your own inimitable style?

JB: Unlucky for some, eh? Well, let’s look at it in this way… between around six or thirteen years of age I used to draw comics or graphic novels. They were my first form. Around two thousand images definitely came into the world as a consequence of these endeavours. They were my first love, I suppose – primarily due to their combination of words and images. A factor which also accounts for my interest in the graphic, the horrific or Gothic, the linear and the pre-formed. Contrary to the desiderata of pure modernism, in graphic work you always know where you’re going but not necessarily where you intend to end up. After a brief gap – grammar school and so on – I started to produce images again. Yet now a subtle change had taken place. The pictures underwent a metamorphosis into full-scale paintings and over around thirty years have mounted up to at least 215 works. Some of the early ones are framed; others not. Around 175 or 177 (depending) are available for viewing on my website (www.jonathanbowden.co.uk), sundry sketches and preliminaries will follow… and the coup de gras shall be those graphic novels which await scanning and upload at a later date. Personally speaking, I find them to be captivating in their allure. They are extremely varied in their focus – some are ferocious, savage and expressionist; others are erotic, playful and sensual; still more have a classic, restorationist or historical bias; while the remainder embody autobiographical and ideological themes. Some pertain to child art or the ramifications of Art Brut: that is, a willing or known primitivism in terms of artistic silence. Certain other paintings are literally portraits of people known to me; whilst early on I experimented with the psycho-portrait – here you illuminate a person’s nature and not their looks. Although eschewing abstraction – unlike Norman Lowell – I’ve never been interested in pure representationality after the invention of photography to do it for you. Do you recall those nineteenth century series of photographs by the master Edward Muybridge? He was one of the great pioneers of slow-motion, frame by frame photography when this art or science was in its infancy. A sequential art motif featuring two men engaged in Graeco-Roman wrestling has to be an early classic. These images in particular had profound influence on Francis Bacon’s oeuvre. Anyway, if we examine it closely then this tradition splits several ways. It leads to the strip cartoon, the cartoon or funny, comics and the story board – a development that prepares the ground for early silent cinema. So inter alia, the fantastical and linear presentation of action becomes art’s necessity. All of which involves going inside the mind so as to furnish provender – imagination then facilitates change, transmutation, forays from within and the custody of inner space. An eventuality which portends Modernism – why don’t you think of me as a heterosexual version of Francis Bacon? Maybe you could construe yourself, Troy, as the famous critic David Sylvester with whom Bacon had a well-known artistic dialogue in Plato’s tradition. Thames and Hudson published it years ago.

Q11: In his recent book, Homo Americanus, the Croatian author Tomislav Sunic notes that “postmodernity is hypermodernity insofar as the means of communication render all political signs disfigured and out of proportion.” (p.150)? What is your view on post-modernism and hyper-modernism?

JB: I actually question whether the concept of hyper-modernity actually exists, but we don’t want to end up in a cul-de-sac of meaning and response. By no means… Do you happen to recall that story by H.P. Lovecraft, Pickman’s Model, where the artist’s baying creature at the end of various Old Bostonian tunnels was taken from life? That’s the point… Anyway, in Tomislav Sunic’s Homo Americanus, which I have to admit that I had a hand in editing, he makes a situational point about post-modernism. Note: Situationism was a literary theory of excess, somewhat ‘terrorist’ in spirit, which grew out of a fragment of late surrealism. Its chief text was Guy Debord’s The Society of the Spectacle. Certainly the notion of a twenty-four hour media circus which penetrates everything, cyclonically, has come to be seen as a cliché. Nowadays , a thinker like Jean Baudrillard just tidied up post-modern excess and evinced an ironic distance over any attachment to left radicalism. Post-modernity is really about patterning. It’s an Asiatic or Oriental deportment; one in which displaced tarot cards are endlessly displaced and new meanings then become attached to them. It self-consciously adopts a mosaic’s inflexions, but variously complex or contradictory currents enter into the mixture here. Yet misnomers abound: Stravinsky’s neo-classicism early on in the twentieth century is definitely post-modern in feel… yet historically it can hardly be described as such. Whereas an extremist modernist text written after the Second European Civil War by Samuel Beckett, Comment C’est (How It Is), could be delineated as a post-modern elixir. In it two forms – vaguely reminiscent of the actors Patrick Magee and Max Wall – drag themselves across plateaus of mud towards an uncertain future, mouthing imprecations all the while. Also, there is a complicated interaction between post-modernist diction and historical revisionism over the Shoah. Its extreme relativism, metaphysical subjectivism and heuristic bias lend itself to micrological analysis, rather like Kracuer’s estimation of the German film industry. Nonetheless, the hermeneutical pea-souper which clings to Paul de Mann’s Blindness & Insight definitely has something to do with his own partiality for writing on behalf of Leon Degrelle-like journals during that conflict. Paradoxically though, deep textual analysis or criminological fare, rather like Faurisson’s exegesis, can quite easily dovetail itself with Thion’s post-structuralism, whereby all media certainties become questionable. As to hyper-modernity, what can one say? Perhaps it relates to the mass media’s electronic self-consciousness – the self-consciousness of its own self-consciousness, if you like. Now post-modernism truly behaves like a serpent devouring its tail, or the Worm Ouroborous. It also betokens those cinema audiences in the ‘fifties, metaphorically, who sat in darkened flea-pits watching in X-Ray specs. Possibly hyper dims post-modernity, if only to provide its apotheosis and defeat. A chimpanzee sits before a Sony Playstation playing a Gulf War game with News 24 alive in the background… maybe the latter scenes in Pierre Boulle’s novel, Monkey Planet, have a certain salience. Particularly when these gestures are interestingly spliced with Christopher Priest’s racialist science-fiction novel, Fugue for a Darkening Island… the one with a piece of Ploog-like fantasy art on the cover. A neglected work – it nevertheless intones values similar to those of a British Camp of the Saints. The point to make throughout all of this, however, is that culture cannot just elicit a significatory response. It must entertain an essentialist or organic bias (even in its existential mists) – otherwise it’s meaningless. One can then look forward to conceptual art replacing an art of concepts; wherein Stewart Home’s interpretation of Manzoni’s cube smears over Kipling’s The Stranger.

Jonathan Bowden may be contacted in writing via BCM Refine, London WC1N 3XX, England.

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samedi, 28 février 2009

Invito alla lettura di Oswald Spengler

Invito alla lettura di Oswald Spengler

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/

Esistono libri che hanno avuto un successo e una fama che vanno ben oltre la cerchia dei loro lettori, libri la cui lettura, per ardua o lunga che sia, ci influenza e ci cambia molto più di quanto non siamo disposti ad ammettere. Uno di questi è senz’altro “Il tramonto dell’Occidente: Lineamenti di una morfologia della storia mondiale” (Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte) di Oswald Spengler, uscito in due parti, in due momenti ben diversi: il primo volume, “Forma e realtà”, (Gestalt und Wirklichkeit) nel marzo 1918, quanto gli Imperi Centrali erano ancora all’offensiva, la Russia era stata appena messa fuori combattimento e le difese Alleate s’incrinavano sul Piave e sulla Somme; il secondo volume, “Prospettive della storia mondiale” (Welthistorische Perspektiven) usciva invece nel 1922, a guerra ormai terminata, e con la Germania in piena crisi (furono riveduti ed editi in un unico volume l’anno seguente).

Il libro nel suo insieme ebbe un esplosivo successo di vendite, a dispetto della crisi economica, presso il pubblico borghese (oltre 100.000 copie) e indusse un rilevante dibattito di critica (il cosiddetto “Spengler-Streit”), ed ebbe un’importante ricezione anche all’estero. È utopico voler qui in breve tracciare un’analisi completa dell’opera, anche per le dimensioni (circa 1500 pagine), ma voglio piuttosto spiegare perché valga la pena di leggerlo.

Oswald Spengler (1880 – 1936) non era un accademico né un filosofo, si era laureato in matematica e scienze naturali all’Università di Halle, frequentando corsi di varie materie, e aveva ottenuto la licenza d’insegnamento superiore con una tesi su Eraclito. Dopo aver insegnato al liceo, l’eredità materna gli consentì di dedicarsi allo studio e alla scrittura a tempo pieno. Fu la crisi di Agadir del 1911 a gettare in lui il dubbio sull’effettiva decadenza della civilizzazione europea, benché allora paresse dominare la Terra. In undici anni egli scrisse dunque quest’opera monumentale che ricevette però numerose critiche dal mondo accademico. Molti non tolleravano quest’approccio così poco ortodosso, questo stile più da presocratico che da professore; altri ritenevano che fosse eccessivamente pessimista nelle sue vedute. Tuttavia, non solo fu apprezzatissimo dal pubblico tedesco, ma il grandissimo interesse che ha destato in Europa e, soprattutto, nel resto del mondo lo contrassegnano oggi inequivocabilmente come un grande classico della politica, apprezzato dagli eurasiatisti come Kissinger, in America Latina come in Giappone.

L’opera di Spengler non si esaurisce con “Il tramonto dell’Occidente”, ma continua articolandosi in tre ambiti: politico, storico e filosofico, strettamente intrecciati tra loro. Il primo ambito è il più ricco, per cui segnalo l’opera breve ma pregnante “Prussianesimo e socialismo” (1919), i libri “Rigenerazione del Reich” (1924) e “Anni della decisione” (1933), oltre alla raccolta di saggi “Forme della Politica Mondiale” (1933), tutti editi in Italia dalle Edizioni Ar di Padova. La riflessione storico-filosofica procede con “L’uomo e la tecnica” (1931), “Scritti e Pensieri” (1933) e i due grandi volumi postumi “Urfragen”, dedicato a questioni di carattere metafisico, e “Albori della Storia Mondiale”, che ricostruisce la preistoria umana, editi rispettivamente da Guanda, SugarCo, Longanesi ed Edizioni Ar. Per chi invece preferisse iniziare da un’antologia, come un assaggio del pensiero spengleriano, consiglio l’antologia “Per un soldato” (1941), curata dalla sorella Hildegarde Kornhardt, e “Spengler. Ombre sull’Occidente” (1973), curata da Adriano Romualdi, entrambe edite dalle Edizioni Ar.

Concludendo, non posso che raccomandare la lettura dell’opera principale di Spengler, proprio perché è come un colpo di spugna sulle preconcezioni hegeliane della storia come progresso e fortemente eurocentrica, e spalanca interi nuovi mondi di eventi ed interpretazioni storiche spesso negletti o sconosciuti; perché offre spiegazioni su molti fenomeni storici convincenti o quanto meno degne d’esame; perché le sue predizioni storiche, svalutate all’epoca in cui scriveva, si sono avverate o si stanno avverando; insomma: un autore oggi più che mai attuale e stimolante la riflessione.

dimanche, 22 février 2009

A. Moeller van den Bruck: Konservatismus hat die Ewigkeit für sich

Arthur Moeller van den Bruck: Konservatismus hat die Ewigkeit für sich

Wir leben, um zu hinterlassen. Wer nicht glaubt, daß wir den Zweck unseres Daseins schon in der kurzen Spanne erfüllen, in dem Augenblicke, in dem Nu, den dieses Dasein nur währt, der ist ein konservativer Mensch.
Er sagt sich, daß unser Leben nicht ausreicht, um die Dinge zu schaffen, die sich der Geist, der Wille, die Entschlußkraft eines Menschen vornimmt. Er sieht, daß wir als Menschen, die in eine bestimmte Zeit geboren werden, immer nur fortsetzen, was andere begonnen haben, und daß wiederum dort, wo wir abbrechen, andere abermals aufnehmen. Er sieht den einzelnen Menschen vergehen, aber das Ganze seiner Verhältnisse bestehen. Er sieht lange Geschlechterfolgen im überlieferten Dienste eines einzigen Gedankens. Und er sieht Nationen am Bau ihrer Geschichte.
So gibt der konservative Mensch sich eine Rechenschaft über alles, was flüchtig ist, hinfällig und ohne Bestand, aber auch über das, was erhaltend ist, und wert, erhalten zu werden. Er erkennt die vermittelnde Macht, die Vergangenes an Künftiges weitergibt. Er erkennt mitten im Seienden das Bleibende. Er erkennt das Ueberdauernde.
Und er stellt seine große und räumliche Sehweise über den kleinen und zeitlichen Gesichtspunkt.

aus: Moeller van den Bruck: Das dritte Reich. 1923.
Ex: http://unzeitgemaessige-betrachtungen.blogspot.com/

lundi, 16 février 2009

Spengler e la Russia

Spengler e la Russia

ex: http://augustomovimento.blogspot.com



Tra le pagine più interessanti di Spengler (sopra in foto), vi sono proprio quelle dedicate alla Russia, in virtù della sue previsioni, inaspettatamente (all’epoca) confermate dai fatti attuali.

Egli ne parla diffusamente in Prussianesimo e socialismo (cap. 23), ne Il tramonto dell’Occidente (II.iii.2 e 16) e nel saggio Il doppio volto della Russia e i problemi della Germania a Est (in Forme della Politica Mondiale, Ar, 1994). Su Spengler in Russia è pesata l’opinione negativa di Lenin che l’ha cancellato dalla riflessione filosofica sovietica, ma già allora vi furono i primi attenti interpreti: dal sociologo Georges Gurvitch al mistico Nikolai Berdiaev, per non parlare delle opere dei filosofi ottocenteschi Nikolai Danilevsky e Konstantin Leontiev che ne anticipavano il modello ciclico di storia. Negli ultimi vent’anni la riflessione su Spengler è ripresa, anche grazie all’interesse riscosso presso i movimenti eurasiatico e nazionalbolscevico.

La Russia è considerata come una civiltà ancora in gestazione («La natura dei russi è la promessa di una Kultur a venire, mentre le ombre della sera si fanno sempre più lunghe sull’Occidente»), radicalmente diversa dall’Occidente, ed erede piuttosto, attraverso Bisanzio della civiltà araba, ‘magica’, per il suo innato misticismo che unisce a un certo senso dell’infinito, analogo a quello faustiano eppure più tellurico: un’anima da “uomo delle pianure” insomma, un’anima che un occidentale non può capire. Sempre per analogia, Spengler fa il paragone tra il rapporto fra Zivilisation classica e Kultur araba, e il rapporto tra Zivilisation occidentale e Kultur russa. In entrambi i casi, si verifica una “pseudomorfosi”: la Zivilisation decadente impone le proprie forme avanzate e senescenti alla giovane Kultur in fieri, soffocandone in parte lo sviluppo e imprimendole un aspetto non suo. Era stato il caso dell’Impero Romano d’Oriente apparentemente erede di Roma e della Grecia classica, ma in realtà strettamente affine ad arabi, ebrei, siriani, armeni, nestoriani, ecc.

Così è anche il caso della Russia odierna (intendendo con questa formula l’intero Impero Zarista, estendendosi fino ai Balcani e alla Turchia, con Bisanzio come nuova Gerusalemme), che ha subìto due tentativi di occidentalizzazione, dapprima con Pietro il Grande (petrinismo) e poi con Lenin (bolscevismo). Questi tentativi però toccano solo la superficie dell’anima russa, e, anzi, aumentano l’odio dei Russi nei confronti dell’Occidente, un odio simile a quello degli zeloti per Roma. Il suo destino sarebbe quello di collidere con l’Occidente, come era già successo con le guerre tra la Russia e la Francia (Guerre Napoleoniche), l’Austria-Ungheria (Prima Guerra Mondiale), e avverrà contro la Germania (Seconda Guerra Mondiale).

Lo stesso bolscevismo avrebbe il ruolo di spazzare via il petrinismo e poi consumarsi da solo per lasciare spazio alla genuina anima russa. «Premuto dagli istinti della Russia sotterranea contro l’Occidente, il bolscevismo, che aveva assunto inizialmente i tratti del petrinismo, verrà a sua volta cancellato come ultimo prodotto di questo stesso petrinismo, per completare la liberazione interna dall’ “Europa”». Si annuncia così la nascita della Kultur russa, contraddistinta da un terzo cristianesimo (dopo il cristianesimo magico delle origini e il cattolicesimo-protestantesimo faustiano), da un dominio spirituale delle campagne sulla città e da un grande afflato religioso; di tutto questo, categorie occidentali come il panslavismo sono solo la punta di un iceberg.

Questo fu scritto 80 anni prima del crollo dell’Unione Sovietica (e del bolscevismo). Adesso le previsioni di Spengler si sono avverate: la Russia riemerge dal caos della caduta dell’URSS, con una sua nuova forza e un più forte carattere nazionale, autenticamente slavo, riscoprendo la fede ortodossa, riaffermandosi come potenza e muovendo i primi passi verso un impero eurasiatico, guarda a caso proprio nei Balcani (verso la Serbia e il Kosovo) e nel Caucaso (verso l’Abcasia e l’Ossezia), scontrandosi con la potenza occidentale egemone (gli Stati Uniti). Per questo motivo, non siano frettolosi gli esegeti di Spengler nel riconoscere Putin (in foto) come uno dei Cesari dell’Occidente al tramonto: potrebbe essere un Barbarossa o un Giustiniano della nuova Russia che avanza.

jeudi, 12 février 2009

Oswald Spengler and "Faustian Culture"

Oswald Spengler and ‘Faustian culture’

Ex: http://faustianeurope.wordpress.com/

spenglerWhen the first volume of Spengler’s Decline of the West appeared in Germany shortly after the First World War, it was an unexpected success. At this time, Spengler’s idea that the Western civilization is slowly but inevitably entering into its last phase of ‘life’ was in the eyes of the German public confirmed by hardships of the post-war years. Moreover, it provided very much desired answers that rationalised the German post-war suffering into a context of the decline of the Western civilization itself.

But Spengler did not want to provide simple answers for the masses. He was also far for trying to spread pessimism. He merely presented the idea that all cultures are organic entities that go through birth, adulthood, and ultimately their death. The same life course should be expected for the Western world - for the so-called Faustian culture - Spengler believed, and this was the time of its transition from the culture to the civilization.

This transition is characterised among others things especially by migration of people from countryside to city assuring thus their separation from soil - from the experience of natural life. People, instead of experiencing what the real life is - are now separated from it in cities, leading to abstract, from real experience separated ideas and thinking.

The use of the word ‘Faustian’ when describing the Western culture Spengler explained by pointing out a parallel between the tragic figure of Faust and the Western world. Just as Faust sold his soul to the devil to gain greater power, the Western man sold his soul to technics.

It might be now quite easy to see what Spengler had in mind. We rely so much on our technological miracles that we tend to forgot that we would not be able to live without them. This is neither good, neither bad, it is the way things currently are. However, it would be foolish to describe ourselves solely as Nature’s creatures. To ‘return to Nature,’ to ‘live in harmony with it’ as perhaps Rousseau would have is an impossible nonsense, Spengler argues. With the first sparks of fire made by Man, he desires to control the unleashed power, not merely to look at it with awe. The inspiration with Nietzsche is at this point obvious.

The difference between Goethe’s Faust and the Faustian man is thus only one, Spengler said, for the destiny for the latter offers no way to ‘redemption’. Spengler gives just as Julius Evola after him a parallel to a Roman centurion - the Faustian man can face the coming twilight with courage and determination and make his end spectacular, but these are all options left. The optimism must be condemned as weakness to face the inevitable.

Finally, it must be left to the reader to consider for himself whether our civilization truly faces any decline or whether the only remaining option is just to try to hold to the fading banner. What cannot be denied however is that Spengler’s writings give us a certain feeling of melancholy and we can easily imagine Spengler writing before the dusk of the First World War, predicting a tragedy which would wipe away all the things past and leave the Western man with a bleak vision of his inevitable destiny.

Except this eight hundred pages long two volume edition of Decline of the West, other Spengler’s works for instance include Man & Technics or Prussianism and Socialism, which are perhaps more accesible to the first time reader thanks to their shorter length.

jeudi, 22 janvier 2009

Henri DE MAN: Souvenir d'Ernst Jünger

 

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES / VOULOIR (Bruxelles) - Juillet 1995

 

 

Souvenir d'Ernst Jünger

 

Henri DE MAN

 

 

J'ai toujours trouvé le roman allemand, dans son ensemble, très inférieur aux romans français, anglais, russes, américains ou scandinaves. Ceci vaut, à plus forte raison, pour la nouvelle, qui exige plus encore les qualités d'objectivité et d'ordonnance concentrée qui sont à l'opposé de celles qui font le génie allemand. Le Faust de Gœthe n'a son équivalent dans aucune littérature, et il ne se passe guère deux ans sans que je le relise; par contre, l'Allemagne n'offre rien de comparable à Stendhal, Thackeray, Tolstoï, Poe ou Björnson; moins encore à Maupassant ou Tourguenieff.

 

 

Cette opinion est depuis si longtemps ancrée en moi qu'une espèce de parti pris me retient de m'intéresser à n'importe quel livre de "fiction" en allemand. Pourtant, au cours de ces trois dernières années, deux fois le hasard m'a fait faire une exception, et deux fois j'eus lieu de m'en réjouir. D'abord, le hasard d'un cadeau reçu me fit connaître Emil Strauss, dans des nouvelles d'une grande sensibilité et d'un style impeccable. Ensuite, le hasard d'une rencontre avec l'auteur  —le Capitaine Ernst Jünger, avec qui je passai une soirée chez des amis à Paris—  m'amena à lire son dernier livre paru, Gärten und Strassen (paru en traduction française, je crois, sous le titre Routes et Jardins). Depuis longtemps, je n'avais plus lu de livre qui m'eut fait autant de plaisir, et qui m'eût été plus sympathique. Et d'abord, il est d'une forme très soignée. C'est chose rare en Allemagne, ou il se publie beaucoup de livres pleins de substance, mais mal écrits, à l'opposé de la France, qui est inondée de livres bien écrits mais creux. La phrase est ciselée avec un sens du rythme qui est presque poétique, et qui surprend d'autant plus agréablement qu'il s'agit de prose authentique, concise, précise, transparente.

 

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Quant au contenu, j'ai trouvé dans ce journal qui chevauche sur la fin de la paix et le début de la guerre  —d'avril 1939 à fin juillet 1940—  le reflet d'une personnalité que j'avais déjà trouvée singulièrement attachante en chair et en os. Ernst Jünger est fils d'un apothicaire hanovrien; et on n'est pas plus Allemand du Nord, ni plus fils de son père. Un petit homme blond, maigre et sec, à l'aspect réticent, qui parle posément et doucement; qui dès son entrée dans une pièce s'en va flairer l'atmosphère et fureter du côté des bibelots, qu'il palpe de ses doigts presque caressants; qui parle des choses les plus profondes comme des plus banales avec le même souci de justesse et d'économie dans l'expression, comme un professeur de mathématiques qui exposerait un théorème.

 

Cependant cet homme à l'aspect timide et placide est un grand soldat et un grand poète. Pendant la première guerre mondiale, il accomplit tellement d'actions d'éclat qu'il se trouva être le seul lieutenant d'infanterie a obtenir l'Ordre Pour le Mérite, la plus haute distinction de l'Empire; et en 1939, il saisit l'une des rares occasions qui se présentèrent sur le front du Rhin pour mériter une nouvelle croix de fer. Pourtant, son journal de guerre n'a rien d'une Chanson de Roland; ce sont les annotations, au jour le jour, d'un officier qui aime le service, certes, comme on aime un devoir, mais qui aime surtout ses hommes. D'ailleurs, il reste homme lui-même au point de s'intéresser à tout ce qu'il voit, même et surtout aux choses qui n'ont aucun rapport avec le drame dont il est témoin avant que d'en être acteur. Ainsi, il parle de ses contacts avec des civils ou des prisonniers français, comme de ceux avec des militaires allemands, d'une façon qui fait oublier qu'il s'agit de deux nations en guerre. Et il ne manque aucune occasion de sacrifier à sa passion d'entomologiste en se livrant, surtout en forêt, à ce qu'il appelle la "chasse subtile".

 

 

Ce qu'il y a en moi de l'ancien officier s'est réjoui de trouver, dans les confidences de ce capitaine allemand, une étonnante similitude de réactions et de conceptions quant à la grandeur et la servitude militaires. Son récit fourmille de traits  —notamment à propos de la discipline, du moral de la troupe, de l'éthique de la guerre, des réactions psychologiques en général—  qui correspondent tellement à ma propre expérience que j'aurais voulu pouvoir les exprimer à sa place, et aussi bien. Jünger dit à ses soldats que quand ils trouvent dans une maison abandonnée des cuillers dont ils ont besoin, ils peuvent en prendre une; mais s'il y en a en argent et en étain, ils doivent se contenter de la cuiller d'étain. Quand il quitte la cure d'un village ardennais où il avait été cantonné, le curé dit qu'il est triste de devoir se séparer quand on commence à peine à se connaître; Jünger commente simplement: "Cela me fit plaisir; dans les cantonnements, je m'en vais toujours un peu à la chasse aux hommes". Sur le même thème, cette méditation: "Le rapport entre le logeur et le soldat est particulier, en ce qu'il est encore régi, comme le droit sacré d'asile, par les formes de l'hospitalité primitive, que l'on accorde sans égard de personne. Le guerrier a le droit d'être l'hôte dans n'importe quelle maison, et ce privilège est l'un des plus beaux que confère l'uniforme. Il ne le partage qu'avec les poursuivis et les dolents".

 

 

A propos d'une femme qui se lamente près du cadavre de son mari: "De cette façon, on apprend à connaître aussi l'effet indirect des projectiles, qui sans cela échappe au tireur. La balle touche beaucoup de gens; on voit tomber l'oiseau et on se réjouit de voir s'éparpiller les plumes; mais on ne voit pas les œufs et les jeunes et la femelle dans le nid où il ne retourne plus". Dans Laon abandonné où il a été détaché avec sa compagnie pour y improviser une Kommandantur, il va installer des gardes dans les bâtiments les plus exposés au pillage. Aux archives, il se plonge dans la lecture des autographes, où il trouve notamment des lettres du Maréchal Foch. "On les avait jointes au moyen d'une épingle, selon la manière déplorable des bibliothécaires français; l'épingle ayant taché le papier de sa rouille, je me suis permis de l'enlever". Il ne s'agit dans tout cela que de détails quelquefois infimes, mais toujours significatifs. Le détail significatif est d'ailleurs la méthode d'évocation employée dans ce livre, et qui fait son charme.

 

 

Après avoir rencontré Ernst Jünger d'abord, lu son livre ensuite, je me suis surpris à penser: "Toi, je voudrais t'avoir presque indifféremment sous moi comme officier subalterne, au-dessus de moi comme chef, ou en face de moi comme adversaire". Je sais fort bien ce que pareille pensée comporte d'atroce; mais je sais aussi que pour beaucoup d'hommes qui ont fait la guerre, elle ne sera que trop compréhensible. La guerre est un destin contre lequel on peut se révolter, mais que l'on ne peut pas fuir; et le droit à la révolte n'appartient qu'à ceux qui n'ont pas esquivé le devoir. Le pacifisme est un titre que les hommes de ma génération n'auront pu, pour leur malheur, conquérir qu'en combattant.

 

 

Je viens de dire que j'aime presque autant m'imaginer Jünger en face de moi que du même côté. Réflexion faite, je crois que l'expression a quelque peu dépassé ma pensée. Je me souviens qu'en causant avec lui, je lui demandai sur quels fronts il avait combattu de 1914 à 1918: or. après avoir constaté qu'il n'avait jamais pu me faire face, je me sentis indubitablement soulagé. Et il me vint soudain à la mémoire une bribe d'un poème, appris jadis par cœur à l'école:

 

" Ah ! que maudite soit la guerre

Qui fait faire de ces coups-là ! "

 

 

Cette malédiction est la conclusion à laquelle je voulais principalement arriver.

 

mardi, 23 décembre 2008

L. F. Clauss: "L'âme des races"

L'âme des races - L.F. Clauss

Né le 8 février 1892 à Offenburg dans la région du Taunus, l'anthropologue Ludwig Ferdinand Clauss est rapidement devenu l'un des raciologues et islamologues les plus réputés de l'entre-deux-guerre, cumulant dans son oeuvre une approche spirituelle et caractérielle des diverses composantes raciales de la population européenne, d'une part, et une étude approfondie de la psyché bédouine, après de longs séjours au sein des tribus de la Transjordanie. L'originalité de sa méthode d'investigation raciologique a été de renoncer à tous les zoologismes des théories raciales conventionnelles, nés dans la foulée du darwinisme. Clauss renonce aux comparaisons trop faciles entre l'homme et l'animal et focalise ses recherches sur les expressions du visage et du corps qui sont spécifiquement humaines ainsi que sur l'âme et le caractère.

Sous le IIIème Reich, Clauss a tenté de faire passer sa méthodologie et sa théorie des carcatères dans les instances officielles. En vain. Les autorités israéliennes ont fait planter un arbre en son honneur à Yad Vashem en 1979. Car sa fidélité qui le liait à son pays et son travail au Département VI C 13 du RSHA (Reichssicherheitshauptamt), en tant que spécialiste du Moyen-Orient n'a toutefois pas empêché l'amitié qui liait Clauss à sa secrétaire Margarete Landé (d'origine juive) qu'il sauva des camps de concentration.

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INTRODUCTION DE L'AUTEUR : LE PROBLÈME DES VALEURS


Chaque fois qu’une nouveauté surgit dans l'histoire, les clameurs ne se font pas attendre. Ce que la recherche allemande en racio-psychologie a dû affronter, un certain temps en Allemagne même, fut en réalité le lot de toute la raciologie allemande de la part du reste du monde. Les reproches les plus inouïs lui furent adressés. La plupart étaient d'ailleurs si niais que le temps en fit rapidement litière. Peu à peu cependant, les armes dirigées contre nous s'affinèrent. Mais, toujours, la question des valeurs fut au centre de l'argumentaire qui devait nous abattre. On nous accusa de tenir la race nordique pour la seule valable, toutes les autres étant supposées l'être moins... Là où cet « argument » fut cru, il nous fit d'autant plus de mal que l'épithète « nordique », à l'origine de tant de méprises chez le profane, se prête à toutes sortes de manipulations gratuites, allant de la malhonnêteté à la bêtise.

Le Vatican, hélas, joignit sa voix aux vociférations contre les acquis de la raciologie. Il nous attaqua en particulier, avec les arguments habituels, dans un article de l'Osservatore Romano du 30 avril 1938. Comme mes livres furent également la cible de ces attaques, il est de mon devoir, me semble-t-il, de mettre ici les choses au point en quelques lignes, tout au moins en ce qui me concerne. Même si ces propos anticipent sur le contenu de l'ouvrage qu'ils sont censés préfacer.

Il y a trois erreurs par lesquelles ces attaques essaient de nous brouiller avec nos voisins. La première consiste à donner l'impression que la raciologie allemande attribuerait à chaque race, comme le maître à ses élèves, un rang déterminé. Selon cette erreur, elle assignerait ainsi une place à chaque race, la première revenant à la race nordique. Ce qui impliquerait que la race méditerranéenne, par exemple, dût se contenter de la seconde, ou d'une place inférieure encore.

Rien n'est plus faux. Certes, des livres et des brochures, parus en Allemagne et à l'étranger, ont affirmé cela. Mais la racio-psychologie, dont la seule mission, en fin de compte, est de déterminer les valeurs liées à l'âme de telle ou telle race, nous enseigne d'emblée, très explicitement, que chaque race représente en elle-même et pour elle-même la valeur suprême. Chaque race porte son ordre et ses critères de valeurs. Elle ne peut être appréciée au moyen des critères d'une autre race. Il est donc absurde et de surcroît anti-scientifique de voir, par exemple, la race méditerranéenne avec les yeux de la race nordique et de porter sur elle un jugement de valeur selon des critères nordiques - et l'inverse est tout aussi vrai. Bien sûr, de telles bévues se produisent sans cesse dans la vie quotidienne, et c'est inévitable. Mais pour la science, c'est là un manquement à la logique la plus élémentaire.

Pour juger « objectivement » de la valeur d'une race humaine, il faudrait être au-dessus de toutes les races ! Chose impossible car être homme, c'est être déterminé par des caractères raciaux.

Dieu, peut-être, a-t-il son échelle de valeurs. Pas nous.

La science a donc pour mission de trouver la loi qui gouverne la constitution physique et mentale de chaque race. Cette loi particulière renferme également le système de valeurs spécifique, inhérent à cette race. On peut comparer ces systèmes de valeurs : l'échelle de valeurs spécifique à la race nordique, par exemple, peut être comparée à celle de la race méditerranéenne.

Ces comparaisons sont même instructives car toute chose, dans le monde où nous vivons, ne dévoile sa nature que si elle se distingue d'une autre, différente. Mais ces ordres de valeurs ne peuvent être jugés « en soi », à partir d'une axiologie « surplombante » puisqu'une telle axiologie, à notre connaissance, n'existe pas.

Que le Nordique soit nordique et le Méditerranéen méditerranéen ! Car ce n'est que si l'un et l'autre reste lui-même qu'il sera « bon », chacun à sa façon ! C'est la conviction de la racio-psychologie allemande que j'ai l'honneur de représenter, et cette conviction, la politique raciale allemande l'a reprise à son compte : le Bureau de la politique raciale du NSDAP a ainsi fait imprimer et distribuer dans les écoles des planches illustrées où l'on peut lire en gros caractères :

« TOUTES LES RACES SONT UNE VALEUR SUPRÊME »

La deuxième illusion que l'Osservatore Romano voudrait propager est la suivante : pour la science allemande, une race se distinguerait d'une autre par la possession de telles qualités, telle autre race ayant telles autres qualités. La race nordique, par exemple, se signalerait par son discernement, son dynamisme, son sens des responsabilités, son caractère consciencieux, son héroïsme - les autres races étant dépourvues de toutes ces qualités. Il n'est pas niable que de nombreux traités d'anthropologie anciens, dont certains furent rédigés par des Allemands, contiennent ce genre d'affirmations bien peu psychologiques.

Cela dit, ne vaut-il pas mieux consulter un cordonnier pour ses chaussures, un marin sur la navigation et un psychologue plutôt qu'un anatomiste sur les lois de la psychologie ?

Depuis 1921, la racio-psychologie allemande nous enseigne clairement ceci : l'âme d'une race ne réside pas dans telle ou telle « qualité ». Les qualités sont affaire individuelle : untel aura telles qualités, untel telles autres. La qualité « héroïsme » se rencontre sans aucun doute chez de nombreux Nordiques, mais également chez d'autres races. Il en est de même du dynamisme, du discernement, etc... L'âme d'une race ne consiste pas à posséder telle ou telle « qualité », elle réside dans le mouvement à travers lequel cette qualité se manifeste quand elle est présente chez un individu. L'héroïsme d'un Nordique et d'un Méditerranéen peut être « égal », il n'en reste pas moins que ces deux héroïsmes ne se présentent pas de la même façon : ils opèrent de manière différente, par des mouvements différents.

Le procédé parfaitement puéril consistant à rassembler une somme de qualités relevées chez quelques représentants individuels d'une race donnée, disons de la race nordique, et à (faire) croire que c'est dans la possession de ces qualités que réside le fait racial, est à peu près aussi intelligent que de vouloir décrire l'aspect physique de la race nordique, par exemple, en disant : elle a un nez, une bouche, des bras, des mains. Sans nul doute, cette race possède tout cela, et bien d'autres choses encore. Mais toutes les races possèdent un nez, une bouche, des bras et des mains. Ce n'est donc pas là, dans la possession de telle ou telle partie du corps, qu'il faut chercher le fait racial. Ce qui, en revanche, est déterminé racialement, c'est la forme du nez, de la bouche, et la manière dont on s'en sert. Même chose pour la forme des bras, des mains, et la façon dont ils se meuvent. Que l'homme de race méditerranéenne évolue dans l'espace différemment du Nordique, qu'il marche et danse différemment, qu'il accompagne son discours de gestes différents, cela est indéniable, il suffit d'ouvrir les yeux. Quant à savoir quels mouvements du corps, quelle gestuelle, ont le plus de « valeur », ceux du Méditerranéen ou ceux du Nordique, c'est là une question vide de sens. La réponse est : tous les deux, chacun à sa manière, chacun selon son style propre.

Les mouvements du corps sont l'expression des mouvements de l'âme, comme en témoignent le jeu des muscles de la face et les gestes des bras et des mains qui ponctuent l'élocution.
Pourquoi le locuteur agite-t-il ses mains de telle façon et non pas autrement ? Parce que le rythme auquel vit son âme lui dicte cette façon-là de remuer les mains. Le style des mouvements de l'âme détermine le style des mouvements du corps, car tous deux ne font qu'un.

Un exemple simple, tiré de l'observation quotidienne, illustrera ce propos : lequel, du Nordique ou du Méditerranéen, est le plus « doué » pour conduire une automobile ? Question, ici encore, vide de sens : ce n'est pas "le" Nordique, ni "le" Méditerranéen, qui a le don de ceci ou de cela, de nombreux êtres humains, appartenant à ces deux races, sont capables de conduire une automobile. Mais les Nordiques le seront d'une certaine manière, et c'est cette manière qui les fera apparaître comme tels. De même, les Méditerranéens le seront à la manière méditerranéenne, et c'est à cela qu'on les reconnaît comme méditerranéens. Voici la différence entre ces deux styles de conduite : le conducteur méditerranéen est maître de l'instant : où qu'il se trouve, il y est dans la perfection achevée du moment présent. D'un mouvement brusque du volant, il abordera un virage à toute vitesse, évitera un obstacle et freinera avec effet immédiat. Plus l'action est folle, dangereuse, plus le jeu sera magnifique. L'automobiliste nordique ne le suit pas sur ce terrain-là : non parce qu'il est piètre conducteur, mais parce que la loi qui préside aux mouvements de son âme et de son corps lui dicte un style de conduite différent. Le Nordique ne vit pas dans ce qui est, il vit toujours dans ce qui viendra : il n'est pas le maître de l'instant, il est le maître du lointain. Il n'abordera pas un virage de façon brusquée, il décrira au contraire un vaste arc de cercle : pour lui, le virage est « beau » s'il l'a prévu et s'il l'accentue le moins possible. Le Méditerranéen affectionne la surprise, l'imprévu : par là, il s'affirme comme le maître de l'instant présent. Le Nordique, lui, essaie toujours de pressentir, de prévoir ce qui va venir, même si cela n'est pas certain. C'est pourquoi il se crée un code de la route pensé jusque dans ses ultimes éventualités - ce qui exaspère le Méditerranéen. Car pour ce dernier, supprimer l'excitation de la surprise, ce n'est pas lui simplifier la tâche !

La troisième erreur que commet l'Osservatore Romano consiste à affirmer ceci : le peuple allemand se confond avec la race nordique, le peuple italien avec la race méditerranéenne. Si ce n'est pas dit explicitement, c'est admis implicitement. Or, le peuple allemand est composé de plusieurs races, parmi lesquelles la nordique prédomine bien sûr, mais elle n'est pas exclusive : il y a du sang méditerranéen dans le peuple allemand.

D'ailleurs, le peuple italien lui-même est constitué de plusieurs races, parmi lesquelles la race méditerranéenne domine certes (du moins dans la moitié Sud de la péninsule) ; mais il y a d'autres apports dans le peuple italien, par exemple beaucoup de sang nordique. Il n'existe pas de frontière raciale rigide entre les deux peuples, ils ont au contraire de nombreux traits communs, y compris au niveau du sang. Cette parenté biologique remonte très loin dans la Rome primitive et a, depuis, été renouvelée par plusieurs apports. Au sein des deux cultures, la germanique et la latine, les lois de la nordicité coexistent avec celles de la latinité mais le résultat en est différent d'une culture à l'autre : ces deux civilisations se sont formées ensemble, au contact l'une de l'autre. La latine est plus ancienne, la germanique plus récente. Laquelle a le plus de valeur, la plus ancienne ou la plus jeune ? Là encore, le problème nous paraît mal posé.

Le piège qui consiste à faire porter le soupçon sur la politique raciale allemande pour semer la méfiance entre peuples amis ne peut aujourd'hui leurrer que les naïfs. Tous les actes de la politique internationale, ou coloniale, viennent corroborer les acquis de la racio-psychologie et confirment son utilité pratique dans les relations avec des peuples différents. Son but n'est pas de séparer les peuples, mais de les rapprocher en fondant entre les divers types humains une compréhension mutuelle éclairée par la science.

Ludwig Ferdinand Clauss, « L’âme des races ».

lundi, 17 novembre 2008

E. Diederichs: grand éditeur, romantique et universaliste

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Eugen Diederichs: grand éditeur, romantique et universaliste

 

Michael MORGENSTERN

 

«S'il y avait des conspirateurs parmi nous, des conspirateurs rassemblés dans un cénacle à la fois ouvert et secret, qui mé­dite et œuvre pour forger le grand avenir et auquel peuvent se joindre tous ceux à qui il peut donner la parole pour exprimer leur aspirations et qui disent: “nous sommes las de nous satisfaire de choses achevées et préfabriquées”»: ce texte figurait en exergue sur le papier à en-tête des éditions Eugen Diederichs d'Iéna au début du siècle. Son auteur était Paul de Lagarde, qu'Eugen Diederichs vénérait et qu'il considérait comme l'un de ses principaux inspirateurs à côté de Nietzsche et de Julius Langbehn (l'auteur de Rembrandt als Erzieher,  = Rembrandt comme éducateur). Avec ces trois grandes figures de la pensée allemande de la fin du XIXième siècle, l'éditeur Diederichs partageait la conviction que tout véritable renouveau ne proviendrait que de la jeunesse. C'est la raison pour laquelle le nom de l'éditeur d'Iéna apparaissait à l'époque partout où surgissait de la nouveauté.

 

Ses intérêts le portait tout particulièrement à valoriser et à diffuser les linéaments idéologiques véhiculés par les mouvements réformateurs néo-romantiques et “alternatifs” nés au tournant du siècle: la FKK (la “culture des corps libres”, soit le natu­risme), les méthodes nouvelles en pédagogie, le mouvement végétarien, les tentatives de généraliser l'homéopathie, le mou­vement des cités-jardins en urbanisme, les compagnonnages de travailleurs, etc. Pour promouvoir toutes ses innovations, Diederichs proposait aussi une nouvelle esthétique du livre, où textes, couvertures, lettrages, etc. reflétaient les idées et pul­sions nouvelles dans le domaine de l'art. En effet, Diederichs était avant tout un éditeur.

 

Né en 1867 dans la propriété foncière d'une lignée de chevaliers près de Naumburg, Diederichs a d'abord voulu perpétuer la tradition familiale et devenir agriculteur. Mais très rapidement, son penchant à dévorer des livres a pris le dessus et le jeune homme a choisi une profession qui ne mettrait aucun frein à son insatiable fringale de lectures. Diederichs n'était pas qu'un rêveur passionné et un romantique perdu dans ses songes: il était doué d'un solide sens pratique des affaires, qu'il a étayé au cours de quelques années d'apprentissage en Allemagne du Sud. Pendant un voyage en Italie, il décide à Rimini, en août 1896, de s'engager totalement “et tout seul dans un combat contre son époque”. Avec pour atouts les poèmes d'un ami et un héritage, il fonde sa maison d'édition à Florence, puis la transplante rapidement à Leipzig. Elle connaître son apogée à Iéna quelques années plus tard.

 

Dès ses premiers mois d'activités en Italie, le jeune éditeur avait noué des contacts avec toute une série d'auteurs et leur avait fait part de ses intentions. Pour Diederichs, le néo-romantisme du tournant du siècle n'était nullement un tissu de rêveries dé­sincarnées, mais “après l'âge des spécialistes, après l'ère d'une culture ne reposant que sur la seule raison raisonnante, ce néo-romantisme veut regarder le monde et en jouir dans son intégralité. Dans la mesure où ce néo-romantisme saisit à nou­veau le monde par le truchement de l'intuition, il dépasse aussitôt ces phénomènes que sont le matérialisme et le naturalisme qui procèdent tous deux de cette culture de la raison raisonnante”. A cette intention de Diederichs correspond l'œuvre des philosophes de la Vie qui critiquent le morcellement conceptuel du monde, dû à un excès d'analytisme, et revalorisent la pen­sée holiste, tout en déplorant les dégâts de l'industrialisme et en appelant à un retour à la nature. Cette option holiste et “écologique” (avant la lettre) conduit Diederichs à éditer les travaux de Henri Bergson, qui deviendra rapidement le philosophe le plus emblématique de la maison.

 

Diederichs était un universaliste, dans le sens où il ne voulait rester étranger à rien de ce que les cultures humaines avaient produit, et ambitionnait d'éditer dans sa maison le meilleur de ce que l'esprit des hommes avait généré. Ainsi, Diederichs a publié les sagas, les légendes et les contes de tous les peuples de la Terre, de même que les chroniques de la Renaissance, la poésie vieille-norroise (dans la collection “Thule”), les textes des philosophes chinois et indiens. Ensuite, Diederichs a soutenu les efforts des nouvelles orientations religieuses en Allemagne, les religiosités libres, qui critiquaient les églises ser­vant de piliers à l'Etat, en publiant les écrits des mystiques allemands  —Diederichs estimait que Maître Eckehart était de loin supérieur à Luther—  et l'œuvre de Kierkegaard.

 

Dans les années qui ont immédiatement précédé la première guerre mondiale, les intérêts de Diederichs glissent du religieux au politique. Il suscite tout de suite l'intérêt général du public en éditant des autobiographies d'ouvriers comme la Lebensgeschichte eines modernen Fabrikarbeiters  (Histoire de la vie d'un ouvrier des fabriques moderne) de William Bromme. Son objectif était de “déprolétariser le socialisme” et d'“approfondir l'idée nationale”. Diederichs se positionnait comme un héritier spirituel de Herder et s'intéressait dès lors à la culture des héritages populaires, dans une perspective au­thentiquement ethnopluraliste: «Nous n'aurons le droit de nous affirmer nationalistes que lorsque nous aurons com­pris et respecté la spécificité des autres peuples. Car c'est en cela que réside la richesse de la Vie, qui est une poly­symphonie; il n'y a aucun peuple qui puisse s'ériger en exemple absolu et il n'y a pas d'idéologie qui puisse pré­tendre à la domination absolue». Cette phrase, Diederichs l'a faite inscrire dans le catalogue de sa maison d'édition en 1912. Pour détenir un organe de presse capable de véhiculer sa vision du monde et de la politique, il rachète une revue fondée auparavant par le “mouvement religieux libre”, Die Tat, qu'il transforme en un mensuel de culture et de politique. Elle devien­dra ultérieurement, sous la direction de Hans Zehrer, l'organe majeur de la “Konservative Revolution”.

 

Diederichs, homme d'âge mûr, s'est d'abord montré assez réservé face au mouvement de jeunesse “Wandervogel”, dont le style était franchement bohème, rustaud et anarchisant au début. Ses premiers contacts avec les jeunes contestataires du tournant du siècle eurent lieu par l'intermédiaire du Cercle “Sera”, qu'il avait lui-même contribué à lancer. Ce Cercle “Sera” devait son nom à une danse festive dont le refrain était “Sera, sera, sancti Domine”). En organisant des solstices, en réhabili­tant les danses populaires, en relançant le théâtre en plein air et les randonnées des Vaganten  médiévaux, ce Cercle Sera entendait expérimenter de “nouvelles formes de socialité sur l'herbe des prairies”. Diederichs a évoqué ses raisons: «Ce qui m'a amené à soutenir de telles initiatives, est tout simplement ma propre nostalgie des fêtes dans la nature, où il n'y avait pas de spectateurs, mais où tous participaient».

 

L'enthousiasme de l'éditeur pour ces fêtes champêtres ne manquait pas de comique, se souvient l'un de ses auteurs les plus en vue, Hans Blüher. Celui-ci se remémore dans ses souvenirs le temps “où ce monsieur vieillissant, vêtu d'un costume res­semblant à celui d'un paysan balkanique, avec un bâton de Thyros à la main et du lierre dans les cheveux, traversait les rues d'Iéna pour s'en aller dans les collines autour de la ville, juché sur une calèche branlante, entouré de toute une jeunesse, de préférence de sexe féminin, afin de sacrifier à des cultes de nature dionysiaque». En compagnie de son Cercle Sera, Diederichs a participé à la grande fête de la jeunesse Wandervogel qui eut lieu en 1913 sur le Hoher Meissner. Il édita le livre consacré à cette rencontre historique avec, en frontispice, la célèbre gravure de l'artiste Fidus, intitulée Hohe Wacht.

 

Diederichs a développé une véritable critique de l'Etat autoritaire wilhelminien, en s'insurgeant principalement contre la rigidi­fication des églises, de l'école et de la science. Très logiquement, il devait aboutir à une théorisation du Volksstaat, qui aurait parfaitement pu se passer du parlementarisme à l'occidentale et aurait dû être construit selon des principes “organiques et dé­centralisés”. Diederichs parlait de “conservatisme social”. Quand éclate la révolution socialiste des conseils d'ouvriers et de soldats en 1918, il est gonflé d'espoir mais cet enthousiasme s'effondre rapidement, dès que l'élan révolutionnaire s'enlise dans le plus plat et le plus vulgaire des matérialismes. Alors l'“Eugen aux yeux de spectre” (dixit Julius Hart), qui n'avait ja­mais perdu sa mélancholie, fond de sa personnalité, se retira de toute vie publique, mais s'engagea résolument dans la dé­fense de la culture populaire allemande, contre l'“américanisation et l'atomisation [sociale]”.

 

En 1930, Eugen Diederichs meurt. Quelques années avant de quitter ce monde, il avait encouragé la création des “Cellules pour la Reconstruction Spirituelle de l'Allemagne” (Zellen zum geistigen Neuaufbau Deutschlands), émanations du mouve­ment de jeunesse Wandervogel d'avant la guerre: «Il est bon que ces cellules demeurent encore discrètes pendant quelque temps, car la psyché du peuple n'a pas à défiler dans les rues: elle doit se reconstituer et croître dans le si­lence et la tranquillité. Tous ceux qui vivent pour maintenir, conserver et développer leur psyché spécifique, sentent qu'ils appartiennent à un Cénacle secret, où tous se sont juré fidélité, en attendant le Grand Matin. Car il viendra ce Grand Matin. Mais il ne viendra pas tout seul, car il faut d'abord labourer la terre avant de pouvoir la semer».

 

Michael MORGENSTERN.

(article tiré de Junge Freiheit,  n°4/1995; trad. franç. : Robert Steuckers).

vendredi, 07 novembre 2008

Heeft Joris van Severen invloed van G. Sorel ondergaan?

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Heeft Joris van Severen invloed van Georges Sorel ondergaan?

 

Gevonden op: http://www.jorisvanseveren.org

Piet Tommissen, Ukkel

Dat ik de titel van deze bescheiden bijdrage als een vraag ingekleed heb heeft zo zijn reden. Inderdaad kan ik geen sluitende argumenten aanvoeren om te bevestigen of te ontkennen dat die invloed bestaan heeft. Onlangs omzeilde ik - om het met de woorden te zeggen van de Russische romancier Ivan Turgeniev (1818-1883), één van de aanspraakmakers op het vaderschap van het uit onze woordenschat niet weg te denken begrip ‘nihilisme’ – de kaap van de 80 lentes en op die leeftijd smeedt men liefst geen plannen meer hoe groot de bekoring ook weze. De bijdrage werd daarom geschreven in de hoop dat een jongere vorser zou nagaan of Van Severen al dan niet door Sorel beïnvloed is geworden. Ik ben van mening dat een grondig onderzoek de moeite waard is, temeer daar meteen naar mogelijke invloed zowel van Georges Valois (pseudoniem van Georges Gressent, 1878-1945) als van de ‘Clarté’-beweging kan gespeurd worden.

Wat mij betreft mag iedereen over Ward Hermans (1897-1992), ooit lid van het Verdinaso en vooral bekend geworden als de man van de destijds furore makende documenten van Utrecht (1929), denken wat hij wil. Maar niemand kan ontkennen dat hij zeer belezen en met het geestesleven van zijn tijd vrij goed vertrouwd was. Men denke slechts aan zijn opstellenbundel De Avondland-Idee & Vlaanderen, die zowel qua titel als qua inhoud invloed verraadt van Oswald Spengler (1880-1936).1 Dat opus en een paar andere geschriften van Hermans gelezen hebbende werd mijn nieuwsgierigheid gewekt toen ik in een vergeeld nummer van het maandblad De nieuwe Dag op een artikel van zijn hand stiet.2 Het handelt over de geëngageerde literatuur. Ofschoon het als zodanig een kritische analyse verdient, beperk ik me hier evenwel tot de vaststelling dat tot twee keer toe gewezen wordt op de invloed die Georges Sorel (1847-1922) op Van Severen zou uitgeoefend hebben.

Ik citeer: (a): “Wanneer men het proces maakt van de geëngageerde literatuur, moet men in Vlaanderen onvermijdelijk denken aan een biezonder typisch voorbeeld: dit van Joris van Severen, van de linksgerichte groep ‘Clarté’ via Ter Waarheid, langzaam evoluerend naar rechts onder invloed der filosofie van Sorel en de bellettrie van Maurras. Hier heeft men, in een notendop, heel de tragiek van een strijdend Vlaming, omzeggens van huis uit veroordeeld om op het verkeerde front te sterven. En, totale deernis van deze tragiek, te vallen onder de kogels van een volk, dat hem naar geest en gevoel meer verwant was dan dit van Goethe en Humboldt.”; (b): “Eens inspireerde Sorel het prefascisme. Mussolini komt van daar. En we zegden het reeds: ook van Severen.”3 Er dient bijgezegd dat Hermans een retour van de theorieën van Sorel ontwaarde: “Wie Sorels invloed heeft gekend op de generatie van tussen twee wereldoorlogen, weet maar al te goed wat dit betekent. Het is het geweld in dienst van de gedachte. De gedachte die niet tot werkelijkheid kan worden zonder de daad van het geweld.”4

Wat Hermans over de ontwikkelingsgang van Van Severen schrijft is overigens ook op zijn eigen evolutie en , zoals hij terecht schrijft, op die van heel wat van zijn tijdgenoten van toepassing. Na Wereldoorlog 1 voltrok zich namelijk in West-Europa een proces dat men ideologische inversie zou kunnen noemen: iemand die door de linkse parolen werd aangelokt kon in een latere levensfase naar rechts opschuiven, en omgekeerd.5 Zo is geweten dat Sorel en enkele prominente aanhangers van de Clarté-beweging6 in een volgende fase de zwenking naar rechts hebben voltrokken. 6

Vik Eggermont (°1929) schrijft dat Van Severen zich interesseerde voor leidinggevende figuren van linkse signatuur - hij vernoemt Karl Liebknecht (1871-1919), Rosa Luxemburg (1870-1919)  en Henriette Roland Holst (1869-1952), maar had tevens Gustav Landauer (1870-1919) kunnen vermelden7 - en dat in zijnen hoofde “een zekere wwelwillende en begrijpende belangstelling” t.a.v. het communisme niet kan ontkend worden.8 Mocht dit laatste kloppen, dan is die belangstelling m.i. een rechtstreeks gevolg van de impact van de Clarté-groep. 

Doch niet die ideologische inversie staat hier centraal, wèl de vraag of Sorel Joris van Severen beïnvloed heeft, zoals Hermans suggereert. Het is geen retorische vraag, want Sorels geschriften en ideeën hebben een grote resonantie gehad. Percy Wyndham Lewis (1882-1957), de Engelse avant-gardistische schilder, dichter, essayist en vader van het vorticisme9, getuigde anno 1926 in een toen veel gelezen werk: Sorel is the key to all contem-porary political thought.10 Bijna vijf decennia geleden bevestigde Armin Mohler (1920-2000) deze zienswijze: “Er (sc. Sorel) ist zweifellos derjenige Franzose, der in den verflossenen achzig Jahren den tiefsten geistigen Ein-fluss auf die Welt ausübte - auch wenn dieser Einfluss oft seltsame Umwege ging.”11

Wat Van Severen betreft vindt men de enige indicaties waarover we beschikken in de gedrukt voorliggende ingekorte versie van de licentiaatverhandeling die Luc Pauwels (°1940) anno 1998 aan de KUL verdedigde en die door de jury ad hoc hoog gequoteerd werd: citaten uit Combat en de aanwezigheid in Van Severens bibliotheek van enkele werken van en over Sorel.12 Volstaat zulks om van invloed te mogen gewagen? Ik betwijfel het. Volgens mij is een indicatie nog lang geen bewijs. Er zou moeten worden nagegaan of Sorels interpretatie van het begrip mythe, van de rol van het geweld e.a.m., in voordrachten en/of teksten van Van Severen aantoonbaar is.

Het spreekt vanzelf dat die redenering ook opgaat voor Valois en Clarté. Dankzij L. Pauwels weten we dat Valois tot zijn lievelingsauteurs behoord heeft13, maar is een echo van die belangstelling in Van Severens geschriften terug te vinden? Clarté vertoonde internationale allures en had niet enkel in Belgische Franstalige14 doch evenzeer in Antwerpse middens aanhangers.15 Dixit Hermans vond Van Severen het gelijknamig tijdschrift “sympathiek”.16 Maar andermaal rijst het probleem of het al dan niet bij vrijblijvende curiositeit gebleven is. Afgaande op de bevindingen van Kurt Ravyts (°1968) blijkt zulks niet het geval te zijn geweest.17

Summa summarum: moge een jonge vorser zich over deze boeiende problematiek ontfermen!17 Meer zelfs, moge hij het te bestuderen veld verruimen, door rekening te houden met strekkingen en namen die Rudy Pauwels (°1932) citeert!18

Noten

1 W. Hermans, De Avondland-Idee & Vlaanderen, Turnhout, Drukkerij Lityca, 1927, 117 p., n° 1 in de reeks ‘Vragen van dezen tijd’.

2 (a) W. Hermans, Bestiarium van de literatuur. Een halve eeuw literair-politiek engagement, in: De nieuwe Dag, 3ejg., nr. 11, april 1967, pp. 38-41. De titel is voorzeker ontleend aan deze van een boek uit 1920 vol parodieën (bijna uitsluitend) van de hand van Franz Blei (1871-1942): Das grosse Bestiarium der Literatur (heruit-gave bezorgd door Rolf-Peter Baacke), Hamburg: Europaische Verlagsanstalt, 1995, 418 p.

(b) Over het maandblad, vgl. Nieuwe Encyclopedie van de Vlaamse Beweging, deel 2 = G-Q, p. 2204.

3 W. Hermans, art. cit. (vt 2 punt a), p. 38 resp. p. 40.

4 W. Hermans, art. cit. (vt 2 punt a), p. 39.

5 Voor nadere bijzonderheden, vgl. Jean Pierre Faye (°1925), Langages totalitaires. Critique de la raison! Critique de I’économie narrative, Paris, Hermann, 1972, VIII-771 p. Voor een grondige kritiek van dit opus, vgl. mijn studie J.P. Faye’s critiek van de narratieve economie, pp. 13-6 1 in: P. Tommissen, Anti-totalitair denken in Frankrijk, Brussel: EHSAL, 1984, 155 p., n° 55-56-57 in de reeks ‘Eclectica’.

6 Tijdens Wereldoorlog I werd door Henri Barbusse (1873-1935) en enkele vrienden een internationaal tijdschrift geconcipiëerd en op 22 juli 1916 in de (communistische) krant L’Humanité in het door talrijke literatoren ondertekend manifest ‘Contre la paix injuste’ aangekondigd. Inderdaad verscheen op 11 oktober 1919 het eerste nummer van Clarté. - Bulletin français de l’ Internationale de la pensée. Dit bulletin (of zo men wil: deze krant) moest de plaats ruimen voor een heus tijdschrift met dezelfde naam doch zonder de ondertitel; het werd uitgegeven door Barbusse en Paul Vaillant-Couturier (1892-1937) en verscheen voor het eerst op 19 november 1921 als een ‘revue de critique communiste’. Drie jaar lang ijverden de medewerkers voor een Westerse revolutie volgens het Russisch model en kantten zich tegen de cultuur en de waarden van de Westerse bourgeois. Van 1924 af maakten literaire en artistieke avant-gardegroepen de dienst uit. Clarté hield in december 1927 op te bestaan.

7 L. Pauwels, De ideologische evolutie van Joris van Severen (1894-1940). Een hermeneutische benadering, leper, Studie- en Coördinatiecentrum Joris van Severen, 1999, 272 p., Jaarboek’ 3 van dat centrum; cf. p. 164 en p.2l6.

8 V. Eggermont, Ter Waarheid, aanzet tot een inhoudsanalyse, pp. 23-40 in: Gedenkboek Joris van Severen 1894-1994, Aartselaar: Nationaal Studie- en Documentatie-centrum Joris van Severen, 1994, 352 p.; cf. p. 38.

9 VgI. o.m.: Wyndham Lewis et le vorticisme. Paris, Centre Georges Pompidou. 1982. 188 p., in de reeks ‘Cahiers pour un temps’

10 W. Lewis, The Art of Being Ruled. Santa Rosa, Black Sparrow Press, (1926) 1989 (een door Reed Way Dasenbrock bezorgde voorbeeldige heruitgave), 463 p., cf. p. 119.

11 A. Mohler, Die französische Rechte. Vom Kampf um Frankreichs Ideologienpanzer. München, Isar Verlag, 1958, 86 p., nr 3 in de reeks ‘Konservative Schriften-reihe’; cf. p. 44.

12 L. Pauwels, op. cit. (vt 7), p. 164 en 216.

13 L. Pauwels, op. cit. (vt 7), p. 199 en p 239. Op p. 217 vernemen we voorts dat zich in de bibliotheek 15 werken van Valois bevonden.

14 De spilfiguur was niemand minder dan Paul Colin (1890-1943)! Vgl. o.m. Ernst Leonardy, Die internationale Debatte um den Pazifismus im Rahmen der ‘Clarté’-Bewegung 1919-1921. Beiträge aus Frankreich, Deutschland und Belgien, pp. 155-189 in: E. Leonardy en Hubert Roland (eds.), Deutsch-belgische Beziehungen im kulturellen und literarischen Bereich 1890-1940, Frankfurt a.M., Lang, 1999, 289 p., nr. 36 in de reeks ‘Studien and Dokumente zur Geschichte der Romanischen Literaturen’; cf. pp. 175-179: Paul Colin als Vermittler deutscher Kultur an die Romania und als Propagandist der ‘Clarté’-Bewegung in Deutschland.

15 1k denk o.m. aan het door RogerAvermaete (l893-1988) e.a. in Antwerpen uitgegeven tijdschrift Lumière. Cf. R. Avermaete, L’aventure de ‘Lumière’, Brussel, Arcade, 1969, 187 p.

16 W. Hermans, art. cit. (vt 2 punt a), p. 39.

17 K. Ravyts, Joris van Severen en de avant-garde in de spiegel van ‘Ter Waarheid’ (1921-1924), pp. 45-63-74: 3. De invloed van Paul Colins l’Art Libre.

18 R. Pauwels, Organisch solidarisme. Corporatisme: toen, in deze Nieuwsbrief Joris van Severen, 6e jg., 3e trimester 2002, pp. 15-21 (cf. vooral pp. 18-19).

mardi, 21 octobre 2008

Carl Schmitt: l'humanité

L'Humanité

Trouvé sur: http://metanoia.hautetfort.com

« L'Humanité n'est pas un concept politique […]. L'Humanité des doctrines fondées sur le Droit naturel, libérales et individualistes, est une construction sociale idéale de caractère universel, c-à-d. englobant tous les hommes de la terre (...), qui ne sera pas réalisée avant que ne soit éliminée l'éventualité effective du combat et que soit rendu impossible tout regroupement en amis et ennemis. Cette société universelle ne connaîtrait plus de peuples (...) Le concept d'Humanité est un instrument idéologique particulièrement utile aux expansions impérialistes, et sous sa forme éthique et humanitaire, il est un véhicule spécifique de l'impérialisme économique (...) Étant donné qu'un nom aussi sublime entraîne certaines conséquences pour celui qui le porte, le fait de s'attribuer ce nom d'Humanité, de l'invoquer et de le monopoliser, se saurait que manifester une prétention effrayante à faire refuser à l'ennemi sa qualité d’être humain, à la faire déclarer hors la loi et hors l'Humanité et partant à pousser la guerre jusqu'aux limites extrêmes de l'humain ».

 

Carl Schmitt
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Parler d’Humanité revient à refuser que l'on s'intéresse à notre avenir, à notre réalité, qui est l’Européanité. Ce ne peut être qu’une régression vers l’Indéterminé ; autrement dit pour vous et moi le meilleur moyen de ne jamais être en tant que personnes, de ne jamais vivre et faire vivre dans des sociétés véritablement organisées.

*

L’Humanité, ce qui unit vulgairement toutes les cultures et les peuples, c’est le ventre, la libido, la naissance et la mort. Tout le reste ne concerne plus que des groupes restreints au sein de cette Humanité qui par là même, perd immédiatement toute valeur. Il existe au sein de cette Humanité des groupes raciaux, distincts par leurs caractéristiques physiques, leurs groupes sanguins, leurs QI et leur niveau d’adaptation à tel ou tel milieu, distincts encore par leur vulnérabilité à telle ou telle maladie. Le simple point de vue biologique, qui participe à priori à unir conceptuellement les hommes, ne débouche en fait que sur l’idée d’un pluriversum constitué de communautés humaines plus ou moins radicalement liées à un Sol particulier (Une Terre – Un Peuple). Le concept d’humain n’a donc une valeur que toute relative, qui n’a en tout cas aucune légitimité supérieure sur le plan politique, et ne peut qu’être l’arme d’une idéologie bien précise, à proprement parler contre nature. Une idéologie qui postule l'identité absolue des peuples afin de la réaliser, une sorte de communisme du XXIe siècle faisant directement appel à l'idée des types humains sans même passer par l'intermédiaire d'une rhétorique classiste. Une idéologie qui postule l'unité du genre humain pour mieux mener l'extermination des types porteurs de la culture et du sens. 

C’est sur le plan de la culture que doit principalement porter notre questionnement, sur ce qui, en somme, semble être le propre de l’homme. L’homme est un être de culture, et en cela non plus, il n’y a pas d’Humanité, mais une série de communautés qui sont donc à la fois ethniques et culturelles. La culture est le diviseur par excellence, ce qui distingue avec autant d’évidence que le corps l’Africain de l’Européen, le Japonais du Juif. Des forces distinctes, et souvent irréductibles, antagonistes, se côtoient et s’affrontent pour le respect sur une ère donnée de telle ou telle conception culturelle, plus fortement encore que pour le respect de telle ou telle présence raciale. Reconnaître que l’homme n’est pas seulement bios, mais aussi culture, c’est reconnaître définitivement que l’Humanité n’existe pas, ou du moins qu’elle est plurielle et en cela relative. Nous sommes humains avant d’être des Européens sur le plan biologique, encore que cela soit contestable, mais nous sommes d’abord des Européens sur le plan culturel – autrement dit, sur un plan supérieur - celui de notre humanité totale, réelle. Bien entendu, la culture ne correspond pas exactement au groupe racial, mais il est tout à fait évident que cette production est en partie le fait de notre patrimoine biologique, directement ou indirectement (Un Sang – Une Esthétique ; Une Terre – Une vision du Sacré). Quant à la question de l’adoption d’une culture d’origine allogène par un peuple, elle est dérisoire sur le plan de l’argumentation politique pour trois raisons : la première est que cette adoption est généralement le fait d’un échec (défaite militaire, décadence intérieure), la seconde est qu’elle débouche sur un syncrétisme (c’est ainsi que le judaïsme universalisé a donné naissance au catholicisme et son culte des Saints, des anciennes sources, à ses églises dans des arbres, …), et la troisième que l’ampleur des nouvelles Grandes Invasions est telle qu'elles constituent essentiellement un mouvement anti-culturel, non de transformation mais de destruction pure et simple. 

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Le seul type d’individu qui convienne à la notion d’Humanité, c’est l’atome sans race incapable d'être porteur de la moindre esthétique parce qu’il nie lui-même l’évidence de son rapport immédiat au Beau et au Laid (« l’homme est la mesure de toute chose », et plus précisément dans cet aphorisme de Protagoras, l’homme grec : bien compris ce précepte se décline autant de fois qu’il y a de peuples), sans terre et donc sans conception saine du sacré, sans tradition et ne pouvant de fait vivre que sur le plan strictement individuel, par définition hors de l’histoire (Le Présent horizon indépassable de l’existence). Sur le plan de l’organisation politique, cet individu ne peut vivre qu’au sein d’un Etat Mondial, autrement dit d’une « fiction-organisme ». Il est parfaitement évident, choquant même, que tout cela n’est qu’un plan mondial de domination devenu puissance abstraite qui s’est emparé de populations décadentes ou conquises par la force, dont il ne s’agit pas ici de discuter de la paternité, mais qui est essentiellement porté à l’échelle planétaire par les Etats-Unis d’Amérique après l'avoir été par la France révolutionnaire à l’échelle du continent européen. La force avec laquelle est idéologisée avec ce décalage temporel porteur d’un paradoxe alarmant la notion d’Humanité (L’Humanité existe, mais nous venons pour la faire exister) montre qu’elle est tout aussi abstraite que la Race Aryenne, autrement dit qu’elle est un mensonge, purement et simplement, au profit de puissances étrangères et d’esprits malades.

Mais cette maladie de l’esprit n’est pas seulement le fait d’une autonomie excessive de la Raison, elle est la résultante d’un déséquilibre des fonctions, d’abord au sein des sociétés, puis dans l’organisme même de tous les individus. La croisade pour l’Humanité, c'est-à-dire concrètement la croisade contre l’homme réel, advient lorsque les fonctions corporelles s’absolutisent (et il s’agit encore des fonctions les plus basses de ce plan) au point d’asservir totalement une Raison imbue d’elle-même à ses objectifs d’accumulation de petites satisfactions physiques ; menant ainsi une unification-collectivisation par le bios inférieur. Cette maladie n'est pas autre chose, sur le plan politique, que la démocratie libérale. Autrement dit, l’Humanité n’est pas l’ensemble des hommes, mais bien une masse, une addition de masses d’atomes s’identifiant uniquement aux fonctions biologiques les moins « humaines », c’est-à-dire coupées de toute espèce de culture : l’Humanité n’est que l’involution de l’homme, non au stade de l’animal (puisque nous appartenons de toute façon à la totalité de la Nature), mais à celui d’un moins-que-l’homme. Ou pour mieux dire, si le terme n’était pas devenu si connoté, au stade du sous-homme ; celui que Nietzsche dénommait le dernier homme.

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Lorsque l’on nous accuse de manquer d’humanité, d’être « moins humains que », il est donc bon de songer que pour la grande majorité des individus de notre société-monde en avènement, « humanité » s’identifie à « primitivisme ». Immanquablement, celui qui se tient droit, qui se fixe comme objectif d’être et demeurer, ne pourra de plus en plus apparaître que comme un adversaire mortel, un organisme hors de l’Humanité, ne méritant à ce titre aucune espèce de considération morale. En demeurant libres, nous nous heurterons de plus en plus souvent, de plus en plus violemment, aux dégénérés qui se glorifient de leur « liberté » dans une société « décomplexée » alors qu’il ne s’agit que de soumission à l’infra-personnel et de laisser-aller, d’incapacité de force.

lundi, 20 octobre 2008

Spengler: Atlantis, Kasch et Turan

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Robert Steuckers:

 

Les matrices préhistoriques des civilisations antiques dans l'œuvre posthume de Spengler: Atlantis, Kasch et Turan

Généralement, les morphologies de cultures et de civilisations proposées par Spengler dans son ouvrage le plus célèbre, Le déclin de l'Occident, sont les seules à être connues. Pourtant, ses positions ont changé après l'édition de cette somme. Le germaniste italien Domenico Conte en fait état dans son ouvrage récent sur Spengler. En effet, une étude plus approfondie des textes posthumes édités par Anton Mirko Koktanek, notamment Frühzeit der Weltgeschichte, qui rassemble les fragments d'une œuvre projetée mais jamais achevée, L'épopée de l'Homme.

 

Dans la phase de ses réflexions qui a immédiatement suivi la parution du Déclin de l'Occident, Spengler distinguait quatre stades dans l'histoire de l'humanité, qu'il désignait tout simplement par les quatre premières lettres de l'alphabet: a, b, c et d. Le stade “a” aurait ainsi duré une centaine de milliers d'années, aurait recouvert le paléolithique inférieur et accompagné les premières phases de l'hominisation. C'est au cours de ce stade qu'apparaît l'importance de la “main” pour l'homme. C'est, pour Spengler, l'âge du Granit. Le stade “b” aurait duré une dizaine de milliers d'années et se situerait au paléolithique inférieur, entre 20.000 et 7000/6000 avant notre ère. C'est au cours de cet âge que naît la notion de vie intérieure; apparaît “alors la véritable âme, inconnue des hommes du stade “a” tout comme elle est inconnue du nouveau-né”. C'est à partir de ce moment-là de son histoire que l'homme “est capable de produire des traces/souvenirs” et de comprendre le phénomène de la mort. Pour Spengler, c'est l'âge du Cristal. Les stades “a” et “b” sont anorganiques.

 

Le stade “c” a une durée de 3500 années: il commence avec le néolithique, à partir du sixième millénaire et jusqu'au troisième. C'est le stade où la pensée commence à s'articuler sur le langage et où les réalisations techniques les plus complexes deviennent possibles. Naissent alors les “cultures” dont les structures sont de type “amibien”. Le stade “d” est celui de l'“histoire mondiale” au sens conventionnel du terme. C'est celui des “grandes civilisations”, dont chacune dure environ 1000 ans. Ces civilisations ont des structures de type “végétal”. Les stades “c” et “d” sont organiques.

 

Spengler préférait cette classification psychologique-morphologique aux classifications imposées par les directeurs de musée qui subdivisaient les ères préhistoriques et historiques selon les matériaux utilisés pour la fabrication d'outils (pierre, bronze, fer). Spengler rejette aussi, à la suite de cette classification psychologique-morphologique, les visions trop évolutionnistes de l'histoire humaine: celles-ci, trop tributaires des idéaux faibles du XVIIIième siècle, induisaient l'idée “d'une transformation lente, flegmatique” du donné naturel, qui était peut-être évidente pour l'Anglais (du XVIIIième), mais incompatible avec la nature. L'évolution, pour Spengler, se fait à coup de catastrophes, d'irruptions soudaines, de mutations inattendues. «L'histoire du monde procède de catastrophes en catastrophes, sans se soucier de savoir si nous sommes en mesure de les comprendre. Aujourd'hui, avec H. de Vries, nous les appelons “mutations”. Il s'agit d'une transformation interne, qui affecte à l'improviste tous les exemplaires d'une espèce, sans “causes”, naturellement, comme pour toutes les choses dans la réalité. Tel est le rythme mystérieux du réel» (L'homme et la technique). Il n'y a donc pas d'évolution lente mais des transformations brusques, “épocales”. Natura facit saltus.

 

trois cultures-amibes

 

Dans le stade “c”, où émergent véritablement les matrices de la civilisation humaine, Spengler distingue trois “cultures-amibes”: Atlantis, Kasch et Turan. Cette terminologie n'apparaît que dans ses écrits posthumes et dans ses lettres. Les matrices civilisationnelles sont “amibes”, et non “plantes”, parce que les amibes sont mobiles, ne sont pas ancrées dans une terre précise. L'amibe est un organisme qui émet continuellement ses pseudopodes dans sa périphérie, en changeant sans cesse de forme. Ensuite, l'amibe se subdivise justement à la façon des amibes, produisant de nouvelles individualités qui s'éloignent de l'amibe-mère. Cette analogie implique que l'on ne peut pas délimiter avec précision le territoire d'une civilisation du stade “c”, parce que ses émanations de mode amibien peuvent être fort dispersées dans l'espace, fort éloignées de l'amibe-mère.

 

“Atlantis” est l'“Ouest” et s'étend de l'Irlande à l'Egypte; “Kasch” est le “Sud-Est”, une région comprise entre l'Inde et la Mer Rouge. “Turan” est le “Nord”, s'étendant de l'Europe centrale à la Chine. Spengler, explique Conte, a choisi cette terminologie rappelant d'“anciens noms mythologiques” afin de ne pas les confondre avec des espaces historiques ultérieurs, de type “végétal”, bien situés et circonscrits dans la géographie, alors qu'eux-mêmes sont dispersés et non localisables précisément.

 

Spengler ne croit pas au mythe platonicien de l'Atlantide, en un continent englouti, mais constate qu'un ensemble de sédiments civilisationnels sont repérables à l'Ouest, de l'Irlande à l'Egypte. ‘Kasch” est un nom que l'on retrouve dans l'Ancien Testament pour désigner le territoire de l'antique Nubie, région habitée par les Kaschites. Mais Spengler place la culture-amibe “Kasch” plus à l'Est, dans une région s'articulant entre le Turkestan, la Perse et l'Inde, sans doute en s'inspirant de l'anthropologue Frobenius. Quant à “Turan”, c'est le “Nord”, le haut-plateau touranique, qu'il pensait être le berceau des langues indo-européennes et ouralo-altaïques. C'est de là que sont parties les migrations de peuples “nordiques” (il n'y a nulle connotation racialisante chez Spengler) qui ont déboulé sur l'Europe, l'Inde et la Chine.

 

Atlantis: chaude et mobile; Kasch: tropicale et repue

 

Atlantis, Kasch et Turan sont des cultures porteuses de principes morphologiques, émergeant principalement dans les sphères de la religion et des arts. La religiosité d'Atlantis est “chaude et mobile”, centrée sur le culte des morts et sur la prééminence de la sphère ultra-tellurique. Les formes de sépultures, note Conte, témoignent du rapport intense avec le monde des morts: les tombes accusent toujours un fort relief, ou sont monumentales; les défunts sont embaumés et momifiés; on leur laisse ou apporte de la nourriture. Ce rapport obsessionnel avec la chaîne des ancêtres porte Spengler à théoriser la présence d'un principe “généalogique”. Les expressions artistiques d'Atlantis, ajoute Conte, sont centrées sur les constructions de pierre, gigantesques dans la mesure du possible, faites pour l'éternité, signes d'un sentiment de la vie qui n'est pas tourné vers un dépassement héroïque des limites, mais vers une sorte de “complaisance inerte”.

 

Kasch développe une religion “tropicale” et “repue”. Le problème de la vie ultra-tellurique est appréhendé avec une angoisse nettement moindre que dans Atlantis, car, dans la culture-amibe de Kasch domine une mathématique du cosmos (dont Babylone sera l'expression la plus grandiose), où les choses sont d'avance “rigidement déterminées”. La vie d'après la mort suscite l'indifférence. Si Atlantis est une “culture des tombes”, en Kasch, les tombes n'ont aucune signification. On y vit et on y procrée mais on y oublie les morts. Le symbole central de Kasch est le temple, d'où les prêtres scrutent la mathématique céleste. Si en Atlantis domine le principe généalogique, si les dieux et les déesses d'Atlantis sont père, mère, fils, fille, en Kasch, les divinités sont des astres. Y domine un principe cosmologique.

 

Turan: la civilisation des héros

 

Turan est la civilisation des héros, animée par une religiosité “froide”, axée sur le sens mystérieux de l'existence. La nature y est emplie de puissances impersonnelles. Pour la culture-amibe de Turan, la vie est un champ de bataille: “pour l'homme de ce Nord (Achille, Siegfried)”, écrit Spengler, “seule compte la vie avant la mort, la lutte contre le destin”. Le rapport hommes/divin n'est plus un rapport de dépendance: “la prostration cesse, la tête reste droite et haute; il y a “moi” (homme) et vous (les dieux)”. Les fils sont appelés à garder la mémoire de leurs pères mais ne laissent pas de nourriture à leurs cadavres. Pas d'embaumement ni de momification dans cette culture, mais incinération: les corps disparaissent, sont cachés dans des sépultures souterraines sans relief ou dispersés aux quatre vents. Seul demeure le sang du défunt, qui coule dans les veines de ses descendants. Turan est donc une culture sans architecture, où temples et sépultures n'ont pas d'importance et où seul compte un sens terrestre de l'existence. L'homme vit seul, confronté à lui-même, dans sa maison de bois ou de torchis ou dans sa tente de nomade.

 

Le char de combat

 

Spengler porte toute sa sympathie à cette culture-amibe de Turan, dont les porteurs aiment la vie aventureuse, sont animés par une volonté implaccable, sont violents et dépourvus de sentimentalité vaine. Ils sont des “hommes de faits”. Les divers peuples de Turan ne sont pas liés par des liens de sang, ni par une langue commune. Spengler n'a cure des recherches archéologiques et linguistiques visant à retrouver la patrie originelle des Indo-Européens ou à reconstituer la langue-source de tous les idiomes indo-européens actuels: le lien qui unit les peuples de Turan est technique, c'est l'utilisation du char de combat. Dans une conférence prononcée à Munich le 6 février 1934, et intitulée Der Streitwagen und seine Bedeutung für den Gang der Weltgeschichte (= Le char de combat et sa signification pour le cours de l'histoire mondiale), Spengler explique que cette arme constitue la clef pour comprendre l'histoire du second millénaire avant J.C.. C'est, dit-il, la première arme complexe: il faut un char (à deux roues et non un chariot à quatre roues moins mobile), un animal domestiqué et attelé, une préparation minutieuse du guerrier qui frappera désormais ses ennemis de haut en bas. Avec le char naît un type d'homme nouveau. Le char de combat est une invention révolutionnaire sur le plan militaire, mais aussi le principe formateur d'une humanité nouvelle. Les guerriers deviennent professionnels, tant les techiques qu'ils sont appelés à manier sont complexes, et se rassemblent au sein d'une caste qui aime le risque et l'aventure; ils font de la guerre le sens de leur vie.

 

L'arrivée de ces castes de “charistes” impétueux bouleversent l'ordre de cette très haute antiquité: en Grèce, ils bousculent les Achéiens, s'installent à Mycène; en Egypte, ce sont les Hyksos qui déferlent. Plus à l'Est, les Cassites se jettent sur Babylone. En Inde, les Aryens déboulent dans le sous-continent, “détruisent les cités” et s'installent sur les débris des civilisations dites de Mohenjo Daro et d'Harappa. En Chine, les Tchou arrivent au nord, montés sur leurs chars, comme leurs homologues grecs et hyksos. A partir de 1200, les principes guerriers règnent en Chine, en Inde et dans le monde antique de la Méditerranée. Les Hyksos et les Kassites détruisent les deux plus vieilles civilisations du Sud. Emergent alors trois nouvelles civilisations portées par les “charistes dominateurs”: la civilisation greco-romaine, la civilisation aryenne d'Inde et la civilisation chinoise issue des Tchou. Ces nouvelles civilisations, dont le principe est venu du Nord, de Turan, sont “plus viriles et énergiques que celles nées sur les rives du Nil et de l'Euphrate”. Mais les guerriers charistes succomberont aux séductions du Sud amollissant, déplore Spengler.

 

Un substrat héroïque commun

 

Cette théorie, Spengler l'a élaborée en accord avec le sinologue Gustav Haloun: il y a eu quasi simultanéité entre les invasions de Grèce, des Hyksos, de l'Inde et de la Chine. Spengler et Haloun estiment donc qu'il y a un substrat commun, guerrier et chariste, aux civilisations méditerranéenne, indienne et chinoise. Ce substrat est “héroïque”, comme le prouve les armes de Turan. Elles sont différentes de celles d'Atlantis: ce sont, outre le char, l'épée ou la hache, impliquant des duels entre combattants, alors qu'en Atlantis, les armes sont l'arc et la flèche, que Spengler juge “viles” car elles permettent d'éviter la confrontation physique directe avec l'adversaire, “de le regarder droit dans les yeux”. Dans la mythologie grecque, estime Spengler, arc et flèches sont autant d'indices d'un passé et d'influences pré-helléniques: Apollon-archer est originaire d'Asie Mineure, Artemis est libyque, tout comme Héraklès, etc. Le javelot est également “atlante”, tandis que la lance de choc est “touranique”. Pour comprendre ces époques éloignées, l'étude des armes est plus instructive que celle des ustensiles de cuisine ou des bijoux, conclut Spengler.

 

L'âme touranique dérive aussi d'un climat particulier et d'un paysage hostile: l'homme doit lutter sans cesse contre les éléments, devient ainsi plus dur, plus froid et plus hivernal. L'homme n'est pas seulement le produit d'une “chaîne généalogique”, il l'est tout autant d'un “paysage”. La rigueur climatique développe la “force de l'âme”. Les tropiques amolissent les caractères, les rapprochent d'une nature perçue comme plus maternante, favorisent les valeurs féminines.

 

Les écrits tardifs de Spengler et sa correspondance indiquent donc que ses positions ont changé après la parution du Déclin de l'Occident, où il survalorisait la civilisation faustienne, au détriment notamment de la civilisation antique. La focalisation de sa pensée sur le “char de combat” donne une dimension nouvelle à sa vision de l'histoire: l'homme grec et l'homme romain, l'homme indien-aryen et l'homme chinois, retrouvent tous grâce à ses yeux. La momification des pharaons était considérée dans Le déclin de l'Occident, comme l'expression égyptienne d'une volonté de durée, qu'il opposait à l'oubli impliqué par l'incinération indienne. Plus tard, la momification “atlante” déchoit à ses yeux au rang d'une obsession de l'au-delà, signalant une incapacité à affronter la vie terrestre. L'incinération “touranique”, en revanche, indique alors une volonté de concentrer ses efforts sur la vie réelle.

 

Un changement d'optique dicté par les circonstances?

 

La conception polycentrique, relativiste, non-eurocentrique et non-évolutionniste de l'histoire chez le Spengler du Déclin de l'Occident a fasciné des chercheurs et des anthropologues n'appartenant pas aux milieux de la droite allemande, notamment Alfred L. Kroeber ou Ruth F. Benedict. L'insistance sur le rôle historique majeur des castes de charistes de combat donne à l'œuvre tardive de Spengler une dimension plus guerrière, plus violente, plus mobile que ne recelait pas encore son Déclin. Doit-on attribuer ce changement de perspective à la situation de l'Allemagne vaincue, qui cherche à s'allier avec la jeune URSS (dans une perspective eurasienne-touranienne?), avec l'Inde en révolte contre la Grande-Bretagne (qu'il incluait auparavant dans la “civilisation faustienne”, à laquelle il donnera ensuite beaucoup moins d'importance), avec la Chine des “grands chefs de guerre”, parfois armés et encadrés par des officiers allemands? Spengler, par le biais de sa conférence, a-t-il cherché à donner une mythologie commune aux officiers ou aux révolutionnaires allemands, russes, chinois, mongols, indiens, afin de forger une prochaine fraternité d'arme, tout comme les “eurasistes” russes tentaient de donner à la nouvelle Russie soviétique une mythologie similaire, impliquant la réconciliation des Turco-Touraniens et des Slaves? La valorisation radicale du corps à corps “touranique” est-elle un écho au culte de l'“assaut” que l'on retrouvait dans le “nationalisme soldatique”, notamment celui des frères Jünger et de Schauwecker?

 

Enfin, pourquoi n'a-t-il rien écrit sur les Scythes, peuples de guerriers intrépides, maîtres des techniques équestres, qui fascinaient les Russes et sans doute, parmi eux, les théoriciens de l'eurasisme? Dernière question: le peu d'insistance sur les facteurs raciaux dans ce Spengler tardif est-il dû à un sentiment rancunier à l'égard des cousins anglais qui avaient trahi la solidarité germanique et à une mythologie nouvelle, où les peuples cavaliers du continent, toutes ethnies confondues (Mongols, Turco-Touraniens, descendants des Scythes, Cosaques et uhlans germaniques), devaient conjuguer leurs efforts contre les civilisations corrompues de l'Ouest et du Sud et contre les thalassocraties anglo-saxonnes? Les parallèles évident entre la mise en exergue du “char de combat” et certaines thèses de L'homme et la technique, ne sont-ils pas une concession à l'idéologie futuriste ambiante, dans la mesure où elle donne une explication technique et non plus religieuse à la culture-amibe touranienne? Autant de thèmes que l'histoire des idées devra clarifier en profondeur...

 

Robert STEUCKERS.

 

Domenico CONTE, Catene di civiltà. Studi su Spengler, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994, 394 p., Lire 58.000, ISBN 88-7104-242-924-1.

lundi, 15 septembre 2008

Klages e la mistica del primordiale

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La mistica del primordiale

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Tommaso Tuppini, <I>Ludwig Klages. L'immagine e la questione della distanza Credeva che l’Amore, forza cosmica ancestrale, fosse impersonale e assoluto. Che vagasse nell’etere, come un’energia che proveniva dai mondi della creazione. Klages non era un visionario. O almeno, non solo. Era un filosofo-poeta contro l’epoca moderna. Nella società della tecnica vedeva la negazione della vera identità dell’uomo, che secondo lui proveniva dalle leggi primitive dell’esistenza, da ciò che lui chiamava anima. Anima è l’origine, è il segreto della vita, è il sigillo che ogni uomo e ogni popolo si porta dietro come un simbolo. Anima è la fusione con la natura, è la voce silenziosa degli avi, che non sappiamo più percepire. Tipico dell’epoca moderna è il voler andare contro l’anima, il voler costruire ideali artificiali, rapporti sociali falsi, utopie ingannatrici. Contro la purezza originaria della vita e contro l’armonia primordiale degli uomini e delle cose è sorto un giorno quel vizio assurdo che è lo spirito, cioè la ragione, l’intelletto razionalista. Energia distruttrice delle radici cosmiche dell’uomo, lo spirito ha in ogni epoca edificato imposture: tra queste, la coscienza repressiva invece dell’anima libera, la volontà tirannica invece della libertà senza limiti di spazio, la storia invece del tempo senza tempo.

Si capisce subito che in Klages rintoccano alcune eco di Nietzsche: la celebrazione delle origini e delle radici, la nostalgia di un’epoca mitica - quella dei “Pelasgi” - in cui gli uomini erano potenze dell’universo prive di angosce e paure, padroni di se stessi e dei propri istinti sovrani.

Nostalgia per l’epoca in cui sorsero i miti delle antiche civiltà, quando l’intuito, l’inconscio e le percezioni sensitive non erano ancora stati repressi dalle armi di distruzione della perversa intelligenza: il concetto, il giudizio, il criticismo. Quella era la vera vita: liberazione degli istinti e delle sensazioni, senza complessi, senza colpe, senza nessuna idea del “peccato”. Questo dell’uomo razionalista è invece il trionfo dell’anti-vita artificiale, che crea i mostri della tecnica e del progresso materiale.

La vita come estasi. Se l’uomo fosse in grado di tornare alla magia dell’origine, potrebbe sbarazzarsi di tutti i fardelli angosciosi che impone la schiavitù della modernità, che ha robotizzato i cervelli e isterilito le anime. La libera psiche è Eros, amore cosmico, distacco romantico dai vuoti interessi terreni. Nel suo libro famoso Dell’Eros cosmogonico, risalente al 1922, Klages celebrò l’Amore totale, il magnete che attrae magicamente due poli anche lontani tra loro, al di là della semplice sessualità, come un moto unitario di natura e un legame di sangue: “Il compimento consiste nel destarsi dell’anima, ed il destarsi dell’anima è contemplazione, ma essa contempla la realtà delle immagini originarie; le immagini originarie sono anime del passato che appaiono; per apparire esse hanno bisogno del legame con il sangue di chi è ancora vivo ed ha ancora un corpo”. In questo “mistico sposalizio” tra anima e “demone generatore” si compie, alla maniera platonica, secondo Klages, la trasformazione del semplice uomo in uomo assoluto, cosmico.

Klages amava la cultura romantica, che pensava per simboli, e che assegnava ai sentimenti il primo posto nella scala dei valori. Ma amava anche Goethe, la sua ricerca dei fenomeni originari come manifestazione del divino. Goethe era poeta, romanziere, scienziato. Ma uno scienziato che credeva ai fenomeni intuitivi, alla magia che è in natura. Ad esempio, il suo romanzo sulle Affinità elettive - in cui rappresentò il caso di una gravidanza condizionata dalla forza psichica del pensiero d’amore, al di là delle normali leggi biologiche - piacque moltissimo a Klages, che giunse a considerare Goethe come un maestro di sapienza inconscia, un poeta delle possibilità magnetiche della psiche umana. Non dunque il solare, l’olimpico genio che siamo abituati a conoscere, ma una sorta di mago indagatore dei segreti dell’anima e dei poteri occulti racchiusi nelle energie di Madre Natura.

Ritroviamo questi temi nella recente traduzione italiana di un piccolo libro di Klages del 1932, Goethe come esploratore dell’anima (editore Mimesis), in cui Goethe diventa quasi un sacerdote neo-pagano. Egli, studiando ad esempio la metamorfosi delle piante, in realtà aveva penetrato il mondo delle segrete potenze primordiali: i mutamenti, le polarità, i magnetismi. Klages, con mentalità irrazionale e religiosa, vede dunque nel genio di Goethe non semplicemente un grande poeta o un grande romanziere, ma un uomo capace di avvicinarsi al cuore divino della vita. Scienziato mistico e non razionalista, Goethe diventa agli occhi di Klages il massimo profeta di un ritorno alla natura e alle sue leggi di attrazione tra simili e di differenziazione universale. Klages amò la natura, fu un “ecologista” ante-litteram, ma non così profano e banale come i “verdi” del nostro tempo materialista. Nel suo capolavoro del 1929, Lo spirito come avversario dell’anima - un tomo di oltre mille pagine che fece epoca - Klages scrisse che “chi distrugge il volto della terra, uccide il cuore della terra e priva della loro ’sede’ le potenze che ora si sono dileguate nell’etere”.

Gli dèi sono fuggiti dal mondo perché l’uomo ha profanato la terra e desacralizzato la natura. Ma attenzione: tutto questo non era soltanto letteratura. Era molto di più. Nella rivalutazione dell’irrazionale e dell’inconscio c’era una guerra dichiarata al mondo razionalista, indifferenziato, democratico, ateo, materialista. Giampiero Moretti ha scritto che nell’idea di Klages di coniugare Goethe con Nietzsche c’era inciso il destino dell’Europa, “forse fin dai suoi primi albori, ad esempio, fin dal momento in cui le figure del guerriero e del sacerdote-poeta presero due strade diverse, spesso in lotta tra loro”.

Ora tutto è più chiaro. Molto oltre la mediocrità della new-age attuale, e con tanta profondità culturale in più, Klages fece parte di quella ribellione tradizionalista al mondo moderno che fu pensata in Europa come un’arma di difesa della terra, del sangue, dell’istinto, dell’origine mitica, del simbolo ancestrale, dell’identità mistica di popoli e gruppi umani. Una cultura politicamente vinta e dispersa. Ma non abbastanza da non lasciarci immaginare che possa presto o tardi riemergere, proprio come una di quelle occulte leggi della vita studiate da Goethe.

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LUDWIG KLAGES: L’IRRAZIONALISMO INNANZI TUTTO

Nato a Hannover nel 1872, filosofo, psicologo e grafologo, Klages visse e insegnò a Monaco, dove conobbe Stefan George - il maggior poeta tedesco dell’epoca - entrando nel George-Kreis, il famoso sodalizio di cui facevano parte molti intellettuali di valore (tra gli altri, Bertram, Wolfskehl, Kantorowicz, Gundolf). Collaborò alla prestigiosa rivista di George “Blätter für die Kunst“, alla cui ideologia romantico-estetizzante si formarono intere generazioni di giovani tedeschi. Nel 1899 formò un suo gruppo culturale, i Kosmiker, vicino alle idee dell’antichista Johann Jakob Bachofen e di Alfred Schuler, il visionario studioso di Nietzsche e di Roma antica. Distaccatosi nel 1904 da George, Klages fondò il “Seminario di Psicodiagnostica”, che gli dette la notorietà. Il senso ideologico di questo ambiente consisteva nel recupero dei valori “dionisiaci” e tellurici, con una rivalutazione dell’irrazionalismo e degli aspetti esoterici della vita e della persona umana. Autore prolifico e originale, durante il Terzo Reich fu nominato Senatore dell’Accademia Tedesca di Monaco ma, a partire dal 1938, rimase appartato per l’inimicizia che gli portarono Alfred Rosenberg e i seguaci dell’ideologia volontarista e virilmente eroica, egemone all’interno della cultura nazionalsocialista. Epurato nel 1945, morì nei pressi di Zurigo nel 1956. Tra le sue opere tradotte in italiano: L’anima e lo spirito (Bompiani, Milano 1940); Dell’Eros cosmogonico (Multhipla, Milano 1979); Perizie grafologiche su casi illustri (Adelphi, Milano 1994); Stefan George, in S.George-L.Klages, L’anima e la forma (Fazi, Lucca 1995); L’uomo e la terra (Mimesis, Milano 1998). Di prossima pubblicazione è la riedizione de I Pelasgi presso le Edizioni Herrenhaus di Seregno. Si tratta di un capitolo dell’opera principale di Klages, Der Geist als Wiedersacher der Seele (Lo spirito come avversario dell’anima), mai tradotta in italiano.

Tratto da Linea del 21.III.2004.


Luca Leonello Rimbotti

dimanche, 14 septembre 2008

Il volto ambiguo della Rivoluzione Conservatrice tedesca

Il volto ambiguo della Rivoluzione Conservatrice tedesca

Autore: Luca Leonello Rimbotti

La Rivoluzione Conservatrice - fenomeno essenzialmente tedesco, ma non solo - era un bacino di idee, un laboratorio, in cui vennero ad infusione tutti quegli ideali che da una parte rifiutavano il progressismo illuministico dell’Occidente, mentre dall’altra propugnavano il dinamismo di una rivoluzione in grande stile: ma nel senso di un re-volvere, di un ritornare alla tradizione nazionale, all’ordine dei valori naturali, all’eroismo, alla comunità di popolo, all’idea che la vita è tragica ma anche magnifica lotta.

Detlev J.K. Peukert, La Repubblica di Weimar Tra il 1918 e il 1932, questi ideali ebbero decine di sostenitori di alto spessore intellettuale, lungo un ventaglio di variazioni ideologiche molto ampio: dalla piccola minoranza di quanti vedevano nel bolscevismo l’alba di una nuova concezione comunitaria, alla grande maggioranza di coloro che invece si battevano per l’estrema affermazione del destino europeo nell’era della tecnica di massa, mantenendo intatte, anzi rilanciandole in modo rivoluzionario, le qualità tradizionali legate alle origini del popolo: identità, storia, stirpe, terra-patria, cultura. Tra questi ultimi, di gran lunga i più importanti, figuravano personaggi del calibro di Jünger, Schmitt, Moeller van den Bruck, Heidegger, Spengler, Thomas Mann, Sombart, Benn, Scheler, Klages, e molti altri. In quella caotica Sodoma che era la Repubblica di Weimar - dove la crisi del Reich fu letta come la crisi dell’intero Occidente liberale - tutti questi ingegni avevano un denominatore comune: impegnare la lotta per opporsi al disfacimento della civiltà europea, restaurando l’ordine tradizionale su basi moderne, attraverso la rivoluzione. Malauguratamente, nessuno di loro fu mai un politico. E pochi ebbero anche solo cultura politica. Quest’assenza di sensiblerie fu il motivo per cui, al momento giusto, spesso la storia non venne riconosciuta. E, tra i più famosi, solo alcuni capirono che il destino non sempre può avere il volto da noi immaginato nel silenzio dei nostri studi, ma che alle volte appare all’improvviso, parlando il linguaggio semplice e brutale degli eventi.

I proscritti Scrivevano di una Germania da restaurare nella sua potenza, favoleggiavano di un tipo d’uomo eroico e coraggioso, metallico, che avrebbe dominato il nichilismo dell’epoca moderna; descrivevano la civilizzazione occidentale come il più grande dei mali, il progresso come un dèmone, il capitalismo come una lebbra di usurai, l’egualitarismo e il comunismo come incubi primitivi … e riandavano alle radici del germanesimo, alle fonti dell’identità. Armato di Nietzsche e di antichi miti dionisiaci, c’era persino chi riaccendeva i fuochi di quelle notti primordiali in cui era nato l’uomo europeo… Eppure, quando tutto questo prese vita sotto le loro finestre, quando i miti e le invocazioni assunsero la forma di uomini, di un partito, di una volontà politica, di una voce, quando “l’uomo d’acciaio” descritto nei libri bussava alla loro porta nelle forme stilizzate della politica, molti sguardi si distolsero, molte orecchie cominciarono a non sentirci più… La vecchia sindrome del sognatore, che non vuol essere disturbato neppure dal proprio sogno che si anima… La Rivoluzione Conservatrice tedesca espresse spesso la tragica cecità di molti suoi epigoni dinanzi al prender forma di non poche delle loro costruzioni teoriche.

Giuseppe A. Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck Non vollero riconoscere il suono di una campana, i cui rintocchi uscivano in gran parte dai loro stessi libri. Allora, improvvisamente, tutto diventò troppo “demagogico”, troppo “plebeo”. L’intellettuale volle lasciare la militanza, la lotta vera, a quanti accettarono di sporcarsi le mani con i fatti. Alcune derive del Nazionalsocialismo si possono anche storicamente ascrivere alla renitenza di intellettuali e ideologhi, che non parteciparono alla “lotta per i valori” e che, dopo aver lungamente predicato, nel momento dell’azione si appartarono in un piccolo mondo fatto di romanzi e divagazioni. Mentalità da club: “esilio interno” o piuttosto diserzione davanti ai propri stessi ideali? Eppure, un certo spazio critico dovette esistere, poi, anche tra le maglie del regime totalitario, se gli storici riportano di serrate lotte ideologiche intestine durante il Terzo Reich, di polemiche, di divergenze di vedute: Rosenberg non la pensava certo come Klages; Heidegger e Krieck erano avversari politici attestati su sponde lontane… Prendiamo Jünger. Ancora nel 1932, aveva parlato del Dominio, della Gerarchia delle Forme, della Sapienza degli Avi, del Guerriero, del Realismo Eroico, della Forza Primigenia, del Soldato Politico, della “Massa che vede riaffermata la propria esistenza dal Singolo dotato di Grandezza”… Ricordiamo di passata che Jünger negli anni venti collaborò, oltre che con le più note testate del nazionalismo radicale, anche col Völkischer Beobachter, il quotidiano nazionalsocialista e che nel 1923 inviò a Hitler una copia del suo libro Tempeste d’acciaio, con tanto di dedica… Alla luce dei fatti, è forse giunto il momento di considerare quelle proclamazioni solo come buoni esercizi letterari? Nell’infuriare della lotta vera per il Dominio che si ingaggiò di lì a poco, durante gli anni decisivi della Seconda guerra mondiale, noi troviamo Jünger non già nella trincea dove era stato da giovane, ma ai tavoli dei caffè parigini. Qui lo vediamo intento ad irridere Hitler nel segreto del proprio diario, sulle cui paginette si dilettava a chiamarlo col nomignolo di Knièbolo: un po’ poco. Tutto questo fu “fronda” esoterica o immiserimento del talento ideologico? Storico esempio di altèra dissidenza aristocratica o patetico esaurimento di un antico coraggio di militanza?

Oswald Spengler, Il tramonto dell'Occidente E uno Spengler? Anch’egli, dopo aver vaticinato il riarmo del germanesimo e della civiltà bianca, non appena questi postulati ebbero il contorno di un partito politico, che pareva proprio prenderli sul serio, oppose uno sdegnoso distacco. E Gottfried Benn? Dopo aver cantato i destini dell’”uomo superiore che tragicamente combatte”, dopo aver celebrato la “buona razza” dell’uomo tedesco che ha “il sentimento della terra nativa”, come vide che tutto questo diventava uno Stato, una legge, una politica, lasciò cadere la penna…

Ma la Rivoluzione Conservatrice, per la verità, non fu solo questo. Fu anche il socialismo di Moeller, l’antieconomicismo di Sombart, l’idea nazionale e popolare di Heidegger, il filosofo-contadino vicino alle SA. In effetti, la gran parte degli affiliati ai diversi schieramenti rivoluzionario-conservatori confluì nella NSDAP, contribuendo non poco a solidificarne il pensiero politico e, in alcuni casi, diventandone uomini di punta: da Baeumler a Krieck. Secondo Ernst Nolte - il maggiore storico tedesco - la Rivoluzione Conservatrice ebbe l’occasione di essere più una rivoluzione che non una conservazione, soltanto perché si incrociò con la via politica nazionalsocialista: un partito di massa, una moderna propaganda, un capo carismatico in grado di puntare al potere. Tutte cose che ai teorici mancavano. “Non fu il nazionalsocialismo - si è chiesto Nolte -, in quanto negazione della Rivoluzione francese e di quella bolscevico-comunista, una contro-Rivoluzione tanto rivoluzionaria, quanto la Rivoluzione conservatrice non potrà mai essere?”.

Dopo tutto, come ha affermato il più esperto studioso di questi argomenti, Armin Mohler, “il nazionalsocialismo resta pur sempre un tentativo di realizzazione politica delle premesse culturali presenti nella Rivoluzione conservatrice”. Il tentativo postumo di sganciare la RC dalla NSDAP è obiettivamente antistorico: provate a sommare i temi ideologici dei vari movimenti nazional-popolari dell’epoca weimariana, ed avrete l’ideologia nazionalsocialista.

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Tratto da Linea del 25 luglio 2004.


Luca Leonello Rimbotti

samedi, 13 septembre 2008

Comprendere il radicalismo nazionalista di Ernst Jünger

Comprendere il radicalismo nazionalista di Ernst Jünger

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra. 1919-1933. Vol. 3: 1929-1933 La pubblicazione del terzo e ultimo volume degli Scritti politici e di guerra di Ernst Jünger, relativi agli anni 1929-1933, da parte della Libreria Editrice Goriziana, ci permette di mettere a posto, una volta per tutte, la controversa questione del nazionalismo dello scrittore tedesco e dei suoi rapporti con il Nazionalsocialismo. Se, già nel 1923, Jünger aveva scritto parole di apprezzamento per Hitler, cui aveva anche inviato una copia con dedica autografa del suo celebre volume Im Stahlgewittern, e se in quel medesimo periodo aveva anche collaborato al quotidiano della NSDAP Völkischer Beobachter, diretto da Alfred Rosenberg, negli anni a seguire i suoi rapporti con il Partito nazionalsocialista diventeranno più complessi. Ma mai di rottura. Anzi, di cameratesca solidarietà. A volte di critica su questo o quel punto, ma condotta sempre all’interno della galassia nazionalista e con i toni amichevoli del consapevole alleato di lotta.

Uno dei motivi contingenti dell’incomprensione tra alcuni ambienti nazionalisti e NSDAP fu alla fine degli anni venti la situazione dei contadini. Specialmente nella regione settentrionale dello Schleswig-Holstein, a seguito delle misure punitive dei trattati di pace, fortemente penalizzanti l’economia tedesca nel suo complesso, ed anche a seguito della crisi economica, si era avuto il progressivo collasso del ceto rurale, sempre più gravemente scivolato nel gorgo del debito, nella crisi produttiva e nella perdita crescente della piccola proprietà. Da questa situazione era andata prendendo forza una forma di protesta, gestita dalla potente Landvolkbewegung, il movimento contadino a forti tinte nazionaliste ed antisemite che, dal 1928, si rese protagonista anche di alcuni attentati dinamitardi contro la sede del Reichstag. Era una protesta nei confronti dello Stato e del governo, incapaci di garantire agli agricoltori quei sussidi e quelle protezioni dalla concorrenza estera, senza i quali l’economia agricola andava incontro alla rovina. Il movimento contadino trovò immediata sponda negli ambienti nazionalisti. Jünger stesso ne giustificò il terrorismo, prendendo le distanze da Hitler che, invece, pur alleato della protesta, condannò apertamente il ricorso alla violenza. Cosa che non impedì, di lì a poco, che l’intero movimento contadino confluisse nel Partito nazionalsocialista, costituendone anzi uno dei punti di forza sia politici che ideologici: basta pensare al ruolo svolto da Walther Darré.

Condannando la stampa borghese, compattamente ostile ai contadini del Nord, Jünger scrisse frasi pesanti: “È in atto un terrore mediatico di gran lunga più considerevole del terrore generato da qualsiasi bomba”. E condannò ugualmente il moderatismo di Hitler che, come tutti sanno, dopo il Putsch del 1923 era molto attento a marciare lungo i binari della legalità, operando, per tutto il periodo del Kampfzeit, cioè della lotta per il potere, come l’inflessibile elemento moderato che doveva sedare le spinte radicali della sua ala sinistra.

Jünger rimproverava Hitler anche di non essere abbastanza deciso a prendere le distanze da Hugenberg – il capo del Partito Nazionaltedesco – e da tutti gli ambienti reazionari e borghesi. Il fatto sorprendente, che esce a chiare lettere dai suoi scritti di questo periodo, è dunque che Jünger criticava la NSDAP non da “destra”, come si era abituati a pensare e come farà in seguito, bensì da “sinistra”. Ma, in ogni caso, si trattava pur sempre di critiche che non mettevano mai in discussione la consapevolezza che nazionalisti e nazionalsocialisti appartenevano al medesimo schieramento, con i medesimi ideali e i medesimi obiettivi. Si trattava, però, di arrivare al potere non con intermediazioni moderate o conservatrici, ma radicali. Parola di Jünger: “Le risoluzioni prese nell’ambito del partito nazionalsocialista – scrisse su “Wiederstand” dell’ottobre 1929 - non hanno affatto un’importanza esclusiva per questo partito. Dal momento, infatti, che esso attualmente rappresenta l’arma più forte e temibile della volontà nazionale, ogni sua azione o rinuncia andrà necessariamente a colpire tutte le forze che vogliono contribuire all’affermazione di questa volontà in Germania […] ma come ci si può assumere la responsabilità di suscitare la parvenza di un fronte comune con forze la cui vicinanza è intollerabile per un partito intitolato ai lavoratori tedeschi?”.

Domande che, certo, saranno suonate musica alle orecchie delle SA o di un Goebbels, e che non rappresentavano affatto le posizioni del nazionalismo conservatore, ma di quel nazionalismo radicale cui Jünger si era avvicinato tramite Ernst Niekisch, cui lo scrittore era stato presentato dal filosofo Alfred Baeumler. Ma Jünger venne presto accontentato: se si pensa alla rottura, voluta da Hitler, del “fronte di Harzburg” del 1931 – cioè l’alleanza tattica del Nazionalsocialismo con il nazionalismo conservatore, del tipo dello Stahlhelm –, oppure alla liquidazione di tutti gli ambienti conservatori dopo la presa del potere, o alla “purga” del 1934 (che non colpì solo la “sinistra” di Roehm, ma anche la “destra” di Schleicher), se pensiamo poi a come Hitler stesso pose brutalmente fine nel 1944 al conservatorismo junker – e all’esistenza storica della loro casta -, dovremmo riportarne la sensazione che Jünger avesse di che compiacersi dell’operato di Hitler. La storia vuole, invece, che proprio nella lotta di vertice dei conservatori contro il Nazionalsocialismo, Jünger si trovasse – beninteso, in accorta retroguardia - non dalla parte della “sinistra”, bensì della “destra”. Enigmi dell’aristocraticismo…

Jünger era apertamente a-partitico: “rinunciamo a qualsiasi appartenenza partitica…”, aveva scritto, e concepiva romanticamente il nazionalismo come un insieme di centri di lotta, sperando di “veder crescere tutti questi legami in maniera possente, serrata e unitaria, così da raggiungere le dimensioni necessarie al grande confronto…”. La storia ha dimostrato che, in Germania, il nazionalismo di partito non aveva la capacità di crescere fino al punto di diventare egemone. Nei primi anni trenta era chiaro che né Hugenberg né Seldte né tantomeno Niekisch sarebbero andati lontano. Figurarsi semplici ambienti sparsi. Vi andò invece Hitler, ma per vie politiche e non romantiche, e unificando per l’appunto tutti quei movimenti – da quello dei giovani, la Jugendbewegung, a quello contadino sopra ricordato – che, pur essendo nazionalisti, non erano reazionari, ma anzi rivoluzionari.

Ernst Jünger, L'operaio. Dominio e forma Questo, Jünger non lo comprese mai. Non comprese l’identità di un movimento che trovò troppo conservatore nel ’29 e troppo rivoluzionario dal ’33 in poi… mentre la storiografia ha largamente dimostrato – da Nolte a Kershaw – che fu entrambe le cose contemporaneamente, dal 1923 al 1945. Gli amichevoli rimproveri di Jünger agli “amici del partito nazionalsocialista” miravano a scuoterne ciò che allo scrittore pareva eccessiva moderazione, ma che invece, semplicemente, era accortezza politica. Riferendosi ai movimenti nazionalisti intransigenti, Jünger formulò un’esortazione: “speriamo anche che il nazionalsocialismo, anziché combattere quelle forze, ne accetti e riconosca la parentela di fondo”. La parentela di fondo: questa esplicita definizione la dedichiamo a quanti, anche recentemente, non solo hanno negato ogni effusione jüngeriana nei confronti del Nazionalsocialismo, ma persino una sua ideologia nazionalista… E infine leggiamo l’auspicio rivoluzionario: “Al nazionalsocialismo – scrisse nel 1929 Jünger, in pagine che certo provocheranno terribile sconcerto nei suoi attuali ammiratori letterari – auguriamo di cuore la vittoria: conosciamo le sue forze migliori, dal cui entusiasmo trae sostegno e della cui volontà di sacrificio può al di là di ogni dubbio menare vanto. Sappiamo anche, però, che esso potrà combattere per vincere se le sue armi saranno forgiate nel più puro dei metalli, e se rinuncerà al supporto dei fragili resti di un’epoca passata”. Possiamo ribadire che, in questo, Jünger venne accontentato di brutto. I “fragili resti” non solo vennero ignorati, ma proprio distrutti. Il “realismo eroico” propugnato da Jünger altro non era che un radicalismo nazionalista privo di connotati politici. Il suo programma era semplicemente la Germania: “Vogliamo una Germania esattamente com’è”, scrisse nel marzo 1930. Egli conosceva solo un fine, “l’eterna realtà di un Reich che, in questo Paese, non mancò mai di entusiasmare la gioventù”. E un solo progetto: “Qui non c’è niente da augurarsi, allora, vi è piuttosto il rigoroso riconoscimento di un dovere, che trova ora espressione: allora come oggi, essere tedeschi significa essere in lotta”. La differenza tra il nazionalismo di Jünger e il Nazionalsocialismo è insomma la stessa differenza che corre tra il pensiero di un’associazione combattentistica e l’ideologia di un partito rivoluzionario, inteso a ribaltare i rapporti di forza tra le classi e tra le nazioni. Ma il milieu culturale, le aspettative ideali, i fini nazionali, appaiono fratelli: tali, comunque, da non giustificare i continui tentativi di sottrarre Jünger al suo mondo, volendolo ridurre ad agnostico e compassato letterato fine a se stesso.

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Tratto da Linea del 29 maggio 2005.


Luca Leonello Rimbotti

mercredi, 10 septembre 2008

Sur Rudolf Pannwitz

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Robert STEUCKERS:

 

Rudolf Pannwitz: «mort de la terre»,

Imperium Europæum et conservation créatrice

 

L'idéalisme du philosophe et poète allemand Rudolf Pannwitz constitue pour l'essentiel une rupture avec les idéaux positivistes de la «Belle Epoque»: il rejette l'Etat, le mercantilisme, la révolution, l'argent, le capitalisme et le lucre. Pourquoi? Parce que le concours de toutes ces forces négatives conduit à la “mort de la Terre”. Devant ce pandemonium, l'homme du XXième siècle, écrit Pannwitz, doit poser l'“acte salvateur”, qui consiste à ne plus penser à son seul profit, à prendre conscience du danger que court son âme, à  se rendre compte que l'histoire, en tant que jeu funeste, est toute relative, à vouer un culte mystique au Tout, au Cosmos.

 

Comment ce faisceau d'idéaux essentiellement poétiques a-t-il pu générer une idée d'Europe, surtout s'il rejette explicitement l'histoire? Et sur quels principes repose donc cette idée an-historique d'Europe? Elle repose sur une mystique et une pratique “telluriques”, où la Terre est le réceptacle du sacré, voire le Tabernacle du sacré. Ensuite, sur une critique de l'argent qui, par sa nature intrinsèquement vagabonde, arrache hommes et choses à la Terre, à leur lieu, m'arrache en tant que personne à mon lieu, au lieu où des forces qui me dépassent m'ont placé pour y jouer un rôle, y accomplir une mission.

 

Cette critique de l'argent vagabond s'accompagne d'un plaidoyer pour l'autarcie à tous les niveaux: domestique, communal, régional, impérial. Cette mystique tellurique et ce rejet radical du pan-vagabondage que généralise l'argent conduit à une vision pacifique de la politique et de l'Europe, qui est tout à la fois anti-nationaliste et napoléonienne, parce que l'aventure militaire napoléonienne a, par une sorte de ruse de l'histoire, éliminé de vieux antagonismes inter-européens, donc créer les conditions d'un imperium pacifique en Europe. Aux nationalismes qu'il juge bellogènes, Pannwitz oppose une vision continentale européenne pacifique et mystico-tellurique, opposée aux pratiques anglaises du libre-échangisme et du “divide ut impera” et au nationalisme allemand, auquel il reproche d'être né au moment où la Prusse se met au service de l'Angleterre pour combattre le projet continental napoléonien. Pannwitz, pourtant très allemand dans son tellurisme, reproche à la pensée allemande en général, de facture kantienne ou hégélienne, d'absoluiser les concepts, tout comme la Prusse a hissé au rang d'absolus les démarches de ses fonctionnaires et de ses administrateurs.

 

Selon Pannwitz, la renaissance culturelle de l'Europe passe nécessairement par une revalorisation des plus beaux legs du passé: l'Imperium Europæum sera cette Europe tournée vers la Beauté; il adviendra, pense Pannwitz, après la Grande Guerre civile européenne de 1914-18, où s'est perpétré le plus grand forfait de l'histoire des hommes: «le viol du corps sacré de la Terre».

 

L'Imperium Europæum ne pourra pas être un empire monolithique où habiterait l'union monstrueuse du vagabondage de l'argent (héritage anglais) et de la rigidité conceptuelle (héritage prussien). Cet Imperium Europæum sera pluri-perspectiviste: c'est là une voie que Pannwitz sait difficile, mais que l'Europe pourra suivre parce qu'elle est chargée d'histoire, parce qu'elle a accumulé un patrimoine culturel inégalé et incomparable. Cet Imperium Europæum sera écologique car il sera «le lieu d'accomplissement parfait du culte de la Terre, le champ où s'épanouit le pouvoir créateur de l'Homme et où se totalisent les plus hautes réalisations, dans la mesure et l'équilibre, au service de l'Homme. Cette Europe-là n'est pas essentiellement une puissance temporelle; elle est, la “balance de l'Olympe”».

 

La notion-clef de l'œuvre de Pannwitz est celle de “Terre” (Die Erde). Si la “Terre” est signe d'anti-transcendance chez Nietzsche, d'idylle dans la nature virginale, elle est aussi —et sur ce point Pannwitz insiste très fort—  géopolitique substantielle. Quand on décrypte la vision critique de Pannwitz sur l'histoire européenne de son temps, on constate qu'il admet: 1) que l'Allemagne se soit dotée d'une flotte, sous la double action de l'Amiral Tirpitz et de l'Empereur Guillaume II, car cette flotte était destinée à protéger l'Europe du “mobilisme” économique et monétaire anglais (et américain) et n'était pas a priori un instrument de domination; 2) l'Europe est une “Terre de culture” qui en aucun cas ne peut être dominée par la Mer (ou par une puissance qui tire sa force d'une domination de l'espace maritime) ou par ses anciennes colonies qui procéderaient ainsi à une Gegenkolonisation. On comprend tout de suite que les Etats-Unis sont directement visés quand Pannwitz dénonce cette “contre-colonisation”; 3) les thalassocraties sont un danger sinon le  danger car a) elles développent des pratiques politiques et économiques qui vident le sol de ses substances; b) elles imposent une fluidité qui dissoud les valeurs; c) elles sont des puissances du “non-être”, qui justement dissolvent l'Etre dans des relations et des relativités (remarques qui ont profondément influencé le Carl Schmitt de l'après-guerre qui écrivait dans son journal  —édité sous le titre de Glossarium—  que tout nos livres deviennent désormais des Logbücher, car le monde n'est plus terre mais océan, sans point d'ancrage possible, où tout quiconque arrête de se mouvoir coule); d) sous la domination des thalassocraties, tout devient “fonction” et même “fonctions de fonctionnement”; dans un tel contexte, les hommes sont constamment invités à fuir hors des concrétudes tangibles de la Terre.

 

Chez Pannwitz, comme chez le Schmitt d'après-guerre, la Terre est substance, gravité, intensité et cristallisation. L'Eau (et la mer) sont mobilités dissolvantes. “Continent”, dans cette géopolitique substantielle, signifie “substance” et l'Europe espérée par Pannwitz est la forme politique du culte de la Terre, elle est la dépositaire des cultures, issues de la glèbe, comme par définition et par force des choses toute culture est issue d'une glèbe.

 

L'état de l'Europe, à la suite de deux guerres mondiales ayant sanctionné la victoire de la Mer et de la mobilité incessante, postule une thérapie. Qui, bien entendu, est simultanément une démarche politique. Cette thérapie suggérée par Pannwitz demande: 1) de rétablir à tous niveaux le primat de la culture sur l'économie; 2) de promouvoir l'édification intérieure des hommes concrets (par une démarche qui s'appelle l'Einkehr, le retour à soi, à sa propre intériorité); 3) de lancer un appel à la “Guerre Sainte des Vivants” pour empêcher l'avènement de “Postumus”, figure emblématique de celui qui fuit l'histoire (réhabilitée par Pannwitz après 1945), qui capitule devant l'Autre (l'Américain), qui se résigne; 4) de donner enfin une forme à l'Homme qui, sans forme, se perd dans l'expansion conquérante et dans l'hyper-cinétisme de cette mobilité introduite puis imposée par les thalassocraties; sans forme, rappelle Pannwitz, l'homme se perd aussi dans les dédales d'une vie intérieure devenue incohérente (en ce sens notre poète-philosophe annonçait l'avènement d'un certain “New Age”).

 

Humanité et nationalisme

 

Pannwitz ne place aucun espoir dans l'«Humanité», c'est-à-dire dans une humanité qui serait homogénéisée à la suite d'un long processus d'unification mêlant coercition et eudémonisme. Il ne place pas davantage d'espoir dans un nationalisme qui signifierait repli sur soi, enfermement et répétition du même pour les mêmes. Le seul “nationalisme” qui trouve quelque grâce à ses yeux est celui de De Gaulle. Pour guérir l'Europe (et le monde) de ses maux, il faut créer des espaces de civilisation impériaux; la version européenne de cet espace de civilisation est l'«Imperium Europæum». Pour y parvenir, les élites vivant sur cet espace doivent pratiquer l'Einkehr, c'est-à-dire procéder à une «conservation créatrice»; de quoi s'agit-il? D'un plongeon dans le soi le plus profond, d'un retour aux racines. Les nations, les ethnies doivent aller au tréfond d'elles-mêmes. Car elles vont y découvrir des formes particulières, incomparables, intransmissibles, du sacré. Elles cultiveront ce sacré, offriront les créations de cette culture du sacré à leurs voisins, recevront celles que ceux-ci auront ciselées; les uns et les autres accepteront ces facettes diverses d'un même sacré fondamental, opèreront des “greffes goethéennes” pour obtenir en bout de parcours une Oberkultur der Kulturen.

 

Pannwitz était hostile au national-socialisme, héritier de ces formes de nationalisme allemand qu'il n'aimait pas. Mais il est resté discret sous le IIIième Reich. Il reprochait surtout au national-socialisme de ne pas être clair, d'être un fourre-tout idéologico-politique destiné surtout à acquérir des voix et à se maintenir au pouvoir. En 1933, Pannwitz quitte l'Académie Prussienne comme Ernst Jünger. Il choisit l'exil dans une splendide île dalmate, où il restera pendant toute la seconde guerre mondiale, sans subir aucune pression, ni des autorités occupantes italiennes, ni du nouveau pouvoir croate ni de l'administration militaire allemande; en 1948, il s'installe en Suisse. Pendant cet exil adriatique, il n'a pas formulé de critique charpentée du national-socialisme car, écrivait-il à l'un de ses nombreux correspondants, ce serait “perdre son temps”. En fait, en dépit de l'extrême cohérence de sa dialectique terre-mer, Pannwitz a été totalement incohérent quand il a jugé la politique européenne depuis son île dalmate. Il accumulait les contradictions quand il parlait de l'Angleterre puis des Etats-Unis dont il espérait la victoire contre les armes allemandes: par exemple, en pleine crise tchécoslovaque, il écrit que les Tchèques doivent s'appuyer sur les Anglais, mais à partir de septembre 1939, il répète que les Français sont “fous” de faire la politique des Anglais. Pourquoi les Tchèques auraient-ils été raisonnables de faire ce que les Français auraient eu la “folie” de faire quelques mois plus tard?

 

Il n'empêche: la dialectique terre-mer, que l'on retrouve solidement étayée dans l'œuvre de Carl Schmitt, demeure une matière de réflexion importante pour tous les européistes. De même, la nécessité de recourir aux tréfonds de soi-même, de pratiquer l'Einkehr.

 

Robert STEUCKERS.

(extrait d'une conférence prononcée lors de la 3ième université d'été de la FACE, juillet 1995).

 

Bibliographie:

- Rudolf PANNWITZ, Die Krisis der europäischen Kultur, Verlag Hans Carl, Nürnberg, 1947.

- Alfred GUTH, Rudolf Pannwitz. Un Européen, penseur et poète allemand en quête de totalité (1881-1969), Klincksieck, Paris, 1973.