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samedi, 27 avril 2013

Il grande equivoco della «nuova evangelizzazione»

Il grande equivoco della «nuova evangelizzazione»

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Sacerdoti e credenti laici, da un po’ di tempo a questa parte, si vanno riempiendo la bocca con una nuova espressione che, a loro parere, dovrebbe spiegare e giustificare tutto, mentre non spiega e non giustifica proprio nulla: la cosiddetta nuova evangelizzazione.

Si parte da un dato corretto, anzi, perfino banale nella sua lampante evidenza: il mondo moderno è diventato radicalmente laico, o, per meglio dire, laicizzato e secolarizzato; si è radicalmente allontanato dal sacro e dal religioso; si è radicalmente scristianizzato. Il sogno di Hébert, degli “enragés”, dei sanculotti del 1793 si è infine realizzato: ma non già, come essi cercarono di fare, chiudendo le chiese e abolendo gli ordini religiosi, bensì svuotando le chiese dei fedeli e trasformando, snaturando lo spirito dei monasteri.

Da questa constatazione nasce l’idea, in sé giusta, che il cristianesimo, almeno in Occidente, deve ripartire da zero: alle masse secolarizzate, immerse nel materialismo e nell’edonismo più sfrenato, si deve riproporre la Buona Novella ripartendo da niente: non ci sono più basi, non si deve dare nulla per scontato, perfino il battesimo non è che un rito formale. La verità è che i cristiani sono diventati non solo minoranza, ma esigua minoranza; e che, anche fra di essi, l’autentico spirito di fede è paurosamente scemato, quando non è stato alterato e perfino travisato.

Le cause sono molteplici, ma tutte riconducibili al fenomeno della modernizzazione: prima con la Rivoluzione scientifica, poi con la Rivoluzione industriale, infine con le ideologie “progressiste” di matrice illuminista – liberalismo, democrazia, socialismo, comunismo, radicalismo -, la società occidentale ha imboccato sempre più decisamente la strada della glorificazione dell’uomo e delle sue opere: gli stati, le merci, il denaro, la scienza e la tecnica; e, contemporaneamente, la strada dell’oblio dell’essere, dell’assoluto, di Dio.

Spesso la glorificazione dell’uomo, davanti ai ripetuti insuccessi, agli errori ed ai crimini di cui è stata costellata la marcia verso le “magnifiche sorti e progressive”, si è rovesciata nel suo contrario: nell’amaro disprezzo, nella svalutazione totale, nello schifo, nella nausea, nella nullificazione. Raramente, però, dallo schifo, dalla nausea e dalla nullificazione di sé, l’uomo moderno ha avuto la forza di ritrovare la necessaria umiltà e di chiarire a se stesso le ragioni del proprio scacco; raramente ha trovato il coraggio di riconoscere l’origine del proprio fallimento e di rimettersi sulla strada dell’essere, alla ricerca dell’assoluto, che sola avrebbe potuto spegnere la sete divorante che ontologicamente appartiene alla sua natura.

La Chiesa cattolica rispecchia e riflette le contraddizioni del mondo moderno, prima fra tutte l’idolatria del’uomo e delle sue opere. A un certo punto ha creduto che l’unico modo per non scomparire, per conservare il proprio messaggio e trasmetterlo alle future generazioni, fosse quello di parlare la stessa lingua del mondo moderno, di adottare i suoi punti di vista, la sua prospettiva, il suo stile, le sue finalità. Molti cristiani lo pensavano in buona fede, sia chiaro, e lo pensano tuttora: hanno creduto, così facendo, di riagganciare il treno in partenza, di ristabilire un dialogo con quanti avevano perso la fede o la stavano perdendo: e non si sono accorti che, un poco alla volta, inavvertitamente, quelli che stavano perdendo la fede erano loro.

Hanno creduto, per esempio, che la liturgia fosse una semplice veste esteriore; e l’hanno a tal punto modificata, da renderla irriconoscibile. Hanno creduto che il dogma si potesse “interpretare” alla luce della mentalità moderna: e, come i protestanti, hanno cominciato a leggerlo ciascuno a suo modo, sempre con la “buona” intenzione di renderlo più comprensibile, più al passo coi tempi. Hanno cominciato a sentire, a pensare, a vestire, a parlare, ad agire in tutto e per tutto come gli “altri”. Perdendo la propria specificità, e ciò sulla base di un grande equivoco: che, per dialogare con l’altro, sia necessario abolire la distanza, rinunciando a quel che si è. Ma questo non è dialogare: questo è camuffarsi, abdicare a se stessi, imbrogliare le carte. Non è una forma di rispetto né verso gli altri, né verso se stessi, né, meno ancora, verso la verità.

Sempre più spesso sedicenti “teologi” cattolici pubblicano libri, rilasciano interviste e imperversano nei salotti televisivi, per sostenere delle autentiche enormità, per vendere come l’ultimo grido del politicamente corretto e dell’audacia speculativa una serie di affermazioni che nulla hanno di cristiano e che gettano solamente la confusione e lo smarrimento fra i credenti, mentre non servono affatto a conquistare l’attenzione e il rispetto dei non credenti, come invece essi - non sai se più ingenui o vanitosi -  s’immaginano.

Siffatti teologi negano il mistero, negano i miracoli, o quasi tutti i miracoli; negano, in sostanza, il soprannaturale: imbevuti di evoluzionismo, di psicanalisi, di storicismo e di positivismo, pensano e parlano come se solo le  verità della scienza, dell’economia, della politica fossero degne di rispetto; come se soltanto l’agire fosse utile e necessario, mentre il pregare – specie se in un monastero di clausura – fosse parassitismo. Questo non lo dicono esplicitamente, beninteso: ma lo si evince chiaramente da tutti i loro discorsi. Ostentano una filosofia “progressista” che dovrebbe catturare la benevolenza dei loro interlocutori profani, mentre attira su di essi solamente il disprezzo. In compenso, vengono lusingati nella loro umana vanità: i loro libri si vendono bene, i conduttori televisivi li invitano spesso. Non si accorgono nemmeno di essere il trastullo di quei salotti buoni, gli inconsapevoli buffoni della situazione. Li trovano utili, finché parlano male del Papa o deridono la credenza nel Diavolo, finché gettano dubbi sulla vita dell’anima, sul peccato, sul Giudizio: li strumentalizzano ed essi ci cascano, lusingati nella loro ambizione, nel loro narcisismo intellettuale. Si sentono dei grand’uomini, degli “illuminati” e sono gratificati dal pensiero che stanno contribuendo a “modernizzare” il cristianesimo.

E sempre più spesso membri del clero parlano e si comportano come se non credessero nel sacramento del sacerdozio: non vedono l’ora di vestirsi in borghese, appena terminato di officiare la messa; preidicano con disinvolta leggerezza, turbano le coscienze con affermazioni azzardate e gratuite; in privato, ma sovente anche in pubblico, criticano ferocemente la Chiesa, rammentano gli scandali, i casi di pedofilia, la corruzione della Curia; incuranti di ogni spirito di carità, di umiltà, di obbedienza, parlano male del Papa – lo hanno fatto specialmente con Woityla e Ratzinger; in breve: fanno di tutto per piacere al “mondo” e per farsi perdonare la “colpa” di essere, loro malgrado, esponenti di una istituzione oscurantista e retrograda.

In molte chiese, la messa è diventata una sorta di pomposo rito laico, simile, in tutto e per tutto, a una qualsiasi assemblea profana: si ripete qualche formula, magari sopprimendo le più “imbarazzanti” (come il “Confiteor”); si ascolta una omelia che ha ben poco di spirituale; si fa della musica con le chitarre e si cantano delle canzoni insulse e dolciastre, pervase di un buonismo tanto generico quanto insipido; ci si rivolge ai vicini di banco per scambiarsi il cosiddetto “segno di pace”, stringendosi la mano come si farebbe in piazza, al passeggio, con grandi segni di amicizia e simpatia (anche se ciascuno è solo coi suoi problemi e, una volto uscite di lì, le persone non si salutano nemmeno).

L’anima non trova il silenzio, non si rivolge verso l’alto; la presenza di Dio è un “optional”, non la si sente viva e vibrante nei gesti e nelle parole del sacerdote; questi, anzi, volta costantemente le spalle all’altare del Santissino, si tiene sempre rivolto all’assemblea, come farebbe un qualsiasi oratore profano: si direbbe che la Messa sia una faccenda fra lui ed essa, che sia, al massimo, una semplice commemorazione. Dello Spirito che scende sui fedeli, del mistero della transustanziazione, si stenta a riconoscere la presenza. Ciascuno si prende in mano la particola, come se fosse un qualunque pezzo di pane, e la porta alla bocca da sé: come dire: faccio da solo, non ho bisogno di nessun altro. Ma questa è la dottrina luterana del sacerdozio universale: non è una dottrina cattolica.

Ultima in ordine di tempo, da Cagliari giunge la notizia che un gruppo di frati francescani e di suore hanno organizzato canti e balli in piazza, coinvolgendo alcune decine di ragazzi, con lo scopo dichiarato di “riavvicinare” a Dio le persone: il tutto in una sarabanda di movenze scomposte, in un frenetico agitarsi di corpi come in una discoteca, che si sarebbe potuto giudicare semplicemente grottesco, se non fosse stato, prima di tutto, penoso. Alla fine la manifestazione é stata sciolta dalle forze dell’ordine, perché sprovvista delle necessarie autorizzazioni.

La preghiera, il silenzio, il decoro, la modestia, il rientro nelle profondità dell’anima, per trovare la Parola assoluta: tutto questo, per quei religiosi, è passato di moda. Oggi bisogna predicare Dio a tempo di rock; scimmiottando lo stile profano, essi pensano di farsi pescatori di uomini: ma chi è che rimane preso veramente nella rete, a questo punto: il pesce o il pescatore? Lo spettacolo che essi hanno offerto era ridicolo, ma anche pericoloso: il cristianesimo che hanno “proposto” al pubblico non era che una caricatura della fede, una mascherata totalmente fuorviante.

La domanda è sempre la stessa: per dialogare con il mondo moderno, bisogna introiettare la filosofia del mondo moderno? Se così fosse, allora sarebbe più semplice fare quel che fecero Lutero e Calvino cinque secoli fa: abolire la Chiesa, sopprimere gli ordini religiosi e la distinzione fra sacerdoti e laici, leggere e interpretare liberamente le Sacre Scritture, eliminare quasi tutti i sacramenti, negare al Papa qualunque obbedienza; e, soprattutto, smettere di sforzarsi di essere dei buoni cristiani, perché tanto non serve a niente, Dio ha già deciso chi salvare e chi no.

Lutero e Calvino, almeno, furono coerenti (meno coerenti gli storici professionisti che si ostinano a chiamare “riforma” quella che fu una radicale distruzione), mentre questi teologi, questi preti e questi fedeli “progressisti” dei nostri giorni non hanno nemmeno la virtù della coerenza: vorrebbero snaturare completamente la fede, ma senza avere il coraggio di dirlo e, forse, nemmeno l’onestà di rendersene conto. Intanto si affannano per tirare la Chiesa dalla loro parte, per tirare il Papa per la falda della sottana, spostandoli sempre più verso le loro posizioni. La fede?, una possibilità. La vita dopo la morte?, forse. Il sacerdozio femminile: perché no? Le unioni di fatto, i matrimoni gay: perché no, dopotutto? Aborto ed eutanasia: no, certo; però, bisogna vedere, vi sono taluni casi…

E così via, di dubbio in dubbio, di possibilismo in possibilismo, di compromesso in compromesso: alla fine quel che resterà non avrà più niente di specificamente cristiano e neppure di specificamente religioso. Sarà una pseudo-religione fatta da ciascuno sulla propria misura, come si va dal sarto ad ordinare un vestito. Una “religione” buona per tutte le stagioni, che costa il minimo della fatica intellettuale e nessun sacrificio sul piano morale. Una religione comoda, una religione usa e getta. Gesù Cristo, alla fine, sarà uno dei tanti maestri di saggezza: un uomo notevole, certamente, ma insomma un uomo. Come dicono i Testimoni di Geova. E la morte, tornerà ad essere la morte: la parola definitiva sulla vita, come nell’Antico Testamento. Poi, forse, Dio resusciterà i defunti: ma l’anima, l’anima immortale, non sarà più necessaria.

Si tornerà a leggere i Vangeli e si “scoprirà” che Gesù, nel deserto, non è stato tentato da Diavolo, perché quel racconto è un semplice simbolo; che i pani e i pesci non sono stati moltiplicati, perché anche quello è solo un simbolo; che Lazzaro non è stato richiamato dal paese dei morti, perché questo non è possibile. Quasi quasi, si scoprirà che Gesù non ha fondato una nuova religione: era un ebreo, che pensava da ebreo, ed ebrei erano i suoi seguaci - Paolo compreso, l’evangelizzatore dei gentili. Dunque il cristianesimo non è che una forma di ebraismo, un ebraismo rivisto e adattato alla mentalità dei non ebrei.

Allora bisogna avere il coraggio di dire che Pio X, quando ha condannato il modernismo, definendolo “sintesi di tutte le eresie”, ha sbagliato in pieno; bisogna avere il coraggio di dire che molti teologi, preti e laici hanno visto nel Concilio Vaticano II la rivincita della verità rappresentata dal modernismo, ingiustamente condannato; e che il cristianesimo attuale, che essi volevano e vogliono, è un cristianesimo modernista, ossia un cristianesimo fatto a immagine e somiglianza del mondo moderno, che dice solo quelle cose che piacciono al mondo moderno e che tace o si vergogna di tutte le cose che, al mondo moderno, potrebbero dare fastidio.

Resta solo da capire che cosa potrebbe farsene, l’uomo moderno, di un siffatto cristianesimo. Per sentire dei discorsi che piacciono al mondo moderno, non c’è bisogno di una religione, né di una chiesa, e tanto meno del cristianesimo, Le stesse cose le dicono già, e le dicono meglio, innumerevoli ideologie politiche, sociali, filosofiche; meglio ancora: le dice la società moderna, senza bisogno di ideologie. Le dice con l’adorazione quotidiana delle cose, del denaro, del sesso, del potere. E dunque, perché ripeterle tra le navate di una chiesa, scimmiottando lo stile del mondo?


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FEMEN en Fourest VS Léonard en Chichah: twee maten, twee gewichten

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FEMEN en Fourest VS Léonard en Chichah: twee maten, twee gewichten

door  Theo Van Boom

Ex: http://www.solidarisme.be/ 

Dinsdag j.l. heeft de feministische groep FEMEN de aartsbisschop Léonard belaagd tijdens een spreekavond aan de ULB. De hysterie (al is die nogal sec) ten spijt, wat vooral ZOU MOETEN opvallen is andermaal de flagrante hypocrisie van de ULB.

Even ter herinnering: in 2011 voerden enkele (linkse) moslims een actie tegen Caroline Fourest aan dezelfde universiteit en onder dezelfde omstandigheden. Wel werd er enkel wat gescandeerd. Volslagen terecht tegen een serpent als Fourest, die overigens actief FEMEN ondersteunt.

ALLE politieke partijen veroordeelden dit. De ULB veroordeelde dit. De moderator van dienst, pseudo-filosoof Guy Haarscher: "herrieschoppers die zich gedragen als fascisten"! Souhail Chichah, medewerker aan de ULB, werd hiervoor geschorst!

Consternatie alom, dus.

En... laat het nu net diezelfde Haarscher zijn die ook aan tafel met Léonard zat.

Was zijn reactie op dinsdag al even sterk? Met Fourest sprong de man meteen op om de Burqa-bla-bla activisten uit te schelden voor extreemrechts (alle sympathie daarmee), met de wellustige dames is hij een stuk onverschilliger. Helemaal leuk is zijn interview in La Libre. Bij de vraag of het hem geshockeerd had, antwoordt Haarscher simpelweg dat "het gedrag van de fotografen niet meer shockeert". Was dat de vraag, mijnheer Haarscher?

Nog leuker:

"Comme les Pussy Riots, ce sont des femmes courageuses qui ont mené des combats importants face à des régimes totalitaires. Elles osent s’affirmer contre les dogmatismes, l’intolérance et l’inégalité des femmes. Tout cela est bien [...]"

Ze krijgen zowaar een schouderklopje!

Ook dit keer heeft hij het over democratische beginselen en het recht op vrije meningsuiting. Dat het 'debat' met Fourest (het ging over extreemrechts) echter meer eenzijdig was dan verkiezingen in Noord-Korea, kan je ook niet wegwuiven. Haarscher heeft het over journalistieke deontologie, maar academische deontologie is de man blijkbaar vreemd.

En wat al helemaal niet weg te wuiven valt is dat het hier om een fysieke aanval ging, maar dat vindt Haarscher minder erg dan toen het 'debat' met Fourest niet kon doorgaan. Geweld is dus minder erg, zolang de avond maar kan doorgaan. Of is het allicht zolang het tegen een vertegenwoordiger van de RKK is en niet een extremistische plagiatrice van de genderbeweging?

Dit keer dus geen veroordelingen vanuit de ULB, geen veroordelingen vanuit de politieke partijen, geen klachten bij het parket... Zelfs geen verontwaardiging, als je erbij stilstaat. Niks.

Conclusie: Fourest (klik hier voor meer) en de FEMEN worden beter beschermd dan onze eigen aartsbisschop Léonard of de universitair medewerker/excuusallochtoon Chichah. De twee protesten naast elkaar gelegd tonen aan dat dit onmiskenbaar een geval van twee maten en twee gewichten is, geen enkele nuance kan deze vaststelling uitwissen.

Il faut le faire, inderdaad.

Feminisme, hoe radicaal ook, wordt beter beschermd dan religieuze uitingen. Dat is de kern van de zaak in de seculiere staat België. Dat is ook het uiteindelijke gevolg van de zogeheten 'laïcité', wat na de "Manifs pour Tous" in Frankrijk ook nog maar eens duidelijk is geworden: bescherming van de staat tegen religie en zeker niet omgekeerd.

Secularisme is een mondialistische staatsideologie die de religie van de Verlichting voorrang geeft op die van God. Een excuus voor verdoken discriminatie te voeren, gedoogd onder het mom van verdraagzaamheid. En wanneer puntje bij paaltje komt, maakt deze discriminatie geen onderscheid tussen islam of christendom. Of nationalisme.

En tenminste op dit vlak kan je nog zeggen dat FEMEN, de ULB, Haarscher en de politieke partijen meer consequent zijn dan de uiteindelijke geviseerden zelf. Die laten zich liever tegen elkander uitspelen bij populistische nondebatten over een hoofddoek.

Religieus of niet, de enige vraag die we ons moeten blijven stellen: trekken wij de kaart van het mondialisme?

Nee? Goed, in dat geval alle steun aan Léonard en Chichah. En dat ze Femen en Fourest de volgende keer ook met brandblussers verwelkomen.

jeudi, 25 avril 2013

Comment l'islam a étouffé les cultures pré-islamiques au nom du culte de l'unicité de Dieu

Comment l'islam a étouffé les cultures pré-islamiques au nom du culte de l'unicité de Dieu

De l'architecture aux divinités, une conférence à Fès au Maroc s'est penchée pour la première fois sur l'histoire du Maroc antique. Mais les cultures pré-islamiques restent largement méconnues.

Al-tawhîd

Ex: http://histoire.fdesouche.com/

 
"L'islam a conservé, et on l'ignore souvent, des éléments de culture pré-islamique."

"L'islam a conservé, et on l'ignore souvent, des éléments de culture pré-islamique." Crédit DR

Atlantico : De l'architecture aux divinités, une conférence tenue à Fès au Maroc s'est penchée pour la première fois sur l'histoire du Maroc antique. Les cultures pré-islamiques restent largement méconnues. Comment l'expliquer ? 

C'est une conférence salutaire à tout point de vue, car, en effet, objectivement, l'histoire des sociétés arabes ne commence absolument pas avec la naissance de l'islam au début du VIIème siècle. Il serait bon de s'en souvenir. Ainsi, cette religion monothéiste, née en Arabie en 610 sous l'apostolat de Muhammad, ne s'est donc pas développée ex nihilo. À côté de l'architecture et du culte des divinités, à l'époque anté-islamique, il ne faut pas omettre de mentionner la littérature arabe et plus exactement encore sa poésie, laquelle fut très raffinée avant et après l'avènement de l'islam.

Si les cultures pré-islamiques sont sinon ignorées du moins délaissées, c'est parce que selon un certain enseignement de l'islam, du culte de l'unicité absolue de Dieu (al-tawhîd), celles-là contribueraient à éloigner l'homme en général et le musulman en particulier, de la croyance en un Dieu unique suivant des règles ou des principes précis édictés dans le Coran, la Sunna (traditions prophétiques) et "la compréhension des pieux prédécesseurs" (al-salaf al-çâlih).

Il y a une confusion regrettable dans l'esprit de certains musulmans de nos jours. En effet, ils confondent démarche de connaissance, historique et démarche piétiste ou fidéiste, en sorte qu'ils croient, à tort, que la première menace inéluctablement l'intégrité de leur foi !

Quelles étaient les valeurs qui y étaient défendues (en particulier le rapport au sexe et à la femme) ? Quelles en ont été les principaux apports et quel en est aujourd'hui l'héritage ? 

Dans L'Arabie pré-islamique, par exemple, dominait une vie tribale où la liberté du groupe se confondait avec celle de l'individu, dans une perpétuelle interaction. Il y avait, notamment à La Mecque, outre une culture polythéiste intense à côté du judaïsme et du christianisme, une dialectique de la paix et de la guerre entre les différentes tribus, avec des razzias, etc. Y dominaient par ailleurs des solidarités mécaniques, les vertus de courage, d'honneur, etc. La vie morale des Bédouins reposait, selon Roger Caratini, entre autres orientalistes, essentiellement sur les valeurs suivantes: "le courage, l'honneur tribal, familial, individuel, la générosité et l'hospitalité".

La polygamie était largement de mise, dans la mesure où plus vous aviez de femmes, plus il vous était possible d'asseoir la puissance de la tribu, avec une prime accordée aux garçons (symboles de la puissance du groupe), tandis que les fillettes étaient parfois enterrées vivantes...Et c'est l'islam, très précisément, qui a mis fin à cette pratique horrible!

Quant à la poésie pré-islamique, elle chantait les vertus de l'amour, du vin; elle prônait quelquefois l'injure ou l'ironie vis-à-vis des clans ennemis, etc. 

Cependant, l'islam a conservé, et on l'ignore souvent, des éléments de culture pré-islamique. Il faut savoir que le pèlerinage à La Mecque était déjà de rigueur et un lieu prisé par différentes tribus et les grands commerçants installés ou de passage, soit donc bien avant l'arrivée de l'islam. L'autorisation de la polygamie était également un héritage de la période pré-islamique, en plus de la richesse sémantique de la langue arabe qui deviendra aussi la langue du Coran !

Quelles conséquences le développement de l'islam a-t-il eu sur elles et sur leur rayonnement ? Quel regard porte-t-il aujourd'hui sur ces cultures ? Plus globalement, quel rapport l'islam a-t-il à l'histoire ?

Les conséquences sont multiples. L'islam a sévèrement combattu la polythéisme, c'est un fait; a fortiori sous les feux de lectures orthodoxes; il a interdit, suivant l'orthodoxie sunnite notamment, et en plusieurs étapes, la consommation d'alcool, le libéralisme sexuel (sur ce point, comme n'importe quel autre monothéisme); il a également strictement encadré la polygamie, etc. Des acteurs de l'islam (activiste) contemporain qui nourrissent une vision très rigoriste de la religion, entretiennent une véritable animosité et haine vis-à-vis de certains types de culture hérités de la période pré-islamique. Souvenons-nous à cet égard des Talibans afghans qui ont détruit les Bouddhas de Bâmiyâm en 2001 ou, plus récemment, des islamistes qui ont entamé la destruction de mausolées de saints à Tombouctou au Mali... Cela dit, il convient d'être extrêmement précis: c'est moins l'islam, en tant que tel, et intrinsèquement, qui mène une guerre sans pitié à l'encontre de ces cultures, que des activistes qui vouent un souverain mépris à l'endroit de la connaissance de façon générale, et, en particulier, du patrimoine de l'humanité.

lundi, 08 avril 2013

Géopolitique du Christianisme – Catholiques et Orthodoxes

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Géopolitique du Christianisme Catholiques et Orthodoxes

par Xavier Moreau

À l’occasion de la récente élection du Pape François Ier, nous mettons une seconde fois en ligne cette analyse de Xavier Moreau, initialement publiée sur Realpolitik en juillet 2010. Elle ne perd en rien son actualité.

[Chapeau original tel que publié en juillet 2010] L’accession du cardinal Ratzinger à la papauté a accéléré le processus de rapprochement entre l’Église catholique et l’Église orthodoxe. Cette réconciliation, après 1000 ans de disputes, pourrait devenir réalité, tant elle est souhaitée par les patriarches de Russie, de Serbie, de Constantinople, de Chypre et le pape Benoit XVI. Elle est en outre, ardemment désirée par le pouvoir russe, qui cherche ainsi à désarmer un levier, que la puissance anglo-saxonne a su utiliser avec habileté ces vingt dernières années.
Xavier Moreau

Si l’origine de la querelle est théologique, la fracture entre l’Europe occidentale et orientale ne repose pas exclusivement sur la fameuse querelle du « filioque ». Pour les orthodoxes et les catholiques, la foi, les sacrements, l’importance de la tradition sont les mêmes. Le Schisme s’est comporté pendant 1000 ans comme un organisme vivant, se nourrissant de querelles religieuses, mais aussi des conflits entre états catholiques et orthodoxes. C’est justement la multiplicité des acteurs, à la fois religieux et politiques, qui a rendu quasi-impossibles les tentatives de rapprochement, jusqu’à aujourd’hui.

On peut distinguer dans l’histoire de ce schisme, trois grandes périodes jusqu’à la chute du communisme. La première qui s’écoule du VIIIème au XVème siècle, couvre la naissance et l’aggravation du conflit. La seconde, qui correspond au développement séparé des deux Églises s’étend jusqu’à la Révolution russe. La dernière couvre les deux guerres mondiales et prend fin en 1991, à la disparition de l’Union Soviétique.

La chrétienté des Xème et XIème siècles s’est construite autour de deux ensembles politiques issus de l’Empire romain, l’un latin et l’autre oriental. A cette époque la civilisation est en Orient. Les peuples qui composent l’Europe occidentale sont considérés comme des barbares par les Byzantins. Anne de Kiev, qui devient Reine de France en 1051, en épousant Henri Ier, est frappée par la rusticité de la cour de ce dernier. Tandis que Constantinople rayonne encore de l’héritage de l’Empire romain, les chrétiens latins s’efforcent de rivaliser avec la grandeur byzantine. Ils ont pour eux la jeunesse et la vigueur de leurs peuples. Alors que le fondateur des Carolingiens s’est illustré, en 732, en écartant définitivement le péril arabo-musulman à Poitiers, que les Espagnols poursuivent leur « Reconquista », la vieille puissance byzantine résiste mal aux coups des Arabes, puis des Turcs. Du côté latin, la papauté qui siège à Rome veut affirmer sa primauté sur Constantinople en tant qu’héritière du trône de Saint Pierre. Au VIIIème siècle, l’Église romaine a rajouté de manière unilatérale, le fameux « filioque » au CREDO chrétien. Les Catholiques professent donc que le Saint-Esprit procède du Père et du Fils. Ce que reprochent surtout les chrétiens orientaux, c’est l’unilatéralité de la décision romaine, prise sans consulter les autres patriarcats. Le pape a rompu la « Sobornost », notion extrêmement importante pour les chrétiens orientaux, proche de la « collégialité ». En 1054, la rupture théologique est consommée. Cette querelle doctrinale aurait pu prendre une moindre importance, sans l’orgueil des clercs de part et d’autre, et surtout, sans le déroulement catastrophique des croisades.

La deuxième moitié du XIème siècle est marquée dans l’empire romain d’Orient, par la volonté de l’empereur Alexis Ier Comnène, de restaurer la puissance byzantine, notamment contre l’invasion des Turcs Seldjoukides. La faiblesse de son armée pousse Alexis Ier à demander de l’aide au pape Urbain II, pour recruter des mercenaires occidentaux. Emu par le sort des chrétiens orientaux, le pape Urbain II appelle à la croisade en 1095. Cet appel rencontre un écho exceptionnel dans une Chrétienté latine avide de pèlerinages et brûlant de libérer le tombeau du Christ. Pourtant, ce qui aurait du restaurer l’Union des deux Églises, contre l’ennemi commun, contribue à renforcer l’hostilité voire la haine entre les deux peuples chrétiens. Les armés croisées se montrent souvent indisciplinées et surtout incontrôlables par le pouvoir byzantin. Elles s’attirent l’hostilité et la méfiance des populations chrétiennes de l’Empire romain d’Orient. L’irréparable est commis lors de la IVème croisade en 1204. Le doge de Venise exige la prise de Constantinople en échange du transport de l’armée croisée vers la Terre Sainte. Après maintes péripéties, la ville est mise à sac. Cela constitue une perte immense pour l’Empire byzantin, et ruine définitivement ses espoirs de repousser les envahisseurs musulmans. Plutôt que d’avoir sauvé les chrétiens d’Orient, les croisés latins les ont condamnés à la « dhimmitude ». Une ultime tentative de réconciliation a lieu en 1439. A Florence, un concile œcuménique parvient à réunir le pape, le patriarche de Constantinople et le Métropolite de Moscou, Isidore de Kiev. Les trois parties s’entendent, mais ni les Byzantins, ni le Grand Prince de Moscou, Vassili II, ne veulent de cet accord. Ce dernier enferme Isidore de Kiev dans un couvent en 1441. Cet événement, ainsi que le mariage, en 1472, de son fils, Ivan III, avec Sophie Paléologue, nièce du dernier empereur byzantin, font de Moscou la troisième Rome. Le monde orthodoxe suit désormais une sorte de développement séparé où la Russie est la puissance dominante. A la fin du XVème siècle, les deux confessions commencent à s’étendre géographiquement, l’une par la conquête du nouveau monde, l’autre par la poussée russe vers l’Orient.

Les relations avec la papauté sont désormais quasi systématiquement conflictuelles. La menace militaire polonaise, que subit la Russie à sa frontière du nord-ouest contribue à cet état de fait. Pourtant, Ivan le Terrible demande au Vatican, en 1580, d’intercéder pour obtenir une paix négociée avec le roi de Pologne. Le pape dépêche un émissaire jésuite, le père Antonio Possevino, en espérant la réconciliation des Églises et la levée d’une nouvelle croisade. Antonio Possevino fournit un récit détaillé de son voyage en Russie de 1581 à 1582. Ivan le Terrible se montre hermétique à toute idée de rapprochement, même s’il concède quelques libertés de circulation aux catholiques. Possevino négocie la paix de Jam Zapolski en 1582, à laquelle les Polonais mettront fin en prenant Moscou en 1605. Possovino estime que la réconciliation des deux Églises est impossible et recommande la conversion par la création d’Églises orientales rattachées à Rome. Les Jésuites seront d’ailleurs très actifs dans ce processus qui s’est mis en place depuis le XIIème siècle. Ces Églises orientales ou gréco-catholiques ou encore « uniates » constituent jusqu’à aujourd’hui une des principales pommes de discorde entre Catholiques et Orthodoxes. Le XVIIème siècle voit ainsi se prolonger le développement séparé des deux églises. Au XVIIIème siècle, alors que l’ordre catholique traditionnel vacille en Occident, sous les coups des philosophes des lumières, les Russes l’emportent successivement sur les protestants suédois et les catholiques polonais. Sous Catherine II, ils commencent à porter des coups décisifs à l’Empire ottoman qui amorce son déclin.

Le siècle suivant est marqué par la suprématie russe sur les Turcs et par la libération des peuples chrétiens orientaux du joug musulman. Dans le même temps, les chrétiens latins et orientaux doivent faire face à une nouvelle menace : l’athéisme, né de l’Europe des lumières et de la Révolution française. La déchristianisation qui a commencé en France dès les premiers moments de la révolution inquiète particulièrement l’empereur Alexandre Ier. Les révolutionnaires français inaugurent les premiers massacres de masse, qui inspireront Lénine 120 ans plus tard. L’Empereur russe met en place, après le Congrès de Vienne de 1815, la Sainte Alliance sensée unir les princes chrétiens contre les dangers des idées révolutionnaires. Tandis que l’orthodoxie se renforce politiquement sous la houlette de la Russie impériale, le XIXème siècle est pour l’Église catholique synonyme de persécutions en Europe. C’est aussi pour elle, le siècle de la rédaction de textes fondamentaux sur sa doctrine, notamment la doctrine sociale. En 1891, l’encyclique Rerum Novarum apporte la seule réponse alternative sociale au marxisme et à la lutte des classes. Elle reste sans équivalent dans l’Église orthodoxe jusqu’à la chute du communisme. Ce développement de la doctrine catholique est accompagné par le renforcement de la hiérarchie vaticane. L’affirmation en 1870, de l’infaillibilité pontificale, creuse un peu plus le fossé entre catholiques et orthodoxes, même si celle-ci ne fut invoquée qu’une fois en 140 ans. Ainsi le XIXème siècle semble achever la séparation des deux Églises, qui vont affronter en ordre dispersé les formes les plus sanglantes et inhumaines de l’athéisme, le communisme et le nazisme.

L’autocratie impériale et l’orthodoxie échouent contre les tendances anarchistes et révolutionnaires qui trouvent en Russie un terreau particulièrement favorable. Netchaïev, Bakounine, Kropotkine sont les précurseurs ; Lénine, Trotski et Staline, les exécuteurs fanatiques. Pendant les 70 ans de communisme qui s’abattent sur la Russie, la question du rapprochement des Églises disparaît. L’Église orthodoxe est persécutée, même si la Grande Guerre Patriotique force Staline à rouvrir les Églises. Etroitement contrôlée, l’Église orthodoxe parvient alors à se maintenir tant bien que mal. Cette soumission au pouvoir communiste lui sera reprochée, notamment par les Catholiques. Les Églises uniates roumaine et ukrainienne lui sont rattachées de force.

En Occident, l’Église catholique, qui s’est remarquablement comportée pendant la Deuxième Guerre Mondiale, est déstabilisée à partir du concile Vatican II, en 1962. Les clergés français, allemand et latino-américain, conquis par la théologie de la libération et les influences protestantes, s’éloignent de l’enseignement traditionnel de l’Église catholique. Le théologien brésilien, Leonardo Boff, déclare que « la barbe de Fidel Castro se confond avec celle des apôtres». Il est sanctionné en 1984 par la « Congrégation pour la doctrine de la foi », présidé par le cardinal Joseph Ratzinger. Ce désordre inquiète les Églises orthodoxes. Pourtant le concile Vatican II réaffirme la proximité des deux confessions et rappelle que « les Églises d’Orient possèdent depuis leur origine un trésor auquel l’Église d’Occident a puisé beaucoup d’éléments de la liturgie, de la tradition spirituelle et du droit (…) les dogmes fondamentaux de la foi chrétienne sur la Trinité, le Verbe de Dieu, qui a pris chair de la Vierge Marie, ont été définis dans des conciles œcuméniques en Orient.»

A la chute du communisme en URSS, les églises se remplissent massivement, 70 ans de matérialisme communiste ne sont pas venus à bout de la foi orthodoxe. Elle se retrouve, comme l’Église catholique depuis 30 ans, à devoir faire face au matérialisme libéral. La réconciliation est immédiatement à l’ordre du jour et semble possible. C’est sans compter avec les politiques impériales allemande et américaine, qui ont décidé d’utiliser cette fracture civilisationnelle pour accomplir leurs objectifs géopolitiques en Europe, quitte à mettre au passage, la Yougoslavie à feu et sang.

Malgré la volonté affichée par les dirigeants catholiques et orthodoxes dès le début des années 90 de trouver un modus vivendi, cette période est synonyme d’affrontement entre le monde orthodoxe et le monde catholique. L’Allemagne et l’Amérique jouent habilement sur les antagonismes historiques et religieux pour mener à bien leurs objectifs géopolitiques. Pour l’Allemagne réunifiée d’Helmut Kohl, il s’agit d’achever le « Drang nach Osten » (« Bond vers l’Est »), permanence de la politique germanique en Europe. Pour les Anglo-saxons, il s’agit de maintenir, contre le sens de l’histoire, la notion d’Occident et de justifier la perpétuation de son bras armé, l’OTAN. Bénéficiant du déclassement politico-stratégique de la France et de la Russie durant cette même période, cette politique est couronnée de succès, et connaît son apogée lors des bombardements contre la Serbie en 1999. Malgré cet antagonisme poussé à son paroxysme en Yougoslavie, les deux chrétientés catholique et orthodoxe semblent encore vouloir se rapprocher. La fin de la Guerre froide et la disparition de l’affrontement Est-Ouest fait de l’Occident un concept du passé. Elle laisse apparaître une nouvelle fracture « civilisationnelle » entre le monde chrétien orthodoxe-catholique et le monde protestant qui conserve encore pour modèle de son dynamisme national celui du peuple élu de l’Ancien Testament.

L’action de l’Allemagne en Yougoslavie, en attisant le conflit entre Croates catholiques et Serbes orthodoxes, suspend pour dix ans la possibilité d’une réconciliation. La destruction de la Serbie comme puissance régionale est, en effet, un impératif pour l’Allemagne réunifiée. Dès les révoltes nationalistes croates en 1974, les services secrets ouest-allemands ont recruté des dissidents croates, en activant les réseaux ultra-nationalistes oustachis. L’Allemagne doit éviter une disparition pacifique de la Yougoslavie sur le modèle de l’URSS, qui ferait immanquablement de la Serbie la puissance dominante de la région. Cependant, s’appuyer sur la faction néo-nazie et antisémite croate comporte un énorme risque pour l’Allemagne, fortement marquée par son histoire récente. C’est alors que le gouvernement allemand réussit une suite de manœuvres politico-diplomatiques qui vont lui permettre de parvenir à ses fins.

Les Allemands bénéficient d’une conjonction de leurs intérêts avec ceux des États-Unis, qui ont décidé de reproduire contre les Serbes (et leur allié russe), une stratégie afghane qui consistait à soutenir les mouvements islamistes contre les soviétiques. Le gouvernement américain apporte ainsi son soutien, à l’islamiste radical Alija Izetbegovic.

Alors que pendant 50 ans, le peuple serbe a été la principale victime de la politique ségrégationniste de Tito, lui-même croate, la propagande américaine, allemande et autrichienne réussit à faire croire en Europe et au-delà, que les Serbes sont les héritiers des communistes yougoslaves. Cette habile manipulation historique obtient un écho incontestable dans les pays européens à forte population catholique. Cette hostilité est cependant davantage due à une ignorance complète de l’histoire des Balkans, qu’à une véritable opposition anti-serbe. Seule une minorité atlantiste des élites catholiques européennes est consciente de l’enjeu réel. Ainsi, le ministre des finances autrichien, Johann Farnleitner, déclare-t-il en 1999, que « l’Europe s’arrête là où commence l’orthodoxie ». En France, le terme « serbolchévique » fait son apparition dans une intelligentsia catholique, qui peine à comprendre les nouveaux rapports de force issus de la fin de la guerre froide. C’est cette peur de voir les catholiques croates ou slovènes de nouveau persécutés par les communistes, qui pousse le Vatican à reconnaître la Croatie et la Slovénie. Cette reconnaissance brutale, suivie par la mise en place en 1992 en Croatie, d’une constitution ségrégationniste anti-serbe, précipite la Yougoslavie dans une guerre civile de 10 ans, qui aurait pu être sans doute évitée. Le Vatican ne reproduira pas cette erreur en 2008, et aujourd’hui, il n’a toujours pas reconnu l’indépendance du Kosovo.

Le conflit yougoslave a considérablement nui au rapprochement catholique-orthodoxe, de même que l’antagonisme séculaire russo-polonais. Cependant, les discussions n’ont jamais cessé. Le patriarche de Russie Alexis II et le pape Jean-Paul II y ont toujours été favorables, même si les origines polonaises de ce dernier furent un frein réel. L’élection de Benoit XVI fait avancer considérablement le rapprochement des deux Églises. Sa volonté de retour à la tradition catholique rassure les Orthodoxes. En août 2007, le patriarche Alexis II salue la publication du « motu proprio » qui autorise les Catholiques qui le souhaitent, à suivre la liturgie traditionnelle. Le patriarche de Russie déclare alors : « La récupération et la mise en valeur de l’antique tradition liturgique est un fait que nous saluons positivement. Nous tenons beaucoup à la tradition. Sans la conservation fidèle de la tradition liturgique, l’Église orthodoxe russe n’aurait pas été en mesure de résister à l’époque des persécutions dans les années Vingt et Trente du siècle passé. A cette période, nous avons eu tant de nouveaux martyrs que leur nombre peut être comparé à celui des premiers martyrs chrétiens ».

Ce retour à la tradition rapproche l’Église catholique des Églises orthodoxes, et l’éloigne de la « tentation protestante » de ces cinquante dernières années. Les positions des deux Églises sur les sujets de société sont les mêmes. Tandis que bon nombre d’Églises protestantes acceptent désormais le modèle permissif anglo-saxon de société avec l’homosexualité, y compris dans le clergé, la contraception chimique, le préservatif, l’avortement et le relativisme généralisé, Orthodoxes et Catholiques restent inflexibles sur la morale chrétienne. Il convient d’ajouter que les Églises catholiques et orthodoxes ont conservé au cœur de leur pratique, l’obligation de pardonner aux ennemis. La nécessité du pardon et du rejet de l’esprit de vengeance, en s’opposant aux traditions féodales de vendetta, en limitant les guerres ou leurs conséquences désastreuses a permis l’apparition de ce modèle de civilisation que fut l’Europe chrétienne. La réaction des peuples polonais et russe, au moment de la commémoration des massacres de Katyn, semble démontrer, que dans le cadre ce modèle « culturel», la réconciliation est possible. A l’inverse, en réintroduisant, par la croyance en la prédestination, le principe judaïque de peuple élu, le protestantisme s’est privé de cette voie pacifique de sortie des conflits. Les « Pilgrim fathers », les Boers d’Afrique du Sud ont cru à leur élection divine. L’Amérique de Bill Clinton et de Georges Bush a considéré que sa mission divine, la libérait de toute considération morale contre ses ennemis vrais ou supposés, qui sont l’incarnation du Mal. Le cinéma américain exporte d’ailleurs souvent ce thème, sous des formes naïves, souvent à limite du ridicule.

Conscient de l’enjeu politique de ce conflit de civilisation, l’administration russe, depuis l’arrivée de Vladimir Poutine au pouvoir, soutient les tentatives de réconciliation. Ce dernier a invité le pape Jean Paul II en Russie, en temps que chef d’Etat du Vatican. Le pouvoir russe a conscience que l’enjeu dépasse la simple question religieuse. Cette réconciliation, voulue par les chefs des Églises chrétiennes, effacera, si elle a lieu, la frontière entre l’Europe occidentale et orientale. Elle tracera, en revanche, une nouvelle fracture dans le monde dit « occidental » entre le groupe catholique-orthodoxe et les Judéo-Chrétiens issus de la Réforme. Elle est, pour cela, redoutée par le monde anglo-saxon, dont l’inquiétude est proportionnelle à la violence de ses campagnes médiatiques contre l’Église catholique.

samedi, 16 mars 2013

Un Papa argentino: mamma mia

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Un Papa argentino: mamma mia

 

Alberto Buela (*)

 

Si los argentinos somos famosos en el mundo por nuestra desmedida autovaloración, qué no dirán ahora.

A Maradona, Messi, Fangio, Gardel, Perón, Evita, el Ché Guevara, Borges y la Reina Máxima de Holanda, ahora sumamos a un Papa.

Además es el primer el primer Papa americano[1], aunque algunos periodistas zafios sostienen que es el primer no europeo, ignorando a San Pedro y otros muchos.

Ahora bien, ¿ tiene esto alguna significación primero para nuestro país, luego para Suramérica y la ecúmene iberoamericana y luego para el mundo?.

Es sabido que es muy difícil realizar una prognósis con cierto rigor, pues el conocimiento del futuro nos está vedado desde el momento que tal don quedó encerrado en la Caja de Pandora.

Con esta prevención y sabiendo que vamos a hablar más como filodoxos, como amantes de la opinión, es que intentaremos algunas observaciones.

 

Para Argentina esta elección como Papa de uno de sus hijos es una exigencia de un mayor compromiso católico tanto de su pueblo como, sobretodo, de sus gobernantes. Pues tiene que haber una cierta proporcionalidad entre lo que somos y lo que decimos que somos. De lo contrario, vamos a hacer verdad aquel viejo chiste que dice que el mejor negocio del mundo es comprar a un argentino por lo que vale y venderlo por lo que él dice que vale. Y hoy esta elección del Papa Francisco está diciendo que los argentinos valemos mucho. Bueno, si es así, nosotros como pueblo y nuestros gobernantes como tales tenemos que realizar, todos, acciones que nos eleven a esa consideración hacia la que nos arrastra la designación de un Papa de nuestra nacionalidad.

 

Con respecto a Suramérica el hecho potencia a la región. Porque las vivencias que de la zona tiene el Papa hacen de él un vocero privilegiado de sus necesidades e intereses y porque además pues posee un conocimiento directo, no mediado o mediático de la región y sus diferentes países.

 

Con relación a la ecúmene iberoamericana en su conjunto, el Papa Francisco tiene una visión integradora  al estilo de Bolivar, San Martín y más cercanos a nosotros Perón, Vargas o el reciente fallecido Chávez. Esto no quiere decir que Francisco sea peronista, pero sí que tiene una acabada comprensión de este fenómeno político.

 

Finalmente, con respecto al resto del mundo, estimamos que iniciará una gran campaña de evangelización intentando recuperar África y las ex repúblicas soviéticas para la Iglesia. Y seguramente reclamará por los reiterados asesinatos de cristianos, en 2011 hubo 105.000 muertos, mayoritariamente, en países con gobiernos islámicos.

 

En cuanto a su perfil cultural es un jesuita formado en la época de plena ebullición del Concilio Vaticano II. Esto es, cuando comienza la decadencia de la orden. No recibe casi formación teológica sino mas bien sociológica de acuerdo con la pautas de la orden en ese momento. Así, el sacerdote no tenía que “hacer lo sagrado” sino “militar y activar políticamente”. Los jesuitas se transformaron en sociólogos más que curas. De ahí que la orden se vació en tan solo una década. Cuando el Padre Bergoglio fue provincial de la orden (1973/79) entregó el manejo de la Universidad jesuita del Salvador a los protestantes (Pablo Franco, Oclander et alii). Mientras él se dedicaba a asesorar espiritual y políticamente a la agrupación Guardia de Hierro, que vendría a ser una especie de sucursal argentina del Movimiento Comunione e liberzione. Una agrupación político religiosa bicéfala, que era liberacionista en Argentina y conservadora en Italia.

Su elección como Pater inter pares, cuyo acróstico forma el término Papa, trajo tranquilidad a la curia vaticana porque Francisco es hijo de italianos por parte de madre y padre y es nacido y criado en Buenos Aires, esa mega ciudad que  hiciera exclamar al medievalista Franco Cardini: la piu grande citá italiana del mondo. Es decir, estamos hablando de un “primo hermano, hermano” de los italianos. Al mismo tiempo, su vinculación simpatética (con el mismo páthos) con la comunidad judía argentina, la más numerosa después de la de Israel, le asegura al Vaticano que no habrá ningún sobresalto, “raigalmente católico,” por parte de Francisco. Hoy en Buenos Aires todos los rabinos y judíos sin excepción festejan su designación como Papa. Salvo el caso del periodista Horacio Verbitsky, difamador profesional y administrador de “los derechos humanos selectivos” del gobierno de Kirchner.

Como Arzobispo de Buenos Aires y como cardenal primado ha mostrado siempre una predilección por los pobres en la línea de Juan Pablo II y Ratzinger. Al mismo tiempo que comparte con ellos una cierta ortodoxia.

 

Y desde este lugar se opuso siempre al gobierno neoliberal de Menem y al socialdemócrata de los Kirchner. Con estos últimos su enfrentamiento ha sido y es muy fuerte, no tanto por razones ideológicas, no olvidemos que los dos se dicen progresistas, sino que se trata de dos personalidades (una profana y otra religiosa) que creen ser los auténticos intérpretes del pueblo.

 

¿Qué nos está permitido esperar?.  Que Francisco I siga la senda marcada por el Vaticano II, por Juan Pablo II y por Benedicto XVI sin mayores sobresaltos. La centralidad de la Iglesia seguirá siendo Roma pero su hija predilecta dejará de ser Europa para ser Iberoamérica, donde vive la mayor masa de católicos del mundo.

 

Hoy desde todos los centros de poder mundano, y los “analfabetos locuaces”(los periodistas) como sus agentes, piden que la Iglesia cambie en todo para terminar transformándose en una “religión política”  más, como lo son el liberalismo, la socialdemocracia, el marxismo y los nacionalismos. Y lo lamentable es que el mundo católico acepta esto como una necesidad ineluctable. Olvidando que el cristianismo es, antes que nada, un saber de salvación y no un saber social.

 

Y lo sagrado, la sacralidad de la Iglesia, la actio sacra,  la sed de sacralidad del pueblo, el retiro de Dios, el crepúsculo de la trascendencia?. 

 

¡Ah, no!, eso es pedirle demasiado a un Papa argentino.

 

(*) arkegueta, mejor que filósofo

buela.alberto@gmail.com



[1] Por favor, no digan más latinoamericano, que es un error conceptual grave. Latinos son solo los del Lacio en Italia. Nosotros en América somos hispanoamericanos, iberoamericanos, indoibéricos, indianos o simplemente americanos. Pero no latinoamericanos que es un invento espurio, falaz y, sobretodo, desnaturalizante para designarnos.

vendredi, 22 février 2013

Origines de la connivence wahhabisme-sionisme

Origines de la connivence wahhabisme-sionisme

 
Ex: http://www.numidia-liberum.blogspot.com/
 
Vers la fin du dix huitième siècle, au summum des conquêtes coloniales, les impérialistes anglais ont créé deux forces destructrices apparemment antagonistes, le Sionisme  d’un côté, le Wahhabisme ou Salafisme de l’autre. Ils appliquent en cela la devise : "diviser pour régner". Si les sionistes sont le glaive de l’impérialisme, les islamistes en sont les supplétifs, les harkis. Le sionisme est une calamité extérieure imposée au monde arabe. Le wahhabisme, est une maladie dégénérative endogène inoculée aux Arabes afin qu'ils s'attaquent d'abord à d'autres musulmans sunnites : les Turcs, et ensuite aux autres Arabes. Rached Ghannouchi ayant déclaré que les Salafistes étaient "ses fils", il est donc le père du Salafisme en Tunisie. Inutile alors de distinguer entre Salafisme, Wahhabisme ou Islamisme : c'est la même engeance. 


L'islamisme est à l'islam ce que le sionisme est au judaïsme : une idéologie de conquête du pouvoir et de l'argent au nom de la religion et  au détriment des peuples. 

De la même manière qu’il ne faut pas  confondre islam et islamisme, il ne faut pas non plus confondre judaïsme et sionisme. Mais quand on se prétend être le protecteur des lieux saints de l'islam, comme la dynastie saoudienne, quand on finance et dirige des groupes islamistes, souvent terroristes, et qu'on cache ses origines juives, c'est qu'on est, en réalité, un "sous-marin" sioniste.  D'après les documents historiques publiés récemment, ce serait le cas du wahhabisme et de la dynastie saoudienne.

Rappel historique

En 1914 commence la Première Guerre mondiale. Elle aura un impact décisif sur le succès du sionisme et du wahhabisme. Les Ottomans entrent en guerre aux côtés de l'Allemagne et de l'Autriche, face à la France, au Royaume-Uni, à l'Italie et à la Russie tsariste.Chacune de ces quatre puissances a des visées territoriales sur l'empire ottoman pour le démanteler et s'en partager les dépouilles.
Dès 1915, le leader sioniste britannique, Haïm Weizmann, entreprend de convaincre la direction britannique de l'intérêt pour elle de soutenir la cause sioniste. En 1916, les accords secrets Sykes-Picot entre la France et le Royaume-Uni divisent l'empire ottoman en cas de victoire, et accordent au Royaume-Uni les zones qu'il convoite. En 1917, Lord Balfour, représentant le gouvernement britannique, adresse à Lord Lionel Walter Rothschild une lettre, la « déclaration Balfour », par laquelle il indique que le Royaume-Uni est favorable à l'établissement d'un « Foyer national juif » en Palestine. 

Les Saoudiens acceptent la création d’Israël

À l'occasion de la conférence de paix de Paris de 1919, l’accord Fayçal-Weizmann fut signé le 3 janvier 1919 entre l'émir Faysal ibn Hussein (chérif de la Mecque et roi du Hedjaz)  et Haïm Weizmann (qui deviendra en 1949 le premier Président d'Israël). Par cet accord, Fayçal ibn Hussein accepte, au nom des Arabes, les termes de la déclaration Balfour . Cette déclaration est considérée de facto une des premières étapes dans la création de l'État d'Israël.

Fayçal - Weizmann

 

En Mars 1919, l’Émir Fayçal envoie le courrier suivant à Félix Frankfurter, juge américain, sioniste de choc, siégeant à la Cour suprême des États-Unis. "... Le mouvement juif est national et non impérialiste et notre mouvement (le wahhabisme) également est national et non impérialiste. Il y a en Palestine assez de place pour les deux peuples. Je crois que chacun des deux peuples a besoin du soutien de l'autre pour arriver à un véritable succès (...). J'envisage avec confiance un avenir dans lequel nous nous aiderons mutuellement, afin que les pays auxquels nous portons chacun un vif intérêt puissent à nouveau reprendre leur place au sein de la communauté des nations civilisées du monde".  Cf Renée Neher-Bernheim, La déclaration Balfour, Julliard 1969.
Plus récemment, après les accords de Camp David, l'Arabie saoudite a été l'un des premiers pays arabes à avoir importé des marchandises israéliennes. Selon Al-Alam, l'Arabie saoudite, en important d'Israël des équipements nécessaires à l'extraction du pétrole, ainsi que des pièces détachées de machines agricoles, des fruits et des légumes, est l'un des premier pays arabes à avoir noué des liens économiques et commerciaux avec le régime sioniste. Et comme le savent très bien les ouvriers de la compagnie «Aramco», qui est le principal exploitant de pétrole saoudien, sur la plupart des pièces détachées, qu’utilise la compagnie, il est écrit « Made in Israël ».

Les services secrets irakiens révèlent les origines juives des wahhabites et des saoudiens

Le Département de la Défense des États-Unis  a publié, récemment, des traductions de plusieurs documents de renseignement irakiens datant du règne de Saddam.  Le rapport s'appuie sur ​​les  Mémoires de M. Hempher , qui décrivent en détail comment cet espion britannique au Moyen-Orient, au milieu du XVIIIe siècle, a pris contact avec Abdul Wahhab, pour créer une version subversive de l'Islam, la secte du wahhabisme, qui est devenue le culte fondateur du régime saoudien. Ces  « Mémoires de M.Hempher », ont été publiées sous forme d’épisodes dans le journal allemand Spiegel.  

Parmi les vices que les britanniques devaient promouvoir chez les musulmans, à travers la secte wahhabite, figuraient le racisme et le nationalisme, l’alcool, le jeu, la luxure (vices qu’on retrouvera chez les émirs actuels). Mais la stratégie la plus importante reposait sur « la propagation d’hérésies chez les croyants pour ensuite critiquer l’Islam comme étant une religion de terroristes. ». A cet effet, Hempher trouva en Mohammed Ibn Abdul Wahhab un individu particulièrement réceptif.
Le mouvement wahhabite a été temporairement défait par les armées Ottomanes au milieu du XIXe siècle. Mais avec l'aide des Britanniques, les wahhabites saoudiens sont de retour au pouvoir en 1932. Depuis lors, les Saoudiens ont collaboré étroitement avec les Américains, à qui ils doivent leur richesse pétrolière considérable, dans le financement de diverses organisations islamiques fondamentalistes américaines et arabes. Simultanément,  les Saoudiens vont utiliser leur immense richesse pour diffuser cette vision déviante et perturbatrice de l'Islam dans diverses parties du monde. Cette opération de propagande est considérée par les spécialistes comme étant la plus grande campagne de propagande dans l'histoire. Ces sectes wahhabites, allant des salafistes tunisiens aux talibans afghans, sèment terreur et horreur dans le monde islamique, et salissent l’Islam par leur comportement et par les fatwas scélérates qu’ils émettent.
Par ailleurs,  un écrivain célèbre, amiral de la marine ottomane, qui a servi dans la péninsule  arabique,  Ayoub Sabri Pacha, a écrit sa version de l’histoire, telle qu’il la vécue, en 1888.  Parmi ses livres, « le début et la propagation du wahhabisme »  raconte l’association entre Abdul Wahhab et l’espion britannique Hempher en vue de comploter ensemble contre l’État turc ottoman afin de le dépecer au profit des Britanniques et de la secte wahhabite. Le fait que l’espion britannique Hempher ait été responsable du façonnement des préceptes extrêmes du Wahhabisme est mentionné aussi dans « Mir’at al-Haramain » un ouvrage du même Ayoub Sabri Pacha entre 1933-1938.
Abdul Wahhab fut l’instrument par lequel les britanniques parvinrent à insinuer cette vile idée parmi les musulmans de la péninsule arabique : il est licite de tuer d’autres musulmans, sous prétexte d’apostasie, il suffit de sortir une fatwa à cet effet. En fonction de cela, Wahhab défendait l’idée selon laquelle leurs frères musulmans Turcs, en offrant des prières aux saints, avaient trahis leur foi et qu’il était donc permis de les tuer, et de prendre pour esclaves leurs femmes et leurs enfants.
Les Wahhabites détruisirent aussi toutes les tombes sacrées et les cimetières, y compris à la Mecque et à Médine. Ils volèrent les trésors du Prophète, qui comprenaient des livres sacrés, des œuvres d’art et d’innombrables présents envoyés aux villes saintes au cours du millier d’années précédentes. Le cuir reliant les livres islamiques sacrés qu’ils avaient détruit fut utilisé pour faire des sandales à l’usage des criminels wahhabites.
En plus de révéler le contenu des Mémoires de Hempher, le rapport du renseignement irakien rapporte des révélations inédites, comme les origines juives à la fois d’Abdel Wahhab et de la famille Saoud.

Origines juives d’Abdel Wahhab ?

Un autre écrivain, D. Mustafa Turan a écrit dans  « Les Juifs Donmeh », que Muhammad ibn Abdul Wahhab était un descendant d'une famille de Juifs Donmeh de Turquie. Les Donmeh étaient les descendants des disciples du tristement célèbre faux-messie du judaïsme, Shabbataï Zevi, qui a choqué le monde juif en 1666 en se convertissant à l'islam. Considéré comme un mystère sacré, les adeptes de Zevi ont imité sa conversion à l'islam, bien que secrètement, ils soient restés juifs, avec leurs doctrines kabbalistiques.  Turan soutient que le grand-père d’Abdul Wahhab, Sulayman était en fait Shulman, ayant appartenu à la communauté juive de Bursa en Turquie. De là, il s'est installé à Damas, où il a feint d’être musulman, mais il a apparemment été expulsé pour pratique de la sorcellerie kabbalistique. Il s'est alors enfui en Égypte et il a de nouveau à faire face à une autre condamnation. Il a alors émigré au Hedjaz, où il s'est marié et a eu son fils : Abdul Wahhab. Selon le rapport irakien, la même ascendance est confirmée dans un autre document intitulé « Les Juifs Donmeh et l'origine des wahhabites en Arabie », écrit par Rifaat Salim Kabar.

Origines juives de la dynastie saoudienne ?

Le fait que la famille saoudienne soit d'origine juive a été publié par un saoudien, Mohammad Sakher , qui a été ensuite liquidé par le régime saoudien pour avoir osé publier ses révélations. 
Par ailleurs, le rapport irakien fait référence à un compte-rendu similaire aux révélations de Mohammed Sakher, mais il cite des sources différentes. Selon  « Le Mouvement wahhabite / La Vérité et Racines », par Ibrahim Abdul Wahhab Al-Shammari, ibn Saoud est réellement descendu de Mordechai Ben Ibrahim bin Mushi, un marchand juif de Bassorah. Celui-ci a  fréquenté des membres de la tribu arabe de Aniza, puis il a voyagé avec eux dans le Najd, puis a prétendu être un membre de cette tribu. Il a alors changé son nom en Markhan bin Ibrahim bin Musa. Or, selon al Saïd Nasir, ambassadeur d'Arabie Saoudite au Caire,  dans «l'histoire de la famille Saoud», Abdullah bin Ibrahim al Mufaddal a payé Muhammad Al-Tamimi 35000 jouneyh (Livres) en 1943, pour inventer deux arbres généalogiques (1) de la famille saoudienne et (2) d'Abdul Wahhab, et de les fusionner ensuite en un seul arbre remontant au prophète Mahomet. En 1960, la station « Sawt El Arabe » émettant du Caire, en Égypte et la station de radiodiffusion de Sanaa, au Yémen, ont  confirmé les origines juives de la famille saoudienne.
Enfin, le 17 septembre 1969, le roi Fayçal Al-SAOUD déclare au Washington Post : "Nous, la famille saoudienne, sommes cousins des Juifs: nous ne sommes absolument pas d'accord avec toute Autorité arabe ou musulmane qui montrerait un antagonisme quelconque envers les Juifs, mais nous devons vivre avec eux en paix. Notre pays (Arabie) est la première  Fontaine, d'où sortit le premier Juif pour que ses descendants se répartissent dans le monde entier. "

 

Autres exemples récents

1 ) Le héros du film anti-islam est Mossaab, le fils de Hassan Youssef, un dirigeant éminent du Hamas


Le parti égyptien de la Libération a affirmé que le héros du film blasphématoire contre le Prophète, à lui bénédiction et salut, était Mossaab, le fils d’un dirigeant éminent du Hamas, Hassan Youssef.

Deux ans plus tôt, Mossaab était un agent du Mossad et était à l’origine de l’assassinat et de l’arrestation de cadres dirigeants des factions, dont El-Rantissi, Yassine, Marwane El-Barghouthi, écrit le parti sur son site internet. Quand Mossaab s’est converti vers la chrétienté, le Hamas ne lui a appliqué ni le châtiment de la haute trahison ni celui de l’apostasie. Le mouvement l’a laissé immigrer vers les Etats-Unis et son frère a refusé de le condamner. Mossaab avait révélé les secrets de son père et du mouvement dans un livre intitulé « Le fils du Hamas ».

Mossaab s’était rendu à El-Qods, quelques mois plus tôt, pour participer au film. Selon Wikipédia, Mossaab ibn Hassan ibn Youssef ibn Khalil, nommé Joseph, était un grand collaborateur du Shabak. Il a réussi a empêcher l’assassinat de grandes personnalités israéliennes.

2) Rached Ghannouchi et le lobby sioniste

La visite du leader du parti islamiste à Washington était organisée par le WINEP (Washington Institute for Near East Policy), un think thank dépendant d'AIPAC (The American Israel Public Affairs Committee : principal groupe de pression US œuvrant pour la défense des intérêts d'Israël). Rappelons que les deux grands piliers qui soutiennent les sionistes aux USA sont AIPAC et WINEP. Sur le site du groupe WINEP, le sujet de la visite de Rached Ghannouchi a été publié sous format PDF. Mais, ce qui paraît louche, il a été retiré 24 heures après sa mise en ligne. 
Lors de la cérémonie organisée par le magazine Foreign Policy, R. Ghannouchi a reçu la distinction de l’un des plus grands intellectuels de l’année 2011 décernée par ce prestigieux média américain. Il est à noter que parmi ces 100 plus "grands intellectuels" dont fait partie Rached Ghannouchi on retrouve les sinistres Dick Cheney, Condoleezza Rice, Hillary Clinton, Robert Gates, John McCain, Nicolas Sarkozy, Tayeb Erdogan et  le sioniste de choc, Bernard Henri Lévy, plus une longue liste de valets "arabo-musulmans". Ainsi Ghannouchi se trouve dans le même sac que les assassins de millions d’Irakiens, de Palestiniens, de Libyens, d’Afghans,  et d’autres encore. 
Devant un parterre composé de journalistes, de politiciens et décideurs, qui, dans leur majorité, sont plus soucieux des intérêts d’Israël que de ceux des Etats-Unis, et encore moins de ceux des Arabes,  Rached Ghannouchi a exposé sa vision du futur et du  rôle joué par les Frères Musulmans en Tunisie, en Afrique du Nord, dans le monde arabe et de leur collaboration avec les Etats-Unis. Non content de montrer son allégeance et sa soumission au gouvernement américain, Rached Ghannouchi a tenu à rassurer le lobby sioniste quant à l’article que lui-même avait proposé d’inclure dans la constitution tunisienne concernant le refus du gouvernement tunisien de collaborer avec Israël. Il ne sera jamais inscrit dans la Constitution tunisienne que la Tunisie n’établira jamais de relations de quelque nature que ce soit avec l’entité sioniste. Son passage au WINEP n’a pas été qu'un moment de plaisir. Croyant jouer au plus malin, notre Iznogoud national-islamiste s’est fait épingler avec vidéo à l’appui quand il a nié avoir traité les Etats-Unis de "Grand Satan" en 1989. La honte pour ce gros mensonge d'un supposé grand intellectuel arabe. Avec un minimum de fierté, n'importe qui d'autre aurait renoncé à la dite distinction. Pas lui. On est bien près de mépriser ce qu'on trouve ridicule.


Hannibal Genséric

jeudi, 17 janvier 2013

Islamkritik – Leitideen und Einwände

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Islamkritik – Leitideen und Einwände

Karlheinz Weißmann

Ex: http://www.sezession.de/

(Der Text ist in Teilen ein Auszug aus der Studie Ist der Islam unser Feind? [3], die im Institut für Staatspolitik erarbeitet wurde.)

Vor einigen Jahren machte in Rußland der Roman Moschee der Notre-Dame von Paris Furore. Die Autorin, Jelena Tschudina, schildert in dieser Dystopie das Europa des Jahres 2048: von der Dynastie der Wahhabiten beherrscht, die den letzten Papst zur Abdankung gezwungen und die Scharia eingeführt haben.

Die Überlieferung des Abendlandes ist zu diesem Zeitpunkt längst zerstört, seine Kunstwerke vom moslemischen Mob geschändet, seine Musik verboten, der Vatikan in eine Müllkippe verwandelt. Die neuen Herren haben die Ureinwohner auf den Status von Fellachen herabgedrückt und nehmen sich deren Töchter als Nebenfrauen. Natürlich können die technologischen Standards nicht gehalten werden, lediglich die Türken sorgen für das Funktionieren eines Restes an Infrastruktur, obwohl die übrige Welt »Eurabia« isoliert hat. Die letzten Christen werden in Ghettos zusammengedrängt, gelegentlich wird der eine oder andere herausgezerrt und zwangsweise bekehrt. Vor dem Triumphbogen in Paris steinigen die Gläubigen Ungläubige, die noch Meßwein versteckt halten, und Notre-Dame ist, wie die Hagia Sophia von Konstantinopel, in eine Moschee umgewandelt.

Den Christen bleibt nur noch ein Rückhalt. Jenseits des »grünen Vorhangs«, in Rußland, ist ein starker – auf Nation und Glauben fußender – Staat entstanden. Von hier kommt auch Hilfe für den christlichen Untergrund im Westen, lefebvristische Partisanen, die gegen die Besatzer aus dem Orient den bewaffneten Kampf aufgenommen haben. Mit russischer Hilfe besetzen sie noch einmal die ehrwürdige Notre Dame, zelebrieren die alte Messe in lateinischer Sprache und sprengen sich dann mit dem geschändeten Heiligtum in die Luft.

Der Roman von Jelena Tschudina ist offenbar in keine westliche Sprache übersetzt worden, aber als die ersten Berichte darüber kursierten, gab es auf praktisch jeder islamkritischen Seite Hinweise und Kommentare. Der Grund dafür liegt auf der Hand: Hier wird genau jene Schreckensvision ausgemalt, die jeden umtreibt, der den Islam als Feind betrachtet. Zugegeben: Das ist vereinfacht gesprochen, denn die Islamkritiker bilden keine homogene Größe, auch wenn die Gegenseite immer wieder meint, summarisch von »Antiislamismus«, »antimuslimischem Rassismus« oder »Islamophobie« sprechen zu können. Tatsächlich sind die Motive von Christen, Juden, Konservativen, Liberalen, enttäuschten Linken, Völkischen und Identitären durchaus verschieden. Andererseits wird man zugeben müssen, daß sich in ihren Büchern, Aufsätzen und Netzforen bestimmte Argumentationsfiguren finden, mit denen man sich auseinandersetzen muß, wenn man einschätzen will, ob ihre Feindbestimmung tragfähig ist oder nicht.

Im wesentlichen handelt es sich um fünf Leitideen, die regelmäßig wiederkehren:

1. Das Problem ist der Islam

Während die offizielle Linie gewöhnlich darauf hinausläuft, die Konflikte mit der islamischen Welt auf andere Ursachen – soziale Verwerfung, Entfremdung, Rassismus, Unterentwicklung – zurückzuführen und das Selbstverständnis der Moslems als Opfer zu akzeptieren, beharren Islamkritiker darauf, daß der Islam selbst die Ursache der Probleme und Täter sei. Noch gemäßigt argumentiert Ralph Giordano, wenn er feststellt: »… der politische und militante Islam ist nicht integrierbar, aber auch der ›allgemeine‹ jenseits davon ist…problematisch genug.« Häufiger wird darauf hingewiesen, daß der Islam prinzipiell gleichbedeutend sei mit Unterdrückung und Gewalttätigkeit, daß seine Theorie wie seine Praxis dafür immer neue Beweise lieferten, daß in den islamisch geprägten Staaten nirgends Rechtsregeln wie in den westlichen gelten würden und daß die Aufnahme moslemischer Zuwanderer in Europa daran scheitere, daß sie unfähig seien, von den zentralen Vorgaben ihrer Religion loszukommen. Viele Islamkritiker beschränken sich darauf, dem Islam ein Entwicklungsdefizit vorzuwerfen, das im Prinzip aufholbar sei, wenn er die Anpassungsbemühungen verstärke und sich konsequenter am Westen ausrichtete. Geert Wilders steht aber auch nicht allein, wenn er – in seinem Film Fitna – den Koran mit Hitlers Mein Kampf vergleicht oder man auf dieser Seite vom »Islamofaschismus« spricht.

EINWAND: Ohne Zweifel wird hier ein entscheidender Sachverhalt richtig gesehen und der Neigung, die Probleme aus der Welt zu schaffen, indem man sie umdeutet oder verschleiert, entgegengewirkt. Aber es gibt unter Islamkritikern eine überstarke Neigung, den Islam von seinen normativen Vorgaben her zu interpretieren.

Aber auch hier besteht wie sonst auf der Welt eine Diskrepanz zwischen Vorschrift und Alltagsrealität. Faktisch waren die Vorgaben des Koran oder der islamischen Rechtsregeln nur in bestimmten Epochen in dem Maße und der Totalität bestimmend, die hier als üblicher Fall postuliert werden. Außerdem müßte klarer differenziert werden zwischen der Auffassung, daß der Islam korrigierbar sei, wenn er sich modernisiere und säkularisiere wie das Christentum, und der anderen, daß er das aus prinzipiellen Gründen gar nicht könne. Zwar klingt immer wieder das Motiv des anderen »Kulturkreises« – also einer verhältnismäßig geschlossenen Einheit – an, aber letztlich neigt die Mehrzahl der Islamkritiker doch dem naiven westlichen Entwicklungsdogma zu, demgemäß alle Gesellschaften sich am Muster des Geschichtsverlaufs orientieren (müssen), den England, Frankreich oder die USA genommen haben.

2. Es besteht kein Unterschied zwischen Islam und Islamismus

Üblicherweise wird der Islamismus als eine Variante oder Fehlform des »eigentlichen« Islam verstanden. Diese saubere Trennung von »guten« Moslems und »bösen« Fundamentalisten wird von vielen Islamkritikern als durchsichtiges Bemühen verstanden, eine besorgte Bevölkerung zu beruhigen, die – zu Recht – fürchtet, daß nicht nur islamische Kriegsherren in fernen Weltgegenden eine Bedrohung darstellen, sondern auch ihr arabischer/libanesischer/schwarzafrikanischer/türkischer Nachbar »Schläfer« einer Terrorzelle sein könnte, die Anschläge in unmittelbarer Nähe plant. Diese Besorgnis wird von Islamkritikern grundsätzlich geteilt, die außerdem darauf hinweisen, daß sich äußerlich gut integrierte Moslems oder Konvertiten, die eigentlich im Lande selbst »zu Hause« sind, immer wieder als anfällig für eine Indoktrination erwiesen haben. Deren Erfolg kann man nur erklären, wenn man davon ausgeht, daß Islamisten im Prinzip nichts anderes tun, als den Islam selbst ernst zu nehmen. Eine wichtige Rolle spielt auch bei Bestreiten dieses Zusammenhangs der Verweis auf taqiyya , das Recht eines Moslems, Ungläubige zu täuschen.

EINWAND: Selbst eine ihrem Gegenstand so kritisch gegenüberstehende Islamwissenschaftlerin wie Christine Schirrmacher beharrt darauf, den Islamismus als eine in erster Linie politische, nicht religiöse, Konzeption zu definieren. Er sei eine »totalitäre Ideologie« mit einem im Kern »utopischen Weltbild« und reagiere auf die Unterdrückung, die Armut und die Not in den Gebieten des Nahen Ostens seit dem Ende des 19. Jahrhunderts mit dem Angebot eines »ganzheitlichen Islam«, der als Alternative zu europäischer Modernität, Demokratie und Menschenrechten verstanden wurde. Das Potential entsprechender Bewegungen unter Moslems in Europa sieht Schirrmacher durchaus als erheblich an; es müsse auf etwa zehn Prozent der Heranwachsenden taxiert werden. Schirrmacher geht auch auf die Argumentation der Islamkritiker ein, die die Meinung vertreten, daß der Islamismus im Grunde nur praktiziere, was schon der Ur-Islam wollte: die Einheit von Religion und Politik, die Gemeinschaft der Gläubigen in weltlicher und geistlicher Hinsicht unter dem Gesetz der Scharia. Sie weist aber darauf hin, daß die Mehrzahl der Moslems, man könnte hinzufügen: und die Mehrzahl der real existierenden Staatswesen, in denen Moslems lebten und leben, von diesem Konzept weit entfernt sind. Das Spektrum der religiösen Ernsthaftigkeit ist im Islam kleiner als im Judentum und Christentum, aber doch so groß, daß es von einer Auffassung, die die Tradition als unbedingt verbindlich ansieht, bis zu einer Art Kulturislam reicht, der sich kaum an die »Fünf Säulen« hält.

3. Es gibt eine Kontinuität der islamischen Aggression

Im Frühjahr 2007 veröffentlichte Bernard Lewis einen aufsehenerregenden Essay unter dem Titel »Die dritte Angriffswelle auf Europa rollt« (Bernard Lewis: Der Untergang des Morgenlandes. Warum die islamische Welt ihre Vormacht verlor, Bergisch Gladbach 2002). Gemeint war damit die dritte Angriffswelle der islamischen Expansion, nach der ersten, die von den Arabern, zuerst unter Führung Mohammeds, dann der Kalifen, ausging, und der zweiten, die von den Türken getragen wurde. Die dritte Welle, so Lewis, unterscheide sich von der ersten und zweiten insofern, als sie nicht in Gestalt militärischer Eroberung vor sich gehe, sondern mittels Terror und Einwanderung. Beide Faktoren spielten objektiv zusammen, ohne daß damit behauptet werde, daß jeder Einwanderer ein potentieller Terrorist sei. Als harmlos könne man den Prozeß trotzdem nicht einstufen, und für die Europäer stelle sich die entscheidende Frage: »Ist die dritte Welle erfolgreich? Das ist gar nicht ausgeschlossen. Muslimische Einwanderer haben einige klare Vorteile. Sie haben Glut und Überzeugung, die in den meisten westlichen Ländern entweder schwach sind oder ganz fehlen. Sie sind überzeugt von der Gerechtigkeit ihrer Sache, während wir viel Zeit damit verbringen, uns selbst zu erniedrigen. Sie verfügen über Loyalität und Disziplin, und – was vielleicht am wichtigsten ist – sie haben die Demographie auf ihrer Seite. Die Kombination von natürlicher Vermehrung und Einwanderung, die enorme Umschichtungen in der Bevölkerungsstruktur hervorbringt, könnte in absehbarer Zukunft zu signifikanten Bevölkerungsmehrheiten in wenigstens einigen europäischen Städten, vielleicht sogar Ländern führen.«

EINWAND: Es ist ohne Zweifel so, daß Moslems die Einwanderung von Moslems in Europa als Teil einer Islamisierung oder als Variante des dschihad verstehen können, aber dabei ist nicht aus dem Blick zu verlieren, daß die Migration kein Teil einer islamischen Strategie war. Wer als Arbeiter oder als Flüchtling in den Westen ging, tat das aus einer individuellen Motivation, kaum je mit dem Ziel, die umma auszuweiten. Daher ist auch immer nur ein Teil der Eingewanderten für radikale islamische Vorstellungen ansprechbar, während sich ein anderer mehr oder weniger stark assimiliert hat und ein dritter in Parallelgesellschaften lebt. Die Islamisierung Europas erweist sich insofern als Nebeneffekt eines Bevölkerungsaustauschs, nicht als Ergebnis einer langfristigen Konzeption. Es soll damit gar nicht bestritten werden, welches Gefahrenpotential in diesem Vorgang liegt, auch nicht, daß vom türkischen Staatsislam bis zu dschihadistischen Gruppen alle möglichen Organisationen sich die Schwäche des liberalen Systems zunutze machen oder daß manches Kind gut assimilierter Einwanderer längst zum inneren Gegner dieses Systems geworden ist, aber die Annahme, es gäbe dahinter so etwas wie einen Masterplan, geht an den Realitäten vorbei.

4. Der Islam bildet eine Einheit

Die Annahme eines besonderen islamischen Gefahrenpotentials bezieht ihre Plausibilität selbstverständlich auch aus der Vorstellung, daß der Islam als Einheit agiere. Soweit diese Annahme nicht auf Ignoranz beruht, spielt vor allem die Geopolitik eine Rolle für entsprechende Argumente. Schon Mitte der 1990er Jahre schrieb der französische Politikwissenschaftler Alexandre del Valle: »Es ist nicht übertrieben oder irreal, die islamischen Gemeinschaften in Europa als exterritorialen Vorposten zivilisatorischer und potentiell politisch-juridischer Art zu betrachten, der mit einem außerhalb liegenden islamischen Block verbunden ist«. Sogar Yves Lacoste, der Herausgeber der einflußreichen geopolitischen Zeitschrift Hérodote, teilt diese Auffassung. Lacoste verweist vor allem darauf, daß es für das Terrornetzwerk von Al Kaida möglich war, ein Zusammenspiel zwischen Kommandostellen im Nahen und Fernen Osten und Vorstößen in den westlichen Metropolen zu organisieren und dabei auf die Loyalität ganz verschiedener islamischer Richtungen zu rechnen. Aus der Sicht der Geopolitik erscheinen selbstverständlich auch die Hypothesen Samuel Huntingtons in bezug auf den »Kampf der Kulturen« besonders plausibel (Samuel Huntington: The Clash of Civilizations – Kampf der Kulturen. Die Neugestaltung der Weltpolitik im 21. Jahrhundert, München/Wien 1996).

EINWAND: Grundsätzlich ist Vorsicht gegenüber der Suggestionskraft der Geopolitik geboten, die mit ihrer Fixierung auf den Raum oft die Zwangsläufigkeit von Prozessen behauptet, die dann die Kontingenz des Historischen zuschanden macht. Unbestreitbar ist jedenfalls, daß die drei Hauptträger der islamischen Renaissance –zuerst die Iraner, dann die Araber, zuletzt die Türken – unterschiedliche Generallinien verfolgen und in einem, gelegentlich zu militärischen Konflikten führenden Konkurrenzverhältnis zueinander stehen. Außerdem wird hier wieder ein Argument der islamischen/islamistischen Seite umgekehrt, die »den Westen« oder »Juden und Christen« oder »Kreuzritter und Zionisten« als feindliche, homogene Größe postuliert, um unter Verweis darauf den Zusammenschluß aller Moslems zu fordern. Ein Konzept, das aus agitatorischen Gründen naheliegen mag, aber zur Analyse der eigentlichen Gefahrenmomente wenig beiträgt. Tatsächlich ist der Islam seit den Tagen der ersten Kalifen kein Ganzes mehr gewesen, er besitzt keine Kirchenstruktur und keinen Klerus, und es gibt permanent massive Auseinandersetzungen zwischen verschiedenen islamischen Konfessionen und Fraktionen, was im Grunde ganz der historischen Regel entspricht, daß nur ausnahmsweise eine klare Trennung zwischen Islam und Nicht-Islam existiert.

5. Das Ziel des Islam ist die Islamisierung Europas beziehungsweise der Welt

Wahrscheinlich würde die Mehrzahl der in Deutschland lebenden Moslems die Forderung nach Errichtung einer »Islamischen Republik« ablehnen, aber es bleibt dabei, daß 72 Prozent der hier lebenden Menschen türkischer Abstammung den Islam als einzig wahre Religion betrachten, daß unter den jüngeren die Zahl derjenigen wächst, die sich für religiös oder streng religiös halten, daß 63 Prozent die Koranverteilung durch die Salafisten befürworten und daß sich fast die Hälfte – 46 Prozent – wünscht, zukünftig in einem mehrheitlich von Moslems bewohnten Deutschland zu leben. Bei den Anschlägen vom 11. September gab es unter Moslems – auch wohlangepaßten, auch verwestlichten – mehr als nur »klammheimliche« Freude. Für die Islamkritik sind das alles Indizien dafür, daß eine Islamisierung von ungeahntem Ausmaß bevorsteht, die teilweise auf friedlichem, teilweise auf kriegerischem Weg vonstatten geht, oder noch knapper: »Der Islam will die Welteroberung« (Egon Flaig).

EINWAND: Wenn Sarrazin erklärt, er wünsche nicht, daß das Land seiner »Enkel und Urenkel zu großen Teilen muslimisch ist, daß dort über weite Strecken türkisch und arabisch gesprochen wird, die Frauen ein Kopftuch tragen und der Tagesrhythmus vom Ruf der Muezzine bestimmt wird«, pflichten dem wohl nicht nur Islamkritiker bei. Allerdings stellt sich die Frage, ob man diese Perspektive als realistisch ansehen sollte. Ohne Zweifel wächst die Zahl der Moslems in den Ballungszentren nicht nur Deutschlands, sondern auch Europas teilweise dramatisch. Aber die meisten Prognosen gehen davon aus, daß dieser Prozeß in absehbarer Zeit zum Stillstand kommt und dann auf einem mehr oder weniger hohen Niveau stagniert, daß aber der Bevölkerungsanteil der Moslems in Europa auch im Jahr 2030 lediglich acht Prozent (anstelle der heutigen sechs Prozent), in Deutschland 8,6 Prozent (anstelle der heutigen sechs Prozent) betragen wird. Das hängt wesentlich mit der fallenden Geburtenrate in moslemischen Familien zusammen. Allerdings bleibt es dabei, daß in einigen Ländern – wie Großbritannien, Frankreich oder Schweden – die moslemische Gruppe deutlich stärker wachsen wird. Daß es keinen Grund zur Entspannung gibt, hat aber vor allem damit zu tun, daß man die Altersstruktur in den Blick nehmen muß. Es gibt eine starke Fraktion junger, vor allem junger männlicher Moslems, den sogenannten youth bulge, ausgestattet mit einer »Hyperidentität« (Christopher Caldwell); es gibt die regionale Konzentration, vor allem in den Metropolen; es gibt die Möglichkeit weiterer massiver Zuwanderung – etwa infolge der Assoziierungsabkommen der Europäischen Union und der nordafrikanischen Länder; und es gibt überhaupt das Problem der Bildung ethnischer Brückenköpfe (Christopher Caldwell: Reflections on the Revolution in Europe, London 2010).

Wenn man eine Bilanz in bezug auf die Analysen der Leitideen der Islamkritik formuliert, fällt das Ergebnis zwiespältig aus. Es ist sicher so, daß hier von einigen Personen und Gruppen unter Inkaufnahme erheblicher Schwierigkeiten, wenn nicht der Gefährdung von Leib und Leben, ein Problem angesprochen wird, das angesprochen werden muß. Es ist außerdem so, daß nicht sie, sondern die politisch-mediale Klasse, die Helferindustrie des Multikulturalismus, die Moslemflüsterer, professionellen Beschwichtiger und Appeaser den Ton angeben und alles tun, um die Öffentlichkeit unter das Diktat des »Zusammen leben« zu stellen. Aber das alles genügt doch nicht, um von den Schwächen eines Konzepts abzusehen, das im Grunde unpolitisch ist, weil es seine Feinderklärung gegen eine Größe richtet, die als solche gar nicht existiert: der Islam. Feind kann aber nur sein, wer, mit Carl Schmitt, als eine »der realen Möglichkeit nach kämpfende Gesamtheit von Menschen« auftritt (Carl Schmitt: Der Begriff des Politischen, Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, Berlin 1979). Und das ist nicht der Fall. Insofern bindet die Islamkritik, soweit sie das und nichts anderes ist, fatalerweise Kräfte, die an anderer Stelle eingesetzt werden müßten: zur Bekämpfung des weißen Masochismus und eines Establishments, das sich seiner bedient; vor allem aber zur Stärkung der nationalen und europäischen Identität.


Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

URL to article: http://www.sezession.de/35642/islamkritik-leitideen-und-einwande.html

mercredi, 16 janvier 2013

Kritik der Kritik der Islamkritik

IslamkritikEuropa.jpg

Kritik der Kritik der Islamkritik

By Manfred Kleine-Hartlage

Ex: http://www.sezession.de/

In Sezession Nr. 51 [1] sind zwei Artikel zur Islamkritik erschienen. Auf Karlheinz Weißmanns Islamkritik – Leitideen und Einwände [2] erfolgt hier eine Antwort, deren notwendige Ausführlichkeit den Rahmen der Druckausgabe sprengen würde. Ich veröffentliche sie deshalb hier im Blog:

Karlheinz Weißmann geht es um die Frage, ob „der Islam unser Feind“ sei, und er faßt nachvollziehbarerweise unter dem Titel „Islamkritiker“ alle Kräfte zusammen, die diese Frage bejahen. Ungeachtet der von ihm durchaus gesehenen Heterogenität der islamkritischen Szene identifiziert er fünf

bestimmte Argumentationsfiguren …, mit denen man sich auseinandersetzen muß, wenn man einschätzen will, ob ihre Feindbestimmung tragfähig ist oder nicht

und unterzieht diese Argumentationsfiguren einer nuancierten Kritik, aufgrund deren er zu dem Ergebnis gelangt, die Islamkritik sei ein Konzept,

das im Grunde unpolitisch ist, weil es eine Feinderklärung abgibt, die sich gegen eine Größe richtet, die als solche gar nicht existiert: der Islam.

Um es vorwegzunehmen: Diese Kritik überzeugt mich nicht, weil sie auf einer Fehleinschätzung sowohl des Islam selbst als auch der Islamkritik beruht. Aber der Reihe nach:

Die erste von Weißmann genannte islamkritische These lautet:

1. Das Problem ist der Islam

Weißmann referiert zutreffend, daß Islamkritiker bereits im Islam selbst – nicht erst im Islamismus und schon gar nicht in externen Faktoren wie Armut, Rassismus, Unterentwicklung und dergleichen – die tiefste Ursache für Unterdrückung und Gewalt in der islamischen Welt wie auch für die Anpassungsunfähigkeit vieler muslimischer Migranten in Europa sehen, und ergänzt:

Viele Islamkritiker beschränken sich darauf, dem Islam ein Entwicklungsdefizit vorzuwerfen, das im Prinzip aufholbar sei, wenn er die Anpassungsbemühungen verstärke und sich konsequenter am Westen ausrichtete. Geert Wilders steht aber auch nicht allein, wenn er … den Koran mit Hitlers Mein Kampf vergleicht …

Die Position, wonach der Islam sich zu einem liberalen „Euro-Islam“ weiterentwickeln müsse – gewissermaßen zu einer islamischen Variante des Käßmannchristentums – gibt es zwar, aber wenn man deren Protagonisten, etwa den aus Syrien stammenden Politologen Bassam Tibi, der islamkritischen Szene zurechnen wollte, müsste man deren Grenzen schon sehr weitläufig ziehen – jedenfalls weiter, als Weißmann selbst sie zieht: Die Verfechter eines „Euro-Islam“ sind sicherlich Islamismuskritiker, würden aber die These vehement zurückweisen, „der“ Islam sei unser Feind.

Deshalb hängt auch Weißmanns Mahnung an die Adresse der Islamkritik in der Luft, es müsse

klarer differenziert werden zwischen der Auffassung, daß der Islam korrigierbar sei, wenn er sich modernisiere und säkularisiere wie das Christentum, und der anderen, daß er das aus prinzipiellen Gründen gar nicht könne.

Tatsächlich ist diese letztere Auffassung in der islamkritischen Szene Konsens; deswegen stimmt es auch nicht, wenn Weißmann schreibt, letztlich neige

die Mehrzahl der Islamkritiker doch dem naiven westlichen Entwicklungsdogma zu, demgemäß alle Gesellschaften sich am Muster des Geschichtsverlaufs orientieren (müssen), den England, Frankreich oder die USA genommen haben.

Richtig ist, daß die starke liberale Strömung innerhalb der Islamkritik den Islam seiner Unvereinbarkeit mit westlich-liberalen Wertmustern wegen ablehnt und dazu neigt, diese Werte für das schlechthin „Gute“ zu halten. Imperialistische Implikationen können sich mit einer solchen Position durchaus verbinden, geschichtsdeterministische aber nicht.

Die Vorstellung eines linear verlaufenden Geschichtsprozesses, der mindestens eine Reformation beinhalten müsse, um von dort aus zu Aufklärung und Liberalismus vorzustoßen, ist aus islamkritischer Sicht bereits deshalb nicht haltbar, weil es Reformationen in der islamischen Welt durchaus schon gegeben hat, nur mit völlig anderen Ergebnissen als in Europa:

„Der Islam wurde … bereits in Medina sowohl theoretisch (im Koran) als auch in der Praxis zu einem sozialen Normensystem mit deutlichen juristischen und politischen Akzenten, ja zu einer Gesellschaftsideologie ausgebaut.

In diesem Sachverhalt liegt der Grund dafür, dass islamische Erneuerungsbewegungen regelmäßig andere Akzente setzen als christliche. Zwar geht in beiden Religionen Erneuerung, Re-form, Re-formation mit dem Versuch einher, einen als korrupt erlebten jeweils gegenwärtigen Zustand durch Rückbesinnung auf einen als ideal gedachten Anfang zu überwinden. Führt dieser Versuch im Christentum zur Betonung der sprichwörtlichen „Freiheit eines Christenmenschen“, … so kann ein Muslim, der im Propheten und seiner medinensischen Gemeinde das Ideal sieht, gar nicht umhin, den Islam in dessen Eigenschaft als soziales Normensystem … zu stärken und zu erneuern. Der in Saudi-Arabien herrschende Wahhabismus, der vielen westlichen Beobachtern als Inbegriff eines rückständigen, traditionalistischen Islam gilt, versteht sich selbst, und dies durchaus begründet, als eine Reformbewegung!“ (M.K.-H., Das Dschihadsystem. Wie der Islam funktioniert. Resch-Verlag Gräfelfing 2010, S.145 f.) [3]

Weißmanns zentraler Kritikpunkt an der These, der Islam selbst sei das Problem, ist allerdings ein anderer, nämlich daß es

unter Islamkritikern eine überstarke Neigung [gebe], den Islam von seinen normativen Vorgaben her zu interpretieren. Aber auch hier besteht wie sonst auf der Welt eine Diskrepanz zwischen Vorschrift und Alltagsrealität. Faktisch waren die Vorgaben des Koran oder der islamischen Rechtsregeln nur in bestimmten Epochen in dem Maße und der Totalität bestimmend, die hier als üblicher Fall postuliert werden.

Also vier Thesen:

1. Islamkritiker interpretierten den Islam von seinen normativen Vorgaben her.
2. Deshalb unterstellten sie eine rigide und totale Durchsetzung der Scharia als Normalfall in islamischen Gesellschaften.
3. Diese Unterstellung sei falsch, da sie der tatsächlich vorhandenen Vielfalt islamischer Staats-, Gesellschafts- und Lebensmodelle widerspreche und zudem ahistorisch die Unterschiede zwischen verschiedenen Epochen zugunsten eines statischen und fiktiven Modell-Islam vernachlässige und damit faktenwidrig Norm und Realität gleichsetze.
4. Da diese Konsequenzen falsch seien, sei die Prämisse widerlegt und die von Islamkritikern bevorzugte Interpretation des Islam von seinen normativen Vorgaben her „überstark“.

Ad 1: In der Tat ist der Ausgangspunkt islamkritischer Analysen regelmäßig die Beobachtung, daß das empirische Verhalten muslimischer Gemeinschaften (Völkern, Staaten, Parallelgesellschaften, Organisationen) in hohem Maße mit dem Normen- und Wertesystem korrespondiert, das im Koran verankert, vom Propheten exemplarisch vorgelebt, von der islamischen Rechtstradition zu einem ausgeklügelten System verdichtet und in dieser Form für Muslime sozial verbindlich gemacht wurde – und daß es in dem Maße, wie es damit korrespondiert, den Erwartungen zuwiderläuft, die wir vom Standpunkt eines europäischen – christlich bzw. liberal geprägten – Wertesystems an Muslime richten.

Diese Beobachtung ist schlicht und einfach zutreffend, und sie wird nicht dadurch widerlegt, daß ja nicht alle Muslime sich in gleicher Weise und im gleichen Maße an diesen Normen orientieren. Dieser beliebte Einwand ist deswegen irrelevant, weil die erkenntnisleitende Fragestellung nicht lautet, ob die Muslime unsere Feinde, sondern ob der Islam unser Feind sei. Dieser Gesichtspunkt wird weiter unten noch vertieft werden.

Zur Erklärung dieser weitgehenden Übereinstimmung von Verhaltensnorm und tatsächlichem Verhalten können prinzipiell zwei Modelle dienen: Das eine, das ich hiermit etwas respektlos das naive nennen möchte, lautet, daß Muslime sozusagen Allahs Marionetten seien, weil sie an die islamische Lehre glaubten; woraus die Forderung resultiert, ihnen diesen Glauben auszutreiben.

Das andere Erklärungsmodell, das von weiten Teilen der islamkritischen Szene mindestens implizit geteilt wird, habe ich so umschrieben:

„Niemand, der mit der Materie vertraut ist, und schon gar kein Muslim, wird abstreiten, dass der Islam ein System ist, dass für alle Bereiche des privaten und gesellschaftlichen Lebens gleichermaßen verbindlich ist. (…)

Daraus ergibt sich freilich, dass die Rolle der Religion im Gesamtgefüge islamischer Gesellschaften eine andere ist als im Westen … . Der Islam setzt den Menschen nicht nur in Beziehung zum Jenseits und definiert, was Gut und Böse ist – das tun andere Religionen auch –, er definiert auch, was im legalen Sinne Recht und Unrecht, im politischen Sinne legitim und illegitim, im empirischen Sinne wahr und unwahr ist.

Indem der Islam die von ihm dominierten Gesellschaften in dieser Breite und Tiefe durchdringt, prägt er notwendig auch das System der kulturellen Selbstverständlichkeiten, d.h. die Vor-Annahmen über Wahrheit, Gerechtigkeit, Moral, Ethik, Logik, Gewalt, Geschichte und Gesellschaft – also jene Prämissen, die im Sozialisierungsprozess verinnerlicht werden und dem eigentlich politischen Denken vorausgehen. Diese Vorannahmen verdichten sich zu einer in islamischen Gesellschaften sozial erwünschten Mentalität.“
(Dschihad-System, S. 283)

Dieses Erklärungsmodell schiebt der Illusion einer „Re-education“ von Muslimen, gleich ob gutmenschlich durch „Dialog“ oder islamkritisch durch autoritären Oktroi durchgesetzt, einen Riegel vor. Es führt zu der Forderung, die Bildung bzw. Ausweitung islamischer Parallelgesellschaften durch eine geeignete Einwanderungspolitik – oder vielmehr Aussperrungspolitik – zu verhindern.

Ad 2: Beide Modelle führen allerdings – wenn auch auf theoretisch etwas unterschiedlichen Wegen – zu dem Befund, daß die Freiheit von Nichtmuslimen, den Forderungen der Scharia zuwiderzuhandeln, in dem Maße schrumpft, wie das islamische Normensystem an gesellschaftlicher Durchsetzungsmacht gewinnt, und daß ein für uns unerträgliches Maß an Unterdrückung und Gewalt nicht erst dann erreicht wird, wenn die Scharia formal etabliert und in „Totalität“ durchgesetzt wird, sondern bereits dann, wenn Muslime auf der Alltagsebene ihre Spielregeln diktieren, die von eben diesem Normen- und Wertesystem geprägt sind.

Ad 3: Die beobachtbaren Unterschiede zwischen verschiedenen muslimischen Gesellschaften unterschiedlicher Länder und Epochen spielen unter diesem Gesichtspunkt keine Rolle, weil die Islamkritik eben nicht von der Frage ausgeht, ob jegliche Islamisierung zugleich eine Talibanisierung sei, sondern ob der Islam unser Feind ist, und was sein Vordringen für uns bedeutet. Für uns wäre aber bereits eine verdünnte Scharia unerträglich, und zwar auch dann, wenn sie nicht vom Staat, sondern von einer muslimisch dominierten Gesellschaft durchgesetzt würde.

Ad 4: Die „Neigung [von Islamkritikern], den Islam von seinen normativen Vorgaben her zu interpretieren“, ist daher alles andere als „überstark“: Der Zusammenhang von Norm und Verhalten wird nicht nur als solcher richtig gesehen, sondern auch hinsichtlich seiner Konsequenzen korrekt eingeschätzt.

Die zweite Argumentationsfigur, die Weißmann aufs Korn nimmt, lautet:

2. Es besteht kein Unterschied zwischen Islam und Islamismus

Er präzisiert diese These – die in dieser Grobschlächtigkeit in der Tat von kaum jemandem vertreten wird – dahingehend, daß Islamkritiker auf die starke Anfälligkeit selbst äußerlich gut integrierter Muslime für islamistische Indoktrination bis hin zur Gewaltbereitschaft hinweisen. Er fährt fort,

Deren Erfolg kann man [nach Meinung der Islamkritiker] nur erklären, wenn man davon ausgeht, daß Islamisten im Prinzip nichts anderes tun, als den Islam selbst ernst zu nehmen.

und wendet dagegen ein:

Selbst eine ihrem Gegenstand so kritisch gegenüber stehende Islamwissenschaftlerin wie Christine Schirrmacher beharrt darauf, den Islamismus als eine in erster Linie politische, nicht religiöse, Konzeption zu definieren.

Wenn das Wort „kritisch“ in diesem Zusammenhang nur bedeuten soll, daß Christine Schirrmacher zur offiziösen Schönfärberei Distanz hält, bin ich einverstanden. Freilich wird damit nur etwas umschrieben, was sich für Wissenschaftler von selbst verstehen sollte; eine Gewähr für die Richtigkeit ihrer Thesen oder auch nur für die Fruchtbarkeit und Erkenntnisträchtigkeit ihres Begriffssystems liegt darin noch lange nicht. Tatsächlich folgt Weißmann Schirrmacher in eine begriffliche Falle, nämlich die unreflektierte Anwendung westlicher Begriffssysteme auf nichtwestliche Gesellschaften:

„Die Schwierigkeiten, den Islam auf den soziologischen Begriff zu bringen, haben weniger mit der Vielschichtigkeit des zu beschreibenden Phänomens, also des Islam zu tun, als vielmehr mit der Unzulänglichkeit der ihn beschreibenden Begriffe. Wir sind es gewöhnt, ‚Religion‘, ‚Politik‘, ‚Kultur‘ und ‚Recht‘ als Bezeichnungen voneinander getrennter und gegeneinander autonomer Lebensbereiche aufzufassen. Diese Begriffe sind aber nicht in einem historischen und gesellschaftlichen Vakuum entstanden, und ob sie universell anwendbar sind, ist durchaus fraglich.

Sie sind dazu entwickelt worden, eine ganz bestimmte Gesellschaft zu beschreiben – unsere eigene, funktional differenzierte westliche Gesellschaft –, weswegen sie deren Angehörigen, also uns, auch ohne weiteres einleuchten. Es gibt aber a priori keinen Grund zu der Annahme, dass dieses Begriffsystem zwangsläufig ebenso gute Dienste bei der Analyse nichtwestlicher Gesellschaften leisten müsse; es gibt sogar erstklassige Argumente dagegen:

Die Unterscheidung von Religion und Politik etwa, die uns so selbstverständlich erscheint, dass wir nicht mehr darüber nachdenken, spiegelt sich beim Reden über den Islam in dem antithetischen Gebrauch der Begriffe ‚Islam‘ und ‚Islamismus‘: das eine eine Religion, das andere etwas (nach unserem Verständnis) vollkommen anderes, nämlich eine politische Ideologie, die den Islam bloß ‚missbraucht‘, und zwar als Arsenal, aus dem sie sich mit Propagandaslogans versorgt. Dass der Islamismus zum Islam in derselben Weise gehören könnte wie der Rüssel zu besagtem Elefanten, ist für viele Menschen buchstäblich un-denkbar, weil es in ihrem Begriffssystem nicht vorgesehen ist.

(…)

Kein erstzunehmender Islamexperte (und noch weniger die Muslime selbst) würde bestreiten, dass der Islam sich selbst als umfassende Lebensordnung versteht – also nicht etwa als Religion, wie wir sie uns vorstellen, die man auch im stillen Kämmerlein praktizieren könnte, deren Befolgung Privatsache wäre, und die sich vor allem auf die Gottesbeziehung des Einzelnen auswirkt. Der Islam durchdringt – seinem eigenen Anspruch nach – auch Recht, Politik, Kultur, Wissenschaft und überhaupt jeden Lebensbereich. Es gibt im Islam keinen Vorbehalt nach Art des neutestamentlichen ‚So gebt dem Kaiser, was des Kaisers ist, und Gott, was Gottes ist.‘ (Mt 22,21) Es gibt keine islamfreie Zone, zumindest soll es keine geben.

Dies, wie gesagt, wird auch zugestanden, und dass der Islam keine Säkularisierung erlebt hat, gehört mittlerweile fast schon zur Allgemeinbildung. Bisher fühlte sich aber kaum einer berufen, die soziologischen Konsequenzen dieses unbestrittenen Sachverhaltes zu analysieren. Es scheint auch niemandem aufzufallen, wie inkonsequent es ist, das Fehlen der Säkularisierung islamischer Gesellschaften festzustellen, diese Gesellschaften aber in Begriffen zu beschreiben, die eine solche Säkularisierung gerade voraussetzen.“

(a.a.O., S. 10 f., 13)

Eine Gesellschaft, deren leitendes Normen- und Wertesystem die religiöse Verankerung auch von Politik und Recht fordert, bringt mit Notwendigkeit regelmäßig Kräfte hervor, die damit Ernst machen – in einem modernen Kontext also Islamisten –, und zwar typischerweise dann, wenn der Islam als Grundlage der gesellschaftlichen Ordnung noch nicht etabliert ist, oder wenn er in dieser Hinsicht angefochten wird. Dies ist nicht nur ein deduktiv gewonnener theoretischer, sondern auch ein empirischer Befund: Die Intoleranz gegenüber Nichtmuslimen und „schlechten“, d.h. nonkonformen Muslimen, und die Rigidität, mit der die islamischen Normen durchgesetzt werden, ist regelmäßig dann am größten,

  • wenn die gesellschaftliche Ordnung zusammengebrochen ist und rekonstituiert werden muss, wie heute in den gescheiterten Staaten Afghanistan und Somalia, oder
  • wenn Muslime noch in der Minderheit, aber bereits mächtig genug sind, die Islamisierung nichtmuslimischer Gesellschaften zu erzwingen, wie es in den frühen Phasen sowohl der arabischen als auch der türkischen Expansion der Fall war (ein Aspekt, der uns zu denken geben sollte, zumal wenn wir sehen, daß der Islam in Teilen der muslimischen Parallelgesellschaften in Europa um einiges rigider interpretiert wird als in den meisten Herkunftsländern der Migranten), oder
  • wenn die islamischen Gesellschaften von außen durch nichtmuslimische Mächte bedroht werden, militärisch etwa während der Kreuzzüge, wirtschaftlich, kulturell und militärisch durch die westliche Expansion seit dem 19.Jahrhundert.

Vom Standpunkt einer ganz bestimmten Ideologie kann Islamismus freilich nichts mit dem Islam und der mit ihm zusammenhängenden soziologischen Eigengesetzlichkeit muslimischer Gesellschaften zu tun haben, weil sie mißliebige gesellschaftliche Erscheinungen, eben auch den Islamismus, bereits aus ideologischem Prinzip auf „Unterdrückung, Armut und Not“ zurückführt. Weißmann faßt Schirrmachers Ausführungen zu den Ursachen des Islamismus so zusammen:

Er [der Islamismus] sei eine „totalitäre Ideologie“ mit einem im Kern „utopischen Weltbild“, die auf die Unterdrückung, die Armut und die Not in den Gebieten des Nahen Ostens seit dem Ende des 19. Jahrhunderts mit dem Angebot eines „ganzheitlichen Islam“ reagierte.

Wie sie mit diesem Modell den Erfolg von Islamisten in Europa erklären will, wo Muslime weitaus mehr Rechte und mehr Wohlstand genießen als in den meisten ihrer Herkunftsländer, wird wohl Schirrmachers – und, da er sie zustimmend zitiert, auch Weißmanns – Geheimnis bleiben. Ich gestehe, daß ich die Bedenkenlosigkeit und Naivität einigermaßen befremdlich finde, mit der Weißmann, ein profilierter Konservativer, anscheinend im Vertrauen auf „die Wissenschaft“, ein Erklärungsmuster übernimmt, das erkennbar in den Prämissen linker Ideologie verwurzelt ist.

Weißmann zufolge, der ihr auch hier folgt, weist Schirrmacher die Argumentation der Islamkritiker, wonach der Islamismus nur konsequent praktiziere, was der Islam schon immer gefordert habe, (nämlich die Einheit von Religion und Politik unter dem Gesetz der Scharia) und deshalb notwendig aus ihm hervorgehe, mit dem Argument zurück,

daß die Mehrzahl der Moslems … von diesem Konzept weit entfernt sind.

Das islamistische Potenzial sei mit circa 10 Prozent der Heranwachsenden zwar erheblich, aber dennoch nur minoritär.

Abgesehen davon, daß schlechterdings nicht zu erkennen ist, inwiefern Feststellungen dieser Art die These widerlegen sollen, der Islam bringe den Islamismus als solchen mit Notwendigkeit hervor, ist der zentrale Denkfehler dieses Arguments die Gleichsetzung von Quantität und Qualität – so, als hinge die Durchschlagskraft radikaler ideologischer Positionen vom Bevölkerungsanteil ihrer Anhänger ab; nebenbei gesagt ein Denkfehler, der einem nur vom typisch liberalen Standpunkt eines individualisierenden Denkens unterlaufen kann, das die Dynamik sozialer Beziehungen ausblendet (und deshalb aus Weißmanns Feder merkwürdig inkonsistent wirkt):

Allein ihre eigene nicht abreißende Kette von Niederlagen in den letzten fünfzig Jahren sollte deutsche Konservative hinreichend darüber belehrt haben, daß kleine radikale Minderheiten sehr wohl in der Lage sind, ihre Vorstellungen auch gegen eine widerstrebende Mehrheit durchzusetzen, wenn diese Mehrheit nicht aktiv gegensteuert, weil und sofern sie, die Minderheit, dabei einen bestehenden ideologischen Konsens zu ihren Gunsten umdeutet und ausnutzt. Ein solcher Grundkonsens, und zwar über die Geltung islamischer Normen, besteht in den muslimischen Parallelgesellschaften aber sehr wohl; diese Gemeinschaften bilden den Resonanzboden, ohne den die Islamisten in der Tat nicht erfolgversprechend agieren könnten; und fatalerweise liegt zudem die Definitionsmacht, was „die Muslime“ wollen und „der Islam“ fordert, in den Händen von Organisationen, die meist selbst islamistisch sind (und selbst die, die das nicht sind, weil sie zum Beispiel ethnisch definierte Interessen vertreten, lassen sich mühelos vor den Karren der Islamisten spannen).

Des weiteren hängt die Durchsetzungsfähigkeit gerade von Islamisten nicht zuletzt von ihrer Gewaltbereitschaft ab, die als hemmender und einschüchternder Faktor ins Kalkül nichtmuslimischer Akteure – etwa von Polizeibeamten oder Politikern, aber auch von einfachen Bürgern – einfließt.

Und schließlich werden islamische Standards – etwa, Muslime nicht zu „provozieren“, als Frau oder Mädchen islamischen Vorstellungen von „Sittlichkeit“ zu entsprechen, Muslimen Tribute zu entrichten, gewaltsame Machtdemonstrationen von Muslimen zu dulden – durchaus nicht nur und nicht einmal überwiegend von Islamisten durchgesetzt, sondern vor allem von Kriminellen, denen dabei aber jedes Unrechtsbewußtsein fehlt, weil ihr Verhalten ja „nur“ gegen das Recht der „Ungläubigen“ verstößt und daher in ihrer muslimischen Umgebung aufgrund von deren sozialisatorischer Prägung keine energische soziale Mißbilligung erfährt.

Dritte von Weißmann angefochtene These:

3. Es gibt eine Kontinuität der islamischen Aggression

Weißmann zitiert in diesem Zusammenhang Bernard Lewis, der die fortschreitende Islamisierung Europas als „dritte Angriffswelle der islamischen Expansion“ (nach der arabischen und der türkisch-osmanischen) deutet, und wendet dagegen ein,

daß die Migration kein Teil einer islamischen Strategie war. Wer als Arbeiter oder als Flüchtling in den Westen ging, tat das aus einer individuellen Motivation, kaum je mit dem Ziel, die umma auszuweiten. (…) Die Islamisierung Europas erweist sich insofern als Nebeneffekt eines Bevölkerungsaustauschs, nicht als Ergebnis einer langfristigen Konzeption. Es soll damit gar nicht bestritten werden, … daß vom türkischen Staatsislam bis zu dschihadistischen Gruppen alle möglichen Organisationen sich die Schwäche des liberalen Systems zu Nutze machen … , aber die Annahme, es gäbe dahinter so etwas wie einen Masterplan, geht an den Realitäten offensichtlich vorbei.

Weißmann behauptet also, die muslimische Massenmigration sei nicht als Dschihad zu werten, und begründet dies unter anderem damit, dass es an ihrem Beginn, also um 1960, keinen islamischen „Masterplan“ zur Islamisierung Europas gegeben habe. Dieses Argument ist insofern eine glatte Themaverfehlung, als es bestenfalls die Frage beantwortet, ob der Islam 1960 unser Feind war, nicht aber die, um die es geht, nämlich, ob er es jetzt ist.

Tatsache ist, dass das Ziel der Islamisierung Europas schon in den siebziger Jahren offen verkündet worden ist, daß in dieser Zeit islamistische Organisationen, speziell aus dem Dunstkreis der Muslimbruderschaft, ausgeklügelte Strategien zur Unterwanderung der europäischen Gesellschaften vorgelegt haben, und daß heute unter praktisch allen maßgeblichen islamistischen Strategen und ihren Organisationen Konsens über die Grundzüge dieser Strategie besteht. Dabei agieren diese Organisationen aber nicht im luftleeren Raum, sondern kalkulieren das aufgrund islamischer Sozialisation erwartbare Verhalten (ohne das ihre Strategien gar nicht funktionieren könnten) ihrer Glaubensbrüder an der Basis als selbstverständliche Vorgabe ein.

Gerade dieses Verhalten von Ali Normalmuslim ist der Dreh- und Angelpunkt dieser Strategien, und dies nicht etwa deshalb, weil alle Muslime glühende Dschihadisten wären, sondern gerade deshalb, weil sie das gar nicht zu sein brauchen, um den gewünschten Effekt zu erzielen. Weißmanns Überlegungen, sofern sie auf die individuellen Motive von muslimischen Einwanderern abstellen, taugen schwerlich als Argument gegen eine Islamkritik, deren Pointe gerade darin liegt, daß der Dschihad im Islam strukturell verankert und damit von den Kontingenzen individueller Motivlagen unabhängig ist.

Konkretisieren wir dies an einigen Beispielen:

Es ist allgemein bekannt, daß türkische Einwanderer sich ihre Ehepartnerinnen sehr häufig in der Türkei suchen und sie dann nach Deutschland holen, weil sie davon ausgehen, daß solche Frauen ein traditionell islamisches Wertemuster mitbringen und nicht von westlichen Ideen angekränkelt sind. Mit Dschihadismus hat dies auf den ersten Blick nichts zu tun; das individuelle Motiv, das hinter einem solchen Verhalten steht, dürfte in den meisten Fällen der verständliche Wunsch sein, eine harmonische Ehe zu führen, wozu eben auch gemeinsame sittlich-religiöse Werte gehören. Dies bedeutet freilich zugleich, daß ein anderes Motiv, nämlich der Wunsch, in Harmonie mit den Erwartungen der (deutschen) Gesellschaft zu leben, keine wesentliche Rolle spielt.

Diese Ablehnung sozialer Erwartungen, die von Nichtmuslimen an Muslime gerichtet werden, ist als Norm kulturell verankert und nicht zwangsläufig vom individuellen Glauben abhängig. Daß nicht jeder Einzelne von solchen Normen gleichermaßen stark und in gleicher Weise geprägt ist (wie oben schon erwähnt), ändert nichts an dem Resultat, das sich ergibt, wenn wir nicht den einzelnen Muslim, sondern die islamische Gemeinschaft als Ganze in den Blick nehmen. Wir haben es hier mit der unmittelbaren Wirkung kulturell verinnerlichter islamischer Normen zu tun, insbesondere dem Gebot, zu Nichtmuslimen keine „sozialen Beziehungen zu unterhalten, die die Gefahr des Abfalls vom oder des Verrats am Islam mit sich bringen, ganz gleich, ob diese Gefahr auf emotionaler Nähe, politischer Abhängigkeit oder rechtlicher Bindung basiert“ (Dschihad-System, S.116).

Es soll also alles unterlassen werden, was die innermuslimische Solidarität im Verhältnis zu Nichtmuslimen beeinträchtigt, und dies gilt auch und gerade für die politische Solidarität. Für Muslime, auch die kritischen unter ihnen, ist es demgemäß nahezu unmöglich, eine nichtmuslimische Nation als ihre eigene in dem Sinne zu betrachten, daß sie sich in politischen Fragen an deren Lebensinteressen (und nicht an den Interessen ihrer jeweiligen muslimischen Herkunftsnation) orientierten. Dies ist mitnichten eine Selbstverständlichkeit, wie das Beispiel der Nachkommen von Hugenotten und polnischen Migranten lehrt; es ist eine muslimische Besonderheit.

Dort aber, wo Muslime im Westen sich einen nichtmuslimischen Ehepartner suchen, also bei gemischtreligiösen Paaren, die es ja auch gibt, ist der muslimische Partner in der Regel der Mann. Wiederum ein Sachverhalt, bei dem man über individuelle dschihadistische Motive bestenfalls fruchtlos spekulieren kann, dessen Verwurzelung im islamischen Normensystem aber offen zutage liegt:

„Ein häufig übersehener Aspekt des islamischen Rechts liegt in den Regeln darüber, wer wen heiraten darf: Frauen dürfen nämlich unter keinen Umständen ‚Ungläubige‘ heiraten, während Männer das durchaus dürfen. Zumindest, soweit die ‚Ungläubigen‘ zu den ‚Schriftbesitzern‘ gehören, also Christinnen oder Jüdinnen sind.“ (Dschihad-System, S.129)

Diese Norm ist eine Dschihad-Norm, hat historisch auch in diesem Sinne funktioniert und ihren Teil zur Verdrängung nichtmuslimischer Gemeinschaften beigetragen:

„Eine Gemeinschaft wie die islamische …, die [das] Exogamieverbot für Männer aufhebt, für Frauen aber nicht, betreibt nicht Konsolidierung, sondern demographische Expansion … : Wer die eigenen Mädchen nur innerhalb der eigenen Gemeinschaft verheiratet, die der anderen Gruppen aber wegheiratet und dafür sorgt, dass deren Kinder die Religion des Vaters annehmen (was mit einer gewissen Selbstverständlichkeit unterstellt wird), sorgt dafür, dass die anderen Gruppen durch Osmose langsam, aber sicher verschwinden.“ (Dschihad-System, S.130)

Ich zitiere diese Beispiele, um zu illustrieren, wie irreführend es ist, von „Dschihad“ nur dort zu sprechen, wo irgendwelche „Masterpläne“ verfolgt werden:

„Wer … in einem verschwörungstheoretischen Sinne nach dem großen Strippenzieher sucht, wird enttäuscht werden. Der Islam hat dergleichen nicht nötig, weil die Strippen schon vor eintausendvierhundert Jahren vom Propheten Mohammed – Muslime glauben freilich: von Allah selbst – gezogen worden sind.“ (Dschihad-System, S.287).

Der Islam ist nicht deshalb ein Dschihadsystem, weil alle Muslime Islamisten wären und im Kampf für die Ausbreitung des Islam ihren Lebenssinn suchen würden – dies ist offensichtlich nicht der Fall, auch wenn der Islam auch solche Menschen mit Notwendigkeit hervorbringt, sie eine wichtige Rolle im Dschihad spielen und ihre Anzahl erschreckend hoch ist –, sondern weil die islamischen Sozialnormen so aufeinander abgestimmt sind, daß selbst ihre im Einzelfall vielleicht halbherzige Befolgung, sofern sie nur als Normalfall unterstellt werden kann, die islamische umma in die Lage versetzt, nichtmuslimische Völker unter Druck zu setzen und gegebenenfalls auch zu verdrängen.

Eine liberal-individualisierende Betrachtungsweise freilich, die den Islam nicht als Grundlage einer Gesellschaftsordnung betrachtet, sondern als lediglich individuellen Glauben, der folglich nur in den Köpfen von Muslimen existieren, nicht aber in sozialen Strukturen objektiviert sein kann – eine solche Betrachtungsweise kann „den Islam“ als soziales System und seine Dynamik gar nicht in den Blick bekommen. Wo aber bereits Prämisse ist, daß es den Islam im Grunde nicht gibt, sondern nur viele Muslime, kann als Schlußfolgerung auch nichts anderes herauskommen.

Genau dies ist auch der Punkt, an dem Weißmanns Kritik an der vierten islamkritischen These scheitert:

4. Der Islam bildet eine Einheit

Die Annahme eines besonderen islamischen Gefahrenpotentials bezieht ihre Plausibilität selbstverständlich auch aus der Vorstellung, daß der Islam als Einheit agiert. Soweit diese Annahme nicht einfach auf Ignoranz beruht, spielt vor allem die Geopolitik eine Rolle für entsprechende Argumente. (…) Aus der Sicht der Geopolitik erscheinen selbstverständlich auch die Hypothesen Samuel Huntingtons in bezug auf den „Kampf der Kulturen“ besonders plausibel.

Es ist zutreffend, daß insbesondere die liberalen Teile der islamkritischen Szene, die sich besonders mit „dem Westen“ und dessen Führungsmacht USA identifizieren, Huntingtons These viel abgewinnen können. Weißmann scheint aber nicht Betracht zu ziehen, daß man die Akteurseigenschaft des Islam auch ohne Rückgriff auf geopolitische Denkfiguren bejahen kann. Wer solches tut, ist laut Weißmann nicht etwa Verfechter einer alternativen Theorie, sondern schlicht ein Ignorant. Da ich selbst der Geopolitik eher abhold bin, muß meine Neigung zur Islamkritik daher wohl auf meine notorische Ignoranz [4] zurückzuführen sein.

Weißmann weist Theorien, die den Islam als Einheit auffassen, mit zwei zentralen Argumenten zurück:

Erstens gebe es auch zwischen muslimischen Makroakteuren mannigfache Konflikte:

Unbestreitbar ist es jedenfalls so, daß die drei Hauptträger der islamischen Renaissance – zuerst die Iraner, dann die Araber, zuletzt die Türken – unterschiedliche Generallinien verfolgen und in einem, gelegentlich zu militärischen Konflikten führenden, Konkurrenzverhältnis zueinander stehen.

Zweitens verfüge der Islam über kein entscheidungsfähiges Zentrum, dessen es aber bedürfte, damit er eine Feinderklärung aussprechen und durchfechten könne:

Tatsächlich ist der Islam seit den Tagen der ersten Kalifen kein Ganzes mehr gewesen, er besitzt keine Kirchenstruktur und keinen Klerus, und es gibt permanent massive Auseinandersetzungen zwischen verschiedenen islamischen Konfessionen und Fraktionen …

Weil dies so sei, so folgert Weißmann weiter unten in seinem Fazit, könne er auch nicht sinnvollerweise Gegenstand einer Feinderklärung sein, weil eine solche sich

gegen eine Größe [richten müßte], die als solche gar nicht existiert: der Islam. Feind kann aber nur sein, wer, mit Carl Schmitt, als eine „der realen Möglichkeit nach kämpfende Gesamtheit von Menschen auftritt“… Und das ist nicht der Fall.

Halten wir zunächst fest, daß diese Argumentation, sofern sie auf die Nichtexistenz einer kirchenartigen Hierarchie und überhaupt eines Entscheidungszentrums abstellt und bereits deswegen dem Islam die Akteurseigenschaft abspricht, an derselben Schwäche krankt, die uns bereits oben im Zusammenhang mit den Thesen Schirrmachers aufgefallen ist, nämlich der unreflektierten Übertragung westlicher Begriffe und Ordnungsvorstellungen auf eine Gesellschaft, die auf ganz anderen kulturellen Voraussetzungen basiert, und die daher nicht unbedingt in unseren Begriffen sinnvoll zu beschreiben ist. Wir sind es – zweifellos auch vor dem Hintergrund unserer liberalen Rechtstraditionen, bei Weißmann auch einer konservativen Neigung zum Etatismus – gewöhnt, als „Akteure“ (neben Einzelpersonen) nur solche sozialen Systeme aufzufassen, die ein relativ hohes Maß an formaler Organisation aufzuweisen haben, also etwa Staaten, Kirchen, Parteien, Unternehmen etc., und hierarchisch organisiert sind.

Dabei ist bereits mit Blick auf unsere eigene Gesellschaft durchaus fraglich, ob sich die in ihr existierenden Machtstrukturen und Konfliktlagen auf der Basis eines solchen Vorverständnisses noch sinnvoll beschreiben lassen: Nach dessen Logik nämlich wären auch die politische Linke, die globalen Eliten, die politische Klasse oder das System der etablierten Medien nicht als Akteure (und demgemäß auch nicht als Feinde) anzusprechen, da sie in sich jeweils nicht zentralistisch und hierarchisch, sondern netzartig strukturiert und zudem durch starke interne Konkurrenzverhältnisse geprägt sind. Wer sich freilich nur auf diese Konkurrenzmechanismen und internen Interessenkonflikte konzentriert, wird immer wieder überrascht sein, wie sehr diese angeblichen Nicht-Akteure im Verhältnis zu ihrer Umwelt zu koordiniertem Handeln in der Lage sind, das kaum weniger effektiv ist, als wenn es durch eine zentrale Instanz gesteuert würde. Gerade die politische Rechte, die von all diesen Systemen als Feind markiert und erfolgreich bekämpft wird, hat wenig Anlaß, die Feindfähigkeit solcher Kollektivakteure von der Existenz jeweils zentraler Entscheidungsinstanzen abhängig zu machen.

Darüberhinaus bedarf Carl Schmitts Definition, wonach Feind nur sein könne, wer als „der realen Möglichkeit nach kämpfende Gesamtheit von Menschen auftritt“, der Präzisierung und Erläuterung: Damit ist nämlich nicht gemeint, daß etwa buchstäblich jeder Staatsbürger einer kriegführenden Macht, womöglich einschließlich der Säuglinge und Greise, auch faktisch kämpfen müsse, und nicht einmal, daß jeder Soldat ein Kämpfer sein müsse. Die Existenz etwa von Befehlsverweigerung, Sabotage, Spionage, Feigheit, Desertion etc., allgemein gesprochen die individuelle Mißachtung von kampfbezogenen Verhaltenserwartungen beeinträchtigt zwar den Kampfwert einer Streitmacht, stellt aber ihre Fähigkeit, eine Feinderklärung durchzufechten, nicht prinzipiell in Frage, solange die Erfüllung als Normalfall unterstellt werden kann und daher koordiniertes Handeln möglich ist. Dies hat auch nichts mit individuellen Motivationen zu tun: Es spielt keine Rolle, ob der Soldat kämpft, weil er den Sieg seiner Armee wünscht, oder weil er sicherstellen möchte, daß ihm sein Sold regelmäßig ausgezahlt wird, oder weil er Karriere machen möchte (Ganz allgemein sind soziale Systeme in dem Maße erfolgreich, wie sie individuelle Motive vor den Karren des Gemeinwohls spannen können und sich damit von der Gemeinwohlorientierung des Einzelnen unabhängig machen.). Und schließlich versteht es sich von selbst, daß nur dort gekämpft wird, wo auch gekämpft werden kann, im Zweifel also an der Front.

Nach Carl Schmitt ist eine politische Einheit, wer eine Feinderklärung aussprechen und durchfechten kann. Theorieimmanent ist es keineswegs erforderlich, daß die Feinderklärung stets konkret und situationsbezogen ausgesprochen wird; eine abstrakte und konditionierte Feinderklärung genügt vollkommen, sofern sichergestellt ist, daß bei Eintritt der Bedingungen der Kampf auch tatsächlich sinnvoll koordiniert geführt wird. Dies ist beim Islam der Fall, dessen leitender Gedanke die Feinderklärung gegen alle Ungläubigen ist (die freilich nur dort konkret werden kann, wo muslimische mit nichtmuslimischen Akteuren tatsächlich in der Weise in Berührung kommen, daß sie sinnvollerweise kämpfen können – wo also so etwas wie eine Front existiert), und dessen gesamtes Normensystem darauf hin optimiert ist, muslimische zur Verdrängung von nichtmuslimischen Gruppen zu befähigen, mit denen sie im selben sozialen Raum zusammentreffen; auf eine ausgeprägt dschihadistische Motivation jedes einzelnen Muslims kommt es dabei genauso wenig an wie auf die strikte Normbefolgung aller Muslime.

Die Nichtexistenz eines Entscheidungszentrums ist dabei sogar ein Vorteil, weil der Islam dadurch in seiner Eigenschaft als politische Einheit nicht durch die Korruption eines solchen Zentrums in der Weise kompromittiert werden kann, wie es den europäischen Nationen durch den Verrat ihrer Eliten zur Zeit widerfährt. Selbstverständlich gibt es auch in der islamischen Welt zuhauf korrupte Machthaber, deren Verhalten weit entfernt von einem islamischen Ideal ist, indem sie zum Beispiel westlich inspirierte Reformen durchsetzen, sich mit westlichen Mächten verbünden, Frieden mit Israel schließen oder die Gleichberechtigung von Angehörigen religiöser Minderheiten garantieren; damit stürzen sie aber ihre Herrschaft in tiefe Legitimitätskrisen. Allein das Ausmaß an diktatorischer Gewalt, die sie anwenden müssen, um die Opposition der Gesellschaft gegen diesen Verrat am Islam unter Kontrolle zu halten, dokumentiert freilich die Stärke des Islam und gerade nicht seine Nichtexistenz als politische Einheit.

Was diese Einheit konstituiert und aufrechterhält, ist nicht der darauf gerichtete Wille eines Zentrums, sondern die gemeinsame, religiös fundierte, aber kulturell und sozialisatorisch verinnerlichte Bezugnahme der islamischen Gemeinschaft auf ein Normensystem, das die wechselseitigen Verhaltenserwartungen innerhalb muslimischer Gesellschaften strukturiert, dadurch zu einer objektiven sozialen Gegebenheit wird, zu der muslimische Akteure sich verhalten müssen, und ihrem Verhalten im Zweifel die Richtung weist, die der Konsolidierung der politischen Einheit und ihrer Konfliktfähigkeit nach außen dient.

Wenn wir hierzulande beobachten, daß Muslime häufig und sogar typischerweise ein Verhalten zeigen, das dem Dschihad im Sinne der Verdrängung nichtmuslimischer Völker und Normensysteme förderlich ist (während praktisch niemand von ihnen ein Verhalten zeigt, das diesem Ziel direkt zuwiderliefe), so erweckt dies nicht zufällig den Eindruck koordinierten Handelns, sondern weil die im einzelnen unterschiedlichen Handlungsmuster im System der islamischen Normen einen gemeinsamen Bezugspunkt haben.

„Der Dschihad spielt sich deshalb auf zwei miteinander verschränkten und wechselwirkenden Ebenen ab: Auf der Ebene bewussten zielgerichteten Handelns begegnen wir den eigentlichen Dschihadisten, auf der Alltagsebene der mal mehr, mal minder traditionsorientierten Lebensweise von Muslimen, deren scheinbar unzusammenhängende private Handlungen sich wie von selbst zu einer mächtigen gesellschaftlichen Kraft verdichten, die die nichtislamischen Gesellschaften unter Druck setzt. Der Islam ist ein Dschihad-System, weil er beides notwendig hervorbringt.“ (a.a.O., S.184)

Kommen wir nun zur fünften und letzten von Weißmann kritisierten These der Islamkritik:

5. Das Ziel des Islam ist die Islamisierung Europas beziehungsweise der Welt

Dabei bestreitet Weißmann nicht, daß dies tatsächlich das Ziel ist, glaubt aber Entwarnung geben zu dürfen. Zwar besteht auch nach seiner Auffassung ein ernstes Problem:

Allerdings bleibt es dabei, daß in einigen Ländern – wie Großbritannien, Frankreich oder Schweden – die moslemische Gruppe deutlich stärker wachsen wird. Daß es keinen Grund zur Entspannung gibt, hat aber vor allem damit zu tun, daß man die Altersstruktur in den Blick nehmen muß. Es gibt eine starke Fraktion junger, vor allem junger männlicher Moslems, den sogenannte youth bulge, ausgestattet mit einer „Hyperidentität“ (Christopher Caldwell); es gibt die regionale Konzentration, vor allem in den Metropolen; es gibt die Möglichkeit weiterer massiver Zuwanderung – etwa in Folge der Assoziierungsabkommen der Europäischen Union und der nordafrikanischen Länder; und es gibt überhaupt das Problem der Bildung ethnischer Brückenköpfe.

Dennoch würden Muslime weiterhin eine problematische, aber doch vergleichsweise kleine Minderheit bleiben:

Ohne Zweifel wächst die Zahl der Moslems in den Ballungszentren nicht nur Deutschlands, sondern auch Europas teilweise dramatisch. Aber die meisten Prognosen gehen davon aus, daß dieser Prozeß in absehbarer Zeit zum Stillstand kommt und dann auf einem mehr oder weniger hohen Niveau stagniert, daß aber der Bevölkerungsanteil der Muslime in Europa auch im Jahr 2030 lediglich acht Prozent (an Stelle der heutigen sechs Prozent), in Deutschland 8,6 Prozent (an Stelle der heutigen 6 Prozent) betragen wird. Das hängt wesentlich mit der fallenden Geburtenrate in moslemischen Familien zusammen.

Wie aus der IfS-Studie (Fußnote 96) hervorgeht, stützt Weißmann sich hier ausschließlich auf die Veröffentlichungen des Religionswissenschaftlers Michael Blume, die explizit das Ziel verfolgen, „islamophoben Populisten“ (s. S.1 der hier verlinkten pdf-Datei, die von Weißmann als Quelle angeführt wird [5]) entgegenzutreten, und der seine Behauptung einer „fallenden Geburtenrate in moslemischen Familien“ zumindest in dieser Quelle mit lediglich einer einzigen Grafik untermauert (S.16), deren Quellen summarisch angegeben werden, und deren Berechnungsmethoden nicht überprüfbar sind. Hierzu nur drei kurze Anmerkungen:

Erstens: Es gibt eine neuere Studie der Universität Rostock (Nadja Milewski, „Fertility of Immigrants. A Two-Generational Approach in Germany“), die zwar just zu dem Ergebnis kommt, die Geburtenraten von Migrantinnen würden sich denen der Deutschen annähern, dieses Ergebnis aber mit so halsbrecherischer Rechenakrobatik erzwingt (begründet habe ich das in diesem Artikel in meinem Blog „Korrektheiten“ [6]), daß der Umkehrschluß unabweisbar ist, daß man die These mit sauberen Mitteln nicht hätte untermauern können, daß sie also falsch ist.

Zweitens: Selbst wenn es ihn gäbe, würde ein eventueller Rückgang der Geburtenraten eingewanderter Musliminnen die Tendenz zur demographischen Islamisierung keineswegs stoppen; die Politik würde dieses „demographische Problem“ ohne jeden Zweifel auf dieselbe Weise „lösen“, wie sie es auch bisher schon getan hat, nämlich durch verstärkte Masseneinwanderung, die nach Lage der Dinge überwiegend aus islamischen Ländern käme. In quantitativer Hinsicht würde sich die Islamisierung also keineswegs verlangsamen, in qualitativer sich sogar noch verstärken.

Drittens: Da die politische Motivation hinter solchen Studien mit Händen zu greifen ist, sollte es sich von selbst verstehen, daß man ihnen als Konservativer mit einem gewissen gesunden Mißtrauen gegenübertritt. Weißmanns vertrauensselige Übernahme von „Forschungsergebnissen“, die penetrant nach politisch motivierter Desinformation riechen, mutet an dieser Stelle so befremdlich an wie oben die zustimmende Zitierung von Schirrmachers „Erklärung“ für die Existenz von Islamismus.

In seiner „Bilanz“ kritisiert Weißmann die Islamkritik vom strategischen Standpunkt. Nachdem er ihr vorgeworfen hat, ihre Feinderklärung gegen eine nicht existierende Größe zu richten und damit ein im Grunde unpolitisches Konzept zu verfolgen, fährt er fort:

Insofern bindet die Islamkritik, soweit sie das und nichts anderes ist, fatalerweise Kräfte, die an anderer Stelle eingesetzt werden müßten: zur Bekämpfung des weißen Masochismus und eines Establishments, das sich seiner bedient; …

Es versteht sich von selbst, daß der Islam nicht der einzige und nicht einmal der Hauptfeind ist, weil es ihn als kämpfenden Feind gar nicht gäbe, wenn der innere Feind, also vor allem das Establishment, ihm nicht die Tür geöffnet hätte. Daraus aber zu schließen, er sei keiner, ist eine falsche Analyse.

… vor allem aber zur Stärkung der nationalen und europäischen Identität.

Die Wahrnehmung, erst recht die Stärkung der eigenen Identität setzt vor allem voraus, daß man das Nichtidentische als fremd wahrnimmt. Vielen Europäern ist die Einzigartigkeit ihrer Kultur in keiner Weise bewußt; sie tendieren zu der Auffassung, alle Menschen und Kulturen seien im Wesentlichen gleich, d.h. so wie sie selbst. Die Konfrontation mit dem Islam, der im Gegensatz zu anderen fremden Kulturen auf einer ausgefeilten Ideologie basiert und daher nicht nur „irgendwie“, sondern in einer konkreten und benennbaren Weise fremd und anders ist, wirkt hier als heilsame Roßkur. „Wir“ lernen uns selbst kennen, indem wir „sie“ kennenlernen – zumal „sie“ uns auch noch täglich ihre Kriegserklärungen ins Gesicht schreien.

Dabei schadet es überhaupt nicht, daß nicht alle Islamkritiker rechts sind, und daß man den Islam außer von einem konservativen auch von einem linken oder liberalen Standpunkt kritisieren kann und sogar muß: Die Fremdartigkeit des Islam tritt gerade dadurch grell zutage, daß es buchstäblich keine einzige europäische Geistestradition gibt, die nicht islamkritische Implikationen hätte, zumindest soweit der Islam bei uns einwandert.

Auf der anderen Seite ist Islamkritik ein Querschnitthema, an dem man praktisch jedes konservative oder rechte Thema aufhängen kann. Dies nicht zu sehen und die darin liegenden Chancen nicht wahrzunehmen, ist so töricht wie (vom Standpunkt ihrer eigenen strategischen Interessen) die Haltung mancher Siebzigerjahre-Linker, die von Ökologie nichts wissen wollten, weil damit ja vom Klassenkampf abgelenkt werde und das Thema überhaupt konservativ besetzt war. Es ist durchaus plausibel, daß Islamkritik für die Rechte das werden könnte, was das Ökologiethema für die Linke war, zumal sie bereits jetzt mitnichten Kräfte „gebunden“, sondern der Rechten ganz im Gegenteil Kräfte zugeführt, zumindest aber in Rufweite gebracht hat, die sonst für sie unerreichbar gewesen wären.

Die darin liegenden Chancen zu nutzen, setzt freilich die Bereitschaft voraus, sich mit neuen Themen und Perspektiven auseinanderzusetzen. Diese Offenheit mag lästig sein und insofern auch „Kräfte binden“ – eine Tugend, und zwar eine, die sich auszahlt, ist sie trotzdem: eine Tugend übrigens, die in der islamkritischen Szene deutlich verbreiteter ist als in der konservativen – ich kenne beide aus eigener Anschauung –, und durch die sich erstere von letzterer äußerst vorteilhaft unterscheidet.


Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

URL to article: http://www.sezession.de/35614/kritik-der-kritik-der-islamkritik.html

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jeudi, 29 novembre 2012

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

Sommario del numero XXVIII (4-2012) d'Eurasia - Rivista di studi geopolitici

http://www.eurasia-rivista.org/

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

Lo strumento fondamentalista

“Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”. Questa frase, che Samuel Huntington colloca in chiusura del lungo capitolo del suo Scontro delle civiltà intitolato “L’Islam e l’Occidente”1, merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che ad essa è stata riservata finora.

Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed esistenziale confronto tra difesa e rifiuto di “diritti umani”, “democrazia” e “valori laici”. Scrive infatti Huntington: “Fino a quando l’Islam resterà l’Islam (e tale resterà) e l’Occidente resterà l’Occidente (cosa meno sicura) il conflitto di fondo tra due grandi civiltà e stili di vita continuerà a caratterizzare in futuro i reciproci rapporti”2.

Ma la frase riportata all’inizio non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, allorché Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una pratica di questo genere era già stata inaugurata.

“È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”3.

L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.

Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una federazione ad ampio raggio”4. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan – coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari, genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”5.

L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gl’interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.

Il fondatore di An-Nahda, Rachid Ghannouchi, che nel 1991 ricevette gli elogi del governo di George Bush per l’efficace ruolo da lui svolto nella mediazione tra le fazioni afghane antisovietiche, ha cercato di giustificare il collaborazionismo islamista abbozzando un quadro pressoché idilliaco delle relazioni tra gli USA e il mondo islamico. A un giornalista del “Figaro” che gli chiedeva se gli americani gli sembrassero più concilianti degli Europei il dirigente islamista tunisino ha risposto di sì, perché “non esiste un passato coloniale tra i paesi musulmani e l’America; niente Crociate, niente guerra, niente storia”; ed alla rievocazione della lotta comune di americani e islamisti contro il nemico bolscevico ha aggiunto la menzione del contributo inglese6.

La “nobile tradizione salafita”

L’islamismo rappresentato da Rachid Ghannouchi, scrive un orientalista, è quello che “si richiama alla nobile tradizione salafita di Muhammad ‘Abduh e che ha avuto una versione più moderna nei Fratelli Musulmani”7.

Ritornare al puro Islam dei “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn), facendo piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei secoli: è questo il programma della corrente riformista che ha i suoi capostipiti nel persiano Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e nei suoi discepoli, i più importanti dei quali furono l’egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905) e il siriano Muhammad Rashid Rida (1865-1935).

Al-Afghani, che nel 1883 fondò l’Associazione dei Salafiyya, nel 1878 era stato iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Egli fece entrare nell’organizzazione liberomuratoria gli intellettuali del suo entourage, tra cui Muhammad ‘Abduh, il quale, dopo aver ricoperto una serie di altissime cariche, il 3 giugno 1899 diventò Muftì dell’Egitto col beneplacito degl’Inglesi.

“Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”8: questo l’esplicito riconoscimento del ruolo di Muhammad ‘Abduh e dell’indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) che venne dato da Lord Cromer (1841-1917), uno dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano. Infatti, mentre Ahmad Khan asseriva che “il dominio britannico in India è la cosa più bella che il mondo abbia mai visto”9 ed affermava in una fatwa che “non era lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettavano la religione islamica e consentivano ai musulmani di praticare il loro culto”10, Muhammad ‘Abduh trasmetteva all’ambiente musulmano le idee razionaliste e scientiste dell’Occidente contemporaneo. ‘Abduh sosteneva che nella civiltà moderna non c’è nulla che contrasti col vero Islam (identificava i ginn con i microbi ed era convinto che la teoria evoluzionista di Darwin fosse contenuta nel Corano), donde la necessità di rivedere e correggere la dottrina tradizionale sottoponendola al giudizio della ragione e accogliendo gli apporti scientifici e culturali del pensiero moderno.

Dopo ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashid Rida, che in seguito alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito islamico progressista”11 in grado di creare un nuovo califfato. Nel 1897 Rashid Rida aveva fondato la rivista “Al-Manar”, la quale, diffusa in tutto il mondo arabo ed anche altrove, dopo la sua morte verrà pubblicata per cinque anni da un altro esponente del riformismo islamico: Hasan al-Banna (1906-1949), il fondatore dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.

Ma, mentre Rashid Rida teorizzava la nascita di un nuovo Stato islamico destinato a governare la ummah, nella penisola araba prendeva forma il Regno Arabo Saudita, in cui vigeva un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.

La setta wahhabita

La setta wahhabita trae il proprio nome dal patronimico di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), un arabo del Nagd di scuola hanbalita che si entusiasmò ben presto per gli scritti di un giurista letteralista vissuto quattro secoli prima in Siria e in Egitto, Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). Sostenitore di ottuse interpretazioni antropomorfiche delle immagini contenute nel linguaggio coranico, animato da un vero e proprio odium theologicum nei confronti del sufismo, accusato più volte di eterodossia, Ibn Taymiyya ben merita la definizione di “padre del movimento salafita attraverso i secoli”12 datagli da Henry Corbin. Seguendo le sue orme, Ibn ‘Abd al-Wahhab e i suoi partigiani bollarono come manifestazioni di politeismo (shirk) la fede nell’intercessione dei profeti e dei santi e, in genere, tutti quegli atti che, a loro giudizio, equivalessero a ritenere partecipe dell’onnipotenza e del volere divino un essere umano o un’altra creatura, cosicché considerarono politeista (mushrik), con tutte le conseguenze del caso, anche il pio musulmano trovato ad invocare il Profeta Muhammad o a pregare vicino alla tomba di un santo. I wahhabiti attaccarono le città sante dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari; impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta; misero al bando le organizzazioni iniziatiche e i loro riti; abolirono la celebrazione del genetliaco del Profeta; taglieggiarono i pellegrini e sospesero il Pellegrinaggio alla Casa di Dio; emanarono le proibizioni più strampalate.

Sconfitti dall’esercito che il sovrano egiziano aveva inviato contro di loro dietro esortazione della Sublime Porta, i wahhabiti si divisero tra le due dinastie rivali dei Sa’ud e dei Rashid e per un secolo impegnarono le loro energie nelle lotte intestine che insanguinarono la penisola araba, finché Ibn Sa’ud (‘Abd al-’Aziz ibn ‘Abd ar-Rahman Al Faysal Al Su’ud, 1882-1953) risollevò le sorti della setta. Patrocinato dalla Gran Bretagna, che, unico Stato al mondo, nel 1915 instaurò relazioni ufficiali con lui esercitando un “quasi protettorato”13 sul Sultanato del Nagd, Ibn Sa’ud riuscì ad occupare Mecca nel 1924 e Medina nel 1925. Diventò così “Re del Higiaz e del Nagd e sue dipendenze”, secondo il titolo che nel 1927 gli venne riconosciuto nel Trattato di Gedda del 20 maggio 1927, stipulato con la prima potenza europea che riconobbe la nuova formazione statale wahhabita: la Gran Bretagna.

“Le sue vittorie – scrisse uno dei tanti orientalisti che hanno cantato le sue lodi – lo han reso il sovrano più potente d’Arabia. I suoi domini toccano l’Iràq, la Palestina, la Siria, il Mar Rosso e il Golfo Persico. La sua personalità di rilievo si è affermata con la creazione degli Ikhwàn o Fratelli: una confraternita di Wahhabiti attivisti che l’inglese Philby ha chiamato ‘una nuova massoneria’”14.

Si tratta di Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), l’organizzatore della rivolta araba antiottomana del 1915, il quale “aveva occupato alla corte di Ibn Saud il posto del deceduto Shakespeare”15, per citare l’espressione iperbolica di un altro orientalista di quell’epoca. Fu lui a caldeggiare presso Winston Churchill, Giorgio V, il barone Rothschild e Chaim Weizmann il progetto di una monarchia saudita che, usurpando la custodia dei Luoghi Santi tradizionalmente assegnata alla dinastia hascemita, unificasse la penisola araba e controllasse per conto dell’Inghilterra la via marittima Suez-Aden-Mumbay.

Con la fine del secondo conflitto mondiale, durante il quale l’Arabia Saudita mantenne una neutralità filoinglese, al patrocinio britannico si sarebbe aggiunto e poi sostituito quello nordamericano. In tal senso, un evento anticipatore e simbolico fu l’incontro che ebbe luogo il 1 marzo 1945 sul Canale di Suez, a bordo della Quincy, tra il presidente Roosevelt e il sovrano wahhabita; il quale, come ricordava orgogliosamente un arabista statunitense, “è sempre stato un grande ammiratore dell’America, che antepone anche all’Inghilterra”16. Infatti già nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in concessione alla Standard Oil Company of California il monopolio dello sfruttamento petrolifero, mentre nel 1934 la compagnia americana Saoudi Arabian Mining Syndicate aveva ottenuto il monopolio della ricerca e dell’estrazione dell’oro.

I Fratelli Musulmani

Usurpata la custodia dei Luoghi Santi ed acquisito il prestigio connesso a tale ruolo, la famiglia dei Sa’ud avverte l’esigenza di disporre di una “internazionale” che le consenta di estendere la propria egemonia su buona parte della comunità musulmana, al fine di contrastare la diffusione del panarabismo nasseriano, del nazionalsocialismo baathista e – dopo la rivoluzione islamica del 1978 in Iran – dell’influenza sciita. L’organizzazione dei Fratelli Musulmani mette a disposizione della politica di Riyad una rete organizzativa che trarrà alimento dai cospicui finanziamenti sauditi. “Dopo il 1973, grazie all’aumento dei redditi provenienti dal petrolio, i mezzi economici non mancano; verranno investiti soprattutto nelle zone in cui un Islam poco ‘consolidato’ potrebbe aprire la porta all’influenza iraniana, in particolare l’Africa e le comunità musulmane emigrate in Occidente”17.

D’altronde la sinergia tra la monarchia wahhabita e il movimento fondato nel 1928 dall’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949) si basa su un terreno dottrinale sostanzialmente comune, poiché i Fratelli Musulmani sono gli “eredi diretti, anche se non sempre rigorosamente fedeli, della salafiyyah di Muhammad ‘Abduh”18 e in quanto tali recano inscritta fin dalla nascita nel loro DNA la tendenza ad accettare, sia pure con tutte le necessarie riserve, la moderna civiltà occidentale. Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna ed esponente dell’attuale intelligencija musulmana riformista, così interpreta il pensiero del fondatore dell’organizzazione: “Come tutti i riformisti che l’hanno preceduto, Hassan al-Banna non ha mai demonizzato l’Occidente. (…) L’Occidente ha permesso all’umanità di fare grandi passi in avanti e ciò è avvenuto a partire dal Rinascimento, quando è iniziato un vasto processo di secolarizzazione (‘che è stato un apporto positivo’, tenuto conto della specificità della religione cristiana e dell’istituzione clericale)”19. L’intellettuale riformista ricorda che il nonno, nella sua attività di maestro di scuola, si ispirava alle più recenti teorie pedagogiche occidentali e riporta da un suo scritto un brano eloquente: “Dobbiamo ispirarci alle scuole occidentali, ai loro programmi (…) Dobbiamo anche prendere dalle scuole occidentali e dai loro programmi il costante interesse all’educazione moderna e il loro modo di affrontare le esigenze e la preparazione all’apprendimento, fondate su metodi saldi tratti da studi sulla personalità e la naturalità del bambino  (…) Dobbiamo approfittare di tutto ciò, senza provare alcuna vergogna: la scienza è un diritto di tutti (…)”20.

Con la cosiddetta “Primavera araba”, si è manifestata in maniera ufficiale la disponibilità dei Fratelli Musulmani ad accogliere quei capisaldi ideologici della cultura politica occidentale che Huntington indicava come termini fondamentali di contrasto con l’Islam. In Libia, in Tunisia, in Egitto i Fratelli hanno goduto del patrocinio statunitense.

Il partito egiziano Libertà e Giustizia, costituito il 30 aprile 2011 per iniziativa della Fratellanza e da essa controllato, si richiama ai “diritti umani”, propugna la democrazia, appoggia una gestione capitalistica dell’economia, non è contrario ad accettare prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Il suo presidente Muhammad Morsi (n. 1951), oggi presidente dell’Egitto, ha studiato negli Stati Uniti, dove ha anche lavorato come assistente universitario alla California State University; due dei suoi cinque figli sono cittadini statunitensi. Il nuovo presidente ha subito dichiarato che l’Egitto rispetterà tutti i trattati stipulati con altri paesi (quindi anche con Israele); ha compiuto in Arabia Saudita la sua prima visita ufficiale e ha dichiarato che intende rafforzare le relazioni con Riyad; ha dichiarato che è un “dovere etico” sostenere il movimento armato di opposizione che combatte contro il governo di Damasco.

Se la tesi di Huntington aveva bisogno di una dimostrazione, i Fratelli Musulmani l’hanno fornita.

NOTE:

1. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 319.

2. Ibidem, p. 310.

3. Rédha Malek, Tradition et révolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p. 218.

4. Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini e K. Mezran, UTET, Torino 2010, p. 219.

5. “When the enemy is armed with a totalitarian ideology and served by regiments of devoted believers, those with opposing policies must compete at the popular level of action and the essence of their tactics must be counter- faith and counter-devotion. Only popular forces, genuinely involved and genuinely reacting on their own behalf, can meet the infiltrating threat of Communism” (http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm)

6. “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

7. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

8. Cit. in: Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

9. Cit. in: Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2004, p. 65.

10. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, cit., p. 23.

11. Cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 143.

12. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

13. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol. I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

14. Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

15. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

16. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

17. Alain Chouet, L’association des Frères Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm. Sulla presenza dei Fratelli Musulmani in Occidente, cfr. Karim Mezran, La Fratellanza musulmana negli Stati Uniti, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, cit., pp. 169-196; Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, ibidem, pp. 197-240.

18. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

19. Tariq Ramadan, op. cit., pp. 350-351.

20. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, 19 sett. 1929, cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 352.

 

lundi, 15 octobre 2012

Seyyed Hossein Nasr

Seyyed Hossein Nasr (in Persian: سید حسین نصر) :

The Recovery of the Sacred

Seyyed Hossein Nasr

Critique of Modern Philosophy (Schuon)

vendredi, 22 juin 2012

Hongrie : le retour en force du néo-paganisme

Hongrie : le retour en force du néo-paganisme

 

Par Vincent Baumgartner et Corentin Léotard


Ex: http://fierteseuropeennes.hautetfort.com/

 

Les néo-païens sont de retour en Hongrie ! Dernière preuve en date de leur influence grandissante, leur don au Kazakhstan d’un « arbre de la vie » de 9 mètres de haut en l’honneur de leurs « peuples frères des steppes ». Cet « életfa » symbolise dans la mythologie hongroise la résistance au Christianisme et constitue un élément essentiel des croyances táltos, les chamanes hongrois. Plus significatif encore, une scène extraordinaire s'est déroulée quelques semaines plus tôt au sein du parlement hongrois : Ojun Adigzsi See-Oglu, un grand chamane venu de la République russe de Touva aux confins de la Sibérie, s’est livré à une danse rituelle devant la Sainte-Couronne, le symbole du christianisme en Hongrie. Ces anecdotes illustrent un renouveau identitaire plus profond et une contre-culture qui prend de l'ampleur.

 

Face au catholicisme romain imposé par la force il y a mille ans par le roi Szent-Istvan (Saint-Étienne), le paganisme est en train de renaître de ses cendres. De nombreux courants néo-païens se sont développés au cours de ces dernières années avec le dépoussiérage d’une histoire hongroise mythifiée et régulièrement célébrée dans des festivals. Il est fréquent de rencontrer l’aigle Turul ou le cerf merveilleux Csodaszarvas au détour d’un village, dont le nom sur le panneau est désormais écris en proto-hongrois (les runes hongroises), banni jadis par Saint-Étienne. Emese, Magor, Koppány, Álmos… ces prénoms issus de la mythologie hongroise sont très populaires. A tel point qu’il semble que la mythologie païenne et chamanique soit en train de devenir un élément symbolique de l’identité nationale.

 

Un pays « fondamentalement païen et en pleine crise identitaire »

Avec l'arrivée au pouvoir au moi de mai 2010 de la Fidesz et de son « éminence grise » - le parti chrétien-démocrate (KDNP) - la Hongrie actuelle se verrait bien en porte-étendard de la Chrétienté en Europe. En fait, comme l’explique l'historien des religions Attila Jakab, "la Hongrie est un pays chrétien seulement dans la rhétorique politique de la droite. En réalité c'est un pays frustré, en pleine crise identitaire, en quête effréné de soi, et fondamentalement païen". Il affirme aussi que "le fondement sociopolitique de ce néo-paganisme hongrois est constitué des frustrations et de l’inculture. Une bonne partie des Hongrois cherche à s’évader et à s’imaginer un passé glorieux, à rechercher le paradis perdu, car le présent est de plus en plus perçu comme invivable". Selon son analyse, habitués à la servitude pendant de longs siècles - le communisme couronnant le tout- les Hongrois sont toujours en attente d’une Moïse-Messie qui les conduirait dans le Canaan de l’abondance pour résoudre leurs problèmes, sans efforts ni sacrifices individuels en contrepartie.

« De même que l’univers des croyances du chamanisme a toujours fait partie de la culture hongroise, il semble que la mythologie chamanique se soit transformée en élément symbolique de l’identité nationale. », écrit pour sa part l’ethnologue Mihály Hoppál [1]. Cette mythologie est particulièrement attrayante pour l’extrême-droite car elle constitue un trait d’union avec d’autres peuples d’Asie centrale et renforce sa thèse selon laquelle les Hongrois ne seraient pas un peuple finno-ougrien (proche des Finlandais et des Estoniens), comme cela est admis par une majorité des scientifiques, mais partageraient des racines communes avec d’autres peuples d'Asie centrale : les Turcs, les Kirghizes, les Turkmènes, les Ouïgours, les Tatars et même les Tchétchènes. Le festival « Nagy-Kurultaj » célèbre chaque année ce « touranisme », un courant idéologique qui vise à l’union des peuples issus des tribus turcophones d’Asie centrale.

 

L’Eglise catholique sonne l’alarme

En 2009, la « Conférence Hongroise des Évêques Catholiques » [2] publiait une lettre qui a été lue dans toutes les églises et qui dénonçait le paganisme véhiculé par les divers courants de la droite extrême. « Il y a quelques années nous pensions que la sécularisation était pratiquement le seul danger. La mentalité de consommation, l’idole de l’hédonisme sont toujours présents chez notre peuple, mais aujourd’hui on assiste aussi à un renforcement du néo-paganisme », indiquait le communiqué. Le président de la « Fédération des Intellectuels Chrétiens » (KÉSZ), le très influent Evêque Zoltán Osztie, déclarait quant à lui que "le néo-paganisme comporte également un aspect anti-hongrois incarné par une certaine forme de radicalisme politique et surtout par le parti d’extrême-droite Jobbik".

Le professeur Attila Jakab explique aussi que "l’Église catholique en Hongrie est plutôt de type byzantin. Elle fut toujours une servante du pouvoir politique en contrepartie de privilèges et d’avantages matériels". En effet, bien que certains religieux aient courageusement tenu tête aux différentes dictatures – tels que le cardinal Mindszenty, célèbre opposant au régime communiste - force est de constater que la majorité d'entre eux n'a fait qu'obéir docilement au pouvoir en place. A présent, les Églises traditionnelles (catholique et protestante) sont "vides d’un point de vue spirituel et intellectuel. Elles n’ont plus les ressources humaines pour faire face au déferlement du néo-paganisme. D’autant plus, qu’une partie des prêtres et des pasteurs, théologiquement très mal formés (à une théologie datant du XIXe siècle), est aussi adepte ou sympathise avec ces idées néo-païennes".

 

Un mouvement porté par le parti Jobbik

Cette contre-culture rampante au sein de la société hongroise se manifeste à plusieurs niveaux. Une partie de la nébuleuse néo-païenne actuelle en Hongrie n’est pas politiquement marquée et se réclame plutôt proche d’un courantNew Age, plus ou moins sectaire. Mais, comme le relève le sociologue des religions Miklós Tomka, la majorité des cultes païens se développent actuellement de paire avec une idéologie d'extrême-droite. Ils ont effectués leur grand retour dans l’espace publique avec le parti parlementaire Jobbik, le principal parti d’opposition à Viktor Orbán avec le parti socialiste.

L’opposition entre christianisme et paganisme trouve un débouché  politique, comme l’explique Attila Jakab : "Le néo-paganisme est déjà un puissant facteur de division entre la droite traditionnelle - qui se définie comme chrétienne et bénéficie de l’appui des Eglises traditionnelles - et l’extrême-droite pour qui le christianisme redéfini est un décor rhétorique. Comme une partie de la droite traditionnelle peut basculer à tout moment vers l’extrême-droite, Viktor Orbán est contraint de jouer double-jeu : préserver les chrétiens traditionnels (de plus en plus fondamentalistes) et ménager les néo-païens". Mais l'opposition entre christianisme et paganisme n’entraîne pas un clivage politique absolu. La droite extrême se trouve elle-même divisée sur le sujet et, tout en se défendant d’être païen, Jobbik accuse la droite traditionnelle Fidesz de renier les racines de la culture hongroise en rejetant le paganisme.

 

Entre Erzsébet et Edit, deux femmes d’une soixantaine d’années habitant un petit village du nord du pays, la conversation est animée. La première soutient le parti socialiste (chassé du pouvoir en 2010) et se dit "scandalisée que n’importe qui puisse venir faire le clown dans un endroit comme le parlement hongrois".

"En quoi ce chamane menaçait-il la Sainte-Couronne ?!", lui rétorque la seconde, à la fois fervente catholique et proche de Jobbik. Elle relativise la portée de ce mouvement néo-païen et, à l’en croire, si la société hongroise est réellement secouée de spasmes de paganisme, c’est inconscient. "La plupart des gens n’ont même jamais entendu parler des táltos [sorte de  chamanes hongrois]. Ici les gens ne croient en rien", regrette-t-elle.

Ce néo-paganisme reste encore flou, si bien qu’il est plus juste de parler d'un syncrétisme composé d’éléments religieux – un chamanisme hongrois réinventé s’articulant avec un christianisme imaginé – et d’un élément d’ordre idéologique : l’antisémitisme. Car l’une des raisons de l'attrait des croyances païennes, c’est le rejet du judaïsme à travers celui du christianisme.

Pour une partie de la nébuleuse néo-païenne, le christianisme n’est qu’un avatar du judaïsme. Comme le proclame le site catholique d'extrême-droite « Regnum Sacrum », « Les adeptes du néo-paganisme considèrent le christianisme comme une secte juive qui est devenue religion universelle et qui a conquise et détruite l'Europe païenne en volant et en détournant ses fêtes et ses mythes. »

Malgré la volonté du gouvernement conservateur de faire du Christianisme le ciment de la nation hongroise, la résurgence d’un néo-paganisme mêlant croyances anciennes et fantasmées, nationalisme et antisémitisme apparaît comme un symptôme d’une société qui n’a pas encore digéré son histoire récente et à la recherche de repères identitaires. Comme l'a écrit le philosophe Alain : « Mais les dieux païens, aussi, croyez-vous qu'on puisse les mépriser ? Le catholicisme en porte l'empreinte, par ses Saints, ses chapelles et ses miracles... ».

 

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[1] « Le chamanisme dans la culture hongroise », Mihály Hoppál, Institut d’ethnologie, Académie hongroise des sciences.

[2] A Magyar Katolikus Püspöki Konferencia

 

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http://www.hu-lala.org/2012/05/17/hongrie-le-retour-en-force-du-neo-paganisme/

 

Csodaszarvas.jpg

Csodaszarvas


samedi, 26 mai 2012

Samuel Huntington aurait-il raison?

 
Samuel Huntington aurait-il raison  - Ardavan Amir-Aslani constate l'irruption du fait religieux en politique

Samuel Huntington aurait-il raison?

Ardavan Amir-Aslani constate l'irruption du fait religieux en politique

Ex: http://metamag.fr/
 
On avait, en même temps que Georges Bush, enterré Samuel Huntington, dont le concept du "choc des civilisations" donnait une prééminence aux oppositions culturelles-civilisationnelles , dans lesquelles le substrat religieux tiendrait une place centrale. Or, la religion reste au centre du champ  de réflexion retenu par Ardavan Amir-Aslani dans son ouvrage, "La guerre des dieux" (Nouveau Monde édition), qui a, bien entendu, intégré tous les mouvements du monde arabe.
 
Ardavan Amir-Aslani
 
Iranien d'origine, avocat dans une grand cabinet d'affaire parisien et président de la chambre de commerce France-Azerbaïdjan, il a livré quelques réflexions à la journaliste Caroline Castets pour Le Nouvel Economiste.
Flavia Labau
 
"En février dernier, tout le monde y croyait. Le Printemps arabe avait eu raison des dictatures du passé. Un formidable élan démocratique soufflait sur les pays musulmans. Un an plus tard, Ardavan Amir-Aslani rectifie. Ce n’est pas à “plus de démocratie, plus de droits de l’homme et plus de laïcité” que ces soulèvements ont abouti, mais bien “au mouvement inverse”. D’où sa suggestion de ne plus qualifier ces événements de “Printemps” mais d’ “Hiver arabe”, seule image conforme, selon lui, à “la régression inéluctable” à laquelle vont mener ces révolutions.
 
La vision est sévère. Le diagnostic, sans appel. C’est que, pour l’auteur de La Guerre des dieux, la descente du monde arabe dans ce qu’il appelle son “Moyen Age” a déjà commencé. Depuis que, par les urnes ou sous couvert de conseils de transition, les islamistes ont remplacé les dictateurs. Depuis, surtout, que le fait religieux a fait intrusion dans la vie politique. Constat d’autant plus inquiétant qu’il vaudrait pour l’ensemble de la planète où, partout, se multiplient les “irruptions du fait religieux en politique”.
 
Une tendance aux effets déjà perceptibles – repli sur soi, montée des communautarismes, peur de l’autre… – et qui devrait encore s’accentuer avec la mondialisation qui, contrairement à une autre illusion largement répandue, ne nous mènerait pas “vers un monde homogène porté par des valeurs communes” mais “vers une segmentation de la communauté planétaire par ethnies et par religions”. Seul espoir : voir la France assumer son rôle essentiel de “lien entre l’Orient et l’Occident” en se souvenant, pendant qu’il en est encore temps, de ses convictions républicaines. Celles-là mêmes qui, il y a plus de deux siècles, lui ont permis, précisément, de séparer fait religieux et vie politique.
 
“Il y a un an, tout le monde a voulu voir dans le Printemps arabe une formidable avancée démocratique mais pour moi, c’est le mouvement inverse qui s’est produit. Loin d’avoir l’effet escompté, ces révolutions ont poussé le monde arabe vers une régression en permettant l’intrusion du fait religieux dans la vie politique. Et malheureusement, c’est un constat qui, loin de se limiter à ces pays, doit être généralisé puisque partout dans le monde, les réactions et les orientations politiques apparaissent de plus en plus marquées par le fait religieux.
 
Michele Bachmann : un message dicté par dieu
 
L’Amérique – où l’on pourchasse le médecin qui pratique l’IVG et où de plus en plus de candidats font campagne sur un message ultra-conservateur, à commencer par Michele Bachmann qui disait son message dicté par Dieu – en est un exemple. La Russie où l’Eglise orthodoxe est de plus en plus présente, en est un autre. Même chose en Chine, où le pouvoir s’efforce d’amoindrir le rôle de l’Eglise catholique sur place et bien sûr en Afrique où le cas de la Libye, entre autres, est particulièrement saisissant, les trois premières décisions du CNT ayant eu pour effet de rétablir la charia, de légaliser la polygamie et d’interdire la mixité à l’école publique. Ce qui n’est pas ce que j’appellerais du progrès.
 
Religion et vie civile
 
Autres exemples de cette poussée religieuse dans la vie civile comme dans le domaine politique : la Syrie, au sujet de laquelle l’archevêque de Beyrouth avait déclaré : “pourvu que Bachar al-Assad ne tombe pas, sinon, cela sera le massacre des chrétiens de Syrie”, l’Egypte, où la minorité chrétienne fait régulièrement l’objet de massacres, ou encore le Bahreïn dont personne ne parle parce qu’il s’agit d’un royaume plus petit que Manhattan mais qui est le théâtre d’une quasi-apartheid. Le pays compte 25 % de sunnites, face à 75 % de chiites et cette majorité fait l’objet d’un racisme absolu avec interdiction de servir dans l’armée, d’exercer des fonctions importantes dans la fonction publique, etc.
 
En Pologne, l’Eglise est omniprésente sur le dossier de l’avortement et en France, on constate quasi quotidiennement cette incursion de plus en plus marquée du religieux dans la vie publique. Que ce soit lorsque les Musulmans de France manifestent autour de la polémique sur le port du voile ou lorsqu’une pièce de théâtre déchaîne la colère d’extrémistes chrétiens. Quelle que soit la zone géographique, il suffit de regarder l’actualité pour constater que le fait religieux est en constante éruption.
 
Hiver arabe
 
Cette poussée religieuse est récente. Prenez un Larousse des années 1977-78 : le terme de fondamentaliste n’y figurait pas. Pas plus que celui d’islamiste. Ce n’est qu’au début des années 80, avec la révolution iranienne, que ces termes font leur apparition dans le langage public. Parce que l’ayatollah Khomeyni est arrivé au pouvoir et qu’il a instauré une théocratie. Pour moi, il est clair que tous les problèmes du monde musulman découlent de cet événement. La guerre en Iran-Irak, l’opposition sunnites-chiites… Jusqu’au Printemps arabe qui devait aboutir à plus de démocratie, plus de droits de l’homme, plus de laïcité mais qui, au final, avec cette nouvelle mixité religieux-politique, a débouché sur le mouvement inverse. C’est pourquoi il faut cesser de parler de Printemps arabe et utiliser l’expression adéquate pour qualifier ces événements.
 
En l’occurrence, même le terme d’“Automne arabe” apparaît trop optimiste. Seul celui d’Hiver arabe” reflète la réalité de ce qui va suivre. La régression inéluctable vers laquelle va mener ces révolutions. Ce qui n’est en réalité une surprise pour personne puisque toutes les différentes dictatures de ces pays n’étaient maintenues au pouvoir qu’afin d’empêcher la montée de l’islamisme. Moubarak le disait : “Si ce n’est pas moi, ce sera les Frères musulmans.” Et la suite a prouvé qu’il avait raison. On a donc mis fin aux dictatures pour voir arriver au pouvoir des gens qui réintroduisent la charia dans la société civile. Des gens qui prennent par les urnes ou sous couvert de conseils de transition un pouvoir que, bien évidemment, ils ne restitueront jamais ; si bien qu’ils vont détruire le schéma démocratique qui les a eux-mêmes amenés au pouvoir. Et pour légitimer leur action, ils diront tenir leur pouvoir de Dieu.

La montée de l’islamisme
 
C’est l’un des grands avantages de l’islamisme : dès lors que vous vous positionnez comme étant celui qui matérialise la parole divine sur terre, comme une autorité de fait, personne ne peut plus s’opposer à vous. Celui qui le ferait serait un mécréant, un infidèle. Hors de l’islam, pas de salut. Voilà pourquoi cette religion implique forcément une forme prosélytisme, de guerre sainte…
 
 
L’autre atout des islamistes tient évidemment au fait qu’ils sont les seuls à être organisés et prêts à exercer le pouvoir, mais aussi au fait qu’ils sont souvent la seule forme de gouvernement qui n’a pas encore été essayée par ces pays. Les Irakiens, par exemple, ont essayé le baasisme, le socialisme, le capitalisme, le soviétisme, l’occidentalisme… et chaque fois, ils ont fini avec la même corruption, les mêmes tragédies de société, la même absence de démocratie. La seule chose qu’ils n’ont pas essayée, c’est l’islam. Et comme le Coran est censé détenir les réponses à toutes les questions qu’on peut se poser, cela apparaît très rassurant.
 
C’est pourquoi les pays arabes jusqu’alors dotés de régimes pro-occidentaux et séculiers vont désormais connaître des régimes anti-occidentaux et religieux. Prenez le cas de l’Egypte où les chrétiens coptes sont pourchassés dans les rues d’Alexandrie et abattus par dizaines ; prenez celui du Pakistan et de l’Afghanistan où, une fois les Américains partis, les talibans vont revenir… Il n’y a pas un exemple qui aille à l’encontre de cette vision des choses. C’est pourquoi j’en suis convaincu : exception faite de l’Iran qui a été le premier à entrer dans l’islamisme et sera le premier à en sortir en grande partie parce que 75 % de sa population a moins de 35 ans et est à la fois éduquée et connectée, le monde arabe va s’orienter vers le fanatisme religieux.
 
La double tragédie
 
A l’origine de ce mouvement, il y a la double tragédie du monde arabe. La première est une tragédie philosophique qui tient au fait que l’islam a connu sa Renaissance – avec l’astronomie, les grands mathématiciens… – avant de basculer dans le Moyen Age tel qu’il s’apprête à le vivre aujourd’hui : avec la polygamie, l’idée qu’un homme vaut plus qu’une femme et un musulman plus qu’un chrétien ou un juif, etc. Si bien que contrairement à l’Occident, l’évolution de ces pays prend la forme d’une régression. La seconde tragédie du monde arabe est liée au népotisme qui a longtemps caractérisé ces différents Etats. Ben Ali est resté au pouvoir 27 ans, Moubarak, 32 ans, Abdallah Saleh, au Yemen, 33 ans, Kadhafi, 42 ans. A cela s’ajoute l’extrême corruption, dans des pays qui sont riches et dont la population est jeune, éduquée et sans avenir.
 
Ce qui explique qu’en Algérie et au Maroc, les gens préfèrent nager à travers le détroit de Gibraltar pour être ensuite pourchassés en Espagne plutôt que de rester chez eux. Encore une fois ces pouvoirs-là étaient maintenus par les dirigeants du monde entier pour une unique raison : leur effet stabilisateur. Aujourd’hui que l’on voit ces régimes disparaître et le changement arriver, à défaut de pouvoir s’y opposer, mieux vaut l’accompagner dans l’espoir de retarder l’éclatement du conflit. Celui-ci aura lieu, c’est inéluctable. Car pendant que le monde arabe va vivre son Moyen Age, le reste du monde va continuer à se mondialiser et à se moderniser si bien que c’est un véritable conflit de civilisations qui se profile.
 
Conflit de civilisations
 
Je crois qu’on est parti au moins pour un siècle d’hostilités. Celles-ci ne devraient pas prendre la forme d’une guerre ouverte – l’Occident a aujourd’hui encore quelques atouts qui font que la guerre n’est pas une option envisageable – mais plutôt d’un refus marqué de l’Occident en Orient et d’un nombrilisme croissant en Occident. C’est déjà ce que l’on voit aux Etats-Unis où les Américains cherchent aujourd’hui à se replier sur eux-mêmes et affichent, dans leurs discours, un certain rejet de l’Europe et de ses difficultés actuelles. Un redressement économique aurait probablement un effet apaisant, mais il y a d’autres critères à prendre en compte. L’argent seul ne suffit pas. Aujourd’hui, ce que les gens veulent retrouver en priorité, c’est leur dignité. Cette dignité que nous prenons pour un acquis en Occident et qui reste un rêve pour eux. Que la police ne les gifle pas quand ils passent dans la rue, qu’elle ne leur fasse pas payer la rançon pour leur commerce…
 
A cette revendication naturelle s’ajoute une incapacité à accepter et à respecter la différence qui fait que les musulmans entre eux, sur leur propre territoire, ne parviennent pas à cohabiter. Comment pourraient-ils le faire avec le reste de la planète ?
 
Dernier élément aggravant : le fait que le monde arabe a une revanche à prendre sur son passé. Ces pays ont été colonisés, ils ont été humiliés, ils estiment qu’ils continuent à l’être au travers du conflit Israël-Palestine. Ils veulent s’affirmer. Et aujourd’hui, ils le font en rejetant nos valeurs. Le foulard dans les rues de Paris ou dans les rues du Caire, c’est bien cela : le rejet patent d’une valeur d’égalité entre l’homme et la femme et, à travers lui, un déni de l’accès de la femme au travail, à l’éducation. C’est un refus de ce qu’est l’Occident. Et face à cela nous ne pouvons rester indifférents.
 
La mondialisation
 
Encore une fois cette tendance à la politisation du fait religieux est générale. Partout dans le monde, la religion entre en politique. Les gens se retranchent. Et loin de freiner cette tendance, la mondialisation a pour effet de l’accentuer. Contrairement à ce qu’on pense, on ne va pas vers un monde homogène porté par des valeurs universelles communes mais vers une segmentation de la communauté planétaire par ethnies, par religions. Pour moi, cela s’explique par le fait que la religion est devenue un élément identitaire et que, à l’heure actuelle, on manque d’autres éléments d’identification. Le port du voile est un cri identitaire, tout comme la croix visible. Sauf que chez certains, ce n’est que cela et chez d’autres, c’est l’élément dominant d’une personnalité, ce qui prime et l’emporte sur toutes les valeurs occidentales.
 
 
Si bien qu’on ne va pas vers un melting-pot mais vers des séparations de plus en plus marquées, avec tous les risques que cela comporte en matière de montée des communautarismes et l’éventualité d’aboutir à une situation où les gens ne s’identifient que par leur communauté religieuse. Pour l’heure, la position européenne face à ces mutations est teintée d’angélisme. C’est pourquoi il faut se ressaisir : penser aux droits de l’homme, à la république, aux valeurs de la révolution qui ont permis de séparer gouvernance politique et fait religieux ; et parallèlement, être conscient d’un monde qui change et dans lequel on n’est plus les premiers. Puisque quand on en est à envisager de faire appel à la Chine pour renflouer les banques européennes, on cesse d’être crédible et on ne peut plus vivre sur la gloire du passé.
 
L’exclusion
 
Dans ce contexte les sentiments s’exacerbent. C’est pour cela qu’on voit resurgir les mêmes thèses supposément rassurantes et portées par le même discours anti-immigration, sécurité… Il faut bien comprendre qu’aujourd’hui, les craintes des gens ne se limitent pas à être exclus du droit au travail. Cette peur-là, on vit avec depuis 30 ans. Ce qu’ils redoutent, c’est l’exclusion du droit au logement, du droit au soin, du droit à l’éducation. Il y a 40 ans, lorsqu’on disait “exclu” on pensait “chômeur”. Aujourd’hui, on pense “SDF”, ce qui montre bien à quel point le malaise social s’est aggravé. On n’est plus seulement dans le “je n’ai pas de boulot”, on est dans “j’ai mal”.
 
A l’origine de tout cela il y a certes des facteurs économiques mais aussi cette incursion du religieux en politique et dans la vie civile qui génère une peur de l’autre. C’est cette peur qui nous alimente l’absence de dialogue et, insidieusement, nous mène au conflit.
 
Le rôle de la France
 
En dépit de cette peur rampante, la France reste sans doute le seul pays, avec les Etats-Unis, à pouvoir s’enorgueillir de porter le message universel, républicain et laïc. Ce qui explique qu’elle a un rôle majeur à jouer dans le contexte actuel : elle doit être un lien entre l’Orient et l’Occident, entre l’Est et l’Ouest, comme elle l’a d’ailleurs toujours été. Et pourtant, elle semble absente. Détachée des enjeux du moment. Sa politique étrangère est intégralement calquée sur celle des Etats-Unis et pendant ce temps, le vide qu’elle laisse n’est pas comblé. C’est dans cet espace laissé vacant, dans cette absence de lien avec l’Occident et ses valeurs que s’engouffrent les islamistes et que le ressentiment enfle. Et que se passe-t-il lorsque les véhicules de transmission de valeurs cessent d’être présents ? On s’enracine chez soi et on regarde l’autre en face avec envie.
 
Politique étrangère
 
Le malaise est encore accentué par le fait que la politique étrangère de la France sur le Moyen-Orient et sur le monde musulman dans son ensemble est une politique marquée dont les entreprises françaises paient le prix. Car il est bien clair que, pour elles, l’obtention de grands contrats au sein de ces pays du monde arabe est associée à l’image de la France là-bas. Ce qui fait du choix d’une entreprise française un choix politique autant qu’économique. Or certaines positions politiques de la France sont perçues comme injustes ou excessives. Comme le fait que le gouvernement français ait pu être proche de Ben Ali et totalement opposé à Ahmadinejad. Ou encore que Kadhafi, qui était un fou furieux, ait été reçu à Paris et ait pu planter sa tente dans les jardins de l’Elysée alors que, parallèlement, ce même gouvernement français appelle au boycott de la Banque centrale iranienne. Pourquoi composer avec certaines dictatures et se montrer inflexibles avec d’autres ? C’est ce qui, pour beaucoup, reste difficile à comprendre.

Repli sur soi
 
Pour toutes ces raisons, j’ai du mal à croire en un avenir proche apaisé entre Orient et Occident ; en une cohabitation sereine et respectueuse des différences de chacun. Ce que je vois se profiler, en revanche, c’est un monde occidental replié sur lui-même avec des échanges extrêmement difficiles avec le monde musulman. Les visas vont être de plus en plus rares et le dialogue de plus en plus ténu. Tant sur le plan culturel que militaire, parce que toute la communauté éduquée de ces pays voudra fuir et que, bien évidemment, l’Europe ne pourra accueillir tout le monde. 
 
Afghanistan : le retour des talibans
 
Et c’est pourquoi le réveil pour tous ces pays qui croyaient avoir gagné leur liberté promet d’être brutal. Lorsque les gens réaliseront que les bouleversements récents ont entraîné une forte diminution de la manne que représentait pour eux le tourisme, lorsqu’ils prendront conscience de qui détient désormais le pouvoir et des effets induits sur la vie civile et que, au final, ils se retrouveront encore plus démunis aujourd’hui, dans cette soi-disant liberté, qu’il y a un an. Pire que tout, les gens vont constater – beaucoup l’ont d’ailleurs déjà fait – que les dictateurs sont peut-être partis, mais que les dictatures demeurent. Via ce qui reste de leur gouvernement, de leur armée ou via les islamistes.”
 
Les titres et sous-titres sont de la rédaction
Caroline Castets pour lenouveleconomiste.fr

jeudi, 10 mai 2012

Jésus au Cachemire?

Moestasjrik / “’t Pallieterke”:

Jésus au Cachemire?

carte.gifUn récit traditionnel évoque parfois la présence des tribus perdues d’Israël sur le territoire afghan actuel. D’autres parlent de leur présence au Cachemire voisin, où, dit-on, elles auraient reçu la visite d’un certain Jésus de Nazareth. Telle était, de toutes les façons, la thèse d’un aristocrate russe, Nicolaï Notovitch qui l’a consignée dans un ouvrage “Le Voyage de Jésus au Cachemire et ses prêches aux tribus perdues d’Israël”, publié en 1890 après une expédition aventureuse dans l’Himalaya. Notovitch affirmait qu’il avait trouvé un manuscrit de la main même de Jésus dans un monastère lamaïste du Ladakh, la partie ethniquement tibétaine du Cachemire.

Selon Notovitch, Jésus aurait voyagé entre sa treizième et sa vingt-neuvième année à travers l’Iran, se serait rendu auprès des communautés juives d’Afghanistan puis aurait visité les sites sacrés de l’Inde. Il y aurait étudié les traditions les plus profondes, parfois pour les reprendre à son compte mais aussi, plus souvent, pour les rejeter car, tout comme les Pharisiens de Palestine, les sages de l’Orient l’auraient considéré comme un polémiste original et innovateur. Jésus aurait ainsi rejeté le système indien des castes, ce qui confèrerait à sa pensée une dimension égalitaire et finalement très moderne, trop moderne, dirions-nous, pour ne pas être suspecte. Ce n’est qu’après avoir littéralement fait le plein de savoir que Jésus est revenu en Palestine, où il a commencé son étonnante carrière de “Messie”. Ses mémoires sur ses années de formation en Orient, il les aurait laissées dans la bibliothèque d’un monastère, où Notovitch les aurait vues dix-huit siècles plus tard. Jusqu’à présent, Notovitch aurait donc été le seul à les avoir vus, car personne n’a plus jamais retrouvé ultérieurement ce fameux manuscrit.

Le récit de voyage de Notovitch a été immensément populaire dans les cercles qui s’adonnaient à la théosophie, sorte de doctrine mélangeant bouddhisme et christianisme, dont est issu l’actuel mouvement “New Age”. La thèse de Notovitch y est considérée comme une preuve du statut de gourou de Jésus, un gourou qui se mettait en travers de toutes les religions institutionalisées et se plaçait ipso facto dans la communauté mondiale des “Maîtres de la sagesse”. Jésus est ainsi dépouillé de son aura de “Fils de Dieu” pour devenir, plus simplement, un des guides qui nous mènent vers le sentier d’une spiritualité universelle. Ainsi, Jésus aurait dit aux prêtres du culte du feu en Iran, en des termes très anarchisants et très “New Age”: “Tant que le peuple n’avait pas de prêtres, les âmes de ses fils étaient en Dieu”. Voilà qui est clair: pas besoin d’église, il faut directement “expérimenter Dieu”.

Pourtant, le manuscrit que Notovitch aurait vu au Ladakh contient des détails qui ne vont nullement dans le sens du message théosophique d’ “une profonde unité de toutes les religions”, du moins selon les termes qu’en rapporte l’aristocrate russe. Ainsi, Jésus aurait lancé une polémique contre la doctrine de la réincarnation. C’est logique: la réincarnation implique que la mort n’est qu’une phase intermédiaire et sans importance qui “passe” sans effort, tandis que la Bible pose la mort comme un problème central, notamment comme une punition suite au péché originel, tant et si bien que la mission de Jésus consiste à surmonter la mort. Les adeptes du New Age affirment au contraire que “les premiers chrétiens croyaient eux aussi à la réincarnation”, jusqu’au jour où “l’Eglise autoritaire et patriarcale de Rome” décida de combattre cette croyance pour des motifs purement intéressés et vénaux.

Cependant, le récit de Notovitch ne se termine pas par le retour de Jésus vers sa terre natale. Après sa résurrection, il aurait désigné Pierre comme son représentant, son pape, et serait retourné en Orient. Il se serait installé au Cachemire où il serait mort de sa belle mort à l’âge de 115 ans. Depuis lors, ou du moins depuis un changement de tombeau, ses restes reposeraient au mausolée de Rauzabal à Srinagar. Cette ville est aujourd’hui le théâtre permanent d’attentats à la bombe et de tirs entre factions rivales mais toute personne qui a le goût de l’aventure peut aller s’incliner, là-bas, sur le tombeau du Christ. Le corps est soustrait aux regards et déposé dans un cercueil car, autrement, craignent les musulmans, les chrétiens pieux pourraient se mettre à le manger, s’ils interprètent au sens large le sacrement de l’eucharistie.

Que Jésus, après sa vie publique, serait revenu au Cachemire et qu’il y repose, est aussi la thèse d’un philosophe local, Mirza Ghulam Ahmad de Qadian qui l’a consignée dans un petit livre, “Jésus en Hindoustan” (1899). Dans cet ouvrage, la légende a des implications politiques. Lorsqu’Ahmad a entendu parler du récit de Notovitch, il a aussitôt compris qu’il pouvait le solliciter pour se conférer personnellement la dimension d’un prophète. Le problème qui tourmentait Ahmad, c’est que, selon l’islam, Mohammed est le prophète définitif; après lui, aucun autre prophète ne viendra. Il n’y a pas de “postcriptum” possible dans le Coran! Ensuite, tous les prophètes que reconnaît l’islam ont vécu au Proche-Orient. La présence de Jésus en Inde pouvait prouver, au moins, que ce pays, à son tour, était un lieu idoine pour accueillir un prophétisme. Et cela appuyait la revendication d’Ahmad de devenir prophète à son tour.

Cela ne l’a guère aidé car ses disciples, les “ahmadijjas” ou “qadianis” sont poursuivis au Pakistan en tant qu’hérétiques. Cela ne signifie pas pour autant qu’ils sont de pauvres brebis innocentes: souvent, ils désespèrent de ne pouvoir prouver à la masse des musulmans de la région qu’ils entendent pratiquer un islam plus pur et, pour compenser cette frustration, ils se montrent très souvent plus fanatiques que les autres à l’endroit des non-musulmans. Les musulmans ne les considèrent pourtant pas comme des coreligionnaires, malgré la légitimité qu’ils cherchent à se donner via Jésus (rappelons aussi que les musulmans rejettent le seul Prix Nobel de physique qui soit “musulman”, le Pakistanais Abdus Salma, parce qu’il est un “ahmadijja”).

Quel est le résultat de tout cela? Nous avons donc un noblion russe égaré, qui découvre un manuscrit qui devrait bouleverser le monde entier, mais ne le laisse voir à personne. Nous avons ensuite un musulman narcissique qui utilise un récit nouveau sur la vie (et la mort) de Jésus pour justifier sa propre prétention à devenir l’envoyé de Dieu. Bref: nous avons là un cas classique de folie religieuse ou, plutôt, de folie privée que l’on affuble d’oripeaux religieux. L’affaire Notovitch-Ahmad est un exercice réussi, le premier dans la liste, où des imaginations fertiles ont cherché à ébranler les convictions religieuses conventionnelles. Ce fut bien une variante antérieure de la démarche qui sous-tend le “Da Vinci Code”.

MOESTASJRIK.

(article paru dans “ ’t Pallieterke”, Anvers, 8 mars 2006; trad. franç.: avril 2012).

 

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mercredi, 01 février 2012

Miti e simboli del paganesimo e del cristianesimo

Miti e simboli del paganesimo e del cristianesimo

Il cristianesimo come negazione dell’ethos, la proiezione dell’ideale morale nella sfera ultraterrena

Fabio Calabrese

Ex: http://www.rinascita.eu/

dearoma.jpgNella storia dell’Europa e della cultura europea, paganesimo e cristianesimo si sono, oltre che combattuti senza pietà (soprattutto da parte cristiana, le cui persecuzioni contro i pagani furono assai più violente, spietate e prolungate nel tempo di quelle pagane contro i cristiani) variamente sovrapposti, intrecciati, mescolati.
In particolare, l’affermazione del cristianesimo non fu dovuta a predicatori ingenui, appassionati e idealisti, ma a scaltri e pragmatici politicanti. Costoro non ebbero mai nessuno scrupolo a impadronirsi non solo di luoghi di culto, di divinità locali da trasformare disinvoltamente in santi e madonne, ma anche di complessi ideologici-mitologici-simbologici molto vasti, creando delle situazioni ambigue, difficili da districare se non si hanno le idee chiare e non si dispone di una base culturale robusta. Peggio ancora, possono generare l’impressione che l’abisso che separa il paganesimo dal cristianesimo sia un semplice fossato che si può scavalcare senza troppi problemi. E’ questo un motivo che, forse, non ho evidenziato a sufficienza nell’articolo Il cioccolatino e l’incarto (http://www.ereticamente.net/2011/12/il-cioccolatino-e-lincarto.html) per spiegare come mai molti tradizionalisti sedicenti evoliani siano saltati sulla sponda cattolica considerando un semplice approfondimento quella che a tutti gli effetti è una vera e propria abiura. Lo storico Antonio Brancati ha fatto un’interessante analisi di quella che è stata chiamata l’opera di inculturazione cristiana, che è altra cosa e più sottile della prevalenza del cristianesimo in epoca tardo antica a livello di istituzioni, richiese almeno un millennio e ancora oggi è difficile dire se abbia davvero trionfato completamente sulla spiritualità nativa dell’Europa.


In pratica tutto ciò che era troppo radicato nella coscienza europea per essere proibito o estirpato, venne “battezzato”, dalle divinità trasformate in santi, al samain celtico convertito nella festività di ognissanti, alla celebrazione del solstizio d’inverno trasformata nel cosiddetto natale di Gesù Cristo (che nessuno sa quando sia effettivamente nato), e via dicendo:


“Un tipico esempio di questa contaminazione è il cosiddetto “magico cristiano”, ossia un complesso insieme di veri e propri riti magici di derivazione chiaramente pagana ma debitamente “ribattezzati” mediante l’uso di preghiere ampiamente accettate dalla Chiesa e l’abuso di ampi gesti di croce: riti frequentemente praticati per ottenere la fertilità dei campi o per riacquistare in qualche modo la perduta salute del corpo” (1).


Un complesso mitico-simbolico particolarmente importante che si è prestato a questa operazione che gli storici hanno chiamato di inculturazione, ma che noi potremmo anche chiamare di appropriazione indebita, è rappresentato dal Santo Graal, uno di quei miti-simboli potenti che ci fanno capire che il processo di trasformazione, per usare la terminologia di Oswald Spengler, della Kultur europea in una Zivilization mondialista, anodina, senza volto, non si è ancora del tutto (e forse non sarà mai) completato.
Per capire il reale significato del Graal, occorre fare riferimento al contesto storico nel quale il mito è nato: la Britannia del V secolo alla vigilia dell’invasione sassone, un ambiente sostanzialmente pagano, anche se già oggetto di una prima superficiale cristianizzazione. Re Artù ha perso la regalità a causa dell’inconsapevole incesto con Morgana e deve essere riconsacrato con quella che verosimilmente era stata la coppa della sua incoronazione primitiva. Cosa c’è di più ovvio in un ambiente nel quale un radicato paganesimo nativo inizia a mescolarsi ai riti e ai simboli della religione importata, che la coppa, il calderone usato per la consacrazione dei re celtici (il termine Graal viene dal latino gradalis che indica un recipiente piuttosto ampio, come il celebre calderone di Gundsrupp, d’altra parte, sempre da qui viene l’italiano grolla) fosse confuso con il calice dell’eucaristia?


E’ tuttavia una concezione pagana del tutto incompatibile con il cristianesimo quella che emerge dalla narrazione del mito arturiano. Merlino (come la sua copia moderna, Gandalf) è evidentemente un druido e non un prete, ma soprattutto il re celtico è portatore di una legittimità e di una sacralità propria in quanto “figlio di Lugh” che il druido può riconoscere e certificare ma non creare con la consacrazione, egli è - come nell’antica religione romana - “pontifex”, chiamato a fare da ponte fra la terra e il cielo, ed è per questo che la decadenza di Artù provoca l’isterilimento della terra. Il cristianesimo non ammette altro pontefice (titolo, come ben sappiamo, usurpato dalla romanità) che il vescovo di Roma, sedicente vicario di Cristo.


L’idea della regalità sacrale è una concezione pagana totalmente opposta al cristianesimo; un punto che il filosofo (cattolico) Massimo Cacciari aveva colto molto bene in un’intervista rilasciata al giornalista Maurizio Blondet e da questi riportata nel libro Gli “adelphi” della dissoluzione (2):


“Il cristianesimo è necessariamente sovversivo di ogni potere politico che si pretende autonomo”.


Tanto più allora di una sacralità che non passi attraverso la Chiesa, unica autorizzata interprete “di Dio” su questa terra.


In quell’intervista davvero memorabile, il filosofo-sindaco di Venezia espresse concetti tali da far pensare che solo un opportunismo politico in contrasto con le sue convinzioni profonde l’abbia spinto a militare non solo nel gregge cattolico, ma nell’area politico-culturale di sinistra. Ecco quel che disse allora a Blondet riguardo ai fascismi e alla seconda guerra mondiale:


“Per sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, non ci volle nulla di meno che l’olocausto nucleare. Migliaia di tonnellate di bombe furono necessarie per stroncare Fascismo e Nazismo, “forme di che cercavano di ricollegare la società a un Ethos”.

Poco più sopra, aveva precisato che:
“Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per “etico” o “morale”. Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la “dimora”, l’abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno “etico” per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere (…).


Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è l’immagine di Dike [la dea della Giustizia]. Un ethos impone all’uomo valori che non è a scegliere, a decidere, ma a cui appartiene”.


Un rapporto profondo fra uomo e“polis”, “civitas”, che non solo il cristianesimo ha negato, e infatti Cacciari ci spiega ancora che il cristianesimo: “E’ stato dirompente rispetto a ogni ethos”, ma potremmo addirittura definire il cristianesimo puramente e semplicemente come la negazione dell’ethos, la proiezione dell’ideale morale nella sfera ultraterrena e contemporaneamente nella dimensione soggettiva. In altre parole, come aveva chiaramente intuito Jean Jacques Rousseau: “Il cristianesimo separa l’uomo dal cittadino”.
Quello che dovremmo dunque aspettarci dai fascismi sarebbe un recupero consapevole della simbologia pagana e il rifiuto di qualsiasi tendenza cristianeggiante; purtroppo però spesso le cose non sono affatto andate in questo modo.


In particolare, per quanto riguarda il mito del Graal, a dare forma alla versione cristiana (o cristiano-esoterica) di esso è stato un occultista tedesco vissuto fra le due guerre mondiali, Otto Rahn.


Il Graal sarebbe stato un oggetto connesso alle origini del cristianesimo, anche se non è ben dato di capire cosa, se il calice dell’Ultima Cena, un recipiente in cui qualcuno – pare Giuseppe d’Arimatea – avrebbe raccolto il sangue uscito dal costato di Cristo quando fu trafitto dalla lancia di Longino, o ancora secondo una terza e più fantasiosa versione, il Sang Real, nientemeno che la stirpe dei discendenti di Cristo e Maria Maddalena.


Nessuna di queste tre versioni regge a un’analisi minimamente seria. Se andiamo a rileggere il racconto evangelico vediamo che viene data importanza all’atto della consacrazione, non al contenitore che – ammesso che l’episodio sia realmente avvenuto – sarà stato una comune stoviglia finita dopo la cena nell’acquaio assieme alle altre. Sempre il racconto evangelico demolisce la seconda versione: ci racconta che il costato di Cristo sarebbe stato trafitto post mortem. Da un cadavere in cui la circolazione sanguigna si è interrotta, non possono uscire che poche gocce. Immaginiamoci Giuseppe di Arimatea – che aveva già il contenitore pronto – schizzare a tutta velocità fra le gambe dei soldati romani per raccoglierle, ma stiamo parlando del vangelo o di Asterix? Quanto alla terza versione; noi non abbiamo nessuna notizia storica sulla vita di Cristo risalente a fonti diverse dai vangeli che a loro volta non sono in alcun modo un documento storico attendibile, non possiamo escludere che Gesù Cristo, sempre che sia realmente vissuto, abbia avuto dei discendenti, ma il collegamento che è stato ipotizzato fra ciò e la stirpe reale merovingia è fantasioso e ridicolo.


Accanto a ciò Rahn nel suo libro Crociata contro il Graal (3) presenta una serie di ipotesi una più fantasiosa dell’altra secondo la quale esso sarebbe stato portato nella Francia meridionale, passato in custodia prima degli Albigesi poi dei cavalieri Templari, e la Chiesa avrebbe organizzato la crociata contro gli Albigesi e il processo all’ordine templare precisamente allo scopo di impadronirsene. Tutta la paccottiglia pseudo-esoterica che in tempi più vicini a noi Baigent, Leigh e Lincoln, i tre inglesi autori de Il santo Graal (4) hanno scopiazzato alla grande, e che poi a sua volta Dan Brown ha scopiazzato ne Il codice Da Vinci(5).


Disgrazia vuole che Otto Rahn riuscisse a infinocchiare (scusatemi, ma non riesco a trovare un’altra espressione) nientemeno che il ReichsfuhrerSS Heinrich Himmler che lo nominò ufficiale delle SS ad honorem. Addirittura nel 1944, quando era in corso l’attacco angloamericano alla Francia, Himmler arrivò a distogliere dal fronte una delle migliori divisioni di Waffen SS, la Das Reich spedirla a cercare il santo Graal nei luoghi indicati da Rahn, senza che – ovviamente –venisse trovato nulla.


I “pallini” occultistici di Himmler erano ben lungi dall’essere condivisi dagli altri dirigenti nazionalsocialisti che ne facevano spesso oggetto di ilarità; nonostante ciò, sono serviti dopo la guerra a una caterva di sedicenti storici cialtroni e senza scrupoli i cui capostipiti sono stati nei primi anni ‘60 Louis Pauwels e Jacques Bergier nel libraccio Il mattino dei maghi (6), per costruire l’immagine di un nazismo esoterico e satanista.


Sarebbe forse invece il caso di indagare l’aspetto superstizioso e stregonesco dell’antifascismo, come io ho cercato di fare nel testo Il fascismo secondo Indiana Jones, (http://www.centrostudilaruna.it/il-fascismo-secondo-indiana-jones.html), pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa al quale vi rimando.


In tempi recenti soprattutto il successo planetario mediaticamente ben pompato del Codice Da Vinci Dan Brown e della sua versione cinematografica (una delle pellicole più brutte in assoluto della storia del cinema) ha rilanciato l’idea di un cristianesimo esoterico, idea che è una totale contraddizione, in quanto fino all’avvento dell’islam non è esistita una religione meno esoterica e più plebea del cristianesimo. Gli elementi di questo cristianesimo esoterico sono quelli indicati dal quinto al nono evangelista, ossia Rahn-Baigent-Leigh-Lincoln-Dan Brown: santo Graal, Catari (Albigesi) e cavalieri Templari.


Cosa si debba pensare della versione cristiana del mito del Graal ve l’ho appena spiegato. Quanto ai Catari o Albigesi, essi non furono tanto un movimento ereticale, quanto piuttosto una vera e propria rinascita pagana, l’ho ampiamente spiegato nell’articolo Risorgimento, rinascimento, rinascita pagana (http://www.ereticamente.net/2011/11/risorgimento-

rinascimento-rinascita.html), presente sul sito di “Ereticamente” al quale di nuovo vi rimando.
Riguardo ai cavalieri Templari, c’è un discorso che merita di essere approfondito.

Certamente, al di là delle accuse palesemente infondate che furono loro mosse, al di là del fatto che l’Ordine cavalleresco fu sciolto e i suoi membri incarcerati, torturati e mandati al rogo perché il re di Francia Filippo il Bello e papa Clemente V erano desiderosi di mettere le mani sulle ricchezze che esso aveva accumulato, su di un altro piano c’è verosimilmente una ragione più profonda per tutto ciò.


Gli Ordini cavallereschi, Templari in primis, hanno incarnato una figura di monaco-guerriero, un tipo di spiritualità che la Chiesa ha dovuto evocare in un momento critico della sua storia, ma che rimaneva profondamente estranea al cristianesimo, e di cui si è sbarazzata appena possibile.


Questa figura che non trova corrispondenze di sorta nel cristianesimo né tanto meno giustificazioni“scritturali”, le trova invece molto fuori da esso, nella tradizione indiana ed estremo-orientale. Si pensi per la tradizione indiana alla Bhagavad Gita, il testo sacro incentrato sulla figura del divino guerriero Arjuna, e per quella estremo-orientale, nipponica, al bushido, la via del guerriero, vera e propria via ascetica attuata attraverso l’arte della guerra, che era praticata dai samurai, e che poi durante l’ultimo conflitto mondiale ha animato lo spirito dei kamikaze. Forme di spiritualità, lo si vede bene, assolutamente non rapportabili al cristianesimo.


Anni fa, mi è capitato di trovarmi coinvolto in una discussione piuttosto accesa con una signora che si dichiara “evoliana” e che mi ha rimproverato piuttosto aspramente l’antipatia che non ho mai cercato di nascondere per la religione del Discorso della Montagna. A suo dire infatti, nel corso dei due millenni della sua storia, il cristianesimo si sarebbe incrostato di simbolismi di origine pagana che l’esperto di tradizioni può comunque riconoscere e fruire (?).


Sarà anche, ma perché abbassarsi a un simile compromesso? Perché ricorrere a una copia deformata e mutila quando si può risalire all’originale?


Nel corso della discussione, questa signora si vantò di non leggere altri autori tranne Julius Evola e John R. R. Tolkien (e mi sembrò un’ottima candidata a ritrovarsi in compagnia di Adolfo Morganti a scadenza più o meno breve), e in quel momento mi parve proprio di cogliere l’essenza del tradizionalismo, cioè una mentalità che si crede forte perché è chiusa. A mio parere, la forza non può nascere dalla paura di confrontarsi con altre forme di pensiero. La forza nasce dal coraggio, non dalla paura.


Tuttavia, a questo riguardo, cosa possiamo dire di John Tolkien, autore, come sappiamo, svisceratamente amato dai tradizionalisti sia cattolici sia sedicenti evoliani?
Penso che quello che ho da dire non sarà gradito ai tolkieniani, ma io credo che sia difficile trovare uno scrittore o un uomo qualsiasi in più profonda contraddizione con se stesso di quanto non lo fosse John R. R. Tolkien. Egli dichiarava avversione per il mondo celtico, eppure elementi celtici emergono in quantità dalla sua narrativa; si professava cristiano, eppure il tipo di visione del mondo e di etica che è possibile desumere dai suoi romanzi, è tutto meno che cristiano.


Del celtismo che interpretava solamente come separatismo scozzese, gallese, nord-irlandese, Tolkien aveva un’idea ristretta, e da leale suddito britannico, lo detestava, eppure tutta la sua narrazione rigurgita di elementi celtici: non sono solo le figure di elfi, nani, orchi e troll direttamente provenienti dalla mitologia celtica attraverso il folclore popolare; c’è anche la figura di Gandalf, straordinariamente simile a quella di un druido, e si pensi all’anello di Sauron, un Graal di segno capovolto, non da trovare ma da perdere o distruggere.


Noi sappiamo che qualcuno – come August Derleth – ha cercato di interpretare perfino un autore come H. P. Lovecraft in senso cristiano; era impossibile che John R. R. Tolkien sfuggisse a interpretazioni di questo genere quando egli è stato il primo a fraintendersi.
Noi sappiamo che nel mondo occidentale siamo più o meno tutti “cristiani” sulla carta, perché siamo stati battezzati molto prima che avessimo la capacità di decidere in merito o di dire la nostra opinione, e di solito tendiamo a non dare alla cosa molta importanza, Tolkien però apparteneva alla minoranza cattolica inglese, una minoranza – è risaputo – veramente esigua.


Isociologi ci insegnano che, quanto più una minoranza è ristretta, tanto più è forte il senso di appartenenza ad essa dei suoi membri; un’adesione che può essere anche emotivamente molto forte, come quando si tifa per una squadra di calcio, ma poi bisogna vedere come questo si rapporti a quella che chiameremmo la visione del mondo profonda di una persona, e in qualche caso, come appunto quello di John R. R. Tolkien, può essere che non vi si rapporti per nulla.


L’etica di Tolkien non è cristiana, è di tipo eroico, tradizionale, guerriero, indoeuropeo, che non comanda di porgere l’altra guancia ai nemici, ma di combatterli con le armi in pugno.
Se esaminiamo nel Signore degli anelli (7) la figura di Gandalf, vediamo facilmente che è modellata su quella di Merlino, e assomiglia molto di più a un druido che non a un sacerdote cristiano.


Consideriamo un attimo il rapporto fra Gandalf e Aragorn, è una relazione che implica la pari dignità dell’autorità sacrale “druidica” di Gandalf con quella regale e guerriera incarnata da Aragorn. Questa concezione va contro il cristianesimo che non ammette che le altre funzioni, diverse da quella sacerdotale, possano avere una dignità e tanto meno una sacralità autonoma, ed è invece consonante con la tradizione indoeuropea e celtica. Questo diverso segno si vede bene nella parole del Merlino di Excalibur di John Boorman (sappiamo che Merlino è l’erede della tradizione druidica e che Boorman ha reso bene quanto meno lo spirito del personaggio) che incoraggia Artù dicendogli: “Eppure hai estratto la spada dalla roccia, io non avrei potuto farlo”.


Il potere magico-druidico ha dei limiti che la regalità sacrale può oltrepassare. Artù e Aragorn sono, come il re celtici “figli di Lugh”, portatori di una regalità sacrale che Merlino e Gandalf possono riconoscere e garantire, ma non creare attraverso una consacrazione.
In altre sedi, mi è capitato di definire Tolkien un “celta suo malgrado”, un giudizio che non vedo alcun motivo di modificare. Per quanto ciò possa dispiacere ai moderni esegeti di Tolkien di impostazione cattolica, considerando i tratti druidici della figura di Gandalf e la concezione della regalità sacrale incarnata dalla figura di Aragorn, potremmo dire che l’autore del Signore degli anelli è stato anche un pagano suo malgrado.


In ogni caso, io ritengo sia pericoloso ritenere “un maestro” un uomo in così profonda contraddizione con se stesso, perlomeno bisognerebbe avere le idee ben chiare prima di accostarsi alla sua opera letteraria.


Arrivata in Italia negli anni ‘70, l’opera letteraria di John R. R. Tolkien, per motivi che sono ovvi, subì da parte della cultura di sinistra un pesante ostracismo e boicottaggio, e questo ha fatto sì che “a destra” ricevesse un’accoglienza entusiastica e acritica, al punto che, ad esempio, i raduni di giovani della“destra radicale” furono chiamati “campi hobbit” con riferimento ai personaggi del Signore degli anelli.


Tuttavia negli stessi anni negli Stati Uniti il Signore degli anelli, oggetto di letture di ben altro tipo, era diventato “la bibbia” degli hippy californiani. Perché? Perché, letta in chiave anarchica o almeno anarcoide, la lotta contro Sauron, l’Oscuro Signore, veniva vista come metafora del rifiuto e della lotta contro qualsiasi tipo di potere e di autorità.


Si trattava, come è facile comprendere, di una lettura profondamente falsata e scorretta, perché – bisogna ammetterlo – in Tolkien non c’è per nulla l’esaltazione dell’anarchismo; al potere tirannico di Sauron, infatti, si contrappone l’autorità legittima; l’autorità civile-guerriera di Aragorn e quella magico-sacerdotale di Gandalf.


Tuttavia anche questa è una storia che abbiamo già visto innumerevoli volte: alla menzogna cristiana segue come ulteriore falsificazione la menzogna marxista, c’è tutta la nostra storia degli ultimi due secoli in questo.


Il cristianesimo, spostando il sacro nella sola dimensione del soprannaturale, ha totalmente desacralizzato l’esistenza, è ancora Massimo Cacciari a dircelo:


“Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra (...). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell’Antichità e dei suoi valori; esso spezza definitivamente i legami fra gli Dei e la società. L’ethos antico era una religione civile (...). Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l’uomo (…). Uno stato doloroso: il Cristianesimo getta l’uomo nella libertà come un è gettato in [un] mare in tempesta”.


Le rare volte in cui sono in vena di sincerità, questi cristiani merita proprio di stare a sentirli. Esprimendo una linea di pensiero molto simile a quella esposta da Cacciari, nel libro Ipotesi su Gesù, Vittorio Messori ammette che “Quando i pagani accusavano i cristiani di essere atei, avevano perfettamente ragione” (8).


Per noi, che ci siamo assunti il compito di “ricollegare la società a un ethos”, miti e simboli pagani ancora presenti nella nostra cultura rappresentano un deposito prezioso da trasmettere e rivitalizzare, ma proprio questo impone di stare attenti alle contaminazioni cristiane.
 
Note
 
Antonio Brancati: Popoli e civiltà, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze 1990, pag. 49-51.
Maurizio Blondet: Gli “adelphi” della dissoluzione, Ares, Milano 2000.
Otto Rahn: Crociata contro il Graal (Kreuzzug gegen den Graal), Barbarossa, Saluzzo 1979.
Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln: Il santo Graal (The Holy Blood and the Holy Grail), Rizzoli, Milano 2005.
Dan Brown: Il codice Da Vinci (The Da Vinci Code), Mondadori, Milano 2003.
Louis Pauwels, Jacques Bergier: Il mattino dei maghi (Le matin des magiciens), Mondadori, Milano 1997.
John R. R. Tolkien: Il signore degli anelli (The lord of the Rings), Bompiani, Milano 2003.
Vittorio Messori: Ipotesi su Gesù, SEI, Torino 1976.
 
Fabio Calabrese
www.ereticamente.net
 

mercredi, 28 décembre 2011

La France ne défendant plus les chrétiens d’Orient, la Russie a pris le relais

La France ne défendant plus les chrétiens d’Orient, la Russie a pris le relais

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Comme le montre sa politique en Syrie, la Russie place ses pions au Moyen-Orient en soutenant les chrétien d'Orient. Selon Antoine Sfeir, "à travers cette diplomatie parallèle, Moscou a réussi, en une décennie, à se réimplanter en Méditerranée orientale".

 
La Russie a fait de la chrétienté d'Orient une diplomatie parallèlle.

La Russie a fait de la chrétienté d'Orient une diplomatie parallèlle. Crédit Reuters

La Russie veut soutenir les chrétiens d’Orient dans leur ensemble, catholiques et orthodoxes réunis, devant ce qui semble être une posture incertaine de l’Église catholique. En effet, le patriarche d’Antioche et de tout l’Orient maronite, en tentant de donner du temps au régime syrien de Bachar el Assad, s’est fait attaquer par toutes les chancelleries occidentales, et notamment par le président français Nicolas Sarkozy lui-même. Il n’a pas reçu de véritable soutien du Vatican. La position du Vatican s’explique par beaucoup d’hésitations. Certains sont plutôt pour un engagement ferme des chrétiens d’Orient, de plus en plus de laïques devant l’attitude frileuse du Vatican, d’autres arguent qu’il est impossible de secourir le monde entier… Benoît XVI a évoqué ce sujet à plusieurs reprises, il était dans son rôle et n’a pas été repris par les médias. Moscou a voulu s’insérer dans la brèche, sachant que les chrétiens de Syrie craignent la chute du régime et l’arrivée au pouvoir des Frères musulmans à l’instar de ce qui s’est passé en Libye et qui pourrait également arriver en Tunisie. Malgré le fait qu’un dirigeant historique de l’opposition syrienne Michel Kilo soit lui-même chrétien, l’atomisation des partis d’opposition laïques en Syrie rend en effet les Frères musulmans maîtres du terrain.

Mais la Russie n’a pas attendu les événements de Syrie pour faire de la chrétienté d’Orient en général, et de l’orthodoxie en particulier, une diplomatie parallèle. Forts d’une communauté orthodoxe grecque majoritaire parmi les chrétiens en Syrie, et également fortement présente au Liban (13% environ), les Russes avaient déjà entamé depuis le début du troisième millénaire une approche communautaire de ces populations. Leur importance n’est pas à négliger, puisqu’il s’agit des notables des grandes îles du Proche-Orient, qui détiennent une bonne partie du pouvoir économique. De plus, la Russie a maintenu des contacts étroits avec les orthodoxes émigrés sous prétexte de judaïté en Israël. Ils disposent d’ailleurs d’une télévision ainsi que de deux quotidiens à Ashdod. Les Russes ont également des relations très étroites avec des orthodoxes grecs, naturellement, mais également chypriotes. A travers cette diplomatie parallèle, Moscou a réussi, en une décennie, à se réimplanter en Méditerranée orientale. De plus, l’existence d’une poche de gaz importante au large de la Palestine, d’Israël et du Liban, donne également l’occasion à la Russie, et particulièrement à son bras économique Gazprom, de s’installer durablement, à travers ses réseaux et ses contacts, dans cette partie du monde.

Pour toutes ces raisons, et également parce que le siège du patriarcat grec orthodoxe, d’Antioche et de tout l’Orient, se trouve à Damas, les Russes estiment qu’ils sont incontournables dans la défense des chrétiens d’Orient, d’autant que l’Occident, et notamment la France, à laquelle était naturellement dévolue ce rôle, semble y avoir renoncé : la France a libéré la Libye de Kadhafi pour la livrer au chaos tribal et régional, en défendant la population de Benghazi, mais en laissant massacrer celle de Syrte, laissant le chemin libre à l’Islamisme. Le départ du régime Assad, haï dans toute la région, entraînerait par ailleurs une communautarisation de la Syrie, ce qui ne manquerait pas d’avoir des conséquences directes au Liban, où la partition du pays des cèdres serait institutionnalisée.

A telle enseigne que la visite de l’ambassadeur de France aux communautés chrétiennes de Syrie s’est faite sous les drapeaux russes, ce qui montre à quel point la peur des chrétiens est réelle, et à quel point surtout ils sont prêts à tendre la main à quiconque prétend les protéger.

Le renoncement de la France semble s’être fait dans le cadre d’un choix plus tactique que stratégique, visant le pétrole de Libye et la reconstruction du pays, et espérant, à travers l’opposition syrienne, s’établir fortement dans le Proche-Orient. Les Etats-Unis, plus cyniques, -d’aucuns pragmatiques-, disent déjà à haute voix qu’il ne peut y avoir d’avenir pour les chrétiens en Orient et que ces derniers feraient bien d’émigrer vers les pays occidentaux. Leur pragmatisme est conforté par le fait que la majorité des chrétiens, notamment au Liban, disposent déjà d’une double nationalité, d’un double passeport. Mais certains dirigeants chrétiens, en Egypte, en Syrie et au Liban, ne cachent pas leur amertume devant l’attitude franco-américaine, et préfèrent rappeler ce qu’un ancien dignitaire religieux, le patriarche maronite Pierre-Antoine Arida, avait l’habitude de dire : "Notre destin de chrétien d’Orient n’est-il pas de vivre en permanence au bord du précipice, en luttant toute notre vie pour ne jamais y sombrer ?"

Nul ne peut jouer au prophète, surtout dans cette région du monde. Il serait donc maladroit de se risquer à parler d’avenir. Une chose demeure réelle : sans les chrétiens, la Syrie, le Liban, la Jordanie, la Palestine ou l’Egypte, ne seraient plus que des pays arabes comme les autres.

samedi, 19 novembre 2011

Scandale à la mosquée de Cologne

Scandale à la mosquée de Cologne

L'architecte en charge de la construction de l'édifice a été remercié après la découverte d'étranges symboles gravés sur les murs.

La construction de la nouvelle mosquée de Cologne a été arrêtée en urgence il y a quelques jours, stoppée nette par le scandale. Son architecte, licencié depuis, est accusé d'avoir caché des symboles chrétiens - de petites croix et le monogramme grec du Christ - partout dans le bâtiment.

Aucun des symboles en question ne figurant sur les plans de l'édifice, la presse locale a très largement pris fait et cause pour l'architecte et choisi de tourner au ridicule la décision de le licencier et de stopper les travaux.

"Jetons un second coup d’œil aux plans", écrit Lucas Wiegelmann, du quotidien allemand Die Welt. "La salle de prière est orientée vers l'Est, officiellement parce que c'est la direction de la Mecque - mais Jérusalem et le tombeau du Christ ne sont-ils pas aussi dans cette direction ? Et la coupole, ne peut-on pas y voir la forme de deux poissons ? Le poisson était le symbole secret des premiers chrétiens. Si DITIB [l'association turque qui finance la construction de la mosquée, NDLR] voit les choses de cette manière, autant détruire le bâtiment et le reconstruire entièrement".

 

lundi, 15 août 2011

Apuntes sobre el Mitraismo

Apuntes sobre el Mitraismo

Enrique RAVELLO

Ex: http://identidadytradicion.blogia.com/

La historiografía utiliza el término de «cultos mistéricos» para todo el conjunto de formas religiosas que, procedentes de Oriente, irrumpen en el Imperio romano tardío. El engañoso término de cultos mistéricos podría hacernos pensar en una unidad interna de los mismos; nada más lejos de la realidad, poco tenían que ver entre sí los cultos a Attis, Cibeles, Serapis, Isis o Júpiter - Amón , pero si uno de ellos merece mención aparte es, sin duda, el culto a Mitra.

Es precisamente lo que le diferencia del resto lo que le hace interesante para nosotros y lo que motiva el sentido de este artículo: a diferencia del resto de divinidades «orientales» llegadas a la Urbs desde el cambio de Era, Mitra sólo tiene de «oriental» la procedencia geográfica: Persia, siendo una de las divinidades que los indoeuropeos de origen nordeuropeo (medos, persas, hindúes y mitanios) llevaron a Asia durante sus migraciones e invasiones de aquellas tierras. Divinidad indoeuropea que, como tal no podía ser extraña a los romanos, los que pronto la asimilaron con sus dioses solares; así Mitra no era uno más de los cultos de «religiosidad segunda» del Bajo imperio , sino que propuso una posibilidad de enderezamiento espiritual -siguiendo el concepto evoliano- en un momento en que la Tradición romana parecía haber entrado en una fase de crisis

Mitra y su ascesis son profundamente indoeuropeos :«Los misterios mitraicos nos llevan al seno de la gran tradición mágica occidental , a un mundo todo él de afirmaciones , todo de luz y de grandeza , de una espiritualidad que es realeza y de una realeza que es espiritualidad , a un mundo en el que todo lo que es huída de la realidad , ascesis , mortificación en humildad y devoción , pálida renuncia y abstracción contemplativa , no tienen ningún lugar . Es la vía de la acción de la potencia solar» (1).

 

MITRA : DEL MUNDO INDO-IRANIO A ROMA.

 

Mitra como divinidad ario-irania

 

Para determinar los orígenes de Mitra hay que remontarse a la religión preavéstica donde aparece junto a Varuna y Surya entre los dioses soberanos o de la primera función indoeuropea. Mitra preside las alianzas y asegura la soberanía de los persas en las tierras recientemente conquistadas, asegura también la feliz doma de animales (2). Es un dios común a los indo-arios de la India y Persia, pero entre estos últimos tiene una función más guerrera que entre los primeros. Su nombre significa a la vez «alianza» y «el amigo» (3) . Mitra aparece en el panteón de tres pueblos indoeuropeos étnicamente muy relacionados: indo-arios, iranios y mitanos, de los que todo hace pensar que se trató de una rama de los indo-arios que se desgajó hacia zonas más occidentales. Siempre aparece como divinidad de la primera función junto a Varuna con quien está en una relación de complementariedad, en todos los sentidos «si los principios conjuntos se consideran en su reciprocidad, el Dios manifestado es el poder masculino y la Divinidad no manifestada es el poder femenino, reserva inagotable de toda posibilidad incluida en la manifestación: es pues Mitra, quien fecunda a Varuna (PB XXX10,10)» (4).

 

Etimológicamente la raíz de su nombre sería la indoeuropea *mei/*moi- con la idea de intercambio, seguido del instrumental -tra. Ésta es al menos la opinión de Meillet y la que más consenso tiene entre los estudiosos. Así Mitra inicialmente habría sido el garante de los acuerdos, el orden del mundo y del orden social, en definitiva de la relación de los dioses con los hombres y de éstos entre ellos mismos. Mitra engloba los conceptos de amigo y de contrato, y, siguiendo a G Bonafonte la evolución conceptual habrá comenzado desde esa raíz *mei/* moi (intercambio)  -obligación mutua (por intercambio de bienes) -amigo, amistad - dios Mitra (5). Siendo el garante de la palabra dada, y, en definitiva, de las relaciones entre los dioses y los hombres y de éstos entre sí. Mitra es quien «sostiene el cielo y la tierra» (Rg Veda, 3, 59).

 

En el espacio temporal que va desde la época védica hasta la reforma zoroastriana, la figura de Mitra también experimentará ciertos cambios, más bien matices, en la naturaleza y función de su divinidad.

 

En el mundo védico, Mitra y Varuna son las dos caras complementarias (que no antitéticas) de la función soberana del panteón indoeuropeo, una relación semejante en el mundo latino sería la de Rómulo- Numa (6). El Mitra védico encarna los aspectos jurídico soberanos, luminosos, siendo un dios cercano al mundo y a los hombres «la función de este culto (el de Mitra) es por lo tanto la de orientar religiosamente y consolidar la cohesión familiar, de amistad, social y, por lo tanto, la red de relaciones interpersonales que constituyen el tejido constitutivo de la vida de una tribu, de un pueblo, de una etnia» (7). Por su parte, Varuna encarna el aspecto mágico, violento, invisible y lejano.

 

Para conocer la figura del Mitra del mundo iranio antiguo, tenemos una gran escasez de fuentes para el periodo más arcaico. Durante la predicación de Zaratustra , todos los dioses del panteón persa se subordinan a Ahura Mazda y, aunque el nombre de Mitra aparezca en el Avesta, donde se le dedica un himno , lo hace de forma casi ocasional , esto ha sido interpretado por los estudiosos como un «eclipse» de esta divinidad , «relegada» por Zaratustra a un papel secundario , aunque hay otro tipo de opiniones : «Los estudiosos occidentales han sacado la errónea conclusión de que Mitra había sido rechazado por Zaratustra sólo porque no es mencionado en los Gatha , como si Zaratustra no hubiese compuesto más que los himnos de fragmentario corpus que han llegado a nosotros» (8). Aparece en el décimo Yashts (cántico) del Avesta, y se enfatiza su aspecto guerrero, y su función de guardián de la moral (9).

 

A. Loisy confirma que el origen de Mitra se encuentra en la religión preavéstica , en la que es el mediador entre el mundo superior y luminoso donde impera Ahura Mazda y el inferior donde ejerce su influencia Arimán (10).En el Mitra -Yasht , un himno religioso en su honor fechado entre el siglo V y VI  a. C. aparece como el dios de la luz , de los guerreros , de los pactos y de la palabra dada, algo que protege muy especialmente y cuya alteración o incumplimiento queda determinado como un sacrilegio y una grave perturbación del orden social y cósmico. Está claramente relacionado con la luz y el sol. Es descrito como «el más victorioso de los dioses que marchan sobre esta tierra»,  «el más fuerte de los fuertes» y físicamente como «el dios de los cabellos blancos», siendo -como ya sabemos- muy frecuentes los elementos fenotípicamente nórdicos en las descripciones físicas de las divinidades indo-ario-persas.

 

Bajo el reinado de Aqueménida, es la divinidad principal con la diosa Anahita y Ahura Mazda, siendo al dios que invocan los reyes en sus testamentos y combates. La religión medo-persa no tenía imágenes, que llegaron con la helenización del Asia menor, a la divinidad que más afectó este proceso fue precisamente a Mitra, que desde estos momentos pasó a un primer plano. Además durante el Helenismo muchas divinidades son asimiladas a los dioses greco-latinos, Ahura Mazda lo será con Júpiter; Ahrimán se convertirá en Hades; mientras que Mitra, conservará su nombre, ya que no tiene correspondencia exacta con los dioses greco-latinos, y aunque durante el Helenismo es el segundo dios en importancia, sin duda es el más adorado.

 

F. Cumont pone de relieve la importancia y la admiración que se tuvo entre los griegos y los romanos hacia el Imperio aqueménida , y cómo muchas de sus instituciones fueron adoptadas por los emperadores romanos por ejemplo los amici Augusti, del mismo modo que llevar delante del César el fuego sagrado como emblema de la perennidad del poder (11) . Lo que ya es más difícil es seguir los caminos, bastante más ocultos, por los que se transmitieron las ideas de unos pueblos a otros. Parece cierto que  a comienzos de nuestra Era, determinadas concepciones mazdeas se habían difundido más allá de Asia. La conquista macedónica de Asia Menor puso a los griegos en contacto directo con el mazdeísmo y hubo un interés general entre los filósofos por su conocimiento. Así como la  «ciencia»  que se extendía entre las clases populares con el nombre de magia, tenía, como su propio nombre indica, en gran parte origen persa. Antes de la conquista de Asia por Roma, algunas instituciones persas ya habían hallado en el mundo greco-oriental imitadores y adeptos a sus creencias. Los más activos agentes de esta difusión parecen haber sido para el mazdeísmo -como, por otro lado también para el judaísmo -las colonias de fieles que habían emigrado lejos de la madre patria (12).

 

Aún así es conveniente recordar la opinión de Julius Evola respecto a la relación entre el culto de Mitra y la religión zoroástrica: «Emanación del antiguo mazdeísmo iránico, el mitraísmo retomaba el tema central de una lucha entre las potencias de la luz y las de las tinieblas y el mal. Podía tener también formas religiosas, exotéricas, pero su núcleo central estaba constituido por sus Misterios, o sea por una iniciación en el verdadero sentido. Ello constituía un límite, aunque así se hacía una forma tradicional más completa. Sucesivamente, se debía, sin embargo, asistir a una cada vez más decidida separación entre la religión y la iniciación» (13)

 

De Persia a Roma.

 

Fue F. Cumont el primero en afirmar la continuidad entre el Mitra iranio y el del culto de época romana, tesis admitida por la práctica totalidad de los estudiosos. S. Wikander negó esta identificación, pero su tesis es paradoxal e insostenible, otro en negarla más recientemente ha sido David Ulansey (14) en su libro, The Origins of the Mithraic Mysteries(15) quien centra exclusivamente su interpretación del mitraísmo como religión astrológica y la representación del Mitra tauróctono únicamente desde el punto de vista astrológico zodiacal, si bien los datos que aporta  sí son interesantes , la interpretación de fondo no deja de ser limitada por reduccionista.

 

En cuanto a la propagación propiamente dicha del mitraísmo en Occidente, data de la fecha de la anexión de Asia Menor y Siria. Y aunque parece haber existido ya en Roma , en la época de Pompeyo, una comunidad de adeptos, la auténtica difusión no comenzó hasta el tiempo de los Flavios, y fue cada vez más importante con los Antoninos y los Severos, para ser hasta finales del siglo IV el culto más importante del paganismo. Aunque hay que tener en cuenta que la influencia de Persia, no fue sólo religiosa, sobre todo desde el 88 d. C; con la llegada al poder de la dinastía Sasánida. En la propia corte de Diocleciano se adoptaron las genuflexiones ante el emperador, igualado a la divinidad. Así que la propagación de la religión mitraica, que siempre se proclamó orgullosamente persa, se vio acompañada de una influencia persa en la política, la cultura y el arte.

 

En cuanto al proceso concreto de llegada de Mitra desde Irán a la península itálica, tenemos una dramática ausencia de fuentes, dos líneas de Plutarco, y una referencia de un mediocre escolástico de Estancio, Lactancio Plácido. Ambos autores coinciden en situar en Asia Menor el origen de la religión irania que se difundió por Occidente, así el mitraísmo se había constituido, antes de que fuese descubierto por los romanos, en las monarquías anatólicas de épocas precedentes, allí llego en la época de dominio Aqueménida, donde los persas se convirtieron en la aristocracia dominante de Capadocia, Ponto o Armenia, y seguirían siendo los amos de la zona después de la muerte de Alejandro. Esta aristocracia militar y feudal propició a Mitríades Eupator, un buen número de oficiales que ayudaron a desafiar a Roma y a defender la independencia de Armenia. Estos guerreros adoraban a Mitra como genio militar de sus ejércitos, y es por esto por lo que siguió siendo siempre, incluso en el mundo latino, el dios «invencible», tutelar de los ejércitos y honrado, sobre todo, por los soldados. 

 

Paralelamente a esta nobleza, otra clase también persa se había establecido en Asia Menor, los «magos» estaban diseminados por todo el Levante y conservaron escrupulosamente sus ritos. Sería el máximo fundamento de la grandeza de los misterios de Mitra.

 

La religión mazdeísta fue a los ojos de los griegos puramente bárbara y no tuvo ningún eco entre los helenos, como sí pudo tener el culto de Isis y Serapis, los griegos jamás aceptaron una divinidad que viniera de sus eternos enemigos. Mitra pasó directamente al mundo latino, además la transmisión fue de una rapidez fulminante, pues los romanos nada más conocer la doctrina de los mazdeos, la adoptaron con entusiasmo. Y llevado hacia fines del siglo I por los soldados a todas las fronteras, el culto de Mitra llegó al Danubio, al Rin, Britania, fronteras del Sáhara y valles de Asturias. Mitra conquistó pronto el favor de los altos funcionarios y del propio emperador. A finales del siglo II, Cómodo se hizo iniciar en los misterios, cien años después su poder era tal que eclipsó a todos sus rivales en Occidente y en Oriente. En 307 Diocleciano, Galeno y Licio le consagraron como protector del Imperio, fautori Imperio sui.

 

MISTERIA MITRAE

 

Los mitreos

 

El de Mitra es un culto totalmente mistérico que celebraban los iniciados para sí. Las cofradías mitraicas admitían solamente a hombres. El primitivo lugar de adoración de Mitra debieron ser las grutas de las montañas, especie de cavernas, en la época que nos ocupa, eran ya los mitreos que consistían en una pequeña capilla, pero, en definitiva seguían siendo grutas, a los que los iniciados se referían como specus. La distribución de la nave parece un comedor, pues el rito principal consistía en una comida para los iniciados, «en efecto, el Mithraeum no es, como el templo greco-romano, la casa de dios, sino un lugar de comunión entre los hombres y los dioses» (16). Había en los mitreos una mesa de piedra en la que estaba representado Mitra matando al toro, montado sobre un eje y esculpida a ambos lados, donde se combinaban imágenes del sol. Este pequeño santuario representaba el mundo, además toda su decoración tenía un alto contenido simbólico, aunque difícil de interpretar por la ausencia de textos contemporáneos. El Mitra tauróctono representa el sacrificio del toro, el tauribolio, como principio de la vida bienaventurada prometida al iniciado.

 

El acceso al mitreo era por una sola puerta, para descender algunos escalones, la capacidad no excedía las 100-120 personas, el lugar sagrado estaba reservado a los iniciados, el resto estaba en salas adyacentes. La disposición interna es constante, la imagen de Mitra está siempre en el centro o en la pared del fondo y en las escenas representadas aparece matando al toro y rodeado de los dadóforos, bien visible está el altar o la mesa sobre las que se apoyan las ofrendas y los alimentos, a los lados los bancos para los sacerdotes, destacando siempre el podium para el pater que preside la asamblea. En el mitreo no hay ventanas, y, al ser las reuniones nocturnas, la luz constituía un elemento de suma importancia, siendo el reclamo al Sol. En el ingreso al mitreo había un zodiaco, representando al universo, en el centro se reúne y canta la comunidad iniciática, reforzando la solidaridad fraterna del grupo.

 

El culto a Mitra conocía la semana con consagración de los siete días a las siete esferas planetarias, santificándose especialmente el primer día dedicado al Sol. Había también fiestas estacionales, se cree que tuvo cierta importancia la del equinoccio de primavera, común a otras iniciaciones, pero sin duda la más importante fue la de la Natividad del Sol, fiesta del Sol Invictus, que se celebraba, coincidiendo con el solsticio de invierno, el 25 de Diciembre. Mitra nace entre un buey y una mula en una gruta, con dos pastores de testigos: Cautes y Cautópates, Cautes tiene una antorcha encendida hacia arriba (el día), Cautópates tiene una antorcha encendida hacia abajo (la noche).

 

 

Los grados iniciáticos

 

La religión de Mitra no era un conocimiento sagrado escrito y codificado, que se podía aprender leyendo, la verdad sobre la que se sustenta, la base de sus misterios, son transmitidos de boca a oído entre los fieles y adeptos de las distintas jerarquías internas.

 

Siete eran los grados por los que debía de pasar un iniciado que pretendiera llegar al grado supremo: el cuervo, el oculto, el soldado, el león, el persa, el mensajero del Sol, y el padre. Se piensa que se determinaron según los siete planetas y son las siete esferas planetarias que el alma tendría que atravesar hasta llegar a la morada de los bienaventurados. No ajeno a este concepto es la expresión aún hoy coloquial de «llegar al séptimo cielo», para hacerlo el iniciado mitraísta tenía que atravesar siete puertas anteriores:

 

La primera es de plomo y frente a Saturno, debe despojarse del peso del cuerpo y de su vinculación a la vida y la tierra.

 

Venus le espera en la segunda, hecha de estaño, y le exige el abandono de la belleza física y del placer sexual.

 

En la siguiente puerta, que es de bronce, se encontrará con Júpiter ante el que tendrá que despojarse de la seguridad personal y la confianza en sí mismo y su pequeño yo.

 

La cuarta es de hierro y Mercurio es quien la custodia, ya no sirven ni inteligencia ni cultura, tampoco la antorcha luminosa ilumina nada ante la verdadera luz que es dios.

 

Frente a la puerta de Marte - de bronce y hierro -  nada puede hacer la espada que es sustituida por la fuerza divina.

 

La Luna vela la puerta de plata donde se dejan orgullo, ambiciones y amor a sí mismo, amor que sólo merece dios.

 

La última puerta es de oro y la cuida el Sol, quién tiende la mano al adepto pidiéndose un último gesto, ir más allá de sí mismo aceptando la mano que el propio Sol le está ofreciendo .

 

También, cada uno de los siete grados estaba influenciado por una diferente esfera planetaria:

 

korax  (cuervo)                                      Mercurio

 

nymphus                                              Venus

 

miles (soldado)                                        Marte

 

leo (león)                                              Júpiter

 

perses (persa)                                      Luna

 

Heliodromus                                          Sol

 

Pater                                                    Saturno (17)

 

 

Según Porcino (18) los cuervos serían una especie de auxiliares de los misterios, puede que en algún tiempo fuesen niños.

 

Este primer grado toma su nombre del animal que en la tauroctonía lleva a Mitra el mensaje de dios en el que le ordena matar al toro. Así el iniciado que tiene este grado, protegido por Mercurio, «es portador de mensajes» (19). Téngase presente también la relación entre las aves y el «lenguaje simbólico». Según los restos que nos han llegado, especialmente del mitreo de Capua, sabemos que viste una capa blanca con bandas rojas. En las ceremonias tiene la función de servir los alimentos que él no puede probar, el sentido es desposeer al iniciado de primer grado de los restos de ego profano.

 

El segundo grado tiene dos nombres, el de cryphius y el de nimphos. El primero (el oculto) ha sido relacionado con el hecho de que permanece escondido, no aparece en los bajorrelieves, sólo se les mostraba una vez y parece que era una ceremonia especialmente solemne. Puede que primitivamente fueran adolescentes, antes de llegar a soldados, que vivían en un régimen de separación especial. Pero realmente si hay presencia de este grado en los restos arqueológicos, con lo que habrá que centrarse en su segundo nombre nimphus o nymphos para darle una interpretación correcta. Así mismo, nymphos puede tener dos significados, el de esposo o mejor prometido, que lo relacionaría con Venus, su esfera protectora, y el Amor (en sentido iniciático) que debe tener hacia Mitra. También puede significar ninfa-crisálida, haciéndose referencia a una especie de proceso metamórfico en el que « de gusano»  (= el ser ligado a lo terreno, a las pasiones y a los instintos), pasa al estado de «crisálida» (=el huevo, el estado de clausura de aislamiento y de preparación), para propiciar el nacimiento de esa abeja o «mariposa» (=la capacidad en acto del alma de alzar el vuelo, de desvincularse de las ataduras terrenas)» (20). En este grado viste un velo amarillo sobre su rostro -de ahí lo de oculto -y tiene como atributo una lámpara, símbolo de la luz  necesaria para la consagración de este grado,

 

El soldado, es un iniciado propiamente dicho. En la Antigüedad ya guerreros plenamente dedicados al combate y a la caza. Su iniciación era una especie de bautismo, con la imposición de una marca en la frente, similar al cristiano. Sus símbolos son la espada y la corona. Corona que, simbolizando el poder, se le ofrece y debe rechazar al grito de «Mitra es mi corona ». En los mitreos de Capua y Ostia aparece con una capa ornada en púrpura y un gorro frigio. Su misión es garantizar la justicia y el orden. En los ritos de iniciación es el «liberador» y en las asambleas el encargado de mantener el orden.

 

En la exaltación al grado de los leones, se vierte miel en vez de agua, sobre sus manos y se les invita a conservarlas puras de todo mal, mala acción y de toda mancha, también con la miel se les purifica la lengua de toda falta. La miel tiene una gran importancia en la tradición persa, se cree que es una sustancia celestial, llegada de la luna, es superior al agua en su virtud, y comparable desde el punto de vista místico al brebaje sagrado del haoma. En los restos arqueológicos aparece con una toga roja y un manto rojo, en algunas ocasiones con remates amarillos. Es importante hacer notar que, a diferencia de los grados inferiores, es ahora -como leo- cuando el adepto recibe un nuevo nombre. Para este grado -protegido por Júpiter-  su atributo simbólico es el rayo, símbolo presente en varias tradiciones indoeuropeas: Zeus, Odín, Indra y Varuna también lo tienen como iconografía propia. El rayo, símbolo de la luz y potencia, estaría aludiendo a una experiencia de iluminación interior, el paso a un estado superior de conciencia.

 

El nombre del persa, es una clara referencia a la patria de origen del dios Mitra. También se usa la miel en su consagración, pero con un simbolismo diferente, «es considerado como el guardián de los frutos en amplio sentido (incluidos los cereales) y en la Antigüedad la miel usada de azúcar fue símbolo de conservación» (21). En cierta medida representaría a Mitra en su relación con la vegetación y la fecundidad de la tierra.

 

Sin embargo mucho más interesante nos parece la interpelación de este grado y su relación con la Luna que hace Stefano Arcella en su libro, I Misteri del Sole, aplicando criterios tradicionales y evolianos donde otros autores positivistas se limitan a criterios racionalistas, arqueológicos e incluso artísticos con los que es imposible penetrar y descifrar el mito. Para Arcella la Luna sería su numen titular, al ser el astro que da luz durante la noche, leído interior y simbólicamente, se estaría dando a entender que el iniciado-durante esta fase- tendría que sumergirse en su propio mundo interior «sin luz»  -asimilado con la noche- tomar conciencia de él y ser capaz de dominarlo, ese viaje nocturno sólo podría hacerse bajo la protección de la Luna que ilumina las tinieblas. Así -intuye el autor italiano -habría que pensar que la iniciación de este grado sería durante la noche, y, posiblemente, las pruebas consistieran en cumplir determinadas encomiendas aun a pesar de la nocturnidad y la oscuridad, es decir «venciendo la noche». En las ceremonias del culto llevaba el traje persa y el gorro frigio que también llevaba Mitra.

 

Heliodromus es el corredor del Sol, Arcella también lo califica como «la puerta del Cielo». Se asimila al Sol, pues no corre delante del Sol, sino que sube con él en un carro, es el grado anterior al supremo, y se muestra al adepto sobre el carro del cielo, adonde le basta penetrar con Mitra para alcanzar la esfera de la divinidad. «Heliodromus está subordinado al Pater, como el Sol lo está a Mitra, verdadero Sol Invictus» (22).Viste túnica roja con cinturón amarillo y se le representa con una antorcha encendida. En este grado se le vuelve a ofrecer la corona -rechazada anteriormente-y esta vez la asume, porque ahora la corona no está simbolizado el  poder mundano sino que es la corona-rayo que simboliza los rayos solares y significa la apertura del iniciado a la Luz del Sol espiritual. La corona tiene siete rayos, cifra presente en varias tradiciones, por lo menos desde el Pitagorismo, según el cual cada planeta irradia una propia vibración sonora, siete son los planetas a los que están ligados los adeptos mitraicos, así como siete son los días de la semana. Sin duda el requisito para llegar a Heliodromus era ser capaz de dominar los impulsos concupiscibles e irascibles del alma «La iniciación al grado de Heliodromos sucedía, verosímilmente, cuando cantaba el gallo, a la primera luz del alba, ya que el iniciado debía entrar en sintonía con el sentido anímico de abrirse a la luz» (23). Durante los banquetes guía a los comensales y hace los honores de la casa.

 

El padre es el grado supremo, su dignidad corresponde a la de Mitra en el cielo. Son los perfectos iniciados que participan plenamente de Mitra. A su cabeza está el padre de los padres (24). Cumbre de la jerarquía, lleva un gorro frigio ornado con perlas y un manto púrpura sobre una túnica roja con bandas amarillas, lleva un anillo y en la mano derecha el bastón que simboliza mando y poder. Es el guía de la comunidad. Entre sus atributos estaba la hoz. El cetro del mago y el gorro de persa. En un mitreo encontrado en Mesopotamia los padres estaban representados con hábitos persas, sentados en tronos, el cetro del mago en la mano derecha y en la izquierda un pergamino, que simboliza su conocimiento de los textos rituales y su significado religioso. Eso, y la elección del vocablo Pater los relaciona con la tradición jurídica y religiosa romana, de la misma estirpe que la indo-aria.

 

Lejos de considerar el paso por los diferentes grados iniciáticos como una convención o algo parecido a una representación teatral para adeptos, hay que reflexionar sobre las indicaciones que, al respecto, da Evola: «Existe un nivel en el que resulta por evidencia inmediata que los mitos misteriosóficos son, esencialmente, transcripciones alusivas de una serie de estados de conciencia a lo largo de la autorrealización. Las diferentes gestas y las varias vivencias de los héroes míticos no son ficciones poéticas, sino realidades- son actos bien determinados del ser interior que relampaguean uniformemente en cualquiera que quiere avanzar en la dirección de la iniciación, esto es, en la dirección, de un cumplimiento más allá del estado humano de existencia» (25).

 

Iniciaciones y celebraciones.

 

Aunque se ignora cuál era el ritual de las iniciaciones, se sabe que entre las condiciones preliminares de admisibilidad a los distintos grados había «pruebas» bastante duras y que incluso el ritual de las iniciaciones, sobre todo para el soldado, mantenía cuanto menos un simulacro de luchas y peligros. A juzgar por los restos encontrados en los mitreos los sacrificios de animales debían ser numerosos.

 

Además existía la oblación del pan del brebaje sagrado, imitado luego por los cristianos, y en esta «comunión» se repetían las palabras «éste es mi cuerpo» y «ésta es mi sangre», pues representaban la sustancia del toro mítico y divino que era Mitra, entendido como Ser supremo. El líquido que se servía pudo ser agua o en ocasiones vino, aunque en su inicio era ahoma (el soma de la India védica), que se mantuvo en el ritual ascético, pero ante la imposibilidad de obtener la planta sagrada, se sustituyó el líquido aunque no el significado.

 

Las imágenes que tenemos de escenas iniciáticas corresponden a los frescos del mitreo de Capua, en todas vemos características comunes: el iniciado desnudo, vendado y/o arrodillado; el oficiante poniéndole una túnica blanca, el pater con un gorro y una capa roja.

 

En otro mitreo cercano a Roma, se han encontrado dos series de representaciones que corresponden a las procesiones de los leones; la primera serie está fechada en 202, en ambas los iniciados de cuarto grado, aparecen desfilando ante el Pater, al que le ofrecen algunos dones. En estos tipos de ritos mitraicos dos elementos son constantes y tienen una importante función simbólica; el incienso; común a varias tradiciones espirituales, siempre con un sentido de purificación; y el fuego , como símbolo de luz y vida, doblemente como símbolo de sacralidad solar, y como símbolo de la «cadena» que forman los iniciados en los misterios mitraicos, que-cada uno de ellos individualmente -una vez establecido el contacto con esa Luz son capaces de transformar y dominar su elemento telúrico- lunar- taurino, otro de los significados -y no el menos importante del simbolismo de la tauroctonía mitraica.

 

La comida sagrada, otra celebración importante para la comunidad mitraica, simbolizaba el encuentro entre Mitra y el Sol. El pan consagrado remitía a la unión mística del grupo que, ingiriéndolo se apropiaba de una determinada energía, que les transmutaba en algo diferente (el paralelismo con la eucaristía cristiana es más que evidente). También se consagraba el vino, que en el mitraísmo romano había sustituido definitivamente al ahoma iranio, que ya nadie sabía cómo lograr preparar. Para S. Arcella cabría otra lectura de este banquete: «...inherente a la realización individual: una vez vencida, sacrificada y transformada la propia componente "taurina", el iniciado se encuentra y se reúne con su Principio solar (en el símbolo: el banquete entre Mitra y el Sol): utiliza toda la energía de la naturaleza inferior, a favor de un empuje ascendente y de una estabilidad en la realización espiritual» (26).

 

En cuanto al aspecto de la autorrealización individual , y de la posibilidad de potenciar determinadas facultades innatas en sentido de lograr una identificación ontológica con la divinidad, tenemos pruebas documentales en el llamado Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París, en el que se habla claramente de un rito no comunitario sino individual, en el que el iniciado a los «misterios mayores»  -es decir grados superiores- entra en disposición de lograr un contacto unificador con el dios, venciendo el elemento «taurino-telúrico» y lo hace con la pronunciación de nuevo logos, que cada uno de ellos abre sucesivas puertas sutiles, produciéndose los correspondientes saltos de calidad ontológica . Estos logos serían parte de la técnica tradicional de la sonoridad ritual capaz de dar vibraciones «sutiles» que producen cambios a nivel interno y externo, es el mantra hindú.

 

 

Iconografía

 

Mitra nace de una piedra, y siempre -desde el momento de su nacimiento -es representado con un puñal en la mano derecha y una antorcha en la izquierda, los cabellos en forma de rayos solares. También existe otra versión menos extendida en la que el dios nace de un árbol o de la parte inferior del «huevo cósmico». La lectura desde el simbolismo tradicional infiere que el nacimiento de una roca alude a la materialidad que encierra un elemento luminoso y vivificar, que ahora -con el nacimiento- es capaz de regenerar su naturaleza anterior, si Mitra nace de la piedra, su cuerpo es el templo -no la cárcel- de su espíritu desde el cual puede manifestar todo su poder y luminosidad «la organización corpórea es el signo de un cierto núcleo de potencia cualificada, y la iniciación mágica no consiste en disolver tal núcleo en la indistinta fluctuación de la vida universal, al contrario, en potenciarlo, en integrarlo, en llevarlo no hacia atrás, sino adelante» (27) la piedra sería también símbolo de la incorruptibilidad, «estaríamos tentados de establecer una analogía entre esta génesis de Mitra y un tema del ciclo artúrico, en el que figura una espada que hay que extraer de una piedra que flota sobre las aguas» (28). El nacimiento de un árbol podría tener el mismo significado, el de la potencial sacralidad de la naturaleza, pero también podría relacionarse con la imagen del árbol como guardián y fuente de la sabiduría eterna, en paralelo con el caso de Wotan y el Yggdrasil. El nacimiento desde el Huevo Cósmico, símbolo de la potencialidad que origina la Manifestación Universal, remite a la fuerza espiritual parte de esta manifestación.

 

En varias escenas de su nacimiento, vemos que Mitra está acompañado por un grupo de pastores, interpretados por Evola como ciertas «superiores presencias espirituales » que ayudan en el nacimiento iniciático (29). En otras tantas, vemos que en su nacimiento,  Mitra está acompañado de dos personajes: Cautes y Cautópates, el primero, Cautes, lleva una antorcha con el fuego hacia arriba, representa la luz del Sol ascendiente, del día que crece: del solsticio de invierno al solsticio de verano, también el amanecer; la antorcha de Cautópates está hacia abajo representando la luz del Sol que decrece: del solsticio de verano al solsticio de invierno, también el atardecer.

 

 

Ética mitraica. La dexiosis.

 

F. Cumont se pregunta el porqué del éxito del mitraísmo. Según él esta religión, la última de las orientales en llegar a Roma, aporta una nueva idea: el dualismo. Se identificó el principio del Mal, rival del dios supremo; con este sistema, que proporcionaba una solución simple al problema de la existencia del mal-escollo para tantas teologías- sedujo tanto a mentes cultas como a las masas. Pero esta concepción dualista, no basta para que la gente se convirtiera a la nueva religión, además el mitraísmo ofrecía razones para creer, motivos para actuar y temas de esperanza, esta religión fue el fundamento de una ética y una moral muy eficaz y concreta, esto fue lo que en la sociedad romana de los siglos I y III, llena de insatisfechas aspiraciones hacia una justicia y una ética más perfecta, garantizó el éxito de los misterios mitraicos. Según el emperador Juliano, Mitra daba a sus iniciados entolai o mandamientos y recompensas en éste y en el otro mundo a su fiel cumplimento. Y así el mazdeísmo trajo una satisfacción largo tiempo esperada y los latinos vieron en ella una religión con eficacia práctica y que imponía unas reglas de conducta a los individuos que contribuían al bien del Estado.

 

Mitra, antiguo genio de la luz, se convirtió en el zoroastrismo y continuó siéndolo en Occidente, en el dios de la verdad y de la justicia. Fue siempre el dios de la palabra dada y que asegura estrictamente el cumplimiento de los acuerdos y pactos. En su culto, se exaltaba, la lealtad y sin duda se buscaba inspirar sentimientos muy similares a los de la moderna noción de honor. También se predicaba el respeto a la autoridad y la fraternidad, al considerarse los iniciados como hijos de un mismo padre, pero a diferencia de la «fraternidad cristiana» basada en la compasión o en la mansedumbre, la fraternidad de estos iniciados, que tomaban el nombre de soldados era más afín a la camaradería de un regimiento, y se basaba en aspectos viriles y guerreros.

 

En la religión de Mitra tiene gran importancia la lucha y la acción, es loable la resistencia a la sensualidad y la búsqueda de la virtud, pero para llegar a la pureza espiritual, hace falta algo más, es la lucha constante contra la obra del espíritu infernal, sus creaciones demoníacas salen constantemente de los abismos para errar por la superficie de la Tierra, se meten por todas partes y llevan la corrupción, la miseria y la muerte. Los guías celestiales y guardianes de la piedad deben impedir que triunfen. La lucha es continua y se refleja en el corazón y la conciencia del hombre, miniatura del universo, entre la divina ley del poder y las sugestiones de los espíritus perfectos. La vida es una guerra sin cuartel, una continua lucha. Los mitraístas no se perdían en misticismos contemplativos, su moral agonal, favorecía sobre todo la acción y en una época de anarquía y desconcierto los iniciados hallaban en sus preceptos un estímulo en consuelo y orgullo. El cielo se merece, se gana en la guerra, el mismo concepto lo tenemos en otro extremo del mundo indoeuropeo, entre los vikingos y su idea del Walhalla, como morada de los guerreros.

 

El italiano Tullio Ossana dedica la mayor parte de su libro La stretta di mano . Il contenuto etico della Religione di Mitra, -tras la correspondiente explicación de orígenes, difusión, estructura interna y ritos- precisamente a ese rasgo tan propio de la religión mitraica, sin duda una de sus principales activos a la hora de ganar adhesiones, que fue la elaboración de una ética propia de raíz guerrera. Esta ética tendría tres objetivos:

 

- Hacer del hombre un hombre consciente, maduro, comprometido, por lo tanto capaz de actuar según sus capacidades y de poner su vida en acción.

 

- El segundo objetivo sería entrar en armonía en el Cosmos y cumplir su gran misión de ser intermediario entre dioses y hombres, entre hombres y la creación.

 

-Ser parte del plan de Mitra, revelado a el por el Sol. Representar el orden divino allí donde esté presente, con las implicaciones escatológicas y de ultratumba que ello implicaría.

 

Habría, según F. Cumont (30) una especie de decálogo que la religión mitraíca trazaría para que cada uno de sus adeptos fuese capaz de llegar a cumplir los tres objetivos mencionados. Cumont no llega a explicitar dicho decálogo, pero Tulio Ossana sí que nos da pistas para poder hacernos una certera idea de en qué podría haber consistido.

 

-Ética de la luz. Indicando el aporte de la inteligencia a la acción, la sabiduría en toda realización y la fidelidad a la verdad y a la palabra dada.

 

 

- Ética de la espada, como símbolo trascendente de la fuerza física, de la que queda excluido su uso prepotente e irracional.

 

-Ética de la transformación -preferimos este término al de «progreso» utilizado por T. Ossana-. En la acción de Mitra y sus iniciados existe una evidente transformación cuyo objetivo final es la transformación y la gloria.

 

-Ética de la amistad. Que liga a los adeptos con Mitra -el amigo- y a los adeptos entre sí en una fraternidad guerrera: la militia Mithrae.

 

Ética del servicio. Mitra, ejemplo de sus adeptos, pone su superioridad al servicio de la lucha por el bien y el orden. Rechazando cualquier pasividad (auto)-contemplativa.

 

Ética de la salvación. El fiel, salvado por el conocimiento de Mitra, se empeña en la salvación de sus hermanos, como éstos debe entenderse sólo a los miembros de la militia Mithrae.

 

Ética de la acción. La ética mitraica despierta al hombre a la acción, que estará en relación con sus capacidades interiores innatas que ahora debe poner a actuar.

 

Ética de la lucha contra el mal. Recordemos la visión dualista del mitraismo y su implícita obligatoriedad para luchar activa y firmemente frente al mal representado por Ahrimán.

 

Ética de la jerarquía-también aquí preferimos este término que los utilizados por T Ossana: orden y obediencia-. Evidentemente se refiere a la obediencia de los grados inferiores hacia los superiores.

 

Si hay un gesto que resume visualmente todo el contenido ético del que estamos hablando es la destrarum iunctio o dexiosis que convierte a los mitraístas en syndexioi (literalmente «unidos por la mano derecha»). En las civilizaciones arcaicas la mano se considera como un centro de potencia y un punto de focalización de energía (31), especialmente la derecha se ha relacionado con las capacidades creativas y guerreras del hombre. En el zazen la derecha es considerada la mano masculina o yang, en el típico mudra que se utiliza durante la meditación, ésta protege a la izquierda considerada como la femenina o yin. Así el gesto de unir las manos derechas alude tanto a la comunidad de camaradería que era la milicia mitraica como al hecho de abrir circuitos sutiles de energía que circularían entre todos los miembros de la misma, no lejano es el simbolismo de la cadena de algunas sociedades medievales iniciáticas e incorporado-una vez «desactivado» como es típico de esta institución-por la masonería.

 

Siguiendo estos preceptos éticos el adepto mitraista alcanzaba una serie de virtudes que, al parecer realmente, fueron características propias de los miembros de la militia mitraica a lo largo de su existencia: coherencia interna y externa, fidelidad, disponibilidad, coraje, humildad y alegría, entendida como plenitud. Lo que ayudó mucho a que las autoridades romanas vieran en el mitraísmo una religión que aportaba buenos ciudadanos siempre dispuestos a la defensa del Imperio.

 

El dualismo también condicionó las creencias escatológicas de los mitraístas. La oposición entre cielo e infierno continuaba en la existencia de ultratumba. Mitra también es el antagonista de los poderes infernales y asegura la salvación de sus protegidos en el más allá. Según el profesor Gonzalo Fernández de Córdoba, el alma se someterá a un juicio presidido por Mitra si sus méritos pasados en la balanza del dios, son mayores que los fallos, él lo defenderá frente a los agentes de Ahrimán, que tratarán de llevarla a los abismos infernales. Las almas de los justos se van a habitar a la Luz infinita, que se extiende por encima de las estrellas, se despojan de toda sensualidad y codicia al pasar a través de las esferas planetarias y de este modo se convierten en tan puras como las de los dioses, que serán, en adelante, sus compañeros. Al final de los tiempos, resucitará a todos los hombres y dará a los buenos un maravilloso brebaje que les garantizará la inmortalidad definitiva, mientras que los malos serán aniquilados por el fuego junto al propio Ahrimán.

 

El mitraísmo fue el culto mistérico que ofreció un sistema más rico, fue el que alcanzó una mayor elevación espiritual y ética, ninguno de ellos atrajo tantas mentes ni tantos corazones. El mazdeísmo mitráico fue una especie de religión de Estado del Imperio romano en el siglo III, de ahí la conocida frase de Renán: «si el cristianismo se hubiese detenido en su crecimiento por alguna enfermedad mortal, el mundo hubiera sido mitraísta».

 

 

EL MITRAÍSMO EN EL IMPERIO ROMANO.

 

Expansión y relación con el poder.

 

Es en el siglo I d. C. cuando el mitraísmo se instala en la Urbs romana, desde un primer momento, lo hace en círculos cercanos al imperial. La representación más antigua del dios sacrificando al toro data del año 102 bajo el reinado de Trajano. Fuera del Lacio es Etruria meridional la zona con mayor número de mitreos, siendo Campania y la Cisalpina dos importantes zonas de penetración.

 

La difusión del rito mitraísta se manifiesta en Retia y especialmente en Nórica. En el reinado de Adriano, poco antes de 130, llega a Germania, y con Antonino Pío hasta la Panonia. Desde la época de Marco Aurelio hasta los Severos -es decir entre 161-235- los santuarios se suceden a ambos lados del Rin y en las provincias danubianas, siendo también frecuentes en Tracia y Dalmacia, mucho menos en Macedonia y Grecia, donde solo tenemos noticia de un mitreo cercano a Eleusis que había sido consagrado por legionarios claramente itálicos. El Asia helenizada fue muy refractaria a este culto. Por el contrario sí hay constatación de templos consagrados a Mitra en Capadocia, en el Ponto, en Frigia, en Lidia y en Cilicia, cerca del mar Negro hay restos arqueológicos en Crimea, donde habría penetrado desde Trevisonda. También se han encontrado en Siria y en el Eúfrates, casi siempre relacionados con campamentos de legionarios, lo mismo que en Egipto.

 

A finales del siglo II su culto alcanza la cúpula de la jerarquía militar imperial e incluso hay emperadores que se hacen iniciar en estos misterios. El caso de Nerón es aún dudoso, M. Yourcenar en sus célebres Memorias de Adriano, da el dato de este emperador hispano, pero del primer emperador que hay constancia cierta es de Cómodo que habilitó una dependencia subterránea de la residencia imperial de Ostia para la práctica de este culto. También es claro el caso de Séptimo Severo, por el contrario, el emperador oriental y orientalizante Caracalla tuvo como dios a Serapis. La primera mención clara, pública y oficial en la que Galeno, Diocleciano y Licinio, en 307 califican al dios de fautor imperii sui (protector de su poder), el primero de ellos fue, sin duda, adepto al culto de Mitra. Mucho se ha dicho, en este sentido, sobre Juliano el Apóstata, aunque la única prueba concreta de la que se tiene constancia es la mención a Mitra en su Banquete de los Césares, emperador que ha pasado a la historia con el sobrenombre despectivo del Apóstata, aunque otros, con mejor criterio se refieren a Juliano Flavio, como Juliano Emperador (32), «porque en rigor si alguien debe ser llamado "apóstata" debería ser el caso de los que abandonaron las tradiciones sacras y los cultos hacedores del alma y la grandeza de la Roma antigua(...) no debería ser, por el contrario, el caso de quien tuvo el coraje de ser tradicional y de intentar reafirmar el ideal "solar" y sacro del Imperio, como fue el intento de Juliano Flavio» (33).

 

Mitra tuvo numerosos fieles en el orden senatorial de la Urbs. El medio urbano es, a lo largo y  ancho de todo el Imperio, el más propicio para el culto mitraico y donde se encuentra a sus seguidores y adeptos, el medio rural, mucho más conservador, lo rechazó claramente, como posteriormente haría con el cristianismo (34). Socialmente vemos que está presente «en su fase más antigua, entre siervos y libertos, posteriormente, en el curso del siglo II, en el estamento militar. Se difunde, a lo largo del siglo III, en el ordo equester y en el siglo IV en el senatorial»(35). El hecho de que al principio fueran siervos y libertos habla claramente de la gran tolerancia religiosa del mundo romano y de sus clases dirigentes, otro ejemplo curioso es que está datada la existencia de un pater mitraísta que a la vez era sacerdos de la domus Augusta, evidenciando la postura oficial de tolerancia y reconocimiento hacia el culto mitraico. En general las inscripciones del siglo III-IV revelan la gran importancia que tuvo el componente militar en la composición de los adeptos de Mitra y en su difusión por el Imperio.

 

 

 

El culto a Mitra en Hispania

 

En cuanto a la presencia del mitraismo en la península ibérica, según García y Bellido es, de los cultos mistéricos practicados en la Antigüedad, el que menos representado está arqueológicamente. Hispania es el país de Europa occidental más pobre en restos mitraicos. La explicación es bastante sencilla, el culto a Mitra estuvo íntimamente relacionado con el movimiento y el asentamiento de las legiones, e Hispania en los siglos II y III, época de expansión y culto, vive una existencia bastante pacífica y al margen del movimiento de tropas, tan frecuente en otras partes del Imperio, y por tanto al margen de las vías de penetración del mitraísmo (36).

 

Testimonios arqueológicos de presencia mitraica hay en las antiguas tres provincias de la Hispania de época imperial, siempre en zonas periféricas de la Meseta. En el Tarraconense hay ejemplos en sus dos extremos: la zona noroeste y el territorio astur y centros urbanos del litoral mediterráneo, como Barcino, Tarraco, Cabrera del Mar y, en la Comunidad de Valencia hay atestiguada una inscripción encontrada en 1922, en la localidad de Benifayó, en un lugar donde se han encontrado varios restos romanos. El epígrafe allí encontrado, tiene 65 cm de altura y se conserva en el Museo Provincial de Valencia. El texto dice:

 

                    Invicto/Mithrae/Lucanus/Ser(vus)

 

En Lusitania los restos arqueológicos están esparcidos por todo el territorio, pero indudablemente el centro principal e irradiador del mitraísmo estuvo en Emerita Augusta. Para la Bética la zona de hallazgos corresponde a la zona interior: Itálica, Corduba, Munda e Igagrum (actual Capra), donde se encontró una gran estatua de Mitra tauróctono, con Mitra vestido con pantalón persa, túnica con mangas y gorro frigio (37), exceptuando algún dato en la ciudad portuaria de Malaca.

 

 

«En general, el material que disponemos, procede de capitales de provincias, conventus, de colonias y municipios, es decir de zonas fuertemente romanizadas, donde hubo arraigo municipal. Fueron al mismo tiempo ciudades portuarias, administrativas o militares, asiento de soldados y comerciantes que transportaron el culto en su bagaje» (38). Siendo indudablemente el elemento militar el numéricamente más importante entre los adeptos al mitraísmo y el que ejerce principalmente la función de difusor por el territorio hispano. Otra vía fueron los comerciantes llegados a puertos del Mediterráneo hispánico.

 

FINAL Y PERVIVENCIAS DE UN CULTO GUERRERO

 

El fin del mitraísmo.

 

Al no incluir mujeres entre sus adeptos el mitraísmo limitó su campo de crecimiento y se encontró en desventaja frente a otros cultos como por ejemplo el cristianismo. Su segundo problema fue que siempre conservó la «marca persa» y Persia nunca se integró en el imperio, siendo por el contrario, enemigo hereditario y amenaza constante.

 

Constantino, el primer emperador cristiano, manifestó una particular hostilidad hacia el mitraísmo, así en 324 prohibió expresamente el sacrificio a «ídolos» y la celebración de cultos mistéricos. El rito mitraico tenía circunstancias agravantes: el sacrificio terminaba con un banquete con el dios y los emperadores cristianos tenían presentes las palabras de Pablo en su I carta a los corintios: «No quiero que entréis en comunión con los demonios». La legislación se hace más dura en el siglo IV  cuando se prohíbe cualquier sacrificio nocturno, precisamente la hora del ritual mitraico. El culto mitraico está en decadencia cuando Constancio II en 357 llega a Roma, circunstancia que aprovecha la aristocracia senatorial para obligarle a recortar las «leyes antipaganas», el reinado de Juliano el Apóstata (361-363) reactiva los cultos paganos, y de forma muy clara al mitraico, pero esta tendencia dura poco, en 391 una ley prohíbe toda clase de culto o manifestación pagana, y en 394 el mitraísmo desaparecerá de la Urbs, en el resto del Imperio las dos últimas dedicatorias epigráficas a Mitra tendrían fecha de 325 y 367.


Influencias y permanencias mitraicas en el cristianismo.

 

Sin embargo hay testimonios que indican que, aún después de la destrucción de los mitreos, la vitalidad de culto permaneció durante largo tiempo. Es lógico inferir que continuó teniendo influencia en importantes capas de la sociedad, y que el cristianismo- nuevo culto dominante-recogió y adaptó muchos de sus temas e iconografías:

 

La influencia más evidente históricamente confirmadas del culto solar sobre el cristianismo en el Imperio tardío es la elección del 25 de Diciembre como la del nacimiento de Cristo, es decir la misma fecha que Aureliano consagró en 274 al Natalis Sol Invicti, fecha que también era celebrada por los mitraistas, que no dejaban de ser un culto solar particular.

 

Trascendente fue también el cambio del sábado al domingo como «día del Señor», lo que se explica al renunciar al calendario lunar semita y adoptar el solar en que el domingo (día del sol = Sunday en inglés, Sonntag en alemán) da comienzo a la semana.

 

También hubo influencia mitraica directa en los rituales comunitarios, es de resaltar la afinidad entre el ritual de consagración mitraica y los sacramentos cristianos del bautizo, comunión y confirmación, sacramentos que entre ellos no serán autónomos hasta el siglo XI. Según expresión de Santo Tomás de Aquino el bautizado se convierte en «soldado de Cristo» lo que nos recuerda claramente a la idea al adepto como miembro de la «milicia de Mitra», y en la comunión se da la idea espiritual de «luchar contra los enemigos de la fe», en el mismo sentido del culto mitraico.

 

Por otro lado resulta llamativo que los cristianos conservaran el nombre de pater para sus sacerdotes y que los obispos sigan llevando un gorro que recibe el nombre de mitra. No lo es menos la imagen del Arcángel San Miguel con la espada en la mano para matar al dragón que puede recordarnos a la imagen de Mitra, puñal en mano matando al toro; en ambos casos estaríamos ante la imagen de «la lucha victoriosa de una figura trascendente contra una bestia que primero es domada y luego sacrificada» (39).

 

Otra influencia irania y zoroástrica, aunque no es definitivo que sea también mitraica, es la adoración de los Reyes Magos. Herodoto define a los « magos» como una casta sacerdotal irania que ejercía su función primero entre los medas y luego entre los persas. Los regalos que le llevan tienen un claro simbolismo tradicional: el oro siempre ha sido símbolo del sol y, en consecuencia de la realeza, que es la representación en la tierra de lo que el sol es en el sistema solar, precisamente Melchor regala oro por tratarse de un rey, Gaspar incienso por ser un dios y Baltasar mirra por ser un hombre. Siguiendo con los Magos que visitan a Jesucristo recién nacido es obligatorio referirse a los cambios iconográficos que ha hecho la iglesia en su iconografía, mucho han variado desde la representación de los mosaicos de Rávena a la actualidad, en un primer momento son hombres de una misma edad e igualmente de raza blanca, es en el siglo XV cuando Petrus Natalibus establece arbitrariamente que Melchor tiene 60 años, Gaspar 40, y Baltasar 20. Durante la Edad media habían incorporado una iconografía alquímica, representando -por los atributos-cada uno de ellos una de las fases alquímicas: blanco/Melchor-rojo/Gaspar-negro/Baltasar/África, es desde esa fecha cuando se representa a Baltasar como un hombre «negro», en este caso nos negamos a decir: como un hombre «subsahariano».

 

¿Fue posible la supervivencia?

 

Es lógico pensar que una ley no fue suficiente para terminar de un plumazo con un culto tan extendido y con un gran número de adeptos cual fue el mitraísmo. Hay restos y testimonios dispersos que infieren la existencia de núcleos de resistencia mitraísta en el siglo V. En el siglo XX las obras de inspiración tradicional y evoliana se encargan de buscar restos aún vivos de tradiciones europeas precristianas, especialmente de la continuidad de la tradición romana y de pervivencias mitraicas. Así la revista Mos maiorum en un número de 1996(40) llega a afirmar que «el culto mistérico de Mitra, a consecuencia de la hostilidad del Estado, desaparece de la superficie de la historia, conservándose en una tradición oculta y operando invisiblemente sobre las grandes corrientes de la historia occidental. El resurgir de la sacralidad del Imperium en la tradición gibelina medieval, el trasfondo iniciático de los poemas épicos y caballerescos de la Edad Media, los vestigios de la tradición hermética hasta el Renacimiento y el renacimiento espiritual evidenciados en tiempos mucho más recientes, testimonian en modo vivo y concreto la continuidad de la fuerza de la herencia sapiencial pagana en Occidente».

 

También en Oriente se atestiguan presencia mitraica en épocas muy posteriores. En la tradición épica de Armenia hasta el siglo XIX se hace referencia a un gigante de nombre Mehr, cuya descripción y función nos recuerda llamativamente a la del dios Mitra.

 

Varios estudiosos - entre ellos Mircea Eliade (41) y Ellemire Zolla(42)-  han dado certezas de la continuidad del culto zoroástrico en Irán hasta, por lo menos, los años 70 del siglo XX . En este sentido conocido es el hecho de que en 1.964, Mary Boyce visitó una serie de pueblos y aldeas iraníes en los que pervivía la fe en Zaratustra, constatando que veneraban a un dios-héroe llamado Mihr, con enormes paralelismos con Mitra. No se sabe cuál es actualmente la situación de estos parsis bajo el régimen integrista de Teherán. Nos tememos que están atravesando tiempos difíciles que amenazan la perpetuación de su religión, mantenida durante milenios.

 

También conocida es la comunidad parsi de Bombay, es el mismo E. Zolla quien en su libro Aure nos narra su encuentro con un adepto al mitraismo de esta comunidad, que le habla-desde el conocimiento operativo- de los ritos de la llamada «Cámara del Consejo» en el palacio de Darío, así como del poder y la efectividad de la misteriosa secuencia vocálica («mántrica» podríamos decir) del Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París(43), que incluye técnicas sobre el dominio de las corrientes de la respiración -cálida y fría - que es necesario armonizar , en mismo modo a cómo las técnicas yóguicas lo determinan .

 

No quisiéramos cerrar este apartado sin hacer mención de una curiosa e interesante entrevista(44) aparecida en el número 4- solsticio de verano 1994 de la revista belga Antaios , número titulado precisamente «Mysteria Mithrae», el entrevistado, se identifica con el nombre de Corax (el cuervo) primer grado de iniciación mitraica, y se define a sí mismo como «joven universitario europeo, me definiría a riesgo de pasar por un provocador , como un seguidor de Mitra, un fiel del Sol Invictus, en la línea espiritual de Akenatón, y del emperador Juliano llamado el Apóstata. Al igual que ellos, mi toma de conciencia solar fue resultado del reencuentro con una tradición y una búsqueda personal», si bien deja claro que «No pretendemos en absoluto, contrariamente a ciertos druidas modernos, ninguna filiación iniciática (aunque hayamos buscado durante años en vano esos "testigos")».

 

Más allá de supervivencias reales, imaginadas o deseadas hemos querido dar las claves del culto mitraico que no hace más que repetir el mundo de valores indoeuropeos. Si pretendemos un verdadero enderezamiento espiritual tendremos necesariamente que recuperarlos y remitirnos a ellos, sea cual sea la forma religiosa exterior que los englobe.

 

Enrique Ravello

 

Notas

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1    J. Evola,  «La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra»(1926) en La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mitra (recop). Quaderni di Testi Evoliani, nº 4. Fundazione Julius Evola . Roma, p.5.

2     J Varenne, Zoroastro. El profeta del Avesta. Ed Edaf, Madrid 1989, p,23.

3      Ibídem, p, 56.

4      A.  Coomaraswamy, El Vedanta y la tradición occidental.

Ed. Siruela, Madrid 2001, p, 269.

5       Cfr: G Bonfante, «The Name of Mitra» en Etudes mitrhriaques (= Acta Iranica,17)-Teherán-Lieja,1978.p.47 y ss.

6        Sobre la realidad de la mitología romana como manifestación de la ideología indoeuropea, v. G Dumézil, Iupiter, Mars, Quirinus. Essai sur la conception indoeuropéene de la Societé et sur les origines de Rome, París 1944, y La religion romaine archaïque. París 1966.

7         S. Arcella I Misteridel Sole. Ed Controcorrente, Nápoles 2002, p.26.

8         S.S Hakim, «I misteri di Mitra visti da un zoroastriano», en Conoscenza religiosa  I 1976.

9          Ibídem, p.87.

10       A. Loisy; Los misterios paganos y el misterio cristiano. Ed Paidos Oriental, Barcelona 1990,p.119.

11        F. Cumont , Las religiones orientales y el paganismo romano. Ed. Akal universitaria. Madrid 1987 p.129.

12        Ibídem, p. 121.

13        J. Evola, «Note sui Misteridi Mithra» en op.cit. (recop) p.18.

14         David Ulansey, profesor de Filosofía y Religión en el Californian Institute of Integral Studies.

15         D. Ulansey, The Origins of the Mithraic Mysteries. Cosmology & Salvation in the Ancient World. Ed Oxford University Press. Nueva York 1989.

16         R. Turcan, op.cit, p.103.

17         Eliade, M y Couliano, I. P, Diccionario de las religiones. Circulo de lectores. Ed. Paidós, Barcelona 1997.

18        A. Loisy: op, cit, p.129

19        T. Ossana, La stretta di mano. Il contenuto etico della Religione di Mitra. Ed Borla, Nápoles 1988.

20        S. Arcella , I Misterio del Sole. Ed. Controcorrente, Nápoles2002,p.119.

21        R.Turcan, Mithra et le Mithriacisme .Ed. Les Belles Lettres . París 2000, p.119

22        R. Turcan.op.cit,p.90.

23        S. Arcella, op.cit,p.134.

24        A. Loisy, op.cit, p.129-135.

25        J. Evola,op.cit, p.5

26        S. Arcella,op.cit,p.102

27        J. Evola ,op.cit, p.7

28        J  Evola «Note sui Misteri di Mithra » (1950).op.cit (recop) p.19.

29        J  Evola ,«La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra» (1926).Recogido en op. cit (recop.) Fundazione Julius Evola. Roma.p.7

30         F. Cumont, Le religione orientali nel paganesimo romano, Bari 1967, p.183 y Les mystéres de Mitra, Bruselas 1919, p.141.

31        Técnicas autocurativas japonesas como el reiki o el katsugen se basan principalmente en esto.

32        Cfr: R. Prati en la traducción al italiano de los escritos de Juliano Imperador con el título: Sugli dei e sugli uomini.

33         J. Evola «Giuliano Imperatore» (1932) en op.cit. (recop.) p.15.

34         R. Turcan ,op. cit, pp.41-43

35         S. Arcella .«I collegi mithraici nella Roma imperiale», en Arthos nº 9 (nueva serie) , 2001.

36         A. García y Bellido. Les religiones orientales dan l Éspagne romaine. Leiden1967, p.21.

37         Cfr JL Jiménez y M. Martín- Bueno, La casa del Mithra, Capra-Córdoba. Ilmo.Ayto de Cabra 1992.

38          Mª Antonia de Francisco Casado, El culto de Mitra en Hispania. Ed Universidad de Granada. Granada 1989. p.64.

39          S. Arcella, op.cit p. 211.

40          Mos maiorum, Revista trimestrale di Studi tradizionali. Año II, nº4,1996,pp.34.

41          M. Eliade, Storia,  pp.338-344.

42          E. Zolla, Il Signore delle grotte, pp.64 y ss.

43          Para un mayor conocimiento sobre la realidad, potencialidad y operatividad del Gran Papiro Mágico de París, cfr: «Apathanatismos. Rituale Mithraico del Gran Papiro Magico di Parigi» en , Grupo UR, Introduzione alla Magia . Vol I . Ed Mediterranee, Roma 1971.pp.114-139.

44           «Corax, entretien avec un adepte du culte socaire» en Antaios nº4, solsticio de verano de 1994, Bruselas.

mercredi, 13 juillet 2011

La religions des Seigneurs

La religion des Seigneurs

 

par Willy Fréson

 

Éric Stemmelen, La religion des seigneurs – Histoire de l’essor du christianisme entre le Ier et le VIe siècle, éd. Michalon, Paris, 2010.  € 22.

 

1100258-gf.jpgEn affirmant à la fois l’unicité et l’intelligibilité du cosmos, puis en l’investiguant par la libre réflexion appuyée sur l’observation et l’expérimentation, les Grecs de l’antiquité avaient fait accomplir à la pensée un véritable saut quantique. Sur ce plan, aucune civilisation ne fut jamais comparable – la nôtre, immergée dans son ébriété marchande et technicienne, n’étant que l’héri- tière bâtarde et improbable du « miracle grec ». Cette performance unique fut au fondement de la culture dite « gréco-romaine », dont le cadre politique fut, durant des siècles, l’œuvre tenace d’un autre peuple de génie, l’Empire romain que Nietzsche considérait comme « la forme d’organisation la plus grandiose jamais atteinte jusque-là, et en comparaison de quoi tout ce qui précède, tout ce qui suit, n’est qu’ébauche, amateurisme, dilettantisme » (L’Antéchrist, § 58).

 

L’ouvrage d’Éric Stemmelen dont il est ici question aborde un épisode absolument crucial de notre histoire puisqu’il ne s’agit de rien de moins que de comprendre comment une secte juive dissidente a pu en arriver à conditionner toute la destinée future de l’Europe et du monde en s’emparant du pouvoir dans l’Empire romain et en détruisant de l’intérieur une civilisation millénaire. Car, proclamait déjà le philosophe au marteau, « le christianisme a été le vampire de l’imperium Romanum, il a défait du jour au lendemain ce que les Romains avaient fait de prodigieux, défricher le sol où édifier une grande civilisation qui avait le temps pour elle » (ibidem). L’auteur constate que le phénomène est traditionnellement étudié dans sa dimension idéologique et, donc, à partir des témoignages chrétiens. Il choisit, quant à lui, de privilégier une démarche différente : elle consiste à délaisser le roman fantastique tramé par ces sources « internes » pour envisager résolument le processus du dehors, en le replaçant « dans les évolutions politiques, économiques, sociales du monde romain » (p. 10).

 

Stemmelen commence par faire un sort au mythe de l’irrésistible ascension du christianisme, censé culminer avec la conversion de l’usurpateur Constantin (306-337). Et en effet, comme ce sont toujours les vainqueurs qui écrivent l’histoire, on ne s’étonnera pas que, jusqu’à nos jours, l’historiographie traditionnelle soit imprégnée d’une vision plutôt conforme aux vœux de l’Église : le surnom de « Grand » conféré à Constantin est, en ce sens, révélateur. Depuis le triomphe de cette dernière, le christianisation est en effet présentée comme un processus irrésistible, nécessaire et bénéfique, s’inscrivant dans le « sens providentiel de l’histoire » et venant parachever le cycle civilisateur du progrès humain. Le récit se résume à la geste héroïque et vertueuse d’une communauté militante vouée au bien-être et au salut de l’humanité souffrante, à l’éloge des qualités intellectuelles et éminemment morales du message véhiculé par les évangiles (τὸεὐαγγέλιον : la « bonne » nouvelle) et, last but not least, à l’évocation des sanglantes persécutions prétendument orchestrées par un pouvoir romain buté dans son pathétique attachement aux traditions « païennes ». Ainsi, en 1939, l’historien et académicien Jérôme Carcopino, parlant de la chrétienté, écrit sans rire : « Évidemment sa croissance souterraine a progressé avec une étonnante rapidité ; … La religion des Juifs avait exercé son attrait sur nombre de Romains séduits par la grandeur de son monothéisme et la beauté du Décalogue. Celle des Chrétiens qui rayonnait des mêmes lumières, mais qui, de plus, divulguait un splendide message de rédemption et de fraternité, ne tarda pas à y substituer son propre prosélytisme » (La vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire, p. 163). Dans cette vision, le monde romain était déjà largement et spontanément converti dès le IIIe siècle. Le ralliement de Constantin au parti chrétien et sa conversion apparaissent dès lors comme l’achèvement d’un processus et non comme un « basculement ». C’est ce qu’écrit, par exemple, le cardinal Daniélou dans sa Nouvelle histoire de l’Église (1963) : « Au début du IVe siècle, les forces vives de l’empire étaient en grande partie chrétiennes. … En dégageant l’empire de ses liens avec le paganisme, Constantin ne sera pas un révolutionnaire. Il ne fera que reconnaître en droit une situation déjà réalisée dans les faits ».

 

Or, les résultats les plus récents de la recherche infirment cette sentence, et c’est sur eux que s’appuie la thèse de Stemmelen. Il faut surtout signaler les travaux de Robin Lane Fox et d’Alan Cameron aux États-Unis, de même que ceux de Pierre Chuvin et de Claude Lepelley en France. Ils apportent un sérieux bémol à cette vulgate de l’histoire chrétienne. En bonne méthode critique, ces auteurs sont retournés aux sources pour constater que la dite vulgate n’a guère d’autres fondements que les écrits, partisans et polémiques, des auteurs chrétiens eux-mêmes. En fait, de nombreux témoignages montrent que jusqu’en plein IVe siècle, les cultes traditionnels – « païens » – gardent toute leur vigueur ; à l’inverse, jusque vers le milieu du IIIe siècle, le corpus des textes non chrétiens ne comporte que très peu de témoignages de l’existence du christianisme, sans parler de l’authenticité douteuse de certains d’entre eux. Il en va de même des données épigraphiques, papyrologiques et archéologiques dont l’importance ne devient vraiment significative qu’à l’approche du IVe siècle. Si ce constat pose un rude problème méthodologique du fait que les affirmations de l’apologétique chrétienne – déjà suspectes en soi – ne peuvent guère être contrôlées par des recoupements externes, il laisse en tout cas soupçonner que la secte chrétienne a plus ou moins végété durant deux bons siècles, sinon dans le mépris, du moins dans la quasi indifférence générale, perdue qu’elle était dans le foisonnement des religions et des doctrines philosophiques d’un monde polythéiste et donc « pluraliste » par nature. Ce soupçon devient conviction lorsque l’on considère la faiblesse numérique des chrétiens avant et longtemps encore après leur prise du pouvoir : selon des estimations plausibles – car fondées sur des documents peu nombreux, certes, mais néanmoins révélateurs –, à la fin du IIe siècle, ils ne représentaient qu’à peine 2 % des habitants de l’Empire, et, au début du IVe, pas plus de 4 ou 5 %. Encore faut-il tenir compte des disparités régionales inhérentes à l’immensité de l’Empire : dans les provinces européennes, hormis Rome et quelques villes importantes, on tombe à 1 ou 2 %. Quant à l’Égypte, riche de sa documentation papyrologique et tenue pour l’un des premiers gros bastions du christianisme, elle ne devait compter tout au plus que 20 % de convertis à la même époque. On est loin de l’irrésistible et rapide conversion des masses décrite par les historiens conformes ! Et pour ce qui est des trop fameuses « persécutions », soit dit en passant, elles relèvent, pour l’essentiel, de fictions propagandistes chrétiennes : jusqu’au milieu du IIIe siècle et surtout jusqu’aux mesures bien trop tardives de Dioclétien (284-305), le pouvoir romain ne se préoccupa guère d’une secte si peu importante – de minimis non curat praetor –, et les actions antichrétiennes se résumèrent à des faits anecdotiques locaux, plutôt rares et aux effets limités.

 

Ce constat entraîne une conséquence capitale : le ralliement de Constantin ne peut plus être considéré comme l’aboutissement inévitable d’une christianisation avancée de l’Empire, mais bien comme un coup de force révolutionnaire qui imposa, en peu de temps, la dictature du parti de « Dieu ». Ceci apparaît d’autant plus clairement que, par ailleurs, la « question constantinienne » semble désormais tranchée. Elle s’était longtemps posée aux historiens qui s’interrogeaient sur la date de la conversion de Constantin : était-ce en 312, après sa fameuse vision et sa victoire décisive sur Maxence au pont Milvius, ou plus tard, en 326, après les meurtres de son propre fils Crispus et de sa seconde épouse Fausta, ou encore en 337, sur son lit de mort, lorsqu’il reçut enfin le baptême (une astuce d’époque, pour se faire pardonner jusqu’au dernier de ses innombrables péchés) ? On a maintenant de bonnes raisons pour fixer l’événement en 312 et pour rechercher sa cause du côté des nécessités politiques bien plus que des convictions religieuses.

 

La grande crise du IIIe siècle, avec ses usurpations, ses sécessions et ses guerres civiles, avait en effet gravement ébranlé l’image impériale. Pour la restaurer, les « empereurs soldats » avaient recouru à un stratagème idéologique qui consistait à se poser comme les représentants sur terre d’un dieu suprême. Aurélien s’était ainsi voué à Sol Invictus, tout comme les tétrarques Dioclétien et Maximien respectivement à Jupiter et à Hercule, ce qui leur conférait une légitimité d’essence divine, censée disqualifier les usurpateurs. Or, précisément, Constantin était un usurpateur qui, en 306, n’avait pas reculé devant un coup d’État et devant une guerre civile pour s’assurer de la succession de son père, Constance Chlore, au détriment des règles constitutionnelles de la Tétrarchie nouvellement instaurée par Dioclétien. Confrontés à des adversaires qui s’appuyaient sur les cultes encore vivaces des divinités traditionnelles de l’Empire, il s’était d’abord tourné vers les figures tutélaires d’Apollon et de Sol Invictus avant de sauter un pas décisif en adoptant, pour mobiliser ses troupes, une divinité d’un tout autre genre et en misant sur l’appui d’un mouvement religieux très minoritaire, certes, mais disposant d’atouts idéologiques indiscutables, et solidement organisé par des activistes passés maîtres dans l’art de l’agit-prop. Depuis longtemps, en effet, malgré son penchant affiché pour les misérables, l’ecclésia chrétienne avait réussi à gagner de l’influence auprès de certains éléments des couches aisées voire fortunées de la société, sans doute séduits par l’aplomb d’une doctrine qui non seulement prétendait donner réponse catégorique à toutes les interrogations existentielles, mais encore synthétisait des idées familières véhiculées autant par les gnoses et mystères orientaux que par une certaine philosophie grecque (dualisme, monothéisme, universalisme, eschatologie, sotériologie). Ce sont ces milieux qui avaient fourni le financement et les cadres éduqués indispensables à la propagande et à la crédibilité du mouvement au plus haut niveau. Ainsi, l’Africain Tertullien (entre 160 et 225) tout comme Minucius Felix, son quasi-contemporain, étaient des avocats des plus aisés, l’un à Carthage, l’autre à Rome, et nombreux étaient les évêques issus de familles très riches, tel Cyprien à Carthage (200-258).

 

C’est ainsi que l’on peut établir une conjonction entre les besoins de la politique et l’offre idéologique de l’époque : pour assurer son coup de force politique, Constantin fit le pari d’une nouvelle légitimité reposant sur une formule simple, démagogique et à l’efficacité prometteuse. L’analyse ne peut toutefois s’arrêter en si bon chemin car, ce faisant, l’usurpateur prenait le risque de se mettre à dos l’écrasante majorité des habitants de l’Empire. Comment, dès lors, expliquer son calcul ? Stemmelen, comme il l’a annoncé dans son prologue, procède alors à une approche « externe » des faits et vise à démontrer que le succès durable de Constantin tint au soutien décisif de la classe dominante des grands propriétaires, elle-même déjà largement gagnée par le christianisme.

 

Si l’on admet les aspects les moins contestables de la pensée de Marx, il faut ici rappeler que toute société se construit autour de trois contraintes qui sont l’exploitation économique, la domination politique et l’hégémonie idéologique. Selon le sociologue Robert Fossaert (La société. I : Une théorie générale, 1977), « l’instance économique tend à représenter l’ensemble des pratiques et des structures sociales relatives à la production de la vie matérielle de la société. Le concept central à partir duquel elle s’organise est celui de mode de production. L’instance politique tend à représenter l’ensemble des pratiques et des structures sociales relatives à l’organisation de la vie sociale. Le concept central à partir duquel et autour duquel elle s’organise est celui de l’État ». Quant à l’instance idéologique, elle se définit de la façon la plus large « comme l’analyse de l’ensemble des pratiques par lesquelles et des structures dans lesquelles les hommes-en-société se représentent le monde où ils vivent ». Si l’on transpose ces considérations au cas historique qui nous préoccupe, on voit que sa victoire de 312 assura à Constantin la mainmise sur l’appareil d’État romain (il liquidera Licinius, son corégent et beau-frère, en 325), laquelle conditionna la mise en place de l’hégémonie idéologique de l’Église et du parti chrétiens. Or, le caractère durable et, en fait, définitif de cette révolution induit nécessairement que des éléments dominants de la société étaient partie prenante dans l’opération car, comme le rappelle Stemmelen, « aucun régime politique ne peut gouverner contre la classe qui détient le pouvoir économique » (p. 110). Ce point constitue le noyau de la thèse développée par l’auteur, et il le résume comme suit (pp. 271-72) :

 

« Au IIe siècle, l’économie romaine est entrée dans un nouveau mode de production, fondé sur la propriété latifundiaire et sur le colonat, qui s’est substitué à l’esclavage traditionnel, en particulier en Orient et en Afrique. Il consiste à faire exploiter de très grands domaines agricoles par des paysans, dénommés « colons » [coloni], qui, bien que « libres » et non pas esclaves, doivent demeurer attachés à la terre qu’ils travaillent, pour le compte et au bénéfice d’un richissime propriétaire. Pour que ce système fonctionne, il est nécessaire que ces paysans se soumettent à l’autorité des grands propriétaires fonciers, qu’ils acceptent de travailler pour le compte d’autrui alors que leur statut d’hommes libres ne les y oblige pas, contrairement aux esclaves, et enfin qu’ils fondent une famille et qu’ils assurent une descendance afin que perdure l’exploitation. Or, dans un monde aux mœurs plutôt relâchées, où règne une certaine oisiveté (le travail et la soumission étant réservés aux esclaves), rien n’incite des hommes libres à se plier à de telles contraintes. La religion chrétienne va fournir aux propriétaires l’instrument idéologique adéquat car elle est la seule à promouvoir avec force les valeurs d’autorité, de travail et de famille. Sa vision très particulière de la sexualité, réduite à sa fonction reproductrice, s’oppose radicalement aux mœurs antiques. Les nouveaux seigneurs fonciers vont donc favoriser l’essor de cette secte très minoritaire et utiliser ses cadres, les évêques, d’abord pour asseoir leur tutelle sur les coloni, ensuite pour s’emparer du pouvoir politique, ceci aux dépens de l’ancienne classe dominante esclavagiste représentée par l’ordre sénatorial. La création d’un empire chrétien s’ensuivra, avec la mise en place, au IVe siècle, d’un régime dictatorial, entièrement voué à la puissance et à l’enrichissement des seigneurs, et qui procèdera à une christianisation forcée. »

 

Dans son principe, cette thèse est séduisante en ceci qu’elle tente d’expliquer le triomphe de l’Église chrétienne non plus par de simples considérations idéologiques (les « vertus » intrinsèques du discours chrétien) mais, plus largement et plus fondamentalement, par des arguments d’ordre politique, économique et social. À la suite des profondes mutations subies par l’Empire romain durant le IIIe siècle,elle décrit, en fait, l’émergence d’un ordre nouveau totalitaire où, au travers d’une stricte hiérarchie de « seigneurs » (domini ; plus tard, en latin ecclésiastique, seniores), se conjuguent de manière saisissante les rets de l’exploitation économique, de la domination politique et de l’hégémonie idéologique. De haut en bas, on a ainsi le Dominus céleste – créateur et principe de l’univers –, puis le dominus terrestre – l’empereur, jadis simple princeps et désormais maître du monde par la grâce divine –, et enfin, de multiples domini locaux – grands propriétaires, soutiens et bénéficiaires ultimes du système tout autant qu’incarnation de celui-ci auprès du commun des mortels.

 

La démonstration, pourtant, ne laisse pas de susciter quelques objections. On ne peut, en effet, que s’étonner de voir l’auteur reprendre une affirmation du juriste italien Aldo Schiavone disant que « la crise de l’esclavage romain s’accompagne, à partir des débuts du troisième siècle après J.-C., de l’effondrement de tout le système économique de l’empire » (p. 30). Ce point de vue catastrophiste, fondé surtout sur les textes et partagé naguère par nombre de spécialistes, est aujourd’hui dépassé. Les recherches récentes des archéologues dessinent au contraire une image nettement plus favorable de la situation économique de l’Empire durant ce siècle troublé ; elles présentent, en outre, un tableau très différencié suivant les périodes et les régions. Par exemple, on sait maintenant que, si l’Afrique a connu alors un véritable « boom » économique, ce ne fut pas au détriment d’autres provinces et encore moins à celui de l’Italie, prétendument en complète régression : simplement, les acteurs économiques, les réseaux d’échanges et les centres de gravité ont évolué avec le temps. En particulier, les conséquences du déclin de la main d’œuvre servile ont été exagérées. Elle a surtout touché l’Italie, où les esclaves avaient été très nombreux à la suite des conquêtes de la République ; mais le processus s’était amorcé dès le Ier siècle de notre ère et, dans le monde rural, ses effets avaient été absorbés depuis, grâce aux restructurations rendues possibles par la persistance d’une nombreuse paysannerie libre, en Italie comme dans les provinces. Ceci dit, le nombre des esclaves restait tout de même non négligeable, ce qui, d’ailleurs, ne heurtait en rien les idéologues chrétiens. Dans ces conditions, on ne peut affirmer, sans plus, que « le colonat s’est substitué à l’esclavage traditionnel » et que « les nouveaux seigneurs fonciers » se sont établis « aux dépens de l’ancienne classe dominante esclavagiste représentée par l’ordre sénatorial ». La réalité fut plus complexe, sans aucun doute, mais, vu le caractère limité de nos sources, elle se laisse difficilement appréhender.

 

Le problème du colonat illustre bien cet état de choses. Le colon était un paysan libre qui, contre redevance, recevait le droit de cultiver une parcelle de terre agricole. Ce genre de bail à métayage était courant sur les grands domaines (praedia) privés ou publics du monde romain. Sous l’Empire tardif, les textes législatifs révèlent une apparente dégradation de la condition des colons. Ces derniers, ainsi que leurs descendants, sont désormais impérativement liés (adscripti) à leur « lieu d’origine » (origo), c’est-à-dire à la terre qu’ils cultivent. Ceci est apparu comme une préfiguration du servage médiéval, et, longtemps, on a cru y voir une mesure destinée à remédier à la défaillance de l’économie esclavagiste. En réalité, l’obligation de rester sur sa terre d’origine est une conséquence de la grande réforme fiscale promulguée par Dioclétien en 287. À cette occasion fut introduit le système de l’impôt par répartition qui consistait à attribuer à chaque unité fiscale, du haut en bas de la hiérarchie administrative, un certain nombre de parts (capita) de la charge globale. Les grands domaines fonciers comptèrent de la sorte parmi les unités de base, et, afin de soulager les agents du fisc, leurs propriétaires, les domini, eurent chacun pour tâche de répartir et de percevoir l’impôt (capitatio) dans leur domaine propre – ce qui n’était sans doute que la systématisation d’un pragmatisme bien antérieur. Aussi est-ce pour assurer la pérennité du rendement fiscal que les colons furent légalement adscrits à la terre. Ceux-ci restaient donc libres car l’obligation à laquelle ils étaient assujettis était de droit public et non privé : autrement dit, la loi visait à garantir l’intérêt de l’État – i. e. la rentrée de l’impôt – et non celui des propriétaires fonciers qui, de leur côté, bien sûr, cherchaient à maintenir leurs baux. Cependant, si la législation visait, au départ, à protéger les colons, elle ouvrait indéniablement la portes aux pires abus en déléguant aux domini non seulement la collecte de la capitation mais aussi le contrôle de l’obligation faite aux colons de rester en place. À la longue, évidemment, au gré des défaillances de l’État, le pouvoir de ces « seigneurs » finit par rompre l’équilibre et par détourner à son profit ce fragile cadre juridique.

 

Dans un monde où l’agriculture représentait encore la part majeure de l’économie, les grands propriétaires fonciers étaient, sans conteste, les principaux détenteurs des moyens de production, d’autant qu’ils étaient aussi impliqués dans les échanges commerciaux. Sous l’Empire tardif, ils formèrent une classe particulièrement opulente et puissante, en Orient et, plus encore, en Occident. On ne saurait dire, toutefois, qu’elle s’est constituée, par la grâce du colonat, en opposition à l’ancien ordre sénatorial « esclavagiste ». Elle est, en fait, le résultat des évolutions politiques, sociales et économiques des trois premiers siècles de l’Empire qui ont vu l’ancienne aristocratie italienne s’ouvrir peu à peu aux élites provinciales puis aux parvenus de toute sorte, alors même que l’économie agraire se restructurait diversement suivant les régions, en privilégiant d’autres modes de production que l’esclavagisme. Nonobstant, ce correctif mis à part, il est tout à fait plausible qu’une partie au moins de la classe des « seigneurs » ait joué un rôle actif et intéressé dans la promotion d’un christianisme promouvant si opportunément les valeurs « d’au- torité, de travail et de famille » ; de nombreux signes montrent, en tout cas, que cette classe s’est largement ralliée au camp de Constantin puis de ses fils à partir de la victoire décisive du premier en 312, réalisant ainsi le « basculement » évoqué par Stemmelen.

 

Reste, maintenant, un point essentiel. De ce qui a été dit jusqu’ici, on peut conclure que l’ébranlement de l’Empire, au IIIe siècle, n’est pas, dans son essence, assimilable à une crise  économique majeure – et encore moins à un « effondrement » –, comme le conçoit Stemmelen à la suite de toute une tradition historiographique marquée du plus typique des réductionnismes « modernes », à savoir l’économisme (« réduction à l’économie des finalités sociales et des buts du politique »). S’il en avait été ainsi, jamais l’Empire n’eût pu y survivre comme il le fit. La crise, bien réelle en tout état de cause, fut plutôt la conséquence d’un collapsus politique induit par une impasse géopolitique. Les effets de cette dernière, un temps maîtrisés, finiront par mener, au Ve siècle, à l’effondrement militaire et politique de l’Empire romain en Occident.

 

Depuis ses origines, en effet, le système impérial souffrait d’une contradiction majeure car, pour le faire accepter au terme de sanglantes guerres civiles qui avaient abattu le pouvoir du Sénat, Auguste, le premier empereur, avait dissimulé les réalités de la nouvelle monarchie militaire en perpétuant le décorum des institutions républicaines. On était donc toujours officiellement en République et le Sénat gardait, au moins nominalement, un certain nombre de prérogatives, dont la désignation de l’empereur, présenté comme le princeps, « le premier des sénateurs » (d’où le nom de « principat » donné au régime). Or, malgré l’opposition larvée de l’ordre sénatorial, les réalités ultimes du pouvoir se trouvaient maintenant de facto aux mains de l’armée (perpétuant l’idée du peuple romain en armes), sans qu’aucun principe constitutionnel ne vînt clairement définir les modalités de la succession impériale.

 

Par ailleurs, la République, régime oligarchique d’assemblée – par nature méfiant à l’égard des grands commandements affectés à de grandes entreprises –, n’avait jamais élaboré de concept stratégique autre qu’empirique et s’en tint toujours à quelques principes, dont le plus constant consista à ne dépasser sous aucun prétexte l’écosystème du bassin méditerranéen, berceau de la civilisation et base du système international dans lequel se déployait la politique romaine. Le Sénat crut possible, en effet, de se réserver « la part utile » du monde, quitte à abandonner le reste à son sort, faisant sur ce point essentiel bon marché des pesanteurs de la géopolitique et transposant à l’échelle de l’œkoumène un comportement de propriétaire terrien typique de l’aristocratie romaine. Ce fut le génie novateur de César qui, au temps de la révolution romaine, amena la rupture avec cette posture restrictive en concevant une authentique « grande stratégie » accordée à la vision d’un empire universel. Le nouveau concept tirait les conséquences de la situation très particulière et aussi très préoccupante de l’empire républicain, lequel, bordant presque tout le pourtour de la Méditerranée, se présentait comme une île inversée, avec ses côtes tournées vers l’intérieur et ses territoires déployés en arc de cercle, ouverts aux profondeurs continentales. La vulnérabilité de ces frontières interminables s’étant brutalement révélée lors de l’invasion cimbrique qui avait frappé l’Italie et les provinces depuis la péninsule balkanique jusqu’à l’Espagne (113-101), l’objectif de César fut alors d’annuler ces frontières en portant les limites de l’empire jusqu’aux rivages de l’océan. La fameuse « guerre des Gaules » (58-51) fut l’amorce de cette « grande stratégie » qui, d’emblée, s’orienta vers l’Europe, hinterland de l’Italie. La mort du « dictateur » empêcha la réalisation d’un plan qu’il prévoyait de poursuivre depuis la Caspienne jusqu’à l’Atlantique. Le projet fut cependant repris par son petit neveu, Auguste, le premier empereur, qui, après avoir plus clairement encore donné la priorité stratégique à l’Europe plutôt qu’à l’Orient, poussa jusqu’à la Baltique, la Bohême et le bassin des Carpates. L’échec final de ce projet perspicace – dû plus à des raisons de politique intérieure qu’aux difficultés rencontrées (révoltes germaniques et illyriennes) – et le repli sur le Rhin et le Danube ordonné par Tibère, son successeur, constituèrent le tournant décisif de toute l’histoire stratégique romaine, car c’est sur ce front, entre mer du Nord et mer Noire, qu’allait se décider le destin de l’Empire et, par suite, de l’Europe. Cette décision, qui devait se révéler définitive, eut une double conséquence : d’une part, elle entraîna le retour, sur un mode élargi, à l’empire méditerranéen, caractérisé par un manque de profondeur stratégique sur le théâtre européen, et, d’autre part, elle redonna, par contrecoup et comme sous la République, la priorité à l’Orient et à ses mirages. Ce choix équivalait à une faute géopolitique capitale dont, aujourd’hui encore, la portée historique semble échapper autant aux historiens qu’à Stemmelen, qui écrit benoîtement que « Julien, comme bien avant lui Trajan ou Septime Sévère, avait compris que l’Orient pourrait redonner à l’empire romain une raison d’être et une identité collective » (p. 163).

 

Aussi, s’il n’y eut manifestement pas progression linéaire mais basculement du monde traditionnel vers l’ordre nouveau, la raison première en fut, selon toute apparence, la conjonction fatale entre les fragilités internes du régime impérial et une configuration géopolitique au plus haut point défavorable. La crise, déjà latente depuis la fin du IIe siècle, atteint son maximum au cours du IIIe, surtout durant les cinquante années qui s’écoulent de l’assassinat d’Alexandre Sévère (235) à la proclamation de Dioclétien (284). L’Empire est alors confronté à des attaques de grande ampleur simultanément sur plusieurs fronts. À l’est, sur le plateau iranien, la dynastie parthe déclinante cède la place à celle, beaucoup plus agressive, des Sassanides, lesquels se réclament de l’héritage des Achéménides, jadis vaincus par Alexandre le Grand ; en clair, ils revendiquent tout l’Orient romain et percent les défenses de celui-ci jusqu’à la Méditerranée. Au sud, les nomades du désert africain multiplient les razzias. Enfin, les peuples germaniques et leurs alliés s’ébranlent sur un front allant de la mer du Nord à la mer Noire, et lancent une multitudes de raids sans cesse renouvelés sur les provinces européennes de l’Empire : bientôt l’Espagne, l’Italie, la Grèce et même l’Asie Mineure sont touchées. La profonde dénivellation culturelle séparant l’Europe romaine des « Barbares » avait été l’occasion pour ces derniers de se mettre à l’école de la civilisation romaine, tout comme il l’avaient fait, jadis, à celle des Celtes laténiens. L’archéologie révèle aujourd’hui l’ampleur des influences exercées par Rome sur ses voisins du Nord – à travers une diplomatie active, un commerce téléguidé, un recrutement assidu de mercenaires et un transfert étonnant de richesses et de technologies. Le résultat fut une militarisation et une organisation croissante des sociétés germaniques, dont les liens gentilices furent de plus en plus doublés par des structures politico-guerrières héritées des Celtes d’Europe centrale et perfectionnées au contact de la machinerie militaire romaine, celles des comitatus (all. Gefolgschaften) vouant, par serment, de grandes compagnies à des chefs de guerre entreprenants, capables de mener des actions prédatrices et de redistribuer ensuite le butin accumulé.

 

Sous cette formidable pression, le système défensif romain fut débordé et le transfert répété de troupes du front européen vers l’Orient entraîna la ruée toujours renouvelée de véritables armées germaniques vers les richesses convoitées du Sud. Pillages, destructions, massacres et déportations de prisonniers ne se comptèrent plus ; les provinces européennes furent ainsi le plus durement touchées et c’est là qu’on peut voir se profiler, à des degrés variables, le plus d’impacts économiques et sociaux. Le paroxysme fut atteint en 260, lorsque la défaite et la capture de l’empereur Valérien par les Perses entraîna la sécession de pans entiers de l’Empire, contraints de prendre acte de la défaillance du pouvoir central et d’assurer eux-mêmes leur défense. Les pronunciamientos et les usurpations, autant que les guerres internes et externes, consacrèrent le rôle démesuré des armées et achevèrent ainsi de désorganiser l’État. Celui-ci, en la personne des « empereurs-soldats », n’eut alors de cesse de se trouver une nouvelle légitimation capable de mobiliser les forces nécessaires à la reconquista et à la restauration de l’Empire. C’est dans ce contexte de chaos à peine maîtrisé que se place la totale refonte des institutions tentée par Dioclétien, encore placée sous les auspices de la religion romaine traditionnelle, et qui devait aboutir à l’éphémère système tétrarchique. C’est toujours dans ce contexte que le rebelle Constantin cherchera à imposer son pouvoir, cette fois, selon Stemmelen, en s’appuyant sur un tout nouveau parti de possédants et dans un esprit révolutionnaire implacable et sans scrupules que perpétueront ses successeurs. Jésus dit le « Christ », l’icône du nouveau régime, n’avait-il pas été explicite, en son temps, lorsqu’il déclarait sans ambages : « Quant à mes ennemis, ceux qui n’ont pas voulu que je règne sur eux, amenez-les ici, et égorgez-les en ma présence » (Luc, 19, 27).

 

Conclusion : l’Histoire officielle mérite, à maints égards, une révision radicale. Les « racines chrétiennes de l’Europe », dont on nous rabat les oreilles, constituent un mensonge absolu : depuis quand des racines se trouvent-elles si haut sur l’arbre ? La christianisation fut un accident tardif de l’histoire européenne. Celle-ci plonge ses vraies racines bien plus loin, dans un passé fabuleux dont le Parthénon, les mégalithes et la grotte Chauvet ne sont que des étapes parmi tant d’autres. C’est en cela qu’il faut saluer le bel effort de Stemmelen : « La religion des Seigneurs » est un essai et, comme tel, l’ouvrage n’est pas exempt d’objections critiques, mais il n’en demeure pas moins un livre documenté et stimulant pour la discussion, d’autant que l’importance de son sujet n’est pas à démontrer.

Willy Fréson, juin 2011.

willy.freson@hotmail.com

mercredi, 01 juin 2011

Iran: Khamenei contre la "culture laïque" d'Ahmadinedjad

Ferdinando CALDA :

Iran : Khamenei contre la « culture laïque » d’Ahmadinedjad

 

Le « Guide Suprême » ordonne la création d’un organe politique pour contrer la politique culturelle « nationaliste » du Président

 

Mahmoud-Ahmadinejad.jpgLa politique culturelle du gouvernement iranien de Mahmoud Ahmadinedjad est jugée désormais « laïque » et « nationaliste » par les tenants d’un islamisme strict et sourcilleux. L’Ayatollah Ali Khamenei et le clergé « conservateur », duquel il est fort proche, jugent qu’il faut mettre un holà à cette politique « impie ».  Les choses sont allées loin : le « Guide Suprême » a ordonné la création d’un « Conseil culturel supérieur pour le Progrès », afin d’influencer directement les orientations culturelles du pays.

 

Ce nouveau conseil, explique le site d’information « Digarban », travaillera parallèlement au « Conseil supérieur de la Révolution Culturelle », contrôlé, lui, par la Présidence. En pratique, il s’agit d’un organe politique faisant office de « doublure » et à l’intérieur duquel on ne retrouve aucun membre de l’équipe gouvernementale. Le « Conseil Supérieur de la Révolution Culturelle » est un organe de décision en République islamique d’Iran, qui a pour tâche de fixer les orientations politico-culturelles du pays. Les tâches de ce Conseil comprennent dès lors, entre bien d’autres choses, d’accorder des licences pour fonder des universités ou des facultés universitaires privées et d’assumer la coordination de tous les centres culturels du pays.

 

La démarche que vient de poser Khamenei, ajoute le site « Digarban », pourrait lui permettre d’intervenir directement en matières de politiques culturelles sans devoir passer par l’autre Conseil, celui que contrôle la Présidence.

 

Cela fait un petit temps déjà que les milieux conservateurs et religieux iraniens critiquent Ahmadinedjad sous prétexte qu’il mènerait une politique trop inspirée par le nationalisme iranien classique plutôt que par l’islamisme. Pendant l’été 2010, le chef de cabinet Esfandiar Rahim-Mashai avait insisté sur la nécessité, pour l’Iran, de créer une « école iranienne » au sein de l’Islam, afin, laissait-il sous-entendre, d’accorder la priorité aux intérêts réels du pays.

 

Or c’est justement contre Rahim-Mashai, bras droit d’Ahmadinedjad, que se sont déchainées les attaques « conservatrices » de ces dernières semaines, culminant dans l’accusation de « sorcellerie » ! Suite à cette accusation, plusieurs collaborateurs du Président ont été arrêtés.

 

Ces dernières semaines, le conflit entre Ahmadinedjad et l’aile ultraconservatrice du clergé, dirigée par le président du Parlement Ali Larijani et du puissant ex-Président Akbar Hashemi Rafsanjani, s’est considérablement envenimé. D’une part, le Président a procédé à un remaniement significatif du gouvernement pour assurer à ses plus fidèles alliés les positions clefs ; d’autre part, ses adversaires ont lâché contre lui la magistrature, pouvoir constitutionnel proche du « Guide Suprême » et des « conservateurs » (le chef de la magistrature iranienne actuelle est l’Ayatollah Sadeq Amoli Larijani, frère d’Ali Larijani).

 

A la mi-mai 2011, plusieurs sites de l’Internet, favorables à Ahmadinedjad, ont été fermés ou ne sont plus accessibles. Face à ces attaques, les forces qui soutiennent le Président ont fait savoir qu’elles étaient prêtes à faire descendre dans les rues de Téhéran des centaines de milliers de gens pour protester avec toute la véhémence voulue contre la politique d’intimidation qu’orchestre, contre la politique présidentielle, le clergé autour de Khamenei.

 

Ferdinando CALDA ( f.calda@rinascita.eu ).

 

(article paru dans « Rinascita », Rome, 25 mai 2011 – http://www.rinascita.eu ). 

dimanche, 08 mai 2011

Inflation der Wunder

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Inflation der Wunder

Baal MÜLLER

Ex: http://www.jungefreiehit.de/

Erstaunlicherweise war gerade das zwanzigste Jahrhundert ein Jahrhundert des Wunders und der Heiligkeit – jedenfalls wenn man dafür die Zahl der Heilig- und Seligsprechungen, zu deren Voraussetzungen mindestens ein durch den Kandidaten gewirktes Wunder gehört, als Indikator nimmt: Allein während des Pontifikats Johannes Pauls II. (1978 bis 2005) wurden 1820 Wunder (482 von Heiligen und 1338 von Seligen) anerkannt; der gesamte Zeitraum vom Beginn des Verfahrens 1588 bis 1978 brachte es nur auf 302 Heiligsprechungen, wie Jürgen Kaube in seiner Rezension des Sammelbandes „Wunder – Poetik und Politik des Staunens im 20. Jahrhundertvon Alexander Geppert und Till Kössler mitteilt (FAZ online vom 23. April 2011).

Mehr als achtzig Prozent aller Heiligsprechungen erfolgte im zwanzigsten Jahrhundert; über die Hälfte dieser „neuen Heiligen“ stammt überraschenderweise aus dem wenig christlich geprägten Ostasien – China, Korea und Vietnam –, erst danach folgen traditionell katholische Länder wie Italien und Spanien, Polen oder Mexiko.

Inflationäre Produktion von Heiligen

„Was Gott bewegt hat, gerade in diesem Zeitabschnitt und in diesen Regionen mit Wundern nicht zu geizen, darüber kann nur spekuliert werden“, merkt Kaube ein wenig süffisant an und zieht eine Parallele von den in der Nachkriegszeit besonders häufigen Marienerscheinungen zum Wirtschaftswunder – der Soziologe Rudolf Stichweh vergleicht die „Produktion von Heiligen“ sogar mit der „inflationären Versorgung von Wirtschaft mit Geld“ und entwirft in diesem Zusammenhang eine „allgemeine Theorie der Funktionssystemkrise“.

Freilich hinken diese systemtheoretischen – in der Sache recht marxistischen – Vergleiche selbst dann ziemlich, wenn man sich, zwecks überprüfenden Nach-Denkens, auf das ihnen zugrundeliegende ökonomische Modell einläßt: Die katholische Kirche erscheint dann zwar als eine Institution, die ihren Gläubigen Dienstleistungen erbringt, indem sie Lebenssinn stiftet und metaphysische Tröstung spendet, aber die Heiligen sind in diesem System wohl kaum eine „Währung“, sondern ein Teilaspekt oder Ausdruck der Sinnstiftung, die von den Gläubigen – eher im Sinne eines Tauschgeschäftes – mit Glauben sowie aus diesem resultierenden materiellen Zuwendungen (Spenden, Kirchensteuern) „bezahlt“ wird.

Wunder brauchen Kausalgefüge

Unabhängig von diesem allzu schlichten Schematismus ist die „Konjunktur“ des Wunders in der wissenschaftsgläubigen Moderne verwunderlich, ja fast schon selbst ein Wunder. Einerseits wäre zu erwarten, daß der Wunderglaube im Zuge des neuzeitlichen Rationalisierungsprozesses abgenommen hätte, andererseits setzt der Begriff des Wunders die Anerkennung von Naturgesetzen, das Prinzip einer durchgängigen, empirisch nachvollziehbaren Kausalkette, die durch das Wunder durchbrochen wird, überhaupt erst voraus.

Insofern ist es doch „kein Wunder“, daß die Neigung, die Welt als Kausalgefüge zu sehen, den Glauben an das Wunder befördert, denn dieser nimmt in dem Maße zu, in dem der forschende Verstand an immer neue Grenzen stößt, die er unter vorwissenschaftlich-archaischen Bedingungen gar nicht wahrnehmen konnte. Als noch alles ein einziges, großes Wunder war, das den Menschen zum Staunen über das Sein überhaupt anregte – hierin liegt nach Aristoteles bekanntlich der Ursprung der Philosophie –, trat das einzelne, „kleine Wunder“, das hier und da eine Kausalkette durchbricht, noch gar nicht in das Gesichtsfeld.

Rationalisierung und Reduzierung Gottes

Diese Haltung des mythischen Menschen wiederholt sich auf rationalisierter Stufe im Pantheismus der Aufklärung, die das Wunder für überflüssigen Aberglauben erklärte, da Gott allein in den Naturgesetzen wirke; der nächste Schritt war dann freilich, einen solchen, lediglich auf eine reine Gesetzlichkeit reduzierten Gott selbst als überflüssig anzusehen.

Weder in einer völlig irrationalen noch in einer gänzlich durchrationalisierten Welt hat das Wunder seinen Platz, sondern nur in der Durchdringung beider, in der es gleichsam die Schnittstellen und Übergänge besetzt, die sich mit dem Forschungsprozeß immer wieder verschieben. Hatte der „Paradoxograph“ Phlegon von Tralles im zweiten Jahrhundert zahlreiche mittlerweile erklärbare Erscheinungen unserer Lebenswelt wie Hermaphroditismus oder Mißgeburten aller Art als Wunder verzeichnet, so drängt sich heute das „Wunderbare“ vor allem im unendlich Kleinen oder Großen, in Quanten- und Astrophysik auf.

Auch wenn Gott „tot“ ist, wird es in Zukunft noch Wunder geben: das große, philosophische, daß „überhaupt etwas ist und nicht vielmehr nichts“ (Heidegger), und die zahllosen „kleinen“, gleichsam theologischen Wunder, die dort aufscheinen, wo sich das alle menschlichen Maße transzendierende Sein „als Ganzes“ dem Forschungsdrang immer aufs Neue entzieht.

mercredi, 09 mars 2011

Tancrède Josseran: "L'AKP veut faire de l'islam le ciment du futur pacte social"

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Tancrède Josseran : "L'AKP veut faire de l'Islam le ciment du futur pacte social"

 

Tancrède Josseran, Directeur de l’Observatoire du monde turc et des relations euro-turques, chercheur en géopolitique et auteur de La nouvelle puissance turque - L'adieu à Mustapha Kemal répond aux questions de Scripto.

Tancrède Josseran l'affirme: aujourd'hui déjà et peut-être demain plus encore la Turquie sera une grande puissance avec laquelle il faudra compter.

Entretien réalisé par Maurice Gendre


 

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Quels sont les éléments qui ont favorisé une réislamisation de la Turquie ?

La fin de la Seconde guerre mondiale laisse la Turquie dans une situation difficile. Dés le Printemps 1945, Ankara doit faire face à des revendications soviétiques. Moscou exige une révision du régime des détroits et la restitution des vilayets orientaux de Kars et Ardahan. Vestige de l’Europe autoritaire des années trente, l’Etat kémaliste, en raison de sa prudente neutralité lors du conflit, est très isolé.

Accablés par la menace soviétique, les dirigeants turcs comprennent qu’ils sont condamnés à faire des concessions. Exigé par les Alliés lors de la Conférence de San Francisco, le passage du parti unique au multipartisme entérine une rupture avec le volontarisme républicain des origines. Une cassure qui marque une régression du mouvement de laïcisation du pays. Dés lors, suivant la logique de l’alternance, les forces politiques et religieuses que l’on croyait annihilées par vingt-cinq ans d’autoritarisme, ressurgissent comme si de rien n’était.

En 1950, le Parti Démocrate arrive au pouvoir. Ces dirigeants, Celal Bayard, Adnan Menderes, bien qu’issus du sérail républicain, savent parfaitement exploiter le sentiment d’exaspération de la population envers une élite bureaucratico-militaire engoncée dans ses privilèges et à la rhétorique abstraite. Critiquant l’absence de libertés et la place disproportionnée de l’Etat, les dirigeants démocrates bâtissent une synthèse où libéralisme politique, économique et religieux s’alimentent réciproquement. Cette formule demeure plus d’un demi-siècle une constante des partis de droite libéralo-conservateurs ou religieux en Turquie. Le multipartisme a fait de l’islam un enjeu électoral. Les partis conservateurs et islamistes ont su parler la même langue que le peuple, d’où leurs succès.

Par ailleurs, dans un contexte de guerre froide, l’islam sert de ciment à l’unité nationale. Ce processus est encouragé par l’ensemble de l’arc politique, désireux d’allumer des contre feux contre le péril rouge. Ainsi, très paradoxalement, c’est l’armée qui après le coup de force du 12 septembre 1980, réintègre l’islam  dans le continuum de l’histoire nationale.

Selon, la synthèse islamo-nationaliste, la religion est l’essence de la culture et  la culture est imprégnée par la religion. L’islam a transcendé la culture turque qui sans lui aurait dépéri ; et inversement, la civilisation turque a sauvegardé la foi du Prophète qui sans elle aurait disparu sous les coups de boutoir des croisés au XI siècle. A la différence de l’islam politique, l’islam promu par l’armée est un moyen, non une fin en soi. Il s’agit d’enraciner des valeurs nationales et conservatrices : la famille, l’armée, la mosquée pour barrer la route à la subversion gauchiste.

Cruel dilemme, les militaires prennent le risque d’asseoir le nouvel « Etat national » sur la base de forces religieuses qui immanquablement chercheront à un moment ou un autre à s’émanciper. L’Etat ayant pris comme référent identitaire la religion, il est en somme naturel que le parti le plus proche de ses aspirations apparaisse à un moment ou à un autre comme un recours et s’impose comme force prépondérante.

De plus, le fonctionnement même du système laïc turc est équivoque dans la mesure où il autorise une certaine forme de prosélytisme. Il s’agit d’une laïcité concordataire. Il n’existe pas stricto sensu de séparation entre l’Etat et la mosquée. Au contraire, la mosquée est encasernée par l’Etat à travers le Ministère des cultes, le Dinayet. Les desservants des cultes obéissent aux règles de la fonction publique. Seule l’Islam sunnite de rite hannafite est reconnu à l’exclusion des autres branches de l’islam turc comme l’alévisme (branche hétérodoxe du chiisme). Le sermon est prononcé au nom de la République. Dans la constitution (article 24) est inscrite l’obligation des cours de religion dans le cursus scolaire.

Mais la réislamisation ne peut se comprendre, si l’on fait abstraction des bouleversements de la société turque. A partir de 1950, la mécanisation de l’agriculture et le début de l’industrialisation provoquent un mouvement d’exode rural. Ces mouvements migratoires entraînent un changement radical du substrat de population mais  aussi des implications politiques. Ils concourent à bouleverser le kémalisme institutionnel. Jusqu’à cette date, l’appareil d’Etat était encore largement dominé par les héritiers de la bureaucratie ottomane souvent originaire des Balkans.

Faute de réelle politique urbaine, les migrants squattent les terrains vagues disponibles. Ils y vivent en toute illégalité dans un habitat précaire ou gecekondu (maison construite la nuit). Dans les années 1980, 70% de la population d’Ankara vivait dans des bidonvilles. Cette proportion atteint 55% à Istanbul, Izmir, Adana. Le conflit qui éclate dans le Sud-Est de l’Anatolie en 1984 amplifie l’exode rural. En quête de normalisation et d’accès aux services, les habitants de ces quartiers deviennent un enjeu électoral déterminant pour les partis politiques religieux ou conservateurs.

A ce stade, les nouveaux arrivants se raccrochent à l’islam comme fil conducteur de leur vie de tous les jours. Pour celui qui se demande d’où il vient et qui il est, la religion apporte une consolation et une assurance sur les fins dernières. Les croyants forment de petites communautés sociales identiques à celles que l’exode rural a fait disparaître. La mosquée offre aux nouveaux arrivants un point de repère. Entre 1973 et 1999, le nombre de mosquée passe de 45 000 à 75 000. La religion donne à ces déclassés une identité propre et des certitudes dans un monde en proie aux distorsions sociales et économiques.

Quel événement ou quel phénomène provoqua le basculement décisif vers l’islam ?

En Turquie, les élites au pouvoir depuis 1923 sont le fruit d’un processus révolutionnaire et non le produit d’un consensus global. L’Etat kémaliste s’est construit au corps défendant de la société et celle-ci ne s’est jamais identifiée à ses élites perçues  comme lointaines, impies, étrangères. La grande crainte des cercles laïcs et militaires a toujours été de voir la société s’émanciper de la tutelle étatique pour acquérir les moyens d’engendrer ses propres élites en dehors du cadre républicain.

A ses débuts, la République turque s’oriente résolument vers une économie dirigiste. Ce volontarisme se traduit par une politique autarcique de substitution des exportations. A la fin des années 70, ce modèle commence à montrer des signes d’essoufflement. Le pays est au bord de la banqueroute. L’Etat turc ne peut plus honorer ses créanciers. La livre perd la moitié de sa valeur. L’inflation explose et atteint les 120%.

Cette crise débouche en septembre 1980 sur le coup d’Etat militaire. En échange du rééchelonnement de la dette extérieure et d’un apport en argent frais, la junte au pouvoir s’engage à ouvrir les frontières, libéraliser les prix, geler les salaires, laisser flotter les taux d’intérêt. La victoire inattendue de Türgüt Özal en 1983 à l’occasion des premières élections libres, s’apparente à un vote sanction. Prisonnier du « politique d’abord », les militaires turcs ne comprennent pas tout de suite que le libéralisme économique dont se prévaut avec leur appui le nouveau Premier ministre, ne pourra un jour manquer de se manifester de manière politique. Proche de la confrérie des Nakshibendis et lié à la finance islamique, Özal regroupe avec l’appui discret des confréries autour du Parti de la mère patrie, l’essentiel de la droite turque. Ses différents mandats sont marqués par une ouverture sans précédent au marché mondial, à la concurrence et à son cortège de déréglementations.

Le développement d’un tissu dynamique de PMI-PME est le premier objectif de la politique d’Özal. Appelés communément les « Tigres anatoliens », ces nouveaux entrepreneurs jouent un rôle déterminant dans l’ouverture à la mondialisation de nombreuses villes d’Anatolie. Les relations étroites que ces entrepreneurs généralement liés à des groupes confrériques entretiennent avec les pétromonarchies du Golfe, permettent l’afflux de capitaux. Ces nouveaux acteurs rassemblent des entrepreneurs du BTP, des restaurateurs, des artisans commerçants.

Beaucoup de ces entreprises sont familiales et maintiennent d’autant plus activement des valeurs conservatrices et paternalistes. Cette petite bourgeoisie trouve dans l’éthique religieuse la confiance nécessaire pour affronter la concurrence des lourds conglomérats du patronat laïc. Les associations d’entrepreneurs musulmans à l’exemple du MÜSIAD, offrent à leurs membres un réseau efficace qui leur permet de peser de manière concertée sur les pouvoirs publics. L’émergence d’une bourgeoisie anatolienne a progressivement constitué un contrepoids à l’alliance traditionnelle entre l’Etat et le capitalisme classique d’Istanbul.

Loin de se laisser absorber par le maelström urbain, les migrants ayant réussi en ville ont maintenu de solides liens avec leurs villes ou leurs villages d’origine. Pris en charge par des foyers étudiants Nurcu ou Nakshibendis à l’occasion de leurs études universitaires, les nouveaux entrepreneurs ont intériorisé une très forte conscience religieuse très éloignée du seul conformisme social. Ces élites sont conscientes d’être musulmanes parce qu’elles choisissent délibérément de vivre, travailler, en accord avec leur conception profonde du monde.

Dans ce processus, les ordres soufis ont fonctionné comme des réseaux informels. La croissance économique des années 1980 transforme les classiques réseaux religieux en un instrument de mobilité sociale. En dehors des instances gouvernementales, c’est une véritable alter-société qui se met en place.

L’islam social contourne la laïcité et libère l’expression publique de convictions qui jusqu’alors restaient confinées dans la sphère du privé. Les fondations religieuses investissent les domaines profanes. Grâce à l’apport en capital de la bourgeoisie islamiste, des maisons d’édition sont crées, des journaux édités, des chaînes de TV et de radio voient le jour. Situé hors de la tutelle étatique, ces médias permettent l’éclosion d’une nouvelle génération d’intellectuels musulmans et l’émergence d’une véritable contre-culture de masse. De proche en proche, les modes de vie et de pensée se modifient et c’est toute la société qui au final se reconstruit sur des valeurs religieuses.

En 1996, le Parti de la Prospérité de Necemettin Erbakan arrive au pouvoir. La formation islamiste opte pour une stratégie de rupture globale avec l’ordre établi comme la levée de l’interdiction du port du voile. Dans le domaine de la politique étrangère, Erbakan très hostile à Bruxelles qu’il considère comme un club chrétien, tourne le dos à l’Union européenne avec l’idée de lui substituer un marché commun musulman dont la Turquie serait le point de ralliement. Rapidement, la situation se tend avec l’armée et les élites traditionnelles. Autant pour des raisons de pouvoir que d’idéologie, l’armée intervient le 28 février 1997 via le Conseil national de sécurité. Le Conseil accule Erbakan par une série de recommandations à la démission.

L’intermède gouvernemental du Refah va amener l’aile réformatrice du parti à repenser les termes et les moyens de l’action politique. Un constat s’impose, la rupture a échoué. Le parti islamiste dénué d’appui et condamné à la stratégie du seul contre tous s’est retrouvé totalement marginalisé aussi bien sur la scène nationale qu’internationale.

Parmi les jeunes rénovateurs, un homme se distingue, il s’agit de Recep Tayip Erdogan. Diplômé d’un lycée d’imams et économiste de formation, il est élu maire d’Istanbul en 1994. Plébiscité pour sa gestion d’Istanbul. Erdogan crée en 2001 le Parti de la Justice et du développement (Adalet Kalkinma partisi-AKP).

Rejetant l’opposition frontale, Erdogan opte pour une ligne réformiste d’apaisement, il élude du programme les aspects les plus polémiques. Refusant le qualificatif d’islamiste, il définit son mouvement comme fondé sur une approche «  démocrate et conservatrice ». Le parti prône l’intégration à l’Union Européenne, l’économie de marché et la défense des valeurs traditionnelles, synonyme habile pour désigner l’islam.

La victoire de l’AKP en 2002 (34%) révèle le vote sanction d’une population turque exaspérée par les scandales politico-financiers à répétition d’une élite occidentalisée coupée du pays. Profitant de l’effondrement des partis de centre droit qui avaient fixé des années 1950 à 1990 l’électorat conservateur et musulman, c’est toute la droite turque qui se retrouve rassemblée sous la baguette de l’AKP.

Le recours à des intermédiaires choisis en dehors de la mouvance islamiste, patronat occidentalisé, intellectuels libéraux, Etats-Unis, Union Européenne, explique la réussite d’Erdogan.

Peut-on parler d’une politique néo-ottomane ?

Le grand architecte de la politique étrangère de la Turquie est Ahmet Davutoglu. Longtemps conseiller diplomatique d’Erdogan, il occupe depuis 2009 le poste de ministre des Affaires étrangères. Davutoglu défend une approche civilisationnelle des relations internationales. La Turquie appartient hiérarchiquement à trois ensembles distincts :

-Le monde musulman au sud.

-L’Eurasie à l’Est

-L’Occident à l’Ouest.

Le retard pris à tous points de vue par le monde musulman est une préoccupation récurrente de ses écrits. La Turquie est l’éclaireur du monde islamique sur les routes de la mondialisation. Davutoglu ne rejette pas l’orientation vers l’Occident mais les autres options ne doivent pas être sacrifiées à son seul bénéfice. De Sarajevo à Bagdad en passant par Istanbul et Grozny, une même communion d’âme existe : l’Islam et le souvenir de l’Empire ottoman. A la tête du monde islamique écrit Davutoglu dans son ouvrage majeur, Stratejik derinlik (Profondeur stratégique) :

« Le califat représente l’union politique et spirituelle…où les limites intérieures entre les communautés  n’existent pas et où les communautés musulmanes au-delà des frontières sont sous la responsabilité de l’Etat ottoman ».

Une lobotomie culturelle a fait perdre à la Turquie son identité profonde. Un retour dans la trajectoire du monde islamique s’impose. Emprisonnée derrière les barreaux étroits de
l’Etat-nation, Ankara est condamnée à renouer avec son environnement culturel et historique. Seulement à cette condition expresse elle sera capable de tirer le meilleur parti de la mondialisation.

Pour Davututoglu : « La guerre froide avec son statisme obligatoire formait un obstacle au développement de la profondeur géographique et historique. Avec sa fin, les facteurs géopolitiques, économiques, culturelles sont revenus sur le devant de la scène et influencent les relations internationales. L’exemple des Balkans démontre que la guerre froide n’a caché qu’un cour moment le chaos inhérent à la région ».

Ce néo-ottomanisme entre en collision avec les conceptions traditionnelles de la République : « Paix dans le monde, paix dans le pays ». Se contenter du statu quo d’une politique isolationniste serait dans l’esprit du Ministre assigner la Turquie à un rôle périphérique, la rendant otage des luttes entre puissance terrestre et maritime. La Turquie est la future puissance centrale, nouvel empire du milieu aux convergences des routes Nord-Sud.

Avec quels autres pays la Turquie entretient-elle les meilleurs rapports ? Et les plus mauvais ?

Opposé à la guerre en Irak, Davutoglu milite en faveur d’une politique étrangère garante des intérêts nationaux. Il ne s’agit plus uniquement de servir de relais à la politique de Washington et de l’OTAN dans la région :

-          La Turquie en raison de son emplacement est apte à jouer un rôle de médiateur. En assumant, son passé ottoman et sa stature de grande puissance islamique, Ankara veut créer un environnement propice à une redéfinition des rapports de force au Moyen-Orient.

-          En se présentant comme la sentinelle des routes énergétiques dans la région (Mer Noire, Caucase, Bosphore, Mer Egée) Ankara ambitionne de devenir un collecteur énergétique. Point de passage obligé des pipelines et gazoducs (Blue stream, Nabucco, BTC)  reliant les bassins producteurs d’Asie Centrale, de la Caspienne et les bassins consommateurs de l’ouest.

-          En dernier lieu, la Turquie estime qu’elle est en raison de sa capacité à concilier foi, démocratie et économie de marché, la mieux à même de proposer un modèle pour les Etats de la région. Ce projet d’islam modéré est sous tendu par le constat que face à des systèmes de gouvernement autoritaire discrédités et d’élites laïques en perte de vitesse (Egypte, Tunisie, Algérie), une démocratie musulmane aux solides assises sociales est l’antidote idéal contre le terrorisme djihadiste.

Hâtivement taxée d’antiaméricaine par certains observateurs, les orientations stratégiques de Davutoglu sont moins manichéennes. Le fait que la Turquie puisse s’affranchir ponctuellement de la tutelle américaine n’est pas forcément nuisible. La Turquie est ainsi plus écoutée ; elle devient à la fois une porte ouverte sur l’ouest et un exemple à suivre. En somme, les Etats-Unis devraient encourager la société turque dans ses mutations et, sans interférer, laisser Ankara par le dialogue attirer l’ensemble des pays de la région dans son sillage. Le récent rapprochement turco-syrien peut amener Damas à ouvrir des pourparlers de paix avec Israël mais aussi le régime baasiste à évoluer de l’intérieur.

Cependant, cette politique multidirectionnelle à des revers. La volonté d’être présent partout comme le prouve l’ouverture de nombreuses représentations dans les pays d’Afrique noire entraîne une dispersion des moyens. D’autre part, Davutoglu est perçu par nombre d’observateurs comme un hyperactif, faisant des déclarations à l’emporte pièce d’un pays à l’autre dans le seul but de satisfaire l’interlocuteur du moment.

Deux pays illustrent parfaitement la nouvelle donne diplomatique  turque : Israël et l’Iran.

-          Depuis le début des années 2000, une dégradation sensible des relations entre Tel-Aviv et Ankara et perceptible. Ce relâchement s’explique par la volonté turque d’apparaître comme une puissance islamique crédible aux yeux de la rue arabe. D’autant que depuis 2004, la Turquie préside l’Organisation de la Conférence Islamique. En raison de son rapprochement avec la Syrie, Israël a perdu de son importance stratégique pour Ankara. Jusqu’alors, elle faisait office d’alliance de revers contre Damas.  Néanmoins, l’AKP a conscience des lignes rouges à ne pas dépasser. Le fait d’entretenir des relations « civilisées » avec Israël est un formidable passeport de respectabilité pour des islamistes qui ne se privent pas de le rappeler continuellement aux Occidentaux. Dépourvu de lobby puissant aux Etats-Unis au contraire des Grecs et des Arméniens, les Turcs sont obligés de recourir aux groupes de pressions pro-israélien au Congrès pour contrecarrer les résolutions visant à reconnaître le génocide arménien. L’unicité de la Shoah est souvent mise en avant pour justifier ces positions.

-          Inversement, les rapports entre la Turquie et l’Iran se sont considérablement améliorés. Malgré les vives réserves émises par les Etats-Unis, les deux pays oeuvrent depuis 2007 à la constitution d’un partenariat énergétique. Un oléoduc reliant les réserves de gaz et d’hydrocarbures de la Caspienne est en passe de matérialiser ce projet. Face au jeu trouble de Washington qui instrumentalise les factions kurdes, Ankara et Téhéran développent une intense coopération dans la lutte contre le terrorisme. Cette politique a trouvé son aboutissement dans l’accord tripartite Iran /Brésil/ Turquie en juin 2010 au sujet du nucléaire. Toutefois, la propension de Davutoglu à ménager systématiquement Téhéran en refusant le vote de nouvelles sanctions aux Nations-Unies, soulève des interrogations jusque dans les couloirs du ministère des affaires étrangères à Ankara. Traditionnellement issus des élites occidentalisées, le corps diplomatique turc estime être instrumentalisé par Téhéran dans l’espoir  de gagner du temps. En outre, l’acquisition de capacité nucléaire civile, puis militaire obligerait Ankara à moyen ou long terme à marcher sur les brisées des Iraniens.

Quelles sont les principales lignes de fractures idéologiques, ethniques, confessionnelles qui traversent le pays ?

La chape uniformisatrice et égalisatrice de la République turque dissimule quelques 47 groupes minoritaires aux dénominateurs identitaires très variés (ethniques, religieux, linguistiques). Pourtant, les seules minorités que l’Etat turc reconnaisse officiellement sont celles inscrites dans le traité de Lausanne de 1923 (grecque, juive, arménienne). Si l’on reprend la définition retenue par les Nations Unies et admise par l’UE, la Turquie compterait entre quinze à vingt millions de Kurdes, douze à vingt millions d’Alévis (chiites duodécimains), plusieurs millions de Turcs originaires de l’ancien espace ottoman (Tcherkesses, Bosniaques, Bulgares, Albanais, Abkhazes, Arabes, Circassiens), quelques centaines de milliers de minoritaires chrétiens (Arméniens, Grecs orthodoxes, Assyro-chaldéens, protestants). Ce qui inquiète l’establishment militaro-laïc dans ce genre de recension, c’est qu’en définitive, les minoritaires rassembleraient entre 32 et 45 millions d’individus sur les 74 millions d’habitants du pays. Dans cette situation, les Turcs sunnites, c’est-à-dire le reste de la population, se retrouveraient dans une situation précaire  à l’image des Serbes de Yougoslavie ou des Arabes sunnites d’Irak.

Outre les clivages ethniques et religieux, il existe des clivages sociaux-culturelles. La Turquie est un pays Janus. A l’instar du dieu romain, elle regarde dans deux directions opposées. Ce dualisme se répercute dans la population. Jusqu’à une époque récente les strates supérieures de la société étaient dominées par les Turcs blancs. Ils reflètent l’homme nouveau appelé par Kemal : laïque, progressiste. Les Turcs noirs en revanche sont à l’image du pays réel, plus pauvres, plus croyants, plus conservateurs, plus nombreux.

Tant que les Turcs noirs restaient confinés au bas de la hiérarchie sociale, le pouvoir des élites occidentalisées n’était pas véritablement menacé. Tout à changé lorsque l’Etat, en retirant son emprise de la sphère économique, a libéré les énergies et a permis à ceux qui se trouvaient au bas de l’échelle sociale d’escalader un à un les barreaux. Sans difficulté, les Turcs noirs plébiscitent cette nouvelle élite qui leur ressemble. Leurs aptitudes à assimiler les règles de la mondialisation et à transformer l’argent en puissance politique et la puissance politique en argent, terrifient les vieilles élites kémalistes. Dépossédés de leur emprise économique, les Turcs blancs voient le parapluie étatique s’étioler sous les coups de boutoir conjuguer de la mondialisation et du processus d’adhésion à l’Union Européenne.

Les dirigeants de l’AKP conçoivent ce combat autant sous le prisme d’une lutte de classe que celui d’une guerre culturelle. La classe moyenne montante, tout en s’élevant, ne renonce pas à ses anciennes valeurs ; elle se contente juste de les redéfinir à l’aune de la modernité technique. L’AKP ne vise pas à l’élimination de ses adversaires mais à l’amener à se transformer de l’intérieur, à adopter une nouvelle conception de l’organisation sociale et politique. La conquête éthique des strates supérieures de la société est la meilleure manière d’enraciner durablement une assise. L’hégémonie culturelle est censée amener au final un changement global de régime.

Pouvez-vous nous éclairer sur les réseaux Ergenekon ? Qui sont les hommes qui se cachent derrière cette appellation ? Y avait-il un ou plusieurs Etats derrière eux ?

Au sud de la forêt sibérienne, les monts désolés de l’Altaï abritent le berceau originel des premiers turcs. Ces espaces désertiques occupent une place à part dans l’imaginaire national. Ils sont indissociables de la légende de l’Ergenekon. Une louve au pelage gris-bleu aurait recueilli et nourri deux enfants, les derniers survivants d’une tribu turque disparue. Le symbole a été par la suite repris par la droite radicale et l’Etat turc lui-même. Il figure sur les armes de la « République turque de Chypre ». Depuis le milieu des années 1990, le terme d’Ergenekon est associé à l’Etat profond (Derin Devlet).

L’Etat profond renvoie à l’existence d’un groupe formé de hauts fonctionnaires, de militaires, de membres des différents services de sécurité, agissant en marge du gouvernement pour œuvrer à la protection des intérêts nationaux, y compris par des moyens illégaux. L’organisation d’armées occultes remonte à l’époque ottomane. Mustapha Kemal utilise ces réseaux au cours de la guerre d’indépendance. En 1950, ces groupes sont organisés sous l’appellation d’Unité de guerre spéciale (Özel Harp Dairesi). Mission leur est confiée, dans l’hypothèse d’une invasion soviétique, d’organiser la résistance derrière les lignes ennemies. Après l’effondrement de l’URSS, l’activité de ces réseaux se déplace vers le Sud-Est du pays. Ils assurent l’élimination des membres du PKK et la collecte des renseignements. Le recrutement inclut d’anciens repentis du PKK, les Itirafci, et des militants de la droite radicale, proches des Loups Gris. Pourtant, les activités des différentes cellules n’ont jamais été contrôlées de manière centralisée. Les autorités laissent faire sans intervenir. A la fin des années 1990, les succès contre le PKK mettent en sommeil une partie des réseaux de contre-guérilla. D’autres basculent vers le banditisme. Si quelques-uns uns sont restés en relation avec les membres de l’appareil de sécurité et de l’Etat-major, il s’agit avant tout de contacts personnels très cloisonnés.

En réalité, c’est à l’occasion de l’arrivée au pouvoir de Necmettin Erbakan et surtout d’Erdogan que ces réseaux vont connaître une mue. L’anticommunisme avait vu l’arrivée d’un grand nombre de recrues séduites par la synthèse islamo-nationaliste. Avec la dénonciation du danger islamiste par l’armée, cette frange religieuse se trouve en porte à faux avec les nouveaux mots d’ordre de lutte. Il a donc fallu recentrer le vivier de recrutement en dehors des seuls rangs de la droite radicale.

Conséquence  des milieux laïques « respectables », universitaires, journalistiques sont jetés dans la fournaise de la lutte clandestine sans réelle préparation. Autre problème, le Parti d’Action Nationaliste (MHP-Milli Hareket Partisi) en quête de respectabilité renâcle à fournir les cadres nécessaires aux opérations comme elle faisait précédemment avec sa branche jeune (les Loups gris).

Dés lors, les recruteurs sont obligés de se rabattre sur la mouvance nationaliste autonome, moins formée et sans bases arrière véritables. Trop sûrs d’eux, ces réseaux ont eu la certitude que le fait d’agir  pour le bien de la patrie, même à son corps défendant, leur vaudrait l’impunité. Or, à la différence des décennies précédentes, il ne s’agit plus de lutter contre un ennemi subversif en marge de l’Etat, mais contre le gouvernement légitime sorti des urnes. En outre, à la différence de la guerre froide, ces réseaux ne bénéficient plus d’appui à l’étranger. Certes la presse islamiste a pointé du doigt les relations de certains des conjurés avec les cercles eurasistes russes (Alexandre Douguine) ou la mouvance néo-conservatrice américaine la plus radicale (Zeyno Baran). Mais d’un côté comme de l’autre, il s’agit  d’échanges de vues non de la mise en place d’un plan concerté. D’autant que la police fer de lance dans la lutte contre l’Ergenekon est  massivement infiltrée par la confrérie de Fethullah Gülen dont les liens avec la CIA sont avérés.

Mais ces unités de contre-guérilla ne sont pas l’Etat profond en lui-même, tout au plus ses exécutants ponctuels. Dans son extension large, l’Etat profond désigne l’armée. Cette idée est avancée par l’ancien Premier ministre Süleyman Demirel : « L’Etat profond, c’est l’Etat lui-même. L’Etat profond, c’est l’armée. La République est une émanation de l’armée qui a toujours craint l’effondrement de celle-ci. Le pays a besoin de l’Etat profond, sans lui il est désorienté, il y est soudé ».

La crainte majeure de l’Etat profond est de voir passer l’Etat civil sous l’emprise d’organisations  partisanes étrangères à son corpus de valeurs. C’est aujourd’hui le cas avec l’AKP. L’armée souhaite conserver le monopole du politique  par l’Etat. Défendre l’Etat, c’est bloquer l’accès des corps intermédiaires (partis, confréries religieuses) à la formation de la volonté politique.

Le rôle de l’armée est-il vraiment réduit à une peau de chagrin désormais ou n’est-ce qu’une simple illusion ?

La République est indissociablement liée à l’institution militaire. En 1923, l’armée pose les fondements de l’Etat, et l’Etat engendre la nation. Au XIX e siècle après le massacre des Janissaires, l’armée est l’une des rares institutions où l’élément turc domine sans partage. Les élites militaires se sentent naturellement investies de l’identité nationale. L’homogénéité contre l’hétérogénéité, tel est l’enjeu du processus de construction nationale initié par les militaires. Laïcité et intégrité du territoire sont les deux piliers. Sans laïcité, pas de lien national possible, mais sans unité, pas de cohésion politique, et par conséquent pas de laïcité. L’armée est politique puisqu’elle est l’Etat. Contre les antagonismes religieux, ethniques, religieux, sociaux, l’armée assure la sauvegarde de l’Etat et sa continuité à travers le temps.

Avec l’adhésion à l’Union Européenne, cette magistrature politique est directement remise en question. Le dépassement du stade national implique la neutralisation de son gardien : l’armée. Le Conseil de sécurité national est redéfini comme un organe consultatif. Ces recommandations n’ont plus de valeurs  impératives. Sa présidence est confiée à un civil et son secrétariat ouvert aux non militaires. L’ordre du jour des sujets abordés n’est plus fixé arbitrairement. La présence de membre du Conseil dans les  instances de contrôle des universités (YÖK) et de l’information (RTÜK) est éliminée. En matière de justice, l’armée perd ses privilèges. Les tribunaux civils sont habilités à juger les militaires en temps de paix.

L’AKP a parfaitement intégré l’avantage qu’il pouvait tirer du processus d’adhésion et entend bien utiliser « les standards de l’Union Européenne » comme levier d’Archimède. L’armée forme la quadrature du cercle du système républicain. Abaisser l’institution militaire, c’est casser l’Etat autoritaire, libérer l’expression religieuse, briser le rigide corset jacobin, exploser les dernières traverses sur la route de Bruxelles. Erdogan a compris que la laïcité autoritaire est soluble dans l’Europe. Les islamistes et l’UE se rejoignent pour renvoyer l’armée dans ses casernes.

Il existe un très fort malaise dans les forces armées turques. La découverte des projets de complots comme l’opération Balyoz (marteau) qui projetait après une série de provocations (attentats dans les grandes mosquées d’Istanbul, incident aérien avec la Grèce) de renverser l’AKP, a considérablement écorné l’image de l’institution militaire. Les dénégations maladroites et démagogiques de l’Etat-major n’ont pas arrangé les choses. Elles ont au contraire renforcé l’irritation des cadres subalternes qui estiment que l’échelon supérieur a failli à la tache et est incapable de préserver le pays d’un changement de régime.

Les réseaux sociaux de l’armée se font régulièrement l’écho de cette mauvaise humeur. A la pointe de la contestation contre l’AKP se trouve la gendarmerie. En lutte avec la police infiltrée depuis des années par les islamistes, elle voit ses prérogatives rognées les unes après les autres. Longtemps omniprésente dans les campagnes, la figure du gendarme turc est indissociable de la République. Véritable armée intérieure, elle a été pendant des années en première ligne de la révolution kémaliste. Dans les années 20, elle n’hésitait pas à passer par les armes les récalcitrants à l’interdiction du port du fez. Par la suite, elle a été en première ligne dans la lutte contre le séparatisme kurde et la collecte de renseignements sur la réaction religieuse. Il n’est donc nullement fortuit de constater l’implication  du service de renseignement de la gendarmerie, le JITEM,  dans le dossier Ergenekon.

A contrario, d’autres armes apparaissent plus perméable aux changements. L’armée de l’air serait  en proie à l’entrisme des confréries religieuses. Par ailleurs, le fait que régulièrement des plans d’opération ou des rapports d’Etat-major sortent dans la presse, indique que l’institution est contaminée. Les regards se tournent avec insistance en direction de la confrérie de Fethullah Gülen qui s’est faite remarquée dans le passé par des campagnes de prosélytisme dans les lycées militaires.

Les militaires ont conscience de la popularité de l’AKP, véritable incarnation du pays réel. Cependant, l’armée n’a pas renoncé à intervenir dans le champ politique. Elle attend le moment propice pour apparaître comme un recours face au désordre. La stratégie de la crise permanente orchestrée par l’AKP, a pour conséquence, de dresser les institutions les unes contre les autres (police contre armée, gouvernement contre haute-magistrature, gouvernement contre médias indépendants). Aussi, à l’occasion d’un faux pas des islamistes pris de démesure, elle pourrait se présenter comme la  garante de la paix civile et de la séparation des pouvoirs. Cela ne prendrait pas la forme d’un pronunciamiento classique avec parades des chars dans les rues d’Ankara, mais plutôt celle d’un communiqué symbolique en soutient à l’opposition laïque comme en 2007 au moment de l’élection présidentielle. Cependant, cette technique a prouvé à cette occasion ses limites. Sûr de l’appui des Américains et des Européens, plébiscité triomphalement par les urnes, l’AKP avait passé outre l’ultimatum.

Un retour au kémalisme est-il encore jouable ? Si oui, comment et pourquoi ?

Le sociologue italien Vilfredo Pareto remarque que les mêmes idéaux qui sont une force pour l’élite montante, deviennent pour l’élite en place une source de faiblesse quand elle les accepte par mauvaise conscience ou sentimentalisme. Le soutient d’une fraction du patronat laïc et des intellectuels libéraux au processus de démantèlement de l’Etat autoritaire au nom de la démocratisation et de l’intégration à la mondialisation libérale, est symptomatique de cet état d’esprit. L’élite au pouvoir se laisse aller à une forme d’autodénigrement qui finit par saper sa légitimité. Or, si certaines franges de l’establishment laïc ont abandonné le combat, d’autres, à l’image de l’appareil bureaucratique et militaire, s’accrochent avec l’énergie du désespoir à leur rente.

Le problème est que le paradigme kémaliste des anciennes élites est entré en phase terminale. Trop souvent la rhétorique laïque a servi à justifier la domination des Turcs blancs, le pays légal, sur le pays réel, les Turcs noirs. De plus, avec la mondialisation, le processus d’intégration à l’Union Européenne, le projet anglo-saxon d’islam modéré, c’est l’idée même d’Etat-nation, et donc sa religion civique, la laïcité qui est battue en brèche.

Conscients de ces évolutions, les intellectuels kémalistes essayent de réactiver la matrice nationaliste révolutionnaire composante essentielle du kémalisme originel. Cette réhabilitation du concept de nation, passe par de nouvelles convergences. On assiste depuis plusieurs années à travers le mouvement souverainiste (ulusaci) à un rapprochement entre la droite radicale et la gauche kémaliste. Les tenants de cette synthèse (Suat Ilhan, Dogru Perincek, Ümit Özdag, Vural Savas) conjuguent le rejet de l’impérialisme occidental avec celui de l’affirmation d’une identité nationale et étatique forte. Hostiles au processus d’adhésion à l’UE, favorables à la constitution d’un axe continental eurasiatique avec Moscou, rejetant le libéralisme transnational, ce courant fait également appel aux grands canons du kémalisme traditionnel : refus des alliances militaires inégales et donc sortie de l’OTAN, insistance sur l’idée d’une voie particulière au monde turc.
Alternative à l’Union Européenne, l’Eurasisme, rencontre une large audience dans les rangs de l’armée. Mais elle se heurte aux réalités. Tout d’abord, l’armée turque peut difficilement se passer du soutient logistique de Washington. De plus, les deux tiers des échanges commerciaux sont réalisés avec l’Europe. Cependant, le fait que les cercles eurasistes soient directement impliqués dans le dossier Ergenekon laisse transparaître que la lutte entre l’AKP et l’armée masque deux orientations géopolitiques antagonistes.

Comment l’Europe doit-elle se positionner par rapport à cette « nouvelle » Turquie ? Quelle est la meilleure conduite à tenir ?

L’adhésion sincère de l’AKP aux principes de Copenhague ne peut masquer le fait que le processus de démocratisation soit d’abord utilisé à des fins internes. En dehors de la rhétorique convenue sur les Droits de l’homme, le discours européen de l’AKP manque de consistance. Le principal argument utilisé est que « les civilisations ont tout à gagner à échanger entre elles ».

En réalité, le discours de l’AKP essentialise la notion de civilisation. L’Europe n’est pas un club chrétien mais un carrefour, une mosaïque de civilisations bien distinctes. C’est la conclusion à laquelle est arrivée une note de synthèse du Milli Görus (matrice idéologique de tous les partis islamistes turques) : « Lorsque la Turquie sera membre à part entière de l’Union Européenne, l’Europe sera un mélange de beaucoup de cultures et de religions ».

En dehors de l’attachement aux valeurs universelles du droit et de la démocratie libérale, l’Union Européenne n’a pas à affirmer d’identité propre. Cette neutralité culturelle est la condition préalable pour permettre à chacun d’affirmer pleinement son identité. Les Turcs sans complexe jouent la carte de la civilisation, de son côté l’Union européenne continue à vivre dans l’amnésie de sa tradition. Un contraste à méditer !

Comment jugez-vous les dirigeants de l’AKP ? A commencer par Erdogan.

L’une des raisons clefs du succès de l’AKP réside dans la personnalité charismatique de ses leaders. Croyant, d’extraction modeste, en retrait du système kémaliste, l’électorat populaire peut sans peine s’identifier à Tayip Erdogan et Abdulhah Gül. Ils correspondent à deux idéaux types profondément ancrés dans l’imaginaire collectif : Gül le Magdur, Erdogan le Kabadayi. Gül devient Magdur (celui qui a subi une injustice) à l’occasion des élections présidentielles de 2007, suite au veto initial mis à sa candidature par l’armée. Un Kabayi est « un coq de village ». Autoritaire, paternaliste, il  construit sa réputation sur un sens de l’honneur affirmé. Il est le protecteur des faibles contre les puissants qui en échange lui doivent allégeance.

Erdogan est né en 1954 à Rize au bord de la Mer Noire. Alors qu’il est âgé de treize ans, sa famille déménage à Istanbul dans le quartier populaire de Kasimpasa. Un quartier bigarré où s’entassent migrants des campagnes anatoliennes, gitans et caïds de la pègre locale. Erdogan est le cadet d’une fratrie de cinq enfants. Dés l’âge de seize ans, il conjugue son engagement politique au sein de la branche jeune du Parti du salut national avec sa passion pour le football. A partir du collège, il suit une scolarité dans un établissement religieux. A l’origine, les écoles imam hatip, coiffées par le ministère de l’Education ont pour mission la formation du futur desservant du culte. Mais en 1973, elles sont autorisées à préparer leurs élèves à l’enseignement supérieur. Les élèves sont socialisés dans une atmosphère où prime avant tout l’adhésion aux normes islamiques. A l’exception de ces aspects techniques, le processus d’occidentalisation y est sévèrement critiqué. Encore aujourd’hui, Erdogan ne manque jamais une occasion de rappeler ce qu’il doit à son éducation.

Une fois diplômé, Erdogan commence à travailler pour l’organisme public de transport public de la municipalité d’Istanbul, emploi qu’il abandonne rapidement pour le secteur privé à la suite d’un incident avec l’un de ses supérieurs qui lui reprochait sa barbe. Il travaille pour la grande firme de l’agroalimentaire, Ülker, proche de la mouvance islamiste. En 1984, le Parti de la prospérité a pris la suite du Parti du salut national interdit par les militaires. Erdogan devient responsable pour le quartier de Beyoglu (l’un des plus occidentalisés de la ville).

Il se fait remarquer dès cette époque pour sa plasticité. Il utilise des jeunes filles non voilées pour faire du porte à porte chez les particuliers. Cette stratégie élastique s’avère payante puisqu’il est élu en 1994 comme maire d’Istanbul.

A la tête d’un ensemble de plusieurs millions d’habitants, Erdogan fait preuve de qualités de gestionnaire reconnues, y compris par ses adversaires politiques. A cet échelon, la politique est une question de solutions pratiques. Il faut d’abord répondre aux besoins élémentaires de la population en matière de services. Cette méthode sera transposée au niveau national avec succès à partir de 2002. Symbole fort, il réhabilite le passé ottoman de l’ancienne capitale impériale et fait du jour de la chute de Constantinople (Fetih-29 mai 1453) un événement culturel majeur.

La vision de l’islam d’Erdogan est triple : la religion est un ciment identitaire, le vecteur d’un réseau social, un capital spirituel dont les exigences peuvent être réinvesties en politique.

En 1998, Erdogan est condamné à une peine de prison ferme pour incitation à la haine parce qu’il a déclamé en public un an auparavant à Sirt, dans le Sud-Est anatolien, un poème de Ziya Gökalp (père du nationalisme turc) : « Les minarets sont nos baïonnettes, les mosquées nos casernes ». Dans ce discours controversé, Erdogan se démarquait des nationalismes ethniques et vantait l’islam comme lien commun aux Kurdes et aux Turcs. L’identité nationale dans l’esprit d’Erdogan, c’est l’islam.

Cette césure avec la conception traditionnelle de l’Etat-nation marque la ligne de partage des eaux avec les nationaux-républicains du CHP et les nationaux-radicaux du MHP. Elle explique en grande partie l’approche plus souple de l’AKP sur le dossier kurde et chypriote. La détention d’Erdogan a fait de lui aux yeux de la frange conservatrice de l’opinion une victime de l’arbitraire d’un système. Beaucoup de Turcs vivant en marge de la légalité (construction illégale, économie informelle, croyance, style de vie) s’identifient sans peine à cet homme comme eux en rupture de ban.

Comment voyez-vous évoluer la situation turque dans les dix ans ?

Il est très périlleux de faire des prévisions précises mais depuis trois décennies des tendances lourdes sont perceptibles. A partir des années 1980, la mondialisation associée à la libéralisation de l’économie, l’adhésion à l’Union Européenne, ouvrent la Turquie. Les échelles sont progressivement brouillées. Le cadre national se retrouve compressé entre le local et le global.

A la différence de l’élite laïque aux rigides conceptions jacobines, les élites islamistes se sont coulées dans la nouvelle donne. Une classe entrepreneuriale est née. La Turquie expérimente un double et simultané processus d’intégration et de polarisation. Alors que le fossé entre ville et campagne, masses conservatrices et Etat, s’est réduit, les secteurs les plus laïcs sont expulsés des couloirs des instances dirigeantes. Entre 1999 et 2006, le segment de la population se définissant d’abord comme musulman est passé de 36 à 45%. Bousculant le triptyque Etat-laïc, Etat-unitaire, Etat-nation, les valeurs traditionnelles alliées à l’économie de marché ont remporté la bataille culturelle. Cette éthique entrepreneuriale (tüccar siyaseti) se propage. L’individu s’enrichit et en fait bénéficier la communauté. Loin des foudres de l’Etat kémaliste, les groupes confrériques nakshibendis ou nurcu ont su investir, les réseaux de l’information ou de l’éducation. La société civile prend le relais de l’Etat providence et le retrait de l’Etat devient synonyme de renouveau spirituel.  Ces changements vont de pair avec une approche moins pessimiste de l’existence ; la richesse engendrée par la libération des énergies ruisselle sur la société et prévient la tentation nihiliste.

Avec le soutien d’Européens candides  et d’Américains manipulateurs (même si des nuances existent entre les diplomates favorables à l’AKP et le Pentagone plus sceptique), la Turquie est en train d’opérer une véritable révolution conservatrice et de basculer. Synonyme d’archaïsme social, d’obscurantisme religieux, l’islam était le miroir négatif de l’identité turque. Aujourd’hui, l’AKP veut en faire le ciment du futur pacte social. Les premiers cercles du pouvoir sont solidement tenus en main par des islamistes formés dans le moule du Milli Görus. Les organes de sécurité : police, services de renseignements sont tombés dans l’escarcelle des confréries. Le parcours du nouveau directeur du MIT ( Milli Istihbarat Teskilati-service national de renseignement) est à cet égard éloquent. Un deuxième cercle  constitué de ralliés et de décideurs économiques soutient le noyau dur par opportunisme et intérêt bien compris.

La démocratie est le dernier pilier de cette Turquie nouvelle. Elle légitime l’expression des aspirations profondes du pays réel, jusqu’alors brimé par le pays légal. La démocratie passe avant la satisfaction des besoins de l’Etat, par conséquent elle prend le pas sur la laïcité.

Propos recueillis par Maurice Gendre

samedi, 26 février 2011

Le désenchantement du monde (de Marcel Gauchet)

Le désenchantement du monde (M. Gauchet)

Gauchet reprend l’expression de « désenchantement du monde », utilisée par Max Weber pour décrire l’élimination du magique dans la construction du Salut, mais ce qu’il désigne par là va au-delà de l’objet désigné par Weber. Pour Marcel Gauchet, le religieux en tant que principe extérieur au social, et qui modèle le social depuis l’extérieur, c’est fini. Et l’originalité de l’Occident aura consisté, précisément, à opérer cette incorporation totale, dans le social, des fonctions traditionnellement allouées au religieux.

Le « désenchantement du monde », version Gauchet, ce n’est donc pas seulement l’élimination du magique dans le religieux, c’est bien encore la disparition du religieux en tant qu’espace collectif structurant et autonome.

Il s’agit donc ici de comprendre pourquoi le christianisme aura été, historiquement, la religion de la sortie de la religion. L’enjeu de cette histoire politique de la religion : comprendre, au-delà des naïvetés laïcardes, quelles fonctions la religion tenait dans les sociétés traditionnelles, et donc si d’autres moyens permettront de les maintenir.

 

*

 

Commençons par résumer « l’histoire politique de la religion », vue par Marcel Gauchet. C’est, après tout, pratiquement devenu un classique – un des très rares grands textes produits par la pensée française de la fin du XX° siècle.

Le fait est que jusqu’ici, le religieux a existé dans toutes les sociétés, à toutes les époques connues. Qu’il ait tenu une fonction dans chaque société, à chaque époque, n’est guère douteux. Une première question est de savoir si cette fonction fut constamment la même, et, dans le cas contraire, comment elle a évolué.

Pour Gauchet, il faut mettre à jour une structure anthropologique sous-jacente dont le religieux fut l’armature visible à un certain stade du développement historique. Cette structure fondamentale, c’est ce qu’il appelle : « L’homme contre lui-même ». Il entend par là la codification par l’homme d’un espace mental organisé autour du refus de la nature (celle du sujet, celle des autres hommes, celle de l’univers), afin de rendre possible un contrepoids salvateur, le « refus du refus » (qui permet d’accepter les autres hommes au nom du refus du sujet auto référant, d’accepter le sujet au nom de son refus, et finalement d’accepter la nature de l’univers au nom du refus général appliqué à la possibilité de la refuser). Le religieux a été, pour Marcel Gauchet, la forme prise, à un certain moment de l’histoire de l’humanité, par une nécessité incontournable induite par la capacité de refus propre à l’esprit humain : l’organisation du refus du refus, de la négation de la négation – bref, du ressort de la pensée même.

Gauchet renverse ici la conception classique, qui voit dans la religion un obstacle à la perspective historique. Faux, dit-il : la religion a eu pour mission de rendre possible l’entrée de l’humanité dans l’histoire, précisément en organisant une entrée « à reculons ». L’humanité ne voulait pas, n’a jamais voulu être historique. L’historicité lui enseigne une mortalité qu’elle redoute, qu’elle abhorre. La religion, en organisant le refus dans l’ordre symbolique, a été la ruse par laquelle l’humanité, tournant le dos à son avenir, pouvait aller vers lui sans le voir. Une méthode de gestion psychologique collective, en somme : en refusant dans l’ordre symbolique, on rend possible l’acceptation muette du mouvement permanent qu’on opère, par ailleurs, dans l’ordre réel, à un rythme si lent qu’on peut maintenir l’illusion d’une relative stabilité.

Sous cet angle, la « progression du religieux » peut être vue comme son oblitération progressive, au fur et à mesure que l’humanité accepte de regarder en face son inscription dans l’histoire, et d’assumer, donc, son refus de la nature. Des religions primitives au christianisme, on assiste ainsi à une lente réappropriation du fondement du religieux par l’homme, jusqu’à ce que « Dieu se fasse homme ».

C’est un long trajet car, au départ, dans la religion primitive, les Dieux sont radicalement étrangers à l’homme. Leur puissance le surpasse infiniment. Les succès humains ne peuvent être dus qu’à la faveur divine, les échecs à la colère (forcément juste) des divinités offensées. Voilà toute la religion primitive. Elle est étroitement associée à un système politique de chefferie, où l’opposition pouvoir-société est neutralisée par l’insignifiance (réelle) du premier, rendue possible par l’insignifiance (volontairement exagérée) de la seconde. La création d’une instance symbolique de régulation au-delà de la compétence humaine a d’abord été, pendant des millénaires, une manière de limiter la compétence des régulateurs humains. Le holisme fondamental des sociétés religieuses, nous dit Gauchet, ne doit pas être vu comme le contraire de notre individualisme, mais comme une autre manière de penser le social : un social qui n’était pas, et n’avait pas besoin d’être, un « social-historique ». C’était un social « non historique », où la Règle était immuable, étrangère au monde humain, impossible à contester.

Cette altérité du fondement de la règle, propre aux religions des sociétés primitives, est, pour Gauchet, « le religieux à l’état pur ». En ce sens, l’émergence progressive des « grandes religions » ne doit pas être pensée comme un approfondissement, un enrichissement du religieux, mais au contraire comme sa déconstruction : plus la religion va entrer dans l’histoire, moins elle sera extérieure au social-historique, et moins, au fond, elle sera religieuse.

Cette remise en cause du religieux s’est faite par étapes.

D’abord, il y eut l’émergence de l’Etat. En créant une instance de régulation mondaine susceptible de se réformer, elle a rendu possible le questionnement de la régulation. Il a donc fallu codifier un processus de mise en mouvement de « l’avant » créateur de règles. Les dieux se sont mis à bouger ; jusque là, ils vivaient hors du temps, et soudain, ils ont été inscrits dans une succession d’évènements. L’intemporel s’est doté de sa temporalité propre. Enjeu : définir, par la mythologie, une grille de cautionnement de la domination politique, ancrée dans un récit fondateur. La hiérarchie des dieux impose la hiérarchie des hommes à travers la subordination des hommes aux dieux, subordination rendue possible par le début de l’effacement de la magie (où le magicien maîtrise les forces surnaturelles) et l’affirmation du cultuel (où le prêtre sert des forces qui le dépassent). Le processus de domination mentale (des prêtres par les dieux, des hommes par les prêtres) devient ainsi l’auxiliaire du processus d’assimilation/englobement par l’Etat, donc de la conquête. Ce processus s’est accompli progressivement, en gros entre -800 et -200, dans toute l’Eurasie.

Le contrecoup de ce mécanisme, inéluctablement, fut le tout début de l’émergence de l’individu. Le pôle étatique définit un universel ; dès lors, le particulier devient pensable non par opposition aux autres particuliers, mais par opposition à l’universel. L’individu commence alors  à être perçu comme une intériorité. Et du coup, l’Autre lui-même est perçu dans son intériorité.

D’où, encore, l’invention de  l’Outre-Monde. Pour un primitif, le surnaturel fait partie du monde. Il n’existe pas de rupture entre le naturel et le surnaturel, entre l’immanent et le transcendant. Au fond, il n’existe pas d’opposition esprit/matière : tout est esprit, ou tout est matière, ou plutôt tout est esprit-matière, « souffle ».

Et d’où, enfin, le mouvement interne du christianisme occidental.

 

*

 

Progressivement, dans le christianisme, la dynamique religieuse se déplace pour s’installer à l’intérieur de l’individu. Le temps collectif étant historique, le temps religieux devient le temps individuel. Ce déplacement de la dynamique religieuse est, pour Gauchet, le mouvement interne spécifique du christianisme occidental.

Les autres mondes sont restés longtemps bloqués au niveau de la religion-Etat, du temps historique religieux ; seul le monde chrétien, surtout occidental, a totalement abandonné le temps collectif à l’Histoire, pour offrir à la religion un terrain de compensation, le temps individuel. Gauchet écrit : « Avec le même substrat théologique qui a porté l’avènement de l’univers capitaliste-rationnel-démocratique, la civilisation chrétienne eût pu rejoindre la torpeur et les lenteurs de l’Orient. Il eût suffi centralement d’une chose pour laquelle toutes les conditions étaient réunies : la re-hiérarchisation du principe dé-hiérarchisant inscrit dans la division christique du divin et de l’humain. »

Il n’en est pas allé ainsi. L’Occident est devenu une exception, et sa dynamique religieuse est allée jusqu’à son terme.

Il en est découlé, dans notre civilisation et au départ seulement dans notre civilisation, un accroissement des ambitions et de l’Histoire, et de la religion.

Jusque là, les deux termes étaient limités l’un par l’autre. De leur séparation découle la disparition de leurs limitations. L’Histoire peut théoriquement se prolonger jusqu’à sa fin. Elle a cessé d’être cyclique. La religion, de son côté, peut poursuivre la réunification de l’Etre à l’intérieur de la conscience humaine.

L’adossement de ces deux termes ouvre la porte à une conception du monde nouvelle, dans laquelle l’homme est son co-rédempteur, à travers la Foi (qui élève son esprit jusqu’à l’intelligence divine) et les œuvres (qui le font participer d’une révélation, à travers l’Histoire). Seul le christianisme, explique Gauchet, a défini cette architecture spécifique – et plus particulièrement le christianisme occidental.

Progressivement, à travers le premier millénaire, d’abord très lentement, le christianisme élabore cette architecture. Avec la réforme grégorienne et, ensuite, l’émergence des Etats français et anglais, l’Occident commence à en déduire des conclusions révolutionnaires mais logiques. Le pouvoir politique et le pouvoir spirituel se distinguent de plus en plus clairement.  La grandeur divine accessible par la conscience devient étrangère à la hiérarchie temporelle, elle lui échappe et fonde un ordre autonomisé à l’égard du politique. En retour, le politique se conçoit de plus en plus comme un produit de l’immanence. Le souverain, jadis pont entre le ciel et la terre, devient la personne symbolique d’une souveraineté collective, issue des réalités matérielles et consacrée avant tout à leur administration. Avec la Réforme, l’évolution est parachevée : l’Etat et l’Eglise sont non seulement distincts, mais progressivement séparés.

Les catégories de la « sortie de la religion », c'est-à-dire le social-historique dans le temps collectif, le libre examen dans le temps individuel, sont issues directement de cette évolution. Ici réside sans doute un des plus importants enseignements de Gauchet, une idée qui prend à revers toute la critique classique en France : notre moderne appréhension du monde en termes de nécessité objective n’est pas antagoniste de la conception chrétienne de l’absolu-divin personnel : au contraire, elle en est un pur produit.

 

*

 

La conclusion de Gauchet est que la « sortie de la religion » ouvre la porte non à une disparition du religieux, mais à sa réduction au temps individuel (une évolution particulièrement nette aux USA, où la religion est surpuissante comme force modelant les individus, mais quasi-inexistante comme puissance sociale réelle). Et d’ajouter qu’avec l’émergence puis la dissolution des idéologies, nous avons tout simplement assisté à la fin des religions collectives, qui sont d’abord retombées dans le temps historique à travers la politique, et s’y sont abîmées définitivement.

Sous-entendu : voici venir un temps où il va falloir se débrouiller sans la moindre religion collective, et faire avec, dans un cadre en quelque sorte purement structuraliste, en nous résignant à être des sujets, sans opium sacral pour atténuer la douleur de nos désirs. Car c’est à peu près là, au fond, la seule fonction du religieux qui, aux yeux de Gauchet, ne peut pas être assurée par le social radicalement exempt de la religion.

En quoi, à notre avis, Gauchet se trompe…

L’expulsion du religieux, retiré totalement du temps collectif, implique que ce temps-là, le temps collectif, ne peut plus être pensé en fonction de la moindre ligne de fuite. S’il n’y a plus du tout de religieux dans le temps collectif, alors la mort des générations en marque les bornes. Et donc, il n’y a plus de pensée collective sur le long terme, au-delà de la génération qui programme, qui dirige, qui décide (aujourd’hui : la génération du baby-boom).

Eh bien, n’en déplaise à Marcel Gauchet et sans nier que le structuralisme soit une idée à creuser, il nous semble, quant à nous, que les ennuis de l’Occident commencent là, dans cette désorientation  du temps collectif. Tant que le religieux se retirait du temps collectif, il continuait à l’imprégner d’une représentation du très long terme, et aspirait en quelque sorte le politique vers cette représentation : ce fut la formule de pensée qui assura l’expansion de l’Occident, le retrait du religieux ouvrant un espace de développement accru au politique, à l’économique, au scientifique, tous lancés secrètement à la poursuite du religieux qui s’éloignait. MAIS à partir du moment où le religieux s’est retiré, l’espace qu’il abandonne est déstructuré, et il n’y a plus de ligne de fuite pour construire une représentation à long terme.

La dynamique spirituelle de la chrétienté occidentale a suscité des forces énormes aussi longtemps qu’elle était mouvement ; dès l’instant où elle parvient à son aboutissement, elle débouche sur une anomie complète. Oserons-nous confesser que le vague « structuralisme » de Gauchet, conclusion mollassonne d’un exposé par ailleurs remarquable, nous apparaît, à la réflexion, comme une posture de fuite, et une manière pour lui de ne pas tirer les conclusions logiques de sa propre, brillante et tout à fait involontaire enquête sur la décadence occidentale ?

 

mardi, 15 février 2011

Wie is er bang van de Moslimbroederschap?

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Wie is er bang van de Moslimbroederschap?
Ex: http://www.demorgen.be/dm/nl/2461/De-Gedachte/article/det...

Het Westen heeft de Moslimbroederschap in het verleden meermaals en voor diverse doeleinden gebruikt. Lucas Catherine helpt westers geheugenverlies voorkomen. Catherine is auteur en kenner van de Arabische wereld. 

Wat de revoltes in Tunesië en Egypte duidelijk hebben gemaakt is dat Arabieren meer geïnteresseerd zijn in hurryah (vrijheid) dan in sharia. Daarmee hebben ze de Europese misvatting rechtgezet dat zij geen democratie zouden willen. Wat ze Europa verwijten is juist dat wij nooit democratie in de Arabische wereld hebben geïntroduceerd. Niet tijdens de decennia van kolonisatie en ook daarna niet, toen het Westen steevast autoritaire regimes heeft gesteund. En niet alleen autoritaire machthebbers, maar ook de reactionaire oppositie.

Neem de Moslimbroederschap. Die werd in Egypte opgericht in 1928 tijdens het Britse koloniale bewind als conservatief politiek-religieuze beweging. De Britten hebben ze vanaf het begin gesteund. Hun eerste eigen moskeeën en gemeenschapshuizen mochten ze oprichten in de door het Engelse leger zwaar gecontroleerde Suezkanaalzone. En de organisatie werd gemanipuleerd tegen de liberale Wafd-partij die naar onafhankelijkheid streefde en daar in 1945 trouwens in slaagde.

Wanneer begin de jaren '50 de Vrije Officieren de macht grijpen en onder leiding van Gamal Nasser de socialistische toer opgaan, zal men weer de Moslimbroederschap manipuleren, nu tegen hem. Nasser wordt de grote boeman van het Westen wanneer hij in 1956 het Suezkanaal nationaliseert, en zeker wanneer hij in 1960 massaal Europese bedrijven in Egypte naast. Dan sneuvelen ook nog al wat Belgische belangen in Egypte. België bezat een klein aandeel in het opgeëiste Suezkanaal, en onder impuls van Leopold II had het Belgische kapitaal vooral geïnvesteerd in infrastructuur (spoorlijnen, elektriciteit) en in de katoenindustrie. De Belgen waren na de Britten en de Fransen de belangrijkste investeerders in het land. In 1960 nationaliseert Nasser dan ook twee Belgische elektriciteitscompagnies, de trammaatschappij en ettelijke katoenindustrieën, voor een totaal van zo'n 500 miljoen toenmalige dollar. Ook bij ons is Nasser dan een grote boeman. Je kan het natrekken in de stripverhalen van Marc Sleen: in De ijzeren kolonel dat in 1956 verscheen en in De brief aan Nasser uit 1963. Nero helpt zelfs de broederschap bij een (mislukte) aanslag op Nasser. En dat haalt Sleen direct uit de toenmalige actualiteit. Zo'n aanslag gebeurde inderdaad en weer blijkt hoe de broederschap de facto de belangen van het Westen dient.

Nadat Egypte een westerse koers ging varen, eerst onder Anwar al Sadat, daarna onder generaal Moebarak, zal de Moslimbroederschap zich eerst gaan aanschurken tegen de macht. Ook al zijn ze officieel verboden, vanaf 1984 nemen ze op individuele basis deel aan de verkiezingen en in de meest recente, die van 2005, behalen ze 88 zetels, dat is 20 procent van de stemmen. Vergelijk dat met de Wafdpartij die dan slechts zes zetels veroverde. Dat goede resultaat komt door de politiek die ze aan de basis voeren. Onder het islamitische label van zakat en sadaqa - zeg maar liefdadigheid - construeren ze onder de armste lagen van de bevolking een sociaal vangnet, met voedselbedeling, gezondheidszorg, enzovoort. Ze hebben een zuil uitgebouwd. Vergelijk het met de christelijke zuil hier, ook ontstaan uit 'liefdadigheid' en als tegengewicht voor de 'gevaarlijke' socialistische beweging. Daar waar corruptie en armoede enorme vormen aannemen, zorgen zij voor een solidaristisch alternatief. Zij kunnen dat, omdat ze, in tegenstelling tot de progressieve bewegingen, financiële steun krijgen uit het buitenland. Neen, niet uit Iran, maar van de grote westerse bondgenoot, Saoedi-Arabië. De arme Egyptenaren, en dat is de meerderheid van de bevolking, zijn dan ook niet bang voor de Moslimbroederschap. Als je naar hun sociaal programma kijkt, dan zijn zij allesbehalve 'gevaarlijk'. Een gemiddelde Vlaming zou, als je naar zijn sociaal programma kijkt, stukken meer schrik moeten hebben van Bart De Wever, dan een Egyptenaar van de Moslimbroeders.

Als er min of meer eerlijke verkiezingen komen in Egypte, vrees ik dan ook dat de broederschap een groter stemmenpercentage zal halen dan de N-VA hier. In beide gevallen voor mij geen reden om te juichen. Maar voor Egypte kunnen we rustig stellen dat het aan onze domme westerse bemoeienissen ligt. Eigen schuld, dikke bult.

jeudi, 30 décembre 2010

Monotheïstische religies bedreigen rechtsstaat

moses2.jpg

Ex: http://opinie.volkskrant.nl/artikel/show/id/7482/Monothe%...

Monotheïstische religies bedreigen rechtsstaat

Meindert Fennema


Goddelijke bevelstheorie ontkent individuele autonomie
In de afgelopen tien jaar is vrij plotseling het idee ontstaan dat wij in
een joods-christelijke traditie staan en dat wij die moeten verdedigen tegen
aanspraken die moslims maken op een eigen traditie, gebaseerd op
islamitische wetten die zich niet verdragen met de democratische rechtsorde.

Die stelling impliceert dat de joods-christelijke traditie zich wél laat
combineren met een democratische orde. In zijn recente boek The Secular
Outlook beweert Paul Cliteur echter dat de joods-christelijke traditie net
zo min als de islamitische een positieve bijdrage levert aan de democratie,
omdat ook het jodendom en het christendom gebaseerd zijn op een goddelijke
bevelstheorie die de morele autonomie van de mens ontkent. En zonder morele
autonomie geen liberale democratie.

Als Cliteur gelijk heeft, dient de democratische rechtsorde erop gericht te
zijn alle goddelijke bevelstheorieën buiten de deur te houden. Cliteur noemt
dat in zijn boek ‘het seculiere perspectief’. Burgers die het
‘joods-christelijk perspectief’ omhelzen, staan niet afwijzend ten opzichte
van een rechtsstaat die het christendom een geprivilegieerde positie
toeschrijft. In hun ogen is niet elke goddelijke bevelstheorie een vijand
van de democratie, maar alleen die van de islam.

In dit laatste perspectief herkent men onmiddellijk de opvatting van Frits
Bolkestein over de vrijheid van onderwijs, en de standpunten van de PVV.
Paradoxaal genoeg ligt het standpunt van Rob Riemen, auteur van De eeuwige
terugkeer van het fascisme, daar niet ver van af. Ook Riemen verdedigt onze
cultuur als een joods-christelijke, tegen het platte materialisme van de
PVV: ‘Wat ons daadwerkelijk wordt geboden door de Partij voor de Vrijheid,
is het schaamteloze tegendeel van de joods-christelijke en humanistische
tradities: plat materialisme, benauwend nationalisme, vreemdelingenhaat,
voedsel voor ressentiment, een diepe afkeer van de kunsten en van oefening
in geestelijke waarden, een verstikkende geestelijke bekrompenheid, een fel
verzet tegen de Europese geest en het voortdurend liegen als politiek.’

Riemen beschouwt de PVV daarom als het fascisme in nieuwe gedaante.
Tegenover dat soort fascisme stelt hij een vroeg 20ste-eeuws elitisme dat
hij in een vorig essay ‘adel van de geest’ noemde. Riemen is een groot
bewonderaar van Thomas Mann en een intellectuele erfgenaam van het elitaire
humanisme zoals dat voor de Tweede Wereldoorlog tot vervelens toe
uitgedragen werd door Dirk Coster en door Anthonie Donker, wiens roman
Schaduw der Bergen (1935) sterk geïnspireerd was door Thomas Manns De
Toverberg.

Zij verdedigden een religieus humanisme, dat voor Ter Braak en Du Perron te
esoterisch was, ook al deelden zij hun bewondering voor Thomas Mann en hun
afkeer van het fascisme. Slechts op één punt stemmen de elitaire humanisten
en de fascisten merkwaardig overeen: dat is in hun kritiek op de
massacultuur en op de politieke en intellectuele elite die zijn rol als de
drager van hogere geestelijke waarden verzaakt en het volk geen leiding meer
geeft.

Ook Ella Vogelaar en een deel van haar partijgenoten zien de sociale
democratie in het verlengde van de joods-christelijke traditie, al wil zij
daar de islamitische aan toevoegen.

Wij staan dus voor de keuze tussen een ‘seculiere staat’ die zich niet
uitspreekt over waarden, maar alleen over normen (die van de procedurele
democratie en de rechten van de mens) en de ‘joods-christelijke staat’, die
zijn culturele waarden verdedigt tegen hetzij de islam, hetzij het xenofobe
‘populisme’.

De cultuurhistorische vraag achter dit politiek-filosofische debat is deze:
is de liberale rechtsstaat een vrucht van de christelijke traditie of juist
van een radicale emancipatie van die traditie. De geschiedenis van de Franse
Revolutie lijkt de laatste interpretatie te ondersteunen, terwijl de
Amerikaanse Revolutie de eerste interpretatie aannemelijker maakt.

De encyclopedisten die de intellectuele voorlopers waren van de Franse
Revolutie waren immers bijna allen atheïst of agnost en keerden zich lang
voor 1789 tegen de macht en de moraal van de katholieke kerk. De kerkelijke
goederen werden in de Franse Revolutie genationaliseerd en de katholieke
moraal zou vervangen moeten worden door de religie van Newton.

In de Amerikaanse revolutie is van een onteigening van kerkelijke goederen
nooit sprake geweest. Er was in Noord-Amerika ook geen katholieke kerk die
als grootgrondbezitter optrad. De christelijke religie was wel prominent
aanwezig, maar was georganiseerd in democratische congregaties met weinig
bezit.

Het bijzondere aan de Amerikaanse founding fathers was dat zij ook in
religieuze zin dissenters waren. Velen van hen waren naar Amerika gegaan,
omdat zij vervolgd werden door de Anglicaanse kerk. Het zou de VS maken tot
een samenleving waar de scheiding tussen kerk en staat op religieuze gronden
wordt verdedigd, maar ook uit pragmatisme: men wilde voorkomen dat
rivaliserende kerkgenootschappen zouden proberen zich van de staat meester
te maken om hun theologische conflicten te beslechten.

Het religieus pluralisme werd in de VS zodoende de grondslag van de
scheiding van kerk en staat. Die scheiding was ook onderdeel van het
anti-etatisme dat bij de Amerikaanse revolutionairen sterk leefde:
‘Government, even in its best state, is but a necessary evil; in its worst
state, an intolerable one.’ (Tom Paine) De Amerikaanse nationale identiteit
is dus ten diepste religieus, maar tegelijk wars van enige vorm van
staatsbemoeienis in religieuze zaken.

In West-Europa daarentegen wordt de staat van oudsher niet alleen beschouwd
als motor van maatschappelijke vernieuwing, maar ook als hoedster van
religieuze waarden. Alleen Frankrijk kent een rigoureuze scheiding van kerk
en staat, maar in de Scandinavische landen, Duitsland, Nederland, Italië en
Spanje zijn er altijd institutionele banden geweest tussen kerk en staat.

De hoop van 19de-eeuwse politiek filosofen dat religie in het
moderniseringsproces vanzelf zou verdwijnen, is ijdel gebleken. De discussie
over de scheiding van kerk en staat heeft sinds 9/11 een nieuwe urgentie
gekregen, waarin theologische discussies weer oplaaien. Is de islam een heel
unieke en gewelddadige religie, of is zij één van de drie abrahamitische
religies die naar hun aard botsen met de democratische rechtsstaat, omdat
zij de morele autonomie van de mens ontkennen?

Volkskrant-redacteur Chris Rutenfrans verdedigt de joods-christelijke
traditie tegen die van de islam. Alleen de laatste leidt in zijn ogen tot
moord en doodslag. Rutenfrans brengt in debat met Cliteur (Opinie & Debat, 4
december) twee argumenten in. Ten eerste zegt hij dat christendom en
jodendom vandaag de dag toch niet of nauwelijks terroristen voortbrengen,
terwijl dat bij de islam wel het geval is. Cliteur antwoordt dat zijn
filosofische verhandeling niet bedoeld is om tot empirisch toetsbare
hypotheses te leiden, maar om in algemene zin de tegenstrijdigheid aan te
tonen tussen de grondslagen van de democratische rechtstaat en de goddelijke
bevels-theorieën, die kenmerkend zijn voor alle monotheïstische
godsdiensten.

Rutenfrans’ tweede argument is van theologische aard. Volgens hem is Allah
meedogenlozer jegens ongelovigen dan JHWH, die zich volgens hem beperkt tot
het doen doden van vijanden van Israël. Cliteur vindt dat onderscheid niet
relevant, omdat hij onderzoekt in hoeverre een principiële incompatibiliteit
bestaat tussen goddelijke bevelstheorieën en de moderne democratie. Hij is
niet geïnteresseerd in de vraag welke van de drie monotheïstisch religies
het meest gewelddadig is.

Mij dunkt dat het perspectief van een seculiere staat inderdaad het beste
antwoord is op de religieuze en exclusivistische eisen die aan de overheid
gesteld worden. De debatten tussen joden, christenen en moslims lijden
veelal aan een ongemak dat door Freud het narcisme van het kleine verschil
genoemd is.

Meindert Fennema is hoogleraar politieke theorie van etnische verhoudingen
aan de UvA.

vendredi, 17 décembre 2010

Der Islam und wir

Sex in einem Wiener U-Bahn-Wagon, und Fahrgäste, die ein kopftuchtragendes Mädchen wahrscheinlich eher stören würde, schauen begeistert zu. Großartig! Meldete sich ein empörter Spitzenpolitiker zu Wort? Ach ja, die wollen doch wieder gewählt werden, am liebsten von Eseln. Ja fällt es denn niemand auf, daß wir in einer Gesellschaft leben, die zunehmend mehr ins Abseits gerät?                                                                                         

Doch, da gibt es einen großen Haufen, der das längst mit Genugtuung registriert hat und nur darauf wartet, daß der reife Apfel in seinen Schoß fällt. Mehr als eine Milliarde sind sie, was aber politisch und sonstwie  Fehlgeleitete gar nicht davon abhält, ihnen den Fehdehandschuh hinzuwerfen.                                                                                                  

Dieser „Haufen“, der gemeinhin als Islam bekannt ist, wartet, in der Tat, auf seine Chance. Kann man ihm das verargen? Er wird ja geradezu eingeladen, sich auszubreiten. Einerseits durch eine vertrottelte Politik, andererseits durch eine, so scheint´s, hirnlose Gesellschaft namens „liberal“.

Als vor bald 15 Jahren mein Büchlein „Der Vormarsch des Islam“ erschien, war die Aufmerksamkeit für dieses Thema noch nicht so groß. Und obwohl es heute fast täglich behandelt wird, herrscht mehr denn je, neben unbestreitbaren Fakten, ein Gemenge von Halbwahrheiten und Desinformationen, das es vielen erschwert, sich ein objektives Bild vom Islam zu machen. Umso mehr, da auch versucht wird, politisches Kleingeld daraus zu schlagen.                                                                                                                                           Man braucht aber gar nicht den deutschen Goethe oder den Perser Khayyam gelesen zu haben, um zu wissen, daß Islam nicht automatisch Gewalt und Intoleranz bedeutet. Eigenschaften, die übrigens auch der katholischen Kirche einmal nachgesagt wurden.  Wenn es nun aber einmal so ist, daß immer wieder auch mißbräuchlich im Namen des Islam unvorstellbare Grausamkeiten geschehen und Unterdrückung stattfindet, so geschieht dies gewiß nicht im Namen aller Muslime und wird in vielen Fällen auch nicht durch den Koran gedeckt. Vieles, wie das Verschleiern, hat mit Tradition und weniger mit islamischer Authenzität zu tun.

Man kann islamistischen Terror, ob durch den Koran legitimiert oder nicht,  selbstverständlich nicht gutheißen, verstehen kann man ihn im Lichte der US-israelischen Politik aber schon. Durch diese und unsere untertänigen Politiker könnten wir aber noch in einen größeren Konflikt mit noch unbekannten Folgen hineingezogen werden.                        

Daß deshalb eine zu große muslimische Gemeinde in einem EU-Land irgendwann auch  zu einem größeren sicherheitspolitischen Problem werden könnte, ist vorstellbar.                                                                                                                                                                                                                                     

Der Problemkomplex Islam müßte daher, international, im Rahmen einer völlig neu ausgerichteten US- und EU-Außenpolitik, und national, unter Berücksichtigung des Gesamtproblems Überfremdung und der Souveränität eines Landes in dieser Frage einer gerechten Lösung zugeführt werden. Davon sind wir aber aus bekannten Gründen noch weit wentfernt. Ähnlich weit, wie unter den herrschenden Bedingungen ein erneuertes Wertefundament unserer Gesellschaft es ist.