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vendredi, 27 août 2010

Perché in Giapponeil cristianesimo è "straniero"

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Perché in Giappone il cristianesimo è "straniero"

 

di Sandro Magister - Kagefumi Ueno
 

Fonte: L'Espresso [scheda fonte]

Annientamento del "sé", divinizzazione della natura, rifiuto di un Dio personale. I capisaldi della cultura giapponese spiegati dall'ambasciatore del Sol Levante presso la Santa Sede

di Sandro Magister

Già un'altra volta, quest'anno, www.chiesa ha messo in luce l'estrema difficoltà che incontra il cristianesimo a penetrare in Giappone.

È una difficoltà che riguarda anche altre grandi civiltà e religioni asiatiche. Il cardinale Camillo Ruini – quand'era vicario del papa e presidente della conferenza episcopale italiana – indicò più volte la principale ragione di questa impermeabilità nel fatto che in Giappone, in Cina, in India manca la fede in un Dio personale.

È per questo motivo – aggiungeva – che la sfida lanciata ai cristiani dalle civiltà asiatiche è più pericolosa di quella di un'altra religione monoteista come l'islam. Mentre l'islam, infatti, stimola se non altro i cristiani ad approfondire e rinvigorire la propria identità religiosa, le civiltà asiatiche "spingeranno piuttosto nel senso di una ulteriore secolarizzazione, intesa come denominatore comune di una civiltà planetaria".

Per quanto riguarda il Giappone, un'autorevole conferma di questo assunto viene da una conferenza tenuta il 1 luglio scorso al Circolo di Roma dall'ambasciatore giapponese presso la Santa Sede, Kagefumi Ueno.

La conferenza – riprodotta quasi integralmente più sotto per gentile concessione del suo autore – mette in evidenza con rara chiarezza l'abisso che separa la visione cristiana dalla cultura e religiosità del Giappone.

L'ambasciatore Ueno si definisce d'orientamento buddista-scintoista. E nella conferenza parla non da diplomatico ma da "pensatore culturale", come in effetti egli è. Il suo centro d'interesse sono da molti anni le civiltà e le culture. Su questo tema ha scritto numerosi saggi e parlato a vari congressi.

Un suo saggio pubblicato poco prima di arrivare a Roma come ambasciatore, quattro anni fa, ha per titolo: "Contemporary Japanese Civilization: A Story of Encounter Between Japanese 'Kamigani' (Gods) and Western Divinity".

Una sintesi della sua conferenza al Circolo di Roma è uscita su "L'Osservatore Romano" del 14 agosto.
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CULTURA E RELIGIOSITÀ NEL GIAPPONE MODERNO

di Kagefumi Ueno


Credo che vi siano almeno tre elementi che caratterizzano la religiosità giapponese come filosoficamente distinta dal cristianesimo.

Le tre parole chiave sono "sé", "natura" e "assolutizzazione".

In primo luogo, sul concetto di "sé" c'è una nettissima distinzione tra la visione buddista-scintoista e quella monoteista occidentale.

Secondo, nel concepire la natura l'oriente e l'occidente differiscono sostanzialmente. Mentre i giapponesi vedono la natura come divina, i cristiani non condividono la stessa riverenza.

Terzo, quanto ai giudizi di valore, a motivo della loro mentalità religiosa i giapponesi in genere hanno una propensione molto minore degli occidentali ad assolutizzarli.


DISSOLVERE IL "SÉ"


Primo elemento: il "sé". Come differisce il concetto religioso tradizionale giapponese di "sé" dalla visione occidentale? Per dirlo con parole semplici, i buddisti-scintoisti credono che, al fine di raggiungere la vera libertà spirituale, essi devono "cacciar via" ogni "karma" (desiderio), "ego", "interesse", "speranza" e anche "sé". Qui il termine "cacciar via" è sinonimo di abbandonare, rinunciare, dissolvere, svuotare, azzerare, ridurre a niente. In altre parole, lo stato finale della mente, la genuina libertà del pensiero, o la realtà ultima possono essere ottenuti solo dopo aver cacciato via il proprio sé o dissolta la propria identità. Il sé e l'identità devono essere assorbiti nella Madre Natura o universo.

Invece, le religioni monoteiste sembrano essere basate sull'assunto che gli esseri umani sono "miniature" del divino. Gli umani sono definiti per riflettere l'immagine del divino. Essi quindi, per definizione, sono chiamati a essere "divini", o almeno "mini-divini". Per avvicinarsi al divino sono comunque destinati a purificare, consolidare, elevare o portare a perfezione il proprio sé. Mai deve accadere, dunque, che caccino via il loro sé. Il cacciar via il proprio sé è semmai considerato immorale o peccaminoso.

In breve, i monoteisti sono chiamati a massimizzare, a portare a perfezione il proprio sé. Quindi, sono "massimalisti". Con questa idea in mente, non ci vuole una speciale immaginazione per capire che un "sé mini-divino" massimizzato o portato a perfezione è inviolabile o sacro.

All'opposto, i buddisti-scintoisti sono chiamati, al fine di raggiungere la realtà suprema, a minimizzare, cioè a cacciar via il loro sé. Quindi essi sono "minimalisti". Anche la dignità o l'onore di ciascuno è qualcosa a cui non devono legarsi. Mai guardano a se stessi come a delle "mini-divinità". Non accade mai che essi debbano perfezionare se stessi per arrivare più vicini al divino. Un simile desiderio è un tipo di "karma" che essi devono cacciar via.

Insisto, i buddisti-scintoisti credono che da ultimo non ci si deve legare ad alcun desiderio od ossessione, inclusa l'esaltazione di sé. Ognuno dev'essere completamente distaccato dal desiderio di esaltare se stesso.

Fin qui ho fatto una specie di esercizio intellettuale, con l'assunto che le differenti religiosità comportino differenti concetti di "sé". A questo proposito, l'immagine che mi sono fatta è che il "sé" degli occidentali è simile a una grossa, solida, splendente sfera d'oro che deve essere costantemente lucidata, pulita e consolidata, mentre il "sé" dei buddisti è simile ad aria o fluido senza forma, elastico, difficile se non impossibile da lucidare e pulire.

Secondo la religiosità giapponese, ciò a cui si deve rinunciare non è limitato al "karma", ai desideri e al "sé". Bisogna essere distaccati anche da ogni pensare logico. In definitiva, per i giapponesi, la religiosità è un ambito nel quale il "logos" in quanto "ragione", il pensiero logico e l'approccio deduttivo devono anch'essi essere cacciati via.

In particolare, per la tradizione buddista Zen, anche valori opposti come il bene e il male sono qualcosa che va trasceso. Nel senso più profondo della religiosità buddista, nello stadio ultimo dello spirito non vi è nessuna santità, nessuna verità, nessuna giustizia, nessun male, nessuna bellezza.  Anche la speranza è qualcosa a cui non ci si deve legare, a cui bisogna rinunciare. La libertà ultima è data dall'assoluta passività.

I giapponesi credono anche che devono essere distaccati dal desiderio di tendere all'eternità. Nell'universo non c'è niente di eterno o di assoluto. Ogni essere resta "effimero", cioè come un niente. Ogni essere rimane "relativo". La realtà ultima è nel "vuoto", nel "nulla", nell'"ambiguo".

Per vedere come la filosofia orientale ci dice che si deve essere distaccati dal "logos", ecco alcune citazioni riprese da buddisti Zen e in particolare da opere di Daisetsu Suzuki:

– "Molti è uno. L'uno è molti".
– "Essere è non essere".
– "L'essere è 'mu', nulla. 'Mu' è l'essere".
– "La realtà è 'mu'. 'Mu' è la realtà".
– "Ogni cosa è nel 'mu', sorge dal 'mu', è assorbita nel 'mu'".
– "Una volta distaccati dalla visione razionale, si trascendono opposti concetti come bene e male".
– "Nel senso più profondo della religiosità buddista, non vi è nessuna santità, nessuna verità, nessuna giustizia, nessun male, nessuna bellezza".
– "La libertà ultima è data dalla passività assoluta".
– "Alla fine, lo spirito sarà come un albero o una pietra".


VENERARE LA MADRE NATURA


Secondo elemento di differenziazione: la natura. Per gli occidentali, la divinità è nel Creatore invece che nella natura, la quale è prodotta da lui. Invece, per i buddisti-scintoisti la divinità è nella stessa natura, dal momento che manca del tutto l'idea di un Creatore che abbia creato l'universo dal nulla. La natura è stata generata da sé stessa, non da una forza extranaturale. Il divino permea la natura. E permea quindi anche gli esseri umani.

La divinità della Madre Natura abbraccia ogni cosa: uomini, alberi, erbe, rocce, sorgenti e così via. Per i buddisti-scintoisti la realtà suprema non esiste al di fuori della natura. In altre parole, la divinità è intrinseca alla natura. [...]

Per i giapponesi, gli uomini e la natura sono una sola realtà inseparabile. Gli esseri umani sono parte della natura. Non c'è alcuna distinzione o barriera concettuale tra le due cose. Una sensazione di distanza tra le due è considerata insignificante o inesistente.

A questo proposito vorrei commentare una formula alla moda, la "simbiosi (o convivenza) con la natura", che è spesso considerata una formula pro-ecologista. A me questo concetto pare invece che includa una sfumatura di arroganza, di "umanocentrismo", poiché conferisce agli uomini una posizione paritaria con la natura. Secondo la religiosità tradizionale giapponese, gli uomini devono essere sudditi della natura. È la natura, non gli uomini, che deve essere protagonista. Gli uomini dovrebbero essere umili giocatori che non possono pretendere una condizione pari a quella della natura. Devono scrupolosamente ascoltare le voci della natura e umilmente accettare ciò che la natura comanda. Ecco perché la formula "convivenza con la natura" suona troppo umanocentrica per il pensiero tradizionale giapponese.

Su questo sfondo, in termini di amore o rispetto per la natura o gli animali, la cultura giapponese è profonda e ricca. Nella sua tradizione così come oggi, i giapponesi trattano la natura o gli animali in una maniera piena di rispetto. Quasi con uno spirito religioso.

Ad esempio, molti dirigenti di polizia in tutto il paese usano officiare una cerimonia per rendere grazie agli spiriti di cani poliziotto deceduti, o per placare le loro anime una o due volte all'anno nei santuari a loro dedicati.

Qualcosa di simile avviene nei tradizionali villaggi dei cacciatori di balene. Essi usavano officiare cerimonie religiose per rendere grazie agli animali o per consolare e placare gli spiriti delle vittime, le balene. Alcuni ancora lo fanno. E facendo così, fanno da bilancia spirituale tra gli uomini e gli animali loro vittime.

Allo stesso modo, in alcuni ospedali vi sono associazioni che celebrano annualmente dei rituali, chiamati "hari-kuyoo", per addolcire gli spiriti degli "aghi", specie quelli delle iniezioni.

Nelle campagne, la gente venera alberi maestosi, grandi rocce, cascate o sorgenti trasformandole in templi scintoisti con dei festoni bianchi detti "shimenawa". Inoltre, molte montagne, a cominciare dal Fuji, e numerosi laghi in Giappone sono ritenuti sacri.

La religiosità o mentalità dei giapponesi ora descritta – che alcuni studiosi chiamano panteista o animista – è chiaramente e vitalmente incorporata in molte opere culturali giapponesi, siano esse di letteratura, di poesia, di pittura, di incisioni o d'altro, indipendentemente dalla terminologia che si può usare.

Ad esempio, Higashiyama Kaii, un grande pittore di paesaggi, disse una volta in un'intervista televisiva che, con l'avanzare della maturità, era divenuto consapevole che la natura talvolta gli parla. Egli percepisce la sua voce e avverte i suoi sentimenti. E quindi, aggiunse, la sua opera di pittore di paesaggi è fatta non da lui, ma dalla natura stessa.

Sinilmente, Munakata Shiko, famoso incisore di legno, disse in tv che, quando la sua anima è in pace, egli compie la sua opera di incisione come ispirata dallo spirito del legno che sta incidendo. Quindi, aggiunse, non è lui ma lo spirito del legno che fa il vero lavoro. [...]


NON ASSOLUTIZZARE I VALORI


Terzo elemento di differenza: l'assolutizzazione dei valori. A motivo della descritta mentalità religiosa buddista-scintoista, i giapponesi non amano legarsi a "valori assolutizzati". Non credono che vi sia una giustizia assoluta o un male assoluto. Dicono piuttosto che ogni essere è, in sostanza, "relativo". Per loro ogni valore, intendo dire ogni valore positivo, è valido fino a quando si scontra con altri valori. Quando lo scontro tra valori avviene, essi credono che nessun valore particolare deve essere assolutizzato a spese di altri. Semplicemente perché, nel senso più profondo della loro filosofia, non c'è niente di assoluto nell'universo. Esiste solo l'effimero, l'impermanente.

Detto altrimenti, nell'applicare i valori, i giapponesi in genere preferiscono avere un approccio "soft". Ad esempio, alcuni anni fa, prima in Danimarca e poi in altri paesi d'Europa, ci fu uno scontro di ideologie [a proposito di vignette su Maometto] tra coloro che tenevano alla libertà di espressione e coloro che difendevano la dignità religiosa. Questa vicenda non ebbe in Giappone una grande risonanza pubblica, ma immagino che la maggioranza dei giapponesi, se informati degli elementi in gioco, avrebbero detto che assolutizzare la fede di una parte (quella favorevole alla libertà di espressione) a spese dei valori degli altri – cioè affrontare la questione in modo rigido invece che "soft" – era immotivato o imprudente. A questo proposito, durante quella vicenda io stesso ebbi la sensazione che la mentalità di alcuni disegnatori ed editori danesi sembrava essere troppo "monoteista", nel senso che assolutizzavano un particolare valore come qualcosa di trascendentale, di sacro e di inviolabile. In quel caso particolare, faccio notare che la Chiesa cattolica preferì un approccio "soft". Simile a quello preferito dai giapponesi.

Come ho detto, i giapponesi trattano la natura o gli animali in un modo pieno di rispetto. Nonostante ciò, la maggioranza dei giapponesi non si spinge fino ad applicare il concetto dei diritti umani agli animali, come fanno alcuni paladini di tali diritti. Di tanto in tanto esce la notizia che alcuni animalisti fondamentalisti hanno assaltato laboratori nei quali alcuni animali sono sacrificati per finalità tipo la ricerca di nuove medicine. Inoltre, si ricorda la notizia di un gruppo ambientalista radicale che assaltò una baleniera giapponese nell'Oceano Antartico. Essi non solo assalirono la nave a più riprese, ma anche lanciarono bottiglie di sostanze chimiche che ferirono alcuni membri dell'equipaggio della nave.

In questi casi, i protagonisti giustificarono la loro violenza o violazione dei valori altrui sostenendo che la loro finalità era sacra e quindi assoluta. Giustificarono i loro atti dicendo che essi dovevano combattere contro un male assoluto. In questo modo "assolutizzarono" la loro fede e fecero blocco con i loro sacri valori, senza pensare di violare i valori di altri. Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1 gennaio 2010, papa Benedetto XVI ha espresso preoccupazione per la visione eccessiva di alcuni ecologisti o animalisti che conferiscono lo stesso livello di dignità agli animali e agli uomini. Questo è un altro esempio di come la Chiesa cattolica pare essere riluttante riguardo a un approccio rigido o a una "assolutizzazione" di un valore particolare. Lo stesso fanno i giapponesi, con la loro tradizionale mentalità religiosa.


UN CRISTIANESIMO "STRANIERO"


A questo punto si può capire perché, a motivo della mentalità religiosa giapponese che si differenzia dal cristianesimo nei sensi sopra detti, anche oggi molti giapponesi trovano il cristianesimo in qualche modo straniero (od occidentale).

E anche si può capire perché la quota dei cristiani in Giappone resta sempre al di sotto dell'1 per cento e quella dei cattolici al di sotto dello 0,5 per cento.

Ciò non significa che i giapponesi rifiutino di accettare il cristianesimo in tutto. Molti di essi provano simpatia per questa fede e i suoi insegnamenti, non però al 100 per cento, ma al 70-80 per cento. Il restante 20-30 per cento è riconducibile alla differenza di fondo, fondamentalmente culturale e filosofica, tra le due realtà.

A motivo di questa differenza, il cristianesimo appare ai giapponesi come "appartenente ad altri", non a loro stessi.


UN IBRIDO TRA MODERNITÀ E TRADIZIONE


Osservo ora la religiosità giapponese attraverso lo spettro della premodernità, della modernità e della postmodernità.

Nel passato, sino alla fine del XIX secolo, si riteneva in ogni angolo del mondo che la modernizzazione delle nazioni potesse essere ottenuta solo in società con religiosità monoteista, in particolare col cristianesimo. Si pensava che la modernizzazione e il monoteismo fossero legati assieme, direttamente o indirettamente. Si era convinti che le società con religiosità politeiste, animiste o panteiste, come il buddismo o lo scintoismo, non fossero modernizzabili, a differenza dei paesi occidentali.

L'impressionante modernizzazione del Giappone ha smentito questa credenza. Oggi molte nazioni non cristiane hanno raggiunto livelli evidenti di modernità, sull'esempio del precedente giapponese. Di conseguenza, il loro progresso ha ulteriormente sciolto il legame concettuale tra modernizzazione e monoteismo. È stato reso chiaro che l'approccio politeista, animista o panteista non rappresenta un regresso, se messo a confronto con l'approccio monoteista.

In Giappone in particolare, la modernità scientifica, tecnologica e razionale non solo coesiste con una mentalità panteista e animista premoderna, ma è rinvigorita e rafforzata da tale mentalità.

Insisto. Molti prodotti giapponesi di alta tecnologia sono pensati, progettati, prodotti e messi sul mercato ad opera di giapponesi che hanno in larga misura la mentalità e la religiosità che ho descritto. Sottolineo che il livello tecnologico o la qualità del prodotto sono migliorati dalla combinazione di due distinte mentalità: la scientifica e l'animista.

Ad esempio, molte società giapponesi spesso invitano preti scintoisti a officiare cerimonie rituali quando installano nuovi macchinari nelle loro fabbriche, per invocare l'efficienza del loro funzionamento. Allo stesso modo, essi officiano anche dei rituali per placare o ringraziare lo spirito dei vecchi macchinari prima di smantellarli. E ancora, i costruttori di case celebrano rituali scintoisti per pregare per la riuscita dei futuri lavori, con una cerimonia sul terreno di costruzione. Quasi tutte queste cerimonie sono celebrate da preti scintoisti, solo raramente da preti buddisti. Perché? Perché la maggior parte dei giapponesi preferiscono che siano dei preti scintoisti a occuparsene, convinti che gli spiriti della casa o del luogo, della terra o degli edifici debbano essere presi in cura dallo scintoismo.

Insomma, nel Giappone di oggi la mentalità panteista e animista premoderna è strettamente legata alla modernità dell'alta tecnologia. E dunque si può dire che la civiltà giapponese contemporanea è un ibrido di premodernità e di modernità. Quindi assolutamente postmoderna!


ECONOMIA BUDDISTA, PER UN TERRENO COMUNE


Ho fin qui messo a fuoco la dimensione filosofica, nella quale la distinzione tra l'oriente e l'occidente è ragguardevole. Io credo, tuttavia, che al livello pratico c'è un terreno comune tra le due parti.

Un'ottantina di anni fa il Mahatma Gandhi, il padre fondatore dell'India moderna, citò il "commercio senza moralità" come uno dei "sette peccati sociali". Gli altri sei peccati che egli elencò erano la "politica senza principi", la "ricchezza senza lavoro", il "divertimento senza coscienza", la "conoscenza senza carattere", la "scienza senza moralità" e il "culto senza sacrificio" (sembra di ascoltare un papa).

Anche il papa e la Santa Sede in numerosi messaggi hanno ripetutamente condannato la mancanza di considerazioni morali da parte di molti leader del mondo degli affari.

In Giappone simili richiami si odono da tempo, in particolare tra economisti di orientamento buddista. In effetti, negli ultimi decenni alcuni economisti hanno cominciato ad amalgamare la filosofia buddista con le analisi economiche, fondando una nuova disciplina chiamata "economia buddista", di cui ora dirò gli elementi di base.

Gli economisti buddisti sono molto critici del neoliberismo che ha dominato le politiche economiche delle maggiori potenze mondiali negli ultimi decenni, portando a un aggravamento delle disparità economiche, a una mancanza di equità, a un predominio assoluto del profitto e a un deterioramento dell'ambiente a livello globale.

Per quanto vi siano delle diverse visioni tra gli economisti buddisti, essi condividono i seguenti otto principi, come loro minimo comune denominatore:

– rispetto della vita;
– non violenza;
– chisoku (la capacità di sapersi accontentare);
– kyousei (la capacità di convivere assieme);
– semplicità, frugalità;
– altruismo;
– sostenibilità;
– rispetto delle diversità.

Ad esempio, Ernest Friedrich Schumacher, un economista tedesco che è tra i fondatori dell'economia buddista, autore del celebre libro "Small Is Beautiful: Economics as if People Mattered", ha particolarmente insistito su "chisoku" e "semplicità".

Allo stesso modo, Wangari Maathai, un'ambientalista kenyana che ha vinto il Nobel per la Pace nel 2004, crede in una filosofia affine all'economia buddista. È famosa come sostenitrice della campagna "mottainai", cioè della campagna internazionale dei tre "ri": riusa, riduci e ricicla. Alcuni anni fa, mentre era in Giappone, si imbatté nella parola giapponese "mottainai" che in sostanza significa "mai gettare le cose minime perché anch'esse hanno un valore intrinseco". Così ebbe l'ispirazione di lanciare la sua campagna, cioè si convinse che lo "Spirito di Mottainai" che anima lo spirito dei tre "ri" doveva essere diffuso globalmente. Ella sostiene che per assicurare la protezione e la conservazione dell'ambiente globale, lo "Spirito di Mottainai" è indispensabile. Questo spirito che ella invoca è in evidente sintonia con i principi base dell'economia buddista.

Gli economisti buddisti reclamano politiche che portino tra l'altro a:

– distacco da un approccio che privilegi solo la crescita;
– distacco da una produzione dipendente dal petrolio;
– instaurazione di un nuovo sistema internazionale che elimini la violenza.

Nell'attuale instabilità e incertezza dell'economia mondiale, che ha rafforzato lo scetticismo nei principi del libero mercato, l'economia buddista guadagna un'attenzione crescente. Sarebbe interessante avviare un dialogo in questo campo tra economisti di orientamento sia buddista sia cattolico.

*

Per concludere con una battuta, consentitemi di chiamare il buddismo-scintoismo "sushi spirituale" e il cristianesimo "spaghetti spirituali". Quello che ho cercato di dire è che il "sushi spirituale" e gli "spaghetti spirituali" hanno sapori diversi. Ma ho anche aggiunto che entrambi sono "squisiti". Sia l'uno che gli altri arricchiscono profondamente le vite degli uomini. Senza uno di essi, le culture umane sarebbero terribilmente noiose e aride.


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vendredi, 20 août 2010

Pavel Florenskij : Il pensiero contro l'ideologia

Pavel Florenskij: Il pensiero contro l'ideologia

di Vito Mancuso

Fonte: La Repubblica [scheda fonte]

florenskij.jpgL'incontro con Pavel Florenskij ha segnato profondamente la mia vita e quindi questo articolo lo si deve intendere come una dichiarazione d'amore. L'occasione è la nuova edizione del capolavoro del 1914 La colonna e il fondamento della verità grazie al contributo encomiabile di Natalino Valentini, al quale si deve la cura di molti altri scritti, tra cui Bellezza e liturgia, l'epistolario dal gulag Non dimenticatemi e le memorie Ai miei figli. Come ogni dichiarazione d'amore, anche questa si rivolge alla più intima umanità dell'interessato, a quel mistero personale non riassumibile nelle sue conoscenze. Dico questo per liberare Florenskij dall'incanto della sua genialità («il Leonardo da Vinci della Russia») per l'essere stato matematico, fisico, ingegnere, e, sull'altro versante, teologo, filosofo, storico dell'arte. Marito e padre di cinque figli, fu anche sacerdote ortodosso, status che gli costò la vita nel 1937. Essere sacerdote e insieme scienziato era una smentita vivente dell'ideologia comunista, per la quale la fede era solo ignoranza: la dittatura non poteva tollerarlo e non lo tollerò.

Da una lettera del 1917 emerge la sua inconfondibile personalità: «Nello spazio ampio della mia anima non vi sono leggi, non voglio la legalità, non riesco ad apprezzarla... Non mi turba nessun ostacolo costruito da mani d'uomo: lo brucio, lo spacco, diventando di nuovo libero, lasciandomi portare dal soffio del vento». Eccoci al cospetto di un nesso incandescente: dedizione assoluta per «la colonna e il fondamento della verità» e insieme vibrante ribellione a ogni legaccio della libertà. Si comprende così come non solo per il regime ma anche per la Chiesa gerarchica il suo pensiero era ed è destabilizzante, tant'è che ancora oggi, nonostante il martirio, Florenskij non è stato beatificato. Durante la prigionia scriveva al figlio Kirill: «Ho cercato di comprendere la struttura del mondo con una continua dialettica del pensiero». Dialettica vuol dire movimento, pensiero vivo, perché «il pensiero vivo è per forza dialettico», mentre il pensiero che non si muove è quello morto dell'ideologia, che, nella versione religiosa, si chiama dogmatismo.

Il pensiero si muove se è sostenuto da intelligenza, libertà interiore e soprattutto amore per la verità, qualità avverse a ogni assolutismo e abbastanza rare anche nella religiosità tradizionale. Al riguardo Florenskij racconta che da bambino «il nome di Dio, quando me lo ponevano quale limite esterno, quale sminuimento del mio essere uomo, era in grado di farmi arrabbiare tantissimo». La sua lezione spirituale è piuttosto un'altra: la fede non è un assoluto, è relativa, relativa alla ricerca della verità. Quando la fede non si comprende più come via verso qualcosa di più grande ma si assolutizza, si fossilizza in dogmatismo e tradisce la verità.

La dialettica elevata a chiave del reale si chiama antinomia, concetto decisivo per Florenskij che significa «scontro tra due leggi» entrambe legittime. L'antinomia si ottiene guardando la vita, che ha motivi per dire che ha un senso e altri opposti. Di solito gli uomini scelgono una prospettiva perché tenerle entrambe è lacerante, ma così mutilano l'esperienza integrale della realtà. Ne viene che ciò che i più ritengono la verità, è solo un polo della verità integrale, per attingere la quale occorre il coraggio di muoversi andando dalla propria prospettiva verso il suo contrario. Conservando la propria verità, e insieme comprendendone il contrario, si entra nell'antinomia.

«La verità è antinomica e non può non essere tale», scrive Florenskij nello straordinario capitolo della Colonna dedicato alla contraddizione dove convengono Eraclito, Platone, Cusano, Fichte, Schelling, Hegel. Ma è per Kant l'elogio più alto: «Kant ebbe l'ardire di pronunciare la grande parola "antinomia", che distrusse il decoro della pretesa unità. Anche solo per questo egli meriterebbe gloria eterna». In realtà questa celebrazione della vita aldilà del concetto è il trionfo dell'anima russa, quella di Puskin, Gogol', Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Pasternak, e che pure traspare da molte pagine di Florenskij cariche di poesia.

Per lui anche la Bibbia e la dottrina sono colme di antinomie, in particolare la Lettera ai Romani è «una bomba carica di antinomie». Ma di ciò si deve preoccupare solo chi ha una concezione dottrinale del cristianesimo, non chi, come Florenskij, lo ritiene funzionale alla vita.

Tra i due nomoi dell'antinomia non c'è però per Florenskij perfetta simmetria: operativamente egli privilegia il polo positivo. Pur sapendo bene che «la vita non è affatto una festa, ma ci sono molte cose mostruose, malvagie, tristi e sporche», non cede mai alla rassegnazione o al cinismo; al contrario insegna ai figli che «rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinnanzi allo sguardo interiore l'armonia e cercare di realizzarla».

Tale armonia non può venire dal mondo, dove regna l'antinomia, ma da una dimensione più profonda. La voglio illustrare con alcune righe del testamento spirituale, iniziato nel 1917, l'anno della rivoluzione, avendo subito intuito la minaccia che incombeva su di lui: «Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso sull'animo, guardate le stelle o l'azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all'aria aperta e intrattenetevi, da soli, col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete».


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vendredi, 04 juin 2010

Le pentecôtisme, bras armé de l'impérialisme américain en Afrique subsaharienne?

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Le pentecôtisme, bras armé de l'impérialisme américain en Afrique subsaharienne ?

Le pentecôtisme, courant de l’évangélisme issu des États-Unis et connu pour ses manifestations liturgiques de masse très démonstratives, mais également ses méthodes fortement matérialistes, connaît un fort développement en Afrique Noire, comme dans le reste du monde.

Associé à l’image de Simone Gbagbo ou à une certaine extrême droite américaine (proche de l’ancien président George W. Bush), il est souvent vu comme un instrument de l’impérialisme US, chargé de propager à coup de prosélytisme leurs valeurs et leur vision du monde. Cependant, sur le terrain, le pentecôtisme africain obéit à des dynamiques un peu plus complexes que cette vue manichéenne ne pourrait le laisser penser.

Une implantation centenaire

Le pentecôtisme naît au début du XXe siècle aux États-Unis (en 1901 dans une église blanche du Kansas et en 1906 dans une église noire de Los Angeles) et au Royaume-Uni, d’une dissidence au sein d’églises réformées. Son dogme est fondé sur une interprétation littérale de la Bible, mais ce qui le différencie des autres mouvements protestants est l’importance accordée au « baptême par le Saint-Esprit », manifesté par les charismes (ou dons de Dieu aux croyants) et le lien direct et intime entre Dieu et le croyant.

Très vite, des missionnaires pentecôtistes arrivent en Afrique anglophone, par le biais de la colonisation britannique, notamment en Afrique du Sud, au Liberia et au Burkina Faso. Ceci est facilité par la création, dès 1914, des Assemblées de Dieu, fédération de communautés pentecôtistes américaines, disposant d’une puissante branche missionnaire qui fait de l’Afrique de l’Ouest son terrain privilégié d’évangélisation. Des Assemblées équivalentes apparaissent en Europe de l’Ouest et du Nord au milieu du XXe et vont envoyer des missions en Afrique Centrale. Ceci va résulter en la création d’églises nationales africaines autonomes, qui elles mêmes vont évangéliser les pays voisins. En parallèle, vont apparaître des églises totalement indépendantes et de taille très variable, comptant parfois quelques fidèles autour d’un pasteur.

Après une période d’ « institutionnalisation », un renouveau pentecôtiste est perceptible dès les années 1970, suivant celui observé en Amérique du Sud, d’abord marqué au sein des pays anglophones (Nigeria, Ghana) puis francophones (les deux Congo). Enfin, plus récemment, et avec moins de succès, le pentecôtisme tente de pénétrer les pays musulmans comme le Sénégal et le Maghreb.

Aujourd’hui répandu à travers tout le continent, principalement dans les zones urbaines, il n’est cependant majoritaire nulle part, et sa répartition reste très inégale. Malgré la difficulté à obtenir des chiffres, de par la disparité même du mouvement, sa porosité avec les autres croyances évangéliques et protestantes et l’absence d’autorité centrale, certains estiment qu’il y a plus de 100 millions de pentecôtistes en Afrique Noire. Le Nigeria étant, derrière le Brésil, la Corée du Sud et les États-Unis, le pays comptant le plus d’adeptes. Au niveau mondial, il s’agit de la branche de la chrétienté connaissant aujourd’hui la plus forte croissance (prosélytisme oblige), et en serait, derrière le catholicisme, la seconde plus grande dénomination.

Une certaine adéquation au moule anglo-saxon

Dans nombre de ses caractéristiques, le pentecôtisme promeut des valeurs en rupture avec la tradition africaine et compatibles avec la vision anglo-saxonne du monde.

L’image la plus connue est celle de manifestations de masse dans des mega-churches ou des stades remplis de fidèles en transe, galvanisés par un prêcheur « télévangéliste », qui pratique en direct des guérisons miraculeuses, véritables batailles contre le Malin. De vrais «shows à l’américaine » dans lesquels la « machine narrative » tourne à plein. Ces « délivrances », extrêmement spectaculaires et violentes, consistent à extraire du corps du pauvre sujet les forces diaboliques, sources de tous ses problèmes. La puissance de conviction de tels actes fait que de plus en plus d’églises pentecôtistes, même initialement réticentes, l’intègrent à leurs rituels… Il ne s’agit là qu’un des exemples de la forte dimension « marketing » du mouvement, par ailleurs passé maître dans l’utilisation des médias, marqué également par des dérives mercantiles de la part de nombreux pasteurs, plus hommes d’affaires qu’hommes de Dieu, qui confondent le denier du culte et leur compte en banque, qui roulent en 4x4, portent des montres en or et collectionnent les costumes sur mesure.

Plus fondamentalement, le pentecôtisme (ou du moins une grande partie des églises s’en réclamant) promeut la réussite financière et matérielle et l’initiative personnelle. C’est ce que l’on appelle la « théologie de la prospérité » teintée de libéralisme et issue, sans surprise, des États-Unis. La situation favorable d’un individu y est vue comme résultant des grâces divines, ce qui rencontre à la fois un écho favorable auprès des populations pauvres aspirant à une vie meilleure et des plus riches, qui y trouvent là une justification bien pratique de l’ordre social établi, voire de l’augmentation des inégalités. En poussant plus loin, cela justifie également l’enrichissement personnel du pasteur que nous évoquions il y a quelques lignes. Certains en concluent que le pentecôtisme est un « supermarché de la foi ».

Elisabeth Dorie-Aprill et Robert Ziavoula, dans leur article « La diffusion de la culture évangélique en Afrique Centrale », citent ainsi un pasteur aux accents néo-wébériens :

  • Dieu ne parle que de vous enrichir, c’est ce qu’il a dit à Abraham : “enrichissez-vous!” Mais comment on peut s’enrichir en restant comme ça là ? (…) Quand vous lisez la Bible de A à Z ce n’est que l’idée de la construction.[...] D’ailleurs les pays anglo-saxons qui sont protestants, ils ont mis l’accent sur le travail.

Cette promotion des valeurs entrepreneuriales est finalement très en accord avec les messages que des institutions comme la Banque Mondiale ou le FMI peuvent véhiculer. D’ailleurs, les Assemblées de Dieu font directement référence, dans leurs brochures, à la mauvaise santé économique de l’Afrique, dont les causes sont bien connues :

  • guerres fratricides…, mauvaise gestion de certains dirigeants…, aspects négatifs du colonialisme et du marxisme, dette extérieure toujours croissante à cause des importations de produits manufacturés, agriculture souvent rudimentaire.

Au niveau social et sociétal, en promouvant un lien intime entre Dieu et le croyant, le pentecôtisme met en avant l’individualisation et l’individualisme au détriment des traditions locales. Sont introduites de nouvelles logiques de solidarités entre les individus, détachées descontraintes familiales et de la communauté existante. La famille, quant à elle, est resserrée à son acception nucléaire. En ce sens, le pentecôtisme (finalement comme toute religion prosélyte) implique une acculturation du croyant qui rejoint ses rangs, en l’enjoignant de rompre avec le passé pour conjurer les maux qui le rongent.

Une montée en puissance politique

Jusqu’à très récemment, les églises pentecôtistes africaines ne se souciaient pas de politique. Cependant, souvent par intérêt (pour convertir, moraliser ou pour assouvir une ambition personnelle du pasteur), cet état de fait a changé dès les années 1990. Ainsi le pentecôtisme s’est rapproché des cercles du pouvoir. L’exemple de la Côte d’Ivoire est particulièrement parlant. Il a longuement été commenté dans la presse francophone, notamment pour l’impact supposé que les conseillers religieux du couple présidentiel auraient eu dans la relation avec la France.

La conclusion du dernier discours sur l’état de la nation de l’ancien président béninois, Mathieu Kérékou, en décembre 2005, est particulièrement éloquente :

  • En ce moment crucial où la tendance est aux invectives, aux provocations, aux  appels à peinvoilés à la violence, j’exhorte tous nos compatriotes a plus de retenue, car ceux qui pactisent avec le diable ne seront sûrement pas capables d’éteindre le feu de la haine qu’ils auront inconsciemment allumé. Quant à mon Gouvernement, les générations montantes et futures retiendront que la mission est accomplie et bien accomplie. C’est sur ces mots de foi et d’espérance en l’avenir radieux pour notre cher et beau pays, le Bénin, que je termine mon message sur l’état de la Nation devant la Représentation Nationale. Que Dieu bénisse le Peuple béninois et ses Dirigeants !

L’action dans le champ politique se fait, comme l’explique Cédric Mayrargue (Les dynamiques paradoxales du pentecôtisme en Afrique subsaharienne), à la fois :

  • par le haut : conversion des élites (à titre d’exemple, Thomas Yayi Boni, successeur de Kérékou, est un pentecôtiste converti d’origine musulmane), fidèles nommés à des postes clés, postes de conseillers pour les pasteurs, etc;
  •  par le bas : ouverture d’écoles, de cliniques, de centres sociaux, création d’ONG, autant de nouveaux outils de prosélytisme.

Cet investissement, sans surprise, permet de peser sur les politiques publiques. Cédric Mayrargue donne l’exemple de l’abandon de la campagne « Abstain, Be Faithful, Use Condoms » en Ouganda grâce à l’appui de l’épouse « born again » du président, Janet Museveni. On peut également citer la stigmatisation des « non-chrétiens » et des « nordistes » en Côte d’Ivoire. Ou la participation de l’ancien président de Zambie, Frederick Chiluba, à des « croisades » et conventions pentecôtistes.

Des influences extérieures

La diffusion des valeurs pentecôtistes, au-delà de la période initiale décrite plus haut, est accompagnée de l’extérieur. Ainsi les Assemblées de Dieu américaines, ainsi que d’autres, fournissent des moyens financiers à certaines églises locales. De même, elles alimentent les pasteurs en matériel : brochures, vidéos…Les best-sellers des télévangélistes américains sont disponibles dans toutes les « bonnes » librairies, tout comme des programmes TV made in USA tournent en boucle sur certaines chaînes de télévision. Certains prêcheurs américains, tels des stars du rock, effectuent de véritables tournées en Afrique, remplissant les stades et écoulant leurs produits dérivés.

Les Assemblées de Dieu comptent, comme d’autres institutions évangéliques et pentecôtistes, aujourd’hui encore plusieurs centaines de missionnaires qui font en permanence le tour du monde dans le but d’apporter la bonne parole. De même, les églises anglo-saxonnes ont mis sur pied de nombreuses ONG à vocation humanitaire, comme Samaritan’s Purse, qui travaillent sur le terrain africain avec les pentecôtistes locaux.

Origine américaine, promotion de valeurs anglo-saxonnes, intégration du politique, investissement du champ social, soutiens extérieurs, évangélisme offensif, prosélytisme auprès de populations musulmanes (et parfois conflits interconfessionnels ouverts, comme au Nigéria) : il n’en faut pas plus pour que surgisse le spectre d’infiltration à des fins géopolitiques. Et cela va plus loin qu’une simple « américanisation » de la chrétienté africaine.

Il faut dire que les évangélistes américains, associés aux néo-conservateurs, promeuvent un christianisme radical, ultraconservateur et très offensif allant de pair avec une vision simpliste du « bien » et du « mal », et n’ont pas hésité à parler de « croisade » dans le cadre de la guerre d’Irak. Il convient également de rajouter que, notamment en Afrique du Sud, le pentecôtisme a frayé avec l’extrême-droite, qui a alimenté son fond théologique (voir Paul Gifford, The Complex Provenance of Some Elements of African Pentecostal Theology). Et si l’on inclut les Églises sionistes (présentes en Afrique du Sud depuis la fin du XIXème) à l’équation, on a de quoi alimenter le feu conspirationniste pendant des décennies.

D’autant que certaines rumeurs concernant des opérations montées par les services secrets américains vont bon train. Même s’il est avéré que des initiatives de recensement d’églises dans plusieurs pays africains sont lancées et financées depuis les États-Unis, il n’y a cependant pas, comme pour l’Amérique du Sud, de théories très structurées relatives à l’appui direct de sectes évangéliques visant à contrer des influences néfastes, communistes ou autres. On se souvient que, dans les années 1980, Ronald Reagan avait très peur de l’infiltration marxiste et de la théologie de la libération au sein de l’Eglise catholique en Amérique Latine. Et donc, naturellement, Washington voyait d’un bon œil le développement de concurrents moins rouges. Cependant, comme le montrent David Stoll (Is Latin America Turning Protestant? The Politics of Evangelical Growth) et David Martin (Tongues of Fire: The Explosion of Protestantism in Latin America), il n’y a pas eu de soutien direct de la part des États-Unis.

Nous allons le voir, il faut relativiser l’influence nord-américaine dans la propagation du pentecôtisme africain, largement marqué par des dynamiques propres au Continent Noir.

Le pentecôtisme autochtone, entre culture populaire et mondialisation

Nous l’avons déjà évoqué, il y a en Afrique un nombre incalculable d’églises pentecôtistes. Certaines rassemblant des millions de fidèles, d’autres quelques uns à peine. Certaines sont issues des missions occidentales, mais de plus en plus sont celles qui ont éclos de façon locale. Certaines existent depuis près de cent ans, d’autres apparaissent et disparaissent en un clin d’œil. Et dans leur immense majorité, elles sont indépendantes, à la fois les unes des autres, mais également de leurs homologues nord-américaines, brésiliennes ou européennes, même si des liens (surtout moraux et confessionnels) peuvent exister. L’absence d’autorité centrale renforce la mobilité théologique des différents mouvements.

La mobilité concerne également l’allégeance des fidèles. La fragilité de la plupart des églises, l’absence d’exclusivisme (contrairement à d’autres sectes) et la porosité entre les mouvements y sont pour beaucoup. De même que la très forte concurrence qui existe en Afrique subsaharienne : le paysage religieux y est marqué par une extrême complexité, entre le catholicisme, les nombreuses sectes protestantes (évangéliques ou non), l’islam et les cultes locaux toujours actifs, sans oublier les syncrétismes occidentalo-africains, comme le kimbanguisme au Congo, qui compte entre 3 et 4 millions de fidèles. Cette double mobilité est un sérieux frein à toute tentative de mainmise extérieure globale. Le développement actuel du pentecôtisme en Afrique est dû, plus qu’aux influences extérieures, au terreau propice (difficultés économiques, aspiration au développement) et à l’établissement de ce que l’on peut appeler une culture populaire. Où quand l’expérience et la pratique passent avant le fond théologique.

Comme le souligne Cédric Mayrargue, les églises pentecôtistes les plus dynamiques aujourd’hui sont autochtones et sont menées par des pasteurs locaux, comme la Redeemed Christian Church of God (dont le pasteur, Enoch Adejare Adeboye, a été nommé homme le plus puissant d’Afrique par Newsweek) ou la Deeper Life Bible Church nigérianes, le Christian Action Faith Ministries ou l’International Central Gospel Church ghanéens, la Family of God zimbabwéenne. Ces églises ont su traverser les frontières et se doter d’une ambition universelle, drainant chaque semaine des milliers de fidèles lors de « croisades » dans des stades ou sur des places publiques.

Leur présence dépasse aujourd’hui les frontières africaines. La Church of Pentecost ghanéenne est ainsi implantée au Royaume-Uni, en France, aux États-Unis, en Ukraine et en Inde. Les flux ne sont plus simplement dirigés dans le sens Nord-Sud mais s’orientent désormais selon un axe Sud-Sud et même Sud-Nord, notamment grâce aux diasporas. Cela ne concerne pas uniquement les transferts d’argent, mais aussi et surtout le fond théologique : l’Afrique participe activement à la production idéologique et théologique du pentecôtisme. Où le Continent Noir n’est plus seulement importateur mais aussi exportateur d’influence, une marque de plus de son intégration à la mondialisation actuelle.

JGP

Alliance géostratégique

samedi, 08 mai 2010

Culture composite et égalité des religions

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

CULTURE COMPOSITE ET EGALITE DES RELIGIONS

 

multiculture.jpgL'éditeur Trédaniel a publié sous ce titre, en 1994, une traduction de trois textes rédigés par l'Hindou Harsh Narain. Cet essai soulève des problèmes de dimension mondiale : les intrigues des diverses branches bibliques pour liquider la seule religion qui donne à chacun une place : le polythéisme.

 

Le premier essai décortique le mensonge pieux de la prétendue culture composite hindo-musulmane. Il apparait clairement que la propagande quotidienne en faveur du métissage, martelée en Europe par des hyènes médiatiques de plus en plus écoeurantes, est une version européanisée du mythe de la culture composite répandu en Inde.

Les postulats de ces élucubrations sont au nombre de cinq :

 

1 - La culture indienne est composite.

2 - La culture composite essentielle est Hindo-musulmane.

3 - Les hindous doivent remercier les musulmans pour leur contribution à la culture composite.

4 - La période de culture composite est essentielle pour expliquer l'harmonie communale et l'intégration nationale.

5 - La composition des cultures est toujours souhaitable.

 

Les promoteurs du sublime concept de culture composite font l'impasse sur les différences entre culture et civilisation. Mais meme s'il est impossible de compartimenter la vie sociale en caissons étanches, en sorte que culture et civilisation s'influencent, le concept de culture composite a au moins trois sens :

 

a~ L'assemblage culturel, lorsque des phénomènes culturels sont interreliés par la contiguïté spatiale ou temporelle. Mais il n'y a pas derrelation interne essentielle entre ces composants.

 

b) L'éclectisme : mélange hasardeux, indépendant et indifférent à l'identité et au génie des cultures respectives Goncernées. L'éclectisme est provoqué. Il peut apparaltre notamment à cause de la perte de vitalité d'une cultur'e dont les représentants tendent à imiter des traits ( bons, mauvais, indifférents ) d'autres cultures. Le résultat est alors un protée, une bouillie indigeste, un salmigondis culturel affligeant.

 

c) Culture synthétique ou synthétisée, culture née du mélange heureux de diverses cultures.

 

Si la société et la civilisation sont des ensembles qui entrent assez facilement en composition, il n'en est pas de meme pour la culture qui est plus intangible et plus subtile. En sorte que la culture influencée par d'autres n'est pas nécessairement composite. Etre influencé est une chose ; être composite en est une autre. En réalité, des cultures se combinant pour former une culture composite, c'est un phénomène rare dans l'histoire. Les cultures des non-Indiens sont des cultures d'origine sémitique qui ont toujours agi comme contre-culture ou inculture. Les missions en Inde, selon Narain~ ont abouti à une extraordinaire acculturation des opprimés et des rejetés. Ce résultat évoque les pratiques des sectes judéo-chrétiennes dans l'Empire romain ainsi que les efforts actuels de divers groupes privés pour installer ~et rééduguer) en Europe des colonies de peuplement.

 

La démarche des promoteurs de la culture composite hindo-musulmane ressemble étrangement à la propagande que subisse les Européens. Tout ce qui précède cette culture doit sombrer dans l'oubli ; tout ce qui précède doit etre calomnié. La justification mensongère fonctionne à plein rendement. Les partisans de la culture composite hindo-musulmane affirment que " la domination musulmane en Inde n'était pas une domination étrangère ". Ils soutiennent que quoique d'origine étrangère et quoique envahisseurs, les musulmans sont devenus indiens oubliant leur pays d'origine. Ce bavardage est d'une logi~ue faible. Le simple établissement dans un pays ne donne pas au pillard qualité d'indigène. " On doit d'abord considérer quels intérêts il dessert " (p.34).

 

La masse des gouvernants musulmans en Inde eut comme premier souci de déraciner la religion et la culture hindoues. L'Inde était un Dar al-Islâm. Les ultimatums aux Hindous étaient fréquents : embrassez l'Islam ou mourrez ! Dans d'autres cas, la suggestion était : "le roi doit au moins frapper de disgrâce, de déshonneur les mushrik et les hindous qui adorent les idoles~ et rendre infâ~e leur nom... Ce qui doit montrer que les rois sont protecteurs de la foi est ceci : quand~-ils voient un hindou,~leurs visages rougissent et ils désirent l'enterrer vivant..." (p. 35~.

 

Narain rappelle que les conquérants et gouvernants musulmans ont fait la même chose partout : Egypte, Turquie, Irak, Syrie, Iran, Afghanistan, etc. " Partout où ils ont été, ils ont semé le désastre." (p.36). Après la conquête de l'Iran, le persan sombra danstle coma car le conquérant arabe donna l'ordre de détruire tous les livres de l'Iran. L'Espagne fut le seul pays qui, ayant subi le joug pendant 700 ansl parvint à le rejeter. Il y eut quelques rares exceptions : l'Empereur Raniska, membre d'une tribu nomade turque, qui règna à partir du Peshawar et fit frapper des monnaies aux effigies des dieux de la Grèce, du Zoroastrisme, du bouddhisme et de l'Hindouisme ; Akbar le grand Moghol, qui se comporta en Indien vis à vis des Indiens.

 

La grandeur de la tradition polythéiste hindoue tient sa démarche INCLUSIVE. Tous les groupes humains qui pénétrèrent Inde avant l'avènement de l'Islam eurent droit à une caste dans cadre des varnas qui leur convenaient. Mais, en Inde comme en Europe, sous l'influence des monothéismes, la maladie de l'exclusivisme a été contactée. Pour la cause de l'Islam, la société hindoue n'était rien de plus qu'un terrain de chasse. " C'était un gouvernement des musulmansJ pour les musulmans, et par les musulmans "(p.43). La politique des gouvernants musulmans fut d'abaisser les Hindous en les gardant dans l'illettrisme et la pauvreté abjecte afin qu'ils deviennent un prolétariat culturel. Il fallait priver l'hindouisme de son expression supérieure. L'esclavage permit aussi d'épuiser la caste des brahmanes et des kshatriya. L'esclave embrassait la religion de son maître. Enfin, ils bâtirent mosquées, Khangah, auberges, orphelinats, écoles islamigues avec les fonds publics, c'est-à-dire avec l'argent pris dans la poche des hindous.

Narain précise aussi le cas du soufisme qui a réussi à se présenter comme l'Islam libéral. Et il est exact que de nombreux soufis ont abandonné l'exaltation de l'Islam devant éliminer les Hindous. Mais de nombreux ordres et monastères soufis de l'Inde médievale ont attisé ou favorisé le fanatisme des gouvernements musulmans. De même nombreux furent les soufis guerriers destructeurs de temples et tueurs d'hindous. Sans oublier l'action prosélyte. Ainsi, l'ethos de l'Islam est trop radicalement différent, trop incompatible avec l'Hindouisme, son attitude trop intransigeante pour qu'il donne la main à une autre culture. " Le Coran et le Prophéte interdisent aux musulmans de lier amitié avec les Kâfir (Hindous)" (p.52).

 

En terminant ce premier article sur " le mythe de la culture composite ", Harsh Narain évoque le grand choc actuel que subit la culture hindoue : la culture occidentale dont les aspects sont devenus mondiaux et paraissent en mesure de dévorer toute les cultures. La plupart des dirigeants, élevés dans des universités anglo-saxonnes, font une propagande interne insensée en faveur de la culture composite c'est-à-dire, selon la terminologie en vigueur en Europe, le métissage. Or, certaines teintes culturelles sont néfastes et pernicieuses, voire fatales. Les cultures sémitiques envahissent non par amitié mais pour balayer. La culture musulmane eut pour dessein déclaré l'islamisation et sa méthode, la croisade, changea de forme et de couleur au gré des circonstances. Aussi ces cultures sémitiques sont-elles une anticulture, une culture parasite ou une contreculture.

 

Un second article de onze pages pose la question fondamentale des prochaines années : l'Inde est-elle Dar al-Harb ( le domaine~de la guerre ) ou Dar al-Islam ~ le domaine de l'Islam ) ? Voire Dâr as-Salam ? Car le Coran, comme la Bible, partage l'humanité en deux catégories : les croyants (les purs) d'un côte ; les incroyants, infidèles ( ou hérétiques, racistes, anti-sémites, etc...) de l'autre.

 

Dans un Dâr al-Harb ( le domaine de la guerre ), l'attitude des musulmans se résume ainsi (p.65) :

 

- Essayer de convertir les kâfir à l'Islam.

 

Si certains résistent

 

* Essayer de les mettre au tombeau, piller et saccager leur propriété, les asser~ir.

* Là où l'imposition du d'échapper à la mort et de jizyah est licite, permettre aux kâfir racheter leur crime de kufr (infidélité~ par le paiement du jizyah, en se soumettant à la force brutale des musulmans, et en souffrant toutes sortes d'indignités en tant que dhimmi (protégés).

* Si vous n'êtes pas encore assez forts pour en user ainsi, ayez recours à l'hégire (hijrah) et attendez que votre heure vienne.

Le Dâr al-Islâm (le domaine de l'Islam) est censé être

 

a) La Mecque et Médine, que les musulmans seuls ont le droit de visiter et d'habiter.

b) Le Hedjaz (le coeur de l'Arabie~, où les kâfir n'ont pas le droit d'enterrer ou de bruler leurs morts.

c) Le reste des territoires du monde.

 

Pour un grand nombre de théologiens, un Dâr al-Islâm doit le demeurer toujours. Pour la plupart, un Dâr al Islâm devient un Dâr al Harb sous trois conditions :

* Quand le territoire en question est contigu à un Dâr al Harb.

* Quand aucun musulman n'y jouit de la sécurité qui lui est due sur la base des lois anciennes de protection.

* Quand la domination des kâfir est librement exercée.

La Compagnie des Indes Orientales, à ses débuts, laissa l'administration musulmane des provinces intacte, garda la shari'ah et agit au nom de l'Empereur musulman. Avec une patience remarquable elle attendit un siècle (1765-1864) que le pouvoir musulman se télite, afin de ne point se trouver dans la situation d'un pouvoir infidèle qui a saisi et occupé une terre d'Islam.

 

Le statut de l'Inde tronquée par les Britanniques est difficile à connaître car les ulamâ restent discrets sur ce sujet. L'école Deoband affirme qu'elle est Dâr al-Harb ; le nationaliste musulman Ahmad Madanî avait déclaré la même chose avant la partition. Selon Narain, il appartient à la communauté musulmane de décider ~i elle désire maintenir cette distinction. Les implications de leur décision seront d'une grande portée.

 

Le troisiè~e texte s'intitule : " Le mythe de l'unité et de l'égalité des religions ". On connaît les fanatiques pour qui seule leur religion est vraie ; on connaît les religions séculières, les idéologies, pour lesquelles toute religion est fausse ou stupide. Le texte traite de la conception selon laquelle toutes les religions sont une, égalesJ également valides. Ce pieux mensonge est à l'arrière-plan de la théorie de la culture composite.

 

La tendance à regarder toutes les religions comme vraies commence avec Ramakrishna (1836-1886) qui déclara : " toutes les religions, suivant des voies différentes, atteindront finalement le même Dieu. " (p.80). La fondatrice de la société théosophique, Mme. Blavatsky, se plongea dans la multiplicité des traditions religio-occultistes du monde entier et ouvrit la voie à des compilations sur l'unité essentielle de toutes les religions. Enfin, René Guénon souleva l'idée de l'existence d'une tradition religio-philosophigue pérenne qui constitue la matrice des religions et cultures du monde. A sa suite, nous citerons des noms aussi célèbres que Schuon, Zimmer, Coomaraswamy, Huxley, EliadeJ Nasr qui proposèrent un sanâtanadharma comme fondement commun de toutes les traditions religio-philosophiques.

 

Cette voie fut aussi prise par Gandhi, Vinoba et leurs disciples. Gandhi proclama : " Toutes (les religions~ procèdent du même Dieu, mais toutes sont imparfaites parce qu'elles nous sont parvenues par des moyens humains imparfaits " (p. 83). Il croyait aussi en l'égalité de toutes les religions. Mais que peuvent signifier les mots unité et égalité des religions ? On dispose de neuf définitions au moins :

1 - Uniformité, identité formelle ; 2 - Communauté de fond ; 3 - Unité essentielle, communauté d'essence ; 4 - Parenté, ou origine commune ; 5 - Unité organique ; 6 - Unité de dévotion ; 7 - Unité d'esprit et de dessein ; 8 - Unité de moyen, d'approche; 9 - Validité égale des différences dans la perspective et dans la compétence spirituelle diversifiant l'unité essentielle.

 

Quel est le sens à retenir ? On peut essayer de grouper des religions sur la base de la communauté de leur fond. Mais elles n'ont pas toutes un fond commun. L'essence de l'Hindouisme se ramène à quatre points : le Soi éternellement autoréalisé ; l'auto-illumination (ou auto-réalisation) ; la considération requise pour les différents niveaux de compétence spirituelle ; le Dharma, la norme individuelle, sociale et cosmique. Les religions sémitiques s'en éloignent sensiblement. S'il est possible d'établir des emprunts et des échanges réciproques d'idées ou de rituels entre religions, leurs évolutions ont été 5i divergentes que la Parenté n'a plus de signification actuellement. Par exemple, les religions sémitiques ont une communauté d'origine. Mais le judaïsme est tributaire du Zoroastrisme, lequel doit beaucoup à l'ancienne science védique dont il fut une "réforme religieuse". Il y a donc une source commune. Mais les lignes de développement ont été opposées. Il est tout aussi difficile d'admettre ~ue toutes les religions enjoignent d'adorer une déité commune. L'Hindouisme incite au choix d'une déité convenant au goût propre, au tempérament, à la compétence spirituelle. Le dessein général de toutes les religions est le même. Et tant l'Hindou que le musulman acceptent le principe selon lequel une foi sincère a la capacité de sauver (cette foi réelle-doit être distinguée de la foi dogmatique qui a peu d'intérêt pour les vérités supérieures~. Cependant, les buts semblent parfois être inconciliables : l'accès au paradis est interprété de façons divergentes.

 

Au total, l'unité, l'égalité ou l'égale validité de toutes les religions ne sont qu'un mythe.

 

Frédéric YALENTIN

 

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lundi, 26 avril 2010

Jakob Wilhelm Hauer (1881-1962)

Hauer.jpgJakob Wilhelm Hauer (1881-1962): le philosophe de la rénovation religieuse

 

La trajectoire de Jakob Wilhelm Hauer est peut-être la plus étonnante en ce siècle de bouleversements et d'horreurs guerrières, de bagarres idéologiques et d'aplatissement culturel. Né dans un milieu pié­tiste à Ditzingen-Bompelhof en Souabe, dans une famille de paysans et d'artisans jadis émigrés d'Autriche vers la Forêt Noire, au temps où la monarchie des Habsbourg tolérait mal les protestants dans ses états. La famille Hauer est très pauvre, la vie est dure et tragique à Ditzingen: deux jeunes sœurs meurent le même jour lors d'une épidémie de scarlatine; Jakob Wilhelm, fort affaibli, survit. Dès son jeune âge, il doit aider son père à gagner maigrement sa vie. Mais cette rude expérience, cette jeu­nesse triste, lui livre un trésor incomparable: il expérimente et intériorise la solidarité entre les membres d'une communauté de sang. Jamais ce sens de la solidarité n'a fléchi chez lui. Cet exemple familial est à la base du principal concept que Hauer théorisera, avec son ami Martin Buber:  Das Gemeinsame, la communauté. Devant les cadavres de leurs deux petites fillettes, les parents de Hauer avaient formulé un vœu: si le garçon survit, il devra être au service de Dieu. Dieu a exaucé le malheu­reux couple: Hauer, en dépit de toutes les difficultés matérielles, deviendra pasteur et missionnaire; il fréquentera le lointain Gymnasium  et il étudiera la théologie, avec l'aide du pasteur de Ditzingen, qui lui donne des cours particuliers d'une telle qualité qu'en entrant à l'école des missionnaires à dix-huit ans, le jeune Hauer est plus calé que ses condisciples. En 1900, il part à pied à Bâle pour entrer au sé­minaire des missionnaires. Il y est un élève modèle, un “bûcheur” hors ligne, mais qui lit, à l'insu de ses supérieurs, des livres prohibés, “païens”: l'Edda, Goethe, Schiller, Nietzsche, la Divine Comédie  de Dante, et surtout Das Wesen des Christentums  de Harnack. Sa foi chrétienne est fort ébranlée, mais il le cache, car il a vraiment envie d'être missionnaire, de quitter l'Europe et de partir à l'aventure dans un pays lointain, exotique. On lui réserve un poste en Inde, sur la côte de Malabar. Mais auparavant, il doit connaître l'anglais. La mission lui paie un stage à Edimbourg en Ecosse.

 

Il effectuera sa première mission en Inde à Palghat, où il entre en contact avec la civilisation et la cul­ture indiennes. C'est là, au fond, que tout va basculer: Hauer ne convertira aucun Indien. C'est l'Inde qui va le convertir, qui va lui faire découvrir sa propre “indo-européanité”. Après un premier séjour là-bas, de 1908 à 1909, il étudie à Oxford de 1910 à 1915, avec juste une interruption: un séjour dans un camp de concentration anglais, réservé aux “alien ennemies”. Mais il peut retourner à l'université, avec la promesse de ne pas s'évader. C'est à Oxford que Hauer approfondit ses connaissances de l'Inde et surtout des techniques du Yoga. Ses travaux le rendent éminemment suspect aux yeux des supérieurs du séminaire des missionnaires de Bâle. La rupture avec le christianisme est irrémédiable. Elle est con­sommée en 1920, où Hauer devient Privatdozent  en histoire des religions, attaché à l'Université de Tübingen. Mais la routine de l'université l'ennuie. Il cherche à poursuivre sa vocation de missionnaire, non plus au service d'un protestantisme fortement teinté de piétisme, non plus sous des cieux exo­tiques, mais au profit d'une vision religieuse ancrée dans la nature, dans les paysages, axée sur la cha­rité communautaire, sur l'esprit de solidarité avec les siens, sur l'ascèse et la discipline intérieure qu'enseigne le Yoga indien, et, enfin, sur ce sentiment, encore diffus chez lui, d'une fibre religieuse commune à tous les Indo-Européens, de l'Islande au Gange. Pour enseigner cette vision religieuse sur­plombant tout ce qui est établi, bousculant toutes les conventions universitaires, il faut un terrain vierge. Et qu'offre l'Allemagne d'après 1918 comme “terrain vierge”, sinon les mouvements de jeu­nesse alternatifs, issus du Wandervogel d'avant 1914? Il fréquentera d'abord le groupe Die Neuen, animé par un pasteur, Rudolf Daur, qui commence, lui aussi, à s'émanciper des dogmes chrétiens, puis fonde une véritable école alternative, organisée sur le modèle des ligues de jeunesse: le Bund der Köngener,  dont il devient automatiquement le premier “chancelier”.

 

Ce Bund der Köngener  est trop peu connu; pourtant, il fut le théâtre de débats inimaginables au­jourd'hui, où tout est contingenté, politisé, dogmatisé, hyper-simplifié et médiatisé. Les tenants des idéologies ou des confessions les plus diverses et, apparemment, les plus contradictoires, ont pris la pa­role à cette tribune alternative, y ont confronté leurs points de vue et ceux qui avaient vraiment abjuré toute forme de dogmatisme stérilisant y ont enrichi leur bagage religieux, théologique ou philoso­phique. Le Bund der Köngener  est sans nul doute le meilleur exemple d'anti-dogmatisme en ce siècle où des millions d'hommes se sont écharpés pour ne pas s'être écoutés. Martin Buber y a présenté son humanisme et son “enracinement” juifs, de même qu'une vision du Reich (allemand) reposant sur les traditions juives, où le peuple serait éduqué et discipliné dans son intériorité et non pas par le truche­ment d'un appareil d'Etat coercitif; Karl Otto Paetel, rédacteur du Manifeste national-bolchevique, qui partira s'engager dans les Brigades Internationales et connaîtra l'exil à New York après la défaite de l'Espagne républicaine, y a défendu son idéal du paysan-soldat; Ernst Krieck, le pédagogue allemand, membre de la NSDAP et grand pourfendeur de Heidegger, y a pris la parole; des communistes, des protestants, des catholiques y ont dialogué. Mais les passions politiques faisaient rage dans cette Allemagne au bord de la guerre civile, où SA et SS étaient prêts fondre sur leurs homologues des ligues communistes et du Reichsbanner social-démocrate. Des propagandistes nazis obtus décrètent que le Bund der Köngener est “enjuivé” par la présence de Buber; les chrétiens déplorent la présence de non-chrétiens; les “rouges” refusent de dialoguer avec Krieck et Bäumler (spécialiste du matriarcat de Bachofen, de Nietzsche et du “romantisme tellurique”; membre de la NSDAP); etc. Hauer et Buber ten­tent de maintenir la sérénité du débat, y parviennent, mais réduisent automatiquement le nombre de participants et ne bénéficient plus d'aucune publicité.

 

L'idéal des Köngener était de créer une sorte de solidarité interconfessionnelle entre tous ceux qui, sur la Terre, souhaitaient sauver l'essentiel des messages religieux, le sens des communautés, devant le raz-de-marée de la modernité désaxante, déracinante, individualisante. Leurs adversaires disaient d'eux qu'ils voulaient créer une “religion-esperanto”... Reproche infondé dans le sens où la qualité des interventions et des intervenants éloignait leurs démarches de tout affadissement ou aplatissement de style “espérantiste”. A partir de 1933, quand le pouvoir change de mains à Berlin, le Bund der Köngener, dont le statut est celui d'un mouvement de jeunesse, change de nom et d'objectifs pour ne pas devoir se dissoudre dans les jeunesses hitlériennes. Finalement, Hauer fonde la Deutsche Glaubensbewegung, à laquelle se joint toute une série d'autres associations de recherches religieuses (qui mériteraient aussi d'être analysées plus en profondeur). L'association doit faire les concessions d'usage au nouveau parti totalitaire pour pouvoir continuer à exister en toute indépendance. Hauer et ses amis souhaitent surtout que les recherches religieuses demeurent indépendantes, n'aient pas à s'aligner sur les diktats d'un parti ou à s'inféoder à une église ou à un “christianisme germanique”. En 1935, Hauer et le Comte Ernst zu Reventlow remplissent le Palais des Sports de Berlin, pour parler de religion et de métaphysique! La puissance de ce mouvement patriotique mais alternatif, de ces tenants d'une révolution intérieure (Buber!), devient suspecte. Les attaques ne cessent plus: c'est dans le parti et non pas dans une “association extérieure” qu'on réalisera la révolution (même la révolution intérieure); on interdit aux membres de la jeunesse hitlérienne de faire partie de la DGB; finalement, Heydrich en devient membre pour mieux la contrôler. La présence du chef de la police fait perdre au mouvement tout son aura. Hauer est contraint d'adhérer aux différentes instances du parti, afin de conserver ses chaires. Buber se réfugie en Palestine. Mais les modestes nominations de Hauer le compromettront après 1945. L'indéfectible amitié de Martin Buber, émigré en Palestine en 1938 après la “Nuit de Cristal”, le tirera d'affaire. Et la grande aventure de ces deux formidables complices pourra continuer jusqu'à la mort de Hauer en 1962. Les associations qu'ils ont fondées ou patronnées dans les années 50 continuent de travailler aujourd'hui.

 

Les années 30 sont aussi l'occasion pour Hauer d'approfondir ses connaissances de la religiosité in­dienne, de développer sa critique des dogmatismes, de réfléchir sur la métaphysique indo-aryenne du combat et de l'action, de poursuivire une quête mystique germanique en tentant, à la suite de Maître Eckart, de dégager une vision thioise du divin et de la foi (dont un texte paraîtra en français en 1935: «Le mouvement de la foi germanique», in Revue des vivants. Organe de la génération de la Guerre, IX, 1935, pp. 1491-1504). Parallèlement à cette triple recherche, Hauer tente une réflexion en profondeur sur les assises physiques et somatiques des religiosités enracinées et sur les questions impassables de la mort et de l'immortalité. En 1937, paraît un livre qui reprend l'essentiel de ses recherches en indologie, Glaubensgeschichte der Indogermanen. Dans la préface à cette anthologie, Hauer insiste sur le carac­tère nécessairement “proche de la vie” et “ancré dans un peuple précis” de toute religiosité vraie, du­rable et authentique. Il y livre aussi, de façon très concise, ses méthodes de recherche et ses conclu­sions. Notamment la différence entre foi (Glaube)  et religion (Religion).  «Par “religion”, j'entends le monde des formes religieuses, qui, en tant que partie de la culture globale d'un peuple, est soumis aux lois du devenir et de la disparition. La foi, en revanche, est l'expérience originelle de la réalité ultime et le domaine des forces intérieures, vivantes dans les tréfonds de l'âme des peuples et des races. C'est de l'interaction de ces forces que nait le monde des formes religieuses. Celles-ci sont symboles, indices, de ce domaine de l'intériorité. Voilà pourquoi on ne peut pas écrire d'histoire de la foi sans d'abord écrire une histoire de la religion. Les faits relevant de l'histoire de la religion doivent nous guider, de façon à ce que nous puissions aller à la rencontre de cette vie intérieure et que nous puissions en saisir le sens, créativement. Ainsi jaillira la connaissance sur base de laquelle nous pourrons oser une histoire de la foi. Mais nous ne serons saisis par ce sens que si ce sens est apparenté à notre propre essence».

 

La religiosité indo-européenne est une religiosité de l'action, notamment de l'action guerrière. Pendant toute sa vie, Hauer s'est insurgé contre un a priori sur le Yoga, considéré comme un exercice purement contemplatif. A priori évidemment faux, car, écrit-il dans la préface de Glaubensgeschichte der Indogermanen, une forme particulière du Yoga, dans la tradition zen du bouddhisme japonais, est le pilier porteur d'une noblesse guerrière, les Samouraïs, qui ont fait l'Empire nippon. «Ma conviction est qu'il est impossible de comprendre la civilisation indo-aryenne sans comprendre le Yoga, tout comme il est impossible de comprendre l'hellenité en excluant l'orphisme ou le platonisme, ou de comprendre la germanité, si on ôte la mystique de son patrimoine (ici, j'entends “mystique” au sens totalement posi­tif de “voie vers l'intériorité”. Sans cette voie vers l'intériorité, dans quelque forme que ce soit, il n'y a pas d'indo-européanité, ni même de germanité). L'homme indo-européen déploie certes une puissance d'action hors mesure et fait montre d'une volonté indomptée d'agir sur le monde; mais il sent instincti­vement qu'il court un grand danger, si cet agir sur le monde extérieur n'est pas compensé par un re­tour aux tréfonds de l'âme et un rassemblement des forces qui y résident, pour les opposer ensuite au monde extérieur. La religiosité indo-européenne tourne donc autour de deux pôles: d'une part, une pulsion qui la conduit à plonger dans les tréfonds de l'âme pour y découvrir ses lois et, d'autre part, une foi active en Dieu et dans le destin, impliquant un sens très austère et très sérieux de sa responsabilité dans le monde. Dans la tension qui résulte de cette opposition, jaillit la formidable dynamique de l'histoire de la foi indo-européenne, cette dynamique qui lui donne son élan constant».

 

En conséquence, la tradition indienne et le yoga ne peuvent pas être considérés comme des fuites hors du monde: «... Au contraire, c'est ici une joie d'être dans le monde qui est à l'œuvre, un sens d'être abrité dans le monde (Weltgeborgenheit) qui donne le ton». Le monde n'est donc pas dépourvu d'essence (divine), il n'est pas opposé à Dieu ou aux dieux (gottwidrig). Il n'est pas nié au profit d'un espoir de voir advenir un monde “tout-autre”, parfait, où le tragique n'aurait plus sa place. Au contraire, le monde et ses conditions, ses tragédies et ses deuils, est accepté comme tel et opposé à une intériorité inconditionnée, qui est présente dans le monde, qui peut arraisonner ce monde, que les esprits les plus lucides et les plus clairvoyants ont la faculté de saisir.

 

Revenons aux événements du XXième siècle. La tension qui a existé entre les autorités du Troisième Reich et la Deutsche Glaubensbewegung  est indéniable. Mais en 1945, qu'est-ce qui a incité les autori­tés anglo-saxonnes à ostraciser Hauer, à le suspecter de collaboration avec le régime, au-delà des titres honorifiques ou autres que lui avaient octroyés des fonctionnaires zélés et propagandistes? La dernière activité de Hauer pendant la guerre a été de mettre sur pied un “Institut Indien” à l'Université de Tübingen. Pour mener cette tâche à bien, il collabore avec le leader des indépendantistes indiens, Subha Chandra Bose, allié de l'Axe et des Japonais, pour qui il recrute des troupes. Ni les Américains ni les Anglais ne peuvent avaliser cette politique, qui aurait pu sérieusement ébranler la puissance des Anglo-Saxons pendant le conflit et qui a jeté les premières bases de l'indépendance indienne de 1947. Hauer paiera cher cette collaboration somme toute bien innocente avec Subha Chandra Bose. Il est ar­rêté le 3 mai 1945 et interné dans un camp de concentration allié. En 1947, il est relâché. Très vite, il remonte son institut indépendant d'études religieuses, qui devient l'Arbeitsgemeinschaft für freie Religionsforschungen und Philosophie. Plus tard, en 1957, avec les Prof. Heller, Brachmann et Berger, Hauer participe à la création de la Freie Akademie. Il en restera le président jusqu'à sa mort. La Freie Akademie poursuit toujours ses travaux aujourd'hui.

 

A partir de 1950, dans une ambiance plus sereine, sans arrière-fond de guerre civile, Hauer poursuit ses travaux et élargit l'éventail de ses préoccupations: réflexions sur la crise religieuse contemporaine, notion de destin, mythes et cultes des peuples primitifs, religiosité de l'“homme occidental”, réflexions sur la tolérance, étude sur le matriarcat, etc. Il meurt le 18 février 1962.

 

Trois grandes leçons doivent être tirées de l'œuvre de Hauer. D'abord, c'est toujours ce fameux “facteur X”, soit la “réalité intérieure”, qui détermine la vie religieuse et l'histoire de chaque peuple. Ce “facteur X” peut se retirer du monde, replonger dans les tréfonds de l'âme, pour revenir fortifié et agir sur la trame des événements. L'Europe finira donc par retrouver sa vision tragique du monde, cette tension fructueuse entre intériorité et arraisonnement du monde. Ensuite, la notion, partagée avec Martin Buber, de “communauté”, plus exactement, Das Gemeinsame. Tous les représentants d'un même peuple partagent une variante bien précise de l'idée (platonicienne) de “communauté”. C'est leur épine dorsale religieuse et historique. Sans cette notion, un peuple dépérit. Mais comment empê­cher ce sentiment de la communauté d'être étouffé par l'idéologie dominante, rationaliste, matérialiste et individualiste? Par la tolérance. Et la tolérance selon Hauer et Buber est la troisième grande leçon que nous devons retenir. La tolérance, ce n'est pas tout accepter indistinctement, c'est au contraire se hisser largement au-dessus des opinions idéologiques conventionnelles, pharisiennes et mesquines. De ce fait, la tolérance selon Hauer n'est pas un facteur de dissolution, mais un principe qui permet de dé­gager l'essentiel et d'unir les hommes sur la base de cet essentiel et, ainsi, de mettre un terme à des que­relles stériles, comme celles qui ont ensanglanté ce XXième siècle. Cette tolérance-là il faut la graver dans son cœur et dans son cerveau. Pour rester fidèle aux deux seuls hommes qui ont su rester haut au-dessus de la mêlée: Hauer et Buber.

 

Detlev BAUMANN.

SOURCE: Margarete DIERKS, Jakob Wilhelm Hauer (1881-1962). Leben. Werk. Wirkung, Verlag Lambert Schneider, Heidelberg, 1986, 607 p., DM 88, ISBN 3-7953-0510-1 (Bibliographie très complète, livres, articles et recensions). Précisons que les éditions Lambert Schneider sont celles qui éditent les œuvres complètes de Martin Buber. Dans la politique éditoriale de la maison, les deux amis restent donc unis, par-delà la mort.

 

Sur la Deutsche Glaubensbewegung: Ulrich NANKO, Die Deutsche Glaubensbewegung. Eine historische und soziologische Untersuchung, Diagonal-Verlag, Marburg, 1993, 372 p., DM 39,80, ISBN 3-927165-16-6.

mardi, 16 mars 2010

Lestravaux de Michel Chodkiewicz: Ibn Arabî, le Livre et la Loi

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Les travaux de Michel Chodkiewicz:

Ibn Arabî, le Livre et la Loi

 

par Serge HERREMANS

 

shaykh-ibn-arabi.jpgDescendant d'une famille aristocratique polonaise établie en France depuis quelques générations, le Professeur Michel Chodkiewicz, directeur d'études à l'Ecole des hautes études en sciences sociales, est le grand spécialiste de l'œuvre éternelle d'Ibn Arabî et de ses disciples; converti à l'Islam, il a dirigé les éditions du Seuil, où il a fait publier une quantité d'ouvrages qui permettent à nos contemporains de redécouvrir les fondements des traditions spirituelles de l'humanité. Son souci majeur est de souligner non pas le fanatisme simpliste qui transparaît dans bon nombre de manifestations fondamentalistes musulmanes  —surtout celles qui sont téléguidées depuis l'Arabie Saoudite—  mais d'ouvrir les esprits aux dimensions de générosité et de miséricorde, présentes dans l'Islam et qu'illustre aujourd'hui le Grand Mufti de Syrie, le Cheik Ahmad Kaftaru.

 

La démarche du Professeur Chodkiewicz, comme celle du Grand Mufti de Syrie, consiste à définir l'Islam essentiellement comme une religion fondée sur l'intellection de la vérité et sur la sacralité de l'existence. Lorsque l'Islam parle de «sacralité de l'existence», explique le Prof. Michel Chodkiewicz, il signifie que toutes nos actions doivent être sacralisées, perçues comme reflet de la transcendance, parce qu'elles sont voulues par Dieu. Le jeûne du ramadan, consiste, pour le croyant, à prendre conscience de sa pauvreté existentielle, de sa dépendance, de l'impossibilité de (sur)vivre sans les dons généreux d'Allah. Pauvreté et dépendance, que souligne le jeûne, doivent être sacralisées par une méditation des paroles de Dieu, consignées dans le Coran. Le jeûne montre à l'homme son indigence ontologique, ce qui le force, explique Michel Chodkiewicz, à s'interroger sur les besoins illusoires, sur les actes inutiles et sur les désirs puérils, auxquels tout un chacun est prêt à céder lorsqu'il se met en tête de vouloir construire un pseudo-paradis terrestre, taillé à sa mode.

 

La prise de conscience de l'indigence ontologique conduit à une éthique qui impose de «préférer son prochain à soi-même et Dieu à tout»; tel est le véritable sens du jeûne, qui implique le service à autrui, en dehors de toutes formes de mépris, d'indifférence ou de fausse supériorité. Se référant à Ibn Arabî, qui a écrit, «Dieu n'a pas créé les êtres à partir de rien (...) afin que tu les méprises», Michel Chodkiewicz définit le ramadan comme un exercice collectif de renoncement aux passions personnelles et individuelles; renoncement qui est le fondement de toute religion véritable: car il permet de relier les individus par l'essentiel, et empêche du même coup que ne s'instaure la loi de la jungle par le déchaînement des passions individuelles et des volontés acquisitives.

 

Pour Michel Chodkiewicz, l'élévation spirituelle a connu son maximum d'intensité chez le philosophe musulman d'Andalousie Muhy ad-Din ibn ’Arabî. Sa pensée repose sur une perception de la présence universelle de Dieu. «C'est Lui que nous voyons dans tout ce que nous voyons; c'est Lui que nous sentons dans tout ce que nous sentons. Dans toute vision, c'est Lui qui apparaît. Les langues ne parlent que de Lui, les cœurs ne palpitent que par Lui». Pour ibn ’Arabî, «il n'y a pas de mouvement dans l'univers qui ne soit pas mouvement d'amour». Parole qui rappelle Dante qui, dans la Divine Comédie, chante «l'amour qui meut le soleil et les autres étoiles». Ibn ’Arabî influence les soufis musulmans, qui répercutent sa pensée sur la spiritualité hébraïque. Ainsi, par exemple, le neveu du célèbre Maïmonide reprend intégralement des passages de Ghazali et Suhrawardi; le cabbaliste Abraham Abu l-Afiya adopte et adapte certaines thèses d'ibn ’Arabî et, en sens inverse, Ibn Hud, prince arabe du XIIIième siècle, commente à Damas l'œuvre de Maïmonide pour ses disciples musulmans et juifs. Côté chrétien, Sainte Thérèse d'Avila et Saint Jean de la Croix s'inspirent de ce filon mystique musulman.

 

Cette symbiose a disparu. Rien ne permet d'espérer son retour, vu les déchirements d'aujourd'hui. Les juifs quittent l'Espagne en 1492, n'alimentent plus leur propre ésotérisme aux sources arabo-andalouses. Idem pour les chrétiens. Il faudra attendre 1795, quand s'ouvre à Paris l'Institut des langues orientales, pour que l'on recommence à s'intéresser à la pensée islamique en Occident. Mais dans des conditions très différentes de celles qui règnaient au Moyen Age. Les traducteurs d'Avicenne et d'Averroes vénéraient ceux-ci comme leurs maîtres. Les orientalistes de la première génération examinaient et disséquaient les écrits arabes avec l'arrogance du colonisateur. Le mysticisme soufi, quand il est abordé par ces positivistes, déchoit en un exotisme «amusant»: on dresse l'inventaire de ses manifestations. La dimension authentiquement mystique de l'Islam en général, et du soufisme en particulier, ne revient pas pour corriger la superficialité matérialiste et mécaniciste de l'Europe des Lumières. Pire: l'école des orientalistes positivistes baptise «renaissance islamique», nahda  en arabe, ce qui en réalité est le commencement du déclin de la civilisation arabo-islamique; le soufisme est relégué à l'arrière-plan, considéré comme une relique du passé, au profit d'une pauvre théologie pseudo-fondamentaliste et en réalité moderniste et puritaine, aussi aride que le positivisme occidental. Dans le cadre de cette pseudo-renaissance, apparaît également le wahhabisme saoudien, avec sa théologie rigide et sa spiritualité appauvrie à l'extrême.

 

ibnarabi.jpgCette théologie schématique, dépourvue de toute vigueur soufie, de tout élan mystique, enlève toute potentialité de séduction à l'Islam. Les non-musulmans finissent par identifier l'Islam à quelques personnages sinistres qui le stérilisent. Pour sortir de cette impasse, Michel Chodkiewicz propose de réécrire complètement l'histoire de la philosophie islamique, de reprendre et de continuer les travaux de Henri Corbin. Pour le Professeur Chodkiewicz, la renaissance islamique authentique implique un retour et un recours aux écrits d'ibn ’Arabî, véritable maître de connaissance et non pas simple «philosophe». La plupart des travaux de Michel Chodkiewicz ont d'ailleurs été consacrés à ibn ’Arabî et à ses disciples (cf. Emir Abd el-Kader: Ecrits spirituels, présentation, traduction et notes, Seuil, 1982; Awhad al-Dîn Balyânî: Epître sur l'Unicité absolue, présentation, traduction et notes, Les Deux Océans, 1982; Le Sceau des Saints, prophétie et sainteté dans la doctrine d'Ibn Arabî, Gallimard, 1986; Les Illuminations de La Mecque, textes choisis des Futûhât Makkiya, Sindbad, 1988).

 

Pour Michel Chodkiewicz, l'Europe et l'Islam aurait intérêt à réouvrir le dialogue philosophique et spirituel interrompu depuis le Moyen Age. Car, à cette époque, en dépit des croisades, Chrétiens et Musulmans recherchaient en commun la sagesse, bien que sous des modalités différentes. Les sages savaient que la vérité divine et cosmique s'exprimait sous des formes religieuses différentes et que ces différences n'étaient pas indices de contrastes, mais reflets de la richesse du monde créé, émanations de la profusion du divin. Moralité: nous devons accepter l'autre et son point de vue, sans vouloir à tout prix réaliser un œcuménisme qui unifierait les formes tout en les stérilisant.

 

La figure d'Ibn ’Arabî est au centre également du dernier ouvrage de Michel Chodkiewicz:

 

Michel Chodkiewicz, Un océan sans rivage. Ibn Arabî, le Livre et la Loi, Seuil, Paris, 1992, 218 p., 120 FF, ISBN 2-02-013217-6.

 

Dans les pages de cet ouvrage, notre auteur entreprend un voyage initiatique dans la Parole divine elle-même, c'est-à-dire dans le Coran, cet «océan sans rivage». 

 

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jeudi, 31 décembre 2009

Frithjof Schuon ou l'unité de l'essence-ciel: pour son 90ième anniversaire

Frithjof-Schuon.jpgArchives de Synergies Européennes - 1999

FRITHJOF SCHUON OU L'UNiTE DE L'ESSENCE-CIEL:

POUR SON 90ième ANNIVERSAIRE

 

Frédéric d'HÖLKELUNN

 

«Et telle que serait la folie d'un homme qui, ne sachant ce que c'est que la navigation, se mettrait sur mer sans pilote, telle est la folie d'une créature qui embrasse la vie religieuse sans avoir la volonté de Dieu pour son guide».

(Bossuet)

 

«Il est des hommes qui adorent le soleil parce qu'il est une manifestation de Dieu; il en est d'autres qui refusent de l'adorer parce qu'il n'est pas Dieu, ce qu'il semble prouver par le fait qu'il se couche. Les adorateurs du soleil pourraient faire valoir à bon droit qu'il ne se couche pas, mais que c'est la rotation de la terre qui crée cette illusion; et on pourrait comparer leur point de vue à celui de l'ésotérisme, qui, d'une part, a conscience du caractère théophanique et pour ainsi dire sacramentel des grands phénomènes du monde visible, et, d'autre part, connaît la nature réelle et totale des choses et non tel aspect ou telle apparence seulement.

 

Mais il faut mentionner aussi une troisième possibilité, celle de l'idolâtrie: il est des hommes qui adorent le soleil, non parce qu'il savent qu'il manifeste Dieu, ou que Dieu se manifeste par lui, ni parce qu'ils savent qu'il est immortel et que ce n'est pas lui qui se couche (1), mais parce qu'ils s'imaginent que Dieu est le soleil; dans ce cas, les contempteurs exotéristes du soleil ont beau jeu de crier au paganisme . Ils ont relativement raison, tout en ignorant que l'idolâtrie  —ou plus précisément l'héliolâtrie—  ne peut être qu'une dégénérescence d'une attitude légitime; attitude non exclusive sans doute, mais en tout cas consciente de la situation réelle, au point de vue du sujet aussi bien qu'à celui de l'objet».

 

- (1) “Le fait que le soleil se déplace à son tour, à ce qu'il paraît, n'entre pas en ligne de compte dans un symbolisme limité à notre système solaire”. (Frithjof Schuon, L'Esotérisme comme Principe et comme Voie, page 216).

 

C'est le 18 juin 1997, que “le plus grand philosophe du XXième siècle” selon Jean Biès (1), a discrètement fêté ses 90 printemps, à la lisière des vastes forêts de l'Indiana, près de la petite cité universitaire de Bloomington, aux Etats-Unis, où il vit depuis 1980.

 

Quelques jalons biographiques:

 

Près d'un siècle auparavant, la ville de Bâle en Suisse avait bercé les premières années de son enfance (2-, quasiment au son du violon de son père, d'origine wurtembergeoise. Après un apprentissage de dessinateur d'art sur tissus dans une entreprise de Mulhouse, Frithjof Schuon qui est d'ascendance alsacienne par sa mère, effectue son service militaire dans l'armée française, tout en poursuivant des études d'Islamologie à l'Institut de la Mosquée de Paris. Il voyage au Maroc et en Algérie, approfondi ses connaissances des arts et métiers traditionnels d'Extrême-Orient, et rencontre en 1932 le Shaykh Ahmad al-Alawî, Maître d'une tariquah soufie, dont il deviendra le disciple. Lors d'une escale au Caire en 1938, Schuon rend une visite courtoise à René Guénon avec lequel il entretenait d'importantes relations épistolaires. Pendant plus de vingt ans il sera d'ailleurs le plus proche collaborateur de Guénon auprès de la revue Etudes Traditionnelles.

 

Indépendamment de son engagement au sein de l'Islam, Schuon se lie a quelques-unes des personnalités les plus remarquables des tribus sioux Lakota d'Amérique du Nord, et accompli plusieurs séjours auprès d'elles durant les étés 1959 et 1963. Son journal, ainsi que maintes études d'une acuité exceptionnelle et de splendides fresques peintes témoigneront de son empathie à l'égard de la primordialité de cette civilisation qu'il désignera de l'épithète de “Rubérien” ou “Ruberindien”.

 

Cependant, la déclaration de guerre l'oblige à écourter un voyage en Egypte et en Inde pour servir sous le drapeau tricolore; puis, la lueur des hostilités s'estompant, il gagne la Suisse où il s'établit à Pully, près de Lausanne sur les bords du Lac Léman. C'est sur ces coteaux paisibles que va se peaufiner, pendant près de quarante ans, les linéaments d'une œuvre qui sert l'arc-en-ciel divin de la Vérité parce qu'elle témoigne dans les labours du cœur humain de la Grâce de la Présence.

 

Une œuvre “essence-ciel”

 

Si l'on tente de ceindre  —tant que faire se peut!—  d'un seul regard cette somme (3) spirituelle incomparable, l'éclat premier qui en rejaillit parait s'énoncer autour de trois principes fondamentaux: Le Beau, Le Vrai et Le Bien, qui, à l'instar des lois globales  de la physique, mais avec une dimension —universelle- qui les implique, conditionne toute une hiérarchie des états d'être du microcosme au macrocosme. Platon dans sa célèbre formule “le beau est la splendeur du vrai” avait confirmé le lien indissoluble qui unit la beauté et la vérité. Ce qu'il convient de souligner, c'est que ces notions comme toutes celles présentes dans les différents livres de Schuon, doivent être appréhendées au plus intime de soi, (re)-vécues par chacun, comme une aventure intérieure.

 

Ces éléments donnés pour préciser en quoi dès que l'on aborde les religions, et plus généralement le champs de la transcendance, on ne saurait se passer d'une herméneutique des formes et de la substance symboliques dont sont constituées les Révélations. Faute de quoi les concepts ne véhiculent qu'une sorte de constructivisme intrinsèquement subjectif.

 

Devant l'efflorescence actuelle de groupes néo-païens et l'opacité que recèle l'expression même de paganisme, il convient de nous interroger sur ce phénomène. Comme l'atteste la citation de Schuon en exergue, nul mieux que lui n'est à même de clarifier et rectifier certaines dérives  néo-paiennes, à l'image de celle offerte dans une récente revue de la “nouvelle droite” française. Ainsi se confirmera l'impérieuse nécessité de la perspective schuonienne pour cette fin du second millénaire.

 

Le néo-paganisme selon la “nouvelle droite”:

 

Le n°89 de juillet 1997 d'Eléments pour la civilisation européenne, s'ouvre sur un remarquable éditorial intitulé “sortir du nihilisme” dont le propos se poursuit en quelque sorte au sein d'un entretien avec Alain de Benoist, intitulé «Comment peut-on être païen?». Extrêmement synthétique et pleinement justifié dans son diagnostic, l'éditorial d'Eléments  souffre néanmoins d'une certaine incomplétude en ce qu'il ajourne la logique même qui le sous-tend. En effet, un tel constat ne devrait-il pas déboucher sur un rattachement à l'une des Voies authentiquement traditionnelles? Dans le cas contraire ne demeurons-nous pas simple spectateur-sociologue, d'un discours au demeurant brillant? Ce sont les premières questions que suscite cet éditorial comme l'entretien qu'a accordé Alain de Benoist.

 

En page 10-11 de celui-ci, nous découvrons, on ne sait trop pourquoi ce qui suit: «Les groupes “néopaiens” extrêmement nombreux qui évoluent dans ce milieu échappent rarement à ce syncrétisme (c'est nous qui soulignons), en fait un patchwork de croyances et de thèmes de toutes sortes, où l'on voit se mêler les tarots et les “charmes” karmiques, l'interprétation des rêves et les invocations à la Grande Déesse, les traditions hermétiques égyptiennes et les Upanishads, Castañeda et le roi Arthur, Frithjof Schuon et la psychologie jungienne, le marteau de Thor et le Yi-King (...), etc.».

 

Pour un lecteur peu ou non instruit des Doctrines Traditionnelles, et surtout qui ne dispose pas d'information précise sur Frithjof Schuon, ce qui précède prête à diverses supputations qui ont en commun d'altérer l'image de ce dernier. En effet:

- M. Schuon pourrait passer pour l'un des dirigeants ou conseillers de ces “groupes néo-païens”.

- On pourrait penser que M. Schuon avalise une quelconque idée de néopaganisme, ou cautionnerait l'une des tendances ou formulations du courant “New Age” ou de l'un des auteurs ci-dessus cité.

 

Or tout ceci est contraire à la Vérité et l'œuvre inestimable de Frithjof Schuon en apporte une éclatante réfutation. Mais il y a plus ennuyeux, ce sont les deux termes de “syncrétisme” et de “patchwork” accolé à sa personne qui ne peuvent qu'induire que son propos correspondrait à un (sic) “syncrétisme” ou un (sic) “patchwork”, ce qui est encore une fois l'exacte inverse de la réalité.

 

Il suffit pour s'en convaincre de se pénétrer des deux citations suivantes: “le paganisme c'est la réduction de la religion à une sorte d'utilitarisme” (4); “Le paganisme, s'il ne se réduit pas à un culte des esprits,  —culte pratiquement athée qui n'exclut pas la notion théorique d'un Dieu—  est proprement un “angélothéisme”; le fait que le culte s'adresse à Dieu dans sa “diversité”, si l'on peut dire, ne suffit pas pour empêcher la réduction du Divin  —dans la pensée des hommes—  au niveau des puissances créées. L'unité divine prime le caractère divin de la diversité: il est plus important de croire à Dieu -donc à l'Un- que de croire à la divinité de tel principe universel. L'Hindouisme ne perd pas de vue l'Unité; il a tendance à voir l'Unité dans la diversité et dans chaque élément de celle-ci. On ne saurait donc sans grave erreur comparer les Hindous aux païens de l'antiquité, pour lesquels la diversité divine était quasiment quantitative» (5).

 

Les interprétations limitatives d'Alain de Benoist

 

schuonregards.jpgIl est manifeste qu'Alain de Benoist, sans doute par tempérament, n'a malheureusement jamais étudié (6) les écrits de Frithjof Schuon. C'est regrettable, particulièrement, dans l'optique de cet article, l'ouvrage Regards sur les Mondes anciens (7) et le chapitre (pages 9-35) qui lui donne son titre, de même que le chapitre du même livre «Dialogue entre Hellénistes et Chrétiens» (pages 71-89) qui répond à notre sens bien mieux que ne le fait Heidegger de ce que fut la relation amphibologique mais véritable entre les anciens Grecs et les premiers Chrétiens.

 

Ceci exprimé, il convient d'éclaircir les points suivants:

- Maîtrisant à la perfection les catégories de la Métaphysique Universelle (8), M. Schuon ne saurait de ce fait en aucun cas être suspecté de syncrétisme ou de toute autre idée du même genre. Rappelons que Guénon a plus d'une fois montré la différence entre synthèse et syncrétisme d'une part, et la nécessité d'un rattachement à une tradition religieuse avérée d'autre part. En l'occurrence et comme pour M. Schuon, ce fut le Soufisme au sein de l'Islam Traditionnel.

 

- Quant à la psychologie jungienne et à Jung en particulier (9), nous citerons ce judicieux commentaire de Schuon (l0) à propos de l'exigence d'une “vigilance implacable” quant à “la réduction du spirituel au psychique”: «D'après C. G. Jung, l'émersion figurative de certains contenus du “subconscient collectif” s'accompagne empiriquement, à titre de complément psychique, d'une sensation nouménale d'éternité et d'infinitude; c'est ruiner insidieusement toute transcendance et toute intellection. Selon cette théorie, c'est l'inconscient  —ou subconscient—  collectif qui est à l'origine de la conscience “individuée”, l'intelligence humaine ayant deux composants, à savoir les reflets du subconscient d'une part et l'expérience du monde externe d'autre part; mais comme l'expérience n'est pas en soi de l'intelligence, celle-ci a nécessairement pour substance le subconscient, et on en vient alors à vouloir définir le subconscient à partir de sa ramification. C'est la contradiction classique de toute philosophie subjectiviste et relativiste». Il est difficile d'être plus clair quant à la dénonciation des erreurs de la “psychologie” jungienne, comme des dérives farfelues de groupes néo-paiens!

 

D'autre part, on ne saurait, sans fausser ce qui est présupposé dans toute Révélation ou Tradition authentique, parler des écrits de M. Schuon (11)  —ou de tout autre représentant qualifié de la Sophia perennis  (12)—  de la même façon que ceux des philosophes des XIXième et XXième siècle. Dans le cas contraire, on retomberait dans un relativisme (l3) n'autorisant pas un acte de foi plénier.

 

Métaphysique et philosophie ne sont pas synonymes!

 

On s'interroge sur l'existence distincte de ces deux termes dès lors que quasi toutes les sciences “dures” (sic) ou “humaines” (re-sic) les emploient alternativement et sans se préoccuper un seul instant du sens que ceux-ci avaient à l'origine. Ce confusionnisme (l4) est assez grave car il fausse toute tentative d'interprétation du fait religieux. René Guénon a pourtant définitivement établit la distinction radicale qu'il y a lieu de retenir entre philosophie et Métaphysique (15), et la démarche “quelque peu honteuse et confuse” (16) de Heidegger se trouve renvoyée à sa juste place.

 

Quoique nous estimons beaucoup la pertinence de certaines analyses critiques d'Heidegger sur le sens de la technique dans le monde moderne, nous ne pouvons acquiescer à l'engouement disproportionné que certains lui voue à l'instar du “gourou” de la psychanalyse Jacques Lacan (17). Frithjof Schuon a bien circonscrit les confins de la pensée d'Heidegger, lorsqu'il relève dans Les Stations de la Sagesse (18): «Pour Heidegger, la question de l'Etre “a tenu en haleine l'investigation de Platon et d'Aristote”, et: “ce qui a été arraché jadis, dans un suprême effort de pensée, aux phénomènes, bien que d'une manière fragmentaire et par tâtonnements (im ersten Anlaufen)  est rendu trivial depuis longtemps” (Sein und Zeit).  Or il est exclu a priori que Platon et Aristote aient “découvert” leur ontologie à force de “penser”; ils étaient tout au plus les premiers, dans le monde grec, à estimer utile de formuler par écrit une ontologie.

 

Comme tous les philosophes modernes, Heidegger est loin d'avoir conscience du rôle tout “indicatif” et “provisoire” de la pensée en métaphysique; aussi n'est-il pas étonnant que cet auteur conclue, en vrai “penseur” méconnaissant la fonction normale de toute pensée: «Il s'agit de trouver et de suivre un chemin qui permette d'arriver à l'éclaircissement de la question fondamentale de l'ontologie. Quant à savoir si ce chemin est le seul chemin, ou s'il est le bon chemin, c'est ce qui ne pourra être décidé qu'après coup» (ibid.). Il est difficile de concevoir attitude plus antimétaphysique; c'est toujours le même parti pris de soumettre l'Intellect, qui est qualitatif par essence (19), aux vicissitudes de la quantité, ou en d'autres termes, de réduire toute qualité d'absolu à du relatif. C'est la contradiction classique des philosophes: on décrète que la connaissance est relative, mais au nom de quoi le décrète-t-on?

 

L'estimation d'Evola et celle d'Henry Corbin:

 

Julius Evola rejoint là-dessus Schuon lorsqu'il note que “le sens de l'existentialisme de Heidegger” est “sans ouverture franchement religieuse”, et que lorsque le philosophe de la Forêt Noire “parle du courage qu'il y a à éprouver de l'angoisse devant la mort” (20), nous sommes aux antipodes du type humain que toute religion bâtit dans la tourbe du temps.

 

L'anecdote sympathique (pages 16-17) d'Heidegger procédant à une génuflexion (21) “lorsqu'il entrait dans une chapelle ou une église”, dévoile une signification dont le caractère “historique” précisément, est à comprendre dans la perspective que nous avons jusqu'à présent essayé de présenter et qui se trouve également au cœur du retournement, de la transmutation qu'effectua Henry Corbin lorsqu'il délaissa Heidegger pour l'étude approfondie de Sohrawardî, Shaykh al-Ishrâq. Daryush Shayegan écrit à cet effet: «Ce que Corbin trouvait chez les penseurs iraniens était en quelque sorte un autre “climat de l'Etre” (eqlîm-e wojûd, Hâfez), un autre niveau de présence, niveau qui était exclu pour ainsi dire du programme de l'analytique heidegerienne. Le “retour aux choses mêmes” que préconisait Husserl, les mises entre parenthèses, le retrait hors des croyances admises que prônaient les adeptes de la phénoménologie, ne débouchaient pas sur le continent perdu de l'âme pas plus que Heidegger, analysant les existentiaux du Dasein et la structure de la temporalité, ne parvenait à atteindre ce huitième climat  ou le monde de l'imaginal. Ainsi le passage de Heidegger à Sohrawardî n'était pas uniquement un parcours ordinaire, encore moins une évolution mais une rupture, une rupture qui marquait l'accès à un autre climat de l'être (...) (22)”. C'est avec la publication de la traduction française du livre du sage safavide Sadr al-Dîn Shîrâzî (Mullâ Sadrâ) intitulé Kitâb al-mashâ'ir  (= Le

 

livre des pénétrations métaphysiques), qu'Henry Corbin mis “en parallèle, écrit Seyyed Hossein Nasr, le destin de l'étude de l'être en Occident et en Orient (...)” et “montra (...) dans sa magistrale comparaison entre l'ontologie de celui-ci et celle de Heidegger, que la découverte d'une métaphysique authentique révèle la limitation et l'insuffisance des débats qui occupent les principaux courants de la philosophie occidentale” (23).

 

Ce “climat” ne s'accomplit pleinement dans les tréfonds de l'homme que par le guéret des rites  qui le rétablit dans sa verticalité  chaque fois qu'il y déchoît. Or ceux-ci pour rassasier l'être de l'eau du symbole  —étoile fixe— et générer toute leur efficience, reçoivent leur légitimité seulement de la radicale Transcendance du Tout Autre qui, nous affirme Le Saint Coran “est plus près de lui que sa veine jugulaire” (24), mais il est dans son évanescence  que l'homme ne cesse de l'oublier.

 

C'est pour cette juste mesure que Jean Borella remarque encore: «Un simple regard sur le Parménide  ou le Sophiste aurait dû suffire cependant à leur faire comprendre (parlant de Heidegger et de Derrida) qu'il ne peut y avoir de compréhension (à tous les sens de ce terme) de l'être que du point de vue, qui n'est pas un point de vue, du sur-ontologique. A défaut de s'établir dans le surontologique (on y est ou on n'y est pas), on ne peut jamais parler de l'être, mais seulement à partir de l'être, et bien que la parole elle-même soit alors tout simplement impossible. C'est ici que se trouve la réponse à la question que Derrida pose à Foucault: y a-t-il un “autre” du Logos et quel est-il? Ou bien n'y en a-t-il pas? Et cette réponse est la suivante: c'est le Logos  lui-même qui est l'autre (que l'être), contrairement à ce qu'affirme Parménide qui ne le conçoit que comme parole-de-l'être (ontologos);  sinon, comment serait-il possible de dire ce qui n'est pas?» (25).

 

icon3.jpgBien d'autres remarques seraient à formuler sur cet entretien qu'Alain de Benoist à d'ailleurs renouvelé dans la revue Antaios (26), ce qui justifie à nos yeux la présente mise au point. Ainsi à propos des nuances qu'il y aurait lieu de faire entre aimer et ne pas aimer le monde, dans la référence à la lère Epître de Jean (2, 15) que donne Alain de Benoist en pages 14-15 d'Eléments, mais nous ouvririons alors un autre débat. Néanmoins nous ne poserons qu'une très simple question pour en dégager les prémices: n'est-il jamais arrivé, dans toute son existence, à Alain de Benoist de maudire, et de vouer aux gémonies la terre entière, même l'espace d'un instant?

 

Pareillement nous ne pouvons pas nous accorder avec Alain de Benoist lorsqu'il dit (pages 10-11) qu'“il n'est que trop évident qu'il (= l'ésotérisme) sert aisément de support à tous les délires”, c'est un peu court (27)! En l'occurence un certain néopaganisme véhicule autant sinon davantage de (sic) délires, surtout lorsqu'il refuse de se présenter pour ce qu'il est. C'est pourtant grâce à l'apport guénonien que nous pouvons distinguer entre occultisme et Esotérisme, surtout dans son sens doctrinal. Ne conviendrait-il pas mieux alors de parler de spiritisme (rebaptisé channeling, comme il est indiqué d'ailleurs) ou d'occultisme?

 

Nous ne pouvons supposer qu'un livre de Sel et de vie  —à la dimension impeccablement axiale, et véritable viatique pour l'homme moderne décentré comme l'est L'Esotérisme comme Principe et comme Voie, de Frithjof Schuon, qui vient d'être réédité, véhiculerait (sic) un pareil “délire”? Nous sommes persuadé que tel n'est pas le propos d'Alain de Benoist, et que seul les nécessités de l'entretien lui ont obvié la possibilité de clarifier ce point.

 

Une lettre ridicule du rédacteur en chef d'«Eléments»:

 

A la fin des Actes du XXVIième Colloque national du GRECE, le 1er décembre 1996, intitulé «Les grandes peurs de l'an 2000», Alain de Benoist relève: «Je suis toujours un peu surpris de voir à quel point il est parfois difficile pour chacun d'entendre des points de vue avec lesquels ils ne sympathisent pas. Je suis un peu différent, (...) en général, j'aime bien entendre des gens qui disent des choses que je ne pense pas (...) (28)». Fort de cette belle profession de foi, nous souhaitons que le présent petit écrit soit lu en observant si possible le sens de cette dernière!

 

Suite à un échange de correspondance relativement à ce numéro, son rédacteur en chef m'a fait part de son refus de publier ma mise au point (29) et de quelques objections vaniteuses dénuée de toute pertinence. J'en relèverai trois qui sont symptomatiques d'une clôture épistémologique:

 

a) M. Champetier estime que l'on ne saurait s'autoriser à “déduire quoi que ce soit des limites évidentes de notre constitution humaine”. Mais il ne lui vient pas un seul instant à l'esprit que ces limites ne sont si évidentes que pour lui, et que c'est lui-même qui arbitrairement se les pose!

 

Nous sommes ici en présence de l'aporie kantienne-type qui induit obligatoirement une clôture épistémologique. Kant estimait en effet que “la philosophie est non un instrument pour étendre la connaissance mais une discipline pour la limiter” (30).  Or cette limite réside ici dans l'aperception et la mission octroyée à la ratio. Autrement énoncé, c'est le serpent qui se mord la queue pour emprunter à l'un des épisodes ubuesques de Tintin au Congo l'image qui qualifie au plus près la réflexion du rédacteur d'Eléments.

 

Sur un autre plan, M. Champetier en ne tenant aucun compte des remarques —plus haut—  relatives à la fonction (31) des écrits schuoniens, entérine curieusement un égalitarisme méthodologique en ce qu'il prétend a priori récuser la pertinence de ceux-ci sans se soucier des conséquences que cela implique. En d'autres termes: M. Champetier a-t-il, oui ou non, suivi une Initiation authentique, quel est le degré  et la qualité  de réalisation de celle-ci, et enfin, maîtrise-t-il, oui ou non, tout ce qui découle  —Métaphysique comprise—  d'une Tradition donnée? La réponse à ses diverses questions ne peut qu'être négative et il apparaît dès lors que nous sommes en présence d'un incroyable orgueil dû à une ratio mutilée.

 

b) M. Champetier cite Wittgenstein, manifestement sans l'avoir vraiment lu. Il traduit quasi littéralement tout en la surinterprétant sa formule “sur ce dont on ne peut parler il vaut mieux se taire”. Outre que l'on peut également renvoyer Wittgenstein aux observations citées en a), celui-ci n'infére aucunement  —contrairement aux positivistes du Cercle de Vienne—  d'une impossibilité du langage à désigner une acception alors que son expression la proscrirait. Dans une étude importante (32), Jean-François Malherbe relève: «Nul athéisme donc chez Wittgenstein qui s'en tient strictement à montrer qu'il n'y a pas de savoir sur Dieu, si du moins l'on entend par savoir ce qui peut faire l'objet d'un discours sensé, et à suggérer une possiblité (ineffable) de Dieu. Mais il n'en va pas de même chez les positivistes logiques qui se sont référés au Tractatus comme à une “Bible”. Ce que refusent obstinément les néo-positivistes  —et qui les distingue radicalement de Wittgenstein—, c'est la possibilité que le langage montre des choses qu'il ne peut pas dire. Le problème de Dieu est donc, à leurs yeux, strictement dépourvu de sens, même de ce sens ineffable dont Wittgenstein pensait qu'il pouvait se montrer sans se dire».

 

c) M. Champetier estime que l'on “retrouverait paradoxalement dans l'humanisme moderne” une “démarche d'absoluité propre à la métaphysique”. Ou est-il allé chercher pareille incongruité? Primo, comment entend-il le terme “métaphysique”? Secondo, lorsque nous lisons,  —connivence de vue?—  comme allant de soi, chez Alain de Benoist, l'expression “métaphysique de la subjectivité” (33), nous nous demandons ce qu'il faut comprendre exactement par là? En réalité, l'humanisme moderne nous apparait d'abord marqué par un refus ou une ignorance manifeste de toute dimension de transcendance et à fortiori d'Absolu, ce qui ne l'empêche pas d'absolutiser des concepts purement relatifs,  —le phénomène de la sécularisation—  ce qui constitue sa principale aberration. Frithjof Schuon souligne bien que “l'humanisme (...) exalte de facto l'homme déchu et non l'homme en soi. L'humanisme des modernes est pratiquement un utilitarisme pointé sur l'homme fragmentaire; c'est la volonté de se rendre aussi utile que possible à une humanité aussi inutile que possible” (34), ajoute-t-il avec humour.

 

Présence de Frithjof Schuon à l'aube du 3ème millénaire:

 

Michel Valsan signale qu'“il existe nécessairement un principe d'intelligibilité de l'ensemble, correspondant à la sagesse qui dispose cette multiplicité et cette diversité. Mais ce principe ne peut être que métaphysique” (35). Nous croyons que l'honneur revient à Schuon d'avoir livré, à tous ceux qui s'en montrent dignes, les clefs  —le principe d'intelligibilité—  inestimables des grandes sagesses incréées. Ce faisant, la responsabilité lui est dévolue d'un double écueil: celui d'une interprétation erronée par manque de qualification, et où même la sincérité peut s'avérer un piège, et celui de l'utilisation équivoque et délibérément altérée.

 

Or l'une des vertus proprement traditionnelle est de servir “La Tradition” et non de s'en servir  (36).  Dans cette configuration humaine se déclôt soit l'être transfiguré par l'appel intérieur à la verticalité, ou broyé par l'implosion d'une volonté qui le vampirise. Sur ce choix existentiel, comme sur bien d'autres, quels seraient les autres Métaphysiciens  en cette fin du XXième siècle qui apporteraient dans un langage aussi cristallin les réponses aux questions légitimes que l'humain, parfois pétri d'angoisse, se pose légitimement? C'est dans l'équilibre fragile  où se dévoile les arcanes de la quête que se meut également le mystère de la rencontre de Dieu avec sa créature.

 

Dès lors pourra-t-on approcher, comprendre, notre insistance sur le service et la Grâce dont Schuon est investi pour ce prochain millénaire, alors que partout se généralisent des conflits qui trouvent leur sens originel et par là-même final au sein d'une incompréhension capitale de la relation de l'Un et du multiple? Cette portée ontologique  a entre autre été relevée par Jean Biès (37) à la fin des entretiens que Frithjof Schuon lui avait accordé voici quelques années alors qu'il résidait encore en Suisse. A juste titre, Jean Biès compare la fonction de Schuon avec le Prophète Elie. L'Universalité vraie,  —qui est l'exact contraire de l'universalisme dégénéré abstrait ou cosmopolitisme totalitaire— que Schuon incarne, constitue justement, en cette fin de siècle où se généralise le triomphe de la parodie (38), comme une sorte de miracle. Songe-t-on un instant que l'une des perspectives essentielles d'un livre tel que De l'unité transcendante des religions  est d'offrir le socle inébranlable,  —par delà tous les confusionismes aberrants du New Age—,  et la colonne vertébrale céleste sur laquelle s'édifient et puisent toutes les religions, et à travers cette Unité  qui discerne, d'assécher jusqu'à une certaine limite le stérile jeu des conflits théologiques?

 

indians27a.jpgSelon la doctrine bien connue de Saint Augustin qui est comme l'image inversée du discours d'Alain de Benoist: «En soi, la réalité qu'on appelle aujourd'hui religion chrétienne, existait même chez les anciens, et n'a pas manqué depuis le commencement du genre humain jusqu'à ce que le Christ vînt en la chair, à partir de quoi la religion vraie, qui existait déjà, commença de s'appeler chrétienne» (39). De l'Islam au Christianisme, du Paganisme à l'Hindouisme ou au Bouddhisme, le vêtement de l'exotérique se dissout toujours devant la venue de l'Ineffable. Car comme le formule merveilleusement Schuon, “les antagonismes de ces formes ne portent pas plus atteinte à la Vérité une et universelle que les antagonismes entre les couleurs opposées ne portent atteinte à la transmission de la lumière une et incolore” (40).

 

N'entrons-nous alors pas dans le temps où il nous faudrait concevoir le paganisme non comme un unilatéralisme formel, toujours en opposition, ce qui est le propre d'une expectative qui résèque toute dimension métaphysique et spirituelle  —mais plus simplement et plus véridiquement comme un simple moment de l'être, une goutte dans l'océan du divin?

 

C'est dans ce sillon qu'à l'été de l'année 1980, Georges Gondinet (41), qui actuellement dirige les Editions Pardès, adressait une lettre ouverte à Alain de Benoist, dont les termes nous semble toujours d'actualité: «“Là où existe une volonté, existe un chemin”, déclarait Guillaume d'Orange. Malheureusement, si vous possédez une incontestable volonté, vous vous arrêtez en chemin. A l'imitation de Renan, vous proposez une “réforme intellectuelle et morale”, mais vous la proposez à une société qui appelle sourdement une révolution totale».

 

Puissions-nous miser sur cette révolution du cœur  flamboyant, qui se consume dans la fidélité inébranlable aux Principes de La Tradition.

 

Frédéric d'HÖLKELUNN.

 

NOTES:

(1) Qui écrit ceci: «S'avisera-t-on un jour que le plus grand philosophe (français) du XXème siècle n'était pas parmi ceux que l'on cite partout, mais très probablement celui qui, dans l'indifférence générale et la conjuration d'un silence bien organisé, édifia patiemment, hors de tout compromis, l'une des œuvres décisives de ce temps, la seule qui, à la suite de René Guénon, mais dans une autre tonalité, rend compte en notre langue de la Philosophia Perrenis». Précisons encore une fois  —en regard de la déclaration de Jean Biès—  que Frithjof Schuon est naturalisé Suisse et né en Suisse!

 

(2) Pour de plus amples détails biographiques, voir l'étude d'Olivier Dard, parue dansl es colonnes de Vouloir et intitulée: «Frithjof Schuon le Jnâni: transparence et primordialité chez un Métaphysicien et Maître spirituel du XXième siècle», in: Vouloir, n°1 (AS: n°114-118), avril-juin 1994.

 

(3) Au sens où le terme est usité, par exemple, dans le titre de la célèbre Somme Théologique  de Saint Thomas d'Aquin.

 

(4) Voir, F. Schuon, Perspectives spirituelles et faits humains, page 92.

 

(5) Idem, op. cit., page 91.

 

(6) L'un de ses proches collaborateurs nous a d'ailleurs confirmé le fait lors d'un entretien téléphonique!

 

(7) Editions Traditionnelles, Paris, 1980. Cet ouvrage vient d'être réédité aux Editions Nataraj, F-06.950 Falicon, France. Signalons également la réédition de deux ouvrages capitaux de Schuon:

a) L'Esotérisme comme Principe et comme Voie, collection l'Etre et l'Esprit, Edition Dervy, Paris, 1997.

b) L'Oeil du Coeur, Edition l'Age d'Homme, Lausanne.

 

(8) Telle qu'elles sont exposées chez Aristote et que Schuon a corrigé dans le chapitre II/1, «Catégories Universelles», in: Avoir un Centre, pages 73-95, Edition Maisonneuve & Larose, Paris, 1988.

 

(9) Que semble apprécier Alain de Benoist, qui lui avait naguère consacré une chronique dans le Figaro-magazine  en date du samedi 28 février 1981. Cet intérêt porté à l'œuvre de Jung, qui a reçu une réfutation définitive par Titus Burckhardt, ne rejaillit-elle pas sur sa propre conception du paganisme?

 

(10) In: Images de l'Esprit: Shinto, Bouddhisme, Yoga, note 54/ page 111, Edition Le Courrier du Livre, Paris,1982. L'ami d'enfance de Schuon, Titus Burckhardt, a démontré toute l'absurdité du concept d'“inconscient collectif” et la confusion qu'entraine la “psychologie” évolutionniste de Jung dans Science moderne et Sagesse Traditionnelle, c hapitre IV, pages 87-127, Edition Archè-Milano, 1986. Pareillement, nous y découvrons une splendide mise au point de l'incompatibilité totale entre Métaphysique et “théorie” (sic) darwinienne de l'évolution: voir chapitre III, pages 61-87, du même ouvrage.

 

(11) Avec une prétention monstrueuse  —et c'est un euphémisme!—  M. Charles Champetier, rédacteur en chef d'Eléments  nous a donné à mon compatriote Olivier Dard (spécialiste de l'œuvre de Schuon), dans une correspondance privée, que nous réfutons plus loin, les preuves de son étroitesse de vue conditionnée par un réductionnisme désuet en provenance directe des singeries de l'Union Rationaliste!

 

(12) Qui, rappelle Schuon, “désigne la science des principes ontologiques fondamentaux et universels; science immuable comme ces principes mêmes, et primordiale du fait même de son universalité et de son infaillibilité (...)”, in, Sur les traces de la Religion pérenne, page 910, Edition Le Courrier du Livre, Paris, 1982. Parmi ses représentants, outre René Guénon, citons, Titus Burckhardt, Ananda K. Coomaraswamy, Jean Borella, Seyyed Hossein Nasr, Jean Phaure, Julius Evola, etc.

 

(13) Dont Frithjof Schuon a amplement démontré l'inconsistance dans les premiers chapitres de Logique et Transcendance, Edition Traditionnelles, Paris, 1982, pages 7-67, justement intitulés “La contradiction du relativisme”, “Abus des notions du concret et de l'abstrait”, “Rationalisme réel et apparent”, etc. Après une aussi irréfutable démonstration, nous ne pouvons que sourire des “post-kantiens” qui s'amusent encore avec les joujoux du “positivisme” (sic), “logique” ou pas!

 

(14)  A ce sujet, voir l'excellent petit livre de Philippe BOUET, Le Divin commerce: de la croyance à l'intelligence, Editions Harriet-Jean Curutchet, Hélette, 1995. Certains pseudo-paiens devraient en méditer toute la substantifique moëlle!

 

(15) Voir le chapitre VIII, pages 115-133, d'Introduction générale à l'étude des Doctrines Hindoues, Edition Véga, Paris, 1983. Ainsi que: La Métaphysique orientale, seule conférence que Guénon donna à la Sorbonne, Edition Traditionnelles, Paris, 1985.

 

(16) Selon les termes de Georges Vallin dans La Perspective Métaphysique, note 9, page 237, Edition Dervy-Livres, Paris, 1977. Nous ne voyons pas ce que l'extrême imbroglio heideggerien apporte de plus au non-dualisme Védantique? D'ailleurs cette manie de l'a priori qu'ont les modernes  envers La Tradition ne renvoie-t-elle pas à un vieux fond d'ethnocentrisme et d'incapacité à penser l'altérité? Si l'on nous rétorque la même réflexion, nous rappellerons, avec Guénon, que l'on ne peut prendre “la partie pour le tout” ou que le “plus ne peut s'extraire du moins”. La remarque suivante de Schuon nous paraît s'appliquer au mode de fonctionnement et au type de représentation que suscite la verbosité  —pour ne pas dire le galimatias—  de certains textes d'Heidegger auquel des philologues allemands éprouvés nous ont plus d'une fois confirmé ne rien (sic) comprendre! Cette tendance ethnocentrique à plaquer la mentalité moderne sur tout et n'importe quoi: «On fait la “psychanalyse” d'un scolastique par exemple, ou même d'un Prophète, afin de “situer” leur doctrine  —inutile de souligner le monstrueux orgueil qu'implique une semblable attitude—  et on décèle avec une logique toute machinale et parfaitement irréelle les “influences” que cette doctrine aurait subie; on n'hésite pas à attribuer, ce faisant, à des Saints toutes sortes de procédés artificiels, voire frauduleux, mais on oublie évidemment, avec une satanique inconséquence, d'appliquer ce principe à soi-même et d'expliquer sa propre position  —prétendument “objective”— par des considérations psychanalytiques; bref, on traite les Sages comme des malades et on se prend pour un dieu. Dans le même ordre d'idées, on affirme sans vergogne qu'il n'y a pas d'idées premières: qu'elles ne sont dues qu'à des préjugés d'ordre grammatical  —donc à la stupidité des Sages qui en ont été dupes— et qu'elles n'ont eu pour effet que de stériliser “la pensée” durant des millénaires, et ainsi de suite; il s'agit d'énoncer un maximum d'absurdités avec un maximum de subtilité. Comme sentiment de plénitude, il n'y a rien de tel que la conviction d'avoir inventé la poudre ou posé sur la pointe l'oeuf de Christophe Colomb», note 1, chapitre «Chute et déchéance», page 40, in: Regards sur les Mondes Anciens, op. cit. Lorsque Heidegger disserte sur Platon par exemple, on sent bien qu'il ne le considère pas comme ce que l'Académie et son Guide incarnait véritablement en son temps. Voir le témoignage de Diogène Laërce, à ce sujet instructif.

 

(17) Ce n'est pas en vain que nous établissons ce rapport entre Jacques Lacan et Martin Heidegger, et indépendamment du fait que tous deux se sont sentis le besoin de se confectionner un langage imaginaire où ils puissent à la fois se réfugier et jouer par ce moyen ce rôle d'“intellectuels” dominateurs et condescendants envers autrui qui est le propre de l'hyperrationalité du monde moderne. La psychanalyste Elisabeth Roudinesco dans sa biographie de Jacques Lacan, Edition Fayard, Paris, 1993, écrit, page 297, à propos de Jean Beaufret qui était en cure chez le Dr. Lacan: «Quand J. Beaufret se rendit rue de Ulm, il se trouvait dans un grand désarroi. Son amant, en cure chez Lacan, venait de le quitter. (...)» Un peu plus loin: «(...) Lacan portait une attention particulière à Beaufret à cause de la relation privilégiée que celui-ci entretenait avec Heidegger»; elle ajoute, page 298 que, «Lacan accepta, de fait, d'être initié à une lecture de Heidegger qui était celle de Beaufret». Beaufret fut longtemps le chef de file des heideggeriens en France. Question à Alain de Benoist au sujet de l'homosexualité du sieur Beaufret et de ses relations avec un charlatan initiateur d'une secte néo-freudienne: estime-t-il qu'un vice contre-nature additionné de délires logomachiques constituent des aptitudes réelles pour être un grand (sic) “philosophe”? Peut-il nous expliquer pourquoi le “grand” Heidegger ne s'est jamais formalisé de l'inconduite extrêmement choquante de son principal interprête français? D'autre part et de façon non moins déterminante, relevons que l'ontologie heideggerienne ne permet pas d'entrer dans une célébration du sacré, dans une transcendance qui, reliant l'homme à l'Absolu (Dieu), le constitue en même temps gardien de la Règle et réceptacle de la Grâce déifiante ou de l'influence spirituelle de celle-ci. C'est en ce sens qu'il convient d'approcher la réponse du Pasteur Jean Borel, dans Quelle religion pour l'Europe? Un débat sur l'identité religieuse des peuples européens, auquel Alain De Benoist participa, textes et propos rassemblés par Démètre Théraios, Edition Georg, Genève, 1990, en page 289, lorsqu'il dit: “L'objet par excellence de sa quête” (à Alain De Benoist) étant la compréhension du sacré, il ne peut pas ne pas être convaincu, par le sacré lui-même, de se laisser “sacraliser”, pour pouvoir rejoindre le sacré là où il l'attend, son mode d'être déterminant, encore une fois, le mode de son comprendre”.

 

(18) Note 1/, page 53, Edition Maisonneuve & Larose, Paris, 1992.

 

(19) On rappellera la célèbre parole de Maître Eckhart concernant la “prééminence” de l'Intellect sur la ratio: «Aliquid est in anima quod est increatum et increabile; si tota anima esset talis, esset increata et increabilis, et hoc est Intellectus». Saint Thomas d'Aquin dit la même chose dans la Somme Théologique en I, q, 84, a, 5. Le Prophète Muhammad (sur lui la Paix et la Bénédiction de Dieu) exprime: «La prernière chose créée par Dieu a été l'Intellect». Dans la théologie Orthodoxe, notamment chez Maxime le confesseur, l'Intellect s'appelle le "Noûs".  Enfin, le passage suivant de la Bhagavad-Gîta, ref., 14, 3., énonce la même réalité: «La Vaste-immensité (le Principe dont est issu l'Intellect) est la matrice dans laquelle je dépose ma semence. D'elle naît le premier élément, l'Intellect manifesté (...)». Ceci pour souligner que la phrase ci-dessus de Maître Eckhart n'est ni “fausse”, ni en rien “suspecte” comme le prétend tout à fait gratuitement et de façon erronée François Chenique, page 92 et suiv., de son livre Sagesse chrétienne et mystique orientale, Edition Dervy, Paris, 1996. L'un de nos amis, M. Wolfgang Wackernagel, spécialiste de Maître Eckhart auquel il a consacré une thèse publiée chez l'éditeur Vrin, nous a confirmé par écrit la rigoureuse validité de cette importante citation et sa conformité selon les dernières traductions disponibles, entre autre celle qui fait autorité du Pr. Alain Libéra. Vu l'importance de cette citation, et malgré notre admiration pour Francois Chenique, nous ne pouvons accepter qu'il l'expédie laconiquement, pour des motifs personnels qui n'ont pas lieu d'être, et finalement, d'apologétique catholique.

 

(20) Voir Chevaucher le tigre, pages 122-123, Edition Guy Trédaniel, Paris, 1982.

 

(21) Nous connaissons des personnes d'une toute autre envergure —dans tous les sens du terme— que le jeune Champetier ou que le verbeux Heidegger, qui ont procédé de même lors de leur rencontre avec Schuon!

 

(22) C'est nous qui soulignons! Voir pages 41-42, in: Henry Corbin, la topographie spirituelle de l'Islam iranien, Edition de la Différence, Paris, 1990. Rappelons qu'Henry Corbin fut le premier traducteur d'Heidegger...

 

(23) Voir, Seyyed Hossein Nasr, L'Islam traditionnel face au monde moderne, pages 197-204, Ed., L'Age d'Homme, Lausanne, 1993; et Le livre des pénétrations métaphysiques, coll., Biblioth. Iranienne, n°10, Ed., Adrien Maisonneuve, Paris, 1964.

 

(24) Sourate Qaf, L-16.

 

(25) Voir La crise du symbolisme religieux, pages 264-265, Edition l'Age d'Homme, Lausanne, 1990.

 

(26) Voir «Penser le Paganisme, entretien avec Alain de Benoist», pages 10-23, in, Antaios, Hindutva II, n°11, solstice d'hiver 1996.

 

(27) Rappelons que dans le Soufisme (at-Taçawwuf) le mot arabe “bâtin” se traduit par “ésotérique” ou “intériorité”. Voir, Titus Burckhardt, Introduction aux doctrines ésotériques de l'Islam, Ed., Dervy-Livres, Paris, 1985.

 

(28) op. cit., page 120, Ed. du G.R.E.C.E., Paris, décembre 1997.

 

(29) Lettre à M. Olivier Dard du 15 septembre 1997. D'autant plus inadmissible que ce n'est pas la première fois, et que manifestement l'analyse développée dérange le confort intellectuel de M. Champetier. Et à la fin de cette année le GRECE organisait un colloque consacré à la censure!... Rapport de causalité?...

 

(30) Kant, Kritik der reinen Vernunft, page 256, Ed. Hartenstein.

 

(31) Dans le sens Métaphysique de l'expression, ou de la finalité réelle, et de la même façon que l'entend Michel Vâlsan dans L'Islam et la fonction de René Guénon, Ed. de l'Œuvre, Paris, 1984.

 

(32) Voir J.-F. Malherbe, Le langage théologique à l'âge de la science; lecture de Jean Ladrière, page 41, Ed. du Cerf, Paris, 1985. Ce réductionnisme langagier qui s'oppose à Wittgenstein, est défini par M. Schlick dans, Die Wende der Philosophie, Erkenntnis, 1, 1930. J.-F. Malherbe qui avait déjà publié une splendide étude sur Maître Eckhart, nous livre ici un travail de premier plan sur les rapports qu'entretient l'épistémologie scientifique avec la théologie et la Métaphysique.

 

(33) In: «Face à la mondialisation», communication au XXXième Colloque national du GRECE, «Les grandes peurs de l'an 2000», page 13, op. cit. L'expression revient dans l'entretien accordé à la revue Antaios, «Penser le paganisme», op. cit., page 11, pour qualifier le fondement de la modernité. Elle n'est guère heureuse, et nous lui substituerons celle d'“hyper-subjectivisme” ou d'“égo-lâterie”, en pensant bien sûr à Stendhal, qui est bien plus clair.

 

(34) F. Schuon, Avoir un centre, page 12.

 

(35) Voir Michel Vâlsan, L'Islam et la fonction de René Guénon, page 13, op. cit.

 

(36) Le nom islamique de René Guénon était Shaykh Abdel-Wâhid Yahya, qui signifie “Serviteur de l'Unique”...

 

(37) Voir Jean Biès, Voies de Sages, douze maîtres spirituels témoignent de leur vérité, Ed. Philippe Lebaud, Paris, 1996.

 

(38) Qui, par la doublure opérée sur toutes les facettes du réel —la pseudo “réalité virtuelle” en est un exemple extrême— produit au sein de la psyché une division, une dualité, que l'on est en droit d'appeler, respectant en cela l'étymologie, de satanisme (Satan = “celui qui sépare”).

 

(39) Saint Augustin, Retractationes, I, XII, 3; CSEL, t. XXXVI, pp. 58,12.

 

(40) F. Schuon, De l'Unité transcendante des religions, page 14.

 

(41) Voir la revue Totalité,  n°11, «La “Nouvelle droite” à la lumière de la Tradition», page 54.

 

 

 

mercredi, 30 décembre 2009

De la religion des Romains

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

De la religion des Romains

 

Ivo RAMNES

 

Analyse: Renato dal Ponte, La religion des Romains.

La religion et le sacré dans la Rome ancienne.

Editions RUSCONI - Milan 1992 - 304 pages -12 illustrations - Lit. 34.000

 

Au cours de ces dernières années, on a assisté indubitablement à un intérêt accru pour le monde romain, grâce surtout à la nouvelle école archéologique italienne, qui a su «jeter les bases d'une confrontation entre les données de la tradition littéraire (reconsidérées systématiquement) et la situation topographique et archéologique, réexaminée pour obtenir des contextes chronologiquement et fonctionnellement homogènes» (F. Coarelli, Il Foro Romano, periodo arcaico, Rome, 1983, p. 9). Un effort analogue pour une coordination interdisciplinaire, peaufiné par la méthode traditionnelle, sollicité à plusieurs reprises par Julius Evola lui-même, imprègne le livre du Professeur Renato Del Ponte, paru il y a six ans chez Rusconi. Ce livre ranime l'intérêt parmi les spécialistes, les amateurs ou tout simplement parmi tous ceux qui ont le sentiment que leurs racines n'ont pas été définitivement coupées.

 

Après le considérable succès obtenu par Dei e miti italici (Dieux et mythes italiques, 1985, réédité une première fois en 1986, remis à jour et amplifié en 1988), où l'auteur sondait les origines du monde religieux italique; après la Relazione sull'altare della Vittoria di Simmaco (Essai sur l'autel de la Victoire de Symmaque, éditions Il Basilico, Gênes, 1986), où l'auteur se penchait sur une des périodes historiques les plus tourmentées et les plus riches en conséquences pour Rome, pour l'Italie et pour tout l'Occident, voici donc un livre qui nous parle de la «Ville des Dieux». Il est rare de découvrir une œuvre qui, comme celle-ci, est capable d'affronter le monde religieux romain de façon très rigoureuse, aussi bien pour ce qui est de la recherche documentaire que sur le plan déductif, libérée d'une certaine mentalité académique qui, aujourd'hui, du moins en Italie, paraît vide, approximative et même grevée de “déjà-vu”.

 

C'est un livre qui s'adresse à un public averti, pas tellement pour le style, toujours élégant et agréable, mais plutôt pour l'originalité de la thématique qui, comme l'auteur le suggère, implique un changement de mentalité, un “changement intérieur, une sensibilité spécifique pour pouvoir capter et comprendre les constantes du monde religieux romain”. Les sources classiques prédominent, car elles sont clairement incontestées, mais l'auteur consacre un espace important aux études les plus récentes, surtout dans le champ archéologique et philologique; il les confronte toujours ad fontes, n'épargnant pas les critiques, les distinctions subtiles et les précisions, même face à des savant de la taille d'un Georges Dumézil, mais amicus Plato, sed magis amica veritas!

 

Une intuition de Fustel de Coulanges

 

Le livre jouit d'une excellente présentation éditoriale (en jaquette, une photo inédite d'un des Dioscures de Pompei), garnie d'illustrations souvent très rares; il contient cinq chapitres, quatre tables et deux annexes (avec, par exemple, les listes des Souverains Pontifes connus), en plus d'une bibliographie générale et de cinq index de recherche aussi minutieux que précieux. Une indispensable introduction (“Les Origines”) sur la préhistoire des populations latines de souche romaine et sur les printemps sacrés, bien retracés dans le tableau récapitulatif en tant que mises en scène ritualisées des anciennes migrations des peuples indo-européens qui, par la suite, s'installèrent en Italie. Cette réminiscence des “printemps sacrés” nous emmène à envisager l'éventualité d'un printemps sacré primordial, où une tribu est partie de la mythique “Alba” pour aller former les premières implantations dans les sites où, plus tard, naîtra Rome. Quant à la formation de l'Urbs, l'auteur, très opportunément, insiste sur l'acte juridique religieux (La ville qui surgit en un jour);  cette option pour l'acte juridique-religieux constitue une polémique contre les tenants de l'école positiviste/évolutionniste, enfermés dans leur conservatisme obtus. Del Ponte se réfère ainsi partiellement aux heureuses intuitions d'un Fustel de Coulanges (1), qui sont confirmées par les toutes dernières découvertes archéologiques.

 

Del Ponte fait allusion à la découverte, dans l'aire sud-occidentale du mont Palatin, pendant les fouilles dirigées par le Prof. Pensabene, du lieu exact où la Tradition situait la casa Romuli  —la maison de Romulus—  qui, à l'époque historique, avait la forme d'un petit sanctuaire (probablement un sacellum)  près duquel on a trouvé les traces (Cass. Dio XLVIII, 43, 4) d'un sacrifice consommé par les pontifes en l'année 716 de Rome (38 av. J. C.), à la veille de la restauration d'Auguste. Le fait que la résidence d'Auguste fut toute proche de ce lieu vénérable n'est pas un hasard. Naturellement aucune publicité tapageuse n'a accompagné la nouvelle de cette découverte extraordinaire qui, paradoxalement, a été signalée en avant-première par le New York Times.  Plus tard seulement, et probablement de façon détournée, la presse nationale italienne a signalé l'événement sans tambours ni trompettes.

 

Evidemment, pour certains, il est plus rassurant de réduire tout ce qui se réfère à Rome à un simple mythe, au point de refuser même la réalité des données archéologiques et de leur préférer la position arbitraire d'un Momigliano (2), qui semble vouloir faire de l'archéologie romaine “anti-fasciste” dont anti-romaine puisque le fascisme s'est réclamé de Rome. Pourtant Momigliano est un archéologue patenté, il ne peut bénéficier de circonstances atténuantes. Il va jusqu'à définir comme “tristement notoire”  (sic !!!) l'inscription de Tor Tignosa en hommage à Enée (cfr. A. Momigliano, Essais d'histoire de la religion romaine, édit. Morcelliana, Brescia 1988, p. 173). Qu'y a-t-il de triste ou d'affligeant dans une trace archéologique antique, rendant hommage à Enée?

 

Une remarque au passage: alors que, dans le cas de Rome, nous possédons des certitudes substantielles quant à l'existance de son empire, même si elles sont parfois résolument ignorées par bon nombre de savants, dans le cas d'autres traditions  —par ailleurs tout à fait respectables, comme celles qui directement ou indirectement proviennent de la Bible—  on assiste à une démarche contraire: pensons seulement à l'Empire  de David et de Salomon, pour lequel il n'existe que très peu de documents archéologiques, d'aucune nature que ce soit, et qu'aucun des quarante rois, depuis Saul jusqu'à Sédécias, n'a laissé la moindre trace tangible (voir à ce sujet l'excellente et très digne de foi  —même pour le Vatican—  Histoire et idéologie dans l'ancien Israël, de Giovanni Gabrini, édit. Paideia, Brescia, 1986).

 

Lares et Penates

 

La connexion entre feu-ancêtres-Lares  et le culte public et privé constitue la thématique très intéressante du deuxième chapitre de l'ouvrage de Del Ponte, où l'auteur nous démontre qu'il est un détective sage et attentif, capable de recueillir des finesses qui ne sont pas toujours perceptibles de premier abord. Lares et Penates, que l'on a confondu dans le passé sur le plan conceptuel, y compris chez des auteurs éminents trouvent, dans l'analyse détaillée de Del Ponte, une définition meilleure et plus exacte, tant du point de vue rituel que théologique. L'auteur repère dans les dieux Lares  «l'essence spirituelle du foyer domestique», correspondant à la «mémoire religieuse des ancêtres», ces derniers étant perçus aussi comme «l'influence spirituelle» des habitants antérieurs d'un lieu et, par conséquent, comme les «gardiens de la Terre des Pères» (pp. 62-63); dans les Pénates, véritables divinités, il faut par contre reconnaître une nature essentiellement céleste  et propice à un groupe familial au cœur duquel on transmettait le culte de père en fils, tant et si bien qu'ils étaient considérés comme «les dieux vénérés par les pères ou les ancêtres».

 

Un autre chapitre extrêmement intéressant, qui nous aide à mieux comprendre la sensibilité religieuse des Romains et leur approche du domaine du surnaturel, est consacré aux indigitamenta:  il s'agit de listes consignées dans les livres pontificaux “contenant les noms des dieux et leurs explications”. Noms de dieux qui, comme l'observe à juste titre l'auteur, “se réfèrent aux grands moments, ou rites de passage  (...),  indispensables à tout homme et à toute femme au cours de la vie et qui, justement à cause de leur complexité, nécessitent un instrument divin particulier. Ces moments de la vie sont: a) la naissance, avec les moments critiques qui la précèdent et qui la suivent; b) la puberté, avec tout ce qui précède et qui suit; c) le mariage; d) la mort” (pp. 78-79).

 

Cette “sacralisation de chaque manifestation de la vie” est aussi une source de vie pour l'Etat romain et il est donc assez significatif de noter que le livre explicite deux idées-guide:

1) la pax deorum (c'est-à-dire le rapport qui s'est créé avec les dieux au moment précis de la fondation de Rome, avec le pacte conclu par Romulus et pleinement approuvé par Numa Pompilius, pacte impliquant un équilibre subtil, condition indispensable à la réalisation de l'imperium sine fine promis par Jupiter à Enée et ses successeurs) et

2) l'identification des constantes dans les vicissitudes millénaires et sacrées de Rome.

Ces deux idées-guide viennent inévitablement se fondre avec précision dans l'étude sur le Collège Pontifical, et en particulier sur la figure “antithétique” du Souverain Pontife.

 

Le rôle de Vettius Agorius Pretestatus

 

C'est vraiment très captivant de reparcourir l'histoire de ces prêtres qui voulaient, savamment et avec prévoyance, lire dans le futur en défendant et en gardant jalousement, depuis les temps immémoriaux de Numa à ceux extrêmes de Symmaque, les anciens rites, sans jamais les déformer et en adaptant, en l'occurrence, les nouveautés à travers l'intervention régulatrice du Collège des Quindecemvirs, afin qu'elles ne vinssent pas perturber la pax deorum,  en portant atteinte à l'Etat. Elles représentent donc des fonctions vitales, développées par le Collège, mais qui dérivent très probablement, affirme justement Del Ponte, “des stratégies religieuses et politiques qui débouchèrent sur des transformations radicales de l'Etat romain au Ier siècle de la République” (pp. 153-154); des stratégies conçues et mises en pratique par des groupes de l'ancienne aristocratie qui furent, plus tard, constamment présents (aussi parmi les Augustes) au fil des siècles, tant et si bien que même quand le grand pontificat fut assumé par un homme nouveau, issu de la plèbe (T. Coruncanius), la très haute qualification de cette éminente figure sacerdotale ne fit pas défaut.

 

Dans ce sens, nous nous permettons d'articuler l'hypothèse suivante: l'intervention du pontife et quindecemvir Vettius Agorius Pretestatus  —qui eut un rôle de modérateur lors des événements tragiques qui déterminèrent l'élection du Pape Damase I—  était dictée, outre les exigences d'ordre publique, par ses propres prérogatives, qui lui permettaient de réglementer un culte étranger (chrétien en l'occurrence) qui n'était plus considéré comme illicite. Très vraisemblablement, à cette époque (IVième-Vième siècle après JC) les bases furent jetées, qui acceptaient et organisait, sous une autre forme, la survie de l'antiqua pietas. Aujourd'hui nous ne pouvons plus percevoir le mode d'expression de cette antiqua pietas.  Les bases établies par Vettius Agorius Pretastatus remplissaient une fois de plus le devoir primordial, sacré et institutionnel, confié au pontificat par l'auctor  Numa Pompilius, dès l'aurore de l'histoire de Rome.

 

La fonte de la statue de la déesse Virtus, évoquée par Del Ponte dans la conclusion de son livre, nous conduit à une considération amère: Rome ne connaîtra plus ni courage ni honneurs; seul un visionnaire pourrait imaginer l'existence, encore aujourd'hui parmi ses contemporains, de la semence de ces hommes antiques, pratiquant au quotidien ces anciennes coutumes qui firent la grandeur de Rome. Mais à l'approche du 1600ième anniversaire de la funeste bataille du fleuve Frigidus (près d'Aquilée), à l'extrémité du limes  nord-oriental d'Italie, par laquelle se terminait l'histoire militaire de la Rome ancienne, et, où, pour la dernière fois, les images des dieux silencieux s'élevèrent sur le sommet des montagnes. Nous ne pouvons que retenir comme signe des temps,  le travail d'un homme d'aujourd'hui, qui écrit sur la vie de nos Pères, sur leurs Coutumes et sur leurs Dieux. Pères, Coutumes et Dieux qui furent les artisans de tant de puissance.

 

Ivo RAMNES.

(texte issu d'Orion, trad. franç.: LD).

 

Notes:

(1) FUSTEL dc COULANGES, Numa-Denis (Paris 1830, Massy, 1889) Historien français, professeur aux Universités de Strasbourg et de la Sorbonne. Il étudia les principes et les règles qui régissaient la société greco-romaine en les ramenant au culte originaire des ancêtres et du foyer familial. La ville ancienne (cf. La cité antique, 1864) est une sorte d'association sacrée, ouverte exclusivement aux membres des familles patriciennes. Parmi les autres œuvres de Fustel de Coulanges, rappelons l'Histoire des anciennes institutions politiques de l'ancienne France, 1875-79, et les Leçons à l'impératrice sur les origines de la civilisation française, posthume, 1930. Outre leur valeur historique, ces travaux ont assure à Fustel de Coulanges une place dans l'histoire de la littérature pour la clarté et la puissance du style (ndt).

 

(2) MOMIGLIANO Arnaldo (Caraglio, Cuneo, 1908), historien italien. Après avoir enseigné aux universités de Rome et Turin, il est, depuis 1951, titulalre de la chaire d'histoire ancienne à l'University College de Londres. Parmi ses plus importantes études citons: Philippe de Macédoine (1934), Le conflit entre paganisme et christianisme au IVièmùe siècle (1933), Introduction bibliographique à l'histoire grecque jusqu'à Socrate, les essais publiés après 1955 sous le titre de Contributions à l'histoire des études classiques, et le volume Sagesse étrangère, 1975 (ndt).

 

mardi, 29 décembre 2009

Chine: l'impact psychologique de la révolte "Taiping" (1851-1864)

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« Moestasjrik » : ‘t Pallieterke :

 

 

Chine : l’impact psychologique de la révolte « Taiping » (1851-1864).

 

Quand on se demande pourquoi les autorités politiques séculières ont si peur des mouvements religieux sectaires, comme, par exemple, l’actuel régime chinois, dont le communisme est devenu « soft », craint la secte Falungong, il faut étudier l’histoire de la révolte Taiping qui, entre 1851 et 1864, a ravagé la Chine centrale et méridionale en faisant près de vingt millions de morts, plus encore que la première guerre mondiale en Europe.

 

La révolte a été dirigée par une figure prophétique typique, Hong Xiuquan, qui s’était converti au protestantisme et imaginait être le frère de Jésus Christ. Conséquence des traductions lacunaires de la Bible en chinois, sa théologie chrétienne était largement « déviationniste ». Il n’acceptait que Dieu le Père, rejetait la Sainte Trinité et, bien sûr aussi, le précepte de la foi qui veut que Jésus ait été « le seul et unique fils de Dieu », puisqu’il y en avait deux : Jésus et lui-même ! Le compagnon de Hong, Yang Xiuqing imaginait qu’il était, lui aussi, un prophète mandaté par Dieu.

 

L’aventure commença par une révolte dans une ville de Chine du Sud, Jintian, en janvier 1851, soulèvement populaire qui parvint à mettre en déroute les troupes impériales. En 1851, Hong proclame dans cette ville le « Taiping Tianguo », c’est-à-dire « le royaume céleste de la paix suprême ». Dans les masses déshéritées, il parvient à recruter un grand nombre d’adeptes, surtout au sein de la minorité non chinoise des Zhuang et dans la strate sociale des migrants intérieurs de Chine, les Keija ou Hakka. Son armée compta bien vite un bon million de combattants. Elle conquit la grande métropole de la Chine du Sud, Nanjing (« la capitale du Sud ») et en fit la capitale de Hong, après l’avoir débaptisée et renommée « Tianjing » (« la capitale céleste »). La moitié supérieure de l’uniforme des combattants Taiping était rouge et la partie inférieure, bleue. Ces combattants portaient les cheveux longs, d’où leur surnom de « changmao » (= les hommes aux longs cheveux »).   

 

Les partisans Taiping ne se sont pas donné la peine d’intéresser les classes supérieures à leur cause. Hong appelait systématiquement l’empereur le « roi de l’enfer ». Il expropriait les grands propriétaires terriens et, souvent, les exécutait. Pour sélectionner ses fonctionnaires, il avait supprimé les examens portant sur les auteurs classiques du confucianisme, dont les livres étaient accusés de répandre de la « sorcellerie », pour les remplacer par des examens portant sur la Bible. Des milliers de temples de la religion autochtone chinoise ont été détruits. Les Taiping professaient l’égalité de tous les hommes, sous la forme d’un néo-illuminisme protestant, né pendant les campagnes contre l’esclavage, en allant même plus loin, dans l’optique traditionnelle chinoise, en prêchant l’égalité de l’homme et de la femme. Son armée comptait dès lors quelques bataillons féminins. Hong avait adopté le principe monogamique chrétien mais, à l’instar de bon nombre de chefs de secte, il avait fait une exception pour lui et conservé son harem.

 

Le mouvement finit par contrôler une grande partie de la Chine, sans être sérieusement défié avant 1861. Entre 1856 et 1860, l’armée impériale avait d’autres soucis : elle devait affronter la France et l’Angleterre à l’occasion de la deuxième guerre de l’opium. Dans le cadre de ce conflit, en 1859, le capitaine américain Josiah Tattnall, sans avoir reçu aucun  ordre de sa hiérarchie, était venu en aide au commandant en chef de l’armée britannique, Sir James Hope, quand ce dernier affrontait une armée chinoise. Plus tard, Tattnall justifia cette entorse à la neutralité américaine par les mots célèbres d’un vieux poème écossais : « Blood is thicker than water » (= le sang est plus épais que l’eau), ce qui signifiait que la solidarité raciale de deux officiers blancs perdus dans un océan de Chinois était plus importante que tout le reste. Cette guerre s’est terminée par la destruction du palais d’été de l’empereur, situé en dehors de Beijing, et par l’acceptation, par les Chinois, d’une nouvelle série de « droits spéciaux » et de privilèges pour les puissances occidentales, leurs diplomates et leurs commerçants.

 

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Le modèle de Mao

 

Immédiatement après la signature du traité de paix, les Britanniques sont venus en aide à l’empereur pour mater définitivement la révolte (à laquelle participaient quelques aventuriers occidentaux et quelques zélotes protestants). C’est alors que la fortune changea de camp. Lorsque les Taiping menacèrent Shanghai en 1862, où habitait une importante communauté d’Occidentaux, une armée britannique, sous les ordres du Général William Staveley, vint dégager la ville de l’étau des révoltés. Visant le même objectif, l’Américain Frederick Townsend Ward, de son côté, avait organisé une armée de soldats chinois commandés par des officiers occidentaux, mettant en œuvre les méthodes techniques les plus modernes de l’époque. Frederick Townsend Ward tomba au combat en 1863 et, à la demande du gouverneur local, Sir Staveley détacha son homme de confiance, Charles George Gordon, pour commander cette armée nouvelle et expérimentale. Après toute une série de succès impressionnants, l’empereur de Chine donna à cette armée le titre de « Changjiejun » (= « Armée toujours victorieuse »).

 

Gordon parvint à conquérir un point nodal dans le dispositif des Taiping, Chanchufu, et brisa de la sorte l’épine dorsale des révoltés. Il licencia son armée et laissa aux troupes impériales le soin de terminer le travail. En 1864, les Impériaux chinois prirent Nanjing et passèrent au fil de l’épée non seulement tous les combattants Taiping qui leur tombèrent sous la main mais aussi une bonne partie de la population civile. Hong était décédé depuis quelques mois ; son fils avait pris sa succession mais il n’avait ni le charisme ni le talent militaire de son géniteur pour pouvoir maintenir intact son Etat de nature sotériologique. Ses lieutenants, du moins les survivants, s’enfuirent dans tous les coins de l’empire. Au cours des décennies suivantes, quelques-uns d’entre eux organiseront encore des révoltes locales, notamment celle des musulmans des provinces occidentales.

 

L’historiographie maoïste s’était montré très positive à l’égard de la révolte Taiping : pour elle, c’était une prise du pouvoir bien organisé de la classe travailleuse, animée par les bons idéaux mais qui devait finalement échouer parce qu’elle n’avait aucun plan ni aucun mode d’organisation à « fondements scientifiques ». D’autres révoltes paysannes avaient déjà échoué parce qu’elles souffraient du même mal, sauf celles qui avaient été détournées par des aristocrates locaux qui surent bien souvent gérer les masses populaires pour les faire œuvrer au bénéfice de leurs propres ambitions. Pour les maoïstes, ces lacunes des révoltes populaires antérieures à Mao ne seront comblées que par l’adoption du marxisme-léninisme ; celui-ci impliquait une organisation rationnelle (avec un parti prolétarien d’avant-garde soumis à la centralisation démocratique) et une analyse scientifique de la situation ; ces deux atouts ont donné la victoire finale au peuple. Une étude maoïste sur les mérites de la révolte Taiping reprend les mots de Lénine : « Parfois, une lutte des masses, même pour une cause sans espoir, se révèle utile pour éduquer finalement ces masses et pour les préparer à la lutte finale ».

 

« Moestasjrik » / «  ‘t Pallieterke ».

(article paru dans «  ‘t Pallieterke », 16 mai 2007 ; trad.. franç. : Robert Steuckers, déc. 2009). 

lundi, 28 décembre 2009

Sagesse dans le paganisme

CHOUETTE%20ANTIQUE.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

ETAYER LE MONDE: CONNAISSANCE ET SAGESSE DANS LE PAGANISME

 

 par Bernard NOTIN

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PLAN

 

DE L'HOMOLOGIE

 

PRINTEMPS  ET AURORE

HARMONIE ET VÉRITÉ

1. Cycles temporels et vérité

2. D'un cycle à l'autre: la rénovation

3. La décadence et le mensonge

4. Bâtir l'harmonie

 

L'ORDRE CONCRET: LE DEVOIR

 

LES HÉROS: IDÉAL-TYPE

NUIT ET PRINCIPE VITAL

LE SILENCE DES SAGES

 

UNE TRADITION, DES INSTITUTIONS

 

LA FAMILLE

NI DIEU NI LOI

ORGANISER LA DIVERSITÉ: CASTES ET COMMUNAUTÉS

 

En pratique, des institutions a-temporelles sont le cadre du polythéisme. Elles assurent la transmission d'une tradition dont l'origine remonte au déploiement de cet univers-ci (non à sa création. Ou, du moins, cette création suit un chaos préalable).

 

En pensée, le polythéisme recourt au symbole, moyen de relier les niveaux de réalité selon la double logique de l'équivalence et de la hiérarchie. Tout est toujours à un carrefour: horizontalement, verticalement. Aux extrêmes règnent d'une part l'ouverture vers l'inconnu, d'autre part soit le Chaos (par exemple en Grèce), soit le principe neutre (en Inde notamment). La diversité du monde est intégrée par l'homologie.

 

DE L'HOMOLOGIE

 

«Pour représenter quelque chose en termes de quelque chose d'autre on a besoin d'un système de correspondances» (1). Or tous les aspects de la vie proviennent de principes communs. On a des équivalences et des parallélismes entre sons, formes, nombres, couleurs, idees, etc. Le modèle fondamental de représentation du monde est le cycle, qui commence toujours en “ouvrant” une porte.

 

PRINTEMPS ET AURORE

 

L'aurore du cycle cosmique est homologue de l'aurore de l'année et, initialement, de l'aurore quotidienne. Pour les Grecs, par exemple, Eos était l'aurore quotidienne. Les deux autres fonctions (année et cosmos) et tout ce qui s'y rattache, ont été attribuées à Aphrodite qui est aussi devenue la déesse de l'amour. Dans l'Illiade, le retour du printemps est symbolisé par l'union amoureuse de Zeus et Héra. Le lieu, la montagne, est essentiel. La “montagne” de l'année est celle où se manifeste le retour du soleil; celle dont sortent les “Aurores de l'année”, comme, dans le Véda, les Aurores du cycle cosmique sont sorties de la caverne Vala.

 

HARMONIE ET VÉRITÉ

 

Les cycles temporels, cycles homologues du jour, de L'année et du cosmos sont le cadre du culte, mais aussi dans une large mesure son objet. Assurer le retour régulier du soleil et des saisons sont une préoccupation servant de modèle cosmique à la Vérité et à l'ordre social.

 

1 - Cycles temporels et vérité

 

Le nom des saisons, en védique, est rtavah, apparenté au nom de la vérité, rta, l'un et l'autre se rattachant à la racine *AR: «Ajuster, articuler, adapter correctement». Peut-être, écrit J. Haudry, faut-il voir dans cette conception l'effet de la difficulté rencontrée jusqu'aux temps historiques, pour déterminer exactement l'année et faire concorder le cycle solaire avec les douze mois lunaires. L'année est donc porteuse de vérité; année et saison proviennent d'une même racine qui renvoie à une conception technique. La Vérité est ce qui est concordant, bien ajusté. Le retour régulier des saisons, en particulier celui de la belle saison, répondant à l'attente des hommes, est l'image de la vérité qui est le pilier de l'ordre du monde. La verité fonde l'ordre social et implique le respect des serments, des contrats, de l'hospitalité, etc... (2).

 

Retenir “l'ajustement correct” comme définition de la Vérité est une caractéristique profonde de la civilisation polythéiste. Julien Freund en présentait encore les principales conséquences dans son ouvrage La décadence.  L'idée de recherche de la vérité qui a conditionné l'essor prodigieux de la science et de la technique et façonné l'esprit critique et philosophique est sous-tendue par la préoccupation d'ajuster, d'articuler. Il n'y a pas de corps de vérités toutes faites qui seraient imposées, de toute éternité, par un pouvoir politico-religieux. La vérité est restée, jusqu'à il y a peu, l'objet d'un libre-examen, d'une recherche indéfinie, mettant sans cesse en cause l'acquis.

 

2 - D'un cycle à l'autre: la rénovation

 

La religion cosmique pense les forces qui assurent la rénovation du monde. Pour passer d'un cycle à un autre, à quelque échelle que ce soit, jour, année, cosmos, il faut que certains Dieux changent de parti. Au quotidien, la journée symbolise la vie alors que la nuit représente la mort. L'homologie entraîne qu'à l'échelle annuelle l'hiver est une mort, tandis qu'à la dimension cosmique le chaos est la nuit des temps, d'où émerge la vie. L'élément rénovateur est différent selon les ères culturelles. Par exemple, il est incarné en Inde par le Dieu Agni et en Grèce par Zeus, mais selon un schéma différent.

 

Le monde nocturne et les entités spatio-temporelles de cette phase cosmique sont considérées comme lieuses: elles retiennent captifs le Soleil, les Aurores, les Eaux, etc. Le pouvoir des “forces de la nuit” est de lier. Elles sont donc, au plan social et par homologie, les garantes des serments, les protectrices des liens sociaux, naturels et contractuels. Les entités nocturnes sont des dieux auquels on rend un “culte négatif”: il suffit de ne pas les offenser pour les honorer. Dans ce cadre, le sens de mentir, tromper, est issu de celui de rompre un engagement.

 

Le passage d'une phase du cycle à l'autre suppose l'affrontement entre les puissances de la rétention qui ravissent à la communauté des dieux ou des hommes les richesses de la belle saison et les forces de la restauration qui s'efforcent d'en rétablir la circulation et le bon usage. La menace suprême, ce que les polythéistes craignent le plus, c'est le chaos, “le renversement des hiérarchies, la perversion du système de valeurs qu'elles expriment et entretiennent, une désorganisation profonde de l'ordre normal des choses” (3).

 

La rénovation passe par les paroles de vérité qui créent les dieux et fournissent l'énergie pour fracturer les forces de rétention. Il faut “fendre la montagne par la formule pour délivrer la lumière cachée” (4). La parole de vérité prend plusieurs formes: la parole sacrée, rituelle, celle du brahmane par exemple; la parole inspirée par l'émotion, la peur, la transe; la formule réfléchie, pensée longuement et qui n'est pas prononcée à la légère, comme les “mantra”; la voix qui invoque ou crie, chante et charme, à laquelle se rattache le chant et la poésie. Le renouvellement nécessite le recours à des assertions de vérité. L'opération de vérité permet de FAIRE par la pensée et la parole. Il ne s'agit pas d'assertions ordinaires. Elles désignent aussi la “concordance chronologique”, par exemple entre une cérémonie et un jour particulier. Les assertions de vérité sont superlatives et paradoxales. La notion d'énigme joue ici un rôle essentiel pour concilier des assertions contradictoires. En trouver la clef est la façon d'en faire apparaître la vérité profonde. Certaines assertions de vérité sont des “flèches”, discours sans ambiguïte, sans arrière-plan, dans lequel tout est dit, rien ne reste dans l'ombre et, par là-même, ces flèches sont efficaces (touchent leur cible). Mais la vérité renvoie aussi à la parole courbe, celle de la poésie notamment, située entre mensonge et vérité. Il existe des vérités profondes, valables à un niveau supérieur de réalité, par la formulation desquelles on induit en erreur qui ne sait pas les interpréter. La poésie est donc entre mensonge et vérité; mais il faut se méfier des mensonges qui déclenchent la décadence.

 

3 - La décadence et. le mensonge

 

La violation des contrats est l'un des signes de la fin du cycle cosmique selon l'EDDA (5), l'histoire du monde commence par un parjure des Dieux vis-à-vis du maître-ouvrier qui leur a construit la Valhalle. Cet acte marque le début de la décadence aboutissant au Ragnarök. L'initiateur du parjure est le Dieu Loki, personnification de la parole de feu des calomniateurs.

 

Le mensonge est associé au chaos cosmologique, à la nuit et à l'hiver des cycles journaliers et annuels; à la retention, aux ténèbres et au froid climatique. Les haines et les mépris sont le résultat de la parole “fourbe” des sorciers qui brisent l'esprit d'entente unissant le groupe. Les ennemis déclarés du culte et de l'ordre social pratiquent la calomnie et l'imprécation.

 

Alors que l'ordre social, le rta  védique, n'est pas personnifié, les entités de la religion de la vérité le sont. Il existe une classe de Dieux liés à cette éthique, les Adityas  védiques. Descendants d'Aditi, déesse qui signifie liberté (i.e. non liée), ils sont au nombre de six (6): Mitra (contrat) et Varuna (serment); Aryaman, spécialiste du don qui veille à la solidité des liens qui unissent les sociétés; bhaga (lot); Amsa (part); Daksa  (énergie réalisatrice). Or, ces dieux sont aussi les dieux du rta, de l'ordre global, de l'harmonie. On distingue donc l'éthique de la vérité, lorsque la surveillance du respect des engagements et des comportements sociaux incombe à des divinités qui ont d'autres rôles, et qu'on honore en évitant de les offenser, de la religion de la verité caractérisée par des Dieux auxquels on rend un culte positif. L'éthique de la vérité, respect des engagements, vaut pour les contrats et les serments, le lien social, la juste répartition.

 

4 - Bâtir l'harmonie

 

La réalité est une notion bâtie à partir du verbe être, alors que la vérité repose sur la racine *AR. Les deux se rejoignent dans certaines circonstances: s'il s'agit de prévoir et que la prévision se réalise; à propos de faits passés, l'histoire réelle et véridique. Dans une société harmonieuse, la réalité désigne aussi le comportement conforme qui dépend de la position sociale et des fonctions remplies. Il s'agit d'un idéal qui norme le comportement, qu'il faut ranimer chaque jour au lever du soleil, chaque année pour sortir de la ténèbre hivernale, au cours des siècles pour lutter contre le chaos. Le chemin vers la vérité, comme la recherche du comportement parfait selon son rang et sa fonction, mènent vers l'ordre, vers l'harmonie.

 

Quel que soit le point de départ d'une vie, elle peut monter vers la perfection, vers l'absolu. Les relations amicales au sein d'une communauté, les rites qui lient le connu et l'inconnu, traduisent la foi en cette démarche. Aussi, pourquoi l'abandonner en chemin et se convertir à autre chose? Le divin est dans l'homme. Il peut l'éveiller à partir de n'importe quel emplacement ou situation, à condition de suivre un chemin qui retrace, symboliquement, la course du soleil. Tous les chemins sont acceptables, ce qui fonde la tolérance. Le chemin part du donné concret et monte vers l'abstrait et le divin.

 

La rénovation de l'harmonie est quotidienne, annuelle, cosmique et suppose l'existence d'excellents artisans possédant la qualité d'artiste. Car ces belles qualités sont indispensables pour que le nouveau jour, la nouvelle année façonnée soient, en tous points, similaire (et non identique) au cycle écoulé. En Inde, les Rbhu remplissent cette fonction. Chez les anciens Germains, ce sont les Alfes dont la fête se déroule à l'époque du solstice d'hiver et qui survivent au Ragnarökr. A Rome, on raconte l'histoire de Veterius, capable de fabriquer 11 boucliers semblables (représentant les 12 mois de l'année). L'harmonie se bâtit par la compétence technique, mais aussi par l'habileté de ceux qui manipulent la parole. Ils ont à lutter contre le mensonge et les dieux du mensonge par les paroles de vérité et le recours aux dieux guerriers qui frappent, par la massue ou le marteau, les calomniateurs. L'attitude mentale qui préside à la vérité et favorise l'harmonie repose sur l'absence de malignité, le refus du “mauvais esprit”.

 

L'ORDRE CONCRET: LE DEVOIR

 

De même que la Vérité résulte d'un ajustement en sorte que la qualité d'artiste, de poète et de technicien est nécessaire pour y parvenir, de même le devoir de chaque être humain contribue a l'harmonie sociale. Si chacun respecte son devoir, la société sera bien ajustée. L'harmonie résulte de l'interdépendance entre trois fonctions sociales: la souveraineté, la force, l'abondance. Chaque membre d'une fonction doit accomplir son devoir et faire en sorte que ses actes soient accomplis en conformité avec l'idéal de la fonction.

 

- Le souverain doit faire prévaloir un droit équitable, repousser les batailles à l'extérieur, écarter la grande mortalité. Les attributs du souverain tiennent au mérite, non à la naissance, car le souverain qui faillit à ses devoirs usurpe le droit de gouverner (7).

- Le guerrier a un devoir spécifique, dont rend compte par exemple l'histoire d'Heraclès en Grèce. Il commet trois fautes: hésite devant l'ordre de Zeus, tue lâchement un ennemi surpris, exprime une passion amoureuse coupable. Les trois fautes renvoient aux trois fonctions: sacré, force, abondance, suivant l'ordre hiérarchique décroissant. L'histoire d'Héraclès met en relief les périls de l'exploit, la souillure qu'il secrète parfois, l'outrance et les fautes qu'il favorise. Il n'en reste pas moins que, dans les civilisations polythéistes, l'exploit fut un bon placement. Militaire ou sportif, scénique ou intellectuel, accompli au profit ou sous les couleurs de la collectivité, il fait un héros.

- L'abondance, troisième fonction, a aussi une dimension spécifique, dont l'exemple romain fournit une représentation pertinente. La croissance (Cérès) en est le principe, traduit en actes par des personnes patronnées par Quirinus.

 

LES HÉROS: IDÉAL-TYPE

 

Les héros ont réussi à s'engager sur la “voie des Dieux”, aboutissant à l'immortalité solaire. L'enseignement originel est transmis par “les Upanisads”, où il est expliqué qu'il existe deux voies après la mort: la voie des pères (des ancêtres); la voie des Dieux.

* La voie des pères. Les morts s'en vont dans la fumée et séjournent dans un endroit ténébreux (l'Hadès chez les Grecs). Cette voie passe par la nuit, les six mois de l'année où le soleil

descend vers le Sud. L'âme y reste.

* La voie des Dieux. Les morts s'en vont dans la flamme. Cette voie passe par le jour, les six mois de l'année où le soleil monte vers le Nord. L'âme jouit alors d'une immortalité solaire.

 

Les héros forment un ensemble composite. On y trouve:

Des hommes illustres décédés. Ils se sont élevés au-dessus de leur condition humaine en étant “les premiers” dans une activité quelconque. Il existe des héros devins, poètes, médecins, artisans, guerriers...

Des hommes illustres vivants (en particulier chez Homère). Ils ne sont des héros que par anticipation.

Des génies locaux. Ce sont des puissances désignées par leur fonction. Les Grecs ont assimilé ces puissances à des hommes s'élevant au-dessus de leur condition. Ex.: le héros de Marathon.

Des Dieux parfois grands (Dionysos) mais souvent déchus. On en trouve plusieurs chez Homère: Castor et Pollux; Agamemnon (qualificatif de Zeus). L'Inde a théorisé le phénomène: les Dieux indiens sont “descendus” pour s'incarner dans les héros du Mahabharata.

 

Dans le monde polythéiste, hommes et Dieux sont deux pôles entre lesquels existe une infinité d'intermédiaires: des hommes proches des Dieux; des Dieux proches des hommes; des hommes qui s'élèvent; des Dieux qui s'abaissent. Lorsque Hommes et Dieux se rejoignent, les Héros apparaissent. Ils sont nécessairement “premiers” dans leur domaine quel qu'il soit: Médecin; Inventeur; Fondateur d'une lignée, d'une corporation... Tous échappent à la “seconde mort” de l'anonymat.

 

NUIT ET PRINCIPE VITAL

 

Georges Dumézil (8) a rappelé que l'Aurore chasse l'informité noire, refoule l'hostilité, les ténèbres “comme un archer héroïque chasse les ennemis”. Les Aurores écartent et chassent la ténèbre de la nuit. La ténèbre est assimilée à l'ennemi, au barbare, au démoniaque, à l'informité, au danger, etc. La division entre monde nocturne et diurne est valable pour de multiples fonctions. Elle vaut pour les combats: combats techniques/combat inspiré; pour la poésie et le chant: aspect technique (diurne), aspect inspiré, trembleur, excité (nocturne). La distinction de Nietzsche entre Apollon et Dionysos  est du même ordre: été, hiver.

 

Une entité nocturne se dédouble en une entité cosmique et en une entité sociale. Au plan social, les entités nocturnes sont des dieux. auxquels on rend un “culte négatif” (il suffit de ne pas les offenser pour les honorer). Au plan cosmique, le monde indien établit une correspondance entre l'entité nuit et le principe vital. “La Ténèbre, au commencement, était couverte par la Ténèbre; il n'y avait que l'Eau, indistincte. Et l'Un, par le seul pouvoir de son ardeur, y pris naissance, Principe-en-devenir que le vide recouvrait” (9). L'Un constitue le principe vital latent de toute la création. Il porte en lui l'énergie qui permettra au monde d'émerger de la ténèbre originelle. Le principe vital (ASU) est lié à la Ténèbre, à la nuit. La religion cosmique permet de comprendre cette situation.

 

Pour passer d'un cycle cosmique à un autre cycle cosmique, il faut que certains Dieux, changent de parti. De même que Zeus (ciel diurne) ne pourra accéder au règne suprême qu'après le renversement d'Ouranos  (ciel nocturne), certains Asuras (divinités) du ciel nocturne abandonneront ce parti “ténébreux” pour le parti lumineux d'Indra, chef des Devas. Le ciel nocturne possède les éléments de sa propre transformation. La nuit est donc féconde.

 

A l'échelle quotidienne, la journée symbolise la vie tandis que la nuit représente la mort. Le sommeil est assimilé à une petite mort. Le dormeur revient de l'autre monde. Lorsque l'être s'éveille, la nuit se dissipe, la lumière revient. L'être reprend possession de son principe vital (ASU). Le principe vital ASU se manifeste soit comme potentiel patent (lors de l'éveil), soit comme potentiel latent, après la mort (et le sommeil). ASU désigne simultanément l'esprit vital latent dans l'autre monde, celui de la nuit et de la mort, et la réserve de principe vital pour la vie à venir. C'est dans la nuit et la mort que se trouvent l'origine et la fin, les deux n'étant pas dissociables. Si l'ASU représente l'essence de l'être (c'est-à-dire un esprit porteur de potentialité), celle-ci est de nature ambivalente: à la fois essence vitale active, source du monde de la vie; et associée au monde de la mort par la puissance fécondante des esprits (10).

 

Le silence des sages

 

Le sommeil sert de base à la reconnaissance du rôle du silence. Le sommeil est une phase du cycle journalier et, par homologie, de l'année et du cosmos. Il a une fonction organisatrice: il prépare le terrain pour un rajeunisssment du monde qui interviendra avec 1'arrivée de la belle saison. Durant le sommeil, la vie se ralentit jusqu'à l'inactivité. Le sommeil facilite la mort de la saison précédente: il est actif. S'il laisse dans un premier temps le champ libre aux forces obscures (en particulier aux sorciers), il est aussi la phase dans laquelle germe le renouveau.

 

Le silence, assimilé au sommeil, laisse le champ libre aux “sorciers” spécialisés dans le mensonge, équivalent de la nuit et de l'obscurité. Mais il évite aussi que la terreur, répandue par les forces obscures, mauvais magiciens et infâmes, ne détruise ce qui est en germe. L'inactivité des êtres de lumière, dans la période de silence, empêche la foudre brandie par les sorciers de détruire les germes du renouveau. Une condition est nécessaire: accompagner le silence d'une illumination intérieure par la connaissance, sous toutes ses formes. Vérité et Lumière ne pourront ressortir qu'à cette condition. Rien de mécanique donc. Le silence doit être actif. Il est une phase nécessaire lorsque la nuit s'est abattue sur le monde avec la tyrannie des sorciers infâmes. Il doit s'accompagner d'une concentration de la pensée.

 

UNE TRADITION DES INSTITUTIONS

 

Les sectes monothéistes cherchent à intégrer les individus dans la communauté des croyants. Fondées sur le dogme de la création, elles affirment que l'homme est donné, rigide, inchangeable, et qu'elles peuvent agir sur le destin des autres par leurs propres forces car “la foi soulève les montagnes” et les sublimes codes juridiques (civil et pénal) permettent de façonner le comportement (assassinat judiciaire des infidèles). Ces religions ne prêchent pas la liberté pour chacun de se réaliser selon sa nature. Ce sont des sectes rivales, au service d'hommes avides de puissance, qui cherchent à imposer des dogmes absurdes, des contraintes inhumaines, pour assurer leur pouvoir.

 

Selon les Polythéismes, l'important, pour chacun de nous, est de chercher à se comprendre lui-même, puis de se réaliser. Pour ce faire, la Théologie est séparée de l'Eglise. L'autorité ecclésiastique suprême des sectes monothéistes est remplacée par une tradition des institutions: castes, familles, etc. L'homme est libre de penser comme il l'entend, il lui suffit d'accomplir les rites qui constituent le devoir social, le lien entre les générations, la continuité de la tradition. Il est normal de boycotter ceux qui méprisent les traditions tout en acceptant de vivre dans la société...

 

LA FAMILLE

 

L'idée que le couple est la base de la stabilité sociale est une idée pernicieuse qui ne correspond pas à la nature de l'homme et fait de la famille une sorte de prison. C'est le groupe familial qui constitue la famille. Il comprend les frères, les oncles, leurs épouses. La famille est sacrée au point qu'on glorifie le groupe entier auquel on appartient. Envisagée comme une institution, la famille est régie par des lois (en Inde, ce sont les lois de Manou) et par divers préceptes religieux. Les lois sont plus strictes et rigides pour les hautes castes. La famille élargie est une union morale et matérielle dont les membres vivent selon une minutieuse hiérarchie qui fixe à chacun ses droits, ses devoirs, jusqu'à sa tenue et sa manière de parler aux aînés et aux plus jeunes que soi.

 

Chaque individu est fier de ses ancêtres, et fait remonter sa génération aux hommes glorieux, par exemple un saint homme (un pieux ermite), un héros... Chacun regarde les parents avec un religieux respect. Il est inconcevable qu'on leur désobéisse. Il est impossible qu'on agisse en quoi que ce soit sans avoir leur approbation formelle car ils sont, sur le plan humain, l'Autorité suprême. Ils sont le lien réel entre tous les membres vivants de la famille et les ancêtres, dont le culte est célébré journellement. Le culte des ancêtres consiste avant tout à respecter et à transmettre le double héritage, génétique et culturel, qu'ils nous ont légués.

 

Le mariage est arrangé selon les règles concernant la caste, le clan, la lignée. Le mariage n'est pas simplement un permis, une légalisation de rapports sexuels. C'est un acte responsable et ritualiste qui a pour but la procréation d'un nouveau chaînon d'une lignée. Vu dans une telle optique, le mariage entre individus appartenant à divers groupes ethniques et raciaux est donc un outrage à la création, à l'harmonie du monde.

 

NI DIEU, NI LOI

 

Les grands penseurs de la Chine sont connus pour leurs études traitant de la stabilité sociale. Tout d'abord, l'accent est mis sur les symboles et les attitudes, plutôt que sur les mots soumis à des glissements sémantiques. Puisque l'homme et la nature ne font qu'un, l'ordre universel est réalisé par la discipline civilisatrice que chacun s'impose et dont le résultat est la participation active des hommes à l'ordre cosmique. Les habitudes comportementales, la civilisation des mœurs, sont les fondements de la vie sociale. Ainsi, le confucianisme n'est ni une religion, ni une philosophie, mais enseigne l'acceptation par chacun du respect des supérieurs. “L'ordre politique et social est censé être fondé sur des rapports harmonieux entre supérieurs et inférieurs, identiques dans la vie civile à ceux qui règlent les relations familiales. Les rapports de père à fils, d'ainé à cadet ne sont pas de nature fondamentalement différente des rapports de souverain à sujets. Au respect des uns doit répondre la sollicitude des autres” (11). La civilisation chinoise repose sur un système hiérarchique, réseau de devoirs et d'obligations pour lequel mœurs et lois sont essentiels. La contrainte est évidemment que les “inférieurs” ne soient pas durablement déçus par la qualité des supérieurs qui leur sont proposés. Cette société polythéiste n'est donc pas tributaire d'un dieu, d'une religion, d'une loi révélée.

 

Organiser la diversité: castes et communautés

 

Louis Dumont (12) a clairement montré qu'aucune stabilité sociale n'est possible sans qu'un système “idéologique” ne hiérarchise la société. L'Inde a mis au point le système des castes qui “divise l'ensemble de la société en un grand nombre de groupes héréditaires distingués et reliés par trois caractères: séparation en matière de mariage et de contact direct ou indirect; division du travail, chacun de ces groupes ayant une profession traditionnelle ou théorique dont ses membres ne peuvent s'écarter que dans certaines limites; hiérarchie enfin, qui ordonne les groupes en tant que relativement supérieurs ou inférieurs les uns aux autres”. Les différents statuts des multiples groupes hiérarchisent l'ensemble de la société et imposent l'interdépendance et la complémentarité. Pour ceux qui refusent les avantages et inconvénients de l'organisation sociale, le système a prévu la voie du renoncement. L'individu sort du monde social et s'intéresse à son salut personnel en donnant l'exemple et créant, s'il le souhaite, un “groupe” (une secte) dont il sera le gourou. Le renonçant donne tous ses biens, preuve que son action et ses enseignements ne sont pas des escroqueries intellectuelles intéressées. Son enseignement est crédible car il a renoncé aux biens de ce monde et pratique l'ascèse.

 

De l'Islande à la vallée de l'Indus, hier et aujourd'hui, la volonté de penser la diversité du monde et d'harmoniser le Tout est au centre du parcours des polythéistes. Régulièrement, des esprits simples et des sectes ambitieuses profitent de la tolérance païenne pour s'insinuer puis, une fois en place, détruire par tous moyens ce monde harmonieux dans lequel leur place, quoique reconnue, n'est pas considérée d'emblée et a priori comme primordiale. Les forces d'harmonie et de renouveau ont toujours à lutter pour faire advenir la lumière contre les mensonges “pieux”; contre le chaos social; contre la ruse élevée en règle de vie.

 

En cette fin de XXième siècle, l'Inde, la Chine, le Japon,... montrent que l'organisation sociale sans Dieu ni Loi révélée, avec souci d'accorder à chacun une place dans le Tout permet de supporter un accroissement de population sans que la société ne se désagrège. Le chaos y est amené par les sectes monothéistes qui utilisent, depuis 2000 ans, des méthodes semblables. Dans le monde indien et asiatique, c'est le colonialisme, notamment le colonialisme britannique, qui a amené le monothéisme de facteur occidental. Généralisé au sous-continent indien, il aurait fait des désastres. Heureusement, l'Inde et la Chine ont résisté, sont restés imperméables à la pénétration d'une religiosité schématique, incapable de gérer l'immense diversité des phénomènes du monde.

 

Un polythéiste d'aujourd'hui observe que l'Occident est entré dans un processus de crétinisation de masse piloté par les mafias capitalo-théocratiques et que la triade infâme théologo-nigologie (13); génocide judiciaire; crimes en tous genres (contre la pensée, contre le peuple, contre la nature) durera quelques temps encore. Il appartient aux esprits rebelles à l'abrutissement conceptuel des sectes qui contrôlent l'Occident de repartir en quête du divin. Ils doivent aussi revivifier les institutions qui libèrent les hommes de leur condition de troupeau d'esclaves guidés par une race supérieure: les banksters et leurs serviteurs.

 

Bernard NOTIN.

 

Notes:

(1) Alain DANIELOU: Le polythéisme hindou, Buchet Chastel, 1975, p. 19.

(2) Jean HAUDRY: La Religion cosmique des Indo-Européens, Arché/Les Belles Lettres, 1987.

(3) Philippe JOUET: L'Aurore celtique, Editions du Porte-Glaive, 1993, p.123.

(4) Patrick MOISSON: Les Dieux Magiciens dans le RigVeda, Edidit, 1993, p.83.

(5) Jean HAUDRY: «La religion de la Vérité dans le monde germanique», Etudes Indo-Européennes, 10ième année, 1991, pp. l25-166.

(6) Georges DUMEZIL: Les Dieux Souverains des Indo-Européens, Gallimard, 1986.

(7) Les monarques de droit divin sont une superstition monothéiste.

(8) Georges DUMEZIL: La religion romaine archaïque, Payot, 1987, p. 67-69.

(9) Jean VARENNE: Cosmogonies védiques, Paris-Milan, 1982, p. 225.

(10) Patrick MOISSON: «Le védique ASU “principe vital”, “esprit des morts” et l'étymologie d'ASURA», Etudes Indo-Européennes, 1992, pp.113-140.

(11) Jacques GERNET: Le monde chinois, A. Colin, 1972.

(12) Louis DUMONT: Homo Hiérarchicus. Essai sur le système des castes, Gallimard, 1966.

(13) Adaptation “libre” du Candide  de Voltaire...

 

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vendredi, 25 décembre 2009

Citation de D. H. Lawrence

apoDHL2222.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

APOCALYPSE:

Un commentaire païen de l'Apocalypse selon Saint-Jean

 

«L'Apocalypse nous montre ce à quoi nous résistons, résistance contre-nature, nous résistons à nos connexions avec le cosmos, avec le monde, la nation, la famille. Toutes nos connexions sont anathèmes dans l'Apocalypse, et anathèmes encore en nous. Nous ne pouvons pas supporter la connexion. C'est notre maladie. Nous avons besoin de casser, d'être isolés. Nous appelons cela liberté, individualisme. Au-delà d'un certain point, que nous avons atteint, c'est du suicide. Peut-être avons-nous choisi le suicide. C'est bon. L'Apocalypse aussi choisit le suicide, avec l'auto-glorification que cela implique.

 

Mais l'Apocalypse montre, par sa résistance même, les choses auxquelles le cœur humain aspire secrètement. La frénésie que met l'Apocalypse à détruire le soleil et les étoiles, le monde, tous les rois et tous les chefs, la pourpre, l'écarlate et le cinnamome, toutes les prostituées et finalement tous les hommes qui n'ont pas reçu le “sceau” nous fait découvrir à quel point les auteurs désiraient le soleil et les étoiles et la terre et les eaux de la terre, la noblesse et la souveraineté et la puissance, la splendeur de l'or et de l'écarlate, l'amour passionné et une union juste entre les hommes indépendamment de cette histoire de “sceau”. Ce que l'homme désire le plus passionnément, c'est sa totalité vivante, une forme de vie à l'unisson, et non le salut personnel et solitaire de son “âme”.

 

L'homme veut d'abord et avant tout son accomplissement physique, puisqu'il vit maintenant, pour une fois et une fois seulement, dans sa chair et sa force. Pour l'homme, la grande merveille est d'être en vie. Pour l'homme, comme pour la fleur, la bête et l'oiseau, le triomphe suprême, c'est d'être le plus parfaitement, le plus vivement vivant. Quoi que puissent savoir les morts et les non-nés, ils ne peuvent rien connaître de la beauté, du prodige d'être en vie dans la chair. Que les morts apprêtent l'après, mais qu'ils nous laissent la splendeur de l'instant présent, de la vie dans la chair qui est à nous, à nous seuls et seulement pour une fois. Nous devrions danser de bonheur d'être vivants et dans la chair, d'être une parcelle du cosmos vivant incarné. Je suis une parcelle du soleil comme mon oeil est une parcelle de moi-même. Mon pied sait très bien que je suis une parcelle de la terre, et mon sang est une parcelle de la mer. Mon âme sait que je suis une parcelle de la race humaine, mon âme est une partie organique de l'âme de l'humanité, tout comme mon esprit, une parcelle de ma nation. Dans mon moi le plus privé, je fais partie de ma famille. Rien en moi n'est solitaire ni absolu, sauf ma pensée, et nous découvrirons que la pensée n'a pas d'existence propre, qu'elle n'est que le miroitement du soleil à la surface des eaux.

 

Si bien que mon individualisme est en fait une illusion. Je suis une parcelle du Grand Tout, et n'y échapperai jamais. Mais je peux nier mes connexions, les casser, devenir un fragment. Alors, c'est la misère.

 

Ce que nous voulons, c'est détruire nos fausses connexions inorganiques, en particulier celles qui ont trait à l'argent, et rétablir les connexions organiques vivantes avec le cosmos, le soleil et la terre, avec l'humanité, la nation et la famille. Commencer avec le soleil, et le reste viendra lentement, très lentement».

(D. H. LAWRENCE, Apocalypse, 1931; éditions Balland, Paris, 1978 pour la traduction française, pp. 210 à 212).

 

mercredi, 23 décembre 2009

"Antaios", fer de lance de la reconquête païenne

sep.gifArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

"Antaios", fer de lance de la reconquête païenne

 

Anne MUNSBACH

 

«... les légions de nos vieilles légendes accourues à l'appel de leur dernier empereur païen».

Jean Raspail, Septentrion.

 

Infortunés Dieux! Les dévots de la Bonne Parole leur jettent l'anathème, les prophètes leur lancent blâmes et malédictions, les Grands Prêtres de l'Exégèse manifestent intransigeance et haine, des rires moqueurs fusent. Il y a donc fort à faire pour soulever la chape de clichés qui recouvre depuis des lustres les lumières du Paganisme. Pourtant, il existe une revue du nom d'Antaios qui résiste avec autant de superbe que d'ironie. Elle s'entend à éclairer la véritable signification du Paganisme, à le dépouiller de son aura de scandale et à ainsi le réhabiliter. Sous le regard lucide de son directeur, l'helléniste Christopher Gérard, se révèlent alors les prophètes pour ce qu'ils sont: des cabotins, renvoyés à la niche dans un grand éclat de rire, écho souverain du fameux rire des Dieux chanté par Homère.

 

Antaios, Revue d'Etudes Polythéistes

 

C'est à l'occasion du 1600ème anniversaire de l'interdiction par l'Empereur Théodose de tous les cultes païens (8 novembre 392) qu'a été fondée Antaios, Revue d'Etudes Polythéistes. Pourquoi ce nom? Antaios est un géant de la mythologie grecque. Fils de Gaïa (la Terre) et de Poseidon (l'Océan), il vivait dans le désert de Libye et terrassait tout voyageur traversant son territoire. Seul Héraclès en vint à bout. Il avait en effet découvert le secret de la vigueur miraculeuse du géant: tant qu'il touchait la Terre, l'élément primordial dont il était issu, il était invulnérable. Pour l'anéantir, il suffisait donc de l'en séparer. «La symbolique de ce mythe est claire: c'est en gardant le contact avec notre sol que nous resterons nous-mêmes, capables de relever tous les défis, d'affronter toutes les tempêtes. En revanche, si nous nous coupons de nos origines, si nous oublions nos traditions, tôt ou tard nous serons balayés, tels des fétus de paille, privés de force et de volonté... Ce sol protecteur, ce sol vivifiant, c'est le Paganisme immémorial, c'est l'antique fidélité à nos Dieux. Non point des Dieux personnels et miséricordieux, jaloux et intolérants, image ô combien dégradée et infantilisante du Sacré mais des principes intemporels, des modèles éternels qui doivent nous permettent de nous projeter dans un avenir grandiose, digne de nos aieux». Voilà présenté avec une concision lumineuse le manifeste d'Antaios.

 

La reconnaissance du patriarche de Wilflingen

 

Antaios est aussi le nom de la revue fondée en 1959 par Ernst Jünger et Mircea Eliade. Les deux hommes s'y sont interrogés sur la nature du Sacré et ont montré que, par la connaissance des mythes, il était possible «de rééquilibrer la conscience humaine, de créer un nouvel humanisme, une anthropologie où microcosme et macrocosme correspondraient à nouveau. Ils témoignaient ainsi de cette certitude qu'un redressement spirituel était encore envisageable dans les années soixante, et qu'il pouvait mettre fin à la décadence ou aux affres d'un temps d'interrègne»  (1). Dans le dernier volume de ses mémoires, Ernst Jünger saluait l'heureuse initiative de Christopher Gérard de perpétuer Antaios  et l'encourageait vivement à poursuivre (2). Il soulignait, dans plusieurs lettres adressées à la revue, qu'il en appréciait l'esprit. Précieuse reconnaissance d'un écrivain qui, par-delà la mêlée, a toujours su rester fidèle à lui-même! Fort de cette filiation, son directeur a rapidement imprimé sa marque à Antaios. Cette publication, dont la réflexion rigoureuse se nourrit des disciplines les plus pointues, est en effet plus qu'une simple revue érudite. Elle a su sortir du cercle des livres et des discussions désincarnées pour se forger une méthode personnelle à mille lieues de tout académisme. Cette méthode est tout à la fois savoir “tactile” capable d'écouter la pierre et d'extraire la légende du marbre, érudition sauvage glanant ses repères hors des boulevards des idées convenues, regard sensible à la poésie du monde, surtout connaissance vivante née de l'expérience “sui generis”. Cela a déjà valu aux lecteurs d'Antaios cinq années de lectures souvent intenses, en tout cas jamais insignifiantes.

 

Le Paganisme, religion cosmique

 

Lorsqu'au IVe siècle le Christianisme accéda au statut de religion reconnue et protégée par l'Etat romain, l'évangélisation ne se développa réellement que dans les centres urbains. Les campagnes quant à elles restèrent imperméables à l'influence chrétienne. Antaios revendique hautement le titre de “païen” que les Chrétiens donnèrent alors, par dérision, à leurs adversaires. Ce furent en effet les gens de la campagne, les pagani  (les ruraux), qui les derniers restèrent fidèles aux enseignements du Polythéisme: eux seuls saisissaient encore le sens de l'univers. Vivant en symbiose avec la nature, les sociétés rurales avaient en effet une perception aiguë des cycles cosmiques et des éléments naturels qui imposent leur empreinte à la terre. Cette perception de ce qu'elles nommaient le Divin éclatait sans cesse à leurs yeux. Rien ne leur était dès lors plus étranger que l'idée d'un Dieu lointain, et plus encore d'un Dieu caché. Pour établir comme interlocuteurs et alliés ces forces naturelles, les sociétés rurales apprirent à les apprivoiser et à les respecter. C'est pourquoi fut mise en œuvre toute une structure du Sacré. La personnification des forces naturelles sous forme d'entités divines était un élément essentiel de cette structure. Les rites, qu'ils fussent de reconnaissance, de protection, de coercition ou encore de conciliation, permettaient quant à eux d'établir tout un réseau de relations avec le roc, la foudre, l'arbre ou la rivière. De nos jours, il n'est plus question «de croire dans les esprits ou les différentes entités de la nature. En revanche, le sens du fonctionnement normal du cycle naturel, cosmique, est essentiel pour replacer l'homme dans l'univers» (3). Or, les forêts sont saccagées, et Gaïa se transforme en désert. La déperdition du tellurique au profit de l'auto-extension sans frein du technologique explique l'impuissance accrue de l'homme à faire surgir des significations d'une nature intemporelle L'homme ne parvient donc plus à percevoir le lien l'unissant au Cosmos, il s'est coupé de ses Dieux. Il se met alors à confectionner des abstractions ou à imaginer des Dieux hors du monde.

 

Le Sacré

 

«Les seules expériences du Sacré seraient stériles si l'homme ne possédait des structures intellectuelles et imaginaires pour les recueillir. Celles-ci lui permettent, en premier lieu, la perception, la préhension de la manifestation du Sacré. En deuxième lieu, sa com-préhension par le fait même de donner un sens à ses expériences et, en troisième lieu, sa transmission, sa communication par les structures de la tradition, par le rite et le mythe» (4). Structurer le Sacré passe donc par sa mise en forme au travers de symboles, de mythes et de rites, notions qu'Antaios décrypte à diverses reprises (5) et qu'il est essentiel d'évoquer ici avant de poursuivre plus loin. «L'expérience du Sacré étant, par essence, indicible et non rationnelle, elle ne saurait faire l'objet d'aucune description concrète et nécessite dès lors le recours à la symbolique»  (6), sous forme d'images  —ce sont les symboles—, et sous forme de récits  —ce sont les mythes. D'où notre besoin d'artistes et de poètes, dont Antaios  offre un récital éblouissant (7): ils se font porte-parole des Dieux en les rendant sensibles. Loin d'être des distractions stériles pour intellectuels blasés, symboles et mythes suggèrent le Sacré par effet rétroactif: ils sont donc sources inépuisables de connaissances et de recherches de significations. Une troisième mise en forme du Sacré est le rite. Le rite, constitué de gestes ou d'actes ordinaires sublimés et codifiés, «a pour fonction essentielle d'amener les hommes et les Dieux à communier, à fonder l'Ordre du monde dans une présence commune, génératrice de l'ordre social» (8). Structurer le Sacré permet ainsi de penser et d'ordonner l'univers et, au-delà, de vivre en harmonie avec lui, de s'y fondre.

 

Un lieu, un peuple, des Dieux

 

Face à la pluralité de paysages, de climats et de végétations qui existent de par le monde, on comprend aisément qu'en fonction de chaque lieu s'instaurent des modalités de vie différentes et donc, pour chaque peuple et, a fortiori, pour chaque culture, des manières différentes d'appréhender le Divin, de structurer le Sacré et ainsi, de penser et d'ordonner l'univers. Sont dès lors générés des Dieux, symboles de l'histoire conjointe d'un lieu et d'un groupe humain qu'il soit famille, genos,  phratrie, dème ou cité. Ces Dieux, ces genii loci  intensifient le sentiment de communion sociale et par là-même s'enracinent dans une culture. Voilà qui explique l'attachement irréductible du Païen à sa terre et son amour pour une communauté historique. Le Paganisme est donc une religion de lieu et de corps, inscrite dans la mémoire collective. Antaios  souligne d'ailleurs qu'il n'y a pas qu'un Paganisme, mais des Paganismes: chacun correspondant à une société donnée  —ou à une personne donnée—  et à un moment précis, répondant à des interrogations sans cesse mobiles et à des conditions de vie toujours changeantes. Et Christopher Gérard d'expliquer que la vision qu'il expose n'est qu' «une approche du Paganisme, en l'occurrence celle qui est la mienne, hic et nunc. Je n'entends donc nullement me poser en représentant de la totalité du courant néo-paien contemporain. Je suis d'ailleurs convaincu qu'il existe autant d'approches paiennes que de Paiens. Et n'est-ce pas dans la nature des choses, puisque le propre des divers Paganismes, anciens ou nouveaux, est précisément cette exaltation de l'infinie pluralité de l'être» (9).

 

Terre d'Europe

 

La vision officielle de l'Europe  —cette fameuse U.E.—  est erronée et fatale car elle axe toute sa démarche sur la puissance économique, oubliant volontairement ses valeurs ancestrales. Cette vision ne peut dès lors qu'aboutir à la création d'une superstructure sans racines populaires, un monstre froid condamné à disparaître. Elle nie en effet l'essence de l'Europe: cet équilibre entre des peuples et des cultures qui, comme les cités de l'antique Grèce, communient dans une sphère culturelle commune sans cependant désirer, ni être capables de se fondre dans le même moule. Dans ce cadre qui ne reconnaît plus d'autre fin que le profit, d'étranges cultes et de terribles perversions apparaissent. C'est le temps des faux Dieux: «de nouvelles Divinités féroces et implacables ont surgi sous les traits du machinisme envahissant, de l'efficacité et de la rentabilité, des contrats sociaux, de l'esprit des lois, du culte de l'Etat-Providence, du décalogue des Droits de l'homme, des slogans du marketing électoral. L'homme, écrasé, domestiqué, asservi comme jamais il ne l'a été, n'a plus aucun accès au Sacré pour consoler son coeur et éclairer son esprit, il a seulement le culte du vulgaire matérialisme où tout se juge à l'aune du profit et d'un bien-être illusoire, sans aucune spiritualité» (10). Face à ce crépuscule matérialiste, les Dieux peuvent nous aider. Non qu'ils nous offrent une panacée, un nectar qui soigne tous nos maux, mais ils représentent notre héritage le plus ancien et le plus riche. Ils sont le substrat sur lequel peuvent croître les solutions qui conviennent aux défis actuels et futurs. Il faut donc retrouver ces Dieux, ceux de la forêt celtique comme les porteurs de lumière méditerranéens. Il faut retrouver nos mythes, ces récits fondateurs du mental européen: c'est dans leur esprit que se trouve le souffle de notre avenir. Pour défendre ces héritages les plus lointains, Christopher Gérard et son équipe travaillent sans relâche. C'est leur façon de demeurer fidèles à nos Dieux et de témoigner de leur présence. C'est leur façon de nous rappeler que toute Renaissance est un appel à la plus ancienne mémoire, qui est païenne: l'histoire de la civilisation européenne le montre. Pour nous tenir en éveil, Antaios  est d'ailleurs composée “à la dure”, avec des phrases concises, sculptées d'images flamboyantes. Pas d'hésitations, ni de langueurs. Pas de mauvaises graisses, mais des protéines pures. Et un français de qualité!

 

Une vision impériale pour l'Europe de demain

 

La vision européenne d'Antaios table sur une société “polythée” qui, en ce sens, est «celle qui permet l'existence de communautés indépendantes, autonomes, voire rivales, mais dont les rapports sont strictement codifiés afin d'éviter que les inévitables conflits dégénèrent en guerre. Pour citer le cas yougoslave, pareille tragédie pourrait être évitée au sein d'une structure de type “polythée”, voire impériale, à savoir un ensemble hétérogène de peuples relativement homogènes, où les droits des minorités seraient garantis. Sur le plan politique, le Polythéisme prend en compte, avec beaucoup de réalisme, ce désir inné d'autarcie et de complétude» (11). La meilleure forme politique pour notre continent serait donc celle d'un bloc aux dimensions impériales, bâti sur des structures fédérales, où identités et spécificités, véritables ciments cohésifs des sociétés, seraient préservées. Se constituerait ainsi une pluralité de patries charnelles sous l'égide d'une instance impériale dont les rôles seraient ceux d'arbitre souverain et de protecteur, fonctions profondément ancrées dans la conception européenne du Politique. Seule cette structure peut être garante de l'indépendance et de la puissance de l'Europe, structure «dont on retrouve les prémices chez l'Empereur Julien (331-363), dans sa théorie des Dieux ethnarques (nationaux), où il fonde un type de cosmopolitisme impérial» (12): l'organisation politico-religieuse de la société s'y fait le reflet de l'organisation du monde divin. Beau témoignage d'une société fondée en harmonie avec le Cosmos!

 

L'axe eurasiatique

 

Dans chacun de ses numéros, Antaios propose des dossiers thématiques solidement charpentés. Ont ainsi été présentés aux lecteurs deux dossiers sur l'“Hindutva” (13). «Ce terme sanskrit désigne l'Hindouité, c'est-à-dire l'identité de l'Inde essentielle —l'Inde védique— qui a survécu, tout en évoluant, à plus de quatre millénaires de turbulences: invasions musulmanes, colonisation anglaise  —comme l'Irlande—,  agissements de diverses missions chrétiennes et enfin assauts d'une modernité particulièrement destructrice... Récemment, le concept d'“Hindutva”, qui ne se réduit pas au seul Hindouisme, a été utilisé par V. D. Savarkar, l'une des grandes figures du mouvement national indien, pour inciter les Hindous à recourir à leur héritage védique, celui de l'Inde antérieure, la plus grande Inde» (14). Il s'agit d'une tradition proche de la nôtre car issue du même tronc indo-européen, tout en en étant séparée par l'influence de la culture autochtone dravidienne et des millénaires d'histoire. Il n'empêche que l'Hindouisme a su conserver l'antique sagesse de nos ancêtres indo-européens, de mieux en mieux connus aujourd'hui «malgré le discrédit causé par des distorsions opérées au XIXème siècle pour justifier l'expansionnisme pangermanique, malgré aussi de maladroites tentatives de nier l'antique patrimoine ancestral qui est le nôtre, ou encore de le vider de son sens au nom d'une idéologie spirituellement correcte (15)... Les Védas, autant qu'Homère ou les Eddas, constituent nos textes sacrés car ils renvoient tous à une religiosité primordiale, la religion cosmique de la tribu indo-européenne encore indivise, notre tradition hyperboréenne. En Inde, cet héritage n'a pas été saccagé, falsifié et nié comme en Europe ou, en tout cas, la résistance a été plus vive. L'acculturation causée par la christianisation toute superficielle de notre continent, datant surtout de la Contre-Réforme (et de l'avènement de l'Etat moderne) n'a pas eu lieu aux Indes. La tradition paienne y est ininterrompue et le lien toujours possible avec les Brahmanes, les frères de nos Druides. Zeus et Indra, Shiva et Dionysos peuvent, et doivent, se retrouver pour assurer à l'Europe le dépassement du nihilisme qui la ronge. Le recours à cette source pure n'est en rien l'imitation imbécile d'une civilisation à bien des égards fort lointaine. Nous n'avons pas à nous convertir servilement, comme tant d'Occidentaux déboussolés, à un Hindouisme de pacotille; nous n'avons pas à nous réfugier dans les bras de gourous, par un phénomène de régression infantile ou de néo-primitivisme» (16), piège qu'avait brillamment évité Alain Daniélou dont l'étude de l'œuvre constitue la ligne directrice des dossiers “Hindutva”. Indianiste, sanskritiste, musicologue, Alain Daniélou «reste l'un des rares Européens à avoir été accueilli non pas dans un ashram, mais dans la société traditionnelle de l'Inde, et ce, pendant plus de quinze ans... Son œuvre et sa vie constituent un pont sans doute unique entre deux civilisations ou plutôt deux conceptions de la place et du rôle des sociétés humaines sur la planète: l'une, régissant la dernière civilisation traditionnelle vivante, a cherché à établir un équilibre non seulement entre les groupes humains, mais entre ceux-ci et le monde naturel, considéré comme la patrie des Dieux. C'est la civilisation polythéiste, celle du temps cyclique et des mythologies. L'autre conception, infiniment plus récente, est celle du temps linéaire, du Monothéisme. Elle prône l'instabilité économique, politique et sociale, l'anéantissement des différences et le rejet des traditions, dans un but de domination de la nature et de Progrès» (17). Face à cette morne réalité, «l'Inde nous appelle à retrouver le regard de l'homme archaïque pour mieux affronter les défis du prochain millénaire, qui sera à la fois postchrétien et postrationaliste. Tout le monde connaît, sans l'avoir vraiment lue, la phrase souvent tronquée de Malraux: “La tâche du prochain siècle, en face de la plus terrible menace qu'ait connue l'humanité, va être d'y réintégrer les Dieux”. Or l'Inde n'a jamais rompu le contrat avec ses Dieux, cette “Pax Deorum”, qui est le fondement de toute société traditionnelle. L'“Hindutva” possède aussi une vocation universelle, et non pas universaliste car il ne s'agit pas de réductionnisme mais bien de la persistance du vieux singularisme paien: l'acceptation des différences et des saines alternances, fondatrices d'une civilisation qui honore et respecte le divers autrefois chanté par Segalen» (18). Dans ce domaine, le témoignage d'Alain Daniélou est décisif. Ce qu'il nous apprend des fondements philosophiques, historiques et sociaux du système des castes est remarquable d'intelligence et de pondération: «le système des castes, dans l'Inde, a été créé dans le but de permettre à des races, des civilisations, des entités culturelles ou religieuses très diverses de coexister. Il fonctionne depuis près de 4000 ans avec des résultats remarquables. Quels que soient les défauts qu'il présente, ce but essentiel ne doit pas être oublié. Le principe fondamental de l'institution des castes est la reconnaissance du droit de tout groupe à la survie, au maintien de ses institutions, de ses croyances, de sa religion, de sa langue, de sa culture, et le droit pour chaque race de perpétuer, c'est-à-dire le droit de l'enfant de continuer une lignée, de bénéficier de l'héritage génétique affiné par une longue série d'ancêtres. Ceci implique l'interdiction des mélanges, de la procréation entre races et entités culturelles diverses. “Le principe de toute vie, de tout progrès, de toute énergie, réside dans les différences, les contrastes”, enseigne la cosmologie hindoue. “Le nivellement est la mort”, qu'il s'agisse de la matière, de la vie, de la société, de toutes les formes d'énergie. Tout l'équilibre du monde est basé sur la coexistence et l'interdépendance des espèces et de leurs variétés. Encore de nos jours, une des caractéristiques du monde indien est la variété des types humains, leur beauté, leur fierté, leur style, leur ‘race’, et ceci à tous les niveaux de la société. Tout groupe humain, laissé à lui-même, s'organise selon ses goûts, ses aptitudes, ses besoins. Ceux-ci étant différents, l'essentiel de la liberté, de l'égalité, consiste à respecter ces différences. Une justice sociale digne de ce nom ne peut que respecter le droit de chaque individu, mais aussi de chaque groupe humain, de vivre selon sa nature, innée ou acquise, dans le cadre de son héritage linguistique, culturel, moral, religieux qui forme la gangue protectrice permettant le développement harmonieux de sa personnalité. Toute tentative de nivellement se fait sur base d'un groupe dominant et aboutit inévitablement à la destruction des valeurs propres des autres groupes, à l'asservissement, à l'écrasement physique, spirituel ou mental des plus faibles. Ceux-ci, par contre, s'ils sont assimilés en assez grand nombre, prennent leur revanche en sabotant graduellement les vertus et les institutions de ceux qui les ont accueillis ou asservis. C'est ainsi que finissent les Empires» (19).

 

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Face à cette déliquescence se bâtiront de nouveaux Empires, dans le respect de l'autonomie, de la personnalité et des croyances des différentes ethnies qu'ils chapeauteront. Dans ce contexte, l'Inde est appelée à jouer un rôle actif aux côtés d'une Europe assumant son antique vocation impériale et grande-continentale, elle «constitue l'une des clefs de voûte d'un édifice appelé à braver les siècles: le grand espace eurasiatique qui reposera, pour nos régions, sur un pôle carolingien (franco-allemand) enfin réactivé» (20). Seul ce bloc impérial peut faire front aux visées expansionnistes des Etats-Unis et, par-delà, au projet d'homogénéisation planétaire.

 

Une éthique au service de l'Imperium

 

La puissance d'une nation repose sur la force de ses citoyens. En ce sens, les Dieux, en tant que personnifications des forces naturelles et par-delà, symboles de la plénitude des valeurs, sont des modèles à suivre pour tout citoyen, lequel choisit une ou plusieurs Divinités tutélaires, incarnations de ses exigences morales et spirituelles. Les Dieux sont donc d'authentiques archétypes qui nous renvoient à notre singularité, à notre aspiration au dépassement. Le Polythéisme permet «aux hommes, tous uniques, d'adorer le Dieu correspondant à leur nature profonde (Sol et Luna par exemple), à leur héritage (un Bantou ou un Lapon n'adoreront pas les mêmes divinités qu'un Mexicain), à l'étape de leur quête spirituelle (sans pour autant forcer quiconque à en mener une, comme dans certain Catholicisme hypocrite), à l'âge de la vie... A chacun selon ses possibilités et ses désirs»  (21).

 

Qui parle de modèles, doit parler de mise en critique, seule capable de faire avancer la pensée: se dessine alors la réflexion philosophique, avec sa volonté de chercher et de choisir en toute liberté d'esprit. Instigateur d'une démarche et d'un engagement, le Polythéisme est donc la religion par excellence de l'homme responsable qui, par son action, contribue à l'équilibre de la société et au-delà à celui du Cosmos. A chacun dès lors de jouer pleinement le rôle que lui a assigné le Destin dans l'Ordre sociocosmique. En ce sens, le respect des contrats et des engagements, la fidélité à la parole donnée sont essentiels, comme le sont le maintien des diversités, la reconnaissance de tous les dons et talents. La multiplicité des rôles est en effet le gage du plein épanouissement de toute société: «tous les hommes sont égaux en droit (au singulier). Cela ne signifie pas qu'ils aient les mêmes droits. Etant extraordinairement différents, et chacun n'ayant droit qu'à ce dont il est capable (sans léser autrui), les hommes ont des droits différents. Une société fondée sur l'égalité des chances aboutirait ainsi à l'émergence d'une aristocratie naturelle»  (22). Cette vision doit pousser chacun de nous à devenir celui qu'il est destiné à devenir, à conquérir le Royaume invisible qu'il porte en lui. Le fameux adage “Connais-toi toi-même et tu connaîtras l'univers et les Dieux” (le Gnôthi seauton hellénique) prend alors tout son sens. Cette éthique souveraine s'oppose à la présomption des religions de la Révélation où, pour être admis à participer au Divin, l'homme doit recevoir la grâce d'un Dieu personnel. Le Polythéisme est donc porteur d'une plénitude de sens dont les religions schématiques ont écrasé la richesse. La caractéristique principale des Monothéismes est en effet «la réduction: le Monothéisme coupe, tranche, réduit les éléments de la vie pour n'en garder que ce qu'il considère comme essentiel. Voilà l'essence du Monothéisme: aux capacités multiples de la Déité, il n'en retient que telle ou telle. La différence avec le Polythéisme grec est nette: le Monothéisme judéo-chrétien fonctionne sur la réduction. Et la modernité n'est que la forme laïcisé de cette réduction monothéiste judéo-chrétienne, avec la Parousie, les conceptions sotériologiques,... qui trouvent leur aboutissement, et peut-être leur achèvement, dans la forme profane qu'est le rationalisme moderne» (23). Apparaissent les vérités uniques, leurs ukases et ostracismes, comme les idées collectives, catéchismes niais à l'usage des masses. Le Polythéiste quant à lui reconnaît la richesse et la pluralité du monde. Il sait que “sa” religion n'est qu'une approche et ne refuse pas de prendre en compte celle des autres, d'où son absence de prosélytisme: «l'essence même du Polythéisme est la tolérance, l'essence du Monothéisme est l'intolérance et le fanatisme qui l'accompagne. Il suffit de se pencher sur l'histoire des religions pour s'en convaincre. Jamais on ne pourra me citer une religion polythéiste qui ait fait de l'intolérance son principe fondamental. Et qu'on ne vienne pas nous parler des persécutions, car, outre le fait que nombre d'entre elles sont de pures inventions des auteurs des Actes des Martyrs, elles n'avaient pas un caractère religieux, mais politique... Alors que tous les génocides de l'histoire, même s'ils n'ont que rarement pu aller jusqu'à une solution finale, aussi bien que les ethnocides, se sont perpétrés au nom d'une idéologie monolâtrique. Sans compter le fait que tout Monothéisme est destructeur de toute tradition ancestrale. Ainsi en a-t-il été dès que les Chrétiens ont triomphé. Dois-je citer la destruction des civilisations de l'Amérique latine, et surtout le plus grand génocide de l'histoire, celui des Indiens de l'Amérique du Nord par les trop fameuses tuniques bleues, et le plus petit, mais le plus complet, celui des Tasmaniens par le colonisateur anglais? De l'idéologie monothéiste sont nées les idéologies réductionnistes politiques, tout aussi destructrices, j'entends le national-socialisme et le communisme, si proches dans leurs principes et leur finalité, que je m'étonne qu'on puisse encore se dire communiste après les crimes dont cette idéologie s'est souillée» (24). Face aux folies et à l'“hybris”, les Dieux nous ont toujours montré la juste voie. Avec eux, les totalitarismes, héritiers d'une conception aliénante de la relation homme-nature, esprit-corps, raison-sentiments, n'auraient pu prendre racines: la sagesse du “juste milieu” (le remarquable mèden agan delphique: rien de trop) les aurait immédiatement refoulés!

 

Amor Fati

 

Pour les Païens, il n'existe pas de transcendance absolue, de Toute Puissance, tel Big Brother, distribuant châtiments et saluts, béquilles d'une humanité incapable de faire face à ses responsabilités. Les Dieux sont nés du chaos initial : ils sont des émanations du monde où ils se manifestent. La perspective d'un au-delà, au sens chrétien, est donc totalement absurde pour un Païen, nous rappelle Christopher Gérard dans le premier Cahier d'Etudes Polythéistes  (25). Le Païen conçoit plutôt l'ici-bas comme lieu d'enchantements multiples: il suffit d'ouvrir les yeux pour en être convaincu. D'où l'importance  —maintes fois soulignée dans Antaios—  du regard, de ce que les Grecs, nos maîtres, appelaient théôria,  l'observation des manifestations du Divin: la splendeur d'un orage, l'éclat du soleil, la clarté de la lune dans une clairière enneigée, les flammes rousses d'un grand feu dans la nuit, une vague déferlante, le rire d'un enfant, la beauté d'une femme,... Non, le monde n'est pas désenchanté! C'est le regard de la plupart des hommes d'aujourd'hui qui est dévitalisé. Les manifestations du Divin éclatent partout: à nous de les honorer par nos actes et nos œuvres, nous rendons ainsi grâce aux Dieux. L'esprit souffle en tous lieux: à nous de découvrir nos “lieux de mémoire”, lieux d'attaches et de souvenirs. «Pour ma part, je ne peux passer par Rome sans aller saluer le Panthéon, qui me paraît représenter, je ne sais pourquoi, l'esprit du Paganisme. Dans la Ville, je rends toujours une visite émue au Mithraeum souterrain de san Clemente et, flânant sur le Forum, je pense aux cendres d'Henry de Montherlant, fidèle de Sol Invictus. Je rends aussi visite à la Curie: je n'ai pas oublié que c'est là que Symmaque et toute l'aristocratie paienne siégèrent et, lors de l'Affaire de l'Autel de la Victoire, défendirent la liberté de conscience contre les diktats de l'Eglise. A Mistra, j'ai arpenté les rues de la ville fantôme en invoquant les mânes de Georges Gémisthe Pléthon, le philosophe néo-paien. Brocéliande, les Iles d'Aran, Athènes (l'Hephaisteon), et tout récemment Bénarès, la Ville Sainte, m'ont transporté d'enthousiasme et permis de percevoir les manifestations du divin. Expérience que l'on peut aussi vivre dans d'humbles sanctuaires celtes ou gallo-romains, et même dans de petites églises de campagne» (26), Christopher Gérard s'en fait le témoin: l'enchantement réside en nous-mêmes et dans le clair regard sur ce monde auquel nous sommes inextricablement liés.

 

L'homme libre tâche donc de se réaliser hic et nunc: «la valeur a à être donnée à la vie. La vie n'a pas de valeur par elle-même mais par ce que l'on en fait. On refuse de se laisser porter par la vie. La vie doit être vécue en volonté, sur le fond d'une décision résolue de création. Car la manière de donner de la valeur à la vie ne peut être la répétition du même, la répétition du morne, mais la création. Si je ne fais que me répéter, qu'importe l'interruption de la mort? Mais si je crée, de telle sorte que, par la mort, ce qui pouvait être cesse définitivement de pouvoir être, en ce cas, il y a bien une perte absolue... Certes! Mais il s'agit, précisément, de donner la plus haute valeur à ce qui doit périr» (27). Tel est le sens du Tragique, élément fondamental de la conception païenne du monde, claire conscience du Destin qui tranche implacablement la vie porteuse de fruits. Cet inexorabile Fatum  cher à Virgile se manifeste aussi à tout homme qui voit ses choix et ses actes, pris dans l'engrenage de l'Ordre inviolable du monde, tout à la fois le dépasser et avoir des répercussions qu'il ne peut contrôler. Malgré la conscience aiguë de ces limites, nul pathos, nul fatalisme n'accablent le Païen. Sans cesse il surmonte l'adversité, il maintient le cap, garde l'allure, ne comptant que sur lui (bel exemple du fameux meghin nordique: la foi en ses propres capacités). Tel est son honneur.

 

On comprend donc qu'Antaios  soit lue par les cherchants, les esprits libres, que la revue fasse place large à des écrivains non-conformistes et francs-tireurs (28). Face aux personnes dociles, adaptées aux dogmes cauteleux du politiquement correct, face aux baudruches qui voudraient nous dicter nos modes d'agir et de réfléchir, Antaios  éclate d'un rire incoercible qui n'a rien à voir avec la dérision confortable et en fin de compte résignée qui envahit ce monde vétuste. Frondeur, le rire d'Antaios conserve toute sa force dévastatrice: à chaque page, on bute sur une observation qui oblige à revoir positions faciles et plates certitudes. Par ces temps de pensée unique, il importe bien de marteler impitoyablement conformismes et dogmes...

 

Repenser la tradition païenne

 

La spiritualité païenne n'est en rien «la nostalgie de l'Age d'Or, du paradis avec son désir puéril de retour vers un état préscientifique, trop proche du mythe chrétien du péché originel. Elle n'est pas non plus une fuite hors du monde, qui serait la négation de notre esprit héroico-tragique: le Paien est de ce monde. Nulle macération, nul masochisme dans son impérial détachement. Le Paganisme n'est pas non plus un retour à des superstitions révolues, une sorte d'irrationalisme archéologique: nul refus de la science, de la technique, bien au contraire. Nul rejet de la raison, qu'il nous faut utiliser et intégrer comme outil dans notre Quête. Etre Paien au XXe siècle ne consiste pas à se livrer à des pratiques bizarres de “magie” ni à des cérémonies où l'exhibitionnisme le dispute au grotesque. En ce sens, le Paganisme ne s'identifie nullement à sa forme dégénérée, la sorcellerie, comme le prétendent divers mouvements américains» (29).

 

Antaios  est tout sauf une revue prospérant dans la rengaine nostalgique: ni repli dans une tour d'ivoire, ni regret frileux du passé, ni sentiment d'impuissance face à la modernité. Au contraire, elle fait le lien entre notre héritage ancestral et les exigences les plus novatrices du XXIème siècle. Car être Païen ne signifie pas tant renier le monde moderne que rechercher en lui la profondeur de ses racines, véritables garantes contre le triomphe de la superficialité, la durée éphémère des modes, le diktat de l'immédiateté, tous privilégiés, au nom du sacro-saint Progrès, par notre société. C'est par la mémoire que l'homme échappe à cette tyrannie de l'instant pour vivre dans l'éternité. La mémoire est chère au savant, à l'artiste et au lettré qui se remémorent pour mieux inventer et créer, elle l'est au citoyen qui se souvient des expériences passées pour mieux agir et décider. Par contre, le projet révolutionnaire de faire du passé table rase, comme le chantent les attardés de l'Internationale et les apôtres de l'amnésie consumériste, est un projet nihiliste et destructeur de l'homme dans ses racines. Comme si en coupant les anciennes racines de l'arbre, celui-ci pouvait prospérer sur ses plus récentes radicelles, jouets d'une saison, sans doute inaptes à soutenir la succession des orages et les pluies de l'adversité! Antaios  se fait le chantre de la mémoire. Son directeur explique qu'il se considère comme une sorte d'“archéologue de la mémoire” (30). Au travers d'Antaios,  il recherche en effet le noyau intérieur de notre culture et opère recours à sa spécificité et à ses Dieux, toujours vivants: «nous autres Paiens concevons le temps comme cyclique, à l'image des cycles cosmiques (solaire par exemple, avec les équinoxes et les solstices)... Le temps des Paiens est celui de l'Eternel Retour, pareil à la grande Roue qui tourne et tourne sans répit... Pour nous, il n'y a pas d'apocalypse, mais bien d'innombrables fins de cycles, éternellement recommencés. Une succession sans début ni fin de naissances, de croissances et de déclins, de crépuscules suivis de rénovations, de cataclysmes suivis de renaissances, au sein d'un Ordre (en grec: ‘Kosmos’) intemporel, où hommes et Dieux, mortels et Immortels, ont leur place et leur fonction. Le mythe du Progrès n'est pas le nôtre. Nous ne croyons pas au sens de l'histoire (concept à mes yeux totalitaire), à la ‘fin’ du Paganisme, à la ‘mort’ des Dieux... Si le temps est linéaire, comme le prétendent les théologies judéo-chrétienne et rationaliste, le Paganisme est impensable puisque ‘mort’, et scandaleux puisqu'allant à l'encontre du sacrosaint sens de l'histoire. Mais si comme nous le pressentons, le temps est cyclique, la perspective change du tout au tout... Si ses formes anciennes (liturgies, temples,...) ont cédé la place à d'autres qui s'en sont souvent largement inspiré, les archétypes, qui sont eux éternels, demeurent» (31).

 

Recourir aux Dieux ne signifie donc ni les embaumer, ni inventer des cultes incertains, mais s'alimenter à leur flamme et les repenser à la lueur de nos propres idéaux, attitudes qui nous préservent d'une hypertrophie de la mémoire et de créations pastiches, sans souffle, comme le sont le New Age et son cosmopolitisme niveleur, le rosicrucisme avec ses "initiations" payantes, la Wicca avec sa complaisance pour le "luciférisme" et autres miasmes putrides (32),... Les Dieux ne doivent pas devenir un refuge contre le monde contemporain, mais s'affirmer comme le creuset du Volksgeist  de notre époque, ce qu'Antaios  a compris: «le Paganisme a changé depuis les origines et il continuera à changer: les Paiens du IIIème millénaire seront à la fois proches et différents de leurs ancêtres celtes, grecs ou slaves. Car, au contraire des vieilles religions monothéistes figées dans les écritures de moins en moins lues et des dogmes risibles, le Paganisme est éternellement jeune puisqu'il évolue avec les peuples» (33).

 

Face au monde d'aujourd'hui, Antaios rappelle encore que la recherche du sens de l'univers est aussi liée à la science. Non pas une science mue, tel un pantin, par un déterminisme draconien, mais une science qui apprend l'humilité face à la nature. Un monde scientifique qui, lorsqu'il se tourne vers l'infiniment grand et l'infiniment petit, constate que l'horizon, loin de se rétrécir, s'élargit dans une perspective immense. Un monde scientifique qui se tient sur un seuil et se sent alors pris de vertige, je dirais: émerveillé. Comment pourrait-il en être autrement? Si, au-delà de démonstrations toujours incertaines et fragmentaires, la science ne peut indiquer à l'homme de certitudes, elle peut cependant l'aider à se déployer et, en tout cas, lui permettre de “sentir” l'Infini. La science (logos)  se rapproche alors du mythe (muthos) comme mode de connaissances, producteur de sens (34)...

 

Fides Aeterna: «c'est ce qui me frappe chez mes amis Hindous: cette fidélité à leur héritage plurimillénaire, ce refus de la rupture que constituerait la conversion, ce reniement. Je pense à ceux qui refusèrent de céder: les Saxons de Verden, les ‘pagani’ de nos campagnes, ces philosophes d'Athènes chassés de l'Université d'Athènes en 529 et un temps réfugiés en Perse... Je pense à cette chaîne, interrompue certes, de Paiens, fidèles aux Dieux, parfois clandestins, toujours résistants, qui rythment l'histoire de notre continent. En maintenant Antaios, je leur rends l'hommage qui leur est dû» (35). Fides Aeterna, telle est la belle devise d'Antaios qui, dans un monde voué aux ruptures, renoue les liens essentiels et offre à ses lecteurs un fil d'Ariane dans la confusion de notre temps. Saluons Antaios,  comme l'ont saluée, l'été dernier, les Brahmanes de Bénarès qui, à l'instar d'Ernst Jünger, encouragèrent Christopher Gérard à persévérer dans une œuvre appelée à triompher du temps...

 

Anne MUNSBACH.

 

Pour tout renseignement: Antaios, 168/2 rue Washington, B-1050 Bruxelles. Email: antaios-bru@hotmail.com

 

Notes:

 

(1) Isabelle ROZET, Le Mythe comme enjeu: la revue Antaios de Jünger et Eliade in Antaios 2, équinoxe d'automne 1993, p.17.

 

(2) Ernst JUNGER, Siebzig verweht V, Klett-Cotta, Stuttgart 1997, p.191. Dans chaque numéro d'Antaios, Christopher Gérard salue Ernst Jünger à travers la chronique «Jüngeriana» qui fait le point sur tout —ou presque tout— ce qui se dit et s'écrit sur ce guerrier de l'esprit.

 

(3) Relire Grimm. Entretien avec Jérémie Benoit in Antaios 12, solstice d'hiver 1997, p.22.

 

(4)-(6)-(8) Patrick TROUSSON, Le Sacré et le mythe in Antaios 6/7, solstice d'été 1995, p.30-31.

 

(5) Sur ce sujet, on lira, entre autres, l'entretien que le philosophe Lambros Couloubaritsis a accordé à Antaios  6/7.

 

(7) Ainsi, une passionnante étude sur Marc. Eemans, peintre et poète surréaliste thiois, éditeur de la revue méta ou para-surréaliste Hermès (1933-1939), les textes à la langue singulière et onirique du très nietzschéen Marc Klugkist, la fascinante figure des frères Grimm, l'anarque Guy Féquant, l'étrange François Augiéras, Henri Michaux, et tant d'autres...

 

(9) Christopher GERARD, Trouver un ciel au niveau du sol. Par-delà dualisme et nihilisme: une approche paienne, Cahiers d'Etudes Polythéistes 1, Ides de mai 1997, p.111. Qu'ils soient islandais, grec, letton, lithuanien, autrichien, Antaios fait place, au fil de ses numéros, aux différents courants d'une renaissance païenne. On se reportera aussi à l'entretien que Jean-François Mayer a accordé à Antaios: Penser la théopolitique. Entretien avec Jean-François Mayer in Antaios 10, solstice d'été 1996, pp.36-48, il y parle, entre autres, du renouveau païen dans diverses régions du monde.

 

(10) Jean VERTEMONT, Méditations sur la religion in Antaios 6/7, solstice d'été 1995,p.58.

 

(11)-(12) Christopher GERARD, Penser le Polythéisme in Antaios 6/7, solstice d'été 1995, p.47. Pour davantage de précisions, on lira L'Empereur Julien, Contre les Galiléens. Une imprécation contre le Christianisme, Ousia, Bruxelles 1995, dont Christopher Gérard nous propose une traduction dépoussiérée, accompagnée de commentaires pertinents ainsi que d'une introduction campant un contexte historique complexe. Dans la postface de l'ouvrage, Lambros Couloubaritsis analyse avec beaucoup d'acuité le sens philosophique et politique de ce traité antichrétien.

 

(13) Antaios 10, solstice d'été 96 et Antaios 11, solstice d'hiver 1996. A travers une série d'entretiens avec des penseurs de la mouvance hindouiste, ces numéros présentent, entre autres, les thèses du nationalisme hindou.

 

(14)-(16)-(18) Christopher GERARD, “Hindutva”  in Antaios 10, solstice d'été 1996, pp.3-5.

 

(15) Dans chaque numéro d'Antaios, la chronique “Etudes indo-européennes” passe au crible d'une critique avertie les ouvrages récents consacrés à la “res indo-europeana”.

 

(17) Jean-Louis GABIN, La Civilisation des différences in Antaios 10, solstice d'été 1996, p.87.

 

(19) Alain DANIELOU, Castes, égalitarisme et génocides culturels in Antaios 10, solstice d'été 1996, p.102. Les textes d'Alain Daniélou publiés dans Antaios le sont avec l'aimable autorisation de son héritier Jacques Cloarec. Ce dernier a créé un site Internet multilingue dédié à l'œuvre d'Alain Daniélou: http://www.imaginet.fr/-jcloarec/danielou. Une traduction italienne des textes sur le système des castes a été publiée par les éditions Barbarossa: Alain DANIELOU, Caste, egualitarismo e genocidi culturali, Società Editrice Barbarossa, Milano 1997.

 

(20) Christopher GERARD, “Hindutva”  in Antaios 10, solstice d'été 1996, p.5. Pour davantage de précisions sur cette vision impériale, on se reportera aux théories géopolitiques de Karl Haushofer. On lira aussi à ce sujet, Jean PARVULESCO, L'Inde et le mystère de la Lumière du Nord in Antaios  8/9, solstice d'hiver 1995, pp.103-115, qui évoque le rôle réservé à l'Inde dans cet Empire à construire.

 

(21 ) Christopher GERARD, Penser le Polythéisme in Antaios  6/7, solstice d'été 1995, p.46.

 

(22) Entretien avec le philosophe Marcel Conche in Antaios  8/9 solstice d'hiver, 1995, p.34.

 

(23) Eloge du savoir dionysien. Entretien avec Michel Maffesoli  in Antaios 10, solstice d'été 1996, p.27.

 

(24) Le Pèlerinage de Grèce. Entretien avec Guy Rachet in Antaios 10, solstice d'été 1996, pp.16-17. Sur le sujet des totalitarismes, on lira aussi l'entretien que l'ethnologue Robert Jaulin, résistant acharné à toute forme d'ethnocide, avait accordé à Antaios lors de la sortie de son dernier livre L'Univers des totalitarismes (Editions Loris Talmart 1996): L'Univers des totalitarismes. Entretien avec Robert Jaulin in Antaios 10, solstice d'été 1996, pp.33-35.

 

(25) Christopher GERARD, Trouver un ciel au niveau du sol. Par-delà dualisme et nihilisme: une approche paienne,  Cahiers d'Etudes Polythéistes 1, Ides de mai 1997. Ce premier Cahier a été publié à la suite d'une conférence prononcée dans les Ardennes lors d'un colloque “oecuménique” sur le thème de l'au-delà.

 

(26) Paganisme. Entretien avec Christopher Gérard, directeur d'Antaios in Solaria 10, hiver 1997-98, pp.15-16. Pour obtenir ce numéro, contacter le “Cercle Européen de Recherches sur les Cultes Solaires”, 63 rue Principale, F-67260 Diedendorf.

 

(27) Entretien avec le philosophe Marcel Conche in Antaios 8/9, solstice d'hiver 1995, p.35.

 

(28) Au fil des numéros d'Antaios, on suit ainsi la trace de l'insolent Michel Mourlet ou encore de l'inclassable Gabriel Matzneff. On lira notamment l'entretien que chacun des deux écrivains a accordé à Antaios: Entretien avec un Paien d'aujourd'hui: Michel Mourlet in Antaios 1, solstice d'été 1993, pp.11-14 et Portrait d'un anarque. Entretien avec Gabriel Matzneff in Antaios 12, solstice d'hiver 1997, pp.6-12.

 

(29) Christopher GERARD, Paganus  in Antaios 3, équinoxe de printemps 1994, p.21 .

 

(30) Paganisme. Entretien avec Christopher Gérard, éditeur d'Antaios in Solaria 10, hiver 1997-98, p.13.

 

(31 ) Christopher GERARD, Trouver un ciel au niveau du sol. Par-delà dualisme et nihilisme: une approche paienne, Cahiers d'Etudes Polythéistes 1, Ides de mai 1997, pp.V-VI.

 

(32) Antaios  a publié une excellente mise au point de son directeur sur la question des rapports entre Paganisme et Satanisme: Christopher GERARD, Wicca et Satanisme: des chemins qui ne mènent nulle part in Antaios 11, solstice d'hiver 1996, pp.37-44.

 

(33) Christopher GERARD, Paganus in Antaios 3, équinoxe de printemps 1994, p.22.

 

(34) Antaios  n'hésite pas à plonger au cœur des thèmes de prédilection des sciences physiques comme l'espace-temps, la logique, la cosmologie,... pour aboutir au constat qu'il existe des concordances entre science et mythe: ils forment les deux faces d'une même pièce qui serait le réel. Qu'on ne s'y méprenne pas: concordance ne signifie pas identité. Ce qui apparaît, c'est que ces deux approches différentes arrivent à exprimer des points de vue similaires, ou tout au moins complémentaires. Nous recommandons la lecture de l'étude du “conseiller scientifique” d'Antaios , le Docteur ès Sciences Physiques Patrick TROUSSON, Le Sacré et le mythe in Antaios 6/7, solstice d'été 1995, pp. 24-40, un chapitre y est consacré aux rapports entre mythe et science. On lira aussi l'entretien que Jean-François Gautier a accordé à Antaios au sujet de son essai L'Univers existe-t-il? (Actes Sud 1994), où il aborde la question des limites de la science: Entretien avec Jean-François Gautier. L'Univers existe-t-il? in Antaios 10, solstice d'été 1996, pp.54-63.

 

(35) Paganisme. Entretien avec Christopher Gérard, éditeur d'Antaios  in Solaria 10, hiver 1997-98, p.14.

 

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mardi, 22 décembre 2009

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

 

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

 

 

Jacques-Olivier MARTIN

 

Considéré comme le bastion traditionnel du catholicisme, l'Amérique latine est actuellement l'enjeu de luttes d'influence entre différents groupes religieux chrétiens dont le prosélytisme atteint son paroxysme. Vivement encouragés par les dirigeants politiques du continent, le développement des sectes protestantes permet d'assurer le contrôle politique de populations misérables qui constituent le terreau des guérillas anti-américaines et dont quelques prêtres catholiques, adeptes de la Théologie de la Libération ont pris la défense. Particulièrement visés par cette stratégie, les Indiens constituent en effet une menace pour le système car ils associent revendications sociales et défense de leur identité culturelle et religieuse. D'où l'intéret d'une religion associant individualisme, universalisme et soumission à I'ordre établi, valeurs par excellence d'une société soumise à I'hégémonie américaine.

 

Un continent soumis depuis cinq siècles à l'hégémonie européenne, puis américaine

 

Avec l'accession à l'indépendance des anciennes colonies de la couronne d'Espagne, l'Amérique latine connaît tout le contraire d'un processus d'émancipation durant le XIXième siècle. Ses élites politiques, essentiellement espagnoles, ne parviennent pas à contrer les plans de l'Angleterre qui impose le morcellement de l'empire en une kyrielle de petits États. C'est ainsi qu'ils font échouer, en 1839, le projet de Grande-Colombie initié par Simon Bolivar, et font exploser les Provinces-Unies d'Amérique centrale en plusieurs petits États de taille ridicule. Conformément à sa logique de thalassocratie, l'Angleterre empêche ainsi la constitution de toute puissance continentale qui pourrait contester les règles commerciales et financières qu'elle impose facilement à de petits États clients.

 

Les États-Unis, malgré la politique de solidarité panaméricaine annoncée par la doctrine de Monroe datant de 1823, se méfient aussi de l'émergence d'une puissance ibéro-américaine. La création du micro-Etat panaméen en 1903 est la mise en application la plus éloquente de ce principe, les Américains fomentant une révolte contre la Colombie pour obtenir la sécession du Panama, afin de se faire concéder la souveraineté sur le canal par un régime panaméen faible et soumis à l'Oncle Sam.

 

L'éclatement de l'Amérique latine en une vingtaine d'États ouvre pour le continent une ère de chaos et d'anarchie entretenue par les grandes puissances. Des conflits meurtriers opposent ainsi de jeunes nations; tels que la guerre du Pacifique des années 1880, entre le Pérou et la Bolivie d'une part, et le Chili d'autre part. Les dépôts de nitrate du désert d'Atacama suscitaient en effet la convoitise des trois États mais les capitalistes européens ont soutenu financièrement le Chili, vainqueur du conflit, car le gouvernement péruvien avait appliqué une politique spoliatrice à leur égard. La stratégie américaine du Big Stick  (gros bâton) et de la diplomatie du dollar vient concurrencer les Européens, surtout vers la fin du XIXième siècle, lorsque les Etats-Unis chassent les Espagnols de Porto-Rico et de Cuba, îles dans lesquelles ils avaient investi dans les plantations de canne à sucre. En 1901, l'amendement Platt voté par le Sénat transforme Cuba en un protectorat de fait, Haïti et Saint-Domingue subissant le même sort en 1916 et en 1923. Quant à la diplomatie du dollar, elle s'applique aux États plus solides ou plus éloignés de la sphère d'influence américaine.

 

Le sous-développement endémique dont a toujours souffert l'Amérique latine s'explique donc en partie par sa dépendance politique. La composition ethnique des États de la région, héritage de la colonisation espagnole, ne fait qu'aggraver le phénomène car, face à une masse indigène, noire ou métisse, une élite créole affiche un sentiment de supériorité sociale et ne montre guère d'intérêt pour le développement économique. Lorsqu'une mine est exploitée à l'aide de capitaux et d'ingénieurs européens, il est fréquent que la ligne de chemin de fer qui achemine le minerai destiné à l'exportation vers le port ne soit même pas connectée à la ville la plus proche.

 

Eralio%20Gill%20et%20Nicolarapa.jpgLa Révolution mexicaine de 1912 est sans doute la première réaction notable à cette situation de pillage du pays par les capitalistes étrangers et leurs collaborateurs locaux. Le Mexique était en effet dépossédé de ses champs pétrolifères dont la concession était accordée aux compagnies anglo-saxonnes; tandis que lrs terres se concentraient entre les mains de quelques familles au détriment des communautés indiennes. Cette Révolution est l'aboutissement d'un mouvement pour l'émancipation des Indiens et contre le capital étranger, s'accompagnant de la lutte contre le clergé catholique qui est considéré comme le meilleur allié du régime. Le rôle de ce dernier a été déterminant dans les conflits qui ont ponctué l'histoire de l'Amérique latine, surtout au XXième siècle, période de remous et de mutations pour l'Église catholique.

 

L'Église catholique dans la tourmente révolutionnaire.

 

Les sociétés latino-américaines ont longtemps été dominées par la trilogie Evêque-Général-Propriétaire terrien. Cette alliance du sabre et du goupillon est conforme à la définition de la religion, certes restrictive  —mais particulièrement pertinente lorsque l'on analyse le rôle de l'Église catholique sur ce continent—  du sociologue français Pierre Bourdieu. Selon lui, le religieux se caractérise par sa fonction de conservation et de légitimation de l'ordre social. Si les diverses religions polythéistes traditionnelles encore pratiquées à travers le monde ont rarement pour objectif de conquérir et d'influencer le pouvoir, les monothéismes chrétien et musulman ne font quant à eux pas preuve de la même faiblesse, s'appuyant largement sur les régimes politiques en place, quelle que soit leur nature.

 

Le Vatican joue d'ailleurs un rôle direct dans la politique latino-américaine, tel le nonce apostolique négociant la reddition de Noriega à Panama ou le cardinal de Managua qui œuvre à la recomposition politique d'une opposition au gouvernement sandiniste. Si l'Église a constitué la première force d'opposition au régime du général Pinochet, la majorité de la hiérarchie catholique conservatrice du Brésil contribue à la chute du président J. Goulard en 1964 et à l'instauration du gouvernement militaire. En organisant «une marche avec Dieu pour la famille et la liberté»,en mars 1964, avec le financement de la CIA et du patronat, elle assène un coup décisif au régime civil. Son but est en effet de mettre un terme aux réformes sociales entamées par le régime, assimilées à une évolution vers le communisme et soutenues par la minorité réformiste du clergé s'inspirant de Dom Helder Camara.

 

L'Église est aussi au centre des conflits qui ensanglantent l'Amérique centrale depuis des années, où elle torpille le projet réformiste du président Arbenz au Guatemala. Au nom de l'anti-communisme, le Congrès eucharistique réunit 200.000 personnes en 1951dans une croisade pour la «défense de la propriété». Par la suite, le cardinal Casariego restera muet sur les atrocités commises par les juntes au pouvoir à partir de 1954. Quant à la famille Somoza, elle a bénéficié aussi du soutien de l'Église nicaraguéenne, l'archevêque de Managua sacrant, en 1942, la fille du dictateur reine de l'armée avec la couronne de la Vierge de Candelaria.

 

La Théologie de la libération rompt avec l'attitude traditionnelle de l'Église catholique.

 

Le changement d'attitude de l'Église date de la fin des années cinquante, à la suite du choc causé par la révolution cubaine de 1958. Bien avant la convocation du Concile Vatican II, le pape Jean XVIII manifeste en effet la volonté que l'épiscopat latino-américain sorte de son inertie et s'adapte aux réalités du continent, soulignant l'urgence d'une réforme des structures sociales. Selon lui, l'Église doit retrouver l'appui des masses en adoptant un discours différent de celui de l'acceptation des rapports sociaux, idée développée lors du congrès de Medellin de 1968.

 

Le Concile Vatican II développe ainsi plusieurs thèmes devant réconcilier le peuple et son Église, qui doit désormais se considérer comme le «peuple de Dieu». Le rôle du laïc est revalorisé afin de rendre plus active la parti­ci­pa­tion de tous les fidèles aux célébrations liturgiques et à l'enseignement du catéchisme. Les paroisses sont décentralisées pour que des «commu­nautés de base» s'auto-organisent dans le monde rural et dans les bidon­villes. L'intérêt que présentent ces communautés est double: d'une part elles intègrent dans les chants et les rituels certains éléments de la reli­gio­si­té populaire, d'autre part elles sont le lieu où les populations pau­vres dis­cu­tent des problèmes quotidiens avec des animateurs.

 

En Amérique centrale, ces théologiens de la libération sont même à l'origine du développement de plusieurs mouvements révolutionnaires, effectuant un travail de conscientisation des masses et brisant le tabou de l'incompatibilité entre chrétiens et marxistes. Che Guevara est le symbole de cette pensée christo-marxiste qui reconnaît le droit à l'insurrection. En outre, le “Che” fait figure de martyr dans les églises populaires. En disant que la révolution latino-américaine serait invincible quand les chrétiens deviendraient d'authentiques révolutionnaires, il prouvait que ce basculement idéologique de l'Église risquait de déstabiliser des régimes politiques privés de réels soutiens populaires.

 

Au Nicaragua, où les communautés de base diffusent la propagande du front sandiniste, le Père Ernesto Cardenal est converti par les Cubains aux thèses révolutionnaires et prône l'idée que le royaume de Dieu est de ce monde. Les chrétiens seront d'ailleurs représentés dans le gouvernement san­diniste dans lequel ils auront quatre ministres. Au Guatemala, la jeunes­se d'action catholique rurale se rapproche des communautés paysannes in­diennes en révolte dans les années soixante, l'accentuation de la ré­pres­sion militaire contribuant à ce phénomène.

 

C'est au Salvador que la solidarité entre les guérilleros et les chrétiens progressistes est la plus frappante, ces derniers étant plus nombreux que les marxistes dans le mouvement de guérilla. Le réseau des centres de for­ma­tion chrétienne mobilise les paysans salvadoriens, combinant évan­gé­li­sa­tion, alphabétisation, enseignement agricole et éveil socio-politique. Le par­cours de Mgr Romero, l'archevêque de San Salvador constitue presque l'ar­chétype de cette prise de conscience politique de certains hommes d'É­glise. L'élection au siège archiépiscopal de cet évêque conservateur proche de l'Opus Dei avait enchanté les dirigeants du pays, le Vatican l'ayant choisi pour faire contrepoids à son prédécesseur, Mgr Chavez, qualifié d'«ar­che­vê­que rouge». Mais, suite à l'un des nombreux assassinats de prêtres par les militaires survenu en 1977, il rejoint les rangs des révolutionnaires avant de se faire à son tour assassiné. Étant devenu le martyr de la révolution sal­va­dorienne, il est l'un des symboles d'un phénomène qui inquiète de plus en plus le Vatican.

 

La mise à pieds des chrétiens progressistes par Jean-Paul II

 

folklore.jpgLa Théologie de la libération, impulsée par des intellectuels occidentaux et par des prêtres latino-américains venus étudier dans les universités euro­péen­nes, a donc trouvé dans les réalités socio-politiques du continent le ter­reau favorable à son expansion. Dès le début des années 80, Jean-Paul II, pa­pe farouchement anticommuniste, tente cependant de juguler ce mou­ve­ment. En 1984, une “instruction sur quelques aspects de la Théologie de la li­bération” fait le point sur ce phénomène en évitant de le condamner en bloc mais en critiquant certaines de ses dérives. Dans ce document, le car­di­nal Ratzinger, préfet de la congrégation de la foi met en garde contre le ris­que de perversion de l'inspiration évangélique par la philosophie mar­xiste.

 

Par peur de se couper définitivement d'un mouvement dont il espère toujours récupérer les bénéfices, il ne condamne pas ouvertement les prêtres progressistes mais il adresse des critiques régulièrement à ceux qui confondent christianisme et marxisme. C'est ainsi qu'il avait demandé, sans succès, de se retirer aux quatre prêtres membres du gouvernement sandiniste. De même, il entretenait des relations difficiles avec Mgr Romero à qui il reprochait son zèle excessif dans l'action sociale, demandant quand même au président Carter de cesser son aide à une armée salvadorienne “qui ne sait faire qu'une chose: réprimer le peuple et servir les intérêts de l'oligarchie salvadorienne”. Au Nicaragua, alors qu'il célèbre une messe à Managua en 1983, il fait une prière pour les prisonniers du régime mais passe sous silence les crimes des contras.

 

Dans son “instruction sur la liberté chrétienne et la libération” en 1986, le cardinal Ratzinger ne renie pas la préférence de l'Eglise pour les pauvres, le discours du Vatican tentant en fait de s'approprier la théologie de la li­bé­ra­tion mais en aseptisant le discours de ses aspects les plus révolution­nai­res. La seconde stratégie adoptée par Jean-Paul II consiste à nommer systé­matiquement des évêques conservateurs de l'Opus Dei à la tête des diocèses progressistes. En Equateur, il a ainsi contenu l'influence grandis­sante d'une partie du clergé catholique qui militait en faveur de la cause indigène, incarné depuis les années 50 par Mgr Leonidas Proano, sur­nom­mé l'“évêque des Indiens”.

 

Le catholicisme latino-américain subit la concurrence croissante des sectes protestante.

 

L'engagement d'une partie du clergé en faveur des guérillas d'Amérique centrale ou de ceux qui luttent contre les latifundistes en faveur des paysans sans terres au Brésil a généré de nouvelles formes de religiosité convenant mieux aux intérêts des régimes pro-américains de la région. Il s'agit essentiellement d'églises relevant du pentecôtisme (assemblée de Dieu, Eglise de Dieu, de l'Evangile complet, Prince de la paix) ou de diverses variétés du néo-pentecôtisme (Eglise Elim, du Verbe, Club 700 de Pat Robertson ou club PTL). Ces mouvements reçoivent donc une aide importante de leur nation d'origine, les Etats-Unis, où ils sont dirigés par les anticommunistes les plus fanatiques formant l'aile droite du parti républicain.

 

On comprend dès lors pourquoi les oligarchies et les militaires ont favorisé ces sectes protestantes dont l'influence grandit sans cesse auprès des couches populaires les plus misérables. Leur message va dans le sens d'un désengagement vis-à-vis de la sphère publique en prônant une interprétation individualiste du christianisme, centré sur le perfectionnement de l'individu. Comme les protestants européens, ils assèchent la religion qui se réduit à un simple moralisme, fondé sur l'honnêteté, le refus de l'alcoolisme. Ce désintérêt pour le salut collectif se double d'une action efficace menée en direction des populations déshéritées à qui les protestants prodiguent des aides grâce à l'argent venu des Etats-Unis. Le soutien apporté aux victimes du tremblement de terre qui a frappé le Guatemala en 1976 s'est accompagné d'une vaste campagne de conversion, Jerry Faldwell et Pat Robertson venant évangéliser les foules dans les stades de football. La même année, l'Alliance évangélique se range du côté d'un régime qui a massacré entre 100.000 et 200.000 Indiens en prônant le respect des autorités. En 1982, c'est un chrétien conservateur de l'Eglise du Verbe, le général Rios Montt, qui accède au pouvoir à la suite d'un coup d'Etat. Avec lui, répression et massacres d'Indiens s'accentuent tandis que des hameaux stratégiques poussent comme des champignons. Bâtis sur le modèle des villages stratégiques de la guerre du Viet Nam, ces hameaux ont pour but de déstructurer les communautés indiennes afin de détruire les bases de la guérilla. Les Etats-Unis jouent un rôle actif en fournissant capitaux et experts à l'armée guatémaltèque.

 

Au Salvador, les militaires se servent également des évangélistes pour donner un contenu idéologique à leur action contre-révolutionnaire. Ces sectes protestantes font aussi une percée dans des pays où règne la paix. Au Brésil, ils ont supplanté les adeptes de la Théologie de la libération. Leur succès auprès des pauvres est immense car on estime qu'ils représentent près de 14% des électeurs contre seulement 2% pour les prêtres progressistes. En 1994, ils contribuent à la défaite électorale du candidat de gauche, Lula, qui est assimilé au diable. En constituant un groupe parlementaire évangélique, ils sont ainsi en mesure de négocier des aides pour leur église.

 

Un christianisme de plus en plus négateur de l'identité indienne

 

Les églises protestantes mènent aussi une politique d'éradication du «paganisme» indien avec lequel les catholiques avaient dû composer. Ce syncrétisme indien-chrétien est visible dans toutes les manifestations de la vie religieuse et dans les lieux de culte, telle l'église du village de Mixtèque s'appelant «maison du soleil» et les saints étant appelés les dieux, alors que seul le mot espagnol désigne Dieu. Les rites et les offrandes pratiqués sont d'ailleurs souvent à mi-chemin entre le sacrifice et la prière chrétienne.

 

Chez les Afro-Brésiliens, le catholicisme s'est transformé en une religion magique faite de croyance en des êtres surnaturels, de communication avec les âmes des défunts. Un rôle important est donné à l'interférence des saints dans la vie terrestre, le Dieu ne revêtant pas l'image du Père dominateur et puissant habituel.

 

Les catholiques, qui s'érigent en défenseurs des Indiens, poursuivent aussi leur vieille stratégie d'acculturation, obligeant ainsi les Amazoniens récemment convertis à adopter un mode de vie sédentaire, prélude à leur prolétarisation. Le mythe de Bartolomé de las Casas, fondateur de la pensée indigéniste, illustre l'ambiguité de ce rôle de protecteur, car, selon lui, il n'existait ni Espagnols ni Indiens, mais un seul populus christianus.  La défense des Indiens se limitait donc au domaine social mais se gardait bien d'aborder le problème de l'identité.

 

Le monothéisme latino-américain a donc été le complément indispensable à la domination socio-politique des Indiens dont la renaissance ne pourra se réaliser que par un retour aux sources de leur religion, ce que les révolutionnaires marxistes n'ont jamais compris.

 

Jacques-Olivier MARTIN.

mercredi, 02 décembre 2009

Keine Minarette

bild4.jpgKarlheinz WEISSMANN / http://www.sezession.de/
Keine Minarette

In der Schweiz sollen keine Minarette mehr gebaut werden, so die Entscheidung der Volksabstimmung vom vergangenen Sonntag. Wohl gemerkt, es geht nicht um ein Verbot von Moscheen oder der Ausübung islamischer Religionspraxis, sondern nur darum, daß die Errichtung jener Türme unterbleibt, die man als Triumphzeichen des Islam verstehen kann, die in der Vergangenheit auch an gewaltsam entweihten und für den moslemischen Gottesdienst umgewidmeten Kirchen gebaut wurden.

Was an dem Vorgang noch interessanter ist als die Sache selbst, sind die Kommentare aus der politisch-medialen Klasse. Der Unmut scheint flächendeckend, sieht man ab von den Initiatoren der Schweizerischen Volkspartei (SVP), die ihre Genugtuung kaum verbergen, ist alles von der Fatalität des Entscheids überzeugt. Die Schweizer Grünen erwägen den Gang zum Europäischen Gerichtshof für Menschenrechte, um den eigenen demos zu verklagen, die Sprecherin der Berner Regierung sieht diplomatische Schwierigkeiten voraus, die Wirtschaft fürchtet ökonomische Einbußen.

Bei allen Äußerungen derselbe Tenor: die Masse sei offenbar zu wenig aufgeklärt. Die kleine Zahl von etwa 400.000 Muslimen biete keinen Anlaß für Überfremdungsängste, die meisten seien gut integriert, außerdem gebe es keinen echten Zusammenhang mit der insgesamt hohen Ausländerzahl in der Schweiz.

Es fällt den Mächtigen schwer, ihre eigene Fehleinschätzung – allgemein war mit der Ablehnung der SVP-Initiative gerechnet worden – zu begreifen. Das wiederum hat mit Ignoranz zu tun:

- gegenüber der Tatsache, daß es selbstverständlich Gründe gibt, Anfängen zu wehren, vor allem wenn man als Schweizer einen Blick über die Grenzen wirft;
- gegenüber dem nicht nur hier, sondern auch in anderen Zusammenhängen deutlichen Widerwillen der Schweizer angesichts der Regeln politischer Korrektheit;
- gegenüber dem Sachverhalt, daß es in der Schweiz auf Grund einer echten, jahrhundertealten Demokratie ein tiefes Mißtrauen angesichts der Bevormundung durch die Intelligenz gibt
- und gleichzeitig eine sehr präzise Vorstellung davon, was Demokratie ihrem Wesen nach ist: Herrschaft des Volkes, für das Volk und durch das Volk,
- was notwendig ein Volk voraussetzt, das nicht mehr vorausgesetzt werden kann, wenn man nur noch Bevölkerung hat, sprich: ein Konglomerat von einzelnen.

Daß Volk im eigentlichen Sinn eine ziemlich konservative Größe ist, lehrt alle Erfahrung und macht auch das Bedürfnis von Linken und Liberalen verständlich, es abzubauen und Demokratisierung nicht zu dulden, wenn die zu unerwünschten Ergebnissen führt. Das war so im Fall der dänischen oder des irischen „Nein“ zum Lissabon-Vertrag, das ist so im Fall des schweizerischen Votums gegen die Minarette und das wäre so im Fall einer deutschen Abstimmung über den EU-Beitritt der Türkei, Abschiebung krimineller Ausländer, Todesstrafe für Kinderschänder.

samedi, 14 novembre 2009

J. Evola: La doctrina del despertar

cop_evola-dottrina.jpgEDICIONES HERACLES ANUNCIA LA REEDICIÓN DE:

JULIUS EVOLA

LA DOCTRINA DEL DESPERTAR

ENSAYO DE ASCESIS BUDDHISTA

Este estudio sobre ascesis buddhista realizado por el eminente estudioso de la Tradición, Julius Evola, representa una originalidad sin igual en un tiempo en el cual también dicha cosmovisión ha sido vulgarizada y deformada aceptándose como dogmas sagrados pertenecientes a la misma las teorías reencarna-cionistas, el humanitarismo, el pacifismo y la democracia espiritual. Aquí nuestro autor, con suma sagacidad, diferencia entre lo que podría ser el simple budismo y el buddhismo, el primero occidentalizado y decadente que representa una verdadera falsificación doctri-naria y el otro el buddhismo pâli originario que significó un intento de retorno a los principios que informaron la espiritualidad viril y aria de los tiempos primordiales de la humanidad, anteriores a la edad de hierro en que nos hallamos, en una revuelta altiva y heroica en contra de la decadencia personificada por el ritualismo brahmánico que regía en ese entonces en la India. Por último, en la medida en que el buddhismo, en su variantes pâli y más tarde Zen, ha enfatizado en la vía de la acción liberadora a través del despertar ascético, representa un camino adecuado para la espiritualidad del hombre occidental caracterizada también por la primacía otorgada a la acción aunque en los tiempos últimos se encuentre degradada hasta los límites más bajos y bestiales del materialismo y del consumismo hoy vigentes.

Índice

 

 

Introducción......................................................... 7

 

El Saber

 

I.     Acerca de las variedades de las “Ascesis”........... 21

II.    Arianidad de la doctrina del despertar............. 34

III.   Lugar histórico de la doctrina del despertar..... 45

IV.   Destrucción del Demon de la dialéctica............ 66

V.    La llama y la conciencia samsárica................... 74

VI.   La Génesis condicionada................................. 90

VII.   Determinación de las vocaciones................. 110

 

 

La Acción

 

I.     Las cualidades del combatiente y la “presencia” 137

II.    Defensa y consolidación............................... 151

III.   Derechura................................................... 165

IV.   La presencia sidérea. Las heridas se cierran...... 179

V.    Los cuatro Jhâna. Las “Contemplaciones irradiantes” 198

VI.   Los estados libres de forma y la extinción........ 221

VII.   Discriminación de los “poderes”................... 243

VIII. Fenomenología de la gran liberación........... 253

IX.   Trazos de lo sin semejanza............................. 267

X.    “El vacío” “si la mente no se quiebra”............. 278

XI.   Hasta el Zen................................................. 287

XII. Los Ariya moran aún en el Pico del Cóndor..... 301

 

Fuentes          309

mercredi, 21 octobre 2009

Revoluçao Conservadora, forma catolica e "ordo aeternus" romano

000.jpgRevolução Conservadora, forma católica e “ordo aeternus” romano

A Revolução Conservadora não é somente uma continuação da «Deutsche Ideologie» romântica ou uma reactualização das tomadas de posição anti-cristãs e helenistas de Hegel (anos 1790-99) ou uma extensão do prussianismo laico e militar, mas tem também o seu lado católico romano. Nos círculos católicos, num Carl Schmitt por exemplo, como nos seus discípulos flamengos, liderados pela personalidade de Victor Leemans, uma variante da Revolução Conservadora incrusta-se no pensamento católico, como sublinha justamente um católico de esquerda, original e verdadeiramente inconformista, o Prof. Richard Faber de Berlim. Para Faber, as variantes católicas da RC renovam não com um Hegel helenista ou um prussianismo militar, mas com o ideal de Novalis, exprimido em Europa oder die Christenheit: este ideal é aquele do organon medieval, onde, pensam os católicos, se estabeleceu uma verdadeira ecúmena europeia, formando uma comunidade orgânica, solidificada pela religião.Der Glanz, die Macht ist dahin» [«Estamos no fim, a Áustria está morta. O Esplendor e o Poder desapareceram»].


Depois do retrocesso e da desaparição progressiva deste organon vivemos um apocalipse, que se vai acelerando, depois da Reforma, a Revolução francesa e a catástrofe europeia de 1914. Desde a revolução bolchevique de 1917, a Europa, dizem estes católicos conservadores alemães, austríacos e flamengos, vive uma Dauerkatastrophe. A vitória francesa é uma vitória da franco-maçonaria, repetem. 1917 significa a destruição do último reduto conservador eslavo, no qual haviam apostado todos os conservadores europeus desde Donoso Cortés (que era por vezes muito pessimista, sobretudo quando lia Bakunine). Os prussianos haviam sempre confiado na aliança russa. Os católicos alemães e austríacos também, mas com a esperança de converter os russos à fé romana. Enfim, o abatimento definitivo dos “estados” sociais, inspirados na época medieval e na idade barroca (instalados ou reinstalados pela Contra-Reforma) mergulha os conservadores católicos no desespero. Helena von Nostitz, amiga de Hugo von Hoffmannstahl, escreve «Wir sind am Ende, Österreich ist tot.


Num tal contexto, o fascismo italiano, contudo saído da extrema-esquerda intervencionista italiana, dos meios socialistas hostis à Áustria conservadora e católica, figura como uma reacção musculada da romanidade católica contra o desafio que lança o comunismo a leste. O fascismo de Mussolini, sobretudo depois dos acordos de Latrão, recapitula, aos olhos destes católicos austríacos, os valores latinos, virgilianos, católicos e romanos, mas adaptando-os aos imperativos da modernidade.


É aqui que as referências católicas ao discurso de Donoso Cortés aparecem em toda a sua ambiguidade: para o polemista espanhol a Rússia arriscava converter-se ao socialismo para varrer pela violência o liberalismo decadente, como teria conseguido se tivesse mantido a sua opção conservadora. Esta evocação da socialização da Rússia por Donoso Cortés permite a certos conservadores prussianos, como Moeller van den Bruck, simpatizar com o exército vermelho, para parar a Oeste os exércitos ao serviço do liberalismo maçónico ou da finança anglo-saxónica, ainda mais porque depois do tratado de Rapallo (1922), a Reichswehr e o novo exército vermelho cooperam. O reduto russo permanece intacto, mesmo se mudou de etiqueta ideológica.
Hugo von Hoffmannstahl, em Das Schriftum als geistiger Raum der Nation [As cartas como espaço espiritual da Nação] utiliza pela primeira vez na Alemanha o termo “Revolução Conservadora”, tomando assim o legado dos russos que o haviam precedido, Dostoievski e Yuri Samarine.

Para ele a RC é um contra-movimento que se opõe a todas as convulsões espirituais desde o século XVI. Para Othmar Spann, a RC é uma Contra-Renascença. Quanto a Eugen Rosenstock( que é protestante), escreve: «Um vorwärts zu leben, müssen wir hinter die Glaubensspaltung zurückgreifen» [Para continuar a viver, seguindo em frente, devemos recorrer ao que havia antes da ruptura religiosa]. Para Leopold Ziegler (igualmente protestante) e Edgard Julius Jung (protestante), era preciso uma restitutio in integrum, um regresso à integralidade ecuménica europeia, Julius Evola teria dito: à Tradição. Eles queriam dizer por aquilo que os Estados não deviam mais opor-se uns aos outros mas ser reconduzidos num “conjunto potencializador”.
Se Moeller van den Bruck e Eugen Rosenstock actuam em clubes, como o Juni-Klub, o Herren-Klub ou em círculos que gravitam em torno da revista de sociologia, economia e politologia Die Tat, os que desejam manter uma ética católica e cuja fé religiosa subjuga todo o comportamento, reagrupam-se em “círculos” mais meditativos ou em ordens de conotação monástica. Richard Feber calcula que estas criações católicas, neo-católicas ou para-católicas, de “ordens”, se efectuaram a 4 níveis:


1) No círculo literário e poético agrupado em torno da personalidade de Stefan George, aspirando a um “novo Reich”, isto é, um “novo reino” ou um “novo éon”, mais do que a uma estrutura política comparável ao império dos Habsbourg ou ao dos Hohenzollern.


2) No “Eranos-Kreis” (Círculo Eranos) do filósofo místico Derleth, cujo pensamento se inscreve na tradição de Virgílio ou Hölderlin, colocando-se sob a insígnia de uma “Ordem do Christus- Imperator”.


3) Nos círculos de reflexão instalados em Maria Laach, na Renânia-Palatinado, onde se elaborava uma espécie de neo-catolicismo alemão sob a direcção do teólogo Peter Wust, comparável, em muitos aspectos, ao “Renouveau Catholique” de Maritain na França (que foi próximo, a dado momento, da Acção Francesa) e onde a fé se transmitia aos aprendizes particularmente por uma poesia derivada dos cânones e das temáticas estabelecidas pelo “Circulo” de Stefan George em Munique-Schwabing desde os anos 20.


4) Nos movimentos de juventude, mais ou menos confessionais ou religiosos, particularmente nas suas variantes “Bündisch”, bom número de responsáveis desejavam introduzir, por via das suas ligas ou das suas tropas, uma “teologia dos mistérios”.


As variantes católicas ou catolizantes, ou pós-católicas, preconizaram então um regresso à metafísica política, no sentido em que queriam uma restauração do “Ordo romanus”, “Ordem romana”, definida por Virgílio como “Ordo aeternus”, “ordem eterna”. Este catolicismo apelava à renovação com esse “Ordo aeternus” romano que, na sua essência, não era cristão mas a expressão duma paganização do catolicismo, explica-nos o cristão católico de esquerda Richard Faber, no sentido em que, neste apelo à restauração do “Ordo romanus/aeternus”, a continuidade católica não é já fundamentalmente uma continuidade cristã mas uma continuidade arcaica. Assim, a “forma católica” veicula, cristianizando-a (na superfície?), a forma imperial antiga de Roma, como assinalou igualmente Carl Schmitt em Römischer Katholizismus und politische Form (1923). Nessa obra, o politólogo e jurista alemão lança de alguma maneira um duplo apelo: à forma (que é essencialmente, na Europa, romana e católica, ou seja, universal enquanto imperial e não imediatamente enquanto cristã) e à Terra (esteio incontornável de toda a acção política), contra o economicismo volúvel e hiper-móvel, contra a ideologia sem esteio que é o bolchevismo, aliado objectivo do economicismo anglo-saxónico.


Para os proponentes deste catolicismo mais romano que cristão, para um jurista e constitucionalista como Schmitt, o anti-catolicismo saído da filosofia das Luzes e do positivismo cienticista( referências do liberalismo) rejeita de facto esta matriz imperial e romana, este primitivismo antigo e fecundo, e não o eudemonismo implícito do cristianismo. O objectivo desta romanidade e desta “imperialidade” virgiliana consiste no fundo, queixa-se Faber, que é um anti-fascista por vezes demasiado militante, em meter o catolicismo cristão entre parênteses para mergulhar directamente, sem mais nenhum derivativo, sem mais nenhuma pseudo-morfose (para utilizar um vocábulo spengleriano), no “Ordo aeternus”.


Na nossa óptica este discurso acaba ambíguo, porque há confusão permanente entre Europa e Ocidente. Com efeito, depois de 1945, o Ocidente, vasto receptáculo territorial oceânico-centrado, onde é sensato recompor o “Ordo romanus” para estes pensadores conservadores e católicos, torna-se a Euroamérica, o Atlantis: paradoxo difícil de resolver, porque como ligar os princípios “térreos” (Schmitt) e os da fluidez liberal, hiper-moderna e economicista da civilização “estado-unidense”?


Para outros, entre o Oriente bolchevizado e pós-ortodoxo e o Hiper-Ocidente fluido e ultra-materialista, deve erguer-se uma potência “térrea”, justamente instalada sobre o território matricial da “imperialidade” virgiliana e carolíngia, e esta potência é a Europa em gestação. Mas com a Alemanha vencida, impedida de exercer as suas funções imperiais pós-romanas uma translatio imperii (translação do império) deve operar-se em beneficio da França de De Gaulle, uma translação imperii ad Gallos, temática em voga no momento da reaproximação entre De Gaulle e Adenauer e mais pertinente ainda no momento em que Charles De Gaulle tenta, no curso dos anos 60, posicionar a França “contra os impérios”, ou seja, contra os “imperialismos”, veículos da fluidez mórbida da modernidade anti-política e antídotos para toda a forma de fixação estabilizante (NdT. Daqui presume-se uma distinção entre imperialismo e imperialidade, daí o uso dos dois conceitos).


Se Eric Voegelin tinha teorizado um conservantismo em que a ideologia derivava da noção de “Ordo romanus”, ele colocava o seu discurso filosófico-político ao serviço da NATO, esperando deste modo uma fusão entre os princípios “fluidos” e “térreos” (NdT. naturalmente esta dicotomia que o autor usa recorrentemente no texto é uma referência à tradicional oposição entre ordenamentos marítimos e terrestres), o que é uma impossibilidade metafísica e prática. Se o tandem De Gaulle-Adenauer se referia também, sem dúvida, no topo, a um projecto derivado da noção de “Ordo aeternus”, colocava o seu discurso e as suas práticas, num primeiro momento (antes da viagem de De Gaulle a Moscovo, à América Latina e antes da venda dos Mirage à Índia e do famosos discursos de Pnom-Penh e do Quebeque), ao serviço de uma Europa mutilada, hemiplégica, reduzida a um “rimland” atlântico vagamente alargado e sem profundidade estratégica. Com os últimos escritos de Thomas Molnar e de Franco Cardini, com a reconstituição geopolítica da Europa, este discurso sobre o “Ordo romanus et aeternus” pode por fim ser posto ao serviço de um grande espaço europeu, viável, capaz de se impor sob a cena internacional. E com as proposições de um russo como Vladimir Wiedemann-Guzman, que percepciona a reorganização do conjunto euro-asiático numa “imperialidade” bicéfala, germânica e russa, a expansão grande-continental está em curso, pelo menos no plano teórico. E para terminar, parafraseando De Gaulle: A estrutura administrativa acompanhá-la-á?

Robert Steuckers

 

vendredi, 09 octobre 2009

Michel, l'Archange impérial germanique

Michael-Statue.jpgManfred MÜLLER:

Michel, l’Archange impérial germanique

 

 

Sur les pèlerins et les combattants michaëliques dans l’histoire allemande

 

 

Mai 1945: l’Allemagne est au fond de l’abîme. Le pays est en grande partie détruit. Des millions de soldats ont été tués au combat, sont portés disparus, sont prisonniers ou ont péri en fuyant les provinces de l’Est ou en en étant expulsés. Pour bon nombre d’Allemands, cette année fatidique signifie aussi l’effondrement de tout un monde spirituel. Beaucoup de catholiques allemands, qui suivaient alors scrupuleusement les étapes du cycle liturgique, ont tout de suite remarqué que les Alliés ont imposé la capitulation inconditionnelle de la Wehrmacht à la date du 8 mai. C’est le jour où l’Eglise fêtait l’apparition de l’Archange Michel dans les montagnes de Gargano en Apulie. Saint Michel, que beaucoup d’Allemands considéraient alors comme “l’Ange des Allemands” et l’honoraient à ce titre, se serait-il  détourné de son peuple, à l’heure fatidique où il était livré à des vainqueurs sans pitié?

 

Dans la situation de guerre si critique de l’année 1945, certains avaient encore placé des espoirs en “l’Ange des Allemands”. Franz Führmann, originaire du Pays des Sudètes, national-socialiste qui passera après guerre au communisme, pour devenir un auteur à succès en RDA, nous rappelle dans son oeuvre une scène étonnante: son père, national-socialiste convaincu,  avait intériorisé, lors des combats du Volkssturm, les conceptions religieuses contenues dans un “Chant à Saint Michel” du prêtre-poète autrichien Ottokar Kernstock:

“... zieh voran dem Heere, es gilt die deutsche Ehre, St. Michael, salva nos!”

(“... marche en tête de l’armée,  car l’honneur allemand est en jeu, Saint Michel, sauve-nous!”).

Franz Führmann rappelle que son père lui avait confié en 1945 son espoir: l’Archange ferait un geste en ultime instance pour sauver le Reich en perdition; c’est en ces mots qu’il rappelle les paroles paternelles: “L’Ange des Allemands fendera le ciel de son épée et descendra pour sauver son peuple, à la dernière heure, au moment où la nuit sera la plus noire”.

 

Cet engouement allemand  pour l’Archange remonte loin, aux débuts du moyen-âge. Sur le Monte Sant’Angelo, dans les montagnes de Gargano en Apulie, l’Archange Michel serait apparu entre 490 et 493. Dans une grotte de la montagne, en cette région où avaient prospéré les cultes antiques, l’archéologie peut prouver des correspondances entre ces cultes païens et le culte ultérieur et christianisé de Saint Michel. Un sanctuaire michaëlien s’est établi là, qui attire encore les pèlerins de nos jours (et aussi les touristes...). Parmi les innombrables pèlerins qui ont porté leurs pas là-bas, nous comptons quelques empereurs allemands.

 

Les Empereurs pèlerins au Monte Sant’Angelo

 

Othon le Grand a escaladé la montagne dédié à l’Archange lors de son troisième voyage en Italie. Il avait tenu à remercier l’Archange car, en 955, il avait pu battre définitivement les Hongrois à Lechfeld près d’Augsbourg. Il avait préservé ainsi les peuples christianisés de notre continent de la peur des raids dévastateurs des Hongrois. Lors de la bataille, l’image de l’Archange avait été portée à l’avant, sur l’étendard impérial du Roi des Allemands. La victoire de Lechfeld, qu’emporta Othon et ses guerriers michaëliques, jetta les bases d’une rénovation complète de l’institution impériale en Europe de l’Ouest, portée désormais par les Allemands (Translation Imperii ad Germanos).

 

Le deuxième pèlerin impérial allemand à Gargano fut Othon III. En février 999, le jeune Othon, âgé de 19 ans, escalada la montagne pieds nus depuis la plaine jusqu’à la grotte, en empruntant des sentiers abrupts et caillouteux: une épreuve très douloureuse pour un jeune monarque délicat et sensible. Cet exercice de pénitence cadrait bien avec la religiosité exaltée et enthousiaste de cet empereur, surtout à un moment de l’histoire européenne où les esprits étaient hantés par l’idée d’une fin du monde: en l’an 1000, le monde devait s’écrouler, croyait-on, et, lui, l’Empereur romain-germanique aurait alors pour tâche de conduire la chrétienté dans son ensemble vers le Christ apparaissant pour prononcer le Jugement Dernier.

 

En 1022, Henri II se rend à son tour à la grotte de Gargano. En 1137, Lothaire III de Supplinburg se trouve à proximité du site michaëlien avec une armée allemande. Le 8 mai de cette année, le jour même où l’Archange serait apparu à Gargano auparavant, Lothaire parvient à battre les Normands et à leur arracher le castel solidement fortifié du Monte Sant’Angelo et, ainsi, à garantir la domination impériale-germanique en Italie du Sud.

 

Très probablement, l’Empereur Frédéric II Hohenstaufen aurait, lui aussi, visité le sanctuaire de la montagne dédiée à l’Archange. Frédéric, qui, selon les critères médiévaux, était un “libre-penseur” sur le trône impérial, a donc été fasciné par la grotte cultuelle, qui, rappelons-le, attire encore et toujours pèlerins et touristes.

 

Le culte de Michel, le guerrier qui terrasse Satan, est venu du Sud, par l’intermédiaire des Lombards qui l’ont transposé en Bavière, et de l’Ouest, par l’intervention des missions irlandaises et anglo-saxonnes, qui l’ont généralisé dans l’Empire franc. La caste guerrière des Lombards, peuple germanique, avait été vivement impressionnée par la figure lumineuse de l’Archange, vigoureux combattant contre le Dragon et maître dirigeant des batailles. Les Lombards s’élançaient au combat avec son effigie sur leurs étendards. Chez les autres peuples germaniques de l’Empire franc puis du Saint Empire Romain de la Nation Germanique, le souvenir d’Odin, maître dirigeant des batailles lui aussi, a sûrement facilité l’adoption du culte michaëlique.

 

L’histoire du culte de Saint Michel est une thématique extrêmement complexe; quoi qu’il en soit, l’idée d’un “Ange des Allemands” s’est propagée en Allemagne aux 19ème et 20ème siècles.

 

Pendant la deuxième guerre mondiale, de nombreux jeunes Allemands qui avaient, dans les organisations de la jeunesse catholique, appris de leurs aumôniers l’importance de Saint Michel, ont servi dans la Wehrmacht, portés par les vertus que représentait l’Archange: la bravoure et la fidélité dans la défense de la patrie. Ces vertus correspondaient à celles que l’on a toujours traditionnellement attribuées à l’Archange, patron des Allemands. En  septembre 1939, on pouvait lire dans un journal de l’Eglise catholique, dans le ton de l’époque: “Toujours, quand des temps durs ont frappé notre peuple... lorsque l’âme et le corps du peuple ont tremblé sous les coups puissants du destin, alors, du fond du coeur du peuple allemand, une figure s’est dressée, qui, par décret divin, est l’ange protecteur de ce peuple, et, par suite, est intimement apparenté à l’essence la meilleure de ce peuple. Alors se dresse Saint Michel, flamboyant dans sa volonté de défendre le peuple qui est sous sa protection, avec son épée et son bouclier, le voilà lumineux à la tête des Allemands. Ceux-ci, alors, le suivent et, sous sa direction, partent vers le combat et la victoire”.

 

Le père jésuite Friedrich Muckermann qui, de son exil, avait durement combattu Hitler, parfois en se fourvoyant terriblement, voyait encore, après la guerre, en l’Archange Michel, “l’Ange des Allemands”: “Tous ceux qui ont lutté pour une Allemagne chrétienne, avant Hitler, et sous Hitler, mèneront encore ce bon combat après Hitler. Car telle est la Voie allemande! Avec Dieu et avec Saint Michel!”. Dans les milieux protestants, la figure de “l’Ange des Allemands” était connue également. Ainsi, par exemple, Bernt von Heiseler, qui appartient à la “génération du front”, publie un poème en 1957 dédié “A l’Archange Michel”. La dernière strophe dit:

“Hilf den alten Kampf bestehen

den dein Volk schon oft bestand,

Erzanfänglicher der Engel

Michael, bewahr dies Land!”

 

(“Aide-nous à soutenir l’antique combat

que ton peuple à si souvent mené,

toi, l’Ange des débuts immémoriaux,

toi, Michel, protège ce pays!”).

 

Manfreed MÜLLER.

(article paru dans “DNZ”, Munich, n°25/2001; trad. franç.: Robert Steuckers, 2009).

lundi, 21 septembre 2009

"Pierre de scandale" de Nicolas Buri

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"Pierre de scandale" de Nicolas Buri

L’année 2009 est le cinq centième anniversaire de naissance de Jean Calvin. C’est donc dire que le roman de Nicolas Buri, mettant le personnage de Calvin en évidence, tombe à point. À travers Calvin Pierre de scandale nous décrit aussi toute une époque. Celle d’une chasse aux sorcières tous azimuts qui ne laissait place à aucune compassion. Les tenants de la Réforme protestante n’ont trouvé rien de mieux que d’imiter l’Inquisition catholique. Ce roman nous montre la bêtise des maniaques de dieu portant des œillères faites de récits bibliques interprétés d’obtuse façon.

 

Cruels, humains, trop humains, sont les tenants de l’orthodoxie biblique. Les ennemis du dogme, les amis de la liberté de parole « … avaient fui, chassés, une main en moins pour l’avoir levée contre un pasteur, la langue percée au fer pour blasphème, ou tués sous la torture, pour paillardise, adultère, sorcellerie, ou simplement par ignorance de ce que lui, Calvin, tenait pour vrai. » On a beau dire que cela se passait au XVIème siècle mais force est de constater qu’il en reste quelques relents de nos jours.

Calvin, âgé de vingt-sept ans arrive un jour de l'année 1536 à Genève, ville que l'on dit la plus sale et la plus paillarde d'Europe. Avant d'en devenir le maître, il livre une lutte à mort contre les ennemis de l'intérieur, ceux qui ne se conforment pas aux diktats de la bible telle qu’il se plait à l’interpréter. Cette Cité de Dieu, Jérusalem nouvelle, devient le havre de ces hérétiques que l'on appelle 'protestants'. Si Calvin crée pour eux une ville cosmopolite, pour beaucoup de Genevois il reste 'le Français', l'étranger, l'homme à abattre, pourfendeur de leurs libertés et juge de leur quotidien, leur imposant jusqu'à la couleur des vêtements et la forme des chaussures. Désormais, catholiques et protestants forment deux blocs qui se font face. Dans un camp comme dans l'autre, il y a des excommuniés, des résistants. L'âpre théorie des guerres de religion peut commencer de dévaster l'Europe.

Calvin, dans le roman de Buri, est la figure même de l’intolérance, de l’irrationalisme, de l’aveuglement biblique et de la bêtise. Pour mieux comprendre certaines attitudes contemporaines de fondamentalistes è tout crin, un roman à lire.

 

 

Nicolas Buri est né en 1965 à Genève. Il en est à son premier roman. Il travaille comme rédacteur-concepteur. Il est également l'auteur de scénarios réalisés pour la télévision et le cinéma.

 

Nombre de pages : 304
Prix suggéré : 22,8 €

Éditions Actes Sud
www.actes-sud.fr

dimanche, 02 août 2009

Protestantisme, capitalisme et américanisme

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Nous avons aimé ce texte d'Edourd Rix:



Protestantisme, capitalisme et américanisme


On trouve chez de nombreux auteurs la distinction entre, d'une part, le catholicisme, christianisme négatif incarné par Rome, qui serait un instrument anti-germanique, et d'autre part, le protestantisme, christianisme positif émancipé de la papauté romaine, qui assumerait les valeurs traditionnelles germaniques. Dans cette perspective, Martin Luther serait un libérateur de l'âme allemande du carcan méditerranéen et despotique de la Rome papale, sa grande réussite étant la germanisation du christianisme. Les Protestants s'inscriraient donc dans la lignée des Cathares et des Vaudois, autant de représentants de l'esprit germanique en rupture avec Rome. Mais en réalité, Luther est celui qui a fomenté le premier en Europe la révolte individualiste et antihiérarchique, laquelle devait se traduire, sur le plan religieux, par le rejet du contenu «traditionnel» du catholicisme, sur le plan politique par l'émancipation des Princes allemands de l'Empereur, sur le plan du sacré par la négation du principe d'autorité et de hiérarchie, et donner une justification religieuse au développement de la mentalité marchande.

Sur le plan religieux, les théologiens réformés oeuvrent pour un retour aux sources, au christianisme des Ecritures, sans addition et sans corruption, c'est à-dire aux textes de la tradition orientale. Si Luther se rebelle contre «la papauté instituée par le diable à Rome», c'est uniquement parce-qu'il refuse l'aspect positif de Rome, la composante traditionnelle, hiérarchique et rituelle subsistant dans le catholicisme, l'Eglise marquée par l'ordre et le droit romain, par la pensée et la philosophie grecques, en particulier celle d'Aristote. D'ailleurs, ses paroles fustigeant Rome comme «Regnum Babylonis», comme cité obstinément païenne, ne sont pas sans rappeler celles employées par L’Apocalypse hébraïque et les premiers chrétiens contre la ville impériale.

Le bilan est tout aussi négatif sur le plan politique. Luther, qui se présentait comme «un prophète du peuple allemand», favorisa la révolte des Princes germaniques contre le principe universel de l'Empire, et par conséquent, leur émancipation de tout lien hiérarchique supranational. En effet, par sa doctrine qui admet le droit de résister à un empereur tyrannique, il légitimait au nom de l'Evangile, la rébellion contre l'autorité impériale. Au lieu de reprendre l'héritage de Frédéric II, qui avait affirmé l'idée supérieure du Sacrum Imperium, les Princes allemands, en soutenant la Réforme, passèrent dans le camp anti-impérial, n'ambitionnant plus que d'être des souverains «libres».

De même, la Réforme se caractérise, sur le plan du sacré, par la négation du principe d'autorité et de hiérarchie, les théologiens Protestants n'acceptant aucun pouvoir spirituel supérieur à celui des Ecritures. Effectivement, aucune Eglise ni aucun Pontifex n'ayant recu du Christ le privilège de l'infaillibilité en matière de doctrine sacrée, chaque chrétien est apte à juger de lui-même, par un libre examen individuel, en dehors de toute autorité spirituelle et de toute tradition dogmatique, la Parole de Dieu. Outre l'individualisme, cette théorie protestante du libre examen n'est pas sans lien avec un autre aspect de la Modernité, le rationalisme, l'individu qui a rejeté tout contrôle et toute tradition se fiant à ce qui, en lui, est la base de tout jugement, la raison, qui devient alors la mesure de toute vérité. Ce rationalisme, bien plus virulent que celui existant dans la Grèce antique et au Moyen-Age, donnera naissance à la philosophie des Lumières.

A partir du XVIè siècle, la doctrine protestante fournira une justification éthique et religieuse à l'ascension de la bourgeoisie en Europe, comme le démontre le sociologue Max Weber dans L'Ethique protestante et l'Esprit du Capitalisme, étude sur les origines du capitalisme. D'après lui, pendant les phases initiales du développement capitaliste, la tendance à maximiser le profit est le résultat d'une tendance, historiquement unique, à l'accumulation bien au-delà des biens de consommation personnelle. Weber trouve l'origine de ce comportement dans «l'ascétisme» des Protestants marqué par deux impératifs, le travail méthodique comme tâche principale dans la vie et la jouissance limitée de ses fruits. La conséquence non intentionnelle de cette éthique, qui était imposée aux croyants par les pressions sociales et psychologiques pour prouver son salut, fut l'accumulation de richesse pour l'investissement. Il montre également que le capitalisme n'est qu'une expression du rationalisme occidental moderne, phénomène étroitement lié à la Réforme. De même, l'économiste Werner Sombart dénoncera la Handlermentalitat (mentalité marchande) anglosaxonne, conférant au Catholicisme un rôle non négligeable de barrage contre la progression de l'esprit marchand en Europe occidentale.

Libéré de tout principe métaphysique, des dogmes, des symboles, des rites et des sacrements, le Protestantisme devait finir par se détacher de toute transcendance et mener à une sécularisation de toute aspiration supérieure, au moralisme et au puritanisme. C'est ainsi que dans les pays anglosaxons puritains, particulièrement en Amérique, l'idée religieuse en vient à sanctifier toute réalisation temporelle, la réussite matérielle, la richesse, la prospérité étant même considérées comme un signe d'élection divine. Dans son ouvrage Les Etats-Unis aujourd'hui, publié en 1928, André Siegfried, après avoir souligné que «la seule vraie religion américaine est le calvinisme’, écrivait déjà : «Il devient difficile de distinguer entre aspiration religieuse et poursuite de la richesse (...). On admet ainsi comme moral et désirable que l'esprit religieux devienne un facteur de progrès social et de développement économique». L'Amérique du Nord figure, selon la formule de Robert Steuckers «l'alliance de l'Ingénieur et du Prédicateur», c'est-à-dire l'alliance de Prométhée et de Jean Calvin ou encore de la technique ravie à l'Europe et du messianisme puritain issu du monothéisme judéochrétien. Transposant en termes profanes et matérialistes le projet universaliste de la chrétienté, elle entend supprimer les frontières, les cultures, les différences afin de transformer les peuples vivants de la Terre en des sociétés identiques, régies par la nouvelle Sainte-trinité de la libre entreprise, du libre échange mondial et de la démocratie libérale. Indéniablement, Martin Luther, et, plus encore, Jean Calvin, sont les pères spirituels de l'Oncle Sam...

Quant à nous, jeunes Européens, nous rejetons viscéralement cet Occident individualiste, rationaliste et matérialiste, héritier de la Réforme, de la pseudo Renaissance et de la Révolution française, autant de manifestations de la décadence européenne. Nous préférons toujours Faust à Prométhée, le Guerrier au Prédicateur, Nietzsche et Evola à Luther et Calvin.

Edouard Rix est un des animateurs de la revue Le Lansquenet (disponible sur
www.librad.com).

mercredi, 20 mai 2009

Préface à "Religiosité indo-européenne" de H. F. K. Günther

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - Septembre 1987

Préface du traducteur à "Religiosité indo-européenne" de H. F. K. Günther

Un préjugé défavorable accompagnera ce livre de Günther. En effet, en France, Günther jouit d'une réputation détestable, celle d'être "l'anthropologue officiel" du Troisième Reich de Hitler. Cet étiquetage n'a que la valeur d'un slogan et il n'est pas étonnant que ce soit le présentateur de télévision Polac qui l'ait instrumentalisé, lors d'un débat à l'écran, tenu le 17 avril 1982 sur la "Nouvelle Droite" d'Alain de Benoist. Avec la complicité directe d'un avocat parisien, Maître Souchon, et la complicité indirecte d'un essayiste britannique, ayant comme qualification scientifique d'être un "militant anti-fasciste", Michael Billig (1), Polac pouvait fabriquer, devant plusieurs centaines de milliers de téléspectateurs, le bricolage médiatique d'un "Günther hyper-nazi", maniaque de la race et dangereux antisémite. Comme aucun représentant de la "Nouvelle Droite", aucun anthropologue sérieux, aucun connaisseur des idées allemandes des années 20 et 30, n'étaient présents sur le plateau, Polac, Souchon et leurs petits copains n'ont pas dû affronter la contradiction de spécialistes et le pauvre Günther, décédé de-puis quatorze ans, a fait les frais d'un show  médiatique sans la moindre valeur scientifique, comme le démontre avec brio David Barney dans Eléments  (n°42, juin-juillet 1982).

Qui fut Günther? Hans Friedrich Karl Günther est né le 16 février 1891 à Fribourg en Brisgau, ville où il vécut sa jeunesse. Il y fréquenta l'université et, après un séjour d'études à Paris, acquit les diplômes qui sanctionnaient ses connaissances en linguistique comparée et en philologie germanique. La formation de Günther est donc celle d'un philologue, non celle d'un anthropologue. Quand éclate la guerre de 1914, Günther se porte volontaire mais, atteint d'un rhumatisme des articulations pendant son instruction, il est renvoyé chez lui et jugé inapte au service actif. Il servira ultérieurement le Reich dans la Croix-Rouge. La guerre finie, il enseigne à Dresde et à Fribourg. Son premier ouvrage paraît en 1920 et s'intitule Ritter, Tod und Teufel. Der heldische Gedanke  (= Le chevalier, la mort et le diable. L'idée héroïque), conjointement à une pièce de théâtre, d'inspiration nationaliste, faustienne, païenne et romantique, Hans Baldenwegs Aufbruch. Ein deutsches Spiel in vier Auftritten  (=Le départ de Hans Baldenweg. Pièce allemande en quatre actes). Le destin de Günther venait d'être scellé. Non par le contenu intellectuel de ces deux travaux, mais par la personnalité de son éditeur munichois, Julius Friedrich Lehmann, enthousiasmé par Ritter, Tod und Teufel.  Cet éditeur connu avait repéré des qualités innées d'anthropologue chez son jeune protégé. Günther, avait remarqué Lehmann, repérait tout de suite, avec justesse, les caractéristiques raciales des individus qu'il rencontrait au hasard, dans les rues ou sur les chemins de campagne. Il était dès lors l'homme que cherchait Lehmann, pour écrire un précis de "raciologie" vulgarisé, accessible au grand public, commercialisable à grande échelle. Malgré l'avis défavorable d'un professeur d'anthropologie de l'université, Lehmann déci-de de payer Günther pendant deux ans, afin d'achever, à l'abri du besoin, sa "raciologie". En juillet 1922, Rassenkunde des deutschen Volkes  sort de presse. Plusieurs éditions se succéderont jusqu'en 1942 et 124.000 exemplaires du livre trouveront acquéreurs. En 1929, paraît une édition abrégée, Kleine Rassenkunde des deutschen Volkes,  rapidement surnommée Volksgünther,  qui sera, elle, tirée à 295.000 exemplaires.

Auteur d'un ouvrage scientifique de référence sur "l'idée nordique" en Allemagne (2), Hans-Jürgen Lutzhöft explique les raisons qui ont fait le succès de ces deux manuels:

1) En reprenant les classifications des races, dressées par les anthropologues anglo-saxons Beddoe et Ripley, Günther analysait la population allemande et repérait les mixages dont elle était le résultat. C'était la première fois qu'un livre aussi didactique sur la question paraissait en Allemagne. Günther faisait dès lors figure de pionnier.

2) Didactique, Günther initiait ses lecteurs, avec une remarquable clarté, aux arcanes et aux concepts fondamentaux de l'anthropologie biologique. Le lecteur moyen acquérait, avec ce livre, un texte "initiatique" pratique, concret et instructif.

3) Les deux ouvrages étaient richement illustrés, ce qui ôtait toute abstraction ennuyeuse aux descriptions des phénotypes raciaux (physionomies, corpulences, formes des crânes, couleur des cheveux et des yeux etc.).

4) Le style du livre était précis, clair, compréhensible, convaincant.

5) La simplicité des démonstrations encourageait la lecture.

6) Günther ne sombrait dans aucune polémique gratuite. Certes, sa race "favorite" était la race nordique mais jamais il ne médisait des au-tres races européennes. Cette absence de propos médisants, inhabituelle dans les vulgarisations anthropologiques de l'époque, accordait à Günther un public nettement plus large que celui des petites sectes nordicomanes.

7) Vulgarisation qui n'avait pas la prétention d'être autre chose, la Rassenkunde  possèdait un niveau scientifique réel et incontestable, malgré les lacunes que pouvaient repérer les spécialistes autorisés des universités. Pour l'anthropologue Eugen Fischer, le plus renommé dans sa profession pendant l'entre-deux-guerres allemand, la lecture de la Rassenkunde  était impérative pour le débutant et même pour le professionnel qui voulait acquérir une souplesse didactique dans sa branche.

Le succès incroyable et inattendu de la Rassenkunde  permet à Günther d'envisager la vie d'un écrivain libre. Il suit les cours de l'anthropologue Theodor Mollison (1874-1952) à Breslau et rencontre à Dres-de celle qui deviendra bien vite son épouse, la jeune musicologue norvégienne Maggen Blom. En 1923, il suit la jeune fille à Skien, sa ville natale, dans le Telemark norvégien, et l'épouse en juillet. Deux filles naîtront de cette union, Ingrid et Sigrun. Les Günther resteront deux ans à Skien, puis se fixeront à Uppsala en Suède, où se trouve "l'Institut d'Etat suédois de biologie raciale". Il travaillera là avec les anthropologues Lundborg et Nordenstreng. En 1927, la famille va habiter dans l'île de Lidingö près de Stockholm. Les années scandinaves de Günther sont indubitablement les plus heureuses de sa vie. Son âme de solitaire trouve un profond apaisement en parcourant les forêts et les montagnes peu peuplées de Norvège et de Suède. Il décline plusieurs invitations à revenir en Allemagne. En 1929, pourtant, quand le Reich est frappé durement par la crise économique, les ventes de la Rassenkunde  baissent sensiblement, ce qui oblige Günther à abandonner sa vie de chercheur libre. Son ami Hartnacke use de son influence pour lui donner, à Dresde, un emploi de professeur de Gymnasium  à temps partiel.

C'est à ce moment que des militants nationaux-socialistes ou nationalistes commencent à s'intéresser à lui. Darré estime que la Rassenkunde  a donné une impulsion déterminante au "mouvement nordique". Ludendorff en chante les louanges. Rosenberg, lui, avait déjà, dans le Völkischer Beobachter  du 7 mai 1925, réclamé la présence d'un homme du format de Günther à la Deutsche Akademie.  Ce sera finalement Wilhelm Frick, ministre national-socialiste de l'intérieur et de l'éducation populaire du Land  de Thuringe, qui, avec l'appui de Max Robert Gerstenhauer, Président thuringien de la Wirtschaftspartei  (= Parti de l'Economie), bientôt alliée au NSDAP, déploiera une redoutable énergie pour donner à Günther, apolitique et simplement ami du responsable national-socialiste Paul Schultze-Naumburg, une chaire de professeur à l'université d'Iéna. Le corps académique résiste, arguant que Günther, diplômé en philologie, n'a pas la formation nécessaire pour accéder à un poste de professeur d'anthropologie, de raciologie ou d'hygiène raciale (Rassenhygiene).  Frick et Gerstenhauer circonviennent ces réticences en créant une chaire "d'anthropologie sociale", attribuée immédiatement à Günther. Ce "putsch" national-socialiste, que Günther, bien que principal intéressé, n'a suivi que de loin, finit par réussir parce qu'une chaire d'anthropologie sociale constituait une nouveauté indispensable et parce que Günther, en fin de compte, avait amplement prouvé qu'il maîtrisait cette discipline moderne. La seule réticence restante était d'ordre juridique: les adversaires des nazis jugeaient que Frick posait là un précédent, risquant de sanctionner, ultérieurement, toutes inter-ventions intempestives du politique dans le fonctionnement de l'université. Le 15 novembre 1930, Günther prononce son discours inaugural seul, sans la présence du recteur et du doyen de sa faculté. Mais bien en présence de Hitler, qui vint personnellement féliciter le nouveau professeur, qui ne s'attendait pas du tout à cela... Hitler prenait sans doute la nomination de Günther comme prétexte pour être présent à l'université lors d'une séance publique et pour encourager ses compagnons de route à intervenir dans les nominations, comme l'avaient fait Frick et Gerstenhauer.

En 1933, quand Hitler et ses partisans accèdent au pouvoir, deux adversaires de Günther sont destitués voire emprisonnés, sans doute pour avoir mi-lité dans des formations hostiles à la NSDAP victorieuse. Rosenberg fait accorder à Günther le "Prix de science de la NSDAP" en 1935. En 1936, Günther reçoit une distinction honorifique moins compromettante: la "Plaquette Rudolf Virchow de la Société berlinoise d'Ethnologie, d'Anthropologie et de Proto-histoire", dirigée par Eugen Fischer. En 1937, il entre dans le comité directeur de la Société Allemande de Philosophie. Pour son cinquantième anniversaire, le 16 février 1941, il reçoit la "Médaille Goethe d'Art et de Science" et, ce qui est cette fois nettement compromettant, l'insigne d'or du parti.

En 1932, Günther publie un ouvrage très intéressant sur la présence d'éléments raciaux nordiques chez les Indo-Européens d'Asie (Indo-Iraniens, Beloutches, Afghans, Perses, Tadjiks, Galtchas, Sakkas, Tokhariens et Arméniens). Günther décèle de cette façon la voie des migrations indo-européennes, amorcées vers -1600 avant notre ère et repère les noyaux de peuplement encore fortement marqués par ce mouvement de population (3). 

En 1935, paraît un autre livre important de Günther, Herkunft und Rassengeschichte der Germanen.  Par la suite, jusqu'en 1956, Günther se préoccupera essentiellement d'hérédité, de sociologie rurale, etc., tous thèmes difficilement politisables. Malgré cet engouement du régime pour sa personne, Günther demeure en retrait et ne fait pas valoir sa position pour acquérir davantage d'honneurs ou d'influence. Hans-Jürgen Lutzhöft estime que cette discrétion, finalement admirable, est le résultat des dispositions psychiques, du tempérament de Günther lui-même. Il n'aimait guère les contacts, était timide et soli-taire. Par dessus tout, il appréciait la solitude dans la campagne et avait en horreur la fébrilité militante des organisations de masse. Comme le montre bien Frömmigkeit nordischer Artung  (1934, 6ème éd.: 1963), Günther détestait le "byzantinisme" et le fanatisme. En 1941, en pleine guerre, Günther fait l'apologie d'un sentiment: celui de la "propension à la conciliation", fruit, dans le chef de l'individu, d'une fidélité inébranlable à ses principes et d'une tolérance largement ouverte à l'égard des convictions d'autrui; pour Günther, véritable-ment "nordique", donc exemplaire selon les critères de sa mythologie, était l'adage: "You happen to think that way; allright! I happen to think this way"  (Vous pensez de cette façon? Fort bien! Moi, je pense de cette autre façon). Nostalgique de la Scandinavie, Günther, dit Lutzhöft, a souvent songé à émigrer; mais, une telle aventure l'aurait privé, lui et sa famille, de bien des avantages matériels...

Le cours des événements a fait réfléchir Günther et a renforcé son attitude réservée à l'endroit du régime. Entre l'idéologie officiellement proclamée et la pratique politique réelle de l'Etat national-socialiste, l'observateur détaché que voulait être Günther constate des différences flagrantes. Ce scepticisme croissant apparaît clairement dans le manuscrit qu'il prévoyait de faire paraître en 1944. Ce livre, intitulé Die Unehelichen in erbkundlicher Betrachtung  (= Les enfants illégitimes vus sous l'angle des notions d'hérédité) fut en dernière instance interdit par les autorités nationales-socialistes, surtout à l'instigation de Goebbels et de Bormann. Pourquoi? Günther, personnellement, ne reçut jamais aucune explication quant à cette interdiction, surprenante lorsqu'on sait que l'anthropologue détenait l'insigne d'or du parti. Lutzhöft donne quelques explications intéressantes, qui, approfondies, vérifiées sur base de documents et de témoignages, permettraient d'élucider davantage encore la nature du régime national-socialiste, encore très peu connu dans son essence, malgré les masses de livres qui lui ont été consacrées. La raison majeure de l'interdiction réside dans le contenu du manuscrit, qui défend la monogamie et la famille traditionnelle, institutions qu'apparemment la dernière garde de Hitler, dont Bormann, souhaitait supprimer. Pour Günther, la famille traditionnelle monogame doit être maintenue telle quelle sinon le peuple allemand "risque de dégénérer". L'urbanisation croissante du peuple allemand a entraîné, pense Günther, un déclin du patrimoine génétique germanique, de telle sorte qu'un bon tiers de la nation pouvait être qualifié de "génétiquement inférieur". Sur le plan de la propagande, un tel bilan s'avère négatif car il autorise tous les pessimismes et contredit l'image d'une "race des seigneurs".

Pour Günther, une politique raciale ne doit pas être quantitative; elle ne doit pas viser à l'accroissement quantitatif de la population mais à son amélioration qualitative. Günther s'insurge dès lors contre la politique sociale du IIIème Reich, qui distribue des allocations familiales de façon égalitaire, sans opérer la moindre sélection entre familles génétiquement valables et familles génétiquement inintéressantes. Ensuite, il critique sévèrement l'attribution d'allocations aux filles-mères parce qu'une telle politique risquerait de faire augmenter indûment les naissances illégitimes et de détruire, à plus ou moins courte échéance, l'institution du mariage. Günther avait eu vent des projets d'établissement de la polygamie (conçus par Himmler et les époux Bormann) afin de combler le déficit des naissances et l'affaiblissement biologique dus à la guerre. Le trop-plein de femmes que l'Allemagne allait inévitablement connaître après les hostilités constituait un problème grave devant être résolu au profit exclusif des combattants rescapés de l'épopée hitlérienne. Bormann envisageait une institution polygamique prévoyant une femme principale et des femmes secondaires ou "amantes légales", toutes destinées à concevoir des enfants, de façon à ce que les Germains demeurent majoritaires en Europe. Pour Günther, ce système ne pourrait fonctionner harmonieusement.

Les "amantes légales", souvent sexuellement attrayantes, fantaisistes, gaies, auraient monopolisé l'attention de leurs mâles au détriment des femmes principales, plus soucieuses, en théorie, de leurs devoirs de mères. En conséquence, pense Günther, les femmes sexuellement fougueuses, qui ne sont pas nécessairement valables génétiquement (Günther, en tout cas, ne le croit pas), verraient leurs chances augmenter au détriment de la race, tandis que les femmes plus posées, génétiquement précieuses, risquent d'être délaissées, ce qui jouerait également au détriment de la race. Pire, ce système ne provoquerait même pas, dit Günther, l'accroissement quantitatif de la population, pour lequel il a été conçu. La polygamie, l'histoire l'enseigne, produit moins d'enfants que la monogamie. L'opposition de Günther au régime est évidente dans cette querelle relative à la politique sociale du IIIème Reich; il adopte une position résolument conservatrice devant la dérive polygamiste, provoquée par la guerre et la crainte d'être une nation dirigeante numériquement plus faible que les peuples dirigés, notamment les Slaves.

Revenu à Fribourg pendant la guerre, il quitte une nouvelle fois sa ville natale quand son institut est détruit et se fixe à Weimar. Lorsque les Américains pénètrent dans la ville, le savant et son épouse sont réquisitionnés un jour par semaine pour travailler au déblaie-ment du camp de Buchenwald. Quand les troupes US abandonnent la région pour la céder aux Russes, Günther et sa famille retournent à Fribourg, où l'attendent et l'arrêtent des militaires français. L'anthropologue, oublié, restera trois ans dans un camp d'internement. Les officiers de la Sûreté le traitent avec amabilité, écrira-t-il, et la "chambre de dénazification" ne retient aucune charge contre lui, estimant qu'il s'est contenté de fréquenter les milieux scientifiques internationaux et n'a jamais fait profession d'antisémitisme. Polac, Billig et Souchon, eux, sont plus zélés que la chambre de dénazification... S'ils avaient été citoyens ouest-allemands, ils auraient dû répon-dre devant les tribunaux de leurs diffamations, sans objet puisque seule compte la décision de la chambre de dénazification  —contrôlée par la France de surcroît puisque Fribourg est en zone d'occupation française— qui a statué en bon-ne et due forme sur la chose à juger et décidé qu'il y avait non-lieu.

Günther se remit aussitôt au travail et dès 1951, recommence à faire paraître articles et essais. En 1952, paraît chez Payot une traduction française de son ouvrage sur le mariage (Le Mariage, ses formes, son origine,  Payot, 1952). En 1953, il devient membre correspondant de l' American Society of Human Genetics. En 1956 et 1957, paraissent deux ouvrages particulièrement intéressants: Lebensgeschichte des Hellenischen Volkes et Lebensgeschichte des Römischen Volkes, ("Histoire biologique du peuple grec" et "Histoire biologique du peuple romain"), tous deux repris de travaux antérieurs, commencés en 1929. En 1963, paraît la sixième édition, revue et corrigée, de Frömmigkeit nordischer Artung.  Cette sixième édition, avec l'édition anglaise plus complète de 1967 (Religious attitudes of the Indo-Europeans,  Clair Press, London, 1967), a servi de base à cette version française de Frömmigkeit nordischer Artung,  dont le titre est dérivé de celui d'une édition italienne: Religiosita indoeuropea.  Le texte de Frömmigkeit...  est une exploration du mental indo-européen à la lumière des textes classiques de l'antiquité gréco-romaine ainsi que de certains passages de l'Edda et de poésies de l'ère romantique allemande. Avec les travaux d'un Benveniste ou d'un Dumézil, ce livre apparaîtra dépassé voire sommaire. Sa lecture demeure néanmoins indispensable, surtout pour les sources qu'il mentionne et parce qu'il est en quelque sorte un des modestes mais incontournables chaînons dans la longue quête intellectuelle, philologique, de l'indo-européanité, entreprise depuis les premières intuitions des humanistes de la Renaissance et les pionniers de la linguistique comparée.

Après la mort de sa femme en 1966, Günther vit encore plus retiré qu'auparavant. Pendant l'hiver 1967-1968, il met péniblement en ordre  —ses forces physiques l'abandonnent—  ses notes personnelles de l'époque nationale-socialiste. Il en sort un livre: Mein Eindruck von Adolf Hitler  (L'impression que me fit Adolf Hitler). On perçoit dans ce recueil les raisons de la réticence de Günther à l'égard du régime nazi et on découvre aussi son tempérament peu sociable, hostile à tout militantisme et à tout collectivisme comportemental. S'il fut, malgré lui, un anthropologue apprécié du régime, choyé par quelques personnalités comme Darré ou Rosenberg, Günther fut toujours incapable de s'enthousiasmer pour la politique et, secrètement, au fond de son cœur, rejetait toute forme de collectivisme. Pour ce romantique de la race nordique, les collectivismes communiste ou national-socialiste sont des "asiatismes". L'option personnelle de Günther le rapproche davantage d'un Wittfogel, théoricien du "despotisme oriental" et inspirateur de Rudi Dutschke. L'idéal social de Günther, c'est celui d'un paysannat libre, sans Etat, a-politique, centré sur le clan cimenté par les liens de consanguinité. En Scandinavie, dans certains villages de Westphalie et du Schleswig-Holstein, dans le Nord-Ouest des Etats-Unis où se sont fixés de nombreux paysans norvégiens et suédois, un tel paysannat existait et subsiste encore très timidement. Cet idéal n'a jamais pu être concrétisé sous le IIIème Reich. Mein Eindruck von Adolf Hitler  (4) est, en dernière instance, un réquisitoire terrible contre le régime, dressé par quelqu'un qui l'a vécu de très près. Ce document témoigne d'abord, rétrospectivement, de la malhonnêteté profonde des pseudo-historiens français qui font de Günther l'anthropologue officiel de la NSDAP et, ensuite, de la méchanceté gratuite et irresponsable des quelques larrons qui se produisent régulièrement sur les plateaux de télévision pour "criminaliser" les idéologies, les pensées, les travaux scientifiques qui ont l'heur de déplaire aux prêtres de l'ordre moral occidental...

Epuisé par l'âge et la maladie, Günther meurt le 25 septembre 1968 à Fribourg. La veille de sa mort, il écrivait à Tennyson qu'il souhaitait se retirer dans une maison de repos car il ne ressentait plus aucune joie et n'aspirait plus qu'au calme.

Robert Steuckers.

(Bruxelles, septembre 1987).

Notes

(1) Michael Billig, L'internationale raciste. De la psychologie à la science des races,  François Maspero, Paris, 1981.

(2) Hans-Jürgen Lutzhöft, Der Nordische Gedanke in Deutschland, 1920-1940,  Ernst Klett Verlag, Stuttgart, 1971. La présente introduction tire la plupart de ses éléments de cet ouvrage universitaire sérieux.

(3) Cf. Hans F. K. Günther, Die Nordische Rasse bei den Indogermanen Asiens,  Verlag Hohe Warte, Pähl, 1982 (réédition).

(4) Hans F. K. Günther, Mein Eindruck von Adolf Hitler,  Franz v. Bebenburg, Pähl, 1969.

jeudi, 14 mai 2009

Konversion zum Islam: Eine neue Antwort auf die Identitätskrise

Konversion zum Islam: Eine neue Antwort auf die Identitätskrise
Geschrieben von Carlo Clemens - http://www.blauenarzisse.de/   

IslamObwohl offizielle Statistiken oftmals kaum aussagekräftig sind, da aus Angst vor vermeintlich rassistischer Diskriminierung viele Differenzierungen unter den Teppich gekehrt werden, geht man laut dem Zentralinstitut Islam-Archiv-Deutschland Stiftung e.V. (ZIAD) in Soest davon aus, daß es in der Bundesrepublik Deutschland heute etwa 3,5 Millionen Muslime gibt – 6,5 Prozent mehr noch als im Jahr 2006. Ein unglaublicher Geburtenüberschuß und Familiennachzug machen es möglich. Doch nicht alle Muslime müssen aus dem islamischen Kulturbereich stammen: Jedes Jahr sind es mehrere tausend Konvertiten, die in der Religion des Propheten Mohammed den wahren Sinn und den richtigen Weg sehen.

Ich selbst kann den Weg vom orientierungslosen, getauften Deutschen hin zur Konversion zum Islam sehr gut nachvollziehen. Obwohl ich eigentlich schon immer im Denken ein Konservativer war, der sich für die christlich-abendländische Prägung Deutschlands und Europas stark machte, gab es in meinem Leben durchaus Phasen, in denen ich mir ernsthafte Gedanken über die Vorteile und Konsequenzen des islamischen Glaubens gemacht habe.

Der Islam bietet Antworten auf die europäische Identitätskrise. Aber für uns nicht die richtigen.

Es sind oft die dunklen Herbst- und Winterabende, die einen zum melancholischen Nachdenken bringen. Winterdepressionen wecken innere Sehnsüchte nach Wärme, Geborgenheit und dem wahren Sinn des Lebens. Vor allem in dem Zeitabschnitt, in dem ein Jugendlicher zum jungen Erwachsenen wird, distanzieren sich viele von pubertärem Kinderkram wie Saufereien, Diskos und dummen Flittchen und suchen nach einer fundamentalen, alles erklärenden Lebensgrundlage. Der Islam bietet vermeintlich eine endgültige Antwort auf all diese Fragen der Identitätskrise und eine einfache und stringente Lebensanleitung, konträr zu den unerklärlichen und komplexen Lebensumständen der reizüberfluteten dekadenten Konsum- und Mediengesellschaft. Laut Schätzungen sind bereits über 100.000 Deutsche zum Islam konvertiert. Allein im Jahr 2006 waren es rund 6.000.

Hinzu kommt die fundamentale Selbstüberzeugung der meisten gläubigen Muslime, dem „einzig wahren Glauben“ anzugehören. Von religiösem Eifer beflügelt, im Denken, etwas Gutes für Allah zu tun und die armen Ungläubigen rechtzuleiten, entwickeln viele islamische Jugendliche – Jungen wie Mädchen – ein enormes Sendungsbewußtsein. Ich komme aus einer Stadt, in der in einigen Jahrzehnten die deutschen Mehrheitsverhältnisse gekippt sein werden. Auf meinem Gymnasium gibt es kaum einen praktizierenden Christen. Dafür allerdings ist die Mehrheit der Schülerschaft muslimisch. Das religiöse Selbstbewußtsein der Türken und Araber, kombiniert mit dem eingangs erwähnten emotionalen Faktor in vielen suchenden Nicht-Muslimen, ist eine unglaublich verlockende Mixtur, um sich der herrschenden Leitkultur – als nichts anderes kann man den Islam in multikulturellen Gegenden bezeichnen – anzuschließen.

Der Schriftsteller und studierte Islamwissenschaftler, Stefan Weidner, vergleicht in der Süddeutschen Zeitung vom 7. September 2007 das innere Ringen vor der Konversion zum Islam mit dem Heiratsantrag „eines äußerst viel versprechenden, obschon recht autoritären Typen. Die Versuchung zum Jawort ist bei solchen Anträgen naturgemäß groß, selbst wenn der Verstand schüchtern ein paar Einwände macht.“

Warum so viele Deutsche zum Islam konvertieren

Ein gleichaltriger Bekannter von mir, den ich schon seit Grundschulzeiten kenne, ist vor einigen Jahren zum Islam konvertiert. Er war der letzte, von dem ich das erwartet hätte. Er ist ein zutiefst unpolitischer, augenscheinlich zumindest auch unernster Mensch, immer zu Späßen aufgelegt. Die meisten seiner Freunde, mit denen er als Deutscher zugange war und ist, waren und sind teils strenggläubige Muslime. Doch ich dachte, daß er für etwas wie Frömmigkeit und Transzendenz niemals empfänglich wäre – tja, falsch gedacht.

Nach Jahren von sinnlosem Dasein haben ihm seine Freunde als Schritt über die Schwelle zum Erwachsenwerden anscheinend die Lebensanleitung für das richtige, „wahrhaftige“ Leben gezeigt. Heute manifestiert sich sein Glaube in einer äußerst anti-amerikanischen und anti-israelischen Haltung, die im Politik-Unterricht gar in Verschwörungstheorien über den 11. September 2001 ausartet. Ein Freund von ihm, der maßgebend an dessen Überzeugung zum Islam federführend war, hält im Biologie-Unterricht Vorträge, die die Evolutionstheorie für falsch erklären. Wohlgemerkt, wir sind in der 13. Klasse einer gymnasialen Oberstufe.

Die Lehrer üben sich in resignierter Zurückhaltung: Man dürfe ja keine religiösen Überzeugungen in Frage stellen, auch wenn das natürlich absolut unglaubliche Zustände seien. Aber unsere Schule macht ja bei „Schule ohne Rassismus – Schule mit Courage“ mit – also nach außen hin weiterhin alles paletti in Multikultopia.

Konversion zum Islam: Kaum Transparenz für Außenstehende

Die Konversion zum Islam läuft äußerst unkompliziert und unbürokratisch ab. Ab dem Alter von 14 Jahren ist man in Deutschland religionsmündig, das heißt, daß man jeder beliebigen Religion beitreten bzw. aus ihr austreten darf. Davor ist das eine Sache der Erziehungsberechtigten. Ob man in diesem jungen Alter schon fähig ist, sich ausreichend und unvoreingenommen über einen Glauben und alle damit verbundenen Pflichten und Konsequenzen zu informieren, darf bezweifelt werden.

Konvertiert man zum Islam, so hat man das sogenannte „Schahada“, das Glaubensbekenntnis zum Islam („Es gibt keinen Gott außer Gott [Allah], und Mohammed ist sein Gesandter“) vor zwei muslimischen Zeugen in arabischer Sprache zu sprechen. Nach dieser Prozedur, die als erste der fünf Säulen des Islams gilt, ist man ein Muslim. Die nachträgliche Beschneidung ist genauso wie eine Registrierung, z.B. im Islam-Archiv in Soest, nicht unbedingt notwendig.

Anders als bei den Kirchen gibt es bei den Muslimen in Deutschland keinen zentralen Dachverband, lediglich viele verschiedene, unverbindliche Moscheevereine. Diese strukturelle Zerklüftung erschwert zum einen eine statistische Übersicht über Muslime hierzulande und zum anderen eine Kontrolle über etwaige radikale Strömungen. Vor allem gilt dies in Anbetracht des großen Anteils an Kindern und Jugendlichen, die den Predigten der Imame unkontrolliert ausgesetzt sind.

Die Schwäche des Christentums ist die Stärke des Islam

Die enorme Vitalität der islamischen Expansion in Europa, getragen von der selbstlosen und aufopfernden Hingabe vieler junger Muslime, profitiert ungemein von der gesellschaftlichen Schwäche des Christentums. Viele Sinnsuchende, die sich Moscheedem Islam zugewendet haben, haben sich zuvor auch mit dem Christentum, der Religion in die sie hineingeboren wurden, auseinandergesetzt. Doch für kaum einen versprühen mausgraue Kirchengemeinden noch einen attraktiven Charme, geschweige denn einen Ausweg aus der inneren Depression. Viele Konvertiten begründen ihren Schritt damit, daß sie Probleme mit dem christlichen Dogma der Dreifaltigkeit Gottes hätten sowie mit den klaren religiösen Vorschriften im Islam, so Muhammad Salim Abdullah, Seniordirektor des Islam-Archives. Und wie soll man als Deutscher oder Nicht-Deutscher eine Kultur respektieren oder für sich beanspruchen, die sich gerade mitten in ihrer kulturellen Selbstaufgabe befindet?

Die Christengemeinde ist innerlich in viele Strömungen und Untergliederungen gespalten. Kein Mensch überblickt scheinbar archivierte christliche Grundsätze, wie genannte Dreifaltigkeit oder die bischöfliche Hierarchie, die scheinbar überhaupt keinen direkten Bezug zu den Belangen und Problemen der heutigen Zeit haben. Allgegenwärtig ist das negative Klischeebild der Kirchen: Kreuzzüge, pädophile Pfarrer, spießige Rentner, altmodische Kirchenlieder oder biedere Enthaltsamkeit vor der Ehe.

Während die hiesige Medienkultur ehrfürchtigen und ängstlichen Respekt vor der islamischen Empfindlichkeit zeigt, wird das Christentum in Filmen, Büchern, Comedy-Serien und Internet-Videos sorglos verspottet und lächerlich gemacht. Jesus Christus gilt nicht länger als eine zumindest mit Respekt zu behandelnde Moralinstanz, sondern nur noch als ein nicht ernstzunehmender, langweiliger und enthaltsamer Ökohippie. Und wie kann eine Religion denn die richtige sein, wenn sie so sehr in Frage gestellt wird – und noch dazu von den eigenen Leuten? Wenn ihr so viele davonlaufen? Wenn sie keinen Nachwuchs mehr hat? Der Hegemonialsieg des Islams über das Christentum scheint besiegelt.

In westdeutschen Großstädten ist die Jugendkultur in den letzten Jahren spürbar orientalisiert worden.

Auch eine Orientalisierung der Jugendkultur ist in Großstädten unschwer zu erkennen. Neben dem Döner Kebab als des Deutschen allerliebster Schnellimbiß erleben bei jungen Leuten in den Städten orientalische Cafés, türkische Internet-Cafés, islamische Kulturtreffs, Shisha-Bars, „Oriental Nights“ in Bars und Diskos oder gar nahöstliche Verhaltensnormen wie die „Brüderküßchen“ zur Begrüßung ungeahnte Beliebtheit. Die Islamisierung wird mittlerweile auch von Deutschen als eine Normalität angesehen. Der Islam ist nicht länger eine „Religion wie jede andere auch“, sondern durch die Abstinenz des Christentums in der städtischen Jugend gar der einzig wirklich präsente und existente Glauben.

Die islamische Jugendkultur wirkt für viele exotisch, neu und aufregend – anders als die christliche. Die meisten wissen nicht viel über die unterschiedlichen Facetten des Islams: die vielen widersprüchlichen und fragwürdigen Passagen im Koran, die fragwürdige Biographie des Propheten oder die wahren Ausmaße und Folgen einer endgültigen Islamisierung der westlichen Kultursphäre. Aber dafür mögen sie den kitschig-orientalischen „1001-Nacht-Flair“. Dazu kommt noch die routiniert einstudierte Berufsbegeisterung der etablierten Politikerklasse ob der „weltoffenen Multikulti-Idylle“ und der islamischen „Kulturbereicherung“. Da muß der Islam doch einfach das richtige sein.

Konservative und Islam: Freunde im Geiste?

Nicht erst seit der Allensbacher Markt- und Werbeträger-Analyse AWA 2008 läßt sich in der Jugend eine Renaissance von konservativen Grundwerten erkennen: Konträr zu den Überzeugungen der individualistisch-emanzipatorischen 68er-Generation sind heute Faktoren wie Familie, Kinder, zu Hause bleibende Mütter oder Sicherheit beliebter denn je.Hier besteht ein elementarer Konsens zwischen Konservativen und der islamischen Bewegung, die in ihrem Verständnis von Familie, Nationalstolz, Ehe und gesellschaftlichem Sittenverfall zumindest oberflächlich typisch konservativ ist. Eine insgeheime Sehnsucht vieler deutscher Jugendlicher nach diesen Werten der Sicherheit und Wahrhaftigkeit drückt sich in der steigenden Gunst der Lehre des Islam aus.

Doch ist die islamische Ausbreitung nun etwas Gutes für das gesellschaftliche Zusammenleben? Immerhin konkurriert er mit beachtlichen Erfolgen gegen die von uns doch so kritisierte wertelose Konsumgesellschaft. Aus konservativer wie auch aus nicht-konservativer Sicht muß die Islamisierung dennoch mit Sorge betrachtet werden.

Das Zulassen der Islamisierung wäre unverantwortlich

Zum einen natürlich können Konservative nicht unkritisch über die demographische Verdrängung der Einheimischen und das Aussterben der abendländischen Kulturprägung hin zu einem „Eurabien“ hinwegsehen. Der Islam in seiner orthodoxen Form, wie er von den meisten Muslimen praktiziert wird, widerspricht den europäischen Grundideen der Aufklärung vollkommen. Die Islamisierung beinhaltet in der Konsequenz den geistigen Rückfall Europas ins patriarchale Mittelalter.

Realität in Deutschland sind die arabischen und türkischen Macho-Paschas, unterwürfige und separierte Burkamädchen, die allgegenwärtige Homosexuellenfeindlichkeit, das Verurteilen ehrloser „deutscher Schlampen und Opfer“ und das immerwährende Fernbleiben der meisten muslimischen Schüler bei Klassenfahrten und Sportunterricht an deutschen Multikulti-Schulen.

Dieser Artikel erschien zuerst in Blaue Narzisse, #10, Dezember 2008.

 

00:30 Publié dans Islam | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : islam, religion, crise religieuse, sociologie, christianisme, allemagne | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 11 mai 2009

Islam et laïcité: la naissance de la Turquie moderne

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

Islam et laïcité: la naissance de la Turquie moderne

Bernard LEWIS, Islam et laïcité, la nais­sance de la Turquie moderne,  Fa­yard, Paris, 1988, 520 pages, 195 FF.

 

La Turquie est beaucoup de choses à la fois, des choses étroitement mêlées et imbriquées les unes dans les autres. L'enquête historique de Bernard Lewis commence d'ailleurs par nous signaler les différences entre les termes «turc/Turquie» et «ottoman». Le terme «turc» désigne une popu­la­tion ethniquement distincte, de langue turque, installée en Anatolie. Le terme «ottoman» n'a qu'une signification dynastique. Il existe donc une ethnie turque distincte mais non une ethnie ottomane. Le principe turc est un principe eth­nique; le principe ottoman, un principe politique, dé­taché de toute ethnicité concrète. La turcologie euro­péenne du XIXième siècle redonnera aux Turcs d'Anatolie le goût de leur passé, qu'ils avaient aban­donné pour servir l'Islam ou la machine politique ot­tomane. Mais malgré ce re­niement de la turcicité pré-islamique, les racines turques reviendront à la surface, bien que ca­mouflées, dès l'expansion au XVIième siècle des Osmanlis. Ceux-ci se donnaient une gé­néa­logie mythique et prétendaient descendre d'une tribu turque, les Oguz. Mais les ethnies turques no­mades, réservoir démographique de l'Empire Ottoman qui reprend l'héritage byzantin, sont regardées avec méfiance voire avec mépris par le pouvoir qui voit en elles des bandes non po­licées, susceptibles de boule­verser l'ordre im­périal. «Turc» est même, à cet époque, un terme injurieux, signifiant «rustaud», «abruti» ou «grossier».

Quant à l'Islam, troisième élément déterminant de l'histoire turque après le prin­cipe impérial et les facteurs ethniques, c'est un Islam accepté de plein gré, qui n'est pas le fruit d'une conversion. Moins prosélyte et plus tolérant, l'Islam turc n'a pas cherché à convertir de force chrétiens (grecs) ou juifs mais a pratiqué à leur égard une sorte d'apartheid rigoureux, si bien que les Grecs et les Juifs d'Istanbul ne parlaient pas turc. L'Islam turc est aussi plus varié que l'Islam arabo-sémitique: des élé­ments de chamanisme, de bouddhisme centre-asia­tique, de manichéisme et de christianisme offre une palette de syncrétismes, rassemblés dans des ordres religieux, les tarikat, toujours soupçonnés par le pou­voir parce que susceptibles de subversion. Quatrième élément, enfin, c'est le «choc de l'Occident», l'influence des Lumières, surtout françaises, et des doctrines politiques libérales et étatiques. Bernard Lewis analyse méthodique­ment les influences occi­dentales, depuis 1718, année du Traité de Passaro­witch, sanctionnant une défaite cuisante que les Otto­mans venaient de subir sous les assauts austro-hon­grois. La Porte constate alors son infériorité technique et militaire et décide d'étudier les aspects pratiques de la civilisation européenne et d'en imiter les structures d'enseignement. Cette politique durera jusqu'au début de notre siècle, avec l'aventure des Jeunes Turcs puis avec la République de Mustafa Kemal. B. Lewis re­trace la quête des étu­diants et des hommes politiques turcs dans les universités européennes. Le travail de cette poignée d'érudits ne suffit pas à redonner à l'Empire ottoman son lustre d'antan. Russes, Fran­çais, Britanniques et Néerlandais soumettent les Etats musulmans les uns après les autres à leur domination.

Dans un autre chapitre, B. Lewis montre comment le nationalisme à l'eu­ropéenne s'est implanté en Tur­quie. Deux termes signifient «nation» en turc: vatan,  qui corres­pond à la patrie charnelle, à la Heimat   des Alle­mands (cf. watan  chez les Arabes) et millet,  qui désigne la communauté islamique (cf. milla  en arabe). Namik Kemal, théoricien du natio­na­lis­me ot­toman, constate, explique Lewis, qu'une doctrine po­litique trop axée sur le vatan  provo­querait la disloca­tion de l'ensemble ottoman multinational. Mais cette diversité ne risque pas d'éclater à cause du caractère fédérateur du millet  islamique: on voit tout de suite comment oscille l'esprit turc entre les deux pôles de l'ethnicité particulariste et de la religion universaliste. Deux idéologies naîtront de cette distinction entre va­tan  et millet:  le panislamisme et le turquisme. Le tur­quisme procède d'une politisation des re­cher­ches eth­nologiques, archéologiques et linguisti­ques sur le passé des peuples turcs, surtout avant l'islamisation. Il se manifeste par un retour à la langue turque rurale (Mehmed Emin), par une exaltation de la patrie origi­nelle commune de tous les peuples turcophones, le pays de Touran.

De là proviennent les autres appella­tions du turquisme: le touranisme et le pantouranisme. Ce mouvement sera renforcé par les réfugiés turco­phones des régions conquises par les Russes: ceux-ci sont rompus aux disciplines philolo­giques russes et appliquent au touranisme les principes que les Russes appliquent au pan­sla­visme. Le programme politique qui découle de cet engouement littéraire et archéolo­gique vise à unir sous une même autorité politique les Turcs d'Anatolie (Turquie), de l'Empire russe, de Chi­­ne (Sin-Kiang), de Perse et d'Afghanistan. L'é­chec du panislamisme et du pantouranisme, après la Première guerre mondiale, conduisent les partisans de Mustafa Kemal à reconnaître les limites de la puis­sance turque (discours du 1 dé­cembre 1921) circons­crite dans l'espace ana­tolien, désormais baptisé Tür­kiye.  Ce sera un Etat laïc, calqué sur le modèle fran­çais, une «patrie anatolienne». L'ouvrage de Lewis est indispensable pour pouvoir juger la Turquie mo­derne, qui frappe à la porte de la CEE (Robert Steuckers).

samedi, 04 avril 2009

El problema geostrategico del Islam

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El problema geoestratégico del Islam

 

por Francisco Torres García / http://www.arbil.org/

La tesis del choque de civilizaciones ha cobrado especial relevancia en conflictos localizados (Chechenia, Yugoslavia, nuevas naciones surgidas tras la desmembración de la URSS); el Islam se está configurando como el gran opositor a la imposición a escala planetaria del modelo occidental; los países musulmanes presentan en su seno graves tensiones que están creando una nueva distribución geoestratégica del mundo; el Islam está en un proceso de expansión que lleva el choque de civilizaciones e el interior de las sociedades occidentales. Todos estos problemas afloran hoy y tendrán imprevisibles e impredecibles consecuencias en las próximas décadas

 

El mundo tiene planteados, en el siglo XXI, una serie de problemas globales heredados, en gran medida, de las consecuencias del crecimiento económico iniciado por los países, hoy desarrollados, a finales del siglo XVIII, raíz de la diferenciación económica actual; de la expansión imperialista de las potencias industriales en el siglo XIX; de las injusticias propiciadas por ese crecimiento y esa expansión; de unos procesos de descolonización realizados, en la segunda mitad del siglo XX, en función de los intereses, económicos y estratégicos, de las antiguas potencias coloniales y no de la realidad, fundamentalmente étnica, de las poblaciones afectadas. Circunstancias que han afectado y condicionado la existencia de lo que hoy conocemos como Tercer y Cuarto Mundo. Un bloque de la humanidad caracterizado por el analfabetismo, la enfermedad, la pobreza y el hambre, pero también por la existencia de regímenes políticos oligárquicos disfrazados, en muchas ocasiones, de corruptas democracias. Un bloque sacudido, en una gran parte, por irresolutos conflictos. Un mundo con escasas alternativas y opciones que languidece al quedar enmascarada su dramática realidad bajo los eufemismos analísticos de la dialéctica Norte-Sur, Pobreza-Riqueza y Capital-Trabajo.

Ese Tercer y Cuarto Mundo, que no es una realidad global y que carece, pese a las reiteradas declaraciones, de conciencia común, es, en realidad, un conjunto deslavazado de naciones, muy desestructuradas tanto política como económicamente; sumido, en muchos casos, como sucede en al mayor parte del África Negra, en tan ignoradas como permanentes guerras civiles que a nadie interesan y bajo las que subyace el problema del dominio real de los inmensos recursos naturales del continente negro. Un grupo de naciones, mayoritariamente creadas en sus fronteras por las potencias occidentales, que han visto esos problemas genéricos a los que inicialmente hacíamos referencia, agravados por un erróneo y dislocado proceso de descolonización, realizado y dirigido por Occidente para, en muchos casos, continuar, las antiguas o nuevas potencias, detentando el dominio efectivo sobre los recursos y la explotación económica de las nuevas naciones. Un panorama que ha servido, sobre todo en la tres últimas décadas del siglo XX, para dar entidad, en gran parte de esas naciones, especialmente en la más reacias a la occidentalización, a un sentimiento generalizado de animadversión sobre Occidente en general y, debido a su función rectora en el proceso de globalización, a los EEUU en particular.

Los cambios experimentados en la definición geopolítica del mundo en la década de los ochenta, con la subsiguiente desaparición de las férreas dictaduras comunistas en gran parte del globo (excepción hecha de Cuba, Vietnam y China); con la expansión de los regímenes democráticos, al menos formalmente, auspiciada por los EEUU tras la caída del comunismo, tanto para el Este de Europa, el África Negra o la América del Centro y del Sur, han creado para el mundo del siglo XXI un escenario muy diferente al del siglo XX.

En gran medida, frente a la potencia hegemónica, frente a un sistema económico mundializado al que los restos comunistas no hacen sino ir caminando hacia una pausada integración, frente a un modelo político único, sólo queda, desde un punto de vista estrictamente geopolítico, como elemento disrruptor, el Islam.

El Islam, que no existe como una única realidad política y religiosa desde los tiempos del Califato o desde los decenios del amenazante Imperio Turco que logró aglutinar, de una forma ofensiva, a pesar de los continuos levantamientos tribales, a una parte del mismo, continua manteniendo, a pesar de todo, una cierta vinculación religioso-política que se torna efectiva, sobre todo como sentimiento popular, frente al exterior, frente a Occidente.

Los cambios geopolíticos de finales del siglo XX, a duras penas si hicieron mella en el mundo musulmán continuando éste ajeno a los procesos de democratización; alejándose, al mismo tiempo, de los procesos abiertos, en algunos países, de occidentalización (Irán, Egipto, Argelia). La caída del comunismo supuso, también para ellos, una cierta liberalización. El apoyo de la URSS a los procesos de descolonización hizo surgir movimientos pro-comunistas o pro-socialistas, defendiendo una especie de socialismo o comunismo islámico en algunos de estos países, aunque, al mismo tiempo, la URSS reprimiera las repúblicas de raíz islámica que había en su seno; así como una cierta tutela y utilización de las organizaciones del Tercer Mundo como el Movimiento de los No Alineados, durante la segunda mitad de la Guerra Fría. Apareciendo también, en este esquema de los años sesenta, el intento de crear, de la mano de Gamel Abdel Nasser la República Árabe Unida que englobaría Egipto, Siria y Yemen del Sur de orientación pro-socialista. O el régimen, también pro-socialista, del partido de Sadam Hussein en Irak. Viejos enemigos de Israel y de Occidente (aun cuando Sadam evolucionara hacia la otra orilla) hoy prácticamente neutralizados por la nueva política egipcia como aliada de los EEUU tras la desaparición de Nasser, los cambios en Siria, la demonización de Irak o la adscripción del Yemen al denominado "eje del mal".

Todos estos factores, todos estos cambios, hacen que la imagen real del Islam esté más próxima al modelo geopolítico que nos presentan, para las próximas décadas, los defensores de la tesis del "choque de civilizaciones", como elemento clave en las relaciones internacionales, que del modelo idílico da la aldea global, multicultural y con tensiones puntuales.

Choque de civilizaciones, choque de culturas, de concepciones políticas, porque el Islam, desde el punto de vista cultural y religioso, aunque entre ambos es imposible establecer en este mundo una clara disociación, es un espacio en constante expansión que hoy presenta, mereced al fenómeno migratorio, una importante capacidad de penetración en Occidente; donde es imposible calcular hoy la capacidad de influencia política que tendrá en un futuro más o menos inmediato debido a su incapacidad para integrarse masivamente en los modelos culturales y sociales de sus países de acogida, reconstruyendo en ellos, en cambio, sus propias entidades culturales y sociales (gracias, sobre todo, a las inyecciones monetarias del movimiento, de origen y financiación saudí, wahabí).

La expansión del Islam se ha hecho evidente con la desmembración de la URSS (Azerbaiyán, Turkmenistán, Kirguizistán o Kazajstán); con la guerra en los Balcanes o el conflicto de Chechenia, lugares donde ha aflorado salvajemente la cuestión religiosa; pero que también existía en el mundo musulmán con el proceso de destrucción del Líbano y la previsible persecución que se desate contra los cristianos maronitas en caso de la disolución, con el estallido de una guerra civil, del Irak.

Expansión que tiene como grandes áreas de acción la propia Europa, la antigua Unión Soviética y el África Negra. Expansión que conlleva la difusión doctrinal que tiene inmediatas repercusiones políticas, porque en este mundo, donde los regímenes laicos son una excepción, donde la alianza entre el Trono y la Mezquita es más que una mera imagen retórica o una reliquia heredada del pasado que se conserva para el ritual simbólico del Estado, no existe separación real entre ambas esferas, la política y la religiosa, y allá donde se ha producido los poderes públicos viven acosados por la expansión del integrismo islámico y la continua cesión a sus planteamientos. Un mundo en el que los procesos de secularización, aparentemente una de las señas de identidad del mundo moderno y actual, en vez de avanzar o consolidarse han retrocedido.

En gran parte del mundo islámico existe, en las esferas políticas, un claro divorcio entre la clase dirigente, en la mayor parte de los casos, occidentalizada o con claros deseos de serlo, y la inmensa mayoría de la población. Muchos de estos dirigentes, ya sean monarquías, dictaduras u oligárquicas democracias, se han transformado en auténticos esquilmadores de sus pueblos, aupados y sostenidos por Occidente. El ejemplo más claro es el de las llamadas petromonarquías de Kuwait, Qatar (donde se sitúa el mando americano en la zona) y Arabia Saudí, pero también lo son la monarquía marroquí o las monarquía jordana, que experimenta un claro proceso de reubicación. Gobernantes que mantienen enormes bolsas de pobreza paralizando cualquier reforma social. Frente a los problemas internos, muy similares en todos los países del Islam, las minorías dirigentes, sobre todos las últimas generaciones universitarias, que han abandonado la tentación del socialismo islámico, como el promocionado por el dirigente Libio en su difundido "Libro Verde", han vuelto la cara hacia las raíces de su propia civilización predicando un antioccidentalismo a ultranza que ha prendido en amplias capas de la población desde Pakistán a Marruecos. Es el fenómeno del integrismo, que no ha alcanzado mayores logros por su propia división.

Frente al fenómeno del integrismo, la mayor parte de los gobiernos del Islam, sólo han podido recurrir al mantenimiento de la situación mediante la represión (por ejemplo, se estima que más de 40.000 fundamentalistas se encuentran encarcelados sin juicio en Egipto), la suspensión de los derechos reconocidos en sus constituciones, y el establecimiento respecto a las manifestaciones públicas de un estado policial (Egipto o Jordania). No ha surgido en estos países, sin embargo, un movimiento, con implantación reseñable, que abogue por la puesta en marcha de regímenes democráticos siguiendo el modelo occidental. Quienes defienden esta postura lo hacen, usualmente, desde los países occidentales, no siendo ni tan siquiera una minoría con un mínimo de recepción en sus países de origen. La defensa de un sistema laico o de la implantación de los Derechos Humanos a la occidental es considerada una herejía por los islamistas. Por otro lado, cada vez que se han producido votaciones, con un mínimo de garantías democráticas, lo que se ha producido ha sido el crecimiento de los partidos islámicos, teniéndose que recurrir a la intervención militar para mantener el sistema (Turquía o Argelia).

El sistema de control que ejerce el poder sobre las gentes resulta cada vez más débil; las clases dirigentes se han mantenido en el poder gracias al mantenimiento de fuertes ejércitos para mantener la paz interior, a la alianza con el poder religioso y al dominio de los medios de comunicación. El panorama ha cambiado de forma acelerada en las dos últimas décadas. Hoy, los nuevos medios de comunicación, han permitido que la cadena de televisión Al Yazira, vehículo de difusión del integrismo, se haya convertido en el nuevo Corán para millones de musulmanes. También nos encontramos con la existencia de toda una generación de imanes, transformados en nuevos profetas, que han hecho del integrismo y del antioccidentalismo bandera de movilización.

Quedan, finalmente, los instrumentos supranacionales, la Liga Árabe y la Conferencia Islámica, pero conviene recordar que la primera fue creada y tutelada, durante décadas, por el Foreing Office británico, y que son organizaciones cada vez más desacreditadas, por su actitud en las cuestiones palestina e irakí, entre las masas musulmanas.

Todos estos factores, brevemente apuntados pero, evidentemente, mucho más complejos, han dado lugar a la aparición de un nuevo espacio geopolítico. Una zona, desde el punto de vista de los intereses occidentales, claramente inestable y que puede constituir, en el futuro, en función de su evolución, una clara amenaza para la estabilidad global del planeta.

Si se mira con atención un planisferio, el Islam presenta, pese a su fragmentación política, un bloque continuo de países que va desde la ribera oeste africana hasta el sureste asiático, penetrando, además, en una parte considerable del África Central. Este mundo tiene una envidiable posición estratégica sobre el Mediterráneo, el Mar Negro, el Mar Rojo, el Mar Caspio, el Mar Arábigo y el Océano Índico. Está presente en una importante área de intercambios mundiales, y, lo que es más importante, domina las vitales rutas del petróleo así como los principales yacimientos del mundo. Y el petróleo puede ser, tal y como sucedió en la crisis de los setenta, un arma tan eficaz, en el siglo XXI, como las fuerzas armadas americanas. El Islam es, también, un espacio en conflicto. Dejando a un lado el tema del fundamentalismo, pero sin obviar su importancia y sin olvidar su presencia en todos los puntos de tensión, nos encontramos con:

-primero, el choque armado de civilizaciones que se da en la falsamente cerrada guerra de Yugoslavia, en el conflicto chechenio (en cuyo fondo también está al cuestión del control petrolífero por parte de la República Rusa de la zona) y en las nuevas repúblicas surgidas tras la disolución de la URSS.

-segundo, con el conflicto entre India y Pakistán.

-tercero, el frágil equilibrio de Oriente Próximo, con los problemas derivados de la existencia de los regímenes de Irán e Irak y su incierto futuro, así como la necesidad de estabilizar el sistema político de la insostenible monarquía de la Arabia Saudí; una zona amenazada por los integrismos, inicialmente enfrentados, chií y wahabí.

-cuarto, por la cuestión Palestina, irresoluble ante el apoyo cerrado que occidente y los EEUU brindan a Israel, la continua vulneración de la recomendaciones de la ONU y la política de extermino que los judíos practican, desde hace décadas, con los asentamientos y campos de refugiados palestinos en Palestina, Jordania y el Líbano.

-quinto, por la presencia y desarrollo del terrorismo islámico vinculado al integrismo que ha gozado de la cobertura de países como Afganistán o el Yemen.

Una zona caliente donde quienes si tienen programas desarrollados de armas de destrucción masiva son Israel, Pakistán e Irán. Puntos de fricción a los que sumar las interminables guerras africanas

Frente a esta situación geoestratégica, considerando superado el sistema estratégico de defensa americano del cinturón de bases militares en torno al globo, muchas de ellas convenientemente situadas en este espacio, los EEUU están dispuestos a aplicar en la zona su nueva política, diseñada, en gran medida, por el equipo de Colin Powel cuando éste era Jefe del Estado Mayor del Ejército Americano. Se trata de la denominada "Estrategia de Defensa Regional" que ha venido a sustituir al antiguo esquema de acción de la Guerra Fría.

La aplicación de esta "Estrategia de Defensa Regional", al no existir un peligro global claramente definido, pasa por la intervención directa en los puntos de conflicto, reales o posibles, que puedan afectar tanto a los intereses americanos como a su concepción del sistema de defensa y seguridad colectiva.

En este marco, ante los previsibles cambios de las próximas décadas en el espacio islámico, desde los años noventa, los EEUU están diseñando un nuevo mapa que asegure, tanto el control energético, vital en los próximos años, como el control real de Oriente Medio. Para ello es preciso forzar cambios definitivos en Irak, Irán, Yemen y Arabia Saudí, variando todo el sistema de equilibrios de la zona inicialmente concebido para contener la influencia de la URSS y después para frenar la expansión de los chiíes. Un plan de largo alcance en el que el destino del Irak juega un papel esencial tras el inestable cambio impuesto en Afganistán. Pero un plan de contornos tan inciertos como de resultados imprevisibles.

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Francisco Torres García

vendredi, 03 avril 2009

El islam wahhabita

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El islam wahhabita

por Fernando José Vaquero Oroquieta

¿Es el wahhabismo consustancial al islam o es una desviación del mismo? Una aproximación a esta corriente fundamentalista musulmana que se encuentra en la base del terrorismo islámico internacional. Incluye unas notas sobre el Wahhabismo en España

 

Introducción.

El diario La Razón, en su edición del 11 de diciembre de 2002, afirmaba, en un artículo de su suplemento Fe y Razón, que el wahhabismo había alcanzado en Rusia la cifra de 100.000 adeptos, según las palabras alarmadas de Talgat Tayuddín, líder de los musulmanes rusos (cuyo número oscila entre 12 y 20 millones). Según las mismas fuentes, en parte a causa del vacío ideológico ocasionado por la caída del comunismo en la antigua Unión Soviética, algunas formulaciones islámicas radicales importadas, refiriéndose especialmente con ello al wahhabismo, crecerían entre los musulmanes de la Comunidad de Estados Independientes; lo que constituiría un serio motivo de inseguridad y temor.

Por otra parte, "no todos los musulmanes son terroristas suicidas, pero todos los terroristas suicidas musulmanes son wahhabitas", aseguraba recientemente el islamólogo Stephen Schwartz; señalando, así, una concreta genealogía en el origen del terrorismo islámico internacional.

En este contexto, en el que el término wahhabismo, antaño exótico patrimonio de minorías, es fuente de noticias periodísticas y sesudos estudios especializados, podemos preguntarnos: ¿qué es el wahhabismo?, ¿cuáles son las relaciones entre el islam y el wahhabismo?

Chiíes y sunníes.

Retrocedamos en la historia y situémonos en los orígenes de esta pujante religión monoteísta.

El islam experimentó en sus primeros años, ya en vida de su fundador, el Profeta Mahoma, una espectacular expansión territorial. Además, es en su primer siglo de vida cuando se establecieron las principales ramificaciones musulmanas; plenamente vigentes hoy día. Es también en aquellos primeros años cuando, con los cuatro primeros califas, se establece el texto definitivo del Corán. Igualmente, se realiza la primera recopilación de la Sunna, o colección de hechos y dichos de Mahoma según testigos directos de los acontecimientos. De ambos, Corán y Sunna, se deduce la sharia, o ley islámica, que regula el conjunto de actividades públicas y privadas de todo musulmán.

Esos cuatro primeros califas fueron líderes políticos, hombres de acción y autoridades espirituales: el ejemplo ideal al que miran los musulmanes de todas las épocas.

Con Alí, yerno del Profeta y cuarto califa, se produce la primera gran fragmentación entre los musulmanes; que nos llega hasta hoy mismo. Al morir Alí asesinado, sus seguidores crearon un partido, la Chía, considerando que los califas Omeyas que le sucedieron carecían de legitimidad. Los chiíes, aunque respetan la Sunna, no aceptan que sea de carácter sagrado, tal como hacen los demás musulmanes (denominándose sunníes). Por el contrario, los chiíes atribuyen mucha importancia a las enseñanzas transmitidas por los doce imanes sucesores de Alí. El duodécimo y último de tales –el Mahdi- no habría muerto, esperando su retorno. Entre el clero chiíta –conocido bajo el término de mullah- destacan algunos expertos en la interpretación de la sharia, denominados ayatolás.

El chiísmo se caracteriza, además, por cierta desconfianza hacia el poder político, logrando muchas simpatías entre los musulmanes no árabes, especialmente en Irán, donde son inmensa mayoría. La creencia en el retorno del Mahdi, el imán oculto, ha generado una esperanza mesiánica cuya venida se producirá en la Hora Final, implantando un Reino de Justicia, por lo que el martirio tendría un carácter redentor. Un sociólogo iraní, Alí Shariati, asoció ese mesianismo chiíta con determinadas ideas marxistas. De este modo, consideraba que el Mahdi liberaría a los parias de todo el mundo, proporcionando una perspectiva revolucionaria al chiísmo.

A mediados del siglo IX, entre los sunníes, surgieron cuatro corrientes interpretativas que cristalizaron en otras tantas escuelas jurídicas, todavía hoy, únicas aceptadas por los sunníes: hanafí (de Abu Hanifa, la más liberal), la malikí (de Malik), la xafeití (de Chaffi, especialmente vigorosa en Egipto) y la hanbalí (originada en Bagdad, la más rigurosa y en la que se gestará el wahhabismo).

En la actualidad, en torno al 85% de los musulmanes de todo el mundo son sunníes, un 10 % chiíta y el resto pertenece a grupos muy minoritarios (drusos y otros). De todas formas, suniíes y chiíes no están absolutamente separados; siendo sus diferencias, matizadas discrepancias en cuestiones de interpretación y de aplicación de la ley, tanto en su plano individual como colectivo.

En su choque con el mundo occidental de finales del siglo XX y principios del XXI, el islam, ya sea sunnita o chiíta, se manifiesta en buena medida como una corriente radical o extremista poliédrica.

Por ello, dada la multiplicidad de sus expresiones, algunos expertos en la materia diferencian dos corrientes dentro del radicalismo musulmán:

  • Integristas. Es el caso de los wahhabitas y los Hermanos Musulmanes, por ejemplo. Valoran la Tradición ante todo, aunque respetan lo positivo que le se haya podido añadir.
  • Los fundamentalistas. Caso del chiísmo iraní y de los talibanes afganos. Desprecian lo que no proceda de los preceptos literales.

Todos ellos comparten su creencia en la imperativa articulación de la Umma (comunidad de los creyentes), como efecto ineludible de la recta aplicación del islam. La Umma debe estar unida políticamente y liderada por una autoridad, simultáneamente, civil y religiosa. Tal concepción, en consecuencia, deslegitima a los Estados actuales. Es más, a su juicio, todo nacionalismo sería una forma de shirka (adoración de algo distinto de Alá).

La época dorada del islam, correspondiente al liderazgo de los cuatro primeros califas, es la referencia de todos los musulmanes. Para unos musulmanes, de esa experiencia primigenia, destacarían los aspectos sociales y externos, tendencia representada por las escuelas reformistas. Para otros, prevalecería el esfuerzo por la perfección espiritual; reflejándose especialmente en las corrientes sufíes.

El sufismo.

El sufismo es objeto de gran interés en Occidente, especialmente desde la llamada New Age, al encontrar allí sugerentes ingredientes espirituales susceptibles de oferta en el supermercado religioso actual.

El sufismo no es una tendencia política. Espiritualista y tradicional, propone al fiel musulmán una experiencia religiosa personal; llegándose a hablar, incluso, de un misticismo sufí. Políticamente asumen generalmente posturas conservadoras, pero sin propugnar alternativas concretas. En la época colonial, muchos sufíes encabezaron la resistencia frente a las potencias ocupantes en sus respectivos países, perdurando todavía hoy la memoria de su lucha.

El wahhabismo y el salafismo, corrientes ortodoxas reformistas e integristas, se oponen a las prácticas sufíes, al considerar que difunden ciertas formas de superstición y que, en la práctica, han facilitado la decadencia musulmana.

El sufismo es, ante todo, según los propios sufíes, profundización e interiorización personal del islam. Aunque algunos autores han visto influencias de la mística cristiana, para otros, tales afirmaciones carecen de todo crédito.

El término sufismo (tasawwf) viene de sûf, o hábito de lana que llevaban los sufíes de los primeros siglos.

Son numerosos los sufíes de prestigio que han creado escuela y cuyos seguidores se agrupan en grandes cofradías, algunas extendidas por todo el mundo musulmán, o predominantes en determinadas zonas geográficas. Hassan al-Basri sería uno de los primeros. Nacido en Medina bajo el califato de Omar, la tradición cuenta que recibió sus enseñanzas del propio Alí, yerno del Profeta. Rabî`a al-`Adawiyya, nacido en Basra (sur de Irak), en el siglo II de la Hégira, sería otro de los primeros grandes sufíes.

Los sufíes practican las virtudes de la pobreza (faqr), abandono en la voluntad de Alá (tawakkul), así como la práctica del Dzikr (mención del nombre de Alá) al que pueden acompañar estados de éxtasis y ejercicios de meditación (fikr).

Otros sufíes incidieron en la gnosis (Ma`rifa) o conocimiento de Alá, caso de Nûn al Misri. De Yunayd, sufí de Bagdad, donde vivieron los más célebres, es la siguiente clarificadora sentencia: "El sufismo es lo que Alá hace morir en ti y vivir en Él". Que el sufismo fuera aceptado en su día, es mérito, en buena medida, de Al-Gazzâlî (1058-1111). Otro maestro sufí de Bagdad fue Abd-al-Qâdir al-Yîlâni (1077-1166), quien fue conocido como "Sultán de los Awliya" (íntimos en el saboreo de Alá). De Andalucía procedía Abû Madyan Shu’ayb. También andalusí era Muhhy d-Dîn ibn Arabî, autor de numerosos textos en los que trató la Doctrina de la Unidad del Ser.

Expresión fundamental del sufismo es la existencia de las llamadas cofradías, o Turûq (plural de tarîqa o vía espiritual). Las conforman los seguidores de determinados maestros sufíes, tal como señalábamos más arriba. Tal vez la más conocida sea la Mawlawî, de la que proceden los famosos derviches danzantes popularizados gracias al turismo masivo europeo practicado en Turquía. Las cofradías sufíes son numerosísimas, siendo su importancia en algunos casos enorme. Así, por ejemplo, varios de los rectores de la Universidad Al-Azhar de El Cairo, que goza de una indudable autoridad en el islam sunnita, han sido sufíes seguidores de uno u otro maestro. Otro caso llamativo, de celebridad sufí, es el de Abd al-Kader, líder de la resistencia argelina frente a los franceses. Por su parte, la cofradía u orden de los Sanûsiya, aunque de origen sufí, tiene gran parecido con el wahhabismo; así el sentido guerrero, su austeridad y el espíritu de sacrificio. Desempeñaron especial protagonismo en la lucha contra el colonialismo en el norte de África (Francisco Díaz de Otazu les ha dedicado un artículo en el número 63 de esta publicación digital). En Asia destaca la cofradía Naqshabandiyya. Fundada en el siglo XIV, se extiende desde Bujara a Turquía, desde China a Java, protagonizando el esfuerzo misionero musulmán en aquellas alejadas tierras.

Vemos, con todo ello, que el sufismo, como camino interior (bâtin), también ha influido en el exterior y la acción (zâhir).

El reformismo musulmán.

En el seno de la gran corriente salafiya (de salaf, grandes antepasados), que promueve la renovación islámica (nadha), surgen los llamados movimientos reformistas.

El wahhabismo es una forma de interpretación estricta del Islam que nace de la mano de Mohamed Ibn Abdul Wahhab y que pretende, al igual que los demás reformistas, la vuelta a la pureza de la época dorada del islam.

De esta forma, reformismo, integrismo y fundamentalismo, sin ser conceptos análogos, en buena medida coinciden.

Los reformistas afirman que sólo la aplicación de la sharia garantiza el orden moral de la comunidad de los creyentes. En ese sentido, todo gobierno es ajeno al espíritu musulmán, especialmente los de factura occidental. Sí serían auténticos gobiernos islámicos, por el contrario, los de los cuatro primeros califas, "los que caminan por el camino recto" (Rashidun): Abu Bekr, Omar, Othman y Alí, tal como veíamos al principio de este artículo.

La restauración del verdadero islam exige esfuerzos de todo tipo (yihad), tanto personales como colectivos, espirituales y materiales; lo que puede llegar a justificar la guerra, siendo su objetivo, en todo caso, la ordenación de toda la convivencia hacia lo justo, prohibiendo lo que consideran impuro. Esto supone el empleo del poder político, sin complejos, desde la fidelidad al Corán y a las tradiciones islámicas (hadits).

El reformismo, en la actualidad, es la principal corriente del islam y se caracteriza por una serie de rasgos comunes:

  • El islam afecta a todas las dimensiones de la vida, determinando, por tanto, la política y la sociedad.
  • La decadencia y parálisis de las sociedades musulmanas fueron consecuencia de su alejamiento del islam.
  • El islam viene determinado por el Corán, las tradiciones islámicas y las realizaciones de la primitiva comunidad musulmana.
  • El deber de todo musulmán es la yihad.
  • El islam es compatible con la tecnología y la ciencia moderna.
  • La restauración del islam exige la lucha de todo musulmán, integrado en organizaciones establecidas con tal fin.
  • La restauración del islam exige la vía de una revolución política y social.

El actual islam radical asume como propio todo este caudal reformista, al que matiza con varias precisiones:

  • El islam es víctima de una conspiración judía y cristiana. Occidente es el enemigo declarado del islam.
  • Un gobierno musulmán es legítimo es tanto aplique estrictamente la sharia.
  • Cristianos y judíos son considerados infieles; no como pueblos del Libro.
  • Todos los que se resisten al islam, ya sean musulmanes o no, son enemigos de Dios y merecen ser castigados con rigor.

Los reformistas entendieron que se había producido, históricamente, una profunda crisis en las sociedades musulmanas, lo que derivó en la desintegración del poder político, la paralización de la economía y de la ciencia, un estancamiento de la vivencia religiosa y una disminución de la creatividad artística. Todo esto habría coincidido con la eclosión de las potencias occidentales colonialistas; siendo víctimas de su política la mayor parte de los pueblos de tradición islámica. Por ello, la crítica a los regímenes coloniales constituye otra de las novedades del pensamiento reformista, siendo la lucha contra el sionismo, en la actualidad, una continuación de la lucha anticolonial.

Los movimientos reformistas son movimientos sociales antes que políticos; siendo ésta una característica fundamental para entender su naturaleza. Su objetivo principal es la formación de musulmanes piadosos, estudiosos del Corán y que practiquen el proselitismo a través de la predicación y las obras caritativas.

Todos los reformistas propugnan un estado islámico, es decir, gobernado por la ley islámica (la sharia). Ésta, al tener su origen en la revelación divina, no puede ser ni desarrollada ni cambiada: hay que aplicarla, pues debe ser aceptada sin crítica. La sharia es, igualmente, infalible, según los islamistas. Realmente, no hay codificación de la sharia.

El principal reformador fue Jamal al-Din al-Afghaní (1839 – 1897). Hay discrepancias sobre su lugar de nacimiento: en Irán según unos y en Afganistán según otros. Estudió en la India, viviendo la guerra civil de Afganistán en 1866. Se trasladó a Estambul, pero al año tiene que partir para Egipto a causa de las enemistades ganadas entre los clérigos musulmanes tradicionales. De 1871 a 1879 permaneció en El Cairo, rodeándose de un grupo de intelectuales musulmanes. Allí entra en la masonería, de donde es expulsado por su oposición al colonialismo. De nuevo vive en la India durante casi tres años. De allí se trasladó a París, donde fundó la revista Al–orwa al–wothqa ("el vínculo indisoluble"), recogiendo, en sus 18 números editados, los principios fundamentales del reformismo. Viajó a Irán, después lo hará a Rusia en 1889. En 1892 viaja a Inglaterra. Allí publicó artículos muy virulentos contra el sha, quien fue asesinado unos años mas tarde a manos de un discípulo de Jamal al–Din. Murió en Estambul. Su principal texto es el libro Refutación de los materialistas. Del wahhabismo se diferencia en su mayor conciencia crítica ante el desafío occidental.

Entre sus discípulos destacó el egipcio Mohammad Abdoh, quien reformó la futura universidad cairota de Al–Azhar. A partir de entonces, reformismo musulmán y política, en particular la lucha frente a las potencias coloniales, se mezclan de forma indisoluble.

Como consecuencia de su gran influencia floreció, inmediatamente, un importante elenco de intelectuales reformistas en todo el mundo musulmán, incluida la India.

Otro importante movimiento se enmarca dentro del gran río del reformismo: los Hermanos Musulmanes. Fundado por otro egipcio, Hassan Al Banna (1906 – 1949), se trata de un movimiento muy organizado y activista, que arraigó especialmente en Egipto, pero también en Siria, Palestina y otros países musulmanes. A su entender, la Umma es una sola nación, debiendo volver a las enseñanzas del origen del islam para recuperar su grandeza. A su muerte le sucedió Sayyid Qutb (1906-1966), quien murió ahorcado. Consideraba que el islam contiene un compendio suficiente de recetas para resolver los grandes problemas de toda época. Juzgaba que para la aplicación de su programa era imprescindible una revolución política. Los Hermanos Musulmanes fueron perseguidos, en Egipto, por Nasser y sus sucesores. En Siria también sufrieron una gran persecución de la mano del fallecido presidente Assad y su partido laico Baas.

El wahhabismo.

El wahhabismo estructura por completo la sociedad de Arabia Saudita y por ello es bastante conocido a través de los medios de comunicación, al menos, en sus rasgos externos. De hecho, aunque cuenta muchos seguidores en otros países islámicos, esta interpretación estricta sunnita únicamente se ha impuesto, por completo, en Arabia Saudita.

Mohamed Ibn Abdul Wahhab (1703 – 1787) es el teólogo que, en la tradición procedente de Ibn Hanbal (780 – 855) y de Ibn Taymiya (1263 – 1328) formuló esta corriente. La escuela jurídica hanbalí –ya lo hemos visto- es la más rigurosa de las cuatro existentes en el islam sunnita. Establece que la sharia proviene exclusivamente del Corán y de la sunna, o seis compendios de hadits (tradiciones complementarias del Corán, que recogen los hechos y las palabras de Mahoma). Rechaza todos los hadits y la jurisprudencia no coránica.

Mohamed Ibn Abdul Wahhab nació en Neyed, una provincia del centro de la península arábiga. Estudió en Medina, Irán e Irak. De regreso a su tierra, propugnó el retorno a un islam purificado. Organizó la comunidad de los "unitarios" (vinculados al principio de la Unidad divina), ganando numerosos adeptos a los que señaló unas creencias simples y un código moral muy estricto.

Sus creencias se pueden resumir en los siguientes principios básicos:

  • Sólo Alá es digno de adoración.
  • Las visitas a las tumbas de sabios y santos son ajenas al verdadero islam. De ahí arranca su profundo rechazo a las prácticas sufíes.
  • La introducción de nombres de santos en las oraciones equivale a incredulidad.
  • Cualquier creencia ajena al Corán, la Sunna, o deducciones de la razón, es equivalente a la incredulidad, lo que debe ser castigado con la muerte.
  • Cualquier interpretación esotérica se asimila a la incredulidad.

Se impuso la asistencia obligatoria a la oración colectiva en las mezquitas mediante medidas policiales, prohibió el alcohol, el tabaco y afeitarse la barba. Aplicó la sharia de forma literal (incluidas las penas corporales) según la escuela jurídica hanbalí. Mohamed Ibn Abdul Wahhab convirtió a su causa al emir Mohamed Ibn Saud, cuyo hijo, Abd al–Aziz, conquistó toda Arabia, amenazando Alepo, Bagdad y Damasco. Derrotado por un ejército egipcio, fue decapitado en Estambul.

Rebelándose contra la religiosidad decadente de los turcos, anteriores custodios de las mezquitas de La Meca y Medina, la reforma religiosa wahhabita se tiñó también de un marcado color político.

Pero su recuerdo perduró y otro líder árabe, también llamado Abd al–Aziz (conocido como Ibn Saud), en torno a 1926 fundó la moderna Arabia Saudita, con Medina y La Meca, a la vez que implantaba un islam riguroso según la interpretación wahhabita.

Arabia Saudita.

En Arabia Saudita, en la actualidad, predomina el wahhabismo en su aplicación estricta: mantiene la segregación de las mujeres, prohibe los cines públicos, no permite la conducción de vehículos por mujeres, cualquier práctica religiosa no musulmana en público o privado es perseguida, prohibe las cofradías místicas y el sufismo, aplica un código penal que acepta la amputación de la mano por robo, la flagelación, la lapidación, etc. Para mantener esas normas se creó la Mutawwa´in, una policía de carácter religioso.

Pero la familia reinante, dada su vinculación internacional con Estados Unidos de América, ha sido cuestionada por otros sectores islámicos de dentro y fuera. La ocupación de La Meca en 1979 fue consecuencia de esas graves tensiones internas. También el asesinato del presidente egipcio Sadat se enmarca en las tensiones planteadas por quiénes propugnan un islam purificado. Sin embargo, el magnicidio del rey Faisal de Arabia Saudita el 25 de marzo de 1975 a manos de un sobrino, si bien no está aclarado en sus motivaciones últimas, no parece que tenga ese mismo origen.

La presencia en suelo saudí de 35.000 norteamericanos, con motivo de la guerra del Golfo, suscitó las críticas y el resentimiento de un sector muy radical de ulemas y jeques sunnitas, wahhabitas radicales. En ese malestar podemos encontrar el caldo de cultivo del movimiento de Osama Bin Laden.

Expertos politólogos en la zona afirman que es una simplificación explicar la situación de este país como un enfrentamiento entre partidarios de Estados Unidos y radicales wahhabitas.

Desde 1744 se practica una alianza entre legitimidad religiosa y poder político: la familia real, los al-Saud, ostenta la legitimidad religiosa como protectora de la fe. Esto implica una serie de obligaciones.

Por otra parte, Arabia Saudita no presenta una realidad tan uniforme, tal como pueda parecer desde el exterior, afirman expertos en el área. Así, aseguran que existe de hecho cierto pluralismo: la ortodoxia wahhabita convive con algunas corrientes sunníes reformistas, grupos minoritarios chiíes, un movimiento opositor sunnita salafita y la pervivencia de prácticas sufíes en algunas zonas del país.

Esas tensiones internas no han impedido que, con el inmenso capital procedente del petróleo, desde Arabia Saudita se impulse al islam misionero de múltiples formas y en todo el mundo, habiéndose convertido en una de sus fuentes de financiación más importantes.

Las autoridades religiosas de La Meca –su Consejo de Ulemas- mantienen, además, una gran autoridad en todo el mundo musulmán. Sus ingresos petrolíferos permiten sufragar la peregrinación a La Meca de millones de musulmanes de todo el mundo. Construyen numerosas mezquitas y centros asistenciales, especialmente en África subsahariana, manteniendo a cientos de miles de refugiados palestinos. Igualmente, financian la construcción y el mantenimiento de enormes mezquitas en Europa (como la madrileña situada en la M-30 y, próximamente, otras en Barcelona, Las Palmas y Málaga), así como la expansión musulmana en Filipinas y Asia central.

¿Qué relaciones mantiene con las guerrillas y los grupos armados islamistas? Se trata de una cuestión muy compleja. En ese sentido, se ha señalado la posible alianza, en su día, entre importantes representantes del wahhabismo actual y el Frente Islámico de Salvación argelino. Y no olvidemos que el primero que reconoció al nuevo gobierno talibán de Afganistán, junto al de Pakistán, fue Arabia Saudita. También se ha señalado la confesionalidad wahhabita de buena parte de los dirigentes guerrilleros chechenos. Respecto a las incuestionables vinculaciones de algunos miembros de la numerosa familia real saudí con Osama Bin Laden, no es fácil determinar si tales apoyos son consecuencia de la mera solidaridad familiar o el fruto de comunes convicciones ideológicas. Lo que es indudable es la procedencia wahhabita de la mayor parte de dirigentes y demás integrantes de la red terrorista internacional Al Qaeda.

Otras presencias del wahhabismo en el mundo.

Nos asomaremos, brevemente, a su incidencia en Asia central y en los territorios de la antigua URSS; por su importancia estratégica y por tratarse de naciones en proceso de consolidación y de búsqueda de su identidad colectiva.

Empezaremos por los territorios de mayoría musulmana de la Federación rusa.

En Daguestán el wahabbismo ha chocado frontalmente con el sufismo, lo que supuso una auténtica guerra civil entre 1995 y 1998. En Osetia del Norte también ha hecho acto de presencia, mientras que en Ingushetia, Kabardino-Balkaria y Karachaevo-Circasia, las respectivas autoridades locales, de convicciones laicas, han intentado prevenir su penetración. Adigueya es la región menos islamizada del entorno.

El presidente de Chechenia, Aslan Aliyévich Masjádov, proclamó la República islámica el 5 de noviembre de 1997. El 11 de enero de 1999 anunció una nueva constitución y el 4 de febrero estableció la sharia como la única fuente del derecho checheno. Pese a ello, en los años anteriores, se había opuesto a los sectores que habían adoptado el wahhabismo (caso de Shamil Basáyev y Salman Radúyev), apoyándose en la tradición sunnita practicada en la zona, más próxima a las cofradías sufíes. El 5 de julio y, posteriormente, el 7 de agosto, grupos guerrilleros wahhabitas penetraron en Daguestán. Pese a ser derrotados por las fuerzas federales rusas, sirvió como motivo, junto a los atentados con bombas en Moscú, para el inicio de la segunda guerra ruso-chechena; generalizada al invadir las tropas rusas Chechenia el 30 de septiembre. Todavía hoy continúa la guerra, persistiendo núcleos terroristas en algunas zonas aisladas del interior de Chechenia y en países limítrofes. Con motivo de los atentados con bombas de Moscú, fue identificado como responsable de los mismos Atchemez Gotchiyev, un wahhabí natural de Karachaevo-Circasia. Su lugarteniente era Denis Saitakov, un uzbeko de madre rusa, que había estudiado en una escuela coránica de la república de Tatarstán y que se había entrenado en Chechenia bajo las órdenes del comandante Amir Jatteb, otro mítico guerrillero wahhabí, al parecer jordano.

Hace unos meses la Universidad Islámica de Rusia, localizada en el Tatarstán, un territorio que forma parte de la Federación rusa y que se caracteriza por un marcado acento laicista de total subordinación de la religión al poder político, licenció a su primer grupo de estudiantes coránicos. Estos licenciados pasaron a mezquitas y centros educativos de diversos lugares de Rusia, para atender a parte de los 20 millones de musulmanes que viven en la república. Su rector, Abdurrashid Jazrat Zakirov, afirmó que el wahhabismo está excluido de los planes de estudio. Las autoridades rusas vienen apoyando esta institución para prevenir la penetración de las corrientes wahhabitas.

En Uzbekistán las autoridades locales apoyan a la orden sufí Naqshabandiyya, en un intento de contrarrestar al fundamentalismo musulmán. Dicha orden lideró la lucha antirusa desde la ocupación por los Zares. Este empleo del sufismo local viene de lejos. Durante años, el NKVD y el KGB gobernaron Chechenia–Ingushetia con la ayuda de los dirigentes de dicha orden local sufí. Por ello, muchos musulmanes acusaron a los sufíes locales de colaboracionismo con las autoridades ateas y comunistas. Doku Zavgayev, presidente del Soviet Supremo de Chechenia-Ingushetia en 1990 y cabeza del gobierno pro-ruso en 1996 en Chechenia, era miembro de la orden Naqshabandiyya.

En Kazajistán y en Kirguizistán también se han detectado labores de proselitismo wahhabita, si bien las autoridades políticas intentan detener ese avance mediante el control de las autoridades religiosas.

Azerbaiyán cuenta con un 70% de población chiíta. El islam, desde el desmoronamiento del comunismo, también ha avanzado públicamente allí, si bien existe una división entre las elites: quiénes miran a Irán, modelo de teocracia islámica y quiénes lo hacen hacia la vecina Turquía y su modelo occidental y laico.

Tayikistán ha sufrido durante años el acoso constante de guerrillas fundamentalistas, favorecido por la proximidad de Afganistán. También allí predomina la cofradía sufí local Naqshabandiyya.

¿Incide el wahhabismo en el vecino Marruecos? Allí predomina el malekismo oficial. Con todo, algunos ulemas han pedido a Mohamed VI que defienda la "soberanía del culto" marroquí, en tanto que "Príncipe de los creyentes", frente al pujante wahhabismo; todo ello según recientes informaciones de elsemanaldigital.com.

Wahhabismo en España.

El wahhabismo, estamos viendo, desarrolla una ofensiva en todo el mundo siguiendo cuatro líneas de acción: expansión misionera mediante cuantiosas inversiones en el África subsahariana, reislamización de los musulmanes de las antiguas repúblicas soviéticas, progresivo control de los musulmanes emigrados a países no islámicos y captación al islam de antiguos cristianos. España, en su contexto, no permanece ajena a tal ofensiva.

Podemos destacar tres factores claves de la situación del islam español: la división de las entidades y organizaciones musulmanas, la pertenencia al sunnismo moderado de la mayoría de los fieles aquí radicados (siendo su grupo principal el de los procedentes del vecino Marruecos), y el chorreo de dinero saudita. En estas circunstancias, el wahhabismo empieza a gozar de cierto predicamento en las mezquitas españolas, si bien existen numerosas organizaciones y entidades islámicas de todo tipo: cofradías sufíes, asociaciones de conversos españoles, grupos chiíes… lo que parece indicar de momento un islam poco monolítico y plural.

Precisamente, esta circunstancia de fragmentación asociativa quiere ser aprovechada por las autoridades wahhabitas, según informó recientemente el diario La Razón en un interesante estudio de R. Ruiz y C. Serrano. El primer paso en su estrategia expansionista sería la constitución y control de un Consejo Superior de Imanes de España, ya en tramitación, dotado de capacidad para la emisión de dictámenes de jurisprudencia islámica (fatwas) y concebido como la "autoridad religiosa islámica, científica y total". Uno de sus instrumentos sería la construcción de nuevas mezquitas. Así, se unirían en los próximos años a las ya construidas en Marbella y Madrid, la proyectada en Barcelona y otras en Las Palmas de Gran Canaria y Málaga (ciudad a la que se desplazó el Ministro de Asuntos Islámicos de Arabia Saudita para supervisar proyectos cuantificados en cuarenta millones de dólares). Esta estrategia estaría coordinada por el director del Centro Islámico de Madrid, contando con el apoyo del Consejo Continental Europeo de Mezquitas, la Liga Islámica Mundial, la Organización Rabita y la Comisión del Waqf Europeo. Su labor se complementaría con la formación científica y teológica de los futuros imanes (generalmente, de escasa capacitación) en las doctrinas wahhabitas y una generosa financiación.

En la mencionada crónica se informaba, igualmente, de la lucha interna existente dentro de la principal organización islámica española, la Federación Española de Entidades Religiosas Islámicas, por el control de su liderazgo; pugna en absoluto ajena a las actividades de los hombres del wahhabismo en España. En todos estos planes, de extensión de la hegemonía wahhabita en España, particularmente en Málaga, ocuparía una posición clave el imán Mohamed Kamal Mostafa, director de la mezquita de Fuengirola, quien justificó en un libro el maltrato de las mujeres por sus maridos, generando con ello una gran controversia en los medios de comunicación españoles.

Algunas reflexiones finales.

Buena parte de los gobiernos de Oriente próximo han procurado evitar el contagio del fundamentalismo en sus distintas vertientes –chiíta, wahhabita, salafita- mediante una islamización de las leyes, alejándose de esta manera de los modelos occidentales. Sin duda, tales medidas han contribuido a transformar profundamente esas sociedades musulmanas.

El islam avanza, en mayor medida o menor medida, en todo el mundo. Sorprende, por ejemplo, el aumento de conversiones al islam producidas entre los afroamericanos de Estados Unidos; recordemos a la organización Nación del Islam, protagonista de espectaculares movilizaciones multitudinarias. Pero también se han producido captaciones entre miembros de otras etnias; incluso de anglosajones (¿recuerdan al talibán norteamericano?). Igualmente, encontramos incipientes comunidades musulmanas en lugares tan poco proclives, aparentemente, al islam, como es el caso de Perú.

La creciente presencia musulmana también preocupa en Europa desde la concreta perspectiva de la seguridad, pues esas comunidades podrían contagiarse del afán misionero de sus hermanos en la fe y ensanchar en el futuro una fractura social, ya existente, sin precedentes. De hecho, ha generado una profunda preocupación la facilidad con la que se han desenvuelto en Europa los distintos integrantes de la red internacional de Al Qaeda implicados en los atentados del 11 S, gracias al apoyo que han encontrado en medios islámicos. Frente a unas incipientes y jóvenes comunidades, unidas por su fe islámica, la población autóctona europea se caracteriza por un progresivo envejecimiento y por carecer de firmes convicciones sin aparente ambición de futuro. El discurso ideológico predominante en Europa, "políticamente correcto", habla, ante todo, de tolerancia, multiculturalismo y pluralismo; ignorando los profundos desajustes sociales existentes y la realidad de unas comunidades cerradas, herméticas e impermeables a los principios oficiales de una laicidad neutra. En este complejo contexto, el joven islam europeo puede plantear, en un futuro inmediato, imprevisibles desafíos de indudables efectos sociales y políticos.

Bruce B. Lawrence, jefe del Departamento de Estudios Religiosos de la Universidad de Duke, aseguró recientemente que Osama Bin Laden "tiene secuestrado al wahhabismo". A su juicio, es la pureza espiritual el objetivo del wahhabismo, mientras que las concomitancias militaristas de Osama Bin Laden lo aproximarían al fascismo, una ideología ajena al islam.

Es decir, para algunos, el wahhabismo es rehén de Bin Laden y sus extremistas. Para otros, ya lo veíamos en palabras de Stephen Schwartz, al contrario, Bin Laden y Al Qaeda son su consecuencia. En cualquier caso, nos enfrentamos a una situación nueva, dramática y universal, cuyas implicaciones religiosas, sociales, políticas, estratégicas, económicas y de seguridad, no alcanzamos, todavía, a vaticinar en todo su alcance.

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Fernando José Vaquero Oroquieta

mardi, 24 février 2009

Scholasticism, Protestantism, and Modernity

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Scholasticism, Prostestantism, and Modernity

Paul Gottfried

 

Protestantism rose on the downfall of scholasticism, and Protestantism, in turn, led to the demise of hierarchy and the rise of individualism.

A curious but significant byproduct of the Protestant Reformation was moral support for what became middle-class modernity. This connection is particularly remarkable inasmuch as reformers Martin Luther and John Calvin sought to restore a Christian community, not to build a new civilization. What they found objectionable about the medieval church was not its traditionalism but its pagan and nonbiblical character. They attacked the attempt by Catholic philosophers Albertus Magnus (1200--1280) and Thomas Aquinas (1225--1274) to import Aristotelian philosophy into what should have been biblically based Christianity.
       
       The reformers objected to the scholastic view that people, despite Original Sin, could improve their character through moral effort. Indeed, they insisted on the bondage of the will to man's natural state of depravity, a condition that could only be improved through the infusion of divine grace. And this grace was given not in response to human exertion but as an outside work (opus extrinsecum) for which fallen beings could only wait and pray. Though this apparently fatalistic understanding of redemption underpinned Calvin's theology more explicitly than Luther's, it was nonetheless present in both. A radical conception of human sinfulness, partly derived from Saint Augustine, pervaded Reformation thinking. Total human corruptness necessitated a dramatic form of divine redemption, which each individual had to experience to know that he was saved.
       

Scholasticism and Modern Rationalism
       
       In some ways the scholastic thinking characteristic of European universities in the twelfth and thirteen centuries seems closer to modern rationalism than does Reformation theology. The schoolmen believed that the good was knowable through right reason, that knowledge about the existence of God was accessible to human understanding, and that pagan rhetoric and philosophy were appropriate for the education of Christians. Although medieval schoolmen did not deny the doctrine of Original Sin or the need for grace to move toward a Christian life, they considered the sacraments and instruction of the church sufficient for that end. The sin of Adam did not irreparably destroy human character, but once washed away with baptism, inborn sin would not prevent us from developing our moral capacities, through learning and useful habits.
       
       Understandably, critics of scholastic thought, which reached its greatest influence in the late thirteenth century, accused its proponents of pagan, rationalist tendencies. From Franciscan mystics like Saint Bonaventure through Nominalist philosophers in the fourteenth and fifteenth centuries down to the great thinkers of the Reformation, the criticism was heard that the schoolmen minimized the experience of faith and ascribed excessive importance to theological reasoning. Though Thomas Aquinas, for example, argued in the Summa Theologica that belief in God might result purely from faith (credibilia), he nonetheless also provided five proofs for God's existence, one of which derived from Aristotelian physics. Like other schoolmen, Aquinas insisted that "the philosopher" could lead Christians to some if not all theological truths.
       
       Even more important for the history of ethics, Aquinas and other schoolmen related rules of conduct to moral reasoning. God as the source of all being, as underlined in Thomas' Expositio super librum Boethii, provided both natural cognition (lumen naturale) and supernatural revelation (lumen supernaturale). Each was made available to clarify divine truth, and by the operation of universal reason as well as by biblical morality, humans were capable of forming proper ethical decisions, outside as well as inside a Christian society. Moreover, despite the fall of Adam, both the natural and social worlds gave evidence of an order (ordo mundi) that pointed back to a divine Author. Following Aristotle's notion of design, Aquinas insisted that the world was intelligible to our intellects because both were products of divine Reason. Human minds trained to think could apply "right reason" to moral questions, arrive at "prudential judgment" regarding the social good, and grasp the interrelatedness of the physical world.
       
       Despite the apparent entry point that some have found here into a modern, scientific rationalist culture, there are qualifications to be made before assuming such links exist. As the German social thinker Ernst Troeltsch explains in Protestantism and Progress (English translation 1912), the scholastic worldview most fully articulated by Aquinas was inextricably linked to medieval society. It assumed ranks and an order of authority characterized by ecclesiastical and temporal hierarchies, both of which were seen as necessary for human well-being. The Thomistic ordo was not a collection of individuals in search of divine and rational truths. It was held together by organic social relationships based on statuses. The temporal served the ecclesiastical, the physical laborer the contemplative, and the knight his lord.
       
       Economic transactions, like other social transactions, were fixed in terms of hierarchical design perceived to be present throughout creation. Commerce was to be regulated by its assigned purpose, satisfying specific material needs: It was to be practiced in accordance with a "just price" that could be calculated with regard to cost factors but that prohibited the taking of interest (prodesse faenore).
       

The Deconstruction of Scholasticism
       
       What happened in the postscholastic West culminating in the Reformation was the progressive deconstruction of this scholastic outlook. Particularly in the Nominalist tracts of the Oxfordian Franciscan monk William of Ockham (1280--1349), whose thinking marked Luther and other Protestant reformers, the scholastic ordo is subjected to relentless criticism. For Nominalists like Ockham, there is no harmonious synthesis of reason and faith, nor necessary correspondence between God's mind and the social order. If religious propositions or ethical precepts were held to be true, one had to accept them finally on faith. For critical reason, maintained Ockham, was there to challenge and discredit received truths, and the unconditional reality that the schoolmen had attached to justice, goodness, and other ideals to which they appealed were merely names (nomina) awarded to the objects of our perception.
       
       God Himself, as conceptualized by the Nominalists, was essentially absolute will. Those laws or regularities through which He controlled creation were the products of divine volition. What was perceived as rational or moral truths, according to Ockham, flowed from this will. But here, too, one had to accept the possibility that what was thought to be certain would turn out to be a figment of our minds upon further examination. Nominalist thinking encouraged both skepticism and faith to the extent that it presupposed a yawning gulf between divine truth and human reasoning.
       
       The Reformation added to this deconstructed scholasticism two critical elements, a positive theology and implied social teachings that were incompatible with the Thomastic-Aristotelian order. Drawing on Saint Paul's Letter to the Romans, Luther and Calvin both proclaimed that Christians are justified by faith, independently of any work or sacrament. Nor was reason essential to this process inasmuch as the believer is saved from damnation by faith alone, as the inner certainty of divine election. This Reformation view of the Christian life, as an attempt to find evidence of divine favor from within, was conducive to modernization in ways that could not have been fully grasped in the sixteenth century.
       

Protestantism's Attack on Hierarchy
       
       Looking at Protestantism's modernizing effect over a period of centuries, Presbyterian theologian and political thinker James Kurth observes (Orbis, Spring 1998): "All religions are unique, but Protestantism is more unique than all others. No other is so critical of hierarchy and community, or of the traditions and customs that go with them."
       
       Already in Luther's germinal writings as a reformer in 1520--21 were stated Protestant ideas that would bring forth cataclysmic social consequences. The "priesthood of all believers," the repudiation of a spiritual difference between clergy and laity, the need for each individual to develop a personal relationship with Christ, the irrelevance of the sacramental and legal structure of the church in gaining salvation, the equal sanctity of all honorable vocations, and the demand that all Christians have access to the Bible as God's proffered word were more than religious stands. They were points of departure for a social and cultural transformation. However much Luther opposed social disobedience and denounced a peasant's revolt in Germany that cited his work, the Reformation was, as later Catholic counterrevolutionaries described it, an invitation to level down. Or, as James I of England responded to a suggestion that the Presbyterians be allowed to form the state church in England, "no bishop no king."
       
       But the revolution advanced by Protestant thought did not lead to perpetual revolution. Rather, Protestantism contributed to the bourgeois civilization out of which constitutional republics, limited monarchies, and free-market economies all came, directly or indirectly. Numerous scholars have explored this relationship, and one distinction to be made among them is between those who argue from unintended consequences and those who do not. Clearly in the first category is the great German sociologist Max Weber, who in 1893 examined the connection between Calvinist moral theology and the "capitalist spirit." According to Weber, Calvinists did not set out to accumulate wealth or to reinvest it for profit. They moved in this direction because their search for signs of divine grace, together with their belief in the equal dignity of all vocations, predisposed them toward commercial and banking activities. By serving God selflessly in their work and prospering, they were able to convince themselves of their predestined grace. And instead of practicing monastic discipline, as in Catholic cultures, Calvinists carried ascetic habits into middle-class roles, living abstemiously and cultivating the Protestant work ethic.


       
Protestantism and Subjectivism
       
       Against this view of unintended consequence, others have contended that Protestants laid the foundations of modern society more deliberately. Thus Hegel argued that Protestants created a modern consciousness by stressing the "subjectivity" found in the New Testament. Although individual self-awareness was always present as a value in that text, historical conditions did not favor its emergence as a dominant religious value until the sixteenth century.
       
       More recently, American social historian Benjamin Nelson has linked the beginnings of sustained banking capitalism to the rejection of the Hebraic ban on taking interest. Nelson finds this view emphatically stated in Calvin's Institutes and presents Calvin as the first biblical exegete to distinguish commercial investment from loans made to the destitute. It was only the latter, Calvin properly observed, that is forbidden in Deuteronomy. On a similar note, Troeltsch had ready commented on the opening of society to commercial activity caused by the Protestant assault on medieval Christendom. Not the result of any single theological reinterpretation, this change occurred because of a general attack on the Christian-Aristotelian worldview and on the sacramental hierarchy it undergirded.
       
       In a detailed study of Protestantism's unintended consequences, Weber noted the changed view of nature and work produced by the Reformation, particularly by the Calvinist teachings of, among others, Weber's own French Protestant ancestors. The Calvinist search for signs of divine election, maintained Weber, not only nurtured the psychology and practice of capitalism but enforced the belief that the world existed for the sake of the elect, who could both comprehend and exploit nature and society. Weber saw rationalism and secularism as two consequences of Calvinist moral theology. Confronting a divinely created world that, according to Genesis, was placed at the disposal of mankind, and hoping to relate that world to one's personal spiritual experience, Weber's Calvinist tried to make the outside world fit his own needs as one of the elect. The Calvinist observer felt no sense of mystery in the presence of nature but rather viewed it as something to be mastered in glorifying God and enhancing his own certainty of salvation.
       
       Moreover, the Protestant stress on reading and discussing the Bible did not lead to the contempt for intellectual analysis shown by Luther when he referred to Reason as the "Devil's whore." On the contrary, Protestant biblicism contributed to mass literacy and democratically organized churches that would define their own doctrines. A frequently heard opinion among historians is that the Russians never underwent political modernization, because they neither experienced nor were significantly influenced by the Protestant Reformation. This opinion seems highly plausible if one looks at the unintended as well as intended results of that development.

 

A Momentum for Change
       
       On the other hand, it may be argued that Protestantism has included a momentum of change that by now may be hard to stop. In The Sociology of Religion, Weber explored this problem almost a century ago. The forces created or intensified by the Reformation that had resulted in a bourgeois commercial society would continue to promote change, not all of it congenial to the middle-class beneficiaries of an older Protestant culture. The exploration of a demystified nature, the shift of religious life from the community to the individual, and a general suspicion of hierarchy eventually led in a direction hostile to bourgeois institutions.
       
       All of this, it might be concluded, has indeed come to pass in Protestant societies, as can be inferred from family disintegration, the cult of technology, and the rise of modern bureaucracies and states as family planners and providers. Such observations must be qualified by pointing out that the Protestant reformers would have been as horrified by this situation as the medieval schoolmen. Until recently Protestants stressed moral rigor and family virtue at least as strongly as did Catholics. But Protestant societies were less organic, while Protestant morality centered more on individuals than on families and inherited community. And the believer's view of his life as the "pilgrim's progress," to borrow the title of the most important Protestant classic, helped give birth to a specifically modern doctrine of progress, associated with the subduing of nature and the spread of moral and technical knowledge. The Protestant's world went from being a test of the elect to a material object that one feels free to tamper with.
       
       In the face of these unintended Protestant consequences, Catholic philosophers Nicholas Capaldi and Nino Lingiulli have made the ironic observation that American ethnic Catholics may be closer to bourgeois Protestantism than anyone else. Having absorbed Protestant attitudes as a result of Americanization, Catholic peasants who came to the United States--and even more their descendants--took over distinctly Weberian values. The Calvinist work ethic, a more individual and more interior religiosity than that present among their ancestors, and uneasiness with the formalities of Catholic worship are all characteristic of these Protestantized Catholics. But unlike the members of the Protestant majority culture, such Catholics have still not completely abandoned their communal sense--nor their fascination with bourgeois virtues.
       
       Still, one may wonder how much longer this American Catholic insulation will work. If the Latin and Slavic Catholic character of American immigrants could be modified once, by Protestant characteristics, why can't the same process continue to work change? Why should those who have been exposed to it and absorbed part of it resist Protestant culture in its later radicalized phase? Likewise, why should millions of Asians who converted to Protestantism and often represent a stern Victorian form of it remain embedded in that particular form? Why shouldn't Chinese and Korean Presbyterians and Methodists be overtaken by the forces that have already overwhelmed Western Protestantism? Cultural lags do get overcome--and not always for the best..


Paul Gottfried is a senior editor of the Modern Thought section of The World & I and author of The Search for Historical Meaning: Hegel and the Postwar American Right.

[The World and I (New York), February, 1999]