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jeudi, 19 septembre 2013

Une nouvelle Route de la Soie reliera l’Asie à l’Europe

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Une nouvelle Route de la Soie reliera l’Asie à l’Europe

Par Tatiana Golovanova

Ex: http://fortune.fdesouche.com

Les pays regroupés dans l’Organisation de coopération de Shanghai (OCS) pourront rétablir la Voie de la Soie sous forme d’un corridor de transport spécialement aménagé. Comme l’a annoncé vendredi au sommet de l’OCS à Bichkek (Kirghizie) le ministre de la Recherche et des technologies de la Chine Wang Gang, ce projet a trouvé un soutien auprès de tous les pays membres de l’organisation.

Les membres de l’OCS sont prêts à développer les échanges économiques et commerciaux. Durant ces trois mois des spécialistes de Chine, qui a pris l’initiative de faire renaître la Voie de la Soie, ont visité les pays d’Asie Centrale – le Kazakhstan, l’Ouzbékistan et la Turkménie.

La Voie de la Soie rénovée pourra relier la Chine à l’Europe via la Russie et les États d’Asie Centrale

Des ententes ont été conclues au sujet de la réalisation des projets communs pour des dizaines de milliards de dollars. L’aménagement d’un corridor de transport de l’Asie à l’Europe est une étape suivante de l’essor de ces rapports, remarque Sergueï Sanakoïev, secrétaire de la Chambre sino-russe.

« Il s’agit de créer un corridor transnational traversant le territoire du continent eurasiatique. Comme toujours, l’aménagement de tels corridors en plus de rendre possible la circulation des marchandises et des services prévoient aussi la création de grappes d’entreprises industrielles, de nouvelles productions, de technologies de pointe. Cela veut dire que cela ouvre de plus larges possibilités à la coopération dans le cadre de l’OCS lors de la mise en œuvre d’une telle initiative. »

Le projet est censé mettre en place un réseau routier reliant le Pacifique à la mer Baltique, anéantir les barrières commerciales, réduire les délais de livraison des marchandises et augmenter les règlements mutuels en monnaies nationales. L’une des variantes possibles de la future Voie de la Soie est le corridor de transport « Europe –Chine Occidentale ».

Il passera par le Kazakhstan, approchera la frontière de la Russie et se prolongera par Orenbourg et les autoroutes fédérales vers Saint-Pétersbourg et la Golfe de Finlande et la mer Baltique. La longueur de ce parcours pourra atteindre près de 8 500 km. Voici le commentaire d’Alexandre Potavine, analyste de la compagnie « RGS – Gestion des actifs ».
« En regardant la carte du monde et en évaluant les possibilités d’aménager une telle voie, on verra que les marchandises de Chine seront livrées via la Russie, l’Asie Centrale en Europe. Ce projet profite évidemment à la Chine. Il permet de minimiser les frais de transport, étant donnée que la Grande Voie de la Soie est d’environ un tiers est plus court que la voie maritime, contournant l’Asie et la péninsule Arabique. »

Si on réussit de mettre en œuvre cette conception, la Chine réduira les délais de livraison de ses marchandises. Actuellement les frets parviennent à l’Europe par mer au bout de 45 jours, par le Transsibérien – cela prend deux semaines. La nouvelle voie sera la plus courte et ne prendra pas plus de dix jours.

En plus de la Chine le corridor de transport permettra de se développer à d’autres participants. Ils pourront gagner bien sur le transit et la logistique, et vont encore attirer des investissements chinois pour leurs projets de transport, remarque Sergueï Sanakoïev.

La Voix de la Russie

mardi, 17 septembre 2013

LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE

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Claudio MUTTI

LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Sommario del numero XXXI (3-2013 [1])
 

“In queste condizioni, vi possono essere soltanto

lingue vincitrici e lingue vinte”

(J. V. Stalin, Al compagno Kholopov, 28 luglio 1950)

Lingua e Impero

Se il termine geolinguistica non fosse già utilizzato dai glottologi per significare la geografia linguistica o linguistica areale, ossia lo studio della diffusione geografica dei fenomeni linguistici, lo si potrebbe impiegare per indicare la geopolitica delle lingue, cioè il ruolo del fattore linguistico nel rapporto tra lo spazio fisico e lo spazio politico. A suggerire questa possibilità non è solo l’esistenza di analoghi composti nominali, come geostoria, geofilosofia, geoeconomia, ma anche la relazione della geopolitica delle lingue con una disciplina designata da uno di tali termini: la geostrategia.

La lengua es compañera del imperio“: il nesso tra egemonia linguistica ed egemonia politico-militare, così icasticamente rappresentato dal grammatico e lessicografo Elio Antonio de Nebrija (1441-1522), sottende la definizione che il Maresciallo di Francia Louis Lyautey (1854-1934) diede della lingua: “un dialetto che ha un esercito e una marina”. Al medesimo ordine di idee si ispira il generale Jordis von Lohausen (1907-2002), allorché prescrive che “la politica linguistica venga messa sullo stesso piano della politica militare” ed afferma che “i libri in lingua originale svolgono all’estero un ruolo talvolta più importante di quello dei cannoni”1. Secondo il geopolitico austriaco, infatti, “la diffusione d’una lingua è più importante d’ogni altra espansione, poiché la spada può solo delimitare il territorio e l’economia sfruttarlo, ma la lingua conserva e riempie il territorio conquistato”2. È questo, d’altronde, il senso della celebre frase di Anton Zischka (1904-1997): “Preferiamo i professori di lingue ai militari”.

L’affermazione del generale von Lohausen potrebbe essere illustrata da una vasta gamma di esempi storici, a partire dal caso dell’Impero romano, che tra i suoi fattori di potenza ebbe la diffusione del latino: una parlata contadina che con lo sviluppo politico di Roma diventò, in concorrenza col greco, la seconda lingua del mondo antico, usata dai popoli dell’Impero non perché costretti, ma perché indotti a ciò dal prestigio di Roma. Da principio il latino servì alle popolazioni assoggettate per comunicare coi soldati, i funzionari e i coloni; in seguito diventò il segno distintivo della comunità romana.

Tuttavia allo spazio imperiale romano, che per mezzo millennio costituì un’unica patria per le diversae gentes comprese tra l’Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non corrispose un’unica lingua: il processo di latinizzazione fu più lento e difficile quando i Romani si trovarono a contatto coi territori in cui si parlava la lingua greca, espressione e veicolo di una cultura che godeva, negli ambienti della stessa élite romana, di un prestigio superiore. Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell’esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale, alla quale gli idiomi locali dell’ecumene imperiale non potevano adempiere.

Sicuramente è pressoché impossibile separare con una netta linea di confine il dominio del latino e quello del greco all’interno dell’Impero romano; nondimeno possiamo affermare che la divisione dell’Impero in due parti e la successiva scissione avvennero lungo una linea di demarcazione coincidente grosso modo col confine linguistico, che tagliava a metà sia i territori europei sia quelli nordafricani. In Libia, è proprio lungo questa linea che si è recentemente prodotta la frattura che ha separato di nuovo la Tripolitania dalla Cirenaica.

In seguito la carta linguistica dell’Europa ci presenta una situazione che Dante descrive identificando tre distinte aree: quella del mondo germanico, in cui fa rientrare anche Slavi e Ungheresi, quella di lingua greca, quella degl’idiomi neolatini3; all’interno di quest’ultima egli può ulteriormente distinguere le tre unità particolari di provenzale (lingua d’oc), francese (lingua d’oil) e italiano (lingua del ). Ma Dante è ben lungi dall’usare l’argomento della frammentazione linguistica per sostenere la frammentazione politica; anzi, egli è convinto che solo la restaurazione dell’unità imperiale potrebbe far sì che l’Italia, “il bel paese là dove il sì suona”4, torni ad essere “il giardin dello ‘mperio”5. E l’impero ha la sua lingua, il latino, poiché, come dice lo stesso Dante, “lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile”6.

In un’Europa linguisticamente frammentata, che il Sacro Romano Impero vorrebbe ricostituire in unità politica, una potente funzione unitaria è svolta proprio dal latino: non tanto dal sermo vulgaris, quanto dalla lingua di cultura della res publica clericorum. Questo “latino scolastico”, se vogliamo indicarne la dimensione geopolitica, “è stato il portatore per tutta l’Europa, ed anche fuori, della civiltà latina e cristiana: confermandola, come nelle Spagne, nell’Africa (…), nelle Gallie; o acquisendo ad essa zone nuove o appena sfiorate dalla civiltà romana: la Germania, l’Inghilterra, l’Irlanda, per non parlare poi anche di paesi nordici e slavi”7.

Le grandi aree linguistiche

Fra tutti gl’idiomi neolatini, l’espansione maggiore è stata raggiunta dalla lengua castellana. In seguito alla bolla di Alessandro VI, che nel 1493 divise il nuovo mondo tra Spagnoli e Portoghesi, il castigliano si impose nelle colonie appartenute alla Spagna, dal Messico fino alla Terra del Fuoco; ma anche dopo l’emancipazione i singoli Stati sorti sulle rovine dell’Impero delle Americhe mantennero il castigliano come lingua nazionale, ragion per cui l’America latina possiede una relativa unità culturale e il dominio linguistico spagnolo si estende anche ad una parte del territorio statunitense.

Per quanto riguarda il dominio dell’altra lingua iberica, a testimoniare l’estensione dell’area coloniale che in altri tempi appartenne al Portogallo basterebbe il fatto che l’idioma di Camões è “la lingua romanza che ha dato origine al maggior numero di varietà creole, per quanto alcune siano estinte o in via di estinzione”8: da Goa a Ceylon, a Macao, a Giava, alla Malacca, a Capo Verde, alla Guinea. Tra gli Stati che hanno raccolto l’eredità lusofona, si impone oggi il Paese emergente rappresentato dall’iniziale dell’acronimo BRICS: il Brasile, coi suoi duecento milioni di abitanti, a fronte dei dieci milioni e mezzo che vivono nell’antica madrepatria europea.

L’espansione extraeuropea del francese come lingua nazionale, invece, è stata inferiore a quella che esso ha avuto come lingua di cultura e di comunicazione. Infatti, se il francese è la quinta lingua più parlata nel mondo per numero di locutori (circa duecentocinquanta milioni) ed è la seconda più insegnata come lingua straniera, si trova invece al nono posto per numero di madrelingua (circa settanta milioni; circa centotrenta se si aggiungono anche gl’individui bilingui). In ogni caso, è l’unica lingua a trovarsi diffusa, come lingua ufficiale, in tutti i continenti: è lingua di scambio in Africa, il continente che annovera il maggior numero di entità statali (più d’una ventina) in cui il francese è lingua ufficiale; è la terza lingua nell’America del Nord; è usata anche nell’Oceano Indiano e nel Pacifico meridionale. Gli Stati e i governi che a vario titolo hanno in comune l’uso del francese sono raggruppati nell’Organizzazione Internazionale della Francofonia (OIF), fondata il 20 marzo 1970 con la Convenzione di Niamey.

Eminentemente eurasiatica è l’area d’espansione del russo, lingua comune e ufficiale di uno Stato multinazionale che, pur nel succedersi di fasi storiche e politiche che ne hanno cambiato la dimensione territoriale, rimane il più esteso sulla faccia della terra. Se nel periodo sovietico il russo poteva essere glorificato come “lo strumento della civiltà più avanzata, della civiltà socialista, della scienza progressista, la lingua della pace e del progresso (…) lingua grande, ricca e potente (…) strumento della civiltà più avanzata del mondo”9 e in quanto tale reso obbligatorio nell’insegnamento dei paesi dell’Europa orientale, dopo il 1991 esso gode di un diverso statuto in ciascuno degli Stati successori dell’Unione Sovietica. Nella Federazione Russa, la Costituzione del 1992 sancisce il diritto di ogni cittadino alla propria appartenenza nazionale ed all’uso della lingua corrispondente ed inoltre garantisce a ciascuna Repubblica la facoltà di avvalersi, accanto alla lingua ufficiale russa, delle lingue delle nazionalità che la costituiscono.

Se il russo è al primo posto per l’estensione del territorio dello Stato del quale esso è lingua ufficiale, il cinese detiene la preminenza per il numero dei parlanti. Usato attualmente da circa un miliardo e trecento milioni di persone, il cinese si presenta fin dall’antichità come un insieme di varianti che rendono alquanto problematica l’applicazione del termine dialetto; fra tutte primeggia il mandarino, un gruppo grande e variegato che a sua volta si distingue in mandarino del Nord, dell’Ovest e del Sud. Il mandarino del Nord, che ha il suo centro a Pechino, è stato preso a modello per la lingua ufficiale (tōnghuà, letteralmente “lingua comune”), parlata come lingua madre da più di ottocento milioni di persone. Ufficialmente la popolazione della Repubblica Popolare Cinese, che nella sua Costituzione si definisce “Stato plurinazionale unitario”, consta di cinquantasei nazionalità (minzu), ciascuna delle quali usa la propria lingua; fra queste, la più numerosa è quella han (92% della popolazione), mentre le altre cinquantacinque, che costituiscono il restante 8%, “parlano almeno sessantaquattro lingue, di cui ventisei hanno una forma scritta e sono insegnate nelle scuole elementari”10.

L’hindi e l’urdu, che possono essere considerati continuazioni del sanscrito, sono le lingue predominanti nel subcontinente indiano, dove dieci Stati dell’Unione Indiana costituiscono la cosiddetta “cintura hindi” e dove l’urdu è lingua ufficiale del Pakistan. La differenza più evidente tra queste due lingue consiste nel fatto che la prima si serve della scrittura devanagari, mentre la seconda fa uso dell’alfabeto arabo; sul piano lessicale, l’hindi ha recuperato una certa quantità di elementi sanscriti, mentre l’urdu ha incorporato molti termini persiani. Per quando riguarda in particolare l’hindi, si potrebbe dire che esso ha svolto nel subcontinente indiano una funzione analoga a quella del mandarino in Cina, poiché, formatosi sulla base di un dialetto parlato nelle vicinanze di Delhi (il khari boli), insieme con l’inglese è diventato, fra le ventidue lingue citate nella Costituzione indiana, la lingua ufficiale dell’Unione.  

L’arabo, veicolo della rivelazione coranica, con l’espansione dell’Islam si è diffuso ben al di fuori dei suoi confini originari: dall’Arabia al Nordafrica, dalla Mesopotamia alla Spagna. Caratterizzato da una notevole ricchezza di forme grammaticali e da finezze di rapporti sintattici, incline ad arricchire il proprio lessico attingendo vocaboli da dialetti e da lingue straniere, l’arabo prestò il proprio sistema alfabetico a lingue appartenenti ad altre famiglie, quali il persiano, il turco, l’urdu; codificato dai grammatici e divenuto lingua dotta del dâr al-islâm, si sostituì al siriaco, al copto, ai dialetti berberi; arricchì con numerosi prestiti il persiano, il turco, le lingue indiane, il malese, le lingue iberiche; come strumento di filosofia e di scienza, influenzò le lingue europee quando i califfati di Bagdad e di Cordova costituivano i maggiori centri di cultura ai quali poteva attingere l’Europa cristiana. Oggi l’arabo è in diversa misura conosciuto, studiato ed usato, in quanto lingua sacra e di pratica rituale, nell’ambito di una comunità che oltrepassa il miliardo di anime. Come lingua madre, esso appartiene a circa duecentocinquanta milioni di individui, stanziati su un’area politicamente frazionata che dal Marocco e dalla Mauritania si estende fino al Sudan ed alla Penisola araba. A tale denominatore linguistico si sono richiamati i progetti di unità della nazione araba formulati nel secolo scorso: “Arabo è colui la cui lingua è l’arabo”11 si legge ad esempio nello statuto del Baath.  

La lingua dell’imperialismo statunitense

In tutta la prima metà del Novecento, la lingua straniera più conosciuta nell’Europa continentale era il francese. Per quanto riguarda in particolare l’Italia, “solo nel 1918 vennero istituite cattedre universitarie di inglese ed alla stessa data risale la fondazione dell’Istituto britannico di Firenze, che, con la sua biblioteca e i suoi corsi linguistici, divenne ben presto il centro più importante di diffusione appunto della lingua inglese a livello universitario”12. Alla Conferenza di pace dell’anno successivo gli Stati Uniti, che si erano ormai introdotti nello spazio europeo, imposero per la prima volta l’inglese – accanto al francese – quale lingua diplomatica. Ma a determinare il decisivo sorpasso del francese da parte dell’inglese fu l’esito della seconda guerra mondiale, che comportò la penetrazione della “cultura” angloamericana in tutta l’Europa occidentale. Dell’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico non era d’altronde inconsapevole lo stesso Sir Winston Churchill, che il 6 settembre 1943 dichiarò esplicitamente: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gl’imperi del futuro sono quelli della mente”. Con la caduta dell’Unione Sovietica, nell’Europa centro-orientale “liberata” l’inglese non solo ha scalzato il russo, ma ha anche soppiantato in larga misura il tedesco, il francese e l’italiano, che prima vi avevano un’ampia circolazione. D’altronde, l’egemonia dell’inglese nella comunicazione internazionale si è ulteriormente consolidata nella fase più intensa della globalizzazione.

Così i teorici angloamericani del mondo globalizzato hanno potuto elaborare, basandosi sul peso geopolitico esercitato dalla lingua inglese, il concetto di “Anglosfera”, definito dal giornalista Andrew Sullivan come “l’idea di un gruppo di paesi in espansione che condividono principi fondamentali: l’individualismo, la supremazia della legge, il rispetto dei contratti e degli accordi e il riconoscimento della libertà come valore politico e culturale primario”13. Pare che ad introdurre il termine “Anglosfera” sia stato nel 2000 uno scrittore americano, James C. Bennett; a suo parere “i paesi di lingua inglese guideranno il mondo nel XXI secolo” (Why the English-Speaking Nations Will Lead the Way in the Twenty-First Century è il sottotitolo del suo libro The Anglosphere Challenge), poiché l’attuale sistema degli Stati è condannato a crollare sotto i colpi del cyberspazio anglofono e dell’ideologia liberale. Lo storico Andrew Roberts, continuatore dell’opera storiografica di Churchill con A History of the English Speaking Peoples since 1900, sostiene che il predominio dell’Anglosfera è dovuto alla lotta dei paesi anglofoni contro le epifanie del Fascismo (ossia – sic – “la Germania guglielmina, il nazismo, il comunismo e l’islamismo”), in difesa delle istituzioni rappresentative e del libero mercato.

Meno ideologica la tesi dello storico John Laughland, secondo il quale “l’importanza geopolitica della lingua inglese è (…) rilevante solo in funzione della potenza geopolitica dei paesi anglofoni. Potrebbe essere uno strumento da questi usato per rafforzare la loro influenza, ma non è una fonte indipendente di quest’ultima, perlomeno non della potenza militare”14. La lingua, conclude Laughland, può rispecchiare la potenza politica, ma non la può creare.

In questo caso la verità sta nel mezzo. È vero che l’importanza di una lingua dipende – spesso ma non sempre – dalla potenza politica, militare ed economica del paese che la parla; è vero che sono le sconfitte geopolitiche a comportare quelle linguistiche; è vero che “l’inglese avanza a detrimento del francese perché gli Stati Uniti attualmente restano più potenti di quanto non lo siano i paesi europei, i quali accettano che sia consacrata come lingua internazionale una lingua che non appartiene a nessun paese dell’Europa continentale”15. Tuttavia esiste anche una verità complementare: la diffusione internazionale di una lingua, contribuendo ad aumentare il prestigio del paese corrispondente, ne aumenta l’influenza culturale ed eventualmente quella politica (un concetto, questo, che pochi riescono ad esprimere senza fare ricorso all’anglicismo soft power); a maggior ragione, il predominio di una lingua nella comunicazione internazionale conferisce un potere egemone al più potente fra i paesi che la parlano come lingua madre.

Per quanto concerne l’attuale diffusione dell’inglese, “lingua della rete, della diplomazia, della guerra, delle transazioni finanziarie e dell’innovazione tecnologica, non vi è dubbio: questo stato di cose regala ai popoli di lingua inglese un incomparabile vantaggio e a tutti gli altri un considerevole svantaggio”16. Come spiega meno diplomaticamente il generale von Lohausen, il vantaggio che gli Stati Uniti hanno ricavato dall’anglofonia “è stato uguale per i loro commercianti e per i loro tecnici, per i loro scienziati e i loro scrittori, i loro uomini politici e i loro diplomatici. Più l’inglese è parlato nel mondo, più l’America può avvantaggiarsi della forza creativa straniera, attirando a sé, senza incontrare ostacoli, le idee, gli scritti, le invenzioni altrui. Coloro la cui lingua materna è universale, posseggono un’evidente superiorità. Il finanziamento accordato all’espansione di questa lingua ritorna centuplicato alla sua fonte”17.

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Quale lingua per l’Europa?

Nei secoli XVI e XVII, dopo che la pace di Cateau Cambrésis (1559) ebbe sancito la dominazione spagnola in Italia, la lingua castigliana, oltre ad essere usata dalle cancellerie di Milano e di Napoli, si diffuse nel mondo della politica e delle lettere. Il numero delle voci italiane (e dialettali) nate in quel periodo per effetto dell’influsso spagnolo è elevatissimo18. Tra tutti questi ispanismi, però, alcuni furono usati solo in maniera occasionale e non si possono considerare come entrati nell’uso generale; altri ebbero vita effimera e scomparvero senza lasciar traccia; solo una minoranza entrò stabilmente a far parte del vocabolario italiano. In seguito alla pace di Utrecht (1713), che segnò la fine dell’egemonia spagnola nella penisola, l’influenza del castigliano sulla lingua italiana “è stata di gran lunga inferiore a quello dei secoli precedenti”19.

È lecito supporre che nemmeno il colonialismo culturale d’espressione angloamericana debba durare per l’eternità; anzi, alcuni linguisti già prevedono che all’odierna fase di predominio anglofono seguirà una fase di decadenza20. Essendo legato all’egemonia imperialistica statunitense, il predominio dell’inglese è destinato a risentire in maniera decisiva della transizione dallo stadio unipolare a quello multipolare, per cui lo scenario che la geopolitica delle lingue può ragionevolmente prefigurare è quello di un mondo articolato secondo il multipolarismo delle aree linguistiche.

Diversamente dal continente americano, che presenta una netta ripartizione tra il blocco anglofono del nord e quello ispanofono e lusofono della parte centrale e meridionale, l’Eurasia è il continente della frammentazione linguistica. Accanto ai grandi spazi rappresentati dalla Russia, dalla Cina o dall’India, relativamente omogenei sotto il profilo linguistico, abbiamo uno spazio europeo caratterizzato da una situazione di accentuato multilinguismo.

Perciò sarebbe stato logico che i fondatori della Comunità Economica Europea, se proprio volevano rifiutare una soluzione monolinguistica, adottassero come lingue ufficiali, tra quelle dei Paesi aderenti, le due o tre più parlate nell’area; magari scegliendo, in previsione dei successivi allargamenti della CEE, una terna di lingue che rappresentassero le tre principali famiglie presenti in Europa: la germanica, la romanza e la slava. Invece l’art. 1 del regolamento emanato nel 1958 indicò ben quattro lingue (francese, italiano, tedesco e olandese) come “lingue ufficiali e lingue di lavoro delle istituzioni della Comunità”, col risultato che le “lingue di lavoro” sono oggi praticamente tre: francese, tedesco e inglese.

Il fallimento dell’Unione Europea impone di sottoporre a radicale revisione il progetto europeista e di rifondare su nuove basi l’edificio politico europeo. La nuova classe politica che sarà chiamata ad affrontare questo compito storico non potrà più eludere un problema fondamentale come quello della lingua.

1. Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance, Editions du Labyrinthe, Arpajon 1996, p. 49.

2. Jordis von Lohausen, ibidem.

3. De vulgari eloquentia, VIII, 3-6.

4. Dante, Inf. XXXIII, 80.

5. Dante, Purg. VI, 105.

6. Dante, Convivio, I, 5.

7. Luigi Alfonsi, La letteratura latina medievale, Accademia, Milano 1988, p. 11.

8. Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 202.

9. “Voprosy Filozofij”, 2, 1949, cit. in: Lucien Laurat, Stalin, la linguistica e l’imperialismo russo, Graphos, Genova 1995, p. 52.

10. Roland Breton, Atlante mondiale delle lingue, Vallardi, Milano 2010, p. 34.

11. Michel ‘Aflaq, La resurrezione degli Arabi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, p. 54.

12. I. Baldelli, in Bruno Migliorini – Ignazio Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1972, p. 331.

13. Andrew Sullivan, Come on in: The Anglosphere is freedom’s new home, “The Sunday Times”, 2 febbraio 2003.

14. John Laughland, L’Anglosfera non esiste, “I quaderni speciali di Limes”, a. 2, n. 3, p. 178.

15. Alain de Benoist, Non à l’hégémonie de l’anglais d’aéroport!, voxnr.com, 27 maggio 2013.

16. Sergio Romano, Funzione mondiale dell’inglese. Troppo utile per combatterla, “Corriere della Sera”, 28 ottobre 2012.

17. Jordis von Lohausen, ibidem.

18. Gian Luigi Beccaria, Spagnolo e Spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Giappichelli, Torino 1968.

19. Paolo Zolli, Le parole straniere, Zanichelli, Bologna 1976, p. 76.

20. Nicholas Ostler, The Last Lingua Franca: English Until the Return of Babel, Allen Lane, London 2010.

 


 

Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org

 

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EU maakt weg vrij voor geheime bankreddingen met belastinggeld

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EU maakt weg vrij voor geheime bankreddingen met belastinggeld

'De Duitsers kunnen een groot deel van hun auto-export net zo goed op een boot laden en deze bij Hamburg tot zinken brengen. Dat zou net zoveel opleveren als het verkopen van Audi's in ruil voor schuldbekentenissen (IOU's) van de bankroete (euro)landen.'

De kogel is door de kerk. Waar we al lange tijd voor waarschuwen is nu door het Europese parlement mogelijk gemaakt: banken kunnen, in tegenstelling tot alle eerdere beloftes, voortaan met de miljarden van het Europese Stabilisatie Mechanisme (ESM) worden gered. Bovendien blijven deze 'reddingen' geheim voor het publiek. Brussel heeft hiermee een succesvolle, door de media onopgemerkte greep naar het belastinggeld van de Nederlanders en alle andere Europeanen gedaan.

 

ESM gaat tóch voor banken worden gebruikt

 

'Onze' politici zwijgen er het liefste over als het graf, maar u herinnert zich vast nog wel dat het volk werd verzekerd dat het ESM beslist niet voor het redden van de banken zou worden gebruikt. Rutte, Dijsselbloem en hun Brusselse bazen beloofden dat de lasten in de toekomst op de aandeelhouders, investeerders en banken zelf zouden worden afgewenteld.

 

Loze beloften en holle woorden, zo vreesden critici. Ze blijken gelijk te hebben gehad. Met 556 ja-stemmen, 54 nee-stemmen en 28 onthoudingen is het Europese (schijn-)parlement akkoord gegaan met een compromis over het Europese bankentoezicht. De Europarlementariërs krijgen op papier enkel het recht om uit minstens twee kandidaten het hoofd van de toezichthoudende instelling te kiezen, die twee keer per jaar verantwoording aan het EP moet afleggen. Verder krijgt de chef van de financiële commissie van het EP het recht op een 'niet openbare dialoog' met de hoofd-toezichthouder.

 

Overleg en besluiten blijven geheim

 

Het publiek mag hier echter niet van op de hoogte worden gebracht. Zowel de parlementariërs als de chef van de financiële commissie krijgen geheimhoudingsplicht opgelegd. Als de ECB-raad niet instemt met een besluit van de bankentoezichthouder, dan krijgen enkel ECB-president Draghi en EP-voorzitter Schulz dit te horen. De ECB-raad hoeft echter niet alle besproken zaken aan het parlement mee te delen.

 

Ook de protocollen van de zittingen van de commissie van het bankentoezicht worden geheim gehouden. Het EP krijgt slechts een 'gedetailleerde samenvatting' van wat er besproken is. Onofficiële informatie over de betroffen banken, die de ECB en de toezichthouder niet naar buiten willen brengen, krijgt ook het parlement niet te weten.

 

De reden van de geheimhouding is duidelijk: als bekend wordt welke banken in de problemen verkeren, dan dreigt net als op Cyprus paniek en vervolgens een bankrun te ontstaan.

 

'Meest verstrekkende stap EU ooit'

 

Europarlementariër Sven Giegold (Duitse Groenen), die zich tenminste voor minimale controle had ingezet, spreekt van de 'meest verstrekkende stap die de EU sinds de invoering' heeft genomen. Het Europese bankentoezicht wordt echter dermate vaag en ondoorzichtig opgezet, en het parlement krijgt hierbij een zo'n nietszeggende rol, dat van enige democratische legitimering geen enkele sprake is.

 

Het bankentoezicht betekent niets anders dat Europese banken voortaan uit het met belastinggeld gefinancierde ESM-fonds kunnen worden gered. Nogmaals: het ESM werd uitsluitend opgezet om in problemen geraakt lidstaten te ondersteunen. Het (her)kapitaliseren van de banken werd hierbij uitdrukkelijk uitgesloten.

 

Bankroete landen staan al in de rij

 

Vorig jaar juni besloten de minister van Financiën om het ESM ook voor de banken in te zetten, zogenaamd omdat men niet langer belastinggeld voor deze doeleinden wilde gebruiken. Spanje en Italië drongen het meeste aan op het inzetten van het ESM. Duitsland ging 'onder voorwaarden' akkoord.

 

Die voorwaarden zijn nu vervuld. Het bankentoezicht wordt vanaf de herfst van 2014 actief. Aangezien het Europese parlement al heeft ingestemd, is het onduidelijk of er nu al ESM-gelden naar de banken zullen vloeien, of dat men toch tot de officiële ingangsdatum in 2014 wacht.

 

Hoe dan ook, Griekenland, Ierland, Portugal, Spanje en Slovenië staan al in de rij om hun banken door het ESM -dus wel degelijk met het belastinggeld van de burgers- te laten 'redden', in de hoop het staatsbankroet te kunnen ontlopen. (1)

 

Ergste achter de rug?

 

Media en financiële instellingen, zoals kredietbeoordelaar Moody's, zeggen dan ook dat het ergste voor de banken achter de rug is. ECB-directeur Jörg Asmussen waarschuwde deze week echter dat er nog altijd geen zekerheid is dat we geen tweede 'Lehman Brothers' (het begin van de financiële crisis in 2008) zullen meemaken.

 

De Europese banken bouwen weliswaar hun portefeuilles met Zuid-Europese staatsschulden af, maar als de schuldencrisis zich verergert, zullen er wel degelijk nieuwe belastingmiljarden 'nodig' zijn om de banken overeind te houden. De crisis is daarom nog lang niet voorbij (2), wat EU-Commissiepresident José Manuel Barroso ook moge beweren.

 

Overigens kreeg salonmarxist Barroso deze week opnieuw de wind van voren van de Britse Europarlementariër Nigel Farrage, die hem verantwoordelijk stelde voor 'de ramp die de EU voor de armen en werkelozen' is geworden.

 

'Bezuinigingen zullen dramatisch mislukken'

 

Volgens de onafhankelijke financiële advies- en onderzoeksfirma GaveKal Research pompt de EU feitelijk waardeloze schuldpapieren in de Unie rond, en weet inmiddels niemand meer wie hier uiteindelijk voor moet opdraaien (wij wel: u, ik en alle andere gewone burgers).

 

'Het gevolg (van de grote renteverschillen) is dat de private sector massaal hun leningen verminderen, wat gecompenseerd wordt door een enorme toename van de overheidsuitgaven in onder andere Frankrijk, Italië en Spanje. De logica van dit systeem is inherent in strijd met de begrotingsregels van 'Maastricht', want zolang de rente ver boven de (economische) groei ligt, kunnen bezuinigingen alleen maar dramatisch mislukken.'

 

'Duitsers kunnen hun auto-export net zo goed tot zinken brengen'

 

'Het systeem veroorzaakt onverbiddelijk de vernietiging van de industriële basis in Italië, Frankrijk, Spanje en andere landen,' vervolgt Charles Gave. Dat de Duitse industrie hier nu van profiteert, is tijdelijke schijn. 'De Duitsers kunnen een groot deel van hun auto's net zo goed op een boot laden en deze bij Hamburg tot zinken brengen. Dat zou net zoveel opleveren als het verkopen van Audi's in ruil voor schuldbekentenissen (IOU's) van de bankroete (euro)landen.'

 

Deze IOU's duiken bij de ECB op in de vorm van de op deze site al vaak besproken beruchte, door de politieke doodgezwegen Target-2 balansen. 'Dat betekent dat niemand weet wie er uiteindelijk voor het verlies gaat opdraaien. Het spel gaat dus verder... totdat de soevereine landen binnen en buiten de EU stoppen met het accepteren van dit waardeloze papier.'

 

Crisis niet afgewend, maar versterkt

 

The Hamiltonian constateert dan ook dat de zogenaamde 'afgewende' crisis in werkelijkheid een versterkte crisis is. Het structurele probleem in Europa, het systeem waarin de Europese politieke, bureaucratische, media-, academische en financiële elite onderling met elkaar verbonden is, wordt niet opgelost. De EU stevent dan ook op een permanente Transferunie af, waarin landen zoals Duitsland en Nederland de andere lidstaten met miljarden overeind moeten houden, wat blijvend ten koste van hun eigen welvaart zal gaan.

 

Tenslotte deelde The Hamiltonian ook nog een forse sneer uit naar Barroso: 'Zijn opmerkingen afgelopen avond, dat iedere stap terug van 'Europa' dezelfde omstandigheden zal veroorzaken die leidden tot de Eerste Wereldoorlog, zijn niet alleen belachelijk verkeerd -hij zit er 180 graden naast- maar ronduit obsceen.' (3)

 

Xander

 

(1) Deutsche Wirtschafts Nachrichten
(2) KOPP
(3) Zero Hedge

lundi, 16 septembre 2013

L’Europa non ha difesa, ma a nessuno importa

L’Europa non ha difesa, ma a nessuno importa

Lorenzo Centini

Ex: http://www.statopotenza.it

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E’ un paradosso esiziale, o piuttosto dadaista, che in questi anni vocianti, in cui tutti si sono sentiti in dovere di esprimere giudizi sull’integrazione europea, nessuno abbia speso metà della propria energia culturale per farsi una domanda importante: “Ma l’Europa Unita, come si difende?”.


Probabilmente la Storia sarà inclemente con questa Unione zoppa e troppo improvvisata, fatta di distillatori portoghesi e taglialegna scandinavi, ma noi che ci troviamo a viverla, questa anomalia, abbiamo l’obbligo di sforzarci per rispondere ad alcune domande. Quella suddetta non è di secondaria importanza.


E’ assolutamente intuitivo che qualsiasi organismo nazionale o sovranazionale con tendenze direttive organiche abbia bisogno di una forza, se non altro di difesa. Finiti i tempi delle vacche grasse in cui ONU era un imperativo e i trattati erano tutti categorici e vincolanti ab aeternum, per giocare un ruolo importante nei destini del mondo, come L’Europa può ancora tentare di fare, è necessario avere a disposizione una salda forza militare, moderna e rapida, per poterla adoperare nello scontro diplomatico, come fiches o come spauracchio.
Al momento qualsiasi vaga forza millitare paneruopea è racchiusa nella PESC (politica estera e di sicurezza comune), una serie di direttive intermittenti decise in cicliche riunioni dei ministri degli esteri comunitari. Tuttavia tale forza non è costituita in modo continuo e gestita direttamente da un capo maggiore europeo, nominato od eletto, ma consiste in frammentarie alleanze a geometria variabilissima che, di volta in volta, vengono promosse per rispondere a questioni di sicurezza presentate come “comuni”.


Tale metodo, come si può evincere, non ha quasi mai funzionato. Nato nel 1970, non ha praticamente visto la luce del mondo fino agli anni 2000 (se si eccettua l’EUFOR, la forza europea a partecipazione nominale che aiutò l’ONU in Yugolasvia negli anni 90′), vista la peculiare situazione politica dell’Europa Unita durante la guerra fredda.


Dopo aver subito un revival negli anni della presidenza di Javier Solana (1999-2009) è stata trasformata nel 2010, quando il Trattato di Lisbona ha destituito la formula dei “pilastri dell’UE” eliminando le barriere che intercorrevano tra i processi integrativi economici, politici e militari.


Di lì in poi, il buio. La PESC, che non ha mai avuto alcuna influenza effettiva negli orientamenti dei singoli stati in tema di politica estera, non è nemmeno mai riuscita a federare un numero relativamente grande di compagini militari nazionali e a farle collaborare in qualche teatro estero. Le guerre statunitensi in medioriente hanno infatti visto i paesi europei spaccarsi in un fronte a favore e in uno contro. Discorso simile si può fare per le operazioni in Libia e Mali, dove la stragrande maggioranza dei ministri esteri si è guardata bene dall’impegnarsi in scorrerie nei balcani del mondo. Eccettuato Parigi, che come si sa ha da ridire solo se le guerre non può condurle lei.


Da vent’anni a questa parte, difatti, l’Unione Europea ha intrapreso un percorso di riconsiderazione. La struttura confederale dell’Unione e il suo passato dotato di molta massa critica ne hanno designato peculiarità e limiti. Il più grosso dei quali è sicuramente il rifiuto da parte dei quadri europei di definire l’UE come forza politica attiva e assertiva.
Domina infatti, come voga culturale, la tendenza a rifiutare qualsiasi interventismo comunitario, diffondendo l’immagine di un Europa compagnona che si impegna su tutti i fronti e in tutti i dialoghi ma che non è disposta a investire in questi processi capitali fattuali o non propriamentre diplomatici.


L’esempio fondante è sicuramente il dialogo tra Serbia e Kossovo. L’Unione Europa ha monopolizzato da subito il dialogo tra le parti per stabilizzare un cortile da sempre scottante, riuscendo anche ad ottenere pochi ma sensibili successi, come la pacificazione al livello militare della zona. Ma si è rifiutata sempre di impegnare mezzi o capitali, asserendo di non voler interevenire fisicamente in un paese sovrano. Stessa formula copicollata alla situazione Siriana, dove l’UE si è subito discostata da qualsiasi ipotesi di intervento dell’asse NATO-UE ma si è semplicemente dichiarata favorevole, in linea di principio, alle richieste dei ribelli. Le nozze coi fichi secchi.


La mancanza di una forza europea comune si farà sempre più sentire. Un Europa che si affida alle proprie capacità di pressione economica è un Europa che vive dei propri dividendi storici, convinta di essere un too big to fail geopolitico e assolutamente sicura di poter gestire il mondo attorno a lei, a livello comunitario, con ammonizioni e sanzioni.


Un Europa sempre più vecchia e autoreferenziale, il cui collante con gli States viene meno ogni giorno di più, visto che a Washginton ormai ci vedono più come un peso che come una risorsa, con armi quindi spuntate e incapacitata a chiamare il Papi a stelle e strisce quando vorrà fare la voce grossa.


Un Europa sempre più vecchia, in tutti i sensi, che in futuro potrà contare solo su una forza militare organizzata e specializzata, per supporto alle proprie (si spera concertate) future indicazioni geopolitiche e sulla propria capacità di organizzazione diagonale.
Un Europa che, con una forza militare propria, potrebbe anche pensare ad un percorso geopolitico proprio, senza l’ansia di rimanere senza ombrello difensivo.


Bruxelles, infatti, in questi anni, ha dimostrato in sede internazionale di non sopportare più totalmente le angherie geopolitiche atlantiste, reprimendo sempre più a fatica spinte autonomistiche di singoli stati. Già parlato della Francia, che da anni costituisce l’avanguardia antiamericana nel mondo occidentale sulle decisione macropolitiche estere nei consessi internazionali, anche il Bundestag ha ultimamente cambiato rotta, ammonendo per esempio gli States sulla loro assertività in Iraq, esponendo anche dubbi sulle politiche missilistiche Obamiane sulla frontiera col Limes Moscovita. Un caso che proprio Sarkozy e la Merkel, rispettivamente nel 2010 e nel 2011 abbiano caldeggiato la nascita di una forza militare europea? Non credo proprio.


La creazione di una forza militare comunitaria è il viatico per una traformazione radicale dell’UE, e potrebbe diventare un motore esterno quasi involontario per la cementificazione politico/economica dell’Unione e trasformarla da club aristocratico di potenze litigiose in attore importante della politica internazionale, magari in antitesi (ma questa è fantageopolitica) al mutilato blocco anglosassone.


Un inno alla gioia contenuta, si direbbe.

samedi, 14 septembre 2013

Laurent Ozon et les Troupes d'Occupation Mentale. Réponse aux menteurs

Laurent Ozon et les Troupes d'Occupation Mentale.

Réponse aux menteurs

Hollande, Tartarin de carton pâte

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Hollande, Tartarin de carton pâte

par Guy MILLIERE

Ex: http://www.les4verites.com

Lorsque j’ai vu François Hollande emboîter le pas de Barack Obama, puis se mettre en pointe dans les débats concernant une intervention en Syrie, je me suis tout de suite dit que cela allait mal tourner.

J’ai compris, certes, que Hollande soit fasciné par Obama et voie en lui un dirigeant crédible : ils ont en commun une profonde incompétence et une adhésion aux dogmes socialistes, et cela crée des affinités électives.

J’ai pu imaginer une seconde, cela dit, que Hollande avait tiré un minimum de leçons de l’immense monstruosité que fut la folle et sanglante équipée de l’attelage Sarkozy-Obama en Libye, avec les effroyables résultats dont, pudiquement, on ne parle pas dans les grands médias français, mais que tous les services de renseignement occidentaux connaissent.

J’ai pu songer que Hollande éviterait de se laisser entraîner vers l’éventualité d’une équipée du même genre, dans un pays où celle-ci serait plus dangereuse et où le choix n’est plus, depuis longtemps, qu’entre la peste et le choléra – et où s’allier contre la peste, en faisant le lit du choléra, ne peut que conduire au chaos accentué.

J’ai gravement surestimé l’intelligence de Hollande qui, décidément, n’est pas seulement un président inepte en politique intérieure, mais aussi un président catastrophique et crétin en politique étrangère.

Même si Hollande s’est placé en retrait pour tenter de trouver une porte de sortie, et invoque maintenant les Nations Unies et le vote du Congrès américain, une équipée se profile néanmoins. Si elle a lieu, Hollande y restera associé de manière indélébile.

Comme pour la Libye, il n’y aura, le cas échéant, pas de troupes au sol et il y aura une volonté nette de déstabiliser le régime en place. Comme en Libye, une aide sera apportée aux « rebelles ». Comme en Libye, on édulcorera la présence intense parmi ceux-ci de factions djihadistes qui ne valent pas mieux en termes de barbarie que les troupes qui leur font face. Comme en Libye, où nul des géniaux stratèges à l’œuvre n’a pris en compte les dimensions ethniques, nul ne semble prendre en compte les dimensions ethniques et religieuses de la Syrie aujourd’hui.

Mouammar Kadhafi appartenait à une tribu minoritaire de Tripolitaine et gouvernait par alliances de tribus, par l’appui des Touaregs du Fezzan et, de fait, contre les tribus de Cyrénaïque. Il avait fait appel aussi à une population noire venue d’Afrique sub-saharienne. Son renversement a donné libre cours aux exactions des islamistes de Cyrénaïque et a débouché sur des massacres en Tripolitaine, sur des tueries de noirs d’Afrique sub-saharienne, et sur le départ des Touaregs vers le Sahel, avec des armes prises dans les arsenaux de l’ancien régime.

Bachar Al Assad appartient à un groupe minoritaire, les Alaoui­tes, et gouverne en cultivant des liens avec la minorité chrétienne, contre la majorité sunnite. Le renversement de Bachar Al Assad déboucherait sans nul doute sur des massacres d’Ala­ouites et de Chrétiens, et sur la victoire d’islamistes sunnites dominés par les Frères musulmans et la mouvance d’Al Qaïda.

Que Barack Obama soit prêt à aider des islamistes n’est pas étonnant : il a toujours eu un penchant pour les islamistes dès lors qu’ils ne s’appelaient pas Oussama Ben Laden.

Il est absolument navrant que Hollande ait suivi (quand bien même il recule aujourd’hui) et, faute d’avoir des moyens militaires à fournir, se soit placé en position de Tartarin de carton pâte prétendant parler au nom des droits de l’homme, mais agissant, en réalité, en supplétif du pire président de l’histoire des États-Unis.

Qu’aucun autre dirigeant européen n’ait, au-delà de « paroles verbales », suivi Hollande sur ce terrain montre que, même si la plupart des dirigeants européens manquent souvent de courage et de lucidité, ils ne relèvent pas tous de l’asile d’aliénés.

Que des commentateurs osent encore parler du « modèle libyen » pour justifier une éventuelle intervention en Syrie montre qu’ils ont la mémoire courte et le regard biaisé.

Il est vrai que, lorsque les conséquences de l’intervention militaire, si intervention il y a, seront visibles, ils pourront toujours détourner les yeux et cacher les images…

vendredi, 13 septembre 2013

Syrie : confusion, imprudence et ridicule

Syrie : confusion, imprudence et ridicule

 
Ex: http://www.les4verites.com

hollande-valerie-syrie_0.jpgLa politique du gouvernement actuel de la France à l’égard de la Syrie est le prototype même de la confusion, de l’imprudence et d’une absence totale de bon sens.

François Hollande, capitaine de pédalo comme dit le camarade Mélenchon et chef d’un État en faillite où le budget de l’armée est sacrifié au profit de l’immigration afro-musulmane, veut être chef de guerre. Comme son prédécesseur, il veut, sabre au clair et panache socialiste au vent, maîtriser le printemps arabe – c’est-à-dire donner à l’armée française l’ordre de bombarder cet ancien protectorat français qu’est la Syrie.

Le précédent libyen, où l’intervention franco-sarkozyste a créé un chaos indescriptible aggravant la situation dans tout le Sahel africain et dispersant à travers l’Afrique et le Proche-Orient l’arsenal de Kadhafi, n’a pas servi de leçon. François Hollande veut recommencer en Syrie, avec cette circonstance aggravante que la situation, qui implique là-bas les grandes puissances, est extrêmement complexe et dangereuse.

La première question que l’on doit poser lorsque ce type d’intervention est à l’étude est celle-ci : quel est dans cette affaire l’intérêt national ? À cette question, je réponds immédiatement : il n’y a aucun intérêt national à intervenir militairement en Syrie, mais il y a des risques considérables à prendre. Derrière Bachar Al-Assad, nul n’ignore qu’il y a la Russie qui lui fournit tout l’armement nécessaire, l’Iran qui lui envoie tous les effectifs dont il a besoin et la Chine qui lui prodigue tout l’appui diplomatique qu’il peut souhaiter. Ajoutons à cela que de nombreux pays occidentaux, et non des moindres, refusent, arguments à l’appui, de s’engager militairement en Syrie : l’Allemagne, la Grande-Bretagne, l’Italie, la grande majorité des pays anglo-saxons, tous faisant observer que, si l’on se réclame du droit qu’à toute occasion la France veut imposer au monde entier, il convient pour commencer de respecter les règles de l’ONU et d’abord du conseil de sécurité dont la France est un membre permanent. La légalité n’est pas à géométrie variable. C’est ce que le secrétaire des Nations Unies a rappelé déclarant son opposition totale à une intervention armée en Syrie. Le pape, la plus haute autorité morale dans le monde, a lui aussi proclamé son opposition à toute aventure militaire en Syrie. Et, pour compléter cette opposition généralisée, Hermann Van Rompuy, président du conseil de l’UE, a, le 5 septembre, lui aussi, dit qu’il était tout à fait hostile à la politique de François Hollande. Voilà donc le président de la République française seul en Europe contre tous, à brandir les impératifs de l’éthique. « Je vais punir, moi seul, le méchant. » À ce propos, je me permettrai de rappeler que les Occidentaux ont aidé Saddam Hussein à utiliser des gaz toxiques contre les Iraniens en 1988 – « notre ami Saddam Hussein », pour lequel Jacques Chirac nourrissait la plus grande affection ! Je rappelle aussi que, pendant la guerre d’Indochine, Français et Américains ont utilisé surabondamment contre les populations civiles le napalm, qui n’est, dans ses effets, guère différent des gaz toxiques. Alors, de grâce, pour la vertu, Monsieur le Président, soyez discret !

Changeant d’avis tous les jours, donnant l’impression d’une improvisation quotidienne, ne sachant plus comment échapper au piège dans lequel il est tombé faute de jugement, François Hollande en est à laisser dire que des frappes n’auraient nullement pour but de renverser Bachar Al-Assad, ni de contrarier son protecteur, le tsar Vladimir Poutine, laissant entendre aussi que, le jour J, on avertira l’adversaire des objectifs choisis. À l’incohérence, on le voit, on ajoute le ridicule ! Et si, à l’inverse, une bavure se produisait, si le porte-avions Charles De Gaulle était torpillé, si le Hezbollah chiite libanais prenait le pouvoir à Beyrouth, que ferait-on ?

Ce qui est certain, en tout cas, c’est que des frappes auraient pour résultat assuré de faire de nouvelles victimes, comme s’il n’y en avait pas assez, de renforcer la détermination de Bachar Al-Assad et des populations alaouites, druzes, et chrétiennes qui le soutiennent, d’exciter davantage encore les Iraniens et le Hezbollah, de mettre Israël en péril, et de renforcer la volonté toujours présente des musulmans de provoquer, en représailles, de graves attentats – en France de préférence. Il serait bon aussi de tenir compte en priorité du fait que 80 % des rebelles syriens sont affiliés à Al Qaïda, que certains d’entre eux ont déjà proclamé « l’État islamique de Syrie », dans la région d’Alep où la charia est appliquée et que beaucoup de ces djihadistes encagoulés sont, outre des Caucasiens, des Maghrébins venant de France. Est-ce l’intérêt de la France de soutenir ces gens-là, alors que 70 % au moins de l’opinion française est hostile à l’intervention socialiste ?

Quand, enfin, ces princes qui, aujourd’hui sont au pouvoir en France, comprendront-ils que la conduite de l’État exige sérieux et réalisme ? À dire vrai, l’explication non dite de cette politique aventureuse est que François Hollande, et sans doute Obama, cherchent à redorer leur blason terni et à laisser une marque dans l’histoire. C’était aussi le but de Sarkozy en Libye. Il a bien laissé une marque dans l’histoire, mais hélas celle d’un politicien parvenu dépourvu de jugement qui a commis une grave erreur pour aboutir à un grave échec.

François Hollande qui, sauf le respect qu’on lui doit, n’a pas les qualités qu’exige la fonction, prend le même chemin. On n’en pleurerait pas. Le problème est qu’il peut nous jeter dans une aventure désastreuse et qu’il perd dans cette affaire toute crédibilité. Il faut le constater, ces gens-là sont dangereux. Aveuglés par leur idéologie, ils prennent les choses non pour ce qu’elles sont, mais pour ce qu’ils voudraient qu’elles soient. C’est le pire des dérèglements de l’esprit, disait Bossuet.

La sagesse exige de laisser les Arabes et les musulmans à leurs affaires. Depuis que l’indépendance leur a été accordée, ils s’entre-tuent dans un redoutable désordre. Eh bien, lorsqu’ils seront fatigués de s’entre-tuer, de s’entre-égorger, de s’entre-gazer, lorsque les chiites en auront assez de tuer les sunnites et vice versa, l’Occident et en particulier la France pourraient proposer des négociations pour la paix et une réelle démocratie. À cette occasion, on pourrait demander aux djihadistes syriens de bien vouloir libérer les deux journalistes français qu’ils détiennent, parmi d’autres, et de cesser de pratiquer le terrorisme, leur arme favorite qui, depuis si longtemps, tue femmes et enfants.

Une réflexion sur l’avenir de l’Europe

LE LIEU DU RADICAL EUROPEEN

 
Une réflexion sur l’avenir de l’Europe


Michel LHOMME
Ex: http://metamag.fr
La France est en récession. Pour l'année 2012, c'est un taux de croissance nul. Adam Smith avait prédit que les Etats européens finiraient par couler un jour ! C’est peut-être aujourd’hui !  

En Afrique, au contraire, on évoque des taux de croissance de 6% (10% en Ethiopie entre 2005 et 2010). Pour la Caraïbe et l'Amérique latine, le taux de croissance moyen est de 3,2% (Haïti et le Pérou, près de 6%). Le vrai combat mondial, ce n’est donc pas la Syrie mais plus que jamais le partage des richesses : ce n’est plus un combat simplement occidental. La France paie aujourd’hui le modèle de la surconsommation des années 60-70. Elle n’est plus un pays normal car un pays normal ne doit en aucun cas négliger sa production et son industrie. 


Les hommes politiques français ont privilégié depuis des décennies la surconsommation, le surendettement des ménages, une politique de grands centres commerciaux à l’américaine et d’alimentation industrielle. Or, comme le souligne Pierre Rabhi: " la croissance ce n'est pas la solution, c'est le problème". Ne faut-il pas replacer le commerce et l’économie dans un combat mondial géopolitique du partage des richesses. Ce sont les apports alimentaires africains, arabes, indiens, chinois et amérindiens qui ont fait la table de l'Occident (épices, bananes, café, thé, pomme de terre). Or nous sommes encore dans ce système occidental de répartition alimentaire. 

En Afrique et en Outre-mer, à voix basse, on entend très souvent dire qu’après tout le mal causé par le Blanc, il faudrait l'éliminer coûte que coûte. Pourtant, dans le monde, il ne faut pas qu'il n’y ait qu'un seul système. Il est possible de parler de croissance sans pour autant se laisser enfermer dans le seul paradigme occidental. S'il doit y avoir une alternative au système européen, laissons le cours de l'histoire se faire et nous verrons se dessiner une croissance africaine ou une alternative latino-américaine. Là encore, les intellectuels français complètement déphasés semblent se préparer pour la rentrée à défendre le convivialisme. Ils prétendent annoncer que l'économie libérale serait sur le point de rendre l’âme. Ce n’est que l’opinion géo-centrée et hexagonale d’un pays en déclin. Et en raison de cette opinion , on peut applaudir avec Adam Smith et nos amis africains, à la chute probable des vieux Etats européens.

Sur quel système, les échanges entre les pays du monde seront-ils basés demain ? 

L'OMC dans lequel adhèrent tous les pays souverains est toujours prédominant. Si nous remontons dans le temps, les échanges qui se faisaient entre les royaumes africains et les sultanats arabes n'étaient pas basés sur le système occidental de frontières douanières et de taxes : l'Europe n'avait pas encore colonisé l'Afrique et le Moyen-Orient. Idem pour la région Caraïbe ou polynésienne où les peuples circulaient et marchandaient de territoires en territoires sans avoir de passeports, de visas... Puis, la colonisation européenne est passée par là et maintenant au XXIème siècle, le commerce mondial se fait sous les contraintes juridiques occidentales des dites règles du commerce. L'Occident fait partie du monde mais maintenant, avec l’arrivée soudaine au premier plan des pays émergents, cet Occident ne pourra plus dicter ses lois de concurrence. On pourrait très bien imaginer des règles nouvelles d’un autre système commercial avec une alternative au système consumériste.

Avec l'arrivée de pays émergents comme la Chine, le Brésil, l'Inde, la Russie, l'Afrique du Sud, le Nigéria, la carte du monde change. Soucieuse d’égalité, l'Europe se retrouve en grande difficulté économique. Les USA sont obligés de traiter avec des pays qui jadis étaient "persona non grata" car ils ont besoin d’ouvrir leur marché, d’écouler leurs produits d’où l’idée d’accélérer le projet balladurien d’un traité de libre-commerce transatlantique. 

Il faut donc écrire au plus vite un guide de survie économique européen et pour cela poser les bases d’un nouvel espace économique avec les pays émergents, redéfinir les grands espaces du Sud et raisonner en termes de transfert de puissance. Le romancier créole antillais Patrick Chamoiseau écrivait récemment : « nous ne voyons que les ruines et les décombres se préciser autour de nous, mais l’horizon, l’en dehors, l’inconnu, l’inconcevable, nous brûle encore l’esprit… Le lieu est dans cette brûlure ». De quel lieu ?... Du « lieu du radical » précise-t-il, ce qu’un autre grand poète martiniquais, Edouard Glissant appelait « l’écart déterminant ». Chamoiseau ajoute dans cet entretien (Médiapart, 2 mai 2013) : « le poétique est le fondement du politique. Quand le politique s’en éloigne, il sombre dans la gestion ».

Le principal objectif d’une politique économique européenne ne serait-il pas la neutralisation économique américaine? Un tel programme impliquerait la fin du consumérisme et que les Américains soient prêts à abandonner leur leadership mondial. Ce serait l’occasion d’un grand revirement de la politique américaine comme l’a été la naissance du New Deal. Il serait en effet du devoir de l’Europe, de la défense de ses intérêts de susciter dans l’état de dette généralisée des Etats-Unis et surtout de sa probable dislocation interne et civile d’appuyer une telle politique de neutralisation américaine. Il faut donc refuser tout traité trans-atlantique qui ne vise qu’à faire entrer en masse les produits américains dans nos supermarchés. Pour l’Europe, ce serait une chance de sortir de l’impasse où se trouve actuellement la politique de ses Etats. 

Un moment  crucial

Pour la première fois, la volonté de domination américaine se retrouve en raison inverse de sa puissance politique interne et réelle. L’affirmation géo-économique dont elle rêve s’appuie sur une affirmation métaphysique. Or, on ne construit pas les réalités économiques de transformation (cf. Schumpeter) sur des affirmations métaphysiques. Tout manquera dans la culture américaine prochaine, dans les mœurs politiques et sociales du pays pour la rendre effective. On ne maintient pas une hyperpuissance avec des obèses ou des drogués. Et ce malgré tout l’aspect concret de l’affirmation politique américaine : un patriotisme fort, lié en la croyance en une prédestination biblique. Le péril interne américain, péril sociologique explique et justifie le durcissement visible du pouvoir fédéral, de son armature administrative et militaire, de son obsession de la surveillance nationale et internationale, de son orientation de plus en plus totalitaire mais cela ne l’empêchera pas de demeurer prisonnier dans la formation de ses élites des valeurs modernistes et libérales qu’il affiche. Il y a donc pour l’Europe et ses peuples un devoir de résistance. 

Pour une séparation du Laïcisme et de l'État

Pour une séparation du Laïcisme et de l'État

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr

laicisme-contre-la-liberte.jpgPeillon s'est encore fait remarquer pour la rentrée scolaire. Le personnage communique beaucoup. Tel Robespierre, qu'il admire et qui, cependant signa son arrêt de mort à la Fête de l'Être suprême, il pose en grand maître d'une religion [presque] nouvelle.

Tout cela le prétentieux personnage l'écrit lui-même.

Qu'on en juge par ses propres citations :

On remarquera d'abord que, comme beaucoup d'esprits marqués par l'enseignement de la philosophie, il fait bon marché de la connaissance concrète de l'Histoire. Voici en effet comment il définit la révolution :

"La révolution française est l’irruption dans le temps de quelque chose qui n’appartient pas au temps, c’est un commencement absolu, c’est la présence et l’incarnation d’un sens, d’une régénération et d’une expiation du peuple français. 1789, l’année sans pareille, est celle de l’engendrement par un brusque saut de l’histoire d’un homme nouveau. La révolution est un événement méta-historique, c’est-à-dire un événement religieux." (1)⇓

Et il enchaîne donc par cette conclusion, certes logique, mais terrifiante :

"La révolution implique l’oubli total de ce qui précède la révolution. Et donc l’école a un rôle fondamental, puisque l’école doit dépouiller l’enfant de toutes ses attaches pré-républicaines pour l’élever jusqu’à devenir citoyen. C’est une nouvelle naissance, une transsubstantiation qui opère dans l’école et par l’école cette nouvelle église avec son nouveau clergé, sa nouvelle liturgie, ses nouvelles tables de la loi."

On se situe exactement dans cette idée rousseauiste "il faut les forcer d'être libres" qu'Augustin Cochin souligne. (2)⇓

Peillon ose écrire : "La laïcité elle-même peut alors apparaître comme cette religion de la République recherchée depuis la Révolution". (3)⇓

Mais il déclare par ailleurs ouvertement que "la franc-maçonnerie est la religion de la république"(4)⇓

Le laïcisme qu'il professe se veut par conséquent l'expression profane, le mot d'ordre, – et comme le mot "républicain",– le mot de passe d'une secte, d'ailleurs divisée, dont on rappellera qu'au sein de l'Éducation dite Nationale elle doit représenter au maximum 1 % des fonctionnaires eux-mêmes, malgré sa réputation d'ascenseur professionnel : ce qui doit bien vouloir dire qu'elle dégoûte les autres 99 %.

Cessons donc de confondre laïcité et neutralité. L'un des fondateurs du système, Viviani, qui fut président du Conseil au moment de la déclaration de guerre de 1914, l'écrivait à l'époque: "La neutralité est, elle fut toujours un mensonge [...]. Un mensonge nécessaire lorsque l’on forgeait, au milieu des impétueuses colères de la droite, la loi scolaire [...]. On promit cette chimère de la neutralité pour rassurer quelques timidités dont la coalition eût fait obstacle au principe de la loi. Mais Jules Ferry avait l’esprit trop net pour croire en l’éternité de cet expédient [...]." (5)⇓

Le développement de l'éducation étatique a toujours été conçu en vue de perpétuer le système.

Le fonctionnement de cette coûteuse administration, lourdement centralisée, se révèle d'année en année plus improductif, et plus destructeur.

Les écoles d'État ne parviennent plus à enseigner aux enfants de France à lire, écrire et compter. Mais on veut, par l'effet du laïcisme totalitaire, faire semblant d'imposer avec une soi-disant "morale laïque", dont personne ne connaît les fondements, un recul de l'islamisme, lâchement, sans oser le nommer : cette rustine méprisable, poisseuse et liberticide ne servira à rien. Jetons la sans hésiter. Séparons le laïcisme de l'État.

JG Malliarakis       

Apostilles

  1. cf. "La révolution française n’est pas terminée" Seuil 2008 page 17
  2. *cf. "Les sociétés de pensée et la démocratie moderne" Éditions du Trident.
  3. Ibidem p. 162
  4. cf. ses déclarations destinées à promouvoir son livre enregistrées au départ sur le site de son éditeur.
  5. cf. L’Humanité 4 octobre 1904.

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Intervention en Syrie : la recherche d'un prétexte à tout prix

La recherche d'un prétexte à tout prix...

par Eric Dénécé

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous une excellente analyse d'Eric Dénécé, spécialiste des questions de renseignement et ancien analyste Secrétariat Général de la Défense Nationale, qui anime depuis quelques années les travaux du Centre français de recherche sur le renseignement (CF2R). Eric Dénécé a récemment publié La face cachée des « révolutions » arabes (Ellipses, 2012) et Les services de renseignement français sont-ils nuls ? (Ellipse, 2012).

 

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Intervention en Syrie : la recherche d'un prétexte à tout prix

La coalition réunissant les Etats-Unis, le Royaume Uni, la France, la Turquie, l'Arabie saoudite et le Qatar vient de franchir un nouveau pas dans sa volonté d'intervenir en Syrie afin de renverser le régime de Bachar El-Assad. Utilisant ses énormes moyens de communication, elle vient de lancer une vaste campagne d'intoxication de l'opinion internationale afin de la convaincre que Damas a utilisé l'arme chimique contre son peuple, commettant ainsi un véritable crime contre l'humanité et méritant  « d'être puni ».

Aucune preuve sérieuse n'a été présentée à l'appui de ces affirmations. Au contraire, de nombreux éléments conduisent à penser que ce sont les rebelles qui ont utilisé ces armes. Ces mensonges médiatiques et politiques ne sont que des prétextes. Ils rappellent les tristes souvenirs du Kosovo (1999), d'Irak (2003) et de Libye (2010) et ont pour but de justifier une  intervention militaire afin de renverser un régime laïque, jugé hostile par les Etats-Unis  - car allié de l'Iran et ennemi d'Israël - et impie par les monarchies wahhabites d'Arabie saoudite et du Qatar. Il est particulièrement affligeant de voir la France participer à une telle mascarade.

La falsification des faits

Depuis deux ans, des informations très contradictoires et souvent fausses parviennent en Europe sur ce qui se passe actuellement en Syrie. Il est ainsi difficile de comprendre quelle est la situation exacte dans ce pays. Certes, le régime syrien n'est pas un modèle démocratique, mais tout est mis en œuvre par ses adversaires afin de noircir le tableau, dans le but d'assurer le soutien de l'opinion internationale à l'opposition extérieure et de justifier les mesures prises à son encontre, dans l'espoir d'accélérer sa chute.

Cette falsification des faits dissimule systématiquement à l'opinion mondiale les éléments favorables au régime :

- le soutien qu'une grande partie de la population syrienne - principalement les sunnites modérés et les minorités (chrétiens, druzes, chiites, kurdes) - continue d'apporter à Bachar El-Assad, car elle préfère de loin le régime actuel - parfois par défaut - au chaos et à l'instauration de l'islam radical ;

- le fait que l'opposition intérieure, historique et démocratique, a clairement fait le choix d'une transition négociée et qu'elle est, de ce fait, ignorée par les pays occidentaux ;

- la solidité militaire du régime : aucune défection majeure n'a été observée dans l'armée, les services de sécurité, l'administration et le corps diplomatique et Damas est toujours capable d'organiser des manœuvres militaires majeures ;

- son large soutien international. L'alliance avec la Russie, la Chine, l'Iran et le Hezbollah libanais ne s'est pas fissurée et la majorité des Etats du monde s'est déclarée opposée à des frappes militaires, apportant son soutien total aux deux membres permanents du Conseil de Sécurité de l'ONU - Russie et Chine - qui ont clairement indiqué qu'ils n'autoriseraient pas une action armée contre la Syrie. Rappelons également que le régime syrien n'a été à ce jour l'objet d'aucune condamnation internationale formelle et demeure à la tête d'un Etat membre à part entière de la communauté internationale ;

- le refus délibéré des Occidentaux, de leurs alliés et de la rébellion de parvenir à une solution négociée. En effet, tout a été fait pour radicaliser les positions des ultras de Damas en posant comme préalable le départ sans condition du président Bachar.

Au contraire, l'opposition extérieure, dont on cherche à nous faire croire qu'elle est LA solution, ne dispose d'aucune légitimité et demeure très éloignée des idéaux démocratiques qu'elle prétend promouvoir, en raison de ses options idéologiques très influencées par l'islam radical.

De plus, la rébellion syrienne est fragmentée entre :

- une opposition politique extérieure groupée autour des Frères musulmans, essentiellement contrôlée par le Qatar et la Turquie ;

- une « Armée syrienne libre » (ASL), composée d'officiers et d'hommes de troupe qui ont déserté vers la Turquie et qui se trouvent, pour la plupart, consignés dans des camps militaires faute d'avoir donné des gages d'islamisme suffisants au parti islamiste turc AKP. Son action militaire est insignifiante ;

- des combattants étrangers, salafistes, qui constituent sa frange la plus active et la plus violente, financés et soutenus par les Occidentaux, la Turquie, le Qatar et l'Arabie saoudite.

Ainsi, la Syrie connaît, depuis deux ans, une situation de guerre civile et des affrontements sans merci. Comme dans tous les conflits, les victimes collatérales des combats sont nombreuses, ainsi que les atrocités. Toutefois, les grands médias internationaux qui donnent le ton - qui appartiennent tous aux pays hostiles à la Syrie - cherchent à donner l'impression que les exactions, massacres et meurtres sont exclusivement le fait du régime et de son armée.

Si certaines milices fidèles au régime ont commis des exactions, cela ne saurait en aucun cas dissimuler les innombrables crimes de guerre qui sont chaque jour, depuis deux, ans l'œuvre de la rébellion, et dont sont victimes la population syrienne fidèle au régime, les minorités religieuses et les forces de sécurité. Ce fait est systématique passé sous silence. Pire, les nombreux actes de barbarie des djihadistes soutenus par l'Occident, la Turquie et les monarchies wahhabites sont même souvent attribués au régime lui-même, pour le décrédibiliser davantage.

L'Observatoire syrien des droits de l'Homme (OSDH), principale source des médias sur les victimes de la « répression », est une structure totalement inféodée à la rébellion, crée par les Frères musulmans à Londres. Les informations qu'il diffuse relèvent de la pure propagande et n'ont donc aucune valeur ni objectivité. S'y référer est erroné et illustre l'ignorance crasse ou de la désinformation délibérée des médias.

Enfin, face à ce Mainstream médiatique tentant de faire croire que le Bien est du côté de la rébellion et de ses alliés afin d'emporter l'adhésion de l'opinion, toute tentative de vouloir rétablir un minimum d'objectivité au sujet de ce conflit est immédiatement assimilée à la défense du régime.

Les objectifs véritables d'une intervention en Syrie

Dès lors, on est en droit de s'interroger sur les raisons réelles de cet acharnement contre Bachar Al-Assad et d'en rechercher les enjeux inavoués. Il en existe au moins trois :

- casser l'alliance de la Syrie avec l'Iran ; le dossier iranien conditionne largement la gestion internationale de la crise syrienne. En effet, depuis trois décennies, Damas est l'allié de l'Iran, pays phare de « l'axe du mal » décrété par Washington, que les Américains cherchent à affaiblir par tous les moyens, tant en raison de son programme nucléaire, de son soutien au Hezbollah libanais, que de son influence régionale grandissante ;

- rompre « l'axe chiite » qui relie Damas, Bagdad, Téhéran et le Hezbollah, qui est une source de profonde inquiétude pour les monarchies du Golfe qui sont, ne l'oublions pas, des régimes autocratiques et qui abritent d'importantes minorités chiites. Ainsi, Ryad et Doha ont désigné le régime iranien comme l'ennemi à abattre. Elles veulent la chute du régime syrien anti-wahhabite et pro-russe, afin de transformer la Syrie en base arrière pour reconquérir l'Irak - majoritairement chiite - et déstabiliser l'Iran. Elles cherchent aussi à liquider le Hezbollah libanais. En cela, leur agenda se confond avec celui de Washington ;

- détruire les fondements de l'Etat-nation laïc syrien pour le remplacer par un régime islamiste. Cela signifie livrer Damas aux forces wahhabites et salafistes favorables aux pétromonarchies du Golfe, ce qui signifie l'éclatement du pays en plusieurs entités en guerre entre elles ou, pire, l'asservissement voire le massacre des minorités non sunnites.

Ces objectifs non avoués n'ont pas été jusqu'ici atteints et ne le seront pas tant qu'existera le soutien sino-russe et tant que l'axe Damas-Téhéran ne se disloquera pas.

Le faux prétexte des armes chimiques

Face à la résistance de l'Etat syrien et de ses soutiens, la coalition américano-wahhabite a décidé d'employer les grands moyens afin de faire basculer l'opinion et de justifier une intervention militaire : accuser Damas de recourir aux armes chimiques contre sa propre population.

Une première tentative a été entreprise en avril dernier. Malheureusement, l'enquête des inspecteurs de l'ONU a révélé que l'usage d'armes chimiques était le fait de la rébellion. Ce rapport n'allant pas dans le sens que souhaitait la coalition américano-wahhabite, il a été immédiatement enterré. Seul le courage de Carla del Ponte a permis de révéler le pot aux roses. Notons cependant que les « médias qui donnent le ton » se sont empressés de ne pas lui accorder l'accès à leur antenne et que cette enquête a été largement passée sous silence.

Les événements du 21 août dernier semblent clairement relever de la même logique. Une nouvelle fois, de nombreux éléments conduisent à penser qu'il s'agit d'un montage total, d'une nouvelle campagne de grande envergure pour déstabiliser le régime :

- le bombardement a eu lieu dans la banlieue de Damas, à quelques kilomètres du palais présidentiel. Or, nous savons tous que les gaz sont volatils et auraient pu atteindre celui-ci. L'armée syrienne n'aurait jamais fait cela sauf à vouloir liquider son président !

- les vecteurs utilisés, présentés par la presse, ne ressemblent à aucun missile en service dans l'armée syrienne, ni même à aucun modèle connu. Cela pourrait confirmer leur origine artisanale, donc terroriste ;

- de plus, des inspecteurs de l'ONU étaient alors présents à Damas et disposaient des moyens d'enquête adéquats pour confondre immédiatement le régime ;

- les vidéos présentées ne prouvent rien, certaines sont même de grossières mises en scène ;

- enfin, le régime, qui reconquiert peu à peu les zones tenues par la rébellion, savait pertinemment que l'emploi d'armes chimiques était une « ligne rouge » à ne pas franchir, car cela déclencherait immédiatement une intervention militaire occidentale. Dès lors, pourquoi aurait-il pris in tel risque ?

Aucune preuve sérieuse n'a été présentée à l'appui la « culpabilité » de l'armée syrienne. Au contraire, tout conduit à penser que ce sont les rebelles qui ont utilisé ces armes, car contrairement à ce qui est avancé par la note déclassifiée publiée par le gouvernement français, les capacités chimiques des terroristes sont avérées :

- en Irak (d'où proviennent une partie des djihadistes de la rébellion syrienne), les autorités ont démantelé début juin 2013 une cellule d'Al-Qaida qui préparait des armes chimiques. Trois laboratoires ont été trouvés à Bagdad et dans ses environs avec des produits précurseurs et des modes opératoires de fabrication de gaz sarin et moutarde ;

- en Syrie, le Front Al-Nosra est suspecté avoir lancé des attaques au chlore en mars 2013 qui auraient causé la mort de 26 Syriens dont 16 militaires ;

- pour sa part, Al-Qaida a procédé en 2007 une douzaine d'attaques du même type à Bagdad et dans les provinces d'Anbar et de Diyala, ce qui a causé la mort de 32 Irakiens et en a blessé 600 autres. En 2002, des vidéos montrant des expérimentations d'armes chimiques sur des chiens ont été trouvées dans le camp de Darunta, près de la ville de Jalalabad, en Afghanistan.

Les errements de la politique étrangère française

A l'occasion cet imbroglio politico-médiatique dans lequel ses intérêts stratégiques ne sont pas en jeu, le gouvernement français mène une politique incompréhensible pour nos concitoyens comme pour l'étranger.

Depuis deux ans, la France, par le biais de ses services spéciaux, - comme d'ailleurs les Américains, les Britanniques et les Turcs - entraîne les rebelles syriens et leur fournit une assistance logistique et technique, laissant l'Arabie saoudite et le Qatar les approvisionner en armes et en munitions.

Ainsi, la situation syrienne place la France devant ses contradictions. Nous luttons contre les djihadistes au Mali, après les avoir aidés à prendre le pouvoir à Tripoli - en raison de l'intervention inconsidérée de l'OTAN en Libye, en 2011, dans laquelle Paris a joué un rôle clé - et continuons de les soutenir en Syrie, en dépit du bon sens. Certes le régime de Bachar Al-Assad n'est pas un modèle de démocratie et il servait clairement les intérêts de la minorité alaouite, mais il est infiniment plus « libéral » que les monarchies wahhabites : la Syrie est un Etat laïque où la liberté religieuse existe et où le statut de la femme est respecté. De plus, il convient de rappeler que Damas a participé activement à la lutte contre Al-Qaïda depuis 2002. Pourtant, nous continuons d'être alliés à l'Arabie saoudite et au Qatar, deux Etats parmi les plus réactionnaires du monde arabo-musulman, qui, après avoir engendré et appuyé Ben Laden, soutiennent les groupes salafistes partout dans le monde, y compris dans nos banlieues. Certes, notre soutien aux agendas saoudien et qatari se nourrit sans nul doute de l'espoir de quelques contrats d'armement ou pétroliers, ou de prêts financiers pour résoudre une crise que nos gouvernants semblent incapables de juguler.

Une question mérite donc d'être posée : la France a-t-elle encore une politique étrangère ou fait-elle celle du Qatar, de l'Arabie saoudite et des Etats-Unis ? Depuis la présidence de Nicolas Sarkozy la France aligne ses positions internationales sur celles des Etats-Unis et a perdu, de ce fait, l'énorme capital de sympathie que la politique du général de Gaulle - non ingérence dans les affaires intérieures des Etats et défense du droit des peuples à disposer d'eux-mêmes - lui avait constitué.

Si les élections de mai 2012 ont amené un nouveau président, la politique étrangère n'a pas changé. En fait, nous observons depuis plusieurs années la conversion progressive d'une partie des élites françaises  - de droite comme de gauche - aux thèses néoconservatrices américaines : supériorité de l'Occident, néocolonialisme, ordre moral, apologie de l'emploi de la force ...

Surtout, un fait nouveau doit être mis en lumière : la tentative maladroite des plus hautes autorités de l'Etat de manipuler la production des services de renseignement afin d'influer sur l'opinion publique et de provoquer un vote favorable des parlementaires. Ce type de manœuvre avait été conduit par Washington et Londres afin de justifier l'invasion de l'Irak en 2003, avant d'être dénoncé. Onze ans plus tard, le gouvernement recourt au même artifice grossier et éculé pour justifier ses choix diplomatiques et militaires. Compte tenu de la faiblesse des arguments présentés dans la note gouvernementale - qui n'est pas, rappelons-le, une note des services -, celle-ci ne sera d'aucune influence sur la presse et l'opinion. En revanche, par sa présentation, elle contribue à décrédibiliser le travail des services de renseignement, manipulés à leur insu dans cette affaire.

Le mépris des politiques français à l'égard des services est connu. Est-ce un hasard si cette affaire survient alors que l'actuel ministre des Affaires étrangères est celui-là même qui, en 1985, alors qu'il était chef du gouvernement, a fort élégamment « ouvert le parapluie », clamant son absence de responsabilité à l'occasion de l'affaire du Rainbow Warrior ?

Une chose au moins est sûre : une remise à plat de notre position à l'égard de la Syrie et de notre politique étrangère s'impose, car « errare humanum est, perseverare diabolicum ».

Eric Dénécé (Centre français de recherche sur le renseignement, 6 septembre 2013)

jeudi, 12 septembre 2013

Alexander Dugin on Syria and the New Cold War

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Alexander Dugin on Syria and the New Cold War

Alternative Right

An interview with Alexander Dugin on the Syrian crisis.

 

Prof. Dugin, the world faces right now in Syria the biggest international crisis since the downfall of the Eastern Block in 1989/90. Washington and Moscow find themselves in a proxy-confrontation on the Syrian battleground. Is this a new situation?

Dugin: We have to see the struggle for geopolitical power as the old conflict of land power represented by Russia and sea power represented by the USA and its NATO partners. This is not a new phenomenon; it is the continuation of the old geopolitical and geostrategic struggle. The 1990s was the time of the great defeat of the land power represented by the USSR. Mikhail Gorbachev refused the continuation of this struggle. This was a kind of treason and resignation in front of the unipolar world. But with President Vladimir Putin in the early years of this decade, came a reactivation of the geopolitical identity of Russia as a land power. This was the beginning of a new kind of competition between sea power and land power.

How did this reactivation start?

Dugin: It started with the second Chechen war (1999-2009). Russia by that time was under pressure by Chechen terrorist attacks and the possible separatism of the northern Caucasus. Putin had to realize all the West, including the USA and the European Union, took sides with the Chechen separatists and Islamic terrorists fighting against the Russian army. This is the same plot we witness today in Syria or recently in Libya. The West gave the Chechen guerrillas support, and this was the moment of revelation of the new conflict between land power and sea power. With Putin, land power reaffirmed itself. The second moment of revelation was in August 2008, when the Georgian pro-Western Saakashvili regime attacked Zchinwali in South Ossetia. The war between Russia and Georgia was the second moment of revelation.

Is the Syrian crisis now the third moment of revelation?

Dugin: Exactly. Maybe it is even the final one, because now all is at stake. If Washington doesn´t intervene and instead accepts the position of Russia and China, this would be the end of the USA as a kind of unique superpower. This is the reason why I think Obama will go far in Syria. But if Russia steps aside and accepts the US-American intervention and if Moscow eventually betrays Bashar al-Assad, this would mean immediately a very hard blow to the Russian political identity. This would signify the great defeat of the land power. After this, the attack on Iran would follow and also on northern Caucasus. Among the separatist powers in the northern Caucasus there are many individuals who are supported by the Anglo-American, Israeli and Saudi powers. If Syria falls, they will start immediately the war in Russia, our country. Meaning: Putin cannot step aside; he cannot give up Assad, because this would mean the geopolitical suicide of Russia. Maybe we are right now in the major crisis of modern geopolitical history.

So right now both dominant world powers, USA and Russia, are in a struggle about their future existence…

Dugin: Indeed. At the moment there is no any other possible solution. We cannot find any compromise. In this situation there is no solution which would satisfy both sides. We know this from other conflicts, such as the Armenian-Azeri or the Israeli-Palestinian conflict. It is impossible to find a solution for both sides. We witness the same now in Syria, but on a bigger scale. The war is the only way to make a reality check.

Why?

Dugin: We have to imagine this conflict as a type of card game like Poker. The players have the possibility to hide their capacities, to make all kinds of psychological tricks, but when the war begins all cards are in. We are now witnessing the moment of the end of the card game, before the cards are thrown on the table. This is a very serious moment, because the place as a world power is at stake. If America succeeds, it could grant itself for some time an absolutely dominant position. This will be the continuation of unipolarity and US-American global liberalism. This would be a very important moment because until now the USA hasn´t been able to make its dominance stable, but the moment they win that war, they will. But if the West loses the third battle (the first one was the Chechen war, the second was the Georgian war), this would be the end of the USA and its dominance. So we see: neither USA nor Russia can resign from that situation. It is simply not possible for both not to react.

Why does US-president Barrack Obama hesitate with his aggression against Syria? Why did he appeal the decision to the US-Congress? Why does he ask for permission that he doesn´t need for his attack?

Dugin: We shouldn´t make the mistake and start doing psychological analyses about Obama. The main war is taking place right now behind the scenes. And this war is raging around Vladimir Putin. He is under great pressure from pro-American, pro-Israeli, liberal functionaries around the Russian president. They try to convince him to step aside. The situation in Russia is completely different to the situation in USA. One individual, Vladimir Putin, and the large majority of the Russian population which supports him are on one side, and the people around Putin are the Fifth column of the West. This means that Putin is alone. He has the population with him, but not the political elite. So we have to see the step of the Obama administration asking the Congress as a kind of waiting game. They try to put pressure on Putin. They use all their networks in the Russian political elite to influence Putin´s decision. This is the invisible war which is going on right now.

Is this a new phenomenon?

Dugin: (laughs) Not at all! It is the modern form of the archaic tribes trying to influence the chieftain of the enemy by loud noise, cries and war drums. They beat themselves on the chest to impose fear on the enemy. I think the attempts of the US to influence Putin are a modern form of this psychological warfare before the real battle starts. The US-Administration will try to win this war without the Russian opponent on the field. For this they have to convince Putin to stay out. They have many instruments to do so.

But again: What about the position of Barrack Obama?

Dugin: I think all those personal aspects on the American side are less important than on the Russian side. In Russia one person decides now about war and peace. In the USA Obama is more a type of bureaucratic administrator. Obama is much more predictable. He is not acting on his behalf; he simply follows the middle line of US-American foreign politics. We have to realize that Obama doesn´t decide anything at all. He is merely the figurehead of a political system that makes the really important decisions. The political elite makes the decisions, Obama follows the scenario written for him. To say it clearly, Obama is nothing, Putin is everything.

You said Vladimir Putin has the majority of the Russian population on his side. But now it is peace time. Would they also support him in a war in Syria?

Dugin: This is a very good question. First of all, Putin would lose much of his support if he does not react on a Western intervention in Syria. His position would be weakened by stepping aside. The people who support Putin do this because they want to support a strong leader. If he doesn´t react and steps aside because of the US pressure, it will be considered by the majority of the population as a personal defeat for Putin. So you see it is much more Putin´s war than Obama´s war. But if he intervenes in Syria he will face two problems: Russian society wants to be a strong world power, but it is not ready to pay the expenses. When the extent of these costs becomes clear, this could cause a kind of shock to the population. The second problem is what I mentioned already, that the majority of the political elite are pro-Western. They would immediately oppose the war and start their propaganda by criticizing the decisions of Putin. This could provoke an inner crisis. I think Putin is aware of these two problems.

When you say the Russians might be shocked by the costs of such a war, isn´t there a danger that they might not support Putin because of that?

Dugin: I don´t think so. Our people are very heroic. Let us look back in history. Our people were never ready to enter a war, but if they did, they won that war despite the costs and sacrifices. Look at the Napoleonic wars or World War II. We Russians lost many battles, but eventually won those wars. So we are never prepared, but we always win.

Syrie : Hollande et le double désaveu

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Syrie : Hollande et le double désaveu

 
Isolé au niveau international et désavoué par l’opinion publique

Jean Bonnevey et Raoul Fougax
Ex: http://metamag.fr

Décidément  la pré campagne de Syrie tourne au désastre politique pour le président français. Le matamore tricolore et la va-t-en guerre démocratique se retrouve isolé et désavoué. Isolé sur le plan international et désavoué par son opinion publique.

Les dirigeants des vingt plus grandes puissances se sont retrouvés à Saint-Petersbourg, jeudi 5 septembre, pour le premier dîner d'un G20 à l'agenda bouleversé par la Syrie. Après plusieurs jours d'échanges à distance, la tension est encore montée d'un cran entre François Hollande et Barack Obama d'un côté – qui accusent le régime de Bachar Al-Assad d'avoir tué des centaines de civils avec des armes chimiques et plaident pour une intervention militaire –  et le président russe, Vladimir Poutine, de l'autre, qui maintient son veto.
 
François Hollande n’avait  qu'un seul objectif: rallier «la coalition la plus large possible» de pays en faveur d'une intervention punitive en Syrie, aux côtés des Américains. «Nous comptons sur le soutien des Européens et des pays arabes», assurait l'entourage du chef de l'État.

C’est raté. Cela a même tourné au camouflet malgré un accord diplomatique de façade. « Les Européens se sont prononcés, à Vilnius, pour une «réponse claire et forte» à l'attaque chimique du 21 août, sans aller jusqu'à soutenir les frappes militaires souhaitées par Paris et Washington. Mais la France et l'Allemagne, jusqu'ici sur des bords opposés, ont fait les concessions nécessaires pour sortir de l'ornière » reconnait Le Figaro. Qu'est ce qu'une "réponse claire et forte" ? François Hollande était pourtant demandeur d'un accord sur des frappes contre la Syrie.

Membre du G20, représentant les 28 états membres de l'Union Européenne, le président du Conseil européen, Herman Van Rompu, flanqué du président de la Commission José Manuel Barroso a clairement rejeté l'usage de la force en Syrie. «Il n'y a pas de solution militaire au conflit en Syrie» a-t-il déclaré à Saint-Petersbourg, «seule une solution politique peut arrêter les massacres, les violations de droits de l'homme et la destruction de la Syrie».

Le président de l'UE a calqué sa position sur celle d'Angela Merkel, hostile aux frappes en Syrie, comme 70 % des Allemands, et favorable à une «solution politique dans le cadre de l'ONU».

Les Français eux ne sont plus loin du rejet allemand

Près des deux tiers des Français sont opposés à une intervention militaire internationale en Syrie en représailles à l'usage d'armes chimiques par le régime de Bachar el-Assad contre ses opposants, selon un sondage IFOP pour Le Figaro. Sur 972 personnes interrogées entre mardi et vendredi, 64 % se déclarent hostiles à une telle intervention, contre 36 % d'un avis contraire, ce qui constitue un renversement de l'opinion publique française sur cette question.
 
Début août, 55 % des personnes interrogées par l’IFOP pour le site internet Atlantico étaient favorables à ce type d'action. Le pourcentage de personnes hostiles à une intervention militaire internationale en Syrie est même désormais légèrement supérieur en France à ce qu'il est en Allemagne (63 %). 

Quant à une participation éventuelle de la France à une telle action, les Français interrogés sont massivement contre : 68 %, soit neuf points de plus qu'il y a un mois. "Voilà qui ne va pas simplifier la tâche de François Hollande", commente l'IFOP. "Alors que l'isolement du président de la République grandit sur le dossier syrien, il est désormais lâché par son opinion publique."
François hollande a commencé d’ailleurs un prudent repli stratégique.

La France n'attendra pas seulement l'issue du vote du Congrès américain, prévu «jeudi ou vendredi prochain » pour intervenir en Syrie. François Hollande attendra le rapport des inspecteurs de l'ONU sur l'utilisation des armes chimiques dans l'attaque du 21 août. «Après seulement, je m'adresserai à la nation pour faire connaître ma décision», a déclaré le chef de l'État à l'issue du sommet de Saint-Petersbourg. Il était urgent d’agir, il est maintenant urgent d’attendre. En effet la France est incapable d’agir seule. Les beaux discours n’y changent rien, ni sur la condamnation d’armes chimiques défi aux conventions internationales  ni l’amalgame douteux avec Oradour sur Glane.

Le président a parlé trop tôt pour se présenter en  leader moral de la coalition du bien. Mais il n’avait pas prévu que la coalition du bien puisse tourner mal.

mardi, 10 septembre 2013

Grande-Bretagne : L’immigration de masse a rendu l’économie moins performante

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Grande-Bretagne : L’immigration de masse a rendu l’économie moins performante

 



Dans l’ensemble, les chefs d’entreprise ont tendance à soutenir une politique d’immigration – dite “de la porte ouverte” – ce qui contribue à répondre aux pénuries de main d’œuvre dans les secteurs clés.

Mais, plus particulièrement, cela exerce aussi une pression à la baisse sur les salaires. L’effet est similaire au fait d’avoir des niveaux durablement élevés de chômage, car elle crée une réserve inépuisable de main-d’œuvre bon marché.

Il semble que l’on assiste à la stagnation la plus importante de la productivité britannique. Les économistes ont largement décrit ce phénomène en le qualifiant d’« énigme »; mot qu’ils tendent à utiliser pour décrire une tendance qui tranche avec les normes passées. Pour la plupart d’entre nous, il ne s’agit cependant pas du tout d’un mystère. Pour faire simple, nous avons d’une part la mise en place de politiques publiques qui n’incitent pas à consommer et, de l’autre, une absence totale de réformes bénéficiant au secteur productif. Malheureusement, cela n’a fait qu’empirer depuis le début de la crise financière.

La stimulation de la demande par l’intermédiaire de politiques fiscales et monétaires est la solution de facilité quand les économistes trouvent leurs limites. Elle est peut-être vitale pour prévenir l’évolution de la situation de contraction économique actuelle en une véritable dépression.

Cependant, si le début de redressement s’accélère au Royaume-Uni, il est nécessaire de réaffirmer qu’il ne conduira ni à une croissance soutenable sur le long terme, ni à l’augmentation du niveau de vie. Cela requiert des choix bien plus difficiles.

Une étude, conduite par l’OCDE en début d’année concernant l’économie britannique, attribue le faible taux de productivité depuis le début de la crise à de nombreux facteurs qui sont sans aucun doute une partie de l’explication.

A un certain niveau, c’est principalement lié au système des banques toxiques – possédant de nombreux actifs dépréciés ou qui devraient l’être – qui, comme l’a défendu Ben Broadbent – membre du Comité de Politique Monétaire de la Banque d’Angleterre – entrave la redistribution du capital entre les différents secteurs.

Les récessions éliminent normalement les entreprises et les industries les plus faibles, permettant ainsi aux plus fortes et aux plus productives de prospérer plus aisément. Mais le refus de reconnaître les actifs pourris, de peur des conséquences sur la solvabilité des banques, est venu court-circuiter ce processus quasi naturel. Une politique monétaire accommodante vient aussi soutenir les banques toxiques, là encore court-circuitant la discipline darwinienne du marché.

Comme nous le savons maintenant, la croissance d’avant la crise n’était pas produite par le travail réel mais était produite par la frénésie de la finance et du marché immobilier, tous deux emportés par l’explosion du système bancaire.

La thésaurisation de la main-d’œuvre qualifiée, les baisses de production de pétrole en Mer du Nord et l’incapacité à bien quantifier statistiquement la croissance dans le secteur de l’économie numérique britannique, ont peut-être aussi joué leur rôle.

Pourtant, aucune de ces raisons n’explique de manière convaincante les piètres performances de la productivité à long terme de la Grande-Bretagne.

Afin de trouver d’autres causes, je tiens à souligner deux autres aspects du problème :

- L’impact négatif de l’immigration de masse sur la productivité,

- Et l’incapacité à répondre à de simples carences de l’offre dans la planification, l’éducation, l’infrastructure, l’efficacité du secteur public, le système fiscal et les perpétuelles faibles performances à l’export.

Dans l’ensemble, les chefs d’entreprise ont tendance à soutenir une politique d’immigration – dite “de la porte ouverte” – ce qui contribue à répondre aux pénuries de main d’œuvre dans les secteurs clés de l’industrie.

Mais, plus particulièrement, cela exerce aussi une pression à la baisse sur les salaires. L’effet est similaire au fait d’avoir des niveaux durablement élevés de chômage, car elle crée une réserve inépuisable de main-d’œuvre bon marché.

Cela peut être, ou ne pas être, bon pour les profits des entreprises mais ce n’est certainement pas bon pour la productivité ou pour le niveau de vie des personnes à faible ou moyen revenu.

En rendant la main-d’œuvre bon marché, il supprime une incitation puissante au gain de productivité. Faible salaire, faible engagement.

Pour bien comprendre, regardez ce qui s’est passé depuis que la crise a débuté il y a 6 ans. Durant cette période, plus d’1 million d’emplois ont été créés dans le secteur privé, un exploit remarquable compte tenu de l’ effondrement de la production. Cela a contribué à maintenir le taux de chômage bien inférieur à ce qu’il serait autrement. L’exploit mérite clairement d’être salué mais il a été réalisé au détriment des revenus réels.

Une grande partie de la création d’emplois est composé de métiers à faible rémunération ou à temps partiel. Les revenus réels ont connu leur pire resserrement depuis les années 1920. Pourtant, ce n’est pas juste un phénomène récent. La pression sur les revenus réels, en particulier à l’extrémité inférieure de l’échelle des revenus, date d’avant la crise.

La concurrence étrangère, que ce soit via l’immigration ou l’importation de biens et services, a été un grand obstacle à la croissance des salaires. Ceci a, à son tour, limité les incitations aux gains d’efficacité. Le travail ‘pas cher’ est devenu un substitut à l’investissement dans l’usine, dans les machines, la formation et la recherche et développement.

Lorsque le dernier gouvernement s’est vanté d’un énième trimestre consécutif de croissance, il a omis de préciser que c’était dû en grande partie à l’évolution de la population. Le revenu par tête a progressivement stagné.

La Grande-Bretagne est une économie ouverte qui doit certainement se positionner sur le marché de la main d’œuvre internationale de valeur. Pourtant, les niveaux élevés d’immigration non-qualifiée ont été au mieux un jeu à somme nulle, et peut-être cela aura-t-il une influence négative en décourageant les futurs investissements nécessaires.

Aucun partisan libéral n’envisagerait d’empêcher les employeurs d’embaucher des travailleurs étrangers, mais il y a d’autres formes d’intervention de l’État qui pourraient être plus appropriées. Cependant l’Union Européenne déclarerait illégale toutes formes d’intervention de ce genre, comme par exemple imposer des taxes sur l’utilisation de la main-d’œuvre étrangère peu coûteuse.

En rendant le travail à faible qualification plus cher, le système fiscal fournirait une incitation puissante aux gains de productivité dans la construction, le commerce de détail, les services sociaux et d’autres industries britanniques. Ces taxes pourraient alors être réaffectées dans des dispositifs incitatifs en faveur de la formation et d’autres formes d’investissement.

En tout cas, si le niveau de vie doit à nouveau croître, les employeurs doivent réapprendre les vertus du “faire plus avec moins de travailleurs”. Les gains de productivité ne peuvent correctement se produire que si les entreprises les plus performantes et innovantes sont mises en situation de mettre les plus faibles hors-jeu. Au contraire, s’appuyer sur la croissance de la population et la baisse des coûts unitaires du travail qu’elle entraîne pour rester compétitif est une impasse.

A maintes reprises le Royaume-Uni a esquivé une délicate réforme de l’offre, pour ne s’appuyer que sur une relance de la demande. Ces mesures étaient manifestement importantes dans les premières phases de la crise puisqu’elles ont contribué à éviter que la dépression ne s’installe profondément. Cependant leur poursuite 5 ans après la crise occasionne très probablement plus de mal que de bien.

Selon la fameuse phrase de Juncker, “les politiciens occidentaux savent ce qui doit être entrepris mais ils ne savent pas comment se faire réélire après l’avoir fait.”

De la même façon, tous savent qu’une croissance tirée par la productivité est la seule forme de croissance digne de ce nom, mais ils ne peuvent pas prendre les décisions à long terme nécessaires à sa mise en œuvre.

The Telegraph

dimanche, 08 septembre 2013

La bipolarisation droite-gauche n'existe plus en milieu populaire

guilluy2.jpg

"La bipolarisation droite-gauche n'existe plus en milieu populaire"...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

guilly.jpgNous reproduisons ci-dessous un entretien avec le géographe et sociologue Christophe Guilluy, publié cet été dans le quotidien Le Figaro. Christophe Guilluy est l'auteur d'un essai intitulé Fractures françaises (Bourin, 2010) qui a suscité de nombreux commentaires lors de sa publication. Cet essai, devenu introuvable, sera réédité début octobre chez Flammarion, dans la collection de poche Champs.

LE FIGARO. - Vous êtes classé à gauche mais vous êtes adulé par la droite. Comment expliquez-vous ce paradoxe ?

Christophe GUILLUY.- Je ne suis pas un chercheur classique. Ma ligne de conduite depuis quinze ans a toujours été de penser la société par le bas et de prendre au sérieux ce que font, disent et pensent les catégories populaires. Je ne juge pas. Je ne crois pas non plus à la posture de l’intellectuel qui influence l’opinion publique. Je ne crois pas non plus à l’influence du discours politique sur l’opinion. C’est même l’inverse qui se passe. Ce que j’appelle la nouvelle géographie sociale a pour ambition de décrire l’émergence de nouvelles catégories sociales sur l’ensemble des territoires.

Selon vous, la mondialisation joue un rôle fondamental dans les fractures françaises. Pourquoi ?

La mondialisation a un impact énorme sur la recomposition des classes sociales en restructurant socialement et économiquement les territoires. Les politiques, les intellectuels et les chercheurs ont la vue faussée. Ils chaussent les lunettes des années 1980 pour analyser une situation qui n’a aujourd’hui plus rien à voir. Par exemple, beaucoup sont encore dans la mythologie des classes moyennes façon Trente Glorieuses. Mais à partir des années 1980, un élément semble dysfonctionner : les banlieues. Dans les années 1970, on avait assisté à l’émergence d’une classe moyenne, c’est la France pavillonnaire.

Vous avez théorisé la coexistence de deux France avec, d’une part, la France des métropoles et de l’autre la France périphérique.

On peut en effet diviser schématiquement la France en deux : la France périphérique, que certains ont dénommée mal à propos France périurbaine, est cette zone qui regroupe aussi bien des petites villes que des campagnes. De l’autre côté, il y a les métropoles, complètement branchées sur la mondialisation, sur les secteurs économiques de pointe avec de l’emploi très qualifié. Ces métropoles se retrouvent dans toutes régions de France. Bien évidemment, cela induit une recomposition sociale et démographique de tous ces espaces. En se désindustrialisant, les villes ont besoin de beaucoup moins d’employés et d’ouvriers mais de davantage de cadres. C’est ce qu’on appelle la gentrification des grandes villes, avec un embourgeoisement à grande vitesse.

Mais en même temps que cet embourgeoisement, il y a aussi dans les métropoles un renforcement des populations immigrées.

Au moment même où l’ensemble du parc immobilier des grandes villes est en train de se « gentrifier », l’immobilier social, les HLM, le dernier parc accessible aux catégories populaires de ces métropoles, s’est spécialisé dans l’accueil des populations immigrées. On assiste à l’émergence de « villes monde » très inégalitaires où se regroupent avec d’un côté des cadres, et de l’autre des catégories précaires issues de l’immigration. Dans ces espaces, les gens sont tous mobiles, aussi bien les cadres que les immigrés. Surtout, ils sont là où tout se passe, où se crée l’emploi. Tout le monde dans ces métropoles en profite, y compris les banlieues et les immigrés. Bien sûr cela va à l’encontre de la mythologie de la banlieue ghetto où tout est figé. Dans les zones urbaines sensibles, il y a une vraie mobilité : les gens arrivent et partent.

Pourtant le parc immobilier social se veut universel ?

La fonction du parc social n’est plus la même que dans les années 1970. Aujourd’hui, les HLM servent de sas entre le Nord et le Sud. C’est une chose fondamentale que beaucoup ont voulu, consciemment ou non, occulter : il y a une vraie mobilité dans les banlieues. Alors qu’on nous explique que tout est catastrophique dans ces quartiers, on s’aperçoit que les dernières phases d’ascension économique dans les milieux populaires se produisent dans les catégories immigrées des grandes métropoles. Si elles réussissent, ce n’est pas parce qu’elles ont bénéficié d’une discrimination positive, mais d’abord parce qu’elles sont là où tout se passe.

La France se dirige-t-elle vers le multiculturalisme ?

La France a un immense problème où l’on passe d’un modèle assimilationniste républicain à un modèle multiculturel de fait, et donc pas assumé. Or, les politiques parlent républicain mais pensent multiculturel. Dans la réalité, les politiques ne pilotent plus vraiment les choses. Quel que soit le discours venu d’en haut, qu’il soit de gauche ou de droite, les gens d’en bas agissent. La bipolarisation droite-gauche n’existe plus en milieu populaire. Elle est surjouée par les politiques et les catégories supérieures bien intégrées mais ne correspond plus à grand-chose pour les classes populaires.

Les classes populaires ne sont donc plus ce qu’elles étaient…

Dans les nouvelles classes populaires on retrouve les ouvriers, les employés, mais aussi les petits paysans, les petits indépendants. Il existe une France de la fragilité sociale. On a eu l’idée d’en faire un indicateur en croisant plusieurs critères comme le chômage, les temps partiel, les propriétaires précaires, etc. Ce nouvel indicateur mesure la réalité de la France qui a du mal à boucler les fins de mois, cette population qui vit avec environ 1 000 euros par mois. Et si on y ajoute les retraités et les jeunes, cela forme un ensemble qui représente près de 65 % de la population française. La majorité de ce pays est donc structurée sociologiquement autour de ces catégories modestes. Le gros problème, c’est que pour la première fois dans l’histoire, les catégories populaires ne vivent plus là où se crée la richesse.

Avec 65 % de la population en périphérie, peut-on parler de ségrégation ?

Avant, les ouvriers étaient intégrés économiquement donc culturellement et politiquement. Aujourd’hui, le projet économique des élites n’intègre plus l’ensemble de ces catégories modestes. Ce qui ne veut pas dire non plus que le pays ne fonctionne pas mais le paradoxe est que la France fonctionne sans eux puisque deux tiers du PIB est réalisé dans les grandes métropoles dont ils sont exclus. C’est sans doute le problème social, démocratique, culturel et donc politique majeur : on ne comprend rien ni à la montée du Front national ni de l’abstention si on ne comprend pas cette évolution.

Selon vous, le Front national est donc le premier parti populaire de France ?

La sociologie du FN est une sociologie de gauche. Le socle électoral du PS repose sur les fonctionnaires tandis que celui de l’UMP repose sur les retraités, soit deux blocs sociaux qui sont plutôt protégés de la mondialisation. La sociologie du FN est composée à l’inverse de jeunes, d’actifs et de très peu de retraités. Le regard porté sur les électeurs du FN est scandaleux. On les pointe toujours du doigt en rappelant qu’ils sont peu diplômés. Il y a derrière l’idée que ces électeurs frontistes sont idiots, racistes et que s’ils avaient été diplômés, ils n’auraient pas voté FN.

Les électeurs seraient donc plus subtils que les sociologues et les politologues… ?

Les Français, contrairement à ce que disent les élites, ont une analyse très fine de ce qu’est devenue la société française parce qu’ils la vivent dans leur chair. Cela fait trente ans qu’on leur dit qu’ils vont bénéficier, eux aussi, de la mondialisation et du multiculturalisme alors même qu’ils en sont exclus. Le diagnostic des classes populaires est rationnel, pertinent et surtout, c’est celui de la majorité. Bien évidemment, le FN ne capte pas toutes les classes populaires. La majorité se réfugie dans l’abstention.

Vous avancez aussi l’idée que la question culturelle et identitaire prend une place prépondérante.

Les Français se sont rendu compte que la question sociale a été abandonnée par les classes dirigeantes de droite et de gauche. Cette intuition les amène à penser que dans ce modèle qui ne les intègre plus ni économiquement ni socialement, la question culturelle et identitaire leur apparaît désormais comme essentielle. Cette question chez les électeurs FN est rarement connectée à ce qu’il se passe en banlieue. Or il y a un lien absolu entre la montée de la question identitaire dans les classes populaires « blanches » et l’islamisation des banlieues.

Vaut-il parfois mieux habiter une cité de La Courneuve qu’en Picardie ?

Le paradoxe est qu’une bonne partie des banlieues sensibles est située dans les métropoles, ces zones qui fonctionnent bien mieux que la France périphérique, là où se trouvent les vrais territoires fragiles. Les élites, qui habitent elles dans les métropoles considèrent que la France se résume à des cadres et des jeunes immigrés de banlieue. Ce qui émerge dans cette France périphérique, c’est une contre-société, avec d’autres valeurs, d’autres rapports au travail ou à l’État-providence. Même s’il y a beaucoup de redistribution des métropoles vers la périphérie, le champ des possibles est beaucoup plus restreint avec une mobilité sociale et géographique très faible. C’est pour cette raison que perdre son emploi dans la France périphérique est une catastrophe.

Pourquoi alors l’immigration pose-t-elle problème ?

Ce qui est fascinant, c’est la technicité culturelle des classes populaires et la nullité des élites qui se réduit souvent à raciste/pas raciste. Or, une personne peut être raciste le matin, fraternelle le soir. Tout est ambivalent. La question du rapport à l’autre est la question du village et comment celui-ci sera légué à ses enfants. Il est passé le temps où on présentait l’immigration comme « une chance pour la France ». Ne pas savoir comment va évoluer son village est très anxiogène. La question du rapport à l’autre est totalement universelle et les classes populaires le savent, pas parce qu’elles seraient plus intelligentes mais parce qu’elles en ont le vécu.

Marine Le Pen qui défend la France des invisibles, vous la voyez comme une récupération de vos thèses ?

Je ne me suis jamais posé la question de la récupération. Un chercheur doit rester froid même si je vois très bien à qui mes travaux peuvent servir. Mais après c’est faire de la politique, ce que je ne veux pas. Dans la France périphérique, les concurrents sont aujourd’hui l’UMP et le FN. Pour la gauche, c’est plus compliqué. Les deux vainqueurs de l’élection présidentielle de 2012 sont en réalité Patrick Buisson et Terra Nova, ce think-tank de gauche qui avait théorisé pour la gauche la nécessité de miser d’abord sur le vote immigré comme réservoir de voix potentielles pour le PS. La présidentielle, c’est le seul scrutin où les classes populaires se déplacent encore et où la question identitaire est la plus forte. Sarkozy a joué le « petit Blanc », la peur de l’arrivée de la gauche qui signifierait davantage d’islamisation et d’immigration. Mais la gauche a joué en parallèle le même jeu en misant sur le « petit Noir » ou le « petit Arabe ». Le jeu de la gauche a été d’affoler les minorités ethniques contre le danger fascisant du maintien au pouvoir de Sarkozy et Buisson. On a pu croire un temps que Hollande a joué les classes populaires alors qu’en fait c’est la note Terra Nova qui leur servait de stratégie. Dans les deux camps, les stratégies se sont révélées payantes même si c’est Hollande qui a gagné. Le discours Terra Nova en banlieue s’est révélé très efficace quand on voit les scores obtenus. Près de 90 % des Français musulmans ont voté Hollande au second tour.

La notion même de classe populaire a donc fortement évolué.

Il y a un commun des classes populaires qui fait exploser les définitions existantes du peuple. Symboliquement, il s’est produit un retour en arrière de deux siècles. Avec la révolution industrielle, on a fait venir des paysans pour travailler en usines. Aujourd’hui, on leur demande de repartir à la campagne. Toutes ces raisons expliquent cette fragilisation d’une majorité des habitants et pour laquelle, il n’y a pas réellement de solutions. C’est par le bas qu’on peut désamorcer les conflits identitaires et culturels car c’est là qu’on trouve le diagnostic le plus intelligent. Quand on vit dans ces territoires, on comprend leur complexité. Ce que le bobo qui arrive dans les quartiers populaires ne saisit pas forcément.

Christoph Guilluy (Le Figaro, 19 juillet 2013)

 

*Christophe Guilluy est un géographe qui travaille à l’élaboration d’une nouvelle géographie sociale. Spécialiste des classes populaires, il a théorisé la coexistence des deux France : la France des métropoles et la France périphérique. Il est notamment l’auteur d’un ouvrage très remarqué : Fractures françaises.

samedi, 07 septembre 2013

EU houdt Grieken in eurozone vanwege nieuwe aardgaspijpleiding

EU houdt Grieken in eurozone vanwege nieuwe aardgaspijpleiding

Griekse regering misbruikt Trans Adriatische Pijplein voor nieuwe schulden op kosten van de EU


Achter het streven om met alle mogelijke middelen Griekenland in de eurozone te houden zit behalve een politiek motief ook een belangrijk economisch aspect: aardgas. De EU wil zijn grote afhankelijkheid van Russisch aardgas verminderen en een nieuwe pijpleiding van Turkije via Griekenland naar Italië bouwen (zie afbeelding). Een eventuele Griekse uittreding uit de eurozone zou dit project in gevaar kunnen brengen.

Afhankelijk van Russisch gas

De Europeanen vragen zich af waarom de EU keer op keer op hun kosten nieuwe belastingmiljarden in Griekenland blijft pompen. Het bankroete land stevent inmiddels op zijn zoveelste reddingspakket af, en heeft nog amper iets van de vereiste hervormingen doorgevoerd. Waarom dan toch zo coulant voor de onverbeterlijk frauderende Grieken?

Het antwoord: de EU voelt de knellende band van bijna totale afhankelijkheid van Russisch aardgas. Feitelijk kunnen de Russen doen en laten wat ze willen; het is Gazprom dat bepaalt of miljoenen Europeanen komende winter hun huizen warm kunnen stoken, of in de kou moeten zitten.

Monopolie Gazpromia

Om het monopolie van 'Gazpromia', zoals Rusland ook wel spottend wordt genoemd, te doorbreken, wil Europa uit Azerbeidzjan aardgas importeren. Dit gas moet geleverd worden via de Trans-Adriatische-Pijplijn (TAP), die Russisch grondgebied vermijd. De TAP is dringend nodig, aangezien de geplande andere pijpleiding via Syrië niet gebouwd kan worden vanwege de burgeroorlog in dat land. Dat was tevens de reden van het Europese aardolie-embargo tegen de Syrische regering.

Athene misbruikt machtspositie voor nieuwe schulden

Omdat tweederde van de pijpleiding over Grieks grondgebied loopt en de Grieken beseffen dat de EU niet zonder hen kan, misbruikt Athene dit gegeven om vrijwel onbeperkt nieuwe schulden te maken, wetende dat Brussel nooit zal toestaan dat het TAP-project in gevaar komt. Uittreding uit de eurozone zal Griekenland namelijk absoluut zeker totaal doen instorten.

Extra gas vanwege mislukte Energiewende

Extra aardgas is broodnodig, vooral nu in Duitsland de Energiewende -de overgang op groene energie- een gigantisch financieel, technologisch en logistiek fiasco is geworden. Desondanks heeft de Nederlandse regering Rutte vorige maand besloten om ook in ons land met tientallen miljarden euro's subsidie een vergelijkbare, eveneens tot mislukken gedoemde omschakelijking te realiseren.

Strategisch belang

De pijpleiding wordt in geopolitiek opzicht van strategisch belang geacht. TAP-chef Kjetil Tungland is adviseur van de Atlantic Council, een Amerikaanse lobbygroep onder leiding van minister van Defensie Chuck Hagel. Zoals we in mei uitlegden draait het conflict in Syrië voor een groot deel om de nieuw te bouwen Nabucco pijpleiding van de Rode Zee via Jordanië en Syrië naar Turkije, die eveneens een geduchte concurrent voor Gazprom dreigt te worden.

Nieuw gasveld in Koerdistan

Bovendien is er in het Iraakse deel van Koerdistan onlangs een enorme nieuwe gasvoorraad ontdekt. Er worden reeds plannen gemaakt om dit gasveld aan te sluiten op de TAP in Turkije, waardoor de Europese afhankelijkheid van Russisch gas verder zal afnemen.

Alleen elite profiteert

De gewone Griek zal overigens niet profiteren van de gaspijpleiding. Die wordt namelijk net zoals in ons eigen land opgezadeld met forse bezuinigingen en pijnlijke ingrepen in de sociale zekerheid. Alleen de machtselite in Athene zal -zoals het al 100 jaar gaat- de eigen bankrekening flink kunnen spekken.

Nederlander betaalt indirect mee aan TAP

Via de vele bailouts, noodkredieten, hulpprogramma's, schuldenkwijtscheldingen betaalt de Nederlandse bevolking dus indirect mee aan de komst van de TAP, die € 4 miljard euro kost. De 'redding' van Griekenland met Europees belastinggeld is dus niet alleen voor de banken een buitengewoon lucratieve zaak, maar ook voor de energiegiganten.

 

Xander

(1) Deutsche Wirtschafts Nachrichten

Zie ook o.a.:
28-05: Strijd Syrië gaat om aardgas en monopoliepositie Gazprom

jeudi, 05 septembre 2013

La fin des Anglo-Saxons ?

USA-GB : La fin des Anglo-Saxons ?

La Syrie a rompu une alliance historique


Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
Les USA, après s’être crées en révolte contre la Grande-Bretagne ont pris la succession de l’empire britannique dans une volonté de dominer le monde par le contrôle des mers. Une vision commune du monde partagée avec un fond ethnique et religieux a créé depuis la première guerre mondiale au moins ce qu’on appelle les Anglo-saxons. Ce sont ces derniers qui imposent une vision très atlantiste à l’Europe continentale et qui, en fait, orientent les choix de la « communauté internationale ».

                  Syrie : la fin du monde anglo-saxon ?

L’idée que la Grande-Bretagne  conserve un rôle mondial grâce aux Usa est une évidence. En fait, c’est Churchill qui a mis fin à l’empire et au rôle mondial de Londres malgré sa victoire sur l’Allemagne.  Depuis la Grande-Bretagne est à la remorque des Usa et plus près d’ailleurs de Washington que de Bruxelles.

Il y eut cependant une révolte de la fierté impériale : ce fut l’opération de Suez en 1956 avec les Français. Cela s’est soldé par la fin de la puissance des empires coloniaux et la confirmation de la domination des  américains et des soviétiques. Depuis la Grande-Bretagne est le plus fidèle allié et le plus inféodé du nouvel « empire ». On ironisait sur le bulldog britannique devenu caniche américain.

Est-ce aujourd’hui un nouveau tournant historique avec la fin de l’axe anglo-saxon ? Assurément  par rapport à l’Afghanistan, l’Irak et même la Libye, il y a rupture. Le caniche a rompu la laisse. Une rupture imposée au gouvernement par les élus et l’opinion publique. C'est le camouflet politique le plus cinglant de l’époque actuelle ! La dernière fois que la Chambre des Communes a dit "non" à une intervention militaire proposée par un Premier ministre, cela remonte à 1782. A l'époque, le Parlement britannique avait refusé d'envoyer des troupes supplémentaires en Amérique pour la guerre d'indépendance, contre la volonté du chef du gouvernement, Lord North. Il a été contraint de démissionner un mois plus tard. Dans les deux cas, un Premier ministre conservateur va-t’en-guerre a été répudié par ses propres fidèles.


L’opinion publique britannique ne soutient plus ce genre d'interventions depuis l'échec libyen : nos attaques aériennes n'ont pas servi à grand-chose. La torture, l'instabilité politique et les actes terroristes sont toujours le lot quotidien du pays. La Grande-Bretagne n'est pas une nation neutre ou pacifique. Mais ces ingérences dans les pays musulmans produisent des effets néfastes et contradictoires estime un politologue.

La Pologne, habituellement l’allié le plus loyal des Etats-Unis en Europe, a rejeté toute participation à un assaut militaire en Syrie. L’Allemagne se languit de l’époque où elle n’avait aucune décision à prendre sur l’utilisation ou non de ses soldats. Angela Merkel et son adversaire social-démocrate Peer Steinbrück seront ravis que la démocratie parlementaire britannique ait décidé de s’opposer à une attaque militaire en Syrie, ce qui retire la question du débat électoral allemand.

Aujourd’hui, la France est la seule à sembler vouloir récupérer et mettre le badge d’adjoint du shérif que la Chambre des communes a arraché de la poitrine de David Cameron. En mars 2003, c’était le président Jacques Chirac qui déclarait que la France allait former un axe Paris-Moscou-Pékin pour opposer un veto à la résolution des Nations unies qui aurait forcé le dictateur irakien à se soumettre aux volontés de l’Onu ou risquer une action militaire.

« Our oldest ally, France »... « Notre plus vieille alliée, la France », a souligné John Kerry, le secrétaire d’Etat américain. La formule n’est certes pas nouvelle : elle fait partie des classiques amabilités franco-américaines. Mais depuis quand ne l’avait-on pas prononcée à Washington avec insistance et conviction ? Sa sortie de la routine diplomatique marque un sacré retournement de situation. Cela  fait grincer les dents des Anglais. Quant aux Français n'en déplaise à François Hollande ils n’en demandaient certes pas tant.

L’étrange chemin de Damas de François Hollande n’est certes pas une promenade de santé politique, diplomatique et militaire. La France a toujours eu des problèmes avec le levant et la Syrie face notamment aux Anglo-Saxons… quand il y avait des Anglo-Saxons. Ironie de l’histoire certes, mais dont on aurait sans douter tort de se réjouir.

mercredi, 04 septembre 2013

Presseschau September 2013

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Presseschau

September 2013

 

Wieder mal einige Links. Bei Interesse einfach anklicken...

AUßENPOLITISCHES
Fed hält erstmals US-Staatsschulden von mehr als 2 Billionen Dollar

Globale Inflation hat begonnen: Die Eliten zittern vor dem Zorn der Betrogenen

Euroraum am Rande des Abgrunds
Star-Ökonom James Galbraith: „Europa ist seinem Zusammenbruch näher als der Lösung“

Die 27 größten Risiken unserer Zeit

Der Rückversicherer Swiss Re hat in einem umfassenden Report die 27 größten Risiken für die Menschheit aufgezeigt. Sechs davon sind schwerwiegend und durchaus realistisch – so z.B. galoppierende Inflation.

http://www.format.at/articles/1335/931/364947/die-27-risiken-zeit

Gier – Wirtschaftskrise mit System

Arbeitslosigkeit in Österreich steigt deutlich
Trotz strahlenden Sonnenscheins und Urlaubs-Hauptsaison ist die Zahl der Arbeitslosen auch im Juli weiter gestiegen.

Schweiz plant Bankenrettung durch Raub von 600 Mrd. Franken bei den Bankkunden

(Die Diskussion wird in Deutschland auch noch kommen)

Die Schweizer suchen eine Hymne mit Pepp

Ihre alte Nationalhymne gefällt den Schweizern nicht mehr. Zu altbacken. Musikerin Stucky sagt, bei einer Hymne müsse man "Heimweh bis in die Knochen" bekommen. Mit Psalmen funktioniert das aber nicht.

http://www.welt.de/vermischtes/article118651306/Die-Schweizer-suchen-eine-Hymne-mit-Pepp.html

Bürgerrechte

Snowdens unbeugsame Filmemacherin

http://blog.campact.de/2013/08/die-unbeugsame/

(Wollen die den zwangskastrieren, oder worum geht es da???)

Bradley Manning will als Frau leben

Bradley Manning will künftig als Frau leben. Das ließ der verurteilte Wikileaks-Informant über seinen Anwalt im US-Fernsehen ausrichten. Er wolle fortan den Namen Chelsea Manning tragen.

http://www.gmx.net/themen/nachrichten/ausland/60akqdg-bradley-manning-wikileaks-chelsea#.A1000024

(Compact)

Big Brother hält Deutschland besetzt - Snowden, Merkel und die NSA

http://www.youtube.com/watch?v=ETJmQBbQ2Og (Aperçu)

Moskau

Jobangebote für Snowden in Russland

http://www.abendzeitung-muenchen.de/inhalt.moskau-jobangebote-fuer-snowden-in-russland.b80537d7-1cb3-4111-8120-5750a17b10a9.html

Eklat um Snowden-Asyl: Obama sagt Treffen mit Putin ab

http://www.spiegel.de/politik/ausland/eklat-um-snowden-asyl-obama-sagt-treffen-mit-putin-ab-a-915345.html

(Er scheint keine anderen Probleme zu haben. War da nicht mal ein Flughafen?...)

Umstrittenes Gesetz

Schwulen-Hass: Wowereit schreibt Moskauer OB

http://www.op-online.de/nachrichten/politik/schwulen-hass-wowereit-schreibt-moskau-zr-3084610.html

(na dann)"Unterdrückung wird auf Revolution treffen"
Lady Gaga nennt Putins Regierung "kriminell"

(dazu Michael Klonovsky)
Russland: Glühbirnen und Mentholzigaretten

USA

Bewaffnete Lehrer sollen vor Amokläufern schützen

http://www.handelsblatt.com/politik/international/usa-bewaffnete-lehrer-sollen-vor-amoklaeufern-schuetzen/8577772.html

(zur US-Kriegstreiberei)

Vorwände und Tatsachen: Gleiwitz, Rugova, Damaskus

http://www.sezession.de/40571/vorwaende-und-tatsachen-gleiwitz-rugova-damaskus.html

(PI zum roten Dany…)Kinderschänder Cohn-Bendit will Bomben auf Syrien

Baschar al-Assad im Interview für "Izvestia"

http://apxwn.blogspot.de/2013/08/baschar-al-assad-im-interview-fur.html#.Uh4RQz-BaNa

 

 

Französischer Ex-Minister: Syrien-Krieg seit 2009 geplant

 

 

 

Syrien: Bosnische Muslime kämpfen auf Seiten der Rebellen

 

 

 

Ein Veteran klagt an

 

Mein letzter Brief

 

Thomas Young wurde im Irakkrieg schwer verwundet. Jetzt liegt der Friedensaktivist im Sterben und schreibt einen letzten Brief an George W. Bush – eine schonungslose Abrechnung.

 

 

 

Afghanistan: Bundeswehr lässt millionenschweres Kriegsgerät zurück

 

 

 

TV-Serie „Burka Avenger“

 

Burka-Superheldin spaltet Pakistan

 

 

 

Iran verurteilt Christen wegen Bibel-Verteilung zu langjähriger Haft

 

 

 

3 Meldungen zur Bandenkriminalität in Marseille – ein gefährliches Pflaster…

 

 

 

 

 

(Antikommunistische Aktion)

 

Bulgarien

 

Rosafarbene Entschuldigung für Invasion

 

 

 

Nordkoreaner flieht übers Meer nach Süden

 

 

 

 

INNENPOLITISCHES / GESELLSCHAFT / VERGANGENHEITSPOLITIK

 

 

 

Merkel über die deutsche Souveränität am 21.08.13 in Stuttgart

 

 

 

Deutsche Arbeitsagentur gibt Hartz-IV-Empfängern Armutstipps

 

 

 

Das Zinstief frisst die Ersparnisse der Deutschen

 

 

 

Expertenstudie

 

Gebäudesanierung wird Armut nach sich ziehen

 

 

 

Viele deutsche Kommunen stehen vor dem Nichts

 

Die Bertelsmann-Stiftung schlägt Alarm: Die Finanzlage vieler Kommunen und Kreise hat sich dramatisch zugespitzt. Zehn Millionen Deutsche leben in Städten, die kaum noch handlungsfähig sind.

 

 

 

Eupoly – Ein europäischer Alptraum

 

 

 

Angst vor Armut

 

Deutsche fürchten Lügen in der Euro-Krise

 

 

 

Euro-Experiment war von Anfang an zum Scheitern verurteilt

 

20 Jahre Maastricht: Die Mutter aller Euro-Lügen

 

 

 

Schäuble: Griechenland braucht weitere Hilfen

 

 

 

 

AfD-Funktionärin preist Bereicherung durch Vielfalt

 

 

 

Die AfD – Resonanzboden, Energiepumpe, Partei

 

 

 

Deutsche Bank warnt vor Euro-Kritikern

 

 

 

Erzbischof Zollitsch gegen Euro-Kritiker im Bundestag

 

 

 

Forsa-Chef besorgt über möglichen AfD-Erfolg

 

 

 

(AfD)

 

Wahlkampf in Berlin

 

Polizeischutz für Plakatierer

 

 

 

 

Gewaltandrohungen

 

AfD braucht im Wahlkampf Polizeischutz

 

In Göttingen gehen Autonome und die Grüne Jugend massiv gegen die Alternative für Deutschland vor. Die Partei mache "nationalistische Propaganda". Aus Angst erwägt die AfD nun einen Wahlkampfabbruch.

 

 

 

Aktionen gegen AfD-Wahlkampf: Plakate in Duderstadt zerstört

 

 

 

Gewalt gegen die AfD ist Gewalt gegen die Demokratie

 

Linksextreme Attacken mit grünem Beistand

 

 

 

Linker Terror gegen den Wahlkampf der AfD in Göttingen

 

 

 

Mitglied des AfD-Landesvorstandes bei Angriff auf Infostand der Afd in Schwerin verletzt

 

 

 

Dokumentation gewalttätiger Übergriffe gegen die Alternative für Deutschland

 

 

 

 

Angriff auf Bernd Lucke / AfD-Wahlkampfveranstaltung von Autonomen gestürmt

 

 

 

Attentat auf Bernd Lucke am 24 08 2013 Waldbühne Bremen

 

 

 

Wird Bernd Lucke den Wahltag noch erleben?

 

Die Botschaft aus Bremen signalisiert Vernichtungswillen

 

 

 

AfD-Chef Lucke fordert Kampf gegen Linksextremismus

 

 

 

Grüne rufen zur Sabotage von AFD-Wahlkampf auf

 

 

 

 

Grüne Sprachpanscher

 

 

 

("Grüner" Wahlkampf)

 

„Claudia ist hier. Und Du?“

 

Über eine Begegnung der unheimlichen Art

 

 

 

Hermann Gröhe: „Typisch grün!“

 

CDU verspottet die Grünen wegen Wahlprogramm-Panne

 

 

 

(Piraten)

 

PiratenTalk Tiefgang Nr. 2 vom 4.8.2013 (V2) mit Rainer Langhans

 

 

 

(neuer "grüner" Vorschlag)

 

1. Klasse – der Luxus, den wir selber gerne hätten

 

 

 

Nur Ärger mit SPD-Plakaten

 

 

 

(Zu den Ausfällen im Bahnverkehr)

 

Mainz ist bald überall

 

Der deutsche Niedergang kommt schleichend

 

 

 

NSA-Spähaffäre

 

Thomas Oppermann: Vom Verteidiger zum Chefankläger

 

 

 

Gysi gegen Besatzungsstatut!

 

 

 

DDR-AufarbeitungGauck hält Umgang mit SED-Mitgliedern für milde

 

Die SED-Mitglieder hätten einen „relativ leichten Übergang“ in die Demokratie erlebt, sagte der Bundespräsident in einem Interview. Nur wenige hätten „tatsächlich Karriereabbrüche“ hinnehmen müssen.

 

 

 

Das deutsche Jahrhundert (II)

 

 

 

Das deutsche Jahrhundert (III)

 

 

 

(Ausgegrenzte Vertriebene)

 

Pommerland ist abgebrannt

 

 

 

(Dazu ein Kommentar von Thorsten Hinz)

 

Für immer abgebrannt?

 

 

 

Grüne plädieren für 8. Mai als Feiertag

 

 

 

"Besonderer Moment"

 

Merkel besucht KZ-Gedenkstätte in Dachau

 

 

 

Streit um Merkel-Besuch im Ex-KZ Dachau

 

 

 

 

LINKE / KAMPF GEGEN RECHTS / ANTIFASCHISMUS / RECHTE

 

 

 

Geduld! – Lage und Möglichkeiten der intellektuellen Rechten

 

 

 

SPD kündigt „Masterplan“ gegen Rechtsextremismus an

 

 

 

(Die Ernte)

 

Linksextremisten rufen zu Störung von SPD-Veranstaltung auf

 

 

 

(Die Ernte 2)

 

Berliner Jusos kritisieren „Deutschlandfest“ der SPD

 

 

 

Neue NSU-Prozess-Farce: Gehörte das gesprengte Haus in Zwickau dem Geheimdienst?

 

 

 

„Terror-Anwälte“ und geistiger Mief

 

 

 

(Tochter von NSU-Opfer…)

 

Olympe-de-Gouges-Preis / Thorsten Schäfer-Gümbel würdigt Semiya Simsek

 

 

 

Vom Extremismus aus der Mitte der Gesellschaft - Zweiter Teil

 

 

 

(Siegfried Jäger und sein DISS wieder mal… gähn)

 

Duisburg: Linkes Forschungsinstitut wirft Bürgern Rassismus vor

 

 

 

Sarrazin setzt sich gegen „taz“ durch

 

 

 

Wahr-Sager: Hetze von links – Das “Netz gegen Nazis” unter die Lupe genommen

 

 

 

(Schule gegen Rassismus)

 

Kritik an linker Anti-Rassismus-Broschüre

 

 

 

(Wenn das keine anderen stoppen… 90 Jahre… rolleye)

 

CDU: Linkstrend-Kritiker Siebeke gestorben

 

 

 

Akte Wallraff wird geschlossen

 

Ermittlungen sollen gegen Geldauflage eingestellt werden. Schriftsteller überlegt, ob er akzeptiert

 

 

 

Nazi-Symbolik

 

Tchibo kapituliert vor "18"-Shitstorm

 

Der Kaffeeröster Tchibo verkauft in seiner Kollektion Turnschuhe mit der Aufschrift "18". Die Zahl gilt als Code für die Initialen Adolf Hitlers. Jetzt hat die Firma die Schuhe vom Markt genommen.

 

 

 

(dazu ein Kommentar…)

 

Danke für Ihre Aufmerksamkeit!

 

 

 

(Bauer-Verlag)

 

Verlag wehrt sich gegen Vorwurf der NS-Propaganda

 

 

 

(und die Sittenwächter von der Amadeu-Antonio-Stiftung machen neuerdings auch Kampagnen gegen "Sexismus")

 

Sexistische Werbung: Das Dekolleté von Nordhausen

 

 

 

(Blaue Narzisse verklagt die taz; betr. Antifa-Autor Andreas Speit)

 

Verleumdung durch die taz

 

 

 

Bad Nenndorf: Polizei bringt Blockierern Getränke

 

 

 

Großrazzia gegen Linksextremisten in Berlin

 

 

 

Rechtsextremismus im Landkreis Gießen

 

Die Antifa irrt sich in der Adresse

 

 

 

(Autonome)

 

„Du kriegst gleich ’n paar aufs Maul!“

 

Attacke auf Umweltminister Altmaier in Kreuzberg

 

 

 

25 Demonstranten festgenommen

 

Proteste vor Berliner Flüchtlingsheim

 

 

 

(ebd.)

 

Angriff von Linksextremist: Polizist droht zu erblinden

 

 

 

Berlin: “Kurier”-Reporterin wollte Stecker ziehen

 

 

 

(Dieter Graumann gibt auch noch seine Meinung dazu ab)

 

Interview mit Dieter Graumann

 

„Bei den Bildern aus Berlin-Hellersdorf empfinde ich Ekel!“

 

 

 

Endsieg über Nazis in Berlin-Hellersdorf?

 

 

 

(Ebenfalls Linksradikale als Demonstranten pro Einwanderer)

 

Zwangsräumung von Protesten begleitet

 

Begleitet vom Protest des „Hanauer Sozialforums“ wurden gestern an der Daimlerstraße zwei Wohnungen in den so genannten „Rumänenhäusern“ an der Daimlerstraße zwangsgeräumt. Die Aktion verlief friedlich

 

 

 

(Hanau - „Brüllt sie nieder!“, forderte der SPD-Bundestagsabgeordnete Dr. Sascha Raabe in einem leidenschaftliche Appell die Gegendemonstranten vor Beginn der Kundgebung der rechtsextremistischen NPD auf. Die Neonazis dürften „keine zehn Minuten in der Stadt sein“.)

 

Wütender Protest gegen Neonazis / Gerangel mit der Polizei / Anzeige gegen NPD-Chef

 

Der Lärm der Demokraten

 

 

 

(Nach ausländerfeindlichen Parolen war Schluss: Die Stadt Hanau hat die umstrittene NPD-Kundgebung, an der eine Handvoll Anhänger teilnahm, aufgelöst. Die Zahl der Gegendemonstranten war deutlich größer.)

 

Fremdenfeindliche Äußerungen

 

Stadt Hanau löst NPD-Kundgebung auf

 

 

 

Hanau wehrt sich gegen Neonazis

 

Kommentar: „Rote Linie“ gezogen

 

 

 

 

EINWANDERUNG / MULTIKULTURELLE GESELLSCHAFT

 

 

 

Kohl wollte jeden zweiten Türken abschieben

 

 

 

Wowereit verurteilt Kritik an Asylbewerberheimen

 

 

 

(Christian Pfeiffer)

 

Kriminologe beklagt mangelnde „Willkommenskultur“

 

 

 

CDU-Bundestagsabgeordnete: “Zuwanderung ist unsere einzige Überlebenschance”

 

 

 

Diskussion über Syrien im Nordend-Café

 

„Europa muss Flüchtlingen mehr helfen“

 

 

 

Armutsmigration als volkspädagogische Maßnahme?

 

 

 

NSU: SPD wirft Polizei rassistische Denkmuster vor

 

 

 Vielfalt in Uniformität

 

 

 

Identitäre Basisarbeit (9): Aktion an den Resten der Willehadi-Kirche in Garbsen

 

 

 

(Rücksicht auf islamische Moral?)

 

Britische Supermarktkette: Sittsamkeitstüten für Männermagazine

 

 

 

(Der Anwalt klingt eher nach Türke, nicht nach Zigeuner…)

 

Diskriminierung? Verein will das Wort Zigeunersoße verbieten

 

 

 

Ausländischstämmige Schüler klagen über Diskriminierung

 

 

 

Hannover

 

Disco-Besucher für Diskriminierung entschädigt

 

Weil er wegen seiner türkischen Herkunft nicht in die Disco kam, erhält ein Mann 1000 Euro Schadensersatz. Passiert das noch einmal, müssen die Betreiber des Clubs eine Strafe von 250.000 Euro zahlen.

 

 

 

("Positive Diskriminierung")

 

Laut Bericht saudische Diplomaten in Berlin größte Verkehrssünder

 

 

 

(Urteil im Johnny K.-Prozess)

 

Vier Jahre für ein Menschenleben

 

Von Henning Hoffgaard

 

 

 

Rodgau

 

Auftraggeber in U-Haft

 

Islamkritiker sollte ermordet werden

 

 

 

“Testosteronüberschwemmte Jungmänner” randalieren im Sommerbad Berlin-Pankow

 

 

 

 

Streit nach Krawallen in Freibad

 

 

 

Essen: Ärger im Grugabad mit “Jugendlichen”

 

 

 

Islamistische "Sittenwächter" verprügeln Ehepaar

 

 

 

Kirche in Garbsen niedergebrannt

 

 

 

(Identitäre Aktion bei der abgebrannten Kirche in Garbsen)

 

Brandursache: Vielfalt?

 

 

 

(Ein Selbstdarsteller kann sich im "Spiegel" präsentieren…)

 

Kirchweyhes Bürgermeister und der Spiegel

 

 

 

Bremen: 35 Mitglieder des Miri-Clans prügeln auf Bauarbeiter ein

 

 

 

 

Offenbach: Paketzusteller wurden ausgeraubt

 

 

 

Fürth: Türken schlagen 26-Jährigen nach Zivilcourage bewußtlos

 

 

 

(Ali N.)

 

Frankfurt

 

Das ist der Messer-Killer vom Börneplatz

 

Sein Opfer wollte nur einen Streit schlichten

 

 

 

Mohamed trifft Ali und verliert sein Leben

 

Frankfurts Vielfalt kann auch tödlich sein

 

 

 

Solingen

 

Salafist kommt mit Bewährungsstrafe davon

 

 

 

(Migranten?)

 

Polizisten in Neukölln verprügelt

 

 

 

 

(Yaldin K.)

 

Justiz

 

Goldankäufer hinterzieht 7,8 Millionen Euro Steuern

 

 

 

 

KULTUR / UMWELT / ZEITGEIST / SONSTIGES

 

 

 

Dieser Dom wird abgerissen

 

Wie Nordrhein-Westfalens Braunkohletagebau eine Kulturlandschaft vernichtet

 

 

 

Die Bagger werden St. Lambertus fressen

 

 

 

Immerath

 

Ein Dorf muss dem Bergbau weichen

 

 

 

(Problem Zerstörungswut)

 

Heusenstamm

 

Mutwillige Zerstörung

 

Vandalen im Schlossgarten

 

 

 

Garnisonkirche Potsdam

 

Bund fördert den Aufbau mit 12 Millionen Euro

 

Nachdem die Bundesregierung den umstrittenen Wiederaufbau der Potsdamer Garnisonkirche als Projekt von nationaler Bedeutung eingestuft hatte, fördert sie nun den Wiederaufbau der Kirche mit zwölf Millionen Euro.

 

 

 

Historisches Gebäude-Trauerspiel in Zehlendorf

 

Vorsicht, Busen!

 

Die Villa Calé ist eines der schönsten Gebäude in Zehlendorf - und zerfällt langsam. Das Land Katar hat das historische Haus samt Gartengrundstück 1997 gekauft, aber wohl aus Pietätsgründen bisher nicht genutzt - wegen der barbusigen Figuren am Dach.

 

 

 

Farbbilder aus Berlin zur NS-Zeit

 

 

 

 

Vergessener Farbfilm

 

Hamburgs Aufbruch nach dem Bombenkrieg

 

Kinder fahren Rollschuh zwischen Trümmern, Familien haben sich in den Kellern zerstörter Gebäude eingerichtet: Im Sommer 1948 war Hamburg noch immer vom Feuersturm gezeichnet, doch es herrschte Aufbruchstimmung. Ein seltener Farbfilm dokumentiert eine geradezu gelöste Atmosphäre.

 

 

 

Zerstörung als Chance

 

Stadtplanung in Zeiten des Bombenkriegs

 

Erst zerstört, dann neu aufgebaut: Die Vernichtung der Städte im Zweiten Weltkrieg hat bei vielen Architekten und Stadtplanern eine regelrechte Euphorie ausgelöst. Das ist die pikante These einer Ausstellung, die heute in Hamburg eröffnet wird. Ein Gespräch mit dem Kurator Jörn Düwel.

 

 

 

Neues Buch zeigt die schlimmsten Beispiele

 

Bausünden, wohin man schaut

 

 

 

 

Stuttgart 21 – eine Zwischenbilanz

 

 

 

Mecklenburg – alles Bio?

 

 

 

(Quote)

 

Frauenbewegung von oben

 

 

 

Evangelische Kirche traut erstmals schwules Paar

 

 

 

Trauung Homosexueller in Seligenstadt: Die Eheleute Christoph und Rüdiger

 

 

 

(Zur "grünen" Pädophilie-Debatte)

 

Grüne Logik

 

 

 

Sieben Stunden, vierzehn Minuten – Manfred Spitzer zur digitalen Demenz

 

 

 

Wie man aus Nichts Geld machen kann: die wundersame Welt der Suchmaschinenoptimierung

 

 

 

(Internetüberwachung)

 

10 Thesen zum Neuen Spiel

 

 

 

Junge Social-Media-Nutzer

 

"Liege nackt auf dem Balkon und esse Kekse"

 

Die Geheimdienste lesen alles mit - Skandal! Das sieht nicht jeder so. Es gibt junge Menschen, die freiwillig auf Facebook und Twitter Intimes öffentlich machen. Fehlt denen Internetkompetenz? Nein.

 

 

 

US-Kolumne

 

Wir leben in der besten aller Zeiten

 

Kolumnist Eric T. Hansen provoziert gern mit zynischen Thesen. Woran er wirklich glaubt, ist der Fortschritt: Vieles ist so gut wie nie zuvor – und wird noch besser.

 

 

 

(eine Antwort)

 

Die beste aller Zeiten

 

 

 

Die Einstellung der Eliten zu sozialen Fragen

 

Michael Hartmann: "Soziale Ungleichheit - Kein Thema für die Eliten?", Campus Verlag

 

Von Detlef Grumbach

 

"Das gesellschaftliche Sein bestimmt das Bewusstsein". Der Soziologe Michael Hartmann ist der Frage nachgegangen, inwieweit dieser berühmte Satz von Karl Marx auf die deutschen Eliten zutrifft. Dazu hat er knapp 1000 Männer und Frauen in Spitzenpositionen befragt.

 

 

 

Urbaner Penner

 

 

 

Armut als Lebensstil - Das prekäre Leben

 

 

 

Das Elend des Regietheaters

 

 

 

Künstler Jonathan Meese

 

Freispruch für Hitlergruß

 

 

 

Mit dem Parka fing es an

 

 

 

Häßlichkeit kennt keine Grenzen

 

 

 

Das Leben, der Tod – und der ganze Rest

 

Die Zwillinge Jutta Winkelmann und Gisela Getty waren die Ikonen der Hippie-Zeit, teilten Männer, Drogen und Freiheitsdrang. Jetzt ist Jutta Winkelmann an Krebs erkrankt. In einem Comic dokumentiert sie die Suche nach sich selbst, Gott und der Liebe zum Leben. Ein Gespräch

 

 

 

Das Blumenkind und der Präsident

 

Mathias Bröckers: "JFK - Staatsstreich in Amerika"

 

 

 

"Feuchtgebiete" im Kino: Schamloses Zauberwesen

 

mardi, 03 septembre 2013

'Brits NEE tegen ingrijpen Syrië luidt doodsklok voor NAVO'

'Brits NEE tegen ingrijpen Syrië luidt doodsklok voor NAVO'

Obama's halfslachtige en tegenstrijdige beleid brengt massale vernietigingsoorlog tegen Israël dichterbij


'De wereld zal zich in de ogen wrijven van verbazing dat één persoon, president Obama van de VS, het gepresteerd heeft in slechts enkele jaren tijd de Amerikaanse invloed in het Midden Oosten en Europa te verpletteren.' (DEBKAfile)

Het onverwachte NEE van het Britse parlement tegen de deelname aan de geplande Westerse aanval op Syrië is volgens Israëlische inlichtingenexperts grotendeels te wijten aan het tegenstrijdige beleid van president Obama, waardoor de bondgenoten van Amerika en het publiek nauwelijks nog vertrouwen hebben in de VS. Dit leidt er niet alleen toe dat Amerika's invloed in het Midden Oosten snel tanende is, maar ook dat 'de doodsklok voor de NAVO' wordt geluid (1). Tevens zullen de vijanden van Israël zich gesterkt voelen, waardoor een massale vernietigingsoorlog tegen de Joodse staat steeds waarschijnlijker wordt.

Nadat de Syrische president Assad valselijk de schuld kreeg van de chemische aanval in Damascus en Obama van een 'afschuwelijke misdaad' sprak, zette de president deze week plotseling in op een zeer beperkte aanval op Syrische doelen. Hierdoor zouden zowel Assad als zijn bondgenoten in Rusland en Iran als morele overwinnaars uit de strijd naar voren komen. De Iraanse opperleider Ayatollah Khamenei kan dan zeggen gelijk te hebben gekregen met zijn jarenlange uitspraken dat de VS niets anders dan een papieren tijger is.

Coalitie tegen Syrië uiteen gescheurd

De Britse afwijzing van een aanval op Syrië scheurt Obama's multinationale coalitie uit elkaar en betekent een dolksteek in het hart van de NAVO, de historische Westerse alliantie die na de Tweede Wereldoorlog tientallen jaren lang de vrede in Europa wist te bewaren, maar zich sinds de Balkanoorlog in de jaren '90 steeds vaker ontpopt heeft als een agressief werktuig in de handen van de Amerikaanse globalisten.

In 2009 kondigde Obama aan dat de VS voortaan voornamelijk naar het Oosten zou kijken, en minder naar het Westen. Dit leidde tot de militaire exit uit Irak en Afghanistan, landen waar dankzij de Amerikaanse invasie een bloedige sektarische oorlog was losgebarsten, wat honderdduizenden slachtoffers heeft geëist en beide naties in puin heeft achtergelaten.

Forse terugslag door afzetten Morsi

Tegelijkertijd verlegde Obama zijn aandacht naar Noord Afrika, waar hij actief het omverwerpen van de Libische leider Muammar Gadaffi en de Egyptische president Hosni Mubarak steunde. De islamistische Moslim Broederschap werd door het Witte Huis uitverkoren tot nieuwe belangrijkste bondgenoot, maar toen de eerste Broederschap-president Mohamed Morsi al na één jaar werd verdreven, kreeg Obama's Midden-Oostenbeleid een geweldige klap te verwerken.

Wapens en geld voor Al-Qaeda

In Libië kwamen na de door de NAVO mogelijk gemaakte moord op Gadaffi aan Al-Qaeda verbonden islamitische extremisten aan de macht. Obama's beleid in Syrië ging nog verder: daar begon hij actief Al-Nusra (Al Qaeda) met financiën en wapens te steunen, ondanks het talloze malen bewezen feit dat het vooral de Syrische rebellen zijn die de meest afschuwelijke misdaden plegen tegen de burgers in het land, inclusief het door de VN bevestigde gebruik van chemische wapens.

Israël gedwongen grond en veiligheid op te geven

Bizar genoeg hamert Obama er voor de Tv-camera's op dat de VS en het Westen zich zo min mogelijk met de zaken in het Midden Oosten moeten bemoeien. Zijn acties getuigen echter van het absolute tegendeel. Van bondgenoot Israël eist hij zelfs absolute gehoorzaamheid. Tevens is Obama bezig om de Joodse staat een 'vredes'verdrag met de Palestijnen op te leggen, waarin Israël gedwongen zal worden om een groot deel van zijn grondgebied en zijn veiligheid op te geven.

'Doodsklok voor de NAVO'

Door dit tegenstrijdige beleid en de halfslachtige houding ten opzichte van Syrië blijkt nu zelfs Amerika's traditioneel grootste en trouwste bondgenoot, Groot Brittannië, hardop te twijfelen aan Obama's plannen en doelstellingen. 'Dit heeft geresulteerd in het luiden van de doodsklok voor de NAVO', constateren Israëlische inlichtingenexperts. De komende beperkte militaire aanval op Syrië kan, gekoppeld aan de ondoorzichtige doelstellingen, zelfs de genadeklap betekenen voor de Amerikaanse invloed in het Midden Oosten.

'Invloed VS in Europa en Midden Oosten verpletterd'

'De wereld zal zich in de ogen wrijven van verbazing dat één persoon, president Obama van de VS, het gepresteerd heeft in slechts enkele jaren tijd de Amerikaanse invloed in deze gevoelige regio en in Europa te verpletteren,' is de conclusie van de strategische analisten van DEBKAfile.

Terwijl het Witte Huis zegt bereid te zijn om desnoods alleen tegen Syrië op te treden, zou de Britse premier Cameron wel eens het politieke slachtoffer kunnen worden van Obama's wispelturige beleid. Nu 30 leden van zijn eigen Conservatieve partij en 9 van zijn coalitiegenoot de Liberalen met de oppositie hebben meegestemd, lijkt zijn positie te wankelen.

'Netanyahu wacht af en doet niets'

De situatie voor Israël wordt er door deze ontwikkelingen bepaald niet beter op. Premier Benyamin Netanyahu karakteriseert zijn politieke koers doorgaans als 'verantwoordelijk en gebalanceerd'. In de praktijk betekent dit echter hoofdzakelijk afwachten, uitstellen en niets doen. Ondertussen heeft de islamitische terreurbeweging Hezbollah in Libanon een arsenaal van vele tienduizenden raketten opgebouwd, en herhalen hun bazen in Teheran, die op topsnelheid doorwerken aan kernwapens, wekelijks dat Israël moet worden vernietigd.

Massale oorlog tegen Israël dichterbij

Het verdwijnen van Moslim-Broederschap president Morsi en het verlies van de Britse steun voor de aanval op Syrië is een enorme opsteker voor Iran en Hezbollah, die de invloed van de VS in heel het Midden Oosten, inclusief in Israël, snel zien afnemen. Bovendien wordt de bewering van de regering in Jeruzalem dat ze niet betrokken is bij de Syrische burgeroorlog door niemand geloofd. Dit zou er op niet al te lange termijn toe kunnen leiden dat Israëls vele vijanden zich aaneensluiten en hun dreigementen de Joodse staat voor eens en altijd te vernietigen zullen proberen waar te maken.

 

Xander

(1) DEBKA

lundi, 02 septembre 2013

Les Etats-Unis et leurs alliés – La «souveraineté limitée» selon la doctrine de Brejnev

Les Etats-Unis et leurs alliés – La «souveraineté limitée» selon la doctrine de Brejnev

par Willy Wimmer*

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch

Les révélations de Snowden sont un éclairage sous les feux des projecteurs: notre pays n’est pas, pour les Etats-Unis, un partenaire, mais est considéré comme un repaire de terroristes.

Il faudra se rappeler du visage ouvert et, somme toute, sympathique, d’Edward Snowden. Qui donc a réussi à lancer par la presse, une pareille bombe médiatique, à partir d’un refuge à Hong Kong, obligeant le président américain à chercher des explications concernant la situation réelle des libertés individuelles et des questions de sécurité dans son pays? Si ce n’était pas aussi sérieux, on dirait, bravo, bien joué. Mais de tels mots restent en travers dans la gorge, tant tout cela n’est pas crédible. Il se trouve que quelqu’un veut défendre les libertés individuelles et les droits civiques fondamentaux et se voit obligé de fuir – où? – en Chine.


D’un seul coup – comme en 1987, l’aviateur Mathias Rust, en survolant le Kremlin – le jeune Snowden a arraché le masque cachant le visage de sa patrie. On est loin de cette représentation des Etats-Unis, symbole de la démocratie et des valeurs étatiques fondamentales. La Chine n’est pas particulièrement connue comme Preaceptor Libertatis, la Fédération de Russie non plus d’ailleurs. Et pourtant, la Russie se présente, depuis un certain temps, comme courageuse représentante des droits humains. Autrement dit, on reprend aux Etats-Unis et à l’Occident ce droit qu’on croyait inaliénable de représenter ces valeurs. On n’a pas oublié que, déjà, lors de la guerre de 1999, la République fédérale de Yougoslavie, en violation du droit international, fut sacrifiée au nom des intérêts particuliers des Américains. Et maintenant cela! Les dirigeants chinois n’ont pas été hissés au gouvernement selon les règles qui nous sont chères. Mais cela ne signifie pas qu’ils n’évaluent pas soigneusement les intérêts de leur pays. Ils l’ont certainement aussi fait lorsqu’ils ont laissé la voie libre à ce jeune homme de se rendre à Moscou. C’est ainsi qu’ils ont créé des conditions propices pour que le ballon placé devant leurs pieds par le jeune Américain et les Etats-Unis vacillants, reste en l’air.


La rage de tout contrôler, qu’Edward Snowden avait décelée au sein de la National Security Agency (NSA) et chez ses clients, n’aurait pu être découverte à un moment aussi pire. Ce qu’il avait à dire concernait surtout l’Allemagne, ce sont nous, les Allemands qui se trouvent dans la ligne de mire de l’Etat fouineur américain. Il y a de quoi se frotter les yeux, car – indépendamment des guerres menées en violation du droit international – on se sent plutôt comme un allié des Etats-Unis et non pas comme un repaire du terrorisme international. Ce fut un magnifique signal, envoyé juste avant la visite à Berlin du président Obama. Mais la suite fut pire: nous sommes l’objectif officiellement déclaré de la surveillance totale, en commun avec nos amis européens, et pourtant nous nous trouvons dans une situation pour le moins singulière. La clause des Etats ennemis de la Charte des Nations Unies reste d’actualité dans la centrale de la NSA à Fort Meade.


A Berlin, la cloche de la liberté se trouve dans l’Hôtel de Ville de Schöneberg. Il ne s’agit pas seulement d’un cadeau généreux des Etats-Unis à l’Allemagne vaincue. Avec l’inscription «Ce monde doit renaître avec l’aide de Dieu vers une nouvelle liberté», elle représente aujourd’hui encore un leitmotiv démocratique pour notre pays. Ainsi on perd un peu de vue que depuis la réunification, il y a en Allemagne environ 2000 collaborateurs de la CIA pour couvrir tout le pays et analyser quelles prises d’influence on pourrait encore développer. Etant donné qu’à Washington chacun, tant au département d’Etat que dans les offices fiscaux, possède son propre système d’espionnage, Berlin peut facilement évaluer le nombre d’espions d’un pays ami se trouvant dans le pays. Et on ne compte pas les anciens collaborateurs de la Stasi et du service de sécurité de l’Etat qui ont été embauchés dès l’effondrement de la RDA, les recruteurs n’hésitant pas à faire du porte à porte avec leurs listes dans certains quartiers berlinois.


Le président Obama est reparti. Lui, qui est tant apprécié en Allemagne, continue son chemin pour visiter tout autour du globe, outre Guantanamo, encore d’autres pénitenciers. Peut-être que notre président allemand se souvient avec gratitude des larmes versées lorsque retentit l’hymne américain devant le château de Bellevue et de ses paroles conciliantes concernant la surveillance d’un ami par un ami. Néanmoins, il serait utile que quelqu’un s’assure à la mairie de Schöneberg que la fameuse cloche de la liberté ne se soit pas fêlée, car trop c’est trop.


L’énorme secousse causée par Monsieur Snowden, ne doit pas occulter le fait que nous n’avons pas de raisons d’être surpris. Il y a quelques années déjà, nous nous préoccupions de la problématique d’Echelon. Il apparut alors qu’une conséquence directe de la Seconde Guerre mondiale reposait sur le fait que la coalition des vainqueurs anglo-saxons, non seulement, conserva sa coopération SIGINT [Signals Intelligence] – c’est-à-dire la surveillance des signaux électromagnétiques et de toute communication électronique – mais la développa à l’infini. Nos amis londoniens ont repris la tâche d’intercepter à l’aide de stations d’écoute le trafic de courriels de l’Europe entière, y compris dans le but d’exercer un espionnage de transférer ces données immédiatement aux Etats-Unis. De ce fait apparaît, ce que l’on constate depuis des décennies en Europe, mais aussi en Allemagne: les installations étatiques allemandes sont soumises au contrôle parlementaire et doivent respecter les lois du pays. Les amis américains accordent, bien sûr de façon tout à fait désintéressée, une participation aux résultats des écoutes à certains organes de l’Etat allemand, qui eux-mêmes n’obtiendraient jamais de permission pour de telles activités de la part de leur gouvernement ou du Bundestag. Ce n’est pas précisément le procédé pour se créer des amis, c’est plutôt un comportement qui fait exploser l’ordre étatique. Il y a suffisamment d’exemples pour qu’on en vienne à s’interroger sur l’attention excessive accordée par certaines installations étatiques en Allemagne à un gouvernement parallèle sis à Washington …
De toute façon et cela depuis bien avant la dénonciation des aspirateurs de données de la NSA, on peut se demander si, dans la relation entre les Etats-Unis et leurs alliés, on n’a pas plutôt affaire à un système de «souveraineté limitée» selon le modèle de la doctrine de Brejnev. Des prescriptions financières de Bâle-II en passant par le statut de la Cour pénale internationale de La Haye et le pénitencier de Guantanamo, jusqu’au droit, soi-disant tout naturel, des Etats-Unis de mener des «guerres sur demande» [«Wars on Demand»], en violation de la charte des Nations Unies, il y a une longue chaîne d’exemples prouvant que les Etats-Unis se sont arrogés le droit de se placer au dessus du droit international. Alors qu’il est scrupuleusement observable que nous autres Européens respectons les sévères prescriptions de capital propres aux entreprises et aux instituts financiers (Bâle-II et prochainement Bâle-III) – les Etats-Unis, eux, les prennent à la légère. En matière de politique financière on ne découvre aucune de ses cartes et on ridiculise autrui. Quant à la Cour pénale internationale de La Haye, les Etats-Unis ont imposé leur système juridique afin de tenir l’Europe en laisse. Mais pour eux-mêmes, ils s’attribuent le droit d’attaquer d’autres pays si jamais ceux-ci se permettaient de faire comparaître des soldats américains devant les tribunaux pour crimes de guerre. On en aura pris connaissance, et pas seulement aux Pays-Bas.


Selon les révélations de Snowden concernant Prism, c’est la gigantesque industrie américaine active dans le domaine des données électroniques qui sert de véhicule pour imposer cette «souveraineté limitée». La porte d’entrée pour l’érosion du système juridique européen dans le domaine des droits civiques et des libertés individuelles se trouve en Irlande, qui est, à part cela, un pays tout à fait sympathique. L’Irlande laisse agir librement les multinationales spécialisées dans l’électronique – et voilà que nos droits et l’ordre juridique les protégeant, se volatilisent. C’est ainsi que la voie est toute grande ouverte aux immenses entreprises américaines d’avocats et qu’il ne reste aux Européens, de leur ordre juridique, pas même ce que les Indiens, dans l’empire britannique, pouvaient considérer comme leur propre droit [«home rule»]. Voilà les conditions dans lesquelles l’Europe aborde les négociations pour l’Accord de libre-échange transatlantique, qui se sera transformé en un Accord colonial transatlantique avant même que les négociations aient débutées.


A Washington, on avait – déjà du temps du président Clinton, lors de la mise en place des fondements du nouvel ordre mondial américain et du déclenchement de guerres, l’une après l’autre – réfléchi au rôle de l’économie américaine dans le monde. Les secteurs industriels dans lesquels les entreprises américaines devaient être prépondérantes furent définis. On peut en voir les résultats aujourd’hui et tirer son chapeau à ces planificateurs. Ils sont allés loin! L’accord de libre-échange a-t-il pour but de continuer à développer cette position? Les industries européennes doivent-elles subir le même sort que celui imposé par les multinationales de la communication électronique? Ne parlera-t-on plus qu’américain? Comment le gouvernement européen moyen, comment la Commission européenne, conçoivent-ils les négociations avec les Etats-Unis, alors que les positions européennes seront connues à la NSA à Fort Meade dans le Maryland avant même que les textes aient été terminés dans leurs ordinateurs portables? Lorsqu’on connaît le «Situation Room» de Fort Meade, on sait une chose: à Berlin et à Bruxelles on ne traverse pas la route lorsque le feu est au rouge sans que le visage du malfaiteur apparaisse sur les écrans du «Situation Room».    •

Première parution in: Compact 08/2013 (www.compact-magazin.com)

(Traduction Horizons et débats)

* Willy Wimmer, né en 1943, adhéra à la CDU en 1958 et fut député au Bundestag allemand de 1976 à 2009. De 1988 à 1992, il fut en tant que secrétaire d’Etat à la défense membre du gouvernement fédéral.

dimanche, 01 septembre 2013

L’HUMANISME EUROPEEN EST VIDE DE SON SENS

 

L’HUMANISME EUROPEEN EST VIDE DE SON SENS. SA LEGITIMITE EST MENACEE - Une refondation est-elle possible ?

L’HUMANISME EUROPEEN EST VIDE DE SON SENS

SA LEGITIMITE EST MENACEE

Une refondation est-elle possible ?


Pierre Le Vigan
Ex: http://metamag.fr
Nietzsche disait : « Toutes les braves choses se portent volontaires et plongent de joie dans l’existence ». (Zarathoustra). Pour l’homme, cela a toujours été plus compliqué que pour « les braves choses » - et « les braves bêtes » doit-on ajouter. C’est sans doute pour cela que l’homme a créé l’humanisme. Comment le définir ? Par l’affirmation de l’humain. Quelles sont ses formes et ses limites ? C’est la question à laquelle Rémi Brague a tenté de répondre. La Renaissance, puis les Lumières ont été les étapes de l’humanisme européen. On attend en vain un nouveau souffle, un troisième humanisme. John N. Gray note justement : « Dans la période de la modernité tardive dans laquelle nous vivons, on affirme le projet des Lumières surtout par crainte des conséquences de son abandon. (…) Nos cultures sont des cultures des Lumières non par conviction mais par défaut. » 

Comment en est-on arrivé là ? 

L’histoire de l’idée humaniste, c’est-à-dire de l’idée d’un propre de l’homme, comporte plusieurs étapes. La première est l’affirmation de la différence humaine par rapport aux autres vivants : l’homme travaille, et non seulement il meurt comme tous les vivants, mais il sait qu’il va mourir. L’affirmation de la supériorité de l’homme intervient ensuite : l’homme est « le meilleur parmi les êtres vivants » (Aristote). Ce qui ne veut pas (encore) dire qu’il est le meilleur être du monde. Troisième étape : Francis Bacon et René Descartes annoncent le règne de l’homme sur le monde. L’exaltation du travail est au centre de cette conquête du monde par l’homme. L’homme doit travailler « sans peur, avec plaisir, avec joie » (J. G Fichte). La quatrième et dernière étape est l’exclusion de l’être de tout ce qui n’est pas humain. C’est l’humanisme exclusif. L’homme devient l’Etre suprême, et même l’Etre unique.


Rémy Brague
 
Cette logique philosophique de l’humanisme a amené deux types de réponses. L’une est l’antihumanisme. L’autre est l’interrogation sur le sol sur lequel fonder l’humanisme. Abordons d’abord la question de l’antihumanisme. Il a deux aspects. D’un côté, la technique semble rendre l’humain superflu (Heidegger, Günther Anders), d’un autre côté, la généalogie de l’homme aboutit à le soupçonner d’une origine impure. S’engouffrant dans la brèche, certains auteurs critiquent radicalement l’humanisme. Au début du XXe siècle, le russe Alexandre Blok développe une critique totale de l’humanisme, comme menant à un rapetissement athéiste, et met l’antihumanisme du côté de la culture (qu’il valorise) et l’humanisme du côté de la civilisation (qu’il abhorre). Développant ainsi une nouvelle fois l’antagonisme culture/civilisation, Alexandre Blok est résolument contre la « civilisation ». Il s’inscrit en outre en continuité avec les mythes de régénération du « pan-mongolisme », développés notamment par Vladimir Soloviev.
  
Pour d’autres antihumanistes, la seule chose à révérer est le Grand Etre d’Auguste Comte, ou encore Gaïa, sphère parfaite dont le seul défaut serait en somme d’avoir fait une place à l’homme dans la création. Une aporie difficilement tenable. La conséquence ultime des idées des tenants de Gaïa est en effet que l’homme étant essentiellement nuisible, sa disparition est nécessaire afin de réaliser la restauration de l’équilibre primordial. L'humanité disparaitra, bon débarras ! s’écrit Yves Paccalet (Arthaud, 2006 et 2013). C’est ainsi une version athée de l’apocatastase.
 
Une autre contestation forte de l’humanisme est plus connue. Il s’agit de celle de Michel Foucault, de son école et de ses épigones. Rémi Brague note que cette contestation de l’humanisme est fondée sur la légende « des humiliations par décentrements successifs qu’aurait subies l’homme depuis Copernic, qui l’aurait chassé du centre de l’Univers, puis Darwin, qui l’aurait détrôné du sommet des vivants, puis la psychanalyse, qui aurait chassé de sa propre âme la conscience. » Ainsi, la « mort de l’homme » ne désigne en fait rien d’autre que le constat (banal) que la conscience de l’homme ne résume pas le tout de l’homme, que le sujet n’est jamais totalement conscient et transparent à lui-même. On en conviendra bien volontiers.

« L’humanisme, écrivait Michel Foucault, est tout ce par quoi en Occident on a barré le désir du pouvoir – interdit de vouloir le pouvoir, exclu la possibilité de le prendre. » (Dits et écrits I, Gallimard, 2001). Le dispositif d’empêchement de prendre le pouvoir ne serait autre que la « définition de l’individualité comme souveraineté soumise ». Le problème est que Michel Foucault voit fort bien en quoi le sujet borne le réel, mais il ne voit pas ce qu’il fonde. Déplaçons la question en amont : qu’est-ce qui fonde l’homme ? Ceci ramène à l’interrogation essentielle de Léon Bloy : « Il est permis de se demander (…) s’il peut y avoir des hommes dans une société sans Dieu. » 

Avant toute réponse, il faut revenir sur la façon dont l’humanisme s’est constitué. L’une des hypothèses est bien connue : la modernité consisterait en l’entrée (ou la descente !) dans la société même des idées chrétiennes, ce serait « la sécularisation de pensées issues du Moyen Age chrétien ». Donc une descente sur terre d’idées célestes. C’est d’ailleurs là-dessus que sont fondées toutes une série de critiques de la modernité, nietzschéennes, rationalistes et antichrétiennes, voire catholiques-réactionnaires (Chesterton et les « idées chrétiennes devenues folles »).
 
La thèse d’Hans Blumenberg (La légitimité des temps modernes, 1983, Gallimard, 1999) est moins connue que la précédente. Elle est que la modernité est une réponse à l’échec de la tentative d’enrayer la pensée gnostique. « Le Moyen Age prit fin, écrit Hans Blumenberg,  lorsqu’il ne peut plus faire accroire à l’homme, à l’intérieur de son système spirituel, que la création était Providence, et lorsqu’il lui imposa par là même la charge de l’auto-affirmation. » Cette analyse se fonde avant tout sur les débats théologiques et notamment sur la pensée patristique. Le projet moderne serait donc marqué par la résurgence de la pensée gnostique – ce qui est aussi la thèse d’Eric Voegelin, après la tentative de la bloquer au Moyen Age. Ce serait l’annonce d’une nouvelle eschatologie. Celle-ci, nourrie de la technique et du culte de la raison calculante, serait en même temps dans le droit fil de l’intérêt gnostique pour la magie comme moyen de changer le monde. 
 
Rémi Brague ne croit pas à la thèse d’un Moyen Age sans curiosité auquel aurait succédé une modernité inventive et humaniste. Il est vrai que la fin du Moyen Age est marquée par des ouvrages sur l’excellence de l’homme (Giannozzo Manetti, De la dignité et de l’excellence de l’homme, 1453), traité de « valorisation de la vie terrestre par l’engagement civique » (Jean-Claude Polet) qui prend effectivement le contrepied de l’accent mis sur la misère de l’homme. Mais le désir de connaître n’est pas une invention de la modernité. Grégoire de Nysse prônait, bien avant Pascal, le progrès spirituel (épectase), un progrès dans la connaissance de Dieu. Ce progrès, selon Grégoire de Nysse, est l’œuvre commune de la grâce et de la liberté. Le propre de la modernité actuelle, celle héritée des Lumières, n’est donc pas la curiosité ou le goût des découvertes. C’est l’idée que le fondement de l’affirmation de l’homme n’est autre que lui-même.
 
Ce n’est pas la logique qui peut réfuter un tel propos. Il est de l’ordre des hypothèses primordiales. Tout juste peut-on avancer la possibilité d’autres choix de fondation. Rémi Brague, contrairement aux antihumanistes, ne renonce pas à cette affirmation non pas de supériorité mais de spécificité de l’humain. Mais son souci est de faire entendre une autre source possible de l’affirmation du propre de l’homme. Un retour à la première phase de l’humanisme. Le pas en arrière qui permet de reprendre, mais dans une autre direction, une marche en avant. Contrairement aux humanistes « absolutistes », Rémi Brague récuse l’idée que le fondement de l’homme serait l’homme. (ce qui  serait un « raisonnement » du même ordre que celui qui dirait que la seconde guerre mondiale s’explique par l’histoire). « La création de soi par soi, constate-Rémi Brague, tourne à la destruction de soi par soi. » Aussi propose-t-il de forger « un concept de l’homme comme plénipotentiaire. C’est-à-dire comme investi d’une tâche, et donc revêtu des pleins pouvoirs qui lui permettent de la mener à bien, mais en même temps responsable de sa mise en œuvre. » Cette conception n’est pas sans antécédents. Pour les Grecs comme pour les Juifs, l’ordre du monde est un ordre de bataille. C’est-à-dire que l’homme est toujours en responsabilité d’un combat. Nous ne sommes pas loin du « principe responsabilité » d’Hans Jonas.
 
Mais il faut avec Rémi Brague poser la question en amont même : à quoi bon l’homme ? Ce qui peut se dire : à quoi l’homme est-il bon ? A cette question essentielle la réponse ne peut être que l’imitation de Dieu. Mais comment imiter un Dieu invisible et infiniment libre ? « La seule façon d’imiter un Dieu invisible, qui ne se donne dans aucune autre image que celle que produit en nous son imitation, est la liberté » écrit Rémi Brague. En d’autres termes, ce que Dieu attend de nous est que nous soyons libres. Parce que cela fait partie de notre façon d’être humain. « Homme, deviens ce que tu es » disait Pindare (Ode pythique). C’est-à-dire, explique Rémi Brague : « Montre-toi digne des qualités que je te révèle à toi-même. » On peut ne pas croire en Dieu. On peut même penser que les « pleins pouvoirs » accordés à l’homme sont une vision trop ambitieuse pour être réaliste. Mais on ne peut penser le propre de l’homme sans le divin. Il est là, il nous hante, par sa présence ou par son absence. Le divin est déposé dans le monde. Pour toujours. L’homme est le plénipotentiaire du divin. Ajoutons : ni tout puissant ni impuissant. 

Remi Brague, Le propre de l’homme. Sur une légitimité menacée, Ed.Flammarion, 260 pages, 19 €. 

vendredi, 30 août 2013

Les aléas de la liberté de conscience

Les aléas de la liberté de conscience

 
Ex: http://www.valeursactuelles.com

 Refuser l’objection de conscience face aux réformes sociétales, c’est en revenir au principe totalitaire selon lequel l’État a toujours raison.

Le développement récent des réformes “sociétales” — c’est-à-dire concernant les moeurs, l’éthique, la liberté individuelle, la famille, le couple et les comportements — rend plus légitime encore qu’auparavant un questionnement sur la liberté de conscience et même sur l’objection de conscience. Car tout cela ressort au domaine de l’infiniment discutable, concerne l’intime et les convictions profondes sur ce qu’est un humain, ce qu’il lui faut, ce qu’il doit rechercher.

On peut avoir l’impression que nous sommes justement arrivés au bon moment de l’Histoire pour défendre la liberté de conscience. C’est le nazisme qui en est l’occasion. Voir ces bourreaux qui ont obéi comme des fantassins aveugles à des ordres barbares et qui se trouvaient capables, des dizaines d’années après, de légitimer encore leur allégeance, cela nous a révulsés au point de nous inciter à toujours défendre la conscience individuelle. La hantise du bourreau fidèle aux ordres a même suscité chez nous une méfiance instinctive du côté institutionnel des choses, à ce point que les groupes les plus conformistes se prétendent indépendants d’esprit. Nous vivons à une époque où tout le monde se prend pour Antigone.

Il est donc assez déconcertant de voir les réponses données à ceux qui en appellent à la liberté de conscience, et même à l’objection de conscience, face aux réformes sociétales dont le gouvernement actuel semble s’être fait une spécialité, et particulièrement face au mariage homosexuel. On leur rétorque qu’ils ne sont pas républicains, car allant à l’encontre de l’égalité républicaine, et aussi homophobes, évidemment. Nantis de ces tares rédhibitoires, ils n’ont évidemment pas droit à la décision individuelle, à vrai dire ils n’ont même pas de conscience, puisqu’ils s’opposent à la seule vérité sociopolitique.

Autrement dit, nous retournons subrepticement à ce que le combat antitotalitaire avait réussi à démanteler : le positivisme — c’est-à-dire l’idée selon laquelle l’État a toujours raison, parce qu’il est l’État. Dans notre cas, il faudrait plutôt dire : ce qui est consacré républicain (progressiste, égalitariste, émancipateur) a toujours raison.

Il faut bien rappeler que la conscience personnelle, celle d’Antigone, celle de l’objection de conscience, représente exactement le contraire du positivisme. Elle présuppose, si elle existe ou plutôt si elle est légitimée (car elle existe même si personne ne la reconnaît), qu’aucune instance supérieure ne peut prétendre avoir toujours raison. Et que le dernier mot, toujours particulier et relatif, revient à la conscience personnelle — ce qui suppose évidemment que l’être humain soit une personne et non un individu programmé par l’État, formaté par l’École.

C’est seulement dans ce cadre que la liberté de conscience existe : si l’idéal républicain, passe au second rang, après la conscience personnelle — autrement dit, si l’on imagine que le progressisme tout-puissant peut être jugé ! Faute de quoi nous en revenons au positivisme, qui était la tare principale des deux totalitarismes, donc du nazisme contre lequel nous ne cessons de lutter.

On ne peut pas porter les antifascistes sur le bouclier de la gloire et ne pas permettre aux maires de récuser le mariage gay en leur âme et conscience. Si la conscience d’Antigone existe et si elle doit être révérée, ce n’est pas seulement pour lutter contre le nazisme et contre les dictateurs exotiques. C’est aussi pour juger les croyances de notre République et dénoncer ses excès, ses abandons, ses lois scélérates. La conscience d’Antigone n’est pas un outil qu’on saisit quand cela nous arrange — pour fustiger Papon ou crier haro sur les accusés des tribunaux internationaux, complices de gouvernements criminels. Et qu’on mettrait sous le boisseau, réclamant dès lors l’obéissance absolue, quand cela nous sied — devant l’égalité républicaine, devant la souveraineté de la pensée d’État. Brandir une théorie pour ses adversaires et la décréter inepte dès qu’elle s’applique à soi : c’est la spécialité des imbéciles, et des idéologues.

Rassegna Stampa: articoli in primo piano (agosto 2013)

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jeudi, 29 août 2013

GERMANIA E RUSSIA NELLA GUERRA FREDDA

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GERMANIA E RUSSIA NELLA GUERRA FREDDA

Marco ZENONI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

L’anteguerra

A riavvicinare Germania e Unione Sovietica, dopo l’allontanamento successivo all’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni (SdN), fu soprattutto la questione polacca. Polonia e Germania, quest’ultima mai accontentatasi del riposizionamento geografico voluto a Versailles e – in particolare – della creazione ex tunc della città libera di Danzica, firmarono un patto di non aggressione nel 1934, garantendosi la reciproca neutralità nei 10 anni a venire. La Polonia, naturalmente, era conscia delle mire del terzo Reich e per questo tentò sempre l’avvicinamento a Francia e Inghilterra, in cerca di una strozzatura geopolitica nei confronti dei tedeschi. Peraltro, l’ostilità dei polacchi nei confronti del vicino sovietico, fece sì che nessun accordo militare venisse stretto con i sovietici e che, anzi, la Polonia si allontanasse allo stesso modo sia dal vicino orientale che da quello occidentale, rifiutando una modifica allo status quo e dunque ponendo le basi per l’imminente guerra, che poi diverrà mondiale. Tale posizione, dovuta sì ad alcune particolarità storiche e culturali ma, soprattutto, dall’influenza degli alleati anglosassoni e, in particolare, quella statunitense. Le potenze talassocratiche, infatti, non avevano che da trarre vantaggio da un’eventuale guerra che, chiaramente, non fosse mondiale nelle intenzioni iniziali, ma spingesse le frizioni fino ad uno scontro tra Germania e Unione Sovietica. L’intento primario era infatti quello di spingere le due potenze continentali ad affrontarsi. Per Stalin, tuttavia, questa rimaneva un’ipotesi da scacciare, o quanto meno ritardare il più possibile[1]. Furono queste le condizioni geopolitiche che portarono al patto Molotov-Ribbentrop. Una mutua assicurazione dunque, utile a Stalin per prendere tempo e alla Germania per assicurarsi da eventuali colpi di mano. Tale patto, seppur evidentemente siglato solo in funzione tattica, mise in allarme l’Inghilterra, la quale intervenne, interferendo in entrambi i trattati (polacco-tedesco e tedesco-sovietico), attraverso l’Accordo di reciproco aiuto, siglato con la Polonia – in palese infrazione di quello siglato fra Polonia e Germania, ma anche del Patto Molotov-Ribbentrop. L’intento dell’Inghilterra era quella di costruire una frattura geografica fra le due potenze eurasiatiche, in modo da impedirne l’avvicinamento e in particolar modo di impedire eventuali intese fra i polacchi e il terzo reich. Lo stesso Stalin, difatti, almeno inizialmente, attribuì le colpe della guerra completamente ad Inghilterra e Francia, e non alla Germania[2].


Oltre al noto patto, tuttavia, Germania e Unione Sovietica si legarono anche dal punto di vista commerciale, attraverso un accordo firmato l’11 febbraio 1940. Si arrivò tuttavia alla guerra, una guerra fratricida sulle terre eurasiatiche, che contrappose frontalmente le due potenze continentali. A seguito della guerra, che costò ai sovietici oltre 22 milioni di morti, la frattura fra i due paesi pareva insanabile. L’Armata Rossa marciò fino a Berlino, con spirito vendicativo. I tedeschi venivano visti come un invasore, da schiacciare senza pietà.

Il Dopoguerra

 

ostpolitik.jpgGli animi si placarono,  lasciando spazio al pragmatismo e al calcolo geopolitico. Nel 1945, a Jalta, avvenne la definitiva spartizione della Germania, contrapponendo di fatto da una parte gli alleati (Stati Uniti, Francia e Inghilterra) e dall’altra i sovietici. Il 1948 fu l’anno del piano Marshall, un piano economico presentato come l’inevitabile aiuto dall’oltreoceano per il risanamento delle economie europee, in realtà un mezzo economico indispensabile per il rafforzamento dell’economia statunitense ma, soprattutto, un importante collante per la formazione dell’alleanza occidentale, legata prima economicamente e poi militarmente (e politicamente) attraverso la struttura della NATO.


La divisione della Germania fu ultimata nel 1952, quando la frontiera fu definitivamente chiusa. Da quel momento l’avvicinamento della Germania dell’Ovest al sistema d’alleanze occidentale proseguì spedita. Eppure dei tentativi in funzione di una Germania unita furono mossi. Nel 1952 fu infatti Stalin stesso a proporre l’idea di una Germania unificata, a prezzo però di una sovranità limitata in politica estera: una neutralità imposta e irreversibile. Nei piani di Stalin questo avrebbe permesso la formazione di un cuscino neutrale nel cuore dell’Europa, il che avrebbe per altro sottratto la Germania dalle maglie dell’alleanza atlantica, che ne avrebbe fatto un bastione antisovietico nel cuore dell’Europa, a ridosso dell’oriente, cosa che infatti puntualmente si verificò. Il piano di Stalin fu rigettato, gli alleati occidentali dimostrarono ben presto di avere scarso interesse per una Germania unificata, non al prezzo di una neutralità che avrebbe sottratto un’importante pedina, difensiva, ma all’occorrenza anche offensiva, direttamente puntata ad Oriente, e situata nel cuore dell’Europa continentale. Per la Germania, vittima della frattura insanabile fra Est e Ovest, non poté che profilarsi la sola soluzione della divisione politica e geografica. Due Stati, dunque, per un’unica nazione. Nel 1961 tale divisione fu rimarcata attraverso la costruzione del muro, simbolo della contrapposizione frontale fra i due schieramenti.


Il primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca fu Konrad Adenauer, un fervente anticomunista, che tuttavia fu invitato già nel 1955 a Mosca, a seguito degli accordi di Parigi, che riconoscevano la sovranità della RFT e ufficializzavano il riconoscimento da parte Sovietica della Repubblica Federale. Adenauer fu un grande sostenitore dell’alleanza atlantica e tra gli animatori più vivaci (assieme all’omologo italiano, Alcide de Gasperi) della costituzione della Comunità Europea, tale di nome, ma meramente occidentale di fatto. Nel 1950 era infatti già stata pronunciata la cosiddetta “dichiarazione Schuman”, che prese nome dall’allora ministro degli esteri francese, Robert Schuman, e che proponeva di mettere da parte l’astio che correva fra i due vicini, ponendo le basi per una collaborazione che fosse prima economica, tramite la comune gestione delle risorse del carbone e dell’acciaio, e successivamente anche politica. Furono questi i primi passi che condussero la Germania nell’alleanza occidentale, senza alcun tipo di ripensamenti. Allo stesso Adenauer risale oltretutto la teoria dell’ “Alleinvertretungsanspruch” ovvero al diritto esclusivo della Repubblica Federale Tedesca di parlare a nome dei tedeschi. Per il cancelliere, infatti, la Germania Est altro non era che una zona d’occupazione sovietica e, in quanto tale, non meritava né il riconoscimento, né tanto meno di parlare a nome dei tedeschi. A tale posizione si aggiunse per altro la “dottrina Hallstein”, fatta propria dal cancelliere, la quale prevedeva che ogni apertura di paesi terzi alla Repubblica Democratica Tedesca, il che ne implicava il riconoscimento, era un torto alla Repubblica Federale e come tale non sarebbe stato tollerato. La parola fu mantenuta, tanto che ben presto furono tagliati i rapporti con la Jugoslavia e con Cuba.


L’aggressività occidentale, che non portò alcun risultato né al fine di attenuare gli animi, né a quello dell’unificazione tedesca, maturò in Willy Brandt, il lungimirante cancelliere che succedette ad Adenauer, la convinzione che il muro (metaforico, ma anche fisico) opposto dall’oriente fosse una reazione all’eccessiva aggressività occidentale. Con l’ascesa al cancellierato di Brandt i rapporti tra la Germania Federale e l’Unione Sovietica presero finalmente un’altra piega, giungendo ad una distensione che (escludendo naturalmente la DDR), non si aveva dall’anteguerra. “Il nostro interesse nazionale non ci consente di stare in mezzo fra est e ovest. Il nostro paese ha bisogno della collaborazione con l’occidente e dell’intesa con l’oriente”[3], da queste poche parole, pronunciate da Brandt stesso, si deducono quelli che poi furono i punti cardine dell’Ostpolitik. Non una vera e propria apertura verso l’oriente, ma una distensione, un’intesa al fine di raggiungere, per tappe, alcuni obbiettivi programmatici. Una politica sovranista che potrebbe in qualche modo essere paragonata (e forse ne fu influenzata) a quella gollista. La politica di apertura verso l’oriente, tuttavia, procedette solo dopo aver ribadito il pieno inserimento della repubblica federale all’interno del sistema occidentale, della NATO e della piena amicizia e intesa con la Francia, già consolidata da anni dalla struttura della CECA e, dopo gli accordi di Roma del ’57, dalla Comunità Economica Europea. Per quanto riguarda l’oriente, di fatto, quella che si avanzava era una proposta di dialogo: si chiese all’Unione Sovietica di rinunciare al diritto dell’intervento, in precedenza ribadito dai sovietici, e in cambio si riconosceva lo status quo venutosi a formare dopo la guerra oltre il muro. In particolare il riferimento era alla Polonia, con cui in quegli anni, sempre in linea con la ostpolitik, fu concordato un trattato bilaterale che assicurò l’accettazione da parte tedesca dei confini occidentali della Polonia. Vi fu inoltre, per la prima volta, il riconoscimento dell’esistenza di due Germanie. Il tutto venne siglato con l’accordo germano-sovietico del 1970, firmato a Mosca da Brandt e Kossyghin, indispettendo inevitabilmente gli Stati Uniti, nonostante le rassicurazioni più volte ribadite e dimostrate. Con l’intento della distensione, al fine di costituire un ordine pacifico europeo, si arrivò dunque al congresso di Helsinki (1973-75), un processo diplomatico multilaterale, che portò ad un notevole avvicinamento, al prezzo di alcune pragmatiche rinunce da una parte e dall’altra. Priorità dell’Unione Sovietica era il riconoscimento delle frontiere post-1945, intento degli alleati occidentali era invece indebolire il patto di Varsavia attraverso lo strumento della causa dei “diritti umani”, un punto che la coalizione sovietica aveva sino ad allora visto come un’intollerabile ingerenza[4]. E’ attraverso Mosca (1970) ed Helsinki (1975) che, infine, la repubblica federale tedesca riconobbe la frontiera dell’Oder-Neisse. La RFT per altro rinunciò alla “Alleinvertretung” e, di conseguenza, all’intento politico dell’unione tedesca. Pur rinunciando, almeno nel breve termine, alla riunificazione dello Stato tedesco, Brandt non volle rinunciare all’unificazione della nazione. Per far ciò necessitava del consenso e della collaborazione della repubblica democratica e, dunque, dell’Unione Sovietica. Per questo motivo si potrebbe dire che la ostpolitik fu de facto ed inevitabilmente una “Russlandpolitik”[5]. Condizione posta dall’Unione Sovietica per la collaborazione, e la distensione, fu l’adesione della Germania al trattato di non proliferazione nucleare. Successivamente, la dirigenza sovietica dichiarò, tramite Leonid Brezhnev, la propria approvazione per la nuova politica estera condotta dalla RFT, questo nonostante effettivamente la DDR non venisse riconosciuta (nel 1970 erano 26 gli Stati che la riconoscevano), il che provocò qualche malumore a Berlino Est.


Fino a quel momento la dirigenza sovietica aveva preferito l’immobilismo nei confronti della Germania dell’Ovest, questo permetteva di tenere la Repubblica Federale Tedesca in uno stato di soggezione e d’inferiorità, attraverso una propaganda costante oltrecortina[6], distogliendo anche le attenzioni dai problemi e dalle contraddizioni interne. Tuttavia, alla Ostpolitik tedesca i sovietici fecero allora corrispondere una “Westpolitik”. Il cambiamento di rotta fu spinto dalla necessità che i paesi occidentali riconoscessero lo Status Quo ad oriente, in particolare il riconoscimento della nuova Polonia uscita dalla seconda guerra mondiale e modificata nei suoi confini occidentali. Essendo questi gli anni in cui la Cina andava rompendo con l’URSS, dopo aver elaborato la strumentale categoria di “socialimperialismo”, per avvicinarsi agli Stati Uniti, il riconoscimento delle frontiere occidentali era una pedina fondamentale per placare gli animi su tale fronte, potendosi concentrare con maggior equilibrio nelle questioni orientali. Moralmente inoltre il riconoscimento poteva essere sventolato come una vittoria, essendo state così imposte le conseguenze della guerra allo Stato che si era frontalmente contrapposto a quello sovietico.


Pur essendo il fine dell’Ostpolitik, da parte dei tedesco-occidentali, quello di distendere i due fronti, in modo da riequilibrare anche la situazione tedesca, e quello dei sovietici di indebolire geopoliticamente l’asse antisovietico, consci del peso politico ed economico della Germania (che nel frattempo andava crescendo in maniera sorprendente), Brandt mostrò un certo senso strategico nel suo riavvicinamento all’Unione Sovietica, come dimostrò parlando alla Radio, a Mosca, il 12 agosto del 1970: “La Russia è indissolubilmente legata alla storia europea, non solo come avversario o come pericolo, ma anche come partner, storicamente, politicamente, culturalmente ed economicamente”[7]. Si può dunque dire che dopo la dottrina Adenauer-Hallstein, venne a prevalere la “dottrina Brandt”: promuovere il cambiamento attraverso l’avvicinamento[8]. Bisogna tuttavia aggiungere che nella sua politica fu probabilmente anche condizionato da Günter Guillaume, quello che in breve divenne uno dei suoi uomini più fedeli, secondo alcuni il “braccio destro” , ma che presto si rivelò una spia della Stasi, inviato con non ben precisati compiti da Markus Johannes Wolf , il quale, tuttavia, dichiarò in un’intervista successiva che l’intento non era quello di gettare in disgrazia il cancelliere[9] (quest’ultimo dovette infatti dare le dimissioni, in seguito all’”affare Guillaume”. Una vicenda tutt’oggi poco chiara e su cui poca luce è stata fatta.

Conclusioni

L’ostpolitik fu una politica realista, fu un calcolo pragmatico che prese le mosse dall’accettazione dello status quo, condizione preliminare, conditio sine qua non per distendere i rapporti con l’Est. Questa politica guardava ai vertici, alle dirigenze, indipendentemente dalle possibilità sovversive di determinati movimenti filoccidentali. A testimoniarlo vi è il rifiuto della Repubblica Federale di aderire alle sanzioni mosse dagli Stati Uniti contro la Polonia, per la repressione dei movimenti “rivoluzionari”, i quali godevano in gran parte della simpatia e delle potenze occidentali. Tale fase politica inoltre, come ampiamente previsto dai suoi promotori, permise alla Germania di ritagliarsi un proprio spazio politico, restituendole il peso geopolitico ed economico adeguato, per la preoccupazione e il sospetto degli alleati occidentali.


A conti fatti, pur non ottenendo grandi cambiamenti in ambito geopolitico, l’ostpolitik fu il momento di massima distensione tra la Germania e l’Unione Sovietica, sin dalla rottura in seguito all’Operazione Barbarossa. Un avvicinamento che, seppur apparentemente sotto controllo, mise in allarme alcuni settori, in particolare delle due potenze talassocratiche. D’altronde queste interferirono nei rapporti tedesco-sovietici anche nel primo dopoguerra e nel 1939. A dimostrazione che un’alleanza fra le due potenze continentali, l’unione fra due forze economiche e politiche, non fu e tutt’ora non è ben vista dalle potenze egemoni.

Marco Zenoni è laureando in Relazioni Internazionali all’Università di Perugia


[1] http://www.eurasia-rivista.org/dietro-le-quinte-della-guerra-tra-la-germania-e-la-polonia/1015/ [1]
[2] http://www.eurasia-rivista.org/il-patto-di-non-aggressione-tedesco-sovietico/1645/ [2]
[3] cfr. “Affari esteri”, n. 5 – 1970. P. 130
[4] Cfr. Eurasia, n.2 – 2011
[5] Ibidem
[6] Ibidem.
[7] Cfr. “Affari esteri”, n.8 – 1970. P. 11
[8] Cfr. “Affari Esteri”, n.8 – 1970.
[9] http://www.telegraph.co.uk/news/obituaries/1533707/Markus-Wolf.html [3]

Euramérique, Eurorussie ou Eurasie?

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Euramérique, Eurorussie ou Eurasie?

Récemment, le site Atlantico a publié un échange de réflexions fort intéressant entre Alexandre Del Valle et Alexandre Melnik sur les perspectives viables pour l’Occident. Les deux Alexandre, qui n’ont de commun que leurs prénoms, prônent deux voies différentes et opposées pour la réaffirmation de l'Occident puissance: l’Alliance continentale Europe-Russie ou l’alliance transatlantique Europe-Amérique.

Cette thématique semble prendre une importance croissante au fur et à mesure que les relations Russie-USA se détériorent, que l’Europe s’enfonce dans la crise et que la Russie regagne stratégiquement des positions, réaffirmant ainsi peu à peu sa position de grande puissance. La même semaine, le site Europe-Israël publiait lui un article intitulé: La morale change de camp, article très élogieux envers Vladimir Poutine et envers la politique russe dans le monde musulman, présentant une Russie devenue la protectrice des minorités, notamment chrétiennes. Le site prenait en exemple les manifestants de la place Tahrir qui dénonçaient l’alliance entre Etats-Unis et Frères musulmans et appelaient la Russie à s’impliquer dans la révolution égyptienne.

L’occident a été historiquement lié à l’Europe, la Méditerranée puis l’Europe du nord et de l’ouest, avant de ne se juxtaposer sur le monde anglo-saxon dès le 17ième siècle via l'empire colonial de l'Angleterre et sa puissance maritime. Ce règne de la rose n’a réellement pris fin qu’après la première guerre mondiale, qui a historiquement marqué la fin des empires européens, y compris l'empire britannique, supplantés par la puissance la plus occidentale et la plus maritime d’Occident: les Etats-Unis d’Amérique.

Ceux-ci achèveront la déseuropéanisation de l’Occident en confirmant leur leadership planétaire en 1991, lors de la mort de l’Union Soviétique. La fin de l’Union Soviétique scellera aussi le destin eurasien de la Russie et donc le déplacement du centre d’attraction du continent vers l’Est et l’Eurasie. La disparition de cet empire permettra donc paradoxalement à l’Europe réelle d’entamer une tentative historique de raccord entre son Ouest et son Est et ainsi de tenter d’affirmer son unité territoriale, continentale et politique. Cela entrainera une rupture sans doute désormais totale et fondamentale entre le monde continental et le monde occidental.

Ce leadership américain qui a été baptisé par le président Bush "le nouvel ordre mondial" s'est développé et affirmé grâce à une formidable domination militaire et économique. Ce dispositif hyperpuissant a mis l'Europe sous contrôle, logiquement étendu sa zone d'influence vers l’Eurasie et l'Asie centrale tout en multipliant les interventions militaires dans le monde musulman. Pourtant, cette domination américaine sera aussi brève, d’un point de vue historique, que ne seront rapides le redressement russe et l’émergence de la Chine, dont on voit mal aujourd’hui ce qui pourrait l’empêcher de devenir la première puissance mondiale dans la décennie qui vient. Si le monde se désoccidentalise rapidement, le centre de gravité des puissances se déplace inexorablement vers l'Asie.

L’Europe de Bruxelles n’a pas transformé l’essai et il est peu probable qu’elle le fasse. L’Union s’est transformée en un "machin" que le Général de Gaulle n’aurait pas pu imaginer même dans ses pires cauchemars: Une entité sans aucune souveraineté politique, comme le souhaitent les donneurs d’ordres de Washington, et gouvernée par une bureaucratie de petits fonctionnaires sans horizons politiques qui espèrent tout en la craignant l’adhésion à l'UE d’une Turquie conquérante et par ailleurs seconde puissance de l’Otan. Pour les plus pessimistes, la crise économique, l’absence de souveraineté, l’échec du modèle multiculturel dans tous les pays d'Europe et l’absence d’élites ne devraient vraisemblablement laisser à Bruxelles que quelques années avant un démembrement volontaire et une sortie de l’histoire par la petite porte. Les nations européennes pourraient-elles y survivre? Sauront-elles le cas échéant renouer avec un nouveau destin continental?

Dans ces conditions, un rapprochement UE-Russie est-il imaginable? La puissance russe n'est pas d'origine maritime, la Russie n’a pas connu la renaissance après le moyen âge, et sa révolution industrielle a été tardive. En outre la démocratie à l’occidentale est encore au banc d'essai en Russie et il semble de plus en plus évident que ce modèle ne soit pas adapté pour gouverner le plus grand territoire de la planète ni de maintenir unis un si grand nombre de peuples si divers. Fait remarquable également, la Russie est le seul empire continental qui ait survécu en maintenant relativement en vie sa sphère d’influence linguistique, culturelle et politique au cœur de l’Eurasie: en Asie centrale et dans le Caucase.

Peut-être à cause de ce parcours historique bien spécifique, la Russie ne fait aujourd’hui encore que peu confiance à un "Ouest" (Zapad en russe désigne l’Occident, ce qui inclut encore aujourd’hui tant l’Amérique que l’Europe de Bruxelles) contre lequel elle a historiquement presque toujours été en guerre ouverte ou larvée. En outre, les modèles de sociétés proposés par l’Occident ne sont pas perçus comme viables ni compatibles avec les souhaits et aspirations de la population russe et encore moins avec le projet global des élites russes pour leur pays. On peut facilement comprendre, au vu des difficultés qu’à connu la Russie pour se redresser et créer un embryon de modèle propre de société (l’État-Civilisation), son souhait de ne pas s’associer ni essayer de s’assimiler à des ensembles politiques et civilisationnels visiblement en crise profonde.

En outre, le basculement lourd et historique du monde vers l’Asie, dans laquelle se trouve 75% du territoire russe ne devrait pas particulièrement inciter Moscou à se tourner à l’Ouest vers la zone euro-atlantique mais plutôt à l’Est, vers la zone Asie-Pacifique pour tenter de profiter du formidable potentiel de la Chine, avec lequel la Russie est d’ailleurs en train de nouer un partenariat historique.

Le 21ème siècle verra-t-il l’émergence d’un tandem gagnant composé des deux ex-géants communistes et de leurs sphères respectives d’influence?

Il semble par conséquent que l’existence d’un Occident-puissance qui, il faut le rappeler reste à ce jour son adversaire stratégique principal, ne soit sans doute pas l’intérêt primordial d’une Russie qui, si elle encore majoritairement slave et chrétienne, n’en reste pas moins aujourd’hui  une puissance eurasiatique et orthodoxe d’abord et européenne ensuite. Le renouveau de la Russie semble du reste à ce jour être inspiré par deux idées ou directions stratégique essentielles, l'une post-byzantine et l'autre postsoviétique (vers l’Eurasie) traduisant sans doute très clairement que la Russie ne se destine pas du tout à devenir un membre du club occidental.

La Russie n'est-elle pas, après tout, l’héritière historique, religieuse et spirituelle de Byzance et donc de l’empire romain d’Orient, et non de l'empire romain d’Occident?

L’opinion exprimée dans cet article ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction, l'auteur étant extérieur à RIA Novosti.

Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie".

mercredi, 28 août 2013

El fin de la Unión Europea

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El fin de la Unión Europea

El próximo miércoles Durao Barroso “recomendará” a Mariano Rajoy las “reformas” que debe implementar para luchar contra la crisis. Mientras tanto, un grupo de diputados de ERC “pagan” sus impuestos en una “Agencia Tributaria Catalana”, demostrando así lo poco que entienden de lo que pasa y lo mucho que les gustaría tener su propio cortijo. La actitud de estos sujetos, paradigma de la estupidez, la incompetencia y la ignorancia – ERC ha dado en su historia buena prueba de todo ello- es un caso bastante ilustrativo de la clase política europea en general, especialmente en los últimos 25 años.

No puede ser de otra manera: tras llenarse la boca con el asunto de la “construcción europea” hasta machacar los oídos del más insensible, el efecto y las consecuencias de las políticas apoyadas, por activa y por pasiva, por esa misma clase política está conduciendo a la Unión Europea a una desintegración ahora incipiente pero inexorable. Inexorable porque no se ven las palancas por las cuales esa misma Unión Europea puede resurgir y pesar en el conjunto de la escena multipolar del mundo del siglo XXI. En el extremo de esta incompetencia se halla gente como los diputados de ERC que, no solo es que apuesten por las delirantes tesis del nacionalismo catalán, sino que buscan la atomización de algo ya de por si pequeño y, en consecuencia, sujetarnos más aún a la pérdida de soberanía y de libertad que la Unión Europea ha supuesto desde que en 1985 el PSOE nos apuntara a tan singular club.

El hecho puede argumentarse mejor a raíz del último informe del Pew Research Global Attitudes Project (PRGAP). Los informes del PRGAP deben siempre tenerse en cuenta, en primer lugar, por la amplitud de problemáticas que se abordan; en segundo lugar por la variedad de colectivos en los que muestrean, llegando en algunos casos a realizar encuestas de proporciones planetarias. En el caso que nos ocupa, el pasado 13 de mayo, el Pew Research Center hizo público un estudio conducido en 7 países europeos, sobre una muestra de 7,646, encuestados entre el 2 y el 27 de marzo pasados. Los países considerados en el estudio fueron Alemania, Francia, Italia, España, Reino Unido, Polonia, Grecia y República Checa. A los participantes se les preguntó acerca de cómo percibían la situación actual de la UE. Los técnicos del célebre “fact tank”, subsidiario del Pew Charitable Trusts, han apuntado algunas conclusiones inquietantes para el futuro de uno de los principales puntales de la globalización: en primer lugar, la desafección general de los europeos respecto de la UE, siendo ésta máxima en Francia y en España. Se observa, además, un debilitamiento de la integración europea, tal y como es percibida por los europeos.

En segundo lugar, se aprecia una divergencia creciente entre alemanes y franceses y una desconfianza mutua. En tercer lugar, entre 2013 y 2013, ha crecido la desconfianza de los ciudadanos hacia sus líderes –personificados en el presidente del gobierno-, siendo máxima, y por éste orden, en Francia, Italia y España. En cuarto lugar, el pesimismo respecto la situación económica respecto de 2007, se ha incrementado en un 61%, un 54% y un 22% en España, Gran Bretaña e Italia, respectivamente. La situación es especialmente alarmante en lo que los autores del informe denominan “el desafío del sur” (“Southern Challenge”); es decir, España, Grecia e Italia. Pese a ello, el apoyo al euro ha crecido en España y en Italia, si bien aproximadamente un 30% de los encuestados en los siete países apuestan por volver a sus monedas originales.

Naturalmente, el informe es amplio y denso pero el resultado es bastante claro y los técnicos del Pew Research Center hablan de “tendencias centrífugas” en la UE. Curiosamente, preguntados acerca de la manera en que la UE saldría de la crisis, aproximadamente un 70% de los encuestados ha respondido que “recortando gastos”, mientras que solo un 30% apostó por políticas de estímulo. Sin duda, la “austeridad” goza de mucho predicamento entre la misma población que la sufre. Al margen de lo que opine la gente, las directrices económicas de la Comisión, y también de la “troika”, han sido un rotundo fracaso, como se desprende de los índices de paro y precariedad galopantes.

Próximamente, el miércoles esa misma comisión va a recomendar al presidente Rajoy que realice “reformas” en el mercado laboral, que suba los impuestos –especialmente el IVA- porque “hay margen”, que “reforme” las pensiones, en el sentido de desligarlas del IPC y otras medidas similares. Es obvio que supone un gran lastre, por ejemplo, operar con 42 tipos de contrato laboral o que se gasten millones de euros en administraciones duplicadas y a menudo inoperantes. Pero el problema que acarreamos no es un caso de mala gestión, aunque ello pueda contribuir, dado que los mismos problemas existen en la práctica totalidad de los estados europeos. Se trata más bien de una fracaso del modelo económico que apuesta por una financiación cara y escasa de la que se lucran los que controlan esas mismas fuentes de financiación; es decir, del capital privado. Se prima la economía especulativa frente a la productiva.

Gracias a la política del BCE y de la “troika” se está produciendo en las últimas décadas, y especialmente con motivo de esta crisis, un gigantesco trasvase de recursos de los bolsillos de los contribuyentes –asalariados y empresas- al sector privado financiero. Los costos de este trasvase se evidencian en forma de intereses elevados por una financiación que podría obtenerse mucho más barata directamente del instituto emisor en última instancia –el BCE-, evitando el encarecimiento que supone la presencia de intermediarios ávidos de beneficio. El sobrecoste se repercute en los bolsillos de las clases populares en forma de impuestos o en forma de “recortes” de los salarios, mayormente.

Pese a ello, la Comisión sigue pensando que la medicina no es mala sino que es escasa. El hecho de la crisis y el desánimo se intentan conjurar con la promesa de una recuperación que nunca llega. De hecho, de vez en cuando las tesis oficiales –aireadas gracias a una prensa servil para con el partido encargado de gestionar la política económica del momento- sufren el aldabonazo de algún estudio que se filtra pero que jamás tiene consecuencias. Recientemente, la OCDE pronostica un 28% de paro para España en 2014, solo por detrás, y ligeramente, de Grecia. El Ejecutivo calcula que solo se creará empleo en 2016 cuando crezcamos al 1,3%, algo que parece hoy inalcanzable, pero para los analistas de Aspain11, según informa la web finanzas.com, esta cifra debe situarse en realidad en el 2.8% para que nuestro país cree verdaderamente empleo.

¿Qué se deriva de todo esto? Pues que el futuro económico es negro y que la crisis va a seguir por donde ya está. En estas condiciones las turbulencias políticas van a aumentar y las opciones heterodoxas ganarán masa crítica. En el mundo real, los eurócratas tendrán menos apoyo cada vez y es muy posible que la salida de la UE, que hoy es una opinión cada vez menos marginal y más generalizada, acabe desintegrando la Unión por la fuerza de los hechos. Aunque pese a la Comisión, y como sucede en Grecia, no se puede pedir que un país se suicide para ajustar el déficit o salvar una moneda.

Lamentablemente, en un mundo en el que cada vez Occidente pesa menos, el fin de Europa como entidad económica supondrá una indiscutible pérdida de peso político, algo notablemente nocivo para Occidente en su conjunto. Las fuerzas centrífugas antes mencionadas son en los tiempos actuales una pésima noticia, concomitante a la desintegración social y a la crisis espiritual que padecemos. A esto es a lo que un grupo de majaderos en Barcelona está contribuyendo sin ni siquiera saberlo.