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samedi, 17 janvier 2015

Il Nuovo Grande Gioco

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Il Nuovo Grande Gioco n°82

Christoph Germann

Ex: http://aurorasito.wordpress.com

English version here:

http://christophgermann.blogspot.com

Dalla fine del 2013, la Turchia è travolta dall’implacabile lotta di potere tra Recep Tayyip Erdogan, che ha lasciato la carica di primo ministro turco lo scorso anno per diventare il 12° presidente del Paese, e l’influente movimento appoggiato dalla CIA dell’auto-descritto “imam, predicatore e attivista della società civile” Fethullah Guelen, che vive negli Stati Uniti da quando fu costretto a fuggire in Turchia nel 1999. Il conflitto tra gli ex-alleati ha ormai raggiunto un punto in cui il presidente Erdogan si prepara ad aggiungere il movimento di Guelen nel ‘libro nero’ della Turchia, dato che l’organizzazione sarà classificata minaccia alla sicurezza nazionale della Turchia. Anche se la lotta per il potere in gran parte ha luogo in Turchia, altri Paesi, come l’Azerbaigian, ne sono colpiti ed Erdogan non è l’unico che cerca di contenere le attività dell’oscuro movimento. I regimi in Asia Centrale sono sempre più sospettosi verso le scuole di Guelen e con buona ragione. Dopo Russia e Uzbekistan, che avevano già chiuso le scuole oltre un decennio fa, il Turkmenistan ha seguito l’esempio, negli ultimi anni, e le scuole di Guelen in Tagikistan sono ora sotto esame, come il quotidiano filo-Erdogan Sabah ha trionfalmente annunciato questa settimana:


Il Tajikistan chiude le scuole di Guelen, definendole ‘missione ombra’


Sajdov Nuriddin Sajdovich, ministro dell’educazione e della scienza del Tagikistan, ha annunciato che non estenderà l’accordo con il Movimento Guelen sul permesso di aprire scuole nel Paese, in quanto considera la missione delle scuole del gruppo come “oscura”. Secondo la stampa locale, un funzionario del ministero, Rohimjon Sajdov, ha anche detto che sarà dissolto l’accordo tra il movimento Guelen e il governo tagiko sulle sue scuole nella regione. Sajdov ha aggiunto che l’accordo con gli istituti d’istruzione in questione scade nel 2015 e che il Paese non lo prorogherà. Attualmente vi sono 10 scuole in Tagikistan gestite dal movimento. La prima scuola del gruppo fu aperte nel 1992. Negli ultimi dieci anni, le finalità delle scuole sono al centro di un acceso dibattito nel governo turco. Vi sono state numerose richieste di chiusura da parte di Ankara”.

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Il Tagikistan controlla le scuole di Guelen, preparandosi al caos afgano


È interessante notare che, secondo i media tagiki, Sajdov non ha menzionato la parola “ombra”. Invece ha detto che il governo tagiko sta per rivedere le licenze per le scuole Guelen perché la loro missione è “poco chiara”. Il quotidiano Sabah è noto caricare il caso quando si tratta del movimento Guelen, ma dato che le scuole di Guelen svolgono un ruolo decisivo nell’islamizzazione di Asia centrale e Caucaso e furono utilizzate per varie operazioni segrete della CIA, le autorità tagike dovrebbero considerare la missione delle scuole come “oscura”. Dushanbe ha a lungo lamentato che i giovani tagiki, che studiano illegalmente nelle scuole religiose islamiche all’estero, “possono facilmente radicalizzarsi ed essere reclutati nei gruppi estremisti o militanti”, mentre si fa poco per fermare indottrinamento e reclutamento dei terroristi interi. Tuttavia, le ultime azioni indicano che ciò potrebbe cambiare nel prossimo futuro:


Un presunto capo islamista e suoi subordinati detenuti in Tagikistan


Il presunto capo di una cellula del Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU) e 10 presunti collaboratori sono stati arrestati in Tagikistan. Il ministero dell’Interno tagiko ha detto in una dichiarazione televisiva, il 7 gennaio, che Ikrom Halilov, ex-imam di una moschea locale e altri erano stati arrestati nel distretto di Shakhrinav, a 50 chilometri ad ovest della capitale Dushanbe. Secondo il ministero, il gruppo è sospettato di pianificare l’attacco a una stazione di polizia, al fine di rubarne le armi”.


Negli ultimi mesi, il Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU) fa notizia nel nord dell’Afghanistan, dove i combattenti dell’Asia centrale appartenenti al gruppo IMU o a schegge, come Jamat Ansarullah, e le alleate forze taliban si ammassano ai confini di Tagikistan e Turkmenistan. Alla fine dello scorso anno, Zamir Kabulov, rappresentante speciale del presidente russo Vladimir Putin per l’Afghanistan, ha rilasciato una lunga intervista ad Interfax avvertendo della minaccia all’Asia centrale e alla Russia, ma stranamente ha detto che i jihadisti nel nord dell’Afghanistan provengono dallo Stato islamico (SIIL). Kabulov ha descritto in dettaglio come molti combattenti si concentrino sulle teste di ponte in Tagikistan e Turkmenistan e sottolineato che “i nostri alleati Tagikistan e Uzbekistan lo sanno, confermando le stesse informazioni e prendendo misure“. Perché per Kabulov gli insorti siano combattenti del SIIL non è chiaro. Alcuni jihadisti tagiki del SIIL hanno recentemente proclamato l’intenzione di “combattere gli infedeli” in Tagikistan, ma non hanno ancora ottenuto il permesso:


I militanti del SIIL chiedono a Baghdadi il permesso di combattere gli ‘infedeli’ in Tagikistan


I militanti dello Stato Islamico (IS) in Iraq hanno pubblicato un video dicendo di aver chiesto il permesso al gruppo dirigente per la jihad in Tagikistan, ha riferito RFE/RL tagiko. Abu Umarijon dice che lui e i suoi camerati tagiki hanno chiesto a Baghadi, capo dello Stato islamico, il permesso di tornare in Tagikistan e combattere con il gruppo estremista Jamat Ansarullah. Tuttavia, Baghdadi non gliel’ha concesso. “Agli emiri (capi) militanti che hanno trasmesso il messaggio ad Baghdadi è stato detto che in questo momento devono attendere”, spiega il militante tagiko”.


Il video ha causato scalpore in Tagikistan e il Centro Islamico del Tagikistan ha condannato i jihadisti chiedendo come sia possibile “la jihad in uno Stato la cui popolazione è al 99 per cento musulmana“. Ma anche senza il ritorno dei combattenti tagiki del SIIL, le autorità tagike hanno tutte le ragioni di preoccuparsi della situazione nel nord dell’Afghanistan. I sequestri sul confine tagiko-afgano evidenziano recentemente la gravità della minaccia. Questa settimana, i funzionari tagiki hanno reso pubblica l’identità delle quattro guardie di frontiera tagiki rapite il mese scorso, e hanno respinto le affermazioni secondo cui i taliban avevano fatto richieste per il loro rilascio. A causa del deterioramento della situazione della sicurezza, i servizi speciali del Tagikistan avrebbero preso “una serie di misure per rafforzare i tratti più vulnerabili” del confine tagiko-afghano e ora sorvegliano molto da vicino le attività degli insorti nel nord dell’Afghanistan. Oltre a questo, il Tagikistan ha anche creato una nuova base militare vicino al confine:


Per sorvegliare i taliban, il Tagikistan crea una nuova base militare al confine afghano


Le forze armate del Tagikistan creano una nuova base vicino al confine con l’Afghanistan in risposta all’apparente aumento dei combattenti sul lato afghano del confine. La base, chiamata “Khomijon”, sarà nella regione di Kuljab. “Carri armati, veicoli corazzati e altri armamenti” saranno impiegati nella base che “unità di tutte le strutture di sicurezza del Paese utilizzeranno per le manovre operative”, ha riferito RFE/RL citando una fonte del Ministero della Difesa del Tagikistan. Mentre non vi è alcuna “minaccia immediata” del concentramento di combattenti taliban al confine con il Tagikistan, Dushanbe ha scelto di adottare “misure preventive”, ha detto il funzionario. Una fonte anonima nel Comitato di Stato sulla Sicurezza Nazionale (GKNB) del Tagikistan ha detto all’agenzia russa TASS che “gruppi non controllati da Kabul” si sono ammassati sul lato afgano del confine”.

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I taliban smentiscono le affermazioni del governo, mentre Ghani chiede agli USA di rimanere per sempre


Lo stesso giorno, un anonimo funzionario del servizio di sicurezza nazionale dell’Uzbekistan con linguaggio simile avvertiva dell'”aumento della presenza di formazioni armate non controllate dal governo dell’Afghanistan“. L’Uzbekistan prende alcune misure per affrontare il problema, ma le autorità uzbeke non costruiscono nuove basi militari, perché sono meglio preparate ad affrontare la minaccia dei vicini Tagikistan o Turkmenistan. Dopo che i taliban si sono avvicinati al Turkmenistan un mese fa, riprendendosi Khamjab nel distretto afgano di Jowzjan, il governo afgano ora cerca di calmare i nervi di Ashgabat. Il capo della polizia di Jowzjan, generale Fakir Muhammad Jaujani ha annunciato, la scorsa settimana, che le forze armate afgane preparano operazioni su vasta scala nelle province di Jowzjan e Faryab, dove gli insorti hanno ripetutamente provocato problemi negli ultimi mesi. Anche se l’International Security Assistance Force (ISAF) della NATO ha concluso la guerra in Afghanistan solo di nome, il presidente afgano Ashraf Ghani non ha perso tempo nel rimpiangere le truppe della coalizione:


Il presidente afgano dice agli USA di ‘riesaminare’ la data del ritiro


Il presidente afghano Ashraf Ghani ha detto in un’intervista che gli Stati Uniti dovrebbero “rivedere” il calendario della ritirata delle restanti truppe della coalizione nel Paese entro la fine del 2016. Le “scadenze sono dettate dalla mente ma non dovrebbero essere dei dogmi”, ha detto Ghani al programma della CBS “60 Minutes” sulla questione. Alla domanda cosa avesse detto al presidente USA Barack Obama, Ghani ha detto: “Il presidente Obama mi conosce, non abbiamo bisogno di spiegarci”.
Dato che Ghani è l’uomo di Washington, le sue parole sono una vera sorpresa e questa intervista probabilmente gli guadagnerà altri tributi sulla stampa statunitense. Ma mentre i funzionari e i media degli Stati Uniti non perdono occasione per elogiare il nuovo leader dell’Afghanistan, il popolo afgano è meno impressionato dalle prestazioni di Ghani, finora. Secondo l’ultimo sondaggio del notiziario afgano TOLOnews e dell’istituto di ricerca ART, Ghani ha perso popolarità tra la popolazione afgana, quasi il 50 per cento, dal suo insediamento a fine settembre. Uno dei motivi probabili è che Ghani non ha formato un governo con il direttore generale del suo governo di unità nazionale, Abdullah Abdullah. Anche se i due uomini hanno raggiunto un accordo per la condivisione del potere a settembre, c’è lo stallo sulle cariche governative. Ghani ha anche sperato di portare tre capi taliban nel suo governo, ma il gruppo ha respinto l’offerta:


I taliban rifiutano l’offerta di posti nel governo afghano


Ai taliban sono stati offerti posti nel nuovo governo afghano, ma hanno rifiutato, afferma la BBC. L’offerta proviene dal nuovo presidente Ashraf Ghani, nel tentativo di porre fine alla ribellione che minaccia il Paese. I tre uomini che il presidente Ghani aveva sperato di attirare nel suo governo erano Mullah Zaif, ex-ambasciatore talib in Pakistan, che ha vissuto relativamente apertamente a Kabul per alcuni anni, Wakil Muttawakil, ex-ministro degli Esteri talib, e Ghairat Bahir, un parente di Gulbuddin Hekmatyar, le cui forze sono alleate ai taliban”.


Se Ghani non riesce a raggiungere un accordo con i taliban, la situazione in Afghanistan può solo peggiorare e il presidente afghano avrà difficoltà a restare al potere. Così l’appello di Ghani agli Stati Uniti di “riesaminare” la scadenza del ritiro ha perfettamente senso. Tuttavia, come già detto, le preoccupazioni di Ghani sul cosiddetto ritiro della NATO sono completamente infondate. L’esercito statunitense ha risposto all’intervista di “60 minutes” dicendo che gli Stati Uniti “prevedono di restare in forze e non ci sono stati cambiamenti sul ritiro”, ma anche se gli Stati Uniti proseguono con il piano per avere una “normale” ambasciata a Kabul alla fine del 2016, ciò significa tenere migliaia di contractor nel Paese devastato dalla guerra. Tuttavia, al momento non sembra come gli Stati Uniti prendano sul serio il piano della ritirata:


A Camp Lejeune i marines si preparano a schierarsi in Afghanistan


Pochi mesi dopo la presunta fine delle operazioni di combattimento del Corpo in Afghanistan, ufficiali rivelano che i marines sono diretti di nuovo nel Paese dilaniato dalla guerra, ma i dettagli dell’operazione sono pochi. La notizia arriva con un comunicato stampa del Corpo dei Marines che delinea i preparativi compiuti dalla 2.nda Compagnia di collegamento d’artiglieria aero-navale di Camp Lejeune, North Carolina. La compagnia ha testato ls disponibilità della squadra di collegamento inter-arma Alpha a uno schieramento imminente in Afghanistan per la soluzione di vari scenari “reali” tra l’8 e l’11 dicembre, secondo il comunicato. Oltre al comunicato stampa, ufficiali del Corpo dei Marines si sono rifiutati di discutere dell’imminente schieramento del 2° ANGLICO. Citando la sicurezza operativa, un portavoce della Marine Expeditionary Force ha rifiutato di specificare quando, e per quanto, verrà schierata l’unità, dove opererà in Afghanistan e se altre unità dei marines l’accompagneranno”.

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La lotta agli agenti del ‘regime change’ di Washington nel Caucaso meridionale


Oltre alle truppe statunitensi, l’operazione Resolute Support, la missione di prosieguo dell’ISAF, conta su numerose truppe di altri Paesi della NATO e alleati, come Georgia e Azerbaigian. Un gruppo di soldati azeri è appena partito per l’Afghanistan a sostegno della missione della NATO, nonostante le tensioni tra il regime del leader dell’Azerbaigian Ilham Aliev e l’occidente. Negli ultimi mesi, l’Azerbaigian ha ripetutamente fatto notizia per la repressione di ONG, attivisti per i diritti umani e giornalisti, molti supportati da Stati Uniti e Unione europea. Dopo che le autorità azere avevano già arrestato Khadija Ismailova, giornalista investigativa che collabora per il servizio azero del portavoce della CIA, Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL), all’inizio del mese scorso, le relazioni tra Baku e Washington peggioravano quando il regime di Aliev ha chiuso l’ufficio di RFE/RL di Baku, un paio di settimane dopo:


USA ‘allarmati’ dall’Azerbaijan che chiude gli uffici a Baku di RFE/RL


Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti è preoccupato per la situazione dei diritti umani in Azerbaigian, aggravatosi dopo che le autorità hanno fatto irruzione e chiuso l’ufficio di RFE/RL a Baku ed interrogato dipendenti e collaboratori. Il portavoce del dipartimento di Stato Jeff Rathke ha riferito alla conferenza del 29 dicembre a Washington: “Queste azioni, insieme alla negazione dell’assistenza legale in tali interrogatori, sono ulteriore motivo di preoccupazione. Gli uffici azeri di RFE/RL, conosciuta come Radio Azadliq, sono stati perquisiti il 26 dicembre dagli investigatori del pubblico ministero confiscando documenti, file e attrezzature, prima di sigillare i locali”.


Com’era prevedibile, la guerra verbale tra Stati Uniti e Azerbaigian s’è intensificata dopo il giro di vite su RFE/RL. L’ex-presidente di RFE/RL Jeffrey Gedmin ha condannato l’azione di Aliev contro “una delle poche agenzie di stampa indipendenti rimaste in Azerbaigian” nei termini più forti possibili e ha avvertito l’amministrazione Obama che la visione di Washington di un’Europa “libera e unita” è a rischio. “Tutta l’Europa libera” è un codice spesso usato ma raramente spiegato, perché in pratica significa il consolidamento di un’Europa unita controllata da Bruxelles per conto degli Stati Uniti. L’Azerbaigian supportava la visione di Washington, ma al momento cruciale il regime Aliev è più interessato alla sua sopravvivenza che a un'”Europa unita e libera”. Anche se le tensioni sono forti al momento, resta da vedere se l’Azerbaigian davvero “snobberà l’occidente”, come alcuni suggeriscono:


L’Azerbaijan snobba l’occidente


Questi eventi sono stati segnalati all’estero soprattutto come ulteriore restrizione del già piccolo spazio in Azerbaigian per le opinioni alternative. Ed è così, suggerendo anche un drastico cambio geopolitico nell’instabile regione del Mar Caspio: crescente ostilità del governo azero verso Washington, con l’attacco a RFE/RL dopo mesi di retorica estrema anti-occidentale. Alti funzionari governativi azeri hanno accusato l’ambasciatore degli Stati Uniti a Baku di “gravi interferenze” e l’ex-ministro degli Esteri della Svezia Carl Bildt di essere una spia statunitense. Ai primi di dicembre, il capo dello staff presidenziale, Ramiz Mehdiev, ha pubblicato un articolo di 13000 parole sostenendo che la CIA escogita cambi di regime nello spazio post-sovietico (le cosiddette rivoluzioni colorate) definendo gli attivisti per i diritti umani in Azerbaigian “quinta colonna” degli Stati Uniti”.


Vale la pena sottolineare che la stampa israeliana suona l’allarme sul presunto cambio della politica estera dell’Azerbaigian, ma l’ambasciatore d’Israele a Baku Rafael Harpaz ha affrontato tali articoli dopo pochi giorni placando i timori e sottolineando che nulla cambia nei rapporti azerbaigiano-israeliani. Pertanto, i rapporti allarmistici nei media occidentali sul cambio geopolitico di Baku devono essere presi con cautela. Gli Stati Uniti non accetteranno di perdere l’Azerbaigian, considerando che la vicina Armenia è ufficialmente membro dell’Unione economica eurasiatica (UEE) cementando i legami con Mosca. Dopo i falliti tentativi d’impedire l’adesione dell’Armenia al blocco commerciale guidato dalla Russia, Washington apparentemente non è più interessata a “far progredire valori, pratiche e istituzioni democratici” in Armenia e decidendo di chiudere l’ufficio locale del National Democratic Institute (NDI), per “problemi finanziari”, ovviamente una scusa:


NDI sospende le attività in Armenia


L’ufficio armeno del National Democratic Institute (NDI) degli Stati Uniti, che opera in Armenia dal 1995, sospende le operazioni per problemi finanziari, ha detto Gegam Sargsjan, capo dell’ufficio, il 7 gennaio. Il NDI non riceve finanziamenti dal suo sponsor principale, l’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale), quindi da marzo 2015 l’ufficio blocca le attività “per un tempo indefinito, fino a quando i fondi saranno disponibili” ha detto Sargsjan. “L’USAID sospese il finanziamento del NDI un anno fa e poi ricevemmo fondi dal National Endowment for Democracy degli USA” ha detto Gegam Sargsjan aggiungendo che oggi USAID preferisce sostenere organizzazioni locali piuttosto che internazionali, mentre “per la NDI non sono una priorità attuale“.

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Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Les dangereux paradoxes du deux-poids-deux-mesures

LIBERTÉ D’EXPRESSION: DU DISCOURS AUX RÉALITÉS
 
Les dangereux paradoxes du deux-poids-deux-mesures
 
Jean Ansar
Ex: http://metamag.fr
 
mouton.jpegLa mobilisation «  je suis Charlie » en faveur de la liberté d’expression pose certains problèmes à l’esprit critique. En effet si certaines opinions sont considérées, au pays où l’on se vante de pouvoir tout dire et tout dessiner, comme des délits, voire des crimes, il y a  là un deux-poids-deux-mesures dont les obscurantistes du djihadisme se servent.

La nouvelle affaire Dieudonné en est une illustration. On se sert de l'émotion "Charlie" dans le durcissement de tout ce qui peut être considéré comme alimentant l’anti-sémitisme. Dieudonné est une cible facile mais il sera compliqué d'assimiler son tweet à une apologie du terrorisme.

On revient avec force sur l’interdiction de la contestation des camps d’extermination de la deuxième guerre mondiale. Mais ce négationnisme est un  discours marginal car interdit, sauf dans certains quartiers et chez certains jeunes qui considèrent ce thème comme un moyen de domination de la communauté juive et donc indirectement du sionisme. Il y a un vrai problème qui ne le voit pas.

De la même manière, ils se demandent pourquoi donc ne pas interdire les caricatures du prophète puisque certaines choses peuvent ne pas être tolérées. Pourquoi une mémoire sacrée au dessus du blasphème. S’il y a une limitation à la liberté d’expression,  il peut y en avoir d’autres.

Dans le contexte actuel pourquoi avoir mis à la une le prophète et pas un djihadiste fou…. On peut critiquer l’islamisme radical sans passer par la case prophète. Mais c’est bien sûr de l’auto censure.

Le cas Dieudonné mérite une fois de plus réflexion

"Je me sens Charlie Coulibaly", "Bal tragique à Colombey"... Certains usages de la liberté d'expression choquent. Si pour Me Emmanuel Pierrat, avocat au Barreau de Paris, la «liberté d'expression est un principe quasi absolu», il peut y avoir des «abus». Et ces abus sont déterminés par la loi.
 
C'est le cas pour Dieudonné, qui a récemment mêlé "Charlie" au nom de l'auteur de la prise d'otages Porte de Vincennes vendredi dernier. Il est poursuivi pour "apologie du terrorisme", selon la Loi anti-terroriste voulue par le ministre de l'Intérieur Bernard Cazeneuve. C'est jusqu'à cinq à sept ans de prison si ces propos sont tenus sur Internet. Pour l’avocat de l'humoriste, c’est inapproprié et disproportionné.

Le droit français fixe en fait deux grandes "familles" d'abus : il y a la diffamation ou l'injure, et puis il y a les paroles ou écrits qui appellent à la haine. Parmi eux : l'apologie de crimes contre l'humanité, de crimes de guerre, les propos racistes et antisémites ou les propos homophobes.

A charge pour les juges de «faire le tri entre le bon grain et l'ivraie. De savoir si, oui ou non, celui qui se présentait comme humoriste hier n'a pas tenu des propos qui relèvent de l'abus et non plus du droit à l'humour», explique Me Emmanuel Pierrat. Ce que l’on traque donc reconnaït-il : c’est l intention…. Pas de haine chez Charlie ; de la haine chez Dieudonné- il s’agit donc d’une approche subjective ou l'on sonde les cœurs… c’est bien sûr la porte ouverte sur la politisation de la justice. Dieudonné diabolisé est  par ailleurs l'arbre qui cache la forêt.

La "une" du numéro tiré à 5 millions d’exemplaires, le premier depuis l'attaque islamiste qui a fait douze morts, montre le prophète Mahomet la larme à l'œil, avec une pancarte "Je suis Charlie", sous le titre "Tout est pardonné". Assez ambigu. De tels dessins "alimentent les sentiments de haine et de ressentiment dans le peuple" et marquent un "mépris" des convictions des musulmans, a estimé le grand mufti de Jérusalem, Mohammed Hussein, dans un communiqué.

Sous le titre "Nous sommes tous Mahomet", le quotidien indépendant algérien en langue arabe Echorouk affiche en "une" le dessin d'un homme avec une pancarte "Je suis Charlie", à côté d'un char de combat qui écrase d'autres pancartes portant les noms de "Palestine", "Mali", "Gaza", "Irak" et "Syrie".

En Turquie, le journal de l'opposition laïque, Cumhuriyet, publie sur quatre pages des extraits du dernier numéro de Charlie Hebdo. Dans l'un de ses éditoriaux, il place une petite vignette en noir et blanc reprenant la "une" de l'hebdomadaire français. Il est le seul à l’avoir fait dans le monde musulman.

La police turque a bouclé les rues voisines du siège du journal à Istanbul par mesure de sécurité. Près du bureau de Cumhuriyet à Ankara, des manifestants ont déployé des banderoles: "la provocation de Charlie continue".

libexpr108235367.jpgEn Egypte, la mosquée et l'université Al Azhar, qui fait autorité pour l'enseignement de l'islam, a demandé aux musulmans d'ignorer les nouveaux dessins de Charlie Hebdo, "une odieuse futilité".
Pour de nombreuses personnes interrogées au Proche-Orient, il est temps de tourner la page.
«Ces dessins ne veulent rien dire, ils ne devraient pas nous toucher. Nous, musulmans, nous sommes plus forts qu'un dessin... On ne devrait pas y prêter attention mais si on veut réagir, il faut réagir mot contre mot, dessin contre dessin», déclare Samir Mahmoud, un ingénieur à la retraité rencontré au Caire.

Emad Awad, un chrétien qui vit dans la capitale égyptienne, dit comprendre la colère de certains de ses voisins musulmans et espère qu'il n'y aura pas de nouvelles violences. Charlie Hebdo, a-t-il regretté, "a perdu une occasion d'aller de l'avant".

Mardi, le grand mufti d'Egypte, Chaouki Allam, avait dénoncé de la part de l'hebdomadaire français «une provocation injustifiée à l'encontre des sentiments des musulmans du monde entier».

Le Saoudien Iyad Ameen Madani, secrétaire général de l'Organisation de la coopération islamique (OCI), voit dans les nouveaux dessins de Charlie Hebdo "insolence, ignorance et bêtise". «La liberté d'expression ne doit pas justifier un discours de haine qui insulte les croyances de l'autre. Aucune personne sensée, quelles que soient ses convictions, sa religion ou sa foi, n'accepte qu'on ridiculise ses croyances», a-t-il dit lors d'une visite en Irak. 

Le monde n’est pas Charlie surtout le monde musulman… la liberté doit cheminer avec la responsabilité et l’équité. Limiter la liberté d'expressions d’un coté et prétendre la défendre de tous les autres, ce n’est certes pas une position facile et certainement pas une position sans danger pour les Français qu’on prétend protéger en priorité absolue.

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Le Qatar: "Club Med des terroristes" ou "valet des Américains"?

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Le Qatar: "Club Med des terroristes" ou "valet des Américains"?

INTERVIEW

Le Qatar finance-t-il les djihadistes? Après les attentats de Paris, la question revient fréquemment. Fabrice Balanche, spécialiste du Moyen-Orient, y répond.

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"Le Club Med des terroristes". Cette périphrase, employée par le journal Courrier International pour désigner le Qatar, en dit long sur les doutes qui pèsent sur ce pays au sujet du financement du terrorisme.

Ce sentiment de défiance envers Doha s'est d'ailleurs accentué depuis la divulgation de rapports du département d'Etat américain, qui s'interroge sur le financement de l'Etat islamique (EI) et d'Al-Qaïda par des fortunes du Qatar. Et les récents attentats qui ont frappé de plein fouet Charlie Hebdo et plus généralement la France, ne font qu'enflammer le débat. Le Qatar serait-il le bailleur de fonds des organisations djihadistes ? 

Dans le même temps, le Qatar est en plein essor économique et plusieurs partenaires commerciaux (les Etats-Unis et la France au premier chef) cherchent à profiter de ce marché florissant. Alors qu'Airbus a d'ores et déjà réalisé sa première livraison de l'A350 à la compagnie aérienne Qatar Airways, la France cherche à vendre son Rafale et se veut la plus attractive possible afin d'attirer les investissements qataris, au risque d'enfreindre la loi à travers l'octroi aux Qataris d'avantages fiscaux trop juteux

Les puissances occidentales fermeraient-elles les yeux sur certains agissements du Qatar, afin de ne pas se mettre à dos un partenaire économique primordial ?

Fabrice Balanche, maître de conférences à l’Université Lyon 2 et directeur du Groupe de Recherches et d’Etudes sur la Méditerranée et le Moyen-Orient  à la Maison de l’Orient, revient sur la question des financements et analyse la situation géopolitique du Qatar au Moyen-Orient.

1) Selon vous, le Qatar finance-t-il l'Etat Islamique ?

Avant toute chose, il faut remettre la question du financement de ces organisations terroristes dans un contexte de rivalité entre l'Arabie Saoudite et le Qatar. En effet, depuis longtemps, l'Arabie Saoudite veut mettre le Qatar et le Koweït sous sa domination. Mais le Qatar ne se laisse pas faire. La compétition entre les deux chaînes télévisées Al-Jazeera (qatarienne) et Al-Arabiya (saoudienne) symbolise cette confrontation âpre entre les deux pays du Golfe.

Au-delà de la sphère médiatique, le Qatar prend très fréquemment le contre-pied de la politique saoudienne. Alors que l'Arabie Saoudite se méfie des Frères musulmans, le Qatar se montre très accueillant à leur égard. Et depuis que l'Arabie Saoudite soutient les groupes salafistes de l'opposition syrienne, le Qatar cherche à faire de même pour limiter l'influence saoudienne dans la région. On a affaire à une véritable lutte d'influence entre le Qatar et l'Arabie Saoudite pour dominer l'opposition syrienne.

Ainsi, le Qatar a financé le Front Al-Nosra (ou Nosra) jusqu'à la scission intervenue en avril 2013. L'organisation, rattachée à Al-Qaïda, est pourtant inscrite sur la liste terroriste des Etats-Unis depuis le 20 novembre 2012 et la déclaration d'Hillary Clinton.

Après la scission en avril 2013 – autrement dit la séparation entre Nosra dirigé par le syrien Al-Joulani et l'Etat islamique (EI) conduit par l'irakien al-Baghdadi – le Qatar a choisi de soutenir l'EI contrairement à l'Arabie Saoudite qui continue de financer Nosra.

Néanmoins, la réalité est bien plus complexe encore. Si l'EI est une organisation soudée et structurée, les groupes de Nosra, bien qu'ils prêtent tous allégeance, semblent bien plus autonomes. Ainsi, le Qatar peut être également amené à financer un groupe de combattants se revendiquant de Nosra pour un intérêt particulier. De même, il existe différents clans en Arabie Saoudite, qui est loin d'être un royaume monolithique. Ces familles soutiennent aussi bien Nosra que l'EI.

Plus largement encore, ce qu'il faut comprendre, c'est que les véritables rivaux de l'Arabie Saoudite et du Qatar, ce sont toutes les entités qui constituent le "croissant chiite" (l'Iran, la Syrie des Alaouites, l'Irak chiite pro-irannienne et le Hezbollah). Dans cette optique, l'EI et Nosra sont en fait des alliés stratégiques, dans le sens où ces organisations peuvent briser cet axe pro-iranien !

Il n'y aura jamais de preuve papier sur ce financement qatari et saoudien des organisations terroristes, mais celui-ci est tout de même probable.

2) Pourtant, le Qatar est également considéré comme un "sous-fifre" des Etats-Unis. Pour preuve, la plus grande base militaire américaine se situe au Qatar, et le Qatar sous-traite la gestion de sa défense nationale aux Etats-Unis. Comment se fait-il que les Etats-Unis cautionne ce genre de financements ?

Les Etats-Unis ont probablement dû taper sur les doigts du Qatar à ce sujet. Mais ils ne contrôlent pas tout ce qui se passe dans la région. Ils ferment parfois les yeux (ou participent même) aux financements de groupes terroristes.

Il est utile de rappeler qu'il y a deux axes principaux dans la politique des Etats-Unis au Moyen-Orient :

  • Tout d'abord, il faut savoir que les Etats-Unis sont les principaux bénéficiaires de l'essor économique du Qatar. Ils se taillent la part du lion sur le marché qatari et leur objectif principal consiste donc à préserver leur position.  
  • La deuxième priorité des Américains concerne la sécurité d'Israël. Le lobbying israélien aux Etats-Unis est puissant, et cet enjeu sécuritaire est souvent à l'ordre du jour en période électorale.

Afin de remplir ces obligations, les Etats-Unis se doivent de trouver des points d'ancrage dans la région. A cet égard, leur  influence sur l'Arabie Saoudite et le Qatar est considérable. Les Américains jouent d'ailleurs sur la rivalité entre les deux pays en misant sur une stratégie bien connue : "Diviser pour mieux régner".

Néanmoins, les Etats-Unis ne contrôlent pas tout, et ils se sont même laissés entrainer par le Qatar lors du Printemps arabe. A ce moment-là, le Qatar défendait les mouvements révolutionnaires, et soutenait plus particulièrement la prise de pouvoir des Frères musulmans. Le Qatar se servait du modèle de la Turquie islamo-démocrate d'Erdogan (dont le Parti de la justice et du développement est très proche des Frères musulmans)  pour défendre les Frères musulmans et gagner la confiance de l'administration d'Obama.

 La carte des révoltes du Printemps arabe - Crédit : Le Monde

Les Etats-Unis ont donc laissé faire, en pensant que tout cela allait aboutir à une démocratisation du monde arabe. Il ne fallait, selon eux, pas s'opposer au sens de l'histoire. Ainsi, le Qatar a pu acheter les élections, notamment en Tunisie et en Egypte, qui ont abouti respectivement à la prise de pouvoir du parti Ennahdha et de Mohamed Morsi.

Cependant, les masques sont rapidement tombés : Morsi, surnommé très tôt "le pharaon", s'accordait les pleins pouvoirs en novembre 2012 après cinq mois à la tête de l'Egypte. Et la Turquie d'Erdogan, première prison au monde pour les journalistes, n'est pas exempt de tout reproche non plus.

Les Etats-Unis se sont faits berner en laissant les Frères musulmans prendre le pouvoir. Présentés comme l'alternative idéale, ceux-ci font preuve d'autoritarisme, et c'est le moins que l'on puisse dire!  En 1981, Sadate est assassiné par d'ex-membres de la confrérie des Frères musulmans passés à l'extrémisme. Al-Zawahiri lui-même, le chef du réseau terroriste Al-Qaida, était un frère musulman.  

Les Frères musulmans sont-ils des terroristes ? La question se pose. Ils sont en tout cas considérés comme tels par le gouvernement égyptien, la Russie et l'Arabie saoudite. Si on part de cette hypothèse, les Etats-Unis auraient donc comme le Qatar financé des terroristes.

Par ailleurs, les Etats-Unis financent parfois involontairement des djihadistes. Lorsque Al-Nosra a été considéré par les Etats-Unis comme une organisation terroriste, le front a crée de nouveaux groupuscules avec des fausses dénominations afin de capter les financements américains. Le groupe Jaysh al-Islam (Armée de l'Islam) a par exemple été financé par les Etats-Unis avant que son affiliation avec Al-Qaïda ne soit démontrée.

Enfin, lors de la libération d'otages, les pays occidentaux demandent souvent au Qatar de faire la médiation et de payer une rançon aux organisations terroristes.  Cela peut être également considéré comme du financement aux djihadistes.

3) Au-délà de ses investissements dans le sport et les médias, quelle est la stratégie diplomatique du Qatar depuis l'échec des Frères musulmans ?

Les échecs d'Ennahdha en Tunisie et des Frères musulmans en Syrie (le nouveau chef à la tête de la CNS est pro-saoudien), ainsi que le coup d'Etat en Egypte ont considérablement affaibli le Qatar.

Le Qatar utilise dorénavant la cause palestinienne afin de défendre ces intérêts dans la région et de revenir dans le jeu diplomatique international. Doha s'est servi de la guerre de Gaza à l'été 2014  pour s'affirmer comme le médiateur incontournable dans la péninsule arabique. Le pays met en avant son influence considérable sur le Hamas (qu'il finance) et prétend pouvoir négocier un cessez-le-feu ou même résoudre le conflit israélo-palestinien.

4) Al-Qaïda affirme avoir financé l'opération de Charlie Hebdo et recruté les frères Kouachi qui ont assassiné douze personnes. Amedy Coulibaly prétend, lui, avoir été envoyé par l'EI. Comment ces organisations djihadistes manipulent-ils ces jeunes terroristes ?

En France, la situation s'est dégradée de façon continue dans les banlieues, comme à Roubaix ou au nord de Marseille. Les imams radicaux ont prospéré dans ces zones et manipulent des jeunes faibles psychologiquement et complètement perdus socialement.

La mystique djihadiste est simple : le but final est de ré-islamiser la société dans le monde arabe. Selon le Hamas, Dieu les a punis avec la création d'Israël, parce qu'ils n'étaient pas de bons musulmans. Il faut donc s'unir afin de reprendre Jérusalem.

Grâce au développement d'Internet et des chaînes satellitaires, les idéologues montrent à ces populations musulmanes les bombardements incessants d'Israël, soutenu par l'Occident, sur les Palestiniens. Ils les manipulent et les dressent contre l'Occident.  La prise d'otages dans l'hyper casher n'est que la résultante de cet endoctrinement.

La situation en Syrie est également exploitée par les idéologues islamistes. Ils accusent l'Occident de laisser les musulmans rebelles en Syrie se faire tuer. Ils veulent convaincre les jeunes djihadistes que Bachar el-Assad soutient en fait Israël et l'Occident, et que ceux-ci cherchent à affaiblir les musulmans à travers la guerre civile syrienne.

Les récents bombardements de la coalition internationale sur l'EI font d'ailleurs  le jeu des prédicateurs islamistes, qui crient au complot : les Etats-Unis et Bachar el-Assad se seraient alliés pour défendre Israël.

Mohamed Merah, les frères Kouachi, Amedy Coulibaly … ils sont tous manipulés par ces théories djihadistes. 

Arnaud Caldichoury

L’affaire des attentats de Charlie Hebdo vue différemment



L’affaire des attentats de Charlie Hebdo vue différemment avec Jean-Yves Le Gallou dans le dernier I-Média !

Réinformation totale sur l'affaire des attentats islamistes et zoom sur le mouvement de contestation contre l'islamisation de l'Allemagne PEDIGA avec Jean-Yves Le Gallou dans le dernier I-Média ! Face à la pensée unique des grands médias, partagez massivement l'information libre et alternative !

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The Fall of Singapore - The Great Betrayal

The Fall of Singapore

The Great Betrayal

(Rare BBC Documentary)

This landmark documentary film by Paul Elston tells the incredible story of how it was the British who gave the Japanese the knowhow to take out Pearl Harbor and capture Singapore in the World War 2. For 19 years before the fall of Singapore in 1942 to the Japanese, British officers were spying for Japan. Worse still, the Japanese had infiltrated the very heart of the British establishment - through a mole who was a peer of the realm known to Churchill himself.

This is a very rare documentary on the fall of Singapore in WW2 by BBC Two broadcasted in Northern Ireland only.

2015, een Chinees-Japans conflictjaar?

2015, een Chinees-Japans conflictjaar?

Ex: http://vrijetribune.nl/

thediplomat_2013-12-17_20-32-59-386x386.jpgVorige maand spraken we al over een mogelijk Koreaans conflict als gevolg van oplopende spanningen tussen Japan en China. We mogen een direct maritiem conflict tussen China en Japan echter niet uitsluiten. We dienen hierbij ook te kijken naar de relatief onbekende historie van de Japanse marine.

Japan slaagde er aan het einde van de 19de eeuw in om de economische en technologische achterstand met Europa en Amerika in relatief korte tijd in te halen. Dit in tegenstelling tot China, dat als gevolg hiervan militair eigenlijk tot omstreeks 1950 nauwelijks wat voorstelde. De Japanse marine was een belangrijk instrument in deze modernisering. Japan was een eiland en was als gevolg hiervan afhankelijk van buitenlandse handel. De marine was daarom de hoeksteen van de Japanse defensie. In 1902 slaagde Japan er in om het diplomatieke isolement te doorbreken door een verdrag met de grootste vlootmacht ter wereld – Groot-Brittannië.

Tijdens de Eerste Wereldoorlog was dit verdrag van belang voor Groot-Brittannië, aangezien de Japanners bij machte waren om de strategische Duitse vlootbasis in Tsingtao (China) te veroveren. Naarmate de Britse vloot meer en meer te duchten had van Europese concurrenten nam het belang van de Brits-Japanse alliantie toe. Dit hield niet op na de Eerste Wereldoorlog als Frankrijk de belangrijkste tegenstander wordt van de Britse hegemonie. Zo gingen de Fransen in 1927 over tot het bouwen van een gigantische duikboot met zware kanonnen om de Britse hegemonie op zee aan te vechten.

Ook in de Stille Oceaan werd de Britse hegemonie op zee aangevochten en wel door de Amerikanen. De Amerikanen werkten in de jaren 1920 aan concrete plannen om Canada binnen te vallen in het geval van een conflict met Groot-Brittannië. Het was er de Britten alles aan gelegen om de groeiende Amerikaanse invloed in de Stille Oceaan te counteren en wel door middel van Japan. Japan had echter geen vliegdekschepen en men kon natuurlijk ook weer niet te openlijk Japan steunen en dus ontspon er zich een spionage-intrige, waarbij de Britten oogluikend toelieten dat maritieme technologie heimelijk in Japanse handen kwam:

De tragedie van de Britse politiek was dat de Japanners en de Amerikanen weliswaar met elkaar in conflict kwamen in 1941, maar dat de Japanners en passant ook de Britten aanvielen, omdat ze de grondstoffen uit de Britse kolonies nodig hadden voor hun oorlog met Amerika: olie uit Birma (Myanmar), rubber van Malakka, etc. De Amerikanen vanuit hun oogpunt steunden voor 1941 juist de Chinese nationalisten tegen Japan om de Japanners vooral bezig te houden op het Chinese vasteland, een politiek die ook faalde want de Amerikaanse olieboycot leidde tot Japanse aanval op Pearl Harbor, en niet tot de gehoopte onderhandelingen.

Sinds de Tweede Wereldoorlog is Japan de Amerikaanse bondgenoot. Evenals de Britse hegemon een eeuw tevoren begonnen de Amerikanen begin deze eeuw Japan steeds meer te gebruiken om hun belangen te verdedigen in de Stille Oceaan, aangezien Amerika zelf verwikkeld was in de Golfregio. Net als een eeuw geleden begint de Japanse marine steeds meer maritieme technologie te ontwikkelen. In 2013 werd de Izumo gelanceerd, officieel een helikopterschip maar in werkelijkheid een vliegdekschip. De Izumo wordt verwacht in maart 2015 operationeel te zijn.

In China werkt men ook koortsachtig aan een eigen vliegdekschip, de Liaoning. Het is een Sovjet-vliegdekschip dat nooit werd afgebouwd en door China is gekocht van de Oekraïne. Het is onduidelijk in hoeverre China op basis van de aankoop van dit schip in staat is om zelf vliegdekschepen te bouwen. De Liaoning is officieel operationeel sinds 2012, maar wordt sindsdien geplaagd door technische mankementen en het is niet zeker in hoeverre de vliegtuigen daadwerkelijk operationeel zijn. De Chinezen hebben zelf een vliegtuig ontwikkeld voor dit schip, maar in september 2014 kwamen nog 2 piloten om bij de vliegdekschiptraining.

Een conflict om de Senkaku/Diaoyudao eilanden boven Taiwan is niet ondenkbaar. China is een enorme economische macht geworden en haar zelfvertrouwen als geopolitieke macht is daarmee ook enorm toegenomen. China is in de positie van Duitsland vlak voor de Eerste Wereldoorlog – een continentale industriemacht zonder overzees netwerk maar met maritieme aspiraties en een sterke maritieme macht als buurland. Op dit ogenblik is de Japanse marine wellicht talsmatig niet, maar kwalitatief absoluut superieur aan de Chinese marine.

Als Amerika China wil treffen, dan is een Japans-Chinees maritiem conflict zeer geschikt. Het voorkomt grootschalige economische schade van bombardementen en kan relatief snel worden beslist. Amerika kan bovendien zelf buiten schot blijven door de historische animositeit tussen China en Japan op te spelen. Een Chinese maritieme nederlaag om de Senkaku/Diaoyudao eilanden zal de Chinezen op een maritieme achterstand van minstens 10 jaar zetten en de druk op bondgenoten rond de Zuid-Chinese Zee verminderen. Wat zeker is, is dat de Amerikanen (en de Japanners) zeker op termijn de capaciteiten van de Chinese marine zullen testen.

Laten we hopen dat de Amerikanen of de Japanners in 2015 China niet zullen uitdagen. Er is immers al voldoende oorlog in de wereld.

vendredi, 16 janvier 2015

Le libéralisme contre les libertés

19:54 Publié dans Evénement | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : événement, paris, france, libéralisme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Abraham Lincoln a voulu exiler les Noirs des États-Unis

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Ex: http://la-vache-retournee.over-blog.com

Où l'on apprend avec stupeur que la référence suprême parmi les hommes politiques, le grand Abraham Lincoln, était favorable à la remigration.

La Maison Blanche, l'un des lieux les plus secrets de la planète, témoin de nombres de décision historique. En pleine guerre de Sécession, Abraham Lincoln a une idée folle : loin de vouloir abolir l'esclavage, il souhaite envoyer les Noirs "coloniser" un pays. Extrait de "Les secrets de la Maison Blanche" de Nicole Bacharan et Dominique Simonnet

« Pourquoi les gens d’ascendance africaine doivent-ils partir et coloniser un autre pays ? Je vais vous le dire. Vous et moi appartenons à des races différentes. Il y a entre nous plus de différence qu’entre aucune autre race. Que cela soit juste ou non, je n’ai pas à en discuter, mais cette différence physique est un grand problème pour nous tous, car je pense que votre race en souffre grandement en vivant avec nous, tandis que la nôtre souffre de votre présence. En un mot, nous souffrons des deux côtés… Si on admet cela, voilà au moins une bonne raison de nous séparer… »

Oui, c’est le président Abraham Lincoln lui-même qui tient ces propos bien peu engageants, loin, bien loin de l’image que l’on construira de lui plus tard.

Ce 14 août 1862, alors que la nation américaine se déchire, que les États, désunis, s’affrontent dans un conflit fratricide, la terrible guerre de Sécession déclenchée depuis son élection il y a deux ans, Lincoln a convoqué à la Maison Blanche une délégation de leaders noirs pour leur tenir ce discours : il faut que les Noirs quittent les États-Unis ! En guise d’introduction, à peine les cinq « personnes de couleur » sont-elles assises dans son bureau qu’il leur indique qu’une somme d’argent a été réservée par le Congrès, « tenue à sa disposition pour aider au départ des personnes d’ascendance africaine pour qu’elles colonisent un quelconque pays ». Cela fait longtemps qu’il y songe, a dit d’emblée le président, et il se fera un devoir de favoriser cette cause.

— Vous, ici, vous êtes des affranchis, je suppose ? interroge abruptement Lincoln.

— Oui, Monsieur, répond l’un des délégués.

— Peut-être l’êtes-vous depuis longtemps, ou depuis toute votre vie… D’après moi, votre race souffre de la plus grande injustice jamais infligée à un peuple… Mais, même si vous cessez d’être esclaves, vous êtes encore bien loin d’être sur un pied d’égalité avec la race blanche… Mon propos n’est pas d’en discuter, c’est de vous montrer que c’est un fait… Et puis regardez où nous en sommes, à cause de la présence des deux races sur ce continent… Regardez notre situation – le pays en guerre ! –, les hommes blancs s’entre-égorgeant, et personne ne sait quand cela s’arrêtera. Si vous n’étiez pas là, il n’y aurait pas de guerre…

Et le président de conclure :

— Il vaut donc mieux nous séparer… Je sais qu’il y a parmi vous des Noirs libres qui ne voient pas quels avantages ils pourraient en tirer… C’est, permettez-moi de le dire, un point de vue extrêmement égoïste… Si des hommes de couleur intelligents, comme ceux que j’ai devant moi, le comprennent, alors nous pourrons aller plus loin. Je pense pour vous à une colonie en Amérique centrale. C’est plus près que le Liberia… Il y a là un pays magnifique, doté de beaucoup de ressources naturelles, et, à cause de la similarité du climat avec celui de votre pays natal, il vous conviendrait parfaitement…

Un silence stupéfait accueille ces arguments qui défient l’entendement.

C’est la première fois, depuis la création des États-Unis près d’un siècle plus tôt, qu’une délégation officielle de Noirs est invitée à la Maison Blanche pour une raison politique (elle a été conduite auprès du président par le révérend Joseph Mitchell, commissaire à l’Émigration), et quelle réception !

On imagine sans peine le froid glacial, même au cœur de l’été tropical de Washington, qui a saisi les cinq hommes, éminents représentants de la communauté noire dans la capitale.

Son monologue achevé, le président les congédie en laissant à peine le temps à Edward Thomas, qui mène la délégation, de bredouiller :

— Nous allons nous consulter et vous donner une réponse rapide…

— Prenez votre temps, lâche le président.

Comment Lincoln ose-t-il charger les Noirs de la responsabilité de la guerre qui ensanglante le pays ? Comment ne reconnaît-il pas que, comme ses interlocuteurs ce jour-là, la plupart des Noirs vivant alors aux États-Unis sont nés sur le sol américain et ne savent rien de l’Afrique ? Le président est indifférent à ce type de considération, ce n’est pas un idéaliste. Par ses propos coupants, il exprime ses convictions les plus profondes : s’il n’aime pas l’esclavage, c’est bien sûr pour des raisons morales, mais aussi parce que cela pourrit la vie des Blancs, et met en danger la pérennité de l’Union. Il reste convaincu que les deux races n’ont rien à faire ensemble. Et cela fait longtemps qu’il nourrit ce vieux projet, dit de « colonisation », déjà envisagé plusieurs décennies auparavant par Thomas Jefferson : renvoyer les esclaves en Afrique ou en Amérique centrale pour en finir avec cette plaie. C’est une sorte de compromis entre les deux positions extrêmes qui s’affrontent alors, celle des planteurs du Sud farouchement accrochés à l’esclavage et celle des intellectuels du Nord qui luttent pour son abolition pure et simple.


http://www.atlantico.fr/decryptage/au-coeur-maison-blanche-jour-ou-abraham-lincoln-voulu-exiler-noirs-etats-unis-1920131.html/page/0/1

What Freedom of Speech?

What Freedom of Speech?

I might be a terrorist for executing my freedom of speech.jpgThe photos of 40 of the world’s government leaders marching arm-in-arm along a Paris boulevard on Sunday with the president of the United States not among them was a provocative image that has fomented much debate. The march was, of course, in direct response to the murderous attacks on workers at the French satirical magazine Charlie Hebdo by a pair of brothers named Kouachi, and on shoppers at a Paris kosher supermarket by one of the brothers’ comrades.

The debate has been about whether President Obama should have been at the march. The march was billed as a defense of freedom of speech in the West; yet it hardly could have been held in a less free speech-friendly Western environment, and the debate over Obama’s absence misses the point.

In the post-World War II era, French governments have adopted a policy advanced upon them nearly 100 years ago by Woodrow Wilson. He pioneered the modern idea that countries’ constitutions don’t limit governments; they unleash them. Thus, even though the French Constitution guarantees freedom of speech, French governments treat speech as a gift from the government, not as a natural right of all persons, as our Constitution does.

The French government has prohibited speech it considers to be hateful and even made it criminal. When the predecessor magazine to Charlie Hebdo once mocked the death of Charles de Gaulle, the French government shut it down — permanently.

The theory of anti-hate speech laws is that hate speech often leads to violence, and violence demands police and thus the expenditure of public resources, and so the government can make it illegal to spout hatred in order to conserve its resources. This attitude presumes, as Wilson did when he prosecuted folks for publicly singing German songs during World War I, that the government is the origin of free speech and can lawfully limit the speech it hates and fears. It also presumes that all ideas are equal, and none is worthy of hatred.

When the massacres occurred last week in Paris, all three of the murderers knew that the police would be unarmed and so would be their victims. It was as if they were shooting fish in a barrel. Why is that? The answer lies in the same mentality that believes it can eradicate hate by regulating speech. That mentality demands that government have a monopoly on violence, even violence against evil.

So, to those who embrace this dreadful theory, the great loss in Paris last week was not human life, which is a gift from God; it was free speech, which is a gift from the state. Hence the French government, which seems not to care about innocent life, instead of addressing these massacres as crimes against innocent people, proclaimed the massacres crimes against the freedom of speech. Would the French government have reacted similarly if the murderers had killed workers at an ammunition factory, instead of at a satirical magazine?

And how hypocritical was it of the French government to claim it defends free speech! In France, you can go to jail if you publicly express hatred for a group whose members may be defined generally by characteristics of birth, such as gender, age, race, place of origin or religion.

You can also go to jail for using speech to defy the government. This past weekend, millions of folks in France wore buttons and headbands that proclaimed in French: “I am Charlie Hebdo.” Those whose buttons proclaimed “I am not Charlie Hebdo” were asked by the police to remove them. Those who wore buttons that proclaimed, either satirically or hatefully, “I am Kouachi” were arrested. Arrested for speech at a march in support of free speech? Yes.

What’s going on here? What’s going on in France, and what might be the future in America, is the government defending the speech with which it agrees and punishing the speech with which it disagrees. What’s going on is the assault by some in radical Islam not on speech, but on vulnerable innocents in their everyday lives in order to intimidate their governments. What’s going on is the deployment of 90,000 French troops to catch and kill three murderers because the government does not trust the local police to use guns to keep the streets safe or private persons to use guns to defend their own lives.

Why do some in radical Islam kill innocents in the West in order to affect the policies of Western governments? Might it be because the fruitless Western invasion of Iraq killed 650,000 persons, most of whom were innocent civilians? Might it be because that invasion brought al-Qaida to the region and spawned ISIS? Might it be because Obama has killed more innocent civilians in the Middle East with his drones than were killed by the planes in the U.S. on 9/11? Might it be because our spies are listening to us, rather than to those who pose real dangers?

What does all this have to do with freedom of speech? Nothing — unless you believe the French government.

Reprinted with the author’s permission.

Japon: dénatalité suicidaire

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Japon : dénatalité suicidaire dans un pays ravagé par la pornographie

Le Japon est aujourd’hui la troisième économie mondiale, mais son économie est menacée par son désastre démographique.

Une dénatalité suicidaire

Il y a 25 ans déjà, le Japon est devenu le premier pays au monde à inverser sa pyramide démographique et à entrer, par le jeu d’une dénatalité suicidaire, dans une spirale de mort toujours plus dramatique. L’inversion de la pyramide, c’est le moment où un pays compte davantage d’habitants âgés de plus de 65 ans que de moins de 25 ans.

 

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L’une des raisons en est que les Japonais ne sont plus intéressés par les relations amoureuses et sexuelles, et qu’ils n’ont plus d’enfants – et surtout, ne veulent plus d’enfants. Et ils se tournent massivement vers la pornographie, ce qui aggrave le problème.

Plus de la moitié des Japonais célibataire

Les chiffres du Japan Population Center sont sans équivoque : 45% des femmes et 25% des hommes âgés de 16 à 24 ans ne sont pas intéressés par le contact sexuel.

Plus de la moitié des Japonais âgés de 18 à 34 ans sont célibataires : 49% des femmes et 61% des hommes.

Au sein de la population dans son ensemble, 23% des femmes et 27% des hommes s’affirment «pas du tout pas intéressés» par une relation amoureuse. Et sans même parler d’une relation durable, 39% des femmes et 36% des hommes à l’âge le plus propice pour procréer, les 18-34 ans, n’ont jamais eu de relation sexuelle.

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Le rapport estime que 25% des femmes japonaises aujourd’hui âgées d’une vingtaine d’années ne se marieront jamais, et que 40% d’entre elles n’auront jamais d’enfant.

Les causes sont complexes mais deux se détachent clairement.

D’abord la vision traditionnelle de la société : les femmes mariées doivent cesser de travailler et partir vivre sous l’autorité de leur belle-mère. Les mères qui travaillent sont perçues comme des « femmes diablesses ». Elles sont nombreuses à privilégier leur carrière au détriment de leur une vie amoureuse ou familiale.

Le Japon, un pays ravagé par la pornographie

Mais un autre problème tout aussi inquiétant ravage la société japonaise : la pornographie qui se répand de manière alarmante.

Le docteur Susan Yoshihara, vice-présidente du centre de recherche pour la Famille et les Droits de l’Homme basé à New York, qualifié le phénomène d’« effrayant ». C’en est au point, dit-elle, que des images pornographiques se glissent jusque dans les magazines économiques.

Un univers de sexe virtuel

Les jeunes hommes, dans ce monde de sexe virtuel et détaché de sa finalité, en arrivent à ne plus s’intéresser au sexe opposé, et n’envisagent que rarement le mariage.

En revanche, l’étrange société japonaise ne conçoit pas qu’une femme puisse avoir un enfant sans être mariée. Comme le célibat n’entraîne pas, malgré tout, une abstinence généralisée, il en résulte un nombre d’avortements considérable.

Un parlementaire japonais avait suggéré d’interdire l’avortement pour mettre fin à cette spirale de mort, mais sa proposition est restée sans effet.

On comprend le scepticisme du Dr Yaoshihara par rapport à ce projet : il n’existe au Japon aucun mouvement de défense de la vie.

Source : Reinformation.tv

Usa Vs Russia? Il punto è il controllo dell'Europa

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Usa Vs Russia? Il punto è il controllo dell'Europa

L’ostilità americana verso la Russia post-sovietica è astiosa quanto quella che fu riservata all’URSS. La cosa può stupire, visto il desiderio dei dirigenti della nuova Russia di essere accolti a pieno titolo nel sistema occidentale.

Il fatto si spiega se consideriamo che l’ideologia è solo un pretesto per coprire le vere motivazioni profonde dei comportamenti nei rapporti politici e fra gli Stati. In realtà quello che l’Impero anglo-americano temeva non era il cosiddetto comunismo. Banchieri, monopolisti, vertici dei servizi segreti, cioè quelli che sanno e che contano, sapevano bene che un’economia rigidamente e burocraticamente pianificata non avrebbe retto il confronto con le dinamiche del Mercato occidentale. Il problema non era l’URSS comunista, il problema era il controllo dell’Europa e pertanto il timore che la Russia, sovietica o “democratica” che fosse, ne diventasse egemone nonostante l’inadeguatezza economica.

Impedire che una potenza unificasse l’Europa o comunque ne diventasse la forza-guida, è sempre stata la massima preoccupazione dell’Impero britannico. L’Europa, con le sue centinaia di milioni di abitanti, col suo alto reddito, col suo potenziale industriale e culturale, diventerebbe automaticamente la prima potenza mondiale se una delle nazioni che la costituiscono si ponesse alla testa di un moto rivoluzionario di unificazione continentale.

La Gran Bretagna durante il XVIII e XIX secolo ha combattuto tenacemente per mantenere l’Europa continentale divisa e in particolare per contrapporsi a una potenza che fosse in grado di prevalere sulle altre del continente. Così si spiegano le guerre del Settecento e quelle napoleoniche, in cui la Gran Bretagna ha condotto una lotta vincente contro le pretese egemoniche della Francia. Nell’Ottocento, quando anche la Russia zarista assunse un volto minaccioso per gli interessi inglesi, la Gran Bretagna non esitò, insieme alla Francia, ad unirsi all’Impero musulmano turco per impedire ai russi di penetrare nel Mediterraneo, e fu la guerra di Crimea (precedente inquietante alla luce dei fatti odierni). L’Inghilterra favorì anche il processo di unificazione d’Italia, mentre la Francia avrebbe voluto una penisola politicamente divisa in tre Stati, perché un’Italia unita e indipendente poteva fare da contrappeso alla Francia sul fianco meridionale del continente. 

Dopo la guerra franco-prussiana e l’unificazione della Germania, il Reich di Berlino divenne il primo nemico di Sua Maestà Britannica, e furono due guerre mondiali.

Gli USA hanno ereditato questa stessa visione strategica dai cugini inglesi. Anche per gli inquilini della Casa Bianca la carta decisiva per il dominio mondiale è il controllo dell’Europa.  Anche loro sanno che l’Europa deve restare divisa oppure gravitare attorno a una potenza comunque subordinata all’Impero anglosassone. Dopo la sconfitta della Germania nazista, l’ultima potenza che ha cercato di unire il continente con la forza delle armi e di un’ideologia che aveva trovato simpatie e collaborazioni nonostante la sua impronta etnica, il grande nemico, anch’esso fortemente armato e portatore di un’ideologia per molti attraente, diventava l’URSS. Per questo, per il timore che l’intero continente gravitasse nell’orbita sovietica e non per la minaccia comunista in sé, il confronto è stato durissimo per decenni, fino al collasso del più debole.

Da certi punti di vista, nonostante lo smembramento di quella che fu l’URSS, o forse proprio per questo, la nuova Russia è stata subito avvertita come una rinnovata minaccia. Una Russia più efficiente economicamente dopo aver adottato le regole del Mercato ed etnicamente più compatta, poteva aspirare ad attrarre nella sua orbita un’Europa dipendente dalle sue forniture energetiche. Un’Europa divisa in tanti Stati sarebbe stata debole di fronte alla Russia. Per l’Impero anglo-americano era preferibile un’Europa unita sotto l’egemonia di una Germania a sua volta sottoposta ai voleri di Washington.

Così tutto diventa assolutamente coerente: l’importanza del TTIP, il trattato che legherebbe indissolubilmente l’UE agli USA, le manovre tendenti a sganciare l’UE dalla dipendenza dalle fonti energetiche russe, il colpo di stato in Ucraina col coinvolgimento della Germania che farebbe di quel Paese una sua appendice economica, l’estensione della NATO sempre più a est.

Il comunismo non c’entrava, come non c’entra la polemica “democratica” contro “l’autoritarismo” russo. Quella è solo “ideologia come falsa coscienza”. Oggi come sempre la linea strategica dell’Impero marittimo anglo-americano è quella di tenere in pugno il continente europeo, per avere l’egemonia sul mondo intero. Il punto debole di questa strategia consiste proprio nell’essere ancorata al criterio della centralità europea. L’Europa, invasa da masse di migranti, invecchiata nella sua popolazione autoctona, presa dalla spirale di una crisi economica apparentemente senza soluzioni immediate, con una gioventù disorientata e sradicata, è in piena decadenza. Respingere la Russia verso la sua dimensione asiatica potrebbe essere controproducente, perché un blocco russo-cinese per le sue potenzialità militari, umane ed economiche rappresenterebbe un polo antagonista formidabile.

Tutto è molto chiaro, molto coerente, molto leggibile, ma anche tremendamente incerto negli esiti finali. “Tremendamente” perché proprio l’estrema vicinanza delle basi NATO ai confini russi fa balenare la tentazione del “primo colpo”, da una parte e dall’altra, e sarebbe un colpo nucleare. Questa è la scena che il teatro del mondo ci offre all’apertura del sipario sul 2015. 

Luciano Fuschini

Washington is Going to Rely on NGOs in Central Asia

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Author: Vladimir Odintsov

Washington is Going to Rely on NGOs in Central Asia

Ex: http://journal-neo.org

The United States and their satellites have been using nongovernmental organizations (NGOs) for the preparation and implementation of “color revolutions” in North Africa, the Middle East and the former Soviet countries extensively, which has made numerous headlines across international media. The consequences of such “democratic activity” carried out by Washington can be clearly seen in Libya, Iraq, Ukraine, and in several other countries, where this strategy has led to the creation of uncontrolled chaos.

The tactics of Washington’s NGOs can be summed out by a famous quote of retired US Lieutenant Colonel Ralph Peters: “Hollywood is “preparing the battlefield,” and burgers precede bullets. The flag follows trade.”

As a rule, the target of these “cover activities” carried out by NGOs is the struggle for energy markets, or the fight against political opponents, among which the White House highlights Russia, China and Iran. This much explains the latest developments in Hong Kong. Washington has effectively created a network of NGOs there that promote American interests under the pretext of promoting “democracy”, which operate by using social networks for spreading their agenda. This same pattern has been duplicated numerous times across the globe to attempt regime change in countries that the White House perceives as a threat to US dominance.

To sponsor these activities Washington has been allocating billions of dollars annually through the National Endowment for Democracy (NED) – the organization responsible for countless coups around the world along with the CIA, on par with numerous private foundations. It’s no coincidence then that in Russia alone there were a total of 650 foreign NGOs back in 2012, that were receiving up to one billion dollars a year, with 20 million handed out by Western diplomatic missions directly.

So, if we are to focus on the post-Soviet region, in recent years Western NGOs have been particularly active in the states of Central Asia, desperate in their strive to trigger “color revolutions” wherever possible. The avid interest of Washington towards this particular region is caused by a number of factors, including considerable deposits of natural resources along with the possibility to control the flow of those by taking a firm footing in the region, such as in destabilized Afghanistan. But the “key” factor behind Washington’s thinking is the ability to influence the geopolitical future and stability of the entire Asian continent and Russia. That is why the territory of the Central Asian region is considered by US think tanks an area of choice for projecting political influence on Russia and China, launching military campaigns against Afghanistan and potentially Iran. In this case, the United States seeks to break the Central Asian states away from Russian influence, by extensive use of international organizations and NGOs.

After failing to achieve the redrawing of the political landscape in Central Asia after the so-called “Tulip Revolution” in Kyrgyzstan in 2005 and the consequent shift of focus of the White House to “democratic political reforms” in Ukraine and in Hong Kong, the US State Department and the United States Agency for International Development (USAID) in 2011 have sharply reduced the funding of their ongoing “projects” in Central Asia, by dropping it to 126 million dollars from and initial 436 million. In 2013 the funding was cut even further to 118 million dollars (a 12% decrease of in comparison to 2012).

However, due to the increasing political and economic strength of Russia along with the active participation of the Central Asian states in the Customs Union project implemented by the Russian Federation and a number of other integration initiatives, the White House has made significant adjustments to its policies in the countries of Central Asia. Therefore, to “promote access to free unbiased” media, USAID has allocated an additional 3.8 million dollars to NGOs in Kazakhstan, Kyrgyzstan and Tajikistan in 2014.

At the same time George Soros has spent a whooping total of 80 million dollars on “democratic reforms” in Kyrgyzstan over the past 11 years . A November 2014 trip by the 84-year-old investor and philanthropist to Kyrgyzstan has attracted a lot of media attention, along with the “considerable” financial assistance he has provided to non-governmental organizations to the “revolution” in Ukraine. George Soros has clearly expressed his anti-Russian position at a press conference of the International Crisis Group in Brussels, where he urged Europe to, “wake up.” That is why his visit to Kyrgyzstan was regarded by most foreign observers as an attempt to disrupt the entry of Kyrgyzstan into the Customs Union and its rapprochement with Russia. It’s no coincidence that all through his visit the US Embassy in Kyrgyzstan witnessed numerous demonstrations, where protesters urged local NGOs to abstain from taking the “blood money”.

It is obvious that Washington will carry on its attempts to actively pursue its own interests in Central Asia through non-governmental organizations, by making sure to take every possible opportunity to increase its influence over the internal affairs of the former Soviet territories. Moreover, bringing loyal leaders to power in those states is believed to be a top priority.

It’s obvious that the White House will also attempt to exploit religious factors as a means of destabilization, especially since it has already tested the “Islamic State” scenario along with its satellites in the Gulf elsewhere, proving to be quite effective in spreading chaos not only in a specific region, but also worldwide.

Vladimir Odintsov is a political commentator, exclusively for the online magazine “New Eastern Outlook”.
First appeared:
http://journal-neo.org/2015/01/08/rus-npo-ssha-i-tsentral-naya-aziya/

jeudi, 15 janvier 2015

Eurasian Economic Union Came into Force

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Alexander MEZYAEV
Strategic-Culture.org

Eurasian Economic Union Came into Force

As the new year started, the Eurasian Economic Union (the EEU) signed on May 29, 2014 came into force to include Russia, Belarus, Kazakhstan, Armenia and Kirgizia. The EEU boasts the population of 183 million (the seventh largest in the world) and covers over 20 million square kilometers (15% of the earth’s land). The organization is the largest world gas (22% of global output) and oil (14, 6% of global output) producer, the second largest producer of mineral fertilizers (14% of world output), the third largest energy (9% of global output) producer and the fourth largest producer of steel (6% of global production) and coal (6% of global output)…(1) But what really matters is that the Eurasian Union is «a model of a powerful, supranational association capable of becoming one of the poles of the modern world …to play an effective bridge role between Europe and the dynamic Asia-Pacific region». (2) The EEU is an international organization based on regional economic integration or an international entity. It means that the decisions of its organs (the Eurasian Economic Council, the Economic Commission, and the Economic Court) become norms of international law. It’s very important. For a long time Russia has adhered to the legal norms created by others. It has become unacceptable as the current system of international law is being destroyed to be replaced by repressive legal system. The adoption of common foreign trade and customs policy is a matter of special importance. The foreign commerce will be based on the principles of free trade and the regime of most favored nations. The EEU members will coordinate the activities in agriculture, industry, energy and stick to common sanitary and technical standards. A common market of pharmaceuticals is to be in place by 2016. A common energy market is to be formed by 2019 and a common oil, gas and oil products market is to become a reality by 2025. It is emphasized that the Union is an economic organization. The history has the examples of international economic organizations gradually turning into political or even military unions. The Economic Community of West African States (ECOWAS) is a good example. Not much time passed since its inception as it shifted the focus from purely commercial projects to military operations on the territories of member-states. There have been attempts made to create an association of post-Soviet countries going beyond the limits of economic cooperation. They all have failed. Some time ago the President of Kazakhstan opposed the accession of Kyrgyzstan, Tajikistan and Armenia to the Customs Union. At the same time he supported the idea of Turkey’s membership only to prevent the Union from becoming a supranational political entity like the European Union. The provisions on common citizenship, common foreign policy and common protection of borders were excluded from the text of the treaty. 

The EEU is coming into force against the background of Russia’s visible intensification of policy aimed at achieving agreements with the neighboring states, especially with the ones tied to Russia by the Union. On December 22, the presidents of Russia and Kazakhstan exchanged ratification documents on the Russia-Kazakhstan Treaty on Good-Neighborly and Allied Relations in the 21st Century. The treaty does not cancel the basic Treaty of Friendship, Cooperation and Mutual Assistance signed between Russia and Kazakhstan in 1992. To the contrary the both treaties complement each other to be implemented in parallel. On December 23, a treaty on the relations between Russia and Abkhazia was submitted to the State Duma for ratification. It was signed on November 24 to bring the relationship to a new level. As far back as 2008 (right after Abkhazia became an independent state) Russia and Abkhazia concluded a friendship, cooperation and assistance treaty. The new document is called the Russian-Abkhazian Treaty on Allied Relations and Strategic Partnership. The treaty will make Russia invoke Article 15 (clause 4) of the Constitution which proclaims the priority of international law over Russian domestic law. The new document streamlines the procedures required to grant Russian citizenship to the citizens of Abkhazia. It is mainly focused on common foreign and military policy, as well as social and political issues. The common foreign policy presupposes closely coordinated activities aimed at strengthening peace and enhancing stability and security. In particular, Article 4 of the treaty envisions that the Russian Federation «will in all possible ways contribute to strengthening the international ties of the Republic of Abkhazia, including expansion of the range of states that officially recognized it, and creation of conditions for the admission of the Republic of Abkhazia to international organizations and associations, including those established on the initiative and/or with assistance from the Russian Federation». Article 6 is also important. It says that should one of the sides come under aggression (armed attack) from any state or a group of states, «this will be considered as aggression [armed attack] also against the other State party». In this case, the sides will grant each other «the necessary assistance, including military, and render support by available means to exercise the right to collective defense». The provision corresponds to international law, especially to Article 51 of the UN Charter. The treaty states that the defensive measures are to be reported without delay to the Security Council of United Nations and their implementation is to be carried out in accordance with the United Nations Charter. The treaty stipulates the establishment of a Joint Group of Forces of the Russian Federation’s Armed Forces and Abkhazia’s Armed Forces to repel aggression. It will have joint command structures and defense infrastructure. The respective Russian organ is to assign a commander in the period of immediate threat or combat action. (3) A more detailed agreement will make precise the procedures. (4) The document envisions the creation of common defense, security, social, economic, cultural and humanitarian space. A new treaty with South Ossetia is being prepared (5). It will to large measure amend the 2008 treaty concluded immediately after the recognition of South Ossetia by Russia as an independent state. Anatoly Bibilov, the speaker of South Ossetian parliament, said the treaty will meet the basic interests of the republic striving for maximum integration with Russia and the development of cooperation in different spheres. 

Going back to the Eurasian Union treaty it should be noted that the organization is open to any state which shares its goals and principles on the conditions agreed with all member-states. In the second half of 2014 two states became the Union’s members. Armenia signed the treaty on October 10, 2014 to be joined by Kyrgyzstan on December 23. Armenia also joined the Customs Union and the Single Economic Space. President Putin visited Uzbekistan. The both parties agreed to hold consultations on possible conclusion of free trade zone treaty between Uzbekistan and the Eurasian Economic Treaty. The Speaker of the Federation Council of the Federal Assembly of the Russian Federation reported that the consultations are held on possible accession of Tajikistan to the Eurasian Economic Union… 

The creation of the Eurasian Economic Union is a result of long preparatory work within the framework of the Eurasian Economic Community and the Customs Union. Summing it up President Putin said «Our integration project is already producing practical results. Trade within the Customs Union has increased by 50 percent since July 1, 2011, and now comes to more than 64 billion dollars. We have improved our trade structure. Processed goods have gradually started replacing raw materials. Their share has risen considerably, while the share of raw materials has fallen from 40 percent to 28.9 percent».

The West fiercely opposes the Eurasian Economic Union and the plans for its development. It should be realized that the construction of «a model of a powerful, supranational association capable of becoming one of the poles of the modern world» will require great efforts. The process will not be limited by economic issues only. It will be opposed in all spheres. 

Footnotes:
1) The official website of the Eurasian Economic Union:
http://www.eurasiancommission.org/ru/Pages/ses.aspx
2) That’s how President Putin described the process Russia, Belarus and Kazakhstan unification in one of his articles which became part of his pre-election program in 2012. 
3) The joint force will include the units of Abkhazian and Russian armed forces. The military and the Ministry of Defense of Abkhazia continue to function as before under the national command.
4) Such an agreement may be concluded in three months after the treaty comes into force. 
5) On December 22, 2014, Vladislav Surkov, a presidential advisor, said that Work on a new treaty on alliance and integration between Russia and South Ossetia will be over by late January 2015.
 

La tradition indo-européenne chez les Germains

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La tradition indo-européenne chez les Germains

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

Les Germains du début de la période historique étaient assez proches des Gaulois, avec lesquels certains auteurs anciens les confondent, et l’appartenance ethnique de certaines tribus frontalières est incertaine. Pourtant, la forme de leurs sociétés diffère, et leur rapport à la tradition indo-européenne plus encore.

Contrairement aux Celtes, les Germains ont conservé une part non négligeable du formulaire hérité. La poésie germanique ancienne, notamment le Chant de Hildebrand allemand, le Beowulf anglais (dont la matière vient du Danemark et de Suède), les poèmes eddiques islandais et même, en dépit de son sujet chrétien, le Heliand saxon conservent nombre de formules traditionnelles héritées qui proviennent des «antiques poèmes» des anciens Germains, «la seule forme de tradition et d’histoire qu’ils connaissent», selon Tacite, La Germanie, 2,3. Ainsi la kenning de l’or «feu des eaux» et le personnage mythologique du Rejeton des eaux. L’expression anglaise frēo nama glosée cognomen «surnom» se superpose exactement à l’expression védique priyám nāma «nom propre». Un poème eddique, les Dits d’Alviss, est fondé sur la notion traditionnelle de «langue des dieux» représentée chez Homère et dans le monde indo-iranien, étendue aux autres classes d’êtres surnaturels, alfes, géants et nains: le soleil y est dit «belle roue», comme dans l’image védique et grecque de la «roue solaire»; la terre y est nommée «la large», comme dans son nom védique. La triade pensée, parole, action est bien représentée dans le monde germanique ancien. Si, dans Heliand, elle provient du Confiteor qui la tient lui-même de l’Avesta, ses attestations dans Beowulf et dans les poèmes eddiques semblent directement héritées. La triade des fonctions structure le panthéon: les principales divinités, dont le noms ont été conservés dans ceux de jours de la semaine, sont les deux dieux souverains *Wōdanaz «furieux» et *Teiwaz «divin», le dieu guerrier *Thunaraz «tonnerre» et le couple *Frawjaz *Frawjō «maître» et «maîtresse» qui préside à l’amour. La triade est directement attestée au temple de Vieil-Upsal. De plus, avec la guerre des Ases (les trois premiers) et des Vanes (les deux derniers) le monde germanique a l’équivalent de la guerre sabine de l’histoire légendaire de Rome: une «guerre de fondation» dans laquelle s’affrontent les représentants des deux premières fonctions et ceux de la troisième avant de se réconcilier pour former ici le panthéon, là un peuple. Innovation commune latino-germanique, ce mythe ne semble pas très ancien; il paraît lié à la dernière période de la tradition, celle où la société lignagère est ébranlée par l’émergence de la société héroïque, dans laquelle la notion de «corps social» est remise en cause par les conflits internes. Il en va de même pour sa contrepartie, la «guerre de dissolution» : la discorde familiale qui provoque une guerre mondiale et la fin de la société lignagère, sujet du Mahābhārata et de la bataille de Brávellir; mais cette concordance indo-scandinave suggère un point de départ plus ancien.

La société héroïque est clairement évoquée aux chapitres 13 et 14 de la Germanie de Tacite:

«Affaires publiques ou affaires privées, il ne font rien sans être en armes. Mais la coutume veut que nul ne prenne les armes avant que la cité ne l’en ait reconnu capable. Alors, dans l’assemblée même, un des chefs ou le père ou ses proches décorent le jeune homme du bouclier et de la framée: c’est là leur toge, ce sont là les premiers honneurs de leur jeunesse; auparavant ils sont censés appartenir à une maison, ensuite à l’État. Une insigne noblesse ou les grands mérites de leurs pères obtiennent la faveur d’un chef à de tout jeunes gens; ils s’agrègent aux autres plus forts et depuis long temps déjà éprouvés, et l’on ne rougit pas de figurer parmi les compagnons. Bien plus, ce compagnonnage lui-même comporte des degrés, à la discrétion de celui à qui on s’est attaché; il y a aussi une grande émulation entre les compagnons à qui aura la première place auprès du chef, et entre les chefs à qui aura les compagnons les plus nombreux et les plus ardents. C’est la grandeur, c’est la force d’être entouré toujours d’un groupe important de jeunes gens d’élite, ornement dans la paix, garde dans la guerre. Et ce n’est pas seulement dans sa nation, c’est encore auprès des cités voisines que la réputation, que la gloire est acquise à quiconque se distingue par le nombre et la valeur de ses compagnons: on les sollicite par des ambassades, on leur offre des présents et souvent leur nom seul décide de l’issue de la guerre. Sur le champ de bataille, il est honteux pour le chef d’être vaincu en courage, il est honteux pour les compagnons de ne pas égaler le courage du chef. Mais surtout c’est une flétrissure pour toute la vie et un opprobre d’être revenu d’un combat où son chef a péri; le défendre, le sauver, rapporter à sa gloire ses propres exploits, voilà l’essence de leur engagement: les chefs combattent pour la victoire, les compagnons pour leur chef. Si la cité où ils sont nés s’engourdit dans l’oisiveté d’une longue paix, la plupart des jeunes nobles s’en vont d’eux-mêmes chez des peuples voisins qui ont alors quelque guerre car cette nation déteste l’état de paix, puis il leur est plus facile de s’illustrer dans les hasards et l’on ne peut entretenir de nombreux compagnons que par la violence et la guerre; ils exigent en effet de la libéralité de leur chef ce cheval de bataille, cette sanglante et victorieuse framée; la table du chef avec ses apprêts grossiers, mais abondante, leur tient lieu de solde; la source de la munificence est dans la guerre et le pillage».

Quand le jeune noble quitte sa famille pour un compagnonnage qui peut être extérieur à sa «nation», son obligation de fidélité, trustem et fidelitatem, selon les termes de la Loi salique, change complètement: il ne la doit plus à sa famille, mais à son seigneur. En cas de conflit, c’est à lui qu’il doit être fidèle. Ce qui peut aboutir à ce que des proches parents combattent dans des camps opposés, et parfois s’affrontent: des cousins, comme dans un passage célèbre de la Chronique anglo-saxonne, à l’année 755, ou même un père et un fils comme dans le récit traditionnel typique de la société héroïque sur lequel se fonde le Chant de Hildebrand. Les premiers mots du chapitre, «affaires publiques ou affaires privées, ils ne font rien sans être en armes» souligne le lien entre la société héroïque et la fonction guerrière devenue prédominante à l’époque des migrations. Thucydide donne une indication similaire pour les Grecs de la période protohistorique, 1,6: «Car toute la Grèce portait les armes, faute d’habitations protégées et de communications sûres: vivre sous les armes était une habitude constante, comme chez les barbares». Il semble pourtant que cet usage ait été accepté et intégré par la société lignagère. Paul le diacre rapporte que le prince langobard Alboin n’avait été admis à la table de son père Audoin qu’après être entré pour un temps dans le compagnonnage d’un roi étranger. Il ne s’agit pas, dans ce cas, d’un engagement définitif, impliquant une rupture avec sa famille, mais d’un stage.

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De fait, la société lignagère traditionnelle est bien vivante dans le monde germanique décrit par Tacite. C’est une société tribale dont l’unité supérieure, qu’il nomme «cité», civitas, est la tribu, *thewdō, de *tewtā, dont le chef, *thewdanaz, est le roi. Vient ensuite le lignage, dont le nom, *kindiz, correspond exactement au latin gens. Sur les institutions du village, *thurpaz, Tacite nous rapporte les relations d’hospitalité entre voisins; sur la famille, *haimaz, les usages matrimoniaux, les règles successorales et l’obligation de solidarité: on est tenu d’embrasser les inimitiés soit d’un père, soit d’un proche, aussi bien que ses amitiés». Cette solidarité a pu s’étendre au lignage. La société comporte également trois statuts: noble, *erilaz, homme libre, *karlaz, serf, *thragilaz, *thrāhilaz. Comme chez les Grecs et les Romains, et contrairement aux Celtes et aux Indo-Iraniens, les castes ne sont pas fonctionnelles: le noble est plus guerrier que prêtre, l’homme libre a son culte domestique à côté de ses occupations pacifiques et guerrières. Mais elles ont conservé le lien traditionnel avec la triade des couleurs: dans le Chant de Ríg eddique, qui relate la genèse des trois castes de la société, le serf naît «noiraud», l’homme libre «roux, auteint vermeil», le noble a la chevelure blonde, les joues claires et les yeux vifs, «terrifiants comme ceux d’un jeune serpent»: une indication qui rappelle le qualificatif védique «au regard de maître».

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La société germanique conserve des vestiges de l’état le plus ancien de la société indo-européenne. L’un est l’importance de l’oncle maternel, que signale Tacite, La Germanie, 20,5: «Le fils d’une sœur ne trouve pas moins d’égards auprès de son oncle que chez son père; certains pensent que cette parenté du sang est plus sainte et plus étroite». Cette dernière indication donne à penser que la conception n’est pas empruntée à un peuple étranger, mais qu’elle représente une tradition antique et vénérable. Comme elle est en contradiction avec la patrilinéarité qui est la règle dans l’ensemble du monde indo-européen ancien, y compris chez les Germains, et avec l’image de la semence et du champ qui en est indissociable, ce doit être un archaïsme remontant à la période la plus ancienne. A cette même période se rattachent les nombreuses légendes de peuples migrants conduits par deux jumeaux accompagnés de leur mère. Ces légendes, comparables à celle de la fondation de Rome par une bande conduite par Romulus, Remus et leur mère Rhea Silvia, ne sont explicables que dans une culture où la femme qui donne naissance à des jumeaux est expulsée avec sa progéniture, en raison de la dangerosité qui s’attache aux naissances gémellaires, et où les jumeaux sont considérés comme doués d’une puissance surnaturelle. Ce qui n’est le cas chez aucun des peuples indo-européens connus. Ici encore, une innovation est exclue, et un archaïsme est plus vraisemblable qu’un emprunt. Apparentée à celle de la première destruction de Troie, la légende du géant bâtisseur dont on connaît de nombreuses variantes dans les contes populaires rappelle la crainte ancestrale d’une nuit hivernal e qui n’aurait pas de fin: le géant demande pour salaire le soleil, la lune et Freyja. Le personnage de l’Aurore annuelle, Ostara, est au centre de la mythologie du cycle annuel des régions circumpolaires; c’est surtout vrai de son pluriel représenté par le nom allemand de Pâques, Ostern, qui correspond aux Aurores plurielles des hymnes védiques. Le mythe de l’Aurore annuelle enlevée et ramenée pas ses frères les jumeaux divins est à la base de diverses légendes, dont celle de Hilde Gudrun et celle de Finnsburh. Rappelons aussi que les Jumeaux divins sont mentionnés dans la Germanie de Tacite, qui les identifie aux Dioscures. Mais leur nom, Alces, prouve leur haute antiquité: alors qu’ailleurs ils sont liés au cheval, comme les Aśvin védiques, Hengest et Horsa, etc., les Alces sont des élans, ce qui renvoie à une période antérieure à la domestication du cheval, et donc à la période commune des Indo-Européens.

* * 

De Les peuples indo-européens d’Europe.

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Je ne suis pas manipulable

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Comprendre la guerre

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Radio Courtoisie:

«Comprendre la guerre» (Audio)

 

 

Pour écouter:

http://fortune.fdesouche.com/371289-radio-courtoisie-comprendre-la-guerre-audio

Entré en service en 1987, le lieutenant-colonel Entraygues a successivement servi au 35e RI, au 8e Groupe de chasseurs, au 152e RI, à l’EMF 4 de Limoges puis au centre d’entraînement des postes de commandement de Mailly le camp.
Stagiaire de la 15e promotion du Collège Interarmées de Défense, École de Guerre, il est titulaire d’un double doctorat en histoire contemporaine – Paris IV La Sorbonne et King’s College London, Department of War Studies – dont le sujet est « JFC Fuller : comprendre la guerre ».

 

L’auteur a tenu la fonction d’officier de liaison interarmées au Joint Services Command and Staff College et du Centre de la doctrine des armées du Royaume-Uni. Il est depuis le mois de septembre 2013 chargé d’études à l’IRSEM.

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Hinter dem Verfall des Rubels steckt ein Wirtschaftskrieg der USA

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Hinter dem Verfall des Rubels steckt ein Wirtschaftskrieg der USA
 
Ex: http://unzensuriert.at

Der Rubel wurde durch einen gezielten Wirtschaftskrieg destabilisiert!

Die seit Wochen sinkenden Energiepreise, Sanktionen westlicher Nationen gegen Russland und Spekulationen auf den Währungsmärkten führten im Dezember beinahe zum Zusammenbruch des russischen Rubels. Dahinter stecken aber keineswegs freie Entwicklungen auf den Finanzmärkten oder verfehlte Politik in Russland, sondern vielmehr kalkulierte wirtschaftliche Angriffe, um Russland weiter zu destabilisieren und Putin unter Druck zu setzen. Ein Wirtschaftskrieg ist in vollem Gange.

USA bekennen sich offen zu Destabilisierung

Das hinter der Destabilisierung der russischen Wirtschaft mitsamt Währungsverfall und massiver Inflation die US-Administration unter Barack Obama steckt, wurde bereits im Mai diesen Jahres deutlich. Daniel Glaser, ein Sekretär im amerikanischen Finanzministerium, meinte damals im Ausschuss für Äußere Angelegenheiten im US-Repräsentantenhaus, die Sanktionen gegen Russland würden nicht nur auf die Kappung des Außenhandels mit der EU und den USA abzielen, sondern auch auf eine Destabilisierung des Rubels und eine damit massiv einhergehende Inflation. Auch wollte man mit der Destabilisierung der russischen Wirtschaft einen Devisen- und Goldverkauf erzwingen, da die Russen an die 418 Milliarden Dollar in ausländischen Währungen und Gold besitzen. Wladimir Putin meinte aber erst kürzlich in einem Gespräch über die Vorgehensweise der russischen Zentralbank, das man keinesfalls die Goldreserven des Landes anrühren und auf den Markt werfen werde.

Ein wichtiger Faktor im Kampf um die russische Wirtschaft ist der Energiepreis. Russland ist traditionell stark abhängig von den Gas- und Ölpreisen. Diese sanken in den vergangenen Monaten massiv, vor allem auf Betreiben der USA. Diese fluteten mit eigenem Gas und Öl aus der Fracking-Gewinnung die Energiemärkte und verursachten somit einen Preissturz. Damit konnte man neben Russland auch gleich zwei weitere erdölexportierende Erzfeinde, Venezuela und den Iran, schwächen. Dieselbe Taktik wendete die US-Regierung bereits während des Afghanistan-Krieges der Sowjetunion an, um eine Niederlage dieser zu forcieren. Russland lässt sich dennoch nicht abschrecken und macht genau das Gegenteil von dem, was man erwartet. Es investiert seine nationalen Reserven in die eigene Wirtschaft und versucht, den sozialen und öffentlichen Sektor zu stärken.

Russland sucht sich neue Partner

Durch den Wirtschaftskrieg des Westens geht vor allem der Europäischen Union ein überlebenswichtiger Handelspartner verloren, wie die negativen Auswirkungen der Sanktionen bereits verdeutlichten. Russland orientiert sich mit seiner Energie- und Investitionspolitik verstärkt in den Osten nach Asien. Somit wird auch die Türkei gestärkt, die nun durch das Ende des South-Stream-Projektes eine mächtige Position in der europäischen Energieversorgung einnimmt. Da sich die Türkei als Partner Russlands positionierte, bekommt sie somit das Gas Russlands zu einem billigeren Preis als die EU. Aber auch China wird zu einem der wichtigsten Handelspartner Russlands. Enorme Investitionen in beiden Ländern werden geplant und Gasdeals in Milliardenhöhe abgeschlossen, auch weil sich beide Länder auf einen Handel in den einheimischen Währungen geeinigt haben, unabhängig vom US-Dollar. Der vom Westen erhoffte politische Regimewechsel in Russland, aufgrund der wirtschaftlichen Destabilisierung, dürfte somit in absehbarer Zeit nicht eintreten.

mercredi, 14 janvier 2015

Conflits n°4

Couple terre/mer, couple originel

Conflits n°4 : Qui tient la mer tient le monde

Conflits n°4 : Qui tient la mer tient le monde

Editorial

par Pacal Gauchon

Le couple terre/mer s’est rapidement imposé. Ratzel insistait pourtant sur l’opposition nomades/sédentaires qui retrouve, en notre époque de mondialisation, une modernité inattendue. Bien d’autres paires viennent à l’esprit, inspirées par la géographie, la diplomatie ou la stratégie : ami/ennemi, nous/les autres, ager/saltus, offensive/défensive, choc/feu, extension/concentration… Ils sont présents chez tous les grands géopoliticiens, mais en arrière-plan. Le devant de la scène appartient à la terre et à la mer.

On le doit sans doute au climat qui règne lors de la naissance de la géopolitique, à la veille de la Première Guerre mondiale, alors que les progrès techniques – navires à vapeur, chemins de fer – permettent de mieux maîtriser les éléments et de tracer de nouvelles routes maritimes et terrestres. Qui est le plus fort, celui qui contrôle les secondes ou les premières ? Et d’où naît la puissance, de la terre ou de la mer ? Beaucoup des premiers géopoliticiens sont des militaires. Ils pensent tout naturellement en termes de combat et ils savent que le front n’autorise guère les subtilités du diplomate. Le conflit est conçu comme l’épreuve de vérité suprême du rapport de force entre Nations. Même la géoéconomie n’échappe pas à cette ambiance martiale puisqu’elle popularise la notion de « guerre économique ».

La géopolitique n’échappe pas aux conditions de sa naissance ni à la civilisation occidentale dans laquelle elle s’est développée.

La pensée duale présente des vertus. Elle aide à comparer et contraint à choisir son camp, elle facilite dès lors la prise de décision. C’est une pensée de l’action et elle explique sans doute l’efficacité dont a fait preuve l’Occident au cours de son histoire. Le plan en trois parties n’est-il pas l’apanage des intellectuels de Normale Sup tandis que le plan en deux parties est pratiqué par les futurs hauts fonctionnaires de Science-Po et de l’ENA ?

Ménages à trois ?

En contrepartie, la pensée duale schématise et amoindrit. Elle met sur le même plan les deux éléments du couple. Mais comme Martin Motte le rappelait justement dans le numéro 3 de Conflits, nous sommes des animaux terrestres auxquels il manque des branchies. Les navires doivent s’abriter, se ravitailler, se réparer dans des ports. Ainsi la mer a besoin de la terre plus que la terre a besoin de la mer.

Elle essentialise chacune des deux notions, faisant oublier la diversité qui se cache derrière elles. Les eaux territoriales ne sont pas la haute mer, l’Adriatique n’est pas le Pacifique, le centre du continent n’est pas le littoral.

Elle tient pour négligeable le contact. Le « deux » fait oublier « l’entre-deux ». C’est le mérite de Spykman d’avoir montré que la puissance ne résidait ni au cœur du Heartland, ni au milieu des mers, mais dans le Rimland, la zone côtière qui borde l’Eurasie et qui peut viser l’horizon terrestre autant que l’horizon maritime (voir page 45). Sans doute le Rimland est-il moins un acteur à part entière qu’un enjeu disputé entre puissance du continent et puissance de l’océan. Mais un enjeu capital dont dépend la bascule du monde.

Nous l’avons dit, la géopolitique n’échappe pas aux conditions de sa naissance ni à la civilisation occidentale dans laquelle elle s’est développée. Ni à la conception de la guerre que nous ont léguée les Grecs selon V. D. Hanson, celle du combat d’hoplites et de la « bataille décisive » : deux colonnes de guerriers portant 30 kilos d’armes, épaule contre épaule, les derniers poussant les premiers, qui marchent les uns contre les autres dans le tumulte et la poussière. En face, les ennemis et leurs lances, à droite le bouclier de l’ami qui combat à côté de vous et vous protège.

Une autre façon de se battre pourrait-elle engendrer une autre géopolitique ? On se plaît à imaginer les conséquences que l’on pourrait tirer des stratèges chinois avec l’importance qu’ils attribuent au « non-combat », à la tromperie, à la démoralisation de l’adversaire ; il s’agit de faire de l’ennemi sinon un ami, du moins un non-ennemi. Cette géopolitique-là reste encore à inventer.

Conflits n°4 : Géopolitique des mers et des océans

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Oswald Spengler & the Faustian Soul of the West

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Oswald Spengler & the Faustian Soul of the West,

Part 1

By Ricardo Duchesne

Ex: http://www.counter-currents.com 

If I had to choose one word to identify the uniqueness of the West it would be “Faustian.” This is the word Oswald Spengler used to designate the “soul” of the West. He believed that Western civilization was driven by an unusually dynamic and expansive psyche. The “prime-symbol” of this Faustian soul was “pure and limitless space.” This soul had a “tendency towards the infinite,” a tendency most acutely expressed in modern mathematics. 

The “infinite continuum,” the exponential logarithm and “its dissociation from all connexion with magnitude” and transference to a “transcendent relational world” were some of the words Spengler used to describe Western mathematics. But he also wrote of the “bodiless music” of the Western composer, “in which harmony and polyphony bring him to images of utter ‘beyondness’ that transcend all possibilities of visual definition,” and, before the modern era, of the Gothic “form-feeling” of “pure, imperceptible, unlimited space” (Decline of the West, Vol.1, Form and Actuality [Alfred Knopf, 1923] 1988: 53-90).

This soul type was first visible, according to Spengler, in medieval Europe, starting with Romanesque art, but particularly in the “spaciousness of Gothic cathedrals,” “the heroes of the Grail and Arthurian and Siegfried sagas, ever roaming in the infinite, and the Crusades,” including “the Hohenstaufen in Sicily, the Hansa in the Baltic, the Teutonic Knights in the Slavonic East, [and later] the Spaniards in America, [and] the Portuguese in the East Indies.” Spengler thus viewed the West as a strikingly vibrant culture driven by a type of personality overflowing with expansive impulses, “intellectual will to power.” “Fighting,” “progressing,” “overcoming of resistances,” battling “against what is near, tangible and easy” – these were some of the terms Spengler used to describe this soul (Decline of the West: 183-216).

A variety of words have been used to describe or identify the peculiar history of the West: “individualist,” “rationalist,” “imperialist,” “secularist,” “restless,” and “racist.” Spengler’s term “Faustian,” it seems to me, best captures the persistent, and far greater, originality of the West since ancient times in all the intellectual, artistic, and heroic spheres of life. But many today don’t read Spengler; there are no indications, in fact, that the foremost experts on the so-called “rise of the West” have even read any of his works.

The current academic consensus has reduced the uniqueness of the West to when this civilization “first” became industrial. This consensus believes that the West “diverged” from other agrarian civilizations only when it developed steam engines capable of using inorganic sources of energy. Prior to the industrial revolution, we are made to believe, there were “surprising similarities” between Europe and Asia. Both multiculturalist and Eurocentric historians tend to frame the “the rise of the West” or the “great divergence” in these economic/technological terms. David Landes, Kenneth Pomeranz, Bin Wong, Joel Mokyr, Jack Goldstone, E. L. Jones, and Peer Vries all single out the Industrial Revolution of 1750/1830 as the transformation which signaled a whole new pattern of evolution for the West (or England in the first instance). It matters little how far back in time these academics trace this Revolution, or how much weight they assign to preceding developments such as the Scientific Revolution or the slave trade, their emphasis is on the “divergence” generated by the arrival of mechanized industry and self-sustained increases in productivity sometime after 1750.

spenglervbbnjh.jpgBut I believe that the Industrial Revolution, including developments leading to this Revolution, barely capture what was unique about Western culture. I am obviously aware that other cultures were unique in having their own customs, languages, beliefs and historical experiences. My claim is that the West was uniquely exceptional in exhibiting in a continuous way the greatest degree of creativity, novelties, and expansionary dynamic. I trace the uniqueness of the West back to the aristocratic warlike culture of Indo-European speakers [2] as early as the fourth millennium. The aristocratic libertarian culture of Indo-European speakers was already unique and quite innovative in initiating the most mobile way of life in prehistoric times [3] starting with the domestication and riding of horses and the invention of chariot warfare. So were the ancient Greeks in their discovery of logos and its link with the order of the world, dialectical reason, the invention of prose, tragedy, citizen politics, and face-to-face infantry battle.

The Roman creation of a secular system of republican governance anchored on autonomous principles of judicial reasoning was in and of itself unique. The incessant wars and conquests of the Roman legions, together with their many war-making novelties and engineering skills, were one of the most vital illustrations of spatial expansionism [4] in history. The fusion of Christianity and the Greco-Roman intellectual and administrative heritage, coupled with the cultivation of the first rational theology in history [5], Catholicism, were a unique phenomenon. The medieval invention of universities [6] — in which a secular education could flourish and even articles of faith were open to criticism and rational analysis in an effort to arrive at the truth — was exceptional. The list of epoch making transformation in Europe is endless, the Renaissance, the Age of Discovery, the Scientific Revolution(s), the Military Revolution(s), the Cartographic Revolution, the Spanish Golden Age, the Printing Revolution, the Enlightenment, the Romantic Era, the German Philosophical Revolutions from Kant to Hegel to Nietzsche to Heidegger.

Limitations in Charles Murray’s Measurement of the Accomplishments of Western civilization

Some may wonder how can one make a comparative judgment about the accomplishments of civilizations without some objective criteria or standard of measurement. There is a book by Charles Murray published in 2003, Human Accomplishment: The Pursuit of Excellence in the Arts and Sciences, 800 B.C. to 1950 [7], which systematically arranges “data that meet scientific standards of reliability and validity” for the purpose of evaluating the story of human accomplishments across cultures. It is the first effort to quantify “as facts” the accomplishments of individuals and countries across the world in the arts and sciences by calculating the amount of space allocated to these individuals in reference works, encyclopedias, and dictionaries. Charles Murray informs us that ninety-seven percent of accomplishment in the sciences occurred in Europe and North America from 800 BC to 1950. It also informs us that, in the Arts, Europe alone produced a far higher number of “significant figures” than the rest of the world combined. In music, “the lack of a tradition of named composers in non-Western civilization means that the Western total of 522 significant figures has no real competition at all” (p. 252-259).

Murray avoids a Eurocentric bias by creating separate compilations for each of “the giants” in the arts of the Arab world, China, India, and Japan, as well as of the “giants” of Europe. In this respect, Murray recognizes that one cannot apply one uniform standard of excellence for the diverse artistic traditions of the world. But he produces combined (worldwide) inventories of “the giants” for each of the natural sciences. Combined lists for the natural sciences are possible since world scientists themselves have come to accept the same methods and categories. The most striking feature of his list of “the giants” in the sciences (the top 20 in Astronomy, Physics, Biology, Medicine, Chemistry, Earth Sciences, and Mathematics) is that they are all (excepting one Japanese) Western (p. 84, 122-29).

What explanation does Murray offer for this remarkable “divergence” in human accomplishments? He argues that human accomplishment is determined by the degree to which cultures promote or discourage individual autonomy and purpose. Accomplishments have been “more common and more extensive in cultures where doing new things and acting autonomously [were] encouraged than in cultures [where they were] disapprove[d].” Human beings have also been “most magnificently productive and reached their highest cultural peaks in the times and places where humans have thought most deeply about their place in the universe and been most convinced they have one” (p. 394-99). The West was different in affording individuals greater autonomy and purpose.

One major limitation in Murray is that he attributes to Christianity this sense of purpose and place in the universe, unable to account for the incredible accomplishment of the pagan Greeks and Romans. It is also the case that Murray’s Human Accomplishment is a statistical assessment, an inventory of names, not an attempt to capture the historically dynamic character of Western individualism. His book leaves out all the dramatic transformations historians have identified with the West: Why did the voyages of global discovery “take place” in early modern Europe and not in China? Why did Newtonian mechanics elude other civilizations? Actually, no current historical work addresses all these transformations together. Countless books have been published on one or two major European transformations, but no scholar has tried to explain, or pose as a general question, the persistent creativity of Europeans from ancient to modern times across all the fields of human endeavor. The norm has been for specialists in one period or transformation to write about (or insist upon) the “radical” or “revolutionary” significance of the period or theme they happen to be experts on.

Missing is an understanding of the unparalleled degree to which the entire history of the West was filled with individuals persistently seeking “to transcend every optical limitation” (Decline of the West: 198). In comparative contrast to the history of India, China, Japan, Egypt, and the Americas, where artistic styles, political institutions and philosophical outlooks lasted for centuries, stands the “dynamic fertility of the Faustian with its ceaseless creation of new types and domains of form” (Decline of the West: 205). I can think of only three individuals, two philosophers of history and one historical sociologist, who have written in a wide-ranging way of:

  1. the “infinite drive,” “the irresistible trust” of the Occident,
  2. the “energetic, imperativistic, and dynamic” soul of the West, and
  3. the “rational restlessness” of the West

— Hegel, Spengler, and Weber.

Spengler is the one who overcomes in a keener way another flaw in Murray: his account of European distinctiveness is limited to the intellectual and artistic spheres. He pays no attention to accomplishments in warfare, exploration, and heroic leadership. His definition of accomplishment includes only peaceful individuals carrying scientific experiments and creating artistic works. Achievements come only in the form of “great books” and “great ideas.” In this respect, Human Accomplishment is akin to certain older-style Western Civ textbooks where the production of “Great Works” by “Great Men” in conditions of “Liberty” were the central themes. David Gress dubbed this type of historiography the “Grand Narrative [8]” (1998). By teaching Western history in terms of the realization of great ideas and works in the arts and sciences these texts “placed a burden of justification on the West” to explain how the reality of Western colonialism across the world, the higher degree of warfare among Europeans, the invention of far more destructive military weapons, the slave trade, and the unprecedented destruction of the civilizations of the Americas, should be left out of the account of Western accomplishments. Gress called upon historians to move away from an idealized image of Western uniqueness. Norman Davies, too, has criticized the way early Western civilization courses tended to “filter out anything that might appear mundane or repulsive” (A History of Europe, 1997: 28).

The Faustian Personality

I believe that Oswald Spengler’s identification of the West as “Faustian” provides us with the best word to overcome the current naïve separation between a cultured/peaceable West and an uncivilized/antagonistic West with his image of a strikingly vibrant culture driven by a type of Faustian personality overflowing with expansive, disruptive, and imaginative impulses manifested in all the spheres of life. For Spengler, the Faustian spirit was not restricted to the arts and sciences, but was present in the culture of the West at large. Spengler thus spoke of the “morphological relationship that inwardly binds together the expression-forms of all branches of Culture.” Rococo art, differential calculus, the Crusades, the Spanish conquest of the Americas were all expressions of the same restless soul. There is no incongruity between the “great ideas” of the West and the so-called “realities” of conquest and suffering. There is no need, from this standpoint, to concede to multicultural critics, as Norman Davies believes, “the sorry catalogue of wars, conflict, and persecutions that have dogged every stage of the [Western] tale” (p. 15-16). The expansionist dispositions of Europeans were not only indispensable but were themselves driven, as I argue in my book, The Uniqueness of Western Civilization, [9] and will briefly outline below, by an intensely felt desire to achieve great deeds and heroic immortality.

The great men of Europe were artists driven by an intensively felt desire for unmatched deeds. The “great ideas” – Archimedes’ “Give me a place to stand and with a lever I will move the whole world,” or Hume’s “love of literary fame, my ruling passion” – were associated with aristocratic traits, defiant dispositions – no less than Cortez’s immense ambition for honour and glory, “to die worthily than to live dishonoured.”

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In contrast to Weber, for whom the West “exhibited an unrivaled aptitude for rationalization,” Spengler saw in this Faustian soul a primeval-irrational will to power. It was not a calmed, disinterested, rationalistic ethos that was at the heart of Western particularity; it was a highly energetic, goal-oriented desire to break through the unknown, supersede the norm, and achieve mastery. The West was governed by an intense urge to transcend the limits of existence, by a highly energetic, restless, fateful being, an “adamantine will to overcome and break all resistances of the visible” (Decline: pp. 185-86).

There was something Faustian about all the great men of Europe, both in reality and in fiction: in Hamlet, Richard III, Gauss, Newton, Nicolas Cusanus, Don Quixote, Goethe’s Werther, Gregory VII, Michelangelo, Paracelsus, Dante, Descartes, Don Juan, Bach, Wagner’s Parsifal, Haydn, Leibniz’s Monads, Giordano Bruno, Frederick the Great, Rembrandt, Ibsen’s Hedda Gabler.

The Faustian soul — whose being consists in the overcoming of presence, whose feeling is loneliness and whose yearning is infinity — puts its need of solitude, distance, and abstraction into all its actualities, into its public life, its spiritual and its artistic form-worlds alike (Decline: 386).

For Spengler, Christianity, too, became a thoroughly Faustian moral ethic. “It was not Christianity that transformed Faustian man, but Faustian man who transformed Christianity — and he not only made it a new religion but also gave it a new moral direction”: will-to-power in ethics (344). This “Faustian-Christian morale” produced

Christians of the great style — Innocent III, Loyola and Savonarola, Pascal and St. Theresa [ . . . ] the great Saxon, Franconia and Hohenstaufen emperors . . . giant-men like Henry the Lion and Gregory VII . . . the men of the Renaissance, of the struggle of the two Roses, of the Huguenot Wars, the Spanish Conquistadores, the Prussian electors and kings, Napoleon, Bismarck, Rhodes (348-49).

But what exactly is a Faustian soul? How do we connect it in a concrete way to Europe’s creativity? To what original source or starting place did Spengler attribute this yearning for infinity? To start answering this question we should first remind ourselves of Spengler’s other central idea, his cyclical view of history, according to which

  1. each culture contains a unique spirit of its own, and
  2. all cultures undergo an organic process of birth, growth, and decay.

In other words, for Spengler, all cultures exhibit a period of dynamic, youthful creativity; each culture experiences “its childhood, youth, manhood, and old age.” “Each culture has its own new possibilities of self-expression, which arise, ripen, decay and never return” (18-24, 106-07). Spengler thus drew a distinction between the earlier vital stages of a culture (Kultur) and the later stages when the life forces were on their last legs until all that remained was a superficial Zivilisation populated by individuals preoccupied with preserving the memories of past glories while drudging through the unexciting affairs of their everyday lives.

However, notwithstanding this emphasis on the youthful energies of all cultures, Spengler viewed the West as the most strikingly dynamic culture driven by a soul overflowing with expansive energies and “intellectual will to power.” By “youthful” he meant the actualization of the specific soul of each culture, “the full sum of its possibilities in the shape of peoples, languages, dogmas, arts, states, sciences.” Only in Europe he saw “directional energy,” march music, painters relishing in the use of blue and green, “transcendent, spiritual, non-sensuous colors,” “colours of the heavens, the seas, the fruitful plain, the shadow of the Southern noon, the evening, the remote mountains” (245-46). I think John Farrenkopf [10] has it right when he argues that Spengler’s appreciation for non-Western cultures as worthy subjects of comparative inquiry came together with an “exaltation” of the greater creative energy of the West (2001: 35).

But what about Spengler’s repetitive insistence that ancient Greece and Rome were not Faustian? Although I agree with Spengler that in certain respects the Greek-Roman “soul” was oriented toward the present rather than the future, and that its architecture, geometry, and finite mathematics were bounded spatially, restrained, and perceptible, he overstates his argument about the lack of an expansionist spirit, downplaying the incredible creative energies of Greeks and Romans, their individual heroism and urge for the unknown. Farrenkopf thinks that the later Spengler came to view the Greeks and Romans as more individualistic and dynamic. I agree with Burckhardt that the Classical Greeks were singularly agonal and individualistic, and with Nietzsche’s insight that all that was civilized and rational among the Greeks would have been impossible without this agonal culture. The ancient Greeks who established colonies throughout the Mediterranean, the Macedonians who marched to “the ends of the world,” and the Romans who created the greatest empire in history, were similarly driven, to use Spengler’s term, by an “irrepressible urge to distance” as the Germanic peoples who brought Rome down, the Vikings who crossed the Atlantic, the Crusaders who wrecked havoc on the Near East, and the Portuguese who pushed themselves with their gunned ships upon the previously tranquil world of the Indian Ocean. Spengler does not persuade in his efforts to downplay this Faustian side of the Greeks and Romans.

fausto.jpgWhat was the ultimate original ground of the West’s Faustian soul? There are statements in Spengler which make references to “a Nordic world stretching from England to Japan” and a “harder-struggling” people, and a more individualistic and heroic spirit “in the old, genuine parts of the Mahabharata . . .  in Homer, Pindar, and Aeschylus, in the Germanic epic poetry and in Shakespeare, in many songs of the Chinese Shuking, and in circles of the Japanese samurai” (as cited in Farrenkopf: 227). Spengler makes reference to the common location of these peoples in the “Nordic” steppes. He does not make any specific reference to the Caucasian steppes but he clearly has in mind the “Aryan Indian” peoples who came out of the steppes and conquered India and wrote the Mahabharata. He calls “half Nordic” the Graeco-Roman, Aryan Indian, and Chinese high cultures. In Man and Technics, he writes of how the Nordic climate forged a man filled with vitality

through the hardness of the conditions of life, the cold, the constant adversity, into a tough race, with an intellect sharpened to the most extreme degree, with the cold fervor of an irrepressible passion for struggling, daring, driving forward.

Principally, he mentions the barbarian peoples of northern Europe, whose world he contrasts to “the languid world-feeling of the South” (Farrenkopf: 222). Spengler does not deny the environment, but rather than focusing on economic resources and their “critical” role in the industrialization process, he draws attention to the profound impact environments had in the formation of distinctive psychological orientations amongst the cultures of the world. He thinks that the Faustian form of spirituality came out of the “harder struggling” climes of the North. The Nordic character was less passive, less languorous, more energetic, individualistic, and more preoccupied with status and heroic deeds than the characters of other climes. He was a human biological being to be sure, but one animated with the spirit of a “proud beast of prey [11],” like that of an “eagle, lion, [or] tiger.” Much like Hegel’s master who engages in a fight to the death for pure prestige, for this “Nordic” individual “the concerns of life, the deed, became more important than mere physical existence” (Man and Technics: A Contribution to a Philosophy of Life, Greenwood Press, 1976: 19-41).

This deed-oriented man is not satisfied with a Darwinian struggle for existence or a Marxist struggle for economic equality. He wants to climb high, soar upward and reach ever higher levels of existential intensity. He is not preoccupied with mere adaptation, reproduction, and conservation. He wants to storm into the heavens and shape the world. But who exactly is this character? Is he the Hegelian master who fights to the death for the sake of prestige? Spengler paraphrases Nietzsche when he writes that the primordial forces of Western culture reflect the “primary emotions of an energetic human existence, the cruelty, the joy in excitement, danger, the violent act, victory, crime, the thrill of a conqueror and destroyer.” Nietzsche too wrote of the “aristocratic” warrior who longed for the “proud, exalted states of the soul,” as experienced intimately through “combat, adventure, the chase, the dance, war games” (The Genealogy of Morals, 1956: 167). Who are these characters? Are their “primary emotions” any different from humans in other cultures?

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/01/oswald-spengler-and-the-faustian-soul-of-the-west-part-1/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/06/Faust-im-Studierzimmer-Georg-Friedrich-Kersting.jpg

[2] Indo-European speakers: https://www.youtube.com/watch?v=DpbjquTQT98

[3] most mobile way of life in prehistoric times: http://press.princeton.edu/titles/8488.html

[4] vital illustrations of spatial expansionism: https://www.youtube.com/watch?v=SiIXC1U8HNo

[5] first rational theology in history: http://www.cambridge.org/us/academic/subjects/history/history-science-and-technology/god-and-reason-middle-ages

[6] invention of universities: http://www.cambridge.org/ca/academic/subjects/history/european-history-1000-1450/first-universities-studium-generale-and-origins-university-education-europe

[7] Human Accomplishment: The Pursuit of Excellence in the Arts and Sciences, 800 B.C. to 1950: http://www.amazon.com/gp/product/0060929642/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=0060929642&linkCode=as2&tag=countecurrenp-20&linkId=RSAI5XD63BIRHVZ5

[8] Grand Narrative: http://www.nytimes.com/books/first/g/gress-plato.html

[9] The Uniqueness of Western Civilization,: http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/.UdQ80Ds6Oxo#.VAhMZPldVOw

[10] John Farrenkopf: http://www.arktos.com/john-farrenkopf-prophet-of-decline.html

[11] beast of prey: https://www.youtube.com/watch?v=DLkeIACfi4Y&list=UUIfnKm98q78j2ZNcfSQhhCQ&index=3

 

Oswald Spengler & the Faustian Soul of the West,

Part 2

By Ricardo Duchesne 

Kant and the “Unsocial Sociability” of Humans

I ended Part 1 [2] asking who are these characters with proud aristocratic souls so different from the rather submissive, slavish souls of the Asiatic races. A good way to start answering this question is to compare Spengler’s Faustian man with what Immanuel Kant says about the “unsocial sociability” of humans generally. In his essay, “Idea for a Universal History from a Cosmopolitan Point of View,” Kant seemed somewhat puzzled but nevertheless attuned to the way progress in history had been driven by the fiercer, self-centered side of human nature. Looking at the wide span of history, he concluded that without the vain desire for honor, property, and status humans would have never developed beyond a primitive Arcadian existence of self-sufficiency and mutual love:

all human talents would remain hidden forever in a dormant state, and men, as good-natured as the sheep they tended, would scarcely render their existence more valuable than that of their animals . . . [T]he end for which they were created, their rational nature, would be an unfulfilled void.

Faust1r7yrluo1_400.gifThere can no development of the human faculties, no high culture, without conflict, aggression, and pride. It is these asocial traits, “vainglory,” “lust for power,” “avarice,” which awaken the otherwise dormant talents of humans and “drive them to new exertions of their forces and thus to the manifold development of their capacities.” Nature in her wisdom, “not the hand of an evil spirit,” created “the unsocial sociability of humans.”

But Kant never asked, in this context, why Europeans were responsible, in his own estimation, for most of the moral and rational progression in history. Separately, in another publication, Anthropology from a Pragmatic Point of View [3] (1798), Kant did observe major differences in the psychological and moral character of humans as exhibited in different places on earth, ranking human races accordingly, with Europeans at the top in “natural traits”. Still, Kant never connected his anthropology with his principle of asocial qualities.

Did “Nature” foster these asocial qualities evenly among the cultures of the world? While these “vices” — as we have learned today from evolutionary psychology — are genetically-based traits that evolved in response to long periods of adaptive selective pressures associated with the maximization of human survival, there is no reason to assume that the form and degree of these traits evolved evenly or equally among all the human races and cultures. It is my view that the asocial qualities of Europeans were different, more intense, strident, individuated.

Indo-European Aristocratic Lifestyle

I believe that this variation should be traced back to the aristocratic lifestyle of Indo-Europeans. Indo-Europeans were a pastoral people from the Pontic-Caspian steppes who initiated the most mobile way of life in prehistoric times starting with the riding of horses and the invention of wheeled vehicles in the fourth millennium BC, together with the efficient exploitation of the “secondary products” of domestic animals (dairy products, textiles, harnessing of animals), large-scale herding, and the invention of chariots in the second millennium. By the end of the second millennium, even though Indo-Europeans invaded both Eastern and Western lands, only the Occident had been “Indo-Europeanized [4].”

Indo-Europeans were also uniquely ruled by a class of free aristocrats. In very broad terms, I define as “aristocratic” a state in which the ruler, the king, or the commander-in-chief is not an autocrat who treats the upper classes as unequal servants but is a “peer” who exists in a spirit of equality as one more warrior of noble birth, primus inter pares [5]. This is not to say that leaders did not enjoy extra powers and advantages, or that leaders were not tempted to act in tyrannical ways. It is to say that in aristocratic cultures, for all the intense rivalries between families and individuals seeking their own renown, there was a strong ethos of aristocratic egalitarianism against despotic rule. A true aristocratic deserving respect from his peers could not be submissive; his dignity and honor as a man were intimately linked to his capacity for self-determination.

Different levels of social organization characterized Indo-European society. The lowest level, and the smallest unit of society, consisted of families residing in farmsteads and small hamlets, practicing mixed farming with livestock representing the predominant form of wealth. The next tier consisted of a clan of about five families with a common ancestor. The third level consisted of several clans — or a tribe — sharing the same. Those members of the tribe who owned livestock were considered to be free in the eyes of the tribe, with the right to bear arms and participate in the tribal assembly.

Although the scale of complexity of Indo-European societies changed considerably with the passage of time, and the Celtic tribal confederations that were in close contact with Caesar’s Rome during the 1st century BC, for example, were characterized by a high concentration of economic and political power, these confederations were still ruled by a class of free aristocrats. In classic Celtic society, real power within and outside the tribal assembly was wielded by the most powerful members of the nobility, as measured by the size of their clientage and their ability to bestow patronage. Patronage could be extended to members of other tribes and to free individuals who were lower in status and were thus tempted to surrender some of their independence in favor of protection and patronage.

Indo-European nobles were also grouped into war-bands. These bands were freely constituted associations of men operating independently from tribal or kinship ties. They could be initiated by any powerful individual on the merits of his martial abilities. The relation between the chief and his followers was personal and contractual: the followers would volunteer to be bound to the leader by oaths of loyalty wherein they would promise to assist him while the leader would promise to reward them from successful raids. The sovereignty of each member was thus recognized even though there was a recognized leader. These “groups of comrades,” to use Indo-European vocabulary, were singularly dedicated to predatory behavior and to “wolf-like” living by hunting and raiding, and to the performance of superior, even superhuman deeds. The members were generally young, unmarried men, thirsting for adventure. The followers were sworn not to survive a war-leader who was slain in battle, just as the leader was expected to show in all circumstances a personal example of courage and war-skills.

Young men born into noble families were not only driven by economic needs and the spirit of adventure, but also by a deep-seated psychological need for honor and recognition — a need nurtured not by nature as such but by a cultural setting in which one’s noble status was maintained in and through the risking of one’s life in a battle to the death for pure prestige. This competition for fame among war-band members (partially outside the ties of kinship) could not but have had an individualizing effect upon the warriors. Hence, although band members (“friend-companions” or “partners”) belonged to a cohesive and loyal group of like-minded individuals, they were not swallowed up anonymously within the group.

The Indo-European lifestyle included fierce competition for grazing rights, constant alertness in the defense of one’s portable wealth, and an expansionist disposition in a world in which competing herdsmen were motivated to seek new pastures as well as tempted to take the movable wealth (cattle) of their neighbors. This life required not just the skills of a butcher but a life span of horsemanship and arms (conflict, raids, violence) which brought to the fore certain mental dispositions including aggressiveness and individualism, in the sense that each individual, in this male-oriented atmosphere, needed to become as much a warrior as a herds-man.

The most important value of Indo-European aristocrats was the pursuit of individual glory as members of their warbands and as judged by their peers. The Iliad, Beowulf, Song of Roland, including such Irish, Icelandic and Germanic Sagas as Lebor na hUidre, Njals Saga, Gisla Saga Sursonnar, The Nibelungenlied recount the heroic deeds and fame of aristocrats — these are the earliest voices from the dawn of Western civilization. Within this heroic ‘life-world’ the unsocial traits of humans took on a sharper, keener, individuated expression.

What about other central Asian peoples from the steppes such as the Mongols and Turks who produced a similar heroic literature? There are a number of substantial differences. First, the Indo-European epic and heroic tradition precedes any other tradition by some thousands of years, not just the Homeric and the Sanskrit epics but, as we now know with some certainty from such major books as M. L. West’s Indo-European Poetry and Myth, and Calvert Watkins’s How to Kill a Dragon: Aspects of IE Poetics (1995), going back to a prehistoric oral tradition. Second, IE poetry exhibits a keener grasp and rendition of the fundamentally tragic character of life, an aristocratic confidence in the face of destiny, the inevitability of human hardship and hubris, without bitterness, but with a deep joy.

Third, IE epics show both collective and individual inspiration, unlike non-IE epics which show characters functioning only as collective representations of their communities. This is why in some IE sagas there is a clear author’s stance, unlike the anonymous non-IE sages; the individuality, the rights of authorship, the poet’s awareness of himself as creator, is acknowledged in many ancient and medieval European sagas (see Hans Gunther, Religious Attitudes of the Indo-Europeans [1963] 2001, and Aaron Gurevich, The Origins of European Individualism [6], 1995).

Nietzsche and Sublimation of the Agonistic Ethos of Indo-European Barbarians

nietzschefffggg.jpgBut how do we connect the barbaric asocial traits of prehistoric Indo-European warriors to the superlative cultural achievements of Greeks and later civilized Europeans? Nietzsche provides us some keen insights as to how the untamed agonistic ethos of Indo-Europeans was translated into civilized creativity. In his fascinating early essay, “Homer on Competition” (1872), Nietzsche observes that civilized culture or convention (nomos) was not imposed on nature but was a sublimated continuation of the strife that was already inherent to nature (physis). The nature of existence is based on conflict and this conflict unfolded itself in human institutions and governments. Humans are not naturally harmonious and rational as Socrates had insisted; the nature of humanity is strife. Without strife there is no cultural development. Nietzsche argued against the separation of man/culture from nature: the cultural creations of humanity are expressions or aspects of nature itself.

But nature and culture are not identical; the artistic creations of humans, their norms and institutions, constitute a re-channeling of the destructive striving of nature into creative acts, which give form and aesthetic beauty to the otherwise barbaric character of natural strife. While culture is an extension of nature, it is also a form by which human beings conceal their cruel reality, and the absurdity and the destructiveness of their nature. This is what Nietzsche meant by the “dual character” of nature; humans restrain or sublimate their drives to create cultural artifacts as a way of coping with the meaningless destruction associated with striving.

Nietzsche, in another early publication, The Birth of Tragedy (1872), referred to this duality of human existence, nomos and physis, as the “Apollonian and Dionysian duality.” The Dionysian symbolized the excessive and intoxicating strife which characterized human life in early tribal societies, whereas the Apollonian symbolized the restraint and re-channeling of conflict possible in state-organized societies. In the case of Greek society, during pre-Homeric times, Nietzsche envisioned a world in which there were no or few limits to the Dionysian impulses, a time of “lust, deception, age, and death.” The Homeric and classical (Apollonian) inhabitants of city-states brought these primordial drives under “measure” and self-control. The emblematic meaning of the god Apollo was “nothing in excess.” Apollo was a provider of soundness of mind, a guardian against a complete descent into a state of chaos and wantonness. He was a redirector of the willful and hubristic yearnings of individuals into organized forms of warfare and higher levels of art and philosophy.

For Nietzsche, Greek civilization was not produced by a naturally harmonious character, or a fully moderated and pacified city-state. One of the major mix-ups all interpreters of the rise of the West fall into is to assume that Western achievements were about the overcoming and suppression of our Dionysian impulses. But Nietzsche is right: Greeks achieved their “civility” by attuning, not denying or emasculating, the destructive feuding and blood lust of their Dionysian past and placing their strife under certain rules, norms and laws. The limitless and chaotic character of strife as it existed in the state of nature was made “civilized” when Greeks came together within a larger political horizon, but it was not repressed. Their warfare took on the character of an organized contest within certain limits and conventions. The civilized aristocrat was the one who, in exercising sovereignty over his powerful longings (for sex, booze, revenge, and any other kind of intoxicant) learned self-command and, thereby, the capacity to use his reason to build up his political power and rule those “barbarians” who lacked this self-discipline. The Greeks created their admirable culture while remaining at ease with their superlative will to strife.

The problem with Nietzsche is lack of historical substantiation. The research now exists to add to Nietzsche the historically based argument that the Greeks viewed the nature of existence as strife because of their background in an Indo-European state of nature where strife was the overriding ethos. There are strong reasons to believe that Nietzsche’s concept of strife is an expression of his own Western background and his study of the Western agonistic mode of thinking that began with the Greeks. One may agree that strife is in the “nature of being” as such, but it is worth noting that, for Nietzsche, not all cultures have handled nature’s strife in the same way and not all cultures have been equally proficient in the sublimated production of creative individuals or geniuses. Nietzsche thus wrote of two basic human responses to the horror of endless strife: the un-Hellenic tendency to renounce life in this world as “not worth living,” leading to a religious call to seek a life in the beyond or the after-world, or the Greek tragic tendency, which acknowledged this strife, “terrible as it was, and regarded it as justified.” The cultures that came to terms with this strife, he believed, were more proficient in the completion of nature’s ends and in the production of creative individuals willing to act in this world. He saw Heraclitus’ celebration of war as the father and king of the whole universe as a uniquely Greek affirmation of nature as strife. It was this affirmation which led him to say that “only a Greek was capable of finding such an idea to be the fundament of a cosmology.”

The Greek speaking aristocrats had to learn to come together within a political community that would allow them to find some common ground and thus move away from the “state of nature” with its endless feuding and battling for individual glory. There would emerge in the 8th century BC a new type of political organization, the city-state. The greatness of Homeric and Classical Greece involved putting Apollonian limits around the indispensable but excessive Dionysian impulses of barbaric pre-Homeric Greeks. Ionian literature was far from the berserkers of the pre-Homeric world, but it was just as intensively competitive. The search for the truth was a free-for-all with each philosopher competing for intellectual prestige in a polemical tone that sought to discredit the theories of others while promoting one’s own. There were no Possessors of the Way in aristocratic Greece; no Chinese Sages decorously deferential to their superiors and expecting appropriate deference from their inferiors.

Friedrich_Nietzsche_by_lieandletdie.jpgThis agonistic ethos was ingrained in the Olympic Games, in the perpetual warring of the city-states, in the pursuit of a political career and in the competition among orators for the admiration of the citizens, and in the Athenian theater festivals where a great many poets would take part in Dionysian competitions. It was evident in the sophistic-Socratic ethos of dialogic argument and the pursuit of knowledge by comparing and criticizing individual speeches, evaluating contradictory claims, collecting out evidence, competitive persuasion and refutation. And in the Catholic scholastic method, according to which critics would engage major works, read them thoroughly, compare the book’s theories to other authorities, and through a series of dialogical exercises ascertain the respective merits and demerits.

In Spengler’s language, this Faustian soul was present in “the Viking infinity wistfulness,” and their colonizing activities through the North Sea, the Atlantic, and the Black Sea. In the Portuguese and Spaniards who “were possessed by the adventured-craving for uncharted distances and for everything unknown and dangerous.” In “the emigration to America,” “the Californian gold-rush,” “the passion of our Civilization for swift transit, the conquest of the air, the exploration of the Polar regions and the climbing of almost impossible mountain peaks” — “dramas of uncontrollable longings for freedom, solitude, immense independence, and of giant-like contempt for all limitations.” “These dramas are Faustian and only Faustian. No other culture, not even the Chinese, knows them” (335-37).

The West has clearly been facing a spiritual decline for many years now as Spengler observed despite its immense technological innovations, which Spengler acknowledged, observing how Europe, after 1800, came to be thoroughly dominated by a purely “mechanical” expression of this Faustian tendency in its remorseless expansion outward through industrial capitalism with its ever-growing markets and scientific breakthroughs. Spengler did not associate this mechanical (“Anglo-Saxon”) expansion with cultural creativity per se. Before 1800, the energy of Europe’s Faustian culture was still expressed in “organic” terms; that is, it was directed toward pushing the frontiers of inner knowledge through art, literature, and the development of the nation state. It was during the 1800s that the West, according to him, entered “the early Winter of full civilization” as its culture took on a purely capitalistic and mechanical character, extending itself across the globe, with no more “organic” ties to community or soil. It was at this point that this rootless rationalistic Zivilisation had come to exhaust its creative possibilities, and would have to confront “the cold, hard facts of a late life. . . . Of great paintings or great music there can no longer be, for Western people, any question” (Decline of the West, Vol. I: 20-21; Vol II: 46, 44, 40).

The decline of the organic Faustian soul is irreversible but there is reason to believe that decline is cyclical and not always permanent — as we have seen most significantly in the case of China many times throughout her history. European peoples need not lose their superlative drive for technological supremacy. The West can re-assert itself, unless the cultural Marxists are successful in their efforts to destroy this Faustian spirit permanently through mass immigration and miscegenation.

Source: http://www.eurocanadian.ca/2014/09/oswald-spengler-and-faustian-soul-of_8.html [7]

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/01/oswald-spengler-and-the-faustian-soul-of-the-west-part-2/

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/01/Apollos.jpg

[2] Part 1: http://www.counter-currents.com/2015/01/oswald-spengler-and-the-faustian-soul-of-the-west-part-1/

[3] Anthropology from a Pragmatic Point of View: http://www.cambridge.org/us/academic/subjects/philosophy/philosophy-texts/kant-anthropology-pragmatic-point-view

[4] Indo-Europeanized: http://books.google.ca/books/about/The_Kurgan_Culture_and_the_Indo_European.html?id=hCZmAAAAMAAJ&redir_esc=y

[5] primus inter pares: http://en.wikipedia.org/wiki/Primus_inter_pares

[6] The Origins of European Individualism: http://books.google.ca/books/about/The_Origins_of_European_Individualism.html?id=QrksZOjpURYC&redir_esc=y

[7] http://www.eurocanadian.ca/2014/09/oswald-spengler-and-faustian-soul-of_8.html: http://www.eurocanadian.ca/2014/09/oswald-spengler-and-faustian-soul-of_8.html

 

Vers une criminalisation du citoyen ordinaire

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Vers une criminalisation du citoyen ordinaire

Auteur : Syti.net
Ex: http://zejournal.mobi

Nous assistons actuellement à une dérive inquiétante du Droit pénal. Plusieurs nouvelles lois visent un même but: condamner le citoyen ordinaire à des peines d'emprisonnement, même lorsqu'il n'a commis aucun crime...

La criminalisation de la vie quotidienne

Alors que le "monde d'en-haut" bénéficie d'une impunité sans limite pour ses crimes financiers, économiques, écologiques ou sociaux, le "monde d'en-bas" est soumis à un contrôle incessant et à une répression disproportionnée par rapports aux actes.

Depuis 2 ans, des lois nouvelles sont apparues simultanément dans les pays occidentaux: leur but est que le citoyen ordinaire devienne condamnable à la prison pour des actes de la vie quotidienne.

Prison pour les parents dont les enfants ne sont pas allés à l'école.

Prison pour ceux qui n'ont pas acheté leur billet de train.

Prison pour les exclus du système économique, mendiants ou squatters.

Prison pour excès de vitesse. (Au début du mois de Décembre, un automobiliste a été condamné à 2 ans de prison ferme pour un simple excès de vitesse, sans avoir causé d'accident)

Prison si l'un de vos proches qui vous accompagnait est mort à cause de votre erreur de conduite.

Prison si l'un de vos amis a causé un accident de voiture après être parti ivre de chez vous.
(en décembre 2003, un couple a été inculpé pour ce motif en France - voir les archives des "brèves nouvelles du monde" pour les détails)

Prison si vous causez la mort d'un tiers dans un accident de la route (10 ans de prison, soit davantage que certaines condamnations prononcées -ou réellement exécutées- dans des cas de violences préméditées, viols, actes de torture, ou assassinats)

Causer la mort d'une personne dans un accident routier est un drame, mais ce n'est pas un crime intentionnel et cela ne doit pas être puni comme tel. Vouloir éliminer tout risque d'accident est un but illusoire, car les risques d'accident existeront tant qu'il y aura des voitures. Une société doit être capable d'accepter une part de risque, car le risque est inhérent à la vie. Dès lors qu'on est vivant, on risque de mourrir. Quand il n'y a plus de risque, c'est qu'on est mort. Et il en est de même pour une société. Une société qui a éliminé tout risque est une société morte.

Dans l'ordre nouveau qui s'instaure actuellement sans susciter d'opposition réelle, le citoyen ordinaire du monde d'en-bas sera soumis à une oppression permanente, une surveillance électronique constante, et une peur omniprésente. Car qui sème la peur récolte la soumission.

L'invention du concept de "dangerosité"

Depuis une dizaine d'années, les médias ont introduit progressivement un mot et un concept qui n'existaient pas précédemment: la "dangerosité". Comme George Orwell l'avait prévu dans "1984", l'introduction de mots nouveaux ou la suppression de mots anciens dans le langage sont un puissant moyen de manipulation des esprits.

Plutôt que de parler tout simplement de "danger", les médias ont donc inventé (ou plutôt "relayé") ce concept de "dangerosité". L'idée est que même si quelque chose ou quelqu'un n'est pas réellement et objectivement dangereux, il pourrait l'être potentiellement. L'appréciation du danger potentiel étant d'ordre subjectif, tout innocent devient potentiellement coupable.

Une dérive inquiétante du Droit

Une fois que les médias ont préparé le terrain et introduit ce nouveau concept, les gouvernements ont créé des nouvelles lois et des nouveaux délits basés sur des notions juridiques floues. On a ainsi créé des peines de prison pour la "mise en danger d'autrui". En vertu cette loi, une personne peut être emprisonnée même si elle n'a causé aucun dommage réel à autrui.

Grâce au prétexte du 11 Septembre, une étape supplémentaire a été franchie aux Etats-Unis, avec le principe des "arrestations préventives". En matière de terrorisme, vous pouvez désormais être emprisonné pour une durée illimitée (sans jugement et sans limite de délai pour votre jugement), si on pense que vous "pourriez" commettre un acte de terrorisme. Par exemple, posséder des livres sur l'écologie peut faire supposer que vous "pourriez" commettre des actes de terrorisme écologique. La notion d'acte terroriste peut être ainsi étendue à des faits qui n'ont rien à voir avec le terrorisme.

Cette dérive inquiétante du Droit consiste en la pénalisation des INTENTIONS et non des ACTES.

Elle est absolument contraire à l'état de droit, à la démocratie, et aux droits de l'homme les plus élémentaires. La pénalisation des actes ou des intentions est exactement ce qui différencie la démocratie du fascisme.

La pénalisation des intentions est l'outil juridique qui va permettre aux Maitres du Monde de passer à la prochaine étape de leur plan: emprisonner des personnes pour leurs opinions.

- Source : Syti.net

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¿Estamos en medio de una guerra de religión en Europa o es sólo otra operación de bandera falsa?

por Gilad Atzmon

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

La matanza de París fue un crimen devastador contra la libertad y el derecho a la risa. ¿Pero fue realmente ejecutado por un grupo de lunáticos irracionales musulmanes, decididos a matar sin piedad por unas burlas a su profeta?

Los franceses deberían preguntarse qué llevó a unos miembros de su propia sociedad a cometer esos asesinatos a sangre fría contra sus conciudadanos. Deberían preguntarse por qué Francia ha estado echando bombas sobre los musulmanes. ¿Quién abogó con entusiasmo a favor de estas guerras “intervencionistas”? ¿Cuál fue el papel de Bernard-Henri Lévy, el abogado principal de la guerra contra Libia, por ejemplo?

¿Que fue todo aquel alboroto francés sobre el burka? ¿Quién dirigió esta guerra contra los musulmanes en el corazón de Europa? ¿Era realmente en nombre de la tolerancia?

La libertad y la risa son algo precioso, sin duda, pero ¿no fue el gobierno “socialista” francés quien acosó y consiguió la prohibición del mejor y más exitoso comédien de Francia, Dieudonné M’bala M’bala, porque éste satirizó la religión del Holocausto? ¿Quién empujó al gobierno francés a adoptar medidas tan duras contra un artista? ¿No fue el CRIF, el grupo de presión judío?

Si Europa quiere vivir en paz, podría considerar la posibilidad de dejar que otras naciones vivan en paz. Al seguir los caprichos de El Lobby habríamos reservado a París el destino de Alepo. ¡Ni quiera Dios!

Pero hay una narrativa alternativa que pone cabeza abajo nuestra percepción de esta desastrosa matanza de París.

Esta mañana, el joven de 18 años de edad Hamyd Mourad, sospechoso de ser uno de los tres terroristas involucrados en el ataque de ayer, se entregó a la policía en Charleville-Mezières. Según los informes, se presentó pacíficamente después de escuchar su nombre en las noticias. Y afirma que no tiene nada que ver con el evento de ayer. Extraño ¿no? En realidad, no.

A pesar de que todos los expertos en lucha contra el terrorismo están de acuerdo en que el ataque a Charlie Hebdo de ayer fue un trabajo profesional, parece bastante poco profesional para unos “terroristas altamente cualificados” dejar tras ellos su carnet de identidad. ¿Y desde cuándo un terrorista se lleva su documento de identificación a una operación? Una posible explicación sería que los supuestos terroristas necesitaban unas horas extras para salir de Francia o desaparecer. Tenían que engañar a la policía y los servicios de inteligencia franceses para que éstos dirigiesen la búsqueda hacia lugares equivocados y personas equivocadas. ¿Es posible que simplemente “plantaran” una tarjeta de identificación robada o falsificada en el coche que dejaron atrás?

Si este fuera el caso, es posible que el ataque de ayer no tuviera nada que ver con el “terrorismo jihadista. Es muy probable que ésta haya sido otra operación de bandera falsa. ¿Quién podría estar detrás de todo ello? Usa tu imaginación.

(Traducción por S. Seguí)

Fuente original: http://www.gilad.co.uk/writings/2015/1/8/amidst-a-religious-war-in-europe-is-it-possibly-a-false-flag-operation

Extraído de: Rebelión

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Le ras-le-bol des Européens ordinaires

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Le ras-le-bol des Européens ordinaires

par Georges FELTIN-TRACOL

 

Invité du congrès européen du G.U.D. à Nanterre, le 22 novembre 2014, le porte-parole du M.A.S. (Mouvement d’action sociale), Arnaud de Robert, appelait dans son intervention au réveil des peuples européens (1). Les Européens l’ont-ils entendu ? Il faut le croire à la vue des événements récents qui secouent le Vieux Continent.

 

Depuis le 20 octobre 2014 se déroule chaque lundi soir dans un parc de Dresde une manifestation organisée par un groupe informel, animé par Lutz Bachmann, nommé P.E.G.I.D.A., ce qui signifie, dans la langue de Goethe, Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, c’est-à-dire « Européens patriotes contre l’islamisation de l’Occident (2) ». Abendland présente une acception différente des concepts français et anglo-saxon d’Occident. Si, aujourd’hui, l’Occident désigne l’ensemble globalitaire américanocentré dont les bras armés sont, entre autres, l’O.T.A.N., le F.M.I., les firmes multinationales, Abendland peut se comprendre comme l’ancienne et traditionnelle définition française désignant l’œcumène européen médiéval. Il va de soi que les commentateurs français, incultes, n’ont pas compris cette sémantique, toujours obnubilés par leur antiracisme obsessionnel.

 

Une saine réaction populaire

 

Si les habitants de Dresde crient comme à l’automne 1989 peu de temps avant la chute du Mur qu’ils sont le peuple et expriment une inquiétude légitime envers les méfaits de l’immigration et de son corollaire, l’islamisation (même si tous les immigrés ne sont pas mahométans), P.E.G.I.D.A., phénomène inattendu, qui se décline dorénavant, fédéralisme allemand oblige, en variantes régionales autonomes (3), fut précédé par les « Villes contre l’islamisation » représentées par des groupes strictement municipaux en 2007 – 2008 tels Pro-Köln (« Pour Cologne »). Il surgit au lendemain de violentes échauffourées dans les rues de Hambourg entre Kurdes et les salafistes favorables à l’État islamique en Irak et en Syrie. Dès le 26 octobre 2014, 3 à 5 000 hooligans de Cologne manifestent contre les islamistes sous la bannière consensuelle de HoGeSa (Hooligans contre les salafistes). La réaction déborde rapidement le seul milieu hooligan pour atteindre une population exaspérée.

 

Il faut comprendre que les Allemands sont victimes des lois Harz. Entre 2003 et 2005, à la demande du gouvernement de coalition social-démocrate – Verts, l’ancien directeur du personnel de Volkswagen, Peter Harz, réforma dans un sens libéral le marché du travail via quatre lois scélérates. Leurs clauses fallacieuses imposent par exemple une mobilité professionnelle et géographique extravagante avec, pour les célibataires, au-delà de quatre mois, l’obligation de déménager afin d’accepter n’importe quelle proposition d’emploi; le développement des emplois à bas salaires (les « mini-jobs ») qui sont des emplois précaires à temps partiel variable; la réduction des indemnités chômage et un durcissement des conditions d’indemnisation. Dans le même temps, l’Allemagne accueille un nombre croissant de réfugiés extra-européens. Entre 2008 et 2014, leur nombre est passé de 28 000 à 200 000. Ils bénéficient d’avantages sociaux non négligeables.

 

Cette différence de traitement provoque l’indignation des citoyens allemands désormais prompts à s’exprimer hors d’un cadre institutionnel vérolé. Beaucoup de politiciens européens louent le soi-disant modèle allemand. Or, outre une natalité quasi-nulle et un vieillissement démographique avancé, savent-ils que leur référence suprême dispose d’infrastructures vétustes et de Länder surendettés, semblables à la Grèce ou à l’Italie, si bien que les conservateurs du Bade-Wurtemberg et de Bavière soutiennent un égoïsme régional et se refusent de payer pour Hambourg, la Poméranie ou le Hanovre ? Par ailleurs, l’Allemagne n’est pas une démocratie authentique : une terrible police politique surveille les pensées et les opinions tandis que des tribunaux peu scrupuleux condamnent à de lourdes peines de prison les adversaires du multiculturalisme marchand. Si sa partie occidentale subit depuis sept décennies un véritable lavage de cerveau collectif de la part des Alliés, experts en rééducation psycho-politique. L’ancienne R.D.A. a su paradoxalement préservé les mentalités traditionnelles allemandes.

 

Très vite, après avoir minimisé l’ampleur des manifestations, la classe politicienne qui est l’une des plus corrompues d’Europe, les médiats, les Églises et le patronat ont montré leur unanimité en accusant P.E.G.I.D.A. de xénophobie, de racisme, de populisme et, horresco referens, d’être infiltré par des néo-nazis et des skinheads ! Pourtant, plusieurs de ses équivalents locaux ont pour logo une main qui jette à la poubelle la croix gammée, le drapeau communiste, le symbole des antifa et l’étendard de l’État islamique. Seuls les responsables locaux du nouveau parti anti-euro A.f.D. (Alternative pour l’Allemagne) qui, à Strasbourg – Bruxelles, siège avec les nationaux-conservateurs polonais, les eurosceptiques tchèques et les tories britanniques, ont sinon appuyé pour le moins relayé ce mécontentement sans précédent.

 

P.E.G.I.D.A. s’oppose en premier lieu à la folle politique d’asile du gouvernement, dénonce l’islam radical, les tensions religieuses sur le sol allemand inhérentes à la cohabitation de masses étrangères ennemies les unes des autres chez elles, les groupes religieux radicaux ainsi que les immigrés délinquants. Ces dernières semaines, le mouvement a élargi ses thèmes à la préservation de l’identité allemande et à la contestation de l’idéologie gendériste. Ces mots d’ordre politiquement corrects trouvent un écho toujours plus large auprès de l’opinion publique. Ainsi, à Dresde, 500 personnes participèrent-elles à la première manifestation. Une semaine plus tard, le 10 novembre, elles étaient 1 700. La semaine d’après, les autorités relevaient entre 3 200 à 3 500 manifestants. Le 24 novembre suivant, elles étaient plus de 5 500 personnes. Le 1er décembre, la manifestation hebdomadaire réunissait 7 500 personnes. Le 15 décembre, environ 15 000 personnes battaient désormais le pavé. Ces démonstration de force suscitent des contre-manifestations d’idiots utiles qui brandissent des balais, ignorant que ce geste symbolique, typiquement populiste et anti-Système, revient à Léon Degrelle et au Rex dans les années 1930…

 

Le réveil breton

 

Ces démonstrations de masse ne se restreignent toutefois pas à la seule Allemagne. Il y a plus d’un an déjà, la Bretagne secouait le gouvernement français avec les « Bonnets rouges ». Ils surgissent à Pont-de-Buis, le 28 octobre 2013, quand plusieurs centaines de personnes démontent un portique écotaxe. La perception prévue d’une nouvelle contribution routière, nommée « écotaxe », soulève la fureur des petits patrons, des artisans et des commerçants bretons. Auparavant, les samedis 14 et 21 octobre 2013, des manifestations anti-écotaxes montraient la détermination des Bretons. Très vite, les « Bonnets rouges » rassemblent des ouvriers, des marins, des agriculteurs, des patrons, des artisans, des chômeurs, et montent divers collectifs dont celui qui s’intitule « Vivre, décider, travailler en Bretagne ». Leurs revendications sont, hormis la suppression de l’écotaxe, la gratuité des routes bretonnes, l’allègement des charges fiscales, la fin du dumping social, prévu pour des traités pseudo-européens, et la régionalisation.

 

Si toute la société armoricaine se mobilise, en revanche, des politiciens restés au schéma de la lutte des classes du XIXe siècle ne comprennent pas cette entente intercatégorielle. Il est intéressant de relever qu’un compte Facebook d’un collectif anti-écotaxe met en ligne, le 30 novembre 2013, une directive très nette : « Sans partis ni syndicats, juste tous ensemble pour dire stop ! ». Les « Bonnets rouges » bénéficient pourtant du concours de formations variées comme les nationalistes indépendantistes d’Adsav, le N.P.A., les autonomistes de l’U.D.B. (Union démocratique bretonne), le Parti breton, le Parti pirate – Bretagne, des fédéralistes et l’Organisation communiste libertaire.

 

Par leurs actions violentes, force est de constater que les « Bonnets rouges » ont fait reculer l’Élysée et Matignon qui viennent d’annuler le contrat conclu sous la présidence calamiteuse de Sarközy. Ce mouvement spontané a-t-il cependant eu une audience politique ? Non, répliquent les médiats-menteurs. Erreur ! Aux européennes de 2014 avec 7,19 %, la liste « Nous te ferons, Europe » conduite par le maire divers-gauche de Carhaix, Christian Troadec, aurait pu gagner au moins un siège si la circonscription s’était limitée à la seule Bretagne administrative qui « s’est illustrée comme la seule région de France où une formation politique autre que le F.N., l’U.M.P. et le P.S. apparaissait en tête de scrutin (4) ».

 

La grave crise de l’industrie agro-alimentaire qui frappe la Bretagne, longtemps avec l’Alsace, fer de lance de l’idée européenne pervertie en France, résulte de l’arrêt des aides de l’U.E. et de l’absence de tout protectionnisme aux frontières de l’U.E. ou de la France. Actuellement, l’Alsace semble elle aussi s’engager sur la voie de la contestation civile parce qu’elle refuse la fusion forcée et contre-nature avec la Lorraine et la Champagne-Ardenne. Après les « Bonnets rouges », l’année 2015 verra-t-il les « Coiffes noires » dans les rues ?

 

Haut les fourches !

 

Il faut en tout cas le souhaiter. Ce ne serait pas la première fois. Pensons au poujadisme qui porta de redoutables coups à la IVe République pourrie entre 1956 et 1958. Mentionnons aussi dans la seconde moitié des années 1930 les effervescences paysannes dans l’Ouest et le Nord du pays encouragées par Henri Dorgères, futur élu poujadiste, et ses « Chemises vertes ». Plus récemment, souvenons-nous du 1991 – 1992 le climat quasi-insurrectionnel dans les campagnes par des paysans qui empêchaient les falots ministres P.S. de quitter leurs bureaux parisiens.

 

Mouvement informel, les « Bonnets rouges » représentent l’exaspération de différentes catégories socio-économiques pressurées par dix années de régime U.M.P. Chirac – Sarközy et dont l’alourdissement final opéré par le gouvernement Hollande – Ayrault déboucha sur une juste irritation. Les « Bonnets rouges », en dernière analyse, ne sont que l’aboutissement virulent et territorialisé d’un large ensemble d’initiatives anti-gouvernementales apparues sur Internet depuis 2012. Entrepreneurs et créateurs de « jeunes    pousses » constituèrent assez rapidement les « Pigeons », puis les patrons de P.M.E. se regroupèrent en « Dupés », les micro-entrepreneurs en « Plumés », les professions libérales en « Asphyxiés », les auto-entrepreneurs en « Poussins ». Une grogne perceptible et récurrente créa même les « Tondus », à savoir les petits patrons fatigués par l’outrecuidance de l’U.R.S.S.A.F., cette « U.R.S.S. à la française »… Le Régime a un instant craint que l’Hexagone soit contaminé par la révolte populaire italienne des Forconi.

 

 

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En janvier 2012 s’élance de Sicile le mouvement spontané des Forconi (« Grandes fourches ») à l’initiative de transporteurs routiers et d’agriculteurs qui brandissent leurs fourches. Ils contestent la hausse du prix de l’essence, l’alourdissement des taxes, la fermeture des usines et une réglementation démente édictée par la Commission pseudo-européenne. « En 2013 dans le pays, plus de 6 500 entreprises ont été déclarées en faillite, le taux de chômage a atteint 12,5 %, et quelque huit millions d’Italiens vivent en dessous du seuil de pauvreté d’après l’Institut national des statistiques italien (Istat) (5). » Dans un climat d’instabilité politique (Berlusconi a été évincé du gouvernement par un coup d’État merkelo-banksteriste approuvé par le président communiste atlantiste de la République Giorgio Napolitano en novembre 2011, remplacé par un gouvernement technicien « apolitique » aux ordres de Berlin et la kleptocratie financière apatride), de politique d’austérité exigée par le F.M.I, la B.C.E. et Bruxelles et d’agitations sociales (de nombreuses attaques contre les bureaux d’Equitalia, l’agence de recouvrement de l’administration fiscale), les Forconi se propagent dans toute la péninsule et fédèrent artisans, petits commerçants, chauffeurs de taxi, dirigeants de P.M.E., vendeurs ambulants, travailleurs précaires, étudiants, chômeurs, militants associatifs, tifosi de clubs de foot. Par-delà la contestation de la politique gouvernementale, les Forconi dénoncent l’action déstabilisatrice des groupes de grande distribution (Leclerc, Auchan, etc.).

 

À partir du 9 décembre 2013, incités par Beppe Grillo, « non-leader » du Mouvement Cinq Étoiles et rejoints par la Ligue du Nord et CasaPound, les Forconi entreprennent une marche sur Rome. Certains occupent les centre-villes, bloquent axes routiers majeurs, terminaux portuaires et postes frontaliers (trois heures à Ventimille, le 12 décembre 2013). D’autres s’emparent de bureaux du fisc à Bologne et à Turin quand ce ne sont pas les studios régionaux de la télévision publique à Ancône aux cris de « Tous dehors, tous pourris ! » ou de « Tutti a casa (Tous à la maison !) (6) ». Toutefois, ce vaste mouvement se dégonfle assez rapidement puisque « certains Forconi en désaccord avec la radicalisation du mouvement ont refusé de faire le déplacement craignant des débordements. Au lieu des 15 000 personnes attendues sur la Piazza del Popolo mercredi, ils n’étaient que 3 000 (7) ».

 

Au-delà des Pyrénées, la même ébullition sociale

 

Ces trois exemples récents sont à mettre en parallèle avec les actions de quasi-guérilla de l’extrême gauche grecque contre des institutions faillies ainsi qu’aux Indignados (« Indignés ») en Espagne. Ce dernier mouvement part d’un appel à manifester, pacifiquement, dans une soixantaine de communes espagnoles, le 15 mai 2011, pour une autre pratique politique. Les manifestants estiment que les partis politiques ne les représentent plus. On y trouve des victimes de la crise économique, des lecteurs du livre Indignez-vous !, du Français Stéphane Hessel, des admirateurs des « Printemps arabes », des mouvements grecs et islandais de 2008 et du Geração à rasca portugais.

 

À compter du 15 mai, les « Indignés » se rassemblent sur une place de la capitale espagnole, la Puerta del Sol. Ils s’élèvent contre les banques, l’austérité économique et la corruption des politiciens. S’organisant en assemblées autogérées et contestant le système parlementaire et la démocratie représentative, les participants interdisent tout sigle politique, toute bannière politicienne ou tout propos partisan. Ils insistent sur le fait que « le peuple uni n’a pas besoin de partis ». Les journalistes parlent bientôt du « Mouvement du 15 mai ». Les Indignados installés sur cette place y sont bientôt violemment dispersés par les policiers. Ailleurs, en Espagne, une répression similaire s’exerce à l’encontre des manifestants qui occupaient, à l’instar des Étatsuniens d’Occupy Wall Street, des places publiques au point que le président iranien Mahmoud Ahmadinejad se déclara choqué par des violences policières exagérées.

 

De cette indignation collective s’en extrait une formation politique de gauche radicale, Podemos (« Nous pouvons ») donnée par plusieurs sondages consécutifs première force politique. Le succès tant en Espagne qu’en Grèce (Syriza) de ces gauches radicales ne signifie pas que Madrid et Athènes sont à la veille d’une révolution néo-bolchévique. Réformistes radicales, Syriza et Podemos ont déjà modéré leurs positions et ne cachent pas leurs dispositions mondialistes.

 

Toutes ces contestations populaires qui trouvent chacune dans leurs pays respectifs un relais politique approprié, témoignent principalement du profond ras-le-bol des petites gens envers leur classe dirigeante voleuse et leurs pseudopodes institutionnels mafieux. Mais il ne s’agit pas d’une « droitisation » des opinions, ni l’appropriation d’une pensée, sinon anti-libérale, pour le moins illibérale. « Nous ne sommes pas contemporains de révoltes éparses, mais d’une unique vague mondiale de soulèvements qui communiquent entre eux imperceptiblement (8). » Toutefois, le Comité invisible, un collectif anonyme d’ultra-gauche, ne perçoit pas l’acuité particulière de la réprobation populaire européenne. Certes, après avoir rappelé que « “ populaire ” vient du latin popular, “ ravager, dévaster ” (9) », il observe que « l’insurrection est d’abord le fait de ceux qui ne sont rien, de ceux qui traînent dans les cafés, dans les rues, dans la vie, à la fac, sur Internet. Elle agrège tout l’élément flottant, plébéien puis petit-bourgeois, que sécrète à l’excès l’ininterrompue désagrégation du social. Tout ce qui était réputé marginal, dépassé ou sans avenir, revient au centre (10) ». Cette description concorde avec ce que « Flamby », « Monsieur Petites-Blagues », définirait d’après son ancienne compagne, comme des « sans-dents ». Que se soit en Bretagne, en Italie ou en Allemagne, les manifestations aimantent les catégories sociales moyennes et populaires en voie de paupérisation.

 

 

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Ces révoltes populaires ne sont pas une nouveauté en Europe. Elles sont à rapprocher de l’éphémère mouvement populiste italien de l’immédiat après-guerre de Guglielmo Giannini, fondateur de l’hebdomadaire L’Uomo qualunque, puis du Fronte dell’Uomo Qualunque. On traduit souvent cette expression par « l’homme de la rue » ou « l’homme ordinaire ». Sur un programme anticommuniste, anti-fasciste, de refus du grand capitalisme oligopolistique, de limitation des prélèvements fiscaux et d’arrêt de l’intervention étatique dans les domaines économique et social, il obtint en 1946 1 211 956 votes, soit 5,3 % des suffrages, devenant le cinquième parti du pays et envoya une trentaine d’élus à l’Assemblée constituante avant de disparaître en 1948.

 

Le fantôme de Guglielmo Giannini hante, aujourd’hui, toute l’Europe. Ce sont les gens ordinaires, les quidams, les ménagères de plus ou moins cinquante ans qui investissent les artères urbaines et clament leur ire. Les peuples européens sortent-ils de leur longue torpeur mentale ? En tout cas, ils commencent instinctivement à comprendre l’imposture qu’un Système délétère leur impose et, donc, à ruer dans les brancards.

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Arnaud de Robert, « Réveil des nations ou réveil des peuples ? », mis en ligne sur Cercle non conforme, le 26 novembre 2014, et repris par Europe Maxima, le 8 décembre 2014.

 

2 : Non germanophones, les médiacrates hexagonaux et leurs épigones grotesques traduisent par « patriotes européens », or dans P.E.D.I.G.A., patriote est un adjectif… L’erreur commence néanmoins à être corrigée.

 

3 : Grâce à l’excellent blogue de Lionel Baland, ces « déclinaisons » sont Bär.G.I.D.A. (Berlin), R.O.G.I.D.A. (Rostock), H.A.G.I.D.A. (Hanovre), L.E.G.I.D.A. (Leipzig), Sü.G.I.D.A. (Sühl), Wü.G.I.D.A. (Wurzburg), K.A.G.I.D.A. (Cassel), Kö.G.I.D.A. (Cologne), B.A.G.I.D.A. (Munich) sans omettre P.E.G.I.D.A. à Stuttgart. L’Autriche commencerait elle aussi à entrer dans le mouvement alors que, contrairement à l’Allemagne, existe un fort parti nationaliste et patriotique, le F.P.Ö.

 

4 : Emmanuel Galiero, « “ Bonnets rouges ” : un vote “ spectaculaire ” », dans Le Figaro, le 12 juin 2014.

 

5 : Hélène Pillon, « Les Forconi, des Bonnets rouges à la sauce italienne ? », dans L’Express, le 20 décembre 2013.

 

6 : Hélène Pillon, art. cit.

 

7 : Idem.

 

8 : Comité invisible, À nos amis, La Fabrique, Paris, 2014, p. 14.

 

9 : Idem, p. 54.

 

10 : Id., pp. 41 – 42.

 


 

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Odin, Buddha, Pan & Darwin

Peter Bickenbach: Odin, Buddha, Pan & Darwin – eine Rezension

Ellen Kositza

Ex: http://www.sezession.de

(Rezension aus Sezession 63 / Dezember 2014)

peter-bickenbach_odin-buddha-pan-darwin_720x600.jpgPeter Bickenbach setzt sich aus christlicher Perspektive mit dem sogenannten Neuheidentum auseinander. Per aspera ad astra: Darum das Bedauerliche an diesem Buch zuerst. Aus christlicher Sicht ist der Neo-Paganismus (der in seinen modischsten Erscheinungsformen sich gern schwarzgewandet präsentiert) ein Obskurantentum, eine düster-magische Geschichte, auch wenn »Lichtgottheiten« dort als Rollenträger (unter anderen) fungieren. Nun kommt das Buch selbst reichlich verschleiert daher:

Der verrätselte Titel an sich (in Lila) verrät wenig, er verschwindet auch optisch im Braun des Untergrunds. Wir finden auch keinen Hinweis zum Autoren – ist er Sozialwissenschaftler, Theologe oder »interessierter Zeitgenosse«? Wir erfahren es nicht; und wenn eine Fußnote besonders interessant erscheint, finden wir über Strecken »Ebenda« und müssen blättern. Da ein Literaturverzeichnis fehlt, bleibt uns, gewissermaßen abgedunkelt zu lesen. Das macht dann nicht viel, wenn man erkennt: Es ist keine Publikation für eine breite Leserschaft, sondern für eine enger gefaßte »Szene«. Wir dürfen diese als jungkonservatives Milieu begreifen. In diesem Rahmen hat Bickenbachs Buch seine Meriten.

Bickenbach wendet sich implizit an ein »anti-modernes« Publikum, an Leser, die mit dem Fortschrittsglauben hadern, die sich auf einem Weg jenseits materialistischer Vorstellungen sehen, die ein Heil jenseits der sichtbaren Welt erahnen. »Anlaß dieses Buches waren Begegnungen und Gespräche mit Menschen, die kein lebendiges Christentum erfuhren und die Kirchengeschichte nur aus zeitgenössischen Darstellungen kennen«, schreibt Bickenbach. Nach seiner Einschätzung orientierten sich »auf der politisch rechten Seite« die meisten Anhänger an einem »Germanentum«, wobei sich esoterische und radikal-biologische Standpunkte unterscheiden ließen. In drei untergliederten Großkapiteln (»Geschichte und Selbstverständnis der Neuheiden«, »Die Deutung von Brauchtum und Überlieferung« und »Postmoderne Religiosität«) sortiert der Autor sein Arsenal gegen jene, die gegen die »orientalische Wüstenreligion«, die »seelische Verknechtung« und den »Identitätsraub« und den vorgeblichen »Völkermord« durch das Christentum polemisieren.

Erst die zeitgenössische verunklarende Verkündigungspraxis, die statt der eigentlichen Offenbarung die angeblichen Ansprüche »moderner Scheinwerte« in den Vordergrund gestellt habe, »konnte die Vorstellung nähren, das Christentum sei eine Religion der Schwachen, Zukurzgekommenen und Lebensuntüchtigen.« Bickenbach entlarvt – und er tut dies auch mit Hilfe »neo-paganer« Nenngrößen wie Julius Evola – das »lyrisch-subjektive Pathos«, das von Naturerscheinungen hervorgerufen werden kann; er hat auch seinen Nietzsche gründlich gelesen, wie er überhaupt neben gebotener Polarisierung eine Synthese anstrebt.

Das Christentum, das er meint, ist streitbar, tüchtig, kulturstiftend und heroisch. Nach Bickenbach verdankt die neuheidnische Kritik am Christentum dem liberalen Protestantismus ihre Beweggründe. Sie argumentiert selbst auf dem Boden einer relativistischen, individualistischen und eigentlich antitraditionellen Religionserfindung – es gibt keine »heidnische Überlieferung«. Der Autor zitiert aus umgedichtetem Liedgut: »O du fröhliche, o du ahnende / lichtverkündende Wintersonnwendzeit«, er verweist auf Parallelen linker und rechter Religionskritik. Die Neuheiden bekämpfen zugleich einen Pappkameraden, nämlich ein von langer Hand umgewertetes, verbogenes, »geupdatetes« Christentum.

Bickenbach begleitet beispielhaft den Glaubensweg des irrlichternden Gorch Fock, der als Sohn frommer Eltern erst Gott gegen Nietzsche verteidigte, dann zum »Germanengläubigen« wurde (»Mein Zion ist Walhall!«) und im Verlauf des Jahres 1915 bei seinen Einsätzen in Rußland, Serbien und Verdun Monate vor seinem Tod ringend zum Glauben seiner Väter zurückfand: »Den größten Segen des Krieges haben die erfahren, die sich von ihm zu Gott führen ließen.«

Peter Bickenbach: Odin, Buddha, Pan & Darwin, Neustadt a.d. Orla: Arnshaugk 2013. 274 S., 18 € – hier bestellen

mardi, 13 janvier 2015

Benutzt euer Gehirn!

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Benutzt euer Gehirn!

von Moritz Scholtysik

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Der bekannte Gehirnforscher Manfred Spitzer warnt in seinem Buch vor „digitaler Demenz“. Und erklärt Ursachen und Folgen. Neu ist nicht alles – aber wichtig.

Digitale Medien sind ein fester Bestandteil unseres Lebens. Kaum einer mag noch bestreiten, dass sie keine Auswirkungen auf unser Denken und Handeln hätten. Die Frage ist nur: Sind sie positiv oder negativ zu bewerten? Für das populärwissenschaftliche Magazin Geo steht jedenfalls fest: „Digital macht schlau!“

Allerdings ist auch Kritik an der Elektronisierung aller Lebensbereiche nicht selten – vor allem in kultureller Hinsicht. Spitzer argumentiert seinem Beruf entsprechend vor allem aus psychologischer und medizinischer Perspektive. Gerade der in den Neurowissenschaften Unkundige erfährt in Digitale Demenz Grundlegendes über die Funktionsweise des Gehirns – auf bewusst einfache Weise.

Wesentliches statt Multitasking

Spitzer entlarvt zwei hartnäckige Mythen: Zum einen den der „Digital Natives“, dieser vermeintlichen „Generation von digitalen Wunderkindern“. Sie gebe es nicht. Diese Generation sei mehr von Bildungsverfall als von Medienkompetenz gekennzeichnet. Zum anderen wendet sich Spitzer den angeblichen Vorzügen des Multitaskings zu: Dieses führe zu Störungen der Selbstkontrolle sowie zu „Oberflächlichkeit und Ineffektivität“. Des Psychiaters Appell: „Konzentrieren wir uns lieber ganz auf das Wesentliche!“

Apropos Selbstkontrolle: Diese gehe bei übermäßigem Konsum digitaler Medien verloren, was mit Stress gleichzusetzen sei und zu Aufmerksamkeitsstörungen sowie mehreren chronischen Erkrankungen führen könnte. Beispiele sind Sucht, Schlaflosigkeit, Übergewicht, Probleme im Herz-​Kreislauf-​System, Demenz. Bei all diesen Erläuterungen und Ausführungen spricht Spitzer immer wieder mögliche Einwände und Fragen an und vermeidet meist allzu komplizierte Formulierungen und Fachtermini.

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Keine Laptops für Schulen

Spitzer, Leiter der Psychiatrischen Universitätsklinik in Ulm und des Transferzentrums für Neurowissenschaften und Lernen, ist vielen Lesern bereits durch sein Buch Vorsicht Bildschirm! und zahlreiche Fernsehauftritte bekannt. In Digitale Demenz zeigt er auf, dass sich unser Gehirn durch dessen Nutzung, also durch Lernen, an den sogenannten Synapsen verändert. Dies führe zu einem Wachstum einzelner, spezialisierter Bereiche. Gebrauche man sie jedoch nicht, verkümmerten sie. Unser geistiges Leistungsvermögen hänge also von unserer geistigen Betätigung ab. Und wir lernten besser, je mehr und je tiefer wir uns mit dem Gegenstand des Lernens auseinandersetzten. Computer jedoch nähmen uns viel geistige Arbeit ab und ließen uns oberflächlicher lernen. Die Verfügbarkeit gespeicherter Daten führe zudem dazu, dass wir uns sie weniger merkten. Spitzer verwirft daher auch den vielfach forcierten und teuren Plan, Schulen mit Laptops und Smartboards, also digitalen Tafeln, auszurüsten.

Teletubbies und „Killerspiele“

Bei Kindern und Jugendlichen steht vor allem die private Nutzung von Computer und Internet im Vordergrund. Darunter können nicht nur die Schulnoten leiden, sondern auch eine gesunde Entwicklung des noch nicht ausgereiften Sozialverhaltens. Es klingt ironisch, wenn Letzteres gerade durch die sogenannten sozialen Netzwerke gefährdet sei. Als mögliche Folgen nennt Spitzer „mangelnde Selbstregulation, Einsamkeit und Depression“. Auch die Kleinsten seien von den negativen Auswirkungen betroffen. „Baby-​TV“ störe die Sprachentwicklung und Computernutzung im Vorschulalter beeinträchtige die Lese– und Schreibfähigkeit.

In den letzten Jahren wurde besonders kontrovers über die Auswirkungen von Computerspielen, insbesondere der Ego-​Shooter, diskutiert. Spitzer weist als Folge dieser Spiele „zunehmende Gewaltbereitschaft, Abstumpfung gegenüber realer Gewalt, soziale Vereinsamung und eine geringere Chance auf Bildung“ nach. Es mag ihn bestätigen, wenn die Reaktionen auf diese Erkenntnis oftmals aggressiv und beleidigend ausfallen – wie viele Kommentare im Netz zeigen.

Nichts neues, aber grundlegend

In den letzten beiden Kapiteln des Buches lässt Spitzer etwas nach: Er wiederholt sich, betont zu oft die Wissenschaftlichkeit der von ihm vorgestellten Studien und wird bei seiner Kritik an Politikern polemisch. Andererseits kann man diesen Ärger gut nachvollziehen, kennt man doch deren Untätigkeit aktuell aus vielen anderen Bereichen.

Er schließt das Buch jedoch gelungen, indem er einige praktische Tipps zur Prävention des geistigen wie körperlichen Abstieges gibt, den digitale Medien mitverursachen. Neben der einleuchtenden Empfehlung, diese zu meiden, schlägt er unter anderem gesunde Ernährung, tägliche körperliche Bewegung, Singen, den bewussten Genuss von Musik und den Gang in die freie Natur vor. Nichts wirklich neues, aber grundlegend.

Manfred Spitzer: Digitale Demenz. Wie wir uns und unsere Kinder um den Verstand bringen. Taschenbuch. 368 Seiten. München: Droemer Knaur 2014. 12,99 Euro.

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Ils sont “Charlie” ? Ils sont déjà morts

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Ils sont “Charlie”? Ils sont déjà morts

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue d'Ulysse, cueilli sur Novopress et consacré à la mort symbolique du nihilisme libéral libertaire...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Charlie Hebdo représentait la pire forme de l’idéologie libertaire qui, sous couvert de contestation et de transgression, était sanctuarisée par le pouvoir actuellement en place dont elle était l’insigne agent symbolique et moral. En une image, Charlie Hebdo, c’était le « beauf » de Cabu : ce sale franchouillard raciste moustachu dont on cherchait à faire croire qu’il était la lie de l’humanité et sur lequel on tapait sans fin comme s’il était le tortionnaire malfaisant des gentilles populations immigrées venues enrichir la France. Oui mais voilà, le moustachu cachait un barbu, et le beauf consumériste, un fanatique impitoyable. Le xénophobe d’apparat cachait un fondamentaliste et s’il arrivait à Charlie Hebdo de brocarder le second, c’était en le mettant sur le même plan que le premier ; ainsi d’une couverture à l’autre, une Marine le Pen nazifiée pouvait-elle croiser un Pape pédophile sodomite suivi d’un Mahomet explosif…

Sale beauf, sale babtou

Les prétendus défenseurs de la « liberté d’expression » n’étaient en vérité rien d’autre que les défenseurs sectaires de l’expression libertaire, et ils étaient prêts à toutes les vilénies dès lors qu’il s’agissait de conspuer ce qui contrevenait à leur propre idéologie. Ce faisant, ils ne se rendaient même pas compte, ou si peu et si mal, qu’ils entretenaient précisément les clichés racistes mêmes qu’ils prétendaient par ailleurs combattre. Car enfin, quelle différence y a-t-il entre le « sale beauf » de Cabu et le « sale babtou » des réseaux sociaux et des banlieues? Les deux, dans les yeux de leurs adversaires, n’étaient somme toute rien d’autre que des « gros porcs »…

Le premier était seulement l’archétype matriciel du second dont il a (entre autres facteurs) favorisé l’apparition. Ainsi, les clichés anti-racistes de Charlie Hebdo ont accompagné et avalisé les clichés racistes des « cités », qui, on expliquera pourquoi plus loin, le lui ont bien rendu.

Crachoir de la gauche cléricale

Charlie Hebdo, c’était donc cela : une grande soupe relativiste où tout ce qui ne ressemblait pas à une exigence compassionnelle humanitariste très vaguement étayée par des postulats marxistes devenait immédiatement fasciste ; où tout ce qui ne s’apparentait pas aux mouvements du cœur de belles âmes nihilistes boboïsées apparaissait alors comme les prémisses d’une dictature… En vérité, cette contestation anarcho-nihiliste de tous les ordres en cachait bien un d’ordre : celui d’un pouvoir qui subventionnait le journal et sans lequel il aurait déjà eu disparu depuis beau temps. C’est qu’au fond, Charlie Hebdo incarnait les aspirations morales (moralement anti-morales devrait-on dire) de la génération 68 qui, embourgeoisée jusqu’à l’overdose, gardait comme un animal de compagnie attendrissant cette sorte de souvenir de sa fougue transgressive de jeunesse ; une « potiche » du pouvoir, ponctuellement utile pour victimiser le patriotisme, utile parfois aussi pour servir de caution de « tolérance » universaliste lorsqu’il s’agissait de prétendre défendre un humanisme dont on se demandait bien ce qu’il avait encore à voir avec celui de Pic de la Mirandole.

Ce qui a été tué, c’est donc l’animal de compagnie du système. Son caniche. Son fétiche aussi, son objet magique, une de ses innombrables cautions libertaires progressistes. Pas étonnant donc que le glas (l’ironie symbolique cache une évidence littérale) ait pu résonner pour lui. C’est qu’en effet Charlie Hebdo était bien le seuil d’une Eglise, ou du moins sa crypte : le lieu où la gauche cléricale entreposait ses trésors obscènes et vulgairement conformistes, l’auge où elle lançait ses crachats fatigués de vieux soixante-huitards lassés de vivre. Ils crachaient sur tout ce qui ressemble à de l’ordre, mais ce faisant promouvaient réellement un ordre : celui de l’individu détaché de tout et donc ré-ingurgité immédiatement par le dispositif technico-financier qui flatte ses intentions et ses projets.

Ce qui a été pulvérisé, c’est le temple-crachoir d’une gauche dont la revendication de liberté n’était que le cache-misère du mondialisme le plus aliénant.

Libéralisme du sens contre littéralisme du sens : le retour du négatif 

En attaquant Charlie Hebdo, les djihadistes n’ont donc pas attaqué la liberté d’expression. Ils ont attaqué par ordre sémantique d’importance : des personnes (les victimes objectives),  l’Etat – ou plutôt les derniers restes d’un Etat presqu’entièrement dominé par les forces internationales de la finance et du numérique (mais il s’agit tout de même d’une attaque contre les institutions de Justice et de Police) -, et enfin la théologie implicite qui sous-tend cet Etat moribond et le projet universaliste du progressisme libertaire : l’idée que l’individu n’est libre que lorsqu’il a la licence de vomir tout ce qui n’est pas lui, au point d’ailleurs de se faire, quand il le juge utile, le censeur de ses contradicteurs (Charlie Hebdo avait demandé l’interdiction du Front national).

Que signifie donc la mort de Charlie Hebdo ?

Que l’idéologie progressiste libertaire, alibi de l’ordre prométhéen mondialisé, est morte. Qu’à vouloir évacuer du réel tout ce qui nous dérange en lui, c’est le réel qui finit par nous évacuer. Que celui qui croit qu’il peut chasser de l’expérience, par simple décret arbitraire, tout ce qui contrarie ses desseins, se retrouve bientôt ravalé par ce que l’expérience contient de plus irréductible : la violence brute, aveugle, injuste. Charlie Hebdo voulait une vie de jouissance, sans attaches à quoi que ce soit d’autre que soi-même, Charlie Hebdo a été détruit de manière immanente par ce négatif qu’il s’efforçait à tout prix de nier : le littéralisme mahométan, soit la forme la plus brutale et la plus bête de la détermination historique. Ils ont moqué le beauf moustachu, ils ont eu le fanatique barbu. Ils ont promu la liberté en criminalisant tout ce qui n’était pas conforme à leur propre licence, ils ont eu l’aliénation effrayante et cruelle d’un jugement théocratique. Ils ont méprisé le patriotisme, leur mort révèle un mouvement du peuple français. Ils ont conchié l’Eglise, et c’est le glas de Notre-Dame de Paris qui a résonné pour eux. Bref, Charlie Hebdo qui meurt dans une explosion de contradictions, c’est la revanche de l’Histoire contre tous ceux qui pensaient en être sortis pour flotter sans but dans le non-lieu de leur quant-à-soi hédonisto-technoïde. Il est tragique que cette revanche passe ici par la vengeance d’une secte mahométane malfaisante et cruelle. Il était cependant inéluctable qu’un jour ou l’autre, ce nihilisme de l’individu rendu fou sans Dieu, rencontrât ce nihilisme de la secte des fous de Dieu…

Le littéralisme religieux le plus fou est la réponse la plus simple qu’a donné l’Histoire au libéralisme moral le plus bête.

Crise identitaire : ils sont Charlie et ils sont morts

Ce que révèle enfin cette défaite idéologique transparaît aussi dans la prolifération écœurante des « Je suis » (Charlie, Kouachi, Charles Martel, juif etc.). Cette inflation revendicatrice a au moins un mérite objectif : révéler que dans ce conflit interne au nihilisme, c’est bien l’identité qui est en jeu et rien d’autre. C’est bien d’être dont il s’agit dans l’élément de l’Histoire, toujours, tout le temps, partout. D’être, personnel, familial, collectif, national, civilisationnel. Ceux qui manifesteront dimanche, eux, ont choisi leur camp. Ils sont Charlie ? Ils excluent les patriotes et préviennent des dangers de l’islamophobie et du racisme au moment même où l’islam les détruit et déploie sa haine anti-occidentale ? Alors oui, cela est bien clair, ils sont Charlie, c’est-à-dire qu’ils sont déjà morts.

Ils n’ont rien compris, ils n’ont tiré aucune leçon, pas saisi que le libéralisme-libertaire et le fanatisme littéraliste sont les deux faces d’une même pièce : une culture de mort, morale, par l’atomisation individualiste, une culture de mort, physique, par le massacre aveugle. En proclamant qu’ils sont Charlie, ils prolongent la nuit de cette obscurité progressiste qui n’est que le contrepoint de l’obscurantisme mahométan. Ils contribuent, encore et toujours, à favoriser les conditions de développement du négatif qui pourtant les a presque déjà complètement détruits.

Notre être à nous, lui, est bien vivant, parce qu’il est français. Qu’il ne croit pas à la fable du progrès, au multiculturalisme, à la République abstraite, au mondialisme souriant. Ce qui sauve de l’affrontement de Charlie et de la charia, ce n’est pas Charlie. Lui a déjà perdu la bataille. L’imposture soixante-huitarde a pris fin il y a trois jours. Non, le nom qui sauve de ce conflit des nuits, c’est François. Parce que dans ce nom se loge l’héritage d’une nation, l’exigence d’une foi, la promesse d’une vie qui a déjà démontré par le passé qu’elle avait la noblesse rigoureuse d’un destin.

Réveil

Nos adversaires ont été extrêmement intelligents en commençant par tuer ceux qui collaboraient depuis des décennies à notre extinction. Car ce faisant, ils veulent que nous nous identifions encore plus à ceux qui, ici-même, nient que nous existions. La stratégie est limpide : provoquer par la stupeur du massacre un réflexe d’identification aux valeurs d’un organe qui, justement, s’évertue déjà à nous combattre de l’intérieur. A nous d’être plus déterminés et intelligents qu’eux. A nous de contredire cette secte mahométane en reconnaissant que Charlie, avec ses coups de crayons contre les « sales beaufs » préparait de fait les coups de couteaux contre les « sales babtous ». A nous d’assumer enfin que si la France survit à Charlie c’est justement parce qu’elle ne s’y est jamais réduite et qu’elle ne s’est jamais identifiée à lui.

Charlie est mort et ceux qui continuent de s’en revendiquer sont morts aussi. Les autres sont éveillés et vivants. Ils sont la France. Et ce sont eux qui gagneront la guerre qui advient.

Ulysse (Novopress, 11 janvier 2015)