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mercredi, 04 janvier 2012

L’eroe Baltasar Gracian

L’eroe Baltasar Gracian

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Baltasar-Gracian.jpgIl vecchio storico inglese Thomas Carlyle insegnò con inclinazione romantica che l’eroismo ha molte facce, che quasi ogni aspetto della vita può essere interpretato come un momento in cui si può dispiegare una speciale attitudine verso l’ascesi di perfezione. Eroe è il Dio pagano che assomma su di sé tutte le qualità della stirpe, ma eroico può essere allo stesso modo lo spirito sacerdotale, ed eroi possono essere il profeta, il poeta, lo scrittore, il sovrano.

Il singolarissimo teologo spagnolo Baltasar Gracián, vissuto nel Seicento, a tutto questo aveva aggiunto l’eroismo come qualità dell’individuo differenziato che, grazie ad una poderosa fiducia in se stesso, duramente conquistata, perviene al successo nel mondo e al trionfo della sua volontà su quelle altrui. Si eccelle tra gli uomini attraverso l’uso accorto e disciplinato di doti sottili costantemente affinate. Qualcosa di più e di meglio di un moralista alla Montaigne. Un divulgatore di sapienza e di strategie di vita vissuta, tutte tese alla gloria trionfale nel mondo e all’affermazione sui tipi “inferiori” e indifferenziati. Gracián, ammirato e citato da Schopenhauer e da Nietzsche, che lo considerarono quasi un loro maestro e antesignano, scrisse diversi libri di gran successo, diremmo dei veri e propri “manuali del Superuomo”.

Era un gesuita, e dal gesuitismo imparò tutte quelle nozioni di affilata capacità di introspezione e di acuta conoscenza dei tempi e dei modi, che fecero di quell’ordine il tempio della dissimulazione e infine anche della sua degenerazione curiale, l’ipocrisia farisaica. In Gracián, tuttavia, si nota l’assoluta assenza di riferimenti ai dogmi cristiani: per questo, tenuto in sospetto dalla Compagnia di Gesù, fu prima ammonito, poi allontanato nel 1657 dalla cattedra e infine messo in condizione di non nuocere relegandolo presso un convento sperduto, con la tassativa proibizione di scrivere. Lo si accusava di aver intrapreso una precettistica del tutto profana sul saper vivere e, soprattutto, sul saper predominare sulle cose e sul mondo degli uomini, insomma di essere un laicissimo teorico di ciò che oggi chiameremmo una volontà di potenza in piena regola.

La recente pubblicazione de L’eroe (Bompiani), uno dei testi più celebri del trattatista aragonese, è l’occasione per verificare come il pensiero europeo si sia sempre misurato con queste categorie dell’essere e del mostrarsi, del fare e dell’avere ragione della realtà, in maniera che, dai sofisti e dagli stoici fino a Machiavelli, ai moralisti francesi o a Nietzsche e all’esistenzialismo, problema non da poco è sempre stato quello di avere a che fare col dispiegarsi dell’essere tra le penombre dell’apparire e del sembrare. Gracián insegnava la dissimulazione in quanto categoria dell’essere superiore e dell’innalzarsi al di là di se stessi, in un procedimento di continuo esercizio alla protezione dei propri fini. «Impedisca a tutti l’uomo colto di sondare il fondo della sua fonte, se da tutti vuole essere venerato… la metà è più del tutto, perché una metà ostentata e l’altra promessa, son più di un tutto dichiarato».

La velatezza dell’essere, in questo caso, non sarà un volgare atteggiamento di subdolo mascheramento volto all’inganno, ma, molto più sottilmente e nobilmente, lo strumento di una cerca dell’eccellenza, da ottenersi con il freno dei modi, la perfezione in ogni manifestazione di sé e un dosato ombreggiare i propri disegni. Qualcosa di propriamente “politico”, insomma: «Dissimulare una volontà sarà sovranità». In queste proposizioni sembra riecheggiare, in qualche modo, la dialettica heideggeriana circa il velamento della verità, secondo la struttura stessa della parola greca antica, che proponeva non a caso l’alfa privativo: a-lethéia, proprio nel senso che verità è essenzialmente un togliere veli per gradi. La dialettica sottile dell’apparire e del velarsi, lungi dall’essere solo un gioco femmineo di ritrosie seduttive, è in realtà, secondo la logica dell’etica tradizionale, il segreto della gloria. E la gloria, considerata dagli antichi l’unica e insieme la massima via all’eternità, è ugualmente per Gracián il premio al lavoro terreno dell’uomo di valore superiore.

In anni recenti è stato Emanuele Severino – il cui pensiero sappiamo essere sulla scia heideggeriana – a precisare i contorni del significato della gloria dal punto di vista esistenziale e tradizionale: «L’indefinita manifestazione dell’eterno, in cui la Gloria consiste e che indefinitamente si arricchisce, è il senso autentico della nostra destinazione per l’eternità». La gloria ha dunque a che fare col destino. E il destino ha a che fare con la fortuna e la fortuna con l’audacia, persino con l’azzardo. A patto che prima, dentro di sé, il temerario che si senta chiamato sulla via della gloria abbia percepito la concordanza della sua anima, tesa all’impossibile, con gli arcani segreti del fato. Difatti, in un passo de L’eroe si dice per l’appunto che la fortuna è «gran figlia della suprema provvidenza» e che «è regola da maestri compiuti nella politica discrezione notare la propria fortuna e quella dei propri sostenitori». Non diversamente la pensarono, a ben vedere, e magari senza aver letto un riga di Gracián, personaggi come Napoleone, che diceva di preferire generali fortunati a generali ben preparati, oppure come Hitler, che confessò più volte di aver giocato d’azzardo tutta la vita, sicuro di avere dalla sua parte la “provvidenza”. La fanatica fiducia in se stessi, quale suprema attitudine al comando in grado di piegare anche gli eventi sfavorevoli a proprio vantaggio, veniva da Gracián ricordata come dote dell’uomo di tempra superiore. E faceva l’esempio di Cesare, che al marinaio stanco e sfiduciato rivolse l’ammonimento: «Non dubitare, che offendi la fortuna di Cesare». Il dubbio interiore come ingiuria al destino. Quanto di meno cristiano e di più pagano si possa immaginare. Comprendiamo benissimo il motivo per cui lo scrittore venne messo al bando nella Spagna cattolicissima del gran secolo.

Tutto questo ha i contorni del tragico. Poiché in Gracián è ben vivo il senso di una lotta che l’eroe deve intraprendere prima di tutto su se stesso. Il controllo su ciò che appare e sulle occasioni che gli si presentano deve essere il frutto di un drammatico auto-controllo: questa volontà auto-imposta deve essere la sua signoria. Tanto che, se necessario, anche quando dentro l’uomo differenziato tutto lo sospingesse a dir di sì, la sua potenza e il suo comando interiore lo condurranno a un vittorioso dir di no. Questo si inserisce alla perfezione in quel dominio metafisico in cui si attua il contatto fra trascendenza e vita terrena. È ciò che gli antichi greci chiamavano kairòs, l’attimo fuggente, e i romantici tedeschi indicavano come der grosse Zufall, il grande caso fortunato. Saper cogliere il manifestarsi del momento in cui il destino si palesa per cenni: la levigata sensibilità, quasi un istinto lungamente esercitato, saprà all’istante percepire questa epifania subitanea. Un evidenziarsi del sacro che indica il momento dell’agire. Poiché kairòs è suprema saggezza, è intima consonanza con gli interni voleri del fato, ma è anche sentimento di giustizia. Tradizionalmente, ciò che appare nel mondo, nell’immutabilità di ciò che è vero da sempre, oppure nell’improvviso irrompere dell’inatteso attraverso l’attimo, è anche ciò che è giusto: giusto è ciò che sa sopraggiungere al momento opportuno.

Una filosofia del rischio? Piuttosto, un’acuta capacità di percezione delle armonie e delle disarmonie del mondo. Nella sua introduzione a L’eroe, Antonio Allegra precisa che le sollecitazioni di Gracián verso l’affermazione di sé hanno il carattere di una libera alleanza col destino: «Occorre, in ogni caso, agire all’interno dello spazio della fortuna e del mondo: tutto sta nel potere ancora affermare un margine di libertà rispetto alla situazione integralmente mondana che si presenta, che va acutamente interpretata e colta nelle sue nascoste potenzialità». L’individuo differenziato, l’essere superiore costruito su un’elaborata e fanatica fiducia, si esprime attraverso la decrittazione dei segni lasciati cadere dal fato provvidenziale. Si tratta in fondo di un gioco: vince chi sa elaborare al massimo grado la dialettica tra il vivere all’occasione e l’essere uomo integro in grado di interpretare correttamente i segnali. L’individuo potenziato da questa superiore autocoscienza non è scelto dal caso, ma è lui stesso che sceglie l’attimo. Risolutezza e fulminea capacità di ricorrere alla decisione sono i sintomi dello spirito dominatore: «La prontezza fa da oracolo nei dubbi maggiori, sfinge negli enigmi, filo d’oro nei labirinti, e suole aver l’indole del leone, che riserva il massimo sforzo per quando ne ha più bisogno», scrive Gracián. Un manuale di politica: la golpe e il lione di Machiavelli, più un tocco di quel pessimismo barocco e manieristico che piacque tanto a Schopenhauer e che cercava di interpretare la complessità del mondo moderno allora già in agguato: L’eroe venne pubblicato nel 1637, l’anno di uscita del Discorso sul metodo di Cartesio. Ma anche una filosofia dell’intuito. Una vera mistica terrena dell’azione e del primato. In questo senso, la maschera che, secondo, Gracián, l’uomo superiore deve indossare per assicurarsi il dominio sul mondo non è un trucco plebeo, ma il necessario stigma della diversità: l’eroe gioca le sue maestrìe certo di non dover aprire a nessuno il suo cuore. Il mondo intriso di scaltrezze e di indegnità abbisogna di menti in grado di batterlo sul suo stesso terreno, mantenendo giusto il cuore. «Ti voglio singolare», suona l’esortazione con cui Gracián apre il suo pamphlet rivolgendosi al lettore, «qui avrai non una politica né un’economica, ma una ragion di stato di te stesso». La si direbbe una potente anticipazione di figure metapolitiche come l’Anarca jüngeriano oppure l’Autarca evoliano…

La fama di Gracián non si limitò alla sua epoca o ai momenti di insorgenza sovrumanista. In tempi recenti il suo nome ha riscosso un famigerato successo tra le turbe dei manager d’azienda… e il povero Gracián si è visto trascinare via dall’etica tradizionale aristocratica e dal suo stoicismo barocco, fin dentro le maleodoranti stanze dei consigli d’amministrazione, nei grattacieli americani: numerose edizioni dei suoi libri sono state vendute come il pane tra le schiere di yuppies alla ricerca del facile successo attraverso i manuali di auto-stima per piazzisti in carriera. I suoi libri hanno conosciuto l’onta di essere paragonati alle pubblicazioni a grande tiratura in uso sin dagli anni Cinquanta negli USA, ad esempio quelle a cura della Fondazione Carnegie: come vincere la paura degli altri, come avere successo nel lavoro… Noi aggiungiamo: come trascinare un filosofo del sovrumanismo europeo nel fango della morale da insetti tipica del liberalismo americano…

* * *

Tratto da Linea del 24 ottobre 2008.

00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, espagne, 17ème siècle | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 01 décembre 2011

Entretien avec Enrique Ravello (PxC) sur les élections espagnoles

Entretien avec Enrique Ravello (PxC) sur les élections espagnoles
 
Ex: http://fr.novopress.info/
 
Dimanche, les élections législatives espagnoles ont vu la victoire écrasante des conservateurs sur les socialistes, au pouvoir depuis 2004 (ils avaient à l’époque profité de façon inattendue des attentats du 11 mars 2004).

Outre cette victoire de la droite, le parti identitaire catalan Plataforma per Catalunya (PxC) a confirmé sa laborieuse percée politique, qui s’affirme élection après élection. Cette année, PxC avait présenté des listes dans les quatre provinces de Catalogne (Barcelona, Tarragona, Lérida, Gerona). Les identitaires catalans n’ont pas encore réussi à décrocher un siège de député (il leur aurait fallu obtenir 3% des suffrages dans la province de Barcelone, mais PxC est resté scotché à 2%). Cependant c’est la première fois depuis longtemps qu’une formation identitaire ou nationaliste pouvait espérer décrocher un siège. Et devrait être en mesure de le faire lors des prochains scrutins.

Pour faire le point sur la situation politique en Espagne et l’avenir du mouvement identitaire outre-Pyrénées, nous avons rencontré Enrique Ravello, responsable des affaires extérieures de Plataforma per Catalunya.

 

 

Quel est votre sentiment sur les résultats de votre mouvement aux élections législatives ?

 

Nous obtenons 60.000 voix sur l’ensemble de la Catalogne (59781 pour être précis), dont 52985 dans la province de Barcelone (soit 2,02% des voix à Barcelone). Nous avons beaucoup travaillé et progressé dans la banlieue de Barcelone, mais la capitale catalane nécessite encore du temps pour que nous y progressions de façon suffisante pour obtenir un siège de député dans la province.

 

Nous sommes un mouvement jeune, il nous a donc manqué encore quelques années de travail et un peu de couverture médiatique, mais pour la prochaine fois cela devrait être la bonne !

 

En comparaison, les autres partis espagnols de tendance nationaliste ont obtenu des scores extrêmement faibles, aucun d’entre eux ne rassemblant plus de 10.000 voix sur l’ensemble du territoire espagnol, alors que nous en rassemblons 60.000 sur la seule Catalogne.

 

En conclusion, nous aurions bien évidemment préféré faire un peu plus et entrer au Parlement espagnol, mais ce n’est vraiment pas un mauvais résultat pour nous.

 

Pouvez-vous nous décrire rapidement l’histoire de votre mouvement, ses orientations politiques ? Comment conciliez-vous votre régionalisme catalan avec l’Espagne ?

 

Plataforma per Catalunya a vu le jour en 2001, lorsque Josep Anglada décida de se présenter aux municipales dans sa ville, Vic (ville de 40.000 habitants près de Barcelone), avec pour slogan « pour un meilleur contrôle de l’immigration, améliorons la sécurité de la ville ». En 2001, l’Espagne vivait en pleine démagogie immigrationiste, et autant les conservateurs du Parti Populaire que les socialistes du PSOE clamaient les bienfaits de la légalisation massive des immigrés qui « contribuaient au développement économique du pays » et « s’intégraient très bien dans notre société ». Anglada fut l’un des premiers à remarquer que ce n’était pas le cas, et aujourd’hui ce sont ces mêmes conservateurs et socialistes qui veulent se rapprocher de notre discours anti-immigration devant le chaos généré par la légalisation de millions d’étrangers dans notre pays.

 

En 2002, Plataforma per Catalunya a effectué sa première percée médiatique, après avoir rassemblé de nombreux manifestants contre la construction d’une mosquée à Premia de Mar, que nous avons réussi à stopper.

 

Rappelons qu’en 1996, l’Espagne comptait 1% de population étrangère (quasiment tous venus de l’Europe du nord, vivant ici leur retraite et étant parfaitement acceptés par la population espagnole). Aujourd’hui, nous avons 14% d’étrangers en Espagne, légalisés de nombreuses façons, et provenant de divers pays du Tiers Monde.

 

Aux élections locales de 2003, cinq conseillers municipaux ont été élus et la presse commence à parler de « l’effet Anglada ». En 2007, le nombre de conseillers municipaux s’élève à 17. Cette même année, des délégations du Vlaams Belang et de la Lega Nord participent au 5ème congrès du parti, marquant l’intégration de PxC au réseau des partis identitaires européens.

 

En novembre 2010 ont eu lieu les élections au Parlement catalan : Plataforma per Catalunya a obtenu 2,6% des votes, il ne nous a manqué que quelques milliers de voix pour atteindre les 3% nécessaires pour obtenir une représentation au Parlement catalan. Au printemps suivant, en mai 2011, PxC a rencontré le succès aux élections locales, en obtenant 67 élus.

 

Concernant les relations entre notre défense de la Catalogne au sein de l’Espagne notre position est claire : nous plaidons la défense et la promotion maximales de la langue, de la culture et de l’identité catalanes, par là nous demandons également un maximum d’autonomie, tout en restant au sein de l’Etat espagnol et en faisant preuve de solidarité et de coopération avec les autres populations (basque, castillane, gallique) qui composent notre Etat historique.

 

Il faut savoir que le processus de formation de l’Espagne est assez différent de celui de la France, qui est depuis toujours beaucoup plus centralisée. Durant l’Espagne des rois catholiques, on ne parlait que le catalan en Catalogne, et le castillan ne commença à être introduit qu’à partir de 1714 et Philippe V, premier Bourbon à régner en Espagne. Jusqu’alors, la Catalogne avait gardé sa langue, ses lois et son autonomie et cela ne l’empêche pas de se sentir pleinement espagnole, tout comme la Castille.

 

En ce sens, Plaraforma per Catalunya est pour réactualiser la forme traditionnelle selon laquelle l’Espagne fut organisée durant des siècles, qui n’était pas celle de l’assimilation à un modèle central unique, mais l’intégration harmonieuse de tous les territoires et peuples qui composent l’Espagne dans le plus grand respect et la promotion de ses identités respectives.

 

Les medias parlent de votre projet de créer un parti national, avec d’autres « Plataforma ». Pourriez-vous nous en dire plus ?

 

Lors de notre prochain congrès, nous annoncerons la création de ce parti national avec un nouvel acronyme et avec une action dans tout le territoire espagnol. Ce parti aura des délégations dans chacune des communautés autonomes (régions) espagnoles, où il pourra agir sous un acronyme général et, comme cela est le cas en Catalogne, avec l’acronyme de cette communauté (région). En Catalogne, nous continuerons donc à rester Plataforma per Catalunya.

 

Le parti national continuera à avoir une structure unique d’organisation et de direction, et sera dirigé par l’actuel président et comité exécutif de Plataforma per Catalunya, qui logiquement iront investir des personnes d’autres lieux en Espagne.

 

Nous ferons une présentation médiatique au courant de l’année à venir. Nous sommes totalement assurés que ce parti sera la force identitaire de référence pour tous nos amis européens.

 

 Lors de votre campagne, vous avez reçu le soutien de partis populistes et nationalistes comme le Vlaams Belang, le FPÖ ou la Lega Nord. En France, vous avez des contacts avec plusieurs structures. Quelle est votre stratégie au niveau européen ?

 

Avant toute chose, nous souhaitons exprimer notre gratitude envers le FPÖ et le Vlaams Belang, pour tout l’appui logistique, politique, personnel de toute sorte qu’ils nous ont donné durant ces dernières années.

 

Nous entretenons avec ces deux mouvements d’étroites relations officielles, et ils sont notre référence pour toute alliance et discussions au niveau européen. Nous tenons aussi à signaler que nous avons une relation fluide avec la Lega Nord, dont nous savons qu’elle va être plus étroite encore dans un futur proche.

 

Interview d’Enrique Ravello (PxC) après les élections espagnoles [vidéo]

Représentants de la Lega Nord au dernier congrès de PxC

 

Notre stratégie européenne est simple. Nous pensons que la coordination et la collaboration entre tous les mouvements identitaires européens est une nécessité absolue par ce que nous voulons éviter la déliquescence de notre continent et répondre à la menace mortelle que rencontre notre civilisation millénaire : l’immigration, la mondialisation, l’islamisation, la régression démographique, la colonisation par des millions d’immigrés installés sur notre territoire, la soumission de notre économies aux marchés financiers internationaux sont des dangers d’une telle dimension à laquelle seule une réponse coordonnée de toutes les forces identitaires européennes peuvent faire face.

 

Mais soyons clairs : nous ne pouvons pas subordonner les intérêts de l’Europe au bénéfice des pouvoirs atlantistes pilotés par Washington au nom d’une soi-disant « lutte contre l’Islam », qui est un sophisme de la propagande du système, comme on a pu le constater récemment en Libye.

 

 L’Espagne fait partie des pays en situation délicate en ce qui concerne sa dette publique. Quelles en sont selon vous les causes, et quelles solutions préconisez-vous ? Etes-vous partisan, comme Marine Le Pen, d’une sortie de l’euro ?

 

Le niveau de la dette de l’Espagne est intolérable, comme pour tous les pays de notre environnement (y compris les Etats-Unis), nous sommes arrivés à un niveau de dette que nous ne sommes plus en mesure de dominer.

 

Cette situation est une conséquence d’une des plus grandes erreurs de la classe politique occidentale : penser à court terme et privilégier l’intérêt du parti à celui de la communauté nationale. C’est ainsi que les politiques se sont endettés (ou plus exactement nous ont endetté) de manière irresponsable, uniquement pour obtenir les faveurs de l’électorat et réussir leur réélection, sans se soucier des proportions que prenait la dette.

 

Eh bien, le moment du remboursement arrive désormais, et il n’y a plus d’argent pour le faire. Dans ces circonstances, le pire est que les banques qui ont prêté cet argent ne veulent pas seulement être remboursées mais veulent aussi obtenir la subordination intégrale du pouvoir politique au pouvoir économique, avec pour conséquence le sacrifice de l’Etat-providence pour les intérêts des marchés financiers internationaux. Un désastre, avec des coupables connus : les hommes politiques libéraux et socio-démocrates.

 

Dans ce contexte, à court terme, il faut générer urgemment des excédents budgétaires aptes à réduire progressivement la dette. Mais il faudra pour cela obligatoirement encadrer le paiement des intérêts de la dette, et imposer à l’avenir des limites légales aux conditions d’endettement.

 

Dans le même temps, il faut taxer l’hyper-classe et l’Empire bancaire, notamment les bénéfices bancaires et les transactions financières internationales, et éliminer tous les paradis fiscaux et autres stratégies de défiscalisation (résidences et nationalités de « convenance ») qui sont la base de l’évasion fiscale. Le remboursement de la dette ne peut pas se faire que sur le seul dos de la classe moyenne !

 

Bien que l’Euro ait appauvri l’économie espagnole, une sortie unilatérale ne serait pas possible, et en ce moment cela générerait plus de problèmes que de solutions pour l’Espagne. Le problème de l’Euro, c’est qu’il n’est soumis au contrôle d’aucun pouvoir public, sinon à celui de la Banque Centrale Européenne, une entité financière indépendante et sans responsabilité ni légitimité politique ou démocratique. C’est cet aspect que nous reprochons à l’UE, qui est hélas une institution technocratique et mondialiste, c’est pour cela que nous disons non à l’Europe des banquiers et des technocrates, mais nous dirons toujours oui à l’Europe des peuples et des nations, à cette Europe que nous voulons construire autrement.

 

Par ailleurs, nous sommes en accord avec les déclarations de Marine Le Pen demandant une sortie de la France de l’OTAN, une politique de défense indépendante des Etats-Unis, et un rapprochement stratégique avec la Russie. Cela pourrait modifier l’équilibre international actuel et permettre d’en finir avec l’hégémonie des Etats-Unis sur la scène mondiale.

 

 Comment expliquez-vous qu’en dehors de votre mouvement, les autres partis nationalistes en Espagne réalisent des scores incroyablement faibles ?

 

Il me semble difficile de critiquer le travail des autres partis nationalistes, ce sont eux qui doivent établir une autocritique, qui doit être basée sur un seule mot d’ordre : rénovation et capacité de communication avec les électeurs.

 

Plataforma per Catalunya a réussi parce que nous avons su aborder les problèmes contemporains (immigration, islamisation, mondialisation, finance internationale) et présenter nos solutions sans les interférer avec des considérations passéistes. Beaucoup de partis nationalistes espagnols ont trop de tabous sur les identités régionales et continuent de s’arcbouter sur une conception centraliste de l’Etat espagnol.

 

Je ne suis pas là pour décider à leur place, mais je crois que tant qu’ils ne rompront pas avec les références centralistes du passé, ils ne pourront pas escompter de se développer. C’est d’autant plus regrettable que ces mouvements disposent de personnes de grande valeur.

 

Cependant, nous sommes convaincus que lorsque nous aurons fait l’annonce de notre parti national, nous serons un catalyseur pour tous ceux qui veulent avec nous renouveler et faire avancer les idées identitaires et sociales.

 

 Propos recueillis par Philippe Derricks

dimanche, 27 novembre 2011

Europae n°5

EUROPAE

Sumario Nº 5

http://www.revistaeuropae.org

 

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Editorial

Escritores malditos.

Asturias

Introducción

Ducado Asturensis, guardianes del custodio, Jesús Magro

La Carisa y la Mesa. Causas políticas y militarles del Reino de Asturias, Jesús Magro

Nombres, etnias y resistencias, Jesús Magro

 

DOSSIER: LITERATURA MALDITA

Libertad, igualdad, masas y Shakespeare, Adrià Solsona

El Teatro clásico español como elemento políticamente incorrecto, Ramón Bau

Las ideas malditas de Nietzsche, Eurgenio Gil

Brasillach, Joaquín Bochaca.

Heiddeger: filosofía y nazismo. Una visión

Hans Günther: pinceladas de antropológicas sobre España, Santiago de Andrés

Jean Cau. Una breve biblio-biografía, Eduardo Núñez

Claudio Sánchez-Albornoz, ideas y contradicciones del intelectual olvidado de la Transición, Enrique Ravello

 

Geopolítica

Cambios en la política exterior turca, Enrique Ravello.

Música

El Pianoforte, Guillermo Jamard

Arte

La esencia de lo bello, Lluís Malgrat

Webs

La agencia de noticias Noreporter.

vendredi, 25 novembre 2011

Enric Ravello: “Los petrodólares financian mezquitas que predican la intolerancia”

Enric Ravello: “Los petrodólares financian mezquitas que predican la intolerancia”

 

gfp-er.jpgSeguimos con nuestras particulares entrevistas relacionadas con la política internacional. Hoy tenemos el placer de colgar la entrevista que le hemos hecho a Enric Ravello, responsable de los asuntos internacionales del partido Plataforma X Catalunya. Pese a tener una agenda muy apretada, agradecemos al señor Ravello su predisposición a colaborar con nuestro blog.

PREGUNTA: Países como Guinea Ecuatorial o Venezuela cada año nos suministran petróleo a cambio de apoyar a los gobiernos de Obiang y Chávez. ¿Ven ustedes este hecho como algo aceptable?

RESPUESTA: La salida a esta situación pasa por tomar la iniciativa en materia energética y por buscar subministradores  estables con los que se pueda establecer un marco de cooperación global en el que el subministro energético sea una variable estratégica más. En este sentido volvemos a señalar la falta de visión y de capacidad de la diplomacia española. Hoy hay una apuesta clara para Europa y es la del petróleo y el gas ruso.

P: Ahora que Palestina ha entrado en la UNESCO, cada vez tiene más cerca la independencia total. ¿Su partido apoya o no la soberanía del estado palestino y por qué?

R: Nosotros apoyamos la existencia de un Estado palestino, que recientemente ha sido reconocido también por el Parlamento catalán. La creación de un Estado palestino es condición necesaria para alcanzar una paz duradera en la zona, que sólo será viable si se termina con la injusticia histórica hacia el pueblo palestino. El mayor peligro para la estabilidad en Oriente Medio es el crecimiento del fanatismo religioso, y nos referimos tanto al extremismo musulmán como al judío.

 

P: Parece que China se ha convertido en la superpotencia que sustituye a la URSS en la nueva carrera por la hegemonía mundial. ¿Qué opinión le merece a su partido este país? ¿Condenan ustedes su nula preocupación por los derechos humanos?

R: La irrupción de potencias como China muestra que estamos muy lejos del “Fin de la Historia” que anunció precipitadamente Francis Fukuyama. China, como una de las superpotencias del siglo XXI ejerce una acción expansiva global. Financieramente compra deuda europea y norteamericana con lo que se asegura una presión sobre los mercados y sobre todo una capacidad política para evitar que estos países impongan cualquier tipo de barrera arancelaria a sus productos. Desde el punto de vista industrial, el control político y social de la población por parte del gobierno chino les permite producir a precios y coste contra los que nadie puede competir, a no ser por las barreras arancelarias que citaba más arriba y que su “estrategia financiera” hacen imposibles de aplicar. Desde el punto de vista demográfico, es alarmante, las cuotas de inmigrantes chinos en Europa occidental se disparan año tras año. Nos preocupa enormemente.

Pero para oponerse a esta expansión china es necesario algo de lo que carecen los actuales dirigentes políticos españoles y europeos: Pensar y hacer una política de largo plazo.

P: Con respecto a Cuba, ¿Qué posición mantiene su partido con el gobierno de los Castro? 

R: Nuestro partido tiene una opinión muy negativa de la dictadura marxista que ha arrastrado a Cuba a la ruina y a la miseria. La imposición de modelos socio-económicos caducos y esclerotizados han llevado a la población cubana a una situación insostenible. Deseamos que el pueblo cubano pueda decidir lo antes posible sobre su futuro. Dicho lo cual, queremos añadir que el bloqueo y la actitud de los Estados Unidos hacia Cuba nos parecen intolerables, y dejar bien claro que Cuba debe evitar que su salida del comunismo signifique ponerse de rodillas ante los Estados Unidos.

P: ¿Qué opina su partido de que actualmente la política económica nacional esté sujeta a las decisiones de París o Berlín?

R: La situación es peor que la que describe en su pregunta. Las decisiones no las toman París o Berlín, sino lo que ahora se llaman eufemísticamente “mercados internacionales” y que no es más que la alta finanza especulativa situada en los centros bursátiles y financieros de todo el mundo, la misma que nos ha llevado a la actual crisis económica.

Sarkozy ha traicionado a la V República francesa, su política exterior ha dejado de ser autónoma y ha apostado por vincularse a los Estados Unidos, es un hecho objetivo y que ha tenido graves consecuencias para Europa, también en el aspecto económico. Por su parte, Angela Merkel alterna una política propia (llamémosla germano-europea) con otra proatlantista.  Sarkozy ha destrozado lo que supuso de avance y consolidación de un eje europeo, la sinergia Kohl-Mitterrand, esperemos que esa tendencia se recupere alguna vez. En ese caso las decisiones Berlín-París serían mucho más beneficiosas para el conjunto de la UE.

P: Una de las cuestiones de más trascendencia en estos últimos años de la política exterior española es el posicionamiento a favor o en contra del Sáhara Libre. ¿Están ustedes a favor o en contra y por qué?

 
R: El proceso de descolonización del Sáhara fue caótico e improvisado. La situación necesita una revisión en la que estén implicadas las potencias de la zona, Marruecos, Argelia, el Frente Polisario y España como antigua potencia colonial, que tenga el visto bueno de la ONU y que pase necesariamente por la expresión mediante referéndum de los saharauis a decidir libremente sobre su futuro. Un Sáhara independiente, con el que se tendrían que establecer las mejores relaciones diplomáticas, tendría implicaciones geopolíticas positivas para España.  Su proximidad a Canarias y a la zona pesquera vital convierten a esta zona en un área de interés básico. Una buena relación entre España y Sahara serviría de contrapeso a la constante acción hostil que desarrolla Marruecos contra nuestro Estado.
En ese sentido una política exterior española pasaría por el establecimiento de lazos estrechos con los países de la Europa mediterránea (Italia, Francia y Grecia) para liderar la política de la UE en esta zona tan sensible y de tanta importancia geopolítica en el inmediato futuro. Además este eje euromediterráneo no debería conformase con tener una posición subordinada en la dirección de la UE, sino debe ser un complemento activo del eje carolingio (franco-alemán) en la creación de un espacio europeo cada vez más compacto y con mayor presencia en la escena internacional.

P: El Consejo Nacional de Transición libio ha declarado su intención de basar la nueva constitución en la Sharia. Además en Túnez y posiblemente en Egipto los islamistas moderados han o van a ganar las elecciones. ¿Qué opinión le merece a su partido todos estos hechos?

20-21.JPGR: Es una constante contrastada que la llamada “primavera árabe” se ha constituido sobre la alianza política de dos elementos que a priori podrían parecer no compaginables: los liberales occidentalistas y los islamistas moderados y no tan moderados. Hay un tercer factor que ha tenido un protagonismo destacado en la extensión de estas revoluciones árabes la cadena televisiva Al-Yazira, que es mayoritariamente de capital saudí, catarí e israelí.

Otra constante de estas revoluciones es que han derrotado a gobiernos que mantenían una política de cierta colaboración con Europa en materia energética y de control de la inmigración, es curioso ver cómo por ejemplo a Marruecos no ha llegado este “viento de libertad”. Mucho nos tememos que los nuevos gobiernos den un giro a esta situación y el Mediterráneo se convierte en una zona de inestabilidad creciente y con tendencia al enfrentamiento entre ambas orillas, algo que entra dentro dela estrategia del Choque de las civilizaciones del Pentágono.

Todo esto demuestra una vez más la falacia del pretendido antiislamismo de los Estados Unidos pues precisamente la política de Washington en Oriente Medio consiste en usar a los islamistas para derrocar a los regímenes árabes laicos como Irak o la propia Libia.

De todas formas hay que estar atentos al papel que juega en la zona la emergente potencia turca, en tensión creciente con Estados Unidos y con Israel por la hegemonía en el mundo árabe-islámico. La reciente visita de Erdogan a El Cairo hay que entenderla en este sentido. Turquía está en una nueva y diferente pase de sus relaciones internacionales y el neo-otomomanismo de su ministro de Asuntos Exteriores, Ahmet Davotoglu, será un factor de creciente importancia.

P: Si su partido ganase las elecciones, ¿Qué posición tomaría con respecto a Gibraltar?

R: El primer objetivo en esta cuestión debería ser iniciar un proceso gradual y negociado con Londres para terminar con la situación colonial de ese territorio. A su  vez, España debe actuar de forma clara y enérgica para que Gibraltar deje de ser un punto oscuro en el tráfico de drogas y de evasión de capitales.

Como partido catalán debemos recordar que si Gibraltar pasó a manos británicas como consecuencia del Tratado de Utrecht tras nuestra Guerra de Sucesión, algo similar ocurrió con los territorios catalanes y españoles de Perpiñán y la Cerdanya, que fueron incorporados a Francia y sometidos a una política de asimilación y despersonalización. España no puede olvidar definitivamente esa cuestión y debe apoyar una política cultural de vinculación de esos territorios con Cataluña, como parte histórica de Cataluña y de España que fueron.

P: ¿Impulsará su partido las cumbres iberaomericanas como un auténtico foro de los países de habla hispana y portuguesa?

R: Sin duda. Iberoamérica se está convirtiendo cada vez más en un bloque geopolítico de creciente importancia económica, energética (recordemos el reciente descubrimiento de petróleo en el sur de Argentina) y política.

El acercamiento entre Buenos Aires y Brasilia y la llegada a varios países de la zona de gobiernos que podríamos llamar nacionalistas de izquierda, hará que Sudamérica tienda a tener voz propia y unificada en la escena internacional. España, como parte fundamental del bloque europeo, debería tiene un papel crucial para establecer relaciones de amistad y cooperación entre nuestro bloque geopolítico europeo y el bloque geopolítico sudamericano. Lograrlo podría modificar la relaciones de poder e influencia en el equilibrio geopolítico mundial.

P: ¿Le parece correcto que los Estados Unidos aun mantengan bases militares en territorio español?

R: Nos oponemos  abiertamente a la presencia de bases norteamericanas en territorio español y europeo pedimos la desmantelación de las mismas. Estados Unidos y Europa están en una dinámica de progresiva divergencia, los intereses económicos y políticos respectivos no sólo no coinciden sino que son cada vez más contrapuestos.  Europa sólo podrá ser un actor internacional de peso y defender su posición en la escena internacional, con una política exterior y militar propia, en este sentido abogamos por la creación de una Organización militar de Defensa exclusivamente europea al margen de los Estados Unidos,  y en consecuencia la desmantelación de las bases norteamericanas en España y en Europa occidental, donde la única presencia militar de fuerzas militares debe ser la propia.

P: ¿Qué opina usted de la política de inmigración de Sarkozy, que ha obligado a miles de gitanos a abandonar Francia?

R: Que es una pantomima y una farsa. La pseudoexpulsión de gitanos rumanos de Francia fue un brindis al sol y una medida cara al electorado que Sarkozy consiguió arrancar a Jean Marie Le Pen en las últimas elecciones presidenciales y que necesitará mantener a toda costa si pretende ser reelegido como Presidente de Francia en la primavera de 2012. Esos gitanos rumanos son una pequeña anécdota del gravísimo problema real que supone la avalancha migratoria y la sumersión demográfica en Francia. Sarkozy sabía perfectamente que esos gitanos de pasaporte rumano podrían volver a Francia en pocos meses –como así ha sido- en función de su ciudadanía comunitaria.

En cuanto al problema real de la inmigración en Francia, es decir los millones de árabes, subsaharianos, asiáticos instalados en el país vecino y que con los actuales ritmos de crecimiento demográficos pueden subvertir la composición étnica de la República francesa en pocos años; la política de Sarkozy ha sido de puro continuismo con la de los gobiernos anteriores, es decir:  suicida.

P: ¿Qué opina de que la OTAN actúe en los conflictos armados internos? ¿Considera que en el caso libio se ha actuado para proteger al pueblo o que ha sido un ataque a un Estado soberano con intereses ocultos?

R: Que la OTAN actúe y ataque unilateralmente a cualquier Estado soberano nos parece lo que es: un atropello a la legalidad internacional.   Con la coartada de imponer un supuesta democracia que sólo existe en la imaginación de los estrategas del Pentágono y de Wall Street, los Estados Unidos han desencadenado absurdas guerras en Oriente Medio cuyo único objetivo era el control por parte de EE UU de zonas estratégicas desde el punto de vista energético y el control de las comunicaciones y rutas comerciales euroasiáticas que siguen pasando por la antigua Ruta de la Seda por la que fluyen el petróleo y el gas. También hay que señalar la importancia que tienen el control de esta ruta en el narcotráfico a escala mundial.

P: Cómo ve su partido que países islamistas conservadores como Catar o Arabia Saudí se estén convirtiendo en los máximos inversores en España?

R: Con inquietante y creciente preocupación.  Arabia Saudí y Catar son dos regímenes islamistas-wahabitas dictatoriales que  niegan los derechos de la mujer. Son tiranías corruptas, su dinero no debe ser bienvenido en España ni en ningún país europeo.

Además sus inversiones están dentro de la lógica del expansionismo islamista que defienden mantienen y financian el gobierno saudí y el qatarí. Es intolerable que se permita que esos petrodólares sirvan para financiar mezquitas en España donde se predica el odio y la intolerancia islamista. España debería hacer como Noruega e impedir con las medidas legislativas oportunas, que ninguna mezquita sea financiada con dinero saudí.

Por lo llamativo y lo visible es vergonzoso ver cómo nuestro fútbol se vende a los intereses de estos tiranos. Que el Santiago Bernabeu vaya a llamarse el Arena, y que el Barça lleve la camiseta de la Fundación Qatar, son algo más que anécdotas, son el síntoma de la facilidad y la profundidad con el que penetra el capital wahabita en España, y eso tendrá consecuencias nefastas en los próximos años.

Hay que señalar que Arabia Saudí y Catar, precisamente los dos grandes aliados de Estados Unidos en la zona,  son los dos únicos países árabes en los que no está permitido ningún otro culto público que no sea el islámico.

lundi, 10 octobre 2011

Ignatius Royston Dunnachie Campbell: A Commemoration

Ignatius Royston Dunnachie Campbell:

A Commemoration

By Kensall Green

Ex: http://www.counter-currents.com/

So much fine writing already exists here concerning Roy Campbell (October 2, 1901–April 22, 1957) that it would be hardly fair to Counter-Currents’ previous Campbell biographers to repeat—my own rephrasing notwithstanding—this  poet’s life story once again. Let it simply stand that October 2, 2011 is Roy Campbell’s 110th birthday, and we remember him as poet, as a man of action, and as a heroic defender of the faith.

It is a mighty testament to his talent that his work and life are commemorated still, considering how much suppression his poetry — and therefore his very existence as a poet and hero — were subject to by the intellectual cabal of his day, and all the days since. He died, neck broken in an auto accident in Portugal, April 1957.

The following poems of Campbell both appeared in Sir Oswald Mosley’s BUF Quarterly magazine, published sometime between 1936 and 1940.

The Alcazar*

By Roy Campbell

The Rock of Faith, the thunder-blasted—
Eternity will hear it rise
With those who (Hell itself outlasted)
Will lift it with them to the skies!
‘Till whispered through the depths of Hell
The censored Miracle be known,
And flabbergasted fiends re-tell
How fiercer tortures than their own
By living faith were overthrown;
How mortals, thinned to ghastly pallor,
Gangrened and rotting to the bone,
With winged souls of Christian valour
Beyond Olympus or Valhalla
Can heave ten million tons of stone!

*In the summer of 1936, during the early part of the Spanish Civil War [2], Colonel José Moscardó Ituarte [3], and Spanish Nationalist Forces in support of General Franco, held a massive stone fortress, The Alcazar, against overwhelming Spanish Republican [4] forces. Despite being under continual bombardment, day and night, Col Moscardo and the Nationalists (reportedly nearly 1000 people—more than half of which were women) held out for two months.

The Fight

By Roy Campbell

One silver-white and one of scarlet hue,
Storm-hornets humming in the wind of death,
Two aeroplanes were fighting in the blue
Above our town; and if I held my breath,
It was because my youth was in the Red
While in the White an unknown pilot flew—
And that the White had risen overhead.

From time to time the crackle of a gun
Far into flawless ether faintly railed,
And now, mosquito-thin, into the Sun,
And now like mating dragonflies they sailed:
And, when like eagles near the earth they drove,
The Red, still losing what the White had won,
The harder for each lost advantage strove.

So lovely lay the land—the towers and trees
Taking the seaward counsel of the stream:
The city seemed, above the far-off seas,
The crest and turret of a Jacob’s dream,
And those two gun-birds in their frantic spire
At death-grips for its ultimate regime—
Less to be whirled by anger than desire.

‘Till (Glory!) from his chrysalis of steel
The Red flung wide the fatal fans of fire:
I saw the long flames, ribboning, unreel,
And slow bitumen trawling from his pyre,
I knew the ecstasy, the fearful throes,
And the white phoenix from his scarlet sire,
As silver the Solitude he rose.

The towers and trees were lifted hymns of praise,
The city was a prayer, the land a nun:
The noonday azure strumming all his rays
Sang that a famous battle had been won,
As signing his white Cross, the very Sun,
The Solar Christ and captain of my days
Zoomed to the zenith; and his will was done.

Roy Campbell. Poet, hero, comrade. You are commended and celebrated. Your talent shall not fade, nor shall your works grow old, age shall not bury you, nor every future time condemn.[1] Happy birthday.

Note

1. Paraphrase of Laurence Binyon’s “For The Fallen,” as quoted by Paul Fussell, The Great War and Modern Memory (New York: Oxford University Press, 1977), p. 56.

 

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

vendredi, 07 octobre 2011

Die Reconquista

Die Reconquista

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samedi, 01 octobre 2011

« Rouges » et « fascistes » sans haine ni rancune

« Rouges » et « fascistes » sans haine ni rancune : le témoignage édifiant d'un enfant de la Guerre d'Espagne

par Arnaud IMATZ

Ex: http://www.polemia.com/

Polémia a reçu récemment de l’historien espagnol, Arnaud Imatz, (*) contributeur occasionnel du site, un message émouvant, accompagné d’un article, écrit en novembre 2006, qui donne un éclairage peu connu de certains des événements qui se sont déroulés en Espagne durant la Guerre civile de 1936 à 1939.
L’heure est à la « diabolisation » et à la réécriture de l’histoire. L’Espagne de Zapatero n’y échappe pas. La bien-pensance y oppose les « bons » (les « Républicains ») et les « méchants » (les « Fascistes »).


La réalité fut plus complexe. Des Rouges furent victimes des Franquistes. Et des Franquistes furent victimes des Rouges. Sans parler des Rouges nombreux à être victimes d’autres… Rouges. Des familles furent partagées. Et s’il y eut des horreurs, il y eut aussi beaucoup de noblesse chez certains combattants, des deux camps. Arnaud Imatz apporte ici le témoignage de José Ataz Hernández : un fils de rouge devenu responsable phalangiste qui vient de disparaître. Un texte à lire pour ceux qui ne croient pas à l’histoire en noir et blanc et qui préfèrent la mémoire historique à la mémoire hystérique. On trouvera ici le message de l’historien et son article.

Polémia

« Je viens d'apprendre avec infiniment de tristesse le décès de José Ataz Hernández survenu le 11 septembre 2011. Ses qualités humaines, son extrême générosité, sa profonde intelligence et sa force de caractère faisaient de lui l'archétype de l'aristocrate de l'esprit, un authentique hidalgo espagnol. Merci de trouver, ci-joint, l'article que j'avais consacré à sa terrible jeunesse, il y a quelques années. Amicalement. Arnaud Imatz »

Comprendre la guerre civile espagnole c'est savoir qu'elle fut « un mélange de vanité et de sacrifice, de clownerie et d'héroïsme », écrit Arthur Koestler dans son autobiographie The Invisible Writing. Guerre totale, devrait-on dire, guerre totale entre totalitaristes de gauche et autoritaristes de droite. Dans l’Espagne de 1936, il n’y a plus de démocrates. La haine et le sectarisme s’emparent des deux camps. Mais le respect de l'autre, la noblesse et la générosité transcendent parfois les divisions. Voici le témoignage émouvant de José Ataz, un jeune « hijo de rojo » (fils de rouge), qui a connu les horreurs d’une guerre fratricide et les terribles privations de l’immédiat après-guerre. Une histoire humaine, vraie, qui à elle seule permet de comprendre la complexité de ce terrible événement historique qui a été commémoré en 2006. Une histoire qui ne juge pas, qui ne dit pas le bien, qui ne poursuit pas la diabolisation, la discrimination entre purs et impurs mais qui contribue honnêtement et modestement à la recherche de la vérité et à la sincère réconciliation.

Au mois d'août 1936, José, petit garçon de huit ans, est le témoin d'une scène atroce qui le marque à jamais. Son père, Joaquín Ataz Hernández, secrétaire du Syndicat des cheminots de l'UGT de Murcie et dirigeant provincial du PSOE, vient d'être désigné par son parti pour siéger dans le Tribunal Spécial Populaire de Murcie. Les tribunaux populaires ont été crées, fin août 1936, par décret du gouvernement. Ils sont composés de 17 juges dont 14 sont nommés d'office par les partis et syndicats du Front Populaire (libéraux-jacobins de gauche, socialistes, communistes, trotskistes et anarchistes). Le 11 septembre, le TP de Murcie siège pour la première fois : sur 27 personnes jugées, 10 sont condamnées à mort, 8 à la réclusion perpétuelle, les autres à de lourdes peines de détention. Parmi les condamnés à la peine capitale, figurent le curé de paroisse Don Sotero González Lerma et le chef provincial de la Phalange de Murcie, Federico Servet Clemencín.

Joaquín Ataz Hernández a voté la peine de mort pour le jeune chef phalangiste. L'ordre qu'il a reçu de son parti ne peut être discuté : le « fasciste » doit être exécuté. « Mon père connaissait Federico depuis son enfance, témoigne José. Ils n'étaient pas amis, mais ils s'appréciaient et se respectaient. Aussi, juste après la sentence, il s'approcha pour lui dire: "Federico, je regrette vraiment..“. » mais avant qu'il n'ait pu ajouter un mot, Federico l'interrompit : « Ne t'en fais pas pour ça, j'aurais fait la même chose avec toi, donne moi donc une cigarette! ».

Deux jours plus tard, de très bonne heure, dans la matinée du dimanche 13 septembre, plusieurs camions bourrés d'hommes et de femmes réveillent José. Le bruit court que le Gouvernement veut gracier les condamnés et la foule en ébullition, exige de faire « justice » elle même. Affolé, le gouverneur civil ordonne de procéder en hâte aux exécutions. La foule furieuse pénètre bientôt dans le patio de la prison. Elle s'acharne sur les cadavres : les corps sont profanés et mutilés sans pitié. Au milieu de la matinée, le petit José, qui joue dans la rue, voit et entend la populace vociférer. Des hommes et des femmes surexcités semblent tirer un étrange fardeau à l'aide de cordes. Avec toute la curiosité et l'agilité de son âge, José s'approche... il est saisi d'effroi. Devant lui gît un corps ensanglanté, que les chocs sur les pavés de la chaussée ont converti en lambeaux. Aucune des viragos présentes sur les lieux ne l'empêchent de voir la scène. Personne ne lui vient en aide lorsqu'il vomit et tombe inconscient sur le sol. À peine remis, il court chez ses parents en pleurant. Sa mère le console. Comment de tels actes de sauvagerie peuvent-ils être tolérés, demande-t-elle écœurée à son mari ? Le père ne répond pas tant sa honte est grande. A cet instant, ils ignorent qu'il s'agit du cadavre du curé Don Sotero Gonzalez Lerma, qui a été horriblement mutilé, trainé dans les rues et pendu à un réverbère de la façade de son église, après qu'un milicien lui a triomphalement coupé une oreille et exigé d'un tavernier qu'il la lui serve bien grillée avec un verre de vin...

Dès que possible, Joaquín Ataz Hernández, renonce à sa charge de membre du Tribunal Populaire. Fin avril 1937, il est nommé chef de service du corps des Prisons. Il dirige bientôt le camp de travail de Totana (Murcie) ou près de 2000 prisonniers politiques, condamnés à la réclusion perpétuelle ou à 30 ans de détention, vont purger leurs peines dans des conditions très difficiles mais néanmoins humaines. Le 1er avril 1939, les cloches sonnent et les pétards éclatent. José et ses deux frères observent leur père : imperturbable, il se peigne calmement pendant que leur mère sanglote : « Ne vous inquiétez pas les enfants, la guerre est terminée mais je dois partir quelques jours en voyage ». Les quelques jours vont se convertir en années.

Sous le sceau du secret, José apprend par sa mère que son père a réussi à s'embarquer vers le Mexique. Pour survivre, le petit garçon doit travailler. Il est tour à tour marmiton, apprenti charpentier, magasinier et boulanger. Il retourne enfin avec enthousiasme à l'école. Dans sa classe, tous les enfants connaissent les antécédents politiques de chaque famille mais personne ne dit mot. En octobre 1942, à l'occasion d'un cours d'instruction civique, José entend par hasard son maître expliquer que José Antonio Primo de Rivera, le leader de la Phalange, condamné à mort par un Tribunal Populaire et exécuté en novembre 1936, « considérait que la naissance du socialisme était juste ». Ces mots, dans la bouche d'un adversaire, lui paraissent si insolites qu'il se plonge dans la lecture des Oeuvres Complètes du fondateur de la Phalange. Il en ressort enthousiasmé et convaincu.

José affronte une grave crise intérieure. Serait-il en train de trahir les idéaux pour lesquels son père a lutté si honnêtement durant toute sa vie? Par chance, il peut en débattre avec lui. Depuis quelque temps, il sait que son père n'est pas exilé au Mexique mais qu'il vit caché chez ses grands-parents. Sans plus attendre, il lui rend visite et lui fait lire les discours et le testament de José Antonio. « Je lui posais franchement mon problème de conscience, dit-il, et il me répondit avec toute la générosité et la noblesse que j'attendais de lui: "Écoute mon fils, je n'ai aucune autorité morale pour te conseiller dans un domaine ou, parce que je me suis engagé à tort ou à raison, vous devez maintenant souffrir toute sorte de privations et connaître la faim. Une personne seule peut aller jusqu'au bout de ses idéaux, sans limites, mais un homme qui a une femme et des enfants n'a pas le droit de compromettre la survie de sa famille. Fais ce que ton cœur te dicte, mais fais toujours en sorte de ne pas compromettre les autres par tes décisions. Tu m'entends bien Pepe, agis toujours avec honnêteté et cohérence “. La conscience enfin libre, "ayant obtenu l'autorisation du seul homme dont je reconnaissais l'autorité sur ma personne, ajoute José, j'adhérais au Front de la Jeunesse et je pouvais enfin porter ma première chemise bleue" ». Chef de centurie du Front de la Jeunesse, il entreprend alors des études de droit et est nommé chef du SEU (syndicat officiel des étudiants) du district universitaire de Murcie.

A la fin de l'année 1948, le père de José, qui vit cloîtré depuis plus de neuf ans, décide de sortir de sa cachette. Il prend le premier train pour Madrid. Grâce à l'amitié reconnaissante de gens qu'il a aidés pendant la guerre, il trouve du travail. Pendant deux ans et demi, il est employé dans un magasin de lampes électriques de la Puerta del Sol, puis dans une fabrique de conserves, sans jamais être inquiété. Mais un jour d'octobre 1951, son fils José, alors aspirant dans un régiment de Séville, apprend qu'il a été arrêté, victime de la dénonciation d'un employé renvoyé pour malversation.

José décide de tout mettre en œuvre pour aider son père. Au printemps 1952, un Conseil de Guerre est réuni. De nombreux témoins à décharge se succèdent à la barre. Tous expliquent que la conduite de l'accusé pendant la guerre a été irréprochable. Parmi eux, certains lui doivent même la vie. C’est le cas du professeur de droit commercial de l'université de Murcie, Salvador Martinez-Moya, qui a été sous-secrétaire à la Justice dans le gouvernement du radical Alejandro Lerroux. Inflexible, le procureur demande la peine de mort. Le jury se retire et délibère de longues minutes. Enfin de retour, la sentence tombe de la bouche du président: l'accusé est condamné à 30 ans de prison... mais, en raison des diverses remises de peine et des grâces accordées, il est immédiatement libéré.

Une fois ses études terminées, José intègre le cabinet juridique de Don Salvador Martinez-Moya, qui était un témoin capital dans le procès de son père. Les hasards de la vie font qu’il y est bientôt rejoint par le fils ainé de Federico Servet, le chef provincial de la Phalange dont son père avait voté la mort. « Je m'entendais très bien avec Ramón, écrit José. Nous ne parlions jamais de nos pères, mais nous savions la tragique relation qu'ils avaient eue. Ramón était très déçu de voir que l'Espagne s'éloignait de ce que son père avait rêvé. Finalement, il partit au Mexique et nous nous perdîmes de vue ». Intelligent et travailleur, José présente plusieurs concours de l’administration. C'est le début d'une fulgurante ascension. En 1964, le sous-secrétaire d'Etat aux finances fait appel à lui. Dix ans plus tard, il est sous-directeur général du ministère des finances.

A près de quatre-vingts ans, José Ataz Hernández, veut avant tout témoigner: « Ni moi, ni mes frères (dont un est aujourd’hui socialiste), n'avons jamais eu à nous réconcilier avec personne parce que personne ne nous a jamais dressés contre les autres. Au contraire, nous avons connu de très nombreux cas, discrets et anonymes, de générosité et de grandeur d'âme, qui seraient inconcevables aujourd'hui. Un exemple : lors de l'enterrement de mon père, Manolo Servet était présent. Manolo était un de mes amis du Front de la Jeunesse et le compagnon de travail de mon frère Joaquín. C'était le second fils de Federico, le jeune chef provincial de la Phalange de Murcie qui avait été condamné à mort avec la participation de mon père. Lorsqu'il s'approcha de moi pour me présenter ses condoléances et me donner une accolade, je dus faire un effort surhumain pour ne pas me mettre à pleurer »...

Témoignage de José Ataz
recueilli par Arnaud Imatz [Madrid, novembre 2006]
20/09/2011

Note de la rédaction:

(*) Arnaud Imatz, docteur d’état ès sciences politiques, diplômé d’études supérieures en droit, ancien fonctionnaire international à l’OCDE ; historien de la Guerre d’Espagne, il a publié de nombreux livres et articles sur ce thème.

Voir notamment :

Guerre d'Espagne : mémoire historique ou mémoire hystérique ?
Retour sur l'affaire des fosses du franquisme : Garzón, juge intègre ou prévaricateur ?

Correspondance Polémia – 25/09/2011

mercredi, 21 septembre 2011

José Javier Esparza - 'El libro negro de la izquierda española'

 

PD entrevista a José Javier Esparza - 'El libro negro de la izquierda española' - 17 mayo 2011

samedi, 20 août 2011

Dioses del panteon Astur

Dioses del panteon Astur
 
Me he animado a escribir un pequeño artículo sobre los dioses astures, nuestros amados dioses, olvidados, (pero no del todo) durante mucho tiempo bajo el cristianismo que fue introducido en Asturias allá por el siglo VII. Lo cierto es que muchos historiadores, ( y no tan historiadores) se han dedicado a negar el pasado celta de esta tierrina nuestra, apoyándose en que no hay documentos fiables que lo demuestren... (es que nosotros, los astures, siempre fuimos vagos para escribir) Bromas aparte, es cierto que no existe una documentación tan sólida como la que se cuenta para las costumbres, Historia y religión de los antiguos galos, pero negar la tradición céltica de Asturias así sin más es un poco bestia. Existe en esta tierra una controvertida polémica sobre el "asturianismo": por un lado, el nacionalista trasnochado, que defiende la oficialidad de un bable que solo se habla en bares (porque el auténtico bable se ha perdido) y por otro el antinacionalista miedoso, que, ante cualquier posible amenaza separatista, echa por tierra todo el pasado celta astur.

Afortunadamente, algunos historiadores de los de verdad, han sido conscientes en las últimas décadas de que toda aquella rica tradición no se perdió en el olvido (por eso dije que "no del todo") sino que permaneció latente en el arte, la mitología (xanes, nuberus, trasgos...) y en los topónimos, por ejemplo.

Hoy en día ya se sabe que existió un firme culto a un panteón astur... el único problema radica en si ese culto estaba asentado en cada comunidad, gentilicio y región, o si bien cada zona de Asturias tenía sus propios dioses. Se sabe que el culto a muchos de nuestros dioses fue "general", como es el caso de Lugh, o Taranos... Otros no está tan claro.

También se mantiene en pie la hipótesis de una organización religiosa... No basada en el druidismo, como ocurría en algunas regiones del centro de la Galia, pero sí que existieron sacerdotes, tanto de uno como de otro sexo. Una de las principales dificultades que se tiene a la hora de estudiar la religión astur, es que, como todos bien sabéis, no había templos que dejaran su testimonio. El culto a los dioses se practicaba en lugares abiertos, sobretodo al lado de arroyos y manantiales, cuevas, árboles...
Existen numerosos estudios sobre las funciones del panteón indoeuropeo, origen de las creencias celtas (supongo que todos sabréis ya que los celtas no son un invento irlandés, sino que llegaron desde Bielorrusia) y ya se ha demostrado que existe concordancia entre los datos sobre la cultura castreña gallega y esta tesis. Estas eran las funciones en la jerarquía divina de los pueblos indoeuropeos (Dumézil, 1966):

- Dioses protectores del poder político y sacerdotal

- Dioses protectores de los guerreros

- Dioses de la tercera función, la productiva: protectores de agricultores, ganaderos, etc.

En resumen: No se ha desvelado por completo TODO el intrincado sistema de culto de nuestros lejanos abuelos, pero ya tenemos unas piezas muy valiosas. Aquí os pongo ahora unos datos sobre nuestros dioses.

LUGH. El culto a Lugh, protector de la autoridad política, está extendido por toda Europa. La mitología irlandesa se ha currado bastante la imagen de Lugh... Aquí los romanos, efectivamente, lo asimilaron con el dios Mercurio... Pero hoy en día sabemos que no tenía nada que ver el uno con el otro. Para todos aquellos que duden de la presencia de Lugh en nuestras tierras hispanas, que piensen en topónimos: Lugo, Lugo de Llanera, Lugones... Un pequeño paréntesis: La organización social astur se basaba en una agrupación de "gentilidades". Una gentilidad, (o tribu, más o menos) era la agrupación de los descendientes de un antepasado común; compartían entre ellos unas tierras, y contaba con la presencia de un jefe o consejo, que era electo. Un grupo de gentilidades se agrupaba en torno a un "pueblo", o grupo étnico en general. En el mapa se puede ver... un poquito. ¿A qué viene el rollo? Uno de esos grupos étnicos eran los Luggones y se consideraban descendientes de Lugh.

TARANOS. Estrabón lo equiparó a Ares. Su culto extiende también a las Galias y a Germania. Su nombre quedó impreso en algunos topónimos de Asturias: Taraño, Taraña, Taranes, Tárañu... El geógrafo griego explicó (no está muy clara la veracidad) que los cántabros y astures celebraban hecatombes en su honor. A él estaba consagrado el caballo, el famoso asturcón, presente en toda batalla.

ARAMO. ¿Hace falta buscar derivados? Tenemos la Sierra del Aramo. Se le creía vinculado a un significado muy interesante, pero no muy específico: El cruce de caminos, una bifurcación, una decisión... (?)

TILENUS. Para los de León, que conocéis mejor que yo el Monte Teleno... El dios protector de la agricultura y la economía.

VINDONIUS. También relacionado con la riqueza material, en la Galia fue asimilado con el dios Apolo.

CERNUNNOS. Harto conocido también, creo que sobran las explicaciones. Se ha asimilado con la Sierra del Cermoño y Cermuñu. Cuando comenzaron a aparecer las primeras representaciones gráficas de Cernunnos, este era siempre representado sosteniendo un torque en la mano derecha y una serpiente en la izquierda. El torque de oro es un símbolo de poder y riqueza, mientras que la serpiente representa la Abundancia y la fertilidad.

Este es el que a mí me resulta más interesante... Al contrario que los británicos, aún no se ha adscrito un panteón femenino propiamente dicho. No hay testimonios de nombres como Morrigan, Freya, etc. Sin embargo, sí está testimoniada la existencia de la divinidad femenina. Solamente conozco un nombre:

DEVA. La traducción más literal para esta voz celta es, según el filólogo de la Universidad de Oviedo Martín Sevilla, es Diosa. El nombre Deva se relaciona con diversas corrientes de agua en Asturias: los ríos Deva, en Gijón, Deva también en Cangas de Onís y Deva entre Asturias y Cantabria. La Deva es el nombre de un islote en la desembocadura del Nalón, también. Y por lo que he oído, el culto a una Virgen en Deva (Gijón) con su correspondiente iglesia, etc. se fundamenta en el antiguo culto a la diosa que se practicó en ese lugar... hace mucho, mucho tiempo...
Sylvia V. M.

mardi, 19 juillet 2011

Himno de Artilleria Española

Himno de Artilleria Española

lundi, 18 juillet 2011

Himno deinfanteria espanola

 

Himno de infanteria española

jeudi, 02 juin 2011

Il vero problema per José Ortega y Gasset, è che la società non possiede più una morale

Il vero problema, per José Ortega y Gasset, è che la società non possiede più una morale

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]





Rileggere Ortega y Gasset è una operazione sempre attuale e sempre necessaria, poiché i pericoli della società di massa da lui evidenziati, nel suo saggio «La ribellione delle masse», sono ancora gli stessi, semmai più urgenti e minacciosi, benché l’opera del filosofo spagnolo sia stata scritta nell’ormai lontano  (lontano?)  1930.

Vale la pena di rileggerlo, dunque, perché egli è stato uno dei non molti autori che hanno saputo cogliere in pieno il fenomeno degenerativo dell’uomo moderno, dell’uomo-massa, quando ancora buona parte degli intellettuali europei si attardavano a ragionare sull’uomo secondo categorie ottocentesche o, addirittura, settecentesche, vale a dire illuministe e piattamente, acriticamente ottimiste, fiduciose nei due talismani della democrazia e del progresso - inteso, quest’ultimo, essenzialmente come aumento quantitativo dei beni e dei servizi e come perfezionamento dell’apparato tecnico-industriale.
Ma è opportuno saperlo rileggere liberamente, senza addentrarsi specificamente nel processo del suo pensiero storico e sociologico e senza fare, pertanto, della filologia filosofica; è opportuno rileggerlo con la consapevolezza di cittadini del terzo millennio, che sanno di non avere più molto tempo a disposizione, perché la situazione si è di molto aggravata in questi ultimi ottant’anni e il tempo per correre ai ripari è ormai quasi scaduto.
Anzitutto, Ortega y Gasset non teme di distinguere la categoria della vita nobile da quella della vita volgare: caratterizzate, la prima dal concetto di forza, la seconda da quello d’inerzia; per concludere che il mondo moderno, il mondo dell’uomo-massa, si svolge ormai all’insegna dell’inerzia e, quindi, della vita volgare.
Dai suoi tempi, il democraticismo rozzo e petulante ha fatto passi da gigante e il solo parlare di “vita nobile” e di “vita volgare” suscita una reazione istintiva non solo negli intellettuali, tutti debitamente progressisti e democraticisti, ma anche nelle persone comuni e illetterate, perché sa maledettamente di aristocratico; e ormai il cliché dell’aristocrazia come di una forza sociale obbrobriosa, che ha sfruttato il sangue del popolo per secoli e millenni, si è definitivamente insediato nell’immaginario collettivo e tutto ciò che sa di aristocratico provoca, nel migliore dei casi, fastidio e irritazione.
Poco importa se “aristocratico” significa, alla lettera, “il migliore”, e se tutti i filosofi più grandi, a cominciare da Platone, hanno sempre sostenuto che la società dovrebbe essere guidata dai migliori: ormai il credo democratico, secondo il quale tutti gli uomini sono uguali non solo nei diritti, ma anche nelle capacità e nello spirito di dedizione al bene comune, ha diffuso universalmente l’dea che non deve esservi nulla di “nobile” che si distingua da ciò che è “plebeo”, perché tutto deve essere uguale a tutto e nessuno deve poter emergere: pena, il vedere vanificata la “sacra” Rivoluzione francese e ristabilito l’odioso Ancien Régime.
In base al Pensiero Unico democratico, oggi imperante, non si può dire che esistono cose volgari, idee volgari, persone volgari: bisogna proclamare otto volte al giorno che tutti sono ugualmente nobili, confondendo in maniera marchiana la pari dignità e, in ultima analisi, la sacralità di ogni anima umana, con ciò che, poi, i singoli individui decidono di fare della propria vita; confondendo, cioè, la nobiltà della natura umana, quale essa può diventare a prezzo di impegno, lavoro e fatica, e la pretesa nobiltà di ogni comportamento umano, fosse pure il più volgare, il più vile, il più spregevole.
Dunque, diciamolo forte e chiaro: non tutte le esistenze umane sono spese all’insegna della nobiltà; molte, al contrario, sprofondano, sovente per una libera scelta, nel fango dell’abiezione, dell’egoismo distruttivo, della malvagità intenzionale.
Non è vero che tutte le filosofie sono uguali; che tutti i comportamenti umani si equivalgono; che l’importante è sviluppare pienamente la propria libertà, concepita come arbitrio individuale e come assenza di obblighi e di doveri; non è vero che tutte le verità hanno lo stesso valore, che ciascuno è padrone di stabilire e perseguire la propria personale verità; e non è vero che spendere la propria vita nella ricerca esclusiva del piacere e del potere è la stessa cosa che spenderla per conseguire saggezza, consapevolezza e rispetto del bene universale.
Qui c’è un grosso equivoco da chiarire, una volta per tutte; un equivoco che è stato alimentato ad arte: se è vero, infatti, che ogni vita merita amore e rispetto (e non solo quella degli umani, ma anche delle creature non umane), è altrettanto chiaro che non meritano lo stesso rispetto tutte le forme in cui la vita si realizza: quella dello spacciatore di droga, ad esempio, o dello sfruttatore di donne, non merita certo lo sesso rispetto di quella di colui che vive cercando di aiutare il prossimo e rispettare il più debole.
Anche se possiamo immaginare che dietro una vita mal spesa vi siano, a loro volta, dei tristi precedenti di ignoranza e, forse, di violenza, ciò dovrebbe indurre alla compassione, ma non alla confusione del giudizio morale: il fatto che un violentatore pedofilo abbia, magari, subito a sua volta degli abusi sessuali quand’era piccolo, dovrebbe insegnarci a non giudicare con troppa facilità, ma - d’altra parte - non può e non deve diventare una ragione per l’indifferentismo etico, per il permissivismo e per una colpevole indulgenza nei confronti del male.
Soprattutto, non dobbiamo esitare a chiamare le cose con il loro nome e, quindi, a dichiarare che una vita spesa a vantaggio del bene è una vita nobile e degna di essere portata ad esempio, mentre una vita all’insegna dell’egoismo e della prevaricazione è volgare e chi la pratica non merita alcuna considerazione, alcuna tolleranza, alcuno sconto, fino a quando non decida di ravvedersi, di riparare al male fatto e di espiare le proprie colpe.
Secondo l’analisi di Ortega y Gasset, noi siamo anzitutto ciò che il nostro mondo ci invita ad essere: e il mondo moderno, il mondo dell’uomo-massa, ci invita continuamente ad essere delle volgari nullità, preoccupate solo di saziare il ventre e i bassi appetiti e di esercitare una qualche forma di potere o di autorità sui nostri simili, non in base a dei meriti effettivi, ma unicamente in base alla furbizia, al cinismo e alla mancanza di scrupoli.
Si è instaurata, nel corso dell’ultimo secolo, una vera e propria pedagogia alla rovescia, una vera e propria selezione dei peggiori, ai quali si aprono tutte le strade dell’affermazione sociale, del predominio culturale e del potere economico e politico; selezione dei peggiori che si regge sulla menzogna democraticista, secondo cui tutti gli uomini possiederebbero uguali meriti e uguali competenze e tutti sarebbero degni di uguale stima, purché si adattino perfettamente al modello etico, politico e culturale dominante.
La civiltà dell’uomo-massa ha prodotto addirittura una apposita scienza, la psichiatria, per “normalizzare” sempre più gli individui potenzialmente ribelli e per omologare, appiattire, spogliare di ogni originalità, tutti i suoi membri; una scienza il cui braccio armato, la psicoanalisi freudiana, funziona come una solerte forza di polizia mentale, il cui scopo è persuadere l’individuo che non vi è pace se non nel fare propri tutte le dottrine, tutti i comportamenti, tutte le aberrazioni della cosiddetta “civiltà”, a cominciare dalle sue stesse, deliranti teorie psicologiche sul padre, sull’invidia del pene, sull’incesto, su Dio e sulla nascita delle nevrosi.
In luogo di un individuo creativo, che offre ai suoi simili la ricchezza del suo pensiero e delle sue emozioni, la società moderna tende a riprodurre individui grigi e conformisti, non importa se ammantati delle vesti ridicole dell’anticonformismo di massa; individui stanchi e rassegnati, che non si meravigliano più di nulla, che credono solo nella religione della scienza materialista e del progresso quantitativo; bambini che, a sei anni, sembrano già dei vecchietti vissuti e annoiati, senza spontaneità, senza fantasia, senza gioia e senza occhi per vedere la bellezza del mondo e per gioirne e provarne gratitudine.
Ora, secondo Ortega y Gasset, per la prima volta dalla notte dei tempi, la storia d’Europa appare affidata alla decisione dell’uomo volgare; o, in altri termini, per la prima volta l’uomo volgare, che, in passato, si lasciava dirigere, ora ha deciso di governare il mondo (ai tempi in cui scriveva il filosofo spagnolo, l’Europa dirigeva ancora il mondo).
Dunque, se prima esisteva un centro direzionale della vita politica europea, della sua economia, della sua cultura, ora non c’è più; al suo posto, vi sono una miriade di egoismi individuali, di presunzioni individuali, di ignoranze individuale, sorretti, chissà perché, dalla convinzione di essere legittimati da una filosofia dei diritti e, quindi, di esercitare un legittimo ruolo storico.
Il “bimbo viziato” della storia europea, il “signorino insoddisfatto”, è salito alla ribalta, rivendica i suoi diritti, pretende il suo spazio: è l’erede che si comporta esclusivamente come erede, colui che non ha dovuto faticare per guadagnarsi la propria posizione, ma sfrutta la fatica altrui e, in compenso, ha dei formidabili appetiti da far valere.
Il “bimbo viziato” della civiltà moderna è pieno di tendenze incivili; è, alla lettera, un nuovo barbaro, con l’aggravante che non sa di esserlo, ma pensa e si comporta, anzi, come se lui solo rappresentasse il concentrato di ciò che è “civile”; è l’uomo medio che si è insediato nel mondo della sovrabbondanza dei mezzi, che lui percepisce solo in senso quantitativo; e i cui orizzonti, le cui aspirazioni, la cui volontà non si dirigono mai verso la propria interiorità, che non esiste, ma unicamente verso il mondo esterno, che ritiene essere lì a sua completa disposizione.
L’uomo medio è, per formazione e per vocazione, uno specialista: non vede la complessità dei problemi, ma solo quel segmento di essi su cui può e vuole esercitare una competenza specifica, una forma di dominio; e il mondo moderno è, in sintesi, la barbarie dello specialismo eretto a sistema, dello specialismo svincolato da qualunque sistema di etica.
Lo Stato moderno è il risultato della tirannia dell’uomo massa che, per la prima volta nella storia, pretende di riferire ogni cosa a sé, non si lascia dirigere, non si lascia organizzare, non si lascia formare, ma esige che tutto s’inchini al suo numero, alla sua volgarità, al suo specialismo: uno Stato fuori controllo, senza un centro propulsore e senza un ideale; che nasce unicamente dalla somma matematica dei suoi componenti e che sta correndo chissà dove.
L’Europa ha dimenticato che l’uomo è una creatura costituzionalmente destinata a cercare e a seguire un’istanza di ordine superiore: ora come ora, le masse andate al potere non seguono altro impulso che il proprio meschino tornaconto immediato, e lo spacciano per interesse nazionale o, addirittura, sovranazionale.
Dato che lo Stato è essenzialmente una tecnica, una tecnica di natura politica e amministrativa, lo Stato moderno è diventato una mina vagante: lo dirigono dei “tecnici” altamente deresponsabilizzati e la società dovrà vivere in funzione dello Stato, l’uomo dovrà vivere e lavorare per mantenere la macchina del governo.
Lo Stato, gigantesco parassita, succhierà dalla società ogni linfa vitale e finirà per paralizzare e irrigidire ogni manifestazione spontanea: sarà uno Stato di cui aver paura, uno Stato di polizia, il cui fine principale non consisterà più nella ricerca del bene pubblico, ma nel mantenimento di una burocrazia elefantiaca.  
Ancora: la politica degli Stati è il risultato di un’azione di comando; ma non c’è comando senza una istanza di ordine spirituale: il comandare è l’arte di dirigere le masse in una certa direzione, in base a determinati valori. Il rapporto tra chi comanda e chi obbedisce è la risultante di una situazione spirituale, nella quale vi è una condivisione della necessità che qualcuno comandi, e che questo qualcuno rappresenti un movimento dello spirito.
Invece nella società moderna nessuno vuole più obbedire, tutti vogliono solo comandare: e non per andare in una qualche direzione o per realizzare un’idea, ma solo per l’esercizio del potere in quanto tale.
I “piani quinquennali” dell’economia sovietica sono un buon esempio di questo comando della tecnica, di questo specialismo amorale, dell’uomo-massa che ha ridotto l’arte del governo a mero esercizio di una tecnica quantitativa; e, più in generale, il bolscevismo è l’ideologia corrispondente alla coscienza dell’uomo-massa, che non sa obbedire né riconoscere la propria natura inferiore, ma pretende di esercitare il potere in nome della massa in quanto massa, fatto inaudito e mai verificatosi nella storia dell’umanità.
Il cuore del problema della modernità, per Ortega y Gasset, è, pertanto, lo smarrimento della morale: la civiltà moderna, che è la civiltà delle masse in rivolta, rifiuta ogni etica dei doveri, dunque ogni etica tout-court, anche se non ha l’onestà intellettuale di dichiararlo apertamente e si gingilla con le parole.
La mancanza di una morale è la mancanza di una istanza superiore, la perdita di un’idea, di un principio rispetto al quale gli uomini si sentano legati, vincolati, obbligati: da quando trionfa l’Europa dei “diritti”, gli obblighi sono caduti e ciascuno ha delle pretese da far valore, ma nessuno è disposto a sottoporre la propria libertà a dei limiti, se non - come appunto nel bolscevismo - in vista di un aumento della forza materiale delle masse, che consenta loro di prendersi una “storica” rivincita sulle classi egemoni.
Soffermiamoci sulla questione dell’oblio della morale.
Scrive José Ortega y Gasset nell’ultimo capitolo del suo classico «La ribellione delle masse» (titolo originale: «La rebelión de las masas»; traduzione italiana di Salvatore Battaglia, Bologna, Società Editrice Il Mulino, 1962, pp.152-154), intitolato «Il vero problema»:

«Questo è il problema: l’Europa è rimasta senza morale. Non è che l’uomo-massa disprezzi la morale antiquata a vantaggio di un’altra che s’annunzia, ma è che il centro del suo regime vitale consiste precisamente nell’aspirazione di vivere senza sottoporsi a nessuna morale. Non è da prestar fede a nessuna parola quando si sentono parlare i giovani di “nuova morale”.Nego recisamente che esista oggi in qualunque angolo del continente un qualsiasi gruppo informato da un nuovo “ethos”che abbia sembianze d’una morale. Quando si parla di “nuova morale”, non si fa altro che commettere una immoralità di più e tentare il mezzo più comodo per compiere un contrabbando.
Per questa ragione sarebbe un’ingenuità rinfacciare all’uomo d’oggi la sua carenza di moralità. L’imputazione lo lascerebbe senza disagio e, anzi, lo lusingherebbe. L’immoralismo è arrivato a un prezzo molto basso, e chiunque ostenta di esercitarlo.
Se mettiamo da parte - come si è fatto in questo saggio - tutti i gruppi che significano sopravvivenza del passato - i cristiani, gli “idealisti”, i vecchi liberali, ecc. - non si troverà fra tutti quelli che rappresentano l’epoca attuale la cui altitudine dinanzi alla vita non si riduca a credere che gli spettino tutti i diritti e nessun obbligo. È indifferente che si mascheri di reazionario o di rivoluzionario: per modi attivi o per vie passive, alla fine, il suo stato d’animo consisterà, in maniera decisiva, nell’ignorare ogni obbligo e nel sentirsi, senza che egli stesso sospetti perché, soggetto di illimitati diritti.
Qualunque sostanza che cada su un’anima siffatta darà lo stesso risultato, e si tramuterà in un pretesto per non sottoporsi a nulla di concreto. Se si presenta come reazionario o antiliberale, sarà per poter affermare che la salvezza della patria, dello Stato, dà diritto a mortificare tutte le altre norme e a far violenza al prossimo, soprattutto se il prossimo possiede una personalità eminente. Però si verifica lo stesso se gli capita d’essere rivoluzionario: il suo apparente entusiasmo  per l’operaio manuale, per il miserabile e per la giustizia sociale, gli serve da travestimento per potersi disciogliere da ogni obbligo - come la cortesia, la veridicità e, soprattutto, il rispetto e la stima degli individui superiori. Io so di non pochi che sono entrati in questo o quel partito operaio non per altro che per conquistare dentro se stessi il diritto di disprezzare l’intelligenza e di risparmiarsi gl’inchini dinanzi a lei. In quanto alle altre “dittature”, abbiamo già visto come allettino l’uomo-massa schiacciando tutto quanto sembrava eminente.
Questa repellenza per ogni obbligo spiega, in parte, il fenomeno, fra ridicolo e scandaloso, che si sia fatta ai giorni nostri una piattaforma della “giovinezza” come tale. Forse l’epoca nostra non presenta un tratto più grottesco di questo. Le persone, goffamente, si dichiarano “giovani” perché hanno udito che il giovane ha più diritti che obblighi, una volta che può rimandare l’osservanza di questi ultimi fino alle calende greche della maturità. Sempre il giovane, come tale, si è considerato esentato di fare o di aver già fatto “imprese”. Sempre è vissuto di credito. Questo è insito nella natura dell’uomo. Era come un falso diritto, fra ironico e tenero,  che i non giovani concedevano ai ragazzi. Però è stupefacente ch’essi ora lo assumano come un diritto effettivo, e precisamente per attribuirsi tutti gli altri che appartengono soltanto a chi abbia fatto già qualcosa.
Per quanto sembri menzogna, si è giunti a fare della gioventù un “chantage”. In realtà, viviamo in un tempo di “chantage” universale che assume due forme di smorfia complementare:  c’è lo “chantage” della violenza e lo “chantage” dell’umorismo. Con l’uno o con l’altro si tende sempre alla stessa cosa: che l’inferiore, che l’uomo volgare possa sentirsi esentato da ogni disciplina.
Perciò, non bisogna nobilitare la crisi attuale considerandola come il conflitto  fra due morali o civiltà, l’una caduca e l’altra albeggiante.  L’uomo-massa manca semplicemente di orale, che è sempre, per essenza,  sentimento di sottomissione a qualcosa, coscienza di osservanza e di obbligo. Però forse è un errore dire “semplicemente”. Perché non si tratta soltanto del distacco di questo tipo di creatura dalla morale. No: non rendiamogli così facile la sua fatica. Dalla morale non è possibile affrancarsi senz’altro. Ciò che con un vocabolo perfino difettoso dal lato grammaticale, si chiama “amoralità” è una cosa che non esiste. Se non ci si vuole affidare ad alcuna norma, bisogna pure, si voglia o no, sottostare alla forma di negare ogni morale: e ciò non +è amorale ma immorale. È una morale negativa che conserva dell’altra la forma vuota.
Come si è potuto credere nella “amoralità” della vita? Senza dubbio, perché ogni cultura e la civiltà moderna conducono a questa convinzione. Adesso l’Europa raccoglie le peno0se conseguenze della sua condotta spirituale. Si è gettata senza riserve nella direzione d’una cultura magnifica ma sprovvista di radici…»

“Chantage”, ricatto: come aveva saputo vedere avanti Ortega y Gasset, benché scrivesse quasi un secolo fa, quando ancora non esistevano né la bomba atomica, né la televisione, né il computer, né il telefonino cellulare.
È il ricatto del democraticismo volgare, secondo il quale nessuno può essere ricondotto sotto l‘etica dei doveri, perché, prima, ciascuno ha un lunghissimo elenco di diritti da far valere; per cui, ad esempio, nessun figlio può essere “costretto” dai genitori a mettersi a studiare seriamente, oppure a cercarsi un lavoro, perché, prima, la famiglia ha il dovere di mantenerlo per tutto il tempo che lui deciderà necessario per terminare gli studi o per trovarsi, appunto, un lavoro, magari a trenta, a quaranta anni compiuti: e ciò con la benedizione del legislatore e con la solerte protezione del giudice e delle forze dell’ordine.
È il ricatto per cui non si possono chiudere le frontiere a milioni di migranti che sbarcano sulle nostre spiagge, perché essi fuggono da situazioni di difficoltà, talvolta (ma non sempre) di pericolo, quindi hanno il “diritto” di essere accolti, di essere sfamati, di essere sistemati, di avere un lavoro e di ottenere la nostra cittadinanza, compreso il diritto di voto, nel giro di pochi anni; anche se il lavoro non c’è nemmeno per noi e i nostri figli; anche se i nostri nonni, quando emigravano in cerca di pane, non irrompevano oltre le frontiere altrui, ma si presentavano disciplinatamente e chiedevano di essere accolti in prova, rispettando la condizione di avere un contratto di lavoro e di rigare dritto come lavoratori-ospiti.
Senza una morale, nessuna società va lontano; ma può anche succedere, come è il nostro caso, che la vecchia morale, bandita perfino dai libri di scuola (proibito, ormai, parlare delle radici cristiane dell’Europa: sarebbe un delitto di lesa maestà del laicismo massonico), venga usata come una clava per ricattare le coscienze e per far valere la pretesa di sempre nuovi diritti da parte di sempre nuovi soggetti.
Senza che si parli mai dei corrispondenti doveri…


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samedi, 28 mai 2011

José Ortega y Gasset et le politique éminent

José Ortega y Gasset et le politique éminent

par Arnaud Giraud

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José Ortega y Gasset (1883-1955) vient juste après la « génération de 1898 » – Azor, Baroja, Benavente, Ruben Dario, Unamuno… -, tous ces jeunes écrivains rebelles qui aspirent à la renaissance de l’Espagne.

Il naît à Madrid dans une famille bourgeoise très impliquée dans la vie littéraire et artistique. Formé par les Jésuites, il perd la foi très tôt et suit un cursus universitaire qu’il double d’une carrière journalistique. Il rompt ses premières lances avec Miguel de Unamuno, en désaccord sur l’«essence de l’Espagne », la nature exacte du « casticisme », de l’âme espagnole. Ortega y Gasset s’ouvre à l’Europe en fréquentant les universités allemandes. Séduit dans un premier temps par le kantisme puis lecteur de Nietzche, il se rapproche des phénoménologues (Husserl) et, un peu plus tard de Heidegger, de six ans son cadet.

Ce qui nous retient ici est beaucoup moins son « ratiovitalisme » qu’il résume en un phrase : « Le vital est le concret, l’incomparable, l’unique… », moins sa métaphysique qui joue aux lisières de l’essentialisme et de l’existentialisme que son analyse spectrale du temps et de l’espace européens. Les huit volumes d’essais regroupés sous le titre « El Espectador » (Le Spectateur), les articles de la « Revista de Occidente » (1923-1936) mettent en scène la presque totalité des cultures européennes passées et présentes. Cette prolixité est servie par une érudition hors du commun, un style incisif et raffiné qui joue de l’allégorie, de la métaphore.

Théoricien et acteur de l’éducation qu’il veut soustraire à la férule cléricale, Ortega y Gasset fonde en 1913 la Ligue d’Education politique. Il s’agit d’armer la jeune génération en l’ouvrant à la modernité. La montée simultanée du communisme et du fascisme conduit Ortega y Gasset à écrire son essai le plus connu : « La Révolte des masses » (1930). C’est là une ample réflexion sur l’impact grandissant de la technique sur la « culture moderne ». Mais c’est aussi un appel aux Européens pour qu’ils relèvent le défi lancé par l’U.R.S.S. engagée dans un plan quinquennal « titanesque » pour bâtir une « énorme économie ». Avec cet avertissement :

« Si l’Europe, en attendant, persiste dans le vil régime végétatif de ces dernières années, les nerfs amollis par le manque de discipline, sans projet de vie nouvelle, comment pourrait-elle éviter l’effet de contamination d’une entreprise aussi imposante ? C’est ne pas connaître l’Européen que d’espérer qu’il puisse entendre sans s’enflammer cet appel d’un nouveau « faire » alors qu’il n’aura rien d’aussi « actif » à lui opposer. »

Engagé dans les débats qui déchirent l’éphémère république espagnole (1931-1936), Ortega y Gasset finit par s’en détacher. A titre privé, il penche pour les nationalistes puis préfère quitter l’Espagne. Il n’y revient qu’en 1945, suspect à la fois aux yeux de la dictature franquiste et de l’opposition républicaine.

La pensée politique d’Ortega y Gasset va à rebours des poncifs actuels. Trop vite définie comme libérale (après Tocqueville, avant Aron), elle repose sur une conception exigeante et même hautaine de l’Histoire :

« J’ai dit, et je le crois toujours, chaque jour avec une conviction plus énergique, que la société humaine est toujours aristocratique, bon gré, mal gré, par sa propre nature ».

Lorsqu’il ausculte l’«archétype du politique » et qu’il se penche aussi bien sur Mirabeau que sur César ou Napoléon, il est fortement conseillé aux âmes sensibles de s’écarter. Puisque, d’abord, il ne faut pas confondre l’archétype et l’idéal : « Les idéaux, ce sont les choses comme nous estimons qu’elles devraient être. Les archétypes, ce sont les choses selon leur inéluctable réalité. »

Modèle d’archétype de « politique éminent » : Mirabeau. Un mauvais sujet, certes, qui déborde d’excès et de désordres dans sa vie privée et sociale mais aussi un politique puissant et inspiré. Tout simplement parce qu’il se bat pour une politique nouvelle dont l’objectif est la monarchie constitutionnelle. En toute lucidité, parce que c’est le moins mauvais des choix. Ce « libéralisme démocratique », Mirabeau en voit « dans tout son développement futur  la futur nouvelle politique et il voit même au-delà : il voit ses limites, ses vices, sa dégénérescence et jusqu’aux moyens de la discréditer… »

Mirabeau est sans doute profondément immoral, vénal, mais le projet l’emporte sur l’homme. A Joseph-Marie Chénier (le cadet du poète guillotiné) qui proclame : « Il n’y a point de grand homme sans vertu », à Robespierre qui veut tout assujettir aux « principes immortels », Mirabeau oppose sa détermination qui ne s’embarrasse pas des moyens. Ortega y Gasset nous demande de ne pas scruter le grand homme avec le regard du valet de chambre qui en décompte les « petits vices » et toutes les « petites vertus » qui lui font défaut.

Antonio Machado, G. Marañón, José Ortega y Gasset, Ramón Pérez de Ayala

Le grand politique est tout, sauf pusillanime, il en est le contraire : C’est un « magnanime »… un homme qui a une mission créatrice : vivre et être, c’est, pour lui, faire de grandes choses, produire des œuvres de grand calibre. » Alors que « le pusillanime (…) n’a pas de mission ; vivre c’est pour lui simplement exister pour soi, se conserver soi-même, c’est aller parmi les choses qui se trouvent déjà là… »

Ortega y Gasset s’emploie à opposer le politique éminent au « petit gouvernant commun ». Le plus grand : César, paradigme du Politique, comparé à Marius, Pompée, Marc Antoine, « splendide série de fougueux animaux humains (auxquels) il manque à tous la petite flamme de Saint Elme que produit sur les cîmes la combustion de l’esprit. Aucune vision, aucune prévision chez eux. Ils sont d’énormes automates sous le poids du Destin. Le Destin ne tombe pas du dehors sur César, il est en lui, c’est lui qui le porte et qui est le Destin. »

Lorsqu’il  se penche sur l’Espagne et sur l’Europe de son temps composée de « peuples très vieux, et la vieillesse se caractérise par l’accumulation des organes morts, des matières cornées… », Ortega y Gasset ne cache pas son inquiétude. En 1927, il n’identifie pas de « politiques éminents », ni chez les successeurs de Lénine, ni le Mussolini qui pactise avec le vieil ordre social. Plus tard, au tournant du siècle, les grands tyrans lui inspirent une vive répugnance.

Pour lui, la marque du grand politique tient à sa disponibilité d’esprit lorsque, plongé en pleine tourmente, il peut encore distraire son esprit et l’ouvrir à d’autres champs de réflexion et de création. Marc Aurèle sur le limes composant ses réflexions morales, César écrivant un traité d’Analogie lorsqu’il traverse les Alpes pour conquérir la Gaule, Napoléon, en pleine retraite de Russie dictant à Caulaincourt le règlement de la Comédie française : « Quand un esprit jouit de son propre exercice et ajoute à l’allure obligée le saut luxueux – comme le muscle de l’adolescent qui complique la marche par le saut pour le pur plaisir de jouir de sa propre élasticité – ,c’est qu’il s’est complètement développé, qu’il est capable de tout comprendre. »

José Ortega y Gasset. Tabeau de Zuloaga

Lorsque Ortéga y Gasset publie, en 1930, « La Révolte des masses » il lui apparaît que les  politiques éminents se font plus rares et qu’ils cèdent la place à ceux qu’il appelle les « hommes vulgaires, les « hommes-masse » ou encore le « se?orito satisfait » qu’il dépeint ainsi :« Si l’on étudie la structure psychologique de ce nouveau type d’homme-masse (…) on y relèvera les caractéristiques suivantes : en premier lieu, l’impression originaire et radicale que la vie est facile, débordante, sans aucune tragique limitation ; de là, cette sensation de triomphe et de domination qu’éprouvera en lui chaque individu moyen, sensation qui, en second lieu, l’invitera à s’affirmer lui-même tel qu’il est, à proclamer que son patrimoine moral et intellectuel lui paraît satisfaisant et complet (…). Aussi – en dernier lieu – interviendra –t-il partout pour imposer son opinion médiocre, sans égards, sans atermoiements, sans formalités ni réserves… »

Sept ans plus tard, Ortega y Gasset préface la traduction française de « La Révolte des masses ». Il vit à l’écart de la guerre civile espagnole, n’ayant pu choisir entre la république et la junte de Burgos. Il réaffirme sa foi dans un « grand Etat national européen » mais déclare : « Les hommes d’esprit épais n’arrivent pas à concevoir une idée aussi déliée, aussi acrobatique, une idée où la pensée agile ne doit se poser sur l’affirmation de la pluralité que pour bondir sur la confirmation de l’unité, et vice versa. »

Faute d’agir, faute d’avoir vu un « politique éminent » surgir et s’imposer à l’Europe, Ortega y Gasset plaide pour un individualisme qui n’est en fait qu’une veille aristocratique, faite de « haute hygiène » et de « vie créatrice ». Une claustration factuelle non dénuée de grandeur mais qui ramenait le philosophe à sa position initiale de « spectateur ».

Armand Giraud pour Novopress France


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mercredi, 25 mai 2011

Ortega y Gasset: un européiste critique de la révolte des masses et de la désertion des élites

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Ortega y Gasset : un européiste critique de la révolte des masses et de la désertion des élites

par Arnaud IMATZ

Ex: http://www.polemia.com/

« “Avant moi le néant, après moi le déluge” semble être devenu la devise préférée d’une nouvelle classe dirigeante dont le style de vie est marqué par le rejet des valeurs communautaires, le mépris des traditions populaires, la fascination pour le marché, la tyrannie de la mode, le nomadisme, l'insatisfaction assouvie dans la consommation de la marchandise, l'obsession de l'apparence physique, le culte du spectacle, du succès et de la renommée. Ortega disait que la désertion des minorités n'est que l'envers de la révolte des masses. »
Polémia livre à ses lecteurs une belle analyse critique d’Arnaud Imatz consacrée à Ortega y Gasset et à la « Révolte des masses ». Nos lecteurs trouveront ci dessous la critique de l’œuvre maitresse d’Ortega y Gasset et en PDF (voir en fin d’article) l’intégralité de l’article d’Arnaud Imatz.
Polémia

La révolte des masses : une vision aristocratique de la société

Dans La rebelión de las masas Ortega soutient que la société, organisation hiérarchique normale et spontanée de la vie humaine, est fondée sur l'inégalité psycho-vitale des membres qui la composent. La société est toujours aristocratique parce que l'aristocratie n'est pas un État ou une classe mais un principe spirituel, indestructible par nature, qui agit dans le monde sous différente forme. « Une société sans aristocratie, sans minorité éminente, n'est pas une société ». L'homme exemplaire n'est pas un homme né avec des privilèges et des droits refusés aux autres, c'est simplement l'homme capable d'une plus grande vision et d'un plus grand effort que le reste du genre humain. C'est celui qui rejette les croyances et usages insatisfaisants, qui se rebelle pour construire et non pas pour détruire.

Avec une pléiade d'auteurs traditionalistes, nationalistes, conservateurs-révolutionnaires, anarcho-syndicalistes, libéraux et socialistes élitistes, Ortega partage une même confiance en la vertu des minorité « éclairées », « éminentes » ou « sélectives ». « Contrairement à ce que l'on croit habituellement, écrit-il, c'est l'être d'élite et non la masse qui vit "essentiellement" dans la servitude. Sa vie lui paraît sans but s'il ne la consacre au service de quelques obligations supérieures. Aussi la nécessité de servir ne lui apparaît-elle pas comme une oppression, mais au contraire, lorsque cette nécessité lui fait défaut, il se sent inquiet et invente de nouvelles règles plus difficiles, plus exigeantes qui l'oppriment ». La liberté c’est au fond la possibilité de choisir ses chaînes.

Pour Ortega, le nivellement par le bas à partir de l'élimination des meilleurs n'a rien à voir avec la démocratie. Il ne reflète au contraire que hargne et ressentiment. L'idée que l´égalité politique doit s'accompagner d'égalité dans tout le reste de la vie sociale est erronée et dangereuse. Une société vraiment démocratique doit tenir compte des différences individuelles pour ne pas sombrer dans le règne de la vulgarité et de la médiocrité.

L’homme masse

Selon Ortega, l'Europe traverse la plus grave crise que les nations, les peuples et les cultures puissent pâtir: la révolte des masses. L'homme-masse est un type d'homme qui apparait dans toutes les classes d'une société. Il représente à la fois le triomphe et l'échec de l'ethos bourgeois. C'est l'individu qui refuse toute forme de supériorité et se sent le droit inné d'exiger toutes sortes de commodités ou d'avantages de la part d'un monde auquel il n'estime ne rien devoir. Il ne se croit pas meilleur que les autres, mais il nie que les autres soient meilleurs que lui. C'est l'« homme moyen », qui « n'a que des appétits », « ne se suppose que des droits » et « ne se croit pas d'obligations ». C'est « l'homme sans la noblesse qui oblige ». C'est l'homme en qui « manque tout simplement la morale, laquelle est toujours, par essence, un sentiment de soumission à quelque chose, la conscience de servir et d'avoir des obligations ». A l'opposé de l'homme masse, Ortega affirme que l'homme noble ou exemplaire vit au service d'un idéal. Il est celui qui exige d'abord tout de lui même. « L'homme d'élite, dit-il, n'est pas le prétentieux qui se croit supérieur aux autres, mais bien celui qui est plus exigeant pour lui que pour les autres, même lorsqu'il ne parvient pas à réaliser en lui ses aspirations supérieures ».

Indiscipline des masses, démission des élites

Venons en enfin à son diagnostic de la crise historique que l'altération de la hiérarchie des valeurs et le désordre de la structure sociale manifestent. La raison en est double: d'une part, l'indiscipline des masses, d'autre part, la démission des élites. C'est parce que les minorités échouent dans leurs tâches d'orientation, d'éducation, de découverte et de direction que les masses se rebellent ou refusent toute responsabilité historique. Tôt ou tard l’aristocratie engendre une philosophie de l'égalité et la philosophie de l'égalité conduit au règne de nouveaux seigneurs.

Publié au début des années trente du siècle passé, La révolte des masses contient une étonnante et « prophétique » défense de l’Europe unie, communauté de destin dans laquelle les diverses nations peuvent fusionner sans perdre leurs traditions et leurs cultures. Ortega voit dans l’union de l’Europe la seule possibilité d’éviter la décadence, car le vieux continent a perdu son hégémonie historique au bénéfice des États-Unis et de l’URSS. Homogénéité et diversité sont, selon lui, les deux faces de la société européenne. L’Europe est à l’évidence une société plurielle, elle est une pluralité de peuples et de nations, non pas du fait d’inévitables flux migratoires, comme on le dit aujourd’hui, mais en raison de racines historico-culturelles. Pour Ortega, les racines européennes sont avant tout gréco-latines, chrétiennes et germaniques.

De la révolte des masses à la révolte des élites

Plus de soixante ans après la première publication de La révolte des masses, l'historien et politologue américain Christopher Lasch a complété et renouvelé la thèse d'Ortega y Gasset. Dans un ouvrage fondamental, The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy (La révolte des élites et la trahison de la démocratie) (1994), Lasch a montré que les attitudes mentales de l'homme masse sont désormais plus caractéristiques des classes supérieures que des classes moyennes et basses.(*) « Avant moi le néant, après moi le déluge » semble être devenu la devise préférée d’une nouvelle classe dirigeante dont le style de vie est marqué par le rejet des valeurs communautaires, le mépris des traditions populaires, la fascination pour le marché, la tyrannie de la mode, le nomadisme, l'insatisfaction assouvie dans la consommation de la marchandise, l'obsession de l'apparence physique, le culte du spectacle, du succès et de la renommée. Ortega disait que la désertion des minorités n'est que l'envers de la révolte des masses.

Arnaud Imatz
12/03/2011

(*) Le livre de Christopher Lasch a été traduit et publié en France en 1996 (voir : La révolte des élites et la trahison de la démocratie, Avant-propos de Jean-Claude Michéa, Castelnau-le-Lez, Climats, 1996).

Voir le texte intégral de l’analyse d’Arnaud Imatz :

Ortega y Gasset : un européiste critique de la révolte des masses et de la désertion des élites, en PDF en cliquant ici.

mardi, 17 mai 2011

Bijna 180 jaar contrarevolutie in Spanje

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Bijna 180 jaar contrarevolutie in Spanje

Ex: http://www.kasper-gent.org/

Het Carlisme is een Spaanse contrarevolutionaire en traditionalistische beweging ontstaan in 1833 als reactie tegen het verlichtingsdenken en de Franse revolutie. Directe aanleiding voor het ontstaan van de beweging was een Koningskwestie. De Carlisten zet zich af tegen ideeën als laïcisme, egalitarisme, rationalisme en individualisme. In deze zin is het Carlisme terug te vinden in de traditie van Joseph de Maistre.

De beweging had een grote invloed in de Spaanse politiek tot het einde van het regime van Francisco Franco in 1975. Het verdedigde het katholicisme en de monarchie in reactie tegen het liberalisme en het modernisme. Thans is het een buitenparlementaire beweging geworden.

Ontstaan en korte geschiedenis

Het Carlisme ontstond ten tijde van de Pragmatieke Sanctie van Ferdinand VII. Deze maakte hierin bekend dat zijn vader de Salische wet had afgeschaft. Deze oude wet stipuleerde een mannelijke erfopvolging van de Koningen. Omdat Ferdinand VII alleen dochters had wou hij deze wet zien verdwijnen, waardoor hij opgevolgd kon worden door zijn dochter (Isabella II) in plaats van zijn broer (Carlos). De laatstgenoemde accepteerde dit echter niet en riep zich in 1833, na de dood van Ferdinand VII, uit tot Koning van Spanje (Carlos V). Door deze koninklijke kwestie ontstond ook de naam ‘de Carlisten’: de reactionaire en katholieke aanhang van Carlos.

Hierna volgde een eerste periode in de Carlistische geschiedenis, een periode waarin men de macht voornamelijk langs militaire weg wou grijpen. Tijdens drie Carlistenoorlogen zouden de zonen van Carlos V de macht proberen grijpen. Na de derde Carlistenoorlog zou Carlos VII heel Noord-Spanje onder zijn Kroon verenigen. In 1874 zouden ze echter het onderspit delven tegen Alfons XII, de zoon van Isabella II. Hierbij werd de laatste afstammeling in mannelijk lijn van Carlos V vermoord, wat veel Carlisten er toe aanzette om Alfons XIII voortaan als legitiem koning van Spanje te erkennen.

Een ander deel van de beweging zette de strijd echter (niet-militair) verder, waarmee een tweede periode voor de beweging aanbrak. In deze periode (tot 1936) zouden ze zich omvormen tot een vreedzame politieke beweging. Xavier I was door de laatste afstammeling van Carlos V aangewezen als Koning en dus de rechtmatige troonsopvolger van Spanje. Zijn zoon Karel Hugo (I) trok zich politiek terug in 1979 en de huidige troonpretendent van Spanje is Sixtus Hendrik (I).

Een derde periode in de geschiedenis van de Carlisten begon in 1936 met de Spaanse burgeroorlog. De Carlisten streden aan de zijde van de overwinnende Falange en Francisco Franco. Op deze manier bleven ze tot het einde van het Franco-tijdperk een zeer significante rol spelen in de Spaanse politiek. Sinds het einde het regime in 1975 verloor de Carlistische beweging veel van zijn invloed en thans is het een buitenparlementaire groep worden.

Ideologie

Zoals reeds in de inleiding aangehaald is het Carlisme een contrarevolutionaire en traditionalistische beweging. Het zet zich af tegen de verlichtingsidee en de Franse revolutie met zijn vele uitwassen.

Het is echter moeilijk om een duidelijk ideologisch beeld te krijgen van de Carlisten. Als traditionalisten en monarchisten zetten ze zich immers af tegen het concept van ideologie als een drijvende politieke kracht. Tevens is er door de lange geschiedenis en het diverse publiek van volgelingen nooit echt een duidelijk ideologische lijn geweest.

carlistas.jpgEr zijn echter 4 begrippen die doorheen de geschiedenis van het Carlisme steeds terugkeren en duidelijk op de voorgrond staan: Dios, Patria, Fueros, Rey.

1) Dios (God). Carlisten zijn katholiek en zien het katholicisme als een fundamentele hoeksteen van Spanje, iets wat men ten allen tijde moet verdedigen (ook politiek). De Carlisten streven naar de verwezenlijking van de slogan ‘Christus Rex’, Christus Koning.

2)Patria (Vaderland).

3) Fueros (~subsidiariteit). Carlisten streven naar regionale autonomie en men ziet Spanje als een amalgaan van regionale gemeenschappen verenigd onder 1 Kroon.

4) Rey (Koning). Carlisten verwerpen het idee van nationale soevereiniteit en stellen dat alle soevereiniteit de Koning toebehoord. Deze macht is beperkt door de doctrine van de Kerk.

 

Op ideologische vlak vertonen de Carlisten veel overeenkomst met de Falangisten (bijvoorbeeld: sociaal conservatief en katholiek), maar toch zijn er aanzienlijke verschillen. Zo streven Falangisten naar sterke centralisatie binnen de staat, terwijl Carlisten voorstander zijn van regionale autonomie.

Tot de dag van vandaag inspireren Carlistische denkwijzen mensen in (voornamelijk Noord-) Spanje. Het regionalisme (niet te verwarren met separatisme!) blijft een belangrijk denkbeeld in het land. Een van de stichters van het Baskisch nationalisme had een Carlistische achtergrond. Op 7 mei 2007 zei Mgr. Fernando Sebastián Aguilar, Aartsbisschop van Pamplona en Tudela, dat het Carlisme waardig was om publiek en electoraal ondersteund te worden.

 

Symboliek

De Carlisten gebruiken als vlag het Bourgondisch Kruis. Hun uniform bestaat uit een rode baret en hun (nationaal) lied is het Oriamendi.

Por Dios, por la Patria y el Rey
Lucharon nuestros padres.
Por Dios, por la Patria y el Rey
Lucharemos nosotros también.

Lucharemos todos juntos
Todos juntos en unión
Defendiendo la bandera
De la Santa Tradición.
(bis)

Cueste lo que cueste
Se ha de conseguir
Venga el Rey de España
A la corte de Madrid.
(bis)

Por Dios, por la Patria y el Rey
Lucharon nuestros padres.
Por Dios, por la Patria y el Rey
Lucharemos nosotros también.

 

vendredi, 13 mai 2011

Atapuerca desmiente la tesis del origen africano del hombre

Atapuerca desmiente la tesis del origen africano del hombre

Ex: http://www.idpress.org/

homoantecessorfacialbones.jpgLos hallazgos de la Sierra de Atapuerca (Burgos) podrían cambiar algunos de los paradigmas que, desde hace años, se mantienen sobre la evolución humana en el continente europeo. Mientras las teorías actuales defienden que hubo varias salidas de homínidos de África, y que éstos llegaron a Eurasia en diferentes oleadas, tras evolucionar en el continente negro, los últimos trabajos científicos desarrollados en la sierra burgalesa apuntan a que hubo una evolución euroasiática y una 'identidad europea' con características propias.

Así lo defienden José María Bermúdez de Castro, codirector de las excavaciones en Atapuerca y director del Centro Nacional de Investigación en Evolución Humana (CENIEH) y la paleontóloga, experta en dentición, María Martinón-Torres, en sendos artículos publicados en la revista 'Journal of Human Evolution'.

En sus trabajos, los investigadores analizan la mandíbula de hace 1,3 millones de años que se encontró en el yacimiento de la Sima del Elefante que se encontró en el año 2008 y que en un principio se atribuyó a un 'Homo antecessor', la misma especie que se encontró en el cercano yacimiento de la Gran Dolina, en este caso con unos 900.000 años.

Los investigadores, ahora, tienen serias dudas de que se trate de este homínido, dado que, aunque tienen características comunes, también detectan otras más primitivas y que lo relacionan con otras especies asiáticas, como el 'Homo erectus' . "Los homínidos de la Sima del Elefante adquirieron una identidad europea durante su viaje y estancia en el extremo occidental de Eurasia, que es la Península Ibérica", señala Bermúdez de Castro.

Para el paleontólogo, los resultados de este análisis concuerdan con un nuevo escenario evolutivo, según el cual sólo hubo una salida de África antes de la del 'Homo sapiens'. Por ello, y a la espera de nuevos fósiles, prefieren incluir la mandíbula como 'Homo sp', es decir, indeterminado.

Martinón-Torres, que hecho un estudio comparativo de los fósiles europeos y asiáticos del Pleistoceno medio e inferior, también está convencida de que los europeos tienen un mayor parentesco entre sí que los de origen africano.

Bermúdez de Castro, por su parte, apunta que este homínido pudo llegar a Atapuerca en una gran migración desde Asia Menor, donde se han encontrado fósiles de hace 1,8 millones de años (Dmanisi, en Georgia) diferente a la migración de la Gran Dolina, de la que les separan 400.000 años, o que pudo evolucionar en la sierra burgalesa durante todo ese tiempo.

Para comprobarlo, son necesarios más restos, pues hasta ahora sólo se cuenta con la mandíbula, un diente y parte de una falange de un dedo. Y por ello quieren construir un puente de unos 20 metros en la "Trinchera del ferrocarril". Con esta estructura, los paleontólogos podrían trabajar a mayor profundidad, hasta retirar los 30 centímetros de tierra que, según creen, ocultan más fósiles de hace 1,3 millones de años.

Rosa M. Tristán
elmundo.es

dimanche, 08 mai 2011

Indoeuropeos y no indoeuropeos en la Hispania preromana

Las poblaciones y las lenguas prerromanas de Andalucía, Cataluña y Aragón según la información que nos proporciona la toponimia. Ediciones Universidad de Salamanca. Salamanca 2000

El proceso de indoeuropeización de la Península Ibérica es uno de los problemas más complejos a los que, desde hace ya muchos años, se enfrentan tanto la Prehistoria como la Lingüística. Es tal la cantidad de elementos en juego y de cuestiones a resolver que no resulta difícil augurar que serán muchas las generaciones de arqueólogos, filólogos, historiadores de la religión y antropólogos que investigarán y debatirán sobre este campo.  El camino por recorrer es largo y, como es sabido, son pocos los puntos que han  sido firmemente establecidos y, en consecuencia,  aceptados por todos. No es este lugar para hacer balance de la cuestión: un muy breve resumen se podrá encontrar en un artículo que publicamos en un número anterior de Terra Nostra o una exposición mucho más detallada en la Parte V de otra obra del autor del que nos ocupamos aquí, Francisco Villar, Los Indoeuropeos y los orígenes de Europa, 2ª ed., Madrid 1996. Brevemente, recordaremos que parece clara la existencia de tres estratos lingüísticos indoeuropeos prerromanos: por un lado, el  correspondiente al Alteuropäisch, por otro, el de la lengua de las inscripciones lusitanas y, por último, el celtibérico, existiendo posiciones encontradas sobre la naturaleza de cada una y el tipo de relaciones que pudieran haber existido entre ellas.

Este ya de por sí complejo panorama se ha visto más complicado, si cabe, por la hipótesis que presenta F. Villar en esta obra. En efecto, a lo largo de sus casi 500 páginas el autor intenta demostrar, a través del análisis de una ingente cantidad de material lingüístico, la presencia en la Península Ibérica de un estrato lingüístico indoeuropeo diferente a cualquiera de los otros tres detectados hasta el momento, un estrato de rasgos muy arcaicos que de confirmarse atestiguaría que el proceso de indoeuropeización de la Península fue mucho más complejo y profundo de lo que  se había supuesto.

La obra comienza haciendo repaso de una serie cuestiones relativas a la Lingüística Comparada, en especial un alegato de la validez de su método y una descripción de sus características, para continuar con un amplio comentario de la historia de la investigación paleolingüística en España, desde los dislates del padre Astarloa hasta los autores contemporáneos como Gorrochategui o de Hoz, haciendo especial hincapié en la progresiva complejidad de las concepciones del substrato, desde el vasco-iberismo originario, tesis que no se cansa durante toda la obra de denostar, y con razón, hasta la identificación de los diferentes niveles actualmente admitidos: los ya mencionados indoeuropeos junto al vasco, tartesio, ibérico, etc.

Tras estos dos capítulos a guisa de introducción, se adentra en el examen del material recogido: topónimos, hidrónimos, antropónimos y etnónimos, material organizado en series en función de un componente principal que es estudiado en todos los aspectos filológicos posibles, tanto fonéticos como morfológicos, y del que ofrece su correspondiente distribución geográfica, tanto en la Península como en Europa, norte de África u Oriente Próximo. Así, uno a uno, van siendo analizados todos los elementos susceptibles de formar parte de este estrato, proponiendo el carácter indoeuropeo, entre otros, de los siguientes: uba-, relacionado con las raíces indoeuropeas para agua *ap, *ab, *up; ur, relacionado con el ide *(a)wer- / (a)ûr, agua, río, corriente; urc- con el ide *war- / *ur- más el sufijo ko; uc-, en el que se habrían reunido tres componentes diferentes: uko (diminutivo), uko (sufijo hidronímico que aparece en lituano) y un apelativo relacionado con ûkis (lugar de habitación) también presente en lituano, bai-, relacionado con el ide *gwhêi, brillar, etc. Al estudio de los elementos susceptibles de ser agrupados en series que califica de mayores sigue el de las series menores (tur-, turc- y murc-) y de aquellos, muy numerosos, que por su escasa aparición en las fuentes no pueden ser seriados, pero que responden a unas mismas características lingüísticas, así como el análisis de la antroponimia susceptible de ser relacionada con este estrato.

Una vez analizado el material, Villar se adentra en la caracterización de la lengua o lenguas responsables de esta hidronimia,  toponimia y antroponimia, llegando a la conclusión de que no corresponde a ninguna de las lenguas indoeuropeas conocidas, siendo imposible su identificación con ninguno de los tres estratos indoeuropeos conocidos en la Península por diferentes razones (aquí no podemos dejar de mencionar que en su obra mencionada anteriormente relaciona el elemento tur-, presente en nuestro Turia, con el Alteuropäisch pp. 507-509), y sosteniendo que este estrato presenta fuertes relaciones con las lenguas itálicas y con las bálticas, generalmente, aunque no siempre, en las innovaciones con las primeras y en los arcaísmos con las segundas.

Durante toda la obra, y mediante el estudio de la distribución geográfica de los testimonios de este estrato se va evidenciando una concentración de estos elementos en dos áreas principales: la meridional y la ibérico-pirenaica, como el autor las denomina, que se corresponden con el área que hasta ahora se consideraba no indoeuropea (baste recordar la famosa frontera de los briga-). Resulta evidente que las consecuencias de las propuestas de Villar pueden resultar revolucionarias para nuestra protohistoria. El autor es consciente de ello y en un último capítulo analiza algunos de los etnóminos del área ibérica (ilérgetes, indicetes, volciani, etc.) atribuyéndoles etimologías indoeuropeas relacionadas con el estrato objeto del libro (seguras para dieciséis entre veintitrés, aunque posiblemente sean más todavía), lo que implica un masivo substrato indoeuropeo en todo esta área (Aragón, Cataluña y norte de Valencia), pero, sin embargo, renuncia explícitamente a intentar explicar el mecanismo de entrada de estas lenguas, emplazando a arqueólogos y prehistoriadores a abordar esta cuestión. Lo que sí sostiene es la imposibilidad de relacionar los Campos de Urnas con esta toponimia debido a motivos distribucionales (son prácticamente inexistentes en Andalucía) y cronológicos (relaciona el topónimo Alube de la Ilíada con el Guadalquivir y con los hallazgos micénicos allí efectuados, lo que dataría este estrato con anterioridad a las penetraciones de esta cultura. Por otro lado, considera que la densidad de este estrato casa mal con unos «recién llegados» como los Urnenfelder). No obstante, no parecen argumentos excesivamente fuertes: Infiltración y transformación de la cultura material son fenómenos que a menudo van parejos y aunque en la actualidad se tiende a ver en las transformaciones del bronce final tartésico influencias mediterráneas, algunos de los nuevos elementos no dejan de estar relacionados con el ambiente de las urnas, aunque tampoco podemos dejar de señalar que se ha hecho responsable a influencias del Mediterráneo los elementos indoeuropeos presentes en el tartesio. Por otra parte, la relación del Alube homérico con la Península no deja de ser una conjetura toponímica, apoyada sobre conjeturas cronológicas y arqueológicas, y en cuanto a la excesiva densidad que pueda presentar un substrato depende más bien de la profundidad de la «limpieza étnica» que de la antigüedad del proceso. Todo esto, no obstante, no deja de ser un mero comentario ante la superposición de esta toponimia y los Campos de Urnas en el área nordoriental peninsular, que resulta bastante sugerente y ante la propia naturaleza lingüística del substrato (sobre todo la presencia de elementos compartidos con diferentes grupos del «indoeuropeo nordoccidental») que no deja de evocar constantemente las ideas de H. Krahe sobre el «estado líquido» (flüssige Zustand) del complejo de las urnas desde el punto de vista lingüístico. No obstante, evidentemente es todavía muy pronto para intentar elaborar hipótesis arqueológicas sobre esta cuestión.

Un punto que quizá llame la atención a quienes han seguido la labor de Villar es el escaso espacio dedicado al paleoeuropeo y a sus presuntas relaciones con este estrato recién descubierto. Ya que ambas son lenguas ciertamente arcaicas y siguen un modelo distribucional diferente, aunque muy determinado en ambas por los cursos de agua, cabría esperar un análisis comparativo de ambas lenguas que nadie mejor que Villar está en condiciones de realizar. Estamos convencidos de que no tardará en abordar este problema.

En definitiva se trata de una obra destinada a tener un gran eco entre los especialistas no sólo en paleohispanística sino también en indoeuropeística y que abre nuevos caminos para el conocimiento del pasado de nuestros pueblos.                                                                                                                          

 

Olegario de las Eras.        

dimanche, 01 mai 2011

Bataille de Rocroi - Film "Alatriste"

Bataille de Rocroi (1643) - Film "Alatriste"

vendredi, 29 avril 2011

La Cruz visigoda como labaro de la reconquista

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Por E. Monsonis

Ex: http://idendidadytradicion.blogia.com/

De entre los símbolos más importantes  utilizados durante los primeros tiempos de la Reconquista  destaca la cruz de brazos trapeciales e iguales, llegada a nuestros días como principal emblema heráldico de  Asturias, y primitivo lábaro de la reconquista,  adoptado por los reyes asturianos como emblema de la monarquía junto a otros modos y costumbres visigóticas «pues en mostrarse heredera de estos visigodos residía su más prestigiosa razón de ser».(1)

Es conocida por los historiadores e investigadores de esta parte de la historia la aspiración por parte de los monarcas asturianos de restablecer la continuidad visigoda en el naciente enclave, cuna de los posteriores reinos de León y Castilla que finalizarían la reconquista europea del territorio de la península ibérica a los moros, iniciado por sus antepasados de estirpe goda desde la primera llegada de aquellos. Ya uno de los primeros monarcas asturianos, Alfonso I, que reinó entre el 739 y el 756, quien fuera yerno de Pelayo –a su vez de la estirpe real de Kindaswindus, y espatario del rey Egik–, primer rey neogodo elegido al estilo germánico, elevándolo sobre su propio escudo  por sus más nobles guerreros, y que arrojó a los moros de Galicia y de León,  se vanagloriaba de ser de «stirpe regis Recaredi et Ermenegildi». Por su parte, su nieto Alfonso II afirmaba  en el Epítome Ovetense del año 883, también llamada CronicónAlbeldense«omnem gothorum ordinem sicuti Toleto fuerat, tam in ecclesiam quampalatio in Oveto, cuncta statuit» («todo el  orden de los godos tal como existió en Toledo quedó instituido en la Iglesia y la corte de Oviedo»), y es en dicha crónica tal como apunta Hernández Sáez en Las Castillas y León, teoría de una nación,  donde se califica también  a la relación de monarcas astures como «Ordo Gothorum OvetensiumRegum» («relación de los reyes godos de Oviedo»), pues como apunta Gonzalo Menéndez Pidal en su artículo «El lábaro primitivo de la reconquista»,  «en mostrarse heredera de estos visigodos residía su más prestigiosa razón de ser»(2). Por ello, los modos, costumbres, textos refundidos de la época toledana,  rituales  y símbolos visigodos se perpetúan en  Silos, Cardeña , San Millán y otros centros   durante los primeros siglos de la reconquista hispánica. Por su parte, en los nacientes reinos peninsulares –en todos, no sólo en el asturiano–,  el rito godo dentro de las costumbres religiosas continuó en vigor  hasta el año 1071 fecha en la que el legado del papa Alejandro II, Hugo, fue a San Juan de la Peña y en presencia del rey Sancho Ramírez de Aragón y de toda su corte, obispos y abades, celebró la primera misa pascual conforme al rito romano, originando con ello toda una reforma en la que fue preciso copiar miles de códices para asegurar la difusión de la nueva liturgia, sustituyéndose  la letra gótica, en vigor hasta esas fechas, por la carolina, y modificándose el calendario litúrgico y el santoral. También en el campo de la lingüística, la onomástica o el de  la legislación, o bien en el mundo de la literatura  de los nacientes reinos peninsulares permaneció un legado visigótico nada desdeñable. En definitiva, «la impronta visigoda está grabada en muchas instituciones medievales y en la epopeya castellana» (3). Y en esta campo, es la cruz cómo lábaro de la Reconquista, una importante seña de identidad de la monarquía visigótica que continuó como tal entre las aristocracias germánicas que iniciaron la reconquista tal como veremos a continuación.

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Tan sólo unos años antes de la batalla de Covadonga, la península ibérica en su totalidad se hallaba bajo el poder del reino visigodo de Toledo, y destacando entre los símbolos godos se encontraba la cruz, antiguo símbolo visigótico representado en numerosas ocasiones de una forma particular, normalmente con brazos iguales, tal como consta en los templos visigóticos de los antiguos reinos de Tolosa y Toledo, y quedando dicha cruz para la posteridad en los emblemas heráldicos de los diversos reinos y condados que devinieron durante la Edad Media procedentes del de Toledo. En la península ibérica, entre las piezas visigodas halladas en los tesoros de Guarrazar y Torredonjimeno  se cuentan nunerosas cruces votivas con inscripciones, presencia constatada también en el Liber Ordinum, o en importantes joyas artísticas como la corona de Recesvinto. García Volta, destaca en su obra El mundo perdido de los visigodos , la afición de este pueblo de depositar en los altares cruces junto a otros motivos artísticos (4). Sabemos además por otras fuentes documentales como dice Blanco Torviso, que junto a las representaciones geométricas, vegetales y zoomórficas –repetidas en el llamado «arte asturiano»– destacaban en los templos visigodos resplandecientes elementos suntuarios, «especialmente cruces y coronas votivas» (5). También Fernández Conde y Santos del Valle inciden en que «el mundo tardorromano y visigodo estaba mucho más cercano. Por eso, nada tiene de extraño que las grandes iglesias hispanogodas del siglo VII –San Juan de Baños de Cerrato, San Pedro de la Nave, Santa Comba de Bande, y hasta la misma Quintanilla de Viñas– presentan similitudes estilísticas notorias con la fundación de Silo en su corte asturiana» (6). Ya en tiempos del rey Don Favila, se levantó  sobre un dolmen en Cangas de Onís, una de las primeras iglesias cristianas tras la invasión musulmana,  llamándose precisamente de la Santa Cruz, observando con ello Besga Marroquín que «si la vinculación de la Santa Cruz con la monarquía asturiana es patente desde el reinado de Favila, no lo es menos con el pasado visigótico» (7), ya que según Menendez Pidal de Navascues, «de todos los pueblos germánicos, solo entre los visigodos se halla este uso de la cruz; (…).Tal signo o emblema de la monarquía visigoda se refuerza por su probable uso como enseña de las  milicias reales, llevada la cruz de modo visible, sostenida por el asta, uso que veremos continuado por la monarquía asturiana» (8), añadiendo Besga Marroquín, que «éste debe ser tenido como un elemento más que vinculado al naciente poder en Asturias con el elemento visigodo» (9)

 

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Por su parte el rey Alfonso II, «de quien el Epitome Ovetense dice que restauró los modos del Toledo visigótico, tanto en palacio como en la Iglesia», mandó labrar una extraordinaria cruz votiva con la forma usual entre los visigodos, es decir, brazos trapeciales e iguales, como los representados en Guarrazar, San Juan de Baños, el tablero de Alcaudete u otras muestras del arte visigótico. Es la conocida como Cruz de los Ángeles.

También Alfonso III ofreció a la recién construida basílica de Santiago otra cruz similar, ofrecimiento que se repite con sus descendientes Alfonso III y Ramiro II, ya en el 940.

Por ello, como indica Menéndez Pidal en el  trabajo citado «…las cruces conservadas “de los ángeles”, de Santiago y de la Victoria –o la llamada «cruz del secreto» tal como aparece figurada en un pilar visigodo, similar a la de la victoria, con el alfa y el omega– «se nos ofrecen como supervivencias que testifican de qué manera aquella costumbre visigótica, según la cual los reyes ofrecían como dones cruces preciosas a sus iglesias, siguió siendo practicada por los reyes asturianos deseosos de persistir en los modos toledanos» (10), costumbre que pervivirá al menos hasta el siglo XIII. Por su parte, el  Liber ordinum en sus diversas ediciones nos describe con todo detalle como el rey visigodo-asturiano era recibido por el obispo y el clero en la iglesia pretoriana, recepción en la que era protagonista la cruz como estandarte victorioso de combate, y en la que acabado el ceremonial los caballeros recibían de manos del sacerdote los estandartes. «De donde resulta que la cruz era lábaro de los reyes visigodos y lo siguió siendo de los asturianos, acorde con lo cual quedan bien justificadas las inscripciones de las cruces de Alfonso II y Alfonso III» (11).

Siguiendo a Menéndez Pidal conocemos que «La vieja tradición española parece haberse distinguido en ciertas peculiaridades: En Santa María de las Viñas un ángel y la figura central de un capitel, actualmente suelto, empuñan cruces de brazos trapeciales e iguales, en una de las cuales se ve claramente el mango que entesta con el pie de la cruz. Ambas van empuñadas con una sola mano y no con dos. En la miniatura de los Beatos, el Ángel de los Vientos marca a los elegidos con una cruz enmangada. Pero la más completa imagen de cómo este lábaro visigótico asturiano era llevado a la guerra, nos la da el estandarte de San Isidoro de León, que en pleno siglo XIII aún representa al santo de Sevilla galopando en corcel que monta con silla de guerra de altos borrenes llevando en la mano derecha una cruz gótica empuñada de igual modo a como lo hace el ángel visigodo de Santa María de Lara o el Angel de los Vientos en los Beatos mozárabes. Así se dice que apareció San Isidoro en el cerco de Baeza; así iría antes los reyes ovetenses o toledanos, el clérigo a quien el rey entregaba la cruz al partir para la guerra desde la Basílica pretoriana, centros ceremoniales donde el rey toma la cruz para partir a la guerra, , basílica en la cual se reunieron de 653 a 702 al menos seis de los grandes concilios toledanos, y en la cual fue ungido Wamba en el 672. Basílica pretoriana también se llamó en Toledo a la de Santa Leocadia. Llevarían título de pretorianas por ser las de la guardia real, por eso en ellas se celebraba la ceremonia de tomar el rey la cruz para la guerra .

Todavía de Alfonso III se refiere como encargó al conde Hermenegildo Gutierrez someter al rebelde Vitiza, y como le combatió con su gente y “cum omnibus militibuspalatii”. Esta militia palatii evidentemente ya no osaba llevar el titulo de pretoriana , pero sin duda quería heredar la tradición toledana, y por eso era tenida como nervio de ese ejército permanente que en tantas cosas se consideraba continuador de las tradiciones visigóticas. Esa basílica palatina tendría en Oviedo una basílica preferida para su ceremonial castrense», función no del todo reconocida, o bien semiocultada, en nuestros días por parte de la historiografía oficial, aunque la estructura y emplazamiento del monumento no deje de confundir a muchos historiadores y arqueológos. Sabemos por las crónicas del siglo IX que en Naranco construyó Ramiro I un edificio y una aula regia con baño, pero en ella además de la estancia que ha sido definida como baño existió un ara consagrada a Santa María en el 848 con uso circunstancial de lo que podríamos llamar basílica pretoriana o de la milicia palatina. Y es en  el interior de la sala principal de este interesante monumento, donde se pueden apreciar, tal como incluimos en las ilustraciones de este trabajo, la cruz de la que estamos hablando junto a otros motivos que nos remiten a simbologías solares guerreras. Cuando la visitamos, pensamos que no es difícil imaginar el interior de Santa María del Naranco ocupado por guerreros visigodos asturianos junto a su rey. No hay más que estudiar sus detalles con detenimiento. Definitivamente ni es un palacio ni una iglesia.

Por otra parte, siguiendo con Asturias también podemos detectar esta continuidad visigótica en los símbolos de la comunidad de lucha con voluntad de reconquista surgida en el primitivo reino astur, en todo cuanto hace referencia a la continuidad familiar o de linaje, no sólo en el caso de la familia real sino entre los más antiguos linajes asturianos, la mayoría de estirpe goda. Los símbolos de la cruz junto a otros no menos visigóticos como el águila aparecen pintados en numerosas muestras heráldicas de entre las más hidalgas familias asturianas. Tirso de Avilés en su obra Armas y linajesy antigüedad del principado nos habla de apellidos como Fonfría del que recoge «de Recaredo, rey godo, es cierto que descendía el linaje de Fonfría», o de los Noriega «Los de este linaje y apellido son buenos hidalgos, y tan antiguos que se tiene por cierto que vienen del infante Pelayo y se llamaban Infanzones antiguamente teniendo su solar en el valle de Riva de Sella en las Asturias de Santillana. Traen por armas las que tomó dicho infante cuando comenzó a echar a los moros de Asturias que son en azur una cruz que llevó como estandarte y bandera» (12) . Y es que, como afirma Jesús Evaristo Casariego, «viene Oviedo a la historia para ser cabeza de una gran empresa, impregnada de neogoticismo germano hispano, y por tanto, de catolicismo, de germanismo y de romanismo, es decir, de la cristiandad europea que estaba naciendo. Por algo (curiosa coincidencia) Oviedo viene a la historia al mismo tiempo que el imperio carolingio, otro de los creadores de Europa»(13).

Pero no será , de entre los enclaves surgidos de la España visigoda, el reino asturiano, el único en usar como lábaro y emblema de combate de la reconquista el símbolo de la cruz patada, también en Aragón se repite un proceso restaurador semejante al asturiano, y además la imagen con que tradicionalmente se representa  esa cruz en monedas y demás emblemas es de cruz griega con brazos trapeciales y enmanganado, un pequeño astil para empuñadura. Símbolo que se perpetúa en el actual escudo heráldico del reino de Aragón junto a cuatro cabezas de moro cercenadas y ensangrentadas, histórico emblema que cuando esto escribo, los representantes parlamentarios  aragoneses trabajan por eliminar, siguiendo el ejemplo del cabildo de Santiago, que renegó publica y vergonzosamente hace unos años de su santo patrón, Sant Yago Matamoros, patrón de la caballería neovisigótica en su lucha contra el invasor musulmán quien según la leyenda también portaba una cruz de similares características, emblema de una  importante Orden Militar castellana.

 

De igual forma es la cruz de Sobrarbe. «Todos ellos testimonios evidentes de lo enraizada que estuvo en toda la España cristiana la tradición visigoda, y como todos los focos de reconquista buscaban restablecer ese mismo lábaro que por una parte testimoniaba su fe ante el invasor y por otra justificaba su legalidad encadenándose a lo visigodo» (14).

 

Terminando con Gonzalo Menéndez Pidal recordemos que «La cruz como lábaro del ejército real fue adoptada por reyes de Asturias y Aragón (utilizada como emblema de León hasta el siglo XII y por Castilla hasta el XIII). Para ello hay que admitir una mínima continuidad, pues sólo los visigodos entre todos los pueblos germánicos, habían tenido la cruz por insignia; y el que las huestes asturianas se lanzasen al combate bajo el mismo estandarte de los ejércitos reales del Toledo visigótico, habla bien a las claras de cómo en Oviedo alentaba un ansia de continuidad. Las minuciosas rúbricas del Liber Ordinum seguían rigiendo las ceremonias con que en el aula regia del Naranco, a las afueras de Oviedo, se despedía al ejército reconquistador, igual que antes de la invasión musulmana habían regido la despedida del ejército hispanogodo en la basílica pretoriana de los arrabales toledanos.

 

Por eso Alfonso III traerá de su campaña toledana como preciado botín, una cruz con su lignum crucis; tal fue el lábaro de los reyes godos y tal reliquia había de constituir ahora el alma del regio lábaro alfonsí. Por eso, la cruz acabará figurando en Asturias (y por ende en León, Castilla, Aragón) como emblema real. Y por eso, según rúbrica visigótica se esculpirán protectoras cruces sobre regios palacios y fuentes. Porque en toda la vida de los renacientes reinos cristianos habrá constante deseo de mantener la peculiar tradición visigoda, y conforme prescribe el viejo Liber ordinum se seguirán ofreciendo coronas a los altares, y conforme a las mismas rúbricas se seguirá asistiendo a los moribundos. Y no acabaremos de comprender los marfiles de San Millán si olvidamos esto, porque aún la pintura y la literatura románica de los siglos XII y XIII seguían recordándolo.

 

Recordemos nosotros por tanto, ahora, como la Reconquista empezó siendo una empresa sentida como guerra visigótica, guerra con la que se deseaba restablecer la continuidad de una tradición toledana, y donde no se daba otra variante sino la de que antes del 711 los españoles impetraban de Dios» (15).

 

Los hijos del primitivo reino visigótico de Asturias, organizados luego en León y posteriormente en Castilla, como también los no menos originalmente visigodos de Aragón, Navarra y Cataluña, siguieron utilizando años después la cruz visigoda como lábaro en la Reconquista  europea de la península ibérica, constatando orgullosamente con ello al modo germánico cuales eran sus gloriosos orígenes, y cuales sus objetivos. La cruz fue sustituida por leones y castillos, las ceremonias y escritura visigótica fueron tenazmente abolidas por las autoridades religiosas desgotizadas, aunque no muchos otros modos y costumbres bien arraigadas en la población hispano-goda, pero las viejas piedras de los templos, los antiguos estandartes y las armas de los guerreros que hicieron posible la recuperación de la tierra que había sido del reino de Toledo  mantuvieron bien visible para el que quisiera verlo, cuales y de que origen fueron los símbolos que animaron la Reconquista. Símbolos que todavía hoy, ocultos entre la confusión y el olvido, nos muestran un legado y una herencia que algún día habrá que recuperar, para poder iniciar una cada vez más necesaria nueva Reconquista.

(1) Menéndez Pidal  Gonzalo. El  lábaro primitivo de la reconquista. En Varia Medievalia I. Real Academia de la Historia. Madrid 2003

(2) Menéndez Pidal. op.cit.

(3)La pesa, Rafael .Historia de la lengua española. Madrid 2001.

(4)García Volta, G. El mundo perdido de los visigodos. Ed.Bruguera. Barcelona 1977

(5)VV.AA. Historia del Arte. La Edad Media. Alianza Editorial. Madrid 2004.

 (6) Citado por, José Ignacio Gracia Noriega en Don Pelayo, el rey de las montañas. La esfera de los libros. Madrid 2006

(7) Besga Marroquín A., Orígenes hispano-godos del reino de Asturias. Oviedo 2000

(8) ) Citado por, José Ignacio Gracia Noriega en Don Pelayo, el rey de las montañas

(9) Besga Marroquín, A. op.cit.

(10) Menéndez Pidal. op.cit.

(11) Menéndez Pidal. op.cit.

(12) Avilés, Tirso de. Armas y linajes de Asturias y antigüedades del principado.Grupo Editorial Asturiano. Oviedo 1991El  águila  como figura heráldica aparece en los blasones de los linajes Portal, Moran, junto con la cruz, Busto, Pedrera, Fonfría, Estrada, Junco, Moniz, Riaño etc. Mientras que la cruz es pintada en las armas deAlfonso, Somonte, Cifuentes,Ordóñez, Caso, Noriega, Hevia «que no tienen sangre mezclada» o Ribero.

(fuente: Tirso de Avilés).

(13) Citado por, José Ignacio Gracia Noriega en Don Pelayo, el rey de las montañas. La esfera de los libros. Madrid 2006

 (14) Menéndez Pidal, G.

 (15) Menéndez Pidal, G.

mardi, 12 avril 2011

Legion cantando "Novio de la Muerte"

Semana Santa - Malaga 2008

Legion cantando "Novio de la Muerte"

 

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dimanche, 10 avril 2011

Europa am Ende

Europa am Ende

Michael Grandt

Immer neue EU-Krisengipfel, immer mehr Geld, das in das marode Euro-Währungssystem gepumpt wird und immer weitere europäische Länder, die vor dem Bankrott stehen. Doch unsere »Volksvertreter« wollen das alles nicht wahrhaben. Milliarden über Milliarden unserer Steuergelder versenken sie in einem Fass ohne Boden. Dabei ist eines klar: Der Euro und damit die EU sind am Ende.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/europa/michael-grandt/europa-am-ende.html

vendredi, 01 avril 2011

La Bandera Irlandesa del Tercio - 1936-1937

 

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La Bandera Irlandesa del Tercio, 1936-1937

por José Luis de Mesa, 1999

Ex: http://www.belliludi.com/

 

Autor de, entre otras obras, Los otros internacionales. Voluntarios extranjeros desconocidos en el Bando Nacional durante la Guerra Civil (1936-39), Barbarroja, Madrid, 1998.

Antecedentes

La sublevación del 17 de julio de 1936 y los acontecimiento que  se producen en nuestro país en los meses siguientes sobre todo en la zona denominada republicana y que muchas veces se concretan en la persecución y muerte de sacerdotes, monjas y fieles católicos por el simple hecho de serlo y en la destrucción de iglesias e imágenes tienen honda repercusión entre los habitantes de un pequeño país europeo, que había alcanzado hacía poco su independencia y que se encontraba unido al nuestro por relaciones multiseculares. Me refiero al Estado Libre de Irlanda.

La población irlandesa, en su gran mayoría católica se conmociona a medida que se va enterando de lo que sucede en España y se vuelca en ayudas destinadas al ejército que para ellos defiende la fe y la religión católicas. Así, el 22 de agosto la prensa da la noticia de que “Los Camisas Verdes de Irlanda han enviado la primera expedición de elementos de la Cruz Roja para España. Forman la expedición médicos, enfermeras y abundante material sanitario” [1] y para el 24 de octubre se recibe en el bando nacional el dinero obtenido en una colecta llevada a cabo en la isla en favor de la Iglesia Católica de España, que recauda un millón y medio de pesetas de la época y que enviada al cardenal Gomá, destinó éste a la compra de material sanitario para el Ejército Nacional.

Mientras tanto en la isla un político que a la vez había sido general, Eoin O’Duffy, aprovechando que lidera un partido político de cierta importancia de corte neofascista, y de que goza de prestigio entre sus conciudadanos también por haber sido jefe de la Policía primero y más tarde de la Guardia Nacional irlandesas, concibe el proyecto de ayudar también con hombres a los nacionales y para ello se dirige a nuestro país, al que llega el 26 de septiembre de 1936 y tras entrevistarse en Pamplona con la Junta de Guerra Carlista y con la Diputación Foral, al día siguiente marcha a Burgos donde se entrevista con el general Mola sin llegar a alcanzar resultado práctico alguno. [2] Incluso antes de venir a España O’Duffy había dirigido una circular a sus partidarios, distribuida antes del 16 de septiembre entre los mismos, en la que se decía a los que se habían ofrecido para luchar en nuestro país que estuviesen preparados para ello. [3]

Pese a su inicial fracaso y mientras prosigue en su país la actividad reclutadora de voluntarios, el irlandés vuelve al nuestro y tras varias entrevistas con Franco, ambos generales el 28 de noviembre llegan a un acuerdo mediante el cual se formarían varias banderas del Tercio con voluntarios irlandeses, [4] las cuales podrían alcanzar el número de ocho con un total de 5.000 hombres. Contarían con su propio personal médico, enfermeras, capellanes y cocineros. Los mandos serían hispano-irlandeses, si bien en cada bandera para encuadrar a los voluntarios habría oficiales, suboficiales, cabos y soldados españoles que hablasen inglés.

En el acuerdo se hace especial hincapié en el hecho de que los irlandeses son católicos fervientes y practicantes que no serían empleados contra los nacionalistas vascos por ser éstos también católicos. Incluso se llega a plantear que el número de voluntarios fuese tan elevado que se pudiese constituir una columna con predominio irlandés que sería mandada por un jefe de dicha nacionalidad: y se apuntala posibilidad de que O´Duffy pudiese traer varios miles de voluntarios irlandeses. Finalmente las banderas dependerían del coronel inspector del Tercio si bien al general irlandés se le reconoce una inspección especial con el grado de general de brigada.

Concluido el acuerdo la Inspección del Tercio planifica el organigrama de la bandera que se compondría de un comandante-jefe, 10 capitanes, 7 tenientes, 14 alféreces, un médico, 53 sargentos, un maestro-armero, 2 cabos y 590 voluntarios. De ellos, 2 capitanes, 2 tenientes, 6 alféreces, 7 sargentos, un maestro-armero, 2 cabos y 3 legionarios serían españoles o procedentes del Ejército Nacional pues en el existían extranjeros que podían ser destinados a aquella por su origen o dominio del inglés.

Las expediciones

Los irlandeses empezaron a salir hacia España en pequeños grupos a partir del 13 de noviembre, antes de que se formalizasen los acuerdos pues O´Duffy quiso obligar a los mandos nacionales a aceptar sus propuestas valiéndose de hechos consumados. En la primera de ellas, que salió del puerto inglés de Liverpool, parten diez voluntarios, en su mayor parte antiguos oficiales del I.R.A (Ejército Republicano Irlandés) que constituirán los cuadros de mando de la unidad. A la semana siguiente sale la segunda expedición a cuyo frente figura el coronel Patrick Dalton, que fue el primero en mandar la bandera irlandesa en nuestro país y con él parten doce oficiales, el oficial médico Peter O´Higgins y el capellán S. Gillan. El viaje se realiza en barco hasta Lisboa, después en autobús hasta Badajoz para terminar en Cáceres, que serviría  de base para formar la unidad.

El 27 de noviembre parte la tercera expedición desde Liverpool con 84 voluntarios entre los que figuraban al menos tres oficiales, el capellán-capitán Seamus Mulream; cuando llegaron a la capital extremeña a principios de diciembre el número total de irlandeses que había en ella asciende a 21 oficiales y 123 soldados, [5] número que no se corresponde con los fragmentariamente citados basados en los números facilitados por O´Duffy en su libro y que ascendían a 109 hombres en total, por lo que hay un exceso de 35 que podrían haber llegado en alguna otra expedición no computada o ser irlandeses que ya luchaban en unidades españolas con anterioridad y que fuesen remitidos a Cáceres para encuadrar como veteranos a sus compatriotas lo cual no sería de extrañar pues voluntarios de Eire había desde el principio de la guerra en unidades como la Columna Sagardía en la divisoria de Burgos y Santander, o en la que en principio se denominó Tercio Sanjurjo en tierras aragonesas o en unidades del Requeté como el capitán O’Farrill.

La última expedición, esta vez multitudinaria, salió del puerto irlandés de Galway en un buque alemán, que según la documentación oficial transportó un oficial y 520 voluntarios, aunque autores como el inglés Peter Kemp aumentan, su número a 650. [6] El viaje, con independencia del número exacto de voluntarios, no fue nada cómodo ni agradable para los  voluntarios ya que el barco carecía de elementos como agua y los hombres viajaron hacinados y casi sin recibir alimentación. Al llegar a El Ferrol se les desembarcó trasladó a Cáceres en tren, previa parada en Salamanca, pero el viaje tampoco fue satisfactorio y se produjeron leves incidentes con cierto  carácter cómico pero que presagiaron que la aventura de los irlandeses en España no iba a terminar con felicidad. El hecho de que este último transporte se hubiese llevado a efecto en un buque alemán provocó las protestas del gobierno irlandés, opuesto políticamente a O´Duffy, porque se había admitido a un gran número de jóvenes irlandeses que eran menores de edad, que carecían de pasaporte y porque en los barcos alemanes que entraban en puertos irlandeses y que luego se dirigían a España se admitía a los irlandeses que querían dirigirse a nuestro país sin permiso de su gobierno.

Consecuencia de todo ello fue que ya no hubo más expediciones masivas de irlandeses hacia España que partiesen de puertos de su país, en las que por cierto colaboraban las embajadas alemana e italiana en Dublín captando voluntarios. Así, el 11 de enero de 1937 fracasó el envío de un nuevo contingente de voluntarios a nuestro país porque el barco que debía transportarlos no apareció en el puerto designado para el embarque y los que se presentaron en él con el fin de embarcar tuvieron que volver a sus casas y el gobierno irlandés, ayudado por el inglés tomó medidas para que ya no se enviasen más voluntarios masivamente.

La bandera

Reunidos en Cáceres todos los irlandeses se procedió a iniciar su instrucción y como muchos habían sido antiguos combatientes en la I Guerra Mundial o en la guerra de independencia de Irlanda, el coronel Yagüe, inspector del Tercio, el de enero comunicaba a Franco que para el día 10 podrían ser utilizados en campo abierto, opinión que no era compartida por O’Duffy, quien se dirigió al Cuartel General del Generalísimo diciendo que la mayoría de sus voluntarios solo llevaba una semana de instrucción, habiéndoseles entregado los fusiles el 30 del mes anterior, sin que hubiesen recibido granadas de mano ni se les hubiese instruido en el manejo de las ametralladoras y morteros asignados a la bandera.

Para contribuir al entrenamiento de la unidad se envió a una serie de oficiales y suboficiales españoles que hablaban correctamente el inglés, provenientes del Tercio la mayor parte y entre los que figuraban dos tenientes ingleses que combatían en sus filas desde el mes de agosto del año anterior: Noel Fitzpatrick y William Neagle, pero el número total no sobrepasó el de doce. A ellos se unieron una serie de intérpretes británicos o irlandeses que residían en España o españoles descendientes de  matrimonios mixtos hispano-británicos, a los que se otorgó el grado de sargentos mientras estuviesen adscritos a la unidad, su número fue de 14 ó 15.

La bandera la constituyen tres compañías de fusiles y una de ametralladoras y su mando se da a los siguientes oficiales irlandeses: el de la bandera al ya citado Dalton con el grado de comandante (se rebajaron los grados que los irlandeses decían ostentar en su país), la Compañía A (se siguió la tradición anglosajona de darles letras y no número como se hacía en España) al capitán D. O´Sullivan, la B al capitán T. F. Smith, la C al del mismo empleo P. Quinon y finalmente la de Ametralladoras al también capitán S. Cunningham.

Al llegar a España los voluntarios lucían camisas verdes con el arpa irlandesa al cuello, uniforme que luego fue cambiado por el del Tercio si bien en las camisas siguieron ostentando el arpa. La primera bandera de la que dispusieron fue una verde esmeralda con una cruz roja, en el centro que a su alrededor lucía el lema In Hoc Signo Vinces, pero durante el periodo de instrucción y para lo sucesivo fue cambiada por otra también con fondo verde en la que aparecía un perro-lobo irlandés. Cada compañía fue provista de un banderín que representaba a las provincias irlandesas irredentas. [7]

Durante el periodo de instrucción los irlandeses, dado su carácter, protagonizaron varios incidentes serios pues con frecuencia, en sus horas libres, reñían con españoles y marroquíes y se produjeron casos de deserciones o detenciones, como, la de tres ingleses incorporados a la bandera, en la que hubo un cierto número de ellos a los que se acusó de espionaje, si bien luego se demostró que dicha acusación no era cierta. El incidente se resolvió expulsando a Gibraltar a los tres. Otro problema que se presentó y que tuvo mucha repercusión en la eficacia combativa de la unidad fue la falta de oficiales y suboficiales irlandeses capacitados para el mando de la tropa, pues O´Duffy había rechazado a muchos irlandeses y británicos experimentados que se la habían ofrecido por no militar en su Partido Nacional Corporativo y concedió grados militares a quienes le eran devotos políticamente pero que estaban en ayunas en cuestiones de milicia, sin que por ello los instructores españoles pudiesen realizar grandes avances en este sentido pues en la unidad no ejercían funciones de mando. Terminado el periodo de instrucción, el 6 de febrero, la bandera fue revistada por Franco y tras unos días de descanso, el 15 del mismo mes se dio por finalizada la estancia en retaguardia de los voluntarios irlandeses.

En el frente

Al día siguiente parten hacia él en tren los componentes de la bandera: el comandante, 25 oficiales, 45 sargentos, dos maestros-armeros y 570 hombres de tropa, pero el viaje se hace interminable ya que tardan 26 horas en hacer un trayecto en el que normalmente se invertían seis. Cuando tras pasar Navalmoral de la Mata, que acababa de ser bombardeada por la aviación enemiga, llegan a Torrejón, desembarcan y andando se dirigen a Valdemoro que dista doce kilómetros, empleando en hacer el recorrido dos horas. Descansan y comen en dicha población y se dirigen hacia Ciempozuelos, pero durante el trayecto se produce otro hecho que marcará indeleblemente a los irlandeses.

Se observa que frente a ellos marcha una tropa española, que los oficiales españoles adscritos a los irlandeses identifican como nacional, pero cuando se dan a conocer como Bandera Irlandesa del Tercio los que están enfrente empiezan a disparar O´Sullivan, que manda la vanguardia, ordena a su vez hacer fuego y cuando al cabo de cinco minutos cesa el mismo y tras la retirada de la tropa que les ha atacado en el suelo, muertos, están los cuerpos del teniente Bonet y del sargento Calvo, españoles y de los irlandeses teniente Hyde y legionario Chute. También herido el voluntario Hoey. Cuando se despeja la situación se llega a la conclusión de que la unidad que les ha atacado es una bandera de la Falange canaria que al oírles hablar en inglés (eran escasos los irlandeses que hablaban nuestro idioma) se creyeron víctimas de una trampa y empezaron a disparar. Por su parte los canarios sufrieron la pérdida de su comandante y del segundo jefe de la unidad. O’Duffy, en su libro culpa del hecho a los canarios y dice que el mando nacional felicitó a su unidad, pero fuentes nacionales, Peter Kemp entre ellos, dicen que la culpa fue de los irlandeses y sobre todo de O´Sullivan que no era militar profesional, y que se puso nervioso y sin más, a los primeros disparos de advertencia ordenó a los suyos responder de igual forma en vez de esperar a que la situación se arreglase incruentamente.

Solventado el incidente, la bandera se acantona en Ciempozuelos, donde se ve sometida al fuego enemigo lo que le causa algunas bajas de momento no mortales. Se dedica a reforzar a las fuerzas del  sector e incluso llega a prestar servicios de protección a una sección de ingenieros alemanes. Pero su permanencia en las trincheras, debido al estado de las mismas y las continuas lluvias que padecen hacen que más de cien irlandeses contraigan diversas enfermedades, por lo que tienen que ser evacuados a los hospitales de retaguardia. Entre los enfermos se encuentra el mayor (como le designaban  sus subordinados que no empleaban el equivalente español de comandante) Dalton, que entrega el mando a O´Sullivan, que asciende al grado superior. A su vez Quinon es nombrado segundo comandante de la bandera y Fitzpatrick pasa a mandar la unidad del nuevo jefe de los irlandeses.

Hasta el 13 de marzo no entra en combate, el cual según el Diario de Operaciones de la Columna Asensio es ”una demostración ofensiva sobre Titulcia". [8] Para O´Duffy se trata de un verdadero combate mientras que para otro voluntario irlandés Seamus McKee sólo se trató de un ataque contra posiciones enemigas que se convirtió finalmente en una desbandada. Sea cual fuese la verdad y el desarrollo de la acción, como consecuencia de la misma mueren el sargento Lawlor y otros cuatro legionarios que son evacuados primero a Grijón y luego a Cáceres donde se encuentran los servicios médicos de la bandera encabezados por el coronel McCabe, el doctor Connor Martin y las enfermeras McGorisk y Mulvaney. En la citada ciudad se encontraba también la unidad de depósito mandada por el capitán Patrick Hughes a la que se habían incorporado algunos irlandeses llegados a España por sus propios medios después de la partida hacia el frente de la bandera. Los muertos fueron enterrados en el cementerio cacereño. De Ciempozuelos los irlandeses pasaron a La Marañosa, donde no intervienen en combates pero pierden algunos hombres por heridas accidentales y donde tiene lugar algunos incidentes que preludian la disolución de la unidad.

El desenlace

Mientras la Bandera Irlandesa se encuentra en el frente se presentan una serie de problemas que hacen que finalmente se llegue al acuerdo de disolver la unidad. En ella había más de 100 voluntarios menores de 21 años cuya repatriación pidió el gobierno irlandés parece ser que presionado por el británico, a lo que accedió el de Burgos para evitar incidentes diplomáticos. Se presentan quejas contra O´Duffy por haber instaurado la censura en la correspondencia, pero lo más grave era la indisciplina que reinaba entre los irlandeses. Estos se emborrachaban con frecuencia, se agredían entre ellos e incluso llegaron a hacerlo tanto con sus oficiales como con los españoles agregados a la bandera para intentar cohesionarla y convertirla en una unidad eficaz y combativa. Incluso los propios oficiales irlandeses llegaron a las manos entre ellos y para rematar la sucesión de hechos una noche un oficial irlandés no identificado llegó disparar contra dos oficiales españoles. [9]

Por ello Yagüe, el 28 de marzo de 1937 solicita la disolución en base a la indisciplina reinante en la unidad por la falta de mandos profesionales irlandeses, por la mala alimentación que se proporcionaba a los irlandeses por su propia intendencia y porque su eficacia militar era nula. Ahora bien, proponía que los voluntarios que quisieran permanecer en España fuesen repartidos entre las diversas banderas del Tercio y que los qué no quisieran seguir en nuestro país fuesen repatriados al suyo. O´Duffy se opone a ello y echa las culpas de lo ocurrido a los oficiales españoles, a algunos irlandeses y sobre todo a los de origen inglés. El 12 de abril, tras un incidente entre O´Sullivan y el alférez español Silva, Yagüe destituye a aquel del mando y le envía a Cáceres. Franco autoriza la disolución de la bandera permitiendo la permanencia en España de los oficiales y suboficiales irlandeses profesionales que quisieran quedarse respetándoles el rango militar que ostentasen. También podían quedarse los voluntarios que lo solicitasen con los que se formaría una unidad irlandesa si su número lo permitía la cual sería suplementada con legionarios españoles y puesta al mando de un oficial español. Incluso se permitiría la permanencia de un médico y de un capellán irlandeses si el número de los que se quedasen era alto.

Las compañías van siendo conducidas a Cáceres donde votan si se quedan en España o vuelven a su país. Según O’Duffy 654 hombres decidieron volver a Irlanda y solo nueve pidieron, permanecer en España, si bien al final su número se elevó a trece, pero muy pronto por unos u otros motivos cinco de ellos volvieron a su país o a lnglaterra según su origen. [10] Los que se quedaron fueron los capitanes O´Farrill y Gunning, los tenientes Fitzpatrick y Neagle, el alférez Lawler, tres sargentos, un cabo y cuatro legionarios, pero para final de 1937 no permanecen en España ninguno de los oficiales mencionados y al menos uno de los sargentos, Michael Weymes, había muerto en combate.

El capitán de estado mayor González Caminero es nombrado organizador de la repatriación que cuenta con el apoyo del gobierno británico que les concede pasaportes mientras que el nacional les proporciona vestido y calzado civiles. El 12 de junio salen de Cáceres para Lisboa quince oficiales y 632 suboficiales y soldados irlandeses que embarcan en el buque portugués Mozambique que el 22 de junio los desembarcó en el puerto de Dublín donde fueron recibidos en triunfo con bandas de música que les acompañaron hasta el Ayuntamiento donde se les dirigieron discursos en los que se les calificó de “defensores de la fe" y “combatientes por la gloria de Dios y el honor de Irlanda". [11]

Pero en España aún permanecía un grupo de heridos y enfermos que de momento no pudieron repatriarse. Cuando recibieron el alta médica eran cuatro que tras algunas dificultades puestas por el cónsul británico en Lisboa, volvieron a su país donde por causa de las enfermedades contraídas en España en fechas posteriores, murieron otros tres o cuatro voluntarios irlandeses con lo que el número de bajas mortales de irlandeses pertenecientes a la unidad reclutada por O´Duffy alcanzó la cifra de ocho, con independencia de los que habiendo formando parte de la unidad se quedaron en nuestro país y murieron con posterioridad.

Notas

1. Diario Región, Oviedo.
2. Jaime del Burgo, Conspiración y Guerra Civil, pp. 249-250.
3. The Morning Post, 17 de septiembre de 1936.
4. Servicio Histórico Militar (SHM), Armario 2, Legajo 156, Carpeta 14, Documento 23.
5. Eoin O´Duffy, Crusade in Spain, pp. 96 y ss.
6. Peter Kemp, Legionario en España, pp. 96 y ss.
7. E. O´Duffy, op. cit., p. 108.
8. SHM, A. 10, L. 452, Cpt. 4.
9. SHM, A. 2, L. 156, Cpt. 24, Dt. 32
10. E. O´Duffy, op. cit., p. 236
11. E. O´Duffy, op. cit., pp. 236 y ss.

 


Más información

por Carlos A. Pérez

Según datos recogidos en el Archivo de la Guerra Civil Española del Archivo General Militar de Ávila*, esta bandera irlandesa fue, mientras duró, la 15ª Bandera de la Legión y su repatriación se decidió el 13 de abril de 1937 como consecuencia de los desfavorables informes elaborados por los mandos del Ejército Nacional acerca del estado de la misma. En los mismos se recogía la gran indisciplina existente, con unos mandos no profesionales incapaces de imponer su autoridad sobre una tropa, en muchas ocasiones borracha. En concreto, se cita un caso de agresión a un oficial por parte de otro oficial y un soldado. La comida y el vestuario tampoco eran los adecuados. Todo esto se tradujo en un mal comportamiento en las escasas operaciones militares en que participaron. La decisión del Parlamento irlandés de no permitir la recluta de más voluntarios condenaba, a la larga, a la bandera irlandesa. En el momento de su marcha, se ofreció a los voluntarios que lo deseasen permanecer en la Legión encuadrados en compañías irlandesas.

* Los documentos en Cuartel General del Generalísimo (CGG), Armario 2, Legajo 156, Carpetas 19-27 "Banderas Irlandesas".

Bibliografía:

Para estos voluntarios irlandeses véase:

  • Eoin O´Duffy: Crusade in Spain. Robert Hale, Londres, 1938.
  • Francis McCullagh: In Franco´s Spain. Burns, Oates and Washbourne, Londres, 1987.
  • M. Manning: The Blueshirts. Gill and Macmillan, Dublín, 1987.
  • Robert A. Stradling: The Irish and the Spanish Civil War. Manchester University Press, 1999.
  • J. Bowyer Bell: "Ireland and the Spanish Civil War", Studia Hibernia, vol. 9, 1969.

Enlace recomendado:

O´Duffy´s Bandera en Ireland and the Spanish Civil War

jeudi, 10 mars 2011

Una juventud a la intemperie= Ramira Ledesma Ramos y las juventudes

Una juventud a la intemperie: Ramira Ledesma Ramos y las juventudes

Ex: http://antecedentes.wordpress.com/

[Artículo del historiador Erik Norling publicado en el número 2 de la revista Tyr, en 2003]

ramiroledesma_007.jpgSon tiempos estos los que corren donde el heroísmo y la entrega, sacrificando para ello su vida si fuera preciso, es considerado un acto de idealismo estúpido; época la nuestra en que la Juventud, en mayúscula, ha dejado de tener sentido para convertirse en una mera comparsa de la sociedad de consumo. Parece que esta edad es más una técnica de mercado. El desánimo cunde entre las filas de aquellos que aún ven, nadie cree que exista el menor resquicio por donde destruir esta desidia colectiva. Muchos se resguardan en la nostalgia y en los recuerdos de años pasados, incluso los más jóvenes que no lo vivimos nos aislamos y preferimos las glorias del pasado a la dura lucha del día a día por rescatarlo. Es más fácil.

Sin embargo no debemos olvidar que esta situación anímica no es nueva. Las mismas quejas e idéntica desolación se podía percibir en la juventud que después encarnaría la mayor revolución de la Humanidad. La generación que debió acometer la difícil tarea de enarbolar la bandera del socialismo y el nacionalismo también salían de una etapa gris y superflua, donde nada parecía tener valor. Los años de la década de los 20 y 30 no eran muy distintos, en cuanto al ánimo de una generación, que a lo que nos encontramos hoy en día, a inicios del segundo milenio. También se quejaban de la imposibilidad de destruir el Sistema, de la omnipresencia de los lobbies mediáticos, de la presión policial, del desconcierto por el derrumbe de las ideologías (derechas, izquierdas), por el imperio de la pornografía, delincuencia y drogas. Nada parecía tener sentido.

Pero, sin que se pueda acertar describirlo, esta generación reaccionó, como siempre han hecho los pueblos europeos, a diferencia de otros pueblos, cuando llegan al límite. Esta fue la Generación del fascismo. Su lección no debe ser, habernos dado imágenes para el recuerdo, no debemos buscar en ellos héroes que virilmente visten una camisa militante, sino precisamente el haber demostrado que en unos momentos de absoluta postración existe la esperanza. El ciclo en esta ocasión podrá ser más o menos largo, pero no tardará en repetirse.

Misión de la Juventud

Nuevamente las Juventudes, con el mismo sentido que la utilizara el siempre recordado Ramiro Ledesma, deben reconocerse y hallar el sentido de su época. En su Discurso a las juventudes de España, uno de los textos políticos de mayor importancia escritos en España y Europa, el fundador de las J.O.N.-S. nos da las claves para iniciar esta senda, tortuosa y sacrificada. (1) Se trata de un ensayo publicado en 1935, cuando en Europa los fascismos se establecían y en España la II República caminaba hacia el fracaso que desembocaría en la tragedia de la contienda civil. (2) Ya anteriormente Ramiro había analizado en detalle el papel de las juventudes en la futura revolución nacionalsindicalista que propugnaba desde las páginas de su semanario “La Conquista del Estado” y el boletín de formación “JONS” pero será en esta obra cuando elabore un cuerpo doctrinal cuya actualidad, ya transcurridos siete décadas desde entonces, sorprende a los lectores que se acercan a este texto.

Convencido “firmemente que el mundo entero, y de modo singular Europa, atraviesa hoy una época de amplias y grandes transformaciones” Ramiro comienza señalando el objetivo de este trabajo y quiere “plantear a nuestras juventudes la necesidad de que conviertan asimismo la revolución en revolución nacional, liberadora del pueblo y de la Patria, [...] Que ello sea así, depende sólo de que las juventudes encuentren su camino, estén a la altura de él y lo recortan militarmente.” Para ello es imprescindible unificar los dos ideales que constituyen la base de cualquier revolución, “nacionalismo social y socialismo nacionalista”:

 

“He aquí esas dos palancas: una, la idea nacional, la Patria como empresa histórica y como garantía de existencia histórica de todos los españoles; otra, la idea social, la economía socialista, como garantía del pan y del bienestar económico de todo el pueblo.”

El Discurso se encuentra estructurado en tres partes, aparte de la introducción y el final cuya importancia es decisiva igualmente. En la primera, el Discurso propiamente dicho, ubica adecuadamente el problema. Señala con el dedo acusador los problemas ante los cuales se enfrentan los jóvenes de ese momento, muy parecidos a los que hoy tenemos, que se resumen en una “gran pirámide egipcia de fracasos” y donde “Ante ese panorama que hay a la vista, difícilmente encontrarán las juventudes un clavo donde asirse.” La reacción que exige Ramiro es la milicia. No en el sentido de glorificar el ejército o solicitar el amparo, como se hiciera en tantas ocasiones antes, a los generales para que dieran un golpe de Estado. No, todo lo contrario pues propone a la Juventud la formación de un espíritu revolucionario y militante, “Las Juventudes de España se encuentran ahora ante este exigentísimo dilema: o militarizarse o perecer”, en el cuál se forme un ejército popular, compuesto por duros combatientes, las Juventudes, que sean capaces de lograr “la realización victoriosa de la revolución nacional”.

 

Una moral de combate, pero no la católica, advierte Ramiro y añade durísimas palabras que han sido en parte responsables del ostracismo de los jonsistas en el franquismo, “la confusión tradicional en torno a esto, explica gran parte de nuestra ruina”. Pletóricos de esta moral militante las Juventudes se lanzarán a la “nacionalización de las grandes masas españolas” y “de las primeras cosas por que hay que luchar es la de desarticular el orden económico vigente”, una idea que chocaba frontalmente con los que después asumirían las riendas de mandos del país durante los cuatro décadas de régimen supuestamente nacionalsindicalista.

Comienza la segunda parte del ensayo Ramiro con un análisis de su concepto de “Juventudes”, que aparece como elemento decisivo en la conformación del Mundo en las llamadas “épocas revolucionarias” como la que se vive, mientras que en las “épocas conservadoras” su papel es apenas percibido. Cuando se produce esta situación las Juventudes se transforman en “sujeto primordial de la historia” pues sólo los jóvenes son capaces de atreverse a entrar “en línea de combate”. No las ubica como un elemento nacional sino como una gran hermandad de lucha que sobrepasa las fronteras para unificar Europa.

Europa revolucionaria

 

Si hay una característica especial que se puede destacar en el pensamiento de Ramiro Ledesma es, precisamente, su carácter moderno y europeísta, superando los estrechos límites del nacionalismo españolista. Ciertamente reclama los “valores hispánicos” pero únicamente para retornar a Europa, la que abandonamos camino de nuestra decadencia interpreta, para recuperar nuestra gloria y papel como pueblo revolucionario.

Señala que la importancia de las Juventudes no es algo español, sino que forma parte de “la etapa final de las realizaciones revolucionarias” que encabezan el fascismo, el comunismo y el nacionalsocialismo. Lleva a cabo un profundo análisis de la crisis político-social que sufre el continente, que atribuye al cansancio de la burguesía como clase rectora que debe dejar paso a las Juventudes, para dedicar un extenso comentario a cada una de las revoluciones nacionales del momento. No puede sustraerse, como otros tantos nacional-revolucionarios de la época, de la atracción que ejerció la Rusia de Stalin, pero le recrimina haberse dejado llevar por las aspiraciones internacionalistas, abandonando el carácter nacional de la misma. Ello habría provocado que el comunismo sea ya una doctrina fallida.

Distinta visión tiene del fascismo italiano. Mussolini es un “caudillo moderno” con “mística revolucionaria”. Critica a los que creen que el fascismo es una defensa de los viejos intereses de la derecha, tal y como algunos fascistizados españoles creían, “esa interpretación del fascismo es absolutamente errónea”, pues ante todo “consistía en la ascensión de los trabajadores, en su elevación a columna fundamental del Estado nuevo.”

 

En cambio Ramiro, que se niega a ver el nacionalsocialismo como un plagio del fascismo italiano exigiendo “despojarlo de las calificaciones fascistas” para definirlo mejor como un “racismo socialista”. Reconoce que la revolución nacionalsocialista es admirable, pero le recrimina que únicamente esté dirigida a los alemanes y advierte del peligro de derechización de Hitler, pues cuando Ramiro escribe se están produciendo las jornadas de la “Noche de los Cuchillos Largos”, cuando fue eliminada la ala izquierdista del Partido (3). Los jonsistas sintieron simpatía por los sectores más revolucionarios del nacionalsocialismo y su eliminación, provocó no pocas dudas a Ramiro:

“¿Hasta que punto se realizará la revolución nacional alemana y qué destino le espera? Las jornadas de castigo de junio de 1934 demostraron su enorme capacidad patética y dramática. En ellas murió Strasser, el nacional-socialista más identificado con los intereses verdaderos de las grandes masas populares, y en ellas hizo su aparición por primera vez ante las juventudes el espectro de la desilusión y el desaliento.”

Epílogo

 

Durísimas palabras las que nos ofrendó Ramiro Ledesma, y proféticas. Desgraciadamente los acontecimientos posteriores, en especial la escasa influencia del jonsismo en la España del general Franco, supuso el olvido y el ostracismo de su pensamiento. Pocos fueron los jonsistas que se atrevieron a reivindicar las ideas de un hombre que exigía una revolución social y nacional frente a los que únicamente se quedaban con lo segundo, y para quienes lo primero era sospechoso de subversivo. Ahora, tras el paso de los años, Ramiro sigue vivo, sus propuestas son tan válidas como entonces, y nuevamente puede servir de luz que ilumina en las tinieblas, tal y como hiciera entonces.

No podemos, para acabar este breve repaso de uno de los textos más importantes de doctrina nacional-revolucionaria, no recordar las palabras del final del Discurso, en las que Ramiro invoca a las Juventudes a iniciar el camino que ha marcado. Y su Generación así lo hizo, él mismo caería acribillado por las del enemigo, enfrentándose a los enemigos de Europa, ¿pero seremos los jóvenes del siglo XXI capaces? o acaso la triste profecía se cumplirá:

“Este momento solemne de España en que se ventilarán sus destinos quizá para más de cien años, coincide con la época y el momento de vuestra vida en que sois jóvenes, vigorosos y temibles.

¿Podrá ocurrir que la Patria y el pueblo queden desamparados, y que no ocupen sus puestos los liberadores, los patriotas, los revolucionarios?

¿Podrá ocurrir que dentro de cuarenta o cincuenta años, estos españoles, que hoy son jóvenes y entonces serán ya ancianos, contemplen a distancia, con angustia y tristeza, cómo fue desaprovechada, cómo resultó fallida la gran coyuntura de este momento, y por ello por su cobardía, por su deserción, por su debilidad?”

En esta encrucijada nos encontramos hoy nuevamente, ¿seremos cobardes y desertores?, o ¿responderemos a la llamada de la misión histórica que nos ha correspondido? De esta Juventud depende, no sólo cómo seremos rememorados en el futuro, sino el destino mismo de Europa.

Notas:

(1) La primera edición aparece en 1935, Madrid, Ediciones La Conquista del Estado. Durante el primer franquismo, con un prólogo/epílogo de su camarada Santiago Montero Díaz, se reedita en varias ocasiones entre 1938 y 1942. La edición más fácil de localizar hoy en día es la de la familia de Ramiro Ledesma, Madrid, 1981, aunque las ediciones de la posguerra son igualmente habituales en las librerías anticuarias.

(2) N.d.R.: Aconsejamos a los lectores que deseen iniciarse en la vida y obra de Ramiro Ledesma el trabajo de Erik Norling “Las JONS revolucionarias”, Barcelona, Ediciones Nueva República, 2002.

(3) El verano de 1934 se depuró a un gran número de dirigentes y cuadros del partido que se oponían a las consignas de colaboración con las derechas económicas que propugnaba el equipo de Hitler. En su mayoría se trataban de aquellos que manifestaban una posición más revolucionaria y anticapitalista. La “Noche de los Cuchillos Largos” fue el sobrenombre que la propaganda antinazi aplicó a la noche en que la mayoría fueron detenidos súbitamente y muchos ejecutados por haber conspirado.

vendredi, 28 janvier 2011

Programa de las I Jornadas antiglobalizacion

Programa de las I Jornadas antiglobalización

Jornadas Antiglobalización 2011,

por una Alternativa Identitaria

12 y 13 de Febrero, Zaragoza

 

Programa de actividades

Sábado, 12 de Febrero

11:00h. Conferencia “El origen del conflicto bélico en Oriente Medio”, por el Doctor Nasser Issa

12:00. Receso

 12:30h. Conferencia “El conflicto de Oriente Medio,el terrorismo islámico y la ceguera de Occidente”, por Jorge Álvarez

 13:30h. Receso 

14:00h. Comida

 16:00h. Conferencia “Aragón. España. Europa”, por Cristóbal Chesús Parra Ruiz

 17:00h. Receso

 17:30h. Presentación de libros: “Pedro Laín Entralgo. El político. El pensador. El científico.”, por José Alsina

Y

“Introducción al tradicionalismo de Julius Evola”, por Ángel Fernández

 18:30h. Receso.

 19:00h. Conferencia “La infiltración sionista en Iberoámerica”, por Jesús Vallés Gracia

 20:00h. Fin de la Primera Jornada

Tras la cena habrá una velada musical

 Domingo, 13 de febrero

 11:00h. Conferencia, “El americanismo y su “doble” europeo” por Tomislav Sunic

12:00h. Receso

 12:30h. Conferencia “La crisis y el poder de la banca”, por Joaquim Bochaca

 13:30h. Clausura de las Jornadas, A cargo del Delegado de Aragón del MSR, Javier Bueno

 Habrá varios stands

EXPOSICIÓN ARTÍSTICA A CARGO DEL PINTOR:

Borislav Prangov

Entrada para los dos días: 10€

(*) Con la entrada se obsequiará con el CD de Axis Mundi y Mara Ros: “Recuerdos”

o un libro del fondo editorial de Ediciones Nueva República.

Organiza:

Movimiento Social Republicano de Aragón

zaragoza@msr.org.es

Teléfono:

666 54 52 11

Programa

mercredi, 29 décembre 2010

"La révolte des masses" de José Ortega y Gasset

Crédits photographiques : Yao Dawei (AP Photo/Xinhua).

"La révolte des masses" de José Ortega y Gasset
 
À propos de José Ortega y Gasset, La révolte des masses (préface de José Luis Goyenna, La vie comme exigence de liberté, Les Belles Lettres (voici le tout nouveau blog de la librairie), coll. Bibliothèque classique de la liberté, 2010).
LRSP (livre reçu en service de presse).

Ex: http://stalker.hautetfort.com/
 
Essai paradoxal (ainsi de ses images, bien souvent frappantes), dans une époque de «descentes et de chutes», de «sérénité dans la tourmente», exploration altière mais jamais prétentieuse du problème de l'homme actuel pour laquelle «il faudrait se résoudre à endosser la tenue des abîmes, vêtir le scaphandre» (1) voici quelques-unes des expressions que l'auteur utilise au sujet de son propre livre.
Observons de quel étrange éclat se parent les mots que José Ortega y Gasset écrivit dans sa Préface pour le lecteur français ajoutée en 1937 à son ouvrage le plus connu, si l'on se souvient que Malcolm Lowry, après la publication de Sous le volcan en 1947, lut le livre et l'aima, lui qui n'hésita point, pour accompagner le Consul là où il fallait qu'il descende, à revêtir un scaphandre capable de le mener aux plus terrifiantes profondeurs.
jose-ortega-y-gasset1.jpgSans doute le grand romancier trouva-t-il aussi dans le livre du philosophe, comme le remarque José Luis Goyenna dans son intéressante (quoique pleine de fautes) préface, en plus d'images étonnantes bien propres à enthousiasmer l'écrivain, une authentique philosophie de la liberté comme accomplissement métaphysique du moi qui, à la différence de celle de Sartre qualifiée par l'auteur d'Ultramarine de «pensée de seconde main» (2), ne se dépêcherait pas bien vite de déposer aux pieds de l'idole le fardeau trop pesant, enchaînant ainsi la liberté à la seule discipline stupide des masses. Tout lecteur de La révolte des masses aime je crois, en tout premier lieu, l'écriture de ce livre érudit, pressé, menaçant, parfois prodigieusement lucide et même, osons ce mot tombé dans l'ornière journalistique, prophétique.
Peut-être trouva-t-il aussi dans ce livre, outre de fulgurantes vues (3), une intention purement kierkegaardienne, aussi rusée que profondément ironique, la sourde volonté consistant à faire comprendre à son lecteur que ce texte, sous les dehors débonnaires d'un essai sur la situation de l'homme européen au sortir de la Première Guerre mondiale, se proposait rien de moins que retourner comme un gant son esprit (et son âme ?), comme veulent toujours le faire, même s'ils prétendent le contraire, les plus grands romans : «C’est la raison pour laquelle le livre doit devenir de plus en plus comme un dialogue caché; il faut que le lecteur y retrouve son individualité, prévue, pour ainsi dire, par l’auteur; il faut que, d’entre les lignes, sorte une main ectoplasmique qui nous palpe, souvent nous caresse ou bien nous lance, toujours poliment, de bons coups de poing» (p. 49). La main ectoplasmique et le coup de poing, nouveaux moyens de réveiller les consciences libres du sommeil dogmatique dans lequel un sort mystérieux les a plongées ?
Quoi qu'il en soit, nous comprenons que l'intention du penseur espagnol est double. Le livre d'Ortega y Gasset semble fonctionner, à vrai dire, comme les ouvrages si profondément retors et érudits de Leo Strauss. D'abord, l'exposé des thèses qui permettent de caractériser le désarroi que constate l'auteur dans le monde occidental. Ensuite (si je puis dire, maladroitement, puisque ces deux phases exotériques ne forment qu'une seule et même phrase complexe, voire ésotérique), ayant défini ce qu'il entendait par l'homme-masse, le fait, subrepticement, de confronter celui qui le lit à une interrogation dont la réponse ne pourra que le glacer ou bien le conforter : est-il, oui ou non, un des innombrables représentants de la masse ? Est-il, ce lecteur lisant un livre qui claque comme un fouet (ou vous administre, poliment, un roboratif coup de poing), un homme creux ou bien un homme qui, après avoir lu, se convertira et agira ?
Intention éminemment existentialiste disais-je et nous pourrions ajouter, socratique, kierkegaardienne bien sûr, puisqu'il s'agit de faire prendre conscience que l'homme des masses n'est jamais l'autre, mais, bien sûr, soi-même non pas comme un autre selon la belle expression de Paul Ricœur, mais soi-même comme tous les autres, soi-même comme termite perdue au sein de la termitière à laquelle, patiemment, inexorablement, nous œuvrons.
Examinons ce qu'est, aux yeux d'Ortega y Gasset, l'homme-masse, au travers de quelques-unes de ses caractéristiques comme, en premier lieu, l'oubli (ou plutôt l'occultation) du passé. «Cet homme-masse écrit l'auteur, c’est l’homme vidé au préalable de sa propre histoire, sans entrailles de passé, et qui, par cela même, est docile à toutes les disciplines dites «internationales». Plutôt qu’un homme c’est une carapace d’homme, faite de simples idola fori. Il lui manque un «dedans», une intimité inexorablement, inaliénablement sienne, un moi irrévocable» (p. 58).
La volonté de faire table rase, si propre aux révolutions (4), ne peut que conduire à la ruine, mener l'homme jusqu'à la barbarie : «Le vrai trésor de l’homme, c’est le trésor de ses erreurs. Nietzsche définit pour cela l’homme supérieur comme l’être «à la plus longue mémoire». Rompre la continuité avec le passé, vouloir commencer de nouveau, c’est aspirer à descendre et plagier l’orang-outang» (p. 77).
C'est aussi s'engluer dans un présent définitif. Assez ironiquement bien que cette ironie ne puisse d'aucune façon être mise sur le compte, nous le verrons, d'une velléité réactionnaire, José Ortega y Gasset critique la croyance au progrès indéfini des connaissances et des techniques : «Sous le masque d’un généreux futurisme, l’amateur de progrès ne se préoccupe pas du futur; convaincu de ce qu’il n’offrira ni surprises, ni secrets, nulle péripétie, aucune innovation essentielle; assuré que le monde ira tout droit, sans dévier ni rétrograder, il détourne son inquiétude du futur et s’installe dans un présent définitif. On ne s’étonnera pas de ce que le monde paraisse aujourd’hui vide de projets, d’anticipations et d’idéals» (pp. 116-7).
Cette volonté maladive de détruire le passé, de vivre dans le perpétuel présent de l'animal, porte ses conséquences néfastes sur le présent comme sur l'avenir : «Et cela c’est être un peuple d’hommes : pouvoir prolonger son hier dans son aujourd’hui sans cesser pour cela de vivre pour le futur, pouvoir exister dans le vrai présent, puisque le présent n’est que la présence du passé et de l’avenir, le lieu où ils sont effectivement passé et avenir» (p. 79). C'est ainsi que, a contrario, l'Angleterre sera analysée par Ortega y Gasset comme le peuple de l'infinie prévoyance, le peuple composé d'hommes qui ne sont point encore les rouages d'une immense machine même si, comme le soulignera le philosophe, ce même peuple a pu se fourvoyer dans le pacifisme : «Ce peuple circule dans tout son temps; il est véritablement seigneur de ses siècles dont il conserve l’active possession» (pp. 78-9).
La révolte des masses, due à la désertion des élites (La désertion des minorités dirigeantes se trouve toujours au revers de la révolte des masses, pp. 116-7), doit aussi sa cause directe dans le fait que la société dans laquelle vivent les hommes ne les contraint plus à vouloir se dépasser. Si le monde ancien était le monde d'un danger permanent, fulgurant, notre époque est celle de la paralysie provoquée par le triomphe du machinisme, la réduction des territoires inexplorés, le prodigieux accroissement des sciences et des techniques contraints de se cantonner dans l'hyper-spécialisation, de la fuite des dieux : «Le monde qui entoure l’homme nouveau depuis sa naissance ne le pousse pas à se limiter dans quelque sens que ce soit, ne lui oppose nul veto, nulle restriction, mais au contraire avive ses appétits, qui peuvent, en principe, croître indéfiniment. Il arrive donc – et cela est très important – que ce monde du XIXe siècle et des débuts du XXe siècle non seulement a toutes les perfections et l’ampleur qu’il possède de fait, mais encore suggère à ses habitants une certitude totale que les jours qui vont suivre seront encore plus riches, plus vastes, plus parfaits, comme s’ils bénéficiaient d’une croissance spontanée et inépuisable» (pp. 130-1).
Ainsi, la vie des hommes du passé, quoique truffée de dangers, était synonyme de dépassement, du moins de possibilité de se dépasser. L'homme-masse est l'homme étriqué, fermé, tandis que l'homme du passé est celui de l'ouverture dans un monde lui-même ouvert à ses innombrables et sanglantes conquêtes : «De cette manière la vie noble reste opposée à la vie médiocre ou inerte, qui, statiquement, se referme sur elle-même, se condamne à une perpétuelle immanence tant qu’une force extérieure ne l’oblige à sortir d’elle-même. C’est pourquoi nous appelons «masse» ce type d’homme, non pas tant parce qu’il est multitudinaire que parce qu’il est inerte» (p. 139).
L'homme-masse est un être dépossédé. Il n'a plus de passé et, parce qu'il l'a perdu, il n'a plus de futur. Il n'est même pas certain, nous l'avons vu, qu'il puisse se targuer de vivre dans la paix perpétuelle d'un présent sans bornes, délesté du poids de ce qui l'a forgé : «L’homme-masse, écrit encore Ortega y Gasset, est l’homme dont la vie est sans projets et s’en va à la dérive. C’est pourquoi il ne construit rien, bien que ses possibilités et que ses pouvoirs soient énormes» (p. 121).
L'homme-masse est un être doublement dépossédé puisqu'il ne sait plus parler. Étrangement, José Ortega y Gasset évoque la dégénérescence du langage de l'homme-masse, qu'il assimile, pour les besoins de sa démonstration, à un habitant de l'Empire, en la rapprochant de celle du latin vulgaire : ainsi, «le symptôme et en même temps le document le plus accablant de cette forme à la fois homogène et stupide – et l’un par l’autre – que prend la vie d’un bout à l’autre de l’empire se trouve où l’on s’y attendait le moins et où personne, que je sache, n’a encore songé à le chercher : dans le langage» (p. 67). L'auteur poursuit en donnant la caractéristique principale du latin vulgaire : «Le premier [trait] est l’incroyable simplification de son organisme grammatical comparé à celui du latin classique» (p. 68), poursuivant : «Le second trait qui nous atterre dans le latin vulgaire, c’est justement son homogénéité. Les linguistes qui, après les aviateurs, sont les moins pusillanimes des hommes, ne semblent pas s’être particulièrement émus du fait que l’on ait parlé la même langue dans des pays aussi différents que Carthage et la Gaule, Tingis et la Dalmatie, Hispalis et la Roumanie. Mais moi qui suis peureux et tremble quand je vois le vent violenter quelques roseaux, je ne puis, devant ce fait, réprimer un tressaillement de tout le corps. Il me paraît tout simplement atroce» (Ibid).
Cette perte du passé qui doit être éradiqué pour laisser se lever de nouveaux soleils d'acier sur une humanité rédimée, cette destruction de toute conscience historique, cette rupture de la continuité, pour employer les mots de Max Picard, ainsi que la simplification du langage, sont les marques des deux principales forces politiques (bolchevisme et fascisme) qui se partagent l'Europe à l'époque où Ortega y Gasset écrit son essai, deux forces remarquablement décrites comme étant des puissances régressives, entropiques, une intuition qui ne deviendra une évidence voire un cliché, pour nombre d'auteurs comme Elias Canetti et à propos du nazisme (5), que des années après la parution de La Révolte des masses : «Mouvements typiques d’hommes-masses écrit d'eux l'auteur, dirigés, comme tous ceux qui le sont, par des hommes médiocres, intempestifs, sans grande mémoire, sans «conscience historique», ils se comportent, dès leur entrée en scène, comme s’ils était déjà du passé, comme si, arrivant à l’heure actuelle, ils appartenaient à la faune d’autrefois» (p. 167). Et l'auteur de poursuivre : «L’un et l’autre – bolchevisme et fascisme – sont deux fausses aurores; ils n’apportent pas le matin de demain; mais celui d’un jour ancien, qui a servi une ou plusieurs fois; ils relèvent du primitivisme. Et il en sera ainsi de tous les mouvements sociaux qui seront assez naïfs pour engager une lutte avec telle ou telle portion du passé, au lieu de chercher à l’assimiler» (pp. 168-9).
L'homme-masse, sans passé, ne vivant que dans un présent qui refuse d'envisager l'avenir autrement que comme la réalisation de rêves somptueux, colossaux (6), l'homme-termite qui est un homme creux, démoralisé, ne peut que se révolter. L'homme-masse, même, n'a pas de vie, et c'est cette absence de vie qui le livrera tout entier, comme un seul homme à la voix envoûtante des dictateurs, dont le règne est annoncé par l'auteur : «Car vivre, c’est avoir à faire quelque chose de déterminé – remplir une charge –, et dans la mesure où nous évitons de vouer notre existence à quelque chose, nous rendrons notre vie de plus en plus vide. On entendra bientôt par toute la planète un immense cri, qui montera vers les étoiles, comme le hurlement de chiens innombrables, demandant quelqu’un, quelque chose qui commande, qui impose une activité ou une obligation» (p. 212).
Cette révolte des masses, provoquée par n'importe quel événement (7), n'est elle-même qu'un leurre, puisqu'elle choisit comme vecteurs le fascisme et le nazisme qui sont condamnés à disparaître, qui ne sont qu'un interrègne (8) : «Je vais maintenant résumer la thèse de cet essai : le monde souffre aujourd’hui d’une grave démoralisation qui se manifeste – entre autres symptômes – par une révolte effrénée des masses; cette démoralisation générale a son origine dans une démoralisation de l’Europe dont les causes sont multiples. L’une des principales est le déplacement de ce pouvoir que notre continent exerçait autrefois sur le reste du monde et sur lui-même. L’Europe n’est plus sûre de commander, ni le reste du monde d’être commandé. La souveraineté historique se trouve aujourd’hui en pleine dispersion» (p. 254).
Ayant soigneusement posé son diagnostic sur la maladie du siècle, Ortega y Gasset, en bon docteur, délivre son ordonnance qui, elle aussi, a valeur d'étonnante prémonition, de véritable prophétie (9) : l'Europe !
C'est sans doute la grande thèse de José Ortega y Gasset, s'accompagnant d'une remise en question cinglante de l'idée, si répandue, de la décadence de l'Occident, qui fait qu'on ne peut l'accuser d'être passéiste ou même réactionnaire, comme tant de mauvais lecteurs l'affirmèrent au moment de la parution du magistral essai : «Mais arrêtez l’individu qui l’énonce [l’idée de décadence de l’Europe] d’un geste léger, et demandez-lui sur quels phénomènes concrets et évidents il fonde son diagnostic; vous le verrez faire aussitôt des gestes vagues, et pratiquer cette agitation des bras vers la rotondité de l’univers, caractéristique de tout naufragé. De fait, il ne sait pas où s’accrocher. La seule chose qui apparaisse sans grandes précisions lorsqu’on veut définir l’actuelle décadence de l’Europe, c’est l’ensemble des difficultés économiques devant lesquelles se trouve aujourd’hui chacune des nations européennes. Mais quand on veut préciser un peu le caractère de ces difficultés, on remarque qu’aucune d’elles n’affecte sérieusement le pouvoir de création de richesses, et que l’Ancien Continent est passé par des crises de ce genre beaucoup plus graves» (p. 221).
L'Europe, incontestablement la puissance civilisatrice du monde, est appelée par l'auteur à son propre dépassement afin, une nouvelle fois, de montrer la voie à prendre et, ainsi, sauver le monde qui se trouve au bord de l'abîme : «La véritable situation de l’Europe en arriverait donc à être celle-ci : son vaste et magnifique passé l’a fait parvenir à un nouveau stade de vie où tout s’est accru; mais en même temps, les structures survivantes de ce passé sont petites et paralysent son expansion actuelle. L’Europe s’est constituée sous forme de petites nations. En un certain sens, l’idée et les sentiments nationaux ont été son invention la plus caractéristique. Et maintenant elle se voit obligée de se dépasser elle-même. Tel est le schéma du drame énorme qui va se jouer dans les années à venir. Saura-t-elle se libérer de ses survivances ou en restera-t-elle prisonnière ? car il est déjà arrivé une fois dans l’histoire qu’une grande civilisation est morte de n’avoir pu modifier son idée traditionnelle de l’État…» (p. 225).
Et une nouvelle fois d'exhorter les élites éclairées et les gouvernements à unir les nations européennes pour donner un nouveau sens à l'idée, caduque ou du moins figée dans la tradition (10), d'État-nation : «On ne voit guère quelle autre chose d’importance nous pourrions bien faire, nous qui existons de ce côté de la planète, si ce n’est de réaliser la promesse que, depuis quatre siècles, signifie le mot Europe. Seul s’y oppose le préjugé des vieilles «nations», l’idée de nation en tant que passé» (p. 254).
Je ne sais s'il ne serait pas trop facile de faire remarquer à l'auteur, s'il vivait encore, que l'édification de l'Europe qu'il appelait de ses vœux les plus ardents allait être à la source de l'hyperdémocratie routinière qu'il accablait par ailleurs, comme illustration monstrueuse d'une démocratie directe, la démocratie des masses (11) qui s'exerce par une force qui n'est plus ultima mais prima ratio (12) : «Aujourd’hui nous assistons au triomphe d’une hyperdémocratie dans laquelle la masse agit directement sans loi, imposant ses aspirations et ses goûts au moyen de pressions matérielles» (p. 89).
Et, de cette action de la masse fascinée par les mots vides pas encore totalement débarrassés de leur ancien prestige (13), l'intelligence de José Ortega y Gasset ne consiste-t-elle pas à nous avoir donné un synonyme, la barbarie, qui est du reste l'inverse même, notons-le, de ce recours aux forêts prôné par Jünger ? : «La civilisation n’est pas vraiment là, elle ne subsiste pas par elle-même, elle est artifice et requiert un artiste ou un artisan. Si vous voulez profiter des avantages de la civilisation, mais sans vous préoccuper de la soutenir… tant pis pour vous ; en un clin d’œil, vous vous trouverez sans civilisation. Un instant d’inattention, et lorsque vous regarderez autour de vous, tout se sera volatilisé. Comme si l’on avait brusquement détaché les tapisseries qui dissimulent la nature vierge, la forêt primitive reparaîtra, comme à son origine. La forêt est toujours primitive, et vice versa, tout le primitif est forêt» (p. 163).

Notes
(1) Voir la Préface pour le lecteur français, pp. 47, 71 et 81. Voici l'une des expressions qu'utilise le philosophe dans son contexte : «Il y a des époques surtout où la réalité humaine, toujours mobile, précipite sa marche, s’emballe à des vitesses vertigineuses. Notre époque est de celles-là. C’est une époque de descentes et de chutes», José Ortega y Gasset, La Révolte des masses [La rebellión de las masas, 1930] (Les Belles Lettres, traduit de l’espagnol par Louis Parrot, préface de José Luis Goyena, 2010), p. 47. Toutes les pages entre parenthèses renvoient à cette édition.
(2) Voir José Lasaga Medina, Malcolm Lowry, lector de Ortega, suivi de Malcolm Lowry, Carta a Downey Kirk, Revista de Estudios Orteguianos, n°18, 2009, Fundación José Ortega y Gasset.
(3) «Tout destin est dramatique et tragique si on le scrute jusqu’au fond. Celui qui n’a pas senti sous sa main palpiter le péril du temps n’est pas arrivé jusqu’au cœur du destin, et, si l’on peut dire, n’a fait qu’en effleurer la joue morbide» (p. 93).
(4) «Dans les révolutions, l’abstraction essaie de se soulever contre le concret. Aussi la faillite est-elle consubstantielle à toute révolution» (p. 75).
(5) Elias Canetti qui décrit, d'une façon toute expressionniste, l'atmosphère explosive du Berlin de l'entre-deux guerres : «L'aspect animal et l'aspect intellectuel, mis au jour et portés à leur apogée, se trouvaient en interaction, comme une sorte de courant alternatif. Quiconque s'était éveillé à sa propre animalité avant d'arriver à Berlin devait la pousser à son maximum pour pouvoir s'affirmer contre celle des autres et se retrouvait ensuite usé et ruiné, si l'on n'était pas d'une solidité exceptionnelle. Celui qui en revanche était dominé par son intellect et qui n'avait encore que peu cédé à son animalité ne pouvait que succomber à la richesse complexe de ce qui était proposé à son esprit. [...] On se traînait ainsi dans Berlin comme un morceau de viande avancée, on ne se sentait pourtant pas encore assez battu et l'on guettait les nouveaux coups», in Histoire d'une vie. Le flambeau dans l'oreille, 1921-1931 (Albin Michel, 1982), p. 314.
(6) «L’époque des masses, c’est l’époque du colossal» (p. 91).
(7) Voir cette image saisissante, où s'annonce un danger que José Ortega y Gasset semble voir confusément : «Quant à l’occasion qui subitement portera le processus à son terme, elle peut être Dieu sait quoi ! la natte d’un Chinois émergeant de derrière les Ourals ou bien une secousse du grand magma islamique» (p. 55).
(8) Notons la justesse de cette vue : «La vie actuelle est le fruit d’un interrègne, d’un vide entre deux organisations du commandement historique : celle qui fut et celle qui sera. C’est ce qui explique pourquoi elle est essentiellement provisoire. Les hommes ne savent pas plus quelles institutions ils doivent vraiment servir que les femmes ne savent quels types d’hommes elles préfèrent réellement. Les Européens ne savent pas vivre, s’ils ne sont engagés dans une grande entreprise qui les unit. Quand elle fait défaut, ils s’avilissent, s’amollissent, leur âme se désagrège. Nous avons aujourd’hui un commencement de désagrégation sous nos yeux. Les cercles qui, jusqu’à nos jours, se sont appelés nations, parvinrent, il y a un siècle, ou à peu près, à leur plus grande expansion. On ne peut plus rien faire avec eux si ce n’est que les dépasser» (p. 256).
(9) «Il est de moins en moins possible de mener une politique saine sans une large anticipation historique, sans prophétie. Les catastrophes actuelles parviendront peut-être à rouvrir les yeux des politiques sur le fait évident que certains hommes, de par les sujets auxquels ils consacrent presque tout leur temps, ou grâce à leurs âmes aussi sensibles que des sismographes ultra-perfectionnés, sont visités avant les autres par les signes du futur» (pp. 279-80).
(10) «[…] notre vie, si nous la considérons comme un ensemble de possibilités, est magnifique, exubérante, supérieure à toutes celles que l’on a connues jusqu’ici dans l’histoire. Mais par le fait même que ses limites sont plus vastes, elle a débordé tous les cadres, tous les principes, normes et idéals légués par la tradition» (p. 119).
(11) «La caractéristique du moment, c’est que l’âme médiocre, se sachant médiocre, a la hardiesse d’affirmer les droits de la médiocrité et les impose partout» (p. 90, l’auteur souligne).
(12) «La force était autrefois l’ultima ratio. Assez sottement d’ailleurs, on a pris la coutume d’interpréter ironiquement cette formule qui exprime fort bien la soumission préalable de la force aux normes rationnelles. La civilisation n’est rien d’autre que la tentative de réduire la force à l’ultima ratio. Nous commençons à le voir clairement maintenant, parce que «l’action directe» consiste à pervertir l’ordre et à proclamer la violence comme «prima ratio», et même comme unique raison. C’est la norme qui propose l’annulation de toute norme, qui supprime tout intermédiaire entre nos projets et leur mise en pratique. C’est la Magna Carta de la barbarie» (p. 149).
(13) «La violence est devenue la rhétorique de notre temps. Les rhéteurs, les cerveaux vides s’en emparent. Quand une réalité a accompli son histoire, a fait naufrage, est morte, les vagues la rejettent sur les rivages de la rhétorique, où, cadavre, elle subsiste longuement. La rhétorique est le cimetière des réalités humaines; tout au moins son hôpital d’invalides. Le nom survit seul à la chose; et ce nom, bien qu’il ne soit qu’un nom, est en fin de compte un nom, c’est-à-dire qu’il conserve quelque reste de son pouvoir magique» (pp. 192-3).