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mardi, 17 mai 2011

L'usuraio Strauss Kahn inciampa nell'economia reale

L’usuraio Strauss Kahn inciampa nell’economia reale

La caduta del direttore generale del Fmi rimescola i poteri e la distribuzione delle poltrone dei poteri forti mondiali

Filippo Ghira

2011-05-16t133321z_01_apae74f11nn00_rtroptp_2_ofrtp-strauss-kahn-enquete-20110516.jpgAnche gli usurai sono uomini, con tutte le loro pruderie sessuali che a causa dell’età non riescono a tenere adeguatamente sotto controllo. Come italiani non possiamo quindi che essere grati a Dominique Strauss Kahn, direttore generale del Fondo monetario internazionale, per aver dimostrato che certi fenomeni, ai piani alti o ai piani bassi del potere, non sono una peculiarità solo italiana. Così i mangia ranocchie di oltralpe la smetteranno di sfotterci per le disavventure erotiche di Berlusconi.
L’usuraio francese doveva essere così abituato ad imporre condizioni capestro dal punto di vista finanziario a Paesi come Portogallo, Irlanda e Grecia, beneficiati (si fa per scrivere) dei suoi aiuti (al tasso di interesse del 6,2% annuo) da non riuscire più a comprendere quale sia il confine con l’economia reale e con la legge della domanda e dell’offerta. Fosse stato in Italia, avrebbe dovuto toccare con mano che ogni cosa ha un suo preciso valore e il più delle volte ha anche un prezzo. Un principio ancora più vero negli Stati Uniti come è certificato dalla sempre verde considerazione in merito fatta oltre un secolo fa da Oscar Wilde. Strauss Kahn avrà quindi compreso che anche nel Paese dove i sogni possono diventare realtà, anche nella città dove la fiaccola della Statua della Libertà indica la strada del successo e del guadagno ai nuovi immigrati, bisogna rispettare certe regole. Bisogna in primo luogo pagare perché non tutto è concesso gratis ai potenti di turno. Soprattutto per quelli che come lui hanno fama di essere ossessionati dalle donne e ai quali, in questi frangenti, giurie e giudici daranno torto sempre e comunque.
La vicenda del tecnocrate socialista francese, al di là dei risvolti penali che dovranno essere accertati in sede giudiziaria, rischia però di comportare conseguenze non da poco a livello internazionale, sia per gli equilibri politici in senso stretto che per quelli economico-finanziari. Qualunque sarà la conclusione del bunga bunga di New York, appare infatti chiaro che la carriera di Strauss Kahn è stata definitivamente stroncata. Si sono dissolte così in poche ore tutte le speranze di essere nominato candidato ufficiale del Partito Socialista alla presidenza della Repubblica e di arrivare l’anno prossimo all’Eliseo dopo uno vittorioso scontro al ballottaggio con Nicolas Sarkozy che nel 2007, con rara sensibilità, lo aveva fatto salire alla guida del Fmi. Erano gli stessi sondaggi d’opinione a dare infatti come certa la sua designazione a candidato socialista e a dare come più che probabile un suo successo contro l’attuale presidente post gollista che non gode più del favore di un tempo ma che comunque rappresenterà lo schieramento di centrodestra. Una lotta che in ogni caso avrebbe lasciato inalterati i rapporti di forze all’interno del sistema economico-industriale e finanziario francese. Sarkozy e Strauss Kahn sono infatti pienamente funzionali a tali interessi, la difesa dei principi del Libero Mercato (ossia delle banche e degli speculatori) rappresenta una costante per entrambi, e una eventuale presidenza del secondo si sarebbe differenziata da quella del suo predecessore soltanto per questioni di dettaglio. Quelle per intenderci, legate ai diritti civili, come è tradizione del partito francese della rosa nel pugno.
La caduta di Strauss Kahn rappresenta quindi una fortuna e allo stesso tempo un colpo per Sarkozy. Una fortuna perché gli toglie dai piedi un pericoloso concorrente. E in questo qualche osservatore smaliziato ha lanciato l’ipotesi di una “manina” dei servizi segreti Usa per aiutare Sarkozy a liberarsi di un pericoloso concorrente. Forse, un ringraziamento di Obama per il nuovo asse Washington-Londra-Parigi che tanto buona (!) prova di sé ha dato nell’aggressione alla Libia e nel tentativo di creare un nuovo ordine mediterraneo?
Ma rappresenta pure un colpo perché taglia molte possibilità al progetto di portare un altro francese alla direzione generale del Fmi l’anno prossimo, quando sarebbe scaduto il mandato di Dsk, come lo chiamano ormai i giornali. L’Eliseo aveva infatti pensato a Christine Lagardère, attuale ministro delle Finanze, che è gradita sia a Washington che a Londra che, in virtù del peso delle rispettive quote versate al Fmi come fondi di dotazione, possono esprimere il nome di un loro candidato di fiducia e farlo accettare dagli altri. Non è così un caso che ad appena 24 ore dall’arresto di Dsk, venga già fatto circolare il nome di un suo possibile successore che secondo i bookmaker britannici potrebbe essere Shri S.Sridhar, attuale presidente e direttore operativo della Banca centrale indiana, dato a 3,50. Una nomina che sarebbe la presa d’atto della nuova forza economica e politica assunta da Nuova Delhi sugli scenari internazionali.
La fine della carriera di Dsk potrebbe, qui però il condizionale è d’obbligo perché i giochi sono ormai fatti, costituire un handicap per la nomina di Mario Draghi alla presidenza della Banca Centrale europea, in sostituzione di un altro francese, Jean Claude Trichet, il cui mandato scade in ottobre. Sia Sarkozy che il cancelliere tedesco, Angela Merkel, si erano già espressi ufficialmente per Draghi ma adesso la Francia rischia di trovarsi senza propri rappresentanti alla guida di due fra i principali organismi internazionali, due centri di potere enormi attraverso i quali incidere pesantemente sulla finanza, sull’economia e sulla politica. A Parigi resterebbe soltanto, ma non è poco, Pascal Lamy che nel 2005  è stato eletto alla guida dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ed è stato poi confermato nel 2009 per altri 4 anni.
Questo tipo di umori hanno fatto da cornice ieri ai lavori dell’Eurogruppo a Bruxelles, nel corso dei quali si è parlato di tre questioni. Il via libera all’aiuto di 78 miliardi di euro al Portogallo. La definizione dell’Esm, il fondo permanente salva Stati che dal 2013 sostituirà quello provvisorio (Efsf). E infine il via libera alla nomina di Draghi alla Bce.
In assenza di Dsk, a rappresentare il Fmi a Bruxelles c’era il numero due, lo statunitense John Lipsky, nominato direttore generale ad interim, definito da un comunicato come “un uomo capace, di grande esperienza e un forte economista”. In concreto, si tratta di un usuraio che è stato capo economista alla JP Morgan, alla Chase Manhattan dei Rockefeller e alla Salomon Brothers. Davvero una bella scuola nella quale fare la giusta esperienza ed essere poi in grado di taglieggiare i popoli in quello che è lo sport preferito del Fmi.
 
 


17 Maggio 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=8287

lundi, 16 mai 2011

Mitterrand et le mystère français

 

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Mitterrand et le mystère français

par Dominique VENNER

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Au centre de toutes les interrogations que soulève l’itinéraire sinueux et contradictoire de François Mitterrand, sujet de notre dossier, figure en première place la photo devenue fameuse de l’entrevue accordée à un jeune inconnu, futur président socialiste de la République, par le maréchal Pétain, à Vichy, le 15 octobre 1942.

Ce document était connu de quelques initiés, mais il n’a été cautionné par l’intéressé qu’en 1994, alors qu’il voyait venir la fin de sa vie. Trente ans plus tôt, à la veille de l’élection présidentielle de 1965, le ministre de l’Intérieur du moment, Roger Frey, en avait reçu un exemplaire. Il demanda une enquête qui remonta jusqu’à un ancien responsable local de l’association des prisonniers, dont faisait partie François Mitterrand. Présent lors de la fameuse entrevue, il en possédait plusieurs clichés. En accord avec le général De Gaulle, Roger Frey décida de ne pas les rendre publics.

Un autre membre du même mouvement de prisonniers, Jean-Albert Roussel, en possédait également un tirage. C’est lui qui donna à Pierre Péan le cliché qui fit la couverture de son livre, Une jeunesse française, publié par Fayard en septembre 1994 avec l’aval du président.
Pourquoi, Mitterrand a-t-il soudain décidé de rendre public son pétainisme fervent des années 1942-1943, qu’il avait nié et dissimulé jusque-là ? Ce n’est pas une question anodine.

Sous la IVe République, en décembre 1954, à la tribune de l’Assemblée nationale, Raymond Dronne, ancien capitaine de la 2e DB, devenu député gaulliste, avait interpelé François Mitterrand, alors ministre de l’Intérieur : « Je ne vous reproche pas d’avoir arboré successivement la fleur de lys et la francisque d’honneur… » « Tout cela est faux », répliqua Mitterrand. Mais Dronne riposta sans obtenir de réponse : « Tout cela est vrai et vous le savez bien… »

 

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Le même sujet fut abordé de nouveau à l’Assemblée nationale, le 1er février 1984, en plein débat sur la liberté de la presse. On était maintenant sous la Ve République et François Mitterrand en était le président. Trois députés de l’opposition de l’époque posèrent une question. Puisque l’on parlait du passé de M. Hersant (propriétaire du Figaro) pendant la guerre, pourquoi ne parlerait-on pas de celui de M. Mitterrand ? La question fut jugée sacrilège. La majorité socialiste s’indigna et son président, Pierre Joxe, estima que le président de la République était insulté. Les trois députés furent sanctionnés, tandis que M. Joxe rappelait haut et fort le passé de résistant de M. Mitterrand.

Ce passé n’est pas contestable et pas contesté. Mais, au regard de la légende bétonnée imposée après 1945, ce passé de résistant était incompatible avec un passé pétainiste. Et voilà donc qu’à la fin de sa vie, M. Mitterrand décida soudain de rompre avec le mensonge officiel qu’il avait fait sien. Pourquoi ?
Pour être précis, avant de devenir peu à peu résistant, M. Mitterrand avait d’abord été un pétainiste fervent comme des millions de Français. D’abord dans son camp de prisonnier, puis après son évasion, en 1942, à Vichy où il fut employé par la Légion des combattants, grand rassemblement mollasson d’anciens combattants. Comme il trouvait ce pétainisme-là beaucoup trop endormi, il se lia à quelques pétainistes « purs et durs » (et très anti-allemands), tel Gabriel Jeantet, ancien cagoulard, chargé de mission au cabinet du Maréchal, l’un de ses futurs parrains dans l’ordre de la Francisque.

Le 22 avril 1942, il écrivait à l’un de ses correspondants : « Comment arriverons-nous à remettre la France sur pied ? Pour moi, je ne crois qu’à ceci : la réunion d’hommes unis par la même foi. C’est l’erreur de la Légion que d’avoir reçu des masses dont le seul lien était le hasard : le fait d’avoir combattu ne crée pas une solidarité. Je comprends davantage les SOL (1), soigneusement choisis et qu’un serment fondé sur les mêmes convictions du cœur lie. Il faudrait qu’en France on puisse organiser des milices qui nous permettraient d’attendre la fin de la lutte germano-russe sans crainte de ses conséquences… » C’est un bon résumé du pétainisme musclé de cette époque. Tout naturellement, au fil des événements, notamment après le débarquement américain en Afrique du Nord du 8 novembre 1942, ce pétainisme évolua vers la résistance.

La fameuse photo publiée par Péan avec l’accord du président provoqua un ouragan politique et médiatique. Le 12 septembre 1994, le président, miné par son cancer, dut s’expliquer à la télévision sous l’œil noir de Jean-Pierre Elkabbach. Mais contre toute attente, sa solitude d’accusé, doublée d’une détresse physique évidente, parut injustes, provoquant un élan de sympathie. L’interrogatoire d’Elkabbach avait suscité une réaction : « Mais pour qui se prend-il, celui-là ? » Ce fut un élément capital du rapprochement des Français avec leur président. Non que le bilan politique du personnage ait été approuvé. Mais l’homme, soudain, était devenait intéressant. Il avait acquis une épaisseur inattendue, celle d’une histoire tragique qui éveillait un écho dans le secret du mystère français.

Dominique Venner (La Nouvelle Revue d'Histoire, mai-juin 2011)

 

Note

(1). Le SOL (Service d’ordre légionnaire) fut constitué en 1941 par Joseph Darnand, ancien cagoulard et héros des deux guerres. Cette formation nullement collaborationniste fut officialisée le 12 janvier 1942. Dans le contexte nouveau de la guerre civile qui se déploie alors, le SOL sera transformé en Milice française le 31 janvier 1943. On se reportera à La NRH n° 47, p. 30 et à mon Histoire de la Collaboration, Pygmalion, 2002.

samedi, 14 mai 2011

Mayotte, département français: une calamité!

Par Robert Spieler (*)

MAYOTTE.gifMayotte, ce confetti situé dans le canal du Mozambique, entre Madagascar et l’Afrique, est devenue le 101ème département français, le 4 avril 2011, suite au référendum du 29 mars 2009 : une calamité…

 

Un peu d’histoire :

 

Mayotte, située dans l’archipel des Comores ne représente qu’une surface minuscule (374 km2) : deux îles entourées d’un récif corallien et d’un magnifique lagon. On la surnomme l’île aux parfums, tant la présence de l’ylang-ylang, utilisé en parfumerie, est abondante. Les Comores sont, au XIXème siècle, l’objet de luttes incessantes entre roitelets locaux. Elles survivent avec peine grâce au trafic d’esclaves à destination du Moyen-Orient. Un sultan malgache, qui règne sur Mayotte, appelle au secours un Français, le commandant Pierre Passot. Et cède son île à la France pour la modique somme de 1 000 piastres. L’archipel ne représente en réalité aucun intérêt pour la métropole : éloigné des grandes routes maritimes, pauvre, sans ressources, il n’intéresse guère l’administration coloniale. Mayotte, une des îles de l’archipel (il y a aussi Anjouan, Grande Comore et Mohéli) ne compte que 3 000 habitants.

 

La situation administrative des Comores perdurera jusqu’en 1968, où la France lui concède une large autonomie interne, prélude à l’indépendance. Mais les maladresses vont succéder aux maladresses. Jacques Foccart, l’homme ‘Afrique ‘ de De Gaulle choisit un riche commerçant, Ahmed Abdallah, de l’île d’Anjouan, concurrente de Mayotte pour diriger le pays. Les Mahorais ont peur de ce tyranneau et, pour s’en protéger, proclament leur attachement indéfectible à la France. Un référendum décisif a lieu le 22 décembre 1974. Les Mahorais se prononcent à 63% contre l’indépendance, les autres Comoriens votent à 95% pour. Dès lors, le problème devient inextricable. La grande majorité des Comoriens a voté pour l’indépendance. On arrête là ?  Non, au mépris du droit international, et aussi sur la pression de groupes « nationalistes » français, notamment royalistes (Pierre Pujo et Aspects de la France furent très actifs dans ce lobbying), qui s’émerveillent de voir le drapeau tricolore flotter sur tous les continents, la calamité nationale Giscard d’Estaing, deux ans avant le « regroupement familial », décide de reconnaître à Mayotte le droit de vivre sa vie. Sa vie au sein de la France. Le 8 février 1976, les habitants de Mayotte votent par référendum à 99% en faveur de l’intégration à la France.

 

Depuis lors, Mayotte est administrée par des fonctionnaires venus essentiellement de métropole.

 

Les conséquences

 

Mayotte, qui comptait en 1841, 3000 habitants, en compte aujourd’hui 200.000, tous musulmans. Toutes les nuits, à partir de l’île d’Anjouan, distante de cinquante kilomètre, des comoriennes sans papier embarquent, enceintes, dans des embarcations de fortune, les kwassa-kwassa pour venir accoucher à Mayotte, c'est-à-dire en France. Et c’est à Mamoudzou, chef-lieu de la collectivité territoriale, que se trouve la plus grande maternité de France : 5000 naissances par an sur un total de 8000. Les comoriennes ne sont, au demeurant, pas les seules à débarquer. Des malgaches, des africaines qui viennent faire bénéficier leurs enfants du droit du sol … Inutile de relever qu’il y a un fossé culturel entre Mayotte et la France. Il y a quelques années, on pouvait lire sur les feuilles d’impôts de l’île « première femme », « deuxième femme » dans la liste des personnes à charge à déclarer…

 

Grâce à Mayotte, le Ministère de l’Intérieur peut se targuer de chiffres quelque peu valorisants de reconduite à la frontière de clandestins. Mais ces chiffres n’ont aucune signification. Tous les matins, la police procède à l’arrestation de clandestins dans les villages de brousse.  Qui sont expulsés et reviennent tranquillement dans les semaines qui suivent. On en voit même qui, désireux de retourner à Anjouan, pour un décès ou une fête de famille, se rendent d’eux-mêmes à la gendarmerie pour réclamer leur rapatriement en avion ou en bateau. Tous frais payés. Et qui reviennent derechef…

 

Quant au système éducatif, il est en toute première ligne pour encaisser le choc de cette natalité considérable et de cette immigration massive. Beaucoup ne sont pas francophones. On bricole pour faire face. On recrute des instituteurs au niveau du bac. On instaure un système de rotation : la moitié des classes viennent de 7 à 12h20, l’autre moitié de 12h30 à 17h40. Pour suivre, il faudrait construire trois collèges par an ! Et combien de lycées demain ?

 

La délinquance progresse, quant à elle, de façon spectaculaire. On envisage la construction d’une deuxième prison. Le nombre d’enfants ou d’adolescents livrés à eux-mêmes est énorme. Les conditions d’hébergement du centre de rétention épouvantables. Un apartheid de fait existe à Mayotte : des quartiers habités par les blancs, ultra protégés. Quant aux autres…

 

Mayotte est de fait, en état de faillite. Prendre en charge cette île va coûter des sommes astronomiques. Il y a certes, sans doute, de l’argent à faire, au profit de certains privilégiés, à Mamoudzou. Pour des banquiers, des entrepreneurs de travaux publics, des fonctionnaires. On s’apprête à construire un hôtel de luxe… Et des écoles, et des prisons, et sans doute demain un somptueux Hôtel du Département… L’essentiel de cette « richesse » qui se déversera sur l’île proviendra, bien sûr, de la poche des contribuables français.

 

Quelle folie que Sarkozy se soit engagé dans la départementalisation ! En ce 35ème anniversaire du regroupement familial, voulu par Chirac et Giscard d’Estaing, désignons cette droite méprisable, collaborationniste, qui trahit les intérêts de notre Peuple. Et considérons que c’est elle, l’ennemi principal…

 

(*) Tribune libre publiée dans Rivarol n°2995 (30 avril 2011)

 

Source : le blog de Robert Spieler, cliquez ici

 

vendredi, 13 mai 2011

Poids de la mémoire, nécessité de l'Histoire

reichstag5a.jpgPoids de la mémoire, nécessité de l'Histoire

par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: http://www.insolent.fr/

On a fêté hier en France l'armistice de 1945. Dans l'ancienne Moscovie on commémore cela le 9 mai, en considération de l'entrée victorieuse des troupes staliniennes dans la vieille capitale prussienne. Il existe ainsi, de manière inévitable, plusieurs versions de l'Histoire. Ce qui tient lieu d'occident gagnerait par conséquent à sortir, au moins, de la Mémoire formatée, dans la seconde moitié du XXe siècle par la propagande soviétique.

On pourrait donc commencer par le commencement.

La seconde guerre mondiale a été mise en route le 23 août 1939 à Moscou. Joachim von Ribbentrop et Viatcheslav Molotov, respectivement ministre des Affaires étrangères du Reich et commissaire du peuple de l'Union soviétique paraphèrent ce jour-là deux documents. Le premier, rendu public, se présentait comme un pacte de non-agression entre les deux États. Personne ne s'y trompait. Un second accord le complète sous forme d'un protocole secret délimitant à l'avance les zones d'influence respective en Europe centrale et orientale qui résulteront du conflit immédiatement à venir. Un troisième interviendra le 28 septembre pour le partage des dépouilles.

Les choses s'enchaîneront dès lors irrémédiablement. Hitler attaquera la Pologne une semaine plus tard, le 1er septembre. Son compère Staline le suivra, frappant dans le dos le frère slave, le 17. Un conflit monstrueux allait embraser le monde pour 6 années, provoquant la mort de 50 à 60 millions de victimes. Il ne se terminera qu'en août 1945, avec la conférence de Potsdam. Le dictateur soviétique avait entre-temps changé de camp, le 22 juin 1941. Il le fit involontairement, et sans l'avoir lui-même prévu. Il fera cependant avaliser de manière définitive par ses nouveaux partenaires de l'ouest, ses conquêtes territoriales. En Europe, tous ses agrandissements remontaient à la période de son appartenance au camp adverse entre 1939 et 1941.

Ses interlocuteurs d'alors venaient d'accéder au pouvoir. Ils s'appelaient Harry Truman, ayant succédé en avril à Roosevelt comme président des États-Unis, et Clement Attlee chef du parti travailliste, vainqueur des élections législatives remplaçant Churchill le 26 juillet 1944. À Yalta, l'Amérique et la Grande Bretagne avaient avalisé les bases de cette consolidation des acquis territoriaux. Les deux grands alliés occidentaux avaient en effet cosigné le 11 février 1945 la "déclaration sur l'Europe libérée" considérant qu'en Europe de l'est, "la libération par l'armée rouge crée une situation politique nouvelle".

Guère novatrice pourtant, celle-ci reprenait presque exactement la position redessinée le 28 septembre 1939 par le maître du Kremlin en accord avec Ribbentrop.

Les destructions immenses, les pertes humaines, les bouleversements politiques et sociaux résultant de la déflagration, mirent au second plan les charcutages territoriaux.

Pas d'histoire sans géographie, par de géographie sans cartes, nous enseignait-on pourtant autrefois.

Les Français, absents des deux conférences de Potsdam et de Yalta, libérés par les Américains et peu soucieux de géographie ont longtemps considéré comme points de détails les modifications apportées à la carte de l'Europe orientale. Aux yeux de beaucoup de décideurs nombre de frontières sont tenues pour justes dès lors que, résultant de l'histoire militaire, elles ont été fixées au moment de la signature des armistices.

Observons cependant que ces transferts de souverainetés territoriales, au centre de l'Europe, imposées en 1940 et pérennisées en 1945 répondaient à trois caractéristiques.

Premièrement, aucune d'entre elles ne correspondait ni à la volonté exprimée démocratiquement et pacifiquement par les populations, entre les deux guerres, ni à la plus élémentaire des cartes linguistiques.

Deuxièmement, du nord au sud, de la Carélie finnoise à la Bessarabie roumaine, elles permettaient toutes, aux forces armées soviétiques, de pénétrer directement dans chacun des pays satellisés et incorporés de force dans l'Empire communiste.

Et enfin toutes ces conquêtes, soit 9 territoires totalisant 435 000 km2, soit la superficie de 75 départements français, avaient été opérés pendant la période 1939-1941. (1)

À noter aussi que si 4 de ces 9 pays ont recouvré en 1991 leurs indépendances étatiques, et si 3 d'entre eux appartiennent désormais à l'Otan et à l'Union européenne, aucune frontière n'a fait l'objet ni d'un réexamen, ce qui peut être considéré désormais comme un moindre mal, ni même d'un assouplissement.

On doit donc constater que l'alliance entre Staline et Hitler, n'est pas seulement demeurée impunie. Initiée par le dictateur soviétique (2) elle se traduisit diplomatiquement par trois accords logiquement inséparables.

Le crime dont Katyn est devenu la métaphore sanglante, commis au détriment des victimes polonaises, ne doit être tenu ni pour isolé, ni pour accidentel, ni même pour spécifique au martyre d'une seule nation. Le massacre des élites réputées bourgeoises fut ainsi perpétré par l'occupant rouge. Avec ou sans la complicité de ses alliés du moment, elle laissa des traces profondes dans toute l'Europe de l'est.

Elle aura profité pendant un demi-siècle au partenaire communiste.

Elle a été transférée sans doute, de manière artificielle au second rang de la "mémoire".

Mais elle ne doit pas, elle ne peut pas être oubliée par l'Histoire

JG Malliarakis


Apostilles

  1. La carte et le tableau de ces territoires figurent dans le livre "L'Alliance Staline Hitler" (chapitre Ier "Cartes sur tables"), dont la parution se trouve reportée de quelques jours. Il parviendra chez les souscripteurs fin mai. Je les prie de bien vouloir m'excuser de ce petit retard et j'en profite pour proposer aux autres de bénéficier encore jusqu'au 25 mai des conditions de souscription, au prix de 20 euros, payables soit par chèque adressé aux Éditions du Trident, 39 rue du Cherche Midi, 75006 Paris tel 06 72 87 31 59, soit par carte bancaire en utilisant la page dédiée du site des Éditions du Trident.

     

  2. ce que démontrent les 250 pages de documents publiés dans "L'Alliance Staline Hitler".

"L'Alliance Staline Hitler"

Ashs Sous ce titre paraîtra un ouvrage de l'auteur de ces lignes retraçant le contexte de la politique soviétique pendant toute l'entre deux guerres. Il comprend en annexe, et expliquant, plus de 80 documents diplomatiques, caractéristiques de cette alliance. Il sera en vente à partir du 25 mai au prix de 29 euros. Les lecteurs de L'Insolent peuvent y souscrire jusqu'au 25 mai au prix de 20 euros, soit en passant par la page spéciale sur le site des Éditions du Trident, soit en adressant directement un chèque de 20 euros aux Éditions du Trident 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris. Tel 06 72 87 31 59.

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mardi, 10 mai 2011

Guillaume FAYE: Why We Fight

Winglord
English translation
of "Pourquoi nous combattons" and "Wofür wir kämpfen"
Now available !

Product Description

Identitarians and others making up the European resistance lack a doctrine that truly serves as a political and ideological synthesis of who they are - a doctrine that speaks above parties and sects, above rival sensibilities and wounded feelings, that brings the resistance together around clear ideas and objectives, uniting them in opposition to the Europeans' dramatic decline.
Our people today face the gravest peril in their entire history: demographic collapse, submission to an alien colonisation and to Islam, the bastardisation of the European Union, prostration before American hegemony, the forgetting of our cultural roots, and so on. In the form of an introductory text and a dictionary of 177 key words, Guillaume Faye, one of the most creative writers of the European 'Right', makes a diagnosis of the present situation and proposes a program of resistance, reconquest, and regeneration. He holds out the prospect of a racial and revolutionary alternative to the present decayed civilisation.


The manifesto's principal objective is thus to unify the resistance by developing a common doctrine that unites everyone and every tendency seeking to constitute a European network of resistance - a doctrine that goes beyond the old sectarian quarrels and superficial divisions. All relevant subjects, including politics, economics, geopolitics, demographics, and biology are broached. As it was for the Nineteenth-century Left with Marx's Communist Manifesto, Why We Fight is destined to become the key work for Twenty-first century identitarians. This edition of Why We Fight contains the complete text of the original French edition, as well as additional material that was added for the German edition. Also included is an original Foreword by translator Michael O'Meara, author of New Culture, New Right, as well as a Foreword by Dr. Pierre Krebs, Chairman of the Thule-Seminar in Germany.

Additional Information

Author Guillaume Faye
Full Title Why We Fight: Manifesto for the European Resistance
Binding Softcover
Publisher Arktos
Pages 278
ISBN 978-1-907166-18-1
Language English
Short Description Guillaume Faye's manifesto and ideological dictionary, aimed at the 'European Resistance'. Radical, thought provoking and at times extremely controversial. A book that can't be read without forming an opinion about it.
Table of Contents FOREWORDS
Prophet of the Fourth Age (Dr. Michael O’Meara)
It’s About The Primordial Fire (Dr. Pierre Krebs)
A Note from the Editor

1. PREFACE AND PRECAUTION
Unite on the Basis of Clear Ideas Against the Common Enemy
Beware of False Friends

2. PRELIMINARY ELEMENTS
The Logic of Decline
-Ethnic Colonisation
-The Blocked Society
France or Europe?
Economic Principles
-For Nuclear, Not Petroleum Energy
-The Imposture of the ‘New Economy’
-Toward a Planetary Economic Crisis?

3. STRATEGIC PRINCIPLES
America and Islam Against Europe
The Dangers of European ‘Disarmament’
Notions of the ‘Menace from the South’ and the ‘Domestic Front’
Toward a Eurosiberian Strategic Doctrine: The ‘Giant Hedgehog’ 

4. METAPOLITICAL DICTIONARY
From Aesthetics to Xenophilia

5. CONCLUSION
Why Are We Fighting?

INDEX
About the Author With a doctorate in political science from Paris' Institute of Political Science, the essayist Guillaume Faye was one of the principal theoreticians of the French Nouvelle Droite in the 1970s and '80s prior to his growing sympathy for the identitarian movement. He has also been a journalist at Figaro-Magazine, Paris-Match, Magazine-Hebdo, Valeurs Actuelles, and a radio commentator. For several years he was the editor of J'ai tout compris (I Understood Everything), a private newsletter.

samedi, 07 mai 2011

Drieu La Rochelle vide lo spettro di una nuova guerra e per questo credette nell'Europa unita

Drieu La Rochelle vide lo spettro di una nuova guerra e per questo credette nell’Europa unita

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Vi sono scelte che non vengono perdonate, che fruttano al proprio autore la «damnatio memoriae» perpetua, indipendentemente dal valore del personaggio e da tutto quanto egli possa aver detto o fatto di notevole, prima di compiere, magari per ragioni contingenti e sostanzialmente in buona fede, quella tale scelta infelice.

È questo, certamente, il caso dello scrittore Drieu La Rochelle (Parigi, 1893-1945), il quale, nonostante i suoi innegabili meriti letterari e l’importanza di certe sue intuizioni politiche nel periodo fra le due guerre mondiali, per il fatto di aver aderito al Partito Popolare Francese dell’ex comunista Jacques Doriot ed averne condiviso, durante l’occupazione tedesca della Francia, le posizioni collaborazioniste, è stato scacciato per sempre dal salotto buono della cultura europea e ha subito la rimozione sistematica dei suoi meriti di europeista convinto, quando l’idea di un’Europa unita era una rara eccezione alla regola nel panorama uniforme dei gretti nazionalismi.

Ma chi era Pierre Drieu La Rochelle, prima di convertirsi al fascismo, nel 1934, e prima di accettare di collaborare con i Tedeschi nella Francia occupata, fino a ricoprire la direzione della prestigiosissima «Nouvelle Revue Française»?

Non è tanto la sua biografia che qui ci interessa, reperibile presso qualunque testo di letteratura francese, quanto l’itinerario spirituale che lo ha portato, rara e felice eccezione nel panorama degli anni Venti e Trenta, a perorare la causa di una unità europea capace di assorbire e ricomporre i nazionalismi esasperati e contrapposti.

Il primo dato significativo è la sua partecipazione alla prima guerra mondiale, dal principio alla fine (comprese tre ferite sul campo, di cui due nel solo 1914). Egli vi andò entusiasta, come tanti altri giovani della borghesia non solo francese, ma tedesca, russa, austriaca, italiana; ma ne tornò traumatizzato e disgustato. Aveva sognato la guerra eroica, e si trovò scaraventato in una carneficina di tipo industriale, dove la vittoria finale non andava al più audace o al più coraggioso, ma a quello che aveva alle spalle il più potente sistema industriale e finanziario.

Il pacifismo di Drieu La Rochelle, pertanto, non nacque da motivazioni etiche, ma, in un certo senso, estetiche: lettore entusiasta, fin dalla prima gioventù, dello «Zarathustra» nietzschiano, e quindi odiatore della mediocrità e della anonimità della società di massa, egli vide nella guerra moderna non già la smentita, ma il trionfo di quella mediocrità e di quella anonimità, dunque qualcosa di osceno e di stupidamente brutale.

Il secondo dato importante è la lucidità con la quale egli comprese che, a partire dal 1919, l’Europa aveva perduto il suo ruolo primario sulla scena della politica e dell’economia mondiali, a vantaggio di potenze imperiali di tipo “continentale”: Stati Uniti, Russia, e, in prospettiva, Cina e India. Prima di molti intellettuali e di molti uomini politici, egli comprese che nessun Paese europeo – tranne, forse, la Gran Bretagna, in virtù del suo immenso Impero coloniale – avrebbe potuto, alla lunga, reggere il confronto con quei colossi.

Pertanto, anche il suo superamento del nazionalismo – a cui aveva creduto appassionatamente – non si basa su ragionamenti di ordine umanitario, ma di “Realpolitik”. Così come Machiavelli vide lucidamente che gli Stati regionali italiani non avrebbero potuto reggere la sfida delle monarchie nazionali francese e spagnola, se non si fossero riformati da cima a fondo; allo stesso modo Drieu La Rochelle vide che gli Stati europei sarebbero usciti dal gioco delle grandi potenze mondiali se non fossero stati capaci di rinunciare alla pietra d’inciampo del nazionalismo e non avessero costruito una unione di tipo federale.

Il suo giudizio sul nazionalismo, dunque, non scaturiva da ragioni morali, ma politiche: esso aveva fatto il suo tempo. In altre epoche della storia aveva potuto svolgere un ruolo utile, anzi, necessario; adesso, non era altro che un peso morto, un ostacolo privo di senso (egli adopera il termine «rinsecchito») alla futura salvezza del Vecchio Continente.

Perché Drieu La Rochelle era una nazionalista, un francese che amava la Francia sopra ogni altra cosa; ma non fu mai un nazionalista gretto e miope, capace, cioè, di misconoscere la funzione storica e culturale svolta dalle «altre» patrie nella storia d’Europa. Egli, in particolare – cosa tanto più notevole, nel clima della «pace punitiva» imposta a Versailles da Clemenceau alla Germania sconfitta – non fu mai uno spregiatore della cultura tedesca; non solo: sostenne sempre che, accanto all’influsso della Grecia, di Roma e dell’Umanesimo italiano, la cultura francese era il risultato di un altro influsso, quello nordico d’oltre Reno, che aveva svolto un ruolo non meno significativo del primo.

Il terzo elemento è la ricerca tormentata, quasi affannosa, di una formula politica capace di fornire un orientamento spirituale e materiale ai popoli dell’Europa, usciti dalla prova durissima della prima guerra mondiale e frastornati da eventi di grande portata storica, potenzialmente minacciosi, quali la nascita dell’Unione Sovietica, il sorgere del fascismo e, poi, del nazismo, e la grande crisi di Wall Street del 1929. I suoi ondeggiamenti politici sono apparsi sovente quali segni di confusione ideologica e di velleitarismo; forse, sarebbe più giusto considerarli quali segni di una aspirazione ardente, ma sincera, a trovare un porto sicuro nella grande procella che in quegli anni infuriava sul mondo.

Il suo accostamento al Partito Popolare Francese di Doriot, ex comunista divenuto fautore di Hitler e Mussolini, giunge solo alla metà degli anni Trenta, dopo che egli sembra avere esplorato ogni strada, ogni possibilità, per individuare una via d’uscita dalla crisi della civiltà europea che gli sembrava, e a ragione, una crisi non solo economica e politica, ma innanzitutto spirituale. È come se egli avesse bussato a tutte le porte e, solo dopo averle trovate tutte chiuse a doppia mandata, si fosse risolto ad entrare nell’unica stanza che gli si rivelò accessibile.

In ogni caso, è certo che la sua adesione al collaborazionismo con i Tedeschi, dopo il 1940, non ebbe niente di opportunistico e niente di disonorevole, per quanto la si possa considerare politicamente discutibile o anche decisamente sbagliata. Egli non desiderava un’Europa asservita alla volontà di Hitler, e aveva sempre affermato di non intendere l’unità europea come il risultato di un’azione di forza da parte di una singola Potenza. Tuttavia, nel 1940, si trovò a dover fare una scelta irrevocabile: scelse quello che gli parve il male minore. È noto, d’altronde, che si adoperò per ottenere la liberazione di Jean Pulhan, detenuto nelle carceri naziste; ma questo sarebbe stato troppo facilmente dimenticato, nel cima da caccia alle streghe del 1945 che lo spinse al suicidio.

Nella sua ricerca di un nuovo ordine europeo che consentisse alle «patrie» francese, tedesca, inglese, italiana, di continuare a svolgere un ruolo mondiale nell’era dei colossi imperiali, si era accostato anche a certi ambienti industriali e finanziari che egli definiva «capitalismo intelligente», perché aveva intuito che, in un mondo globalizzato, anche il capitalismo avrebbe potuto svolgere una funzione utile, purché si dissociasse dal nazionalismo e contribuisse a creare migliori condizioni di vita per gli abitanti del Vecchio Continente. Grande utopista, e forse sognatore, Drieu La Rochelle si rendeva però conto della importanza dei fattori materiali della vita moderna, e intendeva inserirli nel quadro della nuova Europa da costruire.

Al tempo stesso, egli era un nemico dichiarato della tecnologia fine a se stessa e, più in generale, degli aspetti quantitativi, puramente economicisti della modernità. Una sua lampeggiante intuizione si può riassumere nella frase: «L’uomo, oggi, ha bisogno di ben altro che inventare macchine; ha bisogno di raccogliersi, di danzare: una grande danza meditata, una discesa nel profondo». Pertanto, egli vide lucidamente il pericolo della costruzione di un’Europa senz’anima, rivolta solo agli aspetti materiali dell’esistenza.

Si potrà definire questa posizione come tipicamente decadentistica; e, in effetti, non è certo un caso che, anche sul piano del suo itinerario letterario, egli si sia mosso fra Dadaismo, Surrealismo e Decadentismo alla Thomas Mann: sempre alla ricerca di una nuova via, di un varco fuori dal grigiore della mediocrità della società tecnologica e massificata. In un certo senso, il suo itinerario politico non è stato altro che il riflesso e il prolungamento di quel suo errabondo, infaticabile viaggio artistico alla ricerca, se non di una nuova Terra Promessa, certo di una via di fuga dagli aspetti più alienanti della modernità.

In fondo, la sua vicenda umana, artistica e politica fra vitalismo, pessimismo (pensò più volte al suicidio), estetismo, superomismo e «rivoluzione conservatrice» lo accomuna a personaggi come Ernst Jünger, i quali, dopo essere stati segnati irreversibilmente dall’esperienza della guerra di trincea, si dedicarono interamente alla ricerca di una nuova società, capace di dare un senso a quei sacrifici e di fare proprie cere esigenze del mondo moderno, volgendole però al servizio di un primato dello spirito sull’economia e sulla tecnica.

Quanto alla sua adesione finale al Nuovo Ordine nazista, non bisognerebbe dimenticare che egli non fu poi così isolato come si pensa, dal momento che intellettuali ed artisti del calibro di Ezra Pound, Knut Hamsun e Céline finirono per fare delle scelte analoghe alle sue, e ciascuno di essi in perfetta buona fede. Egli sperò, come quelli, di poter agire dall’interno del sistema hitleriano per affermare i valori in cui aveva sempre creduto, contro la doppia minaccia del totalitarismo politico russo e del totalitarismo finanziario americano; e, se commise un grave errore di giudizio, bisogna pur ammettere che, nel fuoco della seconda guerra mondiale, non tutto quel che oggi ci sembra evidente, con il senno di poi, lo era anche allora; e non tutto quel che si fece allora, nell’Europa dell’Asse, era totalmente folle e scellerato, come poi una Vulgata manichea lo ha voluto dipingere.

Ha scritto Alessandra La Rosa nel suo pregevole saggio «L’idea di Europa in Drieu La Rochelle» (nel volume L’Europa e le sue regioni, frutto di un Convegno internazionale svoltosi presso ‘Università di Catania ed organizzato dal Dipartimento di studi politici nel maggio 1990 (Palermo, Arnaldo Lombardi Editore, pp. 95-106 passim):

«Per Drieu fare l’Europa è una questione vitale da qualunque punto ci si pone, esterno o interno. “Il faut faire les Etates unis d’Europe parce que c’est la seule façon de defendre l’Europa contre elle-même et contre les autres groupes humains”. Se dal punto di vista estero bisogna fare l’Europa per far sì che non sia fagocitata dall’imperialismo capitalista americano e dall’imperialismo socialista risso, dal punto di vista interno i pericoli che nascono da un diffuso ed esasperato nazionalismo chiedono tale soluzione. L’unità europea è necessaria per porre fine alle lotte interne nate dai differenti interessi nazionali che potrebbero culminare in una ulteriore guerra fratricida da cui l’Europa non uscirebbe salva.

Secondo George Boneville, l’odio della guerra e l’amore dell’Europa presentano una stretta correlazione nella maggior parte delle riflessioni fatte dagli intellettuali sul tema dell’Europa. Nel caso di Drieu La Rochelle l’equazione è più complessa. Come vedremo l’atteggiamento europeista di Drieu non scaturisce da un rifiuto della violenza in sé, da un odio per la guerra tra le nazioni e quindi da un amore innato per la pace. L’esprit de guerre e la volontà di potenza sono presenti nel suo pensiero. Come dice Simon “il a chanté la guerre accoucheuse de héros”. Il primo conflitto mondiale viene accettato con entusiasmo da Drieu, che parte volontario. La guerra, al di là del suo carattere ideologico, rappresenta per Drieu l’occasione per permettere di risvegliare nell’uomo quelle virtù virili, come il coraggio, l’amore del rischio e il senso del sacrificio, attraverso le quali affermare la propria volontà di potenza, “en dépit de tous les obstacles et de toutes les menaces”.

Ma è anche vero che sul tema della guerra Drieu dimostra di avere delle esitazioni e dei ripensamenti che alla fine lo portano ad un superamento del suo atteggiamento antipacifista, come dimostra la sua argomentazione su l’unità europea. (…) È la realtà della guerra a mostrare a Drieu la portata dell’errore delle sue immaginazioni giovanili. Per l’uomo Drieu che ha vissuto l’esperienza amara delle trincee e frustrante del campo di battaglia, la guerra non è più “une novetaué mervelleuse, l’accomplissement qui n’était pas espéré de notre jeunesse”, ma solamente una esperienza da ripudiare fatta solo di distruzione e sofferenza (…). La speranza iniziale che la guerra fosse un movimento rivoluzionario rinnovatore e benefico fa posto alla presa di coscienza della estrema bestialità di ogni atto bellicistico. La  guerra è solo “geste obscene de la mort” reso ancora più ripugnante dall’uso di armi e di tecniche micidiali proprie della guerra chimica.. Sul campo di battaglia Drieu prende coscienza della profonda dicotomia esistente tra la guerra moderna, da lui vissuta, fatta di ferro , d scienza e di industria, e la guerra “éternelle”, da lui sognata, fatta di scontri frontali, di muscoli, di guerrieri. La “violence des hommes” caratterizza la prima, la “violence des choses” la seconda. La guerra moderna nega tutti i valori che giustificavano agli occhi di Drieu la guerra eterna (…).

La presa di coscienza che ciò che lui aveva vissuto come combattente era la forma decadente della guerra classica spiega il suo disincanto, il suo disgusto, il suo sentimento di sentirsi “blessé”. Ciò ha contribuito a far assumere a Drieu una posizione antimilitarista; ad aprire la strada del suo pensiero al pacifismo che negli anni venti si manifesta come protesta contro la guerra moderna. In tal senso si spiegano certamente le prime affermazioni di Drieu sulla necessità di evitare la ripetizione di una guerra se non si voleva l’agonia dell’universo. (…)

Il cambio di carattere della guerra eterna ci può aiutare a capire le dichiarazioni antimilitariste di Drieu come rifiuto della guerra moderna, ma se ci soffermassimo solamente sulle sue proteste contro la guerra moderna non potremmo capire le sue dichiarazioni di pacifismo assoluto, implicite nella sua posizione europeista. Infatti la condanna della guerra moderna non implica ancora la condanna morale della guerra in sé, quindi anche di quella che per Drieu è la “vera” guerra. È necessario perciò soffermarsi sul superamento della sua posizione nazionalista per capire come Drieu approdi all’internazionalismo pacifista che implica una condanna morale e politica della guerra.

Drieu La Rochelle non è certamente un intellettuale che crede nell’Europa “a priori” e che quindi nega di fatto l’idea nazionale. Tutt’altro (…). È indubbio che nel pensiero di Drieu è possibile individuare degli aspetti della dottrina nazionalista. Ma è anche vero che nello stesso pensiero giovanile di Drieu, ritenuto da alcuni il più patriottico, è possibile individuare delle affermazioni che lo allontanano dalla stretta osservanza del pensiero maurissiano. Nel poema “A vous Allemands” Drieu mostra di non condividere l’antigermanismo dell’Action Français.. Drieu prova del rispetto per il valore e la forza del nemico tedesco, fino a vedere nei tedeschi la fonte della rigenerazione nazionale. (…) Non solo Drieu rifiuta l’antigermanismo politico, ma anche quello filosofico, che invece caratterizzava il pensiero di Maurras. Per Maurras il pensiero francese è figlio dell’umanesimo mediterraneo, espressione quindi di quella ragione e di quella misura tipica del mondo greco-latino. Per Drieu, invece, il pensiero francese non è figlio solo del genio mediterraneo, ma anche delle influenze nordiche. (…)

Se certamente Drieu non è un intellettuale che nega a priori l’idea di nazione, bisogna anche ammettere che il discorso politico di Drieu è caratterizzati da fasi evolutive in cui vi è un ripensamento e un superamento degli aspetti nazionalisti del suo pensiero (…). Genève ou Moscou e L’Europe contre les patries sono testi in cui il superamento della posizione nazionalista di Drieu trova la sua completa realizzazione. Drieu si pone contro il concetto di unità nazionale, presentando l’esagono francese come un “carrefour” aperto sul mondo, aperto sull’Europa, nel cui seno già si realizza l’incontro del genio nordico e mediterraneo. La Francia contemporaneamente fiamminga, bretone, basca, alsaziana, realizzava già l’unità nella diversità (…).

Ogni manifestazione di nazionalismo culturale, integrale, è per Drieu espressione di un “ottuso” conservatorismo che porta a coniugare solo questo verbo: “Je suis français“. Contro l’isolazione culturale, mortale per la stessa creazione, Drieu sostiene l’assimilazione culturale, affermando che per vivere pienamente bisogna espandere la propria identità e non rimanere radicato nella propria (…).

Nel 1922 in Mesure de la France il rifiuto della guerra poteva sembrare più legato alle condizioni inaccettabili della guerra moderna meccanica e chimica, piuttosto che legato ad un superamento della sua posizione nazionalista. Ma i saggi politici di Genève ou Moscou e L’Europe contre les patries dimostrano come Drieu riunisca in uno stesso rifiuto la guerra e il nazionalismo che genera il primo. Il sentimento del patriottismo non corrisponde ala realtà delle cose. Esso è sorpassato. Cosa significa essere un patriota francese in un’Europa aperta ai grandi imperi? “Aujord’hui la France ou l’Allemagne, c’est trop petit” (…).

Rifiutando ogni forma di particolarismo nazionalismo nazionale Drieu esorta i Francesi a “mourir comme Français, à renaitre comme hommes” per poi diventare degli europei. La sua presa di posizione contro le patrie e il nazionalismo ha un corollario positivo: la sua professione di fede europea. (…) La sua speranza nella unione europea si colora, come nella maggior parte dei casi, di pacifismo morale e politico, che può sembrare paradossale in un futuro teorico del fascismo. “Les seuls adversaires de la guerre dans notre societé sons les objecteurs de coscience”. A costoro Drieu dedica un capitolo in Socialisme Fasciste parlandone con ammirazione e simpatia. Nella parte finale di L’Europe contre les patries fa sua la loro tesi. Sotto forma di dialogo col suo “io” Drieu dichiara che nell’evento di una guerra europea rifiuterà la mobilitazione poiché, se come uomo considera la guerra moderna il “geste obscene de la mort”, come europeo vede la sola speranza di sopravvivenza dell’Europa in una unità pacifica. L’amore della nuova patria europea impone non la guerra ma la pace (…).

Nel 1922, in Mesure de la France, egli si muove nella direzione di una Europa delle patrie. (…) Considerando ancora la patria come una realtà che non poteva essere negata, egli propende verso l’idea di una alleanza tra le patrie europee, sotto la forma di una confederazione, dove potrebbe essere creata qualche struttura in comune. Ma nello stesso del 1922 , rifiuta ogni soluzione che si fondi sull’egemonia di una nazione federatrice. (…)

Nel 1928 la posizione di Drieu diventa molto più radicale sul modo di realizzare l’unità europea. Il nome di “Ginevra”, presente nel titolo del suo saggio, indica come in questo periodo Drieu crede che la Società delle nazioni sia l’agente della unificazione europea. La sua speranza di vedere realizzare una unificazione europea sotto il segno liberale lo porta ad ammirare l’azione di alcuni politici: come “l’effort admirable et fécond d’Aristide Briand”. (…)

L’unificazione europea non è solo un’idea, non è solo un progetto morale. Drieu prende posizione anche sulle forze sociali ed economiche che debbono operare prr la sua realizzazione. Egli si rende conto che il sistema economico è un importante agente di unificazione (…) Negli anni Venti, dal 1925 al 1929, Drieu fa appello alla forza del sistema capitalista. Spera in un neo-capitalismo intelligente e riformatore che rinunci alla concorrenza selvaggia che regnava sia tra le azioni che all’interno d queste. L’alleanza tra capitalismo e nazionalismo non può essere, secondo Drieu, che accidentale; la logica stessa dell’evoluzione del capitalismo deve condurlo, se esso vuole sopravvivere, all’internazionalismo (…) Drieu sostiene i nuovi capitalisti, agenti di un sistema industriale intelligente, poiché li considera forze rivoluzionarie che concorrono alla realizzazione della unità europea».

Abbiamo paragonato Drieu La Rochelle a un viandante che bussa a tutte le porte, consapevole – come pochi suoi contemporanei lo erano stati – dei tempi tremendi che si andavano preparando, fin dall’epoca della conferenza di Versailles che, chiudendo il capitolo della prima guerra mondiale, apriva le ragioni per lo scoppio della seconda.

Tipica, in proposito, è stata la sua illusione che la Società delle Nazioni potesse svolgere il ruolo storico di tenere a battesimo la nascita della nuova Europa unita: illusione generosa e, a suo modo, non del tutto sbagliata, se gli uomini che erano allora alla guida dell’Europa avessero posseduto un po’ più di lungimiranza e un po’ più di saggezza. Invece, come è noto, la Società delle Nazioni divenne quasi subito un supplemento di potere per le ambizioni egemoniche della Gran Bretagna e della Francia, svuotandola di ogni credibilità e di ogni significato ideale.

Il risultato di quella miopia, di quel gretto egoismo nazionalista è noto: sia la Gran Bretagna che la Francia perdettero tanto i loro imperi coloniali, quanto il loro ruolo di potenze mondiali, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale: avevano sacrificato una splendida occasione di mettersi all’avanguardia dell’unità europea per inseguire la chimera di una splendida autosuffcienza «imperiale», per la quale non possedevano né i mezzi, né la credibilità ideologica (dopo aver combattuto contro Hitler in nome della libertà dei popoli di tutto il mondo).

Che dire, dunque, del sogno europeista di Drieu La Rochelle?

Anche se, oggi, è di gran moda esercitarsi nel tiro al bersaglio sugli sconfitti e stracciarsi le vesti davanti agli errori e alle contraddizioni dei perdenti, nondimeno bisognerebbe recuperare quel minimo di onestà intellettuale per rendere atto a uomini come Drieu La Rochelle che il loro sogno non è stato solo e unicamente uno sbaglio; che un’Europa diversa e migliore avrebbe potuto nascere, e la tragedia della seconda guerra mondiale avrebbe potuto essere evitata, se altri uomini generosi avessero condiviso quel medesimo sogno.

dimanche, 24 avril 2011

Léon Daudet, sa vie, son oeuvre et ses astralités

par Daniel Cologne

Ex: http://geminilitteraire.wordpress.com/

Dans la riche banlieue Est de Bruxelles, à l’angle des avenues de l’Yser et de Tervueren, on découvre aujourd’hui un immeuble moderne abritant, entre autres locataires, une chemiserie de luxe et une agence bancaire. Là s’élevait jadis l’hôtel particulier de la marquise de Radigues, où Léon Daudet séjourna durant son exil belge de vingt-neuf mois (1927 – 1929). L’entrée du Parc du Cinquantenaire est à quelques mètres et, sur une photographie reproduite dans le livre de Francis Bergeron en page 122, à l’arrière-plan de Léon Daudet et de son fils Philippe, on aperçoit les arcades édifiées à l’initiative du roi-bâtisseur Léopold II pour les cinquante ans de la Belgique en 1880. Au sommet de cet arc de triomphe, Le char de Phébus est emporté par des chevaux qui galopent vers Le Soleil Levant.

 

Léon Daudet arrive en Belgique après s’être évadé de la prison de la Santé, où il purgeait une peine de cinq mois pour diffamation. Il est toujours marqué par le suicide de son fils Philippe en 1923. Il soupçonnait un assassinat politique maquillé en suicide, mais Francis Bergeron pense que l’adolescent fugueur et épileptique a vraiment mis fin à ses jours. Publié en annexe par Marin de Charette, l’horoscope de Philippe Daudet né à Paris, Le 7 janvier 1909 à 4 h 00, semble confirmer la thèse de l’auteur.

En dépit de ce deuil encore récent et de cette blessure non cicatrisée, Léon Daudet déborde d’activité à Bruxelles : conférences, réceptions, rédaction d’une vingtaine de volumes. C’est le rythme de travail habituel de Daudet : une « déferlante effroyable » (p. 43) au détriment de la qualité, du moins en ce qui concerne l’œuvre romanesque. En revanche, le critique littéraire et artistique mérite de passer à la postérité avec ses surprenants éloges de Proust, Gide, Kessel et Picasso. « La patrie [ou la France, selon les versions], je lui dis merde quand il s’agit de littérature » (p. 90). Ainsi parlait celui qu’Éric Vatré qualifie judicieusement de « libre réactionnaire » (cité p. 116).

Léon Daudet naît à Paris Le 16 novembre 1867 à 23 h 00. Il est le fils d’Alphonse Daudet (1840 – 1897). Moins prolixe que son père dans la veine provençale héritée du Félibrige (Fièvres de Camargue, roman publié en 1938), il en partage jusqu’en 1900 les convictions politiques de républicain antisémite.

D’Alphonse Daudet, Francis Bergeron écrit : « Il déjeune chez Zola et dîne chez Drumont » (p. 45). Le moindre mérite de son livre n’est certes pas de rappeler que l’origine de l’antisémitisme se situe à gauche.

Entre autres influences, celle de sa cousine Marthe Allard, qui devient sa seconde épouse, et « dont les idées catholiques et monarchistes sont bien arrêtées » (p. 48), fait basculer Léon Daudet dans l’orbite de l’Action française.

Au lendemain de la Première Guerre mondiale, Léon Daudet est élu député d’une « Chambre bleu-horizon ». Il joue un rôle important dans la décision de la France d’occuper la Ruhr. Farouche adversaire d’Aristide Briand, Léon Daudet est apprécié par André Tardieu qui, devenu président du Conseil en 1929, lui accorde sa grâce. Après deux ans et demi de bannissement, Léon Daudet rentre à Paris non sans avoir une ultime réception dans son hôtel bruxellois, le 30 décembre.

« Léon fut un redoutable polygraphe » (p. 109). À ses cent vingt-sept œuvres (romans, essais, pamphlets, recueils d’articles), il faut ajouter plus de quarante préfaces et contributions à des ouvrages collectifs. Parmi les livres qui emportent l’enthousiaste préférence de Francis Bergeron, citons : Paris vécu (deux tomes paradoxalement écrits à Bruxelles), l’incontournable Stupide XIXe siècle (1922), La vie orageuse de Clémenceau (1938), car Léon Daudet vénérait Le « Tigre », Panorama de la IIIe République (1936), Charles Maurras et son temps (1928), les romans historiques de 1896 et 1933 mettant en scène les personnages de Shakespeare et Rabelais.

Le 1er juillet 1942, Léon Daudet s’éteint à Saint-Rémy-de-Provence, dans cette région inspiratrice de son père, dans ce Midi dont on a chanté les marchés (Gilbert Bécaud), les fifres et les tambourins (Robert Ripa), Le « mistral qui décoiffe les marchandes, jouant au Tout-Puissant » (Mireille Mathieu).

Léon Daudet meurt là où naquit Nostradamus. Le point commun de « l’enfant terrible de la IIIe République » (Louis Guitard, cité p. 114) et du faux prophète du XVIe siècle est Le cursus universitaire médical, inachevé chez l’un, accompli chez l’autre.

Dans notre famille de pensée, l’on demeure volontiers sceptique, voire méfiant, envers l’astrologie. D’autant plus nécessaires sont les études qui terminent tous les ouvrages de la collection « Qui suis-je ? ». Marin de Charette interprète l’horoscope de Léon Daudet (pages 123 à 126).

Son analyse est convaincante. De Léon Daudet, l’astrologue écrit : « Dans son ciel de naissance, aucune planète n’est faible : elles sont toutes puissamment reliées entre elles » (p. 125). Sur le plan personnel, le trigone Lune – Mercure (angle de 120 °) incline à la sur-activité littéraire et à la toute particulière prédisposition à la critique. Le romancier « solaire » produit, le critique « lunaire » reproduit, à l’instar du luminaire nocturne qui reproduit la lumière du Soleil en la reflétant.

« Né, en outre, au moment d’un carré exact et croissant d’Uranus à Neptune (dont l’axe mitoyen passe par Saturne !) – aspect générationnel -, Daudet incarne comme une sorte de déchirement entre l’ancien et le nouveau, et, aussi, un pont » (p. 126).

Mis en perspective dans les statistiques de Michel Gauquelin, cet horoscope se caractérise par l’occupation des quatre « zones d’intensité maximale » : la Lune vient de se lever, Jupiter se couche, Pluton culmine et cinq planètes sont amassées au nadir. Parmi cette quintuple conjonction, relevons le couple Soleil – Saturne (deux degrés d’orbe). Saturne « ensoleillé » indique la quête du Vrai sachant s’affranchir des a priori (le « libre réactionnaire »). mais Saturne « brûlé » (« combuste », disent les astrologues traditionalistes), peut expliquer « l’extrême violence de ton avec laquelle il a toujours défendu ses idées, ses convictions, ses goûts » (p. 94).

Cela ne fait pas pour autant de Léon Daudet un « extrémiste ». Même les actuels et pernicieux censeurs de la plus sournoise des polices de la pensée ne s’y trompent pas et lui laissent le bénéfice d’une « relative indulgence ».

 

Note

 

 

 

 

 

 

 

• Francis Bergeron, Léon Daudet, Éditions Pardès, coll. «Qui suis-je ?», 2007, 128 p

 

samedi, 16 avril 2011

L'hypocrisie de la laïcité

delsol-chantal-2062.jpgL'hypocrisie de la laïcité

Par Chantal Delsol, de l'Institut

Le débat est surréaliste pour savoir si nous devons affirmer ou infirmer nos racines chrétiennes. Comme si cela n’était pas tout simplement de l’Histoire, pour commencer ! Se pose-t-on la question de savoir si on affirme ou si on infirme l’existence de César Auguste ? La vérité historique ne dépend pas de nous, c’est nous qui dépendons d’elle. Naturellement, à nous de l’interpréter. Les racines chrétiennes de l’Europe ne laissent aucun doute historique. On peut refuser d’en parler.

On peut tenter de les noyer (ainsi un ancien président avait prétendu que l’Europe était aussi musulmane que chrétienne). Mais on ne peut empêcher que nous en soyons pétris. Or mieux vaut être conscients de ce dont nous sommes pétris : cela nous rend plus intelligents et plus prêts à affronter l’avenir.

A-t-on inventé ailleurs qu’en Europe la séparation de la religion et du pouvoir ? Bien sûr que non, et c’est là l’ironie de l’histoire : il n’y aurait pas de sécularisation si le christianisme n’était pas aux racines.

La laïcité est une forme bien française de sécularisation. Elle consiste moins à “séparer les glaives” qu’à confiner la religion. En ce sens, elle participe d’un espoir de déracinement général, visant à faire des individus des citoyens à l’état pur, nourris exclusivement d’universel. Il faut que les enfants des provinces cessent de parler le patois et il faut aussi taire l’appartenance religieuse. Comme si nous pouvions n’appartenir qu’à la République, une et indivisible ; comme si nous n’avions pas (et en premier lieu !) des origines familiales, un lieu de naissance, une province sur terre et peutêtre une autre au ciel. Il faut être idéologue comme un Français pour défendre un rêve si loufoque, qu’aucun peuple ne nous envie, même si naturellement nous souhaiterions l’exporter partout. Ainsi, les problèmes que rencontre la République avec les musulmans signifient seulement que, pour la première fois, la laïcité se heurte à des gens qui refusent d’abandonner sans murmurer leurs particularités. La République, devant cette résistance, demeure tout étonnée : elle avait l’habitude des chrétiens qui, par peur d’être traités d’inquisiteurs, acceptaient tout ce qu’on voulait.

Il n’y a pas d’homme neutre, fils en ligne directe de la république nourricière. Quand Sade écrit : « Français, encore un effort pour être républicains », il le développe ainsi : encore un effort pour vous déraciner – de vos attaches affectives, filiales, que sais-je. Pour être de vrais citoyens, il nous faut nous débarrasser de nos appartenances particulières ou faire comme si elles n’existaient pas – ce qui revient à les étouffer, car une appartenance se vit au-dehors et avec d’autres, elle ne peut survivre confinée dans la conscience muette. En arrachant les signes visibles d’appartenance, la laïcité mène un combat contre les enracinements qu’ils expriment. Il n’est pas du tout étonnant que la France ait été le seul pays à refuser radicalement la mention des racines chrétiennes dans la Constitution européenne. Les autres pays d’Europe sont sécularisés : ils distinguent les domaines, mais ne nourrissent pas le projet d’étouffer l’un au profit de l’autre.

La neutralité laïque fleure l’hypocrisie. Le théâtre public de la société laïque étalée sous nos yeux n’est pas du tout neutre. Être un vrai citoyen signifie sacrifier aux rites et aux croyances républicaines, nouvel enracinement auquel, sans le dire, on nous astreint. Il ne faut pas prononcer certains mots. Il ne faut pas compter certains groupes. Il faut faire l’éloge de certaines normes et en détester d’autres, bien précisées au catalogue. Celui dont la langue dérape reçoit un blâme collectif. Celui qui réitère va au procès. Plutôt qu’une neutralité, n’avonsnous pas suscité une religion d’État ?

Le citoyen laïque et neutre est un fils de la raison sèche. Il a laissé tomber les superstitions avec les bondieuseries. Et pourtant le voilà qui fait à ses adversaires (ceux qui refusent d’utiliser la langue de bois) des procès en sorcellerie. Enfin libéré des religions, il déploie une logorrhée moralisatrice dont les préceptes valent non par des arguments, mais par la seule incantation et par l’air inspiré de leurs grands prêtres. On lui a appris qu’on ne peut raisonner que sans Dieu, et qu’il faut désenchanter le monde pour être libre. Pourtant, il n’a jamais autant couru les voyantes, il craint les fantômes et vénère sur sa cheminée les cendres de son grand-père incinéré. Il ne porte plus une croix au cou, mais un signe du zodiaque. Se débarrasser de Dieu ne signifie pas s’affranchir des superstitions. Cependant, la République se satisfait de ces citoyens habités par les superstitions les plus diverses et les plus farfelues, parce qu’au moins elles ne forment pas un système, elles se superposent et se contredisent : elles ne sont donc pas dangereuses pour l’État. Ce que veut la laïcité, ce ne sont pas des citoyens libres, ce sont des citoyens dociles, non inféodés à un autre système que le sien. 

Source Valeurs actuelles cliquez ici 

 

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Une étude universitaire sur François Duprat

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Une étude universitaire sur François Duprat

duprat.jpgCi-joint l'URL d'une étude universitaire récente sur la figure de François Duprat, rénovateur audacieux du corpus doctrinal du néo-nationalisme français, avant l'avènement de J. M. Le Pen.

Rappelons-nous que François Duprat, dans ses "Cahiers Européens" recensait chaque semaine les événements du "camp nationaliste" dans toute l'Europe (et aussi en dehors de notre sous-continent). Ce travail était énorme, inimaginable pour un seul homme à l'époque où l'informatique était inexistante dans le quotidien. Songeons aussi, du moins pour ceux qui l'ont connu, à son correspondant en Wallonie, Alain Derriks, qui a choisi une mort volontaire en 1987. Derriks avait assisté à ses obsèques. La mort de Duprat l'avait bouleversé.

Les "Cahiers" de Duprat, et les pages consacrées aux mouvements nationalistes dans les colonnes de "Nation Europa" (Coburg, Allemagne) et DESG-Inform (Hamburg, Allemagne) sont les véritables sources documentaires directes pour ceux qui voudraient entreprendre une étude approfondie de cet univers politique, en marge des grands partis et courants de la politique politicienne.

Cette étude, comme toutes les études de ce genre, est à prendre avec les pincettes habituelles, la malveillance gratuite n'étant jamais loin dans ce genre d'entreprise qui multiplie souvent les "omissions" dans l'analyse des textes.

A lire, avec circonspection:

 

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mercredi, 13 avril 2011

Cocaïne

Cocaïne

par Xavier EMAN

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

cocaine.jpgLes sectateurs acharnés de la démocratisation tous azimuts et de l’égalitarisme généralisé peuvent se réjouir : jadis drogue des élites politiques, des rock stars écorchées vives et des traders épuisés par leurs gesticulations boursières, la cocaïne est en passe de devenir le stupéfiant de monsieur tout le monde, la came du citoyen lambda, le passeport pour la défonce de tout un chacun.


C’est au milieu des années 2000 que la poudre blanche a glissé des mains des nantis à paillettes pour se répandre dans l’ensemble de la société et dans la plupart des secteurs professionnels, tout particulièrement le BTP, la restauration ou le commerce, souvent à titre de stimulant (1).

La cocaïne est ainsi devenue la deuxième drogue la plus consommée en France (et en Europe), juste derrière le cannabis qui voit sa domination menacée. Le petit joint n’a en effet plus vraiment la cote auprès des nouvelles générations pour lesquelles il s’est tellement banalisé qu’il n’offre désormais plus le degré minimum de frisson transgressif. Les post-soixante-huitards enfumés du bulbe, qui trouvaient très « sympa » et très « progressiste » de rouler leurs « bédots » devant leurs rejetons et même d’en partager avec eux, en sont donc pour leurs frais. Pas plus qu’elle ne désire s’habiller comme eux, leur progéniture ne veut se cantonner aux drogues de papa-maman. Passage donc à la vitesse supérieure : en route pour la cocaïne !


Les causes de cette spectaculaire extension de la consommation de « poudre blanche » sont multiples. Tout d’abord, il y a la saturation du marché américain qui a vu les flux de trafics se réorienter vers la vieille Europe. Une hausse de l’offre qui a entraîné une importante diminution des coûts pour le consommateur. Ainsi, de 1997 à 2007, le prix du gramme de cocaïne a chuté de moitié, passant de 120 à 60 euros environ.

Le « rail » coupe d’abord l’axe Auteuil, Neuilly, Passy

Les plus importants pays producteurs de cocaïne sont situés en Amérique latine, la Colombie, le Pérou et la Bolivie se partageant le marché. Selon les sources officielles américaines, les plantations d’arbustes à coca en Amérique latine produisent annuellement de 900 à 1 000 tonnes de cocaïne, démontrant au passage l’échec total de la « guerre à la drogue » cornaquée par les Etats-Unis dans la région.


Dans l’Union européenne, selon l’Observatoire européen des drogues et des toxicomanies, 10 millions d’adultes entre quinze et soixante-quatre ans ont consommé cette drogue au moins une fois. 4,5 millions en ont consommé au cours des douze derniers mois et 2,5 millions durant les trente derniers jours.


En France, le nombre de consommateurs de cocaïne parmi les 12-75 ans est estimé à environ 1 million de personnes, avec une hausse spectaculaire en dix ans, ce nombre ayant plus que doublé de 1995 à 2005.


La cocaïne est désormais partout et il n’a jamais été aussi facile de s’en procurer. Si les lascars de banlieues ne dédaignent pas d’ajouter la « CC » à leur panoplie de Tony Montana de supérettes Franprix, c’est toutefois essentiellement dans les classes moyennes et moyennes-supérieures des centres-villes que la « mode » de la ligne de poudre tend à devenir un véritable phénomène sociétal.

Les ados accros ? Des toxicos mornes et sordides

Les adolescents des lycées « chics » en consomment notamment de plus en plus jeunes et de plus en plus fréquemment. Ayant déjà expérimenté le cannabis et les cigarettes dès la cinquième ou la quatrième, leur curiosité et leur goût de la transgression sont titillés dès leur passage en seconde par l’image de la cocaïne, cette drogue largement représentée à la télévision et au cinéma, généralement dans un cadre considéré comme « valorisant » par les jeunes (luxe, fêtes, « gangsters », show-biz…).


Largement pourvus en argent de poche par des parents souvent démissionnaires cherchant à compenser matériellement leur absence physique ou affective, les adolescents peuvent alors recourir à la « coke » pour meubler l’ennui trop nourri de leurs soirées, stimuler leur libido déjà blasée et noyer sous les délires hallucinés leur nihilisme et leur absence de perspectives autant que de passions. Cette drogue ?, stimulant les « performances », leur permet également de s’arracher à cette espèce d’introversion angoissée, proche de l’autisme, caractérisant une génération étouffée de technologie et de virtualité qui ne maîtrise désormais que très imparfaitement les modes de communication « directe », ceux ne permettant pas l’usage d’un écran protecteur et rassurant.


Bien informés, les ados connaissent parfaitement les risques et dangers de la cocaïne (même s’ils minimisent généralement, comme tous les toxicomanes, leur « addiction » au produit), mais les effets qu’ils recherchent priment sur la crainte de conséquences toujours considérées comme lointaines.

Des salariés qui se « dopent » comme de vulgaires coureurs du Tour de France

Ce qui frappe le plus dans l’observation de ce mode d’utilisation de la cocaïne, c’est que son caractère prétendument « festif » disparaît assez vite au profit d’une consommation morne et compulsive. Les adolescents et jeunes adultes ne sortent même plus des appartements où ils se réunissent pour « sniffer » et où la drogue devient peu à peu le centre unique d’attention, la seule raison d’être du rassemblement, le sujet exclusif des conversations. Une hiérarchie sordide s’établit alors au sein de la bande de zombies, en fonction des quantités possédées par les uns ou les autres, de la complaisance à laisser les filles « taper » sur ses propres rails ou de la qualité du produit « offert » au groupe.


Souvent, pour remplacer ou compléter les mannes parentales, les jeunes consommateurs de cocaïne n’hésitent pas à « dealer » dans leur entourage des produits généralement coupés pour en améliorer le bénéfice. Ce développement d’un « micro-trafic » de proximité, assez difficilement contrôlable, est également l’un des facteurs du développement drastique de l’usage de la cocaïne en France, ces dernières années.


Dans le monde du travail, l’usage de cocaïne peut revêtir deux principaux aspects. Soit il est la continuité à l’âge adulte de ces pratiques « adolescentes » devenues « addictives », soit il peut être « causé » par l’environnement professionnel lui-même, le travail moderne étant, dans de nombreux secteurs, toujours plus stressant et exigeant en termes d’efficacité et de rendement. L’activité professionnelle travail étant devenue un sport de haut niveau au sein duquel les participants doivent chaque année améliorer leurs performances, les salariés se « dopent » comme de vulgaires coureurs du Tour de France.

L’ère du vide et de la poudre blanche

Selon la Mission interministérielle de lutte contre la drogue et la toxicomanie, plus de 10 % des salariés ont ainsi besoin de drogue pour affronter leur travail. Un pourcentage qui ne cesse de croître, notamment du fait de la pression libérale exercée sur les secteurs jadis « protégés ».
Si les professions les plus touchées par la consommation de cocaïne sont celles des banques, des transports routiers, du BTP, de la restauration et du monde médical, les services publics en cours de privatisation sont également de plus en plus exposés. Ainsi les services médicaux de toxicologie traitent-ils par exemple un nombre croissant de salariés de la Poste, établissement qui cherche à offrir toujours davantage de services avec de moins en moins de personnel, les guichetiers récoltant alors le mécontentement et parfois la violence, verbale ou physique, des usagers mécontents.


Qu’il soit dit « festif » ou « productiviste », l’usage exponentiel de cocaïne est indéniablement un nouveau symptôme de ce « désir de mort » qui semble caractériser notre modernité occidentale subclaquante.


Ajoutant la fuite en avant chimique à l’échappatoire virtuelle, nos contemporains cherchent à s’extraire le plus totalement possible d’une réalité devenue insupportable à force de désenchantement et de désacralisation. Pour meubler l’attente du tombeau, ils tentent donc, hagards et épuisés, de trouver dans les stimuli artificiels de la poudre blanche et de ses avatars quelques lueurs perçant encore la désespérante obscurité d’un quotidien qu’ils n’ont plus la foi ni la force de vouloir révolutionner.   


Xavier Eman

1_Le Code du travail interdit les prélèvements urinaires ou sanguins  en entreprise pour détecter d’éventuelles traces de drogues, en dehors des postes dits « de sécurité ».

 

mardi, 12 avril 2011

Das Rivkin-Projekt: Wie der Globalismus den Multikulturalismus zur Unterwanderung souveräner Nationen benutzt

 

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Das Rivkin-Projekt: Wie der Globalismus den Multikulturalismus zur Unterwanderung souveräner Nationen benutzt – Teil 1 von 3

 

Von Kerry Bolton, übersetzt von Deep Roots.

Ex: http://flordman.wordpress.com/

Das Original The Rivkin Project: How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations, Part 1 erschien am 14. März 2011 bei Counter-Currents Publishing/North American New Right.

Von 19. bis 22. Oktober 2010 lud Charles Rivkin, US-Botschafter in Frankreich, eine aus 29 Mitgliedern bestehende Delegation des Pacific Council on International Policy (PCIP) zu einer Konferenz nach Frankreich ein, deren Hauptzweck die Diskussion arabischer und islamischer Beziehungen in Frankreich war. [1] Das Treffen war Teil einer weitreichenden subversiven Agenda zur Verwandlung des gesamten Charakters von Frankreich und insbesondere des Bewußtseins der französischen Jugend, was die Benutzung von Frankreichs moslemischer Jugend in einer typisch manipulativen globalistischen Strategie hinter der üblichen Fassade von „Menschenrechten“ und „Gleichheit“ einschließt.

Globalistische Delegation in der US-Botschaft

Der Bericht der PCIP sagt über die Konferenz:

… Die Delegation konzentrierte sich weiters auf drei Schlüsselthemen. Erstens untersuchte die Gruppe französisch-moslemische Fragen in Frankreich durch Austausch mit Dr. Bassama Kodmani, dem Direktor des Arabischen Reforminstituts, und Miss Rachida Dati, dem ersten weiblichen französischen Kabinettsmitglied von nordafrikanischer Herkunft und gegenwärtig Bürgermeisterin des 7. Arrondissements in Paris. Eine Exkursion zur Großen Moschee von Paris und ein Treffen mit dem dortigen Direktor der Theologie und dem Rektor boten zusätzliche Einsichten. Zweitens, Treffen mit Mr. Jean-Noel Porier, dem Vizepräsidenten für Auswärtige Angelegenheiten von AREVA (einer höchst innovativen französischen Energiefirma) und mit Mr. Brice Lalonde, dem Klimaverhandler und ehemaligen Umweltminister, hoben Fragen der Energie- und Nuklearpolitik und der Unterschiede zwischen der US- und der französischen Politik auf diesen Gebieten hervor. Und schließlich erforschte die Delegation die Verbindungen zwischen den Medien und der Kultur in Kalifornien (Hollywood) und Frankreich im Zuge von Treffen im Louvre, im Musee D’Orsay und bei FRANCE 24 – dem in Paris ansässigen Kanal für internationale Nachrichten und aktuelle Angelegenheiten. [2]

Das vorrangige Interesse schien Fragen von multikultureller Dimension gegolten zu haben, einschließlich nicht nur arabischer und islamischer Beziehungen in Frankreich, sondern vielleicht langfristig noch wichtiger einer Diskussion über die Wirkung von Hollywoods „Kultur“ auf die Franzosen.

Die USA haben seit langem ein Doppelspiel betrieben, indem sie als eines der primären Elemente ihres Strategems der fabrizierten permanenten Krisen nach dem Kalten Krieg „Terrorismus von islamischer Natur bekämpft“ haben, während sie den „radikalen Islam“ für ihre eigenen Zwecke nutzten, wofür es folgende wohlbekannte Beispiele gibt:

1) die Unterstützung von Bin Laden im Krieg gegen Rußland in Afghanistan,

2) die Unterstützung von Saddam Hussein im Krieg gegen den Iran,

3) die Unterstützung der Kosovarischen Befreiungsarmee [UCK] bei der Beseitigung der serbischen Souveränität über den mineralreichen Kosovo, wobei die UCK wundersamerweise von einer laut US-Außenministerium „terroristischen Organisation“ in „Freiheitskämpfer“ verwandelt wurde.

Wenn US-Globalisten als Freunde von Moslems posieren, sollten letztere beim Dinieren mit dem Großen Shaitan einen äußerst langen Löffel verwenden.

Was ist der Pacific Council on International Policy?

Der PCIP, dessen Mitglied Rivkin ist, wurde 1995 als regionales Anhängsel der allgegenwärtigen Denkfabrik Council on Foreign Relations (CFR) gegründet [3], hat sein Hauptquartier in Los Angeles, aber mit “Mitgliedern und Aktivitäten an der gesamten Westküste der Vereinigten Staaten und international.” Firmenspenden kommen unter anderem von:

Carnegie Corporation of New York
Chicago Council on Foreign Relations
City National Bank
The Ford Foundation
Bill and Melinda Gates Foundation
The William & Flora Hewlett Foundation
Rockefeller Brothers Fund
The Rockefeller Foundation
United States Institute of Peace [4]

Der PCIP ist daher noch ein weiterer großer Teilnehmer an dem globalistischen Netzwerk, das Hunderte von üblicherweise miteinander verbundenen Organisationen, Lobbies, „Zivilgesellschafts“-Gruppen, NGOs und Denkfabriken umfaßt, im Verein mit Banken und anderen Konzernen. Wie üblich gibt es eine auffällige Präsenz von Rockefeller-Interessen.

Warum Frankreich?

Frankreich ist dem US-Globalismus seit langem ein Dorn im Auge gewesen wegen seines sturen Festhaltens an französischen Interessen überall auf der Welt anstelle jener der fabrizierten „Weltgemeinschaft“, obwohl das Sarkozy-Regime eine Ausnahme ist. Jedoch ist Frankreich einer der wenigen verbliebenen Staaten in Westeuropa mit einem starken Nationalbewußtsein. Der beste Weg zur Zerstörung jeglicher solcher Gefühle – die sich nur zu oft auf die Politik übertragen – besteht darin, Vorstellungen von Volkstum und Nationalität durch Förderung von „Multikulturalismus“ zu schwächen.

War es nur Zufall, daß die Studentenrevolte von 1968, die aus kindischsten Gründen ausgelöst wurde, zu einer Zeit geschah, in der sowohl die CIA sehr aktiv bei der Finanzierung von Studentengruppen überall auf der Welt war als auch Präsident de Gaulle den USA in Sachen Außenpolitik ein Maximum an Ärger machte? De Gaulle tat wenig, um mit Amerikas Nachkriegsplänen mitzuspielen. Er entzog Frankreich dem NATO-Kommando, und während des Zweiten Weltkriegs mißtrauten ihm die USA. [5]

Von besonderem Interesse ist de Gaulles Befürwortung eines geeinten Europas, um der US-Hegemonie entgegenzuwirken. [6] 1959 sagte er in Straßburg: „Ja, es ist Europa, vom Atlantik bis zum Ural, es ist das ganze Europa, welches das Schicksal der Welt bestimmen wird.“ Die Aussage implizierte eine Kooperation zwischen einem zukünftigen Europa und der UdSSR. 1967 erklärte er ein Waffenembargo gegen Israel und freundete sich mit der arabischen Welt an. Dies ist die Art von Vermächtnis, das die Globalisten fürchten.

Mit den Kaspereien von Sarkozy und steigenden Spannungen mit der unzufriedenen moslemischen Jugend könnte im Zuge einer Gegenreaktion ein kompromißlos antiglobalistisches, „xenophobes“ Regime an die Macht kommen. Was wäre nun im heutigen Kontext ein besserer Weg, den französischen Nationalismus und jedes Potential zu dessen Wiederbelebung als antiglobalistische Kraft zu untergraben, als Frankreichs große, unassimilierte islamische Komponente zu benutzen, genauso wie die bolschewistische Revolution in bedeutendem Ausmaß von den unzufriedenen Minderheiten des russischen Reiches unternommen wurde?

Interessant ist auch Wichtigkeit, die diese Delegation dem Einfluß Hollywoods auf die französische Kultur beimaß. Dies mag auf den ersten Blick als seltsames Anliegen erscheinen. Jedoch ist Hollywood als das wirtschaftliche Symbol der globalistischen kulturellen Auswüchse ein wichtiger Faktor bei der Globalisierung, in etwas, das auf einen kulturellen Weltkrieg hinausläuft. Letztendlich ist es nicht das Ziel des Globalismus, das Überleben ethnischer Kulturen und Identitäten zu fördern, sondern vielmehr, diese in einen großen Schmelztiegel des globalen Konsumismus zu tauchen, jedes Individuum aus seiner Identität und seinem Erbe zu reißen und diese durch das globale Einkaufszentrum und das „globale Dorf“ zu ersetzen. Daher sollte man den Multikulturalismus als die Antithese dessen sehen, wofür er gehalten wird.

Weit davon entfernt, daß die globalen Konzerne den sogenannten Multikulturalismus im Sinne der Sicherstellung der Existenz einer Vielzahl von Kulturen fördern wollten, wie der Begriff andeutet, ist er also im Gegenteil ein Teil eines dialektischen Prozesses, im Zuge dessen unter der Fassade von Idealen Völker von sehr unterschiedlichem Erbe wie Bauern auf einem Schachbrett über die Welt verschoben werden, mit dem Ziel, kulturell spezifische Nationen niederzureißen. Es ist ein Beispiel für Orwell’sches „doublethink.“ [7]

Es ist bemerkenswert, daß die Anstifter der “samtenen Revolutionen”, die nun durch Nordafrika fegen und bis in den Iran reichen, großteils „säkularisierte“ junge Leute ohne starke traditionalistische Wurzeln sind. In ähnlicher Weise besteht der beste Weg zur Lösung von Frankreichs ethnischen Konflikten und zur Sicherstellung, daß Frankreich nicht wieder hervortritt, um sich US-/globalistischen Interessen entgegenzustellen, in der dialektischen Schaffung einer neuen kulturellen Synthese, bei der es weder eine französische noch eine islamische Kultur gibt, sondern eine globalistische, jugendbasierte Kultur unter dem Banner von „Menschenrechten“ und „Gleichheit“, die von Hollywood, MTV, dem Cyberspace, McDonald’s und Pepsi genährt wird.

Daß dies mehr als eine Hypothese ist, wird von der Art angedeutet, in der die säkularen Jugendrevolten, die nun in Nordafrika stattfinden, von einer Allianz aus Konzerninteressen hervorgebracht wurden, gesponsert vom US-Außenministerium und allerlei NGOs wie Freedom House. [8] Die nordafrikanischen „Revolutionäre“, die Regime stürzen, sind genau die Art von „Moslem“, die die Globalisten bevorzugen, erfüllt von der Cyber-Konsumentenmentalität.

Was also haben Rivkin und das US-Außenministerium in Frankreich vor, daß sie so interessiert wären am Platz Hollywoods und der Moslems in dem Land?

Anmerkungen:

1. “2010 France Country Dialogue,” PCIP,  http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=583

2. “2010 France Country Dialogue,” ibid.

3. “Gegründet 1995 in Partnerschaft mit dem Council on Foreign Relations,” PCIP, Governance, http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=373

4. Finanzierung durch Firmen und Stiftungen: http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=513

5. S. Berthon, Allies At War (London: Collins, 2001), S. 21.

6. A. Crawley, De Gaulle (London: The Literary Guild, 1969), S. 439.

7. “Die Macht, zwei widersprüchliche Glaubensvorstellungen gleichzeitig im Kopf zu haben und sie beide zu akzeptieren . . .” George Orwell, Nineteen Eighty-Four (London: Martin Secker and Warburg, 1949), Teil 1, Kaph. 3, S. 32.

8. K. R. Bolton, “Twitters of the World Unite! The Digital New-New Left as Controlled Opposition,” Part 1, Part 2, Part 3, and Part 4. Tony Cartalucci, “Google’s Revolution Factory – Alliance of Youth Movements: Color Revolution 2.0,” Global Research, February 23, 2011, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=23283

Das Rivkin-Projekt: Wie der Globalismus den Multikulturalismus zur Unterwanderung souveräner Nationen benutzt – Teil 2 von 3

Das Rivkin-Projekt zur Unterwanderung der französischen Jugend

Als der US-Botschafter Charles Rivkin im Jahr 2010 eine Delegation von anderen Mitgliedern des Pacific Council on International Policy nach Frankreich einlud, hatte er ein Programm zur Amerikanisierung Frankreichs umrissen, das hauptsächlich die Benutzung der moslemischen Minderheiten und die Indoktrinierung der französischen Jugend mit globalistischen Idealen im Sinne der Konzerne umfaßte. Das dabei beschworene Schlagwort war das historische Engagement Frankreichs und Amerikas für die „Gleichheit.“

WikiLeaks veröffentlichte das „vertrauliche Programm“. Es trägt den Titel „Minority Engagement Strategy.“ [1] Hier umreißt Rivkin ein Programm, das eine schamlose Einmischung in die inneren Angelegenheiten einer souveränen Nation ist und in einem tieferen Sinne die Änderung der Einstellungen von Generationen moslemischer und französischer Jugendlicher anstrebt, sodaß sie zu einer neuen globalistischen Synthese verschmelzen, oder zu dem, was man eine neue Menschheit nennen könnte: Homo oeconomicus, oder was der Finanzanalyst G. Pascal Zachary „das globale Ich“ nennt [2], um zu verwirklichen, was Rivkin als das „nationale Interesse“ der USA beschreibt.

Rivkin beginnt, indem er sagt, daß seine Botschaft eine „Minority Engagement Strategy“ geschaffen hat, die sich primär an die Moslems in Frankreich richtet. Rivkin erklärt als Teil des Programms: „Wir werden auch die Bemühungen verschiedener Abteilungen der Botschaft integrieren, auf einflußreiche Führer unter unserem primären Publikum abzielen und sowohl materielle als auch immaterielle Indikatoren des Erfolgs unserer Strategie bewerten.“ [3]

Rivkin ist zuversichtlich, daß Frankreichs Geschichte des ideologischen Liberalismus „uns gut dienlich sein wird, wenn wir die hier umrissene Strategie umsetzen… bei der wir Druck auf Frankreich ausüben…“ Beachten Sie die Redewendung „Druck auf Frankreich ausüben.“ Amerikas globale Agenda wird von Rivkin mit seinem Plan der Umwandlung Frankreichs in ein „blühendes, integratives französisches Staatswesen, das uns bei der Förderung unserer Interessen an der Ausweitung von Demokratie und zunehmender weltweiter Stabilität helfen wird“ in Verbindung gebracht. Das Programm wird sich auf die „Eliten“ der französischen und der moslemischen Gemeinschaften fokussieren, aber auch eine massive Propagandakampagne umfassen, die sich an die „allgemeine Bevölkerung“ mit Schwerpunkt auf der Jugend richtet.

Auf hoher Ebene werden US-Offizielle französische Offizielle in die Defensive drängen. Zu dem Programm gehört auch die Neudefinierung der französischen Geschichte in den Lehrplänen der Schulen, um der Rolle der nicht-französischen Minderheiten in der französischen Geschichte Aufmerksamkeit zu schenken. Es bedeutet, daß die Pepsi/MTV-Generation von Amerikanern neue Definitionen der französischen Kultur formulieren und neue Seiten der französischen Geschichte schreiben werden, die mit globalistischen Agendas übereinstimmen sollen. Zu diesem Zweck „…werden wir unsere Arbeit mit französischen Museen und Lehrern fortsetzen und intensivieren, um den in französischen Schulen unterrichteten Lehrstoff in Geschichte zu reformieren.“

„Taktik Nummer drei“ trägt den Titel „Aggressive Öffentlichkeitsarbeit unter der Jugend starten.“ Wie in anderen Staaten, die vom US-Außenministerium und dessen Verbündeten im Soros-Netzwerk, Freedom House, Movement.org, National Endowment for Democracy, Solidarity Center [4] und so weiter ins Visier genommen wurden, stehen unzufriedene junge Leute im Fokus der Veränderungen. Führend in diesen Bemühungen, zielt die „Inter-Agency Outreach Initiative“ des Botschafters darauf ab, „eine positive Dynamik in der französischen Jugend zu erzeugen, die zu einer größeren Unterstützung für US-Ziele und Werte führt.“ Können die Absichten noch klarer ausgedrückt werden? Es ist kulturelle und politische Amerikanisierung.

Hier können wir am leichtesten an der Heuchelei vorbei deutlich sehen, was hinter der Strategie steckt: eine Generation zu formen, „die zu größerer Unterstützung für US-Ziele und Werte führt.“ Diese „US-Ziele und Werte“ wird man den Franzosen als französische Werte verkaufen, auf der Grundlage der bourgeoisen Ideale von 1789, mit denen die französische Ideologie sowohl der Linken wie der Rechten weiterhin belastet ist. Man wird sie zu glauben lehren, daß sie französische Traditionen aufrecht erhalten, statt als Agenten von Veränderungen gemäß „amerikanischen Werten“ zu handeln: den Werten des globalen Dorfes und des globalen Einkaufszentrums. Ein weitreichendes Programm, das eine Vielzahl von Indoktrinierungsmethoden umfaßt, wird umrissen:

Zur Erreichung dieser Ziele werden wir die bereits vorhandenen expansiven Programme für öffentliche Diplomatie ausbauen und kreative zusätzliche Mittel zur Beeinflussung der Jugend Frankreichs entwickeln, neue Medien, Firmenpartnerschaften, landesweite Wettbewerbe, zielgerichtete Veranstaltungen für Öffentlichkeitsarbeit und speziell eingeladene US-Gäste einsetzen. [5]

Das Programm, das sich an die Jugend in Frankreich richtet, ist ähnlich dem, das sich an die Jugend richtete, welche die Vorhut der „samtenen Revolutionen“ von Osteuropa bis Nordafrika bildete. Potentielle Führer werden vom US-Außenministerium in Frankreich aufgenommen und dazu herangezüchtet werden, eine Rolle im zukünftigen Frankreich nach amerikanischem Design zu spielen:

Wir werden auch neue Hilfsmittel entwickeln, um zukünftige französische Führer zu identifizieren, von ihnen zu lernen und sie zu beeinflussen.

Während wir die Ausbildung und die Austauschgelegenheiten für Frankreichs Jugend erweitern, werden wir weiterhin absolut sicherstellen, daß der Austausch, den wir unterstützen, integrationsorientiert ist.

Wir werden auf existierenden Jugendnetzwerken in Frankreich aufbauen und neue im Cyberspace schaffen, die Frankreichs zukünftige Führer in einem Forum miteinander verbinden, deren Werte wir zu formen helfen – Werte der Integration, des gegenseitigen Respekts und offenen Dialogs. [6]

Hier befürwortet Rivkin etwas, das über die Beeinflussung von Moslems in Frankreich hinausgeht. Er sagt, daß ein bedeutender Teil des Programms sich auf die Kultivierung der französischen Jugend, der potentiellen Führer, nach amerikanischen Idealen unter der Fassade französischer Ideale richten wird. Das US-Außenministerium und seine Verbündeten unter den Konzernen und NGOs beabsichtigen, „ihre Werte zu formen.“ Das globalistische Programm für Frankreich wird deutlich genug als Umerziehung der französischen Jugend bezeichnet. Man möchte meinen, daß dies die wichtigste Rolle der französischen Regierung, der katholischen Kirche und der Familie ist, insbesondere der beiden letzteren. Amerikanische Bürokraten und ihre aus verschiedenen Berufen rekrutierten dümmlichen Kumpane sollen neue „französischen Werte“ formulieren.

Wie in den Staaten, die für „samtene Revolutionen“ ausersehen sind, besteht ein Teil der Strategie in der Abgrenzung des politischen Handlungsrahmens. Wie Hillary Clinton neulich hinsichtlich der Art von Staat gesagt hat, die vom US-Establishment nach Gaddafi erwartet wird, sollte das neue Libyen eine umfassende Demokratie sein, offen für alle Meinungen, solange diese Meinungen eine Verpflichtung zur „Gleichheit“ und „Demokratie“ umfassen, in anderen Worten, es muß eine neue Verteilung der Freiheit in Libyen geben, solange diese Freiheit nicht über Amerikas Definition derselben hinausgeht. Und falls jemand die Grenzen der akzeptablen Demokratie übertritt, stehen Amerikas Bomber in Bereitschaft. Im Kontext mit Frankreich jedoch ist klar, daß die Grenzziehung der französischen Politik gemäß den globalistischen Diktaten keine Elemente sogenannter „Xenophobie“ (sic) einschließen darf, wozu im heutigen Kontext eine Rückkehr zur großen Politik der Ära de Gaulles gehören würde. Daher besagt „Taktik 5“:

Fünftens werden wir unser Projekt fortsetzen, die besten Praktiken mit jungen Führern in allen Bereichen zu teilen, einschließlich junger politischer Führer aller moderaten Parteien, sodaß sie die Hilfsmittel und die Beratung haben, um vorwärts zu kommen. Wir werden Schulungs- und Austauschprogramme schaffen oder unterstützen, die Schulen, Gruppen der Zivilgesellschaft, Bloggern, politischen Beratern und Lokalpolitikern den nachhaltigen Wert der breiten Integration beibringen. [7]

Rivkin umreißt ein Programm zur Ausbildung von Frankreichs zukünftigen politischen und zivilen Führern. Während die Programme der von der US-Regierung unterstützten NGOs wie National Endowment for Democracy – ursprünglich bestimmt zur Entwicklung ganzer Programme und Strategien für politische Parteien in „Entwicklungsdemokratien“ wie den Staaten des ehemaligen Sowjetblocks – mit einem fehlenden Erbe liberal-demokratischer Parteipolitik begründet werden können, kann dieselbe Begründung kaum verwendet werden, um Amerikas Einmischung in Frankreichs Parteipolitik zu rechtfertigen.

Rivkin sagt, daß zu diesem Zweck 1000 amerikanische Englischlehrer, die an französischen Schulen arbeiten, die notwendigen Propagandamaterialien erhalten werden, um ihren französischen Schülern die erwünschten Ideale einzuimpfen: „Wir werden auch dem Netzwerk von über 1000 amerikanischen Universitätsstudenten, die jedes Jahr an französischen Schulen Englisch unterrichten, die Mittel liefern, Toleranz zu lehren.“

Das breit gefächerte Programm wird von der „Minority Working Group“ im „Tandem“ mit der „Youth Outreach Initiative“ koordiniert werden. Eines der Probleme, die von der Gruppe überwacht werden, wird die „Verringerung der öffentlichen Unterstützung für fremdenfeindliche politische Parteien und Plattformen“ sein. Das soll sicherstellen, daß das Programm wie beabsichtigt den Erfolg jeder „extremen“ oder „fremdenfeindlichen“ Partei blockiert, die die Globalisierung herausfordern könnte.

Rivkin verdeutlicht die subversive Natur des Programms, wenn er sagt: „Während wir niemals das Verdienst für diese positiven Entwicklungen beanspruchen könnten, so werden wir doch unsere Anstrengungen auf die Ausführung von Aktivitäten wie oben beschrieben konzentrieren, die die Bewegung in die richtige Richtung anstoßen, drängen und anregen.“

Was wäre die Reaktion, wenn die französische Regierung über ihre Botschaft in Washington ein Programm zur radikalen Umwandlung der USA in Übereinstimmung mit „französischen nationalen Interessen“ unternehmen und mit Schwerpunkt auf der Jugend mittels einer „aggressiven Öffentlichkeitsarbeit“ „französische Ideale“ unter dem Deckmantel „amerikanischer Ideale über Menschenrechte“ einimpfen würde? Was wäre die Reaktion der US-Regierung, wenn sie herausfinden würde, daß die französische Regierung die Einstellungen der Afroamerikaner, Indianer und Latinos zu beeinflussen versuchte? Was wäre die offizielle US-Reaktion, wenn man herausfinden würde, daß französische Sprachlehrer in amerikanischen Schulen und Colleges versuchen, amerikanischen Schülern Ideale im Dienste französischer Interessen einzuimpfen?

Die hypothetische Reaktion kann man von der US-Reaktion auf die „Sowjetverschwörung“ ableiten, als Komitees des Senates und Kongresses eingerichtet wurden, um gegen jeden zu ermitteln, der auch nur vage mit der USA in Verbindung stand. Was ist also anders? Die USA betreiben eine subversive Strategie im Interesse ihrer globalistischen Konzernelite anstatt im Interesse der UdSSR oder des Kommunismus. Es ist nicht so, als ob die USA viel kulturelles Erbe hätte, das sie irgendeiner europäischen Nation, ganz zu schweigen von Frankreich, als Inbegriff des guten Geschmacks und der künstlerischen Verfeinerung präsentieren könnte, nach dem man eine nationale Identität konstruieren könnte. In dieser Sache ist es ein Fall von Dekonstruktion.

Anmerkungen:

1. C. Rivkin, “Minority Engagement Report,” US Embassy, Paris, http://www.wikileaks.fi/cable/2010/01/10PARIS58.html

2. G. Pascal Zachary, The Global Me: Why Nations will succeed or Fail in the Next Generation (New South Wales, Australia: Allen and Unwin, 2000).

3. Rivkin.

4. K. R. Bolton, “The Globalist Web of Subversion,” Foreign Policy Journal, February 7, 2011, http://www.foreignpolicyjournal.com/2011/02/07/the-globalist-web-of-subversion/

5. Rivkin.

6. Rivkin.

7. Rivkin.

Das Rivkin-Projekt: Wie der Globalismus den Multikulturalismus zur Unterwanderung souveräner Nationen benutzt – Teil 3 von 3

Die Rolle des Multikulturalismus in der globalistischen Agenda

Viele schändliche Ziele sind unter dem Banner des Multikulturalismus und Schlagworten wie „Gleichheit“ und „Menschenrechte“ erzwungen worden. So wie „Demokratie“ in der ganzen jüngeren Geschichte zur Rechtfertigung der Bombardierung von Staaten benutzt worden ist, dienen diese Schlagworte oft als Rhetorik zur Vortäuschung guter Absichten, während sie die Ziele derjenigen verbergen, die von wenig, wenn überhaupt von irgendetwas anderem als Macht und Habgier motiviert sind.

Man könnte an die Art denken, wie das Thema der Uitlanders agitiert wurde, um den Anglo-Burenkrieg zum Zwecke der Beschaffung von Südafrikas Mineralreichtum zugunsten von Cecil Rhodes, Alfred Beit et al zu rechtfertigen.

Ein ähnliches Thema wurde in unserer eigenen Zeit unter dem Namen der „Bekämpfung der Apartheid“ wiederbelebt, und während die Welt über die Machtübernahme durch den ANC jubelte, bestand die Wirklichkeit darin, daß die Afrikaner kein Jota materiell davon profitierten, sondern die parastaatlichen oder staatlichen Unternehmen privatisiert wurden, sodaß sie an den globalen Kapitalismus verkauft werden konnten. Als der Patriarch des südafrikanischen Kapitalismus, Harry Oppenheimer, dessen Familie ein traditioneller Feind der Afrikaaner [= Buren; d. Ü.] war, im Jahr 2000 starb, lobte Nelson Mandela ihn so: „Sein Beitrag zur Errichtung einer Partnerschaft zwischen Großunternehmen und der neuen demokratischen Regierung in dieser ersten Periode demokratischer Herrschaft kann nicht zu sehr geschätzt werden.“ [1]

Die „Demokratie”, die Oppenheimer und andere Plutokraten im Tandem mit dem ANC in Südafrika schufen, ist die Freiheit des globalen Kapitalismus zur Ausbeutung des Landes. Mandela sagte 1996 über das Ergebnis dieses „langen Marsches zur Freiheit“:  “Die Privatisierung ist die fundamentale Politik des ANC und wird das auch bleiben.“ [2] Als Kommentar zur Privatisierung der gemeindeeigenen Wasserversorgung von Johannesburg, die jetzt dem französischen Konzern Suez Lyonnaise Eaux untersteht, gab der ANC Erklärungen heraus, die erklärten: „Eskom ist eine der vielen in Regierungsbesitz befindlichen ‚Parastaatlichen’, die während der Apartheid geschaffen wurden und deren Privatisierung die demokratisch gewählte Regierung in Angriff genommen hat, um Geld aufzutreiben.“ [3] Es ist in Südafrika dasselbe Ergebnis, wie es durch die “Befreiung” der kosovarischen Mineralvorkommen im Namen der “Demokratie” und im Namen der Rechte von Moslems unter serbischer Herrschaft erreicht wurde, während andere, unter ihrer eigenen Herrschaft befindliche Moslems von den USA und ihren Verbündeten in die Unterwerfung gebombt wurden.

Die Ziele des globalen Kapitalismus

Die Natur des globalistischen Kapitalismus ist besonders stichhaltig von Noam Chomsky erläutert worden:

Sehen Sie, der Kapitalismus ist nicht grundsätzlich rassistisch – er kann den Rassismus für seine Zwecke ausnutzen, aber der Rassismus ist ihm nicht eingebaut. Der Kapitalismus will im Grunde, daß die Menschen austauschbare Zahnräder sind, und Unterschiede zwischen ihnen, wie zum Beispiel auf Basis der Rasse, haben üblicherweise keine Funktion für ihn. Ich meine, sie mögen eine Zeitlang eine Funktion haben, zum Beispiel wenn man eine super-ausgebeutete Arbeiterschaft oder dergleichen will, aber diese Situationen sind irgendwie anomal. Langfristig kann man erwarten, daß der Kapitalismus antirassistisch ist – einfach weil er anti-menschlich ist. Und Rasse ist eigentlich eine menschliche Eigenschaft – es gibt keinen Grund, warum sie eine negative Eigenschaft sein sollte, aber sie ist eine menschliche Eigenschaft. Daher beeinträchtigen auf Rasse beruhende Identifikationen das grundsätzliche Ideal, daß die Menschen als Konsumenten und Produzenten austauschbar sein sollten, austauschbare Zahnräder, die all den Müll kaufen, der produziert wird – das ist ihre letztendliche Funktion, und alle anderen Eigenschaften, die sie haben könnten, sind irgendwie irrelevant und gewöhnlich ein Ärgernis. [4]

Die Aussage von Chomsky drückt die Situation in ihrer Gänze stichhaltig aus.

Frankreich als Soziallabor für die Globalisierung

Die Rivkin-Offensive ist das letzte in einer langen Reihe von Programmen zur Untergrabung der französischen Identität. Frankreich ist ein Paradox, das die kosmopolitischen Werte der bourgeoisen Revolution von 1789 mit sturem Traditionalismus und Nationalismus kombiniert, den die Globalisten „Xenophobie“ nennen. Er manifestiert sich selbst im Kleinen wie bei der gesetzlichen Verpflichtung für französische Beamte und Politiker, mit ausländischen Medien nur französisch zu sprechen, ungeachtet ihrer Kenntnisse irgendeiner anderen Sprache, oder im verbreiteten Widerstand gegen McDonald’s und Disney World.

Wie ein Großteil der restlichen Welt führt Frankreich jedoch auf der Verliererseite einen Kulturkampf gegen die Globalisierung. Jeff Steiners Kolumne „American in France“ bezieht sich auf die Art, wie die Franzosen einst Widerstand gegen die Eröffnung amerikanischer Fast-Food-Franchises als „Teil einer amerikanischen Kulturinvasion“ leisteten. Steiner schreibt:

… Dies schein Vergangenheit zu sein, da McDonald’s so sehr ein Teil der französischen Kultur geworden ist, daß es nicht mehr als amerikanischer Import gesehen wird, sondern als gänzlich französisch. Kurz, McDonald’s ist den Franzosen ans Herz gewachsen wie in so vielen anderen Ländern.

Ich bin in einigen McDonalds in Frankreich gewesen, und außer einem in Straßburg, das von außen wie im traditionellen elsässischen Stil erbaut aussieht, sehen alle McDonalds in Frankreich, die ich gesehen habe, nicht anders aus als ihre amerikanischen Gegenstücke.

Ja, es gibt welche, die McDo immer noch als Symbol der Amerikanisierung Frankreichs verfluchen (sie sind jetzt eine sehr kleine Gruppe und werden großteils ignoriert) und die es auch als ein Zeichen dafür sehen, daß Frankreich seine kulinarische Einzigartigkeit verliert. Das Menü in einem französischen McDonald’s ist fast eine exakte Kopie dessen, was man in jedem McDonald’s in den Vereinigten Staaten finden würde. Es ist mir als etwas seltsam aufgefallen, daß ich wie in den Vereinigten Staaten bestellen konnte, das heißt auf Englisch, mit gelegentlich eingestreuten französischen Vorwörtern.

Ehrlich gesagt, die Franzosen, die bei McDonald’s essen, sind dort genauso zu Hause, wie es irgendein Amerikaner sein könnte. [5]

Dieses scheinbar triviale Beispiel ist tatsächlich von immenser Wichtigkeit, indem es zeigt, wie eine Kultur, die so stark ist wie die Frankreichs – das bis vor kurzem eine immens stolze Nation war – unterliegen kann, besonders unter dem Eindruck des Marketings gegenüber jungen Leuten. Es ist eine Fallstudie par excellence für die Standardisierung, die die amerikanische Konzernkultur nach sich zieht. Es ist das, was die globalistische Elite im Weltmaßstab wünscht, bis hin zu dem, was man ißt.

Es ist bemerkenswert, daß die Vorhut des Widerstands gegen McDonald’s von den Bauern kam, einem traditionalistischen Segment von Europas Bevölkerung, das zunehmend anomal und unter dem globalistische Regime zur ausgestorbenen Spezies wird, während die Landwirtschaft den Agro-Konzernen weicht.

Angesichts Frankreichs Status in Europa und seiner historischen Tendenz, seine Souveränität  angesichts von US-Interessen aufrecht zu erhalten – sogar noch vor recht kurzer Zeit mit seiner Opposition gegen den Krieg im Irak – bleibt Frankreich einer der wenigen Stolpersteine des Globalismus in Europa. Eine zusätzliche Sorge ist die, daß die Franzosen ihre sture „Xenophobie“ in die Wahllokale mitnehmen und eine strikt antiglobalistische Partei wählen werden, wie es sich im Auf und Ab der Wahlerfolge der Front National widerspiegelt, die sowohl die Globalisierung als auch die Privatisierung ablehnt.

Dies ist ein Hauptgrund für Rivkins weitreichendes subversives und interventionistisches Programm zur Assimilierung der Moslems in die französische Gesellschaft, welches das französische Bewußtsein in Richtung von deutlich mehr Kosmopolitentum verwandeln würde. Die Absicht wird in Rivkins Botschaftsdokumenten deutlich genug, in denen es heißt, daß die Botschaft die Auswirkungen des „Outreach“-Programmes auf die „Abnahme der öffentlichen Unterstützung für fremdenfeindliche politische Parteien und Plattformen“ überwachen wird.

Im Widerspruch zur „Xenophobie“ Frankreichs zeigt die Studie „Global Research“ [6] von R. J. Barnett und R. E. Müller über die globalen Konzerne, die auf Interviews mit Konzernmanagern beruht, daß die französische Wirtschaftselite seit langem die Grundlagen der französischen Tradition zu untergraben bestrebt war. Jacques Maisonrouge, Präsident der IBM World Trade Corporation, „weist gern darauf hin, daß ‚Nieder mit den Grenzen’, ein revolutionäres Studentenschlagwort der Pariser Universitätserhebung von 1968 – an der einige seiner Kinder beteiligt waren – auch ein willkommenes Schlagwort von IBM ist.“ [7] Maisonrouge sagte, daß die „Welt-Manager” (wie Barnett und Müller die Konzern-Führungskräfte nennen) glauben, daß sie die Welt „kleiner und homogener“ machen. [8] Maisonrouge beschrieb in zustimmender Weise die globalen Konzernmanager als „die de-tribalisierten internationalen Karrieremänner.“ [9] Es ist diese „Detribalisierung“, welche die Basis einer „Weltkonsumkultur“ ist, die für die effizientere Schaffung einer Weltwirtschaft gefordert wird.

Paris ist bereits ein kosmopolitisches Zentrum und daher ideal als Prototyp für die „globale Stadt“ der Zukunft. In den 1970ern bereiteten Howard Perlmutter und Hasan Ozakhan vom Wharton School of Finance Worldwide Institutions Program einen Plan für eine „globale Stadt.“ Für diesen Zweck wurde Paris ausgewählt. Professor Perlmutter war ein Berater globaler Konzerne. Sein Plan wurde von der Planungsbehörde der französischen Regierung in Auftrag gegeben. Perlmutter sagte voraus, daß die Städte während der 1980er zu „globalen Städten“ werden würden.

Für Paris erforderte dies, „weniger französisch zu werden“ und eine „Entnationalisierung“ durchzumachen. Dies, sagte er, erfordert eine „psycho-kulturelle Veränderung des Bildes hinsichtlich des traditionellen Eindrucks der ‚Xenophobie’, die die Franzosen auszustrahlen scheinen.“ Die Parallelen zum gegenwärtigen Rivkin-Programm sind offensichtlich. Perlmutter schlug vor, daß der beste Weg zur Beseitigung von Frankreichs Nationalismus die Einführung des Multikulturalismus wäre. Er befürwortete „die Globalisierung kultureller Veranstaltungen“ wie internationaler Rock-Festivals als Gegenmittel gegen die „übermäßig nationale und manchmal nationalistische Kultur.“ [10]

Die Untergrabung von Frankreichs „übermäßig nationaler und manchmal nationalistischer Kultur“ ist der Grund, warum Rivkin stärkere Verbindungen zwischen Hollywood und der französischen Kulturindustrie zu pflegen suchte. [11] Rivkin kennt den Wert der Unterhaltung bei der Umwandlung der Einstellungen, besonders unter den Jungen. Nachdem er bei Salomon Brothers als Finanzanalyst gearbeitet hatte, trat Rivkin 1988 als Direktor für strategische Planung in die Jim Henson Company ein. Zwei Jahre später wurde er zum Vizepräsidenten der Firma ernannt.

Die Jim Henson Company produziert die „Sesamstraße“, deren putzige kleine Muppets den Knirpsen eine wohlkalkulierte globalistische Agenda aufdrängen. Lawrence Balter, Professor der angewandten Psychologie an der New York University, schrieb, daß die „Sesamstraße“ die Kinder mit einem breiten Spektrum von Ideen, Informationen und Erfahrungen über vielfältige Themen wie Tod, kulturellen Stolz, Rassenbeziehungen, Menschen mit Behinderungen, Ehe, Schwangerschaft und sogar Weltraumforschung bekannt machte.“ Die Serie sollte die erste sein, die Bildungsforscher mittels Gründung einer Forschungsabteilung beschäftigte. [12] „Sesamstraße“ hat Finanzierung von der Ford Foundation, der Carnegie Corporation und dem US-Erziehungsministerium erhalten. Von beiläufigem Interesse ist, daß die Carnegie Corporation und die Ford Foundation auch Förderer des Pacific Council on International Policy sind.

Schaffung des Weltkonsumenten

Wie Chomsky hingewiesen hat, sieht der globale Kapitalismus die Menschheit als austauschbare Zahnräder im Produktions- und Konsumkreislauf. Den Konzernen zufolge ist der Gipfel der menschlichen Evolution die Verwandlung in „detribalisierte internationale Karrieremenschen.“ Laut dem Finanzanalysten G. Pascal Zachary stellen diese wurzellosen Kosmopoliten eine „informelle globale Aristokratie“ dar, die von den Konzernen überall auf der Welt rekrutiert wird und total von ihren Firmen und „wenig von der breiteren Öffentlichkeit“ abhängig ist, eine neue Klasse, unbehindert von nationalen, kulturellen oder ethnischen Bindungen. [13]

Barnett und Müller zitierten John J. Powers von Pfizer mit der Aussage, daß die globalen Konzerne „Agenten des Wandels sind; sozial, ökonomisch und kulturell.“ [14] Sie sagten, daß die globalen Führungskräfte „irrationalen Nationalismus“ als Behinderung des „freien Flusses von Finanzkapital, Technologie und Gütern in globalem Maßstab“ sehen. Ein entscheidender Aspekt des Nationalismus sind „Unterschiede in psychologischen und kulturellen Einstellungen, die die Aufgabe der Homogenisierung der Erde zu einer integrierten Einheit komplizieren… Kultureller Nationalismus ist auch ein Problem, weil er das Konzept des globalen Einkaufszentrums bedroht.“ [15]

Dieser „kulturelle Nationalismus“ wird von Rivkin und allen anderen Parteigängern des Globalismus als „Xenophobie“ gesehen, außer wenn diese „Xenophobie“ für ein militärisches Abenteuer eingespannt werden kann, falls Bestechungen, Embargos und Drohungen einen zugeknöpften Staat nicht auf Linie bringen, wie in den Fällen von Serbien, Irak und vielleicht bald Libyen. Dann werden die amerikanische globalistische Elite und ihre Verbündeten zu „Patrioten.“

Barnett und Müller zitieren A. W. Clausen, als dieser die Bank of Amerika leitete, mit der Aussage, daß nationale, kulturelle und rassische Unterschiede „Vermarktungsprobleme“ erzeugen, und mit der Klage, daß es „so etwas wie einen einheitlichen globalen Markt nicht gibt.“ [16] Harry Heltzer, Generaldirektor von 3M, sagte, daß globale Konzerne eine „mächtige Stimme für den Weltfrieden sind, weil ihre Loyalität keiner Nation, Sprache, Rasse oder Religion gehört, sondern den besseren Hoffnungen der Menschheit, daß die Völker der Welt im gemeinsamen wirtschaftlichen Streben vereinigt sein mögen.“ [17]

Diese „besseren Hoffnungen der Menschheit“, die man anderswo als Habgier, Geiz und Mammonverehrung kennt, haben die Erde geplündert, globales wirtschaftliches Ungleichgewicht verursacht und funktionieren mittels Wucher, der in besseren Zeiten als Sünde betrachtet wurde. Diese „besseren Hoffnungen“ gemäß der Wertung der Konzerne haben mehr Kriege verursacht als jeder „xenophobe“ Diktator, üblicherweise im Namen von „Weltfrieden“ und „Demokratie“.

Die Rivkin-Doktrin für Frankreich – die laut dem durchgesickerten Dokument in subtiler Weise umgesetzt werden muß – ist ein weitreichendes subversives Programm zur Umwandlung besonders der Jungen in globale Klone bar jeder kulturellen Identität, während es in der Art des Orwell’schen „doublethink“ unter dem Namen des „Multikulturalismus“ voranschreitet.

Anmerkungen:

1. “Mandela honours ‘monumental’ Oppenheimer”, The Star, South Africa, August 21, 2000, http://www.iol.co.za/index.php?set_id=1&click_id=13&art_id=ct20000821001004683O150279 (27. September 2009).

2. Lynda Loxton, “Mandela: We are going to privatise,” The Saturday Star, 25. Mai 1996, S.1.

3. Tägliche Nachrichtenaussendung des ANC, 27. Juni 2001. Siehe auch “Eskom,” ANC Daily News Briefing, 20. Juni 2001, 70.84.171.10/~etools/newsbrief/2001/news0621.txt

4. Noam Chomsky, Understanding Power: The Indispensable Chomsky (New York: The New York Press, 2002), S. 88–89.

5. J. Steiner, “American in France: Culture: McDonalds in France, http://www.americansinfrance.net/culture/mcdonalds_in_france.cfm

6. R. J. Barnett und R. E. Müller, Global Reach: The Power of the Multinational Corporations (New York: Simon and Schuster, 1974).

7. Global Reach, S. 19. Zwecks Aktualisierung wegen Maisonrouge siehe: IBM, http://www-03.ibm.com/ibm/history/exhibits/builders/builders_maisonrouge.html

8. Global Reach, S. 62.

9. Global Reach, ebd.

10. Global Reach, S. 113–14.

11. “2010 France Country Dialogue,” PCIP, op. cit.

12. L. Balter, Parenthood in America: An Encyclopaedia, Vol. 1 (ABC-CLIO, 2000), S. 556.

13. G. Pascal Zachary, The Global Me (New South Wales: Allen & Unwin, 2000).

14. Global Reach, S. 31.

15. Global Reach, S. 58.

16. Global Reach, ebd.

17. Global Reach, S. 106.

Ramdam aux Barbaresques

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Ramdam aux Barbaresques

par Robert MASSIS

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/


Ce qui est effarant dans notre monde orwelien c’est l’uniformité dont on sait, depuis Talleyrand, qu’il engendre l’ennui. Les médias télévisuels et radiophoniques rivalisent de reportages sensationnalistes et nous montrent, qui une Tunisie en train d’accéder à une hypothétique démocratie à l’européenne, qui une Egypte peinant à extirper son épine moubaresque. Quand à la presse écrite elle nous gratifie à longueur de pages de doctes analyses expertologiques aussi mal inspirées les unes que les autres, toutes reposant implicitement sur un postulat semblable : la démocratie (forcément) émancipatrice comme condition du bonheur universel. Le discours est inlassablement le même, sans recul, ni profondeur de champ. Une actualité chassant l’autre, la Tunisie est un temps relégué aux oubliettes des pyramides égyptiennes alors que la Côte d’Ivoire est traitée de façon simpliste comme la « Belgique » de l’Afrique noire.

Toute cette polyphonie bien orchestrée par ces belles et bonnes consciences progressistes souffle pourtant un vent d’irresponsabilité et d’inconséquences sur les braises d’agitations populaires enfiévrées peu ou prou révolutionnaires aux résultats inconnus. L’alibi facile de la conquête des droits civiques et politiques est un écran de fumée abondamment entretenu par un Occident à bout de souffle qui n’a rien d’autre à offrir que ses poussiéreuses chimères droit-de-l’hommardes et démocrasseuses. Mais la Tunisie, l’Egypte, demain, peut-être, l’Algérie ou la Libye, voire, après-demain, le Yémen, la Syrie ou la Jordanie, ne sont nullement comparables à cet Occident poussif qu’ils prennent compulsivement pour modèle, oasis idéalisé de l’hédonisme consumériste, comme si l’horizon des futurs était irrémédiablement bouché.
Mythe, illusion et décors en carton-pâte avant l’implacable et inéluctable retour à la réalité. Celle d’un islamisme qui ne cherche qu’à rejaillir, trop longtemps étouffé par une parenthèse laïque que la Turquie a expérimenté avant de commencer à s’en affranchir. En 2007, les élections législatives en Egypte ont vu grossir l’influence de la confrérie des Frères musulmans. Ce 31 janvier, la synagogue d’El Hamma, près de Gabès, dans le sud tunisien a été, par le fait de criminels, la proie des flammes et l’on se souvient qu’un acte terroriste avait frappé, il y a quelques années, une synagogue sur l’île de Djerba.


Ces mêmes islamistes qui, avec le concours masochiste de nos gouvernants, envoient, depuis trente ans leurs fantassins coloniser une Europe dont la trop longue dormition (terme que nous empruntons à l’historien Dominique Venner) depuis la fin de la guerre, entraîne aujourd’hui sa perdition identitaire et démographique. C’est précisément ce que refusent de voir nos observateurs de cette médiacratie arrogante et donneuse de leçons. Bercées par les sirènes du multiculturalisme, elles bernent les peuples. Les oligarchies qui se pressent déjà localement d’aller mendier les suffrages, avant la grande étreinte des présidentielles de 2012, tournent le dos à ces Raïs qu’ils soutenaient sans scrupules hier afin de permettre les transhumances low cost du tourisme de masse. Ces mêmes oligarques tournent encore le dos à cette funeste réalité qui se présente quotidiennement à nos regards, celle d’une islamisation rampante dont l’immigration n’est que le marchepied.


Abandonner les peuples du Maghreb à leur propre sort, au prétexte d’une improbable quête démocratique, est un impensé géopolitique explosif pour l’Europe et pour la France en particulier. Sans aller soutenir jusqu’à la mauvaise foi des régimes kleptocrates et corrompus, force est de constater que le despotisme éclairé est parfois préférable à de fausses démocraties comme les nôtres. En soutenant, par réflexe crypto-marxiste les libérations des peuples du joug de la tyrannie, l’Europe ne voit pas ou feint de ne pas voir les linéaments d’un islamisme qui se répand comme une traînée de poudre dans tous le Moyen et Proche Orient. Israël ne s’y trompe pas qui appelle à négocier avec le Hamas en vue d’endiguer la remise en cause de sa spécificité dans cette région du monde. Affaire à suivre…

Robert Massis

 

samedi, 09 avril 2011

Sous haute surveillance politique

Préface de Pierre le Vigan au livre “ Sous haute surveillance politique” de Philippe Randa
(Chroniques barbares VIII – Éditions Dualpha)

Le_ViganRanda_2.gifComme adjectif, le mot « chronique » désigne quelque chose qui dure longtemps. Comme une maladie, ou comme l’avenir dont chacun sait, au moins depuis Althusser, qu’il dure longtemps puisque sous ce titre il publia un livre. Précisément, les chroniques de Philippe Randa, dont il nous livre le hui­tième volume, concernent une maladie durable. C’est celle de notre pays. Comment nommer ce mal ?
Comme toutes les maladies graves, elle a plusieurs aspects. Elle atteint le corps et l’âme. Elle vient à la fois du corps et de l’âme.
C’est la maladie d’un pays qui vit à crédit, mais c’est aussi et surtout la maladie d’un pays qui ne se respecte plus, c’est la maladie d’un pays qui accepte une immigration de peuplement et de remplacement, mais aussi qui dévalorise le travail manuel, c’est la maladie d’un pays qui donne des leçons de morale au monde entier et ne montre pourtant que l’exemple de l’assujétissement volontaire aux États-Unis, d’un pays ubuesque qui prétend réduire la criminalité tout en licenciant des compagnies de CRS, dont les gouvernants ont affiché la proposition de « travailler plus pour gagner plus », alors qu’ils n’ont en réalité su que faire venir plus d’étrangers pour faire baisser plus encore les salaires.
C’est le drame d’un pays où les collusions entre les « élites », de droite comme de gauche et les grandes entreprises n’ont jamais été aussi flagrantes, jusqu’à devenir caricaturales.
Bref, notre pays est schizophrène et il accepte d’être dirigé par des imposteurs. Il grogne contre ceux qui lui mentent et ne se donne pas les moyens de les sortir du jeu politique. Notre pays ne veut pas prendre de risque. Aussi, il reconduit au pouvoir la vieille droite et la vieille gauche et il prend tout simplement le risque de mourir. Il est vrai que tout est mis en œuvre par les élites pour développer les faux choix. Si vous êtes anticapitalistes, l’ultragauche vous propose de rejoindre son combat, mais vous im­pose plus d’immigrés et des régularisations automatiques des sans papiers. Si le déclin du sens des responsabilités vous insupporte, la droite vous propose son prêt-à penser pro-américain, la collaboration à des expéditions néo-coloniales en Afghanistan, et un anti-islamisme instrumentalisé pour accréditer la thèse du choc des civilisations et vous solidariser avec toutes les entreprises atlantistes présentes et à venir. Comme peut-être, demain, une croisa­de contre l’Iran. Au nom de la « liberté » et des « droits de l’homme » bien sûr.
Et peut-être, demain encore, le choix électoral en France sera-t-il : Sarkozy ou Strauss-Kahn ? Et, pour les penseurs, pourquoi pas : Jacques Attali ou Alain Minc ? Au plan politique, le « système », comme disait Jean Maze (auteur de L’anti-système, 1960), met en place de faux choix pour que « tout bouge sans que rien ne change. »
C’est une entreprise scélérate qui, jusqu’ici, a plutôt bien marché et a fait sortir notre pays de l’histoire jusqu’à lui supprimer toute conscience de soi. On comprend pourquoi, comme l’écrit Philippe Randa, la nouvelle disposition juridique sur le référendum dit d’initiative populaire est tellement encadrée, est tellement mise « sous haute surveillance politique » – c’est le titre de son livre – que ce référendum ne risque guère d’être le moyen d’un réveil du peu­ple, si celui-ci était frappé d’un éclair de lucidité et sortait de la dépolitisation soigneusement orchestrée pour que les « élites » continuent de jouir du pouvoir sans être dérangées. Il est vrai qu’il y a aussi l’anesthésie que Philippe Randa appelle fort bien « l’information du vide » : 20 mn consacrée à la météo, « attention il fait froid, couvrez vous » ou bien « attention, il va faire chaud, buvez. »
Et pourtant, ce pays, je l’aime et Philippe Randa l’aime aussi. C’est pourquoi il en parle tant, avec ironie, sans illusions excessives, mais avec quelque tendresse aussi. Car notre pays fut grand et se porta haut et loin.
Un pays est une porte vers l’universel. Si on refuse de passer la porte, on reste tout le temps chez soi. Si la porte est tout le temps ouverte, ce n’est plus une porte et la maison se délabre et à terme s’effondre. C’est pourquoi l’éloge des frontières que fait Régis Debray dans son récent livre n’est pas l’éloge de l’enfermement, c’est l’éloge des différences, ce qui est tout autre chose.
C’est pourquoi l’accueil de quelque 200 000 étrangers supplémentaires (au bas mot et hors les clandestins) tous les ans en France est une folie.
« Derrière la disparition apparente des identités, écrit de son coté Hervé Juvin, derrière la disparition apparente de tous ce qui sépare les hommes, nous sommes en fait en train d’assister à un régime de séparation infiniment plus rigoureux que les autres, sauf qu’il est fondé sur une chose et une seule chose, votre utilité économique, et, pour le dire ainsi, votre patrimoine et votre pouvoir d’achat. »
Oui, ces chroniques de l’année 2010, qui portent sur des événements que nous avons tous en mémoire, nous restituent un climat, une ambiance, celle d’une France qui s’oublie, qui oublie les rapports de force dans le monde, qui oublie la différence des civilisations, qui n’est pas forcément leur choc, mais qui est leur altérité, et qui est l’altérité même des hommes et des communautés, même les plus petites ou les plus spécifiques, telles que Michel Maffesoli en fait l’analyse depuis des années.
Hervé Juvin le dit encore : « La demande identitaire, comme le retour au politique et à la frontière, sont les éléments centraux de la sortie de la crise mondiale. » Le localisme comme échelon du sociétal et de l’économique, le national comme échelon du politique, la civilisation européenne comme échelon du projet, du mode d’être-ensemble et voie vers un universel différencié, telles sont les moyens, à notre portée, d’un ordre nouveau et impérial. Tout le contraire de l’impérialisme du nouvel ordre mondial.

Pierre Le Vigan est un collaborateur d’Éléments et de de Flash Infos magazine depuis sa création. Il est également l’auteur de plusieurs livres.

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D'un Céline l'autre

 
Vient de paraître:
 
D'un Céline l'autre
 
de David Alliot
 
Présentation de l'éditeur
Les 200 témoignages que regroupe D’un Céline l’autre jalonnent l’itinéraire d’une vie entière : celle de l’écrivain Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), depuis sa jeunesse passage Choiseul jusqu’à sa mort à Meudon. Un portrait inédit de Céline émerge ainsi à travers le regard de ceux qui l’ont connu : famille de l’écrivain, amis intimes, admirateurs ou adversaires. La nature des témoignages est d’une grande variété : correspondances, journaux intimes, mémoires, etc. S’ils proviennent généralement de la sphère française, quelques voix étrangères résonnent : les danoises, qui dévoilent le Céline de l’exil entre 1945 à 1951, les allemandes, qui dévisagent le Céline de l’Occupation. Certains textes tiennent en une ligne, d’autres s’étendent sur plusieurs dizaines de pages. Chaque témoignage est minutieusement introduit à la compréhension du lecteur à travers un appareil critique très exhaustif : notice biographique du témoin, origine du texte, contexte dans lequel il a été écrit. Enfin, l’ensemble du livre contient des annotations de nature à éclairer certains aspects de la vie de Céline. Un tiers des témoignages est connu du grand public. Un deuxième tiers ne lui était pas accessible jusqu’ici. Le dernier tiers est totalement inédit. En effet, tantôt les témoignages ont été recueillis par l’auteur auprès des derniers témoins encore en vie, tantôt ils ont été découverts dans des archives encore inexplorées. D’un Céline l’autre est préfacé par Me François Gibault, biographe de Céline, avocat et homme de confiance de Mme Lucette Destouches, veuve de l’écrivain, qui a apporté son soutien au projet. Le livre s’accompagne également d’une biographie synthétique de la vie de Céline, écrite par David Alliot, afin de livrer quelques repères au lecteur profane. Enfin, différentes annexes (chronologie, bibliographie et deux cartes) viennent compléter le contenu du livre.

David Alliot, D'un Céline l'autre, R.Laffont, 2011.
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vendredi, 08 avril 2011

Bulletin célinien n°329 - avril 2011

Vient de paraître : Le Bulletin célinien, n° 329. Au sommaire:

Marc Laudelout : Bloc-notes
M. L. : Céline sur papier glacé
M. L. : Jean-Pierre Dauphin, pionnier de la recherche célinienne
M. L. : Les pamphlets toujours interdits ?
Jean-Paul Angelelli : Hommage à Jean José Marchand
M. L. : Céline sur tous les fronts (III)
*** : 200 témoignages sur Céline
Éric Mazet : Le témoignage de Tinou Le Vigan
A. C. : Le passé rouge de Montandon
M. L. : Céline dans « Actualité juive »
Agnès Hafez-Ergaut : Hommes, chevaux et guerre dans Casse-pipe (I)
Henri Godard nous écrit.



Un numéro de 24 pages, 6 € franco par chèque à l’ordre de M. Laudelout.

Le Bulletin célinien
B. P. 70
Gare centrale
B 1000 Bruxelles
Belgique

Le Bloc-notes de Marc Laudelout
 

Les céliniens néophytes confondent parfois bibliographie de et sur Céline. C’est-à-dire bibliographies primaire et secondaire. Le pavé que Jean-Pierre Dauphin et Pascal Fouché publièrent en 1985 ressortit de la première catégorie : il référençait tous les écrits (publiés ou attestés) de Céline (1). Ce travail était le fruit d’une thèse, « Chronologie bibliographique et critique de Louis-Ferdinand Céline » (1973), qui réunissait pour la première fois de manière systématique textes épars, petits écrits et marginalia de l’écrivain. Le livre fut rapidement épuisé. Depuis 2007, il est consultable sur le site internet www.biblioceline.fr. Huit ans auparavant, J.-P. Dauphin avait publié le premier tome (1914-1944) d’une bibliographie des articles en langue française consacrées à Céline (2). Le second (1945-1961) n’est jamais paru. Aujourd’hui paraît un fort volume regroupant ces deux volets dans une édition revue et augmentée. Ce nouvel ouvrage de référence procuré par les éditions du Lérot marque aussi le retour de Jean-Pierre Dauphin sur la scène célinienne (3).
Cette bibliographie constitue l’aboutissement d’années de dépouillement de la presse périodique entamé dès 1964 par ce pionnier de la recherche célinienne. Les livres consacrés en tout ou partie à Céline étant très peu nombreux de son vivant (4), cet ouvrage recense essentiellement les articles de presse, consistants ou superficiels, parus dans la presse francophone. Travail titanesque, on s’en doute. D’autant que ne se bornant pas à donner les références des articles, l’auteur en résume la teneur en une ou deux phrases, parfois davantage. Cette bibliographie, présentée de manière chronologique, permet de mesurer l’évolution de la réception critique de l’œuvre, avec ces hauts (Voyage au bout de la nuit) et ces bas (Féerie pour une autre fois). Évoquant ailleurs cette matière, l’auteur relevait que ces années de critique célinienne « offrent un tableau très sûr des limites, des aberrations et de la misère d’une époque (5) ». D’autant que rares furent les aristarques à la hauteur de cette œuvre en constante évolution. L’accueil critique des trois chefs-d’œuvre que sont Mort à crédit, Guignol’s band et Féerie en atteste à l’envi. Surnagent malgré tout, dans la période considérée, quelques noms qui, à des titres divers, ont su rendre compte de l’esthétique célinienne : Léon Daudet, Claude Jamet, Morvan Lebesque, Roger Nimier, Jean-Louis Bory, Pol Vandromme, pour ne citer que ceux-là. Il faudra attendre la fin du XXe siècle pour que l’œuvre soit enfin perçue dans sa globalité et sa radicalité. Quant aux pamphlets, ils ont souvent donné une image réductrice de l’écrivain : le fait que durant sept ans Céline n’ait pas signé de roman n’a pas peu contribué à brouiller son image. Encore faut-il observer qu’il ne cesse d’être pamphlétaire dans ses œuvres de fiction d’après-guerre.

Marc LAUDELOUT


1. Ouvrage salué avec éclat dans le BC : M. L., « Un monument célinien ! », n° 38, octobre 1985. Voir aussi l’article de Christine Ferrand, « Voyage au bout des écrits de Céline », paru le 30 septembre 1985 dans Livres Hebdo et repris dans le BC, n° 39, novembre 1985.
2. Jean-Pierre Dauphin, L.-F. Céline 1. Essai de bibliographie des études en langue française consacrées à Louis-Ferdinand Céline, vol. 1 : 1914-1944, Lettres modernes-Minard, Paris 1977.
3. Jean-Pierre Dauphin, Bibliographie des articles de presse & des études en langue française consacrés à L.-F. Céline, 1914-1961, Du Lérot, 2011, 470 p.
4. Dont les livres de Robert Denoël, Apologie de Mort à crédit (1936), H.-E. Kaminski, Céline en chemise brune ou le mal du présent (1938), Maurice Vanino, L’affaire Céline. L’école d’un cadavre (1950), Milton Hindus, L.-F. Céline tel que je l’ai vu (1951) et Robert Poulet, Entretiens familiers avec Louis-Ferdinand Céline (1958).
5. Jean-Pierre Dauphin, « De méprises en confusions », introduction de Les critiques de notre temps et Céline, Garnier, 1976.

mercredi, 06 avril 2011

SOS Terre Briarde

S O S TERRE BRIARDE  

ALERTE ECOLOGIQUE MAJEURE     
                                      
Chaque jour on mesure davantage l'étendue de la catastrophe qui s'abat sur
notre pays : La volonté de nous détruire va au-delà de la substitution de population, de la perte de nos
valeurs, de notre identité, de nos racines.
Il faut désormais qu'ils détruisent notre environnement, notre faune et notre flore, notre sol et notre  sous-sol en prétextant la croissance des besoins d'énergie et l'indépendance énergétique 
de notre pays!"
 

image002.jpgEn France, on a des idées et, en plus, on a du schiste bitumineux  
Voici le nouveau slogan qui remplace maintenant celui des années soixante-dix : "En France, on n’a pas de pétrole mais on a des idées !".
Comme aux Etats-Unis et au Canada où la société HALLIBURTON exploite le gaz et l’huile de schiste    par le procédé de fracturation de la roche  à grande profondeur (2000 ・ 3000 mètres). Cette technique a des conséquences effroyables sur l’environnement, la faune et la flore ainsi que sur la santé humaine. Les habitants des régions concernées aux USA et au Canada sont sinistrés et leur vie quotidienne est devenue un enfer. Voir à ce sujet les vidéos sur internet du reportage  "GASLAND" 

Pour ce qui est de la France, plusieurs projets d’exploitation du sous-sol en vue d’en extraire l’huile de schiste en explosant la roche par injection d’eau en quantité énorme additionnée de produits chimiques extrêmement nocifs sont en cours et ont reçu, dans le plus grand secret, les autorisations nécessaires de la part du gouvernement et notamment de l’ex-ministre de l’Ecologie, Jean-Louis Borloo en 2009… 
Les bénéficiaires sont les sociétés américaines TOREADOR (dont le principal dirigeant, Julien Balkany,  est très proche du pouvoir) et HESS et la société canadienne VERMILION. 
Le 16 avril devraient normalement commencer les premiers forages "exploratoires" à proximité de la commune de Doue en Seine & Marne mais ausi en différentes place de la Seine-et-Marne
L'est de l’Aisne, le sud de l'Oise ,l’ouest de la Marne et toute la Seine & Marne sont concernés. La Terre Briarde est menacée d’un désastre écologique et environnemental sans précédent en France:  ,  destruction de la faune et de la flore, dessication des terres agricoles, maladies puis mort des animaux domestiques, de ferme et d’élevage, terrains transformés en paysage lunaire  eau polluèe, impropre à la consommation , pollution extrême des nappes phrèatiques et épuisement de la principale réserve d’eau potable de la région parisienne. « La nappe de Champigny » qui alimente la rivière souterraine 
"la Dhuys"
 Habitants de Seine & Marne et du reste de la Brie, tout ceux et celles qui restent attachés à la terre de leurs ancêtres , mobilisez-vous, renseignez-vous, rassemblez-vous, car il y va de votre santé,  et de  notre patrimoine  
 
Ecoutez celles et ceux qui la dénoncent car vous ne pourrez pas dire que vous ne saviez pas !

n'oubliez pas de signer la pétition

 

 



INFORMATIONS            Association " Terre Briarde"   e-mail : demeter77@hotmail.fr                                        
Merci de faire circuler ce communiqué et de le reproduire si possible pour distribution.

lundi, 04 avril 2011

Un texte prophétique de 1925

Un texte prophétique de 1925

 

ROMIER.jpg« Pour son idéal comme pour son bien-être, c’est donc en soi que l’Europe doit chercher le salut.

 

Voudra-t-elle se sauver ? Une telle volonté exigerait de sa part de grands redressements. Car l’Europe glisse  aujourd’hui avec complaisance sur la pente d’un général abandon.

 

Elle y glisse, entrainée par la double loi de l’égoïsme individuel et du moindre effort. Elle y glisse, croyant poursuivre un idéal nouveau qu’elle appelle « démocratique ». En réalité, elle vit de ses restes, aussi incapable d’adopter les dures lois de la morale païenne et naturelle que de revenir à la morale chrétienne. Rien de plus frappant que son égale impuissance à pratiquer la solidarité ou la fraternité entre les hommes et à y substituer une véritable lutte des classes. L’Européen est aujourd’hui trop détaché de la charité chrétienne pour faire du bien à son semblable, mais il n’a pas atteint ce degré de logique naturelle qui commande la suppression de l’individu dangereux ou des bouches inutiles. Par quoi il laisse périr le faible ou le juste, il supporte le méchant et il entretient le paresseux. L’ancienne Europe avait fait un compromis de  la morale de l’amour et de la morale du glaive. L’Europe actuelle a perdu l’amour et n’ose se servir du glaive.

 

Or les peuples nouveaux auxquels nous avons fourni les moyens techniques de  devenir forts et, partant, de propager ou d’imposer leurs façons de vivre, n’ont jamais connu, eux, la morale de l’amour telle que nous l’avons connue. Ils n’ont donc pas les timidités que nous avons gardées. Ils ne connaissent, sous  des inspirations diverses, que la morale de la force ou du glaive. Quelle leçon nous donne, à cet égard, le mépris des Russes, mi-Européens mi-Asiatiques, pour la Démocratie ! Chez eux, la Révolution ne fut pas une revanche d’individus, mais une revanche de classes. Ailleurs, par exemple au Japon, les techniques  modernes servent une féodalité. Les seigneurs de l’Atlas marocain  voyagent en automobile, mais assistés d’esclaves… Quelque estime que nous portions aux Américains, nous devons bien constater qu’ils lynchent les noirs.

 

Voilà qui procurerait à l’Europe d’étranges surprises si, demain ou après-demain, la vie de ses habitants dépendait du gré d’un autre continent ».

 

Lucien ROMIER.

(extrait du livre : Explication de notre temps, Grasset, Les Cahiers Verts (sous la direction de Daniel Halévy), n°48, Paris, 1925).

 

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dimanche, 03 avril 2011

Die Wiedergeburt der Entente Cordiale

Die Wiedergeburt der Entente cordiale

Michael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.com/

entente_cordiale.jpgDie Scham- und Bedenkenträger sind wieder unter uns: Diesmal ist es die Scham darüber, daß Deutschland in Libyen nicht für die Rechte der „Menschen in Libyen“ mitbombt. An der Spitze dieser medial hofierten Klageweiber steht mit Klaus Naumann, dem Ex-Chef des NATO-Militärausschusses, bezeichnenderweise ein ehemaliger Bundeswehrgeneral, der derzeit jedem, der ein Mikrophon vor ihm aufbaut, erklärt, er schäme sich für Haltung seines Landes, das seine „Freiheit und seinen Wohlstand auch der Bereitschaft seiner Verbündeten verdankt, für die Deutschen einzutreten“.

Womöglich bedauert es Naumann, nicht mehr Vorsitzender des NATO-Miltärausschusses zu sein; in seine Amtszeit fiel nämlich der sogenannte Kosovokrieg, in dem die „westliche Wertegemeinschaft“ unsterblichen Ruhm auf ihre Fahnen heftete, als sie das Balkan-Monster Slobodan Milošević mittels Hightech-Kampfjets wie weiland Siegfried den Drachen in die Knie zwang. Naumann indes steht beileibe nicht allein. Die FAZ sieht sogar, horribile dictu, einen neuen „deutschen Sonderweg“, von dem wir alle nur zu genau wissen, wo er endet.

Die Menschlichkeit will es

Alle diese Kritiker müssen sich fragen lassen, wie es um ihr Urteilsvermögen bestellt ist. Mehr und mehr zeichnet sich nämlich ab, daß die neue Entente cordiale, bestehend aus Frankreich sowie Großbritannien und vor allem den USA, Ziele verfolgt, die ausschließlich in der Rationalität ihrer geostrategischen Interessen liegen. An der Spitze der Kreuzzügler im Namen von Freiheit und Menschenrechte (Die Menschlichkeit will es!) steht diesmal allerdings kein US-Präsident, sondern der französische Staatspräsident Sarkozy, der mit Blick auf die Luftschläge in Libyen erklärte: „Jeder Herrscher muß verstehen, und vor allem jeder arabische Herrscher muß verstehen, daß die Reaktion der internationalen Gemeinschaft und Europas von nun an jedes Mal die gleiche sein wird.“

Das ist die Ankündigung einer beliebigen „Ausweitung der Kampfzone“, so wie es die neue Entente cordiale, die hier selbstverständlich stellvertretend für den Rest der „Gemeinschaft“ meint sprechen zu können, gerade für richtig erachtet. Diese Erklärung kommt einer Selbstermächtigung gleich, die auf einen Paninterventionismus im Namen der Ideen von 1789 hinausläuft. Wer bei diesem Kreuzzug nicht mittun will, läuft Gefahr als „Beschwichtigungspolitiker“ an den Pranger gestellt zu werden.

„Union für das Mittelmeer“

Im Fall Libyen wollte die neue Entente cordiale, nachdem sich von den Vorgängen in Ägypten und Tunesien offensichtlich überrascht wurde, nicht mehr zuschauen. Der „Volkswille“ könnte womöglich eine falsche, unerwünschte Richtung einschlagen. Ziel ist einmal, in Libyen eine der Entente gewogene Regierung an die Macht zu bringen, die bei einer Neuverteilung der Erdölressourcen die Kreuzzügler der „Wertegemeinschaft“ entsprechend „belohnt“. Zum anderen eröffnet sich die Möglichkeit, von Libyen aus Einfluß auf die gesamte Region zu nehmen. Wohl vor allem deshalb haben die USA, die diesmal aus „Image-Gründen“ im Hintergrund bleiben wollen, Frankreich im UN-Sicherheitsrat unterstützt.

Für Sarkozy eröffnen sich aber noch ganz andere Möglichkeiten, kann er doch seine „Union für das Mittelmeer“ wieder ins Spiel bringen, die bisher vor allem aufgrund des deutschen Widerstands Stückwerk geblieben ist. Ein einflußreicher Kritiker dieser „Union“ auf nordafrikanischer Seite war ja bisher der „wahnsinnige“ Gaddafi, der der EU vorwarf, mit dieser Union den Spaltpilz in Organisationen wie die Arabische Liga und die Afrikanische Union hineintragen zu wollen.

Die Deutschen werden zahlen

Bisher dümpelte diese Union wegen Unterfinanzierung vor sich hin. Wenn aber der Maghreb im Sinne der neuen Entente cordiale befriedet sein wird, werden hier die Karten mit Sicherheit neu gemischt. Neu gemischt heißt: Mit dem Hinweis darauf, daß die EU diesen Staaten, die nun auf einem „demokratischen Weg“ seien, „substantiell“ helfen müsse, wird Geld fließen, und zwar viel Geld, um Demokratie und Wirtschaft in diesen Staaten zu stabilisieren und an „westliche Standards“ heranzuführen.

Wer hier vor allem zur Kasse gebeten werden dürfte, ist unschwer zu erkennen, nämlich Deutschland. Und wenn sich Deutschland widerspenstig zeigt, wird ein Argument auf jeden Fall „hilfreich“ sein: Sarkozy verfolgt – neben der Sicherung und dem Ausbau des französischen Einflusses in der Maghrebzone – mit seiner „Union“, deren Aufbau er gerne nach dem Vorbild der EU vorangetrieben sehen möchte, unter anderem das Ziel, den Friedensprozeß zwischen Israel und seinen arabischen Nachbarn zu forcieren.

Finanzielle Erdrosselung Deutschlands

„Demokratisch bereinigte“ arabische Staaten böten ideale Möglichkeiten, diesem Prozeß die gewünschte Dynamik zu verleihen. Spätestens dann werden deutsche Politiker, die ja unentwegt davon reden, für das „Existenzrecht Israels“ einzustehen, alles unterschreiben, was die neue Entente cordiale ihnen zum Abwinken vorlegt.

Dem Ziel der schleichenden finanziellen Strangulierung des lästigen Rivalen Deutschland – in aller Freundschaft, versteht sich – wäre Sarkozy, der gerade erfolgreich die Implementierung des Euro-Schutzschirms vor allem auf deutsche Kosten betrieben hat, einen weiteren Schritt nähergekommen.

Michael Wiesberg, 1959 in Kiel geboren, Studium der Evangelischen Theologie und Geschichte, arbeitet als Lektor und als freier Journalist. Letzte Buchveröffentlichung: Botho Strauß. Dichter der Gegenaufklärung, Dresden 2002.


 

samedi, 02 avril 2011

Collectif "Non à la guerre en Libye"

Première action à Paris du Collectif Non à la guerre en Libye

 

Avant-hier mercredi 30 mars, le Collectif Non à la guerre en Libye a organisé une manifestation rassemblant une trentaine de personnes à proximité du consulat de Libye, rue Chasseloup-Laubat dans le XVe arrondissement de Paris. Dénonçant les frappes aériennes sur la Libye, les participants ont déploré la collaboration active de l’armée française à ce qui ressemble, après les campagnes d’Irak et surtout d’Afghanistan, à une énième « croisade du Bien » orchestrée par les Etats-Unis contre les peuples libres.

Les participants, parmi lesquels le prince Sixte-Henri de Bourbon-Parme, venu en personne condamner l’intervention militaire française, ont ainsi écouté un discours leur rappelant :
- qu’à l’heure où la France pleure 54 de ses soldats tombés pour l’Oncle Sam dans les montagnes afghanes, Nicolas Sarkozy a engagé notre pays dans un conflit qui ne sert une fois de plus que les intérêts économico-stratégiques des USA, certainement plus appâtés par les riches réserves pétrolières de la Libye que par la pseudo-protection des civils, ou bien mus par le « soutien aux insurgés ».
- qu’à l’heure où l’Europe entière craint une vague d’immigration sans précédent, il est totalement suicidaire de bombarder ces zones sensibles et d’encourager ainsi une guerre civile qui aura pour conséquence directe d’inciter des millions de personnes à l’exil vers l’Europe et, disons-le clairement, vers la France.
- qu’aujourd’hui les Français craignent pour leur pouvoir d’achat et leur avenir, et n’ont pas envie de soutenir avec leurs impôts une guerre très coûteuse au service d’intérêts américains.

Les manifestants se sont dispersés dans le calme, après avoir allumé des fumigènes et repris quelques slogans, pour finalement déposer une gerbe de fleurs en soutien au peuple libyen qui souffre aujourd’hui dans toutes ses composantes.

Appel militant du Collectif Non à la guerre en Libye

Pour l’arrêt immédiat des frappes aériennes et le retrait des troupes françaises, pour dire Stop aux guerres de l’Oncle Sam, soutenez le Collectif Non à la guerre en Libye, contactez-nous !
Contact : nonalaguerreenlibye@hotmail.fr [1]


[cc [2]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[http://fr.novopress.info [3]]


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

URL to article: http://fr.novopress.info/81606/premiere-action-a-paris-du-collectif-non-a-la-guerre-en-libye/

mercredi, 30 mars 2011

Anne-Marie du 3°REI - Légion Etrangère

Anne-Marie du 3°REI

Légion Etrangère

 

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lundi, 28 mars 2011

"Aube de l'Odyssée" contre la Libye: grands principes et jeux de dupes

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« Aube de l'odyssée » contre la Libye : Grands Principes et jeux de dupes

Ex: http://www.polemia.com/ 

Qui tire les ficelles contre la Libye ? Sous le couvert des Droits de l’homme, manipulations partisanes, intérêts pétroliers et calculs politiciens font rage.

Dans l’après-midi du 19 mars, veille des cantonales, le chef de l’Etat se fendait, devant les drapeaux entrecroisés de la France et de l’Europe, d’une intervention aussi pathétique que martiale pour nous annoncer que, des peuples arabes ayant « choisi de se libérer de la servitude dans laquelle ils se sentaient depuis trop longtemps enfermés », ils « ont besoin de notre aide et de notre soutien ».

« C'est notre devoir », ajoutait Nicolas Sarkozy. « En Libye, une population civile pacifique (…) se trouve en danger de mort. Nous avons le devoir de répondre à son appel angoissé (…) au nom de la conscience universelle qui ne peut tolérer de tels crimes » et le président de la République concluait avec emphase : « Nos forces aériennes s'opposeront à toute agression des avions du colonel Kadhafi contre la population de Benghazi. D'ores et déjà, nos avions empêchent les attaques aériennes sur la ville. D'ores et déjà d'autres avions français sont prêts à intervenir contre des blindés qui menaceraient des civils désarmés. »

En effet, dix-huit Mirage et Rafale étaient mobilisés pour établir la zone d’exclusion aérienne comme l’ONU en avait finalement donné mandat, cependant que le porte-avions Charles De Gaulle recevait l’ordre de cingler vers la Tripolitaine.

Aux ordres du Pentagone

Ainsi la patrie des Immortels Principes apparaissait-elle en héraut de la conscience universelle et en fer de lance de la résistance armée au satrape de Tripoli. Seul ennui : au moment même où le petit Nicolas se livrait à ce solennel exercice d’autopromotion – présenté sur le site officiel de l’Elysée sous le titre ronflant « Crise en Libye : l'action forte, concertée et déterminée du président Nicolas Sarkozy », le vice-amiral William E. Gortney précisait du Pentagone que l'opération, baptisée Odyssey Dawn (Aube de l'odyssée), était « placée sous le commandement du général Carter F. Ham, chef du U.S. Africa Command (Africom), basé à Stuttgart (Allemagne) ». « Une force navale portant la dénomination Task Force Odyssey Dawn est commandée à la mer par l'amiral américain Samuel J. Locklear III, dont l'état-major est embarqué à bord du navire de commandement USS Mount Whitney », précisait l’amiral Gortney.

Ce que, sur le site LePoint.fr, le spécialiste militaire Jean Guisnel commentait assez cruellement : « Les autorités politiques françaises présenteront sans doute une version les plaçant en tête de gondole, mais la réalité est plus prosaïque : les Américains sont aux manettes et assurent le contrôle opérationnel de l'ensemble du dispositif (OPCON, pour Operational Control) en assurant la coordination de l'ensemble des missions et des moyens qui leur sont attribués… Les Français sont donc des « fournisseurs de moyens » à la coalition qui leur a accordé le « privilège » (ou vécu comme tel par Nicolas Sarkozy) de prendre l'air les premiers. »

En somme, dans cette affaire exhalant un fort relent de pétrole, Sarkozy serait l’estafette de la Maison-Blanche comme Giscard avait été, selon Mitterrand en 1981, « le petit télégraphiste du Kremlin ». Marine Le Pen qui, interrogée sur Europe 1 le 18 mars, mettait en garde contre le risque de guerre car « il faut être conscient que si nous engageons notre armée, d'abord il va falloir la retrouver parce qu'elle est éparpillée partout dans le monde, embourbée en Afghanistan, mais aussi parce que mener un acte de guerre contre un pays, ce n'est pas un jeu vidéo, il faut s'attendre à ce qu'il y ait une réplique », n’avait donc pas tort de se demander ensuite « si les Etats-Unis n’ont pas, une fois de plus, envoyé la France au charbon avec toutes les conséquences qui vont suivre ».

« Carnage » et lâchage… de la Ligue arabe

Ces conséquences, on les connaît :

- risque d’enlisement même si la Libye est désertique et son armée peu connue pour son efficacité (mais on se souvient quel échec fut pour Israël son intervention « Pluie d’été », pourtant apparemment sans dangers, contre le Hezbollah libanais en juillet 2006) ;
- risque de représailles terroristes ;
- risque de raz-de-marée migratoire puisque Kadhafi n’a plus aucune raison de bloquer sur son sol les candidats à l’exode vers l’Europe comme il le faisait depuis son accord avec Berlusconi ;
- et surtout revirement du monde arabo-musulman contre la « croisade occidentale » dès les premiers « dommages collatéraux », lesquels n’ont pas tardé.

Dès le 21 mars, en effet, nos pilotes étaient accusés par Libération et le Herald Tribune de s’être livrés à un « jeu de massacre » et à un « carnage », après avoir pris pour une colonne de blindés loyalistes une colonne de blindés saisis par les rebelles s’étant également emparés d’uniformes. Mais, du ciel et même avec l’aide de drones, comment reconnaître les « bons » démocrates (que l’AFP a d’ailleurs décrits « faisant les poches » des soldats tués) des « mauvais », suppôts du tyran ? Inéluctables, de telles bavures n’avaient pas été envisagées, semble-t-il, par le généralissime de l’Elysée, qui pourrait bien se retrouver en posture d’accusé si la promenade de santé tournait à la déculottée.

Au demeurant, le revirement avait été très vite amorcé : alors que, dans son allocution du 19 mars, Nicolas Sarkozy s’était targué du soutien complet d’Amr Moussa, président des Etats de la Ligue arabe – et présent au sommet de l’Elysée –, l’Egyptien se déchaînait dès le lendemain (à 14h 43) contre l’Aube de l’odyssée. Pour Moussa, candidat à la succession de Moubarak et donc soucieux de se ménager l’opinion égyptienne en vue de la présidentielle, « ce qui s'est passé en Libye diffère du but qui est d'imposer une zone d'exclusion aérienne : ce que nous voulons c'est la protection des civils et pas le bombardement d'autres civils ». Quel camouflet pour Sarkozy !

Un devoir d’ingérence très sélectif

Mais peu importe à celui-ci puisque, simultanément, dans Le Parisien, Bernard Henri Lévy lui tressait des lauriers pour s’être montré « lucide et courageux » dans le déclenchement de la « guerre juste » destinée à débarrasser la Libye « dans les délais les plus brefs, du gang de Néron illettrés qui ont fait main basse sur leur pays et l'ensanglantent, pour l'heure, impunément ».

Vive donc le devoir d’ingérence si cher à Bernard Kouchner ! Débarqué le 13 novembre 2010 du Quai d’Orsay pour incompétence, il aura remporté avec cette intervention en Libye une fameuse victoire « posthume » – dont il se réjouit d’ailleurs sans retenue, célébrant lui aussi le « courage » de Nicolas Sarkozy.

On remarquera toutefois que ce prétendu devoir s’inscrit dans une géométrie éminemment variable ainsi que le notait d’ailleurs Polémia dans son « billet » du 18 mars : « Les Occidentaux, philanthropes expérimentés, voleront au secours de la population libyenne en la bombardant. (Préservez-moi de mes amis…) Pourquoi la Libye et pas la Côte d'Ivoire ? Pourquoi Kadhafi et pas Gbagbo ? »

De même, pourquoi défendre les « résistants » de Benghazi et de Tobrouk et abandonner à leur triste sort ceux de Bahrein que, circonstance aggravante, les troupes saoudiennes et émiraties ont envahi le 14 mars à seule fin de prêter main forte au monarque de cet Etat du Golfe qui ne parvenait pas à juguler l’opposition ? Une incroyable intervention que Paris n’a pas cru devoir condamner. Quant aux Etats-Unis, ils se sont bornés à appeler leurs alliés saoudiens à la « retenue » alors qu’ils avaient fait frapper d’un embargo sauvage puis ravagé en 1990-1991, par « Tempête du désert », l’Irak coupable d’avoir envahi en août 1990 le Koweit, sa « dix-septième province ».

Et que dire du mutisme assourdissant des champions aujourd’hui autoproclamés de la conscience universelle devant la sanglante opération « Plomb durci » déclenchée fin décembre 2008 par les Israéliens contre la bande de Gaza, où la plupart des (milliers de) victimes furent des civils, de tous âges et de tous sexes ?

Les mensonges de mars

Mais on sait qu’Israël bénéficie d’une grâce d’état. Quant aux manifestants bahreinis, ils sont chiites : considérés comme vassaux de l’Iran, ils sont donc traités en supplétifs de l’« axe du mal ». On peut ainsi les réduire en charpie sans que les bonnes âmes ne s’en émeuvent, comme elles l’ont fait, à l’instar de Bernard Henri Lévy, devant les deux mille morts faits par la répression à Benghazi fin février dernier.

D’ailleurs, y en eut-il réellement deux mille ? Ce chiffre, alors avancé sur TF1, et au conditionnel, par un médecin français confiné dans son hôpital, n’a jamais été confirmé de source sûre. Il n’en est pas moins – ce qui n’est pas une première dans l’histoire – accepté sans discussion par les chancelleries occidentales et les cercles de l’OTAN.

Mais attention ! Sous le titre « Yougoslavie, Irak, Libye : les mensonges de mars », le quotidien britannique The Guardian rappelait utilement le 20 mars : « En mars 1999, on nous a dit qu’il nous fallait intervenir en Serbie parce que le président yougoslave Slobodan Milosevic avait lancé contre les Albanais du Kossovo « un génocide de type hitlérien » alors que ce qui arrivait au Kossovo était une guerre civile entre les forces yougoslaves et l’Armée de Libération du Kossovo soutenue par les Occidentaux, avec des atrocités commises des deux côtés (*). Et les proclamations sur l’arsenal de destruction massive détenu par l’Irak étaient une pure foutaise (pure hogwash) inventée pour justifier une intervention militaire… En mars 1999 comme en mars 2003, nos dirigeants nous ont menti sur les raisons réelles de notre engagement dans un conflit militaire. Comment pouvons-nous être sûrs qu’il en va différemment en mars 2011 malgré l’aval donné par l’ONU à l’intervention en Libye ? »

Le retour des faucons « néo-cons »

D’autant que les manipulateurs sont les mêmes, en commençant par Bernard Henri Lévy, à la manœuvre en Libye comme il l’avait été dans les années 1990 en Bosnie puis au Kossovo, et surtout les stratèges neo-conservative américains Paul Wolfowitz et William Kristol, ce dernier venu du trotskisme mais « partisan passionné d'Israël, de la puissance américaine et du renforcement de la présence américaine au Moyen-Orient », comme le souligne Wikipedia. Quant à Wolfowitz, secrétaire adjoint à la Défense entre 2001 et 2005 dans le gouvernement de George W. Bush puis président de la Banque mondiale jusqu’en mars 2007, c’est lui qui fabriqua la « foutaise » des armes de destruction massive irakiennes comme il l’avoua avec cynisme dans le n° de mai 2003 du magazine Vanity Fair, alors que l’Irak était crucifié. Point de détail : la nouvelle compagne de cet inquiétant personnage, Shaha Riza, est une Lybo-Britannique précédemment chargée des droits des femmes arabes à la Banque mondiale et aujourd’hui apparatchik au département d'Etat des Etats-Unis.

De son côté, le compère Kristol, auquel les frappes aériennes sur Tripoli et Syrte ne suffisent plus, préconisait le 20 mars sur FoxNews le déploiement au sol des troupes de la coalition. Contredisant Barack Obama dont il est pourtant devenu l’un des plus proches conseillers après avoir instrumentalisé Bush jr., il affirme ainsi : « Non, nous ne pouvons pas laisser Kadhafi au pouvoir et nous ne le laisserons pas au pouvoir. »

Un programme aussitôt applaudi par BHL et auquel notre président adhérera sans doute, quitte à risquer la vie de nos soldats, puisque ledit BHL est devenu son directeur de conscience et, tant pis pour l’avantageux Juppé, le vrai chef de notre diplomatie. Et tant pis également si l’opération Aube de l’odyssée favorise l’instauration d’un « Emirat islamique de la Libye orientale dans la région pétrolière de Tobrouk », avènement redouté par le ministre italien des Affaires étrangères, Franco Frattini, dans une déclaration du 22 février. Tout comme Tel Aviv finança le Hamas pour affaiblir l’OLP de Yasser Arafat, la « croisade » (dénoncée le 21 mars par Vladimir Poutine) aboutira-t-elle au remplacement de Kadhafi par des Barbus ? Beau résultat, en vérité !

Kadhafi, sinistre bouffon mais roi de Paris

Peu nous chaut évidemment le sort du colonel libyen qui, depuis des décennies, n’a eu de cesse de monter contre la France ses anciennes colonies africaines, au prix de sanglantes guerres civiles. Comme au Tchad où il soutint sans défaillance Hussein Habré, kidnappeur de Mme Claustre, assassin du commandant Galopin et, parvenu au pouvoir, responsable de plus de 40.000 morts, ce qui lui a valu le 15 août 2008 d’être condamné à mort (par contumace) pour crimes contre l'humanité par un tribunal de N'Djaména. Et nous n’oublions pas la responsabilité directe de Kadhafi dans d’innombrables actes de terrorisme, dont l’attentat de 1989 contre un avion de la compagnie française UTA – 170 morts.

Mais, justement, Sarkozy, lui, avait oublié ces faits d’armes, de même que l’impitoyable répression s’abattant depuis quarante ans sur les opposants au chef de la « Jamariya » quand, en décembre 2007, il réserva un accueil triomphal au sinistre bouffon – qui, après avoir obtenu de planter sa tente bédouine dans le parc du vénérable Hôtel de Marigny, fit d’ailleurs tourner en bourriques les services du protocole et la préfecture de Paris. Il est vrai qu’à l’époque, le président français avait cru pouvoir annoncer la signature de contrats pour une valeur d' « une dizaine de milliards d'euros ». Soit, selon Claude Guéant, alors secrétaire général de l’Elysée, « l'équivalent de 30.000 emplois garantis sur cinq ans pour les Français ». Essentiellement dans le domaine militaire puisque l’on nous faisait miroiter la vente, dans « deux ou trois mois », s’il vous plaît, de quatorze Rafale – les mêmes Rafale qui, finalement jamais achetés, bombardent aujourd’hui la Libye.

Un calcul bassement politicien

Autant que le non-respect par Kadhafi des sacro-saints droits de l’homme, et l’habituel alignement sur l’Hyperpuissance, est-ce le dépit engendré par ces illusions perdues qui a incité le chef de l’Etat à nous lancer dans l’aventure libyenne ?

Sans doute, mais même si BHL, toujours lui, félicite Sarkozy d’avoir eu « le juste réflexe – pas le calcul, non, le réflexe, l'un de ces purs réflexes qui font, autant que le calcul ou la tactique, la matière de la politique », il est difficile de ne pas voir dans la démarche présidentielle un calcul politique. Et même politicien. A l’approche d’élections annoncées comme catastrophiques pour la majorité, l’Elyséen devait à tout prix se « représidentialiser ». Quoi de mieux, pour y parvenir, que d’adopter la flatteuse posture de chef des armées, de plus arbitre planétaire des élégances morales ?

Echec sur toute la ligne. Aux cantonales du 20 mars, l’UMP, talonnée par un FN à 15,56% (résultat jamais atteint dans ce type de scrutin), n’a obtenu que 17,07% des suffrages, contre 25,04% au PS.

Alors, tout ça (car il faudra bien donner un jour le coût du ballet aérien et de la croisière du Charles-De-Gaulle) pour ça ?

Camille Galic
21/03/2011

(*) Voir notre article du 28 février « Albanie : la dictature de la corruption, meilleur allié de l'islamisation » :

Correspondance Polémia - 22/03/2011

La grande guerre de Nicolas le petit

La grande guerre de Nicolas le petit

 

Sarkozy_guerre_libye_kadhafi.jpgÉric Besson avant de se renier, alors qu’il était encore socialiste, publia un petit opuscule fort bien fait intitulé « Sarkozy l’Américain ». Il y expliquait comment les néo-con yankees mettaient tous leurs espoir dans l’élection de Nicolas Sarkozy à la présidence de la République. Ils ne le soutenaient pas, à ses yeux, comme ils soutiendraient n’importe quel candidat de droite, mais parce qu’il était le seul homme politique français important qui incarnait leurs idées. Pour eux, Nicolas Sarkozy était l’espoir d’en finir une fois pour toutes avec l’hydre à deux têtes constituée par ce qui reste du modèle social français et de la politique étrangère indépendante de la France.

Et de rappeler qu’alors qu’il était déjà candidat à la présidence de la République, Sarkozy de passage aux États-Unis n’avait pas hésité à déclarer qu’il se sentait étranger dans son propre pays, qu’il était fier qu’on l’appelle « l’américain » et qu’il considérait comme arrogant le discours d’un premier ministre français (de Villepin à l’ONU en 2003) qui a fait l’admiration du monde entier.

Au lendemain de son accession à l’Élysée, l’universitaire Jean Bricmont, n’avait pas hésité à écrire, quant à lui, que cette « victoire représente une inféodation de la France à l’étranger comme il n’y en a jamais eu dans le passé, sauf suite à des défaites militaires. »

Tout ceci pouvait sembler excessif.

Malheureusement il n’en était rien et ce qu’avaient prédit ces auteurs s’est malheureusement confirmé : la France de Sarkozy est devenu le caniche de l’oncle Sam.

L’opération en Libye nous en donne une nouvelle preuve.

La propaganda staffel des médias aux ordre nous présente dans cette affaire une « France aux commandes » et un Président « chef de guerre »… Cela avec un objectif purement politique évident : rehausser l’image du nain hongrois en chute libre dans les sondages en donnant l’impression qu’il a une véritable surface internationale et qu’il est, au moins, capable de réussir quelque chose… Fut-ce faire tuer des femmes et des enfants par des missiles téléguidés !

La réalité est plus cruelle et nous pouvons la découvrir dans la presse yankee dont les articles sont repris en France par quelques blogs et sites « mal-intentionnés ». La réalité c’est que, comme l’écrit Jean Guisnel sur Le Point.fr, « la France est placée sous commandement américain » et que Paris est uniquement un « fournisseur de moyens » de la coalition internationale engagée contre Kadhafi. Et notre journaliste d’expliquer «  Lors d’un briefing organisé samedi au Pentagone, le vice-amiral William E. Gortney a précisé que l’opération (…) est placée sous le commandement du général Carter F. Ham, chef du U.S. Africa Command (Africom), basé à Stuttgart (Allemagne). Une force navale portant la dénomination Task Force Odyssey Dawn est commandée à la mer par l’amiral américain Samuel J. Locklear III, dont l’état-major est embarqué à bord du navire de commandement USS Mount Whitney. À ce stade, les conditions précises de l’organisation de l’opération Odyssey Dawn ne sont pas entièrement définies. Les autorités politiques françaises présenteront sans doute une version les plaçant en tête de gondole, mais la réalité est plus prosaïque : les Américains sont aux manettes et assurent le contrôle opérationnel de l’ensemble du dispositif (OPCON, pour Operational Control) en assurant la coordination de l’ensemble des missions et des moyens qui leur sont attribués. La raison en est simple : alors que la coalition pourrait compter jusqu’à une vingtaine de pays dans les jours qui viennent, seuls les Américains sont en mesure de gérer un tel dispositif. Les Français sont donc des « fournisseurs de moyens » à la coalition qui leur a accordé le « privilège » (ou vécu comme tel par Nicolas Sarkozy) de prendre l’air les premiers. »

Pire, une lecture de la presse américaine permet d’apprendre que ce sont les États-Unis, seuls, qui ont décidé qu’il était enfin possible de se lancer dans l’opération diplomatique ouvrant la voie à l’emploi de la force contre la Libye et que une fois ces opérations entamées, la France sarkozyste a été placée sous commandement américain et obéit depuis au doigt et à l’œil à ce que disent et décident Hillary Clinton et le président Obama.

Ainsi, notre pays est engagé dans une opération militaire, dont on ne comprends guère le sens et dont on ignore tout de l’issue, pour des raisons qui n’ont rien à voir avec notre intérêt national mais beaucoup avec celui des États-Unis et avec l’avenir politique d’un lilliputien ambitieux.

Voici à quoi sont utilisés nos impôts (le coût de cette opex devrait rapidement se chiffrer à plusieurs dizaines, voire centaines si elle dure, millions d’euros), voici pourquoi le sang de Français sera peut-être versé demain !

Mais que Nicolas le petit et ses sbires n’aient crainte, tout se paie (parfois pas uniquement dans les urnes…) et le peuple de France a commencé à faire l’addition. La vague bleu marine de dimanche pourrait bien n’être encore qu’une vaguelette en comparaison des élections futures !

mardi, 22 mars 2011

The Rivkin Project: How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations

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The Rivkin Project:

How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations, Part 1

Kerry BOLTON

Ex: http://counter-currents.com/

During October 19–22, 2010, Charles Rivkin, US Ambassador to France, invited a 29-member delegation from the Pacific Council on International Policy (PCIP) to a conference in France, the main purpose of which was to discuss Arab and Islamic relations in the country.[1] The meeting was part of a far-reaching subversive agenda to transform that entire character of France and in particular the consciousness of French youth, which includes the use of France’s Muslim youth in a typically manipulative globalist strategy behind the usual façade of “human rights” and “equality.”

Globalist Delegation at US Embassy

The PCIP report states of the conference:

. . . The delegation further focused on three key themes. First, the group examined Franco-Muslim issues in France through exchanges with Dr. Bassma Kodmani, Director of the Arab Reform Institute, and Ms. Rachida Dati, the first female French cabinet member of North African origin and current Mayor of the 7th Arrondissement in Paris. A trip to the Grand Mosque of Paris and a meeting with the Director of Theology and the Rector there provided additional insight. Second, meetings with Mr. Jean-Noel Poirier, the Vice President of External Affairs at AREVA (a highly innovative French energy company), and with Mr. Brice Lalonde, climate negotiator and former Minister of the Environment, highlighted energy and nuclear policy issues and the differences between U.S. and French policies in these arenas. And finally, the delegation explored the connections between media and culture in California (Hollywood) and France in meetings at the Louvre, the Musee D’Orsay, and at FRANCE 24 — the Paris-based international news and current affairs channel.[2]

The over-riding concern seems to have been on matters of a multicultural dimension, including not only Arab and Islamic relations in France, but perhaps more importantly in the long term, a discussion on the impact of Hollywood “culture” on the French.

The USA has long played a duplicitous game of “fighting terrorism” of an “Islamic” nature as one of the primary elements of its post-Cold War stratagem of manufactured permanent crises, while using “radical Islam” for it own purposes, the well-known examples being: (1) Supporting Bin Ladin in the war against Russia in Afghanistan, (2) backing Saddam Hussein in the war against Iran, (3) supporting the Kosovo Liberation Army in ousting Serbian sovereignty over mineral rich Kosovo, the KLA having been miraculously transformed from being listed by the US State Department as a “terrorist organization,” to becoming “freedom fighters.”

When US globalists pose as friends of Muslims, the latter should sup with the Great Shaitan with an exceedingly long spoon.

What is the Pacific Council on International Policy?

The PCIP of which Rivkin is a member was founded in 1995 as a regional appendage of the omnipresent globalist think tank, the Council on Foreign Reactions (CFR),[3] is headquartered in Los Angeles, but “with members and activities throughout the West Coast of the United States and internationally.” Corporate funding comes from, among others:

Carnegie Corporation of New York
Chicago Council on Foreign Relations
City National Bank
The Ford Foundation
Bill and Melinda Gates Foundation
The William & Flora Hewlett Foundation
Rockefeller Brothers Fund
The Rockefeller Foundation
United States Institute of Peace[4]

The PCIP is therefore yet another big player in the globalist network comprising hundreds of usually interconnected organizations, lobbies, “civil society” groups, NGOs, and think tanks, associated with banks and other corporations. As usual, there is a conspicuous presence by Rockefeller interests.

Why France?

France has long been a thorn in the side of US globalism because of its stubborn adherence to French interests around the world, rather than those of the manufactured “world community,” although the Sarkozy regime is an exception. However, France is one of the few states left in Western Europe with a strong national consciousness. The best way of destroying any such feeling — which translates too often into policy — is to weaken the concepts of nationhood and nationality by means of promoting “multiculturalism.”

Was it only coincidence that the 1968 student revolt, sparked by the most puerile of reasons, occurred at a time both when the CIA was very active in funding student groups around the world, and when President De Gaulle was giving the USA maximum trouble in terms of foreign policy? De Gaulle did little to play along with American’s post-war plans. He withdrew France form NATO command, during in World War II was distrusted by the USA.[5]

Of particular concern would have been De Gaulle’s advocacy of a united Europe to counteract US hegemony.[6] In 1959 he stated at Strasbourg: “Yes, it is Europe, from the Atlantic to the Urals, it is the whole of Europe, that will decide the destiny of the world.” The expression implied co-operation between a future Europe and the USSR. In 1967 he declared an arms embargo on Israel and cultivated the Arab world. This is the type of legacy that globalists fear.

With the buffoonery of Sarkozy, and mounting tension with disaffected Muslim youth, a backlash could see an intransigently anti-globalist, “xenophobic” regime come to power. In today’s context, what better way now to subvert French nationalism and any potential to revive as an anti-globalist force, than to use its large, unassimilated Islamic component, just as the Bolshevik revolution was undertaken to a significant extent by the disaffected minorities of the Russian Empire?

Of interest also is the concern this delegation had for the influence of Hollywood on French culture. This might seem at first glance to be an odd concern. However, Hollywood, as the economic symbol of globalist cultural excrescence, is an important factor in globalization, in what amounts to a world culture-war. Ultimately the goal of globalism is not to promote the survival of ethnic cultures and identities, but rather to submerge them into one big melting pot of global consumerism, to uproot every individual from an identity and heritage and replace that with the global shopping mall, and the “global village.” Therefore multiculturalism should be viewed as the antithesis of what it is understood as being.

So far from the global corporates wanting to promote so-called multiculturalism in terms of assuring the existence of a multiplicity of cultures, as the term implies; it is to the contrary part of a dialectical process whereby a under the facade of ideals, peoples of vastly different heritage are moved across the world like pawns on a chess board, the aim being to break down culturally specific nations. It is an example of Orwellian “doublethink.”[7]

It is notable that the instigators of the “velvet revolutions” now sweeping North Africa and reaching into Iran are largely “secularized” youths without strong traditionalist roots. Similarly, the best way to solve France’s ethnic conflicts and to assure that France does not re-emerge again to confront US/globalist interests, is to dialectically create a new cultural synthesis where there is neither a French culture nor an Islamic culture, but under the banner of “human rights” and “equality,” a globalist youth-based culture nurtured by Hollywood, MTV, cyberspace, MacDonald’s and Pepsi.

That this is more than hypothesis is indicated by the manner by which the secular youth revolts now taking place in North Africa have been spawned by an alliance of corporate interests, sponsored by the US State department and sundry NGOs such as Freedom House.[8] The North African “revolutionaries” toppling regimes are just the type of “Muslim” that the globalists prefer; imbued with the cyber-consumer mentality.

So what are Rivkin and the US State Department up to in France, that they should be so interested in the place of Hollywood and of Muslims in the country?

Notes

1. “2010 France Country Dialogue,” PCIP,  http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=583

2. “2010 France Country Dialogue,” ibid.

3. “Founded in 1995 in partnership with the Council on Foreign Relations,” PCIP, Governance, http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=373

4. Corporate and Foundation funding: http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=513

5. S. Berthon, Allies At War (London: Collins, 2001), p. 21.

6. A. Crawley, De Gaulle (London: The Literary Guild, 1969), p. 439.

7. “The power of holding two contradictory beliefs in one’s mind simultaneously, and accepting both of them . . .” George Orwell, Nineteen Eighty-Four (London: Martin Secker and Warburg, 1949), Part 1, Ch. 3, p. 32.

8. K. R. Bolton, “Twitters of the World Unite! The Digital New-New Left as Controlled Opposition,” Part 1, Part 2, Part 3, and Part 4. Tony Cartalucci, “Google’s Revolution Factory – Alliance of Youth Movements: Color Revolution 2.0,” Global Research, February 23, 2011, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=23283

The Rivkin Project:
How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations, Part 2

In 2010 when US ambassador Charles Rivkin invited a delegation of fellow Pacific Council on International Policy members to France, he had outlined a program for the Americanization of France that primarily involved the use of the Muslim minorities and the indoctrination of French youth with corporate globalist ideals. The slogan invoked was the common commitment of France and America historically to “equality.”

Wikileaks released the “confidential” program. It is entitled “Minority Engagement Strategy.”[1] Here Rivkin outlines a program that is a flagrant interference in the domestic affairs of a sovereign nation and, more profoundly, seeks to change the attitudes of generations of Muslim and French youth so that they merge into a new globalist synthesis; or what might be called a new humanity: Homo economicus, or what the financial analyst G. Pascal Zachary calls “The Global Me,”[2] to achieve what Rivkin describes as the USA’s “national interest.”

Rivkin begins by stating that his embassy has created a “Minority Engagement Strategy” that is directed primarily at Muslims in France. Rivikin states as part of the program: “We will also integrate the efforts of various Embassy sections, target influential leaders among our primary audiences, and evaluate both tangible and intangible indicators of the success of our strategy.”[3]

Rivkin is confident that France’s history of ideological liberalism “will serve us well as we implement the strategy outlined here . . . in which we press France . . .” Note the phrase: “press France.” America’s global agenda is linked by Rivkin to his blueprint for transforming France into “a  thriving, inclusive French polity [which] will help advance our interests in expanding democracy and increasing stability worldwide.” The program will focus on the “elites” of the French and the Muslim communities, but will also involve a massive propaganda campaign directed at the “general population,” with a focus on youth.

At high levels US officials will place French officials on the defensive. The program also includes redefining French history in the school curricula to give attention to the role of non-French minorities in French history. It means that the Pepsi/MTV generation of Americans will be formulating new definitions of French culture and writing new pages of French history to accord with globalist agendas. Towards this end: “. . . we will continue and intensify our work with French museums and educators to reform the history curriculum taught in French schools.”

“Tactic Number Three” is entitled: “Launch Aggressive Youth Outreach.” As in other states targeted by the US State Department and their allies at the Soros network, Freedom House, Movement.org, National Endowment for Democracy, Solidarity Center,[4] and so forth; disaffected youth are the focus for change. Leading the charge on this effort, the Ambassador’s inter-agency Youth Outreach Initiative aims to “engender a positive dynamic among French youth that leads to greater support for US objectives and values.” Can the intentions be stated any plainer? It is Americanization culturally and politically.

It is here that we can most easily get past the cant and clearly see what is behind the strategy: to form a generation “that leads to greater support for US objectives and values.” These “US objectives and values” will be sold to the French as French values on the basis of the bourgeois ideals of 1789 which continue to encumber French ideology on both Left and Right. They will be taught to think that they are upholding French traditions, rather than acting as agents of change according to “American values”: the values of the global village and the global shopping mall. A far-reaching program incorporating a variety of indoctrination methods is outlined:

To achieve these aims, we will build on the expansive Public Diplomacy programs already in place at post, and develop creative, additional means to influence the youth of France, employing new media, corporate partnerships, nationwide competitions, targeted outreach events, especially invited US guests.[5]

The program directed at youth in France is similar to that directed at the youth that formed the vanguard of the “velvet revolutions” from Eastern Europe to North Africa. Potential leaders are going to be taken up by the US State Department in France and cultivated to play a part in the future France of American design:

We will also develop new tools to identify, learn from, and influence future French leaders.

As we expand training and exchange opportunities for the youth of France, we will continue to make absolutely certain that the exchanges we support are inclusive.

We will build on existing youth networks in France, and create new ones in cyberspace, connecting France’s future leaders to each other in a forum whose values we help to shape — values of inclusion, mutual respect, and open dialogue.[6]

Here Rivkin is advocated something beyond influencing Muslims in France. He is stating that a significant part of the program will be directed towards cultivating French youth, the potential leaders, in American ideals, under the façade of French ideals. The US State Department and their corporate allies and allied NGOs intend to “shape their values.” The globalist program for France is stated clearly enough to be the re-education of French youth. One would think that this is the most important role of the French Government, the Catholic Church and the family; the latter two in particular. American bureaucrats and their inane sidekicks recruited from professions are to formulate new “French values.”

As in the states that are chosen for “velvet revolutions” part of the strategy includes demarcating the political confines. As Hillary Clinton recently stated in regard to the type of state the US Establishment expects to emerge after Qadaffi, the new Libya should be an inclusive democracy, open to all opinions, as long as those opinions include a commitment to “equality” and “democracy”; in other words, there must be a new dispensation of freedom in Libya, so long as that freedom does not extend beyond America’s definition of it. And if someone oversteps the lines of acceptable democracy, American bombers are on standby. In the context of France, however, it is clear that the demarcation of French politics according to globalist dictates cannot include any elements of so-ccalled “xenophobia” (sic), which in today’s context would include a return to the grand politics of the De Gaulle era. Hence, “Tactic 5” states:

Fifth, we will continue our project of sharing best practices with young leaders in all fields, including young political leaders of all moderate parties so that they have the toolkits and mentoring to move ahead. We will create or support training and exchange programs that teach the enduring value of broad inclusion to schools, civil society groups, bloggers, political advisors, and local politicians.[7]

Rivkin is outlining a program to train France’s future political and civic leaders. While the programs of US Government-backed NGOs, such as the National Endowment for Democracy — ostensibly designed to develop entire programs and strategies for political parties in “emerging democracies,” such as the states of the ex-Soviet bloc — can be rationalized by way of a lack of a heritage of liberal-democratic party politics, the same rationale can hardly be used to justify America’s interference in France’s party politics.

Towards this end Rivkin states that the 1,000 American English language teachers employed at French schools will be provided with the propaganda materials necessary to inculcate the desired ideals into their French pupils: “We will also provide tools for teaching tolerance to the network of over 1,000 American university students who teach English in French schools every year.”

The wide-ranging program will be co-ordinated by the “Minority Working Group” in “tandem” with the “Youth Outreach Initiative.” One of the problems monitored by the Group will be the “decrease in popular support for xenophobic political parties and platforms.” This is to ensure that the program is working as it should to block the success of any “extreme” or “xenophobic” party that might challenge globalization.

Rivkin clarifies the subversive nature of the program when stating: “While we could never claim credit for these positive developments, we will focus our efforts in carrying out activities, described above, that prod, urge, and stimulate movement in the right direction.”

What would the reaction be if the French Government through its Embassy in Washington undertook a program to radically change the USA in accordance with “French national interests,” inculcating through an “aggressive outreach program” focusing on youth, “French ideals” under the guise of “American ideals on human rights.” What would be the response of the US Administration if it was found that the French Government were trying to influence the attitudes also of Afro-Americans, American-Indians, and Latinos? What would be the official US reaction if it was found that French language educators in American schools and colleges were trying to inculcate American pupils with ideas in the service of French interests?

The hypothetical reaction can be deduced from the US response to the “Soviet conspiracy” when Senate and Congressional committees were set up to investigate anyone even vaguely associated with the USSR. So what’s different? The USA perpetrates a subversive strategy in the interests of it globalist cooperate elite, instead of in the interests of the USSR or communism. It is not as though the USA has had much of a cultural heritage that it can present itself to any European nation, let alone France, as the paragon of good taste and artistic refinement upon which a national identity can be constructed. It this matter, it is a case of deconstruction.

Notes

1. C. Rivkin, “Minority Engagement Report,” US Embassy, Paris, http://www.wikileaks.fi/cable/2010/01/10PARIS58.html

2. G. Pascal Zachary, The Global Me: Why Nations will succeed or Fail in the Next Generation (New South Wales, Australia: Allen and Unwin, 2000).

3. Rivkin.

4. K. R. Bolton, “The Globalist Web of Subversion,” Foreign Policy Journal, February 7, 2011, http://www.foreignpolicyjournal.com/2011/02/07/the-globalist-web-of-subversion/

5. Rivkin.

6. Rivkin.

7. Rivkin.

The Rivkin Project:
How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations, Part 3

Many nefarious aims have been imposed under the banner of multiculturalism and slogans such as “equality” and “human rights.” As “democracy” has been used to justify the bombing states throughout recent history, these slogans often serve as rhetoric to beguile the well-intentioned while hiding the aims of those motivated by little if anything other than power and greed.

One might think of the manner by which the issue of the Uitlanders was agitated to justify the Anglo-Boer wars for the purpose of procuring the mineral wealth of South Africa for the benefit of Cecil Rhodes, Alfred Beit, et al.

A similar issue was revived in our own time, under the name of “fighting apartheid,” and while the world was jubilant at the assumption to power of the ANC, the reality has been that the Africans have not benefited materially one iota, but the parastatals or state owned enterprises are being privatized so that they can be sold off to global capitalism. When the patriarch of South African capitalism, Harry Oppenheimer, whose family was a traditional foe of the Afrikaners, died in 2000,Nelson Mandela eulogized him thus:  “His contribution to building partnership between big business and the new democratic government in that first period of democratic rule can never be appreciated too much.”[1]

The “democracy” Oppenheimer and other plutocrats in tandem with the ANC created in South Africa is the freedom for global capital to exploit the country. Mandela stated the result of this “long march to freedom” in 1996: “Privatization is the fundamental policy of the ANC and will remain so.”[2] In commenting on the privatization of the Johannesburg municipal water supply, which is now under the French corporation Suez Lyonnaise Eaux, the ANC issued a statements declaring that: “Eskom is one of a host of government owned ‘parastatals’ created during the apartheid era which the democratically elected government has set out to privatise in a bid to raise money.”[3] It is the same outcome for South Africa that was achieved by the “liberation” of Kosovan minerals in the name of “democracy” and in the name of the rights of Muslims under Serb rule, while other Muslims under their own rule are bombed into submission by the USA and its allies.

The Aims of Global Capitalism

The nature of the globalist dialectic has been explained particularly cogently by Noam Chomsky:

See, capitalism is not fundamentally racist — it can exploit racism for its purposes, but racism isn’t built into it. Capitalism basically wants people to be interchangeable cogs, and differences among them, such as on the basis of race, usually are not functional. I mean, they may be functional for a period, like if you want a super exploited workforce or something, but those situations are kind of anomalous. Over the long term, you can expect capitalism to be anti-racist — just because it’s anti-human. And race is in fact a human characteristic — there’s no reason why it should be a negative characteristic, but it is a human characteristic. So therefore identifications based on race interfere with the basic ideal that people should be available just as consumers and producers, interchangeable cogs who will purchase all the junk that’s produced — that’s their ultimate function, and any other properties they might have are kind of irrelevant, and usually a nuisance.[4]

The Chomsky statement cogently expresses the situation in its entirety.

France as a Social Laboratory for Globalization

The Rivkin offensive is the latest in a long line of programs for undermining French identity. France is a paradox, combining the cosmopolitan values of the bourgeois Revolution of 1789 with a stubborn traditionalism and nationalism, which the globalists term “xenophobia.” It is manifested even in small ways such as the legal obligation of French public servants and politicians to speak only French to the foreign media, regardless of their knowledge of any other language; or the widespread resistance in France to McDonalds and Disney World.

France, like much of the rest of the world, however, is fighting a losing cultural battle against globalization. Jeff Steiner’s column “Americans in France,” refers to the manner by which the French at one time resisted the opening of the American fast food franchise as “part of an American cultural invasion.” Steiner writes:

. . . That seems to be past as McDonalds has so become a part of French culture that it’s not seen as an American import any longer, but wholly French. In short, McDonalds has grown on the French just like in so many other countries.

I’ve been to a few McDonalds in France and, except for one in Strasbourg that looks from the outside to be built in the traditional Alsatian style, all McDonalds in France that I have seen look no different than their American counterparts.

Yes, there are those that still curse McDo (They are now a very small group and mostly ignored) as the symbol of the Americanization of France and who also see it as France losing its uniqueness in terms of cuisine. The menu in a French McDonalds is almost an exact copy of what you would find in any McDonalds in the United States. It struck me as a bit odd that I could order as I would in the United States, that is in English, with the odd French preposition thrown in.

If truth were told, the French who eat at McDonalds are just as much at home there as any American could be.[5]

This seemingly trivial example is actually of immense importance in showing just how a culture as strong as that of France — until recently an immensely proud nation — can succumb, especially under the impress of marketing towards youngsters. It is a case study par excellence of the standardization that American corporate culture entails. It is what the globalist elite desires on a world scale, right down to what one eats.

It is notable that the vanguard of resistance to McDonalds came from farmers, a traditionalist segment of Europe’s population that is becoming increasingly anomalous and under the globalist regime will become an extinct species as agriculture gives way to agribusiness.

Given France’s status in Europe and its historical tendency to maintain its sovereignty in the face of US interests — even quite recently with its opposition to the war against Iraq — France remains one globalism’s few stumbling blocks in Europe. An added concern is that the French will take their stubborn “xenophobia” to the polls and elect a stridently anti-globalist party, as reflected in the electoral ups and downs of the Front National, which opposes both globalization and privatization.

This is a major reason for Rivkin’s far-reaching subversive and interventionist program to assimilate Muslims into French society, which would fundamentally transform French consciousness to be more thoroughly cosmopolitan. The intention is clear enough in the Rivkin embassy documents where it is stated that the Embassy will monitor the effects of the “outreach” program on the “decrease in popular support for xenophobic political parties and platforms.”

Contra the “xenophobia” of France, R. J. Barnet and R. E. Müller’s study of the global corporation, Global Reach,[6] based on interviews with corporate executives, shows that the French business elite has long been seeking to undermine the foundations of French tradition. Jacques Maisonrouge, president of the IBM World Trade Corporation “likes to point out that ‘Down with borders,’ a revolutionary student slogan of the 1968 Paris university uprising – in which some of his children were involved – is also a welcome slogan at IBM.”[7] Maisonrouge stated that the “World Managers” (as Barnett and Muller call the corporate executives) believe they are making the world “smaller and more homogeneous.”[8] Maisonrouge approvingly described the global corporate executive as “the detribalized, international career men.”[9] It is this “detribalization” that is the basis of a “world consumer culture” required to more efficiently create a world economy.

Paris is already a cosmopolitan center and therefore ideal as a prototype for the “global city” of the future. In the 1970s Howard Perlmutter and Hasan Ozekhan of the Wharton School of Finance Worldwide Institutions Program prepared a plan for a “global city.” Paris was chosen for the purpose. Prof. Perlmutter was a consultant to global corporations. His plan was commissioned by the French Government planning agency. Perlmutter predicted that cities would become “global cities” during the 1980s.

For Paris, this required “becoming less French” and undergoing “denationalization.” This, he said, requires a “psycho-cultural change of image with respect to the traditional impression of ‘xenophobia’ that the French seem to exude.” The parallels with the current Rivkin program are apparent. Perlmutter suggested that the best way of ridding France of its nationalism was to introduce multiculturalism. He advocated “the globalization of cultural events” such as international rock festivals, as an antidote to “overly national and sometimes nationalistic culture.”[10]

Undermining France’s “overly national and sometimes nationalistic culture” is the reason Rivkin sought to foster stronger connections between Hollywood and the French culture industry.[11] Rivkin knows the value of entertainment in transforming attitudes, especially among the young. After working as a corporate finance analyst at Salomon Brothers, Rivkin joined The Jim Henson Company in 1988 as director of strategic planning. Two years later, he was made vice president of the company.

The Jim Henson Company produces Sesame Street, whose cute little muppets push a well-calculated globalist agenda to toddlers. Lawrence Balter, professor of applied psychology at New York University, wrote that Sesame Street “introduced children to a broad range of ideas, information, and experiences about diverse topics such as death, cultural pride, race relations, people with disabilities, marriage, pregnancy, and even space exploration.” The series was the first to employ educational researchers, with the formation of a Research Department.[12] Sesame Street has received funding from the Ford Foundation, the Carnegie Corporation, and the US Office of Education. Of passing interest is that the Carnegie Corporation and the Ford Foundation are also patrons of the Pacific Council on International Policy.

Creating the World Consumer

As Chomsky has pointed out, global capitalism sees humanity in terms of interchangeable cogs in the production and consumption cycle. The summit of corporate human evolution is transformation into “detribalized, international career men.” According to financial journalist G. Pascal Zachary, these rootless cosmopolitans constitute an “informal global aristocracy” recruited all over the world by corporations, depending totally on their companies and “little upon the larger public,” a new class unhindered by national, cultural, or ethnic bonds.[13]

Barnett and Muller quoted Pfizer’s John J. Powers as stating that global corporations are “agents for change, socially, economically and culturally.”[14] They stated that global executives see “irrational nationalism” as inhibiting “the free flow of finance capital, technology, and goods on a global scale.” A crucial aspect of nationalism is “differences in psychological and cultural attitudes, that complicate the task of homogenizing the earth into an integrated unit. . . . Cultural nationalism is also a serious problem because it threatens the concept of the Global Shopping Center.”[15]

This “cultural nationalism” is described by Rivkin and all other partisans of globalism as “xenophobia,” unless that “xenophobia” can be marshaled in the service of a military adventure when bribes, embargoes and threats don’t bring a reticent state into line, as in the cases of Serbia, Iraq, and perhaps soon, Libya. Then the American globalist elite and their allies become “patriots.”

Barnet and Muller cite A. W. Clausen when he headed the Bank of America, as stating that national, cultural, and racial differences create “marketing problems,” lamenting that there is “no such thing as a uniform, global market.”[16] Harry Heltzer, Chief Executive Officer of 3M stated that global corporations are a “powerful voice for world peace because their allegiance is not to any nation, tongue, race, or creed but to one of the finer aspirations of mankind, that the people of the world may be united in common economic purpose.”[17]

These “finer aspirations of mankind,” known in other quarters as greed, avarice, and Mammon-worship, have despoiled the earth, caused global economic imbalance, and operate on usury that was in better times regarded as a sin. These “finer aspirations,” by corporate reckoning, have caused more wars than any “xenophobic” dictator, usually in the name of “world peace,” and “democracy.”

The Rivkin doctrine for France — which according to the leaked document, must be carried out in a subtle manner — is a far-reaching subversive program to transform especially the young into global clones devoid of cultural identity, while proceeding, in the manner of Orwellian “doublethink,” under the name of “multiculturalism.”

Notes

1. “Mandela honours ‘monumental’ Oppenheimer”, The Star, South Africa, August 21, 2000, http://www.iol.co.za/index.php?set_id=1&click_id=13&art_id=ct20000821001004683O150279 (accessed September 27, 2009).

2. Lynda Loxton, “Mandela: We are going to privatise,” The Saturday Star, May 25, 1996, p.1.

3. ANC daily news briefing, June 27, 2001. See also “Eskom,” ANC Daily News Briefing, June 20, 2001, 70.84.171.10/~etools/newsbrief/2001/news0621.txt

4. Noam Chomsky, Understanding Power: The Indispensable Chomsky (New York: The New York Press, 2002), pp. 88–89.

5. J. Steiner, “American in France: Culture: McDonalds in France, http://www.americansinfrance.net/culture/mcdonalds_in_france.cfm

6. R. J. Barnet and R. E. Müller, Global Reach: The Power of the Multinational Corporations (New York: Simon and Schuster, 1974).

7. Global Reach, p. 19. For an update on Maisonrouge see: IBM, http://www-03.ibm.com/ibm/history/exhibits/builders/builders_maisonrouge.html

8. Global Reach, , p. 62.

9. Global Reach, ibid.

10. Global Reach, pp. 113–14.

11. “2010 France Country Dialogue,” PCIP, op. cit.

12. L. Balter, Parenthood in America: An Encyclopaedia, Vol. 1 (ABC-CLIO, 2000), p. 556.

13. G. Pascal Zachary, The Global Me (New South Wales: Allen & Unwin, 2000).

14. Global Reach, p. 31.

15. Global Reach, p. 58.

16. Global Reach, ibid.

17. Global Reach, p. 106.

Céline épuré, les néogestapistes à la manoeuvre

Céline épuré, les néogestapistes à la manoeuvre
 
Flash - 10/02/2011
 

 

En cet hiver 2008, c'est le journaliste-écrivain Kleber Haedens qui était sur la sellette : on voulait baptiser du nom de ce Hussard un collège de la Garenne-Colombes. Or l'affreux Haedens a commis comme critique littéraire, voilà presque quatre-vingts ans, deux articles dans Je suis partout; il collaborait aussi à l'Action française. Scandaleux. Épuré, donc. Comme Jacques Chardonne, autre écrivain en Charentaises cher à feu Mitterrand (François) qui participa avant-guerre à un voyage d'agrément outre-Rhin... Et comme Florent Schmitt dont un enseignant découvrit parait-il au détour d'un article qu'il aurait lors du récital de Kurt Weill, en 1933, lancé un retentissant "Vive Hitler !" Alors, au trou, tout ce petit monde ! Au vide-ordures, les écrivains, les musiciens et leurs oeuvres, direction les poubelles de l'histoire !

C'est ce que l'on voudrait faire avec Céline, dont le cinquantenaire de la mort avait été inscrit cette année sur la liste des commémorations nationales. Une liste et un nom qui n'avaient jusqu'ici soulevé aucune objection jusqu'au jour où Serge Klarsfeld, le "chasseur de nazis", a sommé le ministre de la Culture de la nettoyer. Au nom des Fils et Filles de déportés juifs de France, il a menacé d'en appeler à Sarkozy si le Mitterrand du jour n'obtempérait pas. Bien joué, car s'il en a les initiales, Frédéric n'a pas les c... de son oncle François. Le tonton avait un penchant pour les jeux d'alcôve le neveu, lui, se couche. Car personne ne résiste plus à ceux qui voudraient que l'on eût été résistant dès 1930.

Et pendant ce temps, saint Genet...
Céline, vu d'aujourd'hui et d'ici, a certes écrit des horreurs. C'était un temps, c'était un ton. Qu'on relise la presse d'alors, les discours, les échanges fleuris dans les travées de l'Assemblée. On ne peut pas juger d'hier avec la morale ou l'amoralité d'aujourd'hui. Et Céline a payé : emprisonné au Danemark au lendemain de la guerre, rapatrié en France et condamné, pour collaboration, à un an d'emprisonnement, 50 000 francs d'amende, la confiscation de la moitié de ses biens et l'indignité nationale. Il a vécu le reste de sa vie à Meudon, écrivain et médecin.
Personne, aujourd'hui, ne peut lire —et n'a sans doute lu— les écrits "indignes" pour la bonne raison qu'ils sont depuis longtemps introuvables. Pour en juger, et pour instruire puisqu'il paraît que c'est le but, encore faudrait-il savoir de quoi l'on parle. Mais au train plombé où vont les choses, on peut même imaginer que le seul fait de les avoir dans sa bibliothèque pourrait conduire demain devant un tribunal.

La morale et la vertu se sont déplacées. Quand on lisait encore les introuvables de Céline, on cachait la prose d'un Jean Genet dans l'Enfer des bibliothèques. Autres temps, autres moeurs : le chantre de la dépravation, l'amoureux transi des assassins, le génial poète de la perversion a été fêté en grande pompe l'an passé, à l'occasion du centenaire de sa naissance. Pas de censure mais de grands coups d'encensoir pour l'écrivain qui chante avec lyrisme son bonheur pédophile et sa fascination pour les biscotos des ptits gars de la Milice et les SS bien costumés. Pas de problème pour Monsieur Klarsfeld et ses troupes de néogestapistes : Jean Genet n'aimait pas les nazis pour leurs idées, il rêvait juste de les sodomiser.

Dans cette nouvelle affaire Céline, on retiendra pour finir les propos de bon sens d'un Frédéric Vitoux, biographe du Dr Destouches et auteur de nombreux livres sur son oeuvre. De la polémique du jour, il dit : "Cent le mot "célébra6ons"qui est ambigu. Il ne s'agit pas de tresser des lauriers à l'écrivain. Le cinquantenaire de sa mort est une occasion de s'intéresser à son oeuvre, d'examiner à nouveau ses zones d'ombre. On ne peut tout de même pas nier que c'est l'un des plus grands écrivains français." Non, on ne peut pas, mais la littérature n'a rien à voir là-dedans.


Marie-Claire ROY
Flash, 10/02/2011

 

dimanche, 20 mars 2011

Jack Marchal, ribelle senza confini

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Jack Marchal, ribelle senza confini 

Articolo di Silvio Botto

da Linea Quotidiano del 10 marzo 2011
 
 
È il papà di tutti i “topi di fogna”, che quarant'anni fa sono usciti dalle cloache parigine e in breve hanno invaso le strade d'Europa, rimanendo ancor oggi il simbolo indomito di una volontà di ribellione che non conosce confini. Jack Marchal, 63 anni, è un artista francese versatile e poliedrico: musicista, fumettista, disegnatore, scrittore. Ma è grazie alla matita che è diventato famoso, grazie al tratto inconfondibile di vignettista della rivista satirica Alternative e in Italia de La voce della fogna.
 
Marchal ha raccontato in un'intervista come sono nati i rats maudits, i “topi maledetti” della destra studentesca francese, e come hanno fin da subito raccolto consenso negli ambienti universitari. «Dopo il '68 una miriade di gruppuscoli marxisti e dell'ultrasinistra aveva colonizzato le università e le riempiva di manifesti con testi noiosi, interminabili e ripetitivi – ha spiegato Jack Marchal – Noi del GUD (Gruppo di unione e difesa, formato da studenti di estrema destra reduci dall'esperienza della formazione Occident) cercavamo di distinguerci da quella banda di logorroici con slogan umoristici e una grafica alternativa. Non avevamo un simbolo, così decidemmo di contraddistinguere il nostro movimento usando i fumetti e le caricature. Quasi ogni giorno passavamo alcune ore nella sede del GUD a scherzare e disegnare: una volta mi è venuto in mente di tratteggiare un topo, visto che i nostri avversari ci definivano così, che commentava in modo caustico e pungente gli avvenimenti politici intorno a noi. Gérard Ecorcheville, che all'epoca gestiva la propaganda del GUD, esclamò: “Ma quel topo siamo noi!”. Avevamo trovato un simbolo per il nostro movimento».
 
carreladich.jpgÈ il mese di gennaio del 1970 e i volantini e ciclostilati del GUD, in cui appare il “topo maledetto”, poi circondato da altri personaggi (belle ragazze e squallidi barbuti falsi rivoluzionari), hanno subito un grande successo fra gli studenti. Negli anni successivi Marchal e alcuni dei suoi amici entrano in contatto con l'area giovanile del Msi che fa riferimento a Pino Rauti, in particolare con il dirigente giovanile Marco Tarchi. Dall'esperienza francese di Alternative e dall'entusiasmo di decine di giovani irrequieti e stufi del sonnolento ambiente missino, nel '74 prende il via l'esperimento de La voce della fogna, “giornale differente”, come recitava lo slogan sotto la testata. Un periodico satirico, irriverente, politicamente scorretto nei confronti dello stesso ambiente di provenienza, aperto alle novità non solo politiche, ma anche di costume.
 
E il simbolo della Voce della fogna non può che essere il rat maudit di Marchal, che ha ispirato persino il nome della testata. I giovani missini e i tanti ragazzi di destra ai margini del partito, nelle formazioni extraparlamentari, fanno così la conoscenza con un modo tutto nuovo di vedere e interpretare la militanza politica. Niente più riletture dei vecchi “testi sacri”, conferenze noiose dei notabili di partito, pellegrinaggi a Predappio e nostalgismi: sull'esempio francese si parla di immigrazione, economia, scienze sociali, ecologia, cinema, musica rock. Temi impegnativi, affrontati però con un pizzico di goliardia e di leggerezza. Inutile sottolineare che a farla da padrone sono le strisce a fumetti di Jack Marchal, che anche in Italia sdoganano il topi di fogna come simbolo ribelle e libertario da opporre al conformismo della sinistra marxista, verbosa e oppressiva.
 
Ma Jack Marchal è anche musicista e proprio in quegli anni sviluppa uno dei primi progetti di rock identitario, per di più transnazionale. È proprio lui a ricordarlo, nel corso di un'intervista: «Formammo il primo gruppo rock nazionalista. Il problema era di trovare altri musicisti, cosa che non è stata affatto facile visto che la maggior parte dei candidati preferiva fare cover dei Rolling Stones piuttosto che di fare pezzi nuovi. Ci limitammo perciò a comporre pezzi nostri e a registrarli con mezzi di fortuna. Avevamo la sensazione di essere veramente isolati nel nostro ambiente. La scossa arrivò con l'apparizione quasi simultanea, nel 1978 dei primi album dei Ragnarock in Germania e degli Janus in Italia. Questi due gruppi facevano una musica non sempre impeccabile ma con dei testi militanti come nessuno aveva mai fatto. Allora ci siamo detti: perché non noi? Mario Ladich degli Janus aveva una sala prove a Roma e si offrì di aiutarci. Lui era batterista e Olivier Carrè gli lasciò le bacchette e siccome era impossibile far venire altri musicisti a Roma per dieci giorni in pieno agosto mi sembrò più semplice suonare da me anche gli altri strumenti. Ecco come fu fabbricato Science & Violence, all'inizio di settembre 1979 a Roma».
 
Un disco innovativo e sofisticato, che rompe anche un po' con la tradizione della musica alternativa dell'epoca, ricca di passione ma povera di mezzi e di risorse artistiche. «Cantato interamente in francese - scrive il sito specializzato Italianprog.com - ma con lunghe parti strumentali, l'album è un esempio di musica progressiva di stampo chitarristico, con parti “spaziali” di synth. Tutti i brani sono di Jack Marchal, per cui il disco è spesso considerato un suo album solista». Nel 1997 è stato ristampato in cd. Tre anni prima Olivier Carrè - musicista, scultore e compagno di militanza politica di Marchal nel GUD – era morto a soli quarant'anni in un incidente motociclistico.
 
All'inizio degli anni Ottanta Jack diventa molto famoso in Italia anche per la sua partecipazione ai Campi Hobbit. Un'esperienza che oggi rilegge in modo un po' malinconico: «Forse sono severo, ma per me un Campo Hobbit consisteva nel far sentire musica a chi non la conosceva, a parlare di ecologia a gente che se ne fregava, a voler impiantare i concetti intellettuali della “nuova destra” a gente che era rimasta al “boia chi molla”. In poche parole, si cercava di imitare la sinistra giocando a essere quello che non si era. Viste in prospettiva storica, ho paura che queste esperienze non appaiano che come dei tentativi di gestire il declino militante».
 
A livello politico, nel '72 Jack Marchal è tra i fondatori del Front National, che lascia due anni più tardi in polemica con Le Pen per dar vita al Parti des Forces Nouvelles (PFN) , un movimento influenzato dalle idee della “Nuova destra” che dura dieci anni, senza particolari fortune elettorali. Nel 1984 Marchal rientra nel FN e da una decina d'anni ha ripreso pure l'attività di musicista con il gruppo di rock identitario francese Elendil. Con Frédéric Chatillon e Thomas Lagane nel 1995 ha pubblicato il volume Les Rats Maudits - Histoire des étudiants nationalistes.
 
«Ho riflettuto spesso sull'epoca 1969-70 – commenta Jack Marchal - Bisogna riconoscere che tutte le innovazioni furono il frutto di circostanze molto specifiche di un periodo in cui i giovani nazionalisti francesi si sono ritrovati soli, lasciati a se stessi in un mondo reduce dello choc del '68 e dove le organizzazioni nazionaliste strutturate erano scomparse. Noi siamo stati creativi in quel preciso momento, è vero, ma per necessità, senza volerlo e senza averne coscienza».
 
Silvio Botto