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mardi, 24 novembre 2009

Samurai: storia, etica e mito

Samurai: storia, etica e mito





La società giapponese

La società giapponese del XVI secolo aveva una struttura definibile come feudalesimo piramidale.
Al vertice di questa ideale piramide vi erano i signori dell’alta nobiltà, i daimyo, che esercitavano il loro potere tramite legami personali e familiari. Alle dirette dipendenze dei daimyo vi erano i fudai, ovvero quelle famiglie che da generazioni servivano il proprio signore. In questo contesto i samurai rappresentavano una casta familiare al servizio dei daimyo, ne erano un esercito personale.
Accadeva che durante le guerre feudali, il clan sconfitto, per non perdere le proprietà precedentemente conquistate, entrava a far parte dello stato maggiore del clan vincitore con funzioni di vassallaggio.
In questa organizzazione politica, quella militare dei samurai aveva caratteristiche e funzioni proprie al suo interno. Divisi in 17 categorie, i samurai avevano il compito di rispondere alla chiamata alle armi del daimyo cui facevano riferimento combattendo con armi proprie. Al di sotto dei samurai propriamente detti, ma facenti parte della stessa famiglia, vi erano i sotsu (“truppe di fanteria”) a loro volta divisi in 32 categorie.
Alla base della piramide troviamo gli ashigaru, cioè la maggior parte dei combattenti (soldati semplici diremmo oggi) che erano per lo più arcieri e lancieri o semplici messaggeri. Nei periodi di pace gli ashigaru svolgevano mansioni come braccianti del samurai incaricato al loro mantenimento.


Excursus storico sui samurai


L’epopea dei samurai comincia nel periodo Heian (794-1185).
Alla fine del XII secolo il governo aristocratico di Taira subì una sconfitta nella guerra di Genpei cedendo il potere al clan dei Minamoto. Minamoto Yoritomo, spodestando l’imperatore, assunse di fatto il potere col titolo di shogun (capo militare) e fu lui a stabilire la supremazia della casta dei samurai, che fino a tal periodo svolgeva il ruolo di classe servitrice in armi estromessa da questioni di natura politica. Nei 400 anni a venire la or più accreditata casta guerriera avrebbe svolto un ruolo decisivo nella difesa del Giappone da tentate invasioni esterne, – come quella mongola del XIII secolo –, e nelle faide interne tra i vari feudatari (daimyo), tra le quali vanno ricordate quella del periodo Muromachi (1338-1573) in cui gli shogun Ashikaga affrontarono i daimyo, e quella del periodo Momoyama (1573-1600) in cui i grandi samurai Nobunaga (in foto) prima e il suo successore Hideyoshi dopo si batterono per sottomettere il potere dei daimyo e riunificare il paese.

La politica interna troverà stabilità al termine della battaglia di Sekigahara (1600), nella quale il feudatario Tokugawa Ieyasu, col titolo di shogun, sconfiggendo i clan rivali, assumerà pieni poteri sul paese insediando il suo “regno” nella città di Edo (odierna Tokyo) e inaugurando il periodo che da tale città prese nome (1603-1867), mentre l’imperatore rimaneva di fatto confinato nell’antica capitale Kyoto.
In questo periodo la pace fu garantita dal fatto che i daimyo giurarono fedeltà, di fatto sottomettendovisi, allo shogunato e a loro volta mantennero all’interno dei loro castelli contingenti di soldati e servi. Le conseguenze per la casta dei samurai furono immediate. Divenuta una casta chiusa e non essendoci più motivi di gerre feudali, il suo ruolo guerriero assunse sempre più toni di facciata: i duelli, in un contesto dove regnava la pace tra clan, divennero per lo più di tipo privato. Lo sfoggio di abilità guerriere e l’uso della spada (per il samurai un vero e proprio culto religioso) avveniva, in maniera sempre più frequente, soltanto per scopi cerimoniali; mentre le funzioni a cui venivano sempre più spesso preposti erano di tipo burocratico ed educativo, integrandosi sempre di più nella società civile. Un segnale della trasformazione del ruolo dei samurai è testimoniato dai rapporti che questi intrapresero con il disprezzato ceto chonin (borghesia in ascesa). Tale avvicinamento ha avuto tuttavia una grande importanza per aver “esportato” i valori della “casta del ciliegio” nella società civile fino ad oggi.

Una classe di samurai che fece la sua comparsa in questa epoca di pace fu quella dei ronin (“uomini onda” o “uomini alla deriva”). Si tratta di quei soldati rimasti senza signore perché soppresso il feudo di appartenenza; in sostanza samurai declassati.
Con la caduta dell’ultimo shogunato, vale a dire quello di Yoshinobu Tokugawa, ebbe inizio l’era Meiji (1868-1912). Fu questo un periodo di radicali riforme, note con il nome di “rinnovamento Meiji”, le quali investirono a pieno anche la struttura sociale del Sol levante: l’imperatore tornava ad essere la massima figura politica a scapito dello shogunato, lo Stato fu trasformato in senso occidentale e i feudi soppressi. La casta samurai abolita in funzione di un esercito nazionale.


L’arte e l’onore. La morte e il ciliegio


hana wa sakuragi, hito wa bushi (“Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero”)

La costante ricerca di una condotta di vita onorevole si fondeva, nell’etica della guerra del samurai, con una disciplina ferrea nelladdestramento marziale. Anche durante la pace del lungo periodo Edo, i samurai coltivarono le arti guerriere (bu-jutsu, oggi budo). Le principali discipline praticate e di giorno in giorno perfezionate erano il tiro con larco (kyu-jutsu, oggi kyudo), la scherma (ken-jutsu, oggi kendo) e il combattimento corpo a corpo (ju-jutsu, oggi più comunemente conosciuto come ju-jitsu).

La katana (“spada lunga”) era il principale segno di identificazione del samurai e lacciaio della lama incarnava tutte le virtù del guerriero; ma più che questa funzione meramente riconoscitiva, la spada rappresentava un vero e proprio oggetto di culto. L’attenzione rivolta nel costruirla (sarebbe più preciso dire crearla), nel curarla e nel maneggiarla dà l’impressione che la spada venisse venerata più che utilizzata.
Trattando la figura del samurai non è possibile scindere l’allenamento fisico da quello spirituale, così come non è possibile scindere l’uomo dal soldato; tuttavia, per fini esemplificativi, potremmo dire che se il braccio era rafforzato dalla spada, lo spirito era rafforzato dalla filosofia confuciana. Fin da bambino, il futuro guerriero, veniva educato all’autodisciplina e al senso del dovere. Egli era sempre in debito con l’imperatore, con il signore e con la famiglia e il principio di restituzione di tale debito era un obbligo morale, detto giri, che accompagnava il samurai dalla culla alla tomba.

Il codice d’onore del samurai non si esauriva, tuttavia, nel principio giri, ma spaziava dal disprezzo per i beni materiali e per la paura, al rifiuto del dolore e soprattutto della morte. È proprio per la preparazione costante all’accettazione della morte che il samurai scelse come emblema di appartenenza alla propria casta il ciliegio: esso stava infatti a rappresentare la bellezza e la provvisorietà della vita: nello spettacolo della fioritura il samurai vedeva il riflesso della propria grandezza e così come il fiore di ciliegio cade dal ramo al primo soffio di vento, il guerriero doveva essere disposto a morire in qualunque momento.
Se morte e dolore erano i principali “crimini”, lealtà e adempimento del proprio dovere erano le principali virtù; atti di slealtà e inadempienze erano (auto)puniti con il seppuku (“suicidio rituale”, l’harakiri è molto simile, ma è un’altra cosa...).
Il codice d’onore del samurai è espresso, dal XVII secolo, nel bushido (“via del guerriero”), codice di condotta e stile di vita riassumibile nei sette princìpi seguenti:

- , Gi: Onestà e Giustizia
Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell’onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

- , Yu: Eroico Coraggio
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.

- , Jin: Compassione
L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d’aiuto ai propri simili e se l’opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una.

- , Rei: Gentile Cortesia
I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini.

- , Makoto o , Shin: Completa Sincerità
Quando un Samurai esprime l’intenzione di compiere un’azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l’intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di “dare la parola” né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.

- 名誉, Meiyo: Onore
Vi è un solo giudice dell’onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.

- 忠義, Chugi: Dovere e Lealtà
Per il Samurai compiere un’azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il Samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.

Che i Samurai, nei tanti secoli della loro storia, si siano sempre e comunque attenuti a questi princìpi, è un elemento di certo secondario, né tantomeno spetta a noi il compito di ergerci a giudici. Ciò che rimane indelebile e si manifesta in tutta la sua grandezza è invece lo spirito autentico e “romantico” di un’etica guerriera (ma non solo guerriera) fondata sul rispetto, l’onore, la lealtà, la fedeltà, il coraggio e l’abnegazione: valori che furono incarnati da molti samurai i cui nomi sono stati – a buon diritto – consegnati alla storia. E in una società che sembra aver smarrito la bussola, sempre timorosa (finanche di se stessa), l’etica samurai potrebbe rappresentare un ausilio, una salda coordinata per un recupero dell’autocoscienza e della padronanza di sé; sicuramente un ottimo strumento per il rifiuto di un’esistenza meschina ed esclusivamente materiale e per una riscoperta del proprio spirito. Lo stesso spirito che animò i “guerrieri-poeti” i quali, grazie alla lama della loro spada e al tenue turbinare dei fiori di ciliegio, seppero coniugare sapientemente Poesia e Azione.

Percorrere e tracciare i lineamenti fondamentali della storia dei samurai non è cosa facile perché alla mera ricostruzione evolutiva dei fatti si intreccia inevitabilmente la visione, più romantica che storica, della figura del guerriero in sé, il samurai appunto. Per il giapponese questa figura non è la semplice “protagonista” di un certo periodo storico; è, al contrario, il periodo storico, il tempo a trovarsi in una posizione di sudditanza rispetto al mito e alle tradizioni che intorno a tal mito sono state costruite, tanto che il tempo stesso risulta avere un ruolo secondario di fronte al “protagonista” che questo tempo ha vissuto. Cosicché parlare di “etica della guerra” e di “cultura samurai” ci appare come un discorso sempre attuale, che esula dalla visione della storia come “trattato dello ieri” e ci pone in quella che è la giusta visione della storia, vale a dire la storia come “metafora del mito”. Utile ribadire che ogni area geografica e culturale ha avuto (ha) i suoi (e di tutti) miti eternamente attuali.

dimanche, 22 novembre 2009

Sur le Japon: entretien avec le Prof. G. Fino

sol_levante.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Sur le Japon

Entretien avec le Prof. Giuseppe Fino

 

Aujourd’hui, la modernité a certes récupéré le Japon et l’a enveloppé dans sa grisaille, mais de temps en temps, un trait de lumière perce l’obscurité, nous rappelant un passé assez récent qui n’est pas encore complètement oublié. Le Professeur Giuseppe Fino vit au Japon. Il est l’auteur d’une étude sur Yukio Mishima (Mishima et la restauration de la culture intégrale). Nous lui avons posé quelques questions sur les “manifestations lumineuses qui rappellent la chaleur incandescente du Soleil Levant.

 

Q.: Il y a quelques temps, les journaux télévisés italiens ont évoqué l’épisode de ce soldat japonais qui considérait être encore en guerre, en dépit de la défaite de 1945. Que signifie le comportement de ce soldat pour les Japonais d’aujourd’hui?

 

R.: Au Japon aussi, les journaux télévisés ont rendu compte de la disparition de Yokoi Shoichi, le soldat japonais qui avait continué à “combattre” dans la jungle de l’Ile de Guam après 1945. Pour les Japonais de “gauche”, nés et élevés dans le climat pacifiste et démocratique de l’après-guerre, le comportement de Yokoi est difficilement compréhensible et acceptable: pour eux, c’est une manifestation du fanatisme qu’il faut taire ou dont il faut avoir honte. Pour les Japonais nés avant la guerre ou pour ceux qui ont encore la fibre patriotique, le comportement de Yokoi est exemplaire et héroïque. Pour les plus jeunes générations, en revanche, le nom de ce soldat ne dit hélas plus rien. Je voudrais ajouter une considération personnelle. Plus que Yokoi Shoichi, qui, en quelque sorte avait fini par s’accomoder  au climat de l’après-guerre, je voudrais rendre hommage à l’un de ses camarades, Onada Hiroo, qui avait préféré abandonner le Japon consumériste et américanisé pour aller s’installer en Amérique du Sud et y “élever des veaux et des lapins”.

 

Q.: Dans le livre Tenchû (= Punition du ciel), paru aux éditions Sannô-kai, on décrit les événements qui ont conduit à la révolte des officiers de 1936. Existe-t-il aujourd’hui au Japon des forces politiques qui se souviennent de ces événements, de ces hommes et des idéaux de cette époque?

 

R.: Non, il n’y a absolument aucune réminiscence valable. L’insurrection des “Jeunes Officiers” du 26 février 1936 (Ni niroku jiken)  n’est plus qu’un sujet de romans, d’essais et de films un peu nostalgiques. Les familles des “révoltés”, qui ont été exécutés, ont constitué des associations pour les réhabiliter mais aucun groupe politique ne se réfère plus à cette expérience, qualifiée de “pure néo-romantisme fasciste”. Enfin la droite japonaise extra-parlementaire considère que cet épisode est déshonorant et “hérétique”, car il n’a pas été approuvé par l’Empereur. Cela en dit long sur le conformisme qui règne au japon. Mishima est le seul à avoir donné en exemple le sacrifice de ces “Jeunes Officiers” et à les avoir réhabilité dans l’après-guerre.

 

Q.: Mishima est l’auteur japonais le plus traduit en Europe, mais la plus gran­de partie de ses lecteurs se contente de l’aspect narratif de ses œu­vres. Prof. Fino, vous êtes le seul à avoir reconstitué les racines culturelles de l’œuvre de Mishima dans Mishima et la restauration de la culture inté­grale;  pouvez-vous nous synthétiser les points essentiels de sa vision du monde?

 

R.: Les racines culturelles de Mishima sont nombreuses et complexes. Dans sa jeunesse, il a fait partie du mouvement néo-romantique de Yasuda Yo­juro et du poète Ito Shizuo, mais il a surtout été influencé par Hasuda Zen­mei, le théoricien de la “belle mort”. Dans l’après-guerre, après une pério­de de réflexion et d’activité littéraire un peu “intimiste” et “autobiogra­phique”, Mishima s’est mis à redécouvrir et réinterpréter la culture japo­naise (Nipponjin-ron; = Débats sur les Japonais). Dans son essai Défense de la culture (1969), Mishima découvre trois caractéristiques de cette culture japonaise, à ses yeux essentielles: la cyclicité, la totalité et la subjectivité. Pour Mishima, l’action, elle aussi, est culture. La forme la plus élevée de la culture est le bunburyodo, l’union de l’art et de l’action. Mishima retrouve aussi, dans la foulée, la philosophie activiste et intuitive du Wang Yang-ming (en japonais: Yomeigaku), le bushido intégral de l’Hagakure (Cf. Il pazzo morire, ed. Sannô-kai), le traditionalisme ou l’anti-modernisme du Shinpuren (La Ligue du Vent Divin) et l’idéalisme impérialiste et romantique des “Jeunes Officiers” du Ni niroku jiken. Au centre de la pensée de Mishima demeure toutefois l’Empereur comme concept culturel suprême, corollaire de son opposition politique contre-révolutionnaire et de son implacable critique de l’intellectualisme pacifiste et démocratique de l’après-guerre.

 

Q.: En Occident, c’est devenu une habitude de pratiquer des disciplines physiques extrême-orientales, tantôt comme pratiques sportives tantôt comme disciplines martiales. Cependant, je doute qu’il soit resté beaucoup d’éléments originaux dans ces disciplines telles qu’elles sont pratiquées en Occident. Qu’en est-il au Japon?

 

R.: La situation au Japon n’est guère différente. Surtout pour le judo et le karaté, il devient de plus en plus difficile de trouver des palestres donnant tout son poids à l’aspect “spirituel” de ces disciplines qui ne sont pas seulement sportives et agonales. La situation est légèrement meilleure dans les palestres de kendo et d’aikido. Elle est satisfaisante dans ceux qui s’adonnent au kyudo (tir à l’arc) et au i-ai (discipline de l’épée nue). Telle est du moins mon impression. Je dois vous confesser que je n’ai jamais fréquenté que les salles de judo...

 

Q.: Est-il possible de recevoir du Japon ultra-technologique d’aujourd’hui des enseignements valables pour l’Homme de la Tradition?

 

R.: Oui, il existe des possibilités, mais elles sont limitées à quelques monastères Zen et à quelques palestres d’arts martiaux, justement ceux qui sont influencés par la pensée Zen. Il faudrait une bonne dose de patience et de chance avant de trouver le Maître juste et le milieu adapté. Pour ceux qui voudraient éventuellement pratiquer le Zen, je conseille un engagement inconditionnel à long terme, si possible auprès des monastères de l’Ecole ou de l’Ordre Rinzai.

(propos parus dans la revue Margini, n°21/juin 1998; adresse: Margini, Libreria Ar, CP 53, Salerno).

samedi, 21 novembre 2009

"Aventure Japon": la "bi-civilisation"

biciv9782869596177.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

«Aventure Japon»: la “bi-civilisation”

Spécialiste du Japon, Robert Guillain publie Aventure Japon, une approche très vivante de cette “bi-civilisation” qu'il évoque ainsi: «La bicivilisation, voilà selon moi l'invention majeure du Japon. Ce monsieur que voici, ce monsieur “derrière sa cravate”, comme j'aime à le décrire, est à première vue devenu le semblable de l'ingénieur, de l'industriel, du professeur français, européen, occidental. Mais qu'on ne s'y trompe pas: il a derrière lui  —lui-même n'y pense pas et ne s'en doute même pas—  une culture et une civilisation complètement différentes des nôtres. Grattez un peu, et ses racines, son pedigree, si je peux dire, le situent dans un monde qui a peu de traits communs avec le nôtre (...). Le bicivilisé peut dans tous les domaines de la vie quotidienne et de la culture nous présenter des réalisations tout à fait différentes des nôtres, et qui souvent semblent nous dire: il y avait une solution autre que la vôtre, la voici. Elle a plus de mille ans! C'est ainsi qu'au Japon tout est en double, à commencer par la façon de vivre la vie quotidienne, de se loger, de se nourrir, de s'habiller. Deux sortes de repas, menu occidental et menu japonais; deux types de maisons, la maison japonaise avec toutes ses merveilles  —comme les armoires dans le mur—  et la maison ordinaire, semblable aux nôtres; deux couches où dormir, le lit et le tatami, deux vêtements, le kimono et le complet-veston ou la robe de style “parisien”; deux sortes d'instruments pour écrire, le pinceau et la plume; deux peintures, noir et blanc “à la chinoise” et peinture en couleurs; deux types d'hôtelleries, l'hôtel occidental et l'auberge japonaise avec ses qualités et ses défauts; deux sortes de musique, fondamentalement dissemblables du point de vue de ia composition et de l'exécution, et certaines viennent du fond des âges, et du fond de l'Asie. Voilà le Japonais bicivilisé. Bicivilisé comme d'autres sont bilingues. Est-ce là une façon d'être qui ne durera qu'un temps, déjà impraticable dans un pays moderne, aligné sur le modèle des grandes nations? Je ne le crois pas. Le Japon n'est pas une deuxième Amérique aux yeux bridés, il reste le pays du dédoublement, prodigieusement intéressant par son appartenance durable à la fois à l'Extrême-Occident et à l'Extrême-Orient. Le pays bicivilisé ne s'embarasse pas des contradictions qui en résultent. Il est le pays de la coexistence des contraires. Il est le pays où le contraire aussi est vrai. Si j'affirme que le Japon aime la nature, on m'opposera toutes les atteintes qu'il lui fait subir. Le bicivilisé se soucie peu de logique. Pour lui, une des lois du réel peut se formuler en trois mots: “C'est comme ça”. Et portant, s'il est un moment où le Japon ne demeure pas “comme çà” mais entre sur la voie des changements multiples, profonds, c'est bien le moment présent».

 

Jean de BUSSAC.

 

Robert GUILLAIN, Aventure Japon, Editions Arléa, 1997, 436 pages, 165 FF.

samedi, 14 novembre 2009

Japon: premier pas vers la libération

Japon : premier pas vers la libération

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

« Venu à Tokyo accélérer un accord sur les bases américaines, le secrétaire d’Etat américain Robert Gates a été froidement reçu. “Ah soo desu ka” (“Oh, vraiment”). C’est généralement par cette formule de politesse que les Japonais répondaient depuis des décennies au “we have a deal” (“nous sommes d’accord”) des Américains. D’où le choc éprouvé cette semaine par l’administration Obama quand le ministre des Affaires étrangères Katsuya Okada a déclaré : Nous n’allons pas accepter ce que les Etats-Unis nous disent juste parce que ce sont les Etats-Unis. Il répondait aux pressions du secrétaire américain à la Défense Robert Gates, venu à Tokyo pour accélérer la concrétisation d’un accord conclu en 2006, après quinze ans de négociations, sur la réorganisation des bases américaines dans l’Archipel. Celui-ci prévoit le déplacement de la base de Futenma, proche d’une zone urbaine au sud de l’île d’Okinawa et le transfert de 8000 soldats américains d’Okinawa à Guam.

Katsuya_Okada_cropped_Katsuya_Okada_and_Hillary_Rodham_Clinton_20090921.jpgCela fait des années que la présence militaire américaine au Japon (47 ’000 hommes actuellement) provoque des tensions avec la population locale à cause d’accidents, de deux affaires de viol médiatisées, et plus généralement de la pollution. A Okinawa, qui accueille trois quarts des bases et la moitié du contingent, c’est d’ailleurs l’opposition de riverains voulant préserver la baie au nord de l’île qui bloque le déplacement de la base de Futenma. Mais l’affaire dépasse l’enjeu écologique depuis la victoire des sociaux-démocrates le 30 août dernier, mettant fin à la très longue domination du Parti libéral démocrate. L’actuel premier ministre Yukio Hatoyama avait promis aux électeurs de traiter d’égal à égal avec les Etats-Unis et de trouver une solution alternative pour la base de Futenma, afin d’alléger le fardeau d’Okinawa. Sa popularité (70% de soutien) dépend en partie de sa fermeté.

Le gouvernement japonais a pris un départ sur les chapeaux de roue. Il a mis fin au soutien logistique naval, dans l’océan Indien, des troupes américaines engagées en Afghanistan. Il veut réviser le statut privilégié des soldats américains basés au Japon. Il a ouvert une enquête sur les pactes secrets conclus entre Tokyo et Washington pendant la Guerre froide. Il joue avec l’idée d’une Communauté est-asiatique regroupant la Chine, le Japon, les pays de l’ASEAN, peut-être l’Australie – sans dire un mot du rôle qu’y joueraient les Etats-Unis.

Il prend aussi tout son temps pour appliquer l’accord militaire signé en 2006 par le précédent gouvernement, tandis que les Américains le pressent de conclure avant la visite de Barack Obama au Japon, le 12 novembre prochain. Robert Gates a modérément apprécié la placidité de ses hôtes, déclinant une invitation à dîner avec des fonctionnaires du Ministère japonais de la défense. Geste éloquent quand on sait l’importance du protocole au pays du Soleil-Levant. Plusieurs fois, des diplomates ou députés japonais ont répondu du tac au tac, voire avec une certaine impertinence à leurs vis-à-vis américains. “En 30 ans, je n’avais jamais vu ça !” dit au Washington Post Kent Calder, directeur du Centre d’études asiatiques à l’Université John Hopkins. »

 

Le Temps, 26 octobre 2009 

samedi, 31 octobre 2009

Hatoyama conferma la revisione dell'alleanza con gli Stati Uniti

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Hatoyama conferma la revisione dell’alleanza con gli Stati Uniti

  

30 Ottobre 2009 / Alessandro Sassone / http://www.rinascita.info/

  
 

Mentre l’opposizione liberaldemocratica lo accusa di avere inviato messaggi errati a Washington e di mettere in crisi i rapporti diplomatici tra i due Paesi, Hatoyama (foto) mostra di tenere il punto e torna a riaffermare la volontà del nuovo Giappone democratico di cambiare una politica estera di sudditanza durata 50 anni; gli anni di governo quasi ininterrotto dei liberaldemocratici. Il governo “rivedrà in modo completo l’alleanza fra Giappone e Stati Uniti - ha detto ieri il primo ministro Yukio Hatoyama - ma continuerà i rapporti in una maniera a diversi strati”. Il premier ha tenuto a precisare che l’alleanza sarà rivista il prossimo anno in occasione dei 50 anni dei Trattati bilaterali tra Tokyo e Washington. Hatoyama nella seduta del Parlamento ha anche specificato che l’alleanza tra gli Stati Uniti e il Giappone rimane una “pietra angolare della nostra politica estera”. La coalizione guidata dai Democratici di Hatoyama, ha fatto della revisione dei rapporti con Washington il suo cavallo di battaglia impegnandosi a portare le relazioni tra i due Paesi su un livello più paritario rispetto al passato. Tra i punti caldi dei rapporti tra Tokio e Washington, la presenza sul territorio giapponese dei militari nordamericani. Nel 2007 i militari Usa erano 33.453, più 5 mila impiegati del ministero della Difesa Usa. La riorganizzazione della presenza militare statunitense nell’isola di Okinawa e l’indagine ordinata dal ministro degli Esteri, Katsuya Okada, su un presunto “patto segreto” con Washington siglato nel 1960, che autorizzerebbe tacitamente, in caso di necessità, il transito di ordigni atomici nordamericani sul territorio del Sol Levante, rappresentano le questioni più spinose che possono rischiare di congelare i rapporti con gli Usa; al contempo però Hatoyama sa bene che una marcia indietro sui punti chiave della campagna elettorale manderebbe in pezzi il miracolo elettorale dello scorso agosto. Il premier regge quindi alle tiepide ostruzioni dell’opposizione liberaldemocratica ed è pronto a ricevere il presidente statunitense Barack Obama che sarà a Tokio il prossimo 12 e 13 novembre.

mercredi, 28 octobre 2009

Le Japon d'André Malraux

4154TYPFYKL__SL500_AA240_.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Le Japon d'André Malraux

 

Michel Temman consacre un remarquable livre au Japon d'André Malraux. André Brincourt écrit dans sa préface: «N'oublions pas que, devant ce que ses contemporains appelèrent “Le déclin de l'Occident” ou “La crise de l'Esprit”, alors que le surréalisme naissant faisait table rase des valeurs, le jeune Malraux voulait, lui, chercher d'autres valeurs, un “autre” monde. Cet autre monde, ce fut l'Asie. N'oublions pas que l'une des dernières approches avant la mort fut d'aller contempler la cascade de Nachi pour y rejoindre la “lumière” dans tous ses symboles, pour y nourrir une dernière fois ses rêves de spiritualité. Il nous l'avait dit: l'appel de l'Asie était celui de l'âme  —cette surréalité en marge de l'apparence, ce dépassement promis à notre “solitude sinistre”, l'une des formes possibles de l'Anti-destin... Notre chance est que Michel Temman, par cette lumière même, éclaire pour nous l'essentiel d'une œuvre, et, se distinguant de maintes biographies trop complaisamment tournées vers l'Aventurier, y trouve le fondement même d'une pensée qui révèle plus que jamais son orientation métaphysique. “L'Occident veut comprendre par l'analyse, l'Orient veut vivre le divin”, disait Malraux». André Malraux s'était intéressé au seppuku de Mishima. M. Temman écrit à ce propos: «Yukio Mishima ne s'est pas suicidé. André Malraux est catégorique: son acte n'était pas un suicide car le seppuku  est d'abord un rite qui ignore l'idée de la mort. Il y avait donc surtout dans l'acte de l'écrivain japonais, outre une portée politique et idéologique très nette, une charge rituelle forte chargée du poids du passé. Aussi Malraux pense-t-il qu'il faut distinguer “la mort romaine” et rituelle de Mishima et ce que l'on croit être une “mort romantique”. “Pour Mishima, expliqua-t-il à Tadao Takemoto, la mort en tant qu'acte, a une réalité très forte”. “Il me semble que l'acte de Mishima a été le moyen de posséder sa mort”. En tout cas, ajoute-t-il, “je me sens plus à l'aise avec le “suicide” de Mishima (qui n'est pas un suicide) qu'avec le tuyau à gaz”. Pourquoi “l'acte Mishima” ne choque-t-il pas outre mesure André Malraux? D'abord parce que, comme il le précise encore à Tadao Takemoto, il n'a jamais vraiment compris ce “besoin” de faire du suicide “une faute ou une valeur”. Ensuite parce qu'il “serait normal de rencontrer une civilisation tout entière où il n'y aurait pas de “mort”!» (P. MONTHÉLIE).

 

Michel TEMMAN, Le Japon d'André Malraux, 1997, 266 pages,135 FF (Editions Philippe Picqier, Mas de Vert, F-13.200 Arles).

mardi, 20 octobre 2009

Comportement social japonais

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

L'anatomie de la dépendance

L'interprétation du comportement social des Japonais par Takeo Doi

 

par Stefano BONINSEGNI

 

Edité au Japon en 1971, ce recueil d'articles écrits par un éminent psychiatre japonais se veut avant toute chose une contribution à la théorie psychanalytique, portée par une réflexion nouvelle sur le terme japonais amae  —que l'on pourrait traduire, grosso modo, par «pulsion de dépendance». L'amae  semble imprégner tous les aspects de la mentalité et de la pensée nipponnes. Le livre de Takeo Doi donne en bout de course une interprétation globale des comportements sociaux du peuple de l'Empire du Soleil Levant, comme le suggère d'ailleurs son sous-titre.

 

Prémisse de l'auteur: la psychologie spécifique d'un peuple, quel qu'il soit, ne peut s'étudier qu'en se familiarisant avec sa langue, car celle-ci englobe déjà tous les éléments intrinsèques de l'âme d'une nation. A toute langue correspondent des besoins et une vision du monde particulière. La langue japonaise étant radicalement différente des langues occidentales, les différences culturelles entre les mondes occidental et nippon sont très profondes. Par ailleurs, argumente Doi, il faut savoir que des pulsions et des émotions préexistent à l'émergence d'une langue; et le fait que la langue japonaise, à la différence de toutes les autres langues, possède le terme d'amae,  lequel se réfère pourtant à une pulsion qui est en soi universelle, constitue un point de départ pour la réflexion, permettant de formuler des hypothèses suggestives, non seulement sur la mentalité japonaise mais aussi sur les différences de fond qui existent entre les cultures d'Occident et d'Orient.

 

La pulsion de dépendance surgit dès que le bébé perçoit, dans la douleur, la séparation entre son soi et le reste, c'est-à-dire sa mère. L'amae  est la tentative de nier cette séparation douloureuse, de la même façon que le bébé, en s'attachant au sein de sa mère, satisfait (momentanément) son désir de subordination. Cette tentative d'échapper à ce détachement par rapport à un «tout originaire» façonne et conditionne la mentalité et la pensée japonaises. Les oppositions typiques qui structurent les langues occidentales  —interne/externe, individuel/collectif, privé/public, etc.—  sont toutes inadéquates pour cerner cette psychologie «infantile», qui idéalise la capacité de compter sur l'indulgence maximale d'autrui (amaeru), ce qui, en de nombreux cas, peut mal tourner.

 

Le modèle idéal de rapports, pour un Japonais, est celui qui unit géniteurs (en particulier la mère) et enfants, où la propension à la dépendance s'exprime de manière maximale. A l'opposé, face aux tanin  (1), c'est-à-dire aux étrangers, l'amae  n'est plus présente. Entre ces deux extrêmes, nous trouvons plusieurs groupes d'appartenance. Outre l'entourage immédiat d'un individu (uchi),  les rapports se définissent par le ninjo  (l'obligation sociale, le lien social), dans lequel sont présents et l'amae  et l'enryo  (la réserve, la distance tenue volontairement). Exemples: face à un collègue ou à un supérieur dans l'entreprise (qui est la «communauté» centrale dans la vie japonaise), le Japonais attend une certaine dose d'indulgence et de compréhension; par ailleurs, il se sent contraint de faire usage de sa réserve pour ne pas donner l'impression d'abuser de la condescendance d'autrui, sinon un conflit contraire aux intérêts de l'amae  pourrait survenir. Le Japonais veut maintenir l'«harmonie».

 

L'idéal nippon dans le champ des rapports sociaux est toujours de pouvoir exprimer un maximum d'amaeru;  en ce sens, l'enryo  est perçu comme une douloureuse nécessité. Dans ce contexte mental et culturel, l'individualité vue comme séparation n'est pas considérée comme une valeur (la langue japonaise a dû introduire des termes spécifiques pour traduire plus ou moins les mots «individu» et «personnalité», vocables qui ne sont apparus qu'à l'ère de la modernisation au siècle passé). Ensuite, le «genre humain universel» n'est pas envisagé: seul le groupe et ses intérêts prévalent. Déjà, le Japon médiéval pouvait être considéré comme un ensemble de grands groupes (de clans) qui formaient un clan plus grand, la tribu Japon, dont l'Empereur est le symbole sacré de l'unité.

 

Dans la psychologie japonaise, il n'est pas possible d'envisager un conflit intérieur entre l'instance individuelle et le devoir public (chose fréquente, en revanche, dans la mentalité occidentale). Le conflit surgit bien plutôt entre les devoirs de l'individu à l'égard de différents niveaux d'appartenance, par exemple entre son entourage le plus intime et la nation. Selon Takeo Doi, c'est parce que la mentalité définie par l'amae  est enracinée dans une histoire japonaise qui n'a jamais connu, même sous forme diffuse, une culture fondée sur les valeurs de l'individu. Tandis qu'en Occident  l'individu a pris son envol par le christianisme, en Orient, et en particulier au Japon, s'est affirmée une culture de la communauté, ancrée dans une éthique de la fidélité au groupe, dont l'intérêt est toujours considéré comme supérieur.

 

Takeo Doi nous confirme en outre, dans les grandes lignes, l'idée qui se répand de plus en plus en Occident, selon laquelle le Japon, après avoir assimilé sans interruption des cultures ou des religions étrangères, aurait maintenu tout de même une identité de fond que la modernisation capitaliste n'a pas réussi à entamer de façon significative. Sur ce plan, justement, l'amae  et son impact jouent un rôle fondamental. Le fait que le peuple japonais a été et, surtout, est encore enclin à assimiler des éléments de culture d'origine étrangère est du à cette pulsion de dépendance à l'égard d'autrui, dans la mesure où la fonction d'assimilation en est un mode opératoire caractéristique. Tout ce qui est assimilé est mis au service du groupe d'appartenance et de ses intérêts.

 

Nakamura Hajime, en prenant l'exemple de la religion, a cherché à expliquer cette attitude dans les termes suivants: «En règle générale, quand ils ont adopté des éléments issus de religions étrangères, les Japonais possédaient déjà un cadre éthique et pratique qu'ils considéraient comme absolu; ils n'ont donc recueilli ces éléments et ne les ont adaptés que dans la mesure où ces nouveautés ne menaçaient pas le cadre existant; au contraire, ils ne les adoptaient que s'ils encourageaient, renforçaient et développaient ce qui existait déjà chez eux [...]. Sans aucun doute, ceux qui embrassaient avec certitude les nouvelles religions le faisaient avec une piété sincère, mais il n'en demeurait pas moins vrai que la société japonaise se bornait en gros à adapter ces éléments pour atteindre plus facilement ces propres objectifs».

 

Takeo Doi, lui, donne une explication légèrement différente: «Pour m'exprimer en des termes légèrement différents de ceux qu'emploie Nakamura, je pourrais affirmer que, si les Japonais, au premier abord, semblaient accepter sans critique une culture étrangère, en fait, sur un mode tout à fait paradoxal, cette attitude les aidait à préserver la psychologie de l'amae,  dans le sens où ce mode d'action, consistant à adopter et à accepter, est, en soi, une conséquence de cette mentalité».

 

Ensuite, par le fait de l'amae,  la société et la mentalité japonaises se montrent extrêmement conservatrices, en dépit des convulsions profondes qui ont bouleversé, au cours de notre après-guerre, les institutions et les valeurs traditionnelles. Malgré ces mutations, il est possible de percevoir à quels moments de son histoire la mentalité japonaise a été entièrement compénétrée de cette pulsion de dépendance. Ainsi, tout fait penser, selon Doi, que même dans l'Empire du Soleil Levant, tôt ou tard, la tradition cèdera le pas à l'individualisme et à ses excès désagrégateurs: c'est une perspective qui rassure ceux qui craignent la résurgence du nationalisme et de l'expansionnisme nippons (aux Etats-Unis, la psychose va croissante!).

 

Que derrière le développement industriel et financier du Japon puisse se cacher et se réactiver un esprit belliciste et expansionniste indompté est admis partiellement, voire implicitement, par plus d'un observateur du monde nippon. Tant Antonio Marazzi que Guglielmo Zucconi, par exemple, perçoivent dans les attitudes des Japonais d'aujourd'hui, surtout dans leur univers du travail, une transfiguration moderne de l'esprit samouraï (2), qui prouve ainsi sa persistence. Selon cette interprétation, le facteur décisif, dans l'incroyable développement économique du pays, ne doit pas être recherché dans une quelconque qualité spéciale inhérente aux managers japonais ou dans l'utilisation massive et sophistiquée des technologies les plus modernes, mais bien plutôt dans le matériel humain japonais, caractérisé par un sens absolu du devoir du travailleur, vis-à-vis de son activité particulière, de son entreprise et de la «plus grande entreprise Japon».

 

Tout cela, selon Doi, ne correspond que superficiellement à la vérité; l'assiduité japonaise n'est rien d'autre que le résultat de la ki ga soumanaï,  une tendance obsessionnelle qui dérive de la frustration d'amae:  «Pour citer un seul exemple, la fameuse assiduité japonaise au travail pourrait très bien être liée à ce trait de caractère de nature obsessionnelle: si paysans, ouvriers et employés se jettent à corps perdu dans le travail, ce n'est pas tant par nécessité économique, mais plutôt parce que s'ils agissaient autrement, ils provoqueraient la ki ga soumanaï. Bien peu de salariés japonais se préoccupent de la signification de leur travail ou du bénéfice que la société, dans son ensemble, eux-mêmes et leur famille pourraient en tirer. Et pourtant, ils n'hésitent pas à se sacrifier. Cette attitude avantage évidemment le travail, même s'il est difficile de bien faire quelque chose sans une certaine dose d'enthousiasme».

 

Face à des observations de ce genre, on doit au moins remarquer qu'en dépit de ses origines, l'auteur se laisse contaminer par le vice européen, trop européen, de la psychanalyse, vice qui consiste à étendre démesurément les méthodes psychanalytiques, pour expliquer globalement tous les phénomènes d'ordre individuel ou social. Rappelons, au risque d'être répétitifs, que, en matière de conception du travail, la conception japonaise revêt au moins un aspect “sacré” qui transcende en tous points les visions actuelles et conventionnelles de l'Occident. Josei Toda, second président de la Soka Gakkaï (3), en pleine période de reconstruction, après la guerre en 1955, s'est adressé en ces termes à ses disciples: «Dès que l'on a compris le sentiment du Vrai Bouddha, comme est-il possible de négliger son travail? Pensez-y» (4). Il ne s'agit pas d'une apologie camouflée du capitalisme. Toda voulait mettre en exergue cet aspect bouddhique du don de soi absolu, idée qui, dans la mentalité occidentale est associée à la sphère religieuse ou à la rhétorique militaire. Il nous est difficile de croire qu'un tel esprit, qui s'est révélé essentiel pour arracher ce pays asiatique des décombres de la défaite et le projetter vers les sommets des statistiques de la production et du développement, ne hante plus aujourd'hui les coulisses de la «planète Japon», si complexe et si riche en contrastes.

 

Stefano BONINSEGNI.

 

Notes:

 

(1) L'indifférence à l'égard des tanin  a des conséquences particulièrement désagréables pour les Coréens installés depuis des générations sur le territoire nippon et pour les eta,  c'est-à-dire tous les Japonais qui exercent des professions considérées comme «impures» (bouchers et ouvriers des abattoirs, tanneurs, poissonniers, etc.).

 

(2) Cfr. Guglielmo ZUCCONI, Il Giappone tra noi,  Garzanti, Milano, 1986; Antonio MARAZZI, Mi Rai. Il futuro in Giappone ha un cuore antico,  Sansoni, Firenze, 1990.

 

(3) A la différence de ce que l'on dit et que l'on écrit, la Soka Gakkaï n'est pas, en fait, une nouvelle secte religieuse, mais une grande organisation laïque qui se réfère au clergé séculier bouddhiste de la Nichiren Shoshu. Récemment, ce clergé a destitué la Soka Gakkaï de ses prérogatives, en lui enlevant, entre autres choses, le droit de le représenter officiellement dans les milieux laïques et de diffuser le bouddhisme Nichiren. Au-delà des motivations exclusivement religieuses de cette dissension, il faut mentionner le fait que la Soka Gakkaï, sous la présidence de Daisaku Ikeda, a ajouté à sa mission traditionnelle de diffuser le bouddhisme un militantisme réformiste sur le plan social et des prises de position inspirées par un pacifisme absolu, qui déplaisaient forcément au clergé. Cette situation est révélatrice quant à l'atmosphère qui règne dans le Japon d'aujourd'hui.

 

(4) Cf. Il Nuovo Rinascimento,  août 1991, p. 15.

vendredi, 25 septembre 2009

Quand bouddhisme rimait avec impérialisme

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QUAND BOUDDHISME RIMAIT AVEC IMPERIALISME

 

 

par Laurent Schang

 

Avec le dernier tiers du XIXe siècle, l’archipel nippon connaît ses ultimes années d’isolationnisme. A rebours de la xénophobie ambiante, savamment cultivée par les conseillers shogunaux d’Edo (l’ancienne Tôkyô), la jeunesse samouraï se passionne pour l’Occident moderne et souhaite voir rapidement le Japon s’ouvrir au changement et au progrès tant vantés par ces drôles d’Occidentaux. Le 3 janvier 1868, le régime féodal est renversé et l’Empereur Mutsu-Hito, âgé de quinze ans, est officiellement proclamé seul détenteur du pouvoir. Le jour même, le Japon entre dans l’ère Meiji.

Jeunes et intrépides, volontaires et éclairés, les hommes qui s’emparent du pouvoir se veulent aussi ultranationalistes, conséquence d’une éducation isolationniste et du sentiment d’appartenance à une caste supérieure.

Mélange de théocratie, d’autoritarisme et de démocratie, la nouvelle Constitution, résolument conservatrice, s’attache plus à définir les devoirs du sujet que ses droits. Conscient de l’infériorité technique du Japon sur l’étranger, le nouveau gouvernement, malgré son inexpérience, bénéficie des deux atouts majeurs que sont un peuple sévère, religieux et travailleur, et l’appui du Tennô («l’Empereur ») en tant qu’agent fédérateur et ferment du renouveau national. Faisant preuve d’une remarquable adaptation intellectuelle et pourvues d’un solide aplomb, de nombreuses délégations d’émissaires et d’étudiants sont envoyées en Europe et en Amérique où, jouant de leur exotique affabilité, ils observent, étudient et enregistrent avec application les technologies occidentales.

Plus soucieux de réformes que de révolution, le Japon se modernise à grands pas et axe sa priorité immédiate sur ses besoins militaires et navals. D’origine largement rurale, l’armée nouvelle, calquée sur le modèle prussien, devient le centre de gravité de la nation. En l’espace de vingt ans, le monde assiste, d’abord incrédule puis inquiet, à l’émergence d’un Japon vindicatif qui organise sa révolution industrielle en préservant tout à la fois et son indépendance politique et les caractéristiques essentielles de sa civilisation.

Réussite incontestable, la restauration Meiji a su catalyser les énergies en sommeil de tout un peuple, transformant l’humeur belliqueuse de la noblesse, autrefois source de discorde et de faiblesse, en un argument précieux dans la lutte acharnée que le Japon s’apprête à livrer à l’homme blanc.

Bien sûr, pareille métamorphose ne va pas sans provoquer des conflits. La culture religieuse traditionnelle est ainsi profondément remaniée dans une finalité impérialiste. Le nouveau régime instaure un culte patriotique dont l’Empereur est la divinité vivante. Le Bushidô (littéralement « voie du guerrier »), auparavant réservé à la caste des samouraïs, est étendu à l’ensemble de la société. Le peuple entier adopte l’idéal martial pour code de vie.

On assiste également au retour en force d’une orthodoxie shintoïste revivifiée, sacralisant sol, sang et ancêtres en un même élan mystique, par opposition au bouddhisme d’importation plus récente, à vocation universaliste et relativiste. Religion étrangère, introduite au VIe siècle, le bouddhisme, après avoir frôlé l’interdiction pure et simple en raison de sa doctrine de la compassion et de la non-violence, est sommé de se conformer aux aspirations du Japon moderne. Les sectes bouddhiques choisissent de coopérer. Le « nouveau bouddhisme » sera donc loyaliste et nationaliste. La colombe s’est transformée en faucon. Le résultat : le Yamato damashii (« l’esprit du Japon »), religion d’Etat, syncrétisme de bouddhisme, de shintoïsme et de confucianisme.

Après une entrée fracassante dans l’âge industriel, le Japon se voit bientôt contraint par les nécessités économiques et démographiques de suivre les exhortations des Zaïbatsu, cartels industriels qui en appellent au colonialisme pour résoudre les difficultés de la nation. Le bouddhisme va fournir la justification morale à ses ambitions territoriales. D’agression militaire qu’elle était au départ, la guerre devient aux yeux des Japonais une mission mondiale d’émancipation des peuples opprimés, une « Sainte guerre pour la construction d’un ordre nouveau en Asie de l’Est ».

D.T. Suzuki, maître zen de nos jours encore vénéré, s’en fait le propagandiste zélé. Un précepte zen ne dit-il pas : « Si tu deviens maître de chaque endroit où tu te trouves, alors où que tu sois sera la vérité… » (1) Toutes les guerres que mènera le Japon au XXe siècle procéderont de la même politique de l’escalade. Du premier conflit sino-japonais en 1894-95 au fatal bombardement de Pearl Harbor le 7 décembre 1941, en passant par l’invasion de la Mandchourie en 1931 et les trois attaques répétées contre l’URSS en 1938 et 1939.

Quant à l’implication du clergé bouddhique, on sait désormais grâce au livre de Brian Victoria (2) qu’il ne s’agissait pas d’un dérapage mais bien d’un processus logique inscrit dans l’évolution du bouddhisme nippon.

 

(1) cf. Aventures d’un espion japonais au Tibet de Hisao Kimura et Scott Berry, Editions Le Serpent de Mer.

(2) Le zen en guerre 1868-1945, Brian Victoria, traduction de Luc Boussard, Editions du Seuil, 21,04€.

lundi, 14 septembre 2009

Le Japon bientôt libéré?

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Le Japon : bientôt libéré ?

http://unitepopulaire.org/

Second article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :

 

 

« Vingt ans après la fin de la guerre froide, la communauté internationale vit de grands changements structurels. Affaiblis par le conflit en Irak et la guerre contre le terrorisme en Afghanistan et responsables de la crise financière et économique, les Etats-Unis ont perdu leur prestige et leur assurance d’antan. L’arrivée au pouvoir de Barack Obama, qui souhaite renforcer la coopération internationale, marque la fin de l’unilatéralisme américain. De leur côté, des pays émergents comme la Chine, l’Inde et le Brésil ont accru leur influence à la faveur de la crise, tandis que des membres du G8 – et notamment le Japon – ont vu la leur décliner.

 

Face à ces bouleversements, le Japon doit fonder sa diplomatie et sa politique de maintien de la paix sur une nouvelle philosophie, affranchie de la logique de la guerre froide. Les gouvernements libéraux-démocrates qui se sont succédé jusqu’ici ont fait de l’alliance nippo-américaine le principal pilier de leur politique étrangère et sécuritaire. Ils n’ont pas cessé de préconiser son renforcement. […] Cependant, le pouvoir actuel a souvent été critiqué pour sa servilité envers les Etats-Unis. L’ancien Premier ministre Junichiro Koizumi, qui a remporté une majorité écrasante lors des précédentes élections générales en 2005, considérait qu’à l’instar des liens personnels qu’il avait noués avec le président George Bush, “meilleures seraient les relations nippo-américaines, plus le Japon aurait de chances d’en avoir de satisfaisantes avec le reste du monde, à commencer par la Chine, la Corée du Sud et les autres pays d’Asie”. Mais, à force de s’aligner sur la politique des Etats-Unis, il a fini par se couper du reste du monde.

 

Il est temps que le Japon cesse de se montrer servile vis-à-vis de Washington. Il doit adapter ses rapports avec les Etats-Unis en fonction de l’évolution de la conjoncture mondiale et renforcer ses liens avec la communauté internationale, et en particulier avec les pays asiatiques. […] Dans ses “Mesures pour 2009”, le document qui a servi de base à son programme électoral, le Parti Démocrate Japonais (PDJ) propose, comme base de sa politique étrangère et sécuritaire, de “bâtir une alliance nippo-américaine adaptée à l’ère nouvelle” et d’établir un “partenariat sur un pied d’égalité”. Dans ses “Mesures pour 2008”, le PDJ avait fait des propositions susceptibles d’être mal accueillies par les Etats-Unis. Il préconisait notamment une “révision radicale de l’accord sur le ­statut des forces américaines au Japon” et une “vérification constante” des dépenses liées au cantonnement de ces soldats sur le territoire national, notamment la prise en charge des frais générés par le redéploiement de l’armée américaine dans la région et des frais généraux des forces américaines stationnées sur l’archipel. »

 

 

Mainichi Shimbun (Japon), août 2009

 

 

NDLR1 : Ces prévisions ne sont pas sans faire penser à celles exprimées par Aymeric Chauprade dans son livre Chroniques du Choc des Civilisations (Chroniques Dargaud, 2009) lorsqu’il écrit, aux p.198 et 200 : « Ce qui oppose actuellement le Japon et la Chine pourrait bien se transformer en jour en facteur de rapprochement. […] Entre deux humiliations, celle infligée au Japon par la race blanche et celle infligée par des frères confucéens, fussent-ils ennemis séculaires, laquelle pèsera le plus dans vingt ans ? Nous sommes en Asie, une région où les peuples ne sont pas métissés, et où aucune des "maladies" importées de l’Occident (individualisme, hédonisme, vieillissement démographique) n’a altéré la cohésion ethnique des groupes humains. […] Plus les années vont passer, plus la réalité économique du Japon va diverger de celle des Etats-Unis au profit de cette sphère de co-prospérité asiatique. »

 

NDLR2 : Le fait d’avoir choisi pour illustrer cet article une photo du grand écrivain et combattant Yukio Mishima ne sous-entend évidemment pas que nous comparons le Parti Démocrate Japonais à l’auteur de Confession d’un Masque, mais il nous semble que dans l’imaginaire national japonais, Mishima est peut-être le plus à même de symboliser le réveil et l’autonomie du Japon.

dimanche, 13 septembre 2009

Le Japon: un pays occupé

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Le Japon : un pays occupé

 

http://unitepopulaire.org/

Premier article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :

 

 

 

« "Le niveau de frustration des Japonais au sujet des exigences des Etats-Unis est tel que toutes les initiatives politiques de Washington, même celles qui sont dans l’intérêt du pays, rencontreront une résistance. L’Amérique ne le sait sans doute pas, mais elle est en train d’écraser l’identité du peuple japonais et celui-ci, à la longue, ne l’acceptera pas". Assez inhabituel, ce franc-parler de M. Makoto Utsumi, ancien haut fonctionnaire, touche du doigt un des aspects négligés mais centraux de l’interminable crise japonaise : l’emprise américaine sur une société devenue incapable de définir des objectifs nationaux et de se donner un rôle politique à la mesure de son poids économique. La corruption, l’immense gaspillage de ressources dans de grands projets inutiles et l’incompétence affligeante de la caste dirigeante issue du Parti libéral démocrate (PLD) ne sont certes pas directement imputables à cette dépendance externe. Mais les Etats-Unis ont, dans une large mesure, façonné le système en construisant, au lendemain de la seconde guerre mondiale, une relation entièrement destinée à servir leurs intérêts.

Sous l’impulsion du secrétaire d’Etat américain John Foster Dulles, cet obsédé de l’anticommunisme, ils ont transformé l’ex-ennemi japonais en allié, en satellite et en agent des Etats-Unis dans la confrontation contre l’Union soviétique et la République populaire de Chine. Au nom de la guerre froide et en réaction à la victoire du Parti communiste chinois en 1949, ils ont abandonné leur projet initial de démocratisation du Japon et stimulé l’émergence d’une caste d’élite qui a monopolisé pendant près de soixante ans le pouvoir, favorisant ainsi la connivence, le clientélisme et la corruption plutôt que l’intérêt général. Ils ont dominé l’économie politique du pays et limité son autonomie. […]

 

L’incapacité du pays à mener à bien des réformes dans la décennie suivante n’a pas été le résultat d’une trop forte intervention de la bureaucratie dans la gestion économique. Au contraire, elle tient à l’autonomisation des intérêts privés et corrélativement à la faiblesse de l’intervention publique dans la mise en oeuvre de la politique économique du pays. Comme l’a souligné M. Joseph Stiglitz, ancien économiste en chef de la Banque mondiale et Prix Nobel d’économie, "la régulation est devenue le bouc émissaire, alors que le véritable coupable était un manque de contrôle".

 

Les critiques du modèle nippon cherchent à discréditer toute autre voie que le modèle américain et à créer des fondations idéologiques solides pour la poursuite de l’ordre dominant libéral centré aux Etats-Unis. Ils visent en particulier l’"Etat développeur" capitaliste d’Asie orientale. Les idéologues américains ignorent superbement les fondements culturels du dirigisme économique dans nombre de pays d’Asie orientale : ils orientent l’économie vers le long terme, alors que les finalités du capitalisme actionnarial américain se résument à l’accumulation à court terme. De plus, ces idéologues exagèrent jusqu’à la caricature les bienfaits supposés du système américain.

 

Comme le souligne l’auteur anglais John Gray, "c’est une caractéristique de la civilisation américaine que de concevoir les Etats-Unis comme un modèle universel, mais cette idée n’est acceptée par aucun autre pays. Aucune culture européenne ou asiatique ne peut tolérer la déchirure sociale – dont les symptômes sont la criminalité, l’incarcération, les conflits raciaux et ethniques, et l’effondrement des structures familiales et communautaires – qui est l’envers du succès économique américain".

 

Au fond, le problème du Japon ne relève pas de l’économique, mais du politique. Le Parti libéral démocrate (PLD), au pouvoir depuis 1949, est corrompu et incompétent. Son ancien rôle de bastion anticommuniste n’a plus aucune espèce de pertinence. Mais les Américains adorent le PLD, seul parti politique du pays à être suffisamment indifférent à la souffrance et à l’humiliation des habitants d’Okinawa (ou des autres populations vivant à proximité des 91 bases militaires des Etats-Unis) pour servir d’agent de Washington. Au cours des dernières décennies, ils ont déboursé des sommes immenses pour soutenir leurs affidés du PLD et diviser le camp progressiste et socialiste. »

 

 

Chalmers Johnson, président du Japan Policy Recherche Institute (JPRI), "Les impasses d’un modèle : cinquante années de subordination", Le Monde Diplomatique, mars 2002

jeudi, 03 septembre 2009

La dénatalité au Japon

La dénatalité au Japon : une sérieuse menace pour la deuxième puissance économique du monde

Japon - Enfant

TOKYO (NOVOpress) - Malgré une légère remontée du taux de fertilité ces dernières années (de 1,26 enfant par femme en 2005 à 1,37 en 2008, alors que 2,1 seraient nécessaires pour le renouvellement des générations), l’archipel nippon devrait perdre 200.000 habitants entre 2008 et 2009, passant de 127,6 à 127,4 millions. Une tendance lourde qui constitue une menace sérieuse pour l’avenir du pays.

Conscient de l’enjeu, le Parti démocrate du Japon a fait de son projet d’allocation mensuelle de 26 000 yens (193 euros) pour chaque enfant, de la naissance à la dernière année collège, une mesure phare de son programme lors des dernières élections législatives. Contrairement aux politiques mises en œuvre en France et dans les pays de l’Union européenne sous la pression de certains lobbies, les pouvoirs publics nippons privilégient ainsi la natalité autochtone sur l’immigration afin de relever le défi de la dénatalité : le Japon ne compte que 2 217 000 étrangers, soit 1,74% de la population totale, essentiellement Chinois, Coréens, Brésiliens, Philippins et Péruviens.

Au Japon, l’importance du critère financier semble décisive pour fonder un foyer : 55 % des femmes célibataires exigent que leur futur mari gagne au moins 8 millions de yens (59 500 euros) par an. Un critère rempli par 15 % des hommes seulement. Conséquence : plus d’un tiers des hommes et femmes entre 30 et 34 ans sont célibataires. En 2008, selon une enquête de la Fondation pour l’avenir des enfants, 56 % des hommes célibataires entre 25 et 34 ans estimaient qu’ils n’étaient « financièrement pas prêts à se marier» . Un ménage japonais dépense entre autre 29,5 millions de yens (219 400 euros) en moyenne pour l’éducation de chacun de ses enfants, de la naissance à la sortie de l’université.

D’autre part, comme dans l’ensemble des pays occidentaux, le fléau de la dévirilisation des jeunes mâles gangrène la société japonaise : nombre de jeunes hommes semblent tomber dans une sorte d’indifférence à l’égard des femmes. L’éditorialiste Maki Fukasawa les a baptisés « herbivores» , en opposition aux « carnivores»  qui croquaient à belles dents la vie et les femmes dans le Japon des années à forte croissance. Pour Mme Fukuzawa, 20 % des hommes entre 20 et 40 ans sont des « herbivores» .

De leur côté, les femmes fuient ces anti-compagnons et se regroupent entre elles : elles travaillent, se distraient et voyagent en cercle fermé d’où les hommes sont exclus. Les hôtels disposent d’étages où ces dames bénéficient d’attentions particulières. Des lieux de divertissement, tels les onsen (» eaux chaudes» ), leur sont réservés.


[cc] Novopress.info, 2009, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info]

lundi, 31 août 2009

Le bouddhisme martial

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Le bouddhisme martial

Examinons le rôle que peut parfois jouer le bouddhisme en temps de guerre, en prenant nos exemples dans l’histoire du Japon entre l’annexion de Taïwan (1895) et la défaite de 1945. En général, on va chercher les racines religieuses de l’impérialisme japonais dans le shintô, terme mixte sino-japonais signifiant la “voie des dieux” et dérivé du chinois “shendao”. Le terme japonais exact étant “kami no michi”, où l’on reconnait le terme “kami”, signifiant “dieu”, comme dans “kamikaze”, le “Vent des dieux”, allusion à la tempête qui coula en 1281 la flotte d’invasion mongole. Les pilotes “kamikaze”, prêts à se suicider dans l’action, devaient imiter cette tempête salvatrice en se jettant sur les porte-avions américains. Le “shintô” est en fait l’équivalent japonais du chamanisme, l’art d’entrer en contact avec les esprits. Cette religion, éminemment nationale, rend un culte à la dynastie impériale qu’elle pose comme descendante de la déesse solaire Amaterasu.

 

Pourtant, le bouddhisme, religion bien plus intellectuelle,  a apporté un soutien plus étayé à l’impérialisme japonais que le shintô, religion animiste. Les maîtres connus du bouddhisme zen, comme Suzuki Teitarô, alias Daisetsu (= “Grande Simplicité”), qui allait apporter la culture zen aux Etats-Unis après 1945, et Kodo Sawaki, le maître de Taisen Deshimaru, qui apportera, lui, le zen en Europe, enseignent tous deux la supériorité des Japonais et plaident pour leur droit à dominer les autres. Citons aussi Yamada Mumon, qui exprimera peut-être quelques vagues regrets, mais qui, encore dans ses vieux jours, avait déclaré que les autres pays asiatiques devaient se montrer reconnaissants à l’égard du Japon, parce que celui-ci, par son “auto-sacrifice”, avait ouvert la voie à leur décolonisation. Le bastion de la pensée pro-impérialiste a été l’école de Kyoto, qui combinait le bouddhisme à des éléments de philosophie occidentale.

 

National-socialisme et bouddhisme

 

Peut-on avancer l’hypothèse que l’impérialisme bouddhiste a trouvé quelque écho chez l’allié du Japon pendant la seconde guerre mondiale, l’Allemagne national-socialiste? Le régime national-socialiste avait interdit les “sectes” (cette législation inspire aujourd’hui la politique face aux sectes qu’adoptent la France et la Belgique). Contrairement à tous les mythes qui circulent aujourd’hui et qui veulent nous faire croire à des “racines occultes du nazisme”, le régime a fait dissoudre toutes les associations religieuses marginales et excentriques: l’odinisme, la franc-maçonnerie, l’anthroposophie de Rudolf Steiner, les petits clubs d’astrologie et les officines de diseuses de bonne aventure. Tous étaient frappés d’illégalité et, à partir de 1941, leurs adeptes étaient passibles du camp de concentration. Il y avait toutefois une exception: le bouddhisme qui, dans des cercles restreints, pouvait se déployer librement. Certains analystes critiques de cette époque en concluent qu’il y a un lien étroit entre bouddhisme et national-socialisme. Disons plutôt que l’exception faite en faveur du bouddhisme s’explique par un geste diplomatique destiné à ne pas irriter l’allié japonais.

 

Cependant, les faits l’attestent: il y avait, en Allemagne, à cette époque, un intérêt réel pour les aspects martiaux du bouddhisme, notamment par le biais des travaux d’Eugen Herrigel (“Le zen dans l’art du tir à l’arc”) et du Comte Karlfried von Dürckheim, que l’on trouve encore et toujours dans toute librairie “New Age”. La dimension martiale, mise en exergue dans cette Allemagne des années 30 et 40, n’est pas une simple projection des idées quiritaires, à la mode en Europe à cette époque, sur une tradition d’Extrême Orient. Les maîtres du bouddhisme reconnaissent pleinement qu’une telle dimension martiale existe dans leur religion; par exemple, le livre de Deshimaru, “Zen Way to Martial Arts” nous révèle un bouddhisme pratique, qui table sur la plus extrême simplicité et qui abandonne toute philosophie et toute dévotion; cette variante-là du bouddhisme a été la religion choisie par la caste féodale des samourais. Ce n’est pas un phénomène exclusivement japonais: la Chine avait, elle aussi, une longue tradition d’arts martiaux pratiquée dans les monastères bouddhistes; d’après la légende, cette tradition avait été importée en Chine par un moine venu d’Inde méridionale, Bodhidharma.

 

La mort n’est pas un événement grave

 

En quoi consiste le lien entre bouddhisme et arts martiaux, lien qui s’inscrit clairement dans la durée? Bouddha lui-même est issu de la caste des guerriers, mais il renonça à ce statut lorsqu’il  opta pour la vie d’ascète. Il se tint alors éloigné de toute forme de violence, notamment quand il n’entreprit rien contre une armée qui s’avançait pour exterminer son propre clan, celui des Shaka. Ou lorsqu’il para à une attaque contre sa personne sans faire usage de la violence, en attirant la brute, qui lui en voulait, dans un débat fécond. Pourtant, indubitablement, cet ascétisme avait une composante martiale. L’institution des ascètes itinérants est clairement dérivée de ces groupes de jeunes gens qui cherchaient l’aventure, en marge de la société établie. Dans ces marges, ils se soumettaient mutuellement à toutes sortes d’épreuves. Ces épreuves constituaient le lien entre l’exercice des arts militaires et les pénitences physiques imposées par la religion. Ce n’est donc pas un hasard s’ils ont attiré des hommes issus de la caste des guerriers comme Vardhamana Mahavira, fondateur du jaïnisme, et Siddhaartha Gautama, le futur Bouddha. 

 

Outre ce lien historique probable, il y a deux éléments fondamentaux du bouddhisme qui rend cette religion intéressante pour les samourais et les autres guerriers. D’abord, premier élément, la méditation aiguise véritablement l’attention sur le “hic et nunc”, sur l’ici et le maintenant. Elle postule le calme et la concentration totale en excluant la peur, les affects et les intérêts. C’est une telle disposition d’esprit dont le guerrier a besoin lorsqu’il fait face au danger et à la mort. Ensuite, deuxième élément, le bouddhisme a apporté la doctrine de la réincarnation en Chine et au Japon. Cette doctrine relativise la mort, car mourir ne signifie finalement pas autre chose que d’ôter ses vieux habits pour revenir demain, revêtu d’autres. Animés par cette idée, les guerriers trouvent plus supportable le souci, l’angoisse, qu’ils éprouvent quand ils s’avancent sur le champ de bataille. Mourir n’est pas vraiment une catastrophe et tuer n’est pas vraiment un crime, car qui meurt aujourd’hui revient quand même demain.

 

Le bouddhisme zen du beatnik Alan Watts

 

Caractéristique du “Grand Véhicule”, l’un des trois principaux courants du bouddhisme auquel appartient aussi la tradition zen: l’accent mis sur l’altruisme. D’une doctrine qui se focalise sur la “compassion” et sur la volonté de libérer tous les êtres conscients de leurs souffrances et de leur ignorance, on est passé, par distorsion, par une sorte de chemin de traverse,  à une doctrine du sacrifice de soi, comme par exemple, celui du samourai pour son seigneur. Le Japon moderne a interprété cette doctrine comme celle du sacrifice du soldat mobilisé pour son peuple et pour son empereur.

 

Malgré tout ces  antécédents, on s’étonnera de constater que le zen est devenu très à la mode aux Etats-Unis dans les années 50, alors que les Américains venaient de perdre des centaines de milliers de soldats dans la guerre contre le Japon. Ce sera surtout le beatnik Alan Watts qui travaillera à acclimater le zen aux Etats-Unis: le “beat zen” devait constituer une alternative fraîche et joyeuse aux religions alourdies par un ballast dogmatique trop important. Le “beat zen” était pur, était innocent. Cette attitude est typique de la réception favorable qui a toujours été accordée au bouddhisme en Occident moderne.

 

“Moestasjrik”/ “’t Pallieterke”.

(article tiré de “’t Pallierterke”, Anvers, 30 août 2006; trad. franç.: Robert Steuckers / 2009).

dimanche, 09 août 2009

El genocidio de Hiroshima

El genocidio de Hiroshima

Hace 64 años el presidente Truman ordeno lanzar la primera bomba atomica contra la humanidad, cometiendo un genocidio que aun no se ha juzgado en ningun tribunal internacional

El 6 de agosto de 1945 Estados Unidos asesino a mas de 200.000 civiles en la ciudad de Hiroshima, lanzando contra ella la primera bomba nuclear utilizada como arma de guerra en la historia de la humanidad, y tres dias despues sucedio lo mismo en Nagasaki. Se estima que hacia finales de 1945, las bombas habían matado a 140.000 personas en Hiroshima y 80.000 en Nagasaki, aunque solo la mitad había fallecido los días de los bombardeos y el resto por heridas incurables o enfermedades atribuidas al envenenamiento por radiación.

El presidente Harry S. Truman, quien ordeno el bombardeo, no lo hizo para acabar con la guerra y la escasa resistencia de Japon. Los mismos japoneses estaban intentando negociar la paz, y habian pedido la mediacion a Stalin. Antes de que la URSS pudiera aceptarla, EE.UU. se encargo de que las negociaciones de paz no tuvieran lugar y Japon se entregara a una rendicion incondicional. Japon ya estaba practicamente vencido, y la escusa de que la bomba se lanzo para evitar “mas muertes de civiles”, como cinicamente aseguro Truman, se desarma cuando miramos los miles de japoneses inocentes que murieron con los lanzamientos. En ningun caso hubieran muerto tantos si la guerra hubiera durado dos meses mas.


Estados Unidos demostro con el uso de la bomba atomica la calidad humana de sus dirigentes, su personalidad genocida. La Segunda Guerra Mundial pasara a la historia no solo por el holocausto perpetrado por los nazis, contra judios, gitanos, comunistas y homosexuales (entre otros), sino tambien por la extrema crueldad de Estados Unidos, que entonces demostro que la vida humana no le importa lo mas minimo, actitud que ha continuado de diversas formas asesinas hasta hoy dia.

El genocidio de Hiroshima y Nagasaki no ha sido juzgado por ningun tribunal internacional todavia, porque los genocidas fueron los vencedores en esta ocasion. No hubo Tribunal de Nuremberg para Truman y sus secuaces. Pero la historia, a pesar de las justificaciones que han inventado los medios de comunicacion actuando de silenciador moral, no deja de mostrarnos lo horrible de los actos de los que son capaces de utilizar cualquier metodo para lograr sus fines materiales.

Con una hipocresia que hiela toda capacidad de sentimiento, que indigna hasta a las piedras, los EEUU han venido acusando a todos sus enemigos de asesinos, crueles genocidas, o tiranos, mientras que ellos, tras el silenciador de la opinion publica, creada por los escribanos y voceros del sistema, muy bien pagados, continuan orgullosos de sus crimenes y ejecutándolos, de una manera u otra, hasta el presente y a lo largo de todo el planeta.

Aunque de sus horrendos y continuos crimenes el asesinato de 220.000 japoneses de un golpe, (sin contar las secuelas radioactivas producidas en los pocos supervivientes), el genocidio producido por el lanzamiento de las dos unicas bombas nucleares lanzadas hasta hoy contra la humanidad, es, si cabe, el mas ilustrativo de la verdadera naturaleza criminal del imperio yankee y del corazon podrido de sus primeros peones, los presidentes de Estados Unidos (independientemente del color de su piel).

Jose Luis Forneo

Extraído de CuestiónateloTodo.

dimanche, 03 mai 2009

Le Japon et les Centraux pendant la première guerre mondiale

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

Le Japon et les Centraux pendant la première guerre mondiale

Josef KREINER (Hrsg.), Japan und die Mittelmächte im Ersten Welt­krieg und in den zwanziger Jahren, Bouvier Ver­lag/Herbert Grund­­mann, Bonn, 1986, 253 S.

 

Dans cet ouvrage collectif, on lira surtout avec profit les conclusions de Rolf-Harald Wippich sur l'histoire des relations germano-japonaises avant la première guerre mondiale. Les rapports entre l'Allemagne et le Japon sont alors essen­tiel­lement déterminés par le facteur russe. Japonais et Allemands voulaient mé­nager la Russie qui se rapprochait de la France. En 1898, Ito Hirobumi déclare: «Le Japon doit tenter de s'entendre avec St. Petersbourg et de partager la gran­de sphère d'intérêts de l'Orient avec sa puissante voi­sine. L'Allemagne pourrait jouer un rôle important en tant que troisième partenaire». Le Japon n'octroyait à Berlin qu'un rôle sub­alterne. Et, en Allemagne, per­sonne n'avait un projet cohérent de politique ex­trême-orientale. Le Japon n'était pas considéré comme un facteur en soi dans les calculs allemands, mais comme une variable de la politique chinoise. Les Ja­ponais jouissaient d'une certaine bienveillance: la va­riable qu'ils constituaient agissait vaguement dans le sens des projets allemands, surtout quand ils avaient maille à partir avec la Russie, ce qui allégeait la pres­sion slave aux frontières orientales du Reich.

Le dés­intérêt pour le Japon en Allemagne vient d'un préjugé: le Japon s'est borné à imiter servilement le système prussien en amorçant l'ère Meiji. De surcroît, les Al­lemands souhaitent que les Russes jettent tout leur dé­volu en Extrême-Orient et s'emparent de la Mand­chourie et de la Corée. L'Empereur Guillaume, te­naillé par son obsession du «péril jaune», veut que la région soit sous domination «blanche», russe en l'oc­currence. De cette façon, les Russes ne seront pas disponibles pour un projet panslave de balkanisation de l'Europe centrale au détriment de l'Autriche et au bénéfice direct de la France. Le Japon, même s'il a agi dans un sens favorable à l'Allemagne en Chine et s'il a montré à la Russie que le véritable danger était à l'Est et non en Europe Centrale, reste un facteur qui peut troubler les relations germano-russes. Ce souci de conserver de bons rapports avec la Russie conduit les Allemands à négliger les approches du cabinet germanophile de Yamagata/Aoki (1898-1900) et à ne pas conclure un pacte tripartite dans le Pacifique avec l'Angleterre et le Japon. En 1902, Anglais et Japonais signent un traité d'alliance sans l'Allemagne, qui n'est plus que spectatrice dans le Pacifique Nord. Occupant la forteresse de Kiao Tchéou, avec un  hinterland  chi­nois, l'Allemagne pouvait jouer un rôle d'arbitrage dans le conflit russo-japonais, tant que celui-ci restait latent. Après les événements de 1905 et la défaite de la Russie, la Japon est maître du jeu en Extrême-Orient; l'Empire des Tsars se tourne vers l'Europe et la stra­tégie du «para-tonnerre japonais» ne joue plus en fa­veur du Reich. Conclusion: l'Allemagne, maîtresse de la Micronésie, restait la dernière puissance euro­péenne à éliminer dans la sphè­re d'influence directe du Japon. Ce sera le résultat de la première guerre mondiale dans la région.

 

Dans ce même volume, signalons également l'étude de Félix Moos (en langue anglaise) sur la Micronésie. Longtemps espagnol, l'immense archipel passe aux Allemands pour la somme de 4.500.000 dollars en 1899. Le Japon en prendra possession après Ver­sailles. Pour le géopoliti­cien Haushofer, ce transfert dans les mains japonaises est normal et naturel, puisque le Ja­pon est une puissance non étrangère à l'espace Pacifique (Robert Steuckers).

mardi, 28 avril 2009

Trois livres pour comprendre le Japon aujourd'hui

Trois livres pour comprendre le Japon d'aujourd'hui

Ex: http://ettuttiquanti.blogspot.com/
Signe de la fascination et de la curiosité que suscite le Pays du soleil levant en Europe, plusieurs livres ayant pour objectif d'expliquer le Japon ont récemment été publiés :

Enigmatique Japon, d'Alan Macfarlane, est le fruit de la rencontre d'un anthropologue britannique réputé avec un pays qui lui est absolument étranger. "J'ignorais presque tout du Japon avant notre premier séjour. Je savais que c'était un chapelet d'îles situées à l'est de la Chine. Je me figurais plus ou moins une Chine en miniature" écrit l'auteur. La rencontre avec cet archipel oriental déboussole l'universitaire, qui a le sentiment, comme Alice aux pays des merveilles, de passer de l'autre côté du miroir. "J'étais plein de certitudes, de confiance et de présomption infondées sur mes propres catégories de perception du monde. Je ne pensais même pas que le Japon risquait de les bousculer" écrit-il. En un peu plus de 200 pages, il se fonde sur ses expériences personnelles, passées au crible de la méthode universitaire et anthropologique, pour déchiffrer l'énigme japonaise pour le lecteur.






L'Atlas du Japon de Philippe Pelletier propose plus de 120 cartes, sur l'histoire, la démographie, l'économie, l'urbanisation ou encore les relations extérieures de l'archipel. Le choix de la présentation cartographique permet de mettre en relief certains éléments caractéristiques du Japon d'aujourd'hui. Outre ses contraintes géographiques et l'héritage historique, les cartes claires, didactiques et bien documentées réalisées par Carine Fournier et Donatien Cassan mettent en avant les éléments qui font du Japon une société "post-moderne" : population vieillissante, hyper-urbanisation, forte tertiarisation de l'économie, etc... L'approche cartographique a également le mérite de faire ressortir certaines données, telles que les écarts sociaux ou la répartition géographique du vote, auxquelles le lecteur n'aurait pas nécessairement été sensible sans carte. L'ouvrage, riche en informations, satisfera quiconque est amené à étudier le Japon.






Enfin, comme son titre l'indique, Les Japonais de Karyn Poupée ne se focalise pas sur le pays mais sur ses habitants. Le livre permet de comprendre cette société, si intrigante aux yeux des étrangers et qui est devenue ce qu'elle est du fait de contraintes et d'une histoire particulière. L'auteur dit s'être lancée dans la rédaction du livre pour avoir trop lu par le passé de choses insensées, de clichés racoleurs ou, au contraire, de textes reflétant une fascination absolue sur les Japonais. Ici, les clichés ne sont pas niés, leurs fondements sont expliqués. L'auteur, qui connaît le Japon depuis 12 ans et y travaille en tant que journaliste pour l'Agence France Presse, réussit à expliquer les réalités socio-économiques du pays tout en les illustrant avec des éléments du vécu, des constats du quotidien, qui rendent le livre accessible à tous et prenant. Etoffé d'exemples concrets et parlants, l'ouvrage dense en informations revient sur l'histoire contemporaine du pays pour mieux nous expliquer son présent. L'auteur se fonde sur les spécificités, géographiques et culturelles, qui rendent le Japon si différent. Probablement parce qu'elle a pour métier de rendre accessible aux lecteurs de la presse la complexité japonaise, Karyn Poupée sait utiliser des exemples concrets et parlants pour montrer pourquoi et comment les Japonais sont comme ils sont. L'ouvrage devrait satisfaire tous ceux qui souhaitent comprendre les Japonais d'aujourd'hui. Il est enfin doté d'une qualité extrêmement rare pour un livre si riche en informations : il se lit avec le même plaisir que l'on aurait à parcourir un bon roman.

Alan Macfarlane, Enigmatique Japon, Ed. Autrement, 2009.

Philippe Pelletier, Atlas du Japon, Ed. Autrement, 2008.

Karyn Poupée, Les Japonais, Tallandier, 2008.

jeudi, 23 avril 2009

Mishima: l'homme, l'oeuvre, la mort

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

MISHIMA: L'HOMME, L'ŒUVRE, LA MORT

 

Dans son autobiographie Le Soleil et l'Acier, Kimitake Hiraoka, bien plus connu sous le pseudonyme qui le révèlera à l'humanité, Mishima Yukio, confessait son irréfragable désir d'assouvissement tragique par ces quelques mots, jetés en une fausse interrogation, et alors fort peu écoutés: «Qu'est-ce qui distingue une mort héroïque d'une mort décadente? (...) Résister à la mort et à l'oubli». Cette phrase, le 25 novembre 1970 consommé, personne ne devait plus l'oublier. De fait, pacte suicidaire du plus célèbre des auteurs japonais marque au­jourd'hui encore les esprits à un point tel qu'elle recouvre d'ombre sa pourtant foisonnante et géniale œuvre littéraire. La biographie recomplétée de son ami journaliste Henry Scott-Stokes est éclairante en la matière, qui lui consacre près de 400 pages à décortiquer la troublante personnalité du dernier samouraï nippon, rejetant l'étude de ses textes à une simple énumération-explicitation insipide et sans profondeur aucune.

 

Etonnante inconséquence bien ancrée à “droite” également, pour qui le seppuku du Grand Quartier Général de Tokyo, plus coup d'éclat que coup d'état, est devenu un évènement prépondérant sa mythologie, qu'il est inutile ici d'évoquer à nouveau, tant il l'a déjà à maintes reprises été: «Yukio Mishima choisit d'être le dernier samourai. Sa sortie fulgurante hors d'un monde qu'il abhorrait se camoufle sous une tentative de putsch. Mais un putsch à la nip­pone, voué à l'échec, ayant pour seul dessein de mettre en scène un évènement inou­bliable» (Jean Mabire). Pourtant, un rapide retour sur ses écrits jette un éclairage nouveau et bien plus instructif que tous les cours de psychologie ou études de philosophie orientale (sa vie durant, il restera sceptique à l'égard du bouddhisme et du shintoïsme institutionnels) que depuis vingt-sept ans littérateurs, critiques journalistiques ou prétendus exégètes nip­pophiles s'acharnent à plaquer sur la personne de Mishima pour en finir avec son geste fa­tal.

 

Tout dans ses romans, nouvelles, essais et recueils autobiographiques annonçaient par la plume ce que leur auteur allait bientôt sceller par le sang. L'idée précède l'action, l'action la complète. Le mot, trompeur, factice transposition scripturale du fatum humain, pallié, trans­cendé par l'action elle-même. Et si Mishima nous paraît si proche, c'est que derrière le vernis de l'artiste insulaire imprégné de culture sino-nippone se profile, tantôt en filigrane, tantôt frappant d'évidence, l'écrivain baigné de littérature européenne, de philosophie allemande, de mythologie hellénique. Ceux qui l'ont connu ou approché s'accordent tous à le recon­naître: sa maison, délirant bâtiment baroque mariant avec plus ou moins bon goût pilastres massifs, fioritures et plâtres moulés de statues de l'antiquité et de la renaissance, sa passion pour la Grèce, son culte de l'haltérophilie, son goût immodéré pour Thomas Mann et Friedrich Nietzsche, le philosophe au marteau, attestent de son regard tourné vers le berceau de la tragédie. «Il faut ne jamais s'être ménagé soi-même, il faut avoir fait de la dureté une habitude pour rester serein et de bonne humeur parmi de dures vérités», quelle meil­leure traduction que cet aphorisme nietzschéen tiré d'Ecce Homo pourrait mieux percer à jour la complexité de Mishima, sa pensée profonde et la vision unique qui guida sa vie, son œuvre, et, point d'orgue terrible, sa mort par suicide.

 

Mishima, d'abord un écrivain européen? Perspective ambitieuse certes, mais qui s'appuie sur des faits et des écrits-mêmes de Mishima qu'il serait navrant de vouloir oblitérer, au titre fallacieux d'une compréhension plus aisée d'un auteur ultra-nationaliste et impérialiste en rup­ture de ban. En un dernier aveu au monde qu'il allait définitivement quitter, il laissait sur son bureau, accompagnant la dernière partie manuscrite de sa tetralogie La Mer de la Fertilité, ce billet, disant «La vie est brève, mais je voudrais vivre toujours». Espoir d'éternité concrétisé certes par sa postérite littéraire, que confirme la récente sortie dans la prestigieuse collection NRF-Gallimard du Pélerinage aux Trois Montagnes, mais qui, s'il n'avait été qu'un «quelconque» écrivain de talent, lui aurait au contraire évité sa mort volontaire et prématurée. Son acte, s'il reste nimbé de mystère, doit sa raison d'être à une toute autre inspiration, divine ou classique, indubitablement tragique, nourrie de références européennes, classiques grecs, littérature du «Grand Siècle» et bréviaires sils-mariens, juste retour des choses pour un Nietzsche volontiers «schopenhaueriennement» vulgarisateur du bouddhisme. Mishima, le plus occidental des écrivains asiatiques, tellement opposé au précepte Zen «Aller droit de­vant soi, sans se retourner et sans se poser aucune question».

 

*

«L'homme qui sait mourir ne sera jamais esclave» prêchait déjà Sénèque, conseiller de l'Empereur Néron et maître de la Rome stoïcienne, pour qui la vie, ascèse virile et souverai­neté aristocratique sur ses pulsions tendues vers la LIBERTE absolue de l'Etre, trouvait sa conclusion la plus pure et olympienne dans son propre abandon volontaire. Mais se sacrifier sous le coup de la passion, preuve de son inaptitude à s'affirmer contre le monde, ne saurait mériter que mépris et déshonneur. Or, c'est bien dans ce sens qu'abonde Henry Scott-Stokes quand il affirme péremptoirement que le suicide de Mishima ne fut jamais que shinju, double suicide amoureux en compagnie de son prétendu amant et second au sein de la Tatenokai;  Morita Masakatsu, connotant l'acte d'une homosexualité sado-masochiste honteuse qui ne résiste pas devant l'examen des faits. Quand meurt Mishima, il y a long­temps qu'il s'est défait de ses oripeaux romantiques. Son passage à la Bungei Bunka, asso­ciation militariste de littérateurs nationalistes et son appartenance au mouvement Nippon Roman-Ha («les Romantiques japonais») regroupés derrière la figure du romancier Yasuda Yajura remonte aux dernières années du second conflit mondial.

 

Glorifiant la «guerre sainte» et prônant la valeur salvatrice du sacrifice et de l'autodestruction du peuple japonais guidé par l'infaillabilité de son Empereur-thaumaturge, seul aux yeux de ce cercle avait droit de cité l'exploit intrinsèque, la défaite et la mort, inéluctables, magnifiant comble du romantique la plus belle des victoires, d'ores et déjà acquise par le seul fait que le Japon, peuple à la supériorité divine, ait osé lever le sabre sur l'Asie et s'aliéner la haine de l'Occident. Profondément influencé en ses jeunes années par l'école néo-confucéenne Wang-Yang-Ming  du Dr Inoue Tetsujuio («La mort du corps n'est rien face à la mort de l'esprit»), Mishima confiera bien plus tard, dans Le Soleil et l'Acier  (1968), son progressif changement d'orientation: «L'élan romantique, à partir de l'adolescence, avait toujours été en moi une veine cachée, n'ayant de signification qu'en tant que destruction de la perfection classique (...) En l'espèce, je chérissais un élan romantique vers la mort, tout en exigeant en même temps comme véhicule un corps strictement classique (...). Me manquaient, en bref, les muscles qui convenaient à une mort tragique».

 

Le grand bouleversement de sa vie a lieu en 1952, lorsque Mishima, alors tout jeune ro­mancier mondialement célébré pour Confession d'un Masque  (1949) met le pied en Grèce. Lecteur assidu d'Homère, Eschyle et Sophocle, des classiques grecs et du «Grand Siècle», cas rarissime dans le Japon post-1945, il «tombe amoureux des mers bleues et des ciels vifs de cette terre classique» et echafaude une théorie pour sublimer son Voyage à Sparte:  dans les temps anciens, la spiritualité («cette excroissance grotesque du christia­nisme»), inexistante, était palliée par un équilibre précaire entre le corps et l'esprit nécessitant un effort constant pour le préserver, que les Grecs sublimèrent dans la beauté et la tragédie, punition infligée aux hommes par les dieux pour leur arrogance. «Mon interprétation était peut-être fausse, mais telle était la Grèce dont j'avais besoin». Aristote ne disait-il pas qu'un «beau pied est l'indice d'une belle âme»?

 

A travers cette nouvelle grille de lecture éthique, le jeune et chétif écrivain désapprend la soli­tude, la haine de soi et découvre la beauté du corps travaillé, sculpté par l'exercice. A son re­tour au Japon, dégoûté du romantisme, «caractéristique typiquement bourgeoise (...) fa­daises poétiques, héroïsmes mélodramatiques, pathétiques complications d'amour» (dixit Julius Evola), il décide que l'heure est venue pour lui désormais d'écrire des «œuvres clas­siques», et, en corollaire, autre lecon rapportée de l'Hellade, de s'adonner au culturisme. «Le bon endroit, c'est le corps, l'apparence physique, le régime, la physiologie -et le reste  suit de lui-même (...) c'est pourquoi les Grecs constituent toujours le premier évènement capital de la culture de l'humanité. Ils savaient -et ils faisaient-, ce qu'il fallait». (Nietzsche in Crépuscule des Idoles).

 

La mort, qui jusque là n'était que trouble nihilisme destructeur, et attrait morbide pour la souf­france («Le penchant de mon cœur vers la mort, la nuit et le sang était indéniable» notera-t-il à l'occasion de la publication de Confession pour un Masque)  se voit rehaussé au rang d'idéal, de suprême geste de domination, de puissance et de liberté. Patet Exitus:  «Lorsque vous ne voulez plus combattre, il vous est toujours possible de vous retirer. Rien ne vous est plus facile que de mourir» (Sénèque). Chacune des œuvres qui paveront le panthéon de sa gloire littéraire sera dorénavant un pas supplémentaire dans son approche définitive du néant.

 

En 1951 puis 1953 paraissent deux versions de Couleurs Interdites, évocation de la société homosexuelle de Tokyo et des relations tumultueuses qui unissent le vieil écrivain Shinsuke et le bel éphèbe ingrat Yuichi, conclue par la mort par injection de drogue du vieillard, au terme d'un sermon inutile. Saisissante préfiguration de ce qui allait attendre Mishima... Cette même année 1953 sort La Mort en été, roman qui conte l'histoire d'une femme déses­pérée après la noyade accidentelle de ses deux enfants. Se profile à nouveau l'étude d'une âme en proie au chaos existentiel, qui lutte pour sa dignité dans le dépassement de ses sen­timents. Définissant sa perception de la tragédie classique, Mishima écrit, toujours dans Le Soleil et l'Acier:  «Selon ma définition de la tragédie, le pathos  tragique naît lorsqu'une sen­sibilité parfaitement moyenne assume pour un temps une noblesse privilégiée qui tient les autres à distance, et non pas quand un type particulier de sensibilité émet des prétentions particulières (...). Pour que, parfois, un individu touche au divin, il faut dans des conditions normales, qu'il ne soit lui-même ni divin ni rien qui en approche. C'est seulement lorsque, à mon tour, je vis le ciel bleu, étrange et divin, uniquement perçu par ce type d'individu, qu'enfin j'eus confiance en l'universalité de ma propre sensibilité, que je pus étancher ma soif et que fut dissipée ma foi aveugle et maladive dans les mots. A cet instant, je participai à la tra­gédie de tout être».

 

La parution du Pavillon d'Or en 1956, qui confère définitivement à Mishima le rang d'écrivain à la renommée mondiale, entérine son rejet viscéral de la laideur physique et mentale, son mépris pour ce qu'incarne ici le personnage de Kashiwagi, être vil dont les pieds bots ne sont qu'extériorisation corporelle de sa bassesse intérieure, dans la formule toute kantienne «le beau est le symbole du bien moral»: «Il avait pour marque particulière deux pieds aussi bots que pieds peuvent l'être et une démarche extrêmement étudiée. Il avait toujours l'air de mar­cher dans la boue: lorsqu'une jambe parvenait, non sans peine, à s'extraire, l'autre au con­traire paraissait s'engluer. En même temps, tout son corps s'agitait avec véhémence; sa dé­marche était une espèce de danse extraordinaire, aussi peu banale que possible». Autre ap­proche de la mort avec Le Marin Rejeté par la Mer (1963), qui voit une bande d'adolescents nihilistes combattant leur sensibilité s'essayer à l'exercice macabre de la mise à mort de Ryuji, l'officier de marine marchande, amant de la mère de Noboru, membre du groupe, par l'ignoble sacrifice longuement détaillé par l'auteur d'un innocent chaton abandonné.

 

A cette époque Mishima a déjà pris conscience, au cours des évènements de 1960, de son intérêt pour la politique. Les émeutes qui émaillèrent le renouvellement de l'ANPO (traité de sécurité américano-japonais), humiliante charte imposée par Mac Arthur en 1945, agirent sur Mishima comme le révélateur d'un engagement à venir. C'est alors qu'il découvre la richesse de la tradition militariste nippone. A l'automne 1960, il termine la nouvelle Yûkoku (Patriotisme, aujourd'hui insérée dans le volume La Mort en été) qui traite à travers l'histoire d'un jeune officier, le lieutenant Takeyama Shinji, de l'affaire Ni Ni Roku, putsch entrepris le 26 février 1936 par la société secrète impérialiste Kodo-Ha. Tiraillé entre sa fidélité pour l'Empereur et celle pour la Kodo-Ha, Takeyama préfère se suicider en compagnie de son amie Reiko, shinju  fort idéalisé et accompagné d'un véritable luxe de détails: «Il est difficile d'imaginer spectacle plus héroïque que le sursaut du lieutenant qui brusquement rassembla ses forces et releva la tête (...). Il y avait du sang partout. Le lieutenant baignait jusqu'aux ge­noux et demeurait écrasé et sans force, une main sur le sol. Une odeur âcre emplissait la pièce. Le lieutenant, tête ballante, hoquetait sans fin et chaque hoquet ébranlait ses épaules. Il tenait toujours dans sa main droite la lame de son sabre, que repoussaient les intestins et dont on voyait la pointe».

 

A deux reprises, Mishima reprend ce thème, dans la pièce Toka no Kiku puis dans l'essai Eirei No Koe (La Voix des Morts héroïques, parue en 1966). De Patriotisme,  il dira: «Ce n'est ni une comédie, ni une tragédie, mais simplement l'histoire d'un bonheur... Le douloureux suicide du soldat équivaut à une mort honorable sur le champ de bataille». De cette nouvelle devait être tiré un film éponyme en 1965, où Takeyama sera joué par... Mishima lui-même. On se souvient de la honte qui l'étouffa sa vie durant d'avoir triché au conseil de révision en 1945, alors que le Japon mobilisait ses dernières forces pour repousser l'hydre américaine. Dix ans après ce film, Mishima se rejouait la même scène, sans caméra cette fois.

 

Mais si Mishima manifeste un réel intérêt pour la politique, il reste un parfait apoliteia, seule­ment préoccupé par la figure de l'Empereur, à qui il reproche d'avoir trahi et sa charge divine et son peuple, sacrifié en son nom propre pendant huit ans de guerre. «Pourquoi fallait-il qu'il devienne un être humain...», écrira-t-il. La lecture de son roman Après le Banquet (1960) prouve quant à elle le profond mépris que ressentait Mishima pour la classe politique en gé­néral et le rôle prégnant qu'y tient l'argent. Le ridicule dont il affuble des personnages à l'identité réelle à peine voilée que manipule allègrement une sombre prostituée ne manqua pas de lui causer des déboires avec les milieux politiciens et certains groupes extrémistes.

 

Il s'initie aux règles du Bushido  ainsi qu'aux arts martiaux (Kendo et Karaté), réédite le premier en 1967 le bréviaire du Samurai condamné par l'occupant en 1945, le Hagakuré, du guerrier Yamamoto Jocho (XVIIIième siècle), qu'il adapte aux conditions du XXième siècle et sous-titre Le Japon Moderne et l'Ethique Samourai:  il en retient particulièrement quelques idées-clés, la soumission à son destin et à la mort, au relent fortement teinté de stoïcisme: «La mort recèle toujours un combat obscur entre la liberté de l'homme et un destin qui le dépasse». En introduction, il note: «Un homme d'action est destiné à subir une longue période de tension et de concentration jusqu'au dernier instant où il achève sa vie par son acte final: la mort —soit par causes naturelles, soit par seppuku»  Si la mort l'obsède depuis son enfance, sa propre mort lui devient dès à présent prépondérante. «Aux abords de la quarantaine, l'âge com­mence à tracasser Mishima» remarque Scott-Stokes dans sa biographie. Toujours en ex­cellente condition physique, ses muscles se font maintenant moins proéminents, ses con­tractions moins impressionnantes. Comment un homme si pétri d'esthétique classique pour­rait s'en contenter, lui qui écrivait, toujours dans Le Soleil et l'Acier, qu'à un muscle dur cor­respond la force de caractère et «la sentimentalité à un ventre flasque».

 

Impossible d'accepter l'inéluctable décrépitude de l'âge, lui qui sait que la grande idée de l'art classique se trouve dans la commémoration dans le marbre de l'instant parfait où s'affirme la beauté ultime, l'extrême moment qui précède le déclin et derrière lui, la mort. C'est désormais à elle qu'il consacrera ses dernières années. Dans l'ouvrage Shobu No Kokoro (L'Ame des Guerriers), reprise d'un dialogue avec Murakami Ichiro, paru après son décès, il confie: «On doit assurer la responsabilité de ses paroles, une fois qu'on les a prononcées. Il en va de même du mot écrit. Si l'on écrit: Je mourrai en novembre, alors on doit mourir. Si l'on fait une fois bon marché des mots, on continuera de le faire». Sa tétralogie achevée, La Mer de la Fertilité, certainement le sommet de son écriture, et interrogation sur la réincar­nation où s'exprime un bouddhisme plus universitaire que mystique, Mishima Yukio pourra se considérer enfin au bord de la falaise et rejoindre le héros qu'il vénère le plus, lui-même. «Le suicide est quelque chose qui s'organise dans le silence du cœur, comme une œuvre d'art» disait Albert Camus. Alors que persomne ne voulait voir en Mishima la réunion de la plume et de l'épée, il décidait de mourir fièrement, puisqu'il ne lui était plus permis de vivre avec fierté.

 

Dans son excellente biographie, Mishima ou la vision du vide, Marguerite Yourcenar de­vait écrire: «Il y a deux sortes d'êtres humains: ceux qui écartent la mort de leur pensée pour mieux et plus librement vivre, et ceux qui, au contraire, se sentent d'autant plus sagement et fortement exister qu'ils la guettent dans chacun des signaux qu'elle leur fait à travers les sen­sations de leur corps ou les hasards du monde extérieur. Ces deux sortes d'esprit ne s'amalgament pas. Ce que les uns appellent une manie morbide est pour les autres une hé­roïque discipline». Mishima aura vécu en artiste tragique, acceptant posément de se retirer en «joyeux pessimiste». Dyonisien aurait sans doute conclu Nietzsche.

 

*

Quand du haut du balcon du GQG des Jieitaï, ce 25 novembre fatidique de 1970, Mishima, revêtu de son uniforme moutarde, le front masqué par son hachi-maki, le poing tendu vers la foule qui le conspue, s'écrie «Au nom du passé, à bas l'avenir!», c'est d'abord et surtout à lui-même qu'il s'adresse, lui, subtile réunion d'irrationalisme nippon et d'universalisme européen, ayant décidé d'en finir avec une vie qui ne peut plus répondre à son idéal de beauté phy­sique, de grandeur virile, de pureté olympienne. Sa résolution est prise, recouvrer sa liberté dans l'extase finale de la mortification purificatrice, à l'image de ce Saint Sébastien agonisant peint par Gueno Reni qu'il ne cessera jamais de révérer dans son martyre, allant jusqu'à l'imiter pour le photographe Shinoyama Kishi. Deux mois avant son seppuku, il posait en­core pour un recueil de photos jamais publié et intitulé Otoko no Shi (La Mort d'un Homme). Sur certaines on le voit couvert de sang, sur d'autres mimant son seppuku. «Qu'est-ce que l'éternité», s'interrogeait Pierre Drieu la Rochelle. «Une minute excessivement in­tense». De son amour pour Saint Sébastien devait découler sa passion pour Gabriele d'Annunzio, dont il traduisit Le Martyre de Saint Sébastien et comme lui s'écriant: «J'ai tout risqué, j'ai tout donne, j'ai vaincu», il put lancer fièrement à la face de ce monde vieillot et as­soupi, dernier acte d'insoumission à la fatalité, cet épitaphe: «La mort violente est l'ultime beauté, toujours, et surtout quand on est jeune».

 

Laurent SCHANG,

le 27 juin 1997.

 

jeudi, 12 mars 2009

Golfe: la Pax Americana contre l'Europe et le Japon

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ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Golfe: la pax americana contre l'Europe et le Japon

Entretien avec Stefano Chiarini

 

Stefano Chiarini, envoyé spécial au Moyen-Orient du journal Il Manifesto, est aussi le directeur des Editions Gamberetti qui, depuis trois ans, se sont spécialisées dans les thématiques de politique interna­tionale, en s'intéressant plus particulièrement à la problématique Nord/Sud, à la question palestinienne et aux minorités ethniques en Europe. Parmi les titres les plus significatifs parus dans leurs collections “Orienti” et “Equatori”, signalons "Amicizie pericolose" d'Andrew et Leslie Cockburn, sur les rapports entre la CIA et le Mossad, "Anno 501, la conquista continua" de Noam Chomsky et l'anthologie de récits "Strade di Belfast", dû à la plume du leader du Sinn Fein, Gerry Adams.

 

Q.: Quand sont nées les Editions Gamberetti?

 

SC: En gros, après la Guerre du Golfe. J'y avais été envoyé spécial. Revenu en Italie, j'ai participé à de nombreux débats sur la question et je me suis aperçu combien la réalité des faits avait été manipulée. Les mass media, le télévision en tête, mais aussi les quotidiens et les revues, nous ont donné une image complètement distordue de ce conflit. Nous avons donc voulu répondre à une exigence intellectuelle: ap­profondir le sujet et fournir une documentation adéquate sur ces événements en particulier et, de façon plus générale, sur tout ce qui se passe sur la scène moyen-orientale.

 

Q.: Que s'est-il passé réellement à Bagdad en 1991?

 

SC: On a surtout pu constater les premiers effets de la disparition de l'URSS. Quand l'Union Soviétique était là, et qu'elle était forte, les Américains n'auraient jamais osé entreprendre ce qu'ils ont entrepris. Autre aspect à prendre en considération: la guerre du Golfe a davantage été une guerre contre l'Europe et le Japon que contre l'Irak; cette guerre a été menée par l'Amérique pour qu'elle puisse contrôler directe­ment les sources d'approvisionnement énergétique. Les Etats-Unis n'ont plus agi par l'intermédiaire d'Israël. Leur rôle dans la région où se trouvent les principales sources de pétrole de la planète est apparu en pleine lumière. Depuis lors leur mainmise sur la région est allée en s'accélérant. Enfin, pour imposer la pax americana entre Israël et les Palestiniens, les Etats-Unis devaient nécessairement “redimensionner” l'unique pays encore en mesure de leur provoquer des problèmes dans la région, c'est-à-dire l'Irak, riche en pétrole, disposant d'une armée capable d'intimider ses adversaires potentiels, présentant une cohé­rence interne assez satsifaisante. Le pétrole doit donc rester aux mains des émirats et des cheiks, de tous les pays possédant des régimes de ce type, forts sur le plan économique mais faibles sur le plan mili­taire. L'Irak était l'unique pays arabe qui avait et de l'eau et du pétrole, une population assez nombreuse, un bon niveau technologique et une armée relativement solide. En puissance, c'était le pays le plus indé­pendant et le moins facile à faire chanter de toute la zone.

 

Q.: Et l'Iran?

 

SC: Je ne me réfère qu'aux seuls pays arabes. L'Iran avait été détruit préalablement par l'Irak, manifes­tement sur ordre des Américains eux-mêmes. Dont la duplicité comportementale est désormais évidente. La diplomatie américaine est prête dorénavant à détruire ou à aider les intégrismes au gré de ses conve­nances. N'oublions pas que l'Arabie Saoudite est nettement plus intégriste que l'Iran, tout en entretenant des rapports optimaux avec les Etats-Unis, au point d'être son meilleur allié dans la région.

 

Q.: Il me semble que les éditions Gamberetti ont évité jusqu'ici d'aborder le problème “islamique”, et se sont concentrées exclusivement sur les pays et les mouvements “laïques”...

 

SC: Nous nous sommes préoccupés par exemple de la question palestinienne qui est en quelque sorte la clef de voûte de la région. D'après moi, le problème n'est pas tant celui de l'intégrisme, car, comme on le voit, les Etats-Unis tentent de se rapprocher de l'Arabie Saoudite, mais bien plutôt celui de la distribution des ressources. Le thème des mouvements islamiques est certes un thème fort important, mais ne cons­titue nullement le nœud gordien du Moyen-Orient. Le nœud du problème est celui de l'accès aux plus im­portantes sources énergétiques de la planète et de la distribution des ressources. Les Etats-Unis sont tout prêts à s'allier avec ceux, intégristes ou laïcs, qui leur consentiront l'accès et le contrôle du pétrole; et sont prêts à annihiler militairement et politiquement ceux qui tenteraient de leur barrer la route.

 

(propos recueillis par Pietro Negri, pour le magazine romain Pagine Libere, n°2/1995).

vendredi, 20 février 2009

El viento divino o la muerte voluntaria

 

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EL VIENTO DIVINO O LA MUERTE VOLUNTARIA

ISIDRO JUAN PALACIOS

Nuestra sombría discusión fue interrumpida por la llegada de un automóvil negro que venía por la carretera, rodeado de las primeras sombras del crepúsculo".

Rikihei Inoguchi, oficial del estado mayor y asesor del grupo Aéreo 201 japonés, charlaba con el comandante Tamai sobre el giro adverso que había tomado la guerra. Aquel día, 19 de octubre de 1944, había brillado el Sol en Malacabat, un pequeño pueblo de la isla de Luzón, en unas Filipinas todavía ocupadas por los ejércitos de Su Majestad Imperial, Hiro-Hito. "Pronto -recuerda Inoguchi- reconocimos en el interior del coche al almirante Takijiro Ohnishi..." Era el nuevo comandante de la fuerzas aeronavales japonesas en aquel archipiélago. "He venido aquí -dijo Ohnishi- para discutir con ustedes algo de suma importancia. ¿Podemos ir al Cuartel General?"

El almirante, antes de comenzar a hablar, miró en silencio al rostro de los seis oficiales que se habían sentado alrededor de la mesa. "Como ustedes saben, la situación de la guerra es muy grave. La aparición de la escuadra americana en el Golfo de Leyte ha sido confirmada (...) Para frenarla -continuó Ohnishi- debemos alcanzar a los portaviones enemigos y mantenerlos neutralizados durante al menos una semana". Sin una mueca, sentados con la espalda recta, los militares de las fuerzas combinandas seguían el curso de las palabras del almirante. Y entones vino la sorpresa.

"En mi opinión, sólo hay una manera de asegurar la máxima eficiencia de nuestras escasas fuerzas: organizar unidades de ataque suicidas compuestas por cazas Zero armados con bombas de 250 kilogramos. Cada avión tendría que lanzarse en picado contra un portaviones enemigo... Espero su opinión al respecto".

Tamai tuvo que tomar la decisión. Fue así como el Grupo Aéreo 201 de las Filipinas se puso al frente de todo un contingente de pilotos que enseguida le seguirían, extendiéndose el gesto de Manila a las Marianas, de Borneo a Formosa, de Okinawa al resto de las islas del Imperio del Sol Naciente, el Dai Nippon, sin detenerse hasta el día de la rendición.

Tras celebrar una reunión con todos los jefes de escuadrilla, Tamai habló al resto de los hombres del Grupo Aéreo 201; veintitrés brazos jóvenes, adolescentes, "se alzaron al unísono anunciando un total acuerdo en un frenesí de emoción y de alegría". Eran los primeros de la muerte voluntaria. Pero, ¿quién les mandaría e iría con ellos a la cabeza, por el cielo, y caer sobre los objetivos en el mar? El teniente Yukio Seki, el más destacado, se ofreció al comandante Tamai para reclamar el honor. Aquel grupo inicial se dividiría en cuatro secciones bautizadas con nombres evocadores: "Shikishima" (apelación poética del Japón), "Yamato" (antigua designación del país), "Asahi" (Sol naciente) y "Yamazukura" (cerezo en flor de las montañas).

Configurado de este modo el Cuerpo de Ataque Especial, sólo restaba buscarle una identidad también muy especial, como indicó oportunamente Inoguchi; y fue así como se bautizó a la "Unidad Shimpu". Shimpu, una palabra repleta de la filosofía del Zen. En realidad no tiene ningún sentido, es una mera onomatopeya, pero es otra de las formas de leer los ideogramas que forman la palabra KAMIKAZE, "Viento de los Dioses".

"Está bien -asintió Tamai-. Después de todo, tenemos que poner en acción un Kamikaze". El comandante Tamai dio el nombre a las unidades suicidas japonesas, llamando a sus componentes los "pilotos del Viento Divino".

La escuadrilla Shikishima, al frente de la cual se hallaba el teniente Seki, salió, para ya no regresar, el 25 de octubre de 1944, desde Malacabat, a las siete y veinticinco de la mañana. Sobre las once del día, los cinco aparatos destinados divisaron al enemigo en las aguas de las Filipinas. El primero en entrar en picado y romperse súbitamente, como un cristal, fue el teniente Seki, seguido de otro kamikaze a corta distancia, hundiendo el portaviones "St.Lo", de la armada norteamericana. Ante los ojos incrédulos de los yanquis, los restantes tres pilotos se lanzaron a toda velocidad en su último vuelo, a 325 kilómetros por hora en un ángulo de 65 grados, hundiendo el portaviones "Kalinin Bay" y dejando fuera de combate los destructores "Kitkun" y "White Plains". Siguiendo su ejemplo, la unidad Yamato emprendió vuelo un día después, el 26 de octubre, al encuentro certero con la muerte, después de brindar con sake y entonar una canción guerrera por aquel entonces muy popular entre los soldados:

"Si voy al mar, volveré cadáver sobre las olas.

Si mi deber me llama a las montañas,

la hierba verde será mi mortaja .

Por mi emperador no quiero morir en la paz del hogar".

Tras el primer asombro, un soplo gélido de terror sacudió las almas del enemigo, los soldados de la Tierra del Dólar.

Lo asombroso del Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial no fue su novedad, ni siquiera durante la Segunda Guerra Mundial. Fue su especial espíritu y sus numerosísimos voluntarios lo que les distinguió de otras actitudes heroicas semejantes, de igual o superior valor. La invocación del nombre del Kamikaze despertaba en los japoneses la vieja alma del Shinto, los milenarios mitos inmortales anclados en la suprahistoria, y recordaba que cada hombre podía convertirse en un "Kami", un dios viviente, por la asunción enérgica de la muerte voluntaria como sacrificio, y alcanzar así la "vida que es más que la vida".

De hecho, la táctica del bombardeo suicida ("tai-atari") ya había sido utilizada por las escuadrillas navales en sus combates de impacto aéreo contra los grandes bombarderos norteamericanos. Pero aisladamente. Asímismo, otros casos singulares de enorme heroísmo encarando una muerte segura tuvieron lugar durante esa guerra. Yukio Mishima, en sus "Lecciones espirituales para los jóvenes samurai", nos narra una anécdota entre un millón que, por su particular belleza, merece ser aquí recordada. Y dice de este modo: "Se ha contado que durante la guerra uno de nuestros submarinos emergió frente a la costa australiana y se arrojó contra una nave enemiga desafiando el fuego de sus cañones. Mientras la Luna brillaba en la noche serena, se abrió la escotilla y apareció un oficial blandiendo su espada catana y que murió acribillado a balazos mientras se enfrentaba de este modo al poderoso enemigo".

Más lejos y mucho antes, también entre nosotros, tan acostumbrados a la tragedia de antaño, de siempre, en la España medieval, se produjo un caso parecido a este del Kamikaze, salvando, claro está, las distancias. Con los musulmanes dominando el sur de la Península, surgieron entre los cristianos mozárabes, sometidos al poder del Islam, unos que comenzaron a llamarse a sí mismos los "Iactatio Martirii", los "lanzados", los "arrojados al martirio", es decir, a la muerte. Los guiaba e inspiraba el santo Eulogio de Córdoba, y actuaron durante ocho años bajo el mandato de los califas, entre el año 851 y el 859. Su modo de proceder era el siguiente: penetraban en la mezquita de manera insolente, siempre de uno en uno, y entonces, a sabiendas de que con ello se granjeaban una muerte sin paliativos, abominaban del Islam e insultaban a Mahoma. No tardaban en morir por degollamiento. Hubo por este camino cuarenta y nueve muertes voluntarias. El sello lo puso Eulogio con la suya propia el último año.

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Tampoco se encuentra exenta la Naturaleza de brindarnos algún que otro ejemplo claro de lo que es un kamikaze. De ello, el símbolo concluyente es el de la abeja, ese insecto solar y regio que vive en y por las flores, las únicas que saben caer gloriosas y radiantes, jóvenes, en el esplendor de su belleza, apenas han comenzado a vivir por primavera. Igual que la abeja, que liba el néctar más dulce y está siempre dispuesta para morir, así actúa también el kamikaze, cayendo en a una muerte segura frente al intruso que pretende hollar las tierras del Dai Nippon. El marco tiene todos los ingredientes para encarnar el misterio litúrgico o el acto del sacrificio, del oficio sacro.

En "El pabellón de oro", Yukio Mishima describe una misión simbólica. Una abeja vela en torno a la rueda amarilla de un crisantemo de verano (el crisantemo, la flor simbólica del Imperio Japonés); en un determinado instante -escribe Mishima- "la abeja se arrojó a lo más profundo del corazón de la flor y se embadurnó de su polen, ahogándose en la embriaguez, y el crisantemo, que en su seno había acogido al insecto, se transformó, asimismo, en una abeja amarilla de suntuosa armadura, en la que pude contemplar frenéticos sobresaltos, como si ella intentase echarse a volar, lejos de su tallo". ¿Hay una imagen más perfecta para adivinar la creencia shintoísta de la transformación del guerrero, del artesano, del príncipe, del que se ofrenda en el seno del Emperador, a su vez fortalecido por el sacrificio de sus servidores? Desde hace más de dos mil seiscientos años, el Trono del Crisantemo (una línea jamás ininterrumpida) es de naturaleza divina: ellos son descendientes directos de la diosa del Sol, Amaterasu-omi-Kami; los "Tennos", los emperadores japoneses, son las primeras manifestaciones vivientes de los dioses invisibles creadores, en los orígenes, de las islas del Japón. No son los representantes de Dios, son dioses... por ello, Mishima, en su obra "Caballos desbocados", define así, con absoluta fidelidad a la moral shintoísta, el principio de la lealtad a la Vía Imperial (el "Kodo"): "Lealtad es abandono brusco de la vida en un acto de reverencia ante la Voluntad Imperial. Es el precipitarse en pleno núcleo de la Voluntad Imperial".

Corría el siglo XIII, segunda mitad. El budismo no había conseguido todavía apaciguar a los mongoles, cosa de lo que más tarde se ha ufanado. Kublai-Khan, el nieto de Temujin, conocido entre los suyos como Gengis-Khan, acababa de sumar el reino de Corea al Imperio del Medio. Sus planes incluían el Japón como próxima conquista. Por dos veces, una en 1274 y otra en 1281, Kublai-Khan intentó llegar a las tierras del Dai Nippon con poderosos navíos y extraordinarios efectos psíquicos y materiales; y por dos veces fue rechazado por fuerzas misteriosas sobrehumanas. Primero, una tempestad y después un tifón desencadenados por los kami deshicieron los planes del Emperador de los mongoles. Ningún japonés olvidaría en adelante aquel portentoso milagro, que fue recordado en la memoria colectiva con su propio nombre: "Kamikaze", viento de los kami, Viento Divino.

El descubrimiento del país de Yamato, al que Cristobal Colón llamaba Cipango, y que fue conocido así también por los portugueses y después por los jesuitas españoles, por los holandeses e ingleses que les siguieron en el siglo XVI, no fue del todo mal recibido por los shogunes del Japón. Sin embargo, un poco antes de mediados de la siguiente centuria, el shogunado de Tokugawa Ieyashu había empezado a desconfiar de los "bárbaros" occidentales, por lo que decide la expulsión de los extranjeros, impide las nuevas entradas y prohibe la salida de las islas a todos los súbditos del Japón. En 1647 se promulga el "Decreto de Reclusión", por el cual el Dai Nippon se convertiría de nuevo en un mundo interiorizado, en un país anacoreta. Japón se cerró al comercio exterior y a las influencias ideológicas de Occidente, ya tocado irreversiblemente por el espíritu de la modernidad. De esta forma es como se vivió en aquellas tierras hasta bien entrado el siglo XIX, de espaldas a los llamados "progresos". Japón ignorará también el nacimiento de una nueva nación que para su desgracia no tardará en ser, con el tiempo, la expresión más cabal de su destino fatídico, como le sucedería igualmente a otros pueblos de formación tradicional. La nueva nación se autodenominará "América", pretendiendo asumir para sí el destino de todo un continente. Intolerable le resultará al Congreso y al presidente Filemore la existencia de un pueblo insolente, fiel a sí mismo, obstinado en seguir cerrado por propia voluntad al comercio y a las "buenas relaciones". Japón debía ser abierto, y, si fuera preciso, a fuerza de cañonazos. Todo muy democráticamente. Todavía hoy, en el Japón moderno y americanizado, los barcos negros del almirante Perry son de infausta memoria.

Los estruendos de la pólvora y el hierro hicieron despertar bruscamente a muchos japoneses, para quienes la presencia norteamericana indicaba con claridad que la Tierra del Sol Naciente había descendido a los mismos niveles que las naciones decadentes, de los que antes estuvieron preservados. Muchos pensaron que la causa de tal desgracia le venía al Dai Nippon por haberse olvidado de los descendientes de Amaterasu, del Emperador, recluido desde hacía centurias en su palacio de Kioto. Por ello se alzó enseguida una revuelta a los gritos de "¡Joy, joy!" (¡fuera, fuera!, referido a los extranjeros) y de "¡Sonno Tenno!" (¡venerad al Emperador!). La restauración Meiji de 1868 se apuntaló bajo el lema del "fukko", el retorno al pasado. Pero la tierra de Yamato tuvo que aceptar por la fuerza la nueva situación y ponerse a rivalizar con el mundo moderno, pero sin perder de vista su espíritu invisible, al que siguió siendo fiel. Cuando Yukio Mishima escribe sobre esa época, piensa lo que otros también pensaron como él. Y, así, anota: "Si los hombres fuesen puros, reverenciarían al Emperador por encima de todo. El Viento Divino (el Kamikaze) se levantaría de inmediato, como ocurrió durante la invasión mongola, y los bárbaros serían expulsados".

Año de 1944. Mes de octubre. El Japón se encuentra en guerra frente a las potencias anglonorteamericanas. La escuadra yanqui está cercando las islas Filipinas, y en sus aguas orientales se aproxima, golpe tras golpe, hacia el mismo corazón del Imperio... El almirante Onhisi concibe la idea de lanzar a los pilotos kamikaze...

El mismo día en que el Emperador Hiro-Hito decide anunciar la rendición incondicional de las armas japonesas y se lo comunica al pueblo entero por radio (¡era la primera vez que un Tenno hablaba directamente!), el comandante supremo de la flota, vicealmirante Matome Ugaki, había ordenado preparar los aviones bombarderos de Oita con el fin de lanzarse en vuelo kamikaze sobre el enemigo anclado en Okinawa. Era el 15 de agosto de 1945. En su último informe, incluyó sus reflexiones finales...: "Sólo yo, Majestad, soy responsable de nuestro fracaso en defender la Patria y destruir al ensoberbecido enemigo. He decidido lanzarme en ataque sobre Okinawa, donde mis valerosos muchachos han caído como cerezos en flor. Allí embestiré y destruiré al engreído enemigo. Soy un bushi, mi alma es el reflejo del Bushido. Me lanzaré portando el kamikaze con firme convicción y fe en la eternidad del Japón Imperial. ¡Banzai!". Veintidós aviadores voluntarios salieron con él, sólo por seguirle en el ejemplo de su última ofrenda. No estaban obligados. La guerra había concluido. Pero... no obstante, tampoco podían desobedecer las órdenes del Emperador, que mandaba no golpear más al adversario. Se estrellaron en las mismas narices de los norteamericanos, que contemplaron atónitos un espectáculo que no podían comprender... Ugaki hablaba del Bushido -el código de honor de los guerreros japoneses-. ¿Acaso no es el kamikaze, por esencia y por sentencia, un samurai?

En los botones de sus uniformes, los aviadores suicidas llevaban impresas flores de cerezo de tres pétalos, conforme al sentido del viejo haiku (poema japonés de dieciséis sílabas) del poeta Karumatu:

"La flor por excelencia es la del cerezo,

el hombre perfecto es el caballero"

El cerezo es una flor simbólica en las tierras japonesas, nace antes que ninguna otra, antes de iniciarse la primavera, para, en la plenitud de su gloria, caer radiante; es la flor de más corta juventud, que muere en el frescor de su belleza. Siempre fue el distintivo de los samurai.

Al encenderse los motores, los pilotos kamikaze se ajustaban el "hashimaki", la banda de tela blanca que rodea la cabeza con el disco rojo del Sol Naciente impreso junto a algunas palabras caligrafiadas con pincel y tinta negra, al modo como antaño lo usaron los samurai antes de entrar en batalla, al modo como cayeron los últimos guerreros japoneses del siglo XIX con sus espadas catana siguiendo al caudillo Saigo Takamori frente a los "marines" del almirante Perry. En la mente fresca y clara, iluminada por el Sol, no había sitio para las turbulencias. Sobre todos, unos ideogramas se repetían hasta la saciedad: "Shichisei Hokoku" ("Siete vidas quisiera tener para darlas a la Patria"). Eran los mismos ideogramas que por primera vez puso sobre su frente Masashige Kusonoki cuando se lanzó a morir a caballo, en un combate sin esperanzas, allá por el siglo XIV; los mismos ideogramas que se colocó alrededor de la cabeza Yukio Mishima en el día de su muerte ritual.

Yukio Mishima, obsesionado por la muerte ya desde su niñez y adolescencia, estuvo a punto de ser enrolado en el Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial. Se deleitaba pensando románticamente que si un día se le diera la oportunidad se ser un soldado, pronto tendría una ocasión segura para morir. Sin embargo, cuando fue llamado a filas y se vio libre de ser incorporado al tomársele erróneamente por un enfermo de tuberculosis, el mejor escritor japonés de los tiempos modernos no hizo nada por deshacer el engaño del oficial médico, saliendo a la carrera de la oficina de reclutamiento. Aquello, pese a todo, le pareció a Mishima un acto de infamante cobardía, como lo confesará más tarde en repetidas ocasiones. El desprecio de su propia actitud fue uno de los factores de menor importancia en el día de su "seppuku" (el "hara-kiri", el suicidio ritual), pero que le llevó a meditar durante años sobre la condición interior del kamikaze. Para Mishima no cabía la menor duda: aquellos pilotos que hicieron ofrenda de sus vidas, con sus aparatos, eran verdaderos samurai. En "El loco morir", afirma que el kamikaze se encuentra religado al Hagakure, un texto escrito entre los siglos XVII y XVIII por Yocho Yamamoto, legendario samurai que tras la muerte de su señor se hizo ermitaño. El Hagakure llegó a ser el libro de cabecera de los samurai, el texto que sintetizó la esencia del Bushido. En cinco puntos finales, venía a decir:

- El Bushido es la muerte.

- Entre dos caminos, el samurai debe siempre elegir aquél en el que se

muere más deprisa.

- Desde el momento en que se ha elegido morir, no importa si la muerte

se produce o no en vano. La muerte nunca se produce en vano.

- La muerte sin causa y sin objeto llega a ser la más pura y segura,

porque si para morir necesitamos una causa poderosa, al lado

encontraremos otra tan fuerte y atractiva como ésta que nos impulse a vivir.

- La profesión del samurai es el misterio del morir.

Para el hombre que guarda la semilla de lo sagrado, la muerte es siempre el rito de paso hacia la trascendencia, hacia lo absoluto, hacia la Divinidad; por esa razón suenan, incluso hoy, sin extrañezas, las primeras palabras del almirante Ohnisi en su discurso de despedida al primer grupo de pilotos kamikaze constituido por el teniente Seki:

"Vosotros ya sois kami (dioses), sin deseos terrenales..."

Ya eran dioses vivientes, y como tales se les veneraba, aunque todavía "no hubieran muerto"; porque, sencillamente, "ya estaban muertos". Los resultados de sus acciones pasaban al último plano de las consideraciones a evaluar. No importaban demasiado... Aunque realmente los hubo: durante el año y medio que duraron los ataques kamikaze, fueron hundidos un total de 322 barcos aliados, entre portaviones, acorazados, destructores, cruceros, cargueros, torpederos, remolcadores, e, incluso, barcazas de desembarco; ¡la mitad de todos los barcos hundidos en la guerra!

Para Mishima, el caza Zero era semejante a una espada catana que descendía como un rayo desde el cielo azul, desde lo alto de las nubes blancas, desde el mismo corazón del Sol, todos ellos símbolos inequívocos de la muerte donde el hombre terreno, que respira, no puede vivir, y por los que paradójicamente todos esos hombres suspiran en ansias de vida inmortal, eterna. "Hi-Ri-Ho-Ken-Ten" fue la insignia de una unidad kamikaze de la base de Konoya. Era la forma abreviada de cuatro lemas engarzados: "La Injusticia no puede vencer al Principio. El Principio no puede vencer a la Ley. La Ley no puede vencer al Poder. El Poder no puede vencer al Cielo".

Aquel 15 de agosto de 1945, cuando el Japón se rendía al invasor, el almirante Takijiro Ohnishi se reunió por última vez con varios oficiales del Estado mayor, a quienes había invitado a su residencia oficial. ¿Una despedida? Los oficiales se retiraron hacia la medianoche. Ya a solas, en silencio, el inspirador principal del Cuerpo Kamikaze de Ataque Especial se dirigió a su despacho, situado en el segundo piso de la casa. Allí se abrió el vientre conforme al ritual sagrado del seppuku. No tuvo a su lado un kaishakunin, el asistente encargado de dar el corte de gracia separándole la cabeza del cuerpo cuando el dolor se hace ya extremadamente insoportable... Al amanecer fue descubierto por su secretario, quien le encontró todavía con vida, sentado en la postura tradicional de la meditación Zen. Una sola mirada bastó para que el oficial permaneciera quieto y no hiciera nada para aliviar o aligerar su sufrimiento. Ohnishi permaneció, por propia voluntad, muriendo durante dieciocho horas de atroz agonía. Igonaki, Inoguchi y otros militares que le conocían que el almirante, desde el mismo instante en que concibiera la idea de los ataques kamikaze, había decidido darse la muerte voluntaria por sacrificio al estilo de los antiguos samurai, incluso aunque las fuerzas del Japón hubieses alcanzado finalmente la victoria. En la pared, colgaba un viejo haiku anónimo:

"La vida se asemeja a una flor de cerezo.

Su fragancia no puede perdurar en la eternidad".

Poco antes de la partida, los jóvenes kamikaze componían sus tradicionales poemas de abandono del mundo, emulando con ello a los antiguos guerreros samurai de las epopeyas tradicionales. La inmensa mayoría de ellos también enviaron cartas a sus padres, novias, familiares o amigos, despidiéndose pocas horas antes de la partida sin retorno. Ichiro Omi se dedicó, después de la guerra, a peregrinar de casa en casa, pidiendo leer aquellas cartas. su intención era publicar un libro que recogiese todo aquel material atesorado por las familias y los camaradas, y fue así como muchas de aquellas cartas salieron a la luz. Bastantes de éstas y otras fueron a parar a la base naval japonesa de Etaji. Allí también peregrinó Yukio Mishima, poco antes de practicarse el seppuku, releyéndolas y meditándolas. Una, sobre las otras, le conmovió, actuando en su interior como un verdadero koan (el "koan" es, en la práctica del budismo Zen, la meditación sobre una frase que logra desatar el "satori", la iluminación espiritual). Mishima tuvo la tentación de escribir una obra sobre los pilotos del Viento Divino, y así apareció su obra "Sol y Acero". Un breve párrafo de estas cartas y algunos otros de las tomadas por Omi son las fuentes de esta antología:

"En este momento estoy lleno de vida. Todo mi cuerpo desborda juventud y fuerza. Parece imposible que dentro de unas horas deba morir (...) La forma de vivir japonesa es realmente bella y de ello me siento orgullo, como también de la historia y de la mitología japonesas, que reflejan la pureza de nuestros antepasados y su creencia en el pasado, sea o no cierta esa creencia (...) Es un honor indescriptible el poder dar mi vida en defensa de todo en lo creo, de todas estas cosas tan bellas y eminentes. Padre, elevo mis plegarias para que tenga usted una larga y feliz vida. Estoy seguro que el Japón surgirá de nuevo".

Teruo Yamaguchi.

"Queridos padres: Les escribo desde Manila. Este es el último día de mi vida. Deben felicitarme. Seré un escudo para Su Majestad el Emperador y moriré limpiamente, junto con mis camaradas de escuadrilla. Volveré en espíritu. Espero con ansias sus visitas al santuario de Kishenai, donde coloquen una estela en mi memoria ".

Isao Matsuo.

"Elevándonos hacia los cielos de los Mares del Sur, nuestra gloriosa misión es morir como escudos de Su Majestad. Las flores del cerezo se abren, resplandecen y caen (...) Uno de los cadetes fue eliminado de la lista de los asignados para la salida del no-retorno. Siento mucha lástima por él. Esta es una situación donde se encuentran distintas emociones. El hombre es sólo mortal; la muerte, como la vida, es cuestión de probabilidad. Pero el destino también juega su papel. Estoy seguro de mi valor para la acción que debo realizar mañana, donde haré todo lo posible por estrellarme contra un barco de guerra enemigo, para así cumplir mi destino en defensa de la Patria. Ikao, querida mía, mi querida amante, recuérdame, tal como estoy ahora, en tus oraciones".

Yuso Nakanishi

"Ha llegado la hora de que mi amigo Nakanishi y yo partamos. No hay remordimiento. Cada hombre debe seguir su camino individualmente (...) En sus últimas instrucciones, el oficial de comando nos advirtió de no ser imprudentes a la hora de morir. Todo depende del Cielo. Estoy resuelto a perseguir la meta que el destino me ha trazado. Ustedes siempre han sido muy buenos conmigo y les estoy muy agradecido. Quince años de escuela y adiestramiento están a punto de rendir frutos. Siento una gran alegría por haber nacido en el Japón. No hay nada especial digno de mención, pero quiero que sepan que disfruto de buena salud en estos momentos. Los primeros aviones de mi grupo ya están en el aire. Espero que este último gesto de descargar un golpe sobre el enemigo sirva para compensar, en muy reducida medida, todo lo que ustedes han hecho por mí. La primavera ha llegado adelantada al sur de Kyushu. Aquí los capullos de las flores son muy bellos. Hay paz y tranquilidad en la base, en pleno campo de batalla incluso. Les suplico que se acuerden de mí cuando vayan al templo de Kyoto, donde reposan nuestros antepasados".

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vendredi, 13 février 2009

Manifestation à Nagasaki contre la venue d'un navire de guerre américain

Japon: manifestation à Nagasaki contre la venue d'un navire de guerre US

AFP 5/2/2009 : "Des centaines de Japonais ont manifesté jeudi contre la venue d'un navire de guerre américain dans la ville martyre de Nagasaki, ravagée par une bombe atomique larguée par les Etats-Unis en 1945.

L'USS Blue Ridge, le navire-amiral de la 7e Flotte américaine basé dans le port de Yokosuka (région de Tokyo), est venu accoster à Nagasaki officiellement pour promouvoir l'amitié nippo-américaine. Mais des centaines d'habitants de la ville, y compris des survivants du bombardement atomique, ont accueilli le navire de 19.600 tonnes en criant leur hostilité à cette escale. "Nous ne voulons pas voir de drapeau américain dans ce port tant que les Etats-Unis n'auront pas décidé d'abandonner les armes nucléaires", a déclaré à l'AFP un responsable de la ville de Nagasaki, Osamu Yoshitomi. Le maire de Nagasaki et le gouverneur de la préfecture ont refusé de participer à une cérémonie de bienvenue, après avoir demandé, en vain, aux autorités japonaises et américaines d'annuler la visite. Le navire doit repartir lundi.

Les Etats-Unis ont de nombreuses bases et plus de 40.000 hommes stationnés dans l'archipel, au nom de l'alliance conclue au lendemain de la Seconde guerre mondiale. Un accord bilatéral de 1960 stipule que les autorités municipales n'ont pas le droit de refuser l'accostage d'un navire de guerre américain dans leur port. Le maire, Tomohisa Taue, a affirmé que cet accostage refroidissait l'enthousiasme de nombreux survivants de la bombe atomique, qui espèrent un geste du président Barack Obama en faveur de l'abandon des armes nucléaires. "Nagasaki ne peut accepter une escale qui réveille l'anxiété dans une ville frappée par une bombe atomique", a-t-il souligné dans un communiqué.

Quelque 70.000 personnes sont mortes lors du bombardement atomique américain de Nagasaki le 9 août 1945, trois jours après qu'une première bombe A ait été lâchée sur Hiroshima (ouest), faisant 140.000 morts. Le Japon a capitulé une semaine après, mettant fin à la Seconde guerre mondiale, mais la nécessité d'utiliser la bombe atomique pour faire plier l'archipel reste très controversée, a fortiori pour le second bombardement sur Nagasaki, jugé complètement inutile par de nombreux historiens."

mardi, 03 février 2009

Arnold J. Toynbee on Japan

The Laws of the Military Houses

Found on: http://davidderrick.wordpress.com

 In the Roman Empire and other universal states in the days of their decline, attempts were made to arrest the course of deterioration by “freezing” an existing legal or social situation. The Tokugawa Shogunate in Japan was perhaps unique among universal states in applying this prescription of “freezing” from first to last and in achieving the tour de force of arresting change in the outward forms of social life (though not, of course, in the inward realities) over a span of more than 250 years.

In the domain of law the Tokugawa régime, so far from regarding equality before a uniform law as being a desirable ideal, exerted itself to accentuate and perpetuate a caste division between the feudal aristocracy [daimyōs] and their [samurai] retainers on the one side and the rest of the population on the other which was one of the worst of the wounds that the Japanese Society had inflicted on itself during a foregoing Time of Troubles. The cue was given by Tokugawa leyasu’s predecessor and patron Hideyoshi in an edict of A.D. 1587 (popularly known as “the Taiko’s Sword Hunt”) [Taikō was a title given to a retired kampaku, or adviser to an emperor, and is often applied to Hideyoshi] ordering all non-samurai to surrender any weapons in their possession. The recently and arduously established central government further sweetened the pill for the feudal lords whom it had deprived of their long-abused de facto local independence by leaving them a very free hand to maintain and develop as they pleased, in all matters that the central government did not consider pertinent to the preservation of its own authority, the variegated “house laws” which the ruling family of each fief had gradually hammered out and enforced, within the limits of its own parochial jurisdiction, during the later stages of the foregoing Time of Troubles, particularly during the fifteenth and sixteenth centuries of the Christian Era. The edict entitled “the Laws of the Military Houses” which Tokugawa leyasu promulgated in A.D. 1615, on the morrow of his crushing retort to the last challenge to his absolute authority,

“is a document which, like the formularies and ‘house laws’ of earlier times, is not so much a systematic collection of specific injunctions and prohibitions as a group of maxims, in somewhat vague language, supported by learned extracts from the Chinese and Japanese classics.” [This quotation and those that follow are from Sansom, Sir G.: Japan, A Short Cultural History (London 1932, Cresset Press).]

“This ‘Constitution’ … was regarded by the Shogunate as fundamentally unchangeable. It was re-affirmed by each shogun on his succession, in a solemn ceremony attended by all his vassals; and, though circumstances sometimes forced them to alter it in detail, they never admitted or even contemplated any deviation from its essential principles, and they punished without mercy any breach of its commands.”

This in spite of the edict being vaguely-worded and in spite of the freedom allowed to the feudal lords in particular matters.

It is noteworthy that under this ultra-conservative régime a tendency towards the standardization of local laws did nevertheless declare itself.

“Within their own fiefs the barons enjoyed a very full measure of autonomy. … But the Shogunate, without interfering, used to keep a sharp watch on the conduct of the feudatories, and it was one of the chief duties of the censors (metsuke) and their travelling inspectors to report upon affairs in the fiefs. For this and similar reasons there was a general tendency among the daimyō to assimilate their administrative and judicial methods to those of the central authority, and the legislation in which the Shoguns freely indulged soon began to displace the ‘house laws’ of the fiefs where it did not clash with local sentiment and habit.”

A Study of History, Vol VII, OUP, 1954

We have [...] to explain why an Imperial House which exercised effective authority for less than three hundred years after the reorganization of the Imperial Government on a Chinese model in A.D. 645 should have survived for another thousand years in impotence as the sole fount of honour and dispenser of legitimacy. All the de facto rulers of Japan, since the time in the tenth century of the Christian Era when the Imperial Government had lost control, had felt it necessary to do their ruling in the Emperor’s name. At the time of writing, an utterly victorious occupying Power was finding it convenient to administer the country through a native Japanese Government acting in the name of the Emperor of the day.

This extraordinary vitality of the prestige of the Japanese Imperial House had been attributed by the Japanese themselves to their own official belief that the Imperial Family were descendants, in unbroken line, from the Sun Goddess Amaterasu. But, though, no doubt, this myth went back to the dawn of Japanese history, the deliberate exploitation of it for a political purpose seemed to be no older than the Meiji Period, when the new masters of Japan, who had wrested the de facto power from the last of the Tokugawa shoguns in A.D. 1868 and had appropriated to themselves the manipulation of the indispensable Imperial puppet under pretence of “restoring” him to the status enjoyed by his forefathers, were concerned to enhance the prestige of the institution in whose name they had to rule. Moreover, the Emperor Hirohito did not seem to have forfeited his hold on the allegiance of the Japanese people by his public declaration to them, on New Year’s Day 1946, that he was not a god but a man. [Footnote: In his rescript of that date, the Emperor Hirohito declared: “The ties between us and our people have always stood upon mutual trust and affection. They do not depend upon mere legends and myths. They are not predicated on the false conception that the Emperor is divine and that the Japanese people are superior to other races and fated to rule the World” (English text published in The New York Times, 1st January, 1946).] It therefore looked as if there were some firm foundation, other than the Sun Goddess myth, for the immense esteem which the Imperial House had continued to enjoy through all vicissitudes of their fortunes and Japan’s, and this foundation might perhaps be discovered in the historic “reception”, in A.D. 645, of the Chinese Imperial Constitution of that age. This bureaucratic system of administration was far too elaborate and refined to be practicable under the rude conditions of contemporary Japanese society. Yet its exotic character, which doomed it to a speedy failure in the field of practical politics, may have been the very feature that ensured its age-long preservation as a palladium of the Japanese polity; for the Japanese Imperial Constitution of A.D. 645 was modelled on that of the then reigning Chinese dynasty of the T’ang, and the T’ang Empire had been a resuscitation of the Han Empire, which had been the Sinic Society’s universal state. On this showing, the Japanese Imperial Office in the twentieth century of the Christian Era was living on political capital that had been accumulated by Han Liu Pang in the second century B.C.

A Study of History, Vol VII, OUP, 1954

Social change under the Tokugawa Shogunate

The Tokugawa régime [1603-1868] set itself to insulate Japan from the rest of the World, and was successful for nearly two and a half centuries [just over two if you reckon from 1641 to 1853] in maintaining this political tour de force; but it found itself powerless to arrest the course of social change within an insulated Japanese Empire, in spite of its efforts to petrify a feudal system, inherited from the preceding “Time of Troubles”, into a permanent dispensation.

“The penetration of money economy in Japan … caused a slow but irresistible revolution, culminating in the breakdown of feudal government and the resumption of intercourse with foreign countries after more than two hundred years of seclusion. What opened the doors was not a summons from without but an explosion from within. … One of [the] first effects [of the new economic forces] was an increase in the wealth of the townspeople, gained at the expense of the samurai and also of the peasants. … The daimyō and their retainers spent their money on luxuries produced by the artisans and sold by the tradesmen, so that by about the year [A.D.] 1700, it is said, nearly all their gold and silver had passed into the hands of the townspeople. They then began to buy goods on credit. Before long they were deeply indebted to the merchant class, and were obliged to pledge, or to make forced sales of, their tax-rice. … Abuses and disaster followed thick and fast. The merchants took to rice-broking, and then to speculating. … It was the members of one class only, and not all of them, who profited by these conditions. These were the merchants, in particular the brokers and money-lenders, despised chōnin or townsmen, who in theory might be killed with impunity by any samurai for mere disrespectful language. Their social status still remained low, but they held the purse and they were in the ascendant. By the year 1700 they were already one of the strongest and most enterprising elements in the state, and the military caste was slowly losing its influence.” [Square brackets in the original.] [Footnote: Sansom, G. B.: Japan: A Short Cultural History (London 1931, Cresset Press), pp. 460-2. See further eundem: The Western World and Japan (London 1950, Cresset Press), chaps. ix-xi (pp. 177-289).]

If we regard the year 1590 of the Christian Era, in which Hideyoshi overcame the last resistance to his dictatorship, as the date of the foundation of the Japanese universal state, we perceive that it took little more than a century for the rising of the lower layers of water from the depths to the surface to produce a bloodless social revolution in a society which Hideyoshi’s successor Tokugawa leyasu and his heirs had sought to freeze into an almost Platonically Utopian immobility. This social upheaval was a result of the operation of internal forces within a closed system, without any impulsion from outside the frontiers of the Japanese universal state.

The extent of the resultant change is impressive – and the more so, considering that, for a universal state, the Tokugawa Shogunate was culturally homogeneous to an unusually high degree. Apart from a little pariah community of Dutch business men who were strictly segregated on the islet of Deshima, the only heterogeneous element in the otherwise culturally uniform Japanese life of that age was a barbarian Ainu strain that was socially impotent in so far as it was not already culturally assimilated.

But the Dutch were not the only people permitted to trade: the Chinese traded, too, and lived in a special quarter of Nagasaki.

The Tokugawa Shoguns ruled from Edo or Tokyo. The rise of the merchants was the making of the city.

Deshima has since been absorbed by reclaimed land, becoming part of Nagasaki, but the settlement has been restored and can be visited.

The strictest period of isolation (sakoku) lasted from 1641, when Deshima was estabished, to 1853, when Commodore Perry arrived in Edo Bay with his warships. But a considerable branch of learning – Rangaku (literally “Dutch learning”, by extension “Western learning”) – was developed by Japan through its contacts with the Dutch enclave. Dutch learning allowed Japan to keep abreast of Western technology and medicine and was an incubator for the vaster project of learning and absorption which began after 1853 and gained strength after the Meiji restoration. It remained illegal for Japanese to leave Japan until after the restoration.

A Study of History, Vol VII, OUP, 1954

Deshima and Nagasaki Bay, c 1820 (British Museum). Chinese trading junks and two Dutch ships.

deshima

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Mishima's Army

samedi, 06 décembre 2008

Japon: polythéisme et homogénéité

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SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - Novembre 1988

Les clefs du succès japonais: polythéisme et homogénéité

par Eric BAUTMANS

Kuwabara Takeo nous propose, dans ce recueil d'essais et de conférences, une hypothèse très intéressante: selon lui, les facteurs fondamentaux du suc-cès industriel japonais, issu de la restauration Meiji de 1867, sont l'homogénéité culturelle du peu-ple nippon et le polythéisme ambiant, profondément ancré dans le mental japonais.

Cette dernière hypothèse contraste fortement avec cel-le de Max Weber, pour qui l'éthique protestante est le fondement même du capitalisme moderne.  Ku-wabara Takeo prend position sur cette problématique: "Jeunes, nous pensions que seule l'élimination du bouddhisme assurerait l'amélioration du Ja-pon. Mais à l'heure actuelle, il me semble que les religions monothéistes, qu'il s'agissent du christia-nis-me ou de l'Islam, dans leur recherche d'une division claire et nette entre noir et blanc, ennemi et ami, sont sur le point de nous entraîner vers une guerre nuclé-aire. A la lumière d'une telle menace, nous avons besoin d'admettre l'existence d'autres dieux, de dieux de l'ouverture, de la co-existence pacifique" (p. 151).

Non seulement le monothéisme se trouve être into-lé-rant d'un point de vue idéologique mais il s'est sou-vent opposé à la science moderne. Au Japon, par con-tre, une longue tradition unanime de respect en-vers la science a toujours existé. Cette attitude a, bien évidemment, facilité l'adoption de la technologie européenne.

L'Ere Togukawa

Une des qualités du peuple japonais, selon Kuwa-ba-ra Takeo, est sa séléctivité. Le Japonais n'est pas un imitateur inconditionnel. Ainsi, malgré tous les ef-forts des missionaires chrétiens (1), à partir du XVIè-me siècle, seule une infime minorité de Japo-nais se convertirent.

En 1614, début de l'ère Togukawa, le Japon se fer-me. Seul le comptoir de Nagasaki reste ouvert aux Eu-ropéens. Les dernières innovations en matière d'ar-mements, de mathématiques et de médecine con-ti-nuent à pénétrer au Japon. On trouve également à Na-gasaki une école des Etudes Hollandaises qui tra-duit la majorité des ouvrages de référence techniques publiés en Europe. Il est intéressant de noter que ces aspects sont limités à la sphère scientifique ou techno-logique, le Japon ne s'intéresse pas à la pen-sée politique ou philosophique occidentale.

Pendant ce temps, le confucianisme, code moral de tou-te la nation, permet à l'autorité centrale de mainte-nir l'ordre féodal et de préserver la paix grâce à une politique d'autocentrage longue de deux siècles et de--mi. Au fur et à mesure que la connaissance des clas--siques chinois et japonais se répand à travers tout le pays se forge une culture raffinée partagée par tous.

"Durant le règne des Togukawa, le Japon s'est repo-sé - je ne dirais pas qu'il a dormi. Le pays profita de cet intermède pour ce préparer jusqu'à ce que la né-cessité l'oblige à mobiliser son ingéniosité et sa for-ce pour s'adapter à la civilisation occidentale moder-ne. Nos aïeux ont souffert (2), ils ont travaillé dur et très vite, car ils savaient que leur survie et celle du Japon dépendait du succés de leur entreprise. C'est une révolution culturelle née de l'effort du peuple ja-po-nais tout entier" (p. 77).

La Révolution Meiji

Notre auteur insiste sur le fait qu'il s'agit bien d'une ré-volution, la révolution Meiji, et non d'une restau-ration comme on l'appelle souvent. "Une révolution ne veut pas dire amélioration de ce qui existe déjà, mais le renversement d'un coup brutal de tout ce qui existait. En 1871, l'empereur Meiji proclame une loi en-courageant la consommation de viande et l'adop-tion de la coiffure et de l'habillement occidental" (p.162). D'autres décrets suivirent: abolition (impo-pu--laire) de la vente de jeunes filles, interdiction de se promener nu en public, de porter les sabres dictinc-tifs des samouraïs, etc... Un code civil de type euro-péen fut introduit, une armée de paysans levée, une nou-velle constitution adoptée. Tous ces change-ments cataclysmiques modifièrent de fond en comble la vie du pays.

On a souvent vu des pays sous-developpés, soumis par une invasion ou une colonisation, forcés d'ac-cep-ter une culture et un mode de vie différents des leurs. Ceci ne s'est jamais produit au Japon. D'un point de vue économique, l'Empire du Soleil Levant était sous-développé, au début de l'ère Meiji, mais une culture sophistiquée avait profondément pénétré le peuple. Par la suite, les Japonais se sont mis à ab-sor-ber délibérément des éléments d'autres cultures, tout en maintenant leur indépendance culturelle et po--litique, et réussirent de la sorte à moderniser leur na-tion à une vitesse étonnante.

Homogénéité et citoyenneté

"L'homogénéité qui domina les îles japonaises pen-dant des millénaires, combinée à une société orga-ni-que, rendait toute intervention officielle dans la vie pri--vée des individus plutôt non problématique. Cette tra-dition autoritaire se prolongea au cours de l'ère Mei-ji et propulsa le Japon dans son effort de moder-ni-sation" (p 138).

"En fait, c'est l'holisme  —et non le totalitarisme— qui caractérisa et continue à caractériser la société ja-po-naise; on ne demande pas aux gens d'en faire à leur gré. Dans cette tradition, il n'est pas souhaitable de voir des individus sortir de la norme; c'est, bien sûr, un principe extrêmement utile quand il devient né-cessaire d'entreprendre une tâche collective. Parmi les facteurs expliquant sans doute le mieux la réus-si-te rapide du Japon, il faut citer l'élément holiste et vo-lontariste" (p. 151).

Les paroles d'un ami de Kuwabara Takeo permettent de mieux comprendre l'état d'esprit des Japonais au début de l'époque révolutionnaire: "Yanagito Kunio (1875-1962) m'a dit que, dans sa jeunesse, le mot Ji-yû  (liberté) était utilisé dans le sens de Jiyû Katte ou "fait ce qui te plaît", ce qui était équivalent à Wa-gamama  (égoïsme)" (p. 149).

De même, au Japon, le plus insigne des honneurs qu'un homme puisse porter est celui de citoyen. "Ain--si nommer quelqu'un Shominteki  (citoyen, ci-ta-din) est une marque de respect, c'est lui signifier qu'il est un ami du peuple et en partage ses préoc-cu-pa-tions. Feu le Dr Tomanaga, Prix Nobel de physi-que, était aimé du public japonais et, à ce titre, était ap-pelé Shominteki,  parce qu'il avait la qualité de par-tager les goûts populaires. Au Japon, il existe des différences de niveau social lié à la profession ou à la richesse, mais la culture japonaise pénètre toutes les couches sociales" (p. 183).

Toutes les révolutions réussissent-elles?

"Toutes les révolutions ne réussissent pas. Ainsi, en Afghanistan, le roi Amanullah Khan (règne de 1919-1929) tenta de moderniser par le haut son pays. Mais il se heurta à une telle opposition qu'il dut ab-diquer et fuir" (p.61). On peut également s'étonner du fait que le Japon connut une révolution industriel-le et culturelle au XIXième siècle et non son voisin la Chine, elle aussi en contact avec l'Europe. Kuwa-bara Takeo déclare plus loin, à ce sujet, que "l'exis-tence au Japon d'un Institut des Etudes Hollandaises illustre parfaitement la différence entre les attitudes de la Chine et du Japon envers les civilisations euro-péennes. La Chine, une des plus anciennes civilisations du globe, a été envahie à maintes reprises par des nomades, mais sa culture n'a jamais été réelle-ment menacée. C'est sans doute leur conviction iné-bran-lable dans la supériorité de leur civilisation qui fit en sorte que les Chinois ne ressentirent pas le be-soin de s'intéresser aux innovations occidentales" (p. 129). Rappelons la phrase de Confucius: "Les bar-bares de l'Est et du Nord, malgré leurs chefs avi-sés, sont encore inférieurs aux Chinois privés de tout chef".

Sans conteste cette morgue intellectuelle, encouragée par la dynastie réactionnaire Mandchoue, est en gran-de partie responsable du retard chinois. Rappe-lons également la taille du pays, le centralisme po-li-tique de l'administration et l'intérêt vorace des puis-san-ces occidentales (et ironie du sort, par la suite, du Japon lui-même). Chacun de ces facteurs joua en défa-veur de la Chine.

Mais, "des nombreux facteurs qui expliquent la ra-pi-dité de la modernisation japonaise, je pense que l'é-lé-ment holiste est un des plus importants. Mis à part No--bunaga, il y eut très peu de dictateurs dans l'his-toire du Japon et il n'y en avait pas vraiment besoin car le pays était relativement facile à unir sous un leadership sans devoir recourir à une utilisation ex-ces-sive de la force" (p. 151).

Pour résumer, quels semblent donc, selon Kuwa-ba-ra Takeo, les principaux ingrédients du succès nip-pon? Le polythéisme (la réceptivité), le nationalisme, source de la volonté de progrès (le Japon doit assu-rer son indépendance nationale) et de la force qui sou--tient son effort de redressement et enfin, l'homo-généité ethnoculturelle: le Japon, libre de tout conflit social, culturel ou ethnique, put se consacrer à sa tâ-che de rénovation.

Le Japon et sa spécificité actuelle

Il ne faut pas conclure de ce qui précède que Kuwa-bara Takeo n'est qu'un nostalgique invétéré. "Il y a long-temps, la culture japonaise était symbolisée par le Wabi  et le Shioki,  qui signifient tous deux quel-que chose comme "un goût de la simplicité et de la quié-tude". Cet état d'esprit a disparu depuis belle lurette" (p. 93).

Tout en respectant le théâtre Nô  (4) et un peu moins l'art de l'Haïku  (5), il se présente surtout comme un partisan d'une tradition vivante. D'après lui, il est plus important aujourd'hui pour comprendre la spé-ci-fi-cité japonaise de se pencher sur sa culture actuel-le: celle de la télémanie, de l'excursion de masse, du bis-trot japonais, du journal à énorme diffusion, de la culture de masse; il est plus important de se pencher sur ces aspects que d'étudier les classiques.

Dans son troisième essai, "Tradition contre Modernisation", Kuwabara Takeo nous énonce ses raisons pour ne pas prendre en modèle l'Occident contemporain. Pour lui, chaque culture a ses propres défauts et qualités. Modernisation ne rime pas (ou plus) né-ces-saire-ment avec occidentalisation.

Depuis la fin des années septante, Kuwabara Takeo a insisté sur l'importance de la puissance globale, commerciale, industrielle et financière qui, selon lui, sera comparable, dans le futur, à celle des secteurs militaire ou économique.

Homogénéité et apport culturel

Kuwabara Takeo, par ses thèses holistes et organi-cis-tes, se rapproche de l'école de Kinji Imanishi, le célèbre anthropologue (6), de Tadao Limesao (7) et de Takeshi Umehara (8). L'ancien premier ministre Na-kasone s'inscrit également dans le même mouve-ment: lors d'une allocution prononcée en septembre 86 (9), celui-ci a, en effet, déclaré que le niveau d'é-du-cation au Japon était plus élevé que celui des Etats-Unis, parce que les Japonais forment une race ho-mogène, alors qu'aux Etats-Unis toute une série de minorités se côtoient, avec tous les troubles so-ciaux et raciaux que cela entraîne. 

Kuwabara Takeo démontre amplement dans son li-vre que métissage ou apport culturel n'implique pas mé--tissage ou apport racial. Certains (10), pendant la ré--volution Meiji, avaient préconisé le métissage ra-cial, y voyant une panacée apte à résoudre les pro-blèmes du Japon de l'époque. D'aucuns, aujourd'hui enco-re, dans des pays civilisés, tiennent un dis-cours d'une niaiserie aussi navrante, en refusant de pren-dre acte des réalisations spectaculaires d'un Ja-pon qui manifeste depuis 120 ans une volonté bien arrêtée de conserver son homogénéité.

Eric BAUTMANS.

KUWABARA Takeo, Japan and Western Civilisa-tion,  University of Tokyo Press, 1986, 205 pages, ¥ 3800.

Notes

(1) Les Portugais atteignirent le Japon en 1542. C'est alors que fut tentée l'évangilisation du pays avec le voyage de St. Fran-çois-Xavier (1549). En 1614, le Japon se ferma aux étran-gers et les chrétiens furent persécutés. Le nombre total de chré-tiens était d'environ 600.000 (chiffres des Jésuites). A par-tir de 1858, de nouveaux missionaires furent accueillis. Il y eut même lors de l'occidentalomanie de l'ère Meiji naissante des propositions émanant de personnes et de journaux impor-tants (par exemple, Jiji Shimpo), recommandant la conversion du pays au christianisme.

(2) De très grands maîtres de la peinture classique, Kano Ho-gai et Hoshimoto Gaho, par exemple, mourraient de faim dix ans après la révolution.

(3) En 1957, date de la conférence de Kuwabara.

(4) "Le drame Nô, pour utiliser un exemple classique, n'est pas mort mais il n'est ni contemporain ni classique" (p. 180).

(5) Voir plus particulièrement son onzième essai: "L'art mi-neur du Haïku moderne".

(6) Agé de 85 ans, presque complètement aveugle, il ne reven-dique plus le titre d'anthropologue. Il s'est rendu célèbre par ses études sur les primates. C'est un féroce anti-darwinien. D'a-près Imanishi, l'unité d'évolution ne serait pas l'individu mais l'espèce. Sa thèse sur la ségrégation de l'habitat est très originale.

(7) Directeur du musée d'ethnologie à Osaka.

(8) Anthropologue, responsable de l'établissement d'un centre d'études japonaises à Kyoto.

(9) "M. Nakasone et les Omajiri (métis)" in Le Soir, 26/ XII/86.

(10) Tokahashi Yoshio, publia en 1884 un livre intitulé L'amélioration de la race japonaise.  Il y recommandait le mé-tis-sage entre Occidentaux et Japonais afin d'améliorer la race nippone - le sang européen constituant une "richesse" pour le Ja-pon.

 

mercredi, 26 novembre 2008

Yukoku: un film de Mishima

Yukoku : un film de Mishima

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Yukoku, l'unique film réalisé par l'écrivain japonais Yukio Mishima sur la base de sa nouvelle intitulée Patriotisme, et qui était jusqu'à présent introuvable, fait l'objet d'une édition en DVD chez Montparnasse.

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Yukoku (Patriotisme) : un film extraordinaire laissé par l'un des plus grands écrivains du siècle. Maudit, détruit, pratiquement oublié dans son propre pays, ce film produit en 1966 est ressorti au Japon grâce à une copie miraculeusement retrouvée en 2005. La présente édition réintroduit en Europe des images quasi inédites, qui font partie intégrante de la construction mythique de soi-même à laquelle Mishima a dévoué sa vie. Suivant exactement la narration d'une nouvelle écrite quelques années plus tôt, Patriotisme, ce film montre de façon stylisée la dernière étreinte amoureuse et le seppuku d'un jeune lieutenant entièrement dévoué à l'honneur samouraï, le Bushido : répétition de la mort spectaculaire que l'écrivain choisira, le 25 novembre 1970, à Tokyo. Film ultra-esthétique, cinéma wagnérien, prolongement filmique du théâtre Nô ou encore document historique, Yukoku occupe une place unique dans l'art cinématographique du XXè siècle.

mercredi, 19 novembre 2008

Eurasia, vol. II, n°3

Eurasia Vol. II n° 3 : Karl Haushofer, l’Eurasisme, le Tibet et le Japon
Sommaire 06/2008

Eurasia : Présentation

Dossier

Karl Haushofer, l’Eurasisme, le Tibet et le Japon

Tiberio Graziani : La leçon de Karl Haushofer et la présence discrète de Giuseppe Tucci dans le débat géopolitique des années trente

Carlo Terracciano : Des destins parallèles

Karl Haushofer : L’analogie du développement politique et culturel en Italie, en Allemagne et au Japon

Robert Steuckers : Qui était Karl Haushofer ?

Robert Steuckers : Les thèmes de la géopolitique et de l’espace russe dans la vie culturelle berlinoise de 1918 à 1945 : Karl Haushofer, Oskar von Niedermayer et Otto Hoetzsch

Claudio Mutti : Le bodhisattva hongrois

Giuseppe Tucci : Alexandre Csoma de Körös

Texte retrouvé

Alexandre Douguine : L’Empire soviétique et les nationalismes à l’époque de la perestroïka

Eurasia : Lectures eurasiennes
Eurasia Vol. II n° 3 : Karl Haushofer, l’Eurasisme, le Tibet et le Japon
 
Eurasia Vol. II n° 3 :: Karl Haushofer, l’Eurasisme, le Tibet et le Japon Prix : 15,00€
Éditeur :
Avatar Editions
Date : 06/2008
Format (cm) : 14,85 x 21
Pages : 120

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lundi, 13 octobre 2008

Hiroshima: la décision fatale

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Hiroshima: la décision fatale selon Gar Alperovitz

 

Si on examine attentivement l'abondante littérature actuelle sur l'affrontement entre le Japon et les Etats-Unis au cours de la seconde guerre mondiale, on ne s'étonnera pas des thèses que vient d'émettre Gar Alperovitz, un historien américain. Son livre vaut vraiment la peine d'être lu dans sa nouvelle version alle­mande (ISBN 3-930908-21-2), surtout parce que la thématique de Hiroshima n'avait jamais encore été abordée de façon aussi détaillée. Alperovitz nous révèle une quantité de sources inexplorées, ce qui lui permet d'ouvrir des perspectives nouvelles.

 

Il est évidemment facile de dire, aujourd'hui, que le lancement de la première bombe atomique sur Hiroshima le 6 août 1945 a été inutile. Mais les contemporains de l'événements pouvaient-ils voir les choses aussi clairement? Qu'en pensaient les responsables de l'époque? Que savait plus particulière­ment le Président Truman qui a fini par donner l'ordre de la lancer? Alperovitz nous démontre, en s'appuyant sur de nombreuses sources, que les décideurs de l'époque savaient que le Japon était sur le point de capituler et que le lancement de la bombe n'aurait rien changé. Après la fin des hostilités en Europe, les Américains avaient parfaitement pu réorganiser leurs armées et Staline avait accepté d'entrer en guerre avec le Japon, trois mois après la capitulation de la Wehrmacht. Le prolongement de la guerre en Asie, comme cela avait été le cas en Europe, avait conduit les alliés occidentaux à exiger la “capitulation inconditionnelle”, plus difficilement acceptable encore au Japon car ce n'était pas le chef charismatique d'un parti qui était au pouvoir là-bas, mais un Tenno, officiellement incarnation d'une divi­nité qui gérait le destin de l'Etat et de la nation.

 

Alperovitz nous démontre clairement que la promesse de ne pas attenter à la personne physique du Tenno et la déclaration de guerre soviétique auraient suffi à faire fléchir les militaires japonais les plus en­têtés et à leur faire accepter l'inéluctabilité de la défaite. Surtout à partir du moment où les premières at­taques russes contre l'Armée de Kuang-Toung en Mandchourie enregistrent des succès considérables, alors que cette armée japonaise était considérée à l'unanimité comme la meilleure de l'Empire du Soleil Levant.

 

Pourquoi alors les Américains ont-ils décidé de lancer leur bombe atomique? Alperovitz cherche à prouver que le lancement de la bombe ne visait pas tant le Japon mais l'Union Soviétique. L'Amérique, après avoir vaincu l'Allemagne, devait montrer au monde entier qu'elle était la plus forte, afin de faire valoir sans con­cessions les points de vue les plus exigeants de Washington autour de la table de négociations et de tenir en échec les ambitions soviétiques.

 

Le physicien atomique Leo Szilard a conté ses souvenirs dans un livre paru en 1949, A Personal History of the Atomic Bomb;  il se rappelle d'une visite de Byrnes, le Ministre américain des affaires étrangères de l'époque: «Monsieur Byrnes n'a avancé aucun argument pour dire qu'il était nécessaire de lancer la bombe atomique sur des villes japonaises afin de gagner la guerre... Monsieur Byrnes... était d'avis que les faits de posséder la bombe et de l'avoir utilisé auraient rendu les Russes et les Européens plus conci­liants».

 

Quand on lui pose la question de savoir pourquoi il a fallu autant de temps pour que l'opinion publique américaine (ou du moins une partie de celle-ci) commence à s'intéresser à ce problème, Alperovitz répond que les premières approches critiques de certains journalistes du Washington Post ont été noyées dans les remous de la Guerre Froide. «Finalement», dit Alperovitz, «nous les Américains, nous n'aimons pas entendre dire que nous ne valons moralement pas mieux que les autres. Poser des questions sur Hiroshima, c'est, pour beaucoup d'Américains, remettre en question l'intégrité morale du pays et de ses dirigeants».

 

Le livre d'Alperovitz compte quelques 800 pages. Un résumé de ce travail est paru dans les Blätter für deutsche und internationale Politik (n°7/1995). Les points essentiels de la question y sont explicités clai­rement.

 

(note parue dans Mensch und Maß, n°7/1996; adresse: Verlag Hohe Warte, Tutzinger Straße 46, D-82.396 Pähl; résumé de Robert Steuckers).