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samedi, 05 octobre 2013

L’Europe de l’Ouest aux mains de Poutine

L’Europe de l’Ouest aux mains de Poutine
par Valentin Vasilescu

Ex: http://www.avicennesy.wordpress.com

L’Europe occidentale a immédiatement à faire un choix crucial. Soit attaquer la Russie pour saisir et exploiter les ressources d’hydrocarbures dans l’Arctique, soit accepter la dépendance totale vis à vis du gaz russe, selon le modèle allemand.

Sur une carte des réserves pétrolières et gazières mondiales connues en 2000, nous voyons que l’économie de l’Europe occidentale (dans une moindre mesure la France, le Portugal, l’Espagne et l’Italie) tourne avec les hydrocarbures de la mer du Nord.

 

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Sur une carte avec la délimitation des zones économiques exclusives, on observe que le pétrole et le gaz en mer du Nord appartiennent, en priorité, au Royaume-Uni et à la Norvège, en petite partie au Danemark et aux Pays-Bas et très peu à l’Allemagne. BP détient le monopole de l’exploitation en association avec les américains Amoco et Apache et avec la société d’état norvégienne Statoil​​.

 

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Il est intéressant de noter que de 2007 à 2012, l’extraction de pétrole et de gaz aux Pays-Bas était 2,5 fois plus faible. Ce qui démontre que, après 50 ans d’exploitation sauvage du gisement les réserves pétrolières de la Mer du Nord seront complètement épuisées dans les deux prochaines années. Ceci va générer une crise énergétique qui entrainera l’effondrement de l’économie de l’UE. L’Allemagne a été la première à tenter de résoudre ce problème à l’avance en collaborant avec la Russie à la construction du gazoduc NorthStream.

 

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La presse internationale a demandé au président russe Vladimir Poutine s’il avait des plans à long terme. Il a déclaré que pour lui la Russie n’est pas un projet, la Russie est un destin. Avec la découverte de l’énorme gisement  russe de Yuzhno- Karski , situé au nord de la mer de Barents, accumulant 75% des réserves de pétrole et de gaz de l’Arctique,  les États membres de l’OTAN de cette zone de Europe pourraient avoir la tentation de vouloir l’exploiter par la force , en violant le droit de propriété souveraine de la Russie, pensant que les Etats-Unis leur viendront en aide. Mais l’article 5 du Traité de l’Atlantique Nord, signé à Washington le 4 Avril 1949 se lit comme suit : " Les parties conviennent qu’en cas d’attaque armée contre l’un d’entre eux, chacun d’entre eux soutiendra la partie attaquée en décidant individuellement et /ou conjointement avec les autres parties, toute action qu’elle jugera nécessaire, y compris l’utilisation de la force armée ".

Donc en cas d’agression contre la zone arctique de la Russie, d’un pays de l’OTAN, les Etats-Unis n’interviendraient pas forcément, et s’ils le faisaient, ils subiraient la défaite la plus cuisante de leur histoire. Parce que les forces armées américaines reposent sur sa flotte capable de projeter la force militaire au plus près de l’adversaire. Or la zone arctique russe n’est pas la Yougoslavie, l’Irak, la Libye ou la Syrie et les porte-avions, les navires amphibies de débarquement du corps des Marines (porte-hélicoptères), les destroyers et les navires d’approvisionnement ne peuvent pas opérer dans l’océan gelé de la banquise. Et le rayon d’action de l’aviation embarquée sur les porte-avions déployés dans des bases de l’OTAN en Europe du Nord est insuffisant pour frapper la moindre cible dans l’Arctique russe. Malgré tout, la Russie est préparée à toute éventualité, avec dans la zone, un dispositif militaire terrestre, naval et aérien impressionnant.

http://romanian.ruvr.ru/2013_09_27/Planul-SUA-pentru-controlul-asupra-nordului-Europei-2308/

Traduction Avic

Par Valentin Vasilescu, pilote d’aviation, ancien commandant adjoint des forces militaires à l’Aéroport Otopeni, diplômé en sciences militaires à l’Académie des études militaires à Bucarest 1992.

G. A. Zjuganov: “Il nostro Paese non può esistere senza un’idea nazionale”

G. A. Zjuganov: “Il nostro Paese non può esistere senza un’idea nazionale”

Traduzione di Luca Baldelli

Ex: http://www.statopotenza.eu

Il giorno 20 settembre, anticipando la prossima sessione plenaria della Duma di Stato, G A Zjuganov, Presidente del Comitato centrale del Partito comunista della Federazione russa, nonché capogruppo comunista presso la Duma, ha commentato il discorso tenuto il 19 settembre dal Presidente della Federazione Russa, V. V. Putin, al 10° incontro del Forum Internazionale di dibattito “Valdaj” .

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Gennadij Andreevich Zjuganov
Presidente del Comitato centrale del Partito comunista, capogruppo del Partito comunista nella Duma di Stato della RF.
“Le dichiarazioni che Putin ha reso ieri al Forum “Valdaj”, le ho personalmente attese per 20 anni – ha affermato, condividendole, Gennadij Zjuganov. – Ciò dal momento che, a partire da Gorbaciov, i leaders che si sono avvicendati alla guida del nostro Paese non hanno detto nulla di tutto questo. A mio parere, questo discorso si sarebbe dovuto tenere prima davanti all’Assemblea federale e alla Nazione tutta, non solo davanti al ristretto pubblico dei rappresentanti stranieri. Credo che esso meriti particolare attenzione nel contesto della discussione che si terrà alla Duma” .
“Putin ha dichiarato, per la prima volta, che il nostro Paese non può esistere senza una idea nazionale – ha sottolineato il capo dei comunisti russi. – La Russia non può esistere senza proseguire nel solco delle sue migliori tradizioni, senza un serio dialogo tra le varie forze politiche per la costruzione di programmi e proposte articolati nell’interesse di tutti i cittadini, non solo di singoli gruppi sociali, per non parlare dell’oligarchia”.
G. A. Zjuganov ha inoltre ricordato che ricorre in questi giorni il 20° anniversario dei fatti che coinvolsero il Soviet Supremo della RSFSR (il colpo di mano di Eltsin, ndr), con tanto di attacco militare alla sede istituzionale. “Poche persone per 50 giorni resistettero alla costruzione dell’autocrazia presidenziale. Si è ripetuto e si continua ad affermare da più parti che lo Stato non dovrebbe avere la loro ideologia, la loro cultura, la loro visione dei fatti. Uno Stato senza forma né anima, uno Stato – mostro, ecco quello che da più parti si vuole; uno Stato che ha dato origine alla corruzione selvaggia e al terribile degrado della società che è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere” – ha incalzato, con toni indignati, il leader del Partito comunista.
“Oggi si pretende di porre davanti alla storia il compito di inventare un’idea nazionale. A tal proposito, vorrei ricordare a Putin che l’idea nazionale non è né può essere il parto della testa di qualcuno. Eltsin incaricò Burbulis, Shakhraj e altri come loro di plasmare quest’ idea. Le grandi idee, però, quelle in cui le persone credono, sono sempre nate dalle lotte, dal lavoro, dal dolore, dalle vittorie, dalle sconfitte, dalle scoperte geniali” -  ha rimarcato G. A. Zjuganov.
“Abbiamo creato un’idea nazionale in mille anni di storia. L’essenza di quest’idea è rappresentata da uno Stato forte, ad alto contenuto spirituale, dal senso della comunità, della giustizia naturale. Noi – il popolo della Vittoria – siamo stati in grado di sopravvivere, nella nostra storia, grazie ad una serie di trionfi che ci hanno garantito la libertà, il diritto alla terra, la tutela delle nostre credenze e convinzioni” – ha ricordato  il capo comunista russo.
“Abbiamo iniziato con la grande vittoria sul lago Peipus, presso il quale sono stati sconfitti gli stessi Crociati che, in precedenza, avevano saccheggiato Costantinopoli e la Palestina. Abbiamo quindi affermato il diritto di professare la nostra fede e di sviluppare la nostra cultura. Dalla Battaglia di Kulikovo è sorto lo Stato russo; da Poltava è fiorito l’Impero russo. Abbiamo dimostrato di essere in grado di sviluppare i nostri spazi aperti, basandoci sulle nostre proprie forze” – ha continuato Gennadij Zjuganov.
“Sul campo di Borodino, poi, abbiamo dimostrato di poter battere un avversario forte che aveva raccolto sotto le sue insegne “crociati” di tutta Europa.  Le tre grandi battaglie della Grande Guerra Patriottica – Mosca, Stalingrado e Orel/Kursk -  hanno deciso l’esito della lotta contro le forze oscure del fascismo. In quella guerra uscirono vittoriosi l’Armata Rossa e gli ideali della Rivoluzione d’Ottobre. Voglio suggerire a Putin che è bene lavorare tutti insieme, non dimenticare una qualsiasi di queste pagine di storia. Questa è storia vera, altro che i cascami e la poltiglia del liberalismo che, imperanti per anni, hanno imposto al fondo di tutto la russofobia, l’odio verso tutto ciò che era sovietico, nazionale e genuinamente democratico”, – ha detto il leader del Partito comunista.
“Oggi, la politica interna del governo Medvedev non ha nulla a che fare con l’idea dello Stato-Nazione, con gli ideali che ci hanno assicurato la vittoria e il successo. Non ci può essere uno Stato forte quando l’ultimo immobile viene venduto, quando il 90 per cento delle grandi proprietà sono sotto il controllo degli stranieri. Lo Stato dovrebbe dare l’esempio a tutta la società nel far rispettare la legge, in primo luogo ai membri del Governo”- ha detto Gennadij Zjuganov.
“Non possono esistere uno Stato collettivista e un popolo che lo supporta e lo anima, se si dà la stura ad ogni forma di individualismo. Se tutto è predisposto e studiato per non far lavorare le persone, per deprimere le energie vive della società, se si punta tutto sulle lotterie, sui bagordi, sul gioco d’azzardo, sulle carte, come ci si può meravigliare di ciò che accade? – ha affermato G. A. Zjuganov – Inventano un programma su uno dei più importanti canali televisivi, ed ecco quel che avviene: quasi tutti si siedono in poltrona e giocano del denaro. Un Paese in cui si rincorrono ricchezze virtuali è destinato alla sconfitta. Un Paese può conoscere il successo a una sola condizione: la sua gente deve essere in grado di imparare ed inventare, affermando la propria dignità e dormendo così sonni tranquilli. Tutto questo non è contemplato nelle linee guida della nostra politica interna. Nessun Paese può sperare in qualsivoglia successo se la giustizia sociale viene calpestata. Da noi, il 10% più ricco dispone di un reddito 40-50 volte superiore a quello del 10% più povero. Un divario simile non si riscontra nemmeno nei Paesi dell’Africa. In questo senso siamo diventati lo Stato più ingiusto che esiste” – ha detto Gennadij Andreevich.
“Il nostro Paese non può essere certo prospero e solido, dal momento che il Governo di Medvedev è composto da persone che non se ne intendono di industria. Essi distruggono un settore dopo l’altro. Hanno distrutto il settore dei macchinari, quello dell’elettronica, quello della fabbricazione di strumenti di precisione. Hanno condotto alla prostrazione l’agricoltura, con il risultato di 41 milioni di ettari di terra arabile ricoperta da erbacce. Il sistema dell’istruzione, della formazione, dei tirocini è corrotto a livello di ogni scuola e tutte le famiglie ne sono coinvolte. Si è fatto di tutto per provocare l’indebolimento e la distruzione dell’Accademia delle Scienze, senza ascoltare gli scienziati e l’opposizione politica” – ha sottolineato il leader comunista.
“Purtroppo, dobbiamo registrare un divario enorme tra le parole e le azioni dei capi della Nazione. Per l’affermazione di un’idea nazionale proclamata con lo scudo e la bandiera della Federazione russa, si impone la necessità di una politica saggia ed equilibrata. Servono un nuovo corso e una nuova compagine di governo. Valuto pertanto il discorso di Putin come la giustificazione politica e ideologica di un cambiamento tanto necessario che dovrà essere portato avanti nel corso dell’anno, con le dimissioni dell’attuale Governo. Vediamo cosa accadrà . E’ importante che le idee espresse ieri da Putin siano concretamente realizzate nella vita pratica di tutti i giorni. Se così sarà, siamo pronti fin da adesso a fare la nostra parte, appoggiando il nuovo corso” – ha dichiarato, concludendo, G. A. Zjuganov.

Grand-messe transatlantique en Lettonie

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NOUS SOMMES TOUS DES OCCIDENTAUX
Grand-messe transatlantique en Lettonie

Hajnalka VINCZE*
Ex: http://metamag.fr
 
Chaque année, la conférence de Riga est l’occasion de réunir la fine fleur de l’élite euro-atlantiste, dans une ambiance décidément pro-américaine et passablement anti-russe, comme il se doit dans un pays de la Baltique. L’intérêt, pour les participants (et autres fidèles), est de pouvoir admirer les multiples déclinaisons virtuoses du même raisonnement, dans la perspective de « créer un environnement favorable au maintien et l’accroissement de la prospérité transatlantique à travers les valeurs que l’on partage », car c’est « la bonne voie vers le renforcement des capacités de défense ». L’intérêt, pour nous, est de prendre le pouls des réflexions semi-officielles, détecter les prochaines priorités OTAN/UE, et répertorier les éléments de langage que l’on ne va pas tarder à retrouver à longueur de discours et de communiqués.

 
L’an dernier, les interventions s’articulaient autour du traumatisme provoqué par l’annonce du « pivot » américain vers l’Asie. Cette année, ministres, experts et compagnie se sont livrés à un véritable panégyrique de l’occidentalisme. Le message est clair : nous sommes d’abord et surtout membres de la famille occidentale, menacés de toutes parts, condamnés au déclin, à moins de rassembler nos forces sous la direction bienveillante de l’Amérique, chef de famille naturel. Nous, les Européens, nous n’avons plus qu’une chose à faire : nous rendre utiles pour elle.

Le ton a été donné par le ministre britannique de la défense qui tenait à préciser, pour ceux qui l’aurait ignoré, qu’aux yeux du Royaume-Uni la sécurité en Europe est l’affaire de l’OTAN, l’UE devrait, quant à elle, s’occuper du seul marché unique. « Que l’UE doublonne, voire affaiblisse le fonctionnement et les structures remarquablement réussis de l’OTAN, cela n’a pas de sens ». Pour ce qui est de cette remarquable réussite, le ministre n’a pas de mots assez élogieux pour énumérer le bilan récent, paraît-il superbe, de l’Alliance. Curieux de constater que la leçon qu’en ont pourtant tirée les stratèges de l’OTAN, notamment à la suite d’Afghanistan, c’est un « plus jamais ça » retentissant.

Peu importe. Pour le ministre Hammond, il faut avant tout une démarcation nette entre ce qui relève de l’UE (civil) et ce qui est le domaine d’excellence de l’OTAN (militaire). Grâce notamment à une interprétation particulière de la très encensée approche globale de l’Union européenne. Celle qui consiste à pousser à une civilianisation de plus en plus ouvertement assumée de la PSDC (politique de sécurité et de défense de l’UE), au risque de la démilitariser. Et ce au profit de l’OTAN, enceinte soi-disant naturelle (et qui redeviendrait ainsi unique) pour s’occuper de la défense sur notre continent.

En effet, les manœuvres diverses pour utiliser l’approche globale en vue d’entériner, dans les faits, une division des tâches, ne sont qu’un élément parmi d’autres dans la réorientation en marche. Conçue à l’origine pour nous libérer du carcan de l’OTAN et établir l’UE comme le nouveau cadre pour nos efforts de défense, la PSDC semble rebrousser chemin ces derniers temps. Qu’il s’agisse du non-usage des outils créés (tel les groupements tactiques) pour les missions au rabais que le consensus entre Etats membres permet d’envisager ; ou des occasions manquées lors des conflits qui paraissaient pourtant taillés sur mesure au vu de l’ambition affichée (comme au Liban, puis en Lybie) ; ou encore des règles de financement qui pénalisent ceux qui seraient prêts à s’y lancer ; ou de la lacune criante d’un centre de planification et de conduite permanent (le fameux Quartier général européen qui se fait attendre depuis bientôt 15 ans) ; ou de la planification des capacités de plus en plus alignée sur la DPQ (Defense Planning Questionnaire) de l’Alliance atlantique, relais fidèle des concepts et des doctrines d’emploi des Etats-Unis ; ou encore de l’effacement progressif des distinctions institutionnelles (même la France a fini par adopter une « double casquette » pour son dorénavant unique représentant aux comités militaires respectifs de l’UE et de l’Alliance, sans parler de la présence devenue rituelle du Secrétaire général de l’OTAN aux réunions des ministres UE de la défense); la tendance est partout la même. Celle de la ré-atlantisation de la défense européenne.

Elle se traduirait, in fine, par la fusion, de plus en plus souvent préconisée, entre la PSDC et l’OTAN (à supposer que l’on puisse parler de fusion entre, d’un côté, les 350 militaires de l’Etat-major de l’UE et, de l’autre, les 21 000 permanents en poste dans les structures intégrées de l’Alliance). Sur le plan théorique, c’est l’occidentalisme qui lui servirait de fondement. Un courant de pensée qui monte en puissance et qui, en banalisant les différences entre l’Europe et l’Amérique, pousse dans le sens de leur rapprochement jusqu’à former un unipôle transatlantique, sous la domination du meneur du jeu, c’est-à-dire les Etats-Unis. Cette vision devient de plus en plus répandue, même parmi ceux qui étaient jadis sceptiques, pour ne pas dire hostiles. Dans un récent entretien, Hubert Védrine qui, dans son rapport de 2007  pour le président Sarkozy, avait mis en garde contre la tentation atlantiste/occidentaliste, parle lui-même de nous les « Occidentaux » à pas moins de six reprises. 

L’Américain Charles Kupchan, qui voyait s’ouvrir en 2006 « une nouvelle ère dans les relations transatlantiques », à partir du constat que « les intérêts américains et européens ont divergé, la coopération institutionnalisée ne peut plus être tenue pour acquise, et l’identité occidentale s’est affaiblie », donne aujourd’hui « L’Occident et la montée du reste » comme titre à son dernier livre.

A Riga, on se réjouit bien sûr de ce changement de perspective, et on ne manque pas d’en tirer les conséquences. Déjà l’an dernier, le ministre letton de la défense voyait dans les relations UE-OTAN un « désagrément », qu’il conviendrait de résoudre par le haut, c’est-à-dire en les fusionnant. Cette année, la séance consacrée aux questions de la sécurité européenne se proposait de répondre à la question de savoir si l’OTAN peut devenir un remède au fractionnement imminent de l’Europe. Et Craig Kennedy, président de German Marshall Fund of the United States, ne s’est pas privé du plaisir de noter, en guise d’introduction, que l’interrogation portait en sens inverse il y a sept ans. Apparemment, l’Europe n’a plus la cote, l’avenir est à l’Alliance.

Outre cette séance plénière consacrée à l’OTAN comme potentiel sauveur de l’Union européenne, quelques conversations « à la pause-café » offrent également de petits bijoux révélateurs de cette même grille d’analyse. Comme celle consacrée au TTIP (accord de libre-échange transatlantique), avec la « senior » représentante commerciale de l’US à Bruxelles comme invitée illustre. Cette dernière pousse un gros soupir d’exaspération face à la question sur la finalité économique et/ou géopolitique des négociations en cours. Toujours est-il qu’après avoir affirmé qu’il s’agit, avant tout autre chose, d’une nouvelle étape dans nos relations économiques, elle admet que « à Bruxelles, beaucoup y voit aussi une réaffirmation, une solidification des relations US-UE », et que son succès enverrait le signal d’un engagement politique supplémentaire.

Surtout, s’agissant d’un accord commercial supposé donner une impulsion nouvelle à la croissance (0.4% au PIB de l’UE dit-on, contre 1% du côté US), l’aveu selon lequel « nous ne nous focalisons pas sur des chiffres concrets » fait étrange effet. Son interlocuteur espagnol est d’ailleurs plus direct, il parle carrément de « réarranger l’Occident pour le 21ème siècle ». En même temps que d’y voir le recours au « fédérateur externe » pour compléter le marché unique (en tant qu’étape intermédiaire vers le marché unique transatlantique). Tout le programme y est.

La séquence portant sur l’avenir de la politique étrangère européenne vaut son pesant d’or rien que pour sa dernière minute. On y parle des relations transatlantiques, et Jan Techau (auteur par ailleurs d’un inoubliable article il y a deux ans, prônant de « laisser tomber la défense européenne » pour la remplacer par l’OTAN) n’y va pas de main morte. Il fait l’éloge des 90% de merveilles transatlantiques qui ne font jamais la une des journaux, dans l’espoir de minimiser ainsi le 10% restant qui sont, on l’aura deviné, « le truc géopolitique ». Dans ce domaine, il place d’emblée l’Europe en position d’infériorité, en posant la question, essentielle d’après lui, de savoir si les Européens seraient capables de grandir suffisamment pour devenir un jour des partenaires des Etats-Unis.

Cerise sur le gâteau, la réponse dépend, selon Techau (et tant d’autres) sur notre capacité à admettre que « les Américains et nous, nous sommes là tous ensemble. Nous devons nous rassembler, parce que nous sommes l’Occident ». Autrement dit, plus les Européens se conçoivent comme incorporés à l’Amérique, plus ils seraient « à la hauteur » comme partenaires de celle-ci.  Plutôt farfelu comme logique. Mais parfaitement en phase avec les pistes de réflexions et d’action visant à l’otanisation de la défense européenne, à la transatlantisation de nos industries, et au biais de plus en plus occidentaliste de notre vision stratégique.

*

analyste en politique de défense et de sécurité, spécialisée dans les affaires européennes et transatlantiques. Animatrice du site hajnalka-vincze.com et du blog  hajnalka-vincze.com
 

vendredi, 04 octobre 2013

Presseschau - Oktober 2013

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Presseschau - Oktober 2013
 
Wieder mal einige Links. Bei Interesse einfach anklicken...
 
AUßENPOLITISCHES
 
Schulden explodieren: Polen konfisziert private Renten-Fonds
 
EU-Parlament akzeptiert Banken-Union ohne Kontrolle
 
EU-Beamte verdienen deutlich mehr, zahlen weniger Steuern und bekommen zahlreiche Zulagen
 
Willem-Alexander: Wohlfahrtsstaat am Ende
 
Putsch-Gefahr: Griechisches Militär fordert Rücktritt der Regierung
 
Griechenland: Auf welcher Seite steht das Militär? - 4.3.13
 
Griechenland wird erstes Schwellenland der Euro-Zone
 
Nach Mord an linkem Rapper
Griechische Polizei nimmt Chef der Neonazi-Partei fest
 
Katalanen fordern Unabhängigkeit
 
Schmutzige Deals: Worum es im Syrien-Krieg wirklich geht
 
(Syrien)
Kriegstreiber Henryk M. Broder
 
Belgische Ex-Geisel: Freie Syrische Armee kurz vor Zerfall
 
Syrien
Befreite Geiseln - Terroristen hinter Giftgasangriff
 
Syrisch-russische Rochade
 
Ägyptisches Gericht verbietet Muslimbruderschaft
 
Terroranschlag in Nairobi
 
US-Bürger und Britin unter den Tätern in Nairobi
 
Selbstmordanschlag auf Christen in Pakistan: 78 Opfer
 
Schottland
Die „Bravehearts“ ringen um Unabhängigkeit
Seperatismusdebatte: In einem Jahr stimmen die Schotten über ihre Unabhängigkeit von Großbritannien ab. Nun fängt der Wahlkampf gerade richtig an. Denn ein breites Bündnis in England will die Unabhängigkeit verhindern.
 
(Skurril: Sprachstreit in Belgien)
Belgien
Sprachlos in Menen
 
USA
Schönheitswettbewerb: Rassistische Kommentare gegen neue Miss America
 
Putin solidarisiert sich mit Berlusconi
 
Polen: C&A entfernt nach Protesten Che-T-Shirt
 
Atomruine: Japan bekämpft Fukushima-Lecks mit Millionenprogramm
 
INNENPOLITISCHES / GESELLSCHAFT / VERGANGENHEITSPOLITIK
 
Spendable Ministerien: Bundesregierung zahlte eine Milliarde an Berater
 
Studie: Sendeanstalten vom Staat kontrolliert
 
(Steinbrück)
Proleten im Wahlkampf
 
Nach harscher Kritik
So erklärt Steinbrück das Stinkefinger-Foto
 
Auch im Bundestagswahlkampf
Ob Merkel oder Steinbrück: Politgrößen beißen sich an YouTube die Zähne aus
 
Staatsschulden: Wann kommt die Zwangshypothek auf Immobilien?
 
Grundsteuer steigt
„Die Grünen zocken die Mieter ab!“
 
Deutscher Spitzen-Grüner Trittin von Pädophilen-Diskussion eingeholt
 
Grüne: Volker Beck täuschte Öffentlichkeit über Pädophilie-Text
 
Pädophilie und Emanzipation: Neue IfS-Studie zu den Grünen erschienen
 
NSA US-Generalkonsulat Frankfurt
Verfassungsschutz lässt US-Konsulat ausspionieren
 
AFD Hamburg: Prof. Dr. Hans-Olaf Henkel / Prof. Dr. Jörn Kruse am 12.9.2013
 
Prof. Bernd Lucke (AfD) im MorgenMagazin-Interview
 
Wolfgang Hübner
Warum ich die „Alternative für Deutschland“ wähle
Zehn Gründe für meine Entscheidung am 22. September 2013
 
Britisches Lob für AfD: "Lucke säße in London im Kabinett"
 
Nächster Angriff: AfD-Politikerin ins Gesicht geschlagen
 
Wie die AfD konservative Köpfe rollen läßt
 
Die AfD als Inspirationsquelle
 
Bundestagswahl-Ergebnis
AfD-Analyse: Im Osten stark / Bei FDP-Anhängern beliebt
 
Analyse des AfD-Ergebnisses
(mit Leserdiskussion)
 
(Zu Angriffen gegen die AfD)
Moderne Pharisäer
von Konrad Adam
 
Alternative dank Merkel
 
Partei „Die Freiheit“ gibt auf
 
Bundestagswahl
»Friedlich und demokratisch«
Ralph Giordano, Lala Süsskind, Ilja Richter und andere: jüdische Stimmen zum Wahlergebnis
 
Schwarze Republik – linke Republik
 
(SPD-Landrat wählte öffentlich CSU)
Stellungnahme von Michael Adam im Wortlaut
 
Debatte zur Bundestagswahl
Weiter bei Mutti
 
Weder Sieg noch Niederlage: Weitermachen!
Erste Bemerkungen zum Wahlergebnis der „Alternative für Deutschland“
 
Vera Lengsfeld zur AfD
Der alternative Wahlsieg
 
Euro-Debatte im Staats-TV: Ein System demaskiert sich selbst
 
Kritik an Fünf-Prozent-Klausel
 
Grüne stehen vor parteiinternen Machtkämpfen
 
Grünes Wahldebakel: Trittin tritt als Fraktionschef ab
 
Piraten-Chef kündigt Rücktritt an
 
(hatten wir noch nicht, deshalb nun…)
CDU-Politiker fordert Statue für Papst Benedikt XVI in Berlin
 
(Waffenrecht)
Ohne Waffen Sorgen schaffen
 
Mythen statt Uniformen - Ausstellungen zur Völkerschlacht in Leipzig
 
Der Bromberger Blutsonntag – 3. September 1939
 
(Münchner Abkommen)
Wofür wir etwas können
 
Neue Zweifel an Heß-Selbstmord
 
(Zur Diskussion)
Gauck in Oradour – Die große Lüge der Gutmenschen
 
Die Seele Adolf Hitlers
Moderne Esoterik: Wie der Heiler Colin Tipping die Weltgeschichte umschreibt.
 
Schwalmstadt rettet Vertriebenen-Denkmal
 
LINKE / KAMPF GEGEN RECHTS / ANTIFASCHISMUS / RECHTE
 
"Stärkere Sensibilisierung für Naziterror"
Das Antifaschistische Infoblatt berichtet seit 100 Ausgaben über die rechte Szene. Ein Gespräch mit Dietrich Kollenda
 
Totalitäre Moderne: Kleine-Hartlage gegengelesen
 
„Da steht der Feind!“
von Michael Paulwitz
 
(Antifa vs. "Zwischentag" in Berlin)
 
CSU-Innenexperte kritisiert „Dein Kampf!“-Plakat der Grünen
 
(Polizeifahrzeug mit Antifa-Aufkleber)
Die Rechte zu Besuch bei der AfD
 
Köln: Sparkasse bezahlt Linksextremisten Umzug
 
(Mal wieder Entschuldigung nach Antifa-Protest)
HNA Wahlberichterstattung
Plattform für Neonazi
 
(zwar von 2012, aber mit Fotos der Antifa-Demonstration)
3.000 Menschen demonstrierten in Berlin gegen die Abtreibung
 
Verlag stellt „Landser“ ein
 
Frankfurt
Zerstörungswut auf dem Universitätsgelände
Der linke Geist des AfE-Turms ist umgezogen
 
(Frankfurt – Linksradikale greifen "Grüne" an…)
Hausbesetzung Demonstration
Grüne entsetzt über Angriff
 
(ebenfalls dazu… Sie sitzen bereits im Verwaltungsapparat…)
Nazi-Vergleich nach Haus-Räumung
Polizei zeigt Stadt-Mitarbeiter an
 
Frankfurts Suizid-Partei heißt CDU
Linksextreme Hausbesetzungen sollen tolerabel werden
 
Hanau
Reaktionen zur Demo gegen Neonazi-Auftritt
„Ein Zeichen gesetzt“
(Kontroverse Leserdiskussion)
 
Erneut rechte Hetztiraden?
NPD will nochmal nach Hanau kommen
 
Verbot gescheitert
Hanau muss Kundgebung der NPD erdulden
 
Gegendemo mit rund 400 Menschen
Polizei stoppt Neonazi-Tross in Kleinostheim
 
(Hanau)
„Kein Platz für Rassismus“ „
Runder Tisch gegen NPD geplant
(Bildstrecke anschauen)
 
Duisburg
Linksextremisten greifen friedliche Bürger bei Roma-Diskussion an
 
EINWANDERUNG / MULTIKULTURELLE GESELLSCHAFT
 
„Verhängnisvolle Vielfalt“ - eine politische Dokumentation
Freie Wähler-Fraktion in Frankfurt zeigt ihre Arbeit im Film
 
Salzburgs Schulen: Deutsch wird zum Minderheitenprogramm
 
Verpaßte Wahlkampfthemen
 
FDP will mehr Flüchtlinge aufnehmen
 
Mazyek fordert unbegrenzte Aufnahme von Syrien-Flüchtlingen
 
Klassenfahrt mit moslemischer Sittenwächterin
 
Berliner Verwaltungsgericht: Kein Recht auf gemischte Klassen
 
Kraft feuert Staatssekretärin für Integration
 
(Antirassistischer Wahn)
Was ausgemerzt gehört
 
Buschkowsky redet Klartext
„Türkische Straftäter in die Türkei entlassen“
 
Ude will Einwanderern mehr Rechte geben
 
SPD schließt Bremer Abgeordneten wegen Kritik an Zigeunern aus
 
EU-Kommission rügt französischen Innenminister wegen Zigeunerschelte
 
Im Gespräch mit Akif Pirinçci: “Am Ende werden sich die Deutschen in den „Islam“ integrieren, nicht umgekehrt.”
 
Derby
Lehrerin schmeißt Job an muslimischer Schule wegen Schleierzwang
 
(Der Rückschlag der säkularisierten Gesellschaft)
Fest-Verbannung
Kreuzberg: Weihnachts- und Ramadan-Verbot
 
Offenbach
Urteile im Korruptionsprozess
„Boss der Waffen“ muss ins Gefängnis
 
(Kosovo-Albaner schlägt in Rosenheim Disko-Gast tot)
Daniel S. und Marco G.
 
KULTUR / UMWELT / ZEITGEIST / SONSTIGES
 
Petition gegen den Abriss des Künstlerhauses Halle. Kann einfach online mitunterzeichnet werden...
 
Seltene Farbaufnahmen von Paris unter deutscher Besatzung
 
Thüringen ohne Schreibschrift
 
Kisslers Konter
Die verstörenden Sex-Fantasien der Grünen Jugend
 
Familienkonzept der Piratenpartei
Nur die Liebe zählt
Schluss mit Vater-Mutter-Kind. Die Piraten sind die einzige Partei, die den gängigen Begriff von Ehe und Familie vollkommen auf den Kopf stellt.
 
Berlin versagt bei Schülern
Schwänzen: Wie eine Generation künftiger Hartz-IV-Empfänger regelrecht herangezogen wird
 
Gabriel will Hausaufgaben abschaffen
 
Hausaufgaben abschaffen
 
(Kinder wegen Schulverweigerung von Eltern getrennt)
Schulpflicht
Konsequenzen für Schulverweigerer
 
"Zwölf Stämme": Polizei holt 40 Kinder aus Christen-Sekte in Bayern
 
(Kirche entschuldigt sich bei Lesben)
Anglikaner müssen zwei Mütter auf Taufurkunde akzeptieren
 
(schräg)
 
Ex-Präsident als Trauzeuge: George Bush senior assistiert bei Homo-Hochzeit
 
Barilla-Chef gegen Homosexuelle: "Dann sollen sie eben andere Nudeln essen"
 
Was versteht SPD-Vorsitzender Gabriel unter "religiöse Intoleranz"?
 
Parteien im Sprachtest
 
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Zwitserse leger oefent op uiteenvallen Frankrijk door financiële crisis

Zwitserse leger oefent op uiteenvallen Frankrijk door financiële crisis

Zwitserland houdt serieus rekening met instorten eurozone en vluchtelingenstroom


Zwitserland wil maar liefst 100.000 militairen kunnen inzetten om het land te beschermen tegen de eventuele instorting van de eurozone.

Burgers in de Europese Unie worden nog altijd zoveel mogelijk in het ongewisse gelaten over de ware aard van de crisis, maar in de buurlanden ziet men heel goed waar de huidige ontwikkelingen toe kunnen leiden. Het Zwitserse leger oefende in de zomer met een scenario waarin Frankrijk als gevolg van de crisis uiteenvalt, en paramilitairen uit het afgesplitste 'Saônia' dreigen met een invasie van Zwitserland.

'Oorlog tussen Frankrijk en Zwitserland'

De Zwitserse oefening had de eigenaardige naam 'Duplex Barbara' gekregen. De plot: door de crisis valt Frankrijk in de nabije toekomst in meerdere delen uit elkaar. De regio 'Saônia', in de Franse Jura en Bourgondië, geeft Zwitserland de schuld van alle ellende, en dreigt met een invasie als de Zwitsers weigeren het 'gestolen geld' terug te geven. De paramilitaire 'Brigade van Dijon' trekt richting de grens op, en de media berichten wereldwijd over 'Oorlog tussen Frankrijk en Zwitserland'.

De oefening vond niet geheel toevallig plaats in een periode dat de regering in Parijs vanwege een belastingruzie de druk op de Zwitserse banken opvoerde. Brigadier Daniel Berger ontkende echter dat de oefening iets met Frankrijk te maken had. 'De oefening werd al voorbereid toen de betrekkingen met Frankrijk minder gespannen waren. De Franse steden worden enkel gebruikt om de soldaten een zo echt mogelijk beeld te geven.'

Antoine Vielliard, departementsraadslid in de Franse Haute Savoie, gaf als reactie dat het 'voor de geloofwaardigheid van het Zwitserse leger beter zou zijn, als men zich met de bedreigingen van de 21e eeuw zou bezighouden.' (1) Niettemin is er de afgelopen jaren in de regio Rhône-Alpes wel degelijk een afscheidingsbeweging op gang gekomen.

Regering Bern vreest vluchtelingenstroom en versterkt Defensie

Zwitserland houdt al langere tijd serieus rekening met het uiteenvallen van de EU als de crisis niet onder controle kan worden gehouden. In oktober 2012 verklaarde de Zwitserse minister van Defensie Ueli Maurer dat hij niet uitsloot dat in de toekomst het Zwitserse leger moet worden ingezet om de grenzen te beveiligen en de te verwachten vluchtelingenstroom uit de EU tegen te houden. (Zie link onder)

De Zwitserse regering maakt zich tevens zorgen over de voortdurende bezuinigingen op Defensie in de EU, waardoor we ons niet afdoende meer kunnen verdedigen. Dat maakt ons continent kwetsbaar voor buitenlandse druk en chantage.

Om hierop voorbereid te zijn willen de Zwitsers zo'n 100.000 soldaten -ook voor internationale begrippen een zeer groot aantal- kunnen inzetten om het land te beschermen. Tevens werd de begroting van Defensie verhoogd naar € 5 miljard en werden nieuwe Zweedse Saab Gripen gevechtsvliegtuigen gekocht.

Een klein jaar geleden oefenden de 2000 hoogste Zwitserse officieren met een scenario ('Stabilo Due') waarin de Europese buurlanden na de instorting van de euro ten prooi vallen aan geweld, en er een enorme vluchtelingenstroom op gang komt. (2)

'Frankrijk totaal failliet'

Dat het veel slechter gaat met Frankrijk dan we in de media te horen krijgen, bleek bijvoorbeeld begin dit jaar, toen de Franse minister van Werkgelegenheid Michel Sapin zich in een radio-interview liet ontvallen dat Frankrijk 'een totaal failliete staat' is. Na zware kritiek zei hij later dat hij 'een grapje' had gemaakt, maar ook oud-eurocommissaris Frits Bolkestein heeft letterlijk gezegd dat Frankrijk feitelijk bankroet is.

 

Xander

(1) 20Min.ch
(2) Deutsche Wirtschafts Nachrichten

Zie ook o.a.:

14-04: Ex topambtenaar EU waarschuwt voor burgeroorlog in Europa
10-04: 'Frankrijk in economische depressie; Italië krijgt revolutie als in Egypte'
29-01: Franse minister van Arbeid: 'Frankrijk is totaal failliet'

2012:
08-10: Leger Zwitserland bereidt zich voor op instorting EU en vluchtelingenstroom
07-10: Schotland, Catalonië, Vlaanderen, Rhône-Alpen, Venetië: Valt de EU uit elkaar?
30-09: Niet-eurolanden Zwitserland en Zweden presteren veel beter dan de EU (/ Succes van beide landen te danken aan beleid dat volkomen tegengesteld is aan dat van Brussel)

Putin saluta il tradizionalismo, nucleo dell’identità nazionale della Russia

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Putin saluta il tradizionalismo, nucleo dell’identità nazionale della Russia

RIA Novosti & http://www.statopotenza.eu

Il presidente russo Vladimir Putin propaganda il tradizionalismo come cuore dell’identità nazionale della Russia, lamentando minacce come la globalizzazione e il multiculturalismo, l’unità per un “mondo unipolare” e l’erosione dei valori cristiani, tra cui un esagerato concentrarsi sui diritti delle minoranze sessuali.


Senza i valori al centro del cristianesimo e delle altre religioni del mondo, senza norme morali plasmate nel corso dei millenni, i popoli perderanno inevitabilmente la loro dignità umana“, ha detto Putin, rivolgendosi a diverse centinaia di funzionari russi e stranieri, studiosi e altre figure pubbliche in una conferenza promossa dal Cremlino nella Russia nordoccidentale. In un discorso e una sessione aperta della durata di oltre tre ore, Putin ha criticato aspramente “i Paesi euro-atlantici“, dove “ogni identità tradizionale,… tra cui l’identità sessuale, viene rifiutata.” “C’è una politica che equipara le famiglie con molti bambini a famiglie dello stesso sesso, la fede in Dio alla fede in Satana“, ha detto durante la 10.ma riunione annuale del cosiddetto Valdai Club, trasmessa in diretta dalla televisione russa e dai siti di informazione. “Il diritto di ogni minoranza alla diversità deve essere rispettata, ma il diritto della maggioranza non deve essere messa in discussione“, ha detto Putin.


Putin si orienta verso una retorica conservatrice da quando è tornato al Cremlino per la terza volta, nel 2012, dopo un periodo di quattro anni come Primo ministro. Ha promosso regolarmente i valori tradizionali nei discorsi pubblici, una mossa che gli analisti politici vedono come tentativo di mobilitare la base elettorale conservatrice di fronte al crescente malcontento pubblico e al rallentamento dell’economia. Molti valori liberali criticati nel suo discorso sono stati associati alla classe media urbana, forza trainante delle grandi proteste anti-Cremlino a Mosca, dopo le controverse elezioni parlamentari alla fine del 2011.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

mardi, 01 octobre 2013

De verloren erfenis van het Verdinaso

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De verloren erfenis van het Verdinaso

Een overzichtsgeschiedenis van het naoorlogse Heel-Nederlandisme en solidarisme

Filip MARTENS

De intellectueel Joris Van Severen (1894-1940) is zonder enige twijfel de meest briljante Vlaamse geest geweest van de laatste 90 jaar. Hij had tevens een zeer sterke en indrukwekkende persoonlijkheid. Na zijn dood in 1940 bleef de door hem gestichte beweging Verdinaso verder leven in de harten van duizenden sympathisanten, die decennialang in neo-Dinaso-groeperingen actief bleven.

Inleiding

De maatschappelijke ideeën van nationale bewegingen kunnen sterk uiteenlopen, daar ze bepaald worden door de context waarin hun staatkundige opvattingen zich ontwikkelen. Nationalisme versmelt steeds staatkundige en maatschappelijke ideeën tot één ondeelbaar geheel. Het Verdinaso vertolkte dit zeer goed met de leuze “Het Dietsche Rijk en Orde”.

Dit blijkt ook uit de ideologische evolutie van Joris Van Severen. Vanuit een katholieke familiale afkomst over flamingantische bezigheden tijdens zijn universiteitsjaren beleefde hij door de oorlogsgruwelen een nationaal-revolutionair ontwaken aan het IJzerfront. Vanaf 1923 ontwikkelde Van Severen een katholiek Groot-Nederlands nationalisme met Italiaans-fascistische inspiratie en vormgeving. Na 1934 plooide hij stelselmatig terug op een Heel-Nederlands revolutionair conservatisme, waarbij de katholieke fundamenten het haalden op de nationaal-socialistische en fascistische modes. Zijn laatste ontwikkelingsstadium vertoont sterke gelijkenissen met de Franse en Duitse Jong-Conservatieven.

Joris Van Severen evolueerde ook in zijn afbakening van de natiestaat. Oorspronkelijk was hij een vurige anti-Belgische flamingant. De romantische zinspreuk “De taal is gansch het volk” was toen voor hem – en voor heel het flamingantisme – de voornaamste maatstaf voor nationale identiteit. Bijgevolg kon België geen natiestaat zijn en moest er een ‘Vlaams’ volk bestaan dat nauw verwant was aan Nederland.

Van Severen stichtte in oktober 1931 het solidaristische en volksnationalistische Verbond van Dietsche Nationaal-Solidaristen (Verdinaso) na een reeks teleurstellingen in de partijpolitiek. Het taalcriterium werd nog geradicaliseerd door het flamingantisme als overbodige tussenstap overboord te gooien: er bestond enkel nog een ‘Diets’ volk in Nederland, Noord-België en Frans-Vlaanderen. Deze niet-partijpolitieke organisatie was dus bij de aanvang Groot-Nederlands en wou een ideologische en leidinggevende elite vormen. Reeds in 1932 wou Van Severen overschakelen op een staatsnationalistische koers, omdat hij inzag dat enerzijds de regering verregaande maatregelen tegen zijn beweging zou nemen en anderzijds de macht over de Belgische staat diende te worden verworven. De invloedrijke Wies Moens kon dit echter nog 2 jaar tegenhouden.

Het openlijk militaristische – met de Dietsche Militie (DM) had het Verdinaso immers een eigen militie – en als staatsgevaarlijk beschouwde Verdinaso kreeg vanaf eind 1933 zeer ernstige moeilijkheden met de Staatsveiligheid: vele huiszoekingen bij en intimidaties van Verdinaso-leiders, uitsluiting van de Verdinaso-vakbond, een speciale wet om de DM te verbieden, … Daarop gooide Van Severen het roer om door het taalnationalisme af te zwakken: zogenaamde “lotsverbonden volkeren” als de Walen, de Luxemburgers en de Friezen waren welkom in de Dietse volksstaat als ze dat wensten. De DM werd omgevormd tot Dinaso Militanten Orde (DMO) en voor het natieverdelende opbod tussen Nederlandstalig en Franstalig België was geen plaats meer. Het Verdinaso refereerde hiermee aan de 15de eeuwse Bourgondisch-Habsburgse Nederlanden. Wies Moens verliet hierop het Verdinaso. Nochtans kwam de fundamentele evolutie in Van Severens staatkundige denken pas later, doch dit viel echter minder op door de geleidelijke evolutie ervan.

De afkondiging van deze (1ste) Nieuwe Marsrichting betekende een duidelijke afname van Van Severens etno-culturele nationalisme ten voordele van de Rijksgedachte. Van Severen werd vanaf dan een gerespecteerd figuur binnen de Belgische adel en aan het koninklijk hof, die met zijn mening terdege rekening hielden. Hij streefde er naar dat koning Albert I hem zou benoemen tot premier, zodat hij een corporatistische staat kon installeren. De koning moest tevens meer bevoegdheden krijgen.

Inzake maatschappelijke ideeën beriep Van Severen zich op de Conservatieve Revolutie. Dit hield een afwijzing in van de Franse Revolutie, de op vrijmetselaarsprincipes gestoelde grondwet, liberalisme, kapitalisme, marxisme, conservatisme, parlementaire democratie en politieke partijen. Het Verdinaso stelde dat politieke partijen moesten verdwijnen omdat ze het organisch karakter van de volksgemeenschap miskenden en elk voor zich streefden naar de macht, zich slaafs lieten misbruiken door de financiële wereld en aldus “de wettige organisatie van het verraad aan en van de uitplundering van het volk” zijn. Tevens werd gepleit voor een organische samenleving gebaseerd op solidarisme en corporatisme die echte democratie inhielden. Dit omvatte een vervanging van de verfoeide parlementaire democratie – de “demoliberale chaos” – door een corporatieve maatschappelijke ordening. Er was ook een behoudsgezind katholicisme aanwezig. Voor dit alles haalde Van Severen zijn inspiratie onder meer bij de pauselijke encyclieken ‘Rerum Novarum’ en ‘Quadragesimo Anno’, de Action française van Charles Maurras (1868-1952), het neothomisme van Jacques Maritain (1882-1973), de katholieke socioloog markies René de la Tour du Pin (1834-1924) en Mussolini’s nieuwe interpretatie van corporatisme. Van Severen vatte de maatschappelijke ideeën van het Verdinaso samen onder de noemer ‘nationaal-solidarisme’.

Het Verdinaso hanteerde een staatkundige visie die niet zozeer Vlaams-regionalistisch was, maar het grotere geheel der volkeren in de Lage Landen beschouwde. Hiermee oversteeg het Verdinaso duidelijk het romantisch-dromerige flamingantisme. De evoluerende staatkundige visie van het Verdinaso toont aan dat voor de achterban de maatschappelijke opvattingen primeerden. Er haakten wel heel wat mensen af, maar de meesten bleven: noch Groot-Nederlandisme, noch anti-Belgicisme waren voor het gros der Dinaso’s essentieel voor het revolutionair gedachtegoed.

Bovendien was het Verdinaso totaal onafhankelijk van buitenlandse machten. Van Severen weigerde immers consequent financiering en inmenging van nazi-Duitsland, dat eerder als ‘goede en nauw verwante buur’ werd gezien. Dit in tegenstelling tot de slaafse knechtenmentaliteit tegenover Duitsland van het flamingantisch-regionalistische VNV in de ijdele hoop dat de Duitsers hen een zelfstandig Vlaanderen zouden geven. Het VNV werd dan ook reeds lang vóór de Tweede Wereldoorlog gefinancierd en gestuurd door Duitsland.

Vanaf augustus 1936 liet Van Severen de term ‘Dietsland’ vallen. Voortaan sprak hij achtereenvolgens over “het Dietse Rijk”, “de Lage Landen”, “de Nederlanden”, “het Dietse Rijk der Nederlanden” en tenslotte vanaf 1938 over “de Zeventien Provinciën”. Vanaf deze 2de Nieuwe Marsrichting moest België niet langer verdwijnen, maar moest de macht gegrepen worden binnen België mét Waalse steun, waarna moest gestreefd worden naar een fusie met Nederland en Luxemburg. Het taalcriterium werd nu volledig verlaten en vervangen door geopolitieke argumenten en het gemeenschappelijk verleden der Nederlanden, terwijl de eeuwenoude lotsverbonden gemeenschap van Dietsers, Friezen, Walen en Luxemburgers diende hersteld te worden door staatkundige eenmaking in een rijksgemeenschap. In dit de facto herstelde Verenigd Koninkrijk der Nederlanden zou de verscheidenheid der Dietsers gevrijwaard worden door provinciaal federalisme.

Deze evolutie was staatkundig veel fundamenteler dan de 1ste Nieuwe Marsrichting van 1934. Met deze 2de Nieuwe Marsrichting verliet dan ook ongeveer één derde der leden het Verdinaso. Pas tegen 1939 stabiliseerde het ledenaantal weer. Het Verdinaso kon nu echter ook andere doelgroepen aanspreken: Franstalige Vlamingen, Belgisch-nationalistische Vlamingen en ook … Walen. Met de 2de Nieuwe Marsrichting werden tevens alle Vlaamse leeuwenvlaggen definitief geweerd: het Verdinaso gebruikte sindsdien consequent de Belgische en Nederlandse vlaggen, terwijl op hun meetings eveneens de vlaggen van alle Belgische en Nederlandse provincies en de volksliederen van beide landen gebruikt werden. Emiel Thiers (1890-1981), algemeen verslaggever, stelde op de 3de Landdag van het Verdinaso te Tielt in oktober 1934 dat het Verdinaso definitief en volledig gebroken had met de vermolmde Vlaamse Beweging: “Wij hebben ons verlost van het ‘flamingantisme’ en van het ‘hollandisme’; thans verlossen wij ons van de ‘separatistenmentaliteit’ (…)”.

Met de 3de Nieuwe Marsrichting in 1939 keerde Van Severen terug naar een etno-cultureel natiebegrip door de Franstaligen op basis van afstamming en bloed tot geromaniseerde Dietsers te verklaren. De historische gemeenschap der Nederlanden werd nu dus eveneens een volksgemeenschap, terwijl ook het Belgisch nationalisme aanvaard werd. De weg naar de Dietse natiestaat liep nu over een machtsovername in België, waarna samenwerking met Nederland en Luxemburg zou beoogd worden. Hiermee lag het Verdinaso aan de basis van de latere Benelux-gedachte.

Significant is voorts dat het Verdinaso zich nadrukkelijk “Noch linksch, noch rechtsch” noemde en als overtuigd antiparlementaire beweging nimmer deelnam aan verkiezingen. De Dinaso’s werden opgeroepen om blanco of ongeldig te stemmen. Desondanks was het Verdinaso toch een grote beweging: op de laatste grote meeting van het Verdinaso in het Antwerpse Sportpaleis in 1939 waren er 9.000 aanwezigen.

Na de dood van Joris Van Severen te Abbeville in mei 1940 kwam Emiel Thiers aan het hoofd van het Verdinaso. Samen met propagandaleider Paul Persyn (1912-1976) blies hij in de zomer van 1940 de beweging krachtig nieuw leven in, met onder meer een sterke aangroei van het ledenaantal en de opening van tientallen nieuwe Dinaso-huizen tot gevolg. In augustus 1940 sloot het Verdinaso een samenwerkingsakkoord met de Belgisch-nationalistische beweging Nationaal Legioen/Légion Nationale. Beide organisaties lieten de Militärverwaltung weten niet te zullen collaboreren zonder goedkeuring van de koning, van wie ze een initiatief verwachtten. In september 1940 volgde een akkoord met Rex-Vlaanderen.

De Duitsers dwongen in 1941 echter Verdinaso-Vlaanderen, Rex-Vlaanderen en het VNV te fuseren tot de Eenheidsbeweging-VNV. Tegelijk werden ook Verdinaso-Wallonië en Verdinaso-Nederland verplicht samen te gaan met respectievelijk Rex-Wallonië en de NSB. Het Nationaal Legioen/Légion Nationale weigerde te fuseren en werd volkomen uitgeschakeld: alle leiders werden naar Duitse concentratiekampen gedeporteerd.

Duitsland had immers als doel om de Lage Landen op termijn te annexeren (wat in juli 1944 ook gebeurde). Daarom onderdrukte de Duitse bezetter ieder Groot- en Heel-Nederlands streven en werd ook de Belgisch-Nederlandse grens gesloten: niemand kon zonder Duitse toestemming over de grens, waardoor bijgevolg geen contacten mogelijk waren over Belgisch-Nederlandse frontvorming. Verder wist Duitsland uiteraard al van vóór de Tweede Wereldoorlog dat het Verdinaso een onafhankelijke beweging was en dus niet te manipuleren viel zoals Rex en het VNV.

Het Verdinaso werd door de Duitse bezetter onder druk gezet: in januari-februari 1941 werd Hier Dinaso! (de periodiek van het Verdinaso) verboden, individuele Verdinaso-leiders zoals Jef François (1901-1996) en Pol Le Roy (1905-1983) werden bewerkt om voor een pro-Duitse koers te kiezen, de putsch van DMO-leider Jef François tegen Verdinaso-leider Thiers werd gesteund en uiteindelijk werd propagandaleider Persyn in april 1941 korte tijd opgesloten. Thiers begreep en trad af, waarop François hem opvolgde, doch slechts een klein deel der Dinaso’s wou François in de collaboratie volgen. François’ mini-Verdinaso werd tot vernederende onderhandelingen gedwongen met het VNV en uiteindelijk legde de Militärverwaltung op 5 mei 1941 een ‘akkoord’ over de Eenheidsbeweging-VNV op.

Door de gedwongen fusie viel het Verdinaso uiteen in 3 delen: primo een groep die actief in het verzet stapte tégen Duitsland, secundo een grote groep die zich neutraal opstelde en niet participeerde aan de oorlog en tertio een kleine groep die zich aansloot bij de collaborerende Eenheidsbeweging-VNV. Deze laatste strekking kreeg na de oorlog te maken met de repressie en epuratie, terwijl de 2 overige groepen ongehinderd nieuwe Dinaso-initiatieven ontplooiden.

Het kleine aantal collaborerende Dinaso’s – vooral uit de DMO en de jeugdorganisatie Jong Dinaso – kreeg de leiding over de SS-Vlaanderen. DMO’ers waren immers fysiek en psychisch gestaalde en ideologisch geschoolde leidersfiguren: zwakkelingen werden nadrukkelijk niet geduld in hun rangen. Ook de Jong Dinaso’s waren gevormd met het ideaalbeeld van de DMO’er voor ogen. En juist zo’n mannen had de SS nodig. Verder was het schenken van zo’n hoge posities aan ex-Dinaso’s uiteraard ook een middel om hen te overtuigen zich aan te sluiten bij de Eenheidsbeweging-VNV: het bewees dat ze geen tweederangsrol zouden moeten spelen.

Het VNV bleek dus voor de Duitsers ideologisch en organisatorisch te weinig onderbouwd. Die partij bestond immers uit meerdere, zéér verschillende strekkingen (zo ongeveer alles van links-flamingantisch tot extreem-rechts), zodat VNV-leider Staf De Clercq constant veel moeite had om deze kakofonie bijeen te houden. Het Verdinaso had daarentegen één – te nemen of te laten – koers gevoerd. Het VNV vertegenwoordigde duidelijk de kleinburgerlijke Vlaamse Beweging, terwijl het Verdinaso groots en Europees dacht.

De Eenheidsbeweging-VNV bleef officieel streven naar een zelfstandig Vlaanderen en naar een taalnationalistisch Groot-Nederland, maar zoals vermeld onderdrukten de Duitsers iedere Groot- (en ook Heel-)Nederlandse uiting snel. Na met veel naïef enthousiasme en zonder enige garanties in de collaboratie gestapt te zijn vielen in de loop der oorlog veel VNV’ers de schellen van de ogen: meer en meer leden werd het duidelijk dat ze gebruikt werden door de Duitse bezetter om voor hen het land te besturen, terwijl een Groot-Nederlandse staat er nooit zou komen. Tegen het voorjaar van 1944 had de Eenheidsbeweging-VNV dan ook al ca. 85% (!) van zijn leden verloren. Toen Duitsland in juli 1944 de Lage Landen annexeerde, stond het door de bevolking gehate VNV politiek schaakmat: wat moest het immers nog verdedigen gezien de annexatie – die het VNV altijd ontkend had – er nu wel gekomen was, waardoor de Dietse staat – die het VNV altijd beloofd had – er nu nooit meer zou komen?

Door de evoluties in Van Severens staatkundige gedachtegoed poogden zelfs de emotioneel anti-Belgische flaminganten hem na de oorlog te recupereren. Voor hen was er de herinnering aan de vroege Van Severen en bewees zijn executie het vermeende anti-Vlaamse karakter van de Belgische staat. Het verklaart waarom de flaminganten Van Severen – die hen nochtans verketterde als Hitlerknechten en separatisten – na de oorlog een plaats gaven in het flamingantische pantheon, ondanks sterk verzet van oud-Dinaso’s. Daarnaast was het flamingantisme ook niet vies van taalnationalistisch Groot-Nederlandisme, louter als middel tegen iedere poging tot verzoening met België. Er mocht alleen niet gepreciseerd worden wat Van Severen in werkelijkheid met het begrip ‘Dietsland’ bedoelde. Het verklaart alvast waarom zowat iedereen in de Vlaamse Beweging een volkomen verkeerd begrip heeft – zowel ideologisch als staatkundig – van Joris Van Severen en zijn beweging. Het Verdinaso van na de Nieuwe Marsrichting van 1934 is immers enkel en alleen de maatstaf voor de Belgischgezinde, Heel-Nederlandse en solidaristische beweging. De liberaal-conservatieve flaminganten vereenzelvigen zich dan ook onterecht met zijn historische erfenis.

De Belgischgezinde neo-Dinaso-beweging tijdens en na de Tweede Wereldoorlog

Onmiddellijk na de ondergang van het Verdinaso in het voorjaar van 1941 stichtten diverse ontevreden Dinaso’s het clandestiene Dietsch Eedverbond, dat ook een aantal misnoegde VNV’ers aantrok. Leden dienden de Dietse Eed, die stelde dat de Dietse gedachte onder alle omstandigheden moest primeren, af te leggen. Het Dietsch Eedverbond opereerde voornamelijk via persoonlijke informele contacten. De groepering bestond tot 1944 en oefende zware kritiek op het collaborerende VNV uit.

Daarnaast werd in 1942 het Heel-Nederlandse Dietsch Studenten Keurfront (DSK) gesticht, dat in 1943 zijn naam in Diets Solidaristisch Keurfront veranderde. Het DSK bestond vooral uit Gentse studenten. In Leuven was onder meer de latere CVP-Minister Frans Van Mechelen (1923-2000) lid. Daarnaast waren er ook nog contacten in Sint-Niklaas en Turnhout. Het DSK telde ca. 200 leden en werd geleid door onder meer Jozef Moorkens, Herman Todts (1921-1993) en Edmond De Clopper (1922-1998). Zij waren ideologisch sterk op het voormalige Verdinaso gericht en wezen de onvoorwaardelijke collaboratie af. Het VNV werd dan ook scherp gehekeld in DSK-pamfletten.

Todts vertelde later over het DSK: “Jonge mensen, overwegend studenten die er een zelfde mentale instelling op nahielden, vonden elkaar in die dagen onder de verzamelnaam Diets Studenten Keurfront. Een jaar later Diets Solidaristisch Keurfront. De kwalificatie ‘Diets’ wees op een streven om de historische Zeventien Provincies van weleer tot één staat te herenigen; de kwalificatie ‘solidaristisch’ beklemtoonde inzet van alle leden van onze samenleving in ons verzet tegen de ons opgedrongen ideeën; terwijl de kwalificatie ‘keurfront’ het geloof in de dominantie van de elite benadrukte.”

Het DSK vergaderde van 1942 tot september 1944 regelmatig in het ouderlijk huis van Edmond De Clopper aan de Vrijdagmarkt in Gent. Na de oorlog werd de studentenorganisatie Solidaristische Beweging (cfr. infra) gesticht door DSK’ers.

Nog tijdens de oorlog richtte E.H. Bonifaas Luykx De Gemeenschap op, dat onmiskenbaar een neo-Dinaso-jongerengroep was en waar relatief veel oud-Dinaso’s bij betrokken waren. Hierover zijn echter weinig gegevens bekend. Daarnaast was er tijdens de oorlog ook nog de beweging rond de Henegouwse Dinaso Louis Gueuning (cfr. infra).

Oud-Dinaso’s die na de oorlog weer politiek actief werden, verspreidden zich over het hele katholiek-conservatieve kamp. Zo vinden we in de christendemocratische zuil bijvoorbeeld Willem Melis (eerste hoofdredacteur van de naoorlogse De Standaard in 1947), Luc Delafortrie (redacteur bij De Standaard in 1954-1978), Rafaël Renard (adjunct-kabinetschef van minister Arthur Gilson (1961-1965) en voorzitter van de Vaste Commissie voor Taaltoezicht (1964-1976)), Jef Van Bilsen (Secretaris-Generaal en later Commissaris van de Koning voor Ontwikkelingssamenwerking in de jaren 1960 en regeringsdeskundige in de jaren 1970) en Frantz Van Dorpe (CVP-burgemeester van Sint-Niklaas in 1965-1976 en VEV-voorzitter vanaf 1959). Allemaal namen uit de strekking die het Verdinaso buiten de collaboratie wilde houden en na het mislukken van dat opzet inactief werd of in het verzet ging.

Daarnaast waren er na de oorlog tal van groepen die zich tot ideologische erfgenaam van het Verdinaso verklaarden en uiteraard afkerig tot vijandig stonden tegenover de Vlaamse Beweging. De neo-Dinaso-visie op de Vlaamse Beweging werd vertolkt door Herman Todts in het artikel ‘Ik klaag aan. Aan mijn vrienden van de Vlaamse Beweging’ in De Uitweg van 31 mei 1952: oorspronkelijk was de Vlaamse Beweging een positieve kracht door haar Nederlandse oriëntatie, die ze op cultureel vlak kreeg van Jan-Frans Willems en die op politiek vlak werd voortgezet door Joris Van Severen; nu was het echter een “lamlendige pruikenbeweging” geworden, die ver was afgedwaald.

Eén der belangrijkste figuren hierbij was Louis Gueuning, voormalig Verdinaso-leider der Romaanse gouwen (cfr. infra). Zijn neo-Dinaso-strekking verdedigde hetzelfde staatkundige en maatschappelijke project als het Verdinaso en keurde de collaboratie af. De repressie en epuratie werden positief gewaardeerd, hoewel men wel oog had voor de vele onschuldigen die er door getroffen werden.

De oud- en neo-Dinaso’s bleven overtuigd van de Dietse Rijksgedachte en bleven steeds het herstel der historische Nederlanden en der vroegere provinciën nastreven. Hun staatkundig project wou net zoals Van Severens Nieuwe Marsrichting in 1934 de Belgische kerngebieden – Belgisch-Vlaanderen en Belgisch-Brabant – de staatsmacht in handen geven. De Belgischgezinde neo-Dinaso’s vertoonden geen enkele affiniteit met het flamingantisme en volgden Van Severens Belgisch-nationalistische koers. Hun aanhang bestond uit radicaal-conservatieve katholieken en Belgisch-nationalisten, zoals Van Severens goede vriend en PSC’er baron Pierre Nothomb (1887-1966).

Onmiddellijk na de oorlog hadden flamingantisme en federalisme bij de publieke opinie van Nederlandstalig België volledig afgedaan, zelfs al vóór de Duitse aftocht in september 1944. Zelfs voor de flaminganten – met uitzondering van een kleine harde kern – werd België opnieuw het onbetwiste vaderland. Pas in de jaren 1960 zou een deel der flaminganten weer kritischer worden over België.

Tot diep in de jaren 1950 was de Heel-Nederlandse beweging heel sterk. De neo-Dinaso’s speelden daarin een vooraanstaande rol doordat velen onder hen niet of nauwelijks met de repressie hadden te maken gehad en dus politiek actief mochten zijn. Bovendien hadden zij na de oorlog, toen openlijke kritiek op de Belgische staatsstructuur gewoonweg ondenkbaar was, het voordeel dat hun staatkundig programma niet op de vernietiging van België gericht was. Daarnaast beschikten de neo-Dinaso’s ook nog eens over erkende verzetslui.

Conform de leer van het Verdinaso waren de neo-Dinaso’s meestal afkerig van partijpolitiek. Zij organiseerden zich voornamelijk als een kern van ideologisch sterk geschoolde leden die een voorbeeldfunctie moest vervullen. Geen enkele groep slaagde er door de stabiliteit der naoorlogse parlementaire democratie echter in om nog maar een fractie van het succes van het Verdinaso te bereiken. Misschien verklaart dit waarom veel neo-Dinaso’s de antipartijpolitieke houding niet consequent volhielden. Heel wat oud-Dinaso’s kwamen immers terecht in de CVP en aanvankelijk zelfs even in de reorganisatie der flamingantische partijpolitiek.

De neo-Dinaso-groepen bereikten door een eindeloze reeks ruzies en afscheuringen zelden een betekenisvolle eenheid. Een logische ontmoetingsmogelijkheid waren uiteraard de jaarlijkse Van Severen-herdenkingen. In februari 1956 schreef de neo-Dinaso Staf Vermeire (1926-1987) aan de gewezen DMO-leider en collaborateur Jef François dat “de sterke tegenstellingen” tussen de oud-Dinaso’s enkel nog konden overwonnen worden op een ééndaagse herdenking. Er bestonden bijgevolg tientallen naoorlogse neo-Dinaso-periodieken. Vrijwel zonder uitzondering werden deze geïllustreerd met hagiografische beschrijvingen, teksten en citaten van Van Severen. Dit toont aan hoe sterk de Leider geïdealiseerd werd door zijn naoorlogse volgelingen. Vanaf de jaren 1960 raakte een herstel der Bourgondische Nederlanden echter gemarginaliseerd door het opkomende taalfederalisme dat eerst de Vlaamse en Waalse Bewegingen en uiteindelijk de media en het politieke establishment veroverde.

De neo-Dinaso-beweging van Louis Gueuning

De Henegouwer Louis Gueuning (1898-1971), leraar aan het atheneum van Soignies, was aanvankelijk actief in het Waalse regionalisme en sloot zich in 1931 aan bij de groepering La Renaissance Wallonne. Zijn waardering voor het Portugese staatshoofd Antonio Salazar en voor gewestelijke geschiedenis en verscheidenheid, evenals een afkeer voor de parlementaire democratie brachten hem en enkele Waalse vrienden in maart 1939 bij het Verdinaso. Met Joris Van Severen ontwikkelde Gueuning al snel een hechte vriendschap en intense correspondentie, hoewel hij geen voorstander was van het militarisme van het Verdinaso. Op 4 mei 1940 werd hij door Van Severen aangeduid als verantwoordelijke voor de Romaanse gouwen.

Na de executie van Van Severen nam de én anti-Duitse én anti-Britse Gueuning tijdens de oorlog een attentistische houding aan: hij voerde een onafhankelijke politieke koers en benadrukte de zelfstandigheid der Lage Landen. Met een tiental Dinaso’s richtte Gueuning de Joris Van Severen-Orde op die onder meer jaarlijks in mei een beperkte, clandestiene herdenking van Van Severen organiseerde en verder Van Severens denkwerk consolideerde. In tegenstelling tot VNV en Rex collaboreerde Gueuning dus niet met de Duitse bezetter én wees hij eveneens samenwerking met de geallieerden af. Hij werd dan ook vervolgd door zowel de Duitse Gestapo tijdens de oorlog als door het communistisch verzet tijdens de repressie. Gueunings neutrale koers bleek echter zijn redding en hij doorstond beide vervolgingen zonder blijvende gevolgen. Wel werd zijn huis geplunderd tijdens de repressie en hij verloor zijn job. In 1950 stichtte Gueuning het Albrecht-en-Isabellacollege in Sint-Pietersleeuw. Dit was een elitaire, Franstalige privé-school met hem aan het hoofd.

Ook na de Tweede Wereldoorlog handhaafde de Gueuning-groep de ideologie van Joris Van Severen en het Verdinaso. Volgens Le Peuple (dd. 15 februari 1946) werden er tijdens de verkiezingscampagne van 1946 al pamfletten verspreid met een oproep om te stemmen óf blanco óf voor kandidaten die voor “le rapprochement des Pays-Bas tout entiers” stonden. Voorts verschenen er diverse periodieken. Zo steunde in 1945-1949 L’Actualité Politique – waaraan vooral André Belmans (1915-2008) meewerkte – Leopold III, terwijl het blad ook streed tegen de partijpolitiek. Vanaf maart 1951 verscheen De Uitweg, dat eerst de heruitgave van Hier Dinaso! (cfr. infra) overnam en daarna door de fusie met Le Cri du Peuple in november 1951 een Franstalige tegenhanger kreeg. Tot eind 1953 verscheen De Uitweg als weekblad, in 1954 werd het een maandblad en later verscheen het door financiële problemen onregelmatig. Uiteindelijk werd het opgevolgd door het blad Politiek nu (1969-1971).

Gueuning bezorgde de Leider in 1951 tevens een grafmonument te Abbeville, waarop Van Severen tot ‘Pater Patriae’ en ‘Novi Belgii Conditor’ verklaard werd. Hij recruteerde zijn aanhangers vooral in Nederlandstalig België en onder tweetalige Brabanders. Verder had hij wisselende contacten met diverse Belgischgezinde Derde Weg-groepen. Voor de door Gueuning samengeroepen ‘Staten-Generaal van Verzet tegen het Regime’ op 13 en 14 september 1952 in de Antwerpse zaal Gruter daagden ca. 300 mensen op.

Ideologisch volgde Gueuning de lijn van Van Severen in diens laatste fase. Belangrijkste doel was het herstel der historische Lage Landen in hun gewestelijke verscheidenheid als een organische natie die de kern moest worden van een nieuw Europa. Grote vijand was “de Vreemde” of “l’Étranger”: de buurlanden hadden er steeds alles aan gedaan om de Nederlanden te verdelen en te beheersen. Groot-Brittannië werd door Gueuning bijzonder geviseerd: ‘Albion’ was de nieuwe bezetter en het door de oorlogsregering van Londen beheerste regime was de nieuwe collaborateur. De flamingantische en wallingantische federalisten dienden bewust of onbewust het belang van “de Vreemde” doordat ze na 1830 nog eens de natie wilden opdelen.

Gueuning publiceerde veel over de nagedachtenis en ideologie van Van Severen. Ter legitimering der Nederlandse natie publiceerde hij over de natuurlijke en historische eenheid en zending ervan. Gueuning was een Heel-Nederlander die op basis van historische en geopolitieke argumenten geloofde in het ideaal der 17 Provinciën. Hij wees nationalisme consequent af aangezien dit product van de 19de eeuwse Romantiek Europa evenveel schade had toegebracht als het liberalisme en marxisme. Hierbij verwees hij naar “de verwoesting” in de Nederlanden door het taal-, sociaal en economisch nationalisme. Zijn duidelijke afwijzing van flamingantisme en wallingantisme betekende dat taal voor Gueuning geen enkele waarde had als afbakeningscriterium voor een natie.

Gueunings denken werd gedomineerd door personalisme en roeping. Primo, personalisme betekent dat de mens zich zo volledig mogelijk moet kunnen ontplooien. Naast zijn Heel-Nederlandse motieven verklaart dit mee waarom Gueuning weigerde te collaboreren met nazi-Duitsland, dat een volledig andere visie op de mens had. Orde was voor hem een noodzakelijke menselijke zelfdiscipline om zich persoonlijk te kunnen ontwikkelen. Secundo, het begrip roeping houdt in dat iedere mens een unieke roeping heeft in zijn leven en in de maatschappij. Door deze roeping zo goed mogelijk te vervullen geeft de mens zin aan zijn handelen en leven. Een maatschappij dient op ieder niveau de roeping van ieder individu te ondersteunen, daar zij het resultaat is van de vervulde roepingen van zichzelf ontplooiende individuen. Vrijheid was hierbij voor Gueuning geen libertijns doel op zich, maar een middel in de ontplooiing van de mens, evenals het begrip orde.

Inzake de sociale ordening hernam Gueuning niet expliciet de solidaristische leer. Hij gebruikte de term solidarisme niet en pleitte ook nauwelijks voor een corporatistische staat. Nochtans zat hij wel op die lijn: het volk diende in de staat vertegenwoordigd te worden door zijn elites: “alle beroepsverenigingen, alle gewestelijke groeperingen, alle levensbeschouwingen die de grondslagen van de nationale gemeenschap niet aantasten, hebben recht vertegenwoordigd te worden”.

Verder promootte Gueuning een autoritair regime rond de koning die ten volle zijn grondwettelijke voorrechten moest kunnen uitoefenen bij de samenstelling van een onafhankelijke regering. Naast dit klassieke discours der Belgischgezinde Derde Weg-beweging diende vooral het partijenstelsel uitgeschakeld te worden. Dit mocht met alle middelen worden bestreden, zelfs onwettige. Deelname aan de partijpolitieke strijd werd zinloos geacht: bij verkiezingen werden de aanhangers opgeroepen om blanco te stemmen.

In elke politieke crisis zag Gueuning het lang verwachte einde van het regime: de troonsafstand van Leopold III, de legering van Britse troepen in de Kempen, de onafhankelijkheid van Congo, … Iedere keer werd het regime dood verklaard en een nieuwe organisatie opgericht om de omwenteling in handen te nemen. Na de afwikkeling van de Koningskwestie waren dit de Aktiecomité’s voor orde en vrijheid/Comités d’action pour la liberté et pour l’ordre, na de Congocrisis was het de Organisatie voor Algemeen Welzijn/Organisation de Salut Public (OAW/OSP). Gueuning wou hiermee een ‘regering van algemeen welzijn’ vormen, los van politieke partijen en geleid door de koning, die een nieuwe, autoritaire staat zou stichten. Het enige noemenswaardige resultaat was telkens een tijdelijke samenwerking met Belgischgezinde Derde Weg-groepen.

Net zoals individuen hadden ook staten volgens Gueuning een unieke roeping die bepaald werd door hun eigen uniciteit. Dit verklaart zijn kritische houding tegenover het naoorlogse Europese eenmakingsproces. Hoewel hij een fervent voorstander was van een Europese integratie op ideële en culturele basis, keurde hij het actuele proces af vanwege de verkeerde motivatie ervan. Een louter economische Europese eenwording had voor hem immers geen enkele zin.

Europa moest voor hem een eenheid in verscheidenheid blijven – “Unitas in diversitate” – waarin ieder land juist door de vervulling van een specifieke roeping zijn eigenheid behield. Een identitair kader voor de Europese integratie zou de unieke aard van ieder Europees volk vrijwaren. De Bourgondische Nederlanden kende hij vanuit de analyse van de geschiedenis een bevoorrechte status toe als motor van zo’n Europees integratieproces. Doorheen de geschiedenis waren de Lage Landen immers een zone voor contact tussen de Europese grootmachten.

Belangrijke Gueuning-medestanders van het eerste uur waren onder meer André Belmans (voormalig medewerker van diverse Verdinaso-periodieken, voormalig leider der Leuvense Dinaso-studenten en notaris te Antwerpen), Gustave Calbrecht (oud-Dinaso uit Brussel), André Godderis (oud-Dinaso), Roger Liefooghe (voormalig Verdinaso-gewestleider te Ieper), Valmy Stassart (apotheker te Jumet en voorzitter van de oudstrijdersvereniging Union Nationale des Croix du Feu) en Pol van Herzeele (voormalig lid der Verdinaso-leiding). In 1955 sloot ook Antwerpenaar Vik Eggermont (°1929) aan. Herman Todts (neo-Dinaso), Juul De Clercq (voormalig lid der Verdinaso-leiding) en Luc Delafortrie (voormalig Verdinaso-medewerker) werkten tijdelijk samen met Gueuning.

 

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Naast de tijdschriften en de herdenkingen van de Leider werden er niet veel activiteiten op touw gezet, omdat daarvoor de mensen ontbraken. Veel meer dan enkele honderden mensen stelde de Gueuning-strekking nooit voor. Bovendien waren het steeds dezelfde reeds overtuigde mensen. Naarmate de jaren verstreken vielen er veel meer oude gezichten weg dan er nieuwe bijkwamen.

In de flamingantische partij Vlaamse Concentratie en zijn opvolgers Christelijke Vlaamse Volksunie en Volksunie zag Gueuning niets anders dan een nieuw VNV. Deze partijen waren onvermijdelijk “schijnheilig federalistisch” – separatistisch dus – en zouden bijgevolg opnieuw verraad plegen in dienst van “de Vreemde”, al zou dit volgende keer niet noodzakelijk Duitsland zijn.

In juli 1955 schaarde Gueuning zich achter het initiatief van burggraaf Charles Terlinden (1878-1972), een vooraanstaand Belgischgezind activist om een ‘Manifeste contre le séparatisme-Pour l’Unité/Manifest tegen separatisme-Voor eenheid’ te lanceren. De tekst, ondertekend door een reeks vooraanstaande Belgisch-nationalisten, keerde zich ook tegen culturele autonomie als een verkapte vorm van separatisme. Naar aanleiding van de federalistische opstoot bij de Waalse linkerzijde tijdens de staking tegen de Eenheidswet pakte Gueuning opnieuw uit met dit manifest.

Sommige vrienden van Gueuning gingen nog verder. Valmy Stassart was een voorman van de antiflamingantische verzetsbeweging Comité d’Action Nationale/Nationaal Actie Comité (CANNAC) uit het begin der jaren 1960. Historicus Bart De Wever vermoedt dat het CANNAC verantwoordelijk was voor een bomaanslag in juni 1962 tegen het gebouw van de Vlaamse Toeristenbond in Antwerpen, alsook voor aanslagen in 1963 tegen het café van de (tweede; cfr. infra) Volksunie (VU) in Aalst en tegen een autokaravaan van de Vlaamse Volksbeweging (VVB) in Oostende.

Het CANNAC ging ook op flamingantische manifestaties provoceren en trad met de flamingantische militie Vlaamse Militanten Orde (VMO) in een soort wisselwerking van geweld. Eén en ander kwam aan het licht toen op 24 september 1963 een zware ontploffing plaatsvond in een Gentse villa waar CANNAC-leden explosieven maakten voor een aanslag tegen een VU-betoging in Gent. Eén van de betrokkenen was Michel De Munter, een Gueuning-militant.

Het geflirt van sommige neo-Dinaso’s met de Volksunie na de doorbraak van die flamingantische partij in de jaren 1960 ging er bij de Gueuning-aanhangers immers helemaal niet in. Toen oud-Dinaso Albert Brienen (1897-1977) op de Van Severen-herdenking van het VRO (cfr. infra) in Gent op 19 mei 1968 voor een publiek van hoofdzakelijk Gentse VMO’ers verklaarde dat blanco stemmen geen zin meer had en de Volksunie het vertrouwen verdiende, bestempelden ze dit als “schaamteloos verraad tegenover onze betreurde leider”.

In 1970 richtten enkele tientallen getrouwen de Stichting L. Gueuning/Fondation L. Gueuning op om na de dood van Gueuning in 1971 de nagedachtenis van Joris Van Severen te bewaren en uit te dragen. Oud-Dinaso Jef Werkers (1911-2004) werd voorzitter. In 1973 verscheen het tijdschrift L’Accent. In 1978 kreeg dat met Kenmerk een Nederlandstalige pendant, die uitgegeven werd door de Politieke Groep: Studie, Opzoekingen en Contacten. Roger Liefooghe en de Henegouwse oud-Dinaso André Michel waren de drijvende krachten achter Kenmerk/L’Accent. Dit tweemaandelijks blad hernam de klassieke stellingen, maar zonder de revolutionaire ondertoon van voordien. Het engageerde zich in de jaren 1990 in grote betogingen tegen het separatisme en sympathiseerde daarbij met het Belgische Front National. In 2000 werd het blad stopgezet.

Zowel de Gueuning-medewerkers als neo-Dinaso’s van buiten de Gueuning-strekking waren betrokken bij nog een hele reeks gelijkaardige neo-Dinaso-initiatieven. We schetsen hieronder een chronologisch beeld.

1946-1951: Oud-Dinaso’s in de christendemocratie

Verdinaso-sympathisant Emiel De Winter (1902-1985) was als Secretaris-Generaal van het Ministerie van Landbouw tijdens de oorlog verantwoordelijk voor de Nationale Landbouw- en Voedingscorporatie (NLVC). De NLVC stond wegens de voedselschaarste in voor de marktordening en voor de controle der landbouwproductie en voedselverdeling. Boeren werden verplicht volgens teeltplannen te werken en te leveren aan vastgelegde prijzen.

De NLVC telde talrijke oud-Dinaso’s, onder andere Lode Claes (1913-1997), Norbert De Witte (1911-1983), Willem Melis (1907-1984), Pol van Herzeele (1897-1975) en Paul Persyn. De laatste 2 spioneerden er zelfs voor het verzet. Zo gaf Persyn vanaf oktober 1941 gegevens door aan de Groep Athos en vanaf juli 1943 samen met van Herzeele aan de geheime inlichtingendienst Groep Othello van oud-Dinaso Frantz Van Dorpe (1906-1990). Van Dorpe was aanvankelijk eind 1941 toegetreden tot de verzetsgroep Zero en kreeg na de oorlog diverse onderscheidingen voor zijn verzetswerk.

 

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Persyn en Melis trachtten in 1946 een nieuw dagblad op te starten. Ze gingen samenwerken met Emiel De Winter, die behoorde tot de groep die de heruitgave van De Standaard voorbereidde. Het trio zocht hiervoor eind 1946 overal in Nederlandstalig België steun. Melis werd de eerste hoofdredacteur van De Standaard. Persyn haakte echter af, wat De Winter ten zeerste misnoegde, hoewel beiden wel contact hielden. Lode Claes werd begin jaren 1950 hoofd van de Antwerpse redactie van De Standaard.

Toen Persyn in 1948 werd aangezocht door de groep achter de eerste Volksunie (een neo-Dinaso-project, cfr. infra), zou hij geweigerd hebben omdat het volgens hem verloren moeite was en beter de CVP-verruiming kon gesteund worden. Hij bezette in Antwerpen trouwens zelf een onverkiesbare plaats op de CVP-Kamerlijst in 1949. Verder tekende Persyn samen met de voormalige Verdinaso-sympathisanten Emiel De Winter, Jozef Custers (1904-1982) en Victor Leemans (1901-1971) een oproep die vlak voor de verkiezingen in diverse katholieke kranten verscheen om de CVP te steunen in haar strijd om de absolute meerderheid.

Bij de verkiezingen van 1946 had de CVP het electorale potentieel van het flamingantisme opgezogen. Voor de CVP was het van primordiaal belang dat het flamingantisme en ook het Verdinaso zich niet opnieuw politiek zouden organiseren. De Standaard trok bijgevolg vanaf 1949 alle registers open om de CVP aan te zetten zich te verruimen met vertegenwoordigers van die groepen. Zo kregen 3 belangrijke figuren uit Verdinaso-kringen een parlementair mandaat: Custers, De Winter en Leemans. Norbert De Witte werd in 1950 CVP-arrondissementscommissaris van Sint-Niklaas.

1947: De (eerste) Solidaristische Beweging

In het voorjaar van 1947 verscheen het studentenblad Branding. Solidaristisch weekblad. Dit was het orgaan van de kortstondig bestaande Solidaristische Beweging, dat kleine afdelingen had in Leuven en Antwerpen. De katholieke en Heel-Nederlandse Solidaristische Beweging werd geleid door oud-leden van het Dietsch Studenten Keurfront (cfr. supra) zoals Edmond De Clopper, Frans Van Mechelen, Herman Todts en Jozef Moorkens. In zowel Branding als in de Solidaristische Beweging was daarnaast onder meer nog de latere De Standaard-journalist Manu Ruys (°1924) actief, die tevens betrokken was bij het opstarten van het jeugdtijdschrift Vive Le Gueux! (cfr. infra).

Brandingpubliceerde 10 nummers. In het eerste nummer stelde Van Mechelen (die ook het blad liet drukken) dat Branding nodig was omdat er geen leiders meer waren zoals Joris Van Severen waar de jeugd kon naar opkijken. Verder werd nog het partijenstelsel afgewezen als “georganiseerd sectarisme”. Het redactioneel artikel was een traditioneel solidaristisch discours, inclusief afwijzing van liberalisme en marxisme, die voor Branding de “twee gezichten van Lucifer” waren. Tevens werd de komende Benelux toegejuicht. In het laatste nummer van Branding prijkte op de voorpagina een grote foto van en een hagiografisch artikel over de “grote Dietser” Van Severen.

1947-1999: De Heel-Nederlandse jeugdbewegingenDietse Jeugdbeweging

din1.jpgDe nationalistische jeugdbewegingen in Nederlandstalig België waren voor de oorlog al broeihaarden van Heel- en Groot-Nederlandisme. Tijdens de oorlog werden de diverse groepen gedwongen samengevoegd in de eenheidsjeugdbeweging van het collaborerende VNV. Na de oorlog was het georganiseerd Diets-nationalisme volledig uitgeschakeld, maar vrijwel onmiddellijk ontstonden nieuwe nationalistische jeugdgroepen in de steden om jongeren op te vangen die niet wilden of mochten toetreden tot de katholieke jeugdbewegingen. De stichters ervan waren meestal oudgedienden uit de vroegere nationalistische jeugdbewegingen, onder meer figuren die ideologisch beïnvloed waren door het Verdinaso en buiten de collaboratie waren gebleven.

Hoewel er ideologisch geen onoverbrugbare verschillen waren, zou er ondanks vele pogingen nooit een eenheidsstructuur ontstaan boven de verschillende jeugdgroepen. Reeds in 1945 poogde Edmond De Clopper met Bundeling – Gemeenschap voor Nederlands Geestesleven tevergeefs een overkoepeling van katholieke jongeren tot stand te brengen. Bundeling bleef een bescheiden initiatief, dat zich beperkte tot het organiseren van voordrachten.

Op initiatief van onder meer Staf Vermeire en Jan Olsen (°1924) verscheen van mei 1947 tot juli 1949 het tijdschrift Vive Le Gueux! dat zich richtte op de diverse nationalistische jeugdgroepen. Het blad wees zowel Vlaams-Waals federalisme als Belgisch-nationalisme af: een Heel-Nederlandse oriëntatie was nodig om tot een herstel der Lage Landen te komen. De collaboratie werd afgekeurd, maar tegelijk was men zeer kritisch over de repressie. Maatschappelijk propageerde Vive Le Gueux! onder de toen actuele term ‘christelijk socialisme’ de facto solidaristische ideeën. Naast Vermeire en Olsen werkten onder meer nog Manu Ruys, Staf Verrept (1921-1985) en de Nederlander Bert van Blokland mee aan dit blad.

In juli 1947 ontstond dan het Jeugdverbond der Lage Landen, dat een aantal losse jeugdgroepen rond Vive Le Gueux! overkoepelde. Vanaf het 3de nummer was Vive Le Gueux! het orgaan van het Jeugdverbond der Lage Landen.

In die periode zochten Olsen, Vermeire en oud-Dinaso André Belmans samenwerking met de Gueuning-groep voor kadervorming. Daaruit kwam het tijdschrift Het Gulden Vlies (1948-1949) voort, dat het ideologisch blad van het Jeugdverbond der Lage Landen werd. Het predikte aristocratische en Heel-Nederlandse principes en meed de partijpolitiek. Belmans schreef de meeste artikels. Daarna raakten de relaties met Gueuning en diens volgelingen verzuurd. Vermeire wou niets meer met hen te maken hebben.

In 1949 scheurden het Antwerpse Sint-Arnoutsvendel van Wim De Roy en de Brugse Rodenbachschaar van Jan Olsen zich af en legden via de stichting van een VZW beslag op de naam Jeugdverbond der Lage Landen. In 1950 fuseerde de Rodenbachschaar met Oostendse, Gentse en Leuvense groepjes onder impuls van Jaak De Meester onder de naam Rodenbachvendel.

De andere groepen gingen onder verbondsleider Staf Vermeire verder onder de naam Algemeen Diets Jeugdverbond (ADJV). In 1951 ontbond het Rodenbachvendel (met onder meer Olsen) zichzelf en sloot opnieuw aan bij het ADJV, dat ook in Nederland afdelingen oprichtte.

Het ADJV, evenals de meeste aanverwante groepen, wenste afstand te houden van de partijpolitiek. Naast de bekende principiële bezwaren speelde daarbij ook het onaangename wedervaren van de jeugdbeweging met het VNV tijdens de oorlog. Bij de oprichting van zowel de eerste Volksunie (een neo-Dinaso-project, cfr. infra) als de Vlaamse Concentratie (een flamingantische kieslijst) werden Vermeire en co dan ook tevergeefs gevraagd om te participeren.

Bij de verkiezingen van 1949 riep het ADJV enkel op om te stemmen voor personen die op katholiek en Nederlands vlak voldeden, vermoedelijk vooral een wenk in de richting van de enkele oud-Dinaso’s op kieslijsten van de Vlaamse Concentratie (VC). Op 16 mei 1950 schreef Vermeire aan Todts: “Ik houd onze kerels en stormers ver van alle politieke gedoe, en niet alleen van de VC”.

Ook tegenover de Christelijke Vlaamse Volksunie en daarna de tweede Volksunie (beide flamingantische partijen) bleef het ADJV strikt afzijdig. Deelname aan partijpolitieke manifestaties en lidmaatschap van een partij waren voor ADJV’ers in principe niet toegelaten. Uiteraard waren ADJV’ers in persoonlijke naam dikwijls toch betrokken bij politieke initiatieven. Bovendien was het Diets-nationalistische wereldje nu eenmaal te klein – met nauwe persoonlijke banden als gevolg – om strikte richtlijnen praktisch vol te houden.

 

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In 1950 werd het blad Het Gulden Vlies opgevolgd door Het Pennoen (1950-1977), dat vanaf 1952 los kwam van de jeugdbeweging om een breder publiek te bereiken. Hoewel het aanvankelijk in dezelfde lijn liep, veranderden initiatiefnemers Olsen en Verrept eind 1955 echter van koers door voor het Vlaams-Waals federalisme te opteren. Het Heel-Nederlandisme werd opgegeven voor een taalnationalistisch Groot-Nederland en Vlaamse autonomie. De leeuw met de bundel van 17 pijlen – symbool voor de 17 Provinciën – verdween van de voorpagina. Vanaf 1956 koos Het Pennoen ook steeds duidelijker voor progressisme. Voor Vermeire betekende dit verraad aan de oorspronkelijke doelstellingen. Tussen de neo-Dinaso’s en het “federalistisch-democratisch-progressistisch soepje” van Het Pennoen groeide een bittere vijandschap.

De antipartijpolitieke houding leverde aanvankelijk geen praktische problemen op aangezien er toch geen enkele nationalistische partij daadwerkelijk van de grond kwam. Met de moeizame uitbouw van de tweede Volksunie (VU) in de 2de helft der jaren 1950 veranderde dat echter. De ADJV-leiding bleef echter halsstarrig samenwerking met dit partijtje afwijzen. Daarom scheurde een deel der Gentse ADJV-afdeling Arteveldevendel zich in 1956 na een hevige crisis af. In 1957 vormden de scheurmakers samen met de Antwerpse groep Marnix van Sint-Aldegonde – een fusie van de 2 Antwerpse jeugdgroepen Sint-Arnoutsvendel en Willem Van Saeftinghe – het Verbond van Blauwvoetvendels (VBV). Het VBV positioneerde zich Heel-Nederlands en katholiek. Het had tevens een uitstekende muziekkapel en stichtte diverse afdelingen in West- en Oost-Vlaanderen.

Het ADJV verstrakte daarop zijn antipartijpolitieke lijn nog: partijpolitieke activiteit werd effectief bestraft met degradatie. Door het toetreden van de Katholieke Jeugdscharen Jong-Vlaanderen (KJJV) in 1957 wijzigde het ADJV zijn naam in Blauwvoetjeugdverbond (BJV), hoewel er ideologisch niets veranderde en de meeste KJJV-leden hun leiders niet volgden in de overstap naar het BJV. In mei 1958 verving Jaak De Meester Vermeire als verbondsleider.

Bij de schoolstrijdverkiezingen van juni 1958 werd de VU net niet electoraal verpletterd in de botsing tussen katholieken en vrijzinnigen: de ene zetel in de Kamer werd nipt behouden. De mislukte verkiezingen waren voor het milieu rond Vermeire, rancuneus vanwege de jeugdbewegingsperikelen van 1956, het sein voor een aanval op de VU. In juni 1958 zond het geheim genootschap Diets Eedverbond ‘De Rebellen’ anoniem honderden exemplaren rond van een Rebellenbrief, een blaadje van 16 pagina’s uitgegeven door “rebellen die bij of rond alle initiatieven stonden ter heropstanding” na de oorlog en waarvan velen “spijts alles” ook in de VU actief waren. Het flamingantisme, de partijpolitiek en vooral de VU werden afgekraakt. Alleen een “revolutionaire rebellie” zou de nationale beweging tot het Dietse einddoel leiden. Verder werd er nog voor amnestie gepleit en een hoop vuile was van de VU buiten gehangen. In juli verscheen er een tweede en vlak voor de gemeenteraadsverkiezingen van 1958 een derde Rebellenbrief.

De VU-top reageerde bijzonder geprikkeld op deze neo-Dinaso-aanvallen. De vele artikels over de jeugdbewegingstoestand in de Rebellenbrief wezen automatisch naar Vermeire. Die ontkende echter keihard en beschuldigde het Joris Van Severen-Komitee (cfr. infra). Hij maakte officieel zelf deel uit van deze Gueuning-groep, doch was sinds de oprichting inactief gebleven. Liefooghe reageerde hierop door een apocriefe vierde Rebellenbrief uit te brengen. Daarop betichtte Vermeire nogmaals het Joris Van Severen-Komitee en nam er definitief ontslag uit. In de zomer van 1959 bracht hij nog een laatste Rebellenbrief uit.

Vermoedelijk was de basis der jeugdbeweging niet echt doordrongen van het Heel-Nederlandisme. Er werd immers vooral gerecruteerd onder kinderen van flamingantische collaborateurs. Diets-nationalisme was voor hen geen bezwaar, maar voor de meesten bleef dit refereren aan een taalnationalistische vereniging van Noord-België en Nederland. Binnen de jeugdbeweging bestond enerzijds een katholiek, ‘völkisch’ flamingantisme en anderzijds een conservatief-revolutionaire neo-Dinaso-strekking die de Rijksgedachte en het Heel-Nederlandisme poneerde.

De ideologisch geschoolde leiding van het ADJV/BJV was zich van dit probleem bewust. Daarom bleef men tegenover de buitenwereld meestal zeer vaag over de definitie van het begrip ‘Dietsland’. Een pamflet dat het BJV massaal verspreidde op de IJzerbedevaart en het Zangfeest van 1961, pleitte bijvoorbeeld voor een oriëntatie van het flamingantisme op de vereniging van het ganse Nederlandse volk, maar slechts uit 1 zinnetje over de “negentien miljoen Nederlanders” in noord en zuid, kon de lezer afleiden dat ook de Franstalige Belgen daar bijhoorden.

Het onsuccesvolle BJV kreeg de genadeslag door de oprichting van het Vlaams Nationaal Jeugdverbond (VNJ) in 1960. Het beter georganiseerde VNJ sloot veel dichter aan bij het flamingantisme dat op het einde der jaren 1950 opnieuw overeind krabbelde. In de loop der jaren slaagde het er in om zijn concurrenten weg te drummen. Vooral de relatie met het VBV, dat stelde dat het VNJ een loutere partijjeugd was, was bijzonder vijandig.

Ondanks een heftig anti-VNJ-offensief bleef het BJV met een grote ledenafname kampen. Op 1 oktober 1961 ontbond het BJV zich officieel en verdween van het toneel. Een aantal oudgedienden stichtte onder leiding van Maurits Cailliau (°1938), Rik Nauwelaerts en Paul Van Caeneghem (°1938) dezelfde dag nog het Algemeen Diets Jongerenverbond (ADJOV) dat de katholieke en Heel-Nederlandse tradities van het BJV voortzette.

In 1966 trad het ADJOV toe tot de in 1963 gestichte Blauwvoetfederatie, een losse structuur van diverse anti-VNJ-groepen met onder meer het VBV. De katholieke en Heel-Nederlandse Blauwvoetfederatie gaf tot 1973 het maandblad Open uit en verdween vermoedelijk in 1975.

din9.jpgIn mei 1971 stichtte Fred Rossaert het Heel-Nederlandse Scoutsverbond Delta uit verzet tegen de revolte van mei 1968. De organisatie inspireerde zich op de Duitse Wandervögelbeweging, Baden Powells scoutsbeweging, de blauwvoeterij en het Jong Dinaso. Tot 1990 werd het tijdschrift Zonnescharen uitgegeven. Scoutsverbond Delta was actief in de Kempen en telde op zijn hoogtepunt ca. 200 leden. Het onderhield contacten met het Algemeen Vlaams Nationaal Jeugdverbond (een radicale afscheuring van het VNJ), de (derde) Solidaristische Beweging (cfr. infra) en het Franse Europe Jeunesse. Eind 1991 werd Scoutsverbond Delta stopgezet wegens interne moeilijkheden.

Een laatste neo-Dinaso-jeugdbeweging was het in 1982 opgerichte katholieke Oranjejeugd, dat ontstond uit het op Brusselse kinderen gerichte Grensland. Het ca. 200 leden tellende Oranjejeugd werkte nauw samen met de Gueuning-strekking en met de Heel-Nederlandse Stichting Zannekin. Tevens was voormalig ADJV-leider Staf Vermeire tot zijn overlijden in 1987 een belangrijk mentor. Oranjejeugd besteedde veel aandacht aan vorming en gaf het maandblad Oranjekrant uit. Maurits Cailliau was de eerste voorzitter van Oranjejeugd (tot 1988). Oranjejeugd hield in 1999 op te bestaan.

De teloorgang van de Heel-Nederlandse jeugdbeweging op het einde der jaren 1950 betekende het einde der recruteringsmogelijkheden van de neo-Dinaso-beweging. De jeugdgroepen waren immers ideaal om nieuwe volgelingen te vormen. Hierna begon de tijd zijn ongenadig werk te doen.

1948-1949: De (eerste) Volksunie

Vanaf april 1948 werd in Gent vergaderd door overwegend oud-Dinaso’s en aanverwanten die buiten de collaboratie bleven of in het zogenaamd ‘Diets verzet’ (dat zich niet principieel tegen de collaboratie en het nationaal-socialisme verzette, maar wel tegen het Duits verbod op Diets-nationalisme) stonden. Zij richtten een organisatie op onder de naam Volksunie om de ideologische erfenis van het Verdinaso voort te zetten.

De initiatiefnemers waren de groep achter Branding (Edmond De Clopper, Jozef Moorkens, Frans Van Mechelen en Herman Todts), de latere Antwerpse notaris Gust Peeters, de toenmalige praeses van het Gentse KVHV Wim Jorissen (die tijdens zijn studententijd ideologisch beïnvloed werd door zijn medestudent Todts), het gewezen Verdinaso-kopstuk Juul De Clercq (1897-1955), de oud-Dinaso’s Leo Hosten en Albert Brienen, Gueuning-medewerker en zoon der Brusselse oorlogsburgemeester Wim Grauls en de flamingant en toenmalig voorzitter van het Algemeen Nederlands Zangverbond Herman Wagemans. De leiding van deze eerste Volksunie lag bij Juul De Clercq en Herman Todts.

Op 12 maart 1949 bezochten De Clercq en Todts te Brussel een bijeenkomst van flamingantische prominenten die een gemeenschappelijk standpunt wou bepalen tegenover de parlementsverkiezingen van juni. Men besloot dat het voorbarig was om een nieuwe partij te stichten, maar dat er op basis van enkele inhoudelijke krachtlijnen overal lijsten zou ingediend worden. Dit zou tot de flamingantische kieslijst Vlaamse Concentratie (VC) leiden. Onderhandelingen met de CVP werden afgewezen. De vergadering vormde tevens een ‘coördinatie-comiteit’ van vertegenwoordigers der provincies en arrondissementen, dat regelmatig zou samenkomen om de electorale acties te coördineren. De Clercq werd daarin opgenomen voor West-Vlaanderen.

In werkelijkheid had de Volksunie echter heel andere plannen en was die waarschijnlijk zelfs nooit van plan om met flaminganten samen te werken. Met het oog op de komende verkiezingen trok de Volksunie totaal andere figuren aan. Het betrof Gentse socialisten die tijdens de oorlog, in het spoor van Hendrik De Man (1885-1953), verbrand waren geraakt: Marinus De Rijcke (voormalig schepen van Gent en redacteur van het dagblad Vooruit tijdens de oorlog), Piet Legon, Frans Longville (enkele maanden voor de oorlog BWP-parlementslid en zoon van BWP-senator Henri Longville), Michel Tommelein (voormalig secretaris van Hendrik De Man, voormalig secretaris der Socialistische Jonge Wachten en schepen van Groot-Brussel tijdens de oorlog) en een zekere De Wit. Tevens trad de dissidente CVP’er Fernand Pairon toe, een bemiddeld zakenman en schepen van Kalmthout wiens achterban zich in Antwerpse middenstandskringen situeerde.

Met het verschijnen van de periodiek De Voorpost, met Todts als hoofdredacteur, trad de Volksunie naar buiten. Tussen 15 april en 24 juni 1949 verschenen er 8 nummers. Het eerste nummer kondigde op de voorpagina het “congres van Volksunie” aan in de Antwerpse zaal Gruter op 8 mei 1949, waarbij als sprekers De Clercq, Longville, Peeters en de Gentse advocaat J. Cleymaet aangekondigd werden. Een wollige tekst van De Clercq gaf de krachtlijnen van de nieuwe organisatie weer: christelijk, personalistisch, solidaristisch en nationalistisch. De Clercq keurde ook de repressie en de epuratie goed, maar niet de uitvoering ervan. Er moest eerherstel en schadevergoeding komen voor onterecht veroordeelden en amnestie voor de politieke collaborateurs. Een ander artikel maakte een onderscheid tussen slechte collaboratie (die het nationaal belang ondergeschikt maakte aan Duitsland) en goede collaboratie (die de rust, veiligheid en geestelijke welstand der bevolking als doel had).

De flaminganten waren compleet verrast door het Volksunie-congres in Antwerpen. Ze wilden weten waarom De Clercq zijn actie niet in West-Vlaanderen organiseerde zoals afgesproken. Herman Wagemans ging op 26 april 1949 de gemoederen kalmeren: de Volksunie zou zich niet presenteren als partij en zou op het congres geen kiespropaganda maken voor zichzelf; de bedoeling was om de CVP tot een kartel te dwingen. Hoewel dit laatste flagrant tegen de afspraken was, namen de flaminganten er vrede mee. Ze waren vooral tevreden met Wagemans’ belofte dat er geen 2 lijsten zouden komen.

Uit het eerste nummer van De Voorpost bleek inderdaad niet dat de Volksunie aan de verkiezingen wou deelnemen. Het betoonde zelfs lof voor de CVP’er Gerard Van Den Daele (1908-1984) voor diens verzet tegen de repressie en epuratie. In het tweede nummer van De Voorpost (van 29 april 1949) werd de verkiezingsdeelname ergens weggestopt op de 8ste bladzijde gepubliceerd. De belangrijkste eisen van de Volksunie waren: oplossing van de uitwassen van repressie en epuratie, oplossing van de middenstandsproblemen, toepassing der taalwetten en de terugkeer van Koning Leopold III. Het 19 bladzijden tellende programma der Volksunie was overigens overduidelijk neo-Dinaso.

De flaminganten beseften nu dat ze door de neo-Dinaso’s waren misleid en in snelheid gepakt. Alle afspraken inzake partijvorming en programma werden door De Clercq en Todts gewoon genegeerd. Het congres dreigde nu beslag te leggen op de flamingantische achterban, die hierin het eerste teken zag van een flamingantische partijvorming. De stichtingsvergadering van de VC vond immers pas plaats op 14 mei 1949.

Op 8 mei 1949 liep zaal Gruter voornamelijk vol met flamingantische jongeren. De uitnodigingskaart van het congres vermeldde de Aalsterse advocaat Gilbert Claus, Cleymaet en De Clercq als sprekers. Cleymaet en Claus hadden echter afgehaakt: de eerste werd VC-lijsttrekker in Sint-Niklaas en de tweede verwierf de 6de plaats op de CVP-Kamerlijst in Aalst. De uiteindelijke toespraken zouden, zoals aangekondigd in De Voorpost, gehouden worden door Longville, Peeters en De Clercq. Ook Brienen zou een voordracht houden, waarin hij zijn oorlogsverleden sterk wou benadrukken, wellicht omdat de linkse pers het congres al als een incivieke manifestatie had gebrandmerkt.

Het congres verliep in een duffe sfeer. De toespraken van Longville en Peeters waren langdradig en theoretisch, waardoor het publiek zich sterk verveelde. Het grootste deel van het publiek, dat de heropstanding van het flamingantisme wou vernemen, bleef op zijn honger zitten. Peeters wees integendeel het Vlaams-Waals federalisme af. Brienens toespraak zou het publiek niet te horen krijgen (cfr. infra): “België kan in zijn geheel niet Nederlands zijn van taal, maar België kan het wel zijn met de geest. En wanneer België die weg opgaat, en de Benelux is de eerste grote stap in die richting, dan zullen alle Vlamingen met geestdrift de Belgische vlag als de hunne begroeten, de Belgische vlag, die feitelijk altijd de hunne is geweest”. De Clercq wou onder meer spreken over de Vlaamse Beweging die terecht materiële belangen nastreefde binnen België, maar de hereniging van het Nederlandse volk van de Benelux als einddoel had, wat hen tot “goede Belgische vaderlanders” maakte.

Brienen en De Clercq zouden niet aan het woord komen. Het congres was immers nogal ongelukkig gepland op 8 mei, de herdenkingsdag van het einde der Tweede Wereldoorlog. In Antwerpen vonden verschillende manifestaties van verzetsgroeperingen plaats. Enkele honderden aanhangers daarvan zakten af naar zaal Gruter, want ondanks hun afwijzing van het antibelgicisme en het uitspelen van mensen met een onverdacht oorlogsverleden werden de neo-Dinaso’s toch verdacht van incivisme. De tegenstanders kwamen net binnen toen Peeters uitgebreid hulde bracht aan Leopold III. Vanwege de zware vechtpartij die volgde, ontruimde de politie de zaal en was het congres afgelopen.

Tot eind mei hield De Voorpost vol dat de Volksunie aan de verkiezingen zou deelnemen, maar de facto was het opzet mislukt. Waarschijnlijk wilde het trio Todts-Pairon-De Clopper, dat de feitelijke organisatie van het congres verzorgd had, de schijn hoog houden in de hoop om alsnog een kartel te kunnen sluiten met de CVP. Er was nog tijd tot 3 juni 1949 voor het indienen der kieslijsten, maar De Voorpost van 10 juni 1949 keerde terug naar het traditionele antiparlementaire standpunt en wenste zich verder niet in te laten met “deze zinloze strijd”.

Fernand Pairon diende tenslotte in Antwerpen, met onder andere De Clopper, een onafhankelijke middenstandslijst in. De Clopper maakte propaganda door zich af te zetten tegen de VC via het pamflet ‘Manifest aan de Nederlands-Nationalisten’, onder meer getekend door Todts en Gust Peeters. De lijst-Pairon mikte electoraal louter op sociaal-economische ontevredenheid. Hoewel er slechts 8.000 stemmen behaald werden, miste de VC in Antwerpen hierdoor nipt haar parlementszetel. Pairon werd bij de verkiezingen van 1950 opgevist door de CVP en kreeg de 12de plaats op de Kamerlijst. In 1953 werd hij burgemeester van Kalmthout en vanaf 1954 senator. De Voorpost van 24 juni 1949 pakte nog de Antwerpse VC-lijsttrekkers – de concurrenten van Pairon – persoonlijk zwaar aan.

1948-1953: De Paascongressen

De Clopper, Todts, Jorissen en anderen organiseerden in 1948 een ‘Paascongres der Vlaamse Jongeren’ in naam van de Katholieke Vlaamse Landsbond. Dit op de katholieke jeugd gerichte congres verliep woelig door de contestatie van een grote groep flamingantische jongeren. Meer dan 1.000 jongeren waren aanwezig, evenals een aantal belangrijke CVP-parlementsleden en vertegenwoordigers van de grote katholieke jeugdorganisaties.

Na het mislukte Volksunie-avontuur rees bij de initiatiefnemers vermoedelijk het idee om een bijeenkomst te organiseren waarop potentiële medestanders uit Nederland en België uitgenodigd werden. Het doel was om een actiecomité samen te stellen voor de organisatie van een ‘Paascongres der Heel-Nederlandse jeugd’.

De bijeenkomst te Drakenburg (nabij Hilversum in Nederland) op 7 en 8 januari 1950 nam enkele zeer wollige resoluties aan primo over de eenheid der Nederlandse stam als geestelijke basis der Benelux en secundo dat de politieke doctrine die aan de basis moest liggen der Nederlandse eenheid, moest beantwoorden aan de eigen aard van het volk zoals die uit het verleden organisch gegroeid was. Dit voorzichtig geformuleerd neo-Dinaso-programma wou onder meer Heel-Nederlandse congressen propageren. Todts verzorgde de nieuwsbrief De Lage Landen.

Een tweede bijeenkomst vond plaats in Antwerpen op 30 april 1950. Op de vooravond hield men een openbare vergadering met Jorissen, Wagemans en voormalig scoutsleidster Yvonne Van Haegendoren-Groffi (1911-1953) als sprekers. Er was ook een Zuid-Afrikaan aanwezig. Men besprak een voordracht over “onze doctrine” – geschreven door voormalig scoutsleider Maurits Van Haegendoren (1903-1994) en gebracht door Gust Peeters – en een voorstel van Juul De Clercq om een eenheidsbeweging op te richten. Er werd beslist om tegen het einde van 1950 een Heel-Nederlands congres te organiseren en hiervoor organisatiecomités voor Nederland en België op te richten.

Blijkbaar vlotte de inbreng uit Nederland niet erg goed, want in het najaar van 1950 begonnen Todts en Jorissen een tweede Paascongres der Vlaamse Jongeren te plannen. Dit moest in april 1951 doorgaan en deze keer zonder patronage van de Katholieke Vlaamse Landsbond (wiens activiteit stilgevallen was). Er moest een eenheidsmanifestatie uit ontstaan onder hun leiding. Ze zochten bijgevolg mensen uit zowat alle actieve verenigingen om tot het organisatiecomité toe te treden. Begin 1951 bezochten Jorissen en Olsen zelfs de nationale bestuursvergaderingen van de VC. Na wat strubbelingen participeerde uiteindelijk alleen Frans Van Der Elst (1920-1997). Hij wou een voordracht houden pro amnestie en pro federalisme. Het eerste werd zonder probleem aanvaard, maar het tweede botste uiteraard op zware tegenstand van Todts en congresvoorzitter Jorissen.

De eerste congresdag op 7 april 1951 kende aanvankelijk een relatief normaal verloop. Er daagden ca. 300 jongeren op. De plenaire vergadering ontaardde echter in een scheldpartij tussen neo-Dinaso’s en flaminganten. Volgens De Standaard (dd. 8 april 1951) was een deel der aanwezigen vooral geïrriteerd door een Belgische vlag op het podium.

Todts en Jorissen keerden hierna terug naar hun plan om Heel-Nederlandse congressen te organiseren. Dit leidde tot de ‘Jongerencongressen der Nederlanden’, die eveneens rond Pasen werden gehouden in Maastricht (1952) en Brussel (1953).

Voor het congres in Maastricht werd contact gelegd met de Limburgse regionalistische stroming in Belgisch- en Nederlands-Limburg. Maar enkele Nederlandse kranten maakten het hele opzet verdacht, waarop lokale jeugdverenigingen hun toegezegde participatie annuleerden en een geplande receptie op het stadhuis werd afgezegd. Op het eigenlijke congres werden onder meer voordrachten gehouden door de jezuïet Marcel Brauns (1913-1995) over de confessionele diversiteit der Nederlanden en door Jorissen.

Het congres van 1953 in Brussel lokte 300 aanwezigen. Op de slotvergadering spraken Staf Vermeire, Yvonne Van Haegendoren-Groffi en congresvoorzitter Jorissen. De Standaard (23 april 1953) bekloeg zich over het matte verloop en betreurde dat het congres het flamingantisme wou inruilen voor nationalisme.

Todts zou zich vanaf 1957 engageren in het Verbond van het Vlaams Verzet (cfr. infra). In 1974-1977 werd hij adviseur van CVP-Minister Robert Vandekerckhove (1917-1980) en in 1976-1982 CVP-schepen in Deurne. Todts werd tevens bekend met de boekenreeks ‘Hoop en Wanhoop der Vlaamsgezinden’. De Clopper zou zich voortaan hoofdzakelijk bezighouden met het leiden der Vlaamse Volkskunstbeweging. Hij bleef de neo-Dinaso-actie opvolgen en was nog stichtend lid van de Fondation L. Gueuning/Stichting L. Gueuning. Jorissen evolueerde van neo-Dinaso tot flamingant. Eind 1952 was hij trouwens al medestichter geweest van de VVB, die het Vlaams-Waals federalisme propageerde.

1949-1951: De (tweede) Joris Van Severen-Orde en de (tweede) Solidaristische Beweging

Na de mislukking van de eerste Volksunie stichtte Albert Brienen in september 1949 met enkele andere oud-Dinaso’s naast de gelijknamige groepering van Louis Gueuning (cfr. supra) een tweede Joris Van Severen-Orde, die zich beschouwde als de elitaire kern van een nog op te richten (tweede) Solidaristische Beweging. Aanvankelijk was ook Staf Vermeire betrokken. Precies 10 jaar na de moord op Van Severen – op 20 mei 1950 – kwam de Joris Van Severen-Orde naar buiten met het vormelijk zeer verzorgde blad Joris Van Severen-Orde. Orgaan van de Solidaristische Beweging. Tot maart 1951 zouden er 9 nummers verschijnen. In het najaar van 1950 kwam er een fusie met het Brusselse groepje Concentration Nationale Solidariste, dat niet lang daarvoor was opgericht en geleid werd door de Waalse journalist Ossian Mathieu en de Franstalige Antwerpse advocaat en oud-Rexist José Wilmots. Als gevolg daarvan werd vanaf het 6de nummer de ondertitel van het tijdschrift ook in het Frans vermeld en verschenen er Franstalige artikels van Wilmots en Mathieu.

Heel het initiatief en het tijdschrift waren inhoudelijk doorspekt met typische neo-Dinaso-retoriek over antiparlementarisme, de Koningskwestie en de vestiging van een Dietse solidaristische staat. Ook de organisatiestructuur van het Verdinaso werd gekopieerd. Eind 1950 startte Brienen zelfs met een nieuwe militie – de Joris Van Severen-Ordewacht – waarvan meteen een uniform werd afgebeeld in het blad.

In januari 1951 kwam het tot een samenwerking tussen de Joris Van Severen-Orde en de VMO. Zo hielden Brienen en Mathieu op 27 januari 1951 een voordracht in Antwerpen op een herdenking van VNV-voorman Reimond Tollenaere. De Joris Van Severen-Ordewacht hielp er de VMO om de talrijke tegenbetogers buiten te houden totdat de politie opdaagde. Het gebeuren kon rekenen op ruime belangstelling van de gehele media. De volgende dag ging in Gent op een geheime locatie een solidaristisch congres door dat de start moest zijn van de (tweede) Solidaristische Beweging. De Joris Van Severen-Orde werd herdoopt tot de Solidaristische Beweging en het blad tot Solidarisme. VMO en Joris Van Severen-Ordewacht zorgden opnieuw samen voor de veiligheid.

Brienen droomde al van een samenwerking van alle Dinaso- en flamingantische groepen. Dit front moest dan bij de volgende verkiezingen in de plaats treden van de zieltogende VC en zou vermijden dat er een nieuwe Verdinaso-VNV-tegenstelling ontstond. Brienen onderhandelde ook met Gueuning over een eventuele samenwerking, maar dit eindigde in een conflict.

Ondanks ruime persbelangstelling slaagde de Solidaristische Beweging er echter niet in om veel aanhang te werven. Ze werd bijgevolg in het najaar van 1951 opgedoekt, hoewel Brienen tot eind 1953 tevergeefs bleef ijveren voor samenwerking. In maart 1953 engageerde Wilmots zich in de VC.

1951: Het nieuwe Hier Dinaso!

Begin 1951 verschenen er in de Antwerpse straten affiches die de terugkeer aankondigden van het Verdinaso-weekblad Hier Dinaso!. Op 20 januari 1951 verscheen inderdaad het eerste nummer, dat vormelijk analoog was aan het oorspronkelijke Hier Dinaso!. Het was een éénmansinitiatief van Paul Persyn uit onvrede over zijn oproep tot de oud-Dinaso’s om hun vertrouwen in de CVP te stellen. De absolute CVP-meerderheid na de verkiezingen van 1950 leverde immers noch een sterke regering, noch een oplossing van de repressieproblematiek, noch een terugkeer van Leopold III op. Persyn kondigde een snelle heroprichting aan van het Verdinaso.

Inhoudelijk sloot het nieuwe Hier Dinaso! sterk aan bij de strekking van Gueuning, met wie Persyn duidelijk nauw contact had. Persyn maakte een strijdpunt van een oplossing voor de repressie, die hij een zwaardere vergissing achtte dan de collaboratie. Na 8 edities zat Persyn er financieel door en werd het blad door Gueuning overgenomen en voortgezet als De Uitweg. Het Verdinaso-kenteken op de voorpagina werd vervangen door de leeuw met de 17 pijlen. Persyn verliet de politiek voorgoed en beperkte zich voortaan tot het zakenleven.

1954-begin jaren 1960: Het Verbond van het Vlaams Verzet

Op 31 januari 1954 richtten Albert Brienen en Staf Vermeire het Verbond van het Vlaams Verzet (VVV) op. Hierin zetten mensen met onverdachte vaderlandse papieren zich in voor amnestie: verzetslui, Belgische oorlogsvrijwilligers, politieke gevangenen en anderen die tijdens de oorlog anti-Duitse activiteiten verrichtten. Onder meer De Standaard-journalist en voormalig verzetslid Louis De Lentdecker (1924-1999) was lid van het VVV en vanaf 1957 werd Todts een belangrijk medewerker. Brienen poogde ook mensen van het ‘Diets verzet’ aan te trekken, zoals Paul Daels (1921-1989).

Vermeires betrokkenheid bij het VVV werd hem in flamingantische kringen zeer kwalijk genomen. Dat kwam wellicht door de figuur van voorzitter professor Flor Peeters, een voormalige politieke gevangene die het nationaal-socialisme steeds zeer scherp veroordeelde. Daarnaast waren er inhoudelijke obstakels: het VVV wilde wel de Vlaamse Beweging steunen, maar verklaarde zich expliciet trouw aan de Belgische staat en aan de monarchie. Het VVV verscheen op de IJzerbedevaart, maar droeg er een Belgische vlag met daarop de Vlaamse, Brabantse en Limburgse leeuw op een oranje-wit-blauwe achtergrond. Vermeire bezorgde Brienen – die secretaris van het VVV was – ook lijsten van potentiële leden.

Voormalig politieke gevangene, voormalig hoofdredacteur van Gazet van Antwerpen en CVP-parlementslid Louis Kiebooms (1903-1992) was een der bezielers van het VVV en pleitte voor “een nationale verzoening”. Als militant katholiek en anti-nazi werd hij door de Duitse bezetter in augustus 1940 gearresteerd en verbleef van september 1941 tot april 1945 in het concentratiekamp van Sachsenhausen.

In april 1958 schreef Brienen aan Vermeire: “Alle leiders in het VVV zijn volgelingen of bewonderaars van Joris Van Severen. Wij zullen dan ook in zijn geest handelen”. Dit verklaart een vraag van Louis Kiebooms op 10 april 1957 in de Kamer tijdens de bespreking van een wetsontwerp inzake schadevergoedingen aan burgerlijke oorlogsslachtoffers. Kiebooms vroeg of deze vergoedingen ook zouden worden toegekend aan de 21 personen die in mei 1940 te Abbeville waren vermoord. Tijdens het debat beklemtoonde Kiebooms dat Van Severen een vurig Belgisch-nationalist was geworden en gaf minister Leburton toe dat Van Severens arrestatie en executie onterecht waren geweest. Naast deze parlementaire poging om Van Severen te rehabiliteren was in maart 1954 al een erkenning als oorlogsslachtoffer van de arrestanten van mei 1940 gevraagd in het parlement door Verdinaso-sympathisant en CVP-parlementslid Jozef Custers. Kiebooms kon dergelijke delicate thema’s wegens zijn oorlogsverleden als politiek gevangene met onbetwist moreel gezag aankaarten. In 1957 sprak hij ook op een amnestiecongres van het VVV.

Het VVV gaf de periodiek Het Vlaamse Verzet uit van augustus 1954 tot mei 1958 en organiseerde heel wat meetings, onder meer met oud-Dinaso en leider van verzetsbeweging Groep Othello Frantz Van Dorpe. Hoogtepunten waren een congres in december 1958 (waarop onder meer oud-Dinaso en lid van verzetsbeweging Groep Orchimont Jef Van Bilsen sprak) en het meeorganiseren van een grote amnestiebetoging te Antwerpen in 1959. In het begin der jaren 1960 bloedde de activiteit dood.

1956-begin jaren 1960: Het Joris Van Severen-Komitee

Gueuning-medewerker Roger Liefooghe verzamelde eind 1956 een groep Gentenaren in het Joris Van Severen-Komitee, dat enkele nummers van een gelijknamige periodiek en daarna het kaderblad Band uitbracht. Het betrof voornamelijk oud-Dinaso’s, zoals Albert Brienen, Hendrik Broekaert, Leo Hosten en Arthur Raman. Vooral in 1957 was de groep actief met onder meer een Van Severen-herdenking op 11 mei 1957 te Gent die zeer positief onthaald werd in de katholieke kranten. In 1960 ondersteunde het Joris Van Severen-Komitee de oprichting van het Verbond Recht en Orde (cfr. infra).

1960-1969: Het Verbond Recht en Orde

In 1960 stichtte Armand Wijckmans vanuit de Heel-Nederlandse jeugdgroep Sint-Jorisvendel in Antwerpen het Verbond Recht en Orde (VRO). Diverse oud-Dinaso’s werden hier lid van. De start van het VRO werd gepatroneerd door het Joris Van Severen-Komitee. Het VRO kreeg dan ook de volle steun van de Gueuning-groep, aan wie het een tijdlang de broodnodige militanten leverde voor directe politieke actie, zoals het verstoren van het VVB-congres in 1963 te Antwerpen. Maar in februari 1964 leidden voornamelijk persoonlijke conflicten tussen Gueuning en Wijckmans tot een breuk, waardoor een aantal VRO’ers zich afscheurde en de Werkgemeenschap De Lage Landen stichtte (cfr. infra).

Het VRO verdween kortstondig in de Beweging voor de Verenigde Staten van Europa (cfr. infra) om vanaf september 1966 weer volledig zelfstandig te worden. Op 9 april 1967 organiseerde het VRO een kaderdag in de abdij van Postel waar een gemeenschappelijke programmaverklaring werd uitgewerkt met enkele conservatieve groepen. Het VRO gaf tevens de periodiek Samen in de Nederlanden uit.

In 1967 zocht Wijckmans tevens toenadering tot de VMO, die toen tot de invloedssfeer van de flamingantische partij Volksunie (VU) behoorde. De VU-leiding reageerde door lidmaatschap van de VU en het antiparlementaire VRO onverenigbaar te verklaren.

In 1968 richtte het VRO de militantengroep Studenten- en Arbeidersfront op. In 1969 leidden interne strubbelingen tot de ontbinding van het VRO, waarna een aantal militanten zich aansloot bij de Dietse Solidaristische Beweging (cfr. infra).

1961-1992: De Beweging voor de Verenigde Staten van Europa

Walter Kunnen (1921-2011) was als universiteitsstudent tijdens de oorlog actief bij het DSK waar hij zwaar beïnvloed raakte door het gedachtegoed van het Verdinaso. In 1961 stichtten Kunnen en zijn echtgenote Diane Debray een Vlaamse afdeling van de Beweging voor de Verenigde Staten van Europa (BVSE), die het flamingantisme afwees en ijverde voor een federaal Europa en voor een zesledig federaal België (met Vlaanderen, Brabant, Limburg, Luik, Henegouwen en de Ardennen als bouwstenen). De BVSE gaf het tijdschrift Europa Eén uit, waarvan Staf Vermeire sinds de ondergang van Ter Waarheid (cfr. infra) redactiesecretaris was.

Hoewel de BVSE geen openlijke neo-Dinaso-beweging was, telde ze vele Dinaso’s, zoals de voormalige Jong Dinaso Frans De Hoon. Dit blijkt ook uit de tijdelijke fusie met Wijckmans’ VRO (cfr. supra). Tevens onderhield de BVSE contact met de denktank E Diversitate Unitas die gelijkaardige standpunten had (cfr. infra).

De BVSE ging door Kunnens salonfähigkeit nooit de antiparlementaire of antipartijpolitieke toer op. Kunnen had als ondernemer immers uitgebreide contacten met het establishment. Hierdoor bleven Wijckmans en De Hoon niet bij de BVSE aan boord. Ook Vermeire was niet erg gelukkig met Kunnens salonfähigkeit. Kunnen trad in 1992 af als voorzitter van de BVSE.

1962-1964: Het tijdschrift Ter Waarheid. Met de Nederlanden in Europa

Eind 1961 stichtte Staf Vermeire met een tiental jonge volgelingen uit het pas ontbonden BJV (cfr. supra) het Diets Eedgenootschap (Degen): onder meer Maurits Cailliau, Marcel De Knijf, Rik Nauwelaerts, Rudi Sinia, Hendrik Starckx, Paul Steuperaert en Paul Van Caeneghem. De meesten waren ook lid van het ADJOV. Zoals het Verdinaso wou het Degen een ideologische elitegroep zijn die georganiseerd was als een orde. De deelgenoten beloofden vooraf in een plechtige eed trouw aan Dietsland en absolute geheimhouding.

Het Degen besprak uitvoerig hoe het best zijn Heel-Nederlandse invloed kon doen gelden in de jeugdbeweging en in de VU, bijvoorbeeld door infiltratie of discrete beïnvloeding. Verder bracht het Degen in mei 1962 het vormelijk goed verzorgde maandblad Ter Waarheid. Met de Nederlanden in Europa uit, dat de oorspronkelijke lijn van Het Pennoen hernam en officieel uitgegeven werd door de Werkgroep Nederland Eén. De naam Ter Waarheid verwees naar Van Severens gelijknamige periodiek uit de jaren 1920.

Vermeire beschikte over een klein startkapitaal door de winst die zijn uitgeverij Oranje Uitgaven maakte op Arthur de Bruynes biografie van Van Severen. Hiermee liet hij Ter Waarheid op een nogal ambitieuze oplage van 3.000 exemplaren drukken. Er moesten na één jaar 1.500 abonnees zijn om de kosten te dekken. Hij rekende op het ADJOV voor het werven van abonnementen en voor colportages op grote flamingantische manifestaties als het Zangfeest en de IJzerbedevaart.

Ter Waarheid hanteerde het traditionele neo-Dinaso-discours over de Conservatieve Revolutie, de Dietse Rijksgedachte en het zesledig federalisme. De toon van het blad was bedaard: Vermeire weigerde bijvoorbeeld een tekst van Paul Van Caeneghem waarin de VU, Het Pennoen en de VVB bijna met de grond gelijk werden gemaakt. Toch maakte Ter Waarheid zeker geen geheim van zijn ideologische oorsprong: al in het eerste nummer prijkte een foto van Van Severen met het onderschrift “Hij leeft nog steeds in ons”. Het blad waarschuwde tevens voor de instroom van arrivisten en neomarxisten in de VU. Ter Waarheid was inhoudelijk zwak door de jonge leeftijd der auteurs. Het beheer en de eindredactie kwamen bijna volledig ten laste van Vermeire, waardoor hij nauwelijks zelf iets in zijn blad kon schrijven.

Bij de diverse losse medewerkers bood zich met Vik Eggermont onverwacht ook iemand uit de kring rond Gueuning aan. Vermeire was echter de twisten tussen het Sint-Arnoutsvendel en het ADJV, waarbij Eggermont hem persoonlijk zwaar had aangevallen, nog niet vergeten. Hij nam dan ook de tekst van die “rotvent” niet op. Eggermont vond dat Ter Waarheid bleef hangen “tussen consequent Diets-nationalisme en het romantisme der Vlaamse Beweging” en dat het Van Severen misbruikte.

Met de vernieuwing van het VU-partijbestuur dreigden eind 1962 voor het eerst politieke spanningen in de VU tussen het traditionele flamingantisme en de progressieve nieuwkomers. Toen Vermeire begin september 1962 het artikel ‘Amateurs en vrijgestelden’ ontving, deed zich de kans voor om de VU zware schade toe te brengen. Deze tekst van de jonge radicaal Herman Thuriaux uit Vorst, die toen in de Brusselse VU ageerde tegen de progressieven, verwoordde de frustratie van vele VU-pioniers: de partij was opgebouwd door het ondankbare werk van vrijwilligers, doch na de moeilijke ontstaansperiode kwamen er echter betaalde jonge progressieven, die schaamteloos een parlementszetel nastreefden en het partijblad en de koers der VU domineerden. Vermeire besefte dat publicatie hiervan een enorme impact zou hebben, maar besloot om af te wachten hoe de vernieuwing van het partijbestuur zou verlopen, daar nog steeds de hoop bestond dat de progressieven buitengewerkt konden worden. De ervaring met de Rebellenbrief (cfr. supra) had bovendien geleerd dat zulke aanvallen niet zonder risico’s waren, terwijl Ter Waarheid nog honderden abonnees tekortkwam om kostendekkend te zijn. Een compromis over de samenstelling van het partijbestuur kon uiteindelijk ternauwernood een breuk in het partijtje vermijden.

In Ter Waarheid van februari 1963 verscheen het artikel dan uiteindelijk, wat zoals verwacht tot heel wat positieve en negatieve reacties leidde. De zaak leidde in april 1963 tot een hoog oplopende ruzie in het VU-partijbestuur. Ter Waarheid schreef in het nummer van juni 1963 dat het veel tegenkanting ondervond van de VU.

Het tijdschrift zou deze zaak niet lang overleven. Eind 1962 had het naar eigen zeggen 742 abonnees, wat verre van voldoende was om kostendekkend te zijn. Na 13 nummers was dit niet langer houdbaar en hield Ter Waarheid op te verschijnen. Vermeire was zeer zwaar teleurgesteld in zijn jonge medewerkers: ze schreven wel artikels, maar inzake colportages en abonnementenwerving deden ze volgens hem weinig of niets. Vermeire beweerde een tekort van 30.000 à 50.000 frank aan Ter Waarheid te hebben overgehouden. De relatie met veel mensen – vooral Van Caeneghem en Cailliau – uit het Degen, dat in ruzie eindigde, raakte voor lange tijd verzuurd.

1964-2011: De Werkgemeenschap De Lage Landen:

In maart 1964 stichtte een aantal ex-VRO’ers onder leiding van Vik Eggermont de Werkgemeenschap De Lage Landen, die de periodiek Delta uitgaf. De oplage was in 1966 300 exemplaren, maar verschrompelde tot een 50-tal exemplaren op het einde. De kleine groep volgde inhoudelijk de lijn van Gueuning en werd door hem in 1970 erkend als Antwerpse OAW-afdeling.

1965-jaren 1970: De denktank E Diversitate Unitas

André Belmans, die de samenwerking met Louis Gueuning verbrak, verzamelde vanaf 1965 voornamelijk Franstaligen rond zich in de denktank E Diversitate Unitas. Die gaf in de jaren 1970 het tijdschrift De Federalist uit, dat het herstel der 17 Provinciën en provinciaal federalisme promootte. Deze denktank bracht vooraanstaande politici van diverse strekkingen, denkers en diplomaten uit binnen- en buitenland bij elkaar om te overleggen hoe België kon gered worden uit de communautaire chaos. Daarnaast werden ook heel wat brochures gepubliceerd.

1969-1974: De Dietse Solidaristische Beweging

De Dietse Solidaristische Beweging (DSB) werd gesticht in 1969 na de ontbinding van het VRO (cfr. supra) door de in Wilrijk wonende Nederlandse oud-Dinaso, oud-NSB’er en filoloog Maarten Van Nierop (1912-1979). De DSB verspreidde in 1969-1972 het ledenblad Vrij Dietsland. Vanaf 1971 verscheen tevens het militantenblad Speerpunt voor de militie Verbond van Solidaristische Militanten (een groep militanten onder leiding van oud-VMO’er Karel Luyckx).

De DSB wou een nieuw en eigentijds Verdinaso zijn: naast traditionele elementen als het afwijzen van de partijdemocratie en de taalfederalisering van België, het herstel der 17 Provinciën, de uitbouw der Benelux tot een staatkundige eenheid, provinciaal federalisme en oproepen om blanco te stemmen verzette de DSB zich ook tegen de fusies van gemeenten en tegen de NAVO, terwijl tevens een radicaal ecologisme verdedigd werd. DSB-militanten namen in 1970 deel aan de Limburgse mijnstaking en voerden actie voor het behoud van het Noorderkasteel in Antwerpen en tegen het chemische bedrijf Progil. De DSB had voorts contact met de Franstalige Derde Weg-studentenbeweging Révolution Européenne.

In december 1974 fuseerde de DSB met het Solidaristisch Verbond van voormalig Jong Dinaso-gebiedsleider Arthur Raman en Albert Brienen tot de Solidaristische Beweging.

1971-1974: Het Solidaristisch Verbond

In 1971 stichtten Albert Brienen, Maurits Cailliau en Arthur Raman het Solidaristisch Verbond dat bij de verkiezingen van 1971 al een campagne lanceerde om blanco te stemmen. Het door Raman geleide Solidaristisch Verbond was een overwegend Gentse organisatie en verspreidde achtereenvolgens de periodieken Orde (1971-1972) en De Solidarist (1973-1974).

Brienen viel weg toen het Solidaristisch Verbond op 14 december 1974 fuseerde met de DSB (cfr. supra) tot de Solidaristische Beweging.

1974-1980: De (derde) Solidaristische Beweging

Deze derde (!) Solidaristische Beweging (cfr. supra) ontstond in december 1974 door een fusie van de Dietse Solidaristische Beweging en het Solidaristisch Verbond (cfr. supra). Deze Heel-Nederlandse Solidaristische Beweging (SB) werd geleid door Maarten Van Nierop en sloot ideologisch sterk aan bij de DSB. Bovendien werd de DSB-militie Verbond van Solidaristische Militanten nu omgedoopt in Solidaristische Militanten Orde (SMO).

De SB zette de publicatie voort van het blad De Solidarist, dat in 1973 gelanceerd was door het Solidaristisch Verbond, terwijl ook het in 1971 door de DSB-militie gelanceerde Speerpunt bleef verschijnen als militantenblad van de SMO. De SB onderhield contact met gelijkgezinde groepen in Europa en werkte in België samen met het Scoutsverbond Delta (cfr. supra).

Van Mierops overlijden in juli 1979 en de betrokkenheid van SMO’ers bij een VMO-aanval op een progressieve boekhandel in Mechelen in februari 1980 betekenden het einde der SB.

Vier tekortkomingen van de naoorlogse neo-Dinaso-beweging

1. Politiek marginaal

De Belgischgezinde neo-Dinaso-strekking rekende op de koning als spil van een nieuw regime. Doch hoewel Leopold III tijdens de Koningskwestie en Boudewijn tijdens de Congocrisis wel voorstander waren van een technocratisch kabinet met sterke vorstelijke inbreng, zou de naoorlogse monarchie toch een systeemondersteunende kracht worden.

De neo-Dinaso’s hadden bovendien het probleem dat in de naoorlogse Belgische politiek de tegenstellingen nooit groot genoeg waren om tot een fatale maatschappelijke kortsluiting te leiden. De pacificatiedemocratie slaagde er in om te vermijden dat de door de conservatief-revolutionaire neo-Dinaso’s verfoeide partijpolitiek in mekaar stortte. Na afloop van de repressie, Koningskwestie en Schoolstrijd werd de eendracht in het politieke centrum niet meer ernstig bedreigd.

Het gebruikelijke neo-Dinaso-recept – politiek en economisch corporatisme – was tijdens de jaren 1930 algemeen aanvaard in het politieke discours. Maar door de Tweede Wereldoorlog konden de liberale en marxistische krachten dit buiten de politieke consensus plaatsen. Dat versterkte nog vanaf de jaren 1960 door de fundamentele sociaal-economische en culturele transformatie van de maatschappij. Bijgevolg werd corporatisme enkel nog gecultiveerd in de politieke marginaliteit. De neo-Dinaso’s bleven de maatschappelijke evolutie echter volgens hun compleet verouderde inzichten interpreteren. De instroom van nieuwe aanhangers was bijgevolg zeer gering. Geen enkele groep slaagde er in om meer dan enkele honderden – tot de jaren 1960 – of tientallen – vanaf de jaren 1970 – aanhangers te werven, waardoor op ieder nieuw initiatief vaak weer dezelfde gezichten opdoken.

Op staatkundig vlak verging het de neo-Dinaso’s nog slechter. De Benelux kon zich nooit volwaardig ontwikkelen en bracht daardoor geen nationaal bewustzijn op gang. Het herstel der historische Nederlanden bleef een elitair idee.

2. Achterhaalde standpunten

De neo-Dinaso’s bleven archaïsche ideeën hanteren: ze mankeerden een groot denker als Joris Van Severen om de boodschap van het Verdinaso aan te passen aan de naoorlogse context van Koude Oorlog, dekolonisatie, amerikanisering, mei ’68, secularisering, vervaging van normen en zeden, … Bijgevolg slaagden ze er niet in om een nieuwe synthese te maken van de actuele maatschappelijke situatie. Geen enkele neo-Dinaso-groepering kon een alom bekende kopman naar voor schuiven, die een geactualiseerd gedachtegoed vlot kon verwoorden en aldus aan de man te brengen.

Alleen inzake de opkomende federalisering slaagden de neo-Dinaso’s er in om een nieuw standpunt – namelijk een zesledig federalisme – te formuleren, hoewel ook dit eigenlijk al min of meer door Van Severen vertolkt was. Het provinciaal federalisme vond in de jaren 1960 gehoor bij de Franstalige katholieken. Het tweeledig federalisme boezemde hen immers angst in gezien hun minderheidspositie in Franstalig België. Pierre Nothomb citeerde in dat verband zijn vriend Joris Van Severen tijdens een senaatsdebat in 1960 over de oprichting van Nederlandstalige en Franstalige adviserende cultuurraden: “Combien de fois m’a-t-il [Van Severen] dit, et ses plus beaux écrits en témoignent, que le fédéralisme à deux serait mortel pour la Belgique”. Toen de regering-Lefèvre-Spaak (1961-1965) effectief over de aanpassing der staatsstructuren begon te praten, verdedigde de PSC tijdens de voorbereidende onderhandelingen steeds een provinciale decentralisatie. Toch zou het idee het niet halen: na de staatshervorming van 1970 vond het geen relevant draagvlak meer.

3. Verkeerde achterban

Tot het einde der jaren 1950 werkten veel neo-Dinaso’s via het flamingantisme, vooral in de jeugdbeweging. Aangezien na de oorlog zelfs voor het flamingantisme België opnieuw het onbetwiste vaderland werd, hoopten de neo-Dinaso’s hun staatkundige project te kunnen opleggen aan de Vlaamse Beweging. Dit zou echter tevergeefs blijken. Ook hun onverdachte oorlogsverleden en soms zelfs goede vaderlandse verdiensten waren in flamingantische kringen eerder een nadeel. De kloof tussen flaminganten en Belgischgezinde neo-Dinaso’s werd nog uitgediept door de neo-Dinaso-visie op de collaboratie, repressie en epuratie. De Belgischgezinde neo-Dinaso-beweging slaagde er bijgevolg niet in om allianties sluiten met het flamingantisme.

Met de nieuwe opkomst van het flamingantisme in de jaren 1960 verdwenen de neo-Dinaso’s in de marge. De tijdelijke tactische pogingen tot beïnvloeding van het flamingantisme door infiltratie mislukten. De kloof tussen taalnationalisme en de Dietse Rijksgedachte bleek te diep.

Met Franstalige Derde Weg-groeperingen werden wel allianties gesloten, maar deze mislukten telkens weer doordat zij hun Belgisch nationalisme niet altijd wilden koppelen aan Heel-Nederlandisme. Ook in het progressieve Nederland werd tevergeefs steun gezocht voor solidarisme en zelfs voor staatkundige eenmaking. Een Heel-Nederlandse en solidaristische beweging kan dus alléén in België ontstaan én de kern ervan moet in het demografisch en economisch dominante Belgisch-Vlaanderen en Belgisch-Brabant liggen.

4. Veronachtzamen van kernaspecten van het Verdinaso:

Hoewel de reputatie van de geüniformeerde DMO – hét paradepaardje van het Verdinaso – tot op heden nazindert, richtten de neo-Dinaso’s deze oermilitie niet opnieuw op. De Joris Van Severen-Ordewacht en de (D)SB-militie Verbond van Solidaristische Militanten/Solidaristische Militanten Orde waren de enige uitzonderingen. Dat Louis Gueuning van bij zijn toetreding tot het Verdinaso het militarisme afwees, verklaart ook waarom hij nooit een nieuwe militie oprichtte. Het succes van de in 1950 opgerichte flamingantische VMO – die grotendeels op de roemruchte DMO geïnspireerd was – bewees nochtans dat dit zeer sterk kon bijdragen tot het welslagen van een politieke beweging. Immers, zowel praktisch – voor het veilig laten doorgaan van bijeenkomsten en manifestaties – als propagandistisch – door het houden van parades met vlaggen en muziekkapel – bleek zoiets een enorm voordeel. Mét een militie zou bijvoorbeeld het congres van de eerste Volksunie in 1949 nooit verstoord zijn door politieke tegenstanders en had dit project wel een kans op slagen gehad.

De neo-Dinaso’s richtten ook het Verdinaso zelf nooit terug op. Alleen Paul Persyn lanceerde in 1951 opnieuw Hier Dinaso! en droomde van een nieuw Verdinaso, maar na de overname door Gueuning veranderde deze de naam in De Uitweg en verdween het Verdinaso-kenteken op de voorpagina. Dat toonde aan dat Gueuning duidelijk een andere richting wou volgen dan Van Severen.

Geen enkele neo-Dinaso-groepering bouwde een totale structuur op naar het voorbeeld van het Verdinaso met een jeugdbeweging, een studentenorganisatie, een militie, een vakbond, een landbouwersorganisatie, eigen medewerkers, … Kortom, men had geen contact met de reële maatschappij en kon daardoor nooit een brede achterban opbouwen. Nochtans blijkt uit het relatieve succes van de tweede Joris Van Severen-Orde, het Joris Van Severen-Komitee en van de (D)SB dat er wel degelijk een potentieel bestond voor een nieuw Verdinaso.

Tegen hun ideologische overtuiging in waagden sommigen zich ook aan partijpolitieke experimenten. Dat kon niet anders dan verkeerd lopen. Bij heel wat neo-Dinaso’s verwaterde tevens het solidaristische en katholieke gedachtegoed, waardoor zij zich louter tot Heel-Nederlandisme beperkten en dus ver afdwaalden van de oorspronkelijke doelstellingen voor een conservatief-revolutionaire herordening van de maatschappij. Veel neo-Dinaso-groepen beperkten zich ook te veel tot nostalgische Van Severen-verering in plaats van het concretiseren van politieke doelstellingen.

Conclusie

Joris Van Severen werd ideologisch vooral bepaald door de diverse stromingen van de Conservatieve Revolutie en eindigde finaal bij de Jong-Conservatieve strekking. Hoewel het Verdinaso aanvankelijk kortstondig een anti-Belgische tendens kende, herdefinieerde Van Severen de staatkundige opvattingen van het Verdinaso grondig. Het nieuwe staatkundige objectief omvatte nu het grondgebied der Bourgondisch-Habsburgse Nederlanden. Deze eerste Nieuwe Marsrichting werd later nog verfijnd en grondig uitgewerkt. Door deze diepgaande evolutie ligt het eigenlijke zwaartepunt van het Verdinaso ná 1934. De sociaal-economische ideologie van het Verdinaso omvatte niet enkel het politieke niveau, maar was een totaalsysteem van het menselijk handelen en denken.

De invloed van de Leider bleef decennialang bestaan en bestaat zelfs nog steeds. De neo-Dinaso’s zijn heden echter nagenoeg uitgestorven, hoewel de Dinaso-geest nog steeds jongeren inspireert. De naoorlogse neo-Dinaso-beweging oogstte door haar 4 tekortkomingen weinig succes. Primo stonden de neo-Dinaso’s immers totaal geïsoleerd, secundo waren hun standpunten politiek achterhaald, tertio richtten ze zich op een verkeerde achterban en quarto veronachtzaamden ze enkele kernaspecten van het Verdinaso. Hierdoor vormden de diverse neo-Dinaso-groeperingen nooit meer dan bescheiden groupuscules.

De (D)SB van Maarten Van Nierop was in 1969-1980 de eerste én enige poging om een geactualiseerd Verdinaso op te richten. Er leek zelfs even wat meer eenheid te komen onder de neo-Dinaso’s door de fusie met het Solidaristisch Verbond. Er was met het Verbond van Solidaristische Militanten/Solidaristische Militanten Orde zelfs een militie. Daarnaast waren er ook goede contacten met de jeugdbeweging Scoutsverbond Delta en met de Franstalige studentenbeweging Révolution Européenne, waardoor zelfs een bredere beweging in de maak leek.

Referenties

1. Boeken:

CAILLIAU (M.), Staf Vermeire 1926-1987. Diets jeugdleider en rebel, Turnhout, Oranjejeugd vzw, 1988, pp. 64.

CAILLIAU (M.) e.a., Louis Gueuning 1898-1971. Een leven in rechtlijnigheid, Turnhout, Oranjejeugd vzw, 1991, pp. 47.

DE BRUYNE (A.), De Kwade Jaren, deel 4, Brecht, Uitgeverij De Roerdomp, 1973, pp. 318.

DE BRUYNE (A.), Joris Van Severen. Droom en daad, Zulte, Oranje Uitgaven, 1961, pp. 342.

DELAFORTRIE (L.), Joris Van Severen en De Nederlanden. Een levensbeeld, Zulte, Oranje Uitgaven, 1963, pp. 272.

DE SCHRIJVER (R.) e.a., Nieuwe Encyclopedie van de Vlaamse Beweging, 3 delen, Tielt, Uitgeverij Lannoo, 1998, pp. 3799.

DE WEVER (BR.) en DE WEVER (BA.), Groot-Nederland als utopie en voorwendsel, in: DEPREZ (K.) en VOS (L.) eds., Nationalisme in België. Identiteiten in beweging 1780-2000, Antwerpen-Baarn, Houtekiet, 1999, pp. 352.

EGGERMONT (V.), Van Sint-Arnout tot Jeugdverbond Der Lage Landen (1945-1956). Poging tot een nieuwe jeugdbeweging. Een algemeen historische benadering, Antwerpen, 1999, pp. 105.

HEYLEN (G.) en HEYLEN-KIEBOOMS (B.), Louis Kiebooms. Christen-democratisch journalist en politicus. Vijf jaar politieke gevangene en voorvechter van de amnestiegedachte, Kapellen, Uitgeverij Pelckmans, 1995, pp. 287.

LERMYTE (J.M.) en VAN SEVEREN (A.), Jules De Clercq. Vlaams voorman, Izegem, NV Arizona, 2000, pp. 205.

PAUWELS (L.), De ideologische evolutie van Joris Van Severen (1984-1940). Een hermeneutische benadering, in: Jaarboek van het Studie- en Coördinatiecentrum Joris Van Severen, nr. 3, Ieper, 1999, pp. 272.

TODTS (H.), Nationalistische stromingen en gedachten in Vlaanderen. Na de bevrijding, Antwerpen, Adauperta, 1950, pp. 63.

VAN HOOREBEECK (M.), Oranje dassen 1944-1961. Geschiedenis van het Algemeen Diets Jeugdverbond, Uitgeverij De Nederlanden, Antwerpen, 1986, pp. 166.

WILS (Lode), Joris Van Severen, Leuven, Davidsfonds, 1994, pp. 72.

 

2. Tijdschriftartikels:

DE WEVER (B.), De schaduw van de leider, in: Belgisch Tijdschrift voor Nieuwste Geschiedenis, nr. 1-2, jg. 31, 2001, pp. 177-252.

VERHOEYEN (E.), L’Extrème-droite en Belgique III. Les mouvements solidaristes, in: Courrier Hebdomadaire du C.R.I.S.P., nr. 715-716, 26 maart 1976.

 

3 Licentiaatsverhandelingen:

CREVE (J.), Het Verdinaso en zijn milities. Militievorming tussen beide wereldoorlogen in Vlaanderen en Nederland (1928-1941), Gent, onuitgegeven licentiaatsverhandeling, UG, 1985, pp. 259.

JANSSENS (P.), Les Dinasos wallons: 1936-1941, Luik, onuitgegeven licentiaatsverhandeling, ULg, 1982, pp. XVI + 291.

VAN DEN BOSSCHE (R.), De maatschappijleer van het Verdinaso en zijn katholieke achtergrond, Leuven, onuitgegeven licentiaatsverhandeling, KUL, 1977, pp. XXIX + 248.

 

 

vendredi, 27 septembre 2013

Les référendums vont être interdits en Europe

Les référendums vont être interdits en Europe

 

Du moins, dans un silence total, c’est ce qui se préparerait, l’interdiction de toute consultation populaire si ce n’est au niveau régional, donc très éloigné des décisions importantes. Nous y voilà, un pas de plus vers la dictature totale régie par des non-élus simplement par ce qu’ils ont de plus en plus peur de nos votes et de nos opinion! Vous râliez que nos dirigeants ne nous laissaient pas la parole sur les grands débats comme le « mariage pour tous » pour ne citer que cela? Cela sera bientôt pire et inscrit directement dans la constitution!

 

La Sixième Réforme d’état interdit toute consultation populaire sur l’UE

- Lisez ici la proposition de loi qui interdit toute consultation populaire sur l’UE

Nous acceptons cela?

Info Assemblée Citoyenne 5 octobre

JE M’INSCRIS POUR L’ASSEMBLEE CITOYENNE

Voir aussi facebook
Contact: constituante.be@gmail.com, 0497/23.07.60 (nl), 083/65.63.85 (fr)

Notez aussi

- 30/09: Débat sur la démocratie à Saint-Nicolas
– 19 et 20 décembre: Action Sommet Européen: voir www.d19-20.be

 

Drones. L'absence de l'industrie européenne

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Drones. L'absence de l'industrie européenne

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

On peut se demander pourquoi, alors que tous les grands pays, et d'autres plus petits, sont en train de se doter de flottes de drones, l'industrie européenne tourne le dos à ces perspectives prometteuses.

Les drones (UAV en anglais, unmanned aerial vehicule) ) disposent de multiples possibilités. Ceci grâce aux différentes versions actuellement développées, depuis la taille d'un avion de combat traditionnel à celle d'un petit oiseau voire d'un gros insecte. Comme nous l'avons plusieurs fois exposé sur ce site, ils représentent un véritable enjeu de compétitivité, non seulement dans le domaine militaire et de la police, mais dans celui des applications civiles (par ex. surveillance des récoltes et plus généralement des écosystèmes) et des outils de recherche fondamentale.

De premiers types de drones ont été depuis la guerre du Vietnam voire auparavant, utilisés par l'US Air Force. Mais il s'agissait d'engins encore primitifs, très liés à un pilotage terrestre de proximité. Les Israéliens, toujours soucieux de moderniser leur défense et conquérir de nouveaux marchés, ont depuis au moins 10 ans compris l'opportunité non seulement stratégique mais industrielle que représente la mise au point et l'exportation de nouvelles générations d'appareils. Les Etats-Unis, avec toute la force de leurs lobbies militaires et industriels, n'ont pas tardé à suivre. Aujourd'hui, ils fabriquent et utilisent des milliers de drones, dont les capacités, non seulement aéronautiques ou concernant l'armement, mais en terme d'intelligence artificielle et de capteurs embarqués, sont constamment améliorées.

Obama en avait fait ces dernières années un élément essentiel des guerres menées au Moyen-Orient, y compris dans le cadre d'opérations « furtives » menées à l'encontre de groupes dits terroristes dans des pays supposés amis comme le Pakistan. De telles opérations suscitent aujourd'hui de plus en plus de protestations de la part de ces pays. Mais elles ne cesseront pas pour autant. Elles pourront être étendues, au moins sous la forme de la surveillance, aux deux grandes zones ou l'Amérique entend maintenir son influence, l'Amérique centrale et la mer de Chine. Peut-être verra-t-on de tels drones opérer également aux frontières orientales de l'Europe, voire en Europe même, à partir de bases de l'Otan, avec l'accord implicite des Etats européens concernés.

Dans le cadre de la compétition mondiale qui met désormais en présence l'Amérique et la Chine, le gouvernement de ce dernier pays a entrepris depuis quelques années de se doter en matière de drones d'une industrie indépendante des technologies occidentales. Il s'agit non seulement de répondre à ses besoins propres en termes militaires, de police ou d'environnement, mais d'alimenter un courant d'exportation pour lequel la Chine disposera de ses avantages habituels, notamment en termes de coûts. Les grands fabricants chinois en matériels aéronautiques et militaires disposent désormais de centres de recherche dédiés aux drones. Ils exposent  leurs prototypes dans les manifestations internationales, comme le Salon du Bourget en France.

Ceci n'a pas manqué d'inquiéter les experts de défense aux Etats-Unis. Un rapport pour 2012 du Defense Science Board, utilisé comme conseil par le Pentagone, prévoit déjà la perte du monopole américain dans le domaine des UAV . Le document est déclassifié et est accessible sur le web (http://www.acq.osd.mil/dsb/reports/AutonomyReport.pdf). La Chine n'a pas fourni de statistiques concernant ses moyens, mais Taiwan estime que l'aviation chinoise dispose déjà de 280 unités, des milliers d'autres étant réparties ailleurs. La flotte chinoise serait donc la seconde au monde, après l'américaine, qui compterait actuellement environ 7000 drones. Dans l'immédiat, il apparaît que la Chine utilisera ses drones dans des zones où elle cherche à imposer se présence militaire: Tibet, Xinjiang, frontières avec le Japon, par exemple. A terme, le rapport fait valoir que les Chinois pourraient en cas de conflit détruire avec succès un porte-avion américain en utilisant des flottilles de drones, bien plus difficiles à contrôler que des flottilles de vedettes.

Le contre-espionnage américain attire aujourd'hui l'attention sur la cyber-guerre que mènerait actuellement la Chine pour détourner les principales données industrielles et de recherche mises au point par les entreprises américaines travaillant pour la défense. Une offensive générale contre des hackers travaillant pour le compte de la Chine se déroule actuellement aux Etats-Unis. Selon la firme américaine FireArm (http://www.fireeye.com/) qui opère dans le cadre de la cyber-défense, une opération massive serait conduite par un groupe de hackers nommé Comment Crew basé à Shanghai. Ceci n'aurait rien d'étonnant, puisque c'est de cette façon que beaucoup d'industriels asiatiques ont pris connaissance des savoir-faires américains et européens. La NSA américaine n'est pas en reste, puisque l'on sait maintenant qu'elle espionne systématiquement toutes les entreprises européennes, civiles ou de défense.

En matière de drones malheureusement, il n'y aurait pas grand chose à espionner en Europe, y compris chez les grands industriels de l'aéronautique et du spatial. Nous avons indiqué en introduction que ni l'Union européenne ni les gouvernements de l'Union n'ont actuellement proposé de politiques industrielles et de recherche sérieuses dans le domaine des drones. Une recherche attentive montrerait cependant que certains programmes sont à l'étude. Mais manifestement leurs ambitions tant militaires que civiles sont timides et lointaines. Les Européens, et la France en premier lieu, se privent ainsi d'un important atout pour le « redressement industriel ». Il faudrait rechercher les responsables de cette démission, qui a certainement profité à certains intérêts (allemands?). Nous ne le ferons pas ici, car une enquête sérieuse s'imposerait, dépassant le cadre de cet article. Bornons nous à signaler cette inadmissible absence des entreprises et du gouvernement français dans un secteur essentiel.

22/09/2013

jeudi, 26 septembre 2013

Land und Meer – Amerikas Ringen mit Europa

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Land und Meer – Amerikas Ringen mit Europa

Bernd Rabehl
 
Ex: http://berndrabehl.wordpress.com

Negative Dialektik: Karl Marx

carl schmitt,max weber,berd rabehl,théorie politique,politologie,sciences politiques,philosophie,allemagne,europe,états-unisIn der Marx’schen Bestandsaufnahme des „Bonapartismus“ und in der Prognose einer „negativen Aufhebung des Kapitalismus auf kapitalistischer Grundlage“ fand die historische Substanz der französischen und deutschen Staatsmacht und die Kooperation von Kredit- und Industriekapital im 19. Jahrhundert Aufmerksamkeit. Das Kreditkapital konnte nach Marx die Herkunft aus dem Wucher- und Spekulationskapital nicht verleugnen. Es trieb zwar die industrielle Akkumulation über die nationalen Reserven hinaus, indem es im Weltmaßstab die brachliegenden Gelder mobilisierte, trotzdem fand es wiederholt Gefallen an Raub, Piraterie, Diebstahl und Betrug. Der Weltmarkt und die Weltmeere wiesen unzählige Schlupfwinkel auf. Gelegenheiten boten sich, wenn „faule Papiere“ angeboten wurden, Aktien, Schuldscheine, Anrechte, Fonds, die irgendwann aufflogen, waren sie doch nur teilweise durch „Werte“, Geld, Gold, Rohstoffe, Immobilien, Industrieanlagen, gedeckt. Hier ließen sich Milliarden von Dollar verdienen. Schon deshalb war das Kreditkapital daran interessiert, einen internationalen „Raum“, Markt oder Niederlassungen zu finden, die nicht von den nationalen Staaten kontrolliert werden konnten. Überhaupt lehnte der „Internationalismus“ dieses Kapitals den Staat oder die Staatskontrolle ab. Es selbst wollte „frei“ und „ungebunden“ auftrumpfen und umgekehrt die staatlichen Eingriffe und Begrenzungen beeinflussen oder festlegen. Deshalb beteiligte sich das Kreditkapital an den neuartigen Staatsgründungen in Frankreich, Europa und Nordamerika. Die bonapartistische Diktatur in Frankreich würde diesem Staat Aussehen und Farbe verleihen.

Der bonapartistische Staat gab die selbstherrliche Form des Absolutismus auf, nutzte jedoch dessen Machtapparate von Polizei und Militär, um die Veränderungen in Gesellschaft und Staat abzusichern. Dieser neuartige Staatstyp entwickelte neue Methoden von Herrschaft, die er aus den Operationen aus Handel, Kredit, Spekulation erschloß und die er mit der Stabilität des Militärabsolutismus verband. Er verstand sich als Einrichtung, über Konjunkturpolitik, Staatsaufträge, Investitionen, die Überproduktions- bzw. Spekulationskrisen und die Massenarbeitslosigkeit zu bekämpfen. Der Staat sollte für die Risiken und Schulden der Machenschaften und Spekulationen aufkommen. Die „Verselbständigung“ der Macht von Kapital und Staat durch eine Präsidialdiktatur bzw. durch eine konstitutionelle Monarchie benötigte neben den alten Machtzentren die neuen Institutionen von Wirtschafts- und Sozialpolitik. Diese kooperierten eng mit der Privatökonomie, mit dem Bankkapital und mit den staatlichen Aufgaben, um die unterschiedlichen sozialen Schichten unter Aufsicht zu halten. Außerdem war dieser neuartige Staat auf politische Bündnisse, Kooperationen der Klassenfraktionen oder auf identische Massenparteien angewiesen. Sie sollten propagandistisch die Klassen auf „Masse“, „Volk“ oder den „Untertanen“ vereinigen. Die Propaganda dieser neuartigen „Partei“ machte Anleihen bei den Religionen bzw. bildete nach deren Vorbild eine „politische Religion“ heraus. Ein Präsident nutzte die neuen Formen von Propaganda und Selbstdarstellung, und er gründete eine Massenpartei, um sich über Wahlkampf und Inszenierung in die Funktion und Rolle eines zivilen „Ersatzkaisers“ zu bringen. Gewerkschaften und sozialistische Parteien sollten durch „utopische Ideale“ übertrumpft und durch die Polizei ausgeschaltet werden. Vor allem in Frankreich und in USA erlangte dieser „Demokratietyp“ politische Anerkennung. Die „negative Aufhebung“ des Kapitalismus mobilisierte diese „bonapartistischen Auftritte“ von Skandal, Medien, Sicherheits- und Militärpolitik, um über den Staat eine Regelung von Wirtschaft und Gesellschaft anzustreben. Es galt außerdem, die Massen ideologisch einzubinden und die finanzpolitischen Ziele des Bank- und Finanzkapitals aufzunehmen. Trotzdem errichteten die alten „Klassen“ aus Staatsapparat, Militär und Grundeigentum gegen diese Interventionen in Wirtschaft und Staat Hindernisse.

Indessen hatten die USA in ihrem bonapartistischen „System“ der „Transformationen“ und der „Aufhebung“ nicht die historischen Blockaden Europas. Als Präsidialmacht unter dem Einfluß von zwei identischen Großparteien wurde der „bonapartistische Putsch“ bei jeder Präsidentenwahl wiederholt und friedlich erledigt. Dadurch verliefen die Interventionen des Finanzkapitals nach einem einfachen Muster. Sie finanzierten die aufwendigen Wahlkämpfe. Der „Präsident“ lief nicht aus dem Ruder, wenn er auf ihre Geldspenden und Ratschläge angewiesen war. Sie sorgten dafür, daß die entstehende Großmacht die Handelswege und Finanzoperationen deckte und zugleich über die Flotte und das Militär den Zugriff auf die Weltrohstoffe sicherte. Hier wirkte eine Weltmacht, die die Weltmeere und Kontinente beherrschen wollte und die den europäischen Imperialismus überall zurückdrängte. Über die Handels- und Menschenrechte, über Militärstützpunkte und abhängige Regierungen oder über die Stärke der Wirtschaft und des „Dollars“ ließen sich alle Grenzen öffnen. Die „inszenierte Demokratie“ von Wahlen und Parteien war den bonapartistischen Manövern in Europa überlegen. In den USA entstand ein dynamischer Kapitalismus, der die Staatseingriffe für seine Operationen nutzte. Für Marx war diese vorerst letzte Form von Kapitalismus keine Alternative zum Sozialismus. Der nordamerikanische Kapitalismus würde zu keinem Zeitpunkt den bonapartistischen Aufbau von Staatsmacht und potentieller Diktatur abschütteln können. Ähnlich wie im europäischen „Bonapartismus“ lagen ihm die „Explosionen“ von Krisen, Kriegen, Armut, Arbeitslosigkeit, Chaos und Selbstzerstörung zugrunde. Nur mit „Ausnahmegesetzen“ ließen sich derartige Deformationen bekämpfen.

Die USA konnten nach Marx den europäischen Kapitalismus und die einzelnen Mächte übertrumpfen, trotzdem ließ sich die immanente „Negativität“ nicht positiv aufheben. Der alte Revolutionär Marx konnte sich nicht vorstellen, daß die sozialistische Arbeiterbewegung scheitern würde, deshalb erhob er die „Pariser Kommune“ zum Symbol des kommunistischen Manifests. Der „bonapartistische Staat“ mußte zerschlagen werden. Die Rücknahme der Funktionen des Staates in die Selbstverwaltung der Produzenten ermöglichte erst die Einrichtung der sozialen Demokratie und die Garantien der politischen Freiheit. Marx skizzierte in den Analysen der „bonapartistischen Form“ von Staat und Kapital die Kriege und Diktaturen im 20. Jahrhundert. Allerdings ließ seine „dialektische Sicht“ nicht zu, sich einzugestehen, daß ein „realhistorischer Sozialismus“ in Europa die traditionellen Herrschaftsformen aufnahm und radikalisierte und gegen Nordamerika sich nicht behaupten konnte. Die USA und nicht die Arbeiterklasse würden jedoch Europa vor dem „Untergang“ retten.

Zur Theorie des Finanzkapitals: Rudolf Hilferding

Die sozialdemokratischen Analytiker des Finanzkapitals, etwa Rudolf Hilferding und Otto Bauer, berücksichtigten die Veränderungen in den Funktionen des Kreditkapitals, die sich unmittelbar auf die kapitalistische Produktion auswirkten. Das Industriekapital wurde durch die Kooperation mit den Kreditbanken in die Lage versetzt, die eigenen Verwertungs- und Kapitalgrenzen zu übersteigen. Das brachliegende Geld der Gesellschaft wurde durch diese Banken aufgenommen und als Fremdkapital den Einzelbetrieben zur Verfügung gestellt. Sie investierten in die neuen Technologien. Das Finanzkapital absorbierte als ökonomische und politische Macht das Industriekapital. Kartelle und „Syndikate“ entstanden, die als konzentrierte Betriebe oder zentrale Einheiten einzelne Industriebranchen überspannten. Partiell mauserte es sich zum „Weltkapital“, wenn es die Herrschaft über einzelne Rohstoffe, Währungen oder Staaten antrat. Der „moderne Imperialismus“ beruhte deshalb auf Rüstung, Kolonialismus und Militarismus. Daneben repräsentierte er die Geldmacht, den Reichtum und den Anschein von Demokratie und Medienmacht. Zugleich war das Kapital versucht, die Staatseliten unter Kontrolle zu nehmen, um die Staatsverschuldung, die Währungspolitik und die Rüstungswirtschaft unter Aufsicht zu halten. Das gelang nur bedingt, denn die Militärs und Rüstungspolitiker ließen sich als „alte Klassen“ auf die verschiedenen Ansätze von Einflußnahme und „Korruption“ nur bedingt ein. Sie verfolgten durchaus eigene Interessen.

Die wachsende Arbeitslosigkeit und die Existenz der alten Klassen machten zugleich auch politische Maßnahmen notwendig, die Macht von Kapital und Staat ideologisch und politisch abzusichern bzw. die Kritik der sozialdemokratischen Opposition abzuschwächen und zu überspielen. Das „Ideologische“ erlangte für das Finanzkapital neben der Finanzspekulation eine neue Bedeutung. Für die sozialdemokratischen Theoretiker gab es die Konkurrenz und die Kombinationen des alten Staates mit dem Finanzkapital. Neben der Planung und Organisation des Kapitalismus stritt man in Fragen von Flottenbau und Kolonialpolitik. Zugleich wurden Tendenzen zur Selbstzerstörung und Krieg durch Militärbündnisse und den Aufmarsch der kontinentalen Armeen sichtbar. Aufrüstung und Kriegsvorbereitung stärkten die alten Eliten und gaben dem Finanzkapital neue Potentiale der Einflußnahme. Die Sozialpolitik zwang zur Integration von SPD und Zentrum in den Staatsapparat. Hier lag die politische Chance der Sozialdemokratie, gegen die alten Eliten und das Finanzkapital eine neue Ordnung einzuführen. Das Finanzkapital in Deutschland war zugleich daran interessiert, politische Parteien zu unterstützen, die dem Krieg und der Rüstung zugewandt waren und mit den alten Klassen kooperieren konnten. In der Kriegswirtschaft klappte die Zusammenarbeit mit den Gewerkschaften. Nach 1918 wurden die gegenrevolutionären Kräfte, Parteien, Freikorps und Vereinigungen unterstützt.

Im Selbstverständnis des Finanzkapitals verkörperte der entstehende Nationalsozialismus die politische Chance, ideologisch und politisch die eigene Macht gegenüber den Staatseliten und der Linksopposition zu stärken. Die Notwendigkeit einer Vermittlung von Ökonomie und Ideologie war in Deutschland genauso gegeben wie in den USA. Deshalb befand sich das „Finanzkapital“ Europas in einem Übergang zu „freien Formen“ der Herrschaft, die die Bindung an die alten europäischen Mächte abstreifen würden. Die Zerschlagung des alten Staates schuf die Voraussetzungen für die finanzkapitalistischen Initiativen, entweder die bestehende Demokratie zu kooptieren oder eine Diktatur zu favorisieren. In Deutschland wurden die Experimente der Notverordnungsdiktaturen nach 1933 ersetzt durch die Kooperation mit der NSdAP. Die „große Koalition“ von Gewerkschaften, SPD und Zentrumspartei, die eine Militärdiktatur tragen sollte, barg die Risiken einer „sozialistischen Planwirtschaft“ gegen das Finanzkapital. Die Nazis versprachen eine massive Aufrüstung und waren für die Wirtschaftseliten leichter handhabbar. Sie sollten sich irren. In Zentraleuropa blieben vorerst die Wege der USA verschlossen. Der Ballast der Vergangenheit drängte zu diktatorischen Lösungen. Der „organisierte Kapitalismus“ öffnete sich nicht dem Rechtsstaat und bildete keinen Übergang zum Sozialismus. Hilferding als Wirtschaftspolitiker mußte seinen theoretischen Irrtum einsehen. Die Kooperation des Medienkapitals mit dem Finanzkapital und der Einsatz einer Propaganda- und „völkischen“ Partei bewiesen ihm, daß gegen die gespaltene Arbeiterbewegung eine neuartige, politische Front die Bedingungen von Politik festlegte und zur totalen Macht strebte. Die Beziehungen der SPD und der Gewerkschaften zum Finanzkapital bargen die Gefahr, daß die sozialistische Arbeiterbewegung zurückgedrängt und ausgeschaltet wurde.

Die Bonapartismusanalyse  und die Bestimmungen der „negativen Aufhebung“ des Kapitals, die Marx vorgelegt hatte, wurden durch Hilferding ergänzt: die Koexistenz von Rüstung, Medien und Finanzspekulationen lief darauf zu, das Volk neu zu „ordnen“ und über die Propaganda und die Staatsmacht zu kontrollieren. Damit wurden die wichtigsten Voraussetzungen für Kriegsvorbereitung erfüllt. Das US-amerikanische Finanzkapital hatte nach Hilferding Anteil an der Kredit- und Pleitepolitik während der Weltwirtschaftskrise in Deutschland. Hier stand es allerdings in Konkurrenz zur deutschen Variante der Finanzoperationen. Es besaß jedoch andere Ausmaße und Möglichkeiten und sicherte sich weltweit ab. Außerdem wurde es in USA nicht gezwungen, in den politischen Radikalismus zu investieren. Die zwei identischen Volks- und Medienparteien in USA erfüllten ihre politische Aufgabe, ohne in offen totalitäre Ziele überzuleiten. Der „Sozialismus“ in Gestalt einer Partei und Gewerkschaft konnte in den Vereinigten Staaten keine sozialen Grundlagen gewinnen. Das Finanzkapital mußte sich nicht wie in Europa um überbrachte Herrschaftstraditionen, radikale Parteien oder sozialistische Gewerkschaften kehren. Es konnte sich weiterhin „frei“ entwickeln. Der europäische Bonapartismus, Faschismus oder Nationalsozialismus konnten die kontinentalen Bindungen nicht abwerfen. Die USA als Imperium und Seemacht dagegen waren von allen Fesseln der Tradition entbunden. Sie zeigten sich offen für die vielfältigen Experimente in der Machttechnik und in der Inszenierung von Politik.

Revolution und Tradition: die Wiedergeburt der russischen Großmacht

Georgij Plechanov entwarf in seiner Schrift „das Jahr in der Heimat“ von 1917/18 ein Bild des „Roten Oktobers“, das die Differenz des russischen Bolschewismus zum „Westen“ und zu  den  Menschewiki herausstellte und zugleich die russischen Grundmuster von „Staatlichkeit“ im Bolschewismus unterstrich. Ähnlich argumentierte Karl Kautsky zum gleichen Zeitpunkt in seiner Skizze über „Terrorismus und Kommunismus“. Die bolschewistischen Theoretiker um W. I. Lenin, N. Bucharin, Leo Trotzki und später J  W. Stalin lösten sich in ihren Theorien von Partei und Revolution nicht von der russischen Tradition despotischer und asiatischer Macht. Die bolschewistische „Revolution“ würde diese historischen Grundlagen aktualisieren und den Methoden der bonapartistischen Herrschaft anpassen und überbieten. In der Parteiauffassung wurde eine Elitekonzeption vertreten, die sich am politischen Gegner aus dem Staatsapparat und an der Tradition der terroristischen Staatsgewalt der „großen Zaren“ messen wollte. Die bolschewistischen Berufsrevolutionäre waren überzeugt, daß das russische Volk in der Mehrzahl die vorkapitalistischen Verhältnissen nicht aufgegeben hatte. Eine revolutionäre Diktatur konnte das Wagnis auf sich nehmen, dieses Volk hineinzunehmen in Aufgaben einer forcierten Industrialisierung und Umwälzung der Gesellschaft. Es ließ sich von oben über Terror und Propaganda zur „werktätigen“ Masse vereinen. Die Revolutionäre distanzierten sich von den archaischen Völkern Rußlands und setzten auf eine umfassende Staatsgewalt, die vielen Völker den unterschiedlichen Formen von Zwangsarbeit und einer „großrussischen Vision“ zu unterwerfen. Über Partei, Massenorganisationen, Propaganda, Bildung, Militär und Polizei wurde die Gesellschaft „verstaatlicht“, eine Zielsetzung, die der „bonapartistische Staat“ im Westen kaum erfüllen konnte. Die Parteiavantgarden würden dieses Volk über Terror und Disziplin einspannen in die „historischen“ Aufgaben, das rückständige und hoffnungslose Rußland in das industrielle Zeitalter zu wuchten. Es würde nur eine „Partei“ geben, die als Massenpartei auf ein Machtzentrum konzentriert wäre, ein Machtzentrum, das die Ziele von Politik und „Transformation“ diktierte. Dieses Zentralbüro war faktisch als eine „Verschwörung“ gegen Staat und Volk anzusehen. Es besetzte jedoch den Staat über eine allmächtige Geheimpolizei und sorgte über sie für die Koordination der unterschiedlichen Staatsaufgaben. Zugleich besetzten diese „Verschwörer“ die Gesellschaft, indem neben dieser „Sozialpolizei“ Massenorganisationen als die Übersetzer der Propaganda und der Umerziehung dienten. Der Machtaufbau konditionierte neben der despotischen Herrschaft die Elemente von Mafia oder der kriminellen Banden aus den kaukasischen Gebieten zur Staats- und Machtstruktur.

Die alten Klassen hatten sich bis 1917 den Aktivitäten des ausländischen Kapitals unterworfen, vorsichtig die russische Wirtschaft der ursprünglichen Akkumulation des Kapitals zu öffnen. Der westliche Imperialismus hatte seine finanzielle und industrielle Macht genutzt, die Bodenschätze in Besitz zu nehmen, Industriezentren zu schaffen und Rußland in Abhängigkeit zu bringen. Im Ersten Weltkrieg wurde dieses Land in die Kriegskoalition mit den Westmächten gegen das deutsche Kaiserreich gezwungen. Für das westliche Finanzkapital brachte es ein riesiges Blutopfer. Aus diesen Gründen bemühten sich die Bolschewiki nach 1917, diesen staatlichen Überbau und die Keimformen der „westlichen Klassen“ und ihrer Gesinnung zu zerstören. Der alte Macht- und Staatsapparat mußte zerschlagen werden, schon um die anstehenden Umwälzungen nach russischen Maßstäben durchzuführen. Außerdem mußten alle Ansätze des westeuropäischen Rechtsstaates und der Konstitution aufgelöst werden. Alle Bindungen an den „Westen“ wurden zertrümmert. Eine Diktatur als Kombination einer traditionell asiatischen Macht und des Planstaates würde das historische Werk des industriellen Fortschritts vollenden. Aller Widerstand im Volke mußte über einen permanenten Krieg gegen die „Volksfeinde“ gebrochen werden. Zum „Feind“ wurden jede Form von Widerspruch, Liberalismus und Sozialdemokratie genauso gerechnet wie die westlichen Einflüsse im „jüdischen Bolschewismus/Trotzkismus“ oder die archaischen Relikte des alten Rußland.

Terror und Propaganda wurden zur „Produktivkraft“ erhoben und galten als das gesellschaftliche Mittel, über Zwangsmaßnahmen jede Opposition einzuschüchtern und die Jugend in die freiwerdenden Positionen einzubinden. Die Willkür im Terror folgte einer asiatischen Herrschaftstechnik wie sie auch schon das Handeln Ivans des Schrecklichen kennzeichnete, alle potentiellen Ansätze von Fraktion, Cliquen und Klüngel, Schlamperei, Bürokratismus oder Widerstand zu zerschlagen und Chaos und Angst zu schüren, um darüber die Hingabe der Massen an den „großen Führer“ zu erreichen. Stalin bewies später über Zwang und Massenterror seine „Unfehlbarkeit“ als gottgleicher Herrscher über Leben und Tod und ließ sich von seinem Volk durch Paraden, Aufmärsche, Prozessionen und Kulte feiern, die an die Huldigungen für „Alexander des Großen“ durch sein Volk und seine Krieger erinnerten. Eine „kulturellen Revolution“ als die Mischung von Terror und Propaganda zerstörte jede „proletarische“ oder bäuerliche Eigenständigkeit und verfolgte das Ziel, eine absolute Unterwerfung zu erzwingen. Die revolutionäre Diktatur umwarb die Jugend und erneuerte die Gesellschaft durch einen permanent durch tschekistische Säuberungen herbeigeführten Generationenaustausch. Riesige Produktionsschlachten und Technikkriege mußten in der Zukunft bestanden werden. Mit dieser Mobilisierung konnten die russischen Partisanen und die Rote Armee der deutschen Wehrmacht widerstehen. Millionen Soldaten wurden in diesen Kriegen geopfert. Das revolutionäre Rußland würde das Symbol der europäischen Landmacht stellen und sich gegen die USA nach 1945 positionieren. Es profilierte sich als die letzte europäische Großmacht.

Das Religiöse wurde vorerst von der russischen Orthodoxie  gelöst und eingebunden in eine „politische Religion“, die gleichzeitig die Arbeitsethik mit Patriotismus, Disziplin, Gehorsam und Unterwerfung verbinden mußte. Außerdem mußte sie so etwas bieten wie Weltanschauung und Parteilichkeit. Der Marxismus – Leninismus setzte die Distanzierung zur Tradition, die von Marx und der europäischen Sozialdemokratie eingeleitet wurde, nicht fort. Die bolschewistische Ideologie blieb in der russischen Tradition von Despotie und theologischer „Parteilichkeit“ befangen. Deshalb radikalisierte und inspirierte diese Ideologie das Revolutionsdenken in Asien, vor allem in China und beeindruckte das konservative Denken in Deutschland und Westeuropa.

Der russische Bolschewismus als Staatsmacht enthielt bonapartistische und faschistische Elemente, behauptete in den dreißiger Jahren auch Leo Trotzkij. Als „Transformationssystem“ von Partei und Propaganda kopierte der Stalin’sche Bolschewismus den bonapartistischen Staat und übertraf ihn. Als Terrorapparat, Geheimpolizei, Zwangsarbeit, Massenmord, Säuberung und Liquidation der Revolutionskader von 1917 war er auf die uralten Herrschaftstechniken asiatischer Despoten ausgerichtet. Die Anlage der riesigen Arbeitslager und einer Militärindustrie außerhalb der zivilen Produktion nahm die nationalsozialistischen Konzentrationslager vorweg, gab ihnen jedoch über die Zwangsarbeit eine andere Funktion. Die bolschewistische Macht bekämpfte die westlichen Ideen von Freiheit und Sozialismus. Die USA wurden zum Hauptfeind. Der Stalin’sche Terrorstaat überbot die europäischen Traditionen von Absolutismus und Militärmacht und verknüpfte sie mit den asiatischen Zielen, Massen zu zügeln und zum Einsatz zu bringen. Das bolschewistische Rußland bildete eine Landmacht, deren Wurzeln fernöstliche Traditionen aufnahm, zugleich ließ es sich vom Nationalsozialismus beeindrucken. Die ursprüngliche Akkumulation des Kapitals und die industrielle Revolution wurden über die Staatswirtschaft und Rüstungsindustrie geregelt. Ein „permanenter Kriegskommunismus“ schaffte sogar den Anschluß an das westliche Technikniveau, war allerdings der Konkurrenz mit der kapitalistischen Produktivität nicht gewachsen. Die Reformen stießen an die Grenzen von Mentalität und Tradition. Irgendwann wirkte der innere Bürgerkrieg kontraproduktiv. Die Planwirtschaft brach zusammen. Die „Partei“ unter Michail Gorbatschow beendete erst 1989 das bolschewistische Experiment.

Konservative Reaktionen auf Krieg und Revolution: Max Weber

Inwieweit die konservativen Soziologen und Verfassungsrechtler Marx, Hilferding, Lenin, Trotzki oder Stalin gelesen hatten, läßt sich schwer nachweisen.  Sie nahmen jedoch Themen auf, die von den marxistischen Theoretikern angesprochen wurden und die sich historisch aufdrängten. Die Synthese von Militärabsolutismus, „Bonapartismus“ und Tradition beschäftigte die konservativen Denker intensiv. Das Zusammenspiel von Industrie-, Finanzkapital und Staat bildete ein wichtiges Thema. Die Kombination von Religion und Zwang in der modernen Variante von Terror und Propaganda fand Aufmerksamkeit. Die ideologische Mobilmachung, um eine gespaltene Gesellschaft neu zu gestalten oder zu gewaltigen, historischen Aufgaben aufzurufen, beschäftigte die konservativen Denker. Die Umwandlungen und Funktionen der Religion in den modernen Ideologien ergaben sich aus dieser Thematik. Die Ereignisse in Rußland 1905 und 1917 oder in Deutschland nach 1914 im Weltkrieg wurden zur Kenntnis genommen und in einer Neuformulierung konservativer Werte umgesetzt. Wollte der Konservatismus gegenüber Liberalismus, Sozialismus oder Kommunismus an Bedeutung zurückgewinnen, mußte er „revolutioniert“ und aktualisiert werden. Davon waren die politischen Konservativen wie Oswald Spengler,  Max Weber, Werner Sombart, Hans Freyer, Carl Schmitt überzeugt. Die bolschewistischen und faschistischen bzw. nationalsozialistischen Umwälzungen als Folgen von Krieg und Bürgerkrieg beeindruckten die konservativen Denker, weil diese politischen Umbrüche über Staat und „Partei“ die konservativen Ziele und Vorstellungen neu bewerteten. Die Völker wurden über Ideologie und Propaganda neu geformt und in kurzer Zeit zu Krieg und großen Leistungen angespornt. Die alten „Strukturen“ von Macht und Volk wurden reaktiviert und neu gruppiert. Die Konservativen lehnten zwar die Methoden einer „Kollektivierung“ des Volkes oder die totale Mobilmachung ab, trotzdem beunruhigte sie die Flexibilität und Umsetzbarkeit einer Ideologie, die die konservativen Traditionen aufzunehmen und auszubeuten  schien.

Oswald Spengler entdeckte die Grundtendenz der europäischen, westlichen Gesellschaft im Übergang der Demokratie in den „Cäsarismus“. Diese Transformation war nach seiner Überzeugung angelegt im Parlamentarismus und in der Parteienherrschaft. Sie fand ihren Rückhalt in Kriegswirtschaft, Militär und Staatsplanung. Sie bildeten als Organisation und Hierarchie den Boden für die Heraufkunft der neuen Cäsaren. Diese nutzten primär ihre Sonderstellung im Partei- oder Staatapparat, um zur absoluten Herrschaft zu gelangen. Zugleich setzten sie die neuen Medien als Boulevar- und Massenzeitung, als Demonstration und Kundgebung ein, um sich als einmalige Führer und Politiker vorzustellen und durchzusetzen. Über „Führerkulte“ und über eine verengte bzw. „künstliche“ Weltsicht wurden die „Massen“ auf die Diktatur als die „Lösung“ aller Fragen von Krieg und Frieden eingeschworen. Sie wurden vom zukünftigen Diktator poltisch gefügt und geordnet. Die Definition der Massen über Propaganda, Reklame, Illusionen und ihre Reduktion auf Gehorsam und Pflicht, auf den Massencharakter, auf den „Fellachen“,  wurden von Spengler als Voraussetzung angesehen, die bestehende Demokratie in eine Diktatur überzuleiten. Ein Polizei- und Staatsterror verfestigte diese Grundlagen des entstehenden Führermacht. Die Bedeutung des „Geldes“ und die „Fetischisierung“ aller Beziehungen durch Geldgeschäfte bzw. die Rolle der Banken in der Politik erlangten in einer demokratischen Republik Bedeutung, die sich offen zeigte für derartige Machenschaften. Politik, Parteien, Führerpersönlichkeiten wurden finanziert und eigebunden in Privatinteressen. Eine entstehende Diktatur äußerte sich im Aufbau der Parteien und in den Einflußnahmen der Wirtschaft auf  Staat und Politik. Sie leitete eine Endphase von Gesellschaft ein, die außerhalb der Diktatur keine Kräfte besaß, sich zu erneuern oder gar zu demokratisieren.

Für Spengler erfüllte eine derartige Staatsmacht den historischen Auftrag, die westliche Zivilisation endgültig zu zerstören. Sie folgte einer „Wiederkehr“, die die Potenz enthielt, große Kulturen zu schaffen und verschwinden zu lassen. Das neue Europa folgte hier dem historischen Auftrag der Selbstzertrümmerung des antiken Griechenlands und der römischen Kultur. Spengler übertrug die Stimmungen und die Kriegsbegeisterung des Kaiserreichs auf seine Weltsicht. Nicht im obersten Kriegsherrn, im Monarchen, erblickte er den zukünftigen Diktator. Er würde seine „Mission“ und seine „Realität“ aus den Aktivitäten des Generalstabs oder der Parteien herausfinden. Diese Apparate mobilisierten und lenkten die „Massen“ gleichsam für den Krieg oder den Frieden. Sie benötigten die Befehlsgewalt, die in letzter Konsequenz von einem Diktator ausgehen mußte.

Spengler zeigte sich in seinen Untergangsvisionen als Philosoph und Metaphysiker, der den „Naturalismus“, den „Pantheismus“ von Johann W. Goethe und die Lebensphilosophie Friedrich Nietzsche in der Interpretation von Georg Simmel übersetzte. Religionen und Ideologien folgten der Tendenz zum letzten „Cäsar“. Sie bargen keinerlei Geheimnis der Widerwehr oder des Neuanfangs. Der Ausdruck der Schwäche und der Sklavenseele konnte in ihnen entdeckt werden. Als „Sozialismus“, „Liberalismus“ oder „Konservatismus“ nahmen die Ideologien als Übertragung religiöser Gefühle die Interessen nach Diktatur oder Alleinherrschaft auf. Die Gesellschaft interpretierte Spengler als „Pflanze“, als „Organ“, als „Lebewesen“, das die Stadien der Entwicklung und des Alters, Zerfalls, des Todes durchmachte und nun im „Abendland“ an den Endpunkt des „Absterbens“ gelangte. Den „Cäsarismus“ interpretierte er als Lebensgefühl, als Fatalität der grauen „Massen“, die durch den modernen Industrialismus und durch die „Lebenswelten“ von Organisation, Fabrik, Büro, Militär und Propaganda entwurzelt wurden und die sich nach Führung und Befehl sehnten. Ein wissenschaftlicher und soziologischer Zugang zum Weltgeschehen blieb Spengler fremd.

Max Weber, angeregt durch die Kant’sche Philosophie und durch den französischen Positivismus, war angetan von einer „objektiven“ Sichtweise der aktuellen Veränderungen in „Wirtschaft und Gesellschaft“. Ihren inneren Maßstab und Dynamik wollte er erkunden und zugleich die Triebkräfte als Herrschaftsformen und religiöse Motive herausfinden. Er betonte in seinem Hauptwerk, durchaus beeinflußt von den geschichtsphilosophischen Thesen Spenglers, nicht zufällig die Koexistenz der unterschiedlichen Herrschaftsformen in Industrie und Staatsverwaltung. Allerdings weigerte er sich, den Prognosen des “Untergangs des Abendlandes“ zu folgen. In den modernen Demokratie existierte der Widerspruch alter Herrschaftsformen mit den Ansätzen rationaler Arbeitsteilung. Vor allem die protestantische Religion und die ihr entsprechenden Ideologien und Parteien blockierten die soziale Stagnation und schufen in Krisensituationen Auswege und Neuanfänge.

In seinen Studien über die „russische Revolution“ und über die „protestantischen Sekten in Amerika“ stieß er auf die „Produktivität“ von Religion oder religiös aufgeladener Ideologie. In Rußland gelang es den unterschiedlichen Fraktionen der Sozialdemokratie das Volk zu spalten und vom Zarismus und der alten Gesellschaft zu trennen. Unter neuen Vorzeichen wurde die „Größe“ Rußlands propagiert. Wurde diese soziale Umwälzung weiterhin organisiert und gefestigt, würde die sozialdemokratische Ideologie die Ziele einer kulturellen und industriellen Veränderung aufnehmen, ohne die „russischen Werte“ anzutasten. Rußland würde sich über eine Revolution erneuern können und zur Weltmacht aufsteigen. In USA zeigte sich der Protestantismus offen für wirtschaftliche Ziele und Aufgaben. Die Siedler nahmen Entbehrungen auf sich, um das Land zu besetzen und zu bebauen und eine neue Gesellschaft zu errichten. Weber vermutete sogar einen inneren Zusammenhang zwischen Sozialdemokratie und Protestantismus. Das „antike Judentum“ schien nach Weber seit historischen Zeiten eng verbunden mit dem Geschäftsleben und mit der finanziellen Spekulation. Den Bezug zur produktiven Arbeit bestritt er, obwohl er zugeben mußte, daß in dieser Ursprungsreligion viele Reformansätze des Christentums enthalten waren. Werner Sombart dagegen interpretierte im Judentum die Ursachen und Motive einer kapitalistischen Gesinnung. Für ihn enthielt die jüdische Religion die wirklichen Werte und Quellen des kapitalistischen Aufbruchs in der Welt.

Die „Koexistenz der Herrschaftsformen“ bildete den produktiven Rückhalt einer sich wirtschaftlich verändernden Gesellschaft. Weber wußte, daß eine rationale Arbeitsteilung nicht ausreichte, um die Produktivität zu steigern. Das Management mußte sich um die innere Organisation, den „Betriebsfrieden“ und die mentale Zusammenarbeit in der Belegschaft kümmern. Die unterschiedlichen Methoden von Aufsicht und Fürsprache mußten aufeinander abgestimmt sein. Vertrauen mußte über eine Verantwortungsethik der Betriebsführer hergestellt werden. Patriarchalische Herrschaftsverhältnisse existierten gleichzeitig in Familie, Handwerk, Bauernschaft, Bürokratie, Parteien und Armee, obwohl rationale Ansprüche und Rechtsformen vorhanden waren und oft dominierten. Im Kontext der „charismatischen Herrschaft“ wurde das Religiöse, Prophetische oder das Priesterhafte der Generäle, Agitatoren oder Politiker angesprochen. Sie zeigten sich als Meister in der Propaganda, in politischen Mobilisierungen und Parteipolitik, wenn es sich um „Schicksalsfragen“ handelte, es um Krieg und Frieden ging oder hervorragende Leistungen erwartet wurden. Die charismatischen Führer mobilisierten Sehnsüchte, Hoffnungen und Ängste in den Massen und Gefolgschaften. Die Führer wurden zur Inkarnation von Idee und Ziel. Dadurch erreichten sie ihre „Verkörperung“ in jedem Einzelnen und fügten sie zur Masse. Über eine derartige Führerschaft und durch die Übersetzungskunst in einer inszenierten Medienwirklichkeit ließen sich Massen begeistern und Abstand nehmen von allen Bedenken und Vorurteilen. Derartige „Führer“ schienen nach Weber notwendig zu sein, um eine Gesellschaft aus der Stagnation zu bringen. Er hegte wohl nicht die Befürchtung, daß diese Generäle, Manager oder Agitatoren Ambitionen gewinnen konnten, sich zum Diktator küren zu lassen.

Das Religiöse fand zugleich die Fortsetzung in der „Arbeitsethik“ und in der allgemeinen Moral. Das Gebet als Arbeit fortzusetzen und Verantwortung zu übernehmen, fußte auf den  Geboten und einem religiös geführten Leben. Arbeits- und Freizeit verschmolzen zu einer Haltung, die die Ansprüche von Leistung, Fleiß und Obhut aufnahm. Das Religiöse enthielt die Bereitschaft, den Aufgaben der Arbeit und des Staates Folge zu leisten. Eine derartige Übersetzung der religiös motivierten Verantwortung sollte auf den rationalen Rechtsstaat, seine Verwaltung und Vertreter übertragen werden. Das Religiöse als ethischer Anspruch war für die kapitalistische Industriegesellschaft Grundlage und Voraussetzung der Arbeitsleistung und der Disziplin. Sobald der christlich protestantische Einfluß zurückgedrängt würde, mußten die politischen Ideologien diesen Auftrag übernehmen, sollte eine industriell verfaßte Gesellschaft nicht zusammenbrechen. Diese Aussagen von Weber formulierten nur bedingt einen Widerspruch zum Marxismus, denn auch hier bestand ein Nachdenken darüber, daß die Religion moralische Aufgaben übernahm, die bei wachsender Aufklärung durch das gesellschaftliche Bewußtsein abgelöst werden mußten. Herbert Marcuse und Franz Borkenau verfolgten die Anstrengungen im „Sowjetmarxismus“ bzw. Marxismus – Leninismus, Arbeitsethik und Disziplin in die „Herzen“ der werktätigen Massen zu verplanzen. Dieser Ideologie erreichte zu keinem Zeitpunkt die Glaubwürdigkeit und die „innere Mission“ der protestantischen Ethik oder des politischen Protestantismus.

In den Religionsstudien hinterließ Weber den Eindruck, daß Katholizismus, russische Orthodoxie, Judentum und Islam einen archaischen, statischen Aufbau aufwiesen. Ihre Rituale befestigten die alten Machtformen von Selbstherrschaft, Feudalismus, Zarismus und orientalischer Despotie. Sie sorgten für die Unterwerfung der Gläubigen oder für die Herrscher- und Staatskulte. Der Arbeitszwang mußte von außen durch den Staat oder durch die lokalen Herrscher auf dem Lande erzwungen werden. Er besaß keinerlei innere Anreize. Schon deshalb seien die Sklavenarbeit oder die Arbeit unter feudalen und despotischen Herrschaftsbedingungen nicht produktiv. Die Hierarchie und „Bürokratie“ der institutionell verfaßten Religionen wurden Vorbild für die Staatlichkeit oder für die Rechtsordnung von traditioneller Herrschaft. Nichts wies darauf, daß diese Religionen sich den Veränderungen oder gar den kapitalistischen Ansprüchen öffneten. Der Status quo, Stabilität von Herrschaft und die Stagnation bildeten das Maß, wonach diese Religionen sich ausrichteten. Volksreligionen wie der Protestantismus, die auf Hierarchie verzichteten, sich im Volk verankerten und sich sogar  gegen die bestehende Macht kehrten, entwickelten eine neue Ethik und eine neue Auffassung von Fleiß, Arbeit und Hingabe. Nicht zufällig wurden die USA von primär protestantischen Sekten besiedelt und entstand dort eine „protestantische Großmacht“. Max Weber, der 1920 starb, konnte den entstehenden Faschismus nicht beobachten, der den Katholizismus politisieren würde. Die Offenheit eines politischen Protestantismus zu Rassismus und zu totalitären Bewegungen und Zielen blieb ihm in letzter Konsequenz verborgen. Die Kopie und Weiterentwicklung der russischen Orthodoxie in die Staats- und Führerkulte des Bolschewismus wurden erst nach 1917 sichtbar. Der Zionismus als ein politischer Anspruch des Judentums auf einen eigenen Volksstaat war nach 1945 in der Gründung des Staates Israel erfolgreich. Die Politisierung und Radikalisierung des Islam sind Produkt des Zweiten Weltkrieges, der Entkolonialisierung und der Befreiungskriege nach 1945. Derartige Veränderungskräfte in den traditionellen Religionen konnten von Weber nicht beachtet werden.

Konservativer Existenzialismus: Carl Schmitt

Bei Carl Schmitt waren die marxistischen Impressionen eindeutig, denn seine Kritik der „Romantik“, des „Liberalismus“ oder des „Parlamentarismus“ bzw. seine „Theorie des Politischen“ enthielten marxistische Ansätze, die zu seiner Zeit in Deutschland oder Rußland diskutiert wurden. Schmitt nahm diese Eindrücke nur als Impuls auf und ging darüber hinaus. Alle genannten Themen wurden katholisch, theologisch, religiös, geopolitisch und existentiell aufgelegt. Die Bewertung der Religionen, primär der Gegensatz des Katholizismus zum Protestantismus, reagierte auf das Weber’sche Lob der protestantischen Ethik. Die Bestimmung des modernen Staates zwischen Tradition und Diktatur nahm die marxistische Staatskritik auf, historisierte und mystifizierte sie zugleich. Im Zweiten Weltkrieg befaßte Schmitt sich nach dem Kriegseintritt der USA 1941 und zum Zeitpunkt der deutschen Niederlagen im Ostfeldzug mit der Besetzung Zentraleuropas durch die nordamerikanische Großmacht. Dadurch thematisierte er die Differenz der freien, finanzkapitalistischen Herrschaft in Nordamerika zur europäischen Staatsmacht, die zu diesen Zeitpunkt von der bolschewistischen bzw. nationalsozialistischen Diktatur bestimmt wurde. In einer Legende über „Land und Meer“ radikalisierte er die Widersprüche der zwei staatlichenr Mächte, indem er sie zu den „Idealtypen“ von Land- und Seemächten zuspitzte. Die USA als protestantische Großmacht  wurde nach den Gesichtspunkten des „Feindes“ vorgestellt. Wir wollen an dieer Stelle die einzelnen Schritte skizzieren.

Einzelne Schriften von Carl Schmitt lasen sich wie Kommentare zu den Veröffentlichungen von W. I. Lenin. Der „Begriff des Politischen“ enthält Fragestellungen, die Lenin in „Was tun?“ und in den Schriften über den „Imperialismus“ und des Kriegskommunismus aufgeworfen hatte. Die Erörterungen über „Verfassungsfragen“ und über die „geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus“ schienen den Lenin’schen Konzeptionen von „Staat und Revolution“ und den Programmschriften nach der Oktoberrevolution entnommen zu sein. Lenins Polemiken gegen den „Linksradikalismus als Kinderkrankheiten des Kommunismus“ wurden in der Schmitt’schen Kritik der „politischen Romantik“ übertragen. Die „politische Theologie“ schien sich auf die Leninsche „Parteilichkeit“ zu stützen. Der revolutionäre Bolschewismus entwickelte Ideen und Werte, die als Kommentare und Folien im Konservatismus Schmitt’scher Prägung, verändert und anders interpretiert, neu auftauchten. Eine unmittelbare Nähe zwischen dem revolutionären Bolschewismus und dem konservativen Aufbruch in Deutschland kann nur schwer am Beispiel von Zitaten nachgewiesen werden. Beide Richtungen waren jedoch gezwungen, sich gegen den „Westen“ und hier vor allem gegen die USA zu profilieren, die die entwickelte Form des Finanzkapitals vorstellten. Deshalb entstanden die parallelen Themen über den „Feind“.

Vom Bolschewismus übernahm Schmitt den existentiellen Feindbegriff bereits in den zwanziger Jahren. Der „Feind“ als das Prinzip der grundlegenden Gegnerschaft und einer anderen Ordnung wurde als ein konstituierender Begriff der eigenen Konzeption verstanden. Er mußte als Gegenentwurf und radikale Gegenposition zur eigenen Ordnung verstanden werden. Der „Feind“ war stets präsent und bedrohte als Zweifel oder Unsicherheit das eigene Denken und die bestehende Moral. Schmitt verlangte eine radikale Distanz zu „fremden“ Werten und eine fundamentale Anklage der feindlichen Ideologie. Der „Volksfeind“ und „Verräter“ wurde als die Inkarnation des Bösen, der Hinterlist, der Lüge, der Heimtücke und der Feindschaft kommentiert. Der Abweichler und Doppelzüngler zeige seine Gefährlichkeit in der scheinbaren Treue zu den Zielen der eigenen Ordnung, die  in Wirklichkeit in Frage gestellt würden. Die Unsicherheiten oder die „revolutionäre Ungeduld“ des Linksradikalismus oder „Trotzkismus“ verrieten den „Feind“ als unsicheren Kandidaten, Zweifler oder Zyniker. Schmitt projizierte diesen Begriff einer heimtückischen und zugleich absoluten Feindschaft auf die Romantik, den Liberalismus, Sozialismus und auf die parlamentarische Demokratie. Die „politische Romantik“ gab sich sensibel, feierte Stimmungen, relativierte die Prinzipien und war unfähig, eindeutig Position zu beziehen. Der Liberalismus verkündete Freiheit und Gleichheit und blieb trotzdem dem Terror zugewandt. Nur über ihn gelinge die Nivellierung der Gesellschaft und die Gleichmacherei. Der Sozialismus verkündete das Paradies auf Erden, verfolgte schöne Utopien und endete in Diktatur und Terror. Der Parlamentarismus sicherte den Parteieliten den Zugriff auf die Staatsmacht und machte den Staat zur „Beute“ für eine Minderheit von Aufsteigern. Er garantierte Minderheiten die Macht im Staat. Aus dem Versprechen der liberalen Freiheit wurde das Gegenteil herausgelesen: die absolute Macht liberaler Eliten. Die Quellen der modernen Ideologie wurden offengelegt: die Ketzerei, die Meuterei, die protestantischen Reformation, das Revolutionäre, die der Gottesordnung des Katholizismus ihr Widerwort entgegenschleuderten und die Welt in die Unsicherheiten und in das „Bodenlose“ rissen.

Der „Feind“ verkörpere das Andere und Fremde, das keinerlei Bezug zu den eigenen Werten aufwies. Für Schmitt war die theologische Notwendigkeit des Bösen und des Außenseiters gegeben, um deutlich zu machen, daß die Stabilität eines souveränen Staates stets gefährdet sei, falls die feindlichen Übertragungen und Ziele nicht bemerkt und nicht bestimmt werden könnten. Diese primär katholisch religiösen Festlegungen und Eindeutigkeiten mußten auch von Atheisten erkannt werden, wollten sie nicht den stabilen Machtzustand dem „Feind“ opfern. Dieser stelle permanent die Machtfrage und symbolisierte selbst Macht als ein gegensätzliches Prinzip. Er konnte den Staat neu gestalten, allerdings nach dem Primat einer fremden Ordnung. Nach Schmitt bedrohte der positive Rechtsstaat bereits die souveräne Staatsmacht, denn er relativierte und liberalisierte eine Ordnung, die auf Ausnahme, Souveränität oder Tradition aufgebaut sein mußte.

Als Gegenbild zum „Feind“, der bewußt in das Teuflische und das Bösartige verzerrt und mythologisiert wurde, wäre der „Freund“ zu sehen, der seine Substanz in der Souveränität und Unabhängigkeit des Staates und in der Entscheidungskraft großer Politiker und Staatslenker entwickele. Diese Aufrichtigkeit und Offenheit entlehnte Schmitt der katholischen Tradition. Gegen Webers Soziologie einer protestantisch inspirierten Ethik und Ökonomie wollte Schmitt die katholischen Tugenden von Treue, Autorität, Hierarchie, Gebundenheit, Selbstvertrauen, Standhaftigkeit stellen. In der Politik und im Staat waren Eliten gefragt, die zu ihrer Sache eindeutig standen und die keinerlei Kompromisse eingingen. Diese Eindeutigkeit und Entschlossenheit sollte eine Alternative zu den schwankenden und korrupten, liberalen Eliten abgeben.

Land und Meer symbolisierten nach Schmitt diesen Widerspruch zwischen Freund und Feind. Sie fanden ihr Material in den Seemächten England und USA und in den europäischen Landstaaten, in Deutschland und Rußland. Diese geopolitische Bestimmung, die das Meer gleichsetzte mit Handel, Spekulation, Geld, Medien, Manipulation und Finanzmacht und im Land die Stabilität und die feste Ordnung erblickte, behauptete die Differenz von Tradition und Bodenlosigkeit. Die USA fußten auf einem weitgehend geschichtslosen Kontinent. Hier hatten sie eine finanzkapitalistische und liberale Ordnung errichtet. England vollzog bereits im 16. und 17. Jahrhundert als Empire und Kolonialmacht eine elementare Wendung vom Land zum Meer. Diese Seemacht löste sich radikal von allen kontinentalen Bindungen, so jedenfalls Schmitt. Deutschland dagegen blieb über das Militär, die Staatsmacht und das Volk an die Tradition gebunden und hatte die finanzkapitalistischen und liberalen Ziele in der Weimarer Republik abgelehnt und überwunden.

Land und Meer wurden als feindliche Kräfte gesehen. Dieser existentielle Gegensatz wurde sichtbar im Staatsaufbau und im politischen System. Der absolute Fortschrittsglaube, die Technikfaszination, die Inszenierung von Leben und Politik, die Vormacht der Medien mußten als Kennzeichen einer Hinwendung der Mächte zum Meer gesehen werden. Dem entsprach der Glaube an die Menschheit, an die Jugend und eine unendliche Freiheit, Ansprüche, die die Gottesfurcht genauso ignorierten wie die natürlichen Grenzen von Krankheit, Elend, Krieg und Tod. Der alle Bindungen aufgebende und wurzellose Mensch werde zum Idealbild erhoben. Der industrielle Fortschritt werde alle Grenzen einreißen und den Menschen gottgleich gestalten. Eine grenzenlose Freiheit und die Universalität von Recht und Gerechtigkeit würden versprochen. Dagegen setzten die Landmächte auf Bescheidenheit und die Geborgenheit in einem sorgenden Staat. Die Menschen als Volk und Familie konnten sich behaupten und Großartiges leisten, verließen sie nicht die historischen Grundlagen ihrer natürlichen Existenz. Schon deshalb war eine staatliche Ordnung notwendig, die die Entwurzelungen und Selbstzerstörungen der sozialen Verhältnisse und der Gesellschaft nicht zuließ. An dieses Maß von Lenkung und Aufsicht wurde das Recht orientiert. Es sollte bewahren und hegen und den Menschen vor den eigenen Illusionen schützen. Es durfte nicht der Bereicherung, der Beliebigkeit, der Implosion oder der Kriminalität dienen.

Das Religiöse wurde bei Schmitt nicht allein durch die Hineinnahme katholischer Tugenden und die Stabilität einer Gottesordnung betont. Er verfolgte sogar eine katholische Bodenmystik, indem er die Erde zum Gestalter des Menschen, zu seinem Antlitz oder zum Hort der Tradition, zur Heimat und Ort der Verwurzelung machte, alles Hinweise, die das Bodenlose, die Vertreibung, die Entwurzelung das Heimatlose, die Arbeitslosigkeit, das Elend, den Zerfall aller sozialen Bindungen zur Drohkulisse verfestigten, die als Charakterbild der Seemächte entworfen wurde. Schmitt verabscheute die Blutmystik des nationalsozialistischen Rassismus, der die europäische Koexistenz der Rassen und Völker auflöste und zum Rassenkrieg aufrief. Der Boden umfaßte für Schmitt die Heimat, die Tradition, die Religion und hier den Katholizismus und den souveränen Staat, der die Unabhängigkeit und die Unversehrtheit des Volkes behütete. Solch ein Staat und solch eine Gesellschaft konnte nicht demokratisch konstituiert sein. Er folgte als souveräner und hierarchischer Staat der permanenten „Ausnahme“, um Bedrohung und Krieg vom Volk abzuwehren. Er verkörperte die europäische Tradition von Absolutismus und Militärdiktatur. Im „Partisanen“ feierte dieses konservative Prinzip eine späte Anerkennung. Er würde die Seemächte in Asien, Afrika, Lateinamerika besiegen und den Landstaat auf der Grundlage der traditionellen Religionen oder der davon abgeleiteten Ideologien neu begründen.

Zur magischen Begriffswelt und zum Negativspiegel dieser „gottgewollten Ordnung“ zählten der Protestantismus und das Judentum, während das orthodoxe Christentum eher die Normen und die Stärke des Katholizismus aufwies. Der Protestant war bodenlos. Er gefiel sich als der typische Eroberer, der fremde Länder und Kontinente besetzte, andere Völker okkupierte und nach seinem Vorbild umerzog. Auf fremden Boden errichtete er ohne Bedenken seine Industrie, die Großbauten und eine Farmwirtschaft, die die einheimischen Bauern vertrieb oder versklavte. Der protestantische Okkupant unterstützte den industriellen Fortschritt und war allen finanzkapitalistischen Operationen zugetan. Er machte den Boden zum Objekt der Arbeit oder der Spekulation. Er kümmerte sich nicht um den Bestand der Natur. Volk und Nation als Staat und Ordnung wurden der Dynamik der Technik und der industriellen Produktion unterworfen. Der Protestantismus fand seinen materiellen Rückhalt bei den Seemächten und er inspirierte die modernen Ideologien von Liberalismus und Sozialismus. Ähnlich wie dem Judentum seien den Protestanten die Spekulation und die finanzkapitalistischen Manöver eigen, alles Methoden  und Machenschaften, die die Tradition auflösten und zerstörten. In beiden Religionen lauere nach Schmitt der „Antichrist“. Ob er mit dieser Kritik des Protestantismus zugleich den Nationalsozialismus als den Zerstörer der Tradition meinte, kann aus den Texten nicht erschlossen werden.

Die Seemächte England und die USA standen mit Deutschland im Krieg und würden Zentraleuropa besetzen. Ihre Okkupation kam einer Revolution gleich, denn sie würden politisch die bestehende „Tradition“ von Staat, Volk und Armee zerschlagen. Die Individualisierung werde mit dem Aufbau einer Massengesellschaft verbunden, die jeden Subjektcharakter aufgegeben habe. Die Ziele des Liberalismus und der parlamentarischen Demokratie lägen darin, Volksinteressen zu ignorieren und zugleich die Massen als Publikum, Konsumenten oder Zuschauer zu isolieren. Die politische Macht solle den liberalen Eliten in Parteien und Staat übertragen werden. Über die „Amerikanisierung“ der deutschen Gesellschaft würden die Seemächte in Deutschland und auf dem europäischen Kontinent Einzug halten und eine radikale Umwertung aller Werte einleiten. Die deutsche Tradition in Ethik, Recht, Sprache, Universität, Literatur und Wissenschaft würde verschwinden und mit ihnen die Staatsidee und die Tugenden der Landmächte.

Schmitt diskutierte zu Beginn der vierziger Jahre des 20. Jahrhunderts eine „theologische Begründung“ der zwei Staaten, des Rechtsstaates und des souveränen Staates. Die Besetzung Deutschlands durch die USA erfordere die prinzipielle Feindbestimmung, denn die Niederlage der deutschen Zentralmacht werde den Sieg der Seemacht in Europa begründen. Die Negation der europäischen Tradition von Staat und Verfassung komme der Infragestellung der europäischen Geschichte gleich. Der Sieg der Bürgerlichkeit und des Liberalismus über den „Soldaten“ werde die katholische Substanz von Staatlichkeit und Ordnung zerschlagen. Die Seemächte verträten einen psychologischen Imperialismus, der die Widerstandskraft der europäischen Völker zerstöre und sie den Postulaten der Individualität unterwerfe. Deshalb sei die Besetzung und die Pazifizierung gleichzusetzen mit einer Strafexpedition gegen das deutsche Volk. Es werde nicht etwa nur umerzogen, es werde psychologisch neu verfaßt und bestimmt. Deshalb könne der Zweite Weltkrieg als eine Art „Kreuzzug“ angesehen werden, der die europäischen Landmächte endgültig unter die Kontrolle der Seemächte genommen habe.

Ende und Anfang: die Legende vom „Zusammenbruch“ einer Kultur

Die Thesen von Carl Schmitt über die Besetzung Europas durch die Seemächte England und die USA scheinen auf einen „Untergang“ oder einen „absoluten Zerfall“ des alten Europas hinzuweisen. Aber gab es historisch so etwas wie Zerfall und Untergang? Entstanden aus einem Zusammenbruch nicht neue Kräfte und Akteure, die das „Ende“ mit dem neuen Anfang synthetisierten? Kamen die „Seemächte“, die derartig negativ vorgestellt wurden, nicht aus Europa oder wiesen europäische Kräfte auf, die einst die eigene Macht bestimmt hatten? Brachten die Siegermächte über die NS – Diktatur nicht Frieden und das „Neubeginnen“ einer demokratischen Kultur? War es nicht richtig die deutsche Kriegsmacht und eine Diktatur zu zerschlagen, die millionenfachen Tod und Leid über Europa gebracht hatten? Hatte nicht die NS – Diktatur den Deutschen die kulturelle Tradition und die Würde genommen?

Fragen über Fragen tauchen bei der Lektüre der Schriften von Carl Schmitt über „Land und Meer“ auf. Eine Gesellschaft gewann so etwas wie einen inneren Subjektcharakter, wenn Institutionen, Religionen, Eliten, Parteien, Verbände, Initiativen, Stimmungen, Millieus vorhanden waren, die „Übersetzungsarbeit“ leisteten und aus einem vermeintlichen Ende einen Neuanfang ertrotzten. In den beiden Deutschlands agierten neben den Besatzungsmächten die Kirchen, die entstehenden Parteien, Gewerkschaften und Einzelpersonen, die so etwas vorstellten wie eine „Alternative“ zur Diktatur. Der Katholizismus als Glaube, Apparat, Heiliger Stuhl, Priester, Laien und Mönche gehörten dazu. Der politische Katholizismus begründete im Westen über die Christdemokratie demokratische Parteien und setzte sich bewußt von den „klerikalfaschistischen Diktaturen“ unter General Franco und Salazar auf der iberischen Halbinsel ab. Schmitt sprach in seinen Thesen das katholische Prinzip als potentielles Gesellschaftssubjekt an und idealisierte es gegen den politischen Protestantismus und den Liberalismus. Gab es zur westlichen Demokratie Alternativen, die nicht auf einer absoluten Macht oder Diktatur beharrten? Schmitt war von der ideologischen Fiktion der westlichen Demokratie überzeugt. Sie verdeckte lediglich die Machtrealität von Minderheiten und Cliquen.

Es ist undenkbar, daß Schmitt mit seinen Thesen über „Land und Meer“ eine Verteidigungsschrift der „nationalsozialistischen Diktatur“ verfaßte. Ohne es offen auszusprechen, schien für Schmitt die NS-Ideologie Bezüge zum politischen Protestantismus und zum germanischen Heidentum zu besitzen. Die Eröffnung der vielen Kriegsfronten bis hinein nach Nordafrika, Rußland, Atlantikküste und Norwegen, der Völker- und Massenmord innerhalb des Kriegsgeschehens oder die Belastung der Kampfkraft der Wehrmacht durch ideologische Ziele bewiesen die Maßlosigkeit einer Kriegsführung. Die deutsche Landmacht verhielt sich wie „das Seeungeheuer“, das Schmitt spukhaft vorgestellt hatte. Dieses Fabelwesen riskierte alles auf einmal, ohne eine „festen Rückhalt“ von Taktik und Kompromißfrieden vorweisen zu können. Die Lehren Preußens als Land- und Zentralmacht zwischen Rußland und England waren längst vergessen. Fürst Bismarck und seine Politik des Ausgleichs zwischen Ost und West wurden von den NS-Expansionisten in ein „Alles oder Nichts“ verbogen. Eine deutsche Diplomatie gab es nicht. Der deutsche Landdrachen führte einen Seekrieg, indem er die moderne Technik, die Panzerwaffe, Geschütze, Flugzeuge, Kesselschlachten einsetzte, ohne den technologischen Vorsprung halten oder den eroberten „Raum“ absichern zu können. Alle „Siege“ gingen verloren. Die Gegner zogen gleich und überrundeten die deutschen Armeen, die sich aufsplitterten und keinerlei Reserven hatten. Der Luftraum wurde zum Kampfgebiet der angloamerikanischen Bombengeschwader. Das „Meer“ erreichte den Himmel über Berlin. Die deutschen Städte, das Hinterland, wurden zur Front und in Schutt und Asche gelegt. Schmitt konnte die NS-Diktatur nicht gleichsetzen mit der souveränen und umsichtigen, europäischen Landmacht

Das bolschewistische Rußland als die letzte europäische Landmacht würde der konservative Schmitt kaum zum Beispiel oder zum Beleg der Stabilität erheben. Die Einheit von Volk, Armee, Staat und Partei im „Großen Vaterländischen Krieg“ würde zwar seiner Beschreibung der souveränen Landmacht entsprechen. Der Bolschewismus/Stalinismus wurde von ihm auf eine sozialistische Utopie reduziert, die sich nicht vom Herrschaftsprinzip des Liberalismus entfernt hatte. Der Bolschewismus blieb ihm fremd und unheimlich und er beachtete die Nähe zur russischen Orthodoxie nicht. Er ließ sich nicht nach den Maßgaben des Katholizismus sezieren. Schmitt übersah, daß nach 1945 ein mächtiges „volksdemokratisches China“ aufsteigen würde, das die europäischen Erbschaften von Staatlichkeit, Produktivität, Gehorsam, Volkseinheit und Führungswillen übernehmen würde. Schmitt hoffte sicherlich darauf, daß die Besetzung Westeuropas durch die USA scheitern würde. Die nordamerikanische Seemacht würde mit Rußland in Hader geraten. Nach einem erneuten Krieg oder der Konstellation von Labilität und Gegnerschaft würden beide Mächte so geschwächt sein, daß eine „katholische Befreiung“ die europäischen Nationen und Völker neu vereinen konnte. Jetzt war die Zeit gekommen, die katholischen Tugenden in eine europäische Staatsmacht zu übersetzen, die sich radikal vom Mafiastaat Italiens oder der iberischen Diktaturen unterscheiden würde.

Schmitt verfolgte in den späteren Schriften andere Visionen. Die russische Großmacht konnte an den inneren Widersprüchen von Tradition, Willkür und industrieller Revolution scheitern. Die Seemacht USA werde die Kräfte der Selbstzerstörung nicht bändigen können. Sie seien im Liberalismus enthalten, und sie seien angelegt in den Menschen- und Bürgerrechten. Schmitt sprach in seinen Schriften wiederholt von der Heimtücke des „Humanitarismus“. Dieser stürze als Versprechen und Ideal das menschliche Sein in die Beliebigkeiten einer wurzellosen und isolierten Existenz. Die Auflösung aller Bindungen in Familie, Gesellschaft und Staat, die Vereinsamung und die Gleichgültigkeit schüfen Verzweiflung, neue Abhängigkeiten und Krankheiten. Der „psychologische Imperialismus“ der liberalen Gesellschaft kehre die Vorstellungen von Freiheit und Würde in ihr Gegenteil: in die Ratlosigkeit, Abhängigkeit und Einsamkeit. Die Konsequenzen der finanzkapitalistischen Ökonomie wurden in der wachsenden Dynamik oder Rastlosigkeit und in der Ausgrenzung durch Armut und Arbeitslosigkeit gesehen. Die Medien könnten diese Wirklichkeit nicht überspielen. Kriege schüfen keinerlei Ausweg. In dieser psychologischen Wüste würden die Werte des Katholizismus zu einer Neudefinition von Staatlichkeit und sozialer Stabilität führen. Schmitt konnte die Realität einer katholischen Einwanderung aus Lateinamerika, Südeuropa, Asien und den Philippinen in die USA nicht überblicken. Er konnte nicht ahnen, daß die protestantische Ostküste oder der mittlere Westen vom Katholizismus, Islam, Taoismus und Buddhismus eingerahmt wurden und in eine Minderheit gerieten. Die Religionskriege der Welt als „Kampf der Kulturen“ erlangten in der nordamerikanischen Innenpolitik ihr Spiegelbild. Der Protestantismus mußte sich auf das Judentum stützen, um als Macht zu überleben. Schmitt zweifelte jedoch nicht daran, daß das protestantische Nordamerika langfristig an seinen eigenen Widersprüchen zugrunde gehen würde.

Die „Kritische Theorie“ nahm über Max Horkheimer und Theodor W. Adorno diese Idee des „psychologischen Imperialismus“ auf. Ob in der „Dialektik der Aufklärung“ oder im „Autoritären Staat“ die Schmittschen Prognosen direkt verarbeitet wurden, läßt sich kaum nachweisen. In diesen Texten wurde der Gedanke wie bei Schmitt entwickelt, daß die eindeutige Siegermacht im Zweiten Weltkrieg, die USA, den Virus von Zerfall und Zerwürfnis in sich bargen. Die grundlegenden Strukturmerkmale von Demokratie und Staatlichkeit wiesen Widersprüche auf, die kaum zu beheben waren. Die genannten Schriften der „Kritischen Theorie“ folgten einem Konzept des „Untergangs“ und nahmen nach den Marx’schen Vorgaben eine Sichtweise der „negativen Dialektik“ auf. Die Formen und der Absolutheitsanspruch von Herrschaft wurden im „autoritären Staat“ der USA aus den bonapartistischen, faschistischen, nationalsozialistischen und bolschewistischen Diktaturen übersetzt. Offener Terror, Zwang, Willkür, die Repressionsorgane des Staates, waren nicht mehr notwendig, blieben trotzdem hochgerüstet, wenn die soziale Gliederung einer Gesellschaft auf „Massen“, „Konsumenten“, „Publikum“ reduziert wurde und jeder Bürger den Maßgaben der Reklame oder der politischen Inszenierung genügte. Die Ausgestoßenen und Außenseiter gerieten unter die Obhut der Psychologie oder der Polizeidienste. Alle waren frei. Jeder war sein eigener Polizist und Kontrolleur. Jeder spielte sich selbst als eine jeweils andere Kopie von Konsumsymbolen und Markenzeichen. Eine derartige Macht der Inszenierung und Manipulation gab langfristig die Widerstandskraft und die Ethik der Selbstbehauptung auf. Sie besaß keinerlei Kraft und Subjektcharakter, die sozialen Beziehungen neu zu formen. Die kulturelle und religiöse Reproduktion gelang nicht mehr. Die orientierungslosen Bürger verzweifelten. Eine derartige Gesellschaft wurde Objekt der Einwanderer oder genügte den Ambitionen fremder Religionen und Mächte. Sie ließ sich in fremde Einflußsphären  und „Zonen“ spalten, könnte heute die Interpretation fortgesetzt werden.

In der „Theorie des Partisanen“ lenkte Schmitt den Blick nach außen. Als Seemacht übernahmen die USA die Aufgaben und das Erbe des europäischen Imperialismus, um gegen Rußland und China den „Status quo“ in der Welt zu wahren und die Expansion dieser Mächte zu vermeiden. Die USA übertrugen nicht die liberalen „Freiheitsprinzipien“ auf die Einflußzonen oder abhängigen Staaten. Demokratie und Volkssouveränität erlangten gegenüber den unterschiedlichen Militärdiktaturen kaum Bedeutung. „Demokratisiert“ im liberalen Sinn wurden die ehemaligen Kriegsgegner in Europa und Japan und zugleich über Verträge und Stützpunkte „besetzt“. Pufferstaaten wie Südkorea, Formosa, Pakistan, Südvietnam oder wie die Frontstaaten in Nahost, soweit sie unter nordamerikanischer „Hegemonie“ standen, bildeten im Kern Militärdiktaturen oder Despotien, die auf einen inneren und äußeren Kriegszustand festgeschrieben wurden. Plötzlich koexistierte die liberale Idee mit den Vorstellungen despotischer Macht und der Herrschaft von Cliquen und Minoritäten. Gegen eine derartige Festschreibung von Macht entstand in der Jugend der Widerwillen und das oppositionelle Widerwort. Dieser Mißmut der Jugend formte sich zu einer existentiellen Opposition, die in den Untergrund und in den Partisanenkampf getrieben wurde, waren die Mächtigen zu keinerlei Zugeständnissen bereit. Der „Partisan“ verkörperte deshalb gleichzeitig ein antiliberales, antiwestlichen und antiamerikanisches Prinzip, das mit den neuen Vorstellungen von Tradition, Religion und Ideologie zusammenkam. Es wiederholte sich eine Konstellation von Radikalität, die Plachanov und Kautsky für den „Bolschwismus“ beschrieben hatten. Ernst Bloch und Karl Kautsky hatten in der revolutionären Auslegung der Religion bei Thomas Müntzer im Mittelalter eine ähnliche Politisierung beobachtet. Der Übergang des Religiösen in eine Revolutionsideologie erhob den Veränderungswillen zum Glauben und zu einem fundamentalistischen Engagement der Kämpfer und Partisanen.

Der „Partisan“ kombinierte die antiwestliche Kritik mit einer neuen Interpretation von Tradition und Religion und bildete zum westlichen Imperialismus eine Gegenmacht und ein Gegenprinzip von Staatlichkeit und Recht. Er kam aus dem „Land“. Er verteidigte die „Heimat“ gegen eine Intervention äußerer Mächte. Das „Bodenständige“, „Kontinentale“ war ihm eigen. In ihm wurde die Landmacht neu geboren. Die Werte einer statischen Religion oder einer entsprechend abgeleiteten Ideologie wurden durch ihn zur Legitimation einer staatlichen Ordnung erhoben. Der „Partisan“ bildete bei Schmitt eine „Chiffre“, denn der Gegner zu Liberalismus und politischen Protestantismus wurde aus den bisher statischen Religionen geformt, die die Tradition mit Stabilität und Radikalität verbanden. Neben dem Katholizismus oder der orthodoxen Kirchen würde sich der Islam in seiner Region zum revolutionären Pathos gegen die westlichen Seemächte politisieren lassen. So jedenfalls ließ sich das Aufkommen des „Partisanen“ in der Welt nach Schmitt als Gegenkraft und Widerstand zur „westlichen Zivilisation“ interpretieren.

Eine neue, weltpolitische Situation entstand mit der Auflösung der Sowjetunion. Schmitt konnte sie nicht mehr erleben. Er starb 1985. Der Kollaps des bolschewistischen Rußlands und des sozialistischen Lagers von 1989 schuf eine neue Konstellation. Hier sorgten die westlichen Mächte, die USA und die oberen russischen Machteliten aus Partei, Armee, Staat und Geheimpolizei für eine weiche Landung. Niemand hatte Interesse daran, daß dieser ökonomische und moralische Zusammenbruch einer Großmacht von Bürgerkrieg, Chaos, Unruhen, Elend, Versorgungs- und Produktionskrisen begleitet wurde. Ein neuer Krieg der politischen Lager und Systeme wurde vermieden. Die westlichen Seemächte übertrugen vorsichtig ihre Interessen und politischen Formen auf die soziale Schichten und die ehemaligen Machteliten, die bereit waren, den Despotismus und die Willkür des alten Rußlands abzuwerfen und die offen waren für die „westlichen Errungenschaften“, wurde der Lebensstandard gesichert und erhöht, fanden diese Eliten Anerkennung und Auskommen in der neuen Wirtschaft und Staat. Alte Machtstrukturen wurden mit den neuen Ansätzen einer pluralistischen Demokratie verbunden. Der demokratische Neuanfang kooptierte alte Machtformen, um eine soziale Revolution und eine kompromißfreie Demokratisierung zu vermeiden. Anders als in West- und Zentraleuropa nach 1945 sicherten die USA im Osten die Machtstabilität, setzten Pflöcke der Einflußnahme, ohne diese gerantieren zu können. Rußland blieb eine Landmacht.

Das russische Beispiel wäre auf alle anderen Staaten übertragbar. Keine demokratische Macht und keine Diktatur lösten sich in Unruhen und Verzweiflung auf. Die USA etwa würden bei der Gefahr von „Kollaps“ die Fürsprecher in China, in Japan, in Europa und Rußland finden, denn alle diese Staaten und „Systeme“ würden einen Bürgerkrieg oder Chaos auf einem kontinentalen Raum unterbinden wollen. Aus dem „politischen Protestantismus“, aus dem „politischen Katholizismus“  und  aus den unterschiedlichen „ethnischen Kulturen“ konnten neue Kräfte entstehen, die den „Zusammensturz“ der bisherigen Staatsmacht positiv beerben würden. Gesellschaften konnten nicht zusammenbrechen, solange die Bürger um ihr politisches Mandat und um ihr Existenzrecht kämpften. Im Widerstand formten sich neue „Subjekte“.

Bei Marx entwickelte sich ein „Proletariat“, das die Erbschaft des Kapitalismus übernehmen sollte. Hilferding war überzeugt, daß die „Gewerkschaften“ den Zusammenbruch einer Gesellschaft positiv umkehren würden. Max Weber würde dem „politischen Protestantismus“ zutrauen, einen Neuanfang im Staat und Gesellschaft zu finden. In Rußland wurde das „werktätigen Volk“ und seine Kontrollorgane, die allmächtige Partei und Geheimpolizei, durch die „Bürger“ abgelöst. Allerdings stieß die „Verwestlichung“ der Demokratie auf die russischen Gegenreaktionen einer Präsidialmacht. Trotzdem fiel Rußland nicht in das „Nichts“ von Unregierbarkeit oder Bürgerkrieg und die Völker entwickelten so etwas wie einen Willen, aus der despotischen Tradition herauszufinden.

Es würde große Schwierigkeiten bereiten, die „inszenierte Demokratie“ und den Machtanspruch finanzkapitalistischer Kreise in USA abzuschütteln, trotzdem war den Religionen und den unterschiedlichen Völkern und Ethnien in diesem Bundesstaat  die Widerstandskraft zuzutrauen, eine Demokratie nach den Maßstäben des amerikanischen und europäischen Freiheitskampfes zu errichten. Das Finanzkapital als eine negative Macht konnte Krisen, Zusammenbrüche, Chaos, Bankrotte hervorrufen. Es konnte den Lebenswillen der Menschen nicht zersprengen. Allerdings mußte jeder politischer Neuanfang ausscheren aus der finanzkapitalistischen Politik von Inszenierung, Manipulation und der faktischen Macht von Minderheiten. Das System der Medienkontrolle durch die großen „Imperien“ der Verlage oder der „Mafia“ mußte zerschlagen werden.

Carl Schmitt war in seiner Schrift über „Land und Meer“ zu Beginn der vierziger Jahre zu sehr befangen durch die Kriegsereignisse und die Negativsicht des Liberalismus. Diese Einschätzungen eigneten sich nicht, dem modernen Nordamerika jede Zukunft abzusprechen. Selbst der „Untergang“ des Römischen Reiches fand nicht statt, denn eine subtile Fortsetzung des „Imperiums“ war im katholischen Christentum, im Reich Karl des Großen und in der europäischen Kultur zu beobachten. Schmitt eignete sich im Laufe der Jahre den „protestantischen Optimismus“ von Max Weber an und übertrug ihn auf den Idealtyp von „Katholizismus“. Dadurch löste er sich von den düsteren Prognosen eines Oswald Spengler.

mardi, 24 septembre 2013

Dette abyssale : pourquoi ?

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Dette abyssale : pourquoi ? Que risque-t-il de se passer ?

par Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com

La dette souveraine française va bientôt atteindre les 2000 milliards d’euros, c’est-à-dire 95,1% du PIB fin 2014, soit 30.000 € par Français. Bombe à retardement. Il y a dix ans, elle atteignait 1.000 milliards et l’on criait déjà à la catastrophe. Mais personne n’a rien fait. Depuis 1974 ( !) aucun budget n’a été en équilibre : tous déficitaires. Les multiples rapports, comme ceux de la Cour des Comptes, ont tous été jetés au panier. Chaque année, il faut rembourser 50 milliards d’euros d’intérêts, deuxième budget de l’État.

Mais pourquoi s’endette-t-on ? Certainement pas pour investir (et donc pouvoir rembourser par les gains escomptés) (1), mais pour les raisons suivantes : A) Payer une fonction publique pléthorique et surnuméraire, qui ne cesse d’enfler. B) Régler les prestations sociales d’un État Providence qui suit (droite et gauche confondues) les préceptes absurdes du collectivisme (2). Parmi ces prestations, on note les allocations chômage les plus généreuses au monde qui, paradoxalement, provoquent l’accroissement du chômage et dissuadent les embauches ; le coût croissant des allocations aux immigrés d’origine et aux étrangers les plus divers, y compris clandestins et fraudeurs (type AME), pris en charge comme nulle part ailleurs au monde ; l’absurdité totale des emplois aidés – pour les mêmes populations – qui ne créent aucune valeur ajoutée. C) L’endettement sert aussi à payer les intérêts de la dette ! Absurdité économique totale, qui ne choque pas la cervelle de nos énarques. On creuse un trou pour en boucher (sans succès d’ailleurs) un autre.(3) 

L’Allemagne, elle, a rééquilibré son budget et voit décroître sa dette. Elle mène une politique d’austérité d’expansion, incompréhensible pour les dirigeants français, incapables d’envisager le moindre effort et abonnés au déni de réalité. Et, contrairement à une certaine propagande, pas du tout au prix d’une paupérisation de la société par rapport à la France. Je parlerai du cas de l’Allemagne dans un prochain article. Maintenant, quels risques majeurs font courir à la France cet endettement colossal et croissant (4) ?

A) L’agence France Trésor qui emprunte actuellement à taux bas va automatiquement se voir imposer très bientôt des taux à plus de 5%. Donc on ne pourra plus emprunter autant. B) Il semble évident que, si l’on peut encore rembourser les intérêts, on ne pourra jamais rembourser le ”principal”, même en 100 ans. Point très grave. Un peu comme les  emprunts russes d’avant 1914. C) Cette situation aboutira à la ”faillite souveraine”, avec pour conséquence l’effondrement mécanique, brutal et massif, de toutes les prestations sociales de l’État Providence, des salaires des fonctionnaires, des pensions de retraite, etc. D) La France sera donc soumise au bon vouloir de ses créanciers et contrainte de solliciter l’aide d’urgence du FMI, de la BCE et, partant de l’Allemagne, voire de la Fed américaine… Indépendance nationale au niveau zéro, mise sous tutelle. (5) E) Une position débitrice insolvable de la France, seconde économie européenne, provoquera un choc économique international d’ampleur lourde – rien à voir avec la Grèce. F) Paupérisation et déclassement dans tous les domaines : plus question d’entretenir les lignes SNCF ou d’investir dans la recherche et les budgets militaires, etc. G) Enfin, surtout avec des masses d’allogènes entretenues et qu’on ne pourra plus entretenir, cette situation pourra déboucher sur une explosion intérieure qu’on n’a encore jamais imaginée – sauf votre serviteur et quelques autres.

Et encore, on n’a pas mentionné ici la dette de la Sécurité sociale et celles des collectivités locales, en proie à une gestion dispendieuse, irresponsable, incompétente. L’impôt ne pourra plus rien compenser car il a largement atteint son seuil marginal d’inversion de rendement. Mais enfin, le mariage des homos, la punition contre le régime syrien, la suppression des peines de prison pour les criminels, ne sont-ils pas des sujets nettement plus urgents et intéressants ? Un ami russe, membre de l’Académie des Sciences de son pays, me disait récemment, à Moscou : « je ne comprends plus votre chère nation. Vous n’êtes pas dirigés par des despotes, mais par des fous ».

(1) Depuis Colbert jusqu’aux enseignements basiques de toutes les écoles de commerce, on sait qu’un endettement ne peut être que d’investissement et surtout pas de fonctionnement ou de consommation. Qu’il s’agisse d’entreprises, de ménages, de communes, de régions ou d’États. Autrement, on ne pourra jamais le rembourser et ce sera la faillite. Une célèbre Fable de La Fontaine l’avait expliqué aux enfants : La cigale et la fourmi. La fourmi refuse de lui prêter pour consommer pendant l’hiver car elle sait qu’elle ne sera jamais remboursée puisque la cigale chante gratuitement et ne travaille pas. En revanche, si la cigale lui avait demandé un prêt pour organiser une tournée de chant payante, la fourmi aurait accepté. Logique économique basique, hors idéologie.

(2) Le collectivisme peut fonctionner plusieurs décennies dans une économie entièrement socialisée, sans secteur privé, comme on l’a vu en URSS et dans le défunt ”bloc socialiste”. Au prix, évidemment, d’un système de troc autarcique. Pourquoi pas ? Mais l’expérience (plus forte que les idées pures des idéologues) a démontré que ce système est hyperfragile sur la durée car il nécessite un système politique pyramidal et de forte contrainte, et provoque une austérité générale que les populations ne supportent pas objectivement, en dépit de tous les discours et utopies des intellectuels. Mais l’aberration française, c’est d’entretenir un système intérieur collectiviste dans un environnement européen et international mercantile et ouvert. Du socialisme à l’échelle d’un petit pays dans un énorme écosystème libéral. Cette contradiction est fatale : c’est un oxymore économique. Ça ne pourra pas durer. L’énorme Chine elle, peut surmonter ce paradoxe : un régime pseudo-communiste, anti-collectiviste, mais animé par un capitalisme d’État. Mais c’est la Chine…Inclassable.

(3) Aberration supplémentaire: la France s’endette pour prêter aux pays du sud de l’UE endettés afin qu’ils puissent payer les intérêts de leur dette ! On creuse des trous les uns derrière les autres pour pouvoir reboucher le précédent. Le « Plan de soutien financier à la zone euro » à augmenté la dette française de 48 milliards d’euros et culminera en cumulé à 68,7 milliards en 2014. Emprunter pour rembourser ses dettes ou celles de ses amis, ou, pire les intérêts desdites dettes, cela à un nom : la cavalerie.

(4) Contrairement à qu’on entend un peu partout, la dette ne peut que croître en volume principal, même si le déficit passe en dessous du chiffre pseudo-vertueux des 3% négocié avec Bruxelles. La créance brute ne décroît que si le budget du débiteur est définitivement à l’équilibre, voire excédentaire, pendant plusieurs années – et encore cet excédent doit-il est majoré en fonction des taux d’intérêt. Arithmétique de base, qu’on n’enseigne probablement pas à l’ENA. 

(5) La solution du Front national – sortir de l’Euro, reprendre le Franc, retrouver une politique monétaire indépendante, pouvoir dévaluer (bon pour l’exportation), pouvoir faire fonctionner la planche à billets librement comme la Fed, s’endetter par des émissions auprès de la Banque de France et non plus des marchés – est irréaliste. Pour deux raisons techniques : d’abord parce que l’économie française n’a pas la taille mondiale de l’économie américaine qui est en situation de ”monétarisation autonome” (self money decision) ; ensuite, et pour cette raison, parce qu’une telle politique, même si elle ferait baisser la charge de la dette, aurait pour conséquence mécanique un effondrement de l’épargne et des avoirs fiduciaires des Français, en termes non pas nominaux mais marchands. ”Vous aviez 100.000 € en banque, le mois dernier, avant le retour au Franc ? En compte courant, assurance vie, épargne populaire, etc ? Désolé, en Francs, il ne vous reste plus que l’équivalent de 50.000.” Politiquement dévastateur. La seule solution (voir mon essai Mon Programme, Éd. du Lore) est de bouleverser le fonctionnement de la BCE, dont l’indépendance est une hérésie, et d’envisager une dévaluation de l’Euro.

Zvonko Busic, un suicide pour le salut de la Croatie et de l’Europe

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In memoriam

Zvonko Busic, un suicide pour le salut de la Croatie et de l’Europe

par Jure Georges VUJIC

Trois mois seulement après la mort tragique de Dominique Venner, un autre suicide sacrificiel a retenti au matin du 1er septembre, non sous le Soleil de Paris au cœur de Notre-Dame, mais cette fois-ci en Croatie à Rovanjska sur le littoral croate de l’Adriatique. C’est le suicide de Zvonko Busic, l’un des derniers dissidents et révolutionnaires croates de l’époque yougoslave communiste.

 

Busic venait de purger une peine de trente-deux ans de prison pour avoir détourné pour des raisons politiques (la cause de l’indépendance croate) en 1976 un avion étatsunien. Il fut libéré en 2008. Son retour en Croatie suscita un accueil triomphal de la part d’une grande partie de la population croate. En 1976, il avait dirigé un groupe de révolutionnaires et nationalistes croates qui détourna un Boeing 727 de la compagnie T.W.A. sur un vol New York – Chicago avec soixante-seize passagers à bord afin d’attirer l’attention du monde sur la lutte indépendantiste croate désireuse de se séparer de la Yougoslavie communiste et titiste… L’avion s’était finalement posé à Paris et la presse étatsunienne avait publié leur revendication. Mais un policier à New York avait été tué en tentant de désamorcer une bombe que les pirates de l’air avaient dissimulé dans une station de métro. Condamné par les autorités américaines sous la pression de Belgrade à la prison á vie, il fut amnistié pour conduite exemplaire. Alors qu’il avait retrouvé de retour en Croatie son épouse Julienne Eden Busic, de citoyenneté étatsunienne qui l’avait secondé dans sa prise d’otage (elle avait été libérée en 1990), il décida de poursuivre la lutte politique dans sa patrie qui, après avoir gagné la guerre d’indépendance en 1991, est plongé dans le marasme politique, économique et moral par la responsabilité des gouvernements successifs néo-communistes et mondialistes. Ils ont livré la Croatie aux magouilles politico-affairistes, au Diktat des eurocrates de Bruxelles et de leurs laquais locaux ainsi qu’à la convoitise des oligarchies  anti-nationales. Toutes s’efforcent de faire table rase de l’identité nationale croate en imposant comme d’ailleurs partout en Europe, le sacro-saint modèle néo-libéral, des lois liberticides, la propagande du gender à l’école, la légalisation du mariage homosexuel. Bref, le scénario classique de l’idéologie dominante et mondialiste. Busic qui aimait citer Oswald Spengler n’était pas homme à accepter cet état de fait qu’il qualifiait lui-même de « déliquescence morale et sociale catastrophique ».

 

Busic soutint toutes les luttes révolutionnaires et nationales, de l’O.L.P. palestinien à l’I.R.A. irlandaise en passant par les Indiens d’Amérique du Nord. Ironie de l’histoire, il avait découvert les écrits historique de Dominique Venner en prison et fut peiné par sa disparition tragique.

 

Homme « classique » épris des vertus de l’Antiquité, Busic était avant tout un résistant croate et européen, un  baroudeur qui n’avait que du mépris pour le conformisme, la tricherie, la petite politique partisane et parlementaire, les calculs électoraux. Son idéal type était évolien : le moine-soldat, un style sobre et austère, guerrier, un genre de vie qu’il a appliqué durant toute sa vie. Ce n’est pas par hasard qu’il  fut très vite marginalisé par le système politique croate qu’il soit de droite ou de gauche. Après avoir rallié fort brièvement le Parti du droit croate (H.S.P.) du Dr. Ante Starcevic et de l’actuelle députée croate au Parlement européen, Ruza Tomasic, il tenta, en fondant l’association Le Flambeau, de constituer un « front national » regroupant l’ensemble des forces nationales croates (droite et gauche confondues). Mais très vite, cette vision et ce projet frontiste, d’orientation nationale-révolutionnaire, se soldèrent par un échec en raison des luttes de pouvoir inhérentes à la mouvance nationale croate. Busic n’avait pas caché sa déception en déclarant qu’« il n’avait pas réussi dans l’unification et la création d’un front uni patriotique ». Il annonça alors dans la presse croate sa décision de se retirer de la politique, car « il ne voulait pas contribuer à la destruction continue des forces politiques nationales et patriotiques en Croatie ».

 

Les obsèques de Zvonko Busic auxquels ont assisté des milliers de personnes et l’ensemble de la mouvance nationale croate, constituèrent (à Zagreb le 4 septembre dernier) furent un sérieux avertissement à la classe politique mondialiste croate. Son suicide fut un événement sans précédent pour l’opinion croate, habituée à ses coups de de colère, son franc parler et son idéalisme infatigable face à l’apathie sociale et la corruption de classe politique. Il faut dire qu’il a été longtemps traîné dans la boue par la presse croate gauchisante qu’il l’a continuellement traité de terroriste dès sa sortie de prison. Personne, et encore moins moi-même qui l’avait régulièrement côtoyé, ne s’était attendu à la fin tragique, de cet homme d’action à l’allure légionnaire et don quichottesque. Et après tout, est-ce que quelqu’un avait pu s’attendre au suicide de Dominique Venner ? Probablement non. Peu avant sa mort, Zvonko Busic a laissé une lettre à son ami Drazen Budisa, dans laquelle il avait demandé pardon á ses proches et qu’il se retirait car « il ne pouvait plus continuer de vivre dans l’obscurité de la Caverne platonicienne », faisant allusion à l’allégorie platonicienne de la Caverne. C’est vrai. Busic était trop pur, trop droit et trop sensible pour vivre dans le mensonge de cette Croatie post-communiste néo-libérale hyper-réelle, une Croatie qui avait fait allégeance à l’U.E. et à l’O.T.A.N., domestiquée et néo-titiste, alors que le gouvernement actuel refuse de livrer aux autorités allemandes, Josip Perkovic, qui fait l’objet d’un mandat d’extradition européen. Cet ancien agent de l’U.D.B.A. (la police politique et services secrets titiste yougoslaves) est impliqué dans l’assassinat de plusieurs dissidents croates à l’étranger.

 

La Croatie est le seul pays post-communiste à ne pas avoir voté une loi sur la lustration et où les rênes du pouvoir politique et économique sont encore entre les mains des anciens cadres titistes et de la police secrète qui n’a jamais été officiellement démantelée. Busic – c’est vrai – ne pouvait supporter ces ombres factices et éphémères de la société marchande et consumériste  mondiale, à l’égard de laquelle il s’est tant offusqué. Et pourtant, Busic, tout comme Venner, est tombé, volontairement, froidement, consciemment, je dirai même sereinement. Comme pour Venner, il s’agit du même modus operandi, du même  esprit sacrificiel, d’une mort annoncée, une mors triumfalis qui dérange et interroge. Dans le cas de la Croatie, sa mort a retenti non comme une fin, mais comme un avertissement, un appel à la mobilisation, un dernier appel à la lutte, un dernier sursaut pour le salut de la nation croate et européenne. Puisse ses vœux être exhaussés !

 

Jure Georges Vujic

 


 

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jeudi, 19 septembre 2013

Une nouvelle Route de la Soie reliera l’Asie à l’Europe

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Une nouvelle Route de la Soie reliera l’Asie à l’Europe

Par Tatiana Golovanova

Ex: http://fortune.fdesouche.com

Les pays regroupés dans l’Organisation de coopération de Shanghai (OCS) pourront rétablir la Voie de la Soie sous forme d’un corridor de transport spécialement aménagé. Comme l’a annoncé vendredi au sommet de l’OCS à Bichkek (Kirghizie) le ministre de la Recherche et des technologies de la Chine Wang Gang, ce projet a trouvé un soutien auprès de tous les pays membres de l’organisation.

Les membres de l’OCS sont prêts à développer les échanges économiques et commerciaux. Durant ces trois mois des spécialistes de Chine, qui a pris l’initiative de faire renaître la Voie de la Soie, ont visité les pays d’Asie Centrale – le Kazakhstan, l’Ouzbékistan et la Turkménie.

La Voie de la Soie rénovée pourra relier la Chine à l’Europe via la Russie et les États d’Asie Centrale

Des ententes ont été conclues au sujet de la réalisation des projets communs pour des dizaines de milliards de dollars. L’aménagement d’un corridor de transport de l’Asie à l’Europe est une étape suivante de l’essor de ces rapports, remarque Sergueï Sanakoïev, secrétaire de la Chambre sino-russe.

« Il s’agit de créer un corridor transnational traversant le territoire du continent eurasiatique. Comme toujours, l’aménagement de tels corridors en plus de rendre possible la circulation des marchandises et des services prévoient aussi la création de grappes d’entreprises industrielles, de nouvelles productions, de technologies de pointe. Cela veut dire que cela ouvre de plus larges possibilités à la coopération dans le cadre de l’OCS lors de la mise en œuvre d’une telle initiative. »

Le projet est censé mettre en place un réseau routier reliant le Pacifique à la mer Baltique, anéantir les barrières commerciales, réduire les délais de livraison des marchandises et augmenter les règlements mutuels en monnaies nationales. L’une des variantes possibles de la future Voie de la Soie est le corridor de transport « Europe –Chine Occidentale ».

Il passera par le Kazakhstan, approchera la frontière de la Russie et se prolongera par Orenbourg et les autoroutes fédérales vers Saint-Pétersbourg et la Golfe de Finlande et la mer Baltique. La longueur de ce parcours pourra atteindre près de 8 500 km. Voici le commentaire d’Alexandre Potavine, analyste de la compagnie « RGS – Gestion des actifs ».
« En regardant la carte du monde et en évaluant les possibilités d’aménager une telle voie, on verra que les marchandises de Chine seront livrées via la Russie, l’Asie Centrale en Europe. Ce projet profite évidemment à la Chine. Il permet de minimiser les frais de transport, étant donnée que la Grande Voie de la Soie est d’environ un tiers est plus court que la voie maritime, contournant l’Asie et la péninsule Arabique. »

Si on réussit de mettre en œuvre cette conception, la Chine réduira les délais de livraison de ses marchandises. Actuellement les frets parviennent à l’Europe par mer au bout de 45 jours, par le Transsibérien – cela prend deux semaines. La nouvelle voie sera la plus courte et ne prendra pas plus de dix jours.

En plus de la Chine le corridor de transport permettra de se développer à d’autres participants. Ils pourront gagner bien sur le transit et la logistique, et vont encore attirer des investissements chinois pour leurs projets de transport, remarque Sergueï Sanakoïev.

La Voix de la Russie

mardi, 17 septembre 2013

LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE

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Claudio MUTTI

LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Sommario del numero XXXI (3-2013 [1])
 

“In queste condizioni, vi possono essere soltanto

lingue vincitrici e lingue vinte”

(J. V. Stalin, Al compagno Kholopov, 28 luglio 1950)

Lingua e Impero

Se il termine geolinguistica non fosse già utilizzato dai glottologi per significare la geografia linguistica o linguistica areale, ossia lo studio della diffusione geografica dei fenomeni linguistici, lo si potrebbe impiegare per indicare la geopolitica delle lingue, cioè il ruolo del fattore linguistico nel rapporto tra lo spazio fisico e lo spazio politico. A suggerire questa possibilità non è solo l’esistenza di analoghi composti nominali, come geostoria, geofilosofia, geoeconomia, ma anche la relazione della geopolitica delle lingue con una disciplina designata da uno di tali termini: la geostrategia.

La lengua es compañera del imperio“: il nesso tra egemonia linguistica ed egemonia politico-militare, così icasticamente rappresentato dal grammatico e lessicografo Elio Antonio de Nebrija (1441-1522), sottende la definizione che il Maresciallo di Francia Louis Lyautey (1854-1934) diede della lingua: “un dialetto che ha un esercito e una marina”. Al medesimo ordine di idee si ispira il generale Jordis von Lohausen (1907-2002), allorché prescrive che “la politica linguistica venga messa sullo stesso piano della politica militare” ed afferma che “i libri in lingua originale svolgono all’estero un ruolo talvolta più importante di quello dei cannoni”1. Secondo il geopolitico austriaco, infatti, “la diffusione d’una lingua è più importante d’ogni altra espansione, poiché la spada può solo delimitare il territorio e l’economia sfruttarlo, ma la lingua conserva e riempie il territorio conquistato”2. È questo, d’altronde, il senso della celebre frase di Anton Zischka (1904-1997): “Preferiamo i professori di lingue ai militari”.

L’affermazione del generale von Lohausen potrebbe essere illustrata da una vasta gamma di esempi storici, a partire dal caso dell’Impero romano, che tra i suoi fattori di potenza ebbe la diffusione del latino: una parlata contadina che con lo sviluppo politico di Roma diventò, in concorrenza col greco, la seconda lingua del mondo antico, usata dai popoli dell’Impero non perché costretti, ma perché indotti a ciò dal prestigio di Roma. Da principio il latino servì alle popolazioni assoggettate per comunicare coi soldati, i funzionari e i coloni; in seguito diventò il segno distintivo della comunità romana.

Tuttavia allo spazio imperiale romano, che per mezzo millennio costituì un’unica patria per le diversae gentes comprese tra l’Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non corrispose un’unica lingua: il processo di latinizzazione fu più lento e difficile quando i Romani si trovarono a contatto coi territori in cui si parlava la lingua greca, espressione e veicolo di una cultura che godeva, negli ambienti della stessa élite romana, di un prestigio superiore. Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell’esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale, alla quale gli idiomi locali dell’ecumene imperiale non potevano adempiere.

Sicuramente è pressoché impossibile separare con una netta linea di confine il dominio del latino e quello del greco all’interno dell’Impero romano; nondimeno possiamo affermare che la divisione dell’Impero in due parti e la successiva scissione avvennero lungo una linea di demarcazione coincidente grosso modo col confine linguistico, che tagliava a metà sia i territori europei sia quelli nordafricani. In Libia, è proprio lungo questa linea che si è recentemente prodotta la frattura che ha separato di nuovo la Tripolitania dalla Cirenaica.

In seguito la carta linguistica dell’Europa ci presenta una situazione che Dante descrive identificando tre distinte aree: quella del mondo germanico, in cui fa rientrare anche Slavi e Ungheresi, quella di lingua greca, quella degl’idiomi neolatini3; all’interno di quest’ultima egli può ulteriormente distinguere le tre unità particolari di provenzale (lingua d’oc), francese (lingua d’oil) e italiano (lingua del ). Ma Dante è ben lungi dall’usare l’argomento della frammentazione linguistica per sostenere la frammentazione politica; anzi, egli è convinto che solo la restaurazione dell’unità imperiale potrebbe far sì che l’Italia, “il bel paese là dove il sì suona”4, torni ad essere “il giardin dello ‘mperio”5. E l’impero ha la sua lingua, il latino, poiché, come dice lo stesso Dante, “lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile”6.

In un’Europa linguisticamente frammentata, che il Sacro Romano Impero vorrebbe ricostituire in unità politica, una potente funzione unitaria è svolta proprio dal latino: non tanto dal sermo vulgaris, quanto dalla lingua di cultura della res publica clericorum. Questo “latino scolastico”, se vogliamo indicarne la dimensione geopolitica, “è stato il portatore per tutta l’Europa, ed anche fuori, della civiltà latina e cristiana: confermandola, come nelle Spagne, nell’Africa (…), nelle Gallie; o acquisendo ad essa zone nuove o appena sfiorate dalla civiltà romana: la Germania, l’Inghilterra, l’Irlanda, per non parlare poi anche di paesi nordici e slavi”7.

Le grandi aree linguistiche

Fra tutti gl’idiomi neolatini, l’espansione maggiore è stata raggiunta dalla lengua castellana. In seguito alla bolla di Alessandro VI, che nel 1493 divise il nuovo mondo tra Spagnoli e Portoghesi, il castigliano si impose nelle colonie appartenute alla Spagna, dal Messico fino alla Terra del Fuoco; ma anche dopo l’emancipazione i singoli Stati sorti sulle rovine dell’Impero delle Americhe mantennero il castigliano come lingua nazionale, ragion per cui l’America latina possiede una relativa unità culturale e il dominio linguistico spagnolo si estende anche ad una parte del territorio statunitense.

Per quanto riguarda il dominio dell’altra lingua iberica, a testimoniare l’estensione dell’area coloniale che in altri tempi appartenne al Portogallo basterebbe il fatto che l’idioma di Camões è “la lingua romanza che ha dato origine al maggior numero di varietà creole, per quanto alcune siano estinte o in via di estinzione”8: da Goa a Ceylon, a Macao, a Giava, alla Malacca, a Capo Verde, alla Guinea. Tra gli Stati che hanno raccolto l’eredità lusofona, si impone oggi il Paese emergente rappresentato dall’iniziale dell’acronimo BRICS: il Brasile, coi suoi duecento milioni di abitanti, a fronte dei dieci milioni e mezzo che vivono nell’antica madrepatria europea.

L’espansione extraeuropea del francese come lingua nazionale, invece, è stata inferiore a quella che esso ha avuto come lingua di cultura e di comunicazione. Infatti, se il francese è la quinta lingua più parlata nel mondo per numero di locutori (circa duecentocinquanta milioni) ed è la seconda più insegnata come lingua straniera, si trova invece al nono posto per numero di madrelingua (circa settanta milioni; circa centotrenta se si aggiungono anche gl’individui bilingui). In ogni caso, è l’unica lingua a trovarsi diffusa, come lingua ufficiale, in tutti i continenti: è lingua di scambio in Africa, il continente che annovera il maggior numero di entità statali (più d’una ventina) in cui il francese è lingua ufficiale; è la terza lingua nell’America del Nord; è usata anche nell’Oceano Indiano e nel Pacifico meridionale. Gli Stati e i governi che a vario titolo hanno in comune l’uso del francese sono raggruppati nell’Organizzazione Internazionale della Francofonia (OIF), fondata il 20 marzo 1970 con la Convenzione di Niamey.

Eminentemente eurasiatica è l’area d’espansione del russo, lingua comune e ufficiale di uno Stato multinazionale che, pur nel succedersi di fasi storiche e politiche che ne hanno cambiato la dimensione territoriale, rimane il più esteso sulla faccia della terra. Se nel periodo sovietico il russo poteva essere glorificato come “lo strumento della civiltà più avanzata, della civiltà socialista, della scienza progressista, la lingua della pace e del progresso (…) lingua grande, ricca e potente (…) strumento della civiltà più avanzata del mondo”9 e in quanto tale reso obbligatorio nell’insegnamento dei paesi dell’Europa orientale, dopo il 1991 esso gode di un diverso statuto in ciascuno degli Stati successori dell’Unione Sovietica. Nella Federazione Russa, la Costituzione del 1992 sancisce il diritto di ogni cittadino alla propria appartenenza nazionale ed all’uso della lingua corrispondente ed inoltre garantisce a ciascuna Repubblica la facoltà di avvalersi, accanto alla lingua ufficiale russa, delle lingue delle nazionalità che la costituiscono.

Se il russo è al primo posto per l’estensione del territorio dello Stato del quale esso è lingua ufficiale, il cinese detiene la preminenza per il numero dei parlanti. Usato attualmente da circa un miliardo e trecento milioni di persone, il cinese si presenta fin dall’antichità come un insieme di varianti che rendono alquanto problematica l’applicazione del termine dialetto; fra tutte primeggia il mandarino, un gruppo grande e variegato che a sua volta si distingue in mandarino del Nord, dell’Ovest e del Sud. Il mandarino del Nord, che ha il suo centro a Pechino, è stato preso a modello per la lingua ufficiale (tōnghuà, letteralmente “lingua comune”), parlata come lingua madre da più di ottocento milioni di persone. Ufficialmente la popolazione della Repubblica Popolare Cinese, che nella sua Costituzione si definisce “Stato plurinazionale unitario”, consta di cinquantasei nazionalità (minzu), ciascuna delle quali usa la propria lingua; fra queste, la più numerosa è quella han (92% della popolazione), mentre le altre cinquantacinque, che costituiscono il restante 8%, “parlano almeno sessantaquattro lingue, di cui ventisei hanno una forma scritta e sono insegnate nelle scuole elementari”10.

L’hindi e l’urdu, che possono essere considerati continuazioni del sanscrito, sono le lingue predominanti nel subcontinente indiano, dove dieci Stati dell’Unione Indiana costituiscono la cosiddetta “cintura hindi” e dove l’urdu è lingua ufficiale del Pakistan. La differenza più evidente tra queste due lingue consiste nel fatto che la prima si serve della scrittura devanagari, mentre la seconda fa uso dell’alfabeto arabo; sul piano lessicale, l’hindi ha recuperato una certa quantità di elementi sanscriti, mentre l’urdu ha incorporato molti termini persiani. Per quando riguarda in particolare l’hindi, si potrebbe dire che esso ha svolto nel subcontinente indiano una funzione analoga a quella del mandarino in Cina, poiché, formatosi sulla base di un dialetto parlato nelle vicinanze di Delhi (il khari boli), insieme con l’inglese è diventato, fra le ventidue lingue citate nella Costituzione indiana, la lingua ufficiale dell’Unione.  

L’arabo, veicolo della rivelazione coranica, con l’espansione dell’Islam si è diffuso ben al di fuori dei suoi confini originari: dall’Arabia al Nordafrica, dalla Mesopotamia alla Spagna. Caratterizzato da una notevole ricchezza di forme grammaticali e da finezze di rapporti sintattici, incline ad arricchire il proprio lessico attingendo vocaboli da dialetti e da lingue straniere, l’arabo prestò il proprio sistema alfabetico a lingue appartenenti ad altre famiglie, quali il persiano, il turco, l’urdu; codificato dai grammatici e divenuto lingua dotta del dâr al-islâm, si sostituì al siriaco, al copto, ai dialetti berberi; arricchì con numerosi prestiti il persiano, il turco, le lingue indiane, il malese, le lingue iberiche; come strumento di filosofia e di scienza, influenzò le lingue europee quando i califfati di Bagdad e di Cordova costituivano i maggiori centri di cultura ai quali poteva attingere l’Europa cristiana. Oggi l’arabo è in diversa misura conosciuto, studiato ed usato, in quanto lingua sacra e di pratica rituale, nell’ambito di una comunità che oltrepassa il miliardo di anime. Come lingua madre, esso appartiene a circa duecentocinquanta milioni di individui, stanziati su un’area politicamente frazionata che dal Marocco e dalla Mauritania si estende fino al Sudan ed alla Penisola araba. A tale denominatore linguistico si sono richiamati i progetti di unità della nazione araba formulati nel secolo scorso: “Arabo è colui la cui lingua è l’arabo”11 si legge ad esempio nello statuto del Baath.  

La lingua dell’imperialismo statunitense

In tutta la prima metà del Novecento, la lingua straniera più conosciuta nell’Europa continentale era il francese. Per quanto riguarda in particolare l’Italia, “solo nel 1918 vennero istituite cattedre universitarie di inglese ed alla stessa data risale la fondazione dell’Istituto britannico di Firenze, che, con la sua biblioteca e i suoi corsi linguistici, divenne ben presto il centro più importante di diffusione appunto della lingua inglese a livello universitario”12. Alla Conferenza di pace dell’anno successivo gli Stati Uniti, che si erano ormai introdotti nello spazio europeo, imposero per la prima volta l’inglese – accanto al francese – quale lingua diplomatica. Ma a determinare il decisivo sorpasso del francese da parte dell’inglese fu l’esito della seconda guerra mondiale, che comportò la penetrazione della “cultura” angloamericana in tutta l’Europa occidentale. Dell’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico non era d’altronde inconsapevole lo stesso Sir Winston Churchill, che il 6 settembre 1943 dichiarò esplicitamente: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gl’imperi del futuro sono quelli della mente”. Con la caduta dell’Unione Sovietica, nell’Europa centro-orientale “liberata” l’inglese non solo ha scalzato il russo, ma ha anche soppiantato in larga misura il tedesco, il francese e l’italiano, che prima vi avevano un’ampia circolazione. D’altronde, l’egemonia dell’inglese nella comunicazione internazionale si è ulteriormente consolidata nella fase più intensa della globalizzazione.

Così i teorici angloamericani del mondo globalizzato hanno potuto elaborare, basandosi sul peso geopolitico esercitato dalla lingua inglese, il concetto di “Anglosfera”, definito dal giornalista Andrew Sullivan come “l’idea di un gruppo di paesi in espansione che condividono principi fondamentali: l’individualismo, la supremazia della legge, il rispetto dei contratti e degli accordi e il riconoscimento della libertà come valore politico e culturale primario”13. Pare che ad introdurre il termine “Anglosfera” sia stato nel 2000 uno scrittore americano, James C. Bennett; a suo parere “i paesi di lingua inglese guideranno il mondo nel XXI secolo” (Why the English-Speaking Nations Will Lead the Way in the Twenty-First Century è il sottotitolo del suo libro The Anglosphere Challenge), poiché l’attuale sistema degli Stati è condannato a crollare sotto i colpi del cyberspazio anglofono e dell’ideologia liberale. Lo storico Andrew Roberts, continuatore dell’opera storiografica di Churchill con A History of the English Speaking Peoples since 1900, sostiene che il predominio dell’Anglosfera è dovuto alla lotta dei paesi anglofoni contro le epifanie del Fascismo (ossia – sic – “la Germania guglielmina, il nazismo, il comunismo e l’islamismo”), in difesa delle istituzioni rappresentative e del libero mercato.

Meno ideologica la tesi dello storico John Laughland, secondo il quale “l’importanza geopolitica della lingua inglese è (…) rilevante solo in funzione della potenza geopolitica dei paesi anglofoni. Potrebbe essere uno strumento da questi usato per rafforzare la loro influenza, ma non è una fonte indipendente di quest’ultima, perlomeno non della potenza militare”14. La lingua, conclude Laughland, può rispecchiare la potenza politica, ma non la può creare.

In questo caso la verità sta nel mezzo. È vero che l’importanza di una lingua dipende – spesso ma non sempre – dalla potenza politica, militare ed economica del paese che la parla; è vero che sono le sconfitte geopolitiche a comportare quelle linguistiche; è vero che “l’inglese avanza a detrimento del francese perché gli Stati Uniti attualmente restano più potenti di quanto non lo siano i paesi europei, i quali accettano che sia consacrata come lingua internazionale una lingua che non appartiene a nessun paese dell’Europa continentale”15. Tuttavia esiste anche una verità complementare: la diffusione internazionale di una lingua, contribuendo ad aumentare il prestigio del paese corrispondente, ne aumenta l’influenza culturale ed eventualmente quella politica (un concetto, questo, che pochi riescono ad esprimere senza fare ricorso all’anglicismo soft power); a maggior ragione, il predominio di una lingua nella comunicazione internazionale conferisce un potere egemone al più potente fra i paesi che la parlano come lingua madre.

Per quanto concerne l’attuale diffusione dell’inglese, “lingua della rete, della diplomazia, della guerra, delle transazioni finanziarie e dell’innovazione tecnologica, non vi è dubbio: questo stato di cose regala ai popoli di lingua inglese un incomparabile vantaggio e a tutti gli altri un considerevole svantaggio”16. Come spiega meno diplomaticamente il generale von Lohausen, il vantaggio che gli Stati Uniti hanno ricavato dall’anglofonia “è stato uguale per i loro commercianti e per i loro tecnici, per i loro scienziati e i loro scrittori, i loro uomini politici e i loro diplomatici. Più l’inglese è parlato nel mondo, più l’America può avvantaggiarsi della forza creativa straniera, attirando a sé, senza incontrare ostacoli, le idee, gli scritti, le invenzioni altrui. Coloro la cui lingua materna è universale, posseggono un’evidente superiorità. Il finanziamento accordato all’espansione di questa lingua ritorna centuplicato alla sua fonte”17.

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Quale lingua per l’Europa?

Nei secoli XVI e XVII, dopo che la pace di Cateau Cambrésis (1559) ebbe sancito la dominazione spagnola in Italia, la lingua castigliana, oltre ad essere usata dalle cancellerie di Milano e di Napoli, si diffuse nel mondo della politica e delle lettere. Il numero delle voci italiane (e dialettali) nate in quel periodo per effetto dell’influsso spagnolo è elevatissimo18. Tra tutti questi ispanismi, però, alcuni furono usati solo in maniera occasionale e non si possono considerare come entrati nell’uso generale; altri ebbero vita effimera e scomparvero senza lasciar traccia; solo una minoranza entrò stabilmente a far parte del vocabolario italiano. In seguito alla pace di Utrecht (1713), che segnò la fine dell’egemonia spagnola nella penisola, l’influenza del castigliano sulla lingua italiana “è stata di gran lunga inferiore a quello dei secoli precedenti”19.

È lecito supporre che nemmeno il colonialismo culturale d’espressione angloamericana debba durare per l’eternità; anzi, alcuni linguisti già prevedono che all’odierna fase di predominio anglofono seguirà una fase di decadenza20. Essendo legato all’egemonia imperialistica statunitense, il predominio dell’inglese è destinato a risentire in maniera decisiva della transizione dallo stadio unipolare a quello multipolare, per cui lo scenario che la geopolitica delle lingue può ragionevolmente prefigurare è quello di un mondo articolato secondo il multipolarismo delle aree linguistiche.

Diversamente dal continente americano, che presenta una netta ripartizione tra il blocco anglofono del nord e quello ispanofono e lusofono della parte centrale e meridionale, l’Eurasia è il continente della frammentazione linguistica. Accanto ai grandi spazi rappresentati dalla Russia, dalla Cina o dall’India, relativamente omogenei sotto il profilo linguistico, abbiamo uno spazio europeo caratterizzato da una situazione di accentuato multilinguismo.

Perciò sarebbe stato logico che i fondatori della Comunità Economica Europea, se proprio volevano rifiutare una soluzione monolinguistica, adottassero come lingue ufficiali, tra quelle dei Paesi aderenti, le due o tre più parlate nell’area; magari scegliendo, in previsione dei successivi allargamenti della CEE, una terna di lingue che rappresentassero le tre principali famiglie presenti in Europa: la germanica, la romanza e la slava. Invece l’art. 1 del regolamento emanato nel 1958 indicò ben quattro lingue (francese, italiano, tedesco e olandese) come “lingue ufficiali e lingue di lavoro delle istituzioni della Comunità”, col risultato che le “lingue di lavoro” sono oggi praticamente tre: francese, tedesco e inglese.

Il fallimento dell’Unione Europea impone di sottoporre a radicale revisione il progetto europeista e di rifondare su nuove basi l’edificio politico europeo. La nuova classe politica che sarà chiamata ad affrontare questo compito storico non potrà più eludere un problema fondamentale come quello della lingua.

1. Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance, Editions du Labyrinthe, Arpajon 1996, p. 49.

2. Jordis von Lohausen, ibidem.

3. De vulgari eloquentia, VIII, 3-6.

4. Dante, Inf. XXXIII, 80.

5. Dante, Purg. VI, 105.

6. Dante, Convivio, I, 5.

7. Luigi Alfonsi, La letteratura latina medievale, Accademia, Milano 1988, p. 11.

8. Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 202.

9. “Voprosy Filozofij”, 2, 1949, cit. in: Lucien Laurat, Stalin, la linguistica e l’imperialismo russo, Graphos, Genova 1995, p. 52.

10. Roland Breton, Atlante mondiale delle lingue, Vallardi, Milano 2010, p. 34.

11. Michel ‘Aflaq, La resurrezione degli Arabi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, p. 54.

12. I. Baldelli, in Bruno Migliorini – Ignazio Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1972, p. 331.

13. Andrew Sullivan, Come on in: The Anglosphere is freedom’s new home, “The Sunday Times”, 2 febbraio 2003.

14. John Laughland, L’Anglosfera non esiste, “I quaderni speciali di Limes”, a. 2, n. 3, p. 178.

15. Alain de Benoist, Non à l’hégémonie de l’anglais d’aéroport!, voxnr.com, 27 maggio 2013.

16. Sergio Romano, Funzione mondiale dell’inglese. Troppo utile per combatterla, “Corriere della Sera”, 28 ottobre 2012.

17. Jordis von Lohausen, ibidem.

18. Gian Luigi Beccaria, Spagnolo e Spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Giappichelli, Torino 1968.

19. Paolo Zolli, Le parole straniere, Zanichelli, Bologna 1976, p. 76.

20. Nicholas Ostler, The Last Lingua Franca: English Until the Return of Babel, Allen Lane, London 2010.

 


 

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EU maakt weg vrij voor geheime bankreddingen met belastinggeld

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EU maakt weg vrij voor geheime bankreddingen met belastinggeld

'De Duitsers kunnen een groot deel van hun auto-export net zo goed op een boot laden en deze bij Hamburg tot zinken brengen. Dat zou net zoveel opleveren als het verkopen van Audi's in ruil voor schuldbekentenissen (IOU's) van de bankroete (euro)landen.'

De kogel is door de kerk. Waar we al lange tijd voor waarschuwen is nu door het Europese parlement mogelijk gemaakt: banken kunnen, in tegenstelling tot alle eerdere beloftes, voortaan met de miljarden van het Europese Stabilisatie Mechanisme (ESM) worden gered. Bovendien blijven deze 'reddingen' geheim voor het publiek. Brussel heeft hiermee een succesvolle, door de media onopgemerkte greep naar het belastinggeld van de Nederlanders en alle andere Europeanen gedaan.

 

ESM gaat tóch voor banken worden gebruikt

 

'Onze' politici zwijgen er het liefste over als het graf, maar u herinnert zich vast nog wel dat het volk werd verzekerd dat het ESM beslist niet voor het redden van de banken zou worden gebruikt. Rutte, Dijsselbloem en hun Brusselse bazen beloofden dat de lasten in de toekomst op de aandeelhouders, investeerders en banken zelf zouden worden afgewenteld.

 

Loze beloften en holle woorden, zo vreesden critici. Ze blijken gelijk te hebben gehad. Met 556 ja-stemmen, 54 nee-stemmen en 28 onthoudingen is het Europese (schijn-)parlement akkoord gegaan met een compromis over het Europese bankentoezicht. De Europarlementariërs krijgen op papier enkel het recht om uit minstens twee kandidaten het hoofd van de toezichthoudende instelling te kiezen, die twee keer per jaar verantwoording aan het EP moet afleggen. Verder krijgt de chef van de financiële commissie van het EP het recht op een 'niet openbare dialoog' met de hoofd-toezichthouder.

 

Overleg en besluiten blijven geheim

 

Het publiek mag hier echter niet van op de hoogte worden gebracht. Zowel de parlementariërs als de chef van de financiële commissie krijgen geheimhoudingsplicht opgelegd. Als de ECB-raad niet instemt met een besluit van de bankentoezichthouder, dan krijgen enkel ECB-president Draghi en EP-voorzitter Schulz dit te horen. De ECB-raad hoeft echter niet alle besproken zaken aan het parlement mee te delen.

 

Ook de protocollen van de zittingen van de commissie van het bankentoezicht worden geheim gehouden. Het EP krijgt slechts een 'gedetailleerde samenvatting' van wat er besproken is. Onofficiële informatie over de betroffen banken, die de ECB en de toezichthouder niet naar buiten willen brengen, krijgt ook het parlement niet te weten.

 

De reden van de geheimhouding is duidelijk: als bekend wordt welke banken in de problemen verkeren, dan dreigt net als op Cyprus paniek en vervolgens een bankrun te ontstaan.

 

'Meest verstrekkende stap EU ooit'

 

Europarlementariër Sven Giegold (Duitse Groenen), die zich tenminste voor minimale controle had ingezet, spreekt van de 'meest verstrekkende stap die de EU sinds de invoering' heeft genomen. Het Europese bankentoezicht wordt echter dermate vaag en ondoorzichtig opgezet, en het parlement krijgt hierbij een zo'n nietszeggende rol, dat van enige democratische legitimering geen enkele sprake is.

 

Het bankentoezicht betekent niets anders dat Europese banken voortaan uit het met belastinggeld gefinancierde ESM-fonds kunnen worden gered. Nogmaals: het ESM werd uitsluitend opgezet om in problemen geraakt lidstaten te ondersteunen. Het (her)kapitaliseren van de banken werd hierbij uitdrukkelijk uitgesloten.

 

Bankroete landen staan al in de rij

 

Vorig jaar juni besloten de minister van Financiën om het ESM ook voor de banken in te zetten, zogenaamd omdat men niet langer belastinggeld voor deze doeleinden wilde gebruiken. Spanje en Italië drongen het meeste aan op het inzetten van het ESM. Duitsland ging 'onder voorwaarden' akkoord.

 

Die voorwaarden zijn nu vervuld. Het bankentoezicht wordt vanaf de herfst van 2014 actief. Aangezien het Europese parlement al heeft ingestemd, is het onduidelijk of er nu al ESM-gelden naar de banken zullen vloeien, of dat men toch tot de officiële ingangsdatum in 2014 wacht.

 

Hoe dan ook, Griekenland, Ierland, Portugal, Spanje en Slovenië staan al in de rij om hun banken door het ESM -dus wel degelijk met het belastinggeld van de burgers- te laten 'redden', in de hoop het staatsbankroet te kunnen ontlopen. (1)

 

Ergste achter de rug?

 

Media en financiële instellingen, zoals kredietbeoordelaar Moody's, zeggen dan ook dat het ergste voor de banken achter de rug is. ECB-directeur Jörg Asmussen waarschuwde deze week echter dat er nog altijd geen zekerheid is dat we geen tweede 'Lehman Brothers' (het begin van de financiële crisis in 2008) zullen meemaken.

 

De Europese banken bouwen weliswaar hun portefeuilles met Zuid-Europese staatsschulden af, maar als de schuldencrisis zich verergert, zullen er wel degelijk nieuwe belastingmiljarden 'nodig' zijn om de banken overeind te houden. De crisis is daarom nog lang niet voorbij (2), wat EU-Commissiepresident José Manuel Barroso ook moge beweren.

 

Overigens kreeg salonmarxist Barroso deze week opnieuw de wind van voren van de Britse Europarlementariër Nigel Farrage, die hem verantwoordelijk stelde voor 'de ramp die de EU voor de armen en werkelozen' is geworden.

 

'Bezuinigingen zullen dramatisch mislukken'

 

Volgens de onafhankelijke financiële advies- en onderzoeksfirma GaveKal Research pompt de EU feitelijk waardeloze schuldpapieren in de Unie rond, en weet inmiddels niemand meer wie hier uiteindelijk voor moet opdraaien (wij wel: u, ik en alle andere gewone burgers).

 

'Het gevolg (van de grote renteverschillen) is dat de private sector massaal hun leningen verminderen, wat gecompenseerd wordt door een enorme toename van de overheidsuitgaven in onder andere Frankrijk, Italië en Spanje. De logica van dit systeem is inherent in strijd met de begrotingsregels van 'Maastricht', want zolang de rente ver boven de (economische) groei ligt, kunnen bezuinigingen alleen maar dramatisch mislukken.'

 

'Duitsers kunnen hun auto-export net zo goed tot zinken brengen'

 

'Het systeem veroorzaakt onverbiddelijk de vernietiging van de industriële basis in Italië, Frankrijk, Spanje en andere landen,' vervolgt Charles Gave. Dat de Duitse industrie hier nu van profiteert, is tijdelijke schijn. 'De Duitsers kunnen een groot deel van hun auto's net zo goed op een boot laden en deze bij Hamburg tot zinken brengen. Dat zou net zoveel opleveren als het verkopen van Audi's in ruil voor schuldbekentenissen (IOU's) van de bankroete (euro)landen.'

 

Deze IOU's duiken bij de ECB op in de vorm van de op deze site al vaak besproken beruchte, door de politieke doodgezwegen Target-2 balansen. 'Dat betekent dat niemand weet wie er uiteindelijk voor het verlies gaat opdraaien. Het spel gaat dus verder... totdat de soevereine landen binnen en buiten de EU stoppen met het accepteren van dit waardeloze papier.'

 

Crisis niet afgewend, maar versterkt

 

The Hamiltonian constateert dan ook dat de zogenaamde 'afgewende' crisis in werkelijkheid een versterkte crisis is. Het structurele probleem in Europa, het systeem waarin de Europese politieke, bureaucratische, media-, academische en financiële elite onderling met elkaar verbonden is, wordt niet opgelost. De EU stevent dan ook op een permanente Transferunie af, waarin landen zoals Duitsland en Nederland de andere lidstaten met miljarden overeind moeten houden, wat blijvend ten koste van hun eigen welvaart zal gaan.

 

Tenslotte deelde The Hamiltonian ook nog een forse sneer uit naar Barroso: 'Zijn opmerkingen afgelopen avond, dat iedere stap terug van 'Europa' dezelfde omstandigheden zal veroorzaken die leidden tot de Eerste Wereldoorlog, zijn niet alleen belachelijk verkeerd -hij zit er 180 graden naast- maar ronduit obsceen.' (3)

 

Xander

 

(1) Deutsche Wirtschafts Nachrichten
(2) KOPP
(3) Zero Hedge

lundi, 16 septembre 2013

L’Europa non ha difesa, ma a nessuno importa

L’Europa non ha difesa, ma a nessuno importa

Lorenzo Centini

Ex: http://www.statopotenza.it

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E’ un paradosso esiziale, o piuttosto dadaista, che in questi anni vocianti, in cui tutti si sono sentiti in dovere di esprimere giudizi sull’integrazione europea, nessuno abbia speso metà della propria energia culturale per farsi una domanda importante: “Ma l’Europa Unita, come si difende?”.


Probabilmente la Storia sarà inclemente con questa Unione zoppa e troppo improvvisata, fatta di distillatori portoghesi e taglialegna scandinavi, ma noi che ci troviamo a viverla, questa anomalia, abbiamo l’obbligo di sforzarci per rispondere ad alcune domande. Quella suddetta non è di secondaria importanza.


E’ assolutamente intuitivo che qualsiasi organismo nazionale o sovranazionale con tendenze direttive organiche abbia bisogno di una forza, se non altro di difesa. Finiti i tempi delle vacche grasse in cui ONU era un imperativo e i trattati erano tutti categorici e vincolanti ab aeternum, per giocare un ruolo importante nei destini del mondo, come L’Europa può ancora tentare di fare, è necessario avere a disposizione una salda forza militare, moderna e rapida, per poterla adoperare nello scontro diplomatico, come fiches o come spauracchio.
Al momento qualsiasi vaga forza millitare paneruopea è racchiusa nella PESC (politica estera e di sicurezza comune), una serie di direttive intermittenti decise in cicliche riunioni dei ministri degli esteri comunitari. Tuttavia tale forza non è costituita in modo continuo e gestita direttamente da un capo maggiore europeo, nominato od eletto, ma consiste in frammentarie alleanze a geometria variabilissima che, di volta in volta, vengono promosse per rispondere a questioni di sicurezza presentate come “comuni”.


Tale metodo, come si può evincere, non ha quasi mai funzionato. Nato nel 1970, non ha praticamente visto la luce del mondo fino agli anni 2000 (se si eccettua l’EUFOR, la forza europea a partecipazione nominale che aiutò l’ONU in Yugolasvia negli anni 90′), vista la peculiare situazione politica dell’Europa Unita durante la guerra fredda.


Dopo aver subito un revival negli anni della presidenza di Javier Solana (1999-2009) è stata trasformata nel 2010, quando il Trattato di Lisbona ha destituito la formula dei “pilastri dell’UE” eliminando le barriere che intercorrevano tra i processi integrativi economici, politici e militari.


Di lì in poi, il buio. La PESC, che non ha mai avuto alcuna influenza effettiva negli orientamenti dei singoli stati in tema di politica estera, non è nemmeno mai riuscita a federare un numero relativamente grande di compagini militari nazionali e a farle collaborare in qualche teatro estero. Le guerre statunitensi in medioriente hanno infatti visto i paesi europei spaccarsi in un fronte a favore e in uno contro. Discorso simile si può fare per le operazioni in Libia e Mali, dove la stragrande maggioranza dei ministri esteri si è guardata bene dall’impegnarsi in scorrerie nei balcani del mondo. Eccettuato Parigi, che come si sa ha da ridire solo se le guerre non può condurle lei.


Da vent’anni a questa parte, difatti, l’Unione Europea ha intrapreso un percorso di riconsiderazione. La struttura confederale dell’Unione e il suo passato dotato di molta massa critica ne hanno designato peculiarità e limiti. Il più grosso dei quali è sicuramente il rifiuto da parte dei quadri europei di definire l’UE come forza politica attiva e assertiva.
Domina infatti, come voga culturale, la tendenza a rifiutare qualsiasi interventismo comunitario, diffondendo l’immagine di un Europa compagnona che si impegna su tutti i fronti e in tutti i dialoghi ma che non è disposta a investire in questi processi capitali fattuali o non propriamentre diplomatici.


L’esempio fondante è sicuramente il dialogo tra Serbia e Kossovo. L’Unione Europa ha monopolizzato da subito il dialogo tra le parti per stabilizzare un cortile da sempre scottante, riuscendo anche ad ottenere pochi ma sensibili successi, come la pacificazione al livello militare della zona. Ma si è rifiutata sempre di impegnare mezzi o capitali, asserendo di non voler interevenire fisicamente in un paese sovrano. Stessa formula copicollata alla situazione Siriana, dove l’UE si è subito discostata da qualsiasi ipotesi di intervento dell’asse NATO-UE ma si è semplicemente dichiarata favorevole, in linea di principio, alle richieste dei ribelli. Le nozze coi fichi secchi.


La mancanza di una forza europea comune si farà sempre più sentire. Un Europa che si affida alle proprie capacità di pressione economica è un Europa che vive dei propri dividendi storici, convinta di essere un too big to fail geopolitico e assolutamente sicura di poter gestire il mondo attorno a lei, a livello comunitario, con ammonizioni e sanzioni.


Un Europa sempre più vecchia e autoreferenziale, il cui collante con gli States viene meno ogni giorno di più, visto che a Washginton ormai ci vedono più come un peso che come una risorsa, con armi quindi spuntate e incapacitata a chiamare il Papi a stelle e strisce quando vorrà fare la voce grossa.


Un Europa sempre più vecchia, in tutti i sensi, che in futuro potrà contare solo su una forza militare organizzata e specializzata, per supporto alle proprie (si spera concertate) future indicazioni geopolitiche e sulla propria capacità di organizzazione diagonale.
Un Europa che, con una forza militare propria, potrebbe anche pensare ad un percorso geopolitico proprio, senza l’ansia di rimanere senza ombrello difensivo.


Bruxelles, infatti, in questi anni, ha dimostrato in sede internazionale di non sopportare più totalmente le angherie geopolitiche atlantiste, reprimendo sempre più a fatica spinte autonomistiche di singoli stati. Già parlato della Francia, che da anni costituisce l’avanguardia antiamericana nel mondo occidentale sulle decisione macropolitiche estere nei consessi internazionali, anche il Bundestag ha ultimamente cambiato rotta, ammonendo per esempio gli States sulla loro assertività in Iraq, esponendo anche dubbi sulle politiche missilistiche Obamiane sulla frontiera col Limes Moscovita. Un caso che proprio Sarkozy e la Merkel, rispettivamente nel 2010 e nel 2011 abbiano caldeggiato la nascita di una forza militare europea? Non credo proprio.


La creazione di una forza militare comunitaria è il viatico per una traformazione radicale dell’UE, e potrebbe diventare un motore esterno quasi involontario per la cementificazione politico/economica dell’Unione e trasformarla da club aristocratico di potenze litigiose in attore importante della politica internazionale, magari in antitesi (ma questa è fantageopolitica) al mutilato blocco anglosassone.


Un inno alla gioia contenuta, si direbbe.

samedi, 14 septembre 2013

Laurent Ozon et les Troupes d'Occupation Mentale. Réponse aux menteurs

Laurent Ozon et les Troupes d'Occupation Mentale.

Réponse aux menteurs

Hollande, Tartarin de carton pâte

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Hollande, Tartarin de carton pâte

par Guy MILLIERE

Ex: http://www.les4verites.com

Lorsque j’ai vu François Hollande emboîter le pas de Barack Obama, puis se mettre en pointe dans les débats concernant une intervention en Syrie, je me suis tout de suite dit que cela allait mal tourner.

J’ai compris, certes, que Hollande soit fasciné par Obama et voie en lui un dirigeant crédible : ils ont en commun une profonde incompétence et une adhésion aux dogmes socialistes, et cela crée des affinités électives.

J’ai pu imaginer une seconde, cela dit, que Hollande avait tiré un minimum de leçons de l’immense monstruosité que fut la folle et sanglante équipée de l’attelage Sarkozy-Obama en Libye, avec les effroyables résultats dont, pudiquement, on ne parle pas dans les grands médias français, mais que tous les services de renseignement occidentaux connaissent.

J’ai pu songer que Hollande éviterait de se laisser entraîner vers l’éventualité d’une équipée du même genre, dans un pays où celle-ci serait plus dangereuse et où le choix n’est plus, depuis longtemps, qu’entre la peste et le choléra – et où s’allier contre la peste, en faisant le lit du choléra, ne peut que conduire au chaos accentué.

J’ai gravement surestimé l’intelligence de Hollande qui, décidément, n’est pas seulement un président inepte en politique intérieure, mais aussi un président catastrophique et crétin en politique étrangère.

Même si Hollande s’est placé en retrait pour tenter de trouver une porte de sortie, et invoque maintenant les Nations Unies et le vote du Congrès américain, une équipée se profile néanmoins. Si elle a lieu, Hollande y restera associé de manière indélébile.

Comme pour la Libye, il n’y aura, le cas échéant, pas de troupes au sol et il y aura une volonté nette de déstabiliser le régime en place. Comme en Libye, une aide sera apportée aux « rebelles ». Comme en Libye, on édulcorera la présence intense parmi ceux-ci de factions djihadistes qui ne valent pas mieux en termes de barbarie que les troupes qui leur font face. Comme en Libye, où nul des géniaux stratèges à l’œuvre n’a pris en compte les dimensions ethniques, nul ne semble prendre en compte les dimensions ethniques et religieuses de la Syrie aujourd’hui.

Mouammar Kadhafi appartenait à une tribu minoritaire de Tripolitaine et gouvernait par alliances de tribus, par l’appui des Touaregs du Fezzan et, de fait, contre les tribus de Cyrénaïque. Il avait fait appel aussi à une population noire venue d’Afrique sub-saharienne. Son renversement a donné libre cours aux exactions des islamistes de Cyrénaïque et a débouché sur des massacres en Tripolitaine, sur des tueries de noirs d’Afrique sub-saharienne, et sur le départ des Touaregs vers le Sahel, avec des armes prises dans les arsenaux de l’ancien régime.

Bachar Al Assad appartient à un groupe minoritaire, les Alaoui­tes, et gouverne en cultivant des liens avec la minorité chrétienne, contre la majorité sunnite. Le renversement de Bachar Al Assad déboucherait sans nul doute sur des massacres d’Ala­ouites et de Chrétiens, et sur la victoire d’islamistes sunnites dominés par les Frères musulmans et la mouvance d’Al Qaïda.

Que Barack Obama soit prêt à aider des islamistes n’est pas étonnant : il a toujours eu un penchant pour les islamistes dès lors qu’ils ne s’appelaient pas Oussama Ben Laden.

Il est absolument navrant que Hollande ait suivi (quand bien même il recule aujourd’hui) et, faute d’avoir des moyens militaires à fournir, se soit placé en position de Tartarin de carton pâte prétendant parler au nom des droits de l’homme, mais agissant, en réalité, en supplétif du pire président de l’histoire des États-Unis.

Qu’aucun autre dirigeant européen n’ait, au-delà de « paroles verbales », suivi Hollande sur ce terrain montre que, même si la plupart des dirigeants européens manquent souvent de courage et de lucidité, ils ne relèvent pas tous de l’asile d’aliénés.

Que des commentateurs osent encore parler du « modèle libyen » pour justifier une éventuelle intervention en Syrie montre qu’ils ont la mémoire courte et le regard biaisé.

Il est vrai que, lorsque les conséquences de l’intervention militaire, si intervention il y a, seront visibles, ils pourront toujours détourner les yeux et cacher les images…

vendredi, 13 septembre 2013

Syrie : confusion, imprudence et ridicule

Syrie : confusion, imprudence et ridicule

 
Ex: http://www.les4verites.com

hollande-valerie-syrie_0.jpgLa politique du gouvernement actuel de la France à l’égard de la Syrie est le prototype même de la confusion, de l’imprudence et d’une absence totale de bon sens.

François Hollande, capitaine de pédalo comme dit le camarade Mélenchon et chef d’un État en faillite où le budget de l’armée est sacrifié au profit de l’immigration afro-musulmane, veut être chef de guerre. Comme son prédécesseur, il veut, sabre au clair et panache socialiste au vent, maîtriser le printemps arabe – c’est-à-dire donner à l’armée française l’ordre de bombarder cet ancien protectorat français qu’est la Syrie.

Le précédent libyen, où l’intervention franco-sarkozyste a créé un chaos indescriptible aggravant la situation dans tout le Sahel africain et dispersant à travers l’Afrique et le Proche-Orient l’arsenal de Kadhafi, n’a pas servi de leçon. François Hollande veut recommencer en Syrie, avec cette circonstance aggravante que la situation, qui implique là-bas les grandes puissances, est extrêmement complexe et dangereuse.

La première question que l’on doit poser lorsque ce type d’intervention est à l’étude est celle-ci : quel est dans cette affaire l’intérêt national ? À cette question, je réponds immédiatement : il n’y a aucun intérêt national à intervenir militairement en Syrie, mais il y a des risques considérables à prendre. Derrière Bachar Al-Assad, nul n’ignore qu’il y a la Russie qui lui fournit tout l’armement nécessaire, l’Iran qui lui envoie tous les effectifs dont il a besoin et la Chine qui lui prodigue tout l’appui diplomatique qu’il peut souhaiter. Ajoutons à cela que de nombreux pays occidentaux, et non des moindres, refusent, arguments à l’appui, de s’engager militairement en Syrie : l’Allemagne, la Grande-Bretagne, l’Italie, la grande majorité des pays anglo-saxons, tous faisant observer que, si l’on se réclame du droit qu’à toute occasion la France veut imposer au monde entier, il convient pour commencer de respecter les règles de l’ONU et d’abord du conseil de sécurité dont la France est un membre permanent. La légalité n’est pas à géométrie variable. C’est ce que le secrétaire des Nations Unies a rappelé déclarant son opposition totale à une intervention armée en Syrie. Le pape, la plus haute autorité morale dans le monde, a lui aussi proclamé son opposition à toute aventure militaire en Syrie. Et, pour compléter cette opposition généralisée, Hermann Van Rompuy, président du conseil de l’UE, a, le 5 septembre, lui aussi, dit qu’il était tout à fait hostile à la politique de François Hollande. Voilà donc le président de la République française seul en Europe contre tous, à brandir les impératifs de l’éthique. « Je vais punir, moi seul, le méchant. » À ce propos, je me permettrai de rappeler que les Occidentaux ont aidé Saddam Hussein à utiliser des gaz toxiques contre les Iraniens en 1988 – « notre ami Saddam Hussein », pour lequel Jacques Chirac nourrissait la plus grande affection ! Je rappelle aussi que, pendant la guerre d’Indochine, Français et Américains ont utilisé surabondamment contre les populations civiles le napalm, qui n’est, dans ses effets, guère différent des gaz toxiques. Alors, de grâce, pour la vertu, Monsieur le Président, soyez discret !

Changeant d’avis tous les jours, donnant l’impression d’une improvisation quotidienne, ne sachant plus comment échapper au piège dans lequel il est tombé faute de jugement, François Hollande en est à laisser dire que des frappes n’auraient nullement pour but de renverser Bachar Al-Assad, ni de contrarier son protecteur, le tsar Vladimir Poutine, laissant entendre aussi que, le jour J, on avertira l’adversaire des objectifs choisis. À l’incohérence, on le voit, on ajoute le ridicule ! Et si, à l’inverse, une bavure se produisait, si le porte-avions Charles De Gaulle était torpillé, si le Hezbollah chiite libanais prenait le pouvoir à Beyrouth, que ferait-on ?

Ce qui est certain, en tout cas, c’est que des frappes auraient pour résultat assuré de faire de nouvelles victimes, comme s’il n’y en avait pas assez, de renforcer la détermination de Bachar Al-Assad et des populations alaouites, druzes, et chrétiennes qui le soutiennent, d’exciter davantage encore les Iraniens et le Hezbollah, de mettre Israël en péril, et de renforcer la volonté toujours présente des musulmans de provoquer, en représailles, de graves attentats – en France de préférence. Il serait bon aussi de tenir compte en priorité du fait que 80 % des rebelles syriens sont affiliés à Al Qaïda, que certains d’entre eux ont déjà proclamé « l’État islamique de Syrie », dans la région d’Alep où la charia est appliquée et que beaucoup de ces djihadistes encagoulés sont, outre des Caucasiens, des Maghrébins venant de France. Est-ce l’intérêt de la France de soutenir ces gens-là, alors que 70 % au moins de l’opinion française est hostile à l’intervention socialiste ?

Quand, enfin, ces princes qui, aujourd’hui sont au pouvoir en France, comprendront-ils que la conduite de l’État exige sérieux et réalisme ? À dire vrai, l’explication non dite de cette politique aventureuse est que François Hollande, et sans doute Obama, cherchent à redorer leur blason terni et à laisser une marque dans l’histoire. C’était aussi le but de Sarkozy en Libye. Il a bien laissé une marque dans l’histoire, mais hélas celle d’un politicien parvenu dépourvu de jugement qui a commis une grave erreur pour aboutir à un grave échec.

François Hollande qui, sauf le respect qu’on lui doit, n’a pas les qualités qu’exige la fonction, prend le même chemin. On n’en pleurerait pas. Le problème est qu’il peut nous jeter dans une aventure désastreuse et qu’il perd dans cette affaire toute crédibilité. Il faut le constater, ces gens-là sont dangereux. Aveuglés par leur idéologie, ils prennent les choses non pour ce qu’elles sont, mais pour ce qu’ils voudraient qu’elles soient. C’est le pire des dérèglements de l’esprit, disait Bossuet.

La sagesse exige de laisser les Arabes et les musulmans à leurs affaires. Depuis que l’indépendance leur a été accordée, ils s’entre-tuent dans un redoutable désordre. Eh bien, lorsqu’ils seront fatigués de s’entre-tuer, de s’entre-égorger, de s’entre-gazer, lorsque les chiites en auront assez de tuer les sunnites et vice versa, l’Occident et en particulier la France pourraient proposer des négociations pour la paix et une réelle démocratie. À cette occasion, on pourrait demander aux djihadistes syriens de bien vouloir libérer les deux journalistes français qu’ils détiennent, parmi d’autres, et de cesser de pratiquer le terrorisme, leur arme favorite qui, depuis si longtemps, tue femmes et enfants.

Une réflexion sur l’avenir de l’Europe

LE LIEU DU RADICAL EUROPEEN

 
Une réflexion sur l’avenir de l’Europe


Michel LHOMME
Ex: http://metamag.fr
La France est en récession. Pour l'année 2012, c'est un taux de croissance nul. Adam Smith avait prédit que les Etats européens finiraient par couler un jour ! C’est peut-être aujourd’hui !  

En Afrique, au contraire, on évoque des taux de croissance de 6% (10% en Ethiopie entre 2005 et 2010). Pour la Caraïbe et l'Amérique latine, le taux de croissance moyen est de 3,2% (Haïti et le Pérou, près de 6%). Le vrai combat mondial, ce n’est donc pas la Syrie mais plus que jamais le partage des richesses : ce n’est plus un combat simplement occidental. La France paie aujourd’hui le modèle de la surconsommation des années 60-70. Elle n’est plus un pays normal car un pays normal ne doit en aucun cas négliger sa production et son industrie. 


Les hommes politiques français ont privilégié depuis des décennies la surconsommation, le surendettement des ménages, une politique de grands centres commerciaux à l’américaine et d’alimentation industrielle. Or, comme le souligne Pierre Rabhi: " la croissance ce n'est pas la solution, c'est le problème". Ne faut-il pas replacer le commerce et l’économie dans un combat mondial géopolitique du partage des richesses. Ce sont les apports alimentaires africains, arabes, indiens, chinois et amérindiens qui ont fait la table de l'Occident (épices, bananes, café, thé, pomme de terre). Or nous sommes encore dans ce système occidental de répartition alimentaire. 

En Afrique et en Outre-mer, à voix basse, on entend très souvent dire qu’après tout le mal causé par le Blanc, il faudrait l'éliminer coûte que coûte. Pourtant, dans le monde, il ne faut pas qu'il n’y ait qu'un seul système. Il est possible de parler de croissance sans pour autant se laisser enfermer dans le seul paradigme occidental. S'il doit y avoir une alternative au système européen, laissons le cours de l'histoire se faire et nous verrons se dessiner une croissance africaine ou une alternative latino-américaine. Là encore, les intellectuels français complètement déphasés semblent se préparer pour la rentrée à défendre le convivialisme. Ils prétendent annoncer que l'économie libérale serait sur le point de rendre l’âme. Ce n’est que l’opinion géo-centrée et hexagonale d’un pays en déclin. Et en raison de cette opinion , on peut applaudir avec Adam Smith et nos amis africains, à la chute probable des vieux Etats européens.

Sur quel système, les échanges entre les pays du monde seront-ils basés demain ? 

L'OMC dans lequel adhèrent tous les pays souverains est toujours prédominant. Si nous remontons dans le temps, les échanges qui se faisaient entre les royaumes africains et les sultanats arabes n'étaient pas basés sur le système occidental de frontières douanières et de taxes : l'Europe n'avait pas encore colonisé l'Afrique et le Moyen-Orient. Idem pour la région Caraïbe ou polynésienne où les peuples circulaient et marchandaient de territoires en territoires sans avoir de passeports, de visas... Puis, la colonisation européenne est passée par là et maintenant au XXIème siècle, le commerce mondial se fait sous les contraintes juridiques occidentales des dites règles du commerce. L'Occident fait partie du monde mais maintenant, avec l’arrivée soudaine au premier plan des pays émergents, cet Occident ne pourra plus dicter ses lois de concurrence. On pourrait très bien imaginer des règles nouvelles d’un autre système commercial avec une alternative au système consumériste.

Avec l'arrivée de pays émergents comme la Chine, le Brésil, l'Inde, la Russie, l'Afrique du Sud, le Nigéria, la carte du monde change. Soucieuse d’égalité, l'Europe se retrouve en grande difficulté économique. Les USA sont obligés de traiter avec des pays qui jadis étaient "persona non grata" car ils ont besoin d’ouvrir leur marché, d’écouler leurs produits d’où l’idée d’accélérer le projet balladurien d’un traité de libre-commerce transatlantique. 

Il faut donc écrire au plus vite un guide de survie économique européen et pour cela poser les bases d’un nouvel espace économique avec les pays émergents, redéfinir les grands espaces du Sud et raisonner en termes de transfert de puissance. Le romancier créole antillais Patrick Chamoiseau écrivait récemment : « nous ne voyons que les ruines et les décombres se préciser autour de nous, mais l’horizon, l’en dehors, l’inconnu, l’inconcevable, nous brûle encore l’esprit… Le lieu est dans cette brûlure ». De quel lieu ?... Du « lieu du radical » précise-t-il, ce qu’un autre grand poète martiniquais, Edouard Glissant appelait « l’écart déterminant ». Chamoiseau ajoute dans cet entretien (Médiapart, 2 mai 2013) : « le poétique est le fondement du politique. Quand le politique s’en éloigne, il sombre dans la gestion ».

Le principal objectif d’une politique économique européenne ne serait-il pas la neutralisation économique américaine? Un tel programme impliquerait la fin du consumérisme et que les Américains soient prêts à abandonner leur leadership mondial. Ce serait l’occasion d’un grand revirement de la politique américaine comme l’a été la naissance du New Deal. Il serait en effet du devoir de l’Europe, de la défense de ses intérêts de susciter dans l’état de dette généralisée des Etats-Unis et surtout de sa probable dislocation interne et civile d’appuyer une telle politique de neutralisation américaine. Il faut donc refuser tout traité trans-atlantique qui ne vise qu’à faire entrer en masse les produits américains dans nos supermarchés. Pour l’Europe, ce serait une chance de sortir de l’impasse où se trouve actuellement la politique de ses Etats. 

Un moment  crucial

Pour la première fois, la volonté de domination américaine se retrouve en raison inverse de sa puissance politique interne et réelle. L’affirmation géo-économique dont elle rêve s’appuie sur une affirmation métaphysique. Or, on ne construit pas les réalités économiques de transformation (cf. Schumpeter) sur des affirmations métaphysiques. Tout manquera dans la culture américaine prochaine, dans les mœurs politiques et sociales du pays pour la rendre effective. On ne maintient pas une hyperpuissance avec des obèses ou des drogués. Et ce malgré tout l’aspect concret de l’affirmation politique américaine : un patriotisme fort, lié en la croyance en une prédestination biblique. Le péril interne américain, péril sociologique explique et justifie le durcissement visible du pouvoir fédéral, de son armature administrative et militaire, de son obsession de la surveillance nationale et internationale, de son orientation de plus en plus totalitaire mais cela ne l’empêchera pas de demeurer prisonnier dans la formation de ses élites des valeurs modernistes et libérales qu’il affiche. Il y a donc pour l’Europe et ses peuples un devoir de résistance. 

Pour une séparation du Laïcisme et de l'État

Pour une séparation du Laïcisme et de l'État

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr

laicisme-contre-la-liberte.jpgPeillon s'est encore fait remarquer pour la rentrée scolaire. Le personnage communique beaucoup. Tel Robespierre, qu'il admire et qui, cependant signa son arrêt de mort à la Fête de l'Être suprême, il pose en grand maître d'une religion [presque] nouvelle.

Tout cela le prétentieux personnage l'écrit lui-même.

Qu'on en juge par ses propres citations :

On remarquera d'abord que, comme beaucoup d'esprits marqués par l'enseignement de la philosophie, il fait bon marché de la connaissance concrète de l'Histoire. Voici en effet comment il définit la révolution :

"La révolution française est l’irruption dans le temps de quelque chose qui n’appartient pas au temps, c’est un commencement absolu, c’est la présence et l’incarnation d’un sens, d’une régénération et d’une expiation du peuple français. 1789, l’année sans pareille, est celle de l’engendrement par un brusque saut de l’histoire d’un homme nouveau. La révolution est un événement méta-historique, c’est-à-dire un événement religieux." (1)⇓

Et il enchaîne donc par cette conclusion, certes logique, mais terrifiante :

"La révolution implique l’oubli total de ce qui précède la révolution. Et donc l’école a un rôle fondamental, puisque l’école doit dépouiller l’enfant de toutes ses attaches pré-républicaines pour l’élever jusqu’à devenir citoyen. C’est une nouvelle naissance, une transsubstantiation qui opère dans l’école et par l’école cette nouvelle église avec son nouveau clergé, sa nouvelle liturgie, ses nouvelles tables de la loi."

On se situe exactement dans cette idée rousseauiste "il faut les forcer d'être libres" qu'Augustin Cochin souligne. (2)⇓

Peillon ose écrire : "La laïcité elle-même peut alors apparaître comme cette religion de la République recherchée depuis la Révolution". (3)⇓

Mais il déclare par ailleurs ouvertement que "la franc-maçonnerie est la religion de la république"(4)⇓

Le laïcisme qu'il professe se veut par conséquent l'expression profane, le mot d'ordre, – et comme le mot "républicain",– le mot de passe d'une secte, d'ailleurs divisée, dont on rappellera qu'au sein de l'Éducation dite Nationale elle doit représenter au maximum 1 % des fonctionnaires eux-mêmes, malgré sa réputation d'ascenseur professionnel : ce qui doit bien vouloir dire qu'elle dégoûte les autres 99 %.

Cessons donc de confondre laïcité et neutralité. L'un des fondateurs du système, Viviani, qui fut président du Conseil au moment de la déclaration de guerre de 1914, l'écrivait à l'époque: "La neutralité est, elle fut toujours un mensonge [...]. Un mensonge nécessaire lorsque l’on forgeait, au milieu des impétueuses colères de la droite, la loi scolaire [...]. On promit cette chimère de la neutralité pour rassurer quelques timidités dont la coalition eût fait obstacle au principe de la loi. Mais Jules Ferry avait l’esprit trop net pour croire en l’éternité de cet expédient [...]." (5)⇓

Le développement de l'éducation étatique a toujours été conçu en vue de perpétuer le système.

Le fonctionnement de cette coûteuse administration, lourdement centralisée, se révèle d'année en année plus improductif, et plus destructeur.

Les écoles d'État ne parviennent plus à enseigner aux enfants de France à lire, écrire et compter. Mais on veut, par l'effet du laïcisme totalitaire, faire semblant d'imposer avec une soi-disant "morale laïque", dont personne ne connaît les fondements, un recul de l'islamisme, lâchement, sans oser le nommer : cette rustine méprisable, poisseuse et liberticide ne servira à rien. Jetons la sans hésiter. Séparons le laïcisme de l'État.

JG Malliarakis       

Apostilles

  1. cf. "La révolution française n’est pas terminée" Seuil 2008 page 17
  2. *cf. "Les sociétés de pensée et la démocratie moderne" Éditions du Trident.
  3. Ibidem p. 162
  4. cf. ses déclarations destinées à promouvoir son livre enregistrées au départ sur le site de son éditeur.
  5. cf. L’Humanité 4 octobre 1904.

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Intervention en Syrie : la recherche d'un prétexte à tout prix

La recherche d'un prétexte à tout prix...

par Eric Dénécé

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous une excellente analyse d'Eric Dénécé, spécialiste des questions de renseignement et ancien analyste Secrétariat Général de la Défense Nationale, qui anime depuis quelques années les travaux du Centre français de recherche sur le renseignement (CF2R). Eric Dénécé a récemment publié La face cachée des « révolutions » arabes (Ellipses, 2012) et Les services de renseignement français sont-ils nuls ? (Ellipse, 2012).

 

Synthèse nationale.jpg

 

Intervention en Syrie : la recherche d'un prétexte à tout prix

La coalition réunissant les Etats-Unis, le Royaume Uni, la France, la Turquie, l'Arabie saoudite et le Qatar vient de franchir un nouveau pas dans sa volonté d'intervenir en Syrie afin de renverser le régime de Bachar El-Assad. Utilisant ses énormes moyens de communication, elle vient de lancer une vaste campagne d'intoxication de l'opinion internationale afin de la convaincre que Damas a utilisé l'arme chimique contre son peuple, commettant ainsi un véritable crime contre l'humanité et méritant  « d'être puni ».

Aucune preuve sérieuse n'a été présentée à l'appui de ces affirmations. Au contraire, de nombreux éléments conduisent à penser que ce sont les rebelles qui ont utilisé ces armes. Ces mensonges médiatiques et politiques ne sont que des prétextes. Ils rappellent les tristes souvenirs du Kosovo (1999), d'Irak (2003) et de Libye (2010) et ont pour but de justifier une  intervention militaire afin de renverser un régime laïque, jugé hostile par les Etats-Unis  - car allié de l'Iran et ennemi d'Israël - et impie par les monarchies wahhabites d'Arabie saoudite et du Qatar. Il est particulièrement affligeant de voir la France participer à une telle mascarade.

La falsification des faits

Depuis deux ans, des informations très contradictoires et souvent fausses parviennent en Europe sur ce qui se passe actuellement en Syrie. Il est ainsi difficile de comprendre quelle est la situation exacte dans ce pays. Certes, le régime syrien n'est pas un modèle démocratique, mais tout est mis en œuvre par ses adversaires afin de noircir le tableau, dans le but d'assurer le soutien de l'opinion internationale à l'opposition extérieure et de justifier les mesures prises à son encontre, dans l'espoir d'accélérer sa chute.

Cette falsification des faits dissimule systématiquement à l'opinion mondiale les éléments favorables au régime :

- le soutien qu'une grande partie de la population syrienne - principalement les sunnites modérés et les minorités (chrétiens, druzes, chiites, kurdes) - continue d'apporter à Bachar El-Assad, car elle préfère de loin le régime actuel - parfois par défaut - au chaos et à l'instauration de l'islam radical ;

- le fait que l'opposition intérieure, historique et démocratique, a clairement fait le choix d'une transition négociée et qu'elle est, de ce fait, ignorée par les pays occidentaux ;

- la solidité militaire du régime : aucune défection majeure n'a été observée dans l'armée, les services de sécurité, l'administration et le corps diplomatique et Damas est toujours capable d'organiser des manœuvres militaires majeures ;

- son large soutien international. L'alliance avec la Russie, la Chine, l'Iran et le Hezbollah libanais ne s'est pas fissurée et la majorité des Etats du monde s'est déclarée opposée à des frappes militaires, apportant son soutien total aux deux membres permanents du Conseil de Sécurité de l'ONU - Russie et Chine - qui ont clairement indiqué qu'ils n'autoriseraient pas une action armée contre la Syrie. Rappelons également que le régime syrien n'a été à ce jour l'objet d'aucune condamnation internationale formelle et demeure à la tête d'un Etat membre à part entière de la communauté internationale ;

- le refus délibéré des Occidentaux, de leurs alliés et de la rébellion de parvenir à une solution négociée. En effet, tout a été fait pour radicaliser les positions des ultras de Damas en posant comme préalable le départ sans condition du président Bachar.

Au contraire, l'opposition extérieure, dont on cherche à nous faire croire qu'elle est LA solution, ne dispose d'aucune légitimité et demeure très éloignée des idéaux démocratiques qu'elle prétend promouvoir, en raison de ses options idéologiques très influencées par l'islam radical.

De plus, la rébellion syrienne est fragmentée entre :

- une opposition politique extérieure groupée autour des Frères musulmans, essentiellement contrôlée par le Qatar et la Turquie ;

- une « Armée syrienne libre » (ASL), composée d'officiers et d'hommes de troupe qui ont déserté vers la Turquie et qui se trouvent, pour la plupart, consignés dans des camps militaires faute d'avoir donné des gages d'islamisme suffisants au parti islamiste turc AKP. Son action militaire est insignifiante ;

- des combattants étrangers, salafistes, qui constituent sa frange la plus active et la plus violente, financés et soutenus par les Occidentaux, la Turquie, le Qatar et l'Arabie saoudite.

Ainsi, la Syrie connaît, depuis deux ans, une situation de guerre civile et des affrontements sans merci. Comme dans tous les conflits, les victimes collatérales des combats sont nombreuses, ainsi que les atrocités. Toutefois, les grands médias internationaux qui donnent le ton - qui appartiennent tous aux pays hostiles à la Syrie - cherchent à donner l'impression que les exactions, massacres et meurtres sont exclusivement le fait du régime et de son armée.

Si certaines milices fidèles au régime ont commis des exactions, cela ne saurait en aucun cas dissimuler les innombrables crimes de guerre qui sont chaque jour, depuis deux, ans l'œuvre de la rébellion, et dont sont victimes la population syrienne fidèle au régime, les minorités religieuses et les forces de sécurité. Ce fait est systématique passé sous silence. Pire, les nombreux actes de barbarie des djihadistes soutenus par l'Occident, la Turquie et les monarchies wahhabites sont même souvent attribués au régime lui-même, pour le décrédibiliser davantage.

L'Observatoire syrien des droits de l'Homme (OSDH), principale source des médias sur les victimes de la « répression », est une structure totalement inféodée à la rébellion, crée par les Frères musulmans à Londres. Les informations qu'il diffuse relèvent de la pure propagande et n'ont donc aucune valeur ni objectivité. S'y référer est erroné et illustre l'ignorance crasse ou de la désinformation délibérée des médias.

Enfin, face à ce Mainstream médiatique tentant de faire croire que le Bien est du côté de la rébellion et de ses alliés afin d'emporter l'adhésion de l'opinion, toute tentative de vouloir rétablir un minimum d'objectivité au sujet de ce conflit est immédiatement assimilée à la défense du régime.

Les objectifs véritables d'une intervention en Syrie

Dès lors, on est en droit de s'interroger sur les raisons réelles de cet acharnement contre Bachar Al-Assad et d'en rechercher les enjeux inavoués. Il en existe au moins trois :

- casser l'alliance de la Syrie avec l'Iran ; le dossier iranien conditionne largement la gestion internationale de la crise syrienne. En effet, depuis trois décennies, Damas est l'allié de l'Iran, pays phare de « l'axe du mal » décrété par Washington, que les Américains cherchent à affaiblir par tous les moyens, tant en raison de son programme nucléaire, de son soutien au Hezbollah libanais, que de son influence régionale grandissante ;

- rompre « l'axe chiite » qui relie Damas, Bagdad, Téhéran et le Hezbollah, qui est une source de profonde inquiétude pour les monarchies du Golfe qui sont, ne l'oublions pas, des régimes autocratiques et qui abritent d'importantes minorités chiites. Ainsi, Ryad et Doha ont désigné le régime iranien comme l'ennemi à abattre. Elles veulent la chute du régime syrien anti-wahhabite et pro-russe, afin de transformer la Syrie en base arrière pour reconquérir l'Irak - majoritairement chiite - et déstabiliser l'Iran. Elles cherchent aussi à liquider le Hezbollah libanais. En cela, leur agenda se confond avec celui de Washington ;

- détruire les fondements de l'Etat-nation laïc syrien pour le remplacer par un régime islamiste. Cela signifie livrer Damas aux forces wahhabites et salafistes favorables aux pétromonarchies du Golfe, ce qui signifie l'éclatement du pays en plusieurs entités en guerre entre elles ou, pire, l'asservissement voire le massacre des minorités non sunnites.

Ces objectifs non avoués n'ont pas été jusqu'ici atteints et ne le seront pas tant qu'existera le soutien sino-russe et tant que l'axe Damas-Téhéran ne se disloquera pas.

Le faux prétexte des armes chimiques

Face à la résistance de l'Etat syrien et de ses soutiens, la coalition américano-wahhabite a décidé d'employer les grands moyens afin de faire basculer l'opinion et de justifier une intervention militaire : accuser Damas de recourir aux armes chimiques contre sa propre population.

Une première tentative a été entreprise en avril dernier. Malheureusement, l'enquête des inspecteurs de l'ONU a révélé que l'usage d'armes chimiques était le fait de la rébellion. Ce rapport n'allant pas dans le sens que souhaitait la coalition américano-wahhabite, il a été immédiatement enterré. Seul le courage de Carla del Ponte a permis de révéler le pot aux roses. Notons cependant que les « médias qui donnent le ton » se sont empressés de ne pas lui accorder l'accès à leur antenne et que cette enquête a été largement passée sous silence.

Les événements du 21 août dernier semblent clairement relever de la même logique. Une nouvelle fois, de nombreux éléments conduisent à penser qu'il s'agit d'un montage total, d'une nouvelle campagne de grande envergure pour déstabiliser le régime :

- le bombardement a eu lieu dans la banlieue de Damas, à quelques kilomètres du palais présidentiel. Or, nous savons tous que les gaz sont volatils et auraient pu atteindre celui-ci. L'armée syrienne n'aurait jamais fait cela sauf à vouloir liquider son président !

- les vecteurs utilisés, présentés par la presse, ne ressemblent à aucun missile en service dans l'armée syrienne, ni même à aucun modèle connu. Cela pourrait confirmer leur origine artisanale, donc terroriste ;

- de plus, des inspecteurs de l'ONU étaient alors présents à Damas et disposaient des moyens d'enquête adéquats pour confondre immédiatement le régime ;

- les vidéos présentées ne prouvent rien, certaines sont même de grossières mises en scène ;

- enfin, le régime, qui reconquiert peu à peu les zones tenues par la rébellion, savait pertinemment que l'emploi d'armes chimiques était une « ligne rouge » à ne pas franchir, car cela déclencherait immédiatement une intervention militaire occidentale. Dès lors, pourquoi aurait-il pris in tel risque ?

Aucune preuve sérieuse n'a été présentée à l'appui la « culpabilité » de l'armée syrienne. Au contraire, tout conduit à penser que ce sont les rebelles qui ont utilisé ces armes, car contrairement à ce qui est avancé par la note déclassifiée publiée par le gouvernement français, les capacités chimiques des terroristes sont avérées :

- en Irak (d'où proviennent une partie des djihadistes de la rébellion syrienne), les autorités ont démantelé début juin 2013 une cellule d'Al-Qaida qui préparait des armes chimiques. Trois laboratoires ont été trouvés à Bagdad et dans ses environs avec des produits précurseurs et des modes opératoires de fabrication de gaz sarin et moutarde ;

- en Syrie, le Front Al-Nosra est suspecté avoir lancé des attaques au chlore en mars 2013 qui auraient causé la mort de 26 Syriens dont 16 militaires ;

- pour sa part, Al-Qaida a procédé en 2007 une douzaine d'attaques du même type à Bagdad et dans les provinces d'Anbar et de Diyala, ce qui a causé la mort de 32 Irakiens et en a blessé 600 autres. En 2002, des vidéos montrant des expérimentations d'armes chimiques sur des chiens ont été trouvées dans le camp de Darunta, près de la ville de Jalalabad, en Afghanistan.

Les errements de la politique étrangère française

A l'occasion cet imbroglio politico-médiatique dans lequel ses intérêts stratégiques ne sont pas en jeu, le gouvernement français mène une politique incompréhensible pour nos concitoyens comme pour l'étranger.

Depuis deux ans, la France, par le biais de ses services spéciaux, - comme d'ailleurs les Américains, les Britanniques et les Turcs - entraîne les rebelles syriens et leur fournit une assistance logistique et technique, laissant l'Arabie saoudite et le Qatar les approvisionner en armes et en munitions.

Ainsi, la situation syrienne place la France devant ses contradictions. Nous luttons contre les djihadistes au Mali, après les avoir aidés à prendre le pouvoir à Tripoli - en raison de l'intervention inconsidérée de l'OTAN en Libye, en 2011, dans laquelle Paris a joué un rôle clé - et continuons de les soutenir en Syrie, en dépit du bon sens. Certes le régime de Bachar Al-Assad n'est pas un modèle de démocratie et il servait clairement les intérêts de la minorité alaouite, mais il est infiniment plus « libéral » que les monarchies wahhabites : la Syrie est un Etat laïque où la liberté religieuse existe et où le statut de la femme est respecté. De plus, il convient de rappeler que Damas a participé activement à la lutte contre Al-Qaïda depuis 2002. Pourtant, nous continuons d'être alliés à l'Arabie saoudite et au Qatar, deux Etats parmi les plus réactionnaires du monde arabo-musulman, qui, après avoir engendré et appuyé Ben Laden, soutiennent les groupes salafistes partout dans le monde, y compris dans nos banlieues. Certes, notre soutien aux agendas saoudien et qatari se nourrit sans nul doute de l'espoir de quelques contrats d'armement ou pétroliers, ou de prêts financiers pour résoudre une crise que nos gouvernants semblent incapables de juguler.

Une question mérite donc d'être posée : la France a-t-elle encore une politique étrangère ou fait-elle celle du Qatar, de l'Arabie saoudite et des Etats-Unis ? Depuis la présidence de Nicolas Sarkozy la France aligne ses positions internationales sur celles des Etats-Unis et a perdu, de ce fait, l'énorme capital de sympathie que la politique du général de Gaulle - non ingérence dans les affaires intérieures des Etats et défense du droit des peuples à disposer d'eux-mêmes - lui avait constitué.

Si les élections de mai 2012 ont amené un nouveau président, la politique étrangère n'a pas changé. En fait, nous observons depuis plusieurs années la conversion progressive d'une partie des élites françaises  - de droite comme de gauche - aux thèses néoconservatrices américaines : supériorité de l'Occident, néocolonialisme, ordre moral, apologie de l'emploi de la force ...

Surtout, un fait nouveau doit être mis en lumière : la tentative maladroite des plus hautes autorités de l'Etat de manipuler la production des services de renseignement afin d'influer sur l'opinion publique et de provoquer un vote favorable des parlementaires. Ce type de manœuvre avait été conduit par Washington et Londres afin de justifier l'invasion de l'Irak en 2003, avant d'être dénoncé. Onze ans plus tard, le gouvernement recourt au même artifice grossier et éculé pour justifier ses choix diplomatiques et militaires. Compte tenu de la faiblesse des arguments présentés dans la note gouvernementale - qui n'est pas, rappelons-le, une note des services -, celle-ci ne sera d'aucune influence sur la presse et l'opinion. En revanche, par sa présentation, elle contribue à décrédibiliser le travail des services de renseignement, manipulés à leur insu dans cette affaire.

Le mépris des politiques français à l'égard des services est connu. Est-ce un hasard si cette affaire survient alors que l'actuel ministre des Affaires étrangères est celui-là même qui, en 1985, alors qu'il était chef du gouvernement, a fort élégamment « ouvert le parapluie », clamant son absence de responsabilité à l'occasion de l'affaire du Rainbow Warrior ?

Une chose au moins est sûre : une remise à plat de notre position à l'égard de la Syrie et de notre politique étrangère s'impose, car « errare humanum est, perseverare diabolicum ».

Eric Dénécé (Centre français de recherche sur le renseignement, 6 septembre 2013)

jeudi, 12 septembre 2013

Alexander Dugin on Syria and the New Cold War

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Alexander Dugin on Syria and the New Cold War

Alternative Right

An interview with Alexander Dugin on the Syrian crisis.

 

Prof. Dugin, the world faces right now in Syria the biggest international crisis since the downfall of the Eastern Block in 1989/90. Washington and Moscow find themselves in a proxy-confrontation on the Syrian battleground. Is this a new situation?

Dugin: We have to see the struggle for geopolitical power as the old conflict of land power represented by Russia and sea power represented by the USA and its NATO partners. This is not a new phenomenon; it is the continuation of the old geopolitical and geostrategic struggle. The 1990s was the time of the great defeat of the land power represented by the USSR. Mikhail Gorbachev refused the continuation of this struggle. This was a kind of treason and resignation in front of the unipolar world. But with President Vladimir Putin in the early years of this decade, came a reactivation of the geopolitical identity of Russia as a land power. This was the beginning of a new kind of competition between sea power and land power.

How did this reactivation start?

Dugin: It started with the second Chechen war (1999-2009). Russia by that time was under pressure by Chechen terrorist attacks and the possible separatism of the northern Caucasus. Putin had to realize all the West, including the USA and the European Union, took sides with the Chechen separatists and Islamic terrorists fighting against the Russian army. This is the same plot we witness today in Syria or recently in Libya. The West gave the Chechen guerrillas support, and this was the moment of revelation of the new conflict between land power and sea power. With Putin, land power reaffirmed itself. The second moment of revelation was in August 2008, when the Georgian pro-Western Saakashvili regime attacked Zchinwali in South Ossetia. The war between Russia and Georgia was the second moment of revelation.

Is the Syrian crisis now the third moment of revelation?

Dugin: Exactly. Maybe it is even the final one, because now all is at stake. If Washington doesn´t intervene and instead accepts the position of Russia and China, this would be the end of the USA as a kind of unique superpower. This is the reason why I think Obama will go far in Syria. But if Russia steps aside and accepts the US-American intervention and if Moscow eventually betrays Bashar al-Assad, this would mean immediately a very hard blow to the Russian political identity. This would signify the great defeat of the land power. After this, the attack on Iran would follow and also on northern Caucasus. Among the separatist powers in the northern Caucasus there are many individuals who are supported by the Anglo-American, Israeli and Saudi powers. If Syria falls, they will start immediately the war in Russia, our country. Meaning: Putin cannot step aside; he cannot give up Assad, because this would mean the geopolitical suicide of Russia. Maybe we are right now in the major crisis of modern geopolitical history.

So right now both dominant world powers, USA and Russia, are in a struggle about their future existence…

Dugin: Indeed. At the moment there is no any other possible solution. We cannot find any compromise. In this situation there is no solution which would satisfy both sides. We know this from other conflicts, such as the Armenian-Azeri or the Israeli-Palestinian conflict. It is impossible to find a solution for both sides. We witness the same now in Syria, but on a bigger scale. The war is the only way to make a reality check.

Why?

Dugin: We have to imagine this conflict as a type of card game like Poker. The players have the possibility to hide their capacities, to make all kinds of psychological tricks, but when the war begins all cards are in. We are now witnessing the moment of the end of the card game, before the cards are thrown on the table. This is a very serious moment, because the place as a world power is at stake. If America succeeds, it could grant itself for some time an absolutely dominant position. This will be the continuation of unipolarity and US-American global liberalism. This would be a very important moment because until now the USA hasn´t been able to make its dominance stable, but the moment they win that war, they will. But if the West loses the third battle (the first one was the Chechen war, the second was the Georgian war), this would be the end of the USA and its dominance. So we see: neither USA nor Russia can resign from that situation. It is simply not possible for both not to react.

Why does US-president Barrack Obama hesitate with his aggression against Syria? Why did he appeal the decision to the US-Congress? Why does he ask for permission that he doesn´t need for his attack?

Dugin: We shouldn´t make the mistake and start doing psychological analyses about Obama. The main war is taking place right now behind the scenes. And this war is raging around Vladimir Putin. He is under great pressure from pro-American, pro-Israeli, liberal functionaries around the Russian president. They try to convince him to step aside. The situation in Russia is completely different to the situation in USA. One individual, Vladimir Putin, and the large majority of the Russian population which supports him are on one side, and the people around Putin are the Fifth column of the West. This means that Putin is alone. He has the population with him, but not the political elite. So we have to see the step of the Obama administration asking the Congress as a kind of waiting game. They try to put pressure on Putin. They use all their networks in the Russian political elite to influence Putin´s decision. This is the invisible war which is going on right now.

Is this a new phenomenon?

Dugin: (laughs) Not at all! It is the modern form of the archaic tribes trying to influence the chieftain of the enemy by loud noise, cries and war drums. They beat themselves on the chest to impose fear on the enemy. I think the attempts of the US to influence Putin are a modern form of this psychological warfare before the real battle starts. The US-Administration will try to win this war without the Russian opponent on the field. For this they have to convince Putin to stay out. They have many instruments to do so.

But again: What about the position of Barrack Obama?

Dugin: I think all those personal aspects on the American side are less important than on the Russian side. In Russia one person decides now about war and peace. In the USA Obama is more a type of bureaucratic administrator. Obama is much more predictable. He is not acting on his behalf; he simply follows the middle line of US-American foreign politics. We have to realize that Obama doesn´t decide anything at all. He is merely the figurehead of a political system that makes the really important decisions. The political elite makes the decisions, Obama follows the scenario written for him. To say it clearly, Obama is nothing, Putin is everything.

You said Vladimir Putin has the majority of the Russian population on his side. But now it is peace time. Would they also support him in a war in Syria?

Dugin: This is a very good question. First of all, Putin would lose much of his support if he does not react on a Western intervention in Syria. His position would be weakened by stepping aside. The people who support Putin do this because they want to support a strong leader. If he doesn´t react and steps aside because of the US pressure, it will be considered by the majority of the population as a personal defeat for Putin. So you see it is much more Putin´s war than Obama´s war. But if he intervenes in Syria he will face two problems: Russian society wants to be a strong world power, but it is not ready to pay the expenses. When the extent of these costs becomes clear, this could cause a kind of shock to the population. The second problem is what I mentioned already, that the majority of the political elite are pro-Western. They would immediately oppose the war and start their propaganda by criticizing the decisions of Putin. This could provoke an inner crisis. I think Putin is aware of these two problems.

When you say the Russians might be shocked by the costs of such a war, isn´t there a danger that they might not support Putin because of that?

Dugin: I don´t think so. Our people are very heroic. Let us look back in history. Our people were never ready to enter a war, but if they did, they won that war despite the costs and sacrifices. Look at the Napoleonic wars or World War II. We Russians lost many battles, but eventually won those wars. So we are never prepared, but we always win.

Syrie : Hollande et le double désaveu

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Syrie : Hollande et le double désaveu

 
Isolé au niveau international et désavoué par l’opinion publique

Jean Bonnevey et Raoul Fougax
Ex: http://metamag.fr

Décidément  la pré campagne de Syrie tourne au désastre politique pour le président français. Le matamore tricolore et la va-t-en guerre démocratique se retrouve isolé et désavoué. Isolé sur le plan international et désavoué par son opinion publique.

Les dirigeants des vingt plus grandes puissances se sont retrouvés à Saint-Petersbourg, jeudi 5 septembre, pour le premier dîner d'un G20 à l'agenda bouleversé par la Syrie. Après plusieurs jours d'échanges à distance, la tension est encore montée d'un cran entre François Hollande et Barack Obama d'un côté – qui accusent le régime de Bachar Al-Assad d'avoir tué des centaines de civils avec des armes chimiques et plaident pour une intervention militaire –  et le président russe, Vladimir Poutine, de l'autre, qui maintient son veto.
 
François Hollande n’avait  qu'un seul objectif: rallier «la coalition la plus large possible» de pays en faveur d'une intervention punitive en Syrie, aux côtés des Américains. «Nous comptons sur le soutien des Européens et des pays arabes», assurait l'entourage du chef de l'État.

C’est raté. Cela a même tourné au camouflet malgré un accord diplomatique de façade. « Les Européens se sont prononcés, à Vilnius, pour une «réponse claire et forte» à l'attaque chimique du 21 août, sans aller jusqu'à soutenir les frappes militaires souhaitées par Paris et Washington. Mais la France et l'Allemagne, jusqu'ici sur des bords opposés, ont fait les concessions nécessaires pour sortir de l'ornière » reconnait Le Figaro. Qu'est ce qu'une "réponse claire et forte" ? François Hollande était pourtant demandeur d'un accord sur des frappes contre la Syrie.

Membre du G20, représentant les 28 états membres de l'Union Européenne, le président du Conseil européen, Herman Van Rompu, flanqué du président de la Commission José Manuel Barroso a clairement rejeté l'usage de la force en Syrie. «Il n'y a pas de solution militaire au conflit en Syrie» a-t-il déclaré à Saint-Petersbourg, «seule une solution politique peut arrêter les massacres, les violations de droits de l'homme et la destruction de la Syrie».

Le président de l'UE a calqué sa position sur celle d'Angela Merkel, hostile aux frappes en Syrie, comme 70 % des Allemands, et favorable à une «solution politique dans le cadre de l'ONU».

Les Français eux ne sont plus loin du rejet allemand

Près des deux tiers des Français sont opposés à une intervention militaire internationale en Syrie en représailles à l'usage d'armes chimiques par le régime de Bachar el-Assad contre ses opposants, selon un sondage IFOP pour Le Figaro. Sur 972 personnes interrogées entre mardi et vendredi, 64 % se déclarent hostiles à une telle intervention, contre 36 % d'un avis contraire, ce qui constitue un renversement de l'opinion publique française sur cette question.
 
Début août, 55 % des personnes interrogées par l’IFOP pour le site internet Atlantico étaient favorables à ce type d'action. Le pourcentage de personnes hostiles à une intervention militaire internationale en Syrie est même désormais légèrement supérieur en France à ce qu'il est en Allemagne (63 %). 

Quant à une participation éventuelle de la France à une telle action, les Français interrogés sont massivement contre : 68 %, soit neuf points de plus qu'il y a un mois. "Voilà qui ne va pas simplifier la tâche de François Hollande", commente l'IFOP. "Alors que l'isolement du président de la République grandit sur le dossier syrien, il est désormais lâché par son opinion publique."
François hollande a commencé d’ailleurs un prudent repli stratégique.

La France n'attendra pas seulement l'issue du vote du Congrès américain, prévu «jeudi ou vendredi prochain » pour intervenir en Syrie. François Hollande attendra le rapport des inspecteurs de l'ONU sur l'utilisation des armes chimiques dans l'attaque du 21 août. «Après seulement, je m'adresserai à la nation pour faire connaître ma décision», a déclaré le chef de l'État à l'issue du sommet de Saint-Petersbourg. Il était urgent d’agir, il est maintenant urgent d’attendre. En effet la France est incapable d’agir seule. Les beaux discours n’y changent rien, ni sur la condamnation d’armes chimiques défi aux conventions internationales  ni l’amalgame douteux avec Oradour sur Glane.

Le président a parlé trop tôt pour se présenter en  leader moral de la coalition du bien. Mais il n’avait pas prévu que la coalition du bien puisse tourner mal.

mardi, 10 septembre 2013

Grande-Bretagne : L’immigration de masse a rendu l’économie moins performante

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Grande-Bretagne : L’immigration de masse a rendu l’économie moins performante

 



Dans l’ensemble, les chefs d’entreprise ont tendance à soutenir une politique d’immigration – dite “de la porte ouverte” – ce qui contribue à répondre aux pénuries de main d’œuvre dans les secteurs clés.

Mais, plus particulièrement, cela exerce aussi une pression à la baisse sur les salaires. L’effet est similaire au fait d’avoir des niveaux durablement élevés de chômage, car elle crée une réserve inépuisable de main-d’œuvre bon marché.

Il semble que l’on assiste à la stagnation la plus importante de la productivité britannique. Les économistes ont largement décrit ce phénomène en le qualifiant d’« énigme »; mot qu’ils tendent à utiliser pour décrire une tendance qui tranche avec les normes passées. Pour la plupart d’entre nous, il ne s’agit cependant pas du tout d’un mystère. Pour faire simple, nous avons d’une part la mise en place de politiques publiques qui n’incitent pas à consommer et, de l’autre, une absence totale de réformes bénéficiant au secteur productif. Malheureusement, cela n’a fait qu’empirer depuis le début de la crise financière.

La stimulation de la demande par l’intermédiaire de politiques fiscales et monétaires est la solution de facilité quand les économistes trouvent leurs limites. Elle est peut-être vitale pour prévenir l’évolution de la situation de contraction économique actuelle en une véritable dépression.

Cependant, si le début de redressement s’accélère au Royaume-Uni, il est nécessaire de réaffirmer qu’il ne conduira ni à une croissance soutenable sur le long terme, ni à l’augmentation du niveau de vie. Cela requiert des choix bien plus difficiles.

Une étude, conduite par l’OCDE en début d’année concernant l’économie britannique, attribue le faible taux de productivité depuis le début de la crise à de nombreux facteurs qui sont sans aucun doute une partie de l’explication.

A un certain niveau, c’est principalement lié au système des banques toxiques – possédant de nombreux actifs dépréciés ou qui devraient l’être – qui, comme l’a défendu Ben Broadbent – membre du Comité de Politique Monétaire de la Banque d’Angleterre – entrave la redistribution du capital entre les différents secteurs.

Les récessions éliminent normalement les entreprises et les industries les plus faibles, permettant ainsi aux plus fortes et aux plus productives de prospérer plus aisément. Mais le refus de reconnaître les actifs pourris, de peur des conséquences sur la solvabilité des banques, est venu court-circuiter ce processus quasi naturel. Une politique monétaire accommodante vient aussi soutenir les banques toxiques, là encore court-circuitant la discipline darwinienne du marché.

Comme nous le savons maintenant, la croissance d’avant la crise n’était pas produite par le travail réel mais était produite par la frénésie de la finance et du marché immobilier, tous deux emportés par l’explosion du système bancaire.

La thésaurisation de la main-d’œuvre qualifiée, les baisses de production de pétrole en Mer du Nord et l’incapacité à bien quantifier statistiquement la croissance dans le secteur de l’économie numérique britannique, ont peut-être aussi joué leur rôle.

Pourtant, aucune de ces raisons n’explique de manière convaincante les piètres performances de la productivité à long terme de la Grande-Bretagne.

Afin de trouver d’autres causes, je tiens à souligner deux autres aspects du problème :

- L’impact négatif de l’immigration de masse sur la productivité,

- Et l’incapacité à répondre à de simples carences de l’offre dans la planification, l’éducation, l’infrastructure, l’efficacité du secteur public, le système fiscal et les perpétuelles faibles performances à l’export.

Dans l’ensemble, les chefs d’entreprise ont tendance à soutenir une politique d’immigration – dite “de la porte ouverte” – ce qui contribue à répondre aux pénuries de main d’œuvre dans les secteurs clés de l’industrie.

Mais, plus particulièrement, cela exerce aussi une pression à la baisse sur les salaires. L’effet est similaire au fait d’avoir des niveaux durablement élevés de chômage, car elle crée une réserve inépuisable de main-d’œuvre bon marché.

Cela peut être, ou ne pas être, bon pour les profits des entreprises mais ce n’est certainement pas bon pour la productivité ou pour le niveau de vie des personnes à faible ou moyen revenu.

En rendant la main-d’œuvre bon marché, il supprime une incitation puissante au gain de productivité. Faible salaire, faible engagement.

Pour bien comprendre, regardez ce qui s’est passé depuis que la crise a débuté il y a 6 ans. Durant cette période, plus d’1 million d’emplois ont été créés dans le secteur privé, un exploit remarquable compte tenu de l’ effondrement de la production. Cela a contribué à maintenir le taux de chômage bien inférieur à ce qu’il serait autrement. L’exploit mérite clairement d’être salué mais il a été réalisé au détriment des revenus réels.

Une grande partie de la création d’emplois est composé de métiers à faible rémunération ou à temps partiel. Les revenus réels ont connu leur pire resserrement depuis les années 1920. Pourtant, ce n’est pas juste un phénomène récent. La pression sur les revenus réels, en particulier à l’extrémité inférieure de l’échelle des revenus, date d’avant la crise.

La concurrence étrangère, que ce soit via l’immigration ou l’importation de biens et services, a été un grand obstacle à la croissance des salaires. Ceci a, à son tour, limité les incitations aux gains d’efficacité. Le travail ‘pas cher’ est devenu un substitut à l’investissement dans l’usine, dans les machines, la formation et la recherche et développement.

Lorsque le dernier gouvernement s’est vanté d’un énième trimestre consécutif de croissance, il a omis de préciser que c’était dû en grande partie à l’évolution de la population. Le revenu par tête a progressivement stagné.

La Grande-Bretagne est une économie ouverte qui doit certainement se positionner sur le marché de la main d’œuvre internationale de valeur. Pourtant, les niveaux élevés d’immigration non-qualifiée ont été au mieux un jeu à somme nulle, et peut-être cela aura-t-il une influence négative en décourageant les futurs investissements nécessaires.

Aucun partisan libéral n’envisagerait d’empêcher les employeurs d’embaucher des travailleurs étrangers, mais il y a d’autres formes d’intervention de l’État qui pourraient être plus appropriées. Cependant l’Union Européenne déclarerait illégale toutes formes d’intervention de ce genre, comme par exemple imposer des taxes sur l’utilisation de la main-d’œuvre étrangère peu coûteuse.

En rendant le travail à faible qualification plus cher, le système fiscal fournirait une incitation puissante aux gains de productivité dans la construction, le commerce de détail, les services sociaux et d’autres industries britanniques. Ces taxes pourraient alors être réaffectées dans des dispositifs incitatifs en faveur de la formation et d’autres formes d’investissement.

En tout cas, si le niveau de vie doit à nouveau croître, les employeurs doivent réapprendre les vertus du “faire plus avec moins de travailleurs”. Les gains de productivité ne peuvent correctement se produire que si les entreprises les plus performantes et innovantes sont mises en situation de mettre les plus faibles hors-jeu. Au contraire, s’appuyer sur la croissance de la population et la baisse des coûts unitaires du travail qu’elle entraîne pour rester compétitif est une impasse.

A maintes reprises le Royaume-Uni a esquivé une délicate réforme de l’offre, pour ne s’appuyer que sur une relance de la demande. Ces mesures étaient manifestement importantes dans les premières phases de la crise puisqu’elles ont contribué à éviter que la dépression ne s’installe profondément. Cependant leur poursuite 5 ans après la crise occasionne très probablement plus de mal que de bien.

Selon la fameuse phrase de Juncker, “les politiciens occidentaux savent ce qui doit être entrepris mais ils ne savent pas comment se faire réélire après l’avoir fait.”

De la même façon, tous savent qu’une croissance tirée par la productivité est la seule forme de croissance digne de ce nom, mais ils ne peuvent pas prendre les décisions à long terme nécessaires à sa mise en œuvre.

The Telegraph