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mercredi, 29 janvier 2014

LA DISPERSIONE DEI CENTRI DI POTERE E LA TRANSIZIONE ALL’APOLARITÀ

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LA DISPERSIONE DEI CENTRI DI POTERE E LA TRANSIZIONE ALL’APOLARITÀ

Giovanni Caprara

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Gli equilibri globali del XXI secolo sono regolati da tre blocchi fra loro interrelati: Stati Uniti, Cina ed Unione Europea. Dal tramonto del bipolarismo, sancito dalla fine della guerra fredda dove USA ed URSS imperavano sul pianeta, le dinamiche economiche, politiche e militari europee ed asiatiche, hanno traghettato la società verso il multipolarismo. Una condizione più articolata e dai risvolti imprevedibili rispetto al periodo precedente. Gli attuali attori, molto probabilmente, saranno le superpotenze del futuro e questo potrebbe ingenerare la sfida di un mondo parallelo, ossia dei Paesi emergenti.

Il nuovo ordine è una diretta conseguenza della globalizzazione, con l’affermazione di economie un tempo deboli come quelle della Cina e dell’India. Le radicali differenze politiche, sociali e culturali, non sembrano consentire una integrazione coerente fra i Paesi emergenti e quelli dominanti, pertanto l’equilibrio dell’ordine mondiale non pare essere di semplice prevedibilità: al contrario la non facile coesistenza disperderà il potere in centri diversi. Le aree di influenza si allargheranno principalmente: all’Iran, all’Asia Centrale ed al Mar Cinese Meridionale e probabilmente, sarà la nascita del mondo apolare, ovvero l’incapacità dei Grandi a gestire la logica dell’economia e della politica.

Il 2014 è indicato dagli analisti come il momento di crescita dei cosiddetti BRICS, l’acronimo che unisce gli Stati di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, dove si svilupperanno i nuovi equilibri del pianeta in uno stadio di fluidità finanziaria, politica e militare. La crisi ha convinto gli investitori a tentare rendimenti migliori su mercati più difficili ma con cedole più alte, accrescendo le condizioni generali dei Paesi emergenti. Tale atteggiamento ha bilanciato il portafoglio a favore di queste aree sviluppandone le potenzialità. Nel 2014, gli esperti si attendono un consolidamento delle più importanti aziende dell’area BRICS.

Nell’ultimo decennio, l’incremento dell’economia planetaria ha dipeso per il 60% da questi cinque Paesi, modificando la geopolitica della produzione industriale. La controtendenza agli investimenti è l’inflazione e molti decisori dei mercati in via di sviluppo, stanno contrastando il fenomeno tentando di arginare l’uscita dei capitali dal proprio Paese. Il 2014 sarà interessato da una bassa valutazione dei rendimenti sul fronte obbligazionario nell’area BRICS e le valute più deboli si trasmuteranno in una nuova opportunità per gli investitori. In base ad un rapporto della Fitch Ratings, la crescita dei mercati in via di sviluppo sarà inferiore al previsto, ma superiore a quello delle economie avanzate. Il PIL cinese, nel 2014, ha una previsione di crescita pari al 7,5% e dovrebbe attestarsi al 7,0% nel 2015, l’area BRICS salirà dal 4,8% al 5,2% nello stesso biennio, dove gli Stati Uniti si fermeranno al 3,0%.

L’Europa rimarrà indietro con un previsionale fissato all’1,3% per tutto il 2015. Le riserve petrolifere africane sono il motore che sta conducendo l’economia del continente verso una maggiore consapevolezza; la Nigeria si è attestata come attore principale nelle dinamiche dell’Africa e quest’ultima nella globalità è seconda solo all’Asia. L’Economist ha stimato per il 2014 un incremento del prodotto interno lordo panafricano al 5,5%, dato che comprende anche il mancato sviluppo economico di Egitto, Libia e Tunisia.

Sulle economie forti, graverà la disoccupazione del ceto medio e se il settore di maggior crescita è quello elettronico, l’implementazione dell’intelligenza artificiale provocherà una ulteriore flessione occupazionale, almeno secondo un’indagine dell’Università di Oxford. In un prossimo futuro, è possibile un salto generazionale dell’interconnessione: la Intel ha anche previsto una diminuzione consistente del costo dei chip e ciò li renderà utilizzabili in qualsiasi settore ed anche a Nazioni non tecnologicamente avanzate, innalzando la possibilità di attacchi cibernetici. Ciò vuol dire l’intrusione nell’informazione e nei sistemi di comunicazione avversari, allo scopo di piratare o distruggere dati riservati. Il bruco Stuxnet, ha rappresentato una forte implementazione delle armi digitali, in quanto sembra che sia riuscito ad infettare 45.000 sistemi di controllo industriale della Siemens, agevolando gli incursori alla manipolazione dei processi tecnici degli impianti nucleari iraniani, benchè Stati Uniti ed Israele abbiano declinato qualsiasi responsabilità. Il mercato per migliorare le risorse informatiche, vale 10 milioni di dollari e tende allo sviluppo di strumenti adatti alla distruzione, interdizione, degradazione ed usurpazione delle reti di mappature, come precisato in un documento dell’USAF. Dunque la guerra cibernetica è definibile come un nuovo livello di scontro, dove l’arma più semplice può essere una chiavetta USB. Il conflitto asimmetrico dell’informatica è risultato essere una minaccia tecnologica e geopolitica, la quale potrebbe tendere al fallimento del governo globale, laddove la guerra cibernetica possa tramutarsi in un’arma per la disinformazione attraverso internet od anche a disposizione dei terroristi.

Tra gli altri, un conflitto virtuale è stato sofferto dalla Corea del Sud, dove furono presi di mira i bancomat ed i siti web e questo dimostra inequivocabilmente che la guerra cibernetica è estesa anche alle Aziende civili, trasformando di fatto il comparto finanziario e le imprese in un nuovo e più imprevedibile campo di battaglia. L’acquisizione forzosa di dati sensibili, vuole significare il trasferimento dei segreti di una Nazione, privandola di fatto della sua ricchezza tecnologica, a favore di elementi ostili. Pertanto, laddove uno Stato Emergente entrerà in possesso di informazioni utili al proprio sviluppo, automaticamente diverrà un nuovo centro di potere incoraggiando il processo di apolarità. Uno dei Paesi BRICS, la Cina, è stata accusata dagli Stati Uniti di aver perpetrato episodi inerenti alla pirateria informatica: tale addebito è stato mosso dall’azienda di sicurezza informatica Mandiant, che ha indicato come responsabile l’unità 61398 dell’Esercito popolare di liberazione, la quale è incaricata della Sigint del Paese, ossia della raccolta di informazioni attraverso l’intercettazione e l’analisi dei segnali trasmessi da potenze straniere. Per violare i computer si utilizzano IP di altri sistemi a loro volta piratati, detti hop points, e per identificare gli intrusi è necessario percorrere a ritroso i passaggi effettuati da quest’ultimi, sino ad individuare gli indirizzi cibernetici di origine. In questo caso, la provenienza venne accertata a Shanghai, proprio nella strada in cui ha base l’unità 61398.

A seguito di questi addebiti, la Cina ha formalmente accusato a sua volta gli Stati Uniti, i quali si sarebbero resi rei di aver violato 16 mila pagine web cinesi, di cui 2.000 governative. Dei 73 mila indirizzi IP rintracciati a ritroso dall’unità 61398, la maggior parte sono risultati essere statunitensi. Nel 2013, l’affermazione delle economie emergenti ha consacrato le obbligazioni in valuta locale, le quali sono state in linea con la crescita interna e le dinamiche dell’inflazione, i cui indicatori sono prevalentemente al ribasso. Nel 2014 questo ciclo si dovrebbe stabilizzare, con la probabile conseguenza di una competizione fra le banche centrali, al fine di creare liquidità per scongiurare la pressione della rivalutazione monetaria. L’OCSE prevede un futuro che vedrà la Cina assoluta protagonista sui mercati, con una proiezione tale da diventare la prima economia entro il 2016. Il tasso medio di crescita è stimato all’8%, con un piano di investimenti che dovrebbe interessare i settori immobiliari, agricoli, energia ed infrastrutture. La previsione su quest’ultime appare piuttosto scontata, in quanto sono carenti in tutte le Aree in via di sviluppo, pertanto possono facilmente essere identificate come incentivo ad investimenti remunerativi.

L’Europa è il maggior importatore dei prodotti cinesi che incide del 20% sul PIL regionale, ma la crisi economica ha ridotto il livello di acquisizione, pesando sulla proiezione del Governo Centrale, il quale, come detto, si è prefissato l’obiettivo di crescita al 7,5%, dunque in leggera controtendenza al previsionale dell’OCSE. Il punto debole dell’espansione finanziaria cinese è nell’allargamento della classe media urbana, dove alla consapevolezza del suo peso sociale, si contrappone l’ineguaglianza delle aree rurali, ancora poco sviluppate. L’incremento della domanda sul mercato interno è la possibile svolta per compensare queste differenze marcate, ma soprattutto per tenere costante il livello di crescita. Pertanto, sarebbe auspicabile una trasposizione ad un modello economico avanzato, dove l’esportazione non sia l’unica base per il benessere dei ceti sociali cinesi. L’apolarità sembra però fondare il suo inizio proprio in Europa, dove la storia e gli interessi contraddittori e divergenti rischiano di frammentarla: i Paesi nordici, rispettano le regole comunitarie al contrario di quelli del sud, bisognosi di aiuti economici. Potrebbe essere un momento di mancata solidarietà fra Nazioni appartenenti ad una stessa unione, forse incentivata dalla debolezza franco-tedesca, con il Presidente francese ed il Cancelliere tedesco divisi dalla fede politica. La diversità delle posizioni assunte sulla risoluzione della crisi siriana è una possibile indicazione della frammentazione europea, con la Francia allineata agli Stati Uniti, il non interventismo della Germania, la tattica di attesa britannica e l’auspicio italiano sulla risoluzione politica. Un segno di distensione, approvato anche dal Governo italiano, è nella proposta transalpina di una ritrovata integrazione europea basata sull’occupazione, sulla convergenza fiscale ed uno sforzo comune per accelerare la crescita, condizioni che se non dovessero avere un riscontro sul breve termine, potrebbero tornare ad ingenerare gli attriti.

Per alcuni analisti, l’apolarità è definibile come una paralisi del sistema, da addebitare ad una diminuzione generalizzata del potere in tutte le aree, dove nessun Paese sarà in grado di regolare le dinamiche politiche, economiche e militari a livello globale. Di fatto si genereranno tanti piccoli centri di valore strategico. Il numero dei Governi assunti a ruoli importanti sta aumentando ed a questi si aggiungono l’FMI, il WTO, organizzazioni private, istituzioni finanziarie e le multinazionali, tanti soggetti che pesano sul dinamismo internazionale. L’instabilità nel Pacifico e nel Mar Cinese con l’attrito fra Cina, Giappone, Corea del Nord ed USA, sono i nuovi focolai di destabilizzazione, responsabili anche del processo di apolarità, dunque alla incapacità delle superpotenze a tenere saldo il controllo sull’evoluzione della situazione. L’alternativa a questa futuribile condizione rimane la multipolarità, con gli Stati Uniti come attore protagonista, coadiuvati dalle Nazioni continentali con la geopolitica a substrato delle Relazioni internazionali. E’ auspicabile che siano i Paesi del BRICS, piuttosto che dell’Area degli Emergenti, ad indicare quali siano gli attori del sistema globale ed il ruolo che essi stessi intenderanno assumere negli equilibri internazionali.


Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org

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mardi, 28 janvier 2014

France – Arabie saoudite: liaison dangereuse

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Aymeric Chauprade
 
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France – Arabie saoudite: liaison dangereuse

Ex: http://www.toutsaufsarkozy.com

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Au moment où les États-Unis et la Russie démontrent qu’une sortie de crise pacifique est possible à propos de l’Iran, Paris choisit de s’aligner sur les positions bellicistes de l’Arabie saoudite face à la Syrie et l’Iran.


Comment expliquer que la France qui, du général de Gaulle jusqu’à Jacques Chirac, avait maintenu séculairement notre tradition d’équilibre en politique étrangère, puisse aujourd’hui autant s’en écarter ?


L’Arabie saoudite est certes le premier producteur et exportateur de pétrole mais elle est, avant tout, le cœur « nucléaire » d’un islam rigoriste, conquérant et même terroriste. Longtemps allié des États-Unis aux côtés d’Israël pour détruire les régimes arabes modernisateurs, le royaume wahhabite est, partout dans le monde, la source première de la radicalisation de l’islam. Tant que l’État profond saoudien et ses services secrets séviront, aucun islam apaisé ne pourra l’emporter dans le monde musulman, aucune tradition locale ne pourra tempérer le Coran et aucune paix véritable ne sera possible entre le monde islamique et les autres civilisations. L’État saoudien est responsable de l’implosion syrienne et des 130 000 morts qui en résultent, des décapitations de chrétiens par les hordes salafistes, comme il est sans doute derrière l’attentat de Volgograd en Russie.


Est-ce donc avec ce pays qui coupe des mains d’enfants, réprime physiquement les homosexuels et réduit les femmes et les travailleurs immigrés à l’esclavage, que le « pays des droits de l’homme » entend refonder sa politique arabe au Moyen-Orient? J’ai toujours défendu la realpolitik et je ne ne suis pas un partisan de l’idéalisme en politique étrangère, mais il y a des limites au cynisme et au « court-termisme ». Or, avec l’Arabie saoudite, nous, Français, entrons en contradiction avec ce que nous sommes !


Nous avons, au minimum, 6 millions de musulmans qui vivent sur le territoire français, dont l’immense majorité est sunnite. Voulons-nous que l’enchevêtrement économique de la France et de l’Arabie saoudite favorise la radicalisation des Français musulmans ? On ne peut pas faire la guerre contre le fondamentalisme islamique, soutenu par l’Arabie saoudite et le Qatar, au Mali et jusqu’en Centrafrique, et prétendre, en même temps, faire de Riyad notre meilleur allié au Moyen-Orient. Notre politique étrangère ne peut s’asseoir sur ce paradoxe intenable alors que bien d’autres choix sont possibles, à commencer par un retour en Iran, un pays bien plus prometteur sur le plan économique et humain.


L’Iran a autant de pétrole (2e réserve mondiale) et bien plus de gaz (2e réserve mondiale) que l’Arabie saoudite ; c’est surtout un État multimillénaire solide qui se réformera quand l’Arabie saoudite, wahhabite dans ses fondements, ne pourra le faire. Avec la Russie, l’Iran est sans doute l’allié stratégique et énergétique naturel de l’Europe, sur le continent eurasiatique où la Chine de demain pèsera lourd.


Les États-Unis sont en train de se dégager en douceur de l’alliance avec l’Arabie saoudite et ce n’est pas un hasard si, au même moment, des voix (Congrès, justice) s’élèvent à Washington pour réexaminer les liens troubles entre Al-Qaïda et l’Arabie saoudite à propos du 11 septembre. Il n’est pas impossible que les Américains « gardent au chaud » quelques révélations qui pourraient s’avérer bien embarrassantes pour la France lorsque celle-ci se sera enfoncée plus profondément et imprudemment encore dans l’alliance saoudienne…

The Great Nicaraguan Canal

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The Great Nicaraguan Canal, or the Chinese puzzle for America

Nil NIKANDROV

Ex: http://www.strategic-culture.org

 
The idea of building an interoceanic canal through Nicaragua, similar to the Panama Canal but deeper and wider, has inspired the Nicaraguans for decades. There have been a number of obstacles to the realisation of this idea, but the main obstacle has been sabotage by the US, for whom the implementation of large-scale projects in a country ruled by Sandinistas is completely unacceptable. 

The operation of the Panama Canal, despite the formal transfer of control to Panama in 2000, is firmly tied to the military-strategic and geopolitical interests of the US. In recent years, crisis situations have been created in many regions of the world through the efforts of the Pentagon, and there is no guarantee that such events will not also take place in Latin America. This is exactly why the news regarding the forthcoming construction of the Great Nicaraguan Canal (GNC) was received so enthusiastically by the Latin Americans. The alternative interoceanic route – a call of the times – is an international megaproject costing USD 50 billion that could be a controlling factor on the imperial ambitions of the US. The construction of the canal is expected to begin at the end of 2014-beginning of 2015.

Nicaraguan President Daniel Ortega has taken a gamble on China, Russia and Brazil for this project. The United States, meanwhile, has taken a backseat, which is why Washington has rejected every opportunity for US companies to take part in GNC’s construction. In fact Managua did not expect any different from the Americans, and the promotion of the project began without them.

In July 2012, the National Assembly of Nicaragua passed a law prepared by the government «On the legal status of the Great Interoceanic Canal and the creation of its management structure». This structure (The Authority of the GNC) is authorised to build the canal, and will also be responsible for its future upkeep. It has become known that the project’s investor is Empresa Desarrolladora de Grandes Infraestructuras S.A. (EDGISA). The Authority of the Great Interoceanic Canal and EDGISA have signed a contract with the Chinese company HK Nicaragua Canal Development Investment, which has been given the authority to develop the project. The agreement also contains a clause on the special functions of the project’s operator, which will be responsible for ensuring the development of the infrastructure and the management of the construction, as well as dealing with shareholders. The operator company HKND Group Holdings Limited, which was registered on the Cayman Islands in November 2012, is managed by experienced Chinese businessman Wang Jing, who enjoys support at the highest state level...

There are a number of confidential issues in the GNC’s construction plans, as there are in any large-scale business projects. Making sense of these intricacies is difficult for even the most experienced third-party analysts. An important provider of regional support for the GNC is Venezuela, which is increasing its volume of oil supplies to China. Every now and then, Rafael Ramírez, Venezuela’s energy minister, issues politically correct statements on maintaining the volume of oil exports to China, while at the same time statements that are making Washington uneasy can be heard from the mouths of Venezuelans: «We are selling oil to China because it is the second-largest economy in the world and soon it will be the largest. While the US and Europe are in crisis, the Chinese economy continues to grow». Oil experts are interpreting Ramirez’s words like this: China will eventually become the main importer of Venezuelan oil, both heavy crude oil and light crude oil. Preparation for this is under way, as evidenced by China’s programme for the construction of large-capacity tankers for the Venezuelan oil company PDVSA. The first of four «Carabobo» VLCC-class tankers with a capacity of 320,000 deadweight tons was launched in September 2012. Tankers of this class can carry up to two million barrels of oil in a single voyage.

The Panama Canal, which was designed for vessels with a maximum capacity of up to 130,000 deadweight tons, cannot cope with the intensity of modern-day interoceanic traffic. Work is being carried out at an increased rate to widen the canal for the passage of higher-tonnage vessels. This is unlikely to provide a satisfactory solution, however. The reconstruction of the canal currently under way will allow for the passage of vessels with a capacity of up to 170,000 tons, but there are already hundreds of vessels in existence today that would be unable to use it. In the future, the number of large-capacity tankers (up to 250,000 tons and more) will increase tenfold. 

The Nicaraguan Canal will further promote trade and economic ties between countries in Latin America and the BRICS group of countries (Brazil, Russia, India, China and the Republic of South Africa). The realisation of the Nicaraguan megaproject will be yet further confirmation that Washington’s positions in Latin America are weakening, and that the region is being fiercely infiltrated by other powers, competition from which is neutralising the hegemonic claims of the US. And this is not happening just anywhere, but in those territories that were previously considered to be the Empire’s back yard.

The US Administration is trying to break this trend and create new alliances like the Pacific Alliance in order to undermine the processes of Latin American integration. It is also promising soft forms of cooperation with NATO to its closest allies, as happened with Colombia. The various methods of weakening, and in the long term removing, the authority of the Sandinista government have been miscalculated. In order to solve this issue, one of the largest US embassies in the Western Hemisphere has been set up in Nicaragua. It is headed by Phyllis Powers, who has experience of working in Panama. 

Issues related to the GNC are a priority for the US Embassy in Nicaragua. The objectives set are comprehensive: to gather information on the project’s key organisers and China’s intentions regarding the use of the canal for military purposes, including the creation of naval bases, expose corrupt schemes and so on. An exceptional amount of attention is being paid to the development of recommendations on how to compromise the project, the preparation of ideas for the introduction of propaganda campaigns regarding its lack of potential and its unprofitability, and so forth. 

On the whole, Daniel Ortega’s government is aware of these plans and intentions. This is possibly why (for preventive purposes) the Nicaraguan Foreign Ministry published a list of all diplomatic missions accredited in the country. As a rule, each mission includes between three and ten employees, whereas the US Embassy in Managua provides work to no less than one hundred Americans. As well as this, there are also the Peace Corps, USAID Agency employees, and a good ten other suspicious «charitable» organisations operating in the country. 

Ambassador Phyllis Powers’ right-hand man is Charles Barclay, who has 25-years of experience working in the State Department. One of his missions was in Mexico, where Barclay was in charge of a political intelligence agency and became famous for regularly sending encrypted telegrams to CIA headquarters on the alarming penetration of mythical Iranian terrorists into the country of Aztecs. The subject was a fashionable one, and the resident earned his stripes for it. In Cuba, Barclay was responsible for the organisation of a dissident group of journalist bloggers and the financing of their activities. Now in Nicaragua, the authorities are aware of Barclay’s true mission and the critically dangerous concentration of US intelligence agency employees in the country. 

The Nicaraguan authorities are also aware of the NSA Task Force operating under the roof of the embassy, which is carrying out electronic surveillance of government agencies, military leaders and security agencies. US intelligence agencies in the country are also carrying out the phased implementation of destabilisation scenarios. One of the main objectives is to review the dubious GNC agreements with the Chinese, and then reject the project under the pretext of the exposure of numerous cases of corruption. The names of people from Daniel Ortega’s inner circle who are allegedly using the project for the purposes of personal enrichment are already being bandied about in the press. 

It is noteworthy that at the end of last year, the US State Department criticised the ruling Sandinista National Liberation Front over the reform of its Constitution. The State Department called the proposals «anti-democratic». If the reform is approved, it will allow Ortega to run for a fourth term in the 2016 elections. 

The battle for and against the GNC is still going on, and it seems that the US is planning to use its entire arsenal of covert warfare in order to «cleanse» Nicaragua of both the Chinese and the Sandinistas. 

lundi, 27 janvier 2014

La invasión israelí de Gaza y los campos marinos de gas

 
por Prof. Michel Chossudovsky
 

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La invasión militar de Gaza por parte del ejército israelí en diciembre de 2008 tiene una relación directa con el control y posesión de las estratégicas reservas marinas de gas.

 

Se trata de una guerra de conquista. En la costa de Gaza hay unas inmensas reservas de gas que se descubrieron en 2000.

 

En un acuerdo firmado en noviembre 1999 la Autoridad Palestina (AP) concedió los derechos durante 25 años de prospección de gas y de petróleo a British Gas (BG Group) y a su socio ubicado en Atenas Consolidated Contractors International Company (CCC), propiedad de las familias libanesas Sabbagh y Koury.

 

Estos derechos sobre los campos marinos de gas corresponden en un 60% a British Gas, un 30% a Consolidated Contractors y un 10% al Fondo de Inversión de la Autoridad Palestina (Haaretz, 21 de octubre de 2007).

 

El acuerdo entre la AP y BG-CCC incluye la explotación de los campos y las construcción de un gaseoducto (Middle East Economic Digest, 5 de enero de 2001).

 

La licencia de BG cubre toda la zona marítima de Gaza, que es contigua a varias instalaciones marítimas de gas israelíes (véase el mapa abajo). Hay que indicar que el 60% de las reservas de gas a lo largo del litoral de Gaza e Israel pertenece a Palestina.

 

El grupo BG perforó dos pozos en 2000: Gaza Marina-1 y Gaza Marina-2. British Gas calcula que las reservas son del orden de 1.4 billones de metros cúbicos, valorados en unos 4.000 millones de dólares, según cifras hechas públicas por British Gas. El tamaño de las reservas de gas de Palestina podría ser mucho mayor.

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¿Quién es dueño de los campos de gas?

 

La cuestión de la soberanía sobre los campos de gas de Gaza es fundamental. Desde un punto de vista legal, las reservas corresponden a Palestina.

 

La muerte de Yasser Arafat, la elección del gobierno de Hamas y la debacle de la Autoridad Palestina han permitido a Israel establecer un control de facto sobre las reservas marítimas de gas de Gaza.

 

British Gas (Grupo BG) ha estado tratando con el gobierno de Tel Aviv y ha ignorado al gobierno de Hamas en lo que concierne a la explotación y derechos de prospección de los campos de gas.

 

La elección del primer ministro Ariel Sharon en 2001 supuso un momento crucial. El Tribunal Supremo israelí puso en tela de juicio la soberanía palestina sobre los campos marítimos de gas. Sharon declaró taxativamete que “Israel nunca compraría gas de Palestina”, dando a entender que las reservas marítimas de gas de Gaza pertenecen a Israel.

 

En 2003 Ariel Sharon vetó un acuerdo inicial que permitiría a British Gas suministrar a Israel gas natural de los pozos marítimos de Gaza (The Independent, 19 de agosto de 2003).

 

La victoria electoral de Hamas en 2006 provocó la desaparición de la Autoridad Palestina, que quedó confinada a Cisjordania, bajo el régimen mandatario de Mahmoud Abbas.

 

En 2006 British Gas “estuvo cerca de firmar un acuerdo para bombear gas a Egipto” (The Times, 23 de mayo de 2007). Según se informaba, el primer ministro británico Tony Blair intervino en nombre de Israel con el objetivo de hacer fracasar el acuerdo con Egipto.

 

Al año siguiente, en mayo de 2007, el gobierno israelí aprobó una propuesta del primer ministro israelí Ehud Olmert “de comprar gas a la Autoridad Palestina”. Se proponía un contrato de 4.000 millones de dólares, con unos beneficios del orden de 2.000 millones, mil de los cuales iba a los palestinos.

 

Sin embargo, Tel Aviv no tenía intención de compartir los ingresos con los palestinos. El gobierno israelí nombró un equipo de negociadores para discutir un acuerdo con el Grupo BG pasando por encima tanto del gobierno de Hamas como de la Autoridad Palestina: “Las autoridades de defensa israelíes quieren que se pague a los palestinos en bienes y servicios, e insisten en que no irá dinero alguno al gobierno controlado por Hamas” (Ibid).

 

El objetivo era fundamentalmente anular el contrato firmado en 1999 entre el Grupo BG y la Autoridad Palestina bajo Yasser Arafat.

 

Según el acuerdo propuesto en 2007 con BG, el gas palestino de la costa de Gaza iba a ser canalizado a través de un gaseoducto submarino al puerto israelí de Ashkelon y, por consiguiente, se iba a transferir a Israel el control sobre la venta del gas natural.

 

El plan fracasó y se suspendieron las negociaciones:

 

“El director del Mossad Meir Dagan se opuso a la transacción por motivos de seguridad, [afirmando] que el dinero recaudado serviría para financiar el terrorismo” (Miembro del Knesset Gilad Erdan, comparecencia ante el Knesset sobre “La intención del viceprimer ministro Ehud Olmert de comprar gas a los palestinos cuando el dinero pagado servirá a Hamas”, 1 de marzo de 2006, citado por el teniente genera (retirado) Moshe Yaalon, Does the Prospective Purchase of British Gas from Gaza’s Coastal Waters Threaten Israel’s National Security? , Jerusalem Center for Public Affairs, octubre de 2007).

 

La intención de Israel era evitar que se pagaran tasas a los palestinos. En diciembre de 2007 el Grupo BG abandonó las negociaciones con Israel y en enero de 2008 cerró su oficina en Israel (Página web de BG).

 

El plan de invasión sobre la mesa

 

Según fuentes militares israelíes, el plan de invasión de Gaza bajo la “Operación Plomo Fundido” se puso en marcha en junio de 2008:

 

“Fuentes de defensa afirmaron que el ministro de Defensa Ehud Barak ordenó al ejército israelí que se preparara para la operación hace unos seis meses [junio o antes de junio], a pesar de que Israel estaba empezando a negociar un acuerdo de alto el fuego con Hamas.”(Barak Ravid, Operation “Cast Lead”: Israeli Air Force strike followed months of planning, Haaretz, 27 de diciembre de 2008).

 

Ese mismo mes las autoridades israelíes contactaron con British Gas con vistas a reanudar las negociaciones concernientes a la compra de gas natural de Gaza:

 

“Tanto el director general del ministerio de Finanzas Yarom Ariav como el director general del ministerio de Infraestructuras Hezi Kugler han acordado comunicar a BG la intención de Israel de reanudar las negociaciones. Las fuentes añadieron que BG todavía no ha respondido oficialmente a la petición de Israel, pero es probable que ejecutivos de la compañía acudan a Israel dentro de pocas semanas para entablar negociaciones con los funcionarios del gobierno [israelí] ” (Globes online, Israel’s Business Arena, 23 de junio de 2008).

 

La decisión de acelerar las negociaciones con British Gas (Grupo BG) coincidió en el tiempo con la planificación de la invasión de Gaza que se inició en junio. Parecía que Israel anhelaba llegar a un acuerdo con el Grupo BG antes de la invasión, cuya planificación ya se encontraba muy avanzada.

 

Además, el gobierno de Ehud Olmert encabezó estas negociaciones sabiendo que se estaba planificando la invasión. Lo más probable era que gobierno israelí también contemplara un acuerdo político-territorial “post guerra” para Gaza.

 

De hecho, en octubre de 2008, dos o tres meses antes del comienzo de los bombardeos el 27 de diciembre, estaban en marcha las negociaciones entre British Gas y los altos cargos israelíes.

 

En noviembre de 2008 el ministro israelí de Finanzas y el de Infraestructuras ordenaron a Israel Electric Corporation (IEC) que entrara en las negociaciones con British Gas sobre la compra de gas natural de la concesión marítima de BG en Gaza (Globes, 13 de noviembre de 2008).

 

“El director general del ministerio de Finanzas Yarom Ariav como el director general del ministerio de Infraestructuras Hezi Kugler escribieron recientemente al director de IEC Amos Lasker para informarle de la decisión del gobierno de permitir que las negociaciones siguieran adelante, en la línea de la propuesta marco que aprobó a principios de este año.

 

El consejo de administración de IEC, encabezado por su presidente Moti Friedman, aprobó los principios de la propuesta marco hace unas semanas. Las conversaciones con el Grupo BG empezarán una vez que el consejo de administración apruebe la exención de la oferta” (Globes, 13 de noviembre 2008).

 

Gaza y la geopolítica de la energía

 

El objetivo de la ocupación militar de Gaza es transferir a Israel la soberanía de los campos de gas en violación del derecho internacional.

 

¿Qué se puede esperar tras la invasión?

 

¿Cuál es la intención de Israel respecto a las reservas naturales de gas de Palestina? ¿Un nuevo acuerdo territorial, con el estacionamiento de tropas israelíes y/o de “tropas de mantenimiento de paz”? ¿La militarización de toda la costa de Gaza, que es estratégica para Israel? ¿Confiscar pura y simplemente los campos de gas palestinos y declarar unilateralmente la soberanía israelí sobre las zonas marítimas de Gaza?

 

En ese caso, los campos de gas de Gaza entraría a formar parte de las instalaciones marítimas de Israel, que son contiguas a las de la costa de Gaza (véase supra Mapa 1).

 

Todas estas instalaciones marítimas también están unidas al corredor de transporte de energía de Israel que se extiende desde el puerto de Eilat, que es una vieja terminal de oleoducto, al puerto-terminal de oleoducto del mar Rojo y por el norte a Haifa. La idea es que se acabe uniendo por medio de oleoducto israelo-turco, en fase de estudio, al puerto turco de Ceyhan. Cyhan es la terminal de oleoducto transcaspio Baku-Tblisi-Ceyhan (BTC): “Lo que se está considerando es unir el oleoducto BTC al oleoducto Trans-Israel Eilat-Ashkelon, también conocido como Israel’s Tipline” (véase Michel Chossudovsky, The War on Lebanon and the Battle for Oil, Global Research, 23 de julio de 2006)

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Fuente: GlobalResearch

 

vendredi, 24 janvier 2014

Quo vadis Nato?

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Quo vadis Nato?

von Hans Christoph von Sponeck

Ex: http://www.zeit-fragen.ch

Menschenrechte, Militäreinsätze, geopolitische Interessen sind drei Schlagworte der Nato, die zu drei gewichtigen Fragen führen:
1.    Menschenrechte für wen?
2.    Militäreinsätze von wem und in wessen Auftrag?
3.    Geht es um geopolitische Interessen oder globalpolitische Entscheidungen?

Nato 1949

Das Washingtoner Abkommen von 1949 (Nato-Vertrag) verlangt die «friedliche» Beilegung von Konflikten und erklärt, dass die geopolitischen Interessen des transatlantischen Bündnisses nicht über die Landesgrenzen der Nato-Mitgliedstaaten hinausgehen! Der Nato-Vertrag weist darauf hin, dass Nato-Staaten das Recht der Vereinten Nationen (die Charta der Vereinten Nationen) als für sie bindend anerkennen und Subsidiarität akzeptieren. Das heisst, Menschenrechte gelten für alle, geopolitische Interessen der Nato-Staaten beschränken sich auf deren Territorium, und Militäreinsätze sind nur dann zulässig, wenn es um die Verteidigung des Nato-Gebiets geht. Einen Vorbehalt der Nato hat es aber trotzdem schon damals gegeben: Die Nato-Staaten sollten entscheiden, ob der Uno-Sicherheitsrat die «richtigen» Schritte unternommen hat. Sollte dies ihrer Meinung nach nicht der Fall sein, würden sie im Sinne des Artikels 5 des Nato-Vertrags handeln – ohne Bezug auf Artikel 51 der Uno-Charta. Hier zeigt sich, dass die Nato-Führung von Anfang an so dachte, wie sie heute handelt! Damit wurde und wird das Monopolrecht des Uno-Sicherheitsrats in Frage gestellt, denn nur er hat das Recht zu entscheiden, ob mit militärischen oder anderen Mitteln einzugreifen ist.

Nato 2013

In den 64 Jahren seit der Gründung der Nato haben sich die internationalen Beziehungen erheblich verändert. Die Nato der 12 Staaten im Jahr 1949 ist 2013 zu einer Nato der 28 Staaten geworden. Die Nato hat sich in diesen Jahren der Hyper-Vernetzung immer mehr als weltweite sicherheitspolitische Einrichtung aufgebaut. «Wir sind bereit, den ­politischen Dialog und die praktische Zusammenarbeit mit jeder Nation zu führen und weltweit mit Organisationen zusammenzuarbeiten, die ‹unsere› Interessen für friedliche internationalen Beziehungen teilen», heisst es in der Nato-Strategie von 2010.
Weiterhin besteht die Nato darauf, dass es zu ihren Aufgaben gehört, sich mit allen grossen überregionalen Fragen der militärischen und menschlichen (!) Sicherheit zu befassen. Eine erste Priorität in diesem Sinn gehört der Energiesicherheit. US-Senator Lugar ging einen Schritt weiter, als er darauf hinwies, dass die Nato nach Artikel 5 ihrer Satzung militärisch eingreifen kann, wenn der Zugang von Nato-Staaten zu Energiequellen irgendwo in der Welt bedroht ist. Wenn dies geschehen würde, wäre dies ein ernster Bruch internationalen Rechts.
Von einer Nato-Subsidiarität im Rahmen der Vereinten Nationen ist im Jahr 2013 nicht viel übriggeblieben! Entstanden ist ein Netzwerk von 28 Staaten, die durch «Partnerschaften für den Frieden» (Partnerships for Peace/PfP) weltweit verknüpft sind. Eingebunden ist eine Vielzahl von ehemaligen Staaten der UdSSR. Mit Mittelmeer-Staaten gibt es ein Dialog-Abkommen. Durch die sogenannte «Istanbul-Initiative» sind die Staaten Nordafrikas und des Nahen und Mittleren Ostens in die Nato-Agenda eingebunden. Besondere Verbindungen existieren zwischen der Nato und den Golf-Staaten plus Jemen. Eine enge Zusammenarbeit gibt es auch zwischen der israelischen Marine und den Flottenverbänden der Nato. Spezialabkommen hat die Nato mit Singapur, Südkorea, Taiwan, Neuseeland und Australien abgeschlossen. Die zwei grössten Drogen-Produzenten, Kolumbien und Afghanistan, arbeiten mit der Nato zusammen. Grossbritannien hat die noch ihm gehörenden San-Diego-Inseln im indischen Ozean an die USA vermietet. Die dortigen militärischen Anlagen werden von der Nato für Einsätze benutzt.


Die USA versuchen zur Zeit, auch im Namen der Nato, ihre militärischen Beziehungen mit Vietnam, Myanmar und Ost-Timor zu intensivieren. Ähnliches wird im Raum der fünf zentralasiatischen Staaten versucht. In Liberia wurde vor kurzem das von Stuttgart abgezogene «US-Africom» in Monrovia etabliert. Wo es keine Landstützpunkte gibt, ist die Nato meist mit Schiffen der US-Marine vertreten. Strategische Präsenz und eine sichtbare Umklammerung Chinas und Russlands werden immer perfekter. Dass dies ernsthafte Folgen für internationale Beziehungen mit sich bringt, sollte nicht überraschen!


Die Nato-Erweiterung geht einher mit dem nicht erklärten Ziel der Schwächung anderer, besonders von Allianzen wie der Shanghai Organisation für Zusammenarbeit (SCO). «Gladio», die mysteriöse Untergrundorganisation westlicher Staaten, die in den Zeiten des Kalten Kriegs bereits existierte, ist ein Hinweis, mit welchen, auch nichtlegalen, Mitteln vorgegangen wird.


Die Entwicklungen der letzten Jahre zeigen eine sich immer mehr ausweitende, aber auch eine schwächer gewordene Nato. Niederlagen in Afghanistan und dem Irak, ein völkerrechtswidriger Krieg gegen Jugoslawien und eine vom Uno-Sicherheitsrat nicht genehmigte Invasion in den Irak sind zu Meilensteinen der Schwächung der Nato geworden. Der ernste Verstoss gegen die vier Genfer Konventionen und die Haager Landkriegsordnung durch die Misshandlung von Gefangenen in Bagram, Abu Ghraib und Guantánamo sowie die US-Flüge mit Gefangenen zu Geheimgefängnissen, um die Häftlinge in anderen Ländern zu foltern, sind weitere Ursachen für diese Schwächung.


Der Missbrauch der vom Uno-Sicherheitsrat 2011 der Nato überantworteten Schutzverantwortung (R2P) für das Wohlergehen der Zivilbevölkerung in Libyen und die Handlungsweise von einzelnen Nato-Staaten in der Syrien-Krise haben den Widerstand gegen die Nato erheblich gefördert.


Neue Provokationen wie die Aufstellung eines Netzes von Raketenabwehrsystemen in Spanien, Polen, Rumänien, der Türkei und Deutschland sind auf berechtigten Widerstand Russlands gestossen und haben dem Nato-Russland-Rat die Vertrauensbasis entzogen.

Welche Erklärung gibt es für die Entwicklung der Nato 1949–2013?

Die Auflösung der Sowjetunion im Dezember 1991, die entstandene Unabhängigkeit der 12 Sowjet-Republiken und die Auflösung des Warschauer Pakts – zusammen mit der im November 1990 folgenden Unterzeichnung der Charta von Paris für ein neues Europa – waren die grosse Gelegenheit, den Kalten Krieg durch einen warmen Frieden zu ersetzen. Vielerorts wurde von der zu erwartenden «Friedensdividende» gesprochen. Es kam anders. Die Nato entliess sich nicht in die Geschichte, sie suchte vielmehr nach einer neuen Existenzberechtigung.


Die Regierung von George W. Bush und die weiteren neokonservativen Kreise in den USA, beseelt vom Glauben an ein vor ihnen liegendes «amerikanisches Jahrhundert» (Project for a new American Century – PNAC), wollten eine Nato unter Führung der USA beibehalten. Der 11. September 2001 bestärkte die politischen Kreise in Washington darin, den amerikanischen Hegemonialanspruch zu rechfertigen. Diese «PNAC-Psyche», das heisst der Glaube an den Führungsanspruch der USA, existierte parteiübergreifend vor und nach dem Terrorangriff auf das World Trade Center in New York. Die europäischen Nato-Mitgliedstaaten und Kanada waren bereit, als willige Handlanger zu fungieren.


Parallel hierzu hat sich die Nato unter amerikanischer Führung kontinuierlich von einer Verteidigungsallianz zum Schutz derer, die innerhalb der Gemeinschaft leben, zu einer Allianz mit weltweitem Auftrag entwickelt. Die Nato-Strategien von 1991, 1999 und 2010 belegen dies in klarer Sprache, nach dem Motto: Neue Bedrohungen rechtfertigen neue Ansätze. «Die Nato ist weltweit die erfolgreichste politisch-militärische Allianz», hiess es im November 2010, als die neueste Nato-Strategie in Lissabon vorgestellt wurde. Es blieb kein Geheimnis, dass es um die «Sicherheit» und die «Freiheit» der inzwischen auf 28 Mitgliedstaaten angewachsenen Nato ging, und kaum um das Wohl der anderen 165 Uno-Mitgliedstaaten. Wie anders sind die Nato-Satellitenabwehrsysteme in Europa und Asien oder die Nato-Inspektionen von Handelsschiffen in internationalen Gewässern zu erklären? Die Militärübungen der Nato an Krisenschnittstellen wie auf der koreanischen Halbinsel und anderswo sind weitere Beispiele. Es geht um Egoismus und Hybris. Aus diesen Gründen wird die Existenzberechtigung dieser transatlantischen Gemeinschaft von einem Grossteil der restlichen Welt immer wieder in Frage gestellt.


Engste und übermässige Verbindungen («Hyper-Konnektivität») und Vernetzungen auf vielen Ebenen haben zu einer deutlich stärker werdenden Polarisierung in den internationalen Beziehungen geführt, die ihren Ursprung in dem aggressiven Auftreten der Nato hat.
Die weiterhin unipolar denkende Nato sieht sich einer wachsenden multi-polaren Gegenwehr gegenüber. Die Shanghai Organisation für Zusammenarbeit (SCO) und die Organisation des Vertrags über kollektive Sicherheit (OVKS) sind zwei Beispiele von sicherheitspolitischen Allianzen, die auf die Nato-Entwicklung reagieren. «Wir erleben einen fast uneingeschränkten Gebrauch von militärischer Gewalt, der die Welt in den Abgrund des permanenten Konflikts eintaucht!» Dies sind Worte des russischen Präsidenten Vladimir Putin aus dem Jahr 2007.


Seither ist der Konfrontationspegel zwischen der Nato und einer zunehmenden Zahl von Staaten in Asien, Lateinamerika und auch in Afrika sowie dem Nahen und Mittleren Osten weiterhin gestiegen. Die Konflikte mit Libyen (2011) und Syrien (seit 2011), der Krieg gegen die Taliban in Afghanistan und Pakistan (seit 2001) wie auch die US-geführte völkerrechtswidrige Invasion und achtjährige Besetzung des Iraks (2003–2011) haben erheblich zu der Polarisierung der internationalen Beziehungen beigetragen.


Eine gewichtige Rolle haben hierbei die offensichtliche Doppelmoral der Nato, der Egoismus der Allianz, die politische Korruption durch einzelne Nato-Staaten und der wiederholte Verstoss gegen internationales Recht gespielt. Hinzu kommt die bewusste Verbreitung von Falschinformationen durch staatliche Institutionen, um damit die nationale und internationale Öffentlichkeit zu beeinflussen. Hier sei nur eines von vielen politischen Beispielen genannt: der Auftritt von US-Verteidigungsminister Colin Powells am 5. Februar 2003 im Uno-Sicherheitsrat. Im Beisein von Uno-Generalsekretär Kofi Annan, dem Generaldirektor der IAEA Mohamed el-Baradei und dem für Irak-Abrüstung zuständigen Leiter der Unmovic Hans Blix hatte Powell den Auftrag, seiner Regierung die Beweise zu liefern, dass der Irak von Präsident Saddam Hussein im Besitz von Massenvernichtungswaffen war. Dies war eine ernste Irreführung, denn nicht nur Fachkreise wussten, dass der Irak 2003 qualitativ abgerüstet war und keine Gefahr mehr darstellen konnte. Es kam kein Widerspruch aus Nato-Kreisen! Die anwesenden hohen Vertreter der Uno haben durch ihr Schweigen die darauffolgende US-geführte Irak-Invasion indirekt unterstützt und sich somit mitschuldig gemacht.

Grundthesen zu der Frage: Quo vadis Nato?

Nato «Verteidigung»
Das Vorgehen der Nato mit der Vorgabe, die Gemeinschaft müsse sich gegen einen Feind verteidigen, hat häufig mit von der Nato erzeugten Provokationen zu tun. Das heisst, die Ursache für eine Krise ist nicht selten bei der Nato selbst zu suchen. Ein wichtiges Beispiel ist die mit der Nato-Ost-Erweiterung verbundene Anti-Satelliten Initiative der USA. Hier wird die Reaktion, das Symptom, zur Ursache gemacht. Sobald die Nato eine solche Provokation einstellt, wird die «Verteidigung» unnötig!

Globaler Wandel
Die Zeichen mehren sich, dass die Welt sich zügig von einer unipolaren Politik abwendet und ein viel differenzierteres Paradigma für internationale Beziehungen aufnimmt. Dieser Prozess bringt neue Hindernisse für die internationale Zusammenarbeit mit sich, aber auch neue Möglichkeiten. Im Interesse der internationalen Sicherheit, einer friedlichen Entwicklung, der Menschenrechte für alle und besonders der internationalen Vertrauensbildung würde dies bedeuten, dass Allianzen wie die Nato und die SCO ihre engen sicherheitspolitischen Ansätze aufgeben und einer weltumfassenden Zusammenarbeit zustimmen. Eine solche Entwicklung braucht keine Utopie zu bleiben, wenn erkannt wird, dass Gemeinsamkeit der 193 Mitgliedstaaten der Uno die bessere Alternative ist.

Das Kapitel VIII: «Regionale Abmachungen» der Uno-Charta
Die Einbindung der Aufgaben von Allianzen in die Verantwortlichkeit der Vereinten Nationen wird von allen Uno-Mitgliedstaaten akzeptiert. Sie ist daher eine international rechtliche Verpflichtung und sollte nicht einfach als utopisch abgewiesen werden, sondern durch beharrliche Verhandlungen und Uno-Reformdiskussionen weiterhin als Ziel unterstützt werden. Die vorhandenen – und anerkannten – Nato-Kapazitäten könnten als Folge der Einbindung (Subsidiarität) wertvolle Beiträge für Krisenbewältigung und für den Frieden liefern. Den Kampf gegen Kriege im Weltall, Terrorismus, Piraterie, Drogen- und Menschenschmuggel könnte man durch eine Zusammenarbeit im Sinne von Kapitel VIII gewinnen.

Uno-Reform
Die sicherheitspolitische Verantwortung für die globale, regionale und auch lokale Entwicklung liegt beim Sicherheitsrat der Vereinten Nationen, nicht bei der Nato. Strukturschwächen der Uno haben immer häufiger dazu geführt, dass der Sicherheitsrat unfähig geworden ist, diese Funktion auszuführen. Die Syrien-Krise ist ein weiteres gravierendes Beispiel der Unfähigkeit und damit für den Weltfrieden eine gefährliche Realität. An Vorschlägen für grundlegende Reformen fehlt es nicht. Seit über zwanzig Jahren ist Bericht um Bericht zu diesem Thema erstellt worden. Der Völkergemeinschaft hat bisher der politische Wille gefehlt, diese Vorschläge zu überdenken, gezielt zu verabschieden und einzuführen. Dazu gehört in erster Linie die Reform des Uno-Sicherheitsrats. Hier gibt es wertvolle Überlegungen für die angepasste Zusammensetzung des Sicherheitsrats, für den Status der Mitgliedschaft, für das Vetorecht oder das Mehrheitsrecht bei Abstimmungen, Fragen der Subsidiarität von Allianzen wie der Nato usw.

Rechenschaftspflicht
Der Rahmen für internationale Zusammenarbeit wird weitgehend definiert durch die Uno-Charta und durch die zwei Internationalen Pakte für politische, zivile, wirtschaftliche, soziale und kulturelle Rechte. Die Einhaltung dieses aufgezeichneten internationales Rechts ist für alle Staaten, die Mitglieder der Vereinten Nationen sind, und damit auch für die Nato-Staaten, verpflichtend. In der Realität herrscht aber eine Kultur der Straflosigkeit. Entscheidungen im Uno-Sicherheitsrat oder in anderen Gremien, die zu schweren Verletzungen der Menschenrechte geführt haben, bleiben ohne Folgen für die Entscheidungsträger. Die Folgen einer inhumanen, von Nato-Staaten im Uno-Sicherheitsrat durchgesetzten Sanktionspolitik im Falle des Iraks, der Nato-Krieg gegen Jugoslawien, die illegale Intervention im Irak oder der Nato-Einsatz in Libyen sind alle empirisch belegbar. Eine Rechenschaftspflicht ist die Voraussetzung für einen Neuanfang der internationalen Beziehungen.


Der Weg zum Frieden, den die Nato einschlagen sollte, ist bekannt. Sobald die Nato selbst diesen Weg erkennt, wird ein Heilprozess anfangen.    •

Protest in Kiev, gerechtvaardigd of is er meer aan de hand ?

Protest in Kiev, gerechtvaardigd of is er meer aan de hand ?

Inleiding


Op 21 november 2013 kondigde de Oekraïense president Janoekovitsj aan dat hij het Associatieverdrag met de Europese Unie niet zou ondertekenen. Kort daarna begon de heibel op het Kiëvse Onafhankelijkheidsplein oftewel Maydan. De Westerse media berichtten over tienduizenden boze Oekraïners die de straat opkwamen om te protesteren tegen de president. Deze laatste werd door de manifestanten beschouwd als een 'verrader' die de 'Europese droom' van de Oekraïners had stuk geslagen.

De versie die de Westerse media over de rellen in Kiëv verkondigt, ligt wel eventjes anders.

Foto : zware rellen met pro-EU betogers in Kiev

 

De inhoud van het Associatieverdrag

In sommige Oekraïense media werd het Associatieverdrag zodanig voorgesteld alsof Oekraïne al dan niet onmiddellijk lid zou worden van de EU. Daar was tot heden helemaal geen sprake van. Zelfs in een verre toekomst zou een volwaardig lidmaatschap onmogelijk blijven. De kansen op effectieve toetreding tot de EU van Turkije liggen veel hoger dan die van Oekraïne. Met de Turken werd wel al over effectieve toetreding gepraat.

Na het ondertekenen van het Associatieverdrag met de EU blijft de vroegere visumregeling tussen beide partijen geldig. Dit wil zeggen dat de Oekraïners, net zoals Russen en andere door de EU ongewensten voor een bezoek of verblijf binnen de EU, moeten blijven voldoen aan de huidige visumverplichtingen. EU-burgers mogen zonder visum dan wel Oekraïne binnen. De massa van Maydan denkt ten onrechte dat ze na het ondertekenen van het Associatieverdrag visumvrij verkeer zullen krijgen binnen de EU.

Het is wel zo dat de Europese markt geopend zou worden voor de Oekraïnse goederen. Maar er is meer wat men niet vertelt. Alle goederen zullen moeten voldoen aan de voorwaarden opgelegd door de EU. Het spreekt vanzelf dat dit de doodsteek wordt voor de kleine Oekraïense boer en Oekraïense tuinders maar ook voor zowat de gehele Oekraïense industrie.

Niet enkel het eindproduct maar ook het hele productieproces van alle geproduceerde goederen – van de komkommer tot de elektronica – moet aangepast worden aan de Europese normen. Zelfs de spoorwegen zullen moeten heraangelegd worden. We spreken hier over toch wel 30.000 kilometer spoorlijnen.

 

Foto : Oekraïens president Viktor Yanoekovitsj en Russisch president Vladimir Poetin in Moskou. 

De totale kost van alle noodzakelijke aanpassingen wordt geschat op 160 miljard dollar. Dit zou moeten gebeuren binnen een termijn die vastgesteld wordt op maximaal 4 jaar. Voor de Oekraïense begroting betekent dit een niet te dragen last. De EU voorziet geen compensaties zoals de Baltische landen en Polen vroeger wel verkregen, en zoals Bulgarije en Roemenië heden wel krijgen.

Het ondertekenen van het Associatieverdrag betekent ondanks het feit dat men niet kan spreken over toetreding tot de EU een totaal verlies van de soevereiniteit van Oekraïne. Het plan voorziet de vorming van een 'Raad van bestuur' met de vertegenwoordigers van de EU en Oekraïne waar de Oekraïners in de minderheid zullen vertoeven en zonder vetorecht. De EU kan aldus alles opleggen wat het wil. De Oekraïners hebben zelfs het recht niet om 'nee' te zeggen.

Rusland en Oekraïne vandaag

Tot op heden geniet Oekraïne van een economisch zeer gunstige voorkeursbehandeling met Rusland. Er zijn nauwelijks invoertaxen en grenscontroles. De ingevoerde goederen ondergaan geen pestcontroles. Tot 40 procent van de Oekraïense productie vindt zijn weg naar Rusland en andere landen van de Douane Unie (een Euraziatische economische Unie bestaande uit Rusland, Wit-Rusland en Kazachtstan waar de soevereiniteit van de landen voor 100% wordt gerespecteerd).

Indien Oekraïne zou toetreden tot het statuut van vazal of nog erger kolonie van de EU, dan is Rusland verplicht de grenzen met Oekraïne te sluiten. Dit zal moeten gebeuren ter bescherming van de Russische interne markt tegen de invoer van goedkope overgesubsidiëerde Europese producten zoals melk. Volgens het associatieverdrag met de EU wordt Oekraïne verplicht de hele markt open te stellen voor alle goederen en producten die zich binnen de EU bevinden.

Een voorbeeld. Overgesubsidiëerde Europese landbouwproducten kosten de helft van dezelfde producten geproduceerd in Rusland. Oekraïne wordt zo een transitland voor goedkope Europese producten richting Rusland omdat Oekraïne in het EU-scenario zowel open grenzen met de EU als met Rusland zal hebben. Dit gaat ten koste van de eigen Russische boeren.

Het verdrag, de NAVO en Rusland

Het ondertekenen van het Associatieverdrag houdt ook in dat Oekraïne verplicht wordt om overal ter wereld aan NAVO-missies deel te nemen. Er bestaat zelfs een clausule om in Oekraïne NAVO-basissen op te richten. Een basis in Kharkov (helemaal ten oosten van Oekraïne, aan de huidige Russische grens) stelt de NAVO-luchtmacht in staat om Moskou binnen de 15 minuten te bereiken. Slechte ervaringen met de NAVO hebben reeds aangetoond dat men niet naïef mag zijn. De NAVO is geen defentiepact. De NAVO valt zonder probleem aan. Dit zagen we o.a. in Servië en in Libië.

Rusland is niet blind, niet doof en niet dom. De Russen beseffen het grote gevaar van een NAVO-basis in de achtertuin. Om geopolitieke en aldus ook om militaire redenen kan zo'n verdrag niet ondertekend worden. Dit verdrag zou op termijn en zware bedreiging vormen voor Rusland met een terechte tegenaanval tot gevolg.

Ieder welgevormd geopolitieker weet dat de EU het Europese verlengstuk is van de NAVO. De meeste EU-landen zijn effectief lid van de NAVO. Het verschil tussen de EU-NAVO en Rusland vindt men terug in een uitspraak van president Poetin : 'Amerikanen hebben geen bondgenoten nodig. Zij willen enkel vazallen. Rusland gaat zo niet te werk'. Wie de Russische buitenlandse politiek kent, weet dat dit klopt.

In deze zaak handelt Rusland als een soeverein land dat uiteraard de belangen van het eigen volk behartigd. Rusland wil ten alle prijze de veiligheid van haar grenzen verzekeren.

Foto : betogers verwelkomen de Russische Zwarte Zeevloot (Sevastopol, Krim)

De Krim maakt heden deel uit van Oekraïne hoewel de Krim historisch steeds Russisch was. De Krim is een cadeautje van Chroetsjov in de jaren '50. Hij schonk de Krim aan een toenmalige Oekraïense leider. Ze dachten toen in termen van het eeuwig bestaan van de Sovjet-Unie. In welke Sovjet-republiek de Krim lag, was toen van geen belang. Na de val van de Sovjet-Unie in 1991 lag de Krim plots in het buitenland. Daar bevond zich toen al een deel van de Russische Vloot. Volgens aangegane verdragen mag de Russische Vloot daar tot in 2017 verblijven op voorwaarde dat er niets maar dan ook niets wordt vernieuwd en gemoderniseerd.

In een Oekraïne als vazal van de NAVO en als kolonie van de EU is in Amerikaanse ogen geen plaats voor de Russische Vloot. Dan wordt deze vervangen door een Amerikaanse vloot. Daarmee krijgen de VS totale controle over de Zwarte Zee. De ultieme Angelsaxische droom van totale omsingeling en opsluiting van Rusland wordt dan werkelijkheid.

Oekraïnekreeg recent een lening van 15 miljard dollar van Rusland. Terug te betalen in stukjes, als het al zover komt. Rusland weet dat de kans groot is dat ze het geld nooit meer terug zien maar dit is ingecalculeerd. Het geld komt in stukjes en brokjes naar Oekraïne want Rusland is niet van gisteren. Bij een pro-westerse machtsovername (putch) stopt de geldkraan.

Oekraïne krijgt nu goedkoop gas uit Rusland. Het contract zit uitgekiend in elkaar. Rusland levert gas aan een normale prijs, de prijs van de wereldmarkt. Maar Rusland heeft voor Oekraïne een clausule met korting toegevoegd waardoor de Oekraïners zeer goedkoop hun huizen kunnen verwarmen. Dit is zeer leuk gedaan door de Russen. Maar er is nog iets. De contracten gelden enkel maar voor drie maanden. Bij een pro-westerse machtsovername (putch) stopt de aanvoer van goedkoop Russisch gas. Het wordt voor de Oekraïners zeer leuk indien ze er aan denken om een spelletje Russen pesten te spelen. Laat ons voor hen hopen dat ze in dat geval goed tegen de kou kunnen.

Foto : betogers tegen NAVO-aanwezigheid in Oekraïne


Leugens rond de protesten

Alle nadelen die het associatieverdrag tussen de EU en Oekraïne met zich meebrengen zoals de kolonisatie van hun land en verlies van zowat alle rechten die een soeverein land bezit, het vernietigen van hun industrie, het vernietigen van het zeker niet slecht sociaal stelsel, worden door de Westerse media en door de betogers verzwegen. Van een leugen meer of minder valt men daar in Kiëv niet meer om.

Het aantal betogers wordt zoals tijdens elke 'revolutie' zwaar overdreven. Er zijn er wel vele maar niet zoveel als de media beweren.

Indien men uitgaat van dagelijks 10.000 betogers en men telt de nodige onkosten die de betogingen met zich meebrengen, zoals voedsel, drank, WC-hokjes, hout voor het vuur, enzovoort, dan worden de onkosten door specialisten berekend op 700.000 dollar per dag. Wie betaalt dit ? Dan spreken we nog niet over de dagvergoedingen die de betogers krijgen. Het kan goed zijn dat niet iedereen geld krijgt om daar in de kou te staan, maar er zijn verschillende bronnen zoals aanwervende websites, waar de betaalde geldsommen staan afgedrukt. Deze websites spreken over het ontvangen een Oekraïens maandloon in ruil voor een week betogen.

Foto : Betogers zwaar betaald om rel te schoppen ?

Rusland blijft opvallend afwezig op het Onafhankelijksheidsplein. Wat doen Victoria Nuland (secretaris assistent voor Europese en Eurazische Zaken (Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs), John McCain (VS-senator), Michail Saakasjvili (voormalig Georgisch president en opgeleid in de VS), Marko Ivcovic (aanvoerder van de Servische pro-Amerikaanse Bulldozer Revolutie), en liberalen zoals Bart Somers in Kiëv ? Is dat geen rechtstreekse inmenging ? Deze heerschappen maken de Oekraïense 'oppositie' toch wel heel onaantrekkelijk.

Foto : VS-senator John McCain steunt de pro-westerse oppositie. De sponsors worden duidelijk.Rond McCain de verenigde 'oppositie', van liberaal tot uiterst-rechts.

Foto : Marko Ivcovic (aanvoerder van de Servische pro-Amerikaanse Bulldozer Revolutie) in Servië in 2000, nu in Kiev. Dezelfde tactiek : bulldozers.

 

Niemand spreekt over de 'gevoelens' van de bewoners van Oost-Oekraïne. In het oosten van het land is de haat tegen de betogers zwaar aan het toenemen. Daar is men niet gediend met de schorriemorrie dat Kiev onveilig maakt.

Laatste berichten tonen aan de (betaalde) opstandelingen over zullen gaan tot zeer zwaar geweld om de Berkoet (de elitetroepen van het leger, de Oekraïnse versie van de Spetznas) te dwingen te schieten. En dan is het hek helemaal van de dam.

Foto: betogers provoceren politie met als doel geweld van de ordediensten uit te lokken

 

Besluit :

Dat een land oppositie heeft die de regering controleert en lastige vragen stelt, is heel normaal voor een democratie. Ware Oekraïense oppositie zou voor niemand een moreel probleem kunnen vormen. Oppositie is een normaal gegeven in een ware democratie.

Elke regering maakt fouten. Ook de Oekraïense regering. Elke regering, elke politieke bestuursvorm heeft te maken met corruptie. Een goede regering tracht de corruptie en andere misbruiken zoveel mogelijk tegen te gaan. Tot daar kan men volgen.

Oekraïne ondergaat wat andere landen ook ondergingen. Amerikaanse sponsors manipuleren de oppositie om zo een vazallenregering in het zadel te krijgen. Dit was zo in Georgië, In Oekraïne voor Janoekovitsj, in Servië vlak na Milojevitsj, in in Irak, Libië, … . In sommige landen hebben de kiezers gemerkt dat de Amerikaanse kwaal erger was dan de situatie ervoor waardoor men opnieuw voor het oude onafhankelijke regime koos (Georgië, Servië, Oekraïne).

De oppositie bestaat uit een vreemd allegaartje van rariteiten. Men vindt er liberalen samen met ultra-nationalisten en zelfs neonazi's. De meeste van de neonazi's zouden ten tijde van het Derde Rijk zelf in een kamp verzeild geraken wegens slecht gedrag. Deze neonazi's zouden in het systeem waar ze voor staan absoluut niet kunnen handelen zoals ze nu in Oekraïne doen.

Het valt op dat deze ultra's zich zo goed kunnen vinden met EU-symbolen en Amerikaanse vlaggen en persoonlijkheden. We weten uit ervaring dat na de revolutie, indien die door hen zou gewonnen worden, de liberalen het zaakje overnemen waarop de ultra's voor de bewezen diensten bedankt zullen worden met een schop onder de kont. Heibel met garantie, noemt zoiets.

Foto: uiterst-rechtse betoger provoceert politie met als doel geweld van de ordediensten uit te lokken

 

Een Tweede Oranjerevolutie is voor Oekraïne en voor heel Europa geen goede zaak. Geopolitieke aardverschuivingen zullen volgen. Oekraïne lijkt een beetje op België maar dan met een verticale scheidslijn. Oost-Oekraïne is het economisch rendabele deel. Daar ligt ook de Krim. Oost-Oekraïne bezit de meeste grondstoffen van het land. West-Oekraïne, met het russofobe Lvov als centrum, is een deel van het historische Galicië. Galicia is heden een arme streek. Bij een nieuwe pro-Amerikaanse en pro-EU regering zal Oost-Oekraïne zich afscheuren. Er circuleren nu al namen voor dit nieuw land op het net : Novo-Rossiya (Nieuw-Rusland).

De grote winnaar is hoe dan ook Rusland want ofwel blijft heel Oekraïne een vriend van Rusland ofwel Oost-Oekraïne. En dan zou Galicië wel eens aan de EU kunnen hangen. In dat geval heeft de EU er een zeer arme regio bij die opnieuw tonnen geld zal verslinden.

Foto : één van de vele pro-Russische betogingen in Oost-Oekraïne

Oekraïne is het natuurlijke zusterland van Rusland. In de Kiev-Rus begon de geschiedenis van het latere Rusland. Kiev hoort bij Rusland net zoals Kosovo bij Servië hoort en West-Vlaanderen bij Vlaanderen. Het slecht geregelde separatisme van 1991, gebaseerd op grenzen die eigenlijk historisch nooit bestonden, leidt nu naar situaties die onbegrijpelijk zijn. Solzjenitsin sprak over de historische samenhang van Groot-Rusland (Rusland), Klein-Rusland (Oekraïne) en Wit-Rusland. Het is erg om vast te stellen dat broedervolkeren elkaar de das trachten om te doen onder vreemd bevel. Zonder Amerikaanse inmenging was het nooit zo ver gekomen.

Kris Roman, Voorzitter Euro-Rus

Svetlana Astashkina, Medewerker Euro-Rus

 

Foto : kaart hoe Nieuw-Rusland (onafhankelijk Oost-Oekraïne) er zou kunnen uitzien


jeudi, 23 janvier 2014

Hungary asserts its energy independence with South Stream

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Hungary asserts its energy independence with South Stream

Ex: http://routemag.com

During recent talks in Budapest, the prime minister of Hungary, Viktor Orbán, and Gazprom’s CEO, Alexey Miller, announced that the construction of South Stream in Hungary will begin in April 2015. “We would like to see a South Stream on the territory of Hungary,” Orbán said. “It’s far better to have it running through the country than bypassing it.” Work completed on a tight schedule is a hopeful sign that both parties are taking their commitment to the project seriously.

Budapest’s decision may be “a final blow” to the delayed Nabucco pipeline, wrote Bloomberg. The Hungarian state secretary for energy affairs, Pál Kovács, was laconic when speaking about Nabucco as a potential alternative: “First of all, the international company <Nabucco> didn’t do everything it could have to ensure the success of this project.  I must point out that apparently ten years was not enough time for them to put together a realistic and competitive concept; during that period they just wore everyone out and collected impressive fees and salaries, but after ten years we now have a clearer picture.”

At this point, South Stream is the only viable way for Hungary to solidify its position in the region as a transit power. South Stream Transport Hungary, a 50%-50% joint venture between Gazprom and the state-owned Hungarian Electricity Works (MVM), decided to finish construction in record time. The parties agreed to speed up the design and survey work, as well as the spatial planning and environmental impact assessment for the 229-kilometer-long Hungarian section of the South Stream. The first supplies of Russian natural gas are expected in Hungary as early as 2017. The National Development Ministry of Hungary claimed, “the country’s government will do everything in its power to remove any obstacles either to the realization of the South Stream gas pipeline or to the creation of a solution that is acceptable to all parties.”In other words, the investment environment in Hungary is ripe for development.

Energy cooperation will be definitely high on the agenda during Viktor Orbán’s present visit to Moscow.  The two nations are in negotiations to upgrade Hungary’s only nuclear power plant, for which Russia plans to provide a EUR 10 billion loan.  However, a significant focus will be on the South Stream project.  Development Minister Zsuzsa Németh smoothed the way for the talks. In November at a conference titled “South Stream: The Evolution of a Pipeline,” she declared that all Hungarian energy solutions are developed in accord with the European Union energy policy, in order to ensure strong, long-term partnerships. [1]

 

Image source - Gazprom.com

Image source – Gazprom.com

Russia enjoys the unique status of being an important strategic partner for Hungary in matters pertaining to energy. In order to speed up coordination and implementation, the Hungarian government has declared South Stream to be a project of special importance to the national economy. In 2008, the then-prime minister, Ferenc Gyurcsány, and Vladimir Putin signed an agreement regarding Hungary’s participation in the Russian pipeline project. And in the summer of 2010, Orbán and his party Fidesz suddenly threw their political weight behind the deal with Russia. The prime minister of Hungary may use harsh rhetoric in his domestic policy, but he seems to understand the importance of taking a multi-pronged approach and diversifying his gas supplies.

Such a deliberate policy is not uncommon in Eastern Europe. South Stream may lack full backing at the EU level, but the most important regional players, such as Austria, see it as a cornerstone of European energy security. For example, Deutsche Welle has noted that Gerhard Mangott, a professor of political science at Innsbruck University and an established policy advisor, views the current critical position of the EU towards South Stream as questionable. According to Prof. Mangott, the South Stream project in fact increases the EU’s energy security. “This isn’t a matter of additional gas and increased dependency on Russia, rather this is an alternative pipeline, which is more modern and robust in type.”

Until very recently the European Commission had no objections to Hungary’s plans for energy independence. In his 2011 speech on South Stream, the EU commissioner for energypromised that “we <the European Commission> will not impose any unreasonable or unjustified level of administrative or regulatory requirements <on South Stream> and will act as fair partners. ”But today the relations between Budapest and Brussels are badly strained. Hungary’s sovereign government has been portrayed in the EU media as the community’s enfant terrible. One can only hope that the European Commission will respect Hungary’s sovereign energy policy, because a competitive approach and a transparent business environment rank high on the EU’s list of free-market values.

In no small measure the EU itself needs Russia’s natural gas to diversify its supplies and obtain clean fuel for its recovering industrial sector. Under such conditions it is counterproductive to burden a project that is in the interest of both parties with unnecessary red tape.Even worse, the bureaucratization (or, rather, eurocratization?) of South Stream seems to correlate with the ups and downs of Brussels’s foreign-policy strategy in Kyiv. As a result, the European Commission changes its bargaining position towards the continent’s largest infrastructure project depending on external political impulses. Is it fair to assume that the “invisible hand” of the European market was offended by failure in Kyiv?

[1] In 2012 Hungary received 5.3 billion cubic meters of natural gas from Russia.

Originally published by Natural Gas Europe

Naar nieuwe coalities in het Midden-Oosten?

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Naar nieuwe coalities in het Midden-Oosten?
 
Peter Logghe
 
Ex: Nieuwsbrief - Deltapers, nr. 79, Januari 2014
 
Als (bepaalde) commentatoren en onderzoekers het juist voorhebben, lijken in het Midden-Oosten nieuwe coalities in de maak, en vooral een zogenaamde ‘Veiligheids-as’ zou er wel eens voor seismische golven kunnen zorgen, na de schokken van de voorbije maanden en jaren (de vernietiging van de Syrische wapens onder controle van Rusland, de toenadering tussen de VS en Iran, de verminderde geostrategische en geopolitieke invloed van Saoedi-Arabië en Israël, en de terugtrekking van Amerikaanse troepen uit Afghanistan).

Een nieuwe coalitie, een nieuwe richting, men zou bijna kunnen schrijven: een nieuwe lente! Waarom een ‘Veiligheids-as’? De grote hoeveelheden extremistische en salafistische jihadstrijders in Afghanistan en Irak, maar nu ook in Syrië en andere landen, hebben in elk geval als effect dat een aantal staten, van wie men het niet onmiddellijk zou verwachten, de handen in elkaar slaat om iets aan ‘het probleem’ te doen. Opmerkelijk is de stap wel, omdat het lijkt dat voor de eerste keer sinds decennia de oplossing, de organisatie en de structuur van de aanpak van ‘het probleem’ van binnen de regio zelf zal komen.

Twee vaststellingen tonen aan dat de politieke realiteit een aantal staten tot inzichten brengt. Stilaan komt men er in het Midden-Oosten ten eerste tot het besef dat niemand anders de regio zal komen redden. Ten tweede heeft men kunnen vaststellen dat grote groepen gewapende salafisten zich van geen grenzen wat aantrekken en gewoon overal – van Azië tot in Afrika – desintegrerend op de bestaande staatsstructuren inwerken.

Vier landen willen het militantisme te vuur en te wapen bestrijden, en willen hun staatsgrenzen zo veilig mogelijk houden – de ‘Veiligheids-as’ zou, aldus de waarnemers, kunnen bestaan uit Libanon, Syrië, Irak en Iran. Inderdaad landen met een totaal andere achtergrond, geschiedenis, samenstelling van de bevolking, staten die tot gisteren elkaars vijand waren. Enkele doelstellingen werden intussen geformuleerd: het intact houden van de territoriale integriteit en soevereiniteit, het opzetten van een rigoureuze militaire en veiligheidssamenwerking tegen alle rechtstreekse en onrechtstreekse dreigingen van deze extremisten. En tot slot willen de verschillende leden van de coalitie een gemeenschappelijk politiek wereldbeeld uittekenen dat kan leiden tot samenwerking ook op andere gebieden. Ambitieus? Dat in elk geval.

Nu al lijkt het dat deze coalitie niet anders dan succes kan hebben. De Jordaanse koning Abdoellah heeft vrij sterk bemiddeld in het tot stand komen van de nieuwe eenheid, en ook Egypte zou naar verluidt interesse hebben in de verdere ontplooiing van het project.

Uit de vaststelling dat een nieuwe coalitie in het Midden-Oosten zich aan het vormen is, moet in elk geval ook de conclusie worden getrokken dat de strategie van de VS – eerst Assad doen vallen, en dan pas Al Qaida aanpakken – op een mislukking is uitgedraaid: Assad is niet gevallen, Iran is niet geplooid, Hezbollah blijft zijn ding doen, en Rusland en China stappen ook niet opzij. Syrië zou wel eens het omslagmoment kunnen zijn, omdat een lokaal conflict er uitgroeide tot een regionaal conflict met sterke geopolitieke consequenties. Een conflict ook dat allerlei gewapende groepen Salafistische militanten een unieke opportuniteit bood om met zware wapens in een conflict in te grijpen. De zeer doorlaatbare grenzen in Syrië zorgden voor de rest.

De verliezers van het conflict zouden wel eens de Saoedi’s kunnen zijn. Voor hen ging het erom (aldus toch CIA-directeur Michael Hayden) een Soennitische machtsovername in Syrië te bewerkstelligen, en dit plan dreigt in de vernieling te worden gereden. Voor de Saoedische emirs ging het erom de sharia-rechtspraak in te voeren, en dat zal dus even moeten wachten. En mocht deze nieuwe ‘Veiligheids-as’ succesrijk zijn, en er bijvoorbeeld in slaagt de religieuze extremisten buiten spel te zetten, dat ziet het er helemaal nog minder goed uit voor het politieke gewicht van Saoedi-Arabië.

Om het geopolitieke plaatje van het Midden-Oosten begin 2014 volledig te maken: volgens bepaalde weblogs staat de wereld voor een politieke ommekeer die zijn gelijke nog niet heeft gezien. In een nieuw rapport van het Amerikaanse energieagentschap EIA staat te lezen dat Amerika binnen 3 jaar een recordhoeveelheid olie zal produceren van 9,5 miljoen vaten per jaar. De energieafhankelijkheid van het Midden-Oosten, en met naam van Saoedi-Arabië, die jarenlang het beleid van de VS bepaalde en domineerde, staat op het punt fundamenteel te worden doorbroken. De olie-import naar de VS zou van 40% nu dalen tot 25% in 2016.

Peter Logghe

mercredi, 22 janvier 2014

Ukraine, Russie, Europe

Ukraine, Russie, Europe

Le Cercle Georges Sorel est le cercle de formation politique et culturelle du réseau M.A.S. Il organise régulièrement des conférences et des débats. Comme le grand philosophe et grand théoricien Georges Sorel, notre cercle entend dépasser les clivages idéologiques pour fonder l'alternative.

 


« On ne va pas aller mourir pour du pétrole »

«On ne va pas aller mourir pour du pétrole»

Entretien avec Aymeric Chauprade


chaupraderj9.jpgAymeric Chauprade, docteur en sciences politiques, savant de renommée internationale, l’un des spécialistes de pointe de la géopolitique en France, assigne à la Russie un rôle de première importance dans la mise en place du monde moderne. En quoi la croissance de l’influence russe est-elle liée à la renaissance de l’Orthodoxie ? Comment notre pays peut-il aider les chrétiens persécutés du Moyen-Orient ? Comment son rôle particulier est-il lié aux protestations récentes de millions de Français contre le mariage homosexuel ?

 

C’est là le sujet de notre discussion avec Aymeric Chauprade.

 

La foi et l’argent

 

Thomas : qu’est-ce qui attire particulièrement votre attention dans la Russie d’aujourd’hui ?

 

Aymeric Chauprade : Je comprends pourquoi, pour les Français de ma génération ou même plus jeunes, la Russie est si attirante aujourd’hui, et pourquoi les gens apprennent le russe et déménagent ici pour y fonder leur propre affaire. Ce n’est pas une sorte de phénomène marginal, le flot de ces gens est de plus en plus significatif. Ils ne sont pas, bien sûr, des dizaines de milliers, mais ils sont nombreux. Et ce phénomène est nouveau. Avant, les jeunes gens partaient aux U.S.A., brûlaient du « rêve américain ». Et maintenant, vient le remplacer le « rêve russe ». Et il est lié, à la différence du rêve américain, non aux aspects matériels et financiers, mais ce qui est plus important, à la recherche de soi, en tant qu’homme, à un retour aux sources chrétiennes. Pour la plupart des Européens, qui se réfèrent à leur culture chrétienne, la Russie incarne de plus en plus une sorte de contre modèle de l’Europe, en ce qui concerne les valeurs familiales et spirituelles.

 

Thomas : C’est étonnant, vous avez, pour un étranger, une idée si flatteuse des Russes…

 

A.C. : Bien sûr, les Russes participent à la société de consommation comme tous les autres dans le monde entier. Mais tout de même, ici, en Russie, on rencontre chez les gens quelque chose de profond, (peut-être la « mystérieuse âme russe » ?), la conviction que l’argent n’est pas dans la vie la valeur suprême. Et cela est vraiment attirant pour les jeunes Français, ceux du moins qui se trouvent en quête de plus profond que l’élargissement de leurs possibilités matérielles. C’est paradoxal, mais c’est un fait. Je vois d’un côté, en Russie, quelque chose de très proche de la culture américaine : le besoin d’amasser, le désir de déballer son niveau de réussite. Mais d’un autre côté, il y a là quelque chose qu’on ne trouve pas dans la culture américaine : si l’on fait connaissance avec un Russe d’une façon moins superficielle, on s’aperçoit que mise à part la soif de réussite, il y a en lui le désir de se trouver lui-même : « Qui suis-je et pourquoi est-ce que je vis » ? Et à mon avis, cela est directement lié en premier lieu au retour des Russes vers la religion, en partie à l’Orthodoxie. C’est une renaissance religieuse, le besoin de restaurer le lien du présent avec toute l’histoire russe. Je n’idéalise pas, cela plane dans l’air et se sent clairement.  C’est seulement une réalité qu’on peut constater.

 

Thomas : Et que s’est-il donc passé pour que la Russie soit brusquement devenue attirante aux yeux des étrangers sur le plan des affaires ? Qu’est-ce qui a changé ?

 

A.C. : La façon de considérer la Russie a changé. Quand on disait « la Russie » dans les années 90, on comprenait la mafia. Et cela faisait peur de venir travailler ici et y investir de l’argent, on pouvait tout perdre d’un coup. Mais de telles associations n’existent plus. Les gens ont senti que sur le plan économique, ici, c’était maintenant sans danger. Il existe une différence colossale entre le tableau que tracent de la Russie les médias pro-américains et ce que connaissent de la Russie les analystes économiques. Les premiers considèrent tout ce qui est lié à la Russie d’une façon strictement critique.

 

Les seconds regardent les choses d’une façon lucide et réaliste et savent qu’en Russie, toutes les conditions sont rassemblées pour y conduire des affaires. J’ai personnellement entendu dire lors d’une conférence au directeur d’une compagnie française très importante : « Avant, nos entrepreneurs allaient en Chine, mais en réalité, personne n’a rien pu y gagner, à part les marques de luxe. Aujourd’hui, les compagnies françaises importantes gagnent beaucoup d’argent en Russie. Celui qui investit ici fait de bonnes affaires ».

 

La comparaison avec la Chine est vraiment intéressante. Il y eut en effet la période du boum chinois, les Européens ont pris pied dans le marché chinois, et au début, semblait-il, les bénéfices croissaient à des rythmes extraordinaires. Mais la différence entre les cultures est telle que les gens tombaient dans une véritable frustration et sortaient de ce marché : ils ne parvenaient pas à être « chez eux » dans cette civilisation, ils restaient de toute façon « étrangers » en Chine. Alors que les Russes et les Français, malgré toutes les différences sont en fin de compte très proches.

 

Thomas : En quoi la renaissance  économique du pays est-elle liée au retour des Russes vers la religion ?

 

A.C. : J’ai rencontré des Russes qui sont matérialistes à 100 %. Mais j’ai aussi rencontré personnellement ceux qui gagnent beaucoup d’argent mais se souviennent qu’il y a quelque chose de plus grand que l’argent, par exemple le salut de l’âme. Ces entrepreneurs qui sont loin d’être pauvres décident à un certain moment de dépenser une partie (parfois importante) de l’argent gagné pour financer des projets liés à l’Église, à l’éducation, à l’illumination, afin que les gens viennent à la foi en Dieu. C’est à mes yeux très important. À ce propos, cela existe aux U.S.A., dans les milieux protestants.  En France, justement, cela nous manque beaucoup, peu de gens qui, ayant gagné beaucoup d’argent voudraient l’affecter à la cause de la renaissance de la religion et des valeurs spirituelles. De mon point de vue, c’est la maladie gravissime de l’Europe Occidentale contemporaine.

 

Rattraper et dépasser l’Occident ?

 

Thomas : Quelles sont vos impressions personnelles de votre participation au club de discussion « Valdaï » en septembre 2013 ?

 

A.C. : Honnêtement, j’en garde des sentiments mitigés. D’un côté, j’ai été impressionné par le niveau du déroulement de l’évènement lui-même, la diversité des experts très intéressants et l’organisation intelligente des discussions. Mais ce qui me troublait d’un autre côté, c’est que la philosophie générale  de « Valdaï » est pénétrée de part en part par la vision du monde occidentale et libérale. J’avais l’impression que toute une classe de politiques russes, rassemblés à Valdaï, pas tous mais la majorité, essaie de dépasser l’Occident sur le plan des valeurs libérales. Et ils essaient de le faire de telle manière que la Russie reçoit ces valeurs comme la norme. D’après moi, c’est étrange. La Russie sur le plan spirituel et culturel a toujours suivi son propre chemin historique, et elle a aujourd’hui la possibilité de créer son propre modèle de civilisation sans copier l’Occident. Cela sonnera peut-être comme une provocation, mais quand à Valdaï j’ai entendu certains politiques, j’ai eu l’impression qu’ils se sentaient comme des représentants d’un pays du tiers-monde, et tentaient de toutes leurs forces de se montrer à leur avantage devant l’Occident « civilisé », comme pour dire : « Nous aussi, nous avons le progrès, regardez comme nous sommes libéraux. » Comme s’ils étaient des élèves, et que de l’Occident étaient venus des professeurs qui leur disaient avec condescendance : « Eh bien que voulez-vous, il vous faut encore, bien sûr, travailler à la lutte contre la corruption, à la défense des droits des minorités. Vous avez bien sûr fait des progrès particuliers, mais ce n’est quand même pas suffisant. » Et les savants russes, s’excusant, répondent : « Oui, oui, oui, nous allons essayer, nous allons grandir. » Je considère que la Russie mérite mieux.

 

Thomas : Mais il y vraiment en Russie de grands problèmes de corruption, tout le monde le sait…

 

A.C. : Je ne veux pas dire qu’en Russie tout soit rose. Je dis que dans les questions de civilisation et de culture, la Russie a ses réalités historiques, et il n’y a pas de nécessité à l’évaluer toujours sur le fond des pays occidentaux. Il va sans dire qu’en Russie, comme dans tout autre pays, il y a des problèmes. Il faut lutter impitoyablement contre la corruption, Mais soit-dit en passant, elle existe aussi de la corruption en Occident.

 

Thomas : Est-ce possible ?

 

A.C. : Le fait est que les critères pour déterminer le niveau de corruption de tel ou tel pays sont établis et installés par des agences occidentales et que d’après leurs estimations, en France, en Allemagne ou aux U.S.A. la corruption, cela va sans dire, ne peut exister. C’est pourquoi je ne prendrais pour preuves leurs estimations qu’en Russie tout va mal qu’avec prudence. J’affirme qu’en Europe, la corruption existe aussi. Peut-être n’est-elle pas aussi voyante, aussi criante, mais elle existe. Elle est seulement cachée, masquée, exprimée d’une autre manière que « Je te donne l’argent, tu me fais le contrat ». Dans le cas de l’Occident, il est plutôt question d’une corruption de l’esprit, du caractère des gens eux-mêmes. C’est une sorte de profonde corruption morale, exprimée en cela qu’on a complètement exclu Dieu de notre vie. Mais personne n’a parlé à Valdaï de cette corruption fondamentale du monde occidental.

 

Il faut défendre les chrétiens

 

Thomas : Pourquoi les persécutions de chrétiens au Moyen-Orient sont-elles devenues si cruelles ces derniers temps ?

 

A.C. : En fait, les chrétiens du Moyen-Orient se trouvent depuis longtemps dans une situation de continuelle pression. La Turquie en est l’éclatant exemple. Au début du XXe siècle, huit pour cent de la population turque était chrétienne, et il est aujourd’hui question de quelques centièmes d’un pour cent. Il n’y a pourtant pas, en Turquie, de persécution physique des chrétiens. En revanche, on interdit l’enregistrement de nouvelles paroisses, et les gens sont obligés de quitter le pays d’eux-mêmes. En un mot, on essaie doucement et en silence d’étouffer le christianisme. Et c’est la situation générale des pays du Moyen-Orient.

 

Mais il y a une autre tendance, une relation ouvertement grossière et cruelle aux chrétiens. Cette tendance s’est activée particulièrement après la guerre d’Irak. Il faut malheureusement reconnaître que les guerres des U.S.A. dans cette région ont facilité à leur manière l’émergence du fondamentalisme islamique, en particulier sunnite. Que ce soit il y a quelques années en Irak ou aujourd’hui en Syrie, ce sont les mêmes extrémistes sunnites. Ils détruisent les églises, scient les croix, profanent les icônes et, bien sûr, éliminent physiquement les chrétiens, parmi lesquels apparaissent à nouveau de véritables martyrs. C’est pourquoi si le régime du président de la Syrie Bachar el Assad s’effondre, il est tout à fait évident que les persécutions ne feront que s’intensifier. En un mot, ces jeux politiques, cette union entre les U.S.A., la Grande-Bretagne et, à mon grand regret, la France, font les affaires des islamistes fondamentalistes dans leur lutte contre les chrétiens. Je souligne que je ne parle pas de l’islam dans son ensemble en tant que religion mais bien des fondamentalistes, c’est-à-dire d’un groupe particulier de gens aux dispositions guerrières à l’intérieur du monde musulman.

 

 

La Russie, dans la situation de la persécution des chrétiens au Moyen-Orient peut jouer un rôle vraiment historique, tout à fait dans le courant de toute l’histoire russe. Car au cours de nombreux siècles, jusqu’à la révolution de 1917, la Russie a été le défenseur assidu des chrétiens d’Orient. Et il est indispensable aujourd’hui, à mon avis, qu’elle redevienne ce défenseur. Il faut que la Russie qui se retrouve grâce au renouveau de l’Orthodoxie, envoie au monde le signal : « Nous sommes un État chrétien et les défenseurs des chrétiens. En dehors des chrétiens d’Orient, nous soutiendrons tous les chrétiens qui s’opposent à l’imposition des principes d’individualisme, au Diktat des minorités, à la légalisation du mariage homosexuel et ainsi de suite. Nous les soutiendrons pour défendre les valeurs traditionnelles ». De la sorte, ce sont précisément les valeurs traditionnelles qui deviendront la principale ressource russe, son principal outil, et feront de la Russie un acteur important de la politique mondiale. J’y crois et m’efforce de promouvoir cette idée de toutes les manières. Et je sais qu’en Russie, beaucoup considèrent que c’est justement dans cette direction qu’il faut avancer : s’engager dans l’éducation, expliquer le christianisme aux gens, pour devenir un État qu’on puisse appeler chrétien de plein droit.

 

Thomas : Le thème de la persécution des chrétiens est-il évoqué par les médias occidentaux ?

 

A.C. : Ça dépend. Dans l’ensemble, on peut dire que la tendance est de le minimiser. Mais la situation s’arrange petit à petit, car Internet apparaît comme une puissante source d’information alternative. Les ressources d’Internet rappellent aux principaux média traditionnels, par exemple, à des journaux français tels que Le Figaro ou Libération, l’état réel des affaires. Et quand de pareils médias ne disent rien d’un événement comme l’exécution de chrétiens à Maaloula, ces choses surgissent sur Internet, et les médias ne peuvent faire autrement que de les mettre en lumière. C’est pourquoi la situation évolue. Et de plus en plus de chrétiens en France se rendent compte que les chrétiens au Moyen Orient, par exemple les coptes en Égypte, sont réellement en danger.

 

La France se réveille

 

Thomas : En avril 2013, la loi sur le mariage homosexuel est entrée en vigueur en France, ce qui a suscité de massives actions de protestations de la part des défenseurs des valeurs traditionnelles. Qu’en pensez-vous ?

 

A.C. : Il s’est produit en France un événement d’une importance colossale. Bien sûr, auparavant, s’est produit un regrettable événement : la loi sur la légalisation du mariage homosexuel a été adoptée. La plupart des ministres, les socialistes et les « Verts », ont soutenu et soutiennent le mouvement en ce sens. Chaque jour que Dieu fait, pas à pas, ils s’efforcent avec persévérance de détruire l’aspect chrétien de la France contemporaine. Un exemple tout récent : ils ont promu la proposition de supprimer du calendrier français les fêtes chrétiennes pour les remplacer par des fêtes juives et musulmanes. Mais la société réagit quand même. Trois millions de personnes étaient dans la rue pour protester contre la légalisation du mariage homosexuel. Des gens d’âges divers, de bonnes familles, étaient prêts à manifester avec le risque d’être arrêtés, pour dire non à cette loi et défendre la seule conception normale de la famille. Sur ce point, il s’est produit quelque chose de très important. Bien qu’aujourd’hui la vague de protestation ait reflué, elle a enclenché tout un processus, ouvert la voie à tout un mouvement de résistance, comme si un ressort sur la porte s’était tendu sous la pression, la serrure avait été arrachée, et la porte s’était ouverte toute grande. Les gens savent maintenant qu’ils ont une plateforme où ils peuvent se rassembler pour défendre les valeurs familiales traditionnelles. En outre, il y a aussi d’autres directions de « combat » : la question de l’immigration, la question de l’islamisation etc. Je suis persuadé que nous assistons à un processus très important : le réveil des Français. Bien que pour parler d’une façon imagée, les forces du mal soient de toute façon très puissantes.

 

Thomas : Beaucoup sont persuadés que le mouvement pour la défense des valeurs traditionnelles doit prendre une dimension internationale. Que pensez-vous, sur ce point, d’une collaboration entre le France et la Russie ?

 

A.C. : C’est justement là-dessus que je m’efforce de travailler. C’est le thème qui m’occupe en permanence. Je suis persuadé que personne ne gagnera dans la solitude. C’est comme la lutte avec le nazisme; la menace était si forte qu’on ne pouvait la contrer qu’en s’unissant, et ce n’est pas par hasard que la Russie a trouvé un allié dans la Résistance française. Nous avons aujourd’hui devant nous une nouvelle forme de totalitarisme. Il n’est extérieurement pas aussi évident, il est masqué, il ne porte pas de casque militaire, mais c’est bien un totalitarisme, quoique rampant, on impose aux gens les valeurs libérales, on met en doute les concepts traditionnels de dignité de la personne, on pousse l’homme à se révolter contre Dieu, et en ce sens, le nouveau totalitarisme revêt des traits vraiment sataniques. Il faut opposer à ce totalitarisme une puissante résistance. Et si la Russie se déclare un État chrétien, et le défenseur des valeurs chrétiennes, cela deviendra justement une réponse, et la création d’un contre-modèle à ce que l’on impose aux gens en Occident. On le leur impose précisément. Je ne considère pas, par exemple, que la légalisation du mariage homosexuel réponde à une position sincèrement motivée des gens ordinaires dans les pays d’Europe. Non, c’est celle de la minorité au pouvoir qui cherche à imposer ses critères au peuple : ils ont fabriqué la théorie du genre qui « fonde » la légalisation des mariages homosexuels. Je suis sûr que les Européens de base eux-mêmes, comme d’ailleurs les Américains, n’en veulent pas. Et si on leur propose un contre modèle, ils l’adopteront. La Russie, en collaboration avec d’autres pays et organisations sociales qui soutiennent la famille traditionnelle peut le réaliser.

 

Thomas : Mais pourtant, comme les informations nous l’ont appris, bien que trois millions de Français soient sortis dans la rue, pas moins de 60 % de la population française, c’est-à-dire la majorité, soutenaient cette légalisation du mariage homosexuel. Et vous nous dites que ce n’est pas l’avis du peuple…

 

A.C. : Il faut parler ici de la logique de l’histoire de l’humanité en tant que telle. La majorité des gens, dans n’importe quel pays à n’importe quelle époque est malheureusement passive. C’est seulement un fait historique. Cela concerne n’importe quel peuple. Cela signifie que si un gouvernant inculque le mal, le peuple le reçoit et suit le mal. Si le gouvernant fait le bien, le peuple l’accepte et suit le bien. Cela ne signifie pas que la société est stupide, pas du tout. Simplement la plupart des gens vit au quotidien, s’occupe de ses affaires au jour le jour. Ce n’est pas mal, ce sont de bonnes gens qui éveillent en moi personnellement une vive sympathie. Mais on ne peut pas les appeler des citoyens conscients, on ne peut pas dire qu’ils réfléchissent à ce qui se passe dans leur État. C’est toujours une minorité qui est consciente, dans la société, et qui se bat et s’oppose. Elle va se battre, par exemple, pour la liberté de l’homme, ce qui, en fin de compte, veut dire la lutte pour le triomphe d’une vérité chrétienne. Ce schéma est valable pour toutes les sociétés. Rappelez-vous la Résistance française, dont les participants étaient bien sûr en minorité. Et même en U.R.S.S., il y eut de la même manière le mouvement des dissidents qui résistaient au régime soviétique, et pourtant les Soviétiques en majorité n’étaient pas des partisans du régime déterminés, la majorité simplement se taisait, nageait dans le sens du courant. Je le répète, telle est la philosophie de l’histoire.  C’est la minorité active qui fait l’histoire, et la question est seulement de savoir quel choix elle va faire, dans le sens du bien ou dans celui du mal.

 

Thomas : N’êtes-vous pas seul de cet avis parmi vos collègues en France ? Le fait est que beaucoup généralisent, affirmant : « On considère en Occident… » Comme si l’Occident était quelque chose d’homogène, où l’avis des gens est unifié, et où les experts isolés, par exemple vous-même, vous êtes plutôt l’exception à la règle, le vecteur d’un avis marginal sur les choses. En quoi cela correspond-il à la réalité ?

 

A.C. : Je trouve important de le dire en Russie, dans une interview pour une publication russe. La réalité objective est la suivante : la majorité des gens en Occident ne réfléchit pas aux questions dont nous parlons maintenant. Et la minorité qui vit et travaille tous les jours avec ces questions se partage en deux groupes : le premier, ce sont ceux qui considèrent l’individualisme général comme la norme, et le deuxième, ce sont ceux qui  trouvent indispensable de revenir aux racines chrétiennes. C’est là, je le répète, le tableau objectif. Ce sont ces deux minorités qui créent les partis et les organisations politiques. Ensuite, c’est la question du libre choix des citoyens aux élections. Pour parler de la France, il existe aujourd’hui un parti qui, d’après les analystes, dans un proche avenir deviendra le premier de France par sa popularité, c’est le Front national. Un parti qui se dresse contre le système existant. Ses partisans ne sont pas une minorité, c’est une partie notable des Français qui affirment l’importance des valeurs chrétiennes, la dignité de la personne, le danger de l’islamisation de la France, le refus de participer aux guerres des U.S.A., etc. Il ne convient donc pas de me considérer comme un bien grand original. Non, une grande quantité de gens, en France, raisonnent selon la même logique. Parmi les économistes, parmi les militaires. Si vous pratiquez un sondage chez les officiers, vous verrez que 30 ou 40 % d’entre eux sont disposés envers la Russie de façon très, très positive; beaucoup plus positive qu’envers les U.S.A. J’ai enseigné dix ans à des officiers, j’avais presque trois mille étudiants, je sais de quoi ils parlent et ce qu’ils pensent. Sans conteste, il est parmi eux des « atlantistes » des gens qui sont à cent pour cent pour l’O.T.A.N., qui raisonnent jusqu’à maintenant en termes de guerre froide; soi-disant, « les Russes sont d’affreux communistes ». Mais il y a une part significative d’officiers, particulièrement chez les jeunes, qui raisonnent d’une façon radicalement différente.

 

Thomas : Vous avez évoqué le parti « le Front national ».  En Russie, la tendance est de craindre comme le feu les mots « national », « nationalité » etc. On confond le mot « nationalisme » avec le mot « nazisme ». Et tout ce qui est « national » entraîne une association directe avec fascisme, agression, génocide, camps de concentration, extermination physique des immigrés… Existe-t-il, d’après vous, un nationalisme pacifique et à quoi ressemble-t-il en pratique ?

 

A.C. : Il existe. L’exemple en est justement le Front national qui s’est déclaré dès le début comme un parti patriotique. Ce n’est pas un parti de nationalistes, si l’on comprend le nationalisme comme un synonyme d’agression. Le parti patriotique s’efforce de conserver le visage historique de la France, défend sa civilisation et sa culture contre les changements du système qui se produisent sous l’influence des étrangers. Il n’a jamais été question de chasser immédiatement du pays tous les immigrés. La question, c’est que le multiculturalisme nuit à la France dans un sens purement démographique, les gens qui sont arrivés des pays arabes et leurs enfants occupent de plus en plus la France et de ce fait, provoquent la guerre civile. Ce que nous voulons, c’est que les étrangers s’assimilent, c’est-à-dire deviennent proprement des Français. Cela peut naturellement être lié à l’adoption du christianisme. Mais pas forcément : celui qui trouve important pour lui de rester dans l’islam doit simplement connaître et accepter la culture française, ne pas obliger sa femme à porter le voile intégral, etc. C’est là le programme du Front national. On n’y trouve pas un mot sur le recours à la force contre les immigrés. En outre, parmi les députés élus à l’assemblée nationale il y a des Arabes, ce que peu de gens savent. Nous pensons simplement qu’une immigration trop abondante nuit à la France. Comme elle nuit à ces mêmes étrangers qui viennent en France

 

Je suis moi-même partisan du dialogue entre les civilisations. J’ai beaucoup travaillé et enseigné, par exemple au Maroc. J’ai pris parole à l’O.N.U. comme expert  du Maroc. J’ai des dizaines d’amis et de collègues parmi les musulmans, je crois en une politique arabe de la France. Les pays arabes sont nos voisins par la Méditerranée. Nous avons d’excellentes relations avec eux. La seule chose que nous devions faire, c’est contrôler les flux migratoires. Car aujourd’hui, cela ne peut pas continuer ainsi. Autrement la société française va tout simplement exploser, parce que la prospérité du gouvernement va s’écrouler, beaucoup de jeunes étrangers viennent en France dans l’espoir de vivre des allocations.

 

Être ou avoir

 

Thomas : Vous parlez beaucoup de religion. Dans quelle mesure la religion, en tant que domaine fondamentalement non matériel, peut-être un facteur géopolitique ?

 

A.C. : La géopolitique comprend au minimum trois choses fondamentales : La première c’est la géographie physique, c’est-à-dire où et comment le pays se situe, qui sont ses voisins, son ouverture sur la mer, etc. La deuxième, c’est la géographie des ressources, le pétrole, le gaz naturel, etc. Et la troisième, c’est la géographie identitaire, comment les gens se voient, quelle est leur identité. C’est relié directement aux conflits ethniques et religieux, car l’identité religieuse est l’une des plus importantes pour l’homme. En ce sens, on peut réduire de façon imagée la problématique de la géopolitique à deux verbes principaux, qui, dans la langue française sont également des auxiliaires qui servent à constituer les temps, le verbe avoir et le verbe être. À travers le verbe être, l’homme définit justement son identité, c’est-à-dire qu’il répond à la question : « que suis-je en cette vie ? » Cela concerne les questions de religion : « je suis chrétien », « je suis musulman », « je suis juif ».

 

 

L’identité religieuse a une énorme signification, car elle définit le système de valeurs de cette personne concrète, la façon dont il va percevoir le monde alentour. Et au moment où il se définit et commence à voir le monde précisément comme cela et pas autrement, cela devient un facteur de géopolitique. Car l’homme ne vit pas seul au monde mais en relation avec les autres. En un mot, la religion du point de vue géopolitique n’est pas pour les gens une question de connaissance théologique, ni de vie spirituelle intérieure, mais de recherche de sa propre identité, la tentative de décider « qui je suis » et d’agir en conséquence.

 

Beaucoup considèrent qu’en géopolitique domine tout ce qui est lié au verbe « avoir » : qui a quelles armes, les ressources naturelles, les technologies etc. C’est bien sûr important, mais ce n’est pas le plus important. Car on ne va pas aller mourir pour du pétrole. En ce sens, c’est le verbe « être » qui occupe la première place : les gens sont prêts à faire la guerre s’ils défendent leur identité, leur vision du monde, ce qui leur est cher.

 

 

L’identité religieuse, je le répète, est pour l’homme en un sens la principale, parce que la façon dont voit ses relations avec Dieu, avec l’Absolu, avec les valeurs supérieures, détermine celle dont il va construire ses relations avec tout le reste du monde terrestre.

 

Thomas : Et quel rôle jouent la religion et la foi dans votre vie ?

 

A.C. : Je m’intéresse beaucoup à tout ce qui est lié au catholicisme dans le monde contemporain. Mais l’Orthodoxie me fascine, je sens en elle quelque chose d’originel, un christianisme pur qui n’a pas été obscurci, le reflet de la foi des premiers chrétiens. En Occident, nous le savons, ces notions se sont en partie perdues.

 

Je suis marié, j’ai quatre enfants. Et la religion est pour moi une chose centrale et vitale. Ce qui ne change rien au fait que je suis pécheur, que la force et la profondeur de ma foi sont moindres que je le juge nécessaire. La religion, c’est ce qui permet de rendre plus digne notre façon de vivre et de s’opposer aux séductions du monde, comme par exemple, l’argent et les belles filles, qui sont d’ailleurs très nombreuses en Russie. On ne tient que grâce à la foi, la foi en Celui qui est plus grand que tout cela.

 

• Propos recueillis par Thomas et mis en ligne sur L’Esprit européen, le 15 décembre 2013.

 


 

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mardi, 21 janvier 2014

Hacia el panarabismo nasserista en Egipto

por Germán Gorraiz López

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

La inesperada victoria de Mursi en las elecciones egipcias del 2012 trastocó la estrategia geopolítica de EEUU en Oriente Próximo, consistente en la pervivencia endémica en Egipto de gobiernos militares autocráticos pro-occidentales para mantener el tratado de paz de Egipto con Israel, (acuerdo Camp David, 1979), para continuar la lucha contra las milicias yihadistas en el Sinaí y en especial para asegurar el acceso la Marina de EEUU al Canal de Suez, un atajo crucial para el acceso directo a los Emiratos Árabes, Irak y Afganistán.

La ingenuidad política de Morsi quedó plasmada en el nombramiento del general Al-Sisi comandante general de las Fuerzas Armadas y ministro de Defensa (CSFA) con la esperanza de poder desinfectar el establishment militar egipcio de los virus patógenos inoculados durante la autocracia de Mubarak , ya que en su etapa anterior Al Sisi era el jefe de la temida inteligencia militar y era considerado como el miembro más “reformista” de la Junta Militar.

Sin embargo, el Consejo Supremo de las Fuerzas Armadas (CSFA), antes de transferir el poder, aprobó una declaración constitucional complementaria en la que se preservaban las principales prerrogativas del Ejército, como detentar el poder legislativo durante la Transición, una amplia autonomía para gestionar su presupuesto y la capacidad de decidir sobre la declaración de guerra, por lo que su anulación por el Presidente Morsi encendió la luz verde para la asonada militar contra el Gobierno de los Hermanos Musulmanes.

Morsi nunca controló las palancas del poder en el país y sólo tenía un control nominal sobre el ejército, las fuerzas de seguridad o los servicios de inteligencia del estado, por lo que negoció con Al Sisi la lealtad del Ejército a su persona enrocado en la defensa de su legitimidad presidencial, pero el CSFA ejecutó un golpe de mano virtual contra Morsi al no encajar su proyecto islamista en la estrategia de EEUU en Oriente Próximo, golpe que contaba con el visto bueno de EEUU al haber dejado Mursi de ser un peón útil para la estrategia geopolítica de EEUU en Oriente Próximo, formando parte de la nueva estrategia de EEUU para la zona tras el evidente fracaso del experimento de exportación del otrora régimen islamista moderado y pro-occidental de Erdogan a todos los países que componen el tablero gigante del mundo árabe-mediterráneo.

Recordar que según el periódico Al Tharir, el general Sisi tendría “fuertes lazos con funcionarios de Estados Unidos tanto a nivel diplomático como militar, pues estudió en Washington, asistió a varias conferencias militares en la ciudad y participó en ejercicios conjuntos de guerra y operaciones de inteligencia en años recientes”, pero las medidas de presión de la Administración Obama provocaron el desapego afectivo de al-Sisi tras reprochar a Obama que “Ud. abandonó a los egipcios, Ud. le dio la espalda a los egipcios y ellos no lo olvidarán”.

Recordar que el apoyo de la Junta Militar egipcia sería crucial para mantener el tratado de paz de Egipto con Israel, (acuerdo Camp David, 1979), para continuar la lucha contra las milicias yihadistas en el Sinaí y en especial para asegurar el acceso al Canal de Suez , pues Egipto otorgaba a la Marina de EE.UU. paso expedito a través del Canal de Suez para la docena de buques de guerra que atraviesan mensualmente dicho canal. Así, Israel, Arabia Saudí, Qatar y demás aliados árabes de EEUU en el Próximo Oriente (con la excepción de Erdogan), habrían presionado a Obama y a la UE a no condenar el golpe de mano contra Morsi, optando por un nuevo Mubarak como mal menor ante la amenaza del islamismo surgido de las urnas.

Sin embargo, tras la cruenta represión del ejército egipcio contra los Hermanos Musulmanes, la Administración Obama anunció la cancelación del ejercicio bienal militar conjunto con Egipto como medida de presión al gobierno interino militar para ceñirse al acuerdo del plan de transición democrático así como la posible revisión de la ayuda militar que concede a Egipto, estimada en 1.500 millones de doláres anuales, provocando un vacío occidental que fue aprovechado por Arabia Saudí y Putin para recuperar la influencia perdida en Egipto.

Así, tras el golpe de mano contra Morsi, Egipto podría recibir una inyección económica de Arabia Saudita, Kuwait y los Emiratos Árabes Unidos por un monto total de 15.000 millones de doláres como parte de la estrategia de las monarquías árabes del Golfo para anular la creciente influencia de Qatar como principal benefactor de Egipto tras la donación de 5.000 millones de doláres al régimen de Morsi.

Por otra parte, la retirada por EEUU del portaaviones USS Nimitz y el destructor USS Graveley del Mediterráneo tras cancelar “in extemis” Obama el ataque contra Siria (Operación Free Syria) fue aprovechado por Putin para reforzar su flota en el Mediterráneo con 18 buques de guerra. Así,según la agencia Itar Tass, Rusia reforzará su base naval en el puerto sirio de Tartus con el objetivo de resucitar la extinta Flota del Mediterráneo, (disuelta en 1992 tras la extinción de la URSS), cuya columna vertebral estará formada por la Flota del Mar Negro , la del Norte y la del Báltico (con el Varyag como buque insignia) y podría estar operativa en el 2.015, pero la inestabilidad del conflicto sirio, obligaría a Rusia a buscar una nueva alternativa para su base naval en suelo egipcio, (Damietta o Port Said).

Egipto sería un país lastrado por su excesivo déficit energético y por las elevadas tasas de importación de cereales en una sociedad inmersa en la cultura del subsidio (alrededor del 30 % del presupuesto del país está destinado a subvenciones), por lo que en el nuevo escenario que se dibuja, las necesidades de grano y de tecnología de Egipto podrían ser satisfechas en exclusividad por Rusia. Durante el mandato de Mursi, Egipto solicitó la ayuda técnica de Rusia para construir la central nuclear de Dabaa cerca de la costa mediterránea y desarrollar el reactor nuclear experimental de Inshas, a las afueras de El Cairo, así como la tecnología necesaria para explotar las minas de uranio del país, situadas entre el Nilo y la costa del Mar Rojo, puesto que Rusia a través de las empresas Lukoil y Avatec ya tendría una importante presencia en los campos de petróleo y gas egipcio.

Por otra parte, según la agencia Cairo Press Review, los ministros de Exteriores y de Defensa de Rusia viajarán a El Cairo la próxima semana para conversaciones con sus homólogos egipcios sobre la venta de armas y las relaciones entre ambas naciones, preludio de la posible visita del presidente ruso Vladimir Putin a Egipto para logar de al-Sisi la concesión para instalar una base naval permanente en Damietta o en Port Said, base militar que otorgaría a Rusia el papel de gendarme del Canal de Suez y que siempre le fue negada a EEUU.

Recordar que el paso del Canal de Suéz está considerado como uno de los puntos más importantes para el comercio mundial ya que transporta 2,6 millones de barriles de crudo al día (lo que representa casi 3% de la demanda mundial diaria de petróleo) y asimismo es una ruta imprescindible para la Marina de EEUU, pues hasta ahora Egipto otorgaba a la Marina de EE.UU. paso expedito a través del Canal de Suéz para los cerca de 40 de buques de guerra que atraviesan mensualmente dicho canal y que les aseguraba un atajo crucial para el acceso directo a los Emiratos Árabes, Irak y Afganistán.

En el supuesto de que su control pase a manos rusas, la geopolítica de EEUU en Oriente Próximo y Medio (Oriente PROME) quedaría totalmente hipotecada y supondría un cambio geopolítico total en el complicado puzzle de Oriente Próximo, pasando Rusia a ser elemento referente y socio estratégico de Egipto y convirtiendo a Egipto en el portaaviones continental de Rusia, rememorando la política de Jruschov cuando Egipto era el principal socio de la URSS en la región y su Presidente Nasser fue condecorado con la Estrella de Héroe de la Unión Soviética.

Por su parte, al-Sisi sería partidario de restablecer el tradicional status del ejército en la vida socio-política de Egipto pero necesita implementar cambios democráticos que le otorguen un poder presidencialista con claros tintes autocráticos, siempre bajo el lema de defender “los intereses de todos los egipcios y no solo de un grupo social o religioso” por lo que según DEBKAfile, “se espera que al-Sisi se postule como candidato a la Presidencia para las próximas elecciones Presidenciales del 2014”.

Caso de ser elegido nuevo Presidente de Egipto, el mencionado desapego de Sisi respecto a los países occidentales aunado con el previsible fracaso de la enésima ronda de conversaciones de paz palestino-israelíes y la delicada situación económica en que se encuentra Egipto ( país empobrecido de iure y subsidiado de facto), podría hacer que Sisi enarbolara la bandera de un nuevo movimiento panarabista de filiación nasserista que tras extender su efecto mimético al resto de países árabes del arco mediterráneo (Túnez, Libia, Siria, Líbano) además de Jordania e Irak, podría terminar por reeditar la Guerra de los Seis Días en el horizonte del próximo quinquenio.

Dicho enfrentamiento será aprovechada por Estados Unidos, Gran Bretaña e Israel para proceder a rediseñar la cartografía del puzzle inconexo formado por dichos países y así lograr unas fronteras estratégicamente ventajosas para Israel, siguiendo el plan orquestado hace 60 años de forma conjunta por los gobiernos de Gran Bretaña, Estados Unidos e Israel y que contaría con el respaldo de los principales aliados occidentales (Gran Israel). Hay que recordar que el Proyecto del Gran Israel (Eretz Israel), sería hijo del atavismo bíblico y bebería de las fuentes de Génesis 15:18, que señala que “hace 4.000 años, el título de propiedad de toda la tierra existente entre el Río Nilo de Egipto y el Río Eúfrates fue legado al patriarca hebreo Abraham y trasferida posteriormente a sus descendientes”, lo que supondría la restauración de la Declaración Balfour (1917), que dibujaba un Estado de Israel dotado de una vasta extensión cercana a las 46.000 millas cuadradas y que se extendía desde el Mediteráneo al este del Éufrates abarcando Siria, Líbano, parte noriental de Irak, parte norte de Arabia Saudí , la franja costera del Mar Rojo y la Península del Sinaí en Egipto así como Jordania, que pasaría a denominarse Palesjordán tras ser obligado a acoger a toda la población palestina de las actuales Cisjordania y Gaza tras ser obligados a una diáspora masiva (nueva nakba).

Fuente: Los restos del naufragio

dimanche, 19 janvier 2014

Complicated situation around Iran and the KSA

 

Complicated situation around Iran and the KSA

The situation around Iran continues to be quite difficult, despite significant progress in the normalization of relations between the West and Iran and the achievement of an interim agreement on the Iranian nuclear program in Geneva on November 24 at a working meeting of the “six” international negotiators and a Tehran delegation. President Rouhani failed to gain the immediate trust of the USA and its allies with his major changes to the accents of Iran’s foreign policy, although the process proceeded in the right direction relatively quickly.

The fact is that much of the negative role, being played in Washington, comes from the Republicans and other conservative forces sitting in the US Congress. First, they approved a list of 19 individuals and entities that fell under sanctions for involvement in Iran’s nuclear program, which forced the Iranian delegation to leave the conference room in Geneva on December 13, since the interim agreement of November 24 provides for the non-imposition of any additional sanctions against Tehran. Then, a group of senators prepared a list of new sanctions against Iran in late December, if negotiations on the nuclear issue reached a deadlock. In response, Iranian parliamentarians prepared their list of appropriate measures that could be applied in case the U.S. toughened its position and the negotiations were derailed. Although it is clear that President Obama himself is interested in the successful completion of the Geneva process, since this would contribute to significant freezing of the Iranian nuclear program, the normalization of relations with Tehran, and allow Washington to continue on a course aimed at reformatting its policy in the Middle East, which started in October 2013.

That is when the U.S. Administration finally realized the fatality of placing its stakes on supporting those forces in the Arab world that assisted radical Islam, extremism and even terrorism, by financing and providing military assistance to organizations and groups affiliated with al-Qaeda or currents even more radical in their ideologies. Their goal is to transform the Arab world into a radical Wahhabi Caliphate. Moreover, it was only this example of a bloody war in Syria that made American strategists realize this fact, and they started developing new approaches to their policy in the region. This explains the change of attitude towards Iran, which can become a real counterweight to the aggressive policy of Saudi Arabia, even more so, since the oil dependence of the U.S. economy has been substantially reduced after the “shale revolution”, and the importance of the Wahhabi Kingdom has decreased as well, in terms of the world’s energy supplies.

At the same time, American and European companies are interested in participating in the modernization of the Iranian economy and the development of large oil and gas projects that were frozen because of the sanctions. In addition, Iran is a very large market, given its 70 million people and solvency thanks to vast oil and gas resources of this country. Their development, especially the South Pars Gas Field, will require tens of billions in investments and the latest technologies, including for the creation of facilities for liquefying gas for export. Iran’s power industry, industrial sector, telecommunications, and transport infrastructure have huge investment opportunities. In other words, this is a very tasty area for Western business, which is much more promising than the economies of the GCC countries, where labor resources are limited.

Thus, Saudi Arabia became nervous as it realized that its place as the main strategic ally of the USA in the Persian Gulf might soon be taken over by Iran. The more so, knowing that Tehran played this role in the 1970s under the Shah’s regime. Moreover, if one considers Iran’s powerful armed forces, which will surely be modernized, one can understand what Riyadh is afraid of – a complete change in the regional balance of forces, where Saudi Arabia will fall into the shadows of Iran and Iraq.

Nevertheless, instead of making steps towards Tehran, the stubborn and conservative aging leaders of the KSA started, simply saying, to “play dirty tricks” through the development of an entire network of anti-Iran intrigues. At first, the Saudis tried to push Israel into joint strikes against Iran’s nuclear facilities. Then, when this idea had failed, Riyadh decided to put together an anti-Iran military bloc by transforming the GCC from an economic and political union of Arabian monarchies into a military alliance. At the last summit of the organization in December in Kuwait, the Saudis put forward a proposal to create a sort of a “Gulf” NATO to deter Iran. Although, as it is well known, Iran never attacked its neighbors during its modern history after the Khomeini Revolution, but only fought to repel the aggression of Iraq, started in 1980 at the instigation of Saudi Arabia, the GCC countries and the United States.

So far other members of the Council – with the exception of Bahrain, whose royal regime entirely depends on Saudi bayonets (Saudi troops were brought to the island in February 2011 to suppress actions of the Shiite majority population) – are reacting coolly to all this. Only a kind of military command was established, but there are no common armed forces. Moreover, small Arab principalities of the Gulf will hardly wish to worsen their relations with Iran, at the time when this country is coming out of Western isolation.

Moreover, Riyadh revived talks of a regional missile defense system called “ParsPRO” to repel possible missile and air strikes on the GCC from Iran. Its components, based on the purchase of the “Patriot” systems, would be placed virtually everywhere – from Kuwait to Qatar and the UAE. At that, they planned to spend up to $20 billion for just the first phase. Moreover, this was done despite the fact that in early December, the Iranian Foreign Minister Mohammad Javad Zarif visited four Gulf countries and put forward a number of interesting initiatives to strengthen stability and security in the Gulf, which received positive feedback from Kuwait, Qatar, UAE and Oman.

In any case, we can be sure that Tehran can overcome the remaining difficulties in the coming period and make a leap forward, despite the machinations of Saudi Arabia and the pressure of the pro-Israel lobby in Washington. Russia understands this, and is getting ready to expand its cooperation with Iran – a country that is a friend of the Russian Federation. It is no mere chance that Russian Foreign Minister Sergey Lavrov made an official visit to Tehran in mid-December, and that the capital of Iran hosted a meeting of the Joint Intergovernmental Commission on Trade, Economic, Scientific and Technical Cooperation.

Viktor Titov, PhD in History, a political observer on the Middle East, exclusively for the online magazine New Eastern Outlook.

Ruzie met Israël bewijst dat Obama Iran als nieuwe bondgenoot ziet

Ruzie met Israël bewijst dat Obama Iran als nieuwe bondgenoot ziet

Oud brigadier-generaal Chen noemt Kerry's plan voor Palestijnse staat 'absurd' en 'krankzinnig'


Moshe Yaalon en John Kerry. Israëlische leiders worden onmiddellijk terecht gewezen als ze kritiek hebben, maar Iraanse leiders kunnen zeggen wat ze willen, zonder ook maar enige tegenspraak van het Witte Huis.

De ruzie die de afgelopen dagen ontstond tussen de VS en Israël, nadat de Israëlische minister van Defensie Moshe Yaalon zware kritiek had geuit op zowel de Amerikaanse minister van Defensie John Kerry als diens vredesplan, laat eens te meer zien dat president Barack Hussein Obama niet langer de Joodse staat, maar Iran als belangrijkste bondgenoot in het Midden Oosten beschouwt. De Iraanse leiders kunnen immers zonder enige veroordeling van het Witte Huis de VS blijven verketteren, zoals ook deze week weer gebeurde.

'De minister van Defensie verontschuldigt zich als de minister (Kerry) beledigd was door diens woorden,' aldus de verklaring gisterenavond van het kantoor van minister Yaalon. Die had Kerry eerder 'obsessief' en 'messiaans' genoemd, en het vredesplan wat hij heeft gepresenteerd 'het papier waarop het is geschreven niet waard'.

Zowel het Amerikaanse ministerie van Buitenlandse Zaken als het Witte Huis reageerden woedend, en eisten een excuus, dat er na enkele uren ook kwam. Dat gebeurde echter pas nadat premier Netanyahu twee uur lang met minister Yaalon had gepraat. Tenslotte zag die geen andere uitweg dan zich te verontschuldigen.

Netanyahu vergeleek toenadering tot Iran rechtstreeks met Hitler

Eigenlijk was de ruzie al eerder begonnen, namelijk tijdens de begrafenis van de afgelopen weekend overleden oud-premier Ariel Sharon. In het bijzijn van vicepresident Joe Biden citeerde Netanyahu Sharons belofte dat hij nooit meer zou toestaan dat Israël en de Joden moeten betalen voor de fout van het Westen, dat in 1938 toenadering zocht tot Adolf Hitler, die ondertussen druk bezig was met de voorbereidingen voor de Holocaust tegen het Joodse volk.

De regering Obama beschouwde dit als een steek onder water naar de toenadering tot Iran, en het accepteren van de nucleaire aspiraties van dit land. In die zin was Netanyahu's kritiek zelfs directer als die van Yaalon.

De ontstane ruzie onderstreept dat Obama Israël geleidelijk aan heeft afgewaardeerd als belangrijke bondgenoot in het Midden Oosten, en de Joodse staat aan het inruilen is voor de islamitische republiek Iran. Dat blijkt overduidelijk uit het feit dat de leiders en andere officials in Teheran de VS in nog veel hardere bewoordingen kunnen blijven verketteren, zonder dat er ook maar één woord van kritiek uit Washington op komt.

Geen reactie op beledigingen en beschuldigingen door Rouhani

In september 2013 zette de Iraanse president Rouhani Obama publiekelijk op zijn nummer, door een uitnodiging voor een persoonlijk gesprek af te wijzen. Sindsdien gaat Rouhani op de Iraanse TV regelmatig tekeer tegen het Witte Huis, beschuldigt hij Obama van misleiding, en beweert hij dat Amerika en het Westen hebben gebogen voor de wil van Iran.

Deze week nog sprak viceminister van Buitenlandse Zaken Abbas Araghchi het Witte Huis rechtstreeks tegen, door te zeggen dat Obama niet de waarheid had gesproken toen hij zei dat Iran erin had toegestemd om delen van zijn uraniumverrijking te ontmantelen.

Iran mag zeggen wat het wil, Israël niet

Het Witte Huis reageerde hier enkel op door te zeggen dat het 'niet uitmaakt wat de Iraniërs zeggen, maar wat ze doen.' Die regel geldt duidelijk niet voor Israëlische leiders en officials. Zij worden bij veel minder hevig kritiek op Obama en zijn regering onmiddellijk keihard terecht gewezen. Een woordvoerder van het ministerie van Buitenlandse Zaken zei dat 'Kerry en zijn team dag en nacht werken om een veilige vrede voor Israël te waarborgen.'

Dat Kerry en zijn team hard werken is niet iets wat in Israël wordt betwijfeld. Wat men in de Joodse staat niet kan accepteren, is dat Amerika wil bepalen wat voor Israël 'veilig' is, en hoe het zich moet opstellen tegenover een nucleair Iran en de Palestijnen. De mening van Israël zelf doet daarbij nauwelijks ter zake.

Yaalon nam inhoud kritiek niet terug

Yaalon luchtte hier zijn hart over door te zeggen dat 'Kerry mij niets hoeft te vertellen over de Palestijnen. Ik leef en adem het conflict met de Palestijnen. Ik weet wat ze denken, wat ze willen en wat ze echt bedoelen. Het Amerikaanse veiligheidsplan dat ons werd voorgelegd is het papier waarop het geschreven werd niet waard.'

Met grote tegenzin moest de minister uiteindelijk zijn excuses aanbieden. Merk echter de terminologie op: '... verontschuldigt zich als de minister (Kerry) beledigd was door diens woorden.' Feitelijk bood Yaalon enkel zijn excuses aan voor het beledigen van Kerry, maar nam hij niets van de inhoud van zijn kritiek terug.

'Absurd spelletje'; Palestijnse staat 'krankzinnig'

Yaalon kreeg vandaag steun van oud brigadier-generaal Amatzia Chen, ooit lid van Sharons legendarische 101e eenheid. 'Yaalon zei duidelijk dingen. Er is hier een absurd spelletje gaande dat op een mislukking zal uitlopen. De media staan bol van politieke standpunten die zelfs niet een klein beetje overeenkomen met de realiteit.'

Chen vond het dan ook een goede zaak dat Yaalon zich heeft uitgesproken. 'Het is namelijk volkomen duidelijk dat wij geen (vredes)partner hebben. Ze proberen een land te fabriceren met een Palestijns volk - dat is een in de geschiedenis nog nooit vertoonde krankzinnigheid.'

Chen wees op de mislukking van Sharons eenzijdige terugtrekking uit Gaza in 2005. Dat leverde niet de door de Palestijnen beloofde vrede op, maar juist nog veel meer terreur. 'Zo zal het ook gaan als we Judea en Samaria evacueren. Dat moeten we zelfs niet eens overwegen.' (2)


Xander

(1) DEBKA
(2) Arutz 7

Zie ook o.a.:

14-01: Ruzie VS-Israël na zware kritiek minister Defensie op Kerry's vredesplan
14-01: VS weigert Israël details over deal Iran, dat onmanteling kernsites ontkent
13-01: Hamas: Israël volgens islamitische profetieën over 8 jaar vernietigd
09-01: Iran negeert alle afspraken Genève, bevestigt streven naar kernwapens (/ Opperleider Khamenei noemt Verenigde Staten 'satanisch')
09-01: Oude islamitische tekst bewijst dat imam Mahdi reeds aanwezig en actief is
07-01: Abbas' Fatahpartij: Vernietiging heel Israël einddoel van vredesverdrag

2013:
20-12: Hoge Palestijnse official: Ja, wij steunden volmondig de Nazi's
18-12: Iran: Genève-akkoord betekenisloos, mogelijk nog 20 jaar onderhandelen
13-12: Geen bezwaar VS en EU tegen Iraanse (kern)raketten die Israël kunnen raken
02-12: Deal met Iran: Vervult Obama islamitische profetie over wegbereider Mahdi?
26-11: 'Obama belooft Iran status als 7e wereldmacht'

Viktor Orban in Moscow

 

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Viktor Orban in Moscow

Pyotr ISKENDEROV

Ex: http://www.strategic-culture.org

 

The first EU-Serbia intergovernmental conference coming up in January is supposed to demonstrate the progress of Serbia's application to join the European Union. «Serbia must continue the reforms it has begun, the results of which will be a key indicator in assessing the integration process», stated the European Parliament Committee on Foreign Affairs. At the same time, in a discussion on Serbia's European prospects, members of the European Parliament hailed the local elections held in Kosovo in late 2013 as «a big step forward on the path to democracy». 

The politicization of Serbia's application to join the EU is obvious. This refers to the socioeconomic requirements being made of Belgrade and recommendations to revise the parameters of cooperation with Russia in the energy field, as they do not conform to the spirit of the European Union, the Energy Charter and the Third Energy Package. 

However, how can one talk about «nonconformity» if within the EU itself the approaches of individual countries to choosing an energy policy are increasingly different? The European Union is not a monolith. A number of its member countries have already made it clear that they do not plan to uncomplainingly follow the directives of Brussels in the energy field, although they do not call their EU membership into question (at least, not yet). At the very moment when the European Parliament members in Strasbourg were starting their discussions at their winter session, Hungarian Prime Minister Viktor Orban arrived in Moscow for a working visit... 

Over the past two decades, relations between Russia and Hungary have seen complicated periods. There have been both actions of the Hungarian government against Russian oil and gas companies (mainly against Surgutneftegaz) and attempts by Budapest to play a «double game» on the energy field. However, in the last few years relations have been improving. Viktor Orban's working visit to Moscow in January 2013 was a momentous occasion. At that time, during his meeting with Russian President Vladimir Putin, the head of the Hungarian government suggested that Russia participate in the modernization of Hungary's energy system. And now these plans are beginning to be implemented. 

According to Sergei Kirienko, the head of the state corporation Rosatom, nuclear energy is becoming an important area of bilateral Russian-Hungarian cooperation. «Negotiations with Hungary are in the active stage», stated Kirienko. This refers to Russia's participation in building two new power producing units at Hungary's Paks nuclear power plant (in addition to the existing four which were built with the help of the USSR) with a total output of 2500-3400 MW. The contract is valued at 10 billion dollars. «Over 40 percent of the work volume», according to V. Putin, «is to be done by the Hungarian side. This means that approximately three billion dollars will be allocated for supporting jobs in Hungary, and tax revenues alone will come to over a billion dollars.» 

And if one adds the agreements reached by Moscow and Budapest in late 2013 on strict adherence, regardless of possible complications, to the previously agreed-upon schedule for the construction of the Hungarian part of the South Stream gas pipeline and the start of Russian gas deliveries to Hungary in early 2017, one must acknowledge that cooperation between Russia and Hungary in the energy field is becoming a strategic partnership.

There are two main reasons for the progressive development of relations between Russia and Hungary. The first is connected with tension in the relations between Budapest and Brussels. Pressure from EU leadership on Hungary has become increasingly overt over the past few years, touching on both the state sovereignty of Hungary and the sentiments of its people. It is sufficient to recall the improvisations of German politicians with regard to the need to send paramilitary units to Hungary or the proposal discussed in the European Commission to impose sanctions on Budapest for peculiarities of Hungarian national legislation which did not please Brussels. 

In the eyes of Hungarians, all of this has significantly reduced the attractiveness, to put it mildly, of the European Commission's recommendations in other areas as well, including energy. Furthermore, why not follow the example of German business in this matter? In recent years it has been conducting an independent policy of cooperating with Russia in the energy field. This refers, in particular, to the recent withdrawal of the German energy holding RWE from the Nabucco project.

Furthermore, Russian-Hungarian cooperation has a good financial and economic basis. Russian proposals are simply more profitable, well-planned and serious than similar proposals from Western companies. This is proven by a simple fact: today Russia supplies 80% of oil and 75% of natural gas consumed in Hungary. 

As the Hungarian press acknowledges, among all the candidates for the contract, only Rosatom is prepared to provide appropriate preliminary financing for the project to develop the Paks nuclear power plant. At first the French company Areva and the Japanese-American company Westinghouse planned to take part in the tender, but Hungary never received any concrete proposals from them. The Russian corporation, on the other hand, proposed terms which serve the interests of the Hungarian side.

It must be said that Hungary's interest in developing atomic energy does not exactly suit the priorities of the European Union, where many are dreaming of a «shale revolution», which would bring Europe no less, but rather more, of an ecological threat than a nuclear plant. 

The Hungarian government's stake on the development of nuclear energy, observing, of course, all safety requirements, is an important step on a Europe-wide scale. As shown by Russia's cooperation with other countries, in particular Iran, Russian proposals fully meet safety requirements. So the energy alliance of Moscow and Budapest may serve as an example for other European countries.

jeudi, 16 janvier 2014

Quito y la geopolítica inglesa: 1698-1830

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Quito y la geopolítica inglesa: 1698-1830
Una breve aproximación histórica.
 
Por Francisco Núñez Proaño

 

Ex: http://www.arbil.org/

“Los ingleses considerados como pueblo, son tan imprudentes, tan estrechos y tan poco prácticos en cosas políticas como cualquier otra nación. Pero poseen una tradición de confianza, pese a su gusto por los debates y las controversias públicas. La diferencia esta que el inglés es ‘objeto’ de un Gobierno con antiquísimos y triunfantes hábitos” – Oswald Spengler


Quito en el mundo de los siglos XVI Y XVII

Algo más de un lustro después de haber sido fundada San Francisco de Quito trascendió por primera vez al ámbito de las líneas geopolíticas europeas debido al descubrimiento del río más largo y caudaloso de la Tierra[1], llamado inicialmente por “los argonautas de la selva” sus descubridores españoles: “Río San Francisco de Quito” y  finalmente “Río de las Amazonas”.

La expedición que había partido de Guayaquil y Quito en 1541 y llegó a célebre término en la desembocadura del “río-mar” en el Océano Atlántico en 1542.  El conquistador y descubridor Francisco de Orellana firma en Valladolid las capitulaciones conformes con el Príncipe Regente de Castilla, Felipe de Austria, en ausencia de su padre Carlos I de Castilla y V del Sacro Imperio Romano Germánico, quien se encontraba fuera de España tratando sus asuntos europeos, entonces se le conceden los títulos de Adelantado y Capitán General de la Nueva Andalucía a Orellana que sin embargo no pudo ver sus expectativas cumplidas al morir tres años después en las playas Atlánticas del Amazonas que descubriera un 12 de Febrero de 1542[2].

Tuvo que transcurrir casi un siglo para que en 1637-38, el explorador Pedro de Texeira al servicio Felipe III de Portugal y IV de Castilla respectivamente, remontara el curso del Amazonas desde el Atlántico hacia Quito, reconfirmando así la posibilidad y la existencia de comunicación directa entre el Océano Atlántico y el Virreinato del Perú. Conformando así una realidad bi-oceánica de facto para los Reinos americanos con todas las implicaciones geopolíticas de este hecho de por medio. En 1639 la expedición se volvió a realizar desde Quito hacia el Gran Pará por decisión de las autoridades virreinales, pero en esta ocasión Texeira fue acompañado por los jesuitas Cristóbal de Acuña y Andrés de Artieda[3], personas de confianza de la Audiencia de Quito, delegados del Virrey del Perú. Por órdenes superiores Acuña realizaría una importante y mundialmente conocida crónica de esta exploración.

Entre 1542 y 1639 la Monarquía Hispánica tuvo prohibido a sus súbditos penetrar o escribir sobre el gran Río Amazonas.[4] “Oficialmente estaba proscrito describir al Amazonas geográficamente, peor darlo a conocer al mundo, pues, había el temor de que potencias enemigas, que asediaban el subcontinente sudamericano, “invadieran” el río-mar apropiado por España, cuando éste era todavía una maraña inexpugnable y su extensa cuenca fluvial era virgen para el mundo occidental, con la excepción de la incursión de Orellana… Tales potencias eran además Holanda, Inglaterra, Francia y Portugal, las cuales habían recibido ‘concesiones’ de la corona para ‘colonizar’ Guyanas y la desembocadura del río.”[5]

En 1640, Cristóbal de Acuña presentó su relación al Rey Felipe IV de España. Se llama a esta la “crónica breve” donde se incluía un mapa del curso del Amazonas hasta las faldas de los Andes con Quito como cabecera política de la región. Su informe y mapa, fueron prohibidos de publicarse por ser “estratégicamente importantes”[6], como se diría ahora “reserva geopolítica”… “en la jerga de seguridad del Consejo de Indias, los papeles de Acuña eran ‘clasificados’ para las preocupadas autoridades de la corona. Y por ello: ‘hásele mandado no saque a la luz nada, porque los enemigos no emprendan continuar esta navegación y perficcionarla’.”[7]

Debido a estos hechos “Acuña tuvo entonces que volver a escribir una segunda relación, eliminando de aquella los detalles geográficos y estratégicos inconvenientes a la Corona… la orientación de la segunda crónica será amplia y diversificada en secciones y apostillas elegantes. Esta es la crónica oficial, la que ha venido leyendo y conoce el mundo occidental desde los años señalados (1641, 1645). Su ficha es: Nuevo Descubrimiento del Gran río del Amazonas, el año de 1639, por la Provincia de Quito, en el Reyno del Perú. Madrid.”[8] [9]

Esta crónica tendrá tremendas consecuencias geopolíticas para el Imperio Hispánico.

1698: Inglaterra pone sus ojos en Quito.

Geopolíticamente hablando el primer documento público, o uno de los primeros documentos públicos ingleses que hace referencia a Quito[10] es la edición inglesa de 1698 de la crónica de Acuña: Voyages and discoveries in South America. The first up the river of Amazons to Quito in Peru, and back again to Brazil, perform’d at the Command of the King of Spain by Christopher d’ Acugna… Done into English from the Originals… London, printed for S. Buckley, 1698.[11] Aquí se señala acuciosamente:

“Las siguientes relaciones son de los descubrimientos de las partes más ricas del mundo, aún no pobladas por los europeos, y otras que aunque poco conocidas, dignas… por todas las bendiciones de paz, ningunas otras parecen tan encantadoras o rentables que (para) la navegación y el comercio, especialmente para la nación inglesa (el resaltado es mío), cuyo genio es mucho más inclinado a las mejoras en el mar y las plantaciones en el extranjero, las cuales traen gran riqueza al reino, particularmente esas en América, donde los españoles por su mala conducta han dado oportunidades a algunos de sus vecinos para poner una parte de la riqueza y el comercio de esta vasta tierra extensión de tierra. El frecuente saqueo de sus ciudades (poblaciones) y aprovechamiento (sic) de sus barcos por los ingleses, franceses, y los holandeses, puso a Felipe III en la búsqueda de nuevas vías de transporte de los tesoros de Perú, Chile, y (Nueva) Granada hacia España para lo cual [la costa en el Golfo de México es bien conocida tanto como las de Europa] ordenó desde la Corte en Madrid a los gobernadores de Brasil y Perú enviar (una misión) para intentar la navegación del gran río de las Amazonas, allí donde se encontraron (practicable o prácticamente en francés en el original) el oro, plata, y otras mercancías del Perú (la Real Audiencia de Quito incluida) y de países adyacentes que podrían ser enviados hacia el sur (down –sic) por el Pará, donde poner y abordar a los galeones  que se encuentran menos expuestos allí, que en Cartagena, Porto Belo, o Vera Cruz, las averiguaciones (sobre) la boca de ese río son desconocidas y peligrosas a los extraños – extranjeros.”[12] [13]

Esta primordial declaración de los intereses sobre estas regiones “tan encantadoras” y “rentables para la navegación y el comercio, especialmente para la nación inglesa”, demuestra el inicio de un plan estratégico de desestabilización del Imperio Hispánico con el objetivo de sustraer del espacio español americano a las Provincias o Reinos de las Indias Occidentales para beneficio y usufructo de la esfera geoeconómica y comercial inglesa, es decir, para constituir a estas regiones en Estados tributarios de lo que más tarde se denominaría el Reino Unido de Gran Bretaña.

Notable es que en esta misma edición inglesa de la obra del Padre Acuña, se incluya un mapa del norte de la América del Sur: Perú, Quito, Reino de Granada (Kingdom of Granada), Los Quijos, Venezuela, Nueva Andalucía, Guyana, Carabuyanas y Brasil;  con una precisión destacable para la época y  donde el río Amazonas nace en Quito

La delineación geográfica del trazado del mapa se basa indudablemente y como se señala allí mismo en la relación de Acuña. Convirtiendo a Quito un objetivo estratégico inglés,  la llave para las riquezas del Perú que podrían ser transportadas por el Amazonas hacia el Atlántico por el Pará como se menciona en la introducción precitada del libro.

Clara y acertada fue la previsión de las autoridades españolas en prohibir la difusión de los detalles relacionados a la cuenca del río Amazonas, donde los intereses de sus adversarios globales le acarrarían el desmembramiento de sus provincias ultramarinas.

1711: “Una propuesta para humillar a España”.

A comienzos del Siglo XVIII  el atraso de España respecto de Francia e Inglaterra era considerable. En el intento de recuperar la supremacía española, la dinastía real de la Casa de Borbón inició una serie de transformaciones conocidas como reformas borbónicas. En América tales medidas fueron motivo de descontento y estimularon ideas de sedición sobre todo en los sectores afectados por las mismas. Carlos III fue el máximo exponente de esa voluntad de reformas, pretendiendo con estas hacer más eficiente la administración del Estado; liberar el comercio, impulsar la educación y las ciencias, aumentar los tributos, y sobre todo concentrar el poder político en la Corona violentando de esta manera muchos fueros tradicionales de las Españas europeas y americanas[14], generando así una severa crisis económica en el Reino de Quito.

El tramado de la historia nos devela que existieron intereses mucho más poderosos detrás de la crisis a lo largo del continente y en particular en Quito. En un folleto extraño por su poca difusión y perturbador por su alevosía titulado “Una propuesta para humillar a España”, escrito en 1711 en Inglaterra “por una persona de distinción” se menciona un funesto plan para acabar con la Monarquía Católica Hispánica, atacando su principales puntos y centros de poder y comercio, que entonces gravitaban en torno al núcleo continental del Virreinato del Perú, los actuales Ecuador, Perú y Bolivia. Se dice allí de Quito:

“…dada la considerable falta (?) que tienen de estas mercaderías (textiles ingleses), que tanto necesitan el consumo de ellas, aumentaría, porque nuestros productos y tales son irrazonablemente caros (debido a la restricción del libre comercio en ese entonces), por las razones ya mencionadas, y así los pobres y aún los comerciantes, hacen uso de las telas de Quito para sus vestidos y solo los mejores usan géneros y telas inglesas. Pero si de una vez, nosotros podemos fijar nuestro comercio, por el camino que yo propongo (directamente por Buenos Aires y a través del continente hacia el interior, sin tener que pasar por Cádiz), con seguridad, arruinaríamos, en pocos años, la manufactura de Quito (el resaltado es mío).”[15] [16]

Tal como sucedería finalmente hacia finales del siglo XVIII y comienzos del siglo XIX hasta la mal llamada independencia. Irónicamente puedo decir que con sorpresa. Este se conformó entonces como un plan  estratégico británico en 1711 para conquistar las Provincias de España en América.
La apertura del comercio trajo devastadoras consecuencias para Quito y la sierra centro-norte del actual Ecuador. Los paños ingleses introducidos a precios más bajos que los quiteños, significaron la pérdida del mercado del norte del Virreinato del Perú. La necesidad de remitir fondos para la defensa de Cartagena de Indias ocasionó la escasez del circulante. La crisis económica estuvo acompañada de una grave convulsión social ocasionada tanto por las rebeliones indígenas[17], como por la creciente incertidumbre de los barrios, quienes en forma tradicional protestaban contra esta situación al grito de “¡VIVA EL REY! – ¡ABAJO EL MAL GOBIERNO!”, demostrando así que ante todo y más allá del pronunciamiento el Rey era el Rey. Un Rey distante pero benévolo.

El largo siglo XVIII – Plan Maitland-Pitt

Desde la elaboración del plan para humillar a España que como se puede comprobar fehacientemente con los hechos históricos sucedidos desde entonces fue cumplido al pie de la letra hasta la formal secesión de Quito y de las demás Españas americanas respecto de la España europea, transcurrieron 111 años (1711-1822), un largo siglo XVIII decadente por causa de la acción externa de Inglaterra y de la extenuada biología política imperial hispana.

El general escocés Thomas Maitland diseñó en el año 1800 un “Plan para capturar Buenos Aires y Chile y luego emancipar Perú y Quito”, donde se expone como Inglaterra se propone la conquista de la América del Sur. Para 1804 este plan fue adoptado por el Primer Ministro británico William Pitt (el joven). Maitland en despacho a Pitt delimita la acción a ser concretada con estas palabras:

“Estimado Señor: Hace un tiempo tuve el honor de someter a su consideración el borrador de un plan para atacar los asentamientos españoles en el Río de la Plata. Mi objetivo era procurar a Inglaterra un beneficio grande, aunque en cierto modo limitado, abriendo un nuevo y extenso mercado para nuestras manufacturas… que tuviera como objetivo la emancipación de esas inmensas y valiosas posesiones y la apertura de una fuente de permanente e incalculable beneficio para nosotros, resultado de inducir a los habitantes de los nuevos países a abrir sus puertos y recibir nuestras manufacturas, de Gran Bretaña y de la India… Una expedición a Caracas desde las Antillas, y una fuerza enviada a Buenos Aires, podrían realmente proveer la emancipación de los colonos españoles en las posesiones orientales, pero el efecto de tal emancipación, aunque considerable, no podría jamás ser tenido por seguro en las más ricas posesiones de España en la costa del Pacífico, y es menester observar que la razón por la cual los españoles han asignado importancia a sus posesiones orientales es que ellas sirven como defensa para proteger sus más valiosas posesiones occidentales… Por lo tanto, yo concibo que, con vistas a un impacto sobre el conjunto de las posesiones españolas en Sud América, nada de sustancial puede lograrse sin atacar por ambos lados, aproximadamente al mismo tiempo (Nota del autor del artículo: Bolívar y San Martín), con un plan y una coordinación tales que nos permitan reducirlos, por la fuerza si fuera necesario, en todas sus inmensas posesiones sobre el Océano Pacífico.”[18]

¿Y Quito? Pues como señala el nombre del plan, los objetivos son el Perú y Quito:

“… un ataque sobre ambos lados sin conexión o relación entre sí, aun cuando ambos sean exitosos, no nos conduciría a nuestro gran objetivo que es abrir el comercio de toda Sudamérica (en concordancia con el plan de 1711)… La perspectiva de un beneficio inmediato e inmensa riqueza naturalmente inclinará a los participantes en esta operación a dirigir sus miradas, de inmediato, a las ricas provincias de Perú y Quito… Chile se convertiría en un punto desde el cual podríamos dirigir nuestros esfuerzos contra las provincias más ricas… El fin de nuestra empresa sería indudablemente la emancipación de Perú y México [Quito], lo cual solo se podrá mediante la posesión de Chile.”[19]
Así concluye el decisivo documento. La recóndita política exterior inglesa en esta ocasión había de coronar sus aspiraciones con los objetivos cumplidos pocos años más tarde. Simón Bolívar y José de San Martín fueron por lo tanto meros ejecutores de los planes británicos.

La invasión anglo – caribeña.

El capacitado historiador guayaquileño Jaime Rodríguez denominaría acertadamente al proceso de separación e independencia forzada por parte de las tropas bolivarianas como “la conquista del Reino de Quito”. El iluminado y anglófilo Bolívar[20] no tenía la intención de permitir a Quito, ni a Guayaquil, ni a Cuenca decidir sobre sus destinos:

“Los americanos no estaban subyugados por los ‘brutales españoles’: durante la mayor parte del Antiguo Régimen, la Monarquía española no mantuvo un ejército regular en América, y cuando se formó uno tras la Guerra de los Siete Años (1756-1763), la mayoría de los oficiales y soldados eran americanos. La Monarquía española nunca tuvo los recursos para dominar el Nuevo Mundo por la fuerza, especialmente después  de seis años de guerra encarnizada en la Península y de la ocupación francesa de 1808-1814. La lealtad de los pueblos de la región (América) hacia la Monarquía española fue producto de una cultura política compartida y de los lazos sociales y económicos. En el caso específico del Ecuador, es importante situar la ‘revolución de Quito’ en un contexto más amplio y examinar lo que sucedió entre el fracaso de la Junta de Quito a finales de 1812 y la declaración de independencia de Guayaquil, a finales de 1820. En esa época había muy pocos españoles en América. Si el pueblo del Reino de Quito hubiera querido la independencia, podría haberse rebelado mucho antes de 1820. En lugar de ellos, ejércitos venidos de Colombia forzaron a Quito a aceptar su separación de  la Monarquía española y a asumir un estatus secundario dentro de la nueva nación colombiana… irónicamente, la emancipación tuvo como resultado la conquista del Reino de Quito por parte de las fuerzas colombianas”.[21]

Inglaterra como instigadora de la subversión, no solo que permitió el reclutamiento de mercenarios, sino que alentó el mismo; llegaron en cantidades considerables los ingleses para engrosar las filas de los separatistas, completando 720 en 1817, a los que se sumaron nada menos que 5088 incorporados en 1819. Todos estos actuarían taxativamente para la consecución de los fines de sus amos.
Bolívar mandó a Antonio José de Sucre a Guayaquil con 700 soldados para la liberación de la sierra quiteña. Sucre se puso al mando no sólo de los efectivos colombianos, sino también de un contingente de tropas guayaquileñas e inglesas, estas últimas ordenadas en al Batallón Albión bajo el comando de los generales John Illingworth[22]  y Daniel Florencio O’Leary[23] [24]. Una vez que Sucre se instaló en Guayaquil, intentó penetrar la sierra por Alausí, pero fracasó en dos ocasiones. En vista de esa experiencia, cambió de estrategia, incursionando por Cuenca, donde el poder realista había sido restaurado. Con la ayuda de un contingente enviado por San Martín, Sucre derrotó a las tropas realistas acantonadas en Cuenca en febrero de 1822. Las tropas realistas se retiraron a Quito donde estaba su comandante Melchor Aymerich. Luego Sucre avanzó hacía Quito con 3.000 efectivos enfrentándose exitosamente con el ejército realista de Melchor Aymerich en las faldas del Pichincha el 24 de mayo de 1822. Los 3000 mil efectivos que ganaron la Batalla del Pichincha eran mayormente soldados reclutados en Colombia, Venezuela e Inglaterra como correspondía al ejercito multinacional que había armado Bolívar, sin embargo no se encontraban quiteños en el mismo.
Julio Albi explica el siguiente dato fundamental acerca de la batalla de Pichincha:

“El Ejército realista, en la que sería su última batalla en el reino de Quito, estaba formado sobre  todo por americanos. Los jinetes procedían todos del reclutamiento local (criollos y quiteños por tanto). En cuanto a los infantes, el batallón de Tiradores de Cádiz era ‘casi todo de europeos… y los otros Cuerpos españoles o realistas, compuestos de americanos’ ”[25]

Ingleses versus quiteños: Papel destacado en esta batalla fue el protagonizado por el Batallón Albión[26]. Carlos García Arrieche lo refiere así:

“La oportuna y decisiva participación del Albión en Pichincha, en aquel memorable 24 de mayo de 1822, ha quedado perpetuada y reconocida en el fragmento del parte oficial del combate emitido por el general Sucre, donde expresa: ‘Las municiones se estaban agotando… Tres compañías del Aragón, el mejor batallón realista estaban ya a punto de flanquear a los patriotas, cuando llegaron, con el resto del parque, las tres compañías del Albión, con su coronel Mackintosh a la cabeza; y entrando con la bizarría que siempre ha distinguido a este cuerpo, puso en completa derrota a los de Aragón.”[27]
Presagio de un futuro de dominación y coloniaje económico, cultural y cada tanto –cuando lo ameritara- político. La luz que vino del norte arrasó con todo a su paso.

Después de la celebración del triunfo, Sucre presionó al ayuntamiento quiteño para que incorporara al territorio de la Real Audiencia de Quito a la República de Colombia. Aunque algunos miembros de la aristocracia quiteña se resistieron, el ayuntamiento finalmente cumplió con el pedido de Sucre. En junio de 1822, Bolívar entró a Quito después de haber derrotado a efectivos realistas en Pasto.
“Aceptando las exigencias británicas dentro de los rumbos trazados por Bolívar” el 18 de abril de 1825 se firmó entre los plenipotenciarios de Gran Bretaña y la Gran Colombia el Tratado de Amistad, Comercio y Navegación, “que no difiere sustancialmente” de los tratados celebrados ese mismo año por las Provincias Unidas del Río de la Plata y Chile, y más tarde por Perú y México con la gran potencia talasocrática. Para cuando el Ecuador se constituyó como un Estado “soberano” separado de la Gran Colombia en 1830, ya tenía normadas sus relaciones exteriores, comerciales y políticas, en condiciones de exclusividad con Inglaterra, aún antes de dotarse de su norma fundamental, de su primera Constitución.[28]

The Aftermath: Colofón del vasallaje. 

Finalmente, la geopolítica inglesa había extendido exitosamente las líneas de sus redes hasta Quito como pretendía desde 1698. El hemisferio americano había sido transferido de Provincias o Reinos de España a Estados tributarios ingleses. Leviatán se había impuesto sobre Behemot y la isla (extra-europea) del creciente interior se enseñoreaba en el creciente exterior de la tierra, en la periferia del mundo desarrollado como se diría hoy.

El general Juan José Flores –venezolano de nacimiento-, primer presidente del Estado del Ecuador (tributario de Inglaterra)  desde mayo de 1830 –sin la denominación de República por entonces-, lo reconocería por decreto con estos términos:

“Juan José Flores, Presidente del Estado del Ecuador, etc. Habiendo tenido noticias oficiales de la muerte de S.M.B. el Rey Jorge IV y deseando dar un testimonio público del gran sentimiento que ha cabido al Gobierno de ese Estado y a todos sus habitantes, por la pérdida de un monarca que ha sido el más firme apoyo de nuestros derechos en la gloriosa contienda de la libertad e independencia de Colombia y que supo estrechar con ella muy leales y francas relaciones de amistad, comercio y navegación.

Decreta:

Art. 1°- Todos los individuos del Ejército y Marina (¿Cuál marina? ¿Los mercenarios y súbditos ingleses como el almirante Illingworth acaso?) llevarán por ocho días consecutivos desde la publicación de este Decreto, el luto prevenido por el Reglamento sobre divisas y uniformes de 20 de julio de 1828. (!)

Art. 2°- Por igual tiempo pondrán todos los empleados públicos un lazo negro en el brazo izquierdo y en particular en el sombrero. (!)

Art. 3°- El Ministro Secretario del Despacho, queda encargado de la ejecución.
Quito, a 28 de Octubre de 1830.

J.J. Flores.”[29]

Con estos rigurosos honores a un monarca británico iniciábamos pomposamente nuestra vida “independiente”.

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[1] Los más recientes estudios geográficos dan cuenta del Amazonas desde su origen fluvial es el más largo del mundo con 6800 km, seguido por el Nilo con 6756 km.
[2] Salvador Lara, Jorge, Quito y el Emperador Carlos V, Quito, 1958.
[3] Andrés de Artieda, Lector de Teología del colegio de Quito. Desconozco si el Padre Artieda era criollo o no.
[4] Burgos Guevara, Hugo, La crónica prohibida. Cristóbal de Acuña en el Amazonas, Ed. Fonsal, Quito 2005 pág. 17
[5] Ibídem
[6] Ibídem, pág. 89
[7] Ibídem
[8] Ibdídem, pág. 19 “Adicionalmente debemos mencionar que el Memorial de Acuña, elevado al Real Consejo de Indias el 20 de marzo de 1641, tuvo una primera edición con el título mencionado antes. No quedan ejemplares de esta obra, por lo que ha circulado más la Relación reproducida en la conocida crónica del padre Manuel Rodríguez, El Marañón y el Amazonas, publicada en 1684. Todas las ediciones siguientes, en inglés, francés, portugués, alemán y español, se han basado en la edición de 1684.”
[9] Ibídem, págs. 91-92. Autoridad como Jaime Regan dice de este libro: “De ella quedan muy pocos ejemplares en el mundo, llegándose a cotizar uno de ellos en el mercado de anticuario en USA $10.000 (USD)”. “No se debe confundir esta segunda crónica con la primera, no solo por las implicaciones de deformación histórica, sino porque la primera ha permanecido enclaustrada en Roma, y su identidad ha sido confundida ante la conciencia mundial. La crónica primigenia, escrita por Acuña, reza así: RELACION DEL DESCUBRIMIENTO DEL RÍO DE LAS AMAZONAS OY [sic] RIO DE SAN FRANCO DEL QUITOY DECLARACIÓN DEL MAPA EN DONDE ESTÁ PINTADO. Fue encontrada por Hugo Burgos G. en Archivum Romanum Societatis Iesu (Letras Annuas de la Vice provincia de Quito y el Nuevo Reino en los Reynos del Peru 1605-1669, R.et Q. 15I,-9, Folio 274-280). El documento es manuscrito, paleografía jesuítica de comienzos del siglo XVII.”
[10]  Como lo hemos referido: entiéndase que al referirnos a Quito abarcamos a todo el actual territorio de la República del Ecuador, de la entonces Real Audiencia de Quito (que incluía territorios del actual sur de Colombia y norte del Perú) y del conocido Reino de Quito-del denominado Departamento del Sur de la Gran Colombia-. La Audiencia y finalmente Capitanía General de Quito –Sede virreinal de facto con Mourgeon-.
[11] Voyages and discoveries in South America. The first up the river of Amazons to Quito in Peru, and back again to Brazil, perform’d at the Command of the King of Spain by Christopher d’ Acugna… Done into English from the Originals… London, printed for S. Buckley, 1698. Biblioteca de la Academia Nacional de la Historia de la Repúplica Argentina – Buenos Aires.  Se señala en la introducción al mismo: “Accordingly they departed (Father d’ Acugna and Pedro d’ Texeira) from Quito Jan. 16. 1639 and arrived at Para Dec. 12. following. Thence he went into Spain, and presented to the King his Master an –amuse- relation of the said River; which was published at Madrid in 1641, and entitled Nuevo descubrimiento del gran Río de las Amazonas, in 4…”
[12] Ibídem, Introducción, traducción del autor del presente artículo.
[13] Un precedente histórico del denominado eje multimodal Manta-Manaos.
[14] Espinosa Fernández de Córdoba, Carlos, Historia del Ecuador en contexto regional y global, Ed. Lexus, Barcelona – España, 2010., pág. 432.
[15] “Una persona de distinción”, Una propuesta para humillar a España, traducción, advertencia  preliminar y notas del Capitán de Fragata Bernardo N. Rodríguez, Ed. Del Comando en Jefe de la Armada de la República Argentina, Libros e impresos raros, Buenos Aires, 1970, pág. 20
[16] “Curiosamente” esta ruta de “libre comercio” que preveía el folleto citado fue la misma ruta que utilizó José de San Martín para su campaña “libertadora” desde Buenos Aires al Perú y culminada por las huestes de Lavalle en las batallas de Riobamba y Pichincha, campaña que se vería rematada con sendos tratados comerciales con Inglaterra.
[17] El historiador Carlos Espinosa Fernández de Córdoba señala al respecto: “Hay que recordar que la fiebre de sublevaciones indígenas que persistió a lo largo del siglo anterior (siglo XVIII) no constituyó una verdadera amenaza al sistema imperante”, Ob. Cit., pág. 437
[18] En: Terragno, Rodolfo H., Maitland & San Martín, Universidad Nacional de Quilmes – Argentina, 1998; y Diario íntimo de San Martín. Londres 1824. Una misión secreta, Ed. Sudamericana, Buenos Aires, 2009.
[19] En: Terragno, Rodolfo H., Maitland & San Martín, Universidad Nacional de Quilmes – Argentina, 1998; y Diario íntimo de San Martín. Londres 1824. Una misión secreta, Ed. Sudamericana, Buenos Aires, 2009.
[20] Así opinaba el “Libertador” sobre Quito: “… hombres tan malvados e ingratos. Yo creo que le he dicho a Vd., antes de ahora, que los quiteños son los peores colombianos. El hecho es que siempre lo he pensado, y que se necesita un rigor triple que el que se emplearía en otra parte. Los venezolanos son unos santos en comparación de esos malvados. Los quiteños y los peruanos son la misma cosa: viciosos hasta la infamia y bajos hasta el extremo. Los blancos tienen el carácter de los indios, y los indios son todos truchimanes, todos ladrones, todos embusteros, todos falsos, sin ningún principio de moral que los guíe.” Bolívar a Santander, Pativilca, 7 de enero de 1824, en Vicente Lecuna, Cartas del Libertador, Tomo IV, págs. 12-14.
[21] Rodríguez, Jaime, La revolución política durante la época de la independencia -  El Reino de Quito 1808- 1822,Coporación editora nacional, Biblioteca de Historia Volumen N° 20, Quito, 2006,, págs. 35, 36, 37
[22] Illingworth es ancestro de muchos oligarcas ecuatorianos y de algún separatista guayaquileño. Como Jefe de la Escuadra unida del Perú y Colombia, sostuvo el sitio de El Callao y conjuntamente con el general Salom; “tuvo el privilegio” de recibir la capitulación de esa plaza fuerte –el último baluarte del Imperio en la América del Sur- el 21 de enero de 1826.
[23] Representando al gobierno británico asistió a los solemnes actos del traslado de los restos del “Libertador” a Caracas, en 1842 colaborando para que las ceremonias resultasen “dignas” del célebre hombre. Al sugerir en una comunicación al Foreign Office –para quien trabajaba desde 1840 cuando se reincorporó formalmente al servicio de “Su Majestad Británica”- la conveniencia de enviar un navío  de guerra para escoltar al barco que conduciría a La Guaira desde Santa Marta, las cenizas de Bolívar, O’Leary recalcaba: “Ningún gesto podrá satisfacer más a los pueblos de Venezuela y Colombia que esta muestra de respeto a la memoria de un hombre de Estado que en toda su vida pública mostró siempre un sincero deseo de mantener estrechas relaciones con Inglaterra”.
[24] Cabe destacar que muchos de estos ingleses y sus descendientes pasaron a formar parte de la oligarquía plutocrática ecuatoriana, paradigmáticamente representados por la familia Wright, gracias a las propiedades y dineros robados a sus legítimos dueños  por acción y “gracia” del “Libertador” que supo como recompensar a sus mercenarios.
[25] Albi, Julio, Banderas olvidadas- El Ejército realista en América”, Ed. De Cultura Hispánica, Madrid, 1990, pág. 328
[26] García Arrieche, Carlos, Británicos en la Emancipación Ecuatoriana, aparecido en el Boletín de la Academia Nacional de Historia Vol. 59, núm. 127-128, ene-dic. 1976, Quito, pág. 54
[27] Ibídem.
[28] Este Tratado mantendría su plena vigencia hasta cuando se firmó otro de índole similar esta vez  entre el Ecuador ya como República separada y Gran Bretaña durante el gobierno de Diego Noboa.
[29] Homenaje póstumo del Gobierno ecuatoriano, por la memoria de S.M.B. el Rey Jorge IV, de Gran Bretaña en Historia Diplomática de la República del Ecuador del Dr. Jorge W. Villacrés Moscoso, quien señala al respecto: “Entre los actos más significativos y por cierto curiosos, que merecen resaltarse en las relaciones entre nuestro país e Inglaterra, figura el homenaje póstumo, que rindió el Gobierno Ecuatoriano, presidido  por ese entonces por el General Juan José Flores, con motivo de la muerte de S.M.B. el Rey Jorge IV, y lo hizo mediante el decreto correspondiente datado el 28 de octubre de 1830, es decir a los pocos meses de haberse separado el Ecuador de la Gran Colombia y constituídose en estado independiente.”
 

 

Publicado 14th July 2013 por

Выпуск XXII 2013. Кибер

Выпуск XXII 2013.

Кибер

 
 
ЛЕОНИД САВИН
Введение в кибергеополитику..................................5
 
ДЖЕЙМС ДЖЕЙ КАРАФАНО
Понимание социальных сетей и 
национальная безопасность...................................22
 
АННЕГРЕТ БЕНДИ, КАТРИН АЛМЕР
Киберзащита — многосторонний 
политический вызов..............................................35
 
ВИНСЕНТ МАНЗО
Сдерживание и эскалация в 
междоменных операциях: где смыкаются 
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Плавание в киберморе...........................................54
 
ФИЛИП БОЙС
Цифровые дипломаты Косово..............................67
 
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ЛЕОНИД ДОБРОХОТОВ
Сирийский излом США или Обама
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mercredi, 15 janvier 2014

France and Saudi Arabia: The Union of “Misfits”

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France and Saudi Arabia: The Union of “Misfits”

While the international community summarizes the achievements of the year 2013, exerting even further efforts in reducing the risk of the armed violence spread in the Middle East (especially in Syria , as well as through the settlement of the Iranian nuclear program stand-off) , the head of the Elysee Palace decided to put a rather peculiar final chord to his political activities of the last year.

He chose not to bother himself with peaceful initiatives, especially with those that could improve the social life of the French residents, which those residents have been waiting for since the day of his inauguration. That’s a funny fact if we are to take into consideration that the siting French President represents the socialist party, which by definition should be close to the day-to-day problems of the ordinary working people. And the people decided to pay the President with the same disrespect they’ve been treated with, this fact was established by the poll conducted in late December 2013 by BFM-TV-RMC. This poll showed that Francois Holland was supported by 2% of the French population, which means that the rest 98 % didn’t show any trust for him. The results despite the “devotion to democratic principles” Francois Holland has named as his top priority were banned by Elysee Palace.

Francois Hollande decided to end the year 2013 with a trip to Saudi Arabia , thereby securing the alliance of the two»» nations “rejected” by the United State and a number of other countries. These two have ultimately failed to understand the causes and the significance of the events that occurred at the end of the year in the Middle East therefore they were not able to adapt to the new reality . Another reason for becoming “misfits” is the eagerness the Elysee Palace and Riyadh has shown in staging the chemical provocations in Damascus along with the massive support these countries have shown to the Syrian militants , allowing the spread of Wahhabi ideas not across the Midlle East alone, but in France itself .

According to many political analysts, Hollande has today become the most loyal ally of Saudi Arabia in its attempts to strengthen the so-called ” Sunni arc ” in the fight against Shiite Iran and Syria. The key role in this fight is place by Lebanon and “Hezbollah”. Currently, “the misfits” share a number of foreign policy goals. It’s the tough position the two take on the Syrian issue and the idea of Bashar Assad’s toppling. It’s the views they share on the Iranian nuclear programme, in an effort to reduce the influence Iran enjoys in the region . The blind support Elysee Palace has been showing to Riyadh, can be explained, to some extent , by the famous generosity of the Saudi royal family members and the most generous of them all the head of Saudi intelligence services – Prince Bandar bin Sultan. Foreign politicians can expect substantial cash donations and diamond offerings if they are to support the Saudis and their Wahhabism. It allows Riyadh to manipulate Washington and Paris at their own will.

So, on 29 and 30 December Hollande flew to Saudi Arabia to take a good care of the military industry people that had brought him to power in the first place. On this trip he was accompanied by four of ministers and a group of 30 entrepreneurs.

The main goal of this trip – to secure bilateral strategic cooperation, to sign contracts for supplying the Sunni forces in Lebanon with even more firearms. The same very forces that have been fighting back to back with the Syrian armed opposition in a bloody war against the regular troops that defend their own country, against Syrian officials. Another goal of Hollande’s trip is to establish a close partnership in the intelligence field.

During the negotiations Saudi Arabia consented to allocate $ 3 billion to buy French weapons that would end up in the hands of the Lebanese Army. It is noteworthy that this financial “aid” amounts for two military budgets of Lebanon , that is a former French colony, just like Syria. However, this military aid to Beirut provided by Riyadh and Elysee Palace , aimed primarily at fighting the Lebanese “Hezbollah” will be of little to no help to the international efforts of reducing the regional tension, it wouldn’t be of any use either in promoting the authority of the Lebanese “sponsors” in Lebanon itself and in the Middle East in general.

It’s not that “Hezbollah” is on the side of the common enemy of Paris and Riyadh – President Bashar al-Assad . This new supplies will only further enhance the struggle between Sunnis and Shiites. The region itself will be militarized even further at the expense of the French arms and Saudi money. The ultimate goal of such a generous “gift” is to spread the Wahhabi ideas in Lebanon, which has not fully recovered from a 15 years long civil war . After all, today in the Sunni areas of Lebanon — the largest cities of the country – Tripoli and Sidon are facing a rise of Islamist rhetoric and Al Qaeda is gaining followers there on a daily basis, writes the Lebanese newspaper Al-Akbar.

However , in addition to this transaction , the leaders of France and Saudi Arabia discussed other aspects of bilateral military cooperation, clearly not designed to administer affairs of peace and actively prepare for a regional war . This is primarily a contract for 4 billion euros to modernize the French missiles Crotale ground -to-air with the French firm Thales. Negotiations on this issue for a long time been blocked due to lack of consent on the part of the Saudi elite, but this particular visit to the CSA became a new impetus to this cooperation , especially since the main competitors of French manufacturers in this issue – the U.S. – has somewhat cooled to Saudis .

As for the cooperation of the intelligence services of the two countries and the exchange of “mutual interest to intelligence information ,” France is planing to sell Riyadh the same type of a spy satellite that was sold by Astrium and Thales Alenia Space in the United Arab Emirates last summer. With this “tool” Saudi Arabia will be able to improve significantly the “effectiveness” of its intelligence services and monitor the activities of the armed forces of the enemy in the region. French ship and machine builders (DCNS, Thales and MBDA) received an order to strengthen the kingdom’s submarine fleet, to modernize the Saudi Navy frigates that would on par with Saudi petrodollars be protecting and promoting the Wahhabi values. France has also got a contract to equip the National Guard of the kingdom, as for the project of constructing 16 nuclear reactors on the Saudi soil, this part of the deal is still being negotiated.

Francois Hollande has stated in Riyadh that Saudi Arabia was a “leading partner of France in the Middle East” with a trade turnover of 8 billion euros in 2013, 3 of which is a share of French exports. The “holiday trip” can bring the French military-industrial people, as some experts believe, a hefty income of 250 billion euros over the next 7-10 years.

However, according to a number of experts, a considerable flow of French arms to Lebanon at the expense of the Saudi royal family can not be regarded as nothing else than a direct intervention of Paris and Riyadh in the affairs of this state, despite the publicly declared position of Francois Hollande and his foreign minister — Fabius that “France seeks to ensure the regional stability and security”. The Saudi efforts at fueling the regional conflicts in Iraq and Syria , and now being “allocated” to Lebanon .

Meanwhile, Damascus believes that if regional and Western states will stop providing the financial and military aid to the armed and terrorist groups that operate in Syria and in the neighboring countries, the violence in the region, will ultimately cease, giving way to the assembly of the “Geneva-2” international conference, said Syrian Ambassador to Russia Riad Haddad to NEO.

Vladimir Odintsov, political commentator and special contributor to the  online magazine “New Eastern Outlook”.

 

 

lundi, 13 janvier 2014

IL SECOLO CINESE?

IL SECOLO CINESE?

IL SECOLO CINESE?

Ex: http://www.eurasi-rivista.org

È uscito il numero XXXII (4-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia” intitolato:

 

IL SECOLO CINESE?

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

EDITORIALE

IL SECOLO CINESE? di Claudio Mutti

 

GEOFILOSOFIA

HEGEL E IL FONDAMENTO GEOGRAFICO DELLA STORIA MONDIALE di Davide Ragnolini*

All’interno delle «Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte» del grande filosofo tedesco la riflessione sulla base geografica della storia mondiale trova una significativa collocazione propedeutica alla stessa storia filosofica del mondo, la cui importanza non è stata ancora sufficientemente colta. Hegel poneva a fondamento dello svolgimento storico mondiale il rapporto tra i popoli e la condizione naturale nella quale questi hanno localizzazione. Secondo l’impostazione storico-idealistica di Hegel, tempo e spazio hanno nella storia e geografia universale il loro correlato fenomenico dal quale i popoli avviano la propria esistenza. Da un punto di vista filosofico il rapporto tra spirito e natura costituisce la struttura teoretica portante su cui Hegel basa l’emancipazione di un popolo dalla condizione di mero «ente naturale» a soggetto storico all’interno della storia mondiale. Dal geografo e collega Carl Ritter,il filosofo tedesco ha tratto i princìpi interpretativi per la comprensione delle possibilità di sviluppo che le differenze geografiche offrono ai popoli, la rappresentazione geologica della superficie terrestre, la sua divisione in continente euroafrasiatico ed aree insulari, e infine la contrapposizione tra terra e mare. Questi rappresentano solo alcuni dei molti aspetti della geografia hegeliana, forieri di sviluppi successivi per la teoria geopolitica. 

 

DOSSARIO: IL SECOLO CINESE?

LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE: PROFILO E RISORSE a cura della Redazione

La Cina oggi: una panoramica dei dati essenziali e delle dinamiche in atto contribuisce alla comprensione della più grande realtà asiatica.

 

LA NUOVA VIA DELLA SETA di Qi Han

La signora Qi Han è incaricata d’Affari dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia. “Eurasia” la ringrazia per aver gentilmente concesso di pubblicare il testo del discorso da lei pronunciato in occasione del Forum Eurasiatico di Verona (17-18 ottobre 2013). 

RITORNO ALLA VIA DELLA SETA di Giuseppe Cappelluti

 Dal mito alla realtà. Dopo secoli di oblio la Via della Seta, storico ponte tra l’Occidente e la Cina, sta tornando ad essere una direttrice primaria del commercio internazionale. Lungo i suoi itinerari si è tuttavia prefigurata l’ennesima disputa tra eurasiatismo ed euro-atlantismo: da un lato il percorso attraverso Russia e Kazakistan, più rapido e stimolato dal rafforzamento dell’integrazione eurasiatica, dall’altro quello attraverso il Caucaso e il Mar Caspio voluto dall’Unione Europea.

LA CINA PER UN ORDINE MULTIPOLARE di Spartaco A. Puttini

 L’ascesa della Cina si è imposta come una realtà della quale tener conto, in tutte le dimensioni proprie della geopolitica. Ma per coglierne la portata e le conseguenze per la vita internazionale occorre collocarla in un contesto preciso: quello attualmente attraversato dalle relazioni internazionali e caratterizzato dal braccio di ferro in corso tra il tentativo statunitense di imporre al mondo il proprio “dominio a pieno spettro” e l’emergere di un equilibrio di potenza multipolare. Nelle righe che seguono cercheremo di dare sommariamente conto dell’azione politica della Cina popolare su diverse scacchiere (dall’America Latina all’Africa) evidenziandone finalità ed effetti. Di particolare rilievo risulta l’impulso dato allo sviluppo dei rapporti economici Sud-Sud con mutuo beneficio, che promettono di erodere il potere ricattatorio esercitato dalle centrali finanziarie legate all’Angloamerica nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Si accennerà al complesso rapporto che viene a stabilirsi concretamente tra l’aspirazione cinese ad una crescita armonica e pacifica e il vincolo sistemico indotto dagli Stati Uniti con la corsa agli armamenti e con il susseguirsi di gravissimi crisi regionali che contribuiscono ad attizzare le tensioni tra le Potenze.                         

 

 LA SECONDA PORTAEREI CINESE di Andrea Fais

La crescita della potenza economica cinese ha avuto principalmente due ripercussioni internazionali. L’una, di carattere commerciale, sta già modificando le dinamiche dei flussi di capitale nel pianeta ed è quella più dibattuta dalla stampa europea ma troppo spesso accentuata, se non deformata da giudizi raramente in sintonia con la realtà dei fatti. L’altra, di carattere strategico, mantiene ritmi di trasformazione più lenti, non tanto per il ritardo con cui la Repubblica Popolare Cinese è giunta ad affrontare nel concreto i temi salienti della guerra informatica e della modernizzazione militare quanto piuttosto per l’enorme potenziale accumulato dal Pentagono nel decennio compreso tra il 1998 e il 2007. Eppure dal momento che le dimensioni commerciale e militare sono interdipendenti, all’inversione di tendenza nella prima potrebbe presto seguirne un’altra nella seconda. Il debutto della prima portaerei cinese, la Liaoning, nel settembre 2012 aveva lanciato un dado sul tavolo: la sfida a quello strapotere aeronavale statunitense che, assieme al primato internazionale del dollaro, costituisce l’architrave dell’egemonia nordamericana sul resto del mondo.

 

LA TRIADE NUCLEARE DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE di Alessandro Lattanzio

L’arsenale strategico cinese è oggetto di varie congetture. Qui viene presentato un quadro sintetico delle varie stime relative all’arsenale nucleare, dovute ai più importanti enti occidentali di analisi strategica.

 

GLI ALTRI PARTITI NELLA CINA POPOLARE di Giovanni Armillotta

 Le origini, la storia e l’organizzazione dei partiti democratici. Le lotte comuni assieme ai comunisti nell’epopea della liberazione contro i giapponesi, e nella guerra civile nel periodo della dittatura del Guomindang. La collaborazione di essi col Partito Comunista Cinese nell’amministrazione del Paese e le rappresentanze dei partiti indipendenti nelle alte istituzioni statali. Paralleli col sistema partitico della nostra Italia 1945-1994. Nell’articolo è adottato il sistema di traslitterazione Pinyin di nomi e toponimi.

 

LA  QUINTA GENERAZIONE AL POTERE di Sara Nardi

Negli ultimi anni il problema dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa si è fatto stringente anche in Cina. Come seconda potenza mondiale e come nazione pienamente inserita nel processo di globalizzazione economica e digitale, il colosso asiatico è ormai entrato sotto la lente d’ingrandimento della famigerata osservazione internazionale. Si tratta di una realtà complessa, che spesso risente delle contraddizioni o delle forzature che il punto di vista politico e geografico dell’osservatore reca necessariamente con sé. Tuttavia, è stato lo stesso Xi Jinping ad annunciare un piano di riforme che risolvano in modo più efficace le complicate questioni legate alla corruzione, agli intrecci impropri tra politica e stampa e alla regolamentazione della rete multimediale. Una sfida da cui dipende l’immagine della Cina nel mondo e, dunque, la sua capacità di guadagnare legittimazione e consenso internazionali.

 

HUKOU. LA RESIDENZA IN CINA di Maria Francesca Staiano

La RPC è caratterizzata da un sistema di registrazione permanente della residenza (Hukou) che esclude i residenti non regolari, soprattutto i lavoratori migranti, dal godimento delle prestazioni sociali, come l’accesso ai servizi di istruzione, di sanità, di previdenza sociale e di sicurezza sul lavoro. Ciò ha generato una divaricazione netta tra la popolazione urbana e i migranti che provengono dalle zone rurali. Il sistema dello Hukou deriva da una tradizione storica-culturale antica ed è stato modificato varie volte dal Governo cinese. Oggi, la questione dello Hukou è nell’agenda del terzo plenum del Partito Comunista della RPC e quanto mai attuale. La Cina si trova ad affrontare la sfida di un esercito di lavoratori migranti che, sostenendo l’economia cinese, pretendono gli stessi diritti dei cittadini urbani.

 

MYANMAR: UNA PARTITA ANCORA APERTA? di Stefano Vernole

Lo “sdoganamento” del Myanmar apparentemente favorisce l’intrusione occidentale nell’area del Sud-Est asiatico, ma la stabilizzazione dell’ex Birmania è funzionale agli interessi di sicurezza della Cina. La strategia geoeconomica del PCC appare ancora una volta vincente. Il secolo asiatico vedrà Pechino protagonista?

LA CINA IN ROMANIA di Luca Bistolfi

La Cina è vicina, e molto, anche in Romania. Da anni ormai, semplici cittadini, operai, imprenditori e multinazionali di servizi e infrastrutture provenienti dalla Città Proibita hanno adottato il Paese carpatico quale meta di investimenti a lunga durata. Nel bellum omnium contra omnes i romeni se ne vanno dal loro Paese e ad esser assunti sono i cinesi, sempre più a basso costo e non meno sfruttati. Un risultato, fra i tanti, è che anche le aziende italiane, andate per suonare, sono state suonate. Sempre dai cinesi. E la Romania, ancora una volta, piange.

 

IL TURISMO CINESE DEL XXI SECOLO di Ornella Colandrea

Negli ultimi tre decenni, la Repubblica Popolare Cinese ha adottato politiche e misure che, modificando fortemente la struttura socioeconomica del paese, hanno inaugurato una fase di costante crescita economica. La Cina rappresenta oggi un interessante mercato in  crescente espansione in cui il turismo costituisce uno dei fulcri centrali dell’industria nazionale. Il mercato turistico cinese rappresenta una grande opportunità per l’Europa e per il sistema di offerta italiano in particolare. L’articolo analizza i dati, i ritmi di sviluppo, le tendenze, i profili dei turisti cinesi, individuando criticità e opportunità.

 

IL TURISMO CINESE IN ITALIA di Elena Premoli

Affari, ma non solo: anche più tempo libero, voglia di esplorare il mondo, curiosità sempre crescente, desiderio di evasione, necessità di staccarsi dalla frenetica vita delle grandi megalopoli asiatiche. E, soprattutto, maggiore disponibilità economica. Sono questi alcuni fattori che stanno alla base di un fenomeno  sempre in crescita e che sta raggiungendo cifre davvero importanti. Si tratta del turismo cinese, dei viaggi interni alla Cina o all’estero che sempre più abitanti della Terra di Mezzo decidono di compiere per piacere.  Dove si posiziona il nostro Paese all’interno di questa filiera? Quali passi sono stati già compiuti, da quali sbagli è bene trarre insegnamento e quali piccole accortezze sono richieste agli operatori del settore per accogliere al meglio gli ospiti in arrivo dalla Repubblica Popolare? L’articolo offre un breve excursus sull’evoluzione del fenomeno turistico, andando alle radici della pratica del viaggiare per poi arrivare velocemente ai giorni nostri. Espone alcune cifre che definiscono un’idea generale del fenomeno e si chiude con uno sguardo particolare su quanto è possibile fare per trarre maggiori guadagni da tale tendenza, impossibile da trascurare.

LA RICEZIONE DI CARL SCHMITT IN CINA di Davide Ragnolini

La recente traduzione in cinese delle opere del giurista tedesco e la crescita delle pubblicazioni dedicategli in Cina rappresentano un elemento di novità sotto un duplice punto di vista. Da un lato contribuiscono sul piano ermeneutico ad arricchire la storia della ricezione della filosofia schmittiana del diritto sotto un più generale aspetto teoretico-dottrinale nel dibattito scientifico mondiale; dall’altro, queste pubblicazioni sono rilevanti come inedita introduzione di un autore europeo ormai classico all’interno della specificità politico-culturale della più grande nazione asiatica. Un recente saggio di Qi Zheng fornisce una panoramica su questo dibattito scientifico in Cina e al contempo ci dà la possibilità di intravedere i limiti attuali della ricezione cinese di un pensatore che, come spiega la stessa Qi Zheng, come nessun altro ha causato tante controversie in Cina.

CONTINENTI

GLOBALIZZAZIONE: DEFINIZIONE E CONSEGUENZE di Cristiano Procentese

La globalizzazione costituisce il fenomeno più rilevante degli ultimi decenni: ingrediente ormai irrinunciabile di ogni riflessione, rimane, ciononostante, un concetto ancora generico e impreciso. Tuttavia, dopo le apologetiche profezie dei sostenitori della globalizzazione, il risultato degli ultimi anni è  stato un modello di sviluppo che ha come componente intrinseca l’accentuazione delle diseguaglianze, la precarizzazione del lavoro ed il senso d’insicurezza dei cittadini. La crescita incontrollata della speculazione finanziaria, la delocalizzazione delle imprese, che diventano multinazionali o transnazionali, e l’impotenza dei governi nazionali nel gestire un fenomeno così complesso, sono le priorità cui la politica, riappropriandosi delle proprie prerogative, dovrebbe cercare di dare una risposta.

LA LETTONIA VERSO L’EURO di Giuseppe Cappelluti

Il 1 gennaio 2014 sarà una data storica per la Lettonia: il Paese baltico, infatti, diventerà il diciottesimo membro di Eurolandia. Per ragioni sia economiche sia geopolitiche (la volontà di sancire l’appartenenza all’Occidente in funzione antirussa) l’adozione dell’euro è stata uno dei principali obiettivi del governo di centrodestra, ma il Paese è tutt’altro che entusiasta. L’accettazione della Lettonia nell’Eurozona, dopo tutto, è stata vincolata all’adozione di rigide misure di austerità, e non manca chi, memori dei cinquant’anni di occupazione sovietica, teme per la propria sovranità nazionale. Alcuni economisti, d’altro canto, non vedono di buon occhio alcuni provvedimenti recentemente approvati in materia fiscale e temono che il Paese si trasformi in un ponte verso i paradisi fiscali, o peggio che diventi esso stesso un paradiso fiscale.

LE MANI SULL’ASIA CENTRALE di Giuseppe Cappelluti

La Cina è oggi uno dei maggiori interlocutori commerciali degli “stan” dell’Asia Centrale, e i suoi interessi nell’area sono in forte crescita. Emblematici delle strategie geopolitiche di Pechino verso il Centrasia sono i rapporti con Kazakhstan e Kirghizistan. Se fino a poco più di vent’anni fa la Cina era totalmente assente dagli orizzonti kazachi, la sempre più massiccia presenza cinese nell’economia dell’Aquila della Steppa, non più limitata al tradizionale settore degli idrocarburi, ne ha fatto uno dei più importanti partner commerciali e strategici. Inoltre, pur non mancando timori per un possibile boom dell’immigrazione cinese, gli interessi tra i due Paesi sono reciproci, a partire dalle questioni legate alla sicurezza e dalle nuove infrastrutture che collegheranno Cina e Russia attraverso il Kazakhstan. Il Kirghizistan, al contrario, interessa essenzialmente per la sua posizione geografica, mentre la sua futura adesione all’Unione Doganale non è propriamente una buona notizia per quello che un tempo fu il Celeste Impero. Ma nei due Paesi le mosse cinesi suscitano non pochi sospetti: legittimi interessi o espansionismo geoeconomico?

LA GUERRA CIVILE DEL TAGIKISTAN (1992-1997) di Andrea Forti

Nonostante la durata, cinque anni, e l’elevato numero di vittime (dai cinquanta ai centomila morti) la guerra civile del Tagikistan rimane, agli occhi del grande pubblico occidentale (e non solo), uno dei conflitti meno conosciuti del convulso periodo immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda, oscurato dai contemporanei ma ben più mediatici conflitti nella ex-Jugoslavia, in Algeria o in Somalia. La guerra civile tagica, nonostante l’oblio che ormai circonda questa drammatica pagina di storia, è di grande interesse sia per lo studio dei conflitti nati dal dissolvimento dell’Unione Sovietica che per eventuali comparazioni con conflitti attualmente in corso, come quello in Siria che oppone le forze governative alla ribellione islamista.

COMUNITÀ RELIGIOSE IN SIRIA di Vittoria Squillacioti

La Siria odierna è un paese complesso dal punto di vista etnico e religioso. Per comprendere quali siano effettivamente le differenze che caratterizzano la sua popolazione è necessario tenere presente le variabili della lingua, della confessione religiosa e dell’eventuale collocazione geografica delle diverse comunità, tre variabili che agiscono profondamente nella definizione delle diverse identità e appartenenze. Nel variegato mosaico siriano riscontriamo così la presenza dominante dei musulmani, ancorché suddivisi tra sunniti, sciiti, ismailiti, alawiti, drusi e yazidi, ma anche diverse varietà del cristianesimo ed una comunità ebraica.

ARABIA SAUDITA: ALLEANZE ESTERE E DINAMICHE INTERNE di Sara Brzuszkiewicz

In seguito al deciso rifiuto da parte dell’Arabia Saudita del seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per il quale era stata eletta come membro non permanente, ci si interroga sugli attuali rapporti del Regno dei Saud con storici alleati, rivali di sempre e timido dissenso interno, per scoprire che, nonostante a prima vista possa sembrare il contrario, il vento del cambiamento è ancora lontano dalla Culla dell’Islam.

IL TAGLIO DELL’ISTMO DI SUEZ di Lorenzo Salimbeni

Nel novembre del 1869 venne inaugurato il Canale di Suez. Ci era voluto quasi un decennio di massacranti lavori per portare a compimento quest’opera ciclopica, dopo che già in fase di progettazione non erano mancate le polemiche. La necessità di mettere in collegamento il Mar Mediterraneo ed il Mar Rosso era chiara a tutti, ma la modalità con cui conseguire tale obiettivo era oggetto di discussione. Vi fu chi propose di aprire un canale fra il Mar Rosso ed il delta del Nilo (come era già stato fatto all’epoca dei Faraoni e della dominazione araba dell’Egitto), chi insistette per un collegamento ferroviario Alessandria-Il Cairo-Mar Rosso e chi spinse per tagliare l’istmo di Suez, anche se si riteneva che fra i due mari vi fosse un dislivello di alcuni metri che avrebbe richiesto la costruzione di complesse chiuse. La Compagnia Universale del Canale di Suez presieduta dallo spregiudicato Ferdinand de Lesseps, il genio ingegneristico di Luigi Negrelli e l’iniziale opposizione britannica furono i soggetti più importanti nella fase iniziale dell’ambiziosa opera di scavo.

INTERVISTE

TUCCI IN ORIENTE. L’AVVENTURA DI UNA VITA. INTERVISTA A ENRICA GARZILLI (a cura di Andrea Fais)

Enrica Garzilli è, dal 1995, direttrice delle riviste accademiche “International Journal of Sanskrit Studies” e “Journal of South Asia Women Studies”. È stata quindi Research Affiliate al P.G.D.A.V. College, una delle più antiche istituzioni dell’Università di Delhi. Dal 1991 al 2011 ha vinto la Senior Fellowship presso il Center for the Study of World Religions dell’Università di Harvard (1992–94), ha compiuto quattro anni di studi post-laurea in storia, informatica e giurisprudenza, ha insegnato come Lecturer di sanscrito all’università di Harvard e servito come direttore editoriale della Harvard Oriental Series-Opera Minora, è stata Visiting Researcher alla Harvard Law School (1994–96) e docente presso le università di Macerata, Perugia e Torino. Collabora in qualità di esperta alla RSI – Radiotelevisione Svizzera e a riviste e giornali italiani.

“GLOBAL TIMES”: UNO STRUMENTO DI DIALOGO. INTERVISTA A LI HONGWEI (a cura di Andrea Fais)

Li Hongwei è caporedattore dell’edizione in lingua inglese del quotidiano di approfondimento cinese “Global Times”. Fondato nel 1993 dall’editore del “Quotidiano del Popolo”, il “Global Times” ha raggiunto una popolarità internazionale a partire dal 2009, quando fu lanciata l’edizione in lingua inglese che ha raggiunto i lettori di tutto il mondo, accreditandosi come riferimento imprescindibile per conoscere analisi e opinioni della società cinese. La presente intervista è stata rilasciata ad Andrea Fais, collaboratore di “Eurasia” e di “Global Times”.

RECENSIONI

Luciano Pignataro, La Cina contemporanea da Mao Zedong a Deng Xiaoping (1949-1980) (Andrea Fais)

Tiziano Terzani, Tutte le opere (Stefano Vernole)

Carlo Terracciano, L’Impero del Cuore del Mondo (Andrea Fais)

Massimo Cacciari, Il potere che freno (Claudio Mutti)

dimanche, 12 janvier 2014

Germany's military strategy

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Germany's military strategy

 
 
The NATO defense strategy during the Cold War must have been a real nightmare for some West-German officers. Even the former West-German chancellor Helmut Schmidt said in 2007 in an interview that he was shocked when he was informed about the NATO plans in 1969. Schmidt said that there was a belt of nuclear mines crossing West-Germany which would detonate in case of a Soviet invasion. West-Germany was seen as the future nuclear battlefield. The country formally known as “Germany” would have been turned into a giant ground zero in the center of Europe. The Germans in West and East Germany were in the nuclear death row of the Cold War. 
 
The West-German army, the Bundeswehr, was part of those plans. The NATO strategy was: In case of a Soviet aggression, the Eastern Block armies will carry out their most powerful ground attack of the so called “Iron Curtain” in central Europe on Germany. It would be almost impossible to stop the Eastern armies before the Rhine River. West-Germany was supposed to be the “death trap” for the enemy?s armies, and for the German civilians. The Bundeswehr didn't play a big strategic role in that horrible scenario, the West-German soldiers might have been killed or defeated by the overwhelming Eastern forces and by the Western nuclear response within days. 
 
Germany in 1945: After the unconditional surrender of the German Wehrmacht, the former Reich became split in Zones of Occupation  by the allied powers. In the West US-American, British and French forces established their zones, in the center the Soviet occupation zone was established, East Germany was occupied by Poland and the Soviet Union. The Reich was destroyed; huge cities as Berlin, Hamburg, Konigsberg or Dresden became just ruins. Millions of German refugees became strayed; the former most powerful nation on continental Europe was disarmed and weakened down, thus creating a vacuum of power. The allied conference of Potsdam in the summer of 1945 made clear that there is now a new confrontation: The Western block under Anglo-American leadership against the Eastern communist block under Soviet leadership. In 1949 two German states were created: In the Western Zones of Occupation the Federal Republic of Germany (Bundesrepublik Deutschland), in Middle Germany the German Democratic Republic (Deutsche Demokratische Republik). At the time when these states were founded they didn?t have any military force. 
 
Germany remained completely demilitarized and any plans for a German military were clearly forbidden by Allied regulations. Only some naval mine-sweeping units continued to exist, but they remained unarmed and under Allied control and did not serve officially as a defense force. Even the Federal Border Protection Force (Bundesgrenzschutz), a mobile and lightly armed police force of 10,000 men, was formed only in 1951 - two years after the founding of the Federal Republic of Germany. A first proposal to integrate West German troops with soldiers of France, Belgium, the Netherlands, Luxembourg and Italy in a so called “European Defense Community”, in reality a Western European Army , was proposed but never realized. It was especially France who opposed any plans to rearm West Germany for a long time. “German militarism” was blamed to have caused both World Wars. Germany should never become a continental super power again. And the best “medicine” against militarism seemed to be not to permit any military forces.
 
With growing tensions between the communist Soviet Union and the liberal capitalist West, especially after the Korean War (1950-1953), this policy was to be revised. While the German Democratic Republic was already secretly rearming, the plans of a new West German force started in 1950 when former high-ranking German officers of the Wehrmacht were tasked by Chancellor Konrad Adenauer to discuss the options for rearmament. The so-called “Amt Blank”, the predecessor of the later Federal Ministry of Defense (Bundesverteidigungsministerium), was formed in 1950 in Bonn. 
 
The West German “Bundeswehr” was officially established on the 200th birthday of the Prussian general Gerhard von Scharnhorst on November 12th, 1955. But the rearmament (“Wiederbewaffnung”) of West Germany was not easy at all. Huge protests raged against those plans. Not only traditional pacifists opposed to those plans, but also German neutralist politicians and intellectuals who campaigned for one united Germany were strongly against the rearmament. They saw in those plans the manifestation of the German partition. 
 
And there was another dilemma: Since the unconditional surrender of the German Wehrmacht, the allied powers put a lot of energy in the so called “denazificiation” of the Germans. The Wehrmacht was identified as one of the worst instruments of German militarism. The generals and officers of the Wehrmacht and the Waffen-SS were seen as bloodthirsty warmongers and war criminals. But all of a sudden the West asked especially for the Wehrmacht personnel. The reason for that political U-turn is easy: The Wehrmacht and the Waffen-SS were the only military forces with a certain experience in fighting the Soviet army during World War II. From the beginning, the new Bundeswehr suffered under an “identity conflict”. While the politics went on with stigmatizing the officers of the German World War II forces, the same officers had to build the new army. 
 
During the Cold War the Bundeswehr was the front line of NATO's conventional defense in Central Europe. The West German army had strength of 495,000 soldiers. The Cold War Historian John Lewis Gaddis assesses the Bundeswehr in his book “The Cold War - a New History” as “perhaps world?s best army”. But the Bundeswehr did not take part in any combat operations during the Cold War times. The West German armed forces were during the whole Cold War an integrated part of the NATO military strategy. 
 
After the reunification of Germany in 1990, the Bundeswehr was reduced to 370,000 military personnel in accordance with the Treaty on the Final Settlement with Respect to Germany between the two German governments and the Allies (2+4 Treaty). The former East German Nationale Volksarmee (NVA) was disbanded. About 50,000 Volksarmee personnel were integrated into the Bundeswehr on October 2nd, 1990. With the reduction, a large amount of the military hardware of the Bundeswehr, as well as of the Volksarmee was disposed. Most of the armored vehicles and fighter jet aircraft (Bundesluftwaffe - due to Reunification - was the only Air Force in the world that flew both Phantoms and MIGs) were dismantled under the international disarmament procedures. 
 
The re-united Germany didn?t quit the NATO membership. The NATO “reformed” itself after the official end of the Cold War. The North Atlantic alliance began an expansion with newly autonomous Eastern European states. For the Bundeswehr, the mission changed: It was transformed more and more into a force for international missions. Hopes that Germany will become a sovereign nation with an independent security and defense plan – of course within a European defense concept – were bitterly disappointed. The “homeland defense” doesn?t play a role anymore since the end of the Cold War – in the official “defense guidelines” (Verteidigungspolitische Richtlinien, VPR) from 1992 the term “homeland defense” was not even mentioned anymore. On the first glance the military idea of the Federal Republic of Germany seemed to have turned 180 degrees: Until 1990 there was the permanent danger of having a nuclear war on German soil, after 1990 the German ministry of defense was talking about the world wide mission of the German military.
 
The recent VPR from May 18th, 2011 were named “Safeguarding National Interests – Assuming International Responsibility – Shaping Security Together”. These VPR include confessions such as: “As an active member of the international community, Germany pursues its interests and is actively striving for a better and safer world.” 
 
And: “A direct territorial threat to Germany involving conventional military means remains an unlikely event. Over the past few years the strategic security environment has continued to change. Globalization has led to power shifts between states and groups of states as well as to the rise of new regional powers. Today, risks and threats are emerging above all from failing and failed states, acts of international terrorism, terrorist regimes and dictatorships, turmoil when these break up, criminal networks, climatic and natural disasters, from migration developments, from the scarcity of or shortages in the supply of natural resources and raw materials, from epidemics and pandemics, as well as from possible threats to critical infrastructure such as information technology.”
 
The German military mission is now completely detached from the German state. The official German understanding of the NATO membership turned from a defense alliance against a real existing threat into an abstract and conception alliance of transatlantic values and even to one of “Germany?s raisons d’etat”: 
 
“The North Atlantic Alliance remains the centerpiece of our defense efforts. Alliance solidarity and making a reliable and credible contribution to the Alliance are part of Germany’s raison d’etat. (…) The commitment of the United States to the security of Europe, as it is most prominently and effectively reflected in the North Atlantic Treaty Organization, remains a vital interest of Germany and its European allies. It is therefore our duty and our mission to preserve the unique quality of transatlantic relations, to strengthen our ties and our exchanges and to continue to develop the partnership with the United States by performing our tasks responsibly.”
 
The German Bundeswehr is today an international operation force, ready for action, “for a better world”. Of course the terms “security interest” and “national interests” are used until today, but also here the meaning changed: 
 
“German security interests include:
-preventing, mitigating and managing crises and conflicts that endanger the security of Germany and its allies;
-advocating and implementing positions on foreign and security policy in an assertive and credible way;
-strengthening transatlantic and European security and partnership;
-advocating the universality of human rights and principles of democracy, promoting global respect for international law and reducing the gap between the rich and the poor regions of the world;
-facilitating free and unrestricted world trade as well as free access to the high seas and to natural resources.”
 
The aspect of “advocating the universality of human rights and principles of democracy” especially became more and more dominant in German debates about security interests. This vision is assisted by the German Commissioner for Human Rights Policy and Humanitarian Aid: “It is in Germany’s own best interest to help make universal respect for human rights a reality. For enduring peaceful relations require stability, and there can be no long-term stability unless basic human rights are respected.”
 
Of course there is no explanation as to why the global enforcement of “human rights” should be German national security interest. But it became a type of magic mantra for German foreign politics, and the German Bundeswehr might become be more and more an armed force for those “human rights” missions. The end of the Cold War era changed the character of the Bundeswehr from a classical territorial army with a defensive character into an intervention force. Currently  there are Bundeswehr forces in Afghanistan and  Uzbekistan (ISAF), Kosovo (KFOR), in the Mediterranean Sea, at the Horn of Africa/Indian Ocean (Operation Atalanta), in Turkey (Operation Active Fence), Lebanon (UNIFIL), South Sudan (UNMISS), Sudan (UNAMID) and Mali. 
 

Fallujah: Obama’s Newest Headache

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Fallujah: Obama’s Newest Headache

Melkulangara BHADRAKUMAR

Ex: http://www.strategic-culture.org

 
Guernica in the Spanish civil war, My Lai in the Vietnam War, Guantanamo Bay in the war on terror – these have been powerful symbols. The siege of Fallujah in May 2004 stands out in the Iraq War as the bloodiest battle that the United States fought since the Vietnam War. The US Marines suffered 40 deaths in the siege, while Iraqi civilian casualties were in the hundreds. The US forces reportedly used F-16 warplanes to blitz residential areas in Fallujah with cluster bombs. The majority of prisoners were executed…

As the US Marine Corps announced a ceasefire and withdrew in May 2004, mosques proclaimed the victory of insurgents and Fallujah’s transformation began as a sort of Islamic mini-state with Sharia law. So, in the fall of that year, in late October, the US military returned with another major offensive with aerial attacks and precision-guided missiles followed by a full-blooded assault by the Marines backed by artillery and armor in early November – Operation Phantom Fury. 

This is how CNN’s Karl Penhaul reported on November 9: «The sky over Fallujah seems to explode as U.S. Marines launch their much-trumpeted ground assault. War planes drop cluster bombs on insurgent positions and artillery batteries fire smoke rounds to conceal a Marine advance». According to Washington Post, white phosphorous grenades and artillery shells were used to create «walls of fire» in the city. Doctors later reported seeing melted corpses. No one knows the casualty figures; as of November 18 US military claimed 1200 ‘insurgents’ had been killed and 1000 captured… 

A Guardian report said over 70 percent of the city’s homes were destroyed along with sixty schools and sixty-five mosques and shrines. There has been anecdotal evidence of large increases in cancer, infant mortality, etc. among the survivors, triggering speculation that there was use of depleted uranium leading to environmental contamination. 

It is extremely important to recollect the horrendous living memory of Fallujah to understand what happened last week when the centre of the city fell into the hands of fighters from the al-Qaeda-linked Islamic State in Iraq and Levant [ISIL]. Fallujah, along with the capital of Anbar province, Ramadi, was a stronghold of Sunni insurgents during the US occupation of Iraq and al-Qaeda militants largely took over both cities last week. Hundreds of ISIL fighters have entered Fallujah. 

Pundits have begun analyzing the factors behind. The dominant narrative is that the Iraqi government led by Prime Minister Nouri al-Maliki failed to reach out to the Sunnis and alienating them during the period since the US troops pulled out in 2011. Indeed, the latest flare-up happened after Maliki dispatched troops last week to break up an year-old Sunni protest in Ramadi to voice their grievances of political exclusion. Almost all Sunnis have turned against the government and are opposed to the Iraqi security forces, although not all have aligned themselves with the ISIL. 

Meanwhile, the turmoil in Syria in which ISIL is playing a lead role has compounded the security situation in Iraq. The ISIL has been targeting Shi’ites, which at once gives the conflict in Anbar a sectarian overtone. Also, Iraq is heading for parliamentary poll in April and there are conspiracy theories that Maliki is calibrating a confrontation with Sunnis and raising the spectre of the al-Qaeda threat that might help him rally the Shi’ite opinion to support his re-election. 

However, Maliki’s decisions are also prompted by the real fear that his Shi’ite-led government is besieged and faces the threat of being overrun Sunnis. To say he contrived the al-Qaeda takeover in Fallujah stretches credulity. The ISIL comprises hardened fighters coming in from Syria where the US’ regional allies in the Persian Gulf, especially Saudi Arabia, have been inducting foreign fighters and supporting them financially and with weapons. Also to be factored in is the so-called Sahwa, the Awakening, which the US created as surrogate force to fight the al-Qaeda and was abandoned when the American troops withdrew in 2011. Most of its leaders have been assassinated. 

Suffice to say, in terms of political morality or strategy, the Barack Obama administration cannot wash its hands off the emergent situation in Fallujah. The blame for the Iraq’s unraveling as a nation should lie with the George W. Bush presidency. Bush’s forecast of ‘mission accomplished’ in Iraq and Gen. David Petraeus’ brag about the Awakening sound hollow today. 

To be sure, how Obama responds to the situation in Fallujah has wider implications for the US’ regional strategies. Secretary of State John Kerry said, «We’re not contemplating putting boots on the ground. This is their [Iraqis’] fight, but we’re going to help them in their fight». 

The White House spokesman Jay Carney said Washington is «accelerating» its deliveries of military equipment to Iraq and «looking to provide an additional shipment of Hellfire missiles» in the coming months as well as ten surveillance drones in the coming weeks and another 48 later this year. Carney added that Washington is «working closely with the Iraqis to develop a holistic strategy to isolate the al-Qaeda-affiliated groups», but ultimately Iraq must handle the conflict itself. 

The point is, US fought ferociously in 2004 to keep al-Qaeda out of Fallujah and now they’ve returned and may create a base there and this is every bit the US’ fight and Maliki government is a quasi-ally of Washington. The US’ interests in the region will be seriously hurt if al-Qaeda establishes another foothold in the region. And, of course, the whole region is watching Washington’s grit to take on al-Qaeda. 

The Republican hawks like Senators John McCain and Lindsey Graham blame Obama for the situation insofar as he didn’t try hard enough to reach an agreement with Maliki to keep US troops in Iraq beyond 2011. However, the criticism won’t gain traction as the domestic attitudes in the US favor the idea that despite the upheaval in the Middle East, the US will do well to seek a diplomatic and political engagement with the region rather than a military settlement. 

The choices that lie ahead for Obama can be viewed from three perspectives. First, the Fallujah situation sails into view at an awkward time – when the Obama administration proposes to maintain anywhere around ten to twelve thousand US troops in Afghanistan. That plan lacks support within the US and the Fallujah situation is a timely warning about the dangers of maintaining a large residual force in Afghanistan. 

Second, Fallujah highlights that the wars in Syria and Iraq and the dangerous slide in Lebanon have morphed. At the same time, Fallujah is not an al-Qaeda problem alone. It is a city that became irreconcilably alienated in the brutal violence of US occupation and it no longer feels it’s a part of Iraq. Thus, Fallujah calls attention to a far more fundamental question regarding the future of Iraq itself. This, again, holds some stark lessons for Afghanistan where too the US occupation hastened the fragmentation along ethnic and religious lines. A response to the crisis by accelerating weapons deliveries to the Iraqi government will not solve the problem and may even make it worse. 

A third stunning aspect is that the Fallujah situation finds the US and Iran on the same side. Their respective interests in Iraq vary but they share the profound concern that an international movement of Sunni fighters fired by Wahhabi ideology is raising the black flag of al-Qaeda along sectarian fault lines. Neither is willing to intervene and Tehran too promises military aid but shows reluctance to put ‘boots on the ground’. 

The Obama administration could be edging close to acknowledging Iran’s influence on regional issues – Iraq, Syria, Afghanistan, Yemen – and this hastens regional realignments. Saudi Arabia accuses the Obama administration of strengthening Iran’s regional at the expense of Washington’s traditional allies and also alleges that Tehran is pursuing a clever strategy to undermine the US-Saudi alliance. 

Indeed, Foreign Minister Mohammad Javad Zarif said at a meeting with a visiting delegation of Italian lawmakers on Sunday in Tehran that the spread of radicalism in the Middle East would pose unpredictable threats to other parts of the world as well unless countered through effective international cooperation. The Intelligence Minister Seyed Mahmoud Alavi claimed that the western powers realize that international cooperation is needed to counter the «threat of terrorism by Takfiri groups». 

Significantly, a bipartisan a group of influential figures in the US foreign policy establishment addressed a letter to the US Senate on Monday urging that no new sanctions be passed against Iran, warning that it would potentially move the US closer to war. Ryan Crocker who was a former ambassador to Iraq, led the initiative.

samedi, 11 janvier 2014

Volgograd and the Conquest of Eurasia

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Volgograd and the Conquest of Eurasia: Has the House of Saud seen its Stalingrad?

 

The events in Volgograd are part of a much larger body of events and a multi-faceted struggle that has been going on for decades as part of a cold war after the Cold War—the post-Cold War cold war, if you please—that was a result of two predominately Eurocentric world wars. When George Orwell wrote his book 1984 and talked about a perpetual war between the fictional entities of Oceania and Eurasia, he may have had a general idea about the current events that are going on in mind or he may have just been thinking of the struggle between the Soviet Union and, surrounded by two great oceans, the United States of America.

So what does Volgograd have to do with the dizzying notion presented? Firstly, it is not schizophrenic to tie the events in Volgograd to either the conflict in the North Caucasus and to the fighting in Syria or to tie Syria to the decades of fighting in the post-Soviet North Caucasus. The fighting in Syria and the North Caucuses are part of a broader struggle for the mastery over Eurasia. The conflicts in the Middle East are part of this very grand narrative, which to many seems to be so far from the reality of day to day life.

 “Bandar Bush” goes to Mother Russia

For the purposes of supporting such an assertion we will have to start with the not-so-secret visit of a shadowy Saudi regime official to Moscow. Prince Bandar bin Sultan bin Abdulaziz Al-Saud, the infamous Saudi terrorist kingpin and former House of Saud envoy to Washington turned intelligence guru, last visited the Russian Federation in early-December 2013. Bandar bin Sultan was sent by King Abdullah to solicit the Russian government into abandoning the Syrians. The goal of Prince Bandar was to make a deal with the Kremlin to let Damascus be overtaken by the Saudi-supported brigades that were besieging the Syrian government forces from Syria’s countryside and border regions since 2011. Bandar met with Russian President Vladimir Putin and the two held closed-door discussions about both Syria and Iran at Putin’s official residence in Novo-Ogaryovo.

The last meeting that Bandar had with Putin was a few months earlier in July 2013. That meeting was also held in Russia. The July talks between Prince Bandar and President Putin also included Secretary Nikolai Patrushev, the head of the Security Council of the Russian Federation. One would also imagine that discussion about the Iranians increased with each visit too, as Bandar certainly tried to get the Russians on bad terms with their Iranian allies.

After Bandar’s first meeting with President Putin, it was widely reported that the House of Saud wanted to buy Russia off. Agence France-Presse and Reuters both cited the unnamed diplomats of the Arab petro-monarchies, their March 14 lackeys in Lebanon, and their Syrian opposition puppets as saying that Saudi Arabia offered to sign a lucrative arms contract with Moscow and give the Kremlin a guarantee that the Arab petro-sheikdoms would not threaten the Russian gas market in Europe or use Syria for a gas pipeline to Europe.

Russia knew better than to do business with the House of Saud. It had been offered a lucrative arms deal by the Saudi regime much earlier, in 2008, to make some backdoor compromises at the expense of Iran. After the compromises were made by Moscow the House of Saud put the deal on ice. If the media leaks in AFP and Reuters were not tactics or lies in the first place aimed at creating tensions between the Syrian and Russian governments, the purportedly extravagant bribes to betray Syria were wasted on the ears of Russian officials.

The House of Saud and the undemocratic club of Arab petro-monarchies that form the Gulf Cooperation Council (GCC) have always talked large about money. The actions of these self portrayed lords of the Arabia Peninsula have almost never matched their words and promises. To anyone who deals with them, the House of Saud and company are known for habitually making grand promises that they will never keep, especially when it comes to money. Even when money is delivered, the full amount committed is never given and much of it is stolen by their corrupt partners and cronies. Whether it is the unfulfilled 2008 arms contract with Russia that was facilitated with the involvement of Iraqi former CIA asset Iyad Allawi or the overabundant commitments of financial and logistical aid to the Lebanese and Palestinian peoples that never materialized, the Arab petro-sheikhdoms have never done more than talk grandly and then get their propagandists to write articles about their generosity and splendor. Underneath all the grandeur and sparkles there has always been bankruptcy, insecurity, and emptiness.

A week after the first meeting with Bandar, the Kremlin responded to the media buzz about the attempted bribe by Saudi Arabia. Yury Ushakov, one of Putin’s top aides and the former Russian ambassador to the US, categorically rejected the notion that any deal was accepted or even entertained by the Kremlin. Ushakov avowed that not even bilateral cooperation was discussed between the Saudis and Russia. According to the Kremlin official, the talks between Bandar and Putin were simply about the policies of Moscow and Riyadh on Syria and the second international peace conference being planned about Syria in Geneva, Switzerland.

More Leaks: Fighting Fire with Fire?

If his objective was to get the Russians to abandon Syria, Prince Bandar left both meetings in Russia empty-handed. Nevertheless, his visit left a trail of unverifiable reports and speculation. Discretion is always needed when analyzing these accounts which are part of the information war about Syria being waged on all sides by the media. The planted story from the Saudi side about trying to buy the Russians was not the only account of what took place in the Russian-Saudi talks. There was also a purported diplomatic leak which most likely surfaced as a counter-move to the planted story about Bandar’s proposal. This leak elaborated even further on the meeting between Bandar and Putin. Threats were made according to the second leak that was published in Arabic by the Lebanese newspaper As-Safir on August 21, 2013.

According to the Lebanese newspaper, not only did Prince Bandar tell the Russians during their first July meeting that the regimes of the GCC would not threaten the Russian gas monopoly in Europe, but he made promises to the Russians that they could keep their naval facility on the Mediterranean coast of Syria and that he would give the House of Saud’s guarantee to protect the 2014 Winter Olympics being held in the North Caucasian resort city of Sochi, on the eastern coast of the Black Sea, from the Chechen separatist militias under Saudi control. If Moscow cooperated with Riyadh and Washington against Damascus, the leak discloses that Bandar also stated that the same Chechen militants fighting inside Syria to topple the Syrian government would not be given a role in Syria’s political future.

When the Russians refused to betray their Syrian allies, Prince Bandar then threatened Russia with the cancellation of the second planned peace conference in Geneva and with the unleashing of the military option against the Syrians the leak imparts.

This leak, which presents a veiled Saudi threat about the intended attacks on the Winter Olympics in Sochi, led to a frenzy of speculations internationally until the end of August 2013, amid the high tensions arising from the US threats to attack Syria and the threats coming from Iran to intervene on the side of their Syrians allies against the United States. Originating from the same politically affiliated media circle in Lebanon, reports about Russian military preparations to attack Saudi Arabia in response to a war against Syria began to circulate from the newspaper Al-Ahed also, further fueling the chain of speculations.

A House of Saud Spin on the Neo-Con “Redirection”

Seymour Hersh wrote in 2007 that after the 2006 defeat of Israel in Lebanon that the US government had a new strategy called the “redirection.” According to Hersh, the “redirection” had “brought the United States closer to an open confrontation with Iran and, in parts of the region, propelled it into a widening sectarian conflict between Shiite and Sunni Muslims.” With the cooperation of Saudi Arabia and all the same players that helped launch Osama bin Ladin’s career in Afghanistan, the US government took “part in clandestine operations aimed at Iran and its ally Syria.” The most important thing to note is what Hersh says next: “A by-product of these activities has been the bolstering of Sunni extremist groups that espouse a militant vision of Islam and are hostile to America and sympathetic to Al Qaeda.”

A new House of Saud spin on the “redirection” has begun. If there is anything the House of Saud knows well, it is rounding up fanatics as tools at the service of Saudi Arabia’s patrons in Washington. They did it in Afghanistan, they did it Bosnia, they have done it in Russia’s North Caucasus, they did it in Libya, and they are doing it in both Lebanon and Syria. It does not take the British newspaper The Independent to publish an article titled “Mass murder in the Middle East is funded by our friends the Saudis” for the well-informed to realize this.

The terrorist bombings in Lebanon mark a new phase of the conflict in Syria, which is aimed at forcing Hezbollah to retreat from Syria by fighting in a civil war on its home turf. The attacks are part of the “redirection.” The House of Saud has accented this new phase through its ties to the terrorist attacks on the Iranian Embassy in Beirut on November 19, 2013. The attacks were carried out by individuals linked to the notorious Ahmed Al-Assir who waged a reckless battle against the Lebanese military from the Lebanese city of Sidon as part of an effort to ignite a sectarian civil war in Lebanon.

Al-Assir’s rise, however, was politically and logistically aided by the House of Saud and its shameless Hariri clients in Lebanon. He is also part of the same “redirection” policy and current that brought Fatah Al-Islam to Lebanon. This is why it is no surprise to see Hariri’s Future Party flag flying alongside Al-Qaeda flags in Lebanon. After Al-Assir’s failed attempt to start a sectarian Lebanese civil war, he went into hiding and it was even alleged that he was taken in by one of the GCC embassies.

In regard to the House of Saud’s roles in the bombings in Lebanon, Hezbollah would confirm that the attack on the Iranian Embassy in Beirut was linked to the House of Saud. Hezbollah’s leadership would report that the Abdullah Izzam Brigade, which is affiliated to Al-Qaeda and tied to the bombings, is directly linked to the intelligence services of Saudi Arabia.

Moreover, the Saudi agent, Majed Al-Majed, responsible for the attack would be apprehended by Lebanese security forces in late-December 2013. He had entered Lebanon after working with Al-Nusra in Syria. Fars News Agency, an Iranian media outlet, would report on January 2, 2014 that unnamed Lebanese sources had also confirmed that they had discovered that the attack was linked to Prince Bandar.

Wrath of the House of Saud Unleashed?

A lot changed between the first and second meetings that Prince Bandar and Vladimir Putin had, respectively in July 2013 and December 2013. The House of Saud expected its US patron to get the Pentagon involved in a conventional bombing campaign against Syria in the month of September. It is more than likely that Riyadh was in the dark about the nature of secret negotiations that the US and Iran were holding through the backchannel of Oman in the backdrop of what appeared to be an escalation towards open war.

Bandar’s threat to reassess the House of Saud’s ties with Washington is probably a direct result of the US government keeping the House of Saud in the dark about using Syria as a means of negotiating with the Iranian government. US officials may have instigated the House of Saud to intensify its offensive against Syria to catalyze the Iranians into making a deal to avoid an attack on Syria and a regional war. Moreover, not only did the situation between the US and Iran change, Russia would eventually sign an important energy contract for Syrian natural gas in the Mediterranean Sea. The House of Saud has been undermined heavily in multiple ways and it is beginning to assess its own expendability.

If one scratches deep enough, they will find that the same ilk that attacked the Iranian Embassy in Beirut also attacked the Russian Embassy in Damascus. Both terrorist attacks were gifts to Iran and Russia, which served as reprisals for the Iranian and Russian roles in protecting Syria from regime change and a destructive war. It should, however, be discerned if the House of Saud is genuinely lashing out at Iran and Russia or if it being manipulated to further the goals of Washington in the US negotiations with Tehran, Moscow, and Damascus.

In the same manner, the House of Saud wants to generously reward Hezbollah too for its role in protecting Syria by crippling Hezbollah domestically in Lebanon. Riyadh may possibly not want a full scale war in Lebanon like the Israelis do, but it does want to neutralize and eliminate Hezbollah from the Lebanese landscape. In this regard, Saudi Arabia has earnestly been scheming to recruit Lebanon’s President Michel Suleiman and the Lebanese military against Hezbollah and its supporters.

The Saud grant of three billion dollars to the Lebanese Armed Forces is not only blood money being given to Lebanon as a means of exonerating Saudi Arabia for its role in the terrorist bombings that have gripped the Lebanese Republic since 2013, the Saudi money is also aimed at wishfully restructuring the Lebanese military as a means of using it to neutralize Hezbollah. In line with the House of Saud’s efforts, pledges from the United Arab Emirates and reports that NATO countries are also planning on donating money and arms to the Lebanese military started.

In addition to the terrorists bombings in Lebanon and the attack on the Russian Embassy in Damascus, Russia has also been attacked. Since the Syrian conflict intensified there has been a flaring of tensions in Russia’s North Caucasus and a breakout of terrorist attacks. Russian Muslim clerics, known for their views on co-existence between Russia’s Christian and Muslim communities and anti-separatist views, have been murdered. The bombings in Volgograd are just the most recent cases and an expansion into the Volga of what is happening in the North Caucasus, but they come disturbingly close to the start of the Winter Olympics that Prince Bandar was saying would be “protected” if Moscow betrayed Syria.

Can the House of Saud Stand on its Own Feet?

It is a widely believed that you will find the US and Israelis pulling a lot of the strings if you look behind the dealings of the House of Saud. That view is being somewhat challenged now. Prince Mohammed bin Nawaf bin Abdulaziz Al-Saud, Saudi Arabia’s ambassador to the UK, threatened that Saudi Arabia will go it alone against Syria and Iran in a December 2013 article. The letter, like the Saudi rejection of their UN Security Council seat, was airing the House of Saud’s rage against the realists running US foreign policy.

In this same context, it should also be noted for those that think that Saudi Arabia has zero freedom of action that Israeli leaders have stressed for many years that Tel Aviv needs to cooperate secretly with Saudi Arabia to manipulate the US against Iran. This is epitomized by the words of Israeli Brigadier-General Oded Tira: “We must clandestinely cooperate with Saudi Arabia so that it also persuades the US to strike Iran.”

Along similar lines, some may point out that together the House of Saud and Israel got France to delay an interim nuclear agreement between the Iranians and the P5+1 in Geneva. The House of Saud rewarded Paris through lucrative deals, which includes making sure that the grant it gives to the Lebanese military is spent on French military hardware. Saad Hariri, the main Saudi client in Lebanon, even met Francois Hollande and French officials in Saudi Arabia in context of the deal. Appeasing the House of Saud and Israel, French President Hollande has replicated France’s stonewalling of the P5+1 interim nuclear deal with Iran by trying to spoil the second Syria peace conference in Geneva by saying that there can be no political solution inside Syria if President Bashar Al-Assad stays in power.

Again, however, it has to be asked, is enraging Saudi Arabia part of a US strategy to make the Saudis exert maximum pressure on Tehran, Moscow, and Damascus so that the United States can optimize its gains in negotiations? After all, it did turn out that the US was in league with France in Geneva and that the US used the French stonewalling of an agreement with Iran to make additional demands from the Iranians during the negotiations. Russian Foreign Minister Sergey Lavrov revealed that the US negotiation team had actually circulated a draft agreement that had been amended in response to France’s demands before Iran and the other world powers even had a chance to study them. The draft by the US team was passed around, in Foreign Minister Lavrov’s own words, “literally at the last moment, when we were about to leave Geneva.”

Instead of debating on the level of independence that the House of Saud possesses, it is important to ask if Saudi Arabia can act on its own and to what degree can the House of Saud act as an independent actor. This looks like a far easier question to answer. It is highly unlikely that Saudi Arabia can act on its own in most instances or even remain an intact state. This is why Israeli strategists very clearly state that Saudi Arabia is destined to fall apart. “The entire Arabian Peninsula is a natural candidate for dissolution due to internal and external pressures, and the matter is inevitable especially in Saudi Arabia,” the Israeli Yinon Plan deems. Strategists in Washington are also aware of this and this is also why they have replicated models of a fragmented Saudi Arabia. This gives rise to another important question: if they US assess that the Kingdom of Saudi Arabia is not a sustainable entity, will it use it until it burns out like a flame? Is this what is happening and is Saudi Arabia being sacrificed or setup to take the blame as the “fall guy” by the United States?

 Who is Hiding Behind the House of Saud?

Looking back at Lebanon, the messages from international media outlets via their headlines is that the bombings in Lebanon highlight or reflect a power struggle between the House of Saud and Tehran in Lebanon and the rest of the region. Saying nothing about the major roles of the US, Israel, and their European allies, these misleading reports by the likes of journalists like Anne Barnard casually blame everything in Syria and Lebanon on a rivalry between Saudi Arabia and Iran, erasing the entire history behind what has happened and casually sweeping all the interests behind the conflict(s) under the rug. This is dishonest and painting a twisted Orientalist narrative.

The outlets trying to make it sound like all the Middle East’s problems are gravitating around some sort of Iranian and Saudi rivalry might as well write that “the Saudis and Iranians are the sources behind the Israeli occupation of Palestine, the sources behind the Anglo-American invasion of Iraq that crippled the most advanced Arab country, the ones that are blockading medication from reaching Gaza due to their rivalry, the ones who enforced a no-fly zone over Libya, the ones that are launching killer drone attacks on Yemen, and the ones that are responsible for the billions of dollars that disappeared from the Iraqi Treasury in 2003 after Washington and London invaded that country and controlled its finances.” These outlets and reports are tacitly washing the hands of  actors like Washington, Tel Aviv, Paris, and London clean of blood by trying to construct a series of false narratives that either blame everything on a regional rivalry between Tehran and Riyadh or the premise that the Sunni Muslims and Shia Muslims are fighting an eternal war that they are biologically programmed to wage against one another.

Arabs and Iranians and Shias and Sunnis are tacitly painted as un-human creatures that cannot be understood and savages to audiences. The New York Times even dishonestly implies that the Sunni Muslims and Shiite Muslims in Lebanon are killing one another in tit-for-tat attacks. It sneakily implies that Hezbollah and its Lebanese rivals are assassinating one another. Bernard, its reporter in Lebanon who was mentioned earlier, along with another colleague write:

In what have been seen as tit-for-tat attacks, car bombs have targeted Hezbollah-dominated neighborhoods in the southern suburbs of Beirut and Sunni mosques in the northern city of Tripoli.

On Friday, a powerful car bomb killed Mohamad B. Chatah, a former Lebanese finance minister who was a major figure in the Future bloc, a political group that is Hezbollah’s main Sunni rival.

The New York Times is cunningly trying to make its readers think that Hezbollah was responsible for the bombing as part of a Shiite-Sunni sectarian conflict by concluding with an explanation that the slain former Lebanese finance minister belonged to “Hezbollah’s main Sunni rival” after saying that the bombings in Lebanon “have been seen as tit-for-tat attacks” between the areas that support Hezbollah and “Sunni mosques” in Tripoli

The US and Israel wish that a Shiite-Sunni sectarian conflict was occurring in Lebanon and the rest of the Middle East. They have been working for this. It has been them that have been manipulating Saudi Arabia to instigate sectarianism. The US and Israel have been prodding the House of Saud—which does not represent the Sunni Muslims, let alone the people of Saudi Arabia which are under its occupation—against Iran, all the while trying to conceal and justify the conflict being instigated as some sort of “natural” rivalry between Shiites and Sunnis that is being played out across the Middle East. 

It has been assessed with high confidence by outsiders concerned by the House of Saud’s inner dealings that Prince Bandar is one of the three Al-Saud princes managing Saudi Arabia’s security and foreign policy; the other two being Prince Abdulaziz bin Abdullah bin Abdulaziz Al-Saud, the Saudi deputy foreign minister and one of King Abdullah’s point men on Syria due to his ties to Syria from his maternal side, and Prince Mohammed bin Nayef bin Abdulaziz Al-Saud, the interior minister. All three of them are tied to the United States more than any of their predecessors. Prince Bandar himself has a long history of working closely with the United States, which explains the endearing moniker of “Bandar Bush” that he is widely called by. “Chemical Bandar” can be added to the list too, because of the reports about his ties to the Syrian chemical weapon attacks in Ghouta.

As a US client, Saudi Arabia is a source of instability because it has been conditioned hence by Washington. Fighting the terrorist and extremist threat is now being used by the US as a point of convergence with Iran, which coincidently has authored the World Against Violence and Extremism (WAVE) motion at the United Nations. In reality, the author of the regional problems and instability has been Washington itself. In a masterstroke, the realists now at the helm of foreign policy are pushing American-Iranian rapprochement on the basis of what Zbigniew Brzezinski, the former national security advisor of the US, said would be based on Tehran and Washington working together to secure Iran’s “volatile regional environment.” “Any eventual reconciliation [between the US and Iranian governments] should be based on the recognition of a mutual strategic interest in stabilizing what currently is a very volatile regional environment for Iran,” he explains. The point should not be lost either that Brzezinski is the man who worked with the Saudis to arm the Afghan Mujahedeen against the Soviets after he organized an intelligence operation to fool the Soviets into militarily entering Afghanistan in the first place.

The House of Saud did not work alone in Afghanistan during the Cold War either. It was rigorously backed by Washington. The United States was even more involved in the fighting. It is the same in Syria. If the diplomatic leak is to be believed about the meeting between Bandar and Putin, it is of merit to note that “Bandar Bush” told Putin that any “Saudi-Russian understanding” would also be part of an “American-Russian understanding.”

Has the “Redirection” Seen its Stalingrad?

Volgograd was called Stalingrad for a part of Soviet history, in honour of the Republic of Georgia’s most famous son and Soviet leader Joseph Stalin. It was Volgograd, back then called Stalingrad, where the Germans were stopped and the tide of war in Europe was turned against Hitler and his Axis allies in Europe. The Battle of Stalingrad was where the Nazis were defeated and it was in the Soviet Union and Eastern Europe where the bulk of the fighting against the Germans was conducted. Nor is it any exaggeration to credit the Soviets—Russian, Kazakh, Uzbek, Tajik, Tartar, Georgian, Armenian, Ukrainian, Belarusian, Chechen, and all—for doing most of the fighting to defeat the Germans in the Second World War.

Judging by the bellicose 2013 New Years Eve speech of Russian President Vladimir Putin, the terrorist attacks in Volgograd will be the start of another Battle of Stalingrad of some sorts and the launch of another Russian “war on terror.” Many of the terrorists that Russia will go after are in Syria and supported by the House of Saud.

The opponents of the Resistance Bloc that Iran, Syria, Hezbollah, and the Palestinian resistance groups form have called the battlefields in Syria the Stalingrad of Iran and its regional allies. Syria has been a Stalingrad of some sorts too, but not for the Resistance Bloc. The alliance formed by the US, Britain, France, Saudi Arabia, Qatar, Turkey, and Israel has begun to unravel in its efforts to enforce regime change in Syria. The last few years have marked the beginning of a humiliating defeat for those funding extremism, separatism, and terrorism against countries like Russia, China, Iran, and Syria as a means of preventing Eurasian cohesion. Another front of this same battle is being politically waged by the US and the EU in the Ukraine in a move to prevent the Ukrainians from integrating with Belarus, Russia, and Kazakhstan.

Volgograd and the Conquest of Eurasia

While speculation has been entertained with warning in this text, most of what has been explained has not been speculative. The House of Saud has had a role in destabilizing the Russian Federation and organizing terrorist attacks inside Russia. Support or oppose the separatist movements in the North Caucasus, the point is that they have been opportunistically aided and used by the House of Saud and Washington. Despite the authenticity of the narrative about Bandar’s threats against Russia, Volgograd is about Syria and Syria is about Volgograd. Both are events taking place as part of the same struggle. The US has been trying to encroach into Syria as a means of targeting Russia and encroaching deeper in the heart of Eurasia.

When George Orwell wrote 1984 he saw the world divided into several entities at constant or “eternal” war with one another. His fictitious superstates police language, use total surveillance, and utterly manipulate mass communication to indoctrinate and deceive their peoples. Roughly speaking, Orwell’s Oceania is formed by the US and its formal and informal territories in the Western Hemisphere, which the Monroe Doctrine has essentially declared are US colonies, confederated with Britain and the settler colonies-cum-dominions of the former British Empire (Australia, Canada, Ireland, New Zealand, and South Africa). The Orwellian concept of Eurasia is an amalgamation of the Soviet Union with continental Europe. The entity of Eastasia on the other hand is formed around China. Southeast Asia, India, and the parts of Africa that do not fall under the influence of Oceanic South Africa are disputed territory that is constantly fought for. Although not specifically mentioned, it can be extrapolated that Southwest Asia, where Syria is located, or parts of it are probably part of this fictional disputed territory, which includes North Africa.

If we try to fit Orwellian terms onto the present set of global relations, we can say that Oceania has made its moves against Eurasia/Eastasia for control of disputed territory (in the Middle East and North Africa).

1984 is not just a novel, it is a warning from the farseeing Orwell. Nonetheless, never did he imagine that his Eurasia would make cause with or include Eastasia through a core triple alliance and coalition comprised of Russia, China, and Iran. Eurasia will finish, in one way or another, what Oceania has started. All the while, as the House of Saud and the other rulers of the Arab petro-sheikhdoms continue to compete with one another in building fancy towers, the Sword of Damocles is getting heavier over their heads.

 

Défense européenne : les puissances ne se bâtissent pas sur du «Wishful thinking»

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Défense européenne : les puissances ne se bâtissent pas sur du «Wishful thinking»

par Philippe Migault
Ex: http://fr.rian.ru
 

Annoncé comme un évènement stratégique et diplomatique crucial, le Conseil européen qui aura lieu jeudi et vendredi prochains est censé marquer un progrès en matière de politique de défense et de sécurité européenne.

Il suffit pourtant de lire un récent document du conseil de l’Union européenne (1), pour se rendre compte que la montagne accouchera une fois encore d’une souris. Qu’il s’agisse de la phraséologie employée, des mesures proposées ou des orientations implicitement induites, tout indique qu’une fois encore l’Europe autoproclamée se prépare à une grande démonstration ostentatoire dont il ne sortira rien de concret.

Les objectifs stratégiques annoncés par Bruxelles prêtent en premier lieu à sourire. L’UE « est appelée à assumer des responsabilités accrues en matière de maintien de la paix et de la sécurité internationales (…) afin de garantir (…) la promotion de ses valeurs et intérêts », affirme le document. Jusqu’ici tout va bien. Mais puisqu’il s’agit ici de défense, d’intérêts vitaux communs, de ceux qui méritent qu’on se batte voire qu’on meurt pour eux, encore faudrait-il se montrer un peu plus précis. Quels sont ces valeurs et ces intérêts ? Démocratie, paix, droits de l’homme sont cités : Logique. C’est, théoriquement, l’ADN même du projet européen. La bonne gouvernance ensuite. Voilà qui prête à sourire de la part d’une organisation persistant à appliquer à la lettre les politiques d’austérité prônées par le Fonds Monétaire International alors que ce dernier a reconnu que les résultats de ces dernières étaient inefficaces, pour ne pas dire désastreuses sur le plan économique et social. Et ensuite ? Rien. En dehors des grandes valeurs « universelles » censées faire consensus parmi 500 millions d’Européens rejetant de plus en plus le modèle de société qui leur est proposé, il n’est nulle part fait précisément mention de nos intérêts vitaux.

De défense, c’est-à-dire de guerre pour sortir du politiquement correct, il n’est d’ailleurs  guère fait mention dans ce texte, qui est bien plus une déclaration d’intention diplomatique qu’une feuille de route stratégique. Tout au plus se borne-t-on à proposer une série de mesures très générales, qui ne sont que le prolongement des politiques engagées de longue date et qui toutes relèvent du vœu pieux.

L’UE, affirme ce document doit coopérer avec les Nations Unies, l’OSCE, l’Union Africaine, l’OTAN. On enfonce des portes ouvertes : Les Etats européens de l’UE sont membres de ces entités ou coopèrent avec elles depuis leur création. En revanche alors que Bruxelles affirme vouloir « assumer ses responsabilités accrues en tant que pourvoyeur de la sécurité (…) en particulier dans son voisinage », il n’est nulle part fait mention d’un éventuel dialogue avec l’Organisation du Traité de Sécurité Collective (OTSC), visiblement inconnue au bataillon. Il est vrai que selon les récents propos de l’ancien ministre français des affaires étrangères, Hubert Védrine, la Russie n’est plus une puissance qui compte dans la mesure où elle ne conserve qu’«un pouvoir de nuisance périphérique et résiduel » et ne mérite donc guère qu’on s’y attarde que ce soit en Ukraine ou ailleurs…Cette déclaration ayant le mérite de signifier clairement que la guerre froide est terminée compte tenu de la disparition de l’ennemi principal ramené au rang de puissance régionale, encore faudrait-il savoir comment l’Europe va défendre ses intérêts –à identifier - en Afrique, au Moyen-Orient, ou en Asie-Pacifique…Or l’UE ne compte rien faire.

Avec un aplomb admirable, compte tenu de l’échec total de l’Europe de la défense jusqu’à ce jour, le document propose de « s’appuyer sur les résultats obtenus jusqu’à présent », se félicitant « des missions et opérations de gestion de crise menées dans le cadre de la PSDC » (2). L’UE claironne qu’elle est prête à renforcer ses moyens dans les Balkans occidentaux – où il n’existe plus aucune crise de haute intensité – et souligne qu’elle « déploie plus de 7 000 personnes réparties entre douze opérations civiles et quatre opérations militaires ». Le ratio, d’une opération militaire pour trois opérations civiles, atteste du très faible engagement armé européen. Quant aux effectifs évoqués ils parlent d’eux-mêmes : Entre le Mali, la République centrafricaine, l’opération Atalante, la République Démocratique du Congo (RDC) et ses forces prépositionnées, la France a presque 7 000 soldats en Afrique. Seuls nous faisons autant quantitativement, mieux qualitativement, que l’UE…Certes cette dernière a effectivement conduit des opérations de maintien de la paix dans des zones de conflit difficiles. Ce fût le cas en Ituri, province orientale de RDC, où l’UE a déployé 2 200 soldats en 2003 pour mettre fin à des massacres interethniques : 80% des effectifs étaient Français. Et tout le reste est à l’avenant : dans les faits les opérations engageant les troupes des nations européennes relèvent du trompe-l’œil. Entre des Allemands et des Suédois qui ne veulent plus se battre et n’acceptent de s’engager qu’en multipliant les caveats restreignant au strict minimum leurs règles d’engagement, le manque de moyens de la plupart des pays, Français et Britanniques, uniques nations-cadres de l’Union Européenne, se retrouvent toujours seuls aux commandes de coalitions Potemkine.

Paris et Londres ont déjà tiré toutes les conclusions de cet état de fait en matière de défense, notamment sur le plan industriel. Suite aux accords de Lancaster House, les deux pays entendent bien collaborer prioritairement sur un mode bilatéral et ne plus s’engager dans des coopérations multinationales avec des partenaires qui ne soient pas leurs égaux sur un plan financier, technologique et possédant une approche des opérations de combat similaire à la leur. Les programmes A400M et Eurofighter, menés sur un plan multilatéral entre partenaires inégaux souhaitant tous tirer les marrons du feu se sont traduits par trop de surcoûts et de délais. Il est hors de question de les reproduire.

A cette aune les propositions du document en matière de politique industrielle prêtent à sourire tant elles relèvent du « wishful thinking ». Il faut, assure le texte, « favoriser la mise en place d’une base industrielle et technologique de défense européenne plus intégrée, durable, novatrice et compétitive dans toute l’UE ». L’objectif est noble, mais il est déjà condamné. Il suffit d’en analyser les termes.

« Intégrée» ? EADS, le modèle tant vanté, vient d’annoncer qu’il comptait licencier 5 800 salariés de son pôle défense, actif qu’il n’a jamais réussi à développer à hauteur des ambitions initialement affichées. L’heure n’est plus aux fusions transnationales géantes, du Big is beautiful, l’échec du rapprochement EADS-BAE Systems le démontre. Certes les fusions permettent théoriquement de « rendre le secteur de la défense moins fragmenté (…) et (d’) éviter les doubles emplois ». Mais les entreprises préfèrent aujourd’hui mettre en place des joint-ventures ou des consortiums ad hoc correspondant à des programmes précis qu’elles gèrent de concert via des plateaux virtuels communs. Cette stratégie permet de sauvegarder l’emploi, toujours le grand perdant des fusions, ainsi que de garantir la pérennité des bureaux d’étude et leur diversité (3).

« Durable » ? S’il s’agit de « développement durable », il est toujours possible de produire des chars avec un bilan carbone moindre. S’il s’agit de faire durer, c’est-à-dire sauvegarder des entreprises dont la plupart des experts s’accordent à constater qu’elles sont trop nombreuses et provoquent des surcapacités sur la plupart des segments, ce sera difficile. Au demeurant pour maintenir le tissu industriel et créer de l’emploi, objectif affiché par le document alors que toutes les industries de défense sabrent dans leurs effectifs, il faudrait déjà que les Etats européens lancent des programmes d’armement pour que les industriels aient des contrats et embauchent…L’UE encourage ses Etats membres à investir. L’intention est louable. Mais avec quels moyens compte tenu de ceux que nous autorise notre modèle de gouvernance tant vanté ?

Quoi qu’il en soit ce débat est purement rhétorique. Car il faut savoir aussi lire entre les lignes. Les investissements dans la défense permettraient « de renforcer l’autonomie stratégique de l’Europe et, par là même, sa capacité à agir avec des partenaires ».

Notons qu’il n’est pas question un seul instant pour l’UE d’agir seule, malgré la revendication d’un objectif d’autonomie stratégique. Cela reviendrait à se comporter comme une puissance, ce qu’elle refuse par nature. Un ADN de commerçant ne sera jamais un ADN de combattant. Non, mieux vaut « agir avec des partenaires. »  Or du point de vue militaire et politique il n’y en a qu’un qui réponde aux besoins européens en termes de crédibilité militaire et de conformité politique : l’OTAN, c’est-à-dire les Etats-Unis.

Le futur conseil européen n’a donc aucunement pour ambition de parler de défense européenne. Celle-ci est vouée à l’échec tant que l’OTAN existera. Il s’agira bien davantage d’une discussion de managers gérant la crise : Alors que tout le monde rogne ses budgets de défense la question sera de savoir comment il est possible d’intervenir à l’étranger à moindres frais et comment partager le maigre gâteau du marché de l’armement européen. Rien de plus. 

Notes: 

(1) « Conclusions du conseil sur la politique de sécurité et de défense commune »

(2)  Politique de Sécurité et de Défense Commune

(3) Au demeurant les fusions transnationales relèvent du fantasme pour de simples questions de modes de gouvernance. Les groupes Français, au capital majoritairement publics, ne séduisent aucunement leurs homologues allemands, à l’actionnariat privé, souvent familial. Et aucune fusion transnationale n’a été couronnée de succès hormis, sans doute, Eurocopter, dont l’activité est autant civile que militaire.

L’opinion de l’auteur ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction

Philippe Migault est Directeur de recherche à l'Institut de Relations Internationales et stratégiques (IRIS). Ses principaux domaines d’expertise sont les questions diplomatiques et stratégiques, les conflits armés et industries de l'armement.

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vendredi, 10 janvier 2014

Irak- Syrie : le péril d’un grand état islamiste

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Irak- Syrie : le péril d’un grand état islamiste

L’inconséquence occidentale au pied du mur

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr

Des dizaines de jihadistes ont été tués ou capturés en Syrie par les rebelles qui ont décidé de combattre leurs anciens alliés en raison de leurs multiples abus, selon une ONG. Les jihadistes, dont de nombreux étrangers, avaient rejoint la rébellion contre le régime de Bachar al-Assad lorsque la révolte, au départ pacifique, contre le pouvoir s'est militarisée. Signe des ramifications du conflit syrien dans les pays voisins, ce même groupe extrémiste sunnite vient de prendre le contrôle de Falloujah, à 60 km de Bagdad, et de revendiquer un attentat suicide au Liban contre un bastion du Hezbollah, parti chiite qui combat aux côtés du régime syrien.

 
"L'état islamique" a été décrété à Falloujah, grande ville de 300 000 habitants, située à moins de 70 km à l'Ouest de Bagdad. EIIL a nommé un gouverneur pour la ville. L'Etat islamique en Syrie et au Levant (EIIL) est un agrégat de groupuscules liés à Al Qaïda-Irak, fort de plusieurs milliers d'hommes. Il compterait 12 000 combattants en Syrie, où le groupe est proche du Front Al-Nosra. Il est très présent dans plusieurs villes syriennes, dont Alep et Idlib. Des combats entre l'EIIL et d'autres forces rebelles liées à l'ASL (Armée syrienne libre) ont fait ce vendredi au moins 16 morts et des dizaines de blessés. L'EIIL est notamment accusé d'avoir kidnappé, torturé et tué des membres de l'opposition à Assad moins portés sur le djihad, comme le docteur Hussein al-Suleiman.

Voila qui prouve que la guerre contre Saddam Hussein était une stupidité politique fondée de plus sur un mensonge criminel. Voila qui démontre de la même manière que l’aveuglement anti-Assad au nom de la démocratie double la stupidité irakienne d’une ineptie syrienne. L’Occident atlantique a ouvert le chemin à l’établissement d’un califat islamiste regroupant Bagdad et Damas et soutenu par les wahhabites du golfe.

En Irak on a abattu les sunnites laïcs pour imposer des Chiites et en Syrie on veut abattre des chiites laïcs pour le plus grand profit d’islamistes sunnites. Tout cela n’a aucune cohérence, ni aucun sens. Si ce n’est que l’idéologie démocratique mettant dans le même sac tous les régimes autoritaires fait le jeu de tous ceux qui les combattent. Cela conduit à un chaos régional en attendant peut être un nouvel ordre bien plus menaçant que l’ancien. Le processus a été entamé par les guerres contre l’Irak et il se poursuit en Syrie.

Alors que le pouvoir syrien résiste, celui mis en place par les Américains à Bagdad perd pied. Ce sont maintenant deux régimes chiites qui sont menacés et, grâce à Washington, le salut de Bagdad et Damas passe de plus en plus par Téhéran et le Hezbollah.

Beau résultat.

De Faloujah-2004 à Faloujah-2014: le spectacle de notre folie

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De Faloujah-2004 à Faloujah-2014: le spectacle de notre folie

Ex: http://www/dedefensa.org

Ainsi commence l’année 2014… Il y a près de dix ans, en fait en avril puis en novembre 2004, en deux séquences marquées par des provocations par ignorance, des erreurs grossières, des massacres froidement perpétrés avec l’emploi d’armes de hautes technologies, avec l’usage fameux pour ses effets biologiques à long terme des obus à uranium appauvri du canon GAU-8A de 30mm à six tubes de l’avion d’appui rapproché de l’USAF A-10A Thunderbolt II, les forces US avaient finalement investi la ville irakienne de Faloujah dont le contrôle leur échappait, comme dans une grande partie de l’Irak où des terrorismes extérieurs venaient prêter main-forte aux factions sunnites et chiites alors unies contre l’ennemi américaniste. Le commandant des Marines qui mena l’assaut final sur Faloujah en novembre 2004, après de méchants et sanglants coups d’arrêt, nous faisait irrésistiblement penser à John Wayne, l’acteur qui fut le meilleur soldat de celluloïd de l’histoire d’Hollywood, évitant par ailleurs de s’engager dans la vraie guerre du Pacifique pour ne pas priver les studios et la narrative américaniste d’une si bonne représentation du soldat idéal. (Pour le John Wayne de Faloujah, voir le 22 décembre 2004.)

Faloujah fut donc le premier symbole furieux du chaos et de l’aveuglement sanglant et cruel que constitua l’intervention US en Irak, dans le cadre de l’entreprise généralisée de conversion du monde à l’entropisation prônée par notre contre-civilisation, et servie par ses relais empressés du bloc BAO. Ainsi, près d’une décennie plus tard, Faloujah a été “reprise”, – “reprise” des mains des “infidèles”, puisqu’il semble désormais acquis que n’importe qui est plus ou moins l’“infidèle” de quelqu’un d’autre. Comme elle le fut en 2004, la ville de Faloujah redevient en 2014 un point stratégique et symbolique, dans le système de la communication, du chaos du monde qui paraît entré dans sa phase finale. Entretemps, c'est-à-dire entre 2004 et 2014, le susdit-chaos a largement progressé, comme il se doit. La “reprise de Faloujah” en 2014 semble une des nouvelles à peu près “stable” du week-end, agrémentée de précisions diverses et peu encourageantes sur le sort de forces irakiennes dans la ville. Le symbolisme de la chose éclaire les événements de ces derniers jours. Opérationnellement, on observe qu’une autre ville irakienne, Ramadi, proche de la frontière syrienne, a été investie par Al Qaeda & consorts, et fait l’objet de tentative de reprise par l’armée irakienne (voir le Guardian du 6 janvier 2014). Le secrétaire d’État John Kerry, qui est en train d’essayer avec obstination d’arranger quelque chose entre Israéliens et Palestiniens, nous dit sa préoccupation en des termes qui évoquent incontestablement la barbarie :

«We are very, very concerned about the efforts of al-Qaida and the Islamic State of Iraq in the Levant – which is affiliated with al-Qaida – who are trying to assert their authority not just in Iraq, but in Syria. These are the most dangerous players in that region. Their barbarism against the civilians in Ramadi and Falluja and against Iraqi security forces is on display for everyone in the world to see.»

Ce premier week-end de 2014 a donc été le temps de diverses nouvelles explosives venues du chaudron du Moyen-Orient, principalement autour de l’axe Irak-Syrie-Liban, avec les autres acteurs divers autour et alentour (Israël, l’Iran, l’Arabie, les USA évidemment, la Turquie avec ses propres troubles intérieurs, etc.). C’est l’occasion d’observer que la situation en Irak, du point de vue du désordre, est largement sur le point de concurrencer en désordre furieux et en cruauté celle de la Syrie, bouclant pour l’instant la boucle des responsabilités fondamentales du chaos actuel : mission accomplished de ce point de vue, et l’Occident devenu bloc BAO a parfaitement exporté son propre désordre, mais pour n’en faire rien d’autre qu’étaler son impuissance et en recevoir les effets réverbérés et multipliés d’une façon régulière depuis 2008. L’année 2013 à été en Irak, du point de vue des morts du fait des violences politiques, la pire depuis 2007, avec plus de 10 000 morts (Antiwar.com, le 2 janvier 2014.) En Syrie, les rebelles se battent entre eux (Antiwar.com, le 4 janvier 2014) et s’accusent les uns les autres de servir secrètement le pouvoir syrien de Bachar al-Assad. Un chef d’un groupe d’al Qaeda et citoyen saoudien, arrêté au Liban pour l’attentat contre l’ambassade d’Iran, est mort le lendemain dans sa prison, nécessairement dans des conditions suspectes. Les acronymes de al Qaeda & consorts volent désormais depuis l’affaire libyenne et l’apparition d’AQMI, ou “Al Qaeda au Maghreb Islamique, nouveau facteur d’information introduit dans le circuit du système de la communication pour enfler ce dossier insaisissable. Nous avons désormais AQI (“Al Qaeda en Irak”), nous avons aussi ISIS, pour Islamic State of Iraq and Syria, nous avons des nouvelles continues et édifiantes des projets de califat islamiste, avec pour la séquence la représentation de plus en plus évidente de l’Arabie Saoudite en rogue state, étrange transmutation venue d’un pays extraordinairement immobiliste, prudentissime, comme on le connaissait dans les années 1970. Le chaos est parmi nous parce que nous sommes le chaos.

Peut-être l’observation la plus significative nous vient-elle du site DEBKAFiles, dont les accointances nous sont connues (voir, par exemple, le 13 février 2012). Le 5 janvier 2014, DEBKAFiles nous décrit à sa manière le tourbillon des événements en cours … «All these events add up to Al Qaeda-Iraq, Al Qaeda-Syria and the Abdullah Azzam Brigades having come together for a mighty push to seize footholds in a vast swathe of Middle East territory, along a line running between three Arab capitals - Baghdad, Damascus and Beirut.&#8232; Al Qaeda is turning itself into the Sunni knife for slicing through the Shiite axis linking Tehran to Damascus and the Lebanese Hizballah in Beirut. Our military sources say a major escalation of this violent confrontation is building up for the near term in Iraq, Syria and Lebanon and may not stop there; there may also be spillover into Israel and Jordan.&#8232;..»

… Sans aucun doute, le commentaire le plus intéressant que fait DEBKAFiles dans son texte, celui auquel nous voulons arriver, concerne la position d’Israël dans cette tourmente dont nul ne sait vraiment le sens, qui tourbillonne, qui s’enchevêtre, qui se développe comme un feu-follet… Israël, en plein désarroi, car ne sachant plus qui est l’ennemi, non pas parce que cet ennemi est secret et impossible à trouver, mais parce qu’il y en a trop qui le sont, qui pourraient l'être, qui ne le sont peut-être pas. Ainsi avec ce commentaire nous apprenons sans réelle surprise qu’“Israël a de plus en plus de difficultés à déterminer qui sont ses amis … et qui sont ses ennemis”.

«Israel finds itself caught between two equally hostile and dangerous radical forces, both of which enjoy powerful backing. On the one hand, the Obama administration is eager to maintain US rapprochement with Iran to the point of allowing the brutal Bashar Assad to remain in power. On the other, former US ally Saudi Arabia is willing to back Muslim elements close to Al Qaeda, like the Sunni forces in Iraq and their counterparts in Lebanon, for the sake of sabotaging Washington’s current policies. In these circumstances, Israel finds it increasingly difficult to determine which are its friends in the Middle East arena – and worth helping – and which its foes.»

2004-2014, effectivement Faloujah comme un symbole à la fois du chaos et à la fois de la forme circulaire et sans fin ni début du chaos, puisque revenant dans cette occurrence à son point de départ, et le désarroi israélien comme le symbole du symbole, celui d’une entité qui a tout manipulé, tout diabolisé, tout radicalisé, pour se retrouver coincée dans cette étrange quête : dans ce tourbillon d’agresseurs agressés et de victimes qui ripostent, qui sont mes amis et qui sont mes ennemis ? L’extraordinaire amoncellement de moyens producteurs de violence et de tactiques de déstructuration poursuivies par le bloc BAO au service d’une stratégie caractérisée par le vide sidéral, le néant presque impeccable, cette combinaison étrange qui sied tant aux automatismes du Système au travers de la formule dd&e mais qui se retourne nécessairement contre le Système selon la formule classique du plus court chemin de la surpuissance à l’autodestruction, voilà qui est en train de commencer à donner ses effets remarquables et spectaculaires au Moyen-Orient, dans la zone cataloguée la plus sensible, la plus délicate de la planète. Le “travail” accompli par le bloc BAO depuis 2001-2004, des duettistes Bush-Blair à la phalange héroïque qui comprend notamment Netanyahou et ses obsessions, la rock star BHO et ses incertitudes, notre président-poire et ses audaces de notaire de province qui découvre le monde, ce “travail” semble répondre à toutes les attentes qu’on pouvait y mettre. Le chaos se répand désormais à flots souterrains continus et dans ce mode de visibilité sporadique qui est le sien, avec les accointances et les alliances des uns et des autres perdues dans un bouillon désormais indéchiffrable ; le chaos devenu comme une sorte d’“expression spontanée” du multiculturalisme et de l’entropisation individuelle réduisant le passé et l’avenir au présent constitué en narrative, en vogue dans nos programmes scolaires et dans nos galeries d’“art contemporain”. Le monde est en train de se transmuter avec une remarquable ponctualité et une non moins remarquable rapidité en une sorte de tour de Babel chaotique, où les étages auraient été interverties, les volées d’escalier montées à l’envers, le cul projeté par-dessus tête et les fondations d’en-dessous proches de se croire proches du ciel.

Heureusement que les peuplades du bloc BAO rentrent des “vacances des fêtes”, avec elles leurs directions politiques prêtes à prendre à bras le corps les urgences du jour. Le ministre de l’Intérieur s’occupera donc en priorité de l’“affaire Dieudonné” tandis que le ministre des affaires étrangères s’informera pour savoir si Bachar est toujours incrusté dans sa présidence discréditée, pour savoir s’il peut commencer à envisager la célébration d’une ère nouvelle au Moyen-Orient, pour savoir si l’on peut vraiment y faire, comme prévu, du droitdel’hommisme et du postmodernisme, voire du post-postmodernisme. Le Sénat des États-Unis, lui, tente de se rassembler sous la férule de l’AIPAC pour parer au plus pressé : imposer de nouvelles sanctions à l’Iran et au danger pressant que fait peser sur le monde le programme nucléaire de ce pays. L’expression “danser sur un volcan” n’a pas de raison d’être : certes, The Independent annonce (ce 6 janvier 2014) que le risque d’éruption du super-volcan qui ne dort que d’un œil sous les beautés étranges du Yellowstone National Park dans le Wyoming est plus grand qu’on ne croyait mais, vraiment, plus personne, sauf les fous qui ont choisi la danse de saint-Guy (certes, il y en a beaucoup), ne devrait vraiment avoir envie de danser. En un sens qui pourrait paraître rassurant pour l’automatisme des pensées, l’habituelle prédiction accompagnant désormais notre nouvelle années de 2014 comme reconduction de 1914 (2 janvier 2014) est au rendez-vous, le 6 janvier 2014 dans The Independent. Il s’agit du professeur Margaret MacMillan, de l’université de Cambridge, dans un article de Foreign Affairs...

«Now, as then, the march of globalisation has lulled us into a false sense of safety. The 100th anniversary of 1914 should make us reflect anew on our vulnerability to human error, sudden catastrophes, and sheer accident. Instead of muddling along from one crisis to another, now is the time to think again about those dreadful lessons of a century ago in the hope that our leaders, with our encouragement, will think about how they can work together to build a stable international order.»

... Ce qui nous laisse rêveur, nous, c’est “l’impression trompeuse de sécurité” dans laquelle nous aurait cantonnés la globalisation. Ces gens-là éprouvent-ils vraiment cette “impression trompeuse de sécurité” depuis 9/11, depuis l’Irak, depuis Falloujah-2004 et Falloujah-2014, depuis le tsunami et la destruction du monde en rythme-turbo, depuis les banques en 2008, depuis..., depuis... ? Peut-être faudrait-il les détromper avant qu’ils ne se laissent tout de même aller à danser. Le pont du Titanic prend de la gite et l'on pourrait glisser.

Assad tenace et indomptable: il veut combattre le wahhabisme en 2014

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Assad tenace et indomptable: il veut combattre le wahhabisme en 2014

 

 

L’équipe du site http://www.almanar.com

 

Durant ces trois années de crise et de guerre en Syrie, l’une des plus grandes surprises aura sans aucun doute été la ténacité du président syrien Bachar al-Assad.

Avec sa physionomie de bonhomie, son jeune âge et son expérience limitée, personne ne s’attendait à ce qu’il tienne bon.

A  aucun moment, depuis mars 2011, il n’a affiché de signe de faiblesse, tout en sachant que c’est sa tête qui était visée.   Pendant longtemps,  son départ était non seulement une exigence indiscutable, mais aussi une prévision indélébile, pour les milieux occidentaux, arabes et turcs qui soutenaient l’insurrection en Syrie. D’autant que 15 milliards de dollars ont été déboursés pour le faire renverser.

Durant les deux premières années de la crise syrienne, les déclarations de politiciens concernés et analyses d’experts prévoyaient sa chute imminente dans les deux mois de leur annonce et renouvelaient sans cesse le délai. Le président syrien était  présenté par les medias et centre de recherches  comme «impopulaire», « renfermé dans sa bulle», ou perdant le sens des réalités.

Scénarios à l'eau

Plusieurs scénarios étaient envisagés : qu’il soit délogé de Damas : pour soit se replier vers les régions alaouites ou quitter le pays, pour se rendre en Russie entre autre. Assad a tenu à répondre en personne à ces allégations, assurant qu’il ne fait pas partie de « ces capitaines qui sautent du navire qui coule ».

L’éventualité de son assassinat a été envisagée avec force et il a été question d’une mise à prix de sa tête, en échange de la somme modique d’un million de dollars. Conscient de cette option, il avait conseillé à ses partisans de frapper les "intérêts des Etats Unis et d'Israël, en Mer Rouge  et en Méditerranée", s’il lui arrive quelque chose. En mars 2013, il semble qu’une tentative ait été concoctée par les services de renseignements français et turcs, via des agents kurdes qui ont tenté d’enrôler des ouvriers d’une société sanitaire chargé d’entretenir les palais présidentiels. Elle a été avortée avant que quoique ce soit ne se passe.

Déceptions et aveux

Comme il n’en a rien été de tous ces scénarios, on a commencé dès la fin de 2012 à douter qu’il puisse partir.
A commencer par les Américains et Israéliens. 

En janvier, l’ancien ambassadeur américain à Damas, Robert Ford, a déclaré: « Je ne sais pas comment Assad va partir, il se peut qu’il ne parte jamais, il ne veut pas partir », a-t-il répété à plusieurs reprises cette conclusion.
Chargé du dossier syrien, il s’était dévoué corps et âme pour faire réussir l’insurrection syrienne, s’employant entre autre à persuader des officiers et des diplomates alaouites à faire défection de l’armée et du corps diplomatique syriens. Cette conviction a été consolidée par l’intervention du Hezbollah.
 
Côté israélien, centres d’études, officiers et politiciens ont multiplié les constats du même genre, selon lesquels le renversement d’Assad n’est  pas facile. La situation stratégique de la Syrie, l’unité des rangs de l’armée et sa popularité sont mises en avant comme facteurs.
« Le président Bachar el Assad a contredit tous les pronostics, il a tenu bon et n’a pas fui. Il a vraiment les gênes de son père », a rapporté le quotidien israélien le Yediot Aharonot, citant le commandant de la région nord le colonel Yaïr Golan.
Pourtant, les desideratas du gouvernement israélien, selon les medias israéliens privilégiaient une Syrie dirigée par Al-Qaïda que par Assad !  

Les dirigeants européens et arabes ne tarderont pas à s’y résigner, sans toujours le reconnaitre. 

Assad le populaire

En même temps, certains milieux médiatiques ou des renseigenements occidentaux se sont mis à rendre compte d’un fait longtemps occulté ou négligé ou qu'on a refusé de voir: la popularité d’Assad.

ALrs que Reuters a timidement évoqué quelque 70% des Aleppins rangés derrière leur président,  la CIA assurait à partir de mai qu’il serait accrédité de 75% des voix des Syriens en 2014, si élections présidentielles ont lieu. Et l’Otan suivait le pas le mois suivant.

En plus du soutien de son peuple, le président syrien disposait d’un important atout de force : le soutien infaillible de l’Iran et de la Russie. Cette dernière a résisté à toutes sortes de pressions et d’offres alléchantes pour l’amener à renoncer à Assad.

Offres arabes et américaines

Les deux plus importantes ont été formulées par le Qatar, et puis par l’Arabie Saoudite. Doha a proposé entre autre aux Russes  que leur base navale à Tartous serait protégée par l’ASL s’ils renoncent à Assad. Plus tard, c’est Bandar Ben Sultane qui prend le relai et propose la sienne, à la base de la carotte et du bâton, en proposant de juteux contrats militaires et d’investissements, la promotion du rôle russe dans la région,  et des garanties sécuritaires pour les jeux olympiques de Sotchi.

Moscou a aussi résisté aux manœuvres de séduction américaines menées par   Kerry en personne,  pour la persuader de ne pas faire participer Assad à la période de transition et  lui conseiller de partir. Souvent, des rumeurs se répandaient pour dire que les Russes ont plié. Au bout de ce bras de fer, les Américains se sont mis à prôner un double langage : un jour, ils appellent au dialogue entre toutes les factions syriennes ; le lendemain, ils disent qu’Assad n’a pas sa place dans la transition.

Assad et les alliés

Ces tergiversations ne semblaient pas du tout inquiéter le numéro un syrien. Bien au contraire, il paraissait confiant de ses atouts de force, dont sur le plan interne la fidélité du corps diplomatique syrien où les désistements ont été rares, en dépit des sommes séduisantes qui leur ont été accordées.

Il évoquait aussi avec assurance le soutien indéfectible de ses alliés, iranien, russe et du Hezbollah.

L’aide économique que lui a procuré Téhéran, l’a aidé à réduire les effets destructeurs des sanctions et de l’inertie des rouages économiques du pays. L’Iran a même fait part de sa disposition à aider son allié syrien si une attaque américaine avait lieu.

Durant cette phase critique, sur fond d’accusation d’utilisation par Damas d’armes chimiques dans la Ghouta orientale, l’intervention des Russes aura été également décisive pour parvenir à l’accord sur l’arsenal chimique syrien et qui a écartée définitivement le spectre d’une attaque américaine.

En mai, l’intervention du Hezbollah dans la bataille de Qousseir a donné un important coup de pouce à l’armée syrienne, débordée par l’avènement de milliers de jihadistes, surtout via la frontière libanaise.

Rencontres

Tout au long de l’année, malgré les menaces de mort, Assad multipliera ses rencontres avec des délégations venues de toutes parts, ses apparitions médiatiques et autres. La plus forte sera sans aucun doute celle avec les membres de son gouvernement et du parti, à l’Opéra de Damas, sur fond d’une énorme affiche tapissée des photos des martyrs de l’armée syrienne.

En Aout, il s’est rendu en personne dans la banlieue de Damas Darayya, qui venait d’être sécurisée, pour y saluer les soldats. Il n’a pas non plus changé son habitude de participer à la prière des fêtes religieuses islamiques (Fitr et Adha). Dans la dernière, les rebelles ont propagé la rumeur de son assassinat !

Discours

Dans ses interventions, il présente dans ses apparitions sa vision de l’insurrection en Syrie
Ce n’est pas une « révolution,..., mais une guerre entre la patrie et ses ennemis,.., une vengeance contre le peuple syrien qui a refusé leur révolution,.., une guerre avec des étrangers, mais avec des mains syriennes,..., une crise plus dictée par des velléités régionales et internationales, que par des revendications de réformes internes, et qui renferme l’intention de détruire la Syrie ---

Quant à la solution, elle passe selon lui par l’éradication du terrorisme, phrase qu’il ne cessera de répéter tout au long de l’année à plus d’une occasion. Avec l’entrée en force des milices d’Al-Qaïda, qui ont délogé celles de l’ASL, il peut surtout se targuer d’avoir été le premier à l’avoir prévu, alors que l’ASL  s’employait pour présenter la présence des « jihadistes » comme étant un coup de main provisoire. Dans ses interventions, il a aussi prôné le dialogue entre toutes les factions du peuple syrien, celles de l’intérieur et celles de l’extérieur.

Assad: au suivant!  
 
En cette fin d’année, Assad est plus que jamais déterminé à se présenter  candidat aux élections présidentielles prévues en 2014 et est plus que jamais confiant de triompher.

Il a vu son rival qatari le prince Hamad remplacé, son détracteur turc Erdogan sur le point de l’être, l’attaque américaine  contre son pays écartée à jamais, l’ASL s’effondrer. Ses prévisions sur l’extrémisme qui prend en otage la Syrie se confirment. A la fin de l’an, il a été droit au but, stigmatisant le wahhabisme saoudien dans ses deux dimensions politique et religieuse, et appelant à lutter contre lui. Personne n'a osé avant lui.