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mercredi, 18 mars 2015

Il ’68 lo ha inventato D’Annunzio a Fiume

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Il ’68 lo ha inventato D’Annunzio a Fiume

È un tale anticipatore che ha rinnovato la letteratura italiana dell’800 quando pubblicò Il Piacere, subito diffuso in tutto il mondo, quando all’estero nessuno conosceva Manzoni. Ha rinnovato la poesia italiana, i rapporti con la borghesia, con la politica, con la vita militare. Soprattutto ci lascia oggi un messaggio molto importante, “Conservare intera la libertà fin nell’ebbrezza” e “Non chi più soffre ma chi più gode conosce”. E qui non si tratta di edonismo, ma di godimento come vita intellettuale libera e gioiosa. Questi sono i suoi messaggi, oltre a quello di guardare sempre avanti, progettare e imporre il proprio futuro, saper far sognare agli altri uomini i propri sogni.
 
di Giordano Bruno Guerri
 
Ex: http://www.lintellettualedissidente.it 

ann12445931.jpgCi racconti un episodio OFF dell’inizio della tua carriera?
Un giorno ho pubblicato il mio libro su Bottai, che era la mia tesi di Laurea, da Feltrinelli. Ebbe un immenso successo soprattutto di discussioni sollevate, perché per la prima volta si sosteneva e si dimostrava che non solo era esistita una cultura fascista, ma che erano esistiti anche dei fascisti onesti e in gamba come Bottai. Il fatto poi che l’avesse pubblicato Feltrinelli… puoi immaginare l’emozione e il disorientamento che provocò. Un giorno ricevetti una chiamata da un ragazzo a me ignoto, mi disse che aveva letto il libro e avrebbe avuto piacere di incontrarmi con alcuni amici. Andai volentieri a quel pranzo in Corso Sempione, dove trovai e conobbi le menti migliori della Nuova Destra di allora, che erano Solinas, Cabona, Tarchi, e non so quanti altri. La cosa buffissima, che mi fece molto ridere, era che il ristorante – tutt’altro che ‘Nuova Destra’ – era tenuto da un signore in camicia nera che ci salutò con il saluto romano e che aveva l’intero ristorante tappezzato di ritratti di Mussolini. Fu un curioso incontro, abbastanza OFF, mi sembra!

Sei uno scrittore, un giornalista, uno degli storici più apprezzati d’Italia e in questo momento sei il Presidente del Vittoriale degli Italiani, la casa museo di Gabriele D’Annunzio. Quest’anno si chiudono le celebrazioni del 150° anniversario della sua nascita, che cosa ha lasciato D’Annunzio all’arte e alla cultura italiana?
D’Annunzio non solo ha lasciato, ma dona ancora. È un tale anticipatore che ha rinnovato la letteratura italiana dell’800 quando pubblicò Il Piacere, subito diffuso in tutto il mondo, quando all’estero nessuno conosceva – e tuttora nessuno conosce – Manzoni. Ha rinnovato la poesia italiana, i rapporti con la borghesia, con la politica, con la vita militare. Soprattutto ci lascia oggi un messaggio molto importante, “Conservare intera la libertà fin nell’ebbrezza” e “Non chi più soffre ma chi più gode conosce”. E qui non si tratta di edonismo, ma di godimento come vita intellettuale libera e gioiosa. Questi sono i suoi messaggi, oltre a quello di guardare sempre avanti, progettare e imporre il proprio futuro, saper far sognare agli altri uomini i propri sogni.

Le battaglie politiche di D’Annunzio oggi sono ancora attuali?
Sono sempre attuali. Contrariamente a quello che si pensa, con questa etichetta di ‘filofascista’ che gli è stata attribuita – lo era anche, perché era un superuomo e quindi aveva adottato il superomismo che poi combaciava in qualche modo con il fascismo –, era sostanzialmente un libertario e la difesa della libertà dell’individuo deve essere un nostro compito, dovrebbe essere una delle missioni della Destra, peraltro…

D’Annunzio fa di Fiume “città di vita, città di arte”, quella è una pagina molto importante…
È una pagina straordinaria, qualsiasi Paese disponesse di un episodio simile nella propria storia lo avrebbe mitizzato con film, romanzi e quant’altro, invece sembra quasi che ce ne vergogniamo. Fiume fu un’anticipazione del ’68 da destra, perché nello spirito libertario di Fiume e di d’Annunzio c’era anche questa componente superomista, per cui il ‘capo’ era gran parte della cosa, ma Fiume fu un’avventura indimenticabile che insieme al futuro ripercorre il passato dell’Italia, il Rinascimento. D’Annunzio conquistò Fiume come un condottiero rinascimentale e la mantenne come un pirata di oggi.

La musica è un elemento centrale nella Carta del Carnaro…
Sì, nella costituzione c’è la musica come strumento di vita e di elevazione del popolo, che deve essere quasi distribuita, donata nelle scuole e a tutti quanti, così come la bellezza delle città; l’arredo urbano, così chiamato oggi con una definizione tremenda, non è stato inventato dagli assessori dei vari Comuni, ma è stato inventato da d’Annunzio.

Nell’ultima biografia “La mia vita carnale” racconti un D’Annunzio privato, quotidiano, amante: come corteggiava le donne il Vate?
Lui aveva il grande vantaggio di essere corteggiato, arrivava in un salotto e le donne erano tutte lì a pendere da un suo sorriso – sdentato, peraltro – perché il suo carisma, la sua fama, la sua eleganza, soprattutto il suo eloquio erano tali da incantare tutte quante. Credo che le seducesse con la parola straordinaria di cui disponeva; a trent’anni disse di aver usato, e gli si può credere, 15.000 parole, mentre noi ne usiamo mediamente da 2.000 a 3.000. Faceva sentire le donne regine della propria vita – questo era un dono magnifico – e secondo il suo motto riceveva quel che donava, una dedizione assoluta.

annDannunzio_Giornale.jpgUn aspetto poco conosciuto di D’Annunzio è l’esoterismo, il suo rapporto con l’aldilà. È vero che ti è capitato di metterti in contatto con il fantasma di D’Annunzio al Vittoriale?
Vivo nella casa dell’Architetto Maroni – come tutti i Presidenti quando sono al Vittoriale – dove Maroni, D’Annunzio e Luisa Baccara facevano delle sedute spiritiche e si mettevano in contatto con l’aldilà. Ogni tanto mi passano accanto dei venti, sento dei soffi, però credo fermamente che sia dovuto alle finestre, che sono ancora quelle degli anni Venti!

Un’altra biografia molto importante che hai affrontato è quella di un grande uomo e artista italiano del Novecento, Filippo Tommaso Marinetti…
Marinetti fu l’ultimo uomo importante che vide D’Annunzio vivo; venti giorni prima della morte andò a trovarlo con tutta la famiglia e gli portò un dono magnifico: una scultura che era il doppio comando di un bimotore Caproni con una dedica che diceva: “Noi siamo i motori della nuova Italia”. Ho scritto questi due libri insieme, prima è uscito D’Annunzio e poi Marinetti, perché fanno parte di uno stesso magnifico progetto culturale inconscio della cultura italiana e mondiale. Due innovatori, uno che parte dal passato (D’Annunzio), uno che guarda direttamente al futuro, ma entrambi vogliono cambiare tutto, due rivoluzionari.

All’inizio tra i due correva buon sangue, poi ci fu uno scontro di personalità. Tu citi sempre una battuta bellissima di D’Annunzio nei confronti di Marinetti…
Marinetti lo stuzzicava dandogli del passatista, del vecchio trombone, e D’Annunzio, da grande creatore della lingua, lo fulminò con un epiteto straordinario: ‘cretino fosforescente’. È futurista al massimo!

Secondo te la vita di D’Annunzio è stata più futurista dei Futuristi? Lui veniva nominato ‘passatista’, in realtà la biografia del Vate affronta tutte le tematiche dell’uomo futurista…
Non tutti i Futuristi sono riusciti a vivere una vita futurista, D’Annunzio sì. Basti pensare a quello che ha fatto con il Vittoriale. Si dice che i Futuristi volessero distruggere i musei, non è vero, era una provocazione. D’Annunzio, al rovescio, creò il museo della propria vita che in realtà non è un museo, è il tempo che si è fermato al momento della sua morte per perpetuare la sua vita. Ha progettato il proprio futuro nel mondo dopo la propria morte ed è riuscito a realizzarlo straordinariamente. Il Vittoriale oggi gode di una salute pienissima, ti voglio dire con orgoglio in anteprima per OFF (perché i dati ufficiali verranno comunicati soltanto a fine anno) che a fine novembre avevamo già avuto 16.000 visitatori in più, ovvero l’8% in più del 2012, e che gli incassi sono di conseguenza aumentati. Il Vittoriale non produce solo cultura e bellezza, ma anche ricchezza. Credo che D’Annunzio, a 75 anni dalla morte, possa essere contento.

Qui su OFF abbiamo intervistato Mimmo Paladino e Velasco, che hanno collaborato con te…
Sono due donatori del Vittoriale, hanno dato al Vittoriale delle opere straordinarie, Mimmo Paladino il suo cavallo blu, che è diventato quasi un simbolo del nuovo Vittoriale, così dominante sul lago, e Velasco la sua muta di cani che accompagnano D’Annunzio e i suoi dieci compagni seppelliti nel Mausoleo, quindi mi fa piacere questa comunione.

Oggi che cosa farebbe D’Annunzio nella situazione politica italiana?
Verrebbe d’istinto dire che cercherebbe di prendere in pugno la situazione. Purtroppo sono smentito dal fatto che non lo fece nel 1921 quando avrebbe potuto, ma era tale la disillusione di Fiume – ricordiamoci che fu costretto ad abbandonare Fiume a cannonate dal governo in carica di Giolitti – che si disgustò profondamente e si ritirò al Vittoriale. Chissà, oggi magari non lo farebbe, certo non passerebbe per il Parlamento!

Le similitudini che qualcuno ha fatto, secondo me azzardando un po’, tra Grillo e D’Annunzio, secondo te sono giuste?
Ma per carità, prima di tutto c’è una differenza culturale pari alla Fossa delle Marianne di 11 km. Certo, i grandi eversori sono sempre accostabili, non a caso Grillo tempo fa mise nel suo mitico blog una frase che sembrava totalmente sua ed era di D’Annunzio. Era una frase che incitava alla necessità di rovesciare l’attuale mondo politico per rinnovare tutto, per riprenderci la gioia di vivere, l’economia, la libertà. Erano parole di d’Annunzio che Grillo ha fatto proprie. Dubito che D’Annunzio avrebbe fatto proprie delle parole di Grillo…

Fonte:
Il Giornale

Eléments de réflexion pour une troisième voie

Eléments de réflexion pour une troisième voie

Méridien Zéro propose une émission de réflexion politique sous la forme d'une disputatio à plusieurs voies sur la notion de troisième voie, de troisième position européo-centrée.
Quelle est aujourd'hui l'actualité de cette voie exigeante et difficile qui reste pour nous une référence politique incontournable ?

Pour en discuter, le Lt Sturm a rassemblé autour de lui, et par ordre d'ancienneté, Gabriele Adinolfi, monsieur PGL et Jean Terroir. Cette émission a été enregistrée à la suite de l'émission de Radio Courtoisie sur le même thème, mais l'aborde de façon très différente.

Pour écouter:

http://www.meridien-zero.com/archive/2015/03/13/emission-n-225-elements-de-reflexion-pour-une-troisieme-voie-5582006.html

 

tercérisme, troisième position, révolution conservatrice, europe-puissance, adinolfi,

 

La montre connectée d'Apple. Et si Apple payait ses impôts?

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La montre connectée d'Apple. Et si Apple payait ses impôts?

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
Apple espère rencontrer un nouveau succès « planétaire » avec sa montre connectée, l'Apple Watch, qui sera disponible en neuf pays, dont la France, fin avril prochain.

Les versions en ont été annoncées, de même que les prix et l'autonomie. Ne nous faisons pas ici le porte parole de la firme. Disons que ces prix, selon les versions, iront de 400 à 15.000 euros, auxquels devront s'ajouter les taxes payées par l'acheteur, variables selon les pays.Quant à l'autonomie, nous y reviendrons ci-dessous.

Point à noter, comme chacun devrait le savoir dorénavant, sur les sommes ainsi perçues, Appel, du fait de la non-harmonisation des réglementations fiscales de par le monde, ne paiera que des montants d'impôts ridicules. Grâce à cette évasion fiscale, il a pu annoncer en 2014 un bénéfice annuel de 39, 5 milliards de dollars de bénéfice. Ce chiffre est à comparer aux 3 milliards d'euros nécessaires cette année à la France pour s'acquitter de ses obligations à l'égard de Bruxelles, à comparer aussi aux 30 milliards demandés à la Grèce.

Foire mondiale aux esbrouffes

On dira que ce bénéfice record est principalement du à l'engouement des acheteurs pour l'i-phone. Mais il y a tout lieu de penser que ledit engouement résulte en grande partie des habiles campagnes de communication d'Apple. Le moindre utilisateur un peu averti connaît au moins une demi-douzaine d'appareils moins chers rendant des services équivalents. Il y a tout lieu de penser que de la même façon, malgré la crise, un grand nombre d'acheteurs vont se précipiter sur l'Apple Watch, sans se demander un instant si le prix payé correspond à un service véritablement utile, et que des montres banales ne rendraient pas.

Certes, disent les responsables du marketing d'Apple, la Watch donne l'heure à travers des cadrans numériques personnalisables. Elle permet d'envoyer des messages, de lire ses courriels, de prendre des appels téléphoniques. Mais le tout se fait par une liaison sans fil avec un smartphone qui doit nécessairement être un iPhone. De même la montre permet un suivi d'activité grâce à un détecteur de rythme cardiaque, un accéléromètre et la synchronisation avec le GPS du smartphone.

Il s'agit de fonctionnalités sur l'utilité desquels l'honnête travailleur ayant peu de temps à consacrer au suivi des paramètres de sa petite personne devrait s'interroger. De plus, elles sont proposées par diverses montres connectées déjà sur le marché, à des prix moindres. Mais Apple ne vise pas nécessairement le seul honnête travailleur acheteur du modèle à 400 euros, il vise à attirer ceux, sans doute moins honnêtes, qui considèrent avoir manqué leur vie si à 50 ans ils ne possèdent pas une Rollex. Le modèle dit haut de gamme sera doté d'un boîtier en or 18 carats. Où et à quels prix, demandons-nous en passant, Apple achètera-t-il l'or nécessaire?

Donner l'heure

Concernant cependant la fonction attendue d'une montre, c'est-à-dire donner l'heure et éventuellement la date, ce que fait le moindre produit à 50 euros doté d'une pile ne nécessitant d'être changée que tous les deux ans, l'Apple Watch bat tous les records de ridicule. Son autonomie est d'environ 18 heures. Comme quoi l'utilisateur devra transporter avec lui non seulement sa montre mais un dispositif de recharge, aussi laid qu'encombrant. Certes, Apple fait valoir que de nombreuses start-up(s) développeront des applications plus utiles les unes que les autres permettant de justifier l'achat de la montre. Mais combien d'entre elles intéresseront le public? Il suffit de voir les invendus, si l'on peut dire, encombrant déjà l'Apple Store, pour en avoir une petite idée.

La plupart des clients qui font vivre les sociétés de consommation auxquelles nous appartenons ne se demanderont pas pourquoi ces mêmes sociétés reposent, au niveau mondial, sur le pouvoir que se sont attribué les 5% d'individus et organismes qui détiennent l'essentiel des richesses du monde. N'est-ce pas en partie du fait de leurs comportements moutonniers sinon serviles à l'égard de ces hiérarchies dominantes et des « valeurs » qu'elles défendent?

Sans aborder ce vaste problème ici, bornons-nous à dire que pour notre part nous n'avons pas l'intention d'acheter la moindre Apple Watch, comme nous n'avions pas l'intention d'acheter la moindre Google Glass.

L'Appel Watch et la santé

Pour être honnête, il faut admettre que Apple, en même temps que l'Apple Watch, a lancé ResearchKit, un logiciel qui actuellement opère sur l'iPhone et pourra utiliser les données recueillies par la Watch. Ceci permettra aux porteurs de la montre de participer via des applications adéquates à des études portant initialement sur les fréquences cardiaques, les effets de l'exercice physique et du repos ou ceux du stress.

D'autres données permettront par exemple de géolocaliser les différents profils de santé, afin d'en tirer des indicateurs portant sur les besoins et les ressources destinés aux responsables des politiques de santé (ou aux entreprises faisant métier de vendre des produits et activités de santé). Apple s'engage à confidentialiser les données individuelles recueillies, afin notamment de ne pas diffuser des éléments intéressant des personnes identifiables.

D'ores et déjà Apple a mis en place un réseau permettant aux centaines de millions d'utilisateurs de ses produits actuels d'alimenter en données personnelles des instituts de recherche répartis dans le monde, de l'Université d'Oxford à l'hôpital Xuanwu de Pékin. Les sujets de recherche sont la maladie de Parkinson, le diabète, l'asthme, les cancers du sein et diverses maladies cardiaques. On conçoit que la transmission quasi automatiques de ces données de santé aux instituts de recherche est bien plus efficace et moins coûteuses que les méthodes traditionnelles d'enquête.

Dans un domaine différent, le système dit Apple Pay permettra aux porteurs d'iPhone, et sans doute aussi d' Apple Watch, d'accomplir où qu'ils se trouvent des opérations de paiement. Tout ceci est bel et bon, mais il faut se rendre compte qu'Apple, comme d'autres multinationales américaines analogues, sont en train d'organiser un monde numérique global où les individus n'auront pas plus d'indépendance que n'en ont les cellules individuelles de notre corps. Un monde également dont leurs responsables sont seuls à définir les spécifications.

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Le Jour de la Colère en Occident

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DIES IRAE
Le Jour de la Colère en Occident
 
Fabrice Fassio*
Ex: http://metamag.fr
 
Les termes liés aux phénomènes sociaux (démocratie, capitalisme, communisme, volonté populaire, etc.) ont un caractère polysémique.  La plupart des locuteurs ne mettant pas la même chose sous les mêmes mots, il s'ensuit des malentendus, voire une incompréhension totale. Cette dernière est d'ailleurs largement alimentée par les médias et les politiciens qui, utilisant le mot "démocratie" à tout propos et de façon intempestive, ont transformé ce terme en véritable "tarte à la crème". Afin d'éviter les confusions, nous nommerons dans cet article : démocratie parlementaire ou démocratie tout court, le système politique d'un pays occidental souverain : la France, l'Allemagne, les Etats-Unis, etc. L'existence de partis politiques, de représentants élus par les citoyens, d'une constitution ou d'une assemblée nationale sont des exemples d'éléments constitutifs du système politique en question. Je souhaite enfin préciser que je considère, dans cet article, la démocratie comme un objet d'étude et que nous ne voulons porter sur elle aucun jugement de valeur. 

Démocratie réelle et démocratie mythique
 
zinoview1-2008-cover.jpgDans les médias, dans les discours des hommes d'Etat occidentaux ou bien dans de nombreux ouvrages spécialisés, le terme de "démocratie" revêt toujours une connotation positive. Ce simple fait est, à lui seul, hautement significatif d'une utilisation idéologique de ce terme. En effet, peut-on imaginer un quelconque système politique ne comportant que des qualités ? La démocratie parlementaire réelle et non point mythique ne fait pas exception à la règle. Elle recèle certes des qualités (autrement dit, des phénomènes qu'une majorité de citoyens perçoivent comme positifs) mais aussi des éléments qui jettent le désarroi dans l'esprit de nos contemporains.  Ces éléments constituent en quelque sorte le « revers de la médaille » de notre système politique. 

En effet, beaucoup d'entre nous s'inquiètent de l'importance de phénomènes tels que les groupes de pression (lobbysme), le train de vie des élus, les liens entre le monde de la politique et celui des affaires, le financement occulte des partis, les scandales dans lesquels trempent des politiciens, etc. Ces quelques exemples suffisent à faire comprendre ce que nous voulons dire. A notre sens, ces phénomènes sont les éléments constitutifs d'une démocratie parfaitement réelle et non point mythique (idéalisée). Comme l'affirme le proverbe : il n'existe pas de bien sans mal.  Ces défauts de la démocratie parlementaire ne sont pas l'effet du hasard mais découlent du fonctionnement du système au quotidien ; les éradiquer totalement ne dépend point des discours des journalistes ou des décisions des hommes d'Etat, aussi bien intentionnés soient-ils. Ces défauts font bon ménage avec d'autres phénomènes qui sont en revanche perçus comme des qualités par les citoyens. Tel est le cas de l'élection des représentants du peuple aux plus hauts niveaux de l'Etat (députés, sénateurs, présidents, etc.) Ce choix des élus est une spécificité de notre système politique.

Une crise de confiance

Le droit de choisir ses représentants constitue un élément important de la démocratie parlementaire. Cependant, nombre d'électeurs pensent que leur vote n'améliorera en rien leur quotidien et s'interrogent sur l'utilité réelle des élections. S'estimant victimes d'un jeu de dupes, certains s'abstiennent de voter alors que d'autres accomplissent sans aucune conviction leur devoir de citoyen. Selon le mot célèbre de Jacques Duclos, ces électeurs désenchantés ont conscience de choisir entre " bonnet blanc et blanc bonnet". Selon nous, ce désarroi et cette désaffection sont les conséquences de plusieurs facteurs.
 
Élections et "hollywoodisation" : le système politique ne constitue qu'une partie de la structure étatique d'un pays occidental. Composé d'élus du peuple, ce système cohabite avec un appareil bureaucratique dans lequel travaillent des dizaines de milliers de fonctionnaires. Cependant, les médias ne manifestent de l'intérêt que pour les élus, dont le nombre est pourtant bien inférieur à celui des fonctionnaires d'Etat. Lors des campagnes électorales, l'attention portée par les médias aux politiciens de haut vol est décuplée et atteint son paroxysme. Durant ces périodes, les principaux moyens de communication créent de véritables cultes des hommes politiques les plus en vue, comme si le destin du pays dépendait du discours prononcé par Monsieur X ou bien de la prestation télévisée effectuée par Monsieur Y. La Une des journaux se remplit de faits mineurs de cette nature et les médias organisent toutes sortes de mises en scène tapageuses. Cette "hollywoodisation" de la vie publique a le double mérite de distraire les citoyens et de masquer l'absence totale ou quasi totale d'idées et de programmes. Voter consiste alors à légitimer l'octroi de fonctions publiques à tel ou tel personnage que les médias et les agences de publicité ont mis en valeur de façon à faciliter son élection. Le candidat devient un « produit artificiel » fabriqué de toutes pièces pour le jour du scrutin.

Elections et bipartisme: depuis la fin de la guerre froide, la tendance au bipartisme s'est renforcée en Europe : à une droite libérale s'oppose une gauche socialisante. Il s'agit, selon les pays, de copies plus ou moins conformes du modèle américain : démocrates et républicains. Depuis l'effondrement du bloc de l'Est, l'idéologie occidentale s'est lancée dans une opération de grande envergure. Journalistes, sociologues, politiciens et experts de tout poil ont redoublé d'efforts pour convaincre les électeurs d'élire des candidats se réclamant de partis "ayant vocation à gouverner" (selon l'expression consacrée). Débarrassée de sa gangue idéologique, cette expression bien connue signifie : partis ne représentant aucun risque pour l'ordre social existant. Même si elles proposent des programmes légèrement différents, les formations politiques participant au bipartisme ont en commun le fait de soutenir notre mode de vie. Convaincre l'électeur d'adhérer au bipartisme revient à cantonner le pouvoir des urnes dans des limites que les forces influentes de la société jugent acceptables. Il s'agit bel et bien de restreindre ce pouvoir afin qu'il ne représente aucun danger pour l'ordre social.

Elections et classe politicienne : beaucoup de citoyens ont clairement conscience qu'existe une classe (une catégorie) de professionnels de la politique. Dans son étude fondamentale consacrée à la société occidentale, le philosophe russe Alexandre Zinoviev note que, depuis la fin de la seconde guerre mondiale, cette classe a non seulement augmenté d'un point de vue numérique mais qu'elle a accru son rôle dans la société. Ces professionnels de la politique ne font pas carrière d'une manière solitaire mais au sein de partis, de mouvements et d'organisations ; ils jouissent d'un niveau de vie élevé : salaires enviables et avantages en nature, relations avec le monde des affaires, honoraires d'appoint, etc. Même s'ils ignorent les "dessous" de la vie politique, la majorité des citoyens savent cependant qu'ils sont fort peu reluisants. Les scandales qui éclatent de temps à autre permettent d'ailleurs au commun des mortels d'entrevoir les coulisses du monde de la politique. S'ensuivent l'indignation, la désillusion et l'amertume. 

Décrivant dans son opuscule "le Prince" le comportement des puissants de son temps, Nicolas Machiavel notait que la ruse, le cynisme, la trahison et le mensonge sont des traits psychologiques que les hommes d'Etat doivent développer s'ils veulent garder le pouvoir. L'analyse du Florentin reste et restera d'actualité. Les politiciens les plus en vue appartiennent à "l'élite" de la société, c'est-à-dire aux couches supérieures du monde occidental. Obsédés par leur carrière, ces professionnels de la politique ne se soucient de leurs électeurs que dans la mesure où ils ont besoin d'eux le jour du scrutin. Sans en être pleinement conscient, le citoyen contribue à perpétuer, par le simple fait de voter, l'existence de cette classe politicienne intimement liée au monde idéologico-médiatique et à celui des affaires.


Sur la base des quelques considérations qui précèdent, il serait faux de conclure que le pouvoir des urnes est aujourd'hui réduit à l'état de pure fiction. En choisissant de voter, par exemple, pour tel candidat plutôt que pour tel autre, nombre d'électeurs expriment une réelle préférence. Cependant, il est clair que la fonction essentielle du vote revient à accorder une légitimité à des individus désireux d'acquérir une parcelle de pouvoir. Quant au libre arbitre de l'électeur, il subit de fortes manipulations destinées à l'orienter dans une direction bien précise. 

L'idéologie occidentale a indéniablement obtenu des succès en matière de conditionnement des esprits (c'est "le lavage de cerveaux en liberté", selon l'expression de Noam Chomsky). Cependant, l'idéologie ne peut pas tout. La situation actuelle des pays occidentaux montre que la confiance en la force des urnes ainsi que l'attrait pour le bipartisme sont à la baisse, alors que grandit le mécontentement social. Dans les années à venir, pourraient accéder au pouvoir des partis étrangers au bipartisme, qui auront réussi à focaliser les états d'âme oppositionnels des électeurs. Il n'est pas exclu non plus que le mécontentement populaire s'accumule et finisse par éclater avec violence. 

Ce jour-là, la voix du peuple ne s'exprimera pas par le biais des urnes mais par la révolte. C'est alors que le monde occidental connaîtra  lui aussi son jour de la colère.


* spécialiste de l'oeuvre du logicien et sociologue russe : Alexandre Zinoviev
 

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mardi, 17 mars 2015

Report on the Jean Parvulesco Symposium Bucarest 2015

Report on the Jean Parvulesco Symposium Bucarest 2015

Jean Parvulesco 2015Ex: http://www.openrevolt.info

A symposium on the French writer Jean Parvulesco led by Vlad Sauciuc and the Romanian branch office of the TV news channel Russia Today was held in the Hotel Crystal Palace of Bucharest on February 28th and 29th 2015.

From his Moscow apartment relayed via Skype, Alexander Dugin joined the symposium to share the memories of his friend Jean Parvulesco, whom he met in the late 1980s at the occasion of his first contacts with representatives of the French New Right. Alexander Dugin recognized the fact that the real identity of Jean Parvulesco will always remain a mystery, but added that if we were to try to define his true identity, he would think of a manifestation of the Celtic bard Talesin entrusted with a secret mission (undoubtedly in reference to Jean Parvulesco description of Julius Evola as a secret agent of the Holy Roman Emperor Frederick II). In his second conference, Alexander Dugin explained the core concepts of Jean Parvulesco’s geopolitical ideas, especially that of the eschatological Endkampf that would conclude centuries of occult warfare between the the Altantist order and the Eurasist order beyond the scene of world politics.

Natalia Melentiyeva, Alexander Dugin’s wife, joined the conference and, as a philosophy professor, introduced the key concepts of Neoplatonism, the true philosophia perennis common to most esoteric hermeneutics of the three monotheistic religions, in order to show how the philosophy of Plato and Plotinus can help deciphering the main themes of Jean Parvulesco’s novels. She also explain how each culture can be said to have its specific logos, which explains why each nation or ethnic ground needs to define its own Fourth Political Theory.

Jean Parvulsco’s son, Constantin Parvulsco, shed light on the mysteries of Jean Parvulesco early life: escape from the communist regime in Romania swimming across the Danube river, labor camp in Yugoslavia, escape and rescue from a mysterious virgin in Medjugorje, student life in Paris with the artistic avant-garde, armed struggle in Spain and Africa, mystical experiences, meetings with Ezra Pound, Julius Evola, Martin Heidegger, Mircea Eliade or Dominique de Roux, late literary career and militant involvement with the French New Right as well as various secret societies.

Stanislas Parvulesco, Jean Parvulesco’s grandson talked about the links between Eurasianism and South America with an inspiring speech on the resistance against globalization, and neo-liberal capitalism, with references to Peron and Chavez, as well as to the struggle of native American tribes to maintain their traditions.

As an expert on René Guénon and his Traditionalist school, Claudio Mutti talked about Jean Parvulesco’s friendship with other well-known Romanian figures, such as Jean Vâlsan, Vasile Lovinescu, Mirchea Eliade or Emil Cioran. His second speech was dedicated on Romanian sacred geography, with abundant references to Vasile Lovinescu’s book on the Hyperborean Dacia.

With his flamboyant style, Laurent James gave a very interesting speech on the influence of the French writer Dominique de Roux on Jean Parvulesco, followed by the recitation of a beautify people on Romania written by Dominique de Roux and most probably inspired or even written by Jean Parvulesco. Laurent’s second speech was fascinating compilation of Roman Catholic prophesies focused on Petrus Romanus, the last pope, who may herald the end of the papacy and a return of the Latin Church to Orthodoxy.

Finally, Alex Wyeth gave a first speech focused on Jean Parvulesco’s meetings with Julius Evola in 1968 to show that Jean Parvulesco could be seen as a true disciple of Julius Evola through three core themes that can serve as keys to decipher Jean Parvulesco’s cryptic novels, namely Tantrism (reinterpreted in a Western hermetic or Catholic frame), the Holy “Eurasianist” Empire and the Order of differentiated men leading the ultimate underground battle against the princes and principalities of dissolution. His second speech gave an example of the occult geopolitical influence of secret societies and their link to Eurasianism through the example of Martinism in Russia.

Many other fascinating topics have been discussed shedding light on Jean Parvulesco’s life and work from many different angles.

Beside conferences, the speakers have been received with the legendary hospitality of their Romanian friends, meeting fascinating people as diverse as representatives of Romanian parliament as well as the Russian embassy, Hesychasts inspired by René Guénon, National Bolshevik activists, legionaries of the Romanian Iron Guard, scholars and members of esoteric orders united by the mysterious figure of Jean Parvulesco as well as by the core principles of Eurasianism and Alexander Dugin’s Fourth Political Theory.

Alex Wyeth March 6, 2015 for OpenRevolt.info

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Une Alliance stratégique Iran/Russie/Egypte est-elle possible?

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Une Alliance stratégique Iran/Russie/Egypte est-elle possible?

Ex: http://nationalemancipe.blogspot.com
 
Les crises régionales ont élargi la convergence politique Téhéran-Moscou, ce qui a amené un pays, comme l'Egypte, à être convergent avec l'Iran et la Russie, au sujet des dossiers régionaux. Le ministre russe de la Défense s'est rendu, du 19 au 21 janvier, à Téhéran, où il a rencontré ses pairs iraniens, et signé avec eux un accord, qui prévoit d'accroître la coopération militaire et défensive entre l'Iran et la Russie.
 
Dans un article, le Centre des études arabes et des recherches politiques a procédé à un décryptage de cette visite, première du genre, depuis 2002. Dans son analyse, ce Centre évoque la signature de cet accord de coopération entre l'Iran et la Russie, dans les domaines de la formation, de l'exécution des manœuvres, et écrit : les médias iraniens et russes ont qualifié cette visite de très importante, dans leurs estimations, et ont souligné que cette visite sera un point de départ, pour la constitution d'une alliance stratégique entre l'Iran et la Russie. Ces médias ont indiqué que Moscou avait signé avec l'Iran le contrat de la vente à Téhéran des missiles S-300, d'avions de combat de type "Soukhoï", "Mig-30", "Soukhoï 24", ainsi que des pièces détachées nécessaires. La récente visite, en Iran, du ministre russe de la Défense semble être considérée comme stratégique, car elle sert les intérêts des deux parties, les deux pays étant exposés aux pressions de l'Occident, l'Iran, pour son programme nucléaire, et la Russie, en raison de la crise d'Ukraine.

 Cependant, certains analystes ne sont pas aussi optimistes, quant à ces accords, et disent qu'ils ne sont pas le signe d'un changement stratégique, dans les relations Téhéran-Moscou, car la Russie n'a rien fait, pour empêcher l'adoption, par l'Occident, des sanctions contre l'Iran, et a, d'ailleurs voté, toutes les résolutions anti-iraniennes, adoptées par le Conseil de Sécurité de l'ONU. La Russie a exprimé son mécontentement des pourparlers Iran/Etats-Unis, à Oman, sans l'invitation faite à ce pays d'y assister. En plus, en 2010, la Russie a refusé d'honorer ses engagements, pour vendre le système de défense anti-aérienne S-300, dans le cadre d'un contrat, signé avec l'Iran, d'un montant de 800 millions de dollars. 
 
La Russie a achevé la centrale atomique de Boushehr, avec un retard de dix ans. De plus, les Russes ne voient pas d'un bon œil le programme nucléaire iranien, et c'est pour cela qu'ils se sont rapprochés, à cet égard, des Occidentaux. A cela, s'ajoute le fait que les Russes sont inquiets de l'accès à un accord entre l'Iran et l'Occident, car un tel accord permettra à l'Occident de s'approvisionner en énergie, auprès de l'Iran, et mettre, ainsi, fin à sa dépendance énergétique vis-à-vis de la Russie. 
 

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Cela étant dit, il y a de nombreux intérêts communs entre les deux pays, surtout, en ce qui concerne les dossiers régionaux, des intérêts communs, qui l'emportent sur les hésitations, les doutes et les divergences. A ce propos, le Directeur du Centre d'études et d'analyses stratégiques de Russie dit : «A l'instar de la Russie, l'Iran est opposé à la croissance et à la montée en puissance des groupes takfiris extrémistes, au Moyen-Orient. Affectés par la baisse du prix du pétrole, les deux pays réclament la hausse du prix du pétrole. 
En outre, les deux pays se trouvent, dans des positions similaires, dues aux sanctions, appliquées à leur encontre, par l'Occident. L'Iran et la Russie s'accordent, unanimement, à soutenir le gouvernement de Bachar al-Assad, en Syrie, et à freiner la montée en puissance et la croissance des groupes terroristes takfiris et extrémistes, comme «Daesh». Les deux pays sont d'avis que la montée en puissance d'un tel groupe et des groupes similaires, représente un défi important, pour leur politique régionale et internationale, ainsi que pour leurs intérêts nationaux.
 
 Mais cela ne s'arrête pas là. Les deux pays sont parvenus, récemment, à une autre convergence, sur le plan régional, qui est celle liée au dossier du Yémen, à telle enseigne, que Moscou, comme Téhéran, ont annoncé leur soutien au mouvement d'Ansarallah. Moscou est persuadée que le soutien au Mouvement d'Ansarallah fournira à ce pays la possibilité de reprendre ses chaleureuses et amicales relations avec le Yémen, qui marquaient les années de la guerre froide. Mais la raison la plus importante, qui conduit à cette convergence Téhéran/ Moscou, c'est leur position unie, face à l'Arabie Saoudite. Ils veulent mettre sous pression l'Arabie Saoudite, sur le plan régional, notamment, au Yémen. Depuis novembre, l'Arabie a abaissé le prix du pétrole, pour s'aligner sur les Etats-Unis, en vue d'exercer des pressions sur l'Iran et la Russie. En guise de réaction, la Russie a soutenu le Mouvement d'Ansarallah, qui fait partie de l'axe chiite, dans la région. Cet axe est considéré, actuellement, comme le plus important allié de Moscou, dans la région, pour faire face aux pays, tels que l'Arabie saoudite et aux groupes terroristes, comme «Al-Qaïda», en général, dans la région, et, en particulier, au Yémen.
 
 La Russie a tout fait, au Conseil de sécurité de l'ONU, pour l'empêcher de déclarer, comme étant illégaux, les développements, survenus au Yémen, pour justifier, ainsi, le recours à la force, afin de réprimer les révolutionnaires. Parallèlement à l'accroissement de la coordination et de la convergence politique entre l'Iran et la Russie envers des dossiers régionaux, dont le Yémen et la Syrie, le changement de position de l'Egypte envers la crise syrienne a suscité l'étonnement de beaucoup de gens. Cela a montré que le Caire s'inquiète, grandement, de la croissance et de la montée en puissance des groupes et courants salafistes et takfiris extrémistes. D'où sa position convergente avec celle de l'Iran et de la Russie sur la Syrie. Cette convergence politique du Caire avec Téhéran et Moscou ne se borne pas au dossier syrien, car elle s'est élargie aux évolutions yéménites, car l'Egypte ne voit pas dans la montée en puissance d'Ansarallah, au Yémen, une menace contre sa sécurité nationale.

El 'Altyn', ¿un 'euro' para Eurasia?

 

Ex: http://www.elespiadigital.com

Una Zona Monetaria Común dentro de la Unión Económica Euroasiática (UEE) haría que la unión fuese aún más estable y económicamente atractiva, según un grupo de expertos citados por RIA Novosti.

La viabilidad de una moneda común para la unión compuesta por Rusia, Bielorrusia, Kazajistán y Armenia está siendo analizada por el Banco Central de Rusia en colaboración con el Gobierno, a instancias del presidente ruso, Vladímir Putin.

Se estima que el 1 de septiembre de este año estará listo el análisis para determinar si la unión monetaria en la UEE es un proyecto viable.

El año pasado en Kazajistán fueron firmados los documentos que prevén la creación para 2025 del Banco Euroasiático y la creación de una moneda única para Bielorrusia, Rusia y Kazajistán. "La situación política exterior puede haber influido en las decisiones económicas, y el presidente de Rusia ha decidido acelerar este proceso", señala el director del departamento de análisis de la empresa de servicios financieros Alpari, Alexander Razuvaev.

El experto asegura que la nueva moneda "puede entrar en vigor el 1 de enero de 2016", argumentando que "la política controla la economía". Sin embargo, hay quienes opinan que la transición debe hacerse de manera más pausada.

Un 'altyn' para Eurasia

La denominación provisional de la moneda única de Eurasia es 'altyn' (una moneda usada históricamente en Rusia y en varios países de la región), nombre que fue evocado en público por el presidente de Kazajistán, Nursultan Nazarbayev. Sin embargo, según algunos medios de comunicación también se estaría discutiendo el nombre de 'euraz'.

El Banco Central de la UEE, que se encargará de supervisar la política monetaria única, estará ubicado en Alma-Ata, antigua capital kazaja. "Solo que no será un análogo del Banco Central Europeo. Probablemente las decisiones serán tomadas de manera unánime por los jefes de Estado o por las directivas de los Bancos Nacionales de los países miembro", dice Razuvaev.

Se estima que la moneda única sea similar al rublo ruso y se sustente en las exportaciones de materias primas de Rusia y Kazajstán. El mercado potencial de circulación ronda los 180 millones de personas, sumando un volumen total del PIB de más de 2 billones de dólares.

Un paso lógico

Por un lado, la introducción de la moneda única en la UEE es un paso lógico en el marco de la coordinación económica, sostienen los expertos. "La moneda única es la última etapa de la integración monetaria", explica el director del Centro de Estudios de Integración del Banco Euroasiático de Desarrollo, Yevgeni Vinokurov.

La unión monetaria puede tener un impacto positivo en el desarrollo del mercado común en el marco de la UEE, tanto en términos de evitar el impacto de las fluctuaciones de las monedas de los países participantes, como también de la simplificación de los cálculos internos, dijo a RIA Novosti el director general del Centro de Comercio Internacional Vladímir Salamatov.

Según Vinokurov, las monedas de la UEE dependen de facto y en gran medida del rublo ruso. "Esta es, en nuestra opinión, una razón más para considerar la integración. Ya que, de todas formas, la tasa de cambio de sus monedas se basará en el rublo", explica. Y concluye preguntándose: "¿no será mejor hacer este mecanismo claro y ajustable?".

Periodo de configuración

La introducción de una moneda única no se puede hacer de la noche a la mañana. "Necesitamos un período suficientemente largo de ajuste. Se trata de coordinar las políticas monetarias y cambiarias, y de la coordinación mutua de las tasas de cambio de las monedas nacionales", agrega Vinokourov.

Una condición importante para el buen funcionamiento de la unión monetaria es una coordinación fiscal (en términos de legislación fiscal). Solo después de eso será posible la introducción de una moneda única y un único centro de emisión, resalta el experto.

La ministra para la Integración y la Macroeconomía de la UEE, Tatiana Válovaya, hizo un llamamiento este martes a los países miembros a no apresurarse, afirmando que primero es necesario crear un mercado único y luego hablar de la posibilidad de una moneda única. "Pero es necesario coordinar la política monetaria", concluyó.

Economistas: El mundo está al borde de una crisis monetaria sin precedentes

El fortalecimiento del dólar estadounidense, la "muerte" del euro y 74 billones de dólares en derivados sobre divisas, todo eso puede provocar la mayor crisis monetaria, advierten expertos.

El economista Michael Snyder opina que el fortalecimiento del dólar que se observa estas semanas "no es una buena noticia".

"Un dólar fuerte perjudica a las exportaciones estadounidenses, dañando así la economía del país. Además, la debilidad del dólar ha impulsado una fuerte expansión de los mercados emergentes de todo el mundo. Mientras el dólar se fortalece, se hace mucho más difícil para los países pedir prestado y pagar las deudas viejas", escribió en su artículo en el portal Infowars.

Por otra parte está el euro, que se encamina hacia mínimos históricos. La moneda europea se acerca a la paridad con el dólar y "finalmente caerá bajó el dólar", cree Snyder.

"Esto va a causar un gran dolor de cabeza en el mundo financiero. Los europeos tratan de resolver sus problemas económicos mediante la creación de enormes cantidades de dinero nuevo. Es la versión europea de la flexibilización cuantitativa, pero tiene efectos secundarios muy negativos", advierte el economista.

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Análisis: Cómo el Mercosur y la Unión Euroasiática desafían a Estados Unidos y la hegemonía del dólar

Por Ariel Noyola Rodríguez

Las estrategias de contención económica promovidas por Washington en contra de Moscú y Caracas precipitaron la reconfiguración de alianzas en el sistema mundial. Es que aunque Rusia se localice geográficamente en el norte del hemisferio, su agenda diplomática guarda una mayor vinculación con las economías emergentes. Lo mismo sucede en relación a los países de América Latina, la región que de acuerdo con el canciller de Rusia, Serguéi Lavrov, está llamada a convertirse en un pilar clave en la construcción de un orden mundial multipolar.

Sin lugar a dudas, los nexos de Rusia con la región latinoamericana se profundizan de manera acelerada. Según la base de datos sobre comercio de mercancías de las Naciones Unidas (UN Comtrade, por sus siglas en inglés), los intercambios entre Moscú y América Latina alcanzaron una cifra récord de 18.832 millones de dólares en 2013, un monto 3 veces mayor en relación a 2004 (Brasil, Venezuela, Argentina, México y Ecuador son los 5 socios más importantes del oso ruso en América Latina).

Hay complementariedad económica en lo fundamental. Las exportaciones de Rusia hacia América Latina están concentradas en más de 50% en fertilizantes, minerales y combustibles. En tanto Moscú compra a los países latinoamericanos básicamente productos agrícolas, carnes y componentes electrónicos. De acuerdo con las proyecciones elaboradas por el Instituto de Latinoamérica de la Academia de Ciencias de Rusia, el comercio bilateral alcanzará los 100.000 millones de dólares el año 2030, un aumento de más de 500%.

Sin embargo, también hay múltiples desafíos en el horizonte. El contexto recesivo de la economía mundial, la tendencia deflacionaria (caída de precios) en el mercado de materias primas (en especial el petróleo), la desaceleración del continente asiático y las sanciones económicas impuestas por Estados Unidos y la Unión Europea, revelan la urgente necesidad de elevar los términos de la relación diplomática entre Rusia y los países latinoamericanos.

Como efecto de la caída del comercio entre Rusia y la Unión Europea, América Latina emerge de alguna manera como mercado sustituto y, al mismo tiempo, en calidad de receptora de inversiones de alta tecnología. En ese sentido, hay que destacar los proyectos de inversión del Consorcio Petrolero Nacional (conformado por Rosneft, Gazprom Neft, LUKoil, TNK-BP y Surgutneftegas) comprometidos con empresas de Brasil, Argentina, Venezuela, Guyana y Cuba, entre otros países.

Por añadidura, existe un amplio abanico de posibilidades para la construcción de alianzas científico-tecnológicas que por un lado, promuevan el desarrollo industrial de la región latinoamericana y, por otro lado, contribuyan a diversificar las exportaciones de Moscú, actualmente concentradas en los hidrocarburos.

El largo estancamiento de la actividad económica mundial, así como el aumento de la conflictividad interestatal por garantizar el suministro de materias primas fundamentales (petróleo, gas, metales, minerales, tierras raras, etcétera.) para la reproducción de capital, promueven la construcción de alianzas estratégicas a través de acuerdos de comercio preferenciales, inversiones conjuntas en el sector energético, transferencias tecnológicas, cooperación técnico-militar, etcétera.

Bajo esa misma perspectiva, la relación estratégica que Rusia mantiene con varios países latinoamericanos en el plano bilateral (Argentina, Brasil, Cuba, Ecuador, Nicaragua, Venezuela, etcétera.), busca ampliarse en la región sudamericana a través la Unión Euroasiática (conformada por Rusia, Bielorrusia, Kazajistán, Armenia y Kirguistán) como punta de lanza.

Es que si bien el presidente Vladimir Putin planteó en 2011 (en un artículo publicado en el periódico 'Izvestia') convertir la Unión Euroasiática en un mecanismo puente entre la región Asia-Pacífico y la Unión Europea, el cerco impuesto en contra de la Federación Rusa por la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN) canceló temporalmente esa posibilidad.

En consecuencia, la Unión Euroasiática rompe sus límites continentales a través de la creación de zonas de libre comercio con China en el continente asiático, Egipto en el Norte de África y el Mercado Común del Sur (Mercosur, conformado por Argentina, Brasil, Paraguay, Uruguay y Venezuela) en América Latina.

En los últimos años, la relación estratégica entre la Unión Euroasiática y el Mercosur representa la mayor apuesta de Rusia en la región sudamericana en materia de integración regional: ambos bloques poseen una extensión territorial de 33 millones de kilómetros cuadrados, una población de 450 millones de habitantes y un PIB combinado por encima de los 8,5 billones de dólares (11.6% del PIB mundial medido en términos nominales). La relación estratégica persigue dos objetivos generales. En primer lugar, disminuir la presencia de Estados Unidos y la Unión Europea en los flujos de comercio e inversión extrarregionales. Y en segundo lugar, acelerar el proceso de desdolarización global a través del uso de monedas nacionales como medios de liquidación.

La construcción de un sistema de pagos alternativo a la Sociedad para las Comunicaciones Interbancarias y Financieras Internacionales (SWIFT, por sus siglas en inglés) por parte de Rusia (China anunció recientemente el lanzamiento de un sistema de pagos propio, mismo que podría comenzar a funcionar el próximo mes de septiembre), así como la experiencia de América Latina sobre el Sistema Único de Compensación Regional (SUCRE) para amortiguar los shocks externos sobre el conjunto de la región, son evidencia del creciente protagonismo de ambas partes en la creación de instituciones y nuevos mecanismos financieros que abandonan la órbita del dólar.

Es indudable, frente a la embestida económica y geopolítica emprendida por el imperialismo norteamericano, que las economías emergentes eluden confrontaciones directas a través de la regionalización. De manera sucinta, la Unión Euroasiática y el Mercosur deberán enfocar sus esfuerzos hacia una mayor cooperación financiera y en paralelo, articular un frente común en defensa de la soberanía nacional y los principios del derecho internacional.

En conclusión, la relación estratégica entre la Unión Euroasiática y el Mercosur tiene una enorme oportunidad para presentar ante el mundo parte de la exitosa respuesta de ambos bloques a la profundización de la crisis económica actualmente en curso y, con ello, contribuir de manera decisiva a debilitar los cimientos de la hegemonía del dólar.

Nouvelle importance de la Mongolie

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Nouvelle importance de la Mongolie

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
Du grand Empire Mongol qui pendant des siècles avait fait trembler ou rêver l'Asie et l'Europe, reste aujourd'hui la Mongolie, dite encore parfois Mongolie Extérieure, à qui l'on n'attribue généralement pas un grand poids géopolitique.
 
Le ministère français des affaires étrangères, quant à lui, dans ses « Conseils aux voyageurs », n'en donne pas une description très attrayante: « Pour tout déplacement en Mongolie, pays très étendu (trois fois la France) et faiblement peuplé (2,75 millions d'habitants), il est impératif de disposer d'un excellent contrat d'assurance maladie/rapatriement couvrant la totalité du séjour mongol et de vérifier si la compagnie d'assurance choisie dispose de correspondants administratifs et médicaux en Mongolie.I l est également indispensable de se munir des coordonnées précises de ces correspondants avant d'entreprendre le voyage, et de les conserver avec soi durant tout le séjour. » Il est vrai que se perdre dans le désert de Gobi peut légitimement faire peur.

Mais il s'agit d'une erreur. Aujourd'hui la Mongolie joue dans le monde un rôle important. Elle le doit d'abord à sa situation géographique qui la place au coeur de l'Asie, entre la Russie et la Chine et qui fait d'elle un point de passage essentiel pour les routes commerciales terrestres entre l'Europe et l'Asie-Pacifique. Elle dispose aussi d'importantes réserves minérales aujourd'hui considérées comme rares, cuivre, molybdène, étain, tungstène et or notamment.

Mais elle doit également ce rôle à ce qu'elle a nommé la « third neighbour approach diplomacy». Ce terme désigne la volonté du pays de ne pas se limiter aux relations avec ses deux grands voisins, Chine et Russie, mais de rechercher des relations de bon voisinage avec des pays plus éloignés, Japon, Corée du Sud et Etats-Unis notamment. Pour le moment, il faut bien remarquer que l'Europe ne figure pas dans la priorité des « troisièmes voisins » à fréquenter.

Aussi ouverte en théorie que soit la diplomatie mongole, elle a toujours refusé de s'inclure dans des alliances, militaires ou économiques, qui seraient dirigées contre la Chine et la Russie. Ceci n'a pas été cependant sans que les Etats-Unis s'y essayent à plusieurs reprises, ayant proposé à la Mongolie de créer sur son territoire un réseau de bases militaires analogue à celui mis en place dans une Europe plus docile.

La Mongolie a cependant accepté de participer aux côtés des Etats-Unis aux guerres menées par ces derniers en Afghanistan et en Irak. De même ses experts militaires se joignent depuis 2006 à des manoeuvres communes dites « Khaan Quest » . Il existe dans la capitale, Oulan Bator, un centre dit d' « entrainement au maintien de la paix » ( Regional Peacekeeping Training Center ) financé par l'Amérique, dont le nom est tout un programme. En avril 2014, le secrétaire à la défense de l'époque, Chuck Hagel, avait déclaré que la Mongolie était pour l'Amérique un « partenaire stratégique ». Sur le plan économique, le gouvernement américian veille soigneusement à préserver les positions des deux principales entreprises minières anglo-américaines, American Peabody Energy Corporation et Rio Tinto Ltd.

Tout ceci n'est pas sans inquiéter la Chine, car fidèle à sa politique de « défense des droits de l'homme et de la démocratie», la diplomatie américaine et ses services secrets ne cessent de susciter un sentiment anti-chinois dans la région autonome voisine de la Mongolie dite Uyghur Autonomous Region of the People's Republic of China (XUAR), laquelle abrite 9 millions de musulmans dont certains sont de plus en plus tentés par l'indépendance, quand ils ne fomentent pas en Chine même des attentats au nom d'un nouveau djihad à la mode asiatique.

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La Mongolie et le BRICS

Pour rééquilibrer les rapports de force, la Mongolie a décidé de renforcer ses relations avec la Russie. Ceci prendra une nouvelle actualité avec la mise en place des coopérations stratégiques et éventuellement militaires développées à l'initiative de cette dernière au sein du BRICS et de l'Organisation de Coopération de Shanghai (SCO). Dans ce cadre, à la suite d'une visite en début d'année du vice président de la Douma Sergei Naryshkin, la Mongolie a exprimé le désir que se mette en place à travers son territoire des branches terrestres de la Nouvelle Route de la Soie, décidée par la Chine et soutenue par la Russie. Il s'agira de construire des voies ferrées et des autoroutes, ainsi que des pipe-lines pour le gaz et le pétrole venant de Russie. Ce projet s'appellera « Route de la Steppe ». Il complétera la Route de la Soie et devrait permettre de développer une zone économique active. La Mongolie sera présente à la prochaine réunion du BRICS à Ufa et devrait devenir membre observateur au sein de la SCO

Dans l'immédiat, contrairement à la volonté (honteuse) de non participation de ses homologues européens à la commémoration organisée en mai 2015 pour célébrer le 70e anniversaire de la victoire de l'URSS dans la Grande guerre patriotique, le président de la Mongolie Tsakhiagiin Elbegdorj sera présent au premier rang. Il aura l'occasion d'y rencontrer Vladimir Poutine, sans mentionner d'autres rencontres également envisagées.

Rappelons une nouvelle fois ici que si l'Europe n'avait pas sur ordre de Washington, décidé de refuser pour le moment toutes les coopérations stratégiques dites euroBRICS, elle aurait pu reprendre un peu d'influence dans une partie du monde où elle est devenue pratiquement invisible.

Notes

* Empire Mongol. Wikipedia

* Mongolie Wikipedia

Jean Paul Baquiast

Entretien avec Slobodan Despot

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Slobodan Despot: « Le traitement spécial réservé aux Russes et aux Serbes est motivé par leur insoumission »

Entretien avec Slobodan Despot 

Slobodan Despot est écrivain et éditeur. Il a notamment publié Despotica en 2010 (Xenia) et Le miel en 2014 (Gallimard). Suisse d’origine serbe, il porte un intérêt tout particulier au monde slave. Nous avons discuté avec lui de la manière dont les médias, les politiques et les intellectuels occidentaux rendaient compte du conflit en Ukraine.

PHILITT : En 1999, l’OTAN et l’Occident ont déclenché une guerre au Kosovo en niant l’importance culturelle et historique de cette région pour le peuple serbe. Aujourd’hui, l’Occident semble ignorer l’importance de l’Ukraine pour le peuple russe. Avec 15 ans d’écart, ces deux crises géopolitiques ne sont-elles pas le symbole de l’ignorance et du mépris de l’Occident envers les peuples slaves ?

Slobodan Despot : La réponse est dans la question. On agit de fait comme si ces peuples n’existaient pas comme sujets de droit. Comme s’il s’agissait d’une sous-espèce qui n’a droit ni à un sanctuaire ni à des intérêts stratégiques ou politiques vitaux. Il y a certes des peuples slaves et/ou orthodoxes que l’OTAN traite avec une apparente mansuétude — Croates, Polonais, Roumains, Bulgares — mais uniquement à raison de leur docilité. On ne les méprise pas moins pour autant. Cependant, le traitement spécial réservé aux Russes et aux Serbes est motivé par leur insoumission à un ordre global dont l’Occident atlantique se croit à la fois le législateur et le gendarme. On peut déceler dans l’attitude occidentale vis-à-vis de ces deux nations des composantes indiscutables de ce qu’on appelle le racisme. Le journaliste suisse Guy Mettan publie d’ailleurs ce printemps une étude imposante et bienvenue sur la russophobie.

PHILITT : Comme l’explique Jacques Sapir, deux revendications légitimes se sont affrontées dans le cadre de la crise de Crimée : la liberté des peuples à disposer d’eux-mêmes et le respect de l’intégrité territoriale d’un État. Est-il possible, selon vous, de dépasser cette tension ?

Slobodan Despot : La Crimée fut arbitrairement rattachée, on le sait, à l’Ukraine par Khrouchtchev dans les années 50, à une époque où l’URSS semblait appelée à durer des siècles et où, du même coup, ses découpages intérieurs ne signifiaient pas grand-chose. L’éclatement de l’Empire a soulevé de nombreux problèmes de minorités, d’enclaves et de frontières inadéquates. La Crimée est non seulement une base stratégique de premier plan pour la Russie, mais encore une terre profondément russe, comme elle l’a montré lors de son référendum de mars 2014. Les putschistes de Kiev, sûrs de la toute-puissance de leurs protecteurs occidentaux, ont oublié de prévoir dans leur arrogance que leur renversement de l’ordre constitutionnel allait entraîner des réactions en chaîne. Or, non seulement ils n’ont rien fait pour rassurer les régions russophones, mais encore ils ont tout entrepris pour que celles-ci ne songent même plus à revenir dans le giron de Kiev.

De toute façon, le rattachement de la Crimée n’est, on l’oublie trop vite, que la réponse du berger russe à la bergère américaine, qui a jugé bon en 1999 de détacher à coup de bombes le Kosovo de la Serbie. Le bloc atlantique et ses satellites ont par la suite reconnu cet État mort-né malgré l’existence d’une résolution de l’ONU (n° 1244) affirmant clairement la souveraineté de la Serbie sur cette province. C’est au Kosovo qu’a eu lieu la violation du droit international qu’on dénonce en Crimée.

PHILITT : Concernant le conflit ukrainien, chaque camp dénonce l’action d’agents d’influence en tentant de minimiser la spontanéité des événements. Quelle est la part de réalité et de fantasme de cette lecture géopolitique ?

Slobodan Despot : Je rappellerai un cas d’école très peu connu. Toute la Crimée se souvient d’un incident gravissime survenu au lendemain du putsch de Maïdan, lorsque des casseurs néonazis bien coordonnés ont arrêté sur l’autoroute une colonne de 500 manifestants criméens revenant de Kiev, mitraillé et incendié leurs autocars, tabassé et humilié les hommes et sommairement liquidé une dizaine de personnes. Les médias occidentaux ont totalement occulté cet épisode. Comme il s’agissait de faire passer le référendum criméen pour une pure manipulation moscovite, il était impossible de faire état de cet événement traumatique survenu moins d’un mois avant le vote.

ukrmichseg.jpgLes exemples de ce genre sont légion. Le livre très rigoureux du mathématicien français Michel Segal, Ukraine, histoires d’une guerre (éd. Autres Temps), en décompose un certain nombre en détail. Il faut reconnaître que le camp « occidentiste » a l’initiative de la « propagande contre la propagande », c’est-à-dire de la montée en épingle d’opérations d’influence supposées. Il jouit en cela d’une complaisance ahurissante des médias occidentaux. Or, dans un conflit comme celui-là, où tous les protagonistes sortent des écoles de manipulation soviétiques, les chausse-trapes sont partout et seul un jugement fondé sur la sanction des faits avérés et sur la question classique « à qui profite le crime ? » permettrait d’y voir clair. Nous en sommes loin ! Le plus cocasse, c’est que l’officialité nous sert à journée faite des théories du complot russe toujours plus échevelées tout en condamnant le « complotisme » des médias alternatifs …

PHILITT : Dans la chaîne causale qui va de la mobilisation « humanitaire » jusqu’à l’intervention militaire, quelle est la place exacte des intellectuels qui l’approuvent ? Sont-ils de simples rouages ?

Slobodan Despot : Les intellectuels ont joué me semble-t-il un rôle bien plus important dans cet engrenage au temps de la guerre en ex-Yougoslavie. J’ai conservé les articles des BHL, Jacques Julliard, Glucksmann, Deniau etc… On a peine à croire, vingt ans plus tard, que des gens civilisés et hautement instruits aient pu tomber dans de tels états de haine ignare et écumante. Même le bon petit abbé Pierre, saint patron des hypocrites, avait appelé à bombarder les Serbes ! J’ai également conservé les écrits de ceux qui, sur le moment même, avaient identifié et analysé cette dérive, comme l’avait fait Annie Kriegel.

Aujourd’hui, à l’exception burlesque de Lévy, les intellectuels sont plus en retrait. Ils vitupèrent moins, mais s’engagent moins également pour la paix. Mon sentiment est que leur militantisme crétin au temps de la guerre yougoslave les a profondément décrédibilisés. Leur opinion n’intéresse plus personne. Du coup, dans l’actualité présente, le rôle des agents d’influence ou des idiots utiles est plutôt dévolu à d’obscurs « experts » académico-diplomatiques, souvent issus d’ONG et de think tanks plus ou moins liés à l’OTAN. Ces crustacés-là supportent mal la lumière du jour et abhorrent le débat ouvert. Il est caractéristique qu’Alain Finkielkraut ait dû me désinviter de son Répliques consacré à l’Ukraine suite à la réaction épouvantée d’un invité issu de ce milieu à la seule mention de mon nom. À quoi leur servent leurs titres et leurs « travaux » s’ils ne peuvent endurer un échange de vues avec un interlocuteur sans qualification universitaire ?

PHILITT : Bernard-Henri Lévy compare, dès qu’il en a l’occasion, Vladimir Poutine à Hitler ou encore les accords de Minsk à ceux de Munich signés en 1938. Cette analyse possède-t-elle une quelconque pertinence ou relève-t-elle de la pathologie ?

Slobodan Despot : M. Lévy a un seul problème. Il n’a jamais su choisir entre sa chemise immaculée et la crasse du monde réel. Il se fabrique des causes grandiloquentes à la mesure de sa peur et de sa solitude de garçon mal aimé errant dans des demeures vides qu’il n’a jamais osé abandonner pour mener la vraie vie selon l’esprit à laquelle il aspirait. Je le vois aujourd’hui mendier la reconnaissance par tous les canaux que lui octroie son immense fortune — journalisme, roman, reportage, théâtre et même cinéma — et ne recueillir que bides et quolibets. Et je l’imagine, enfant, roulant des yeux de caïd mais se cachant au premier coup dur derrière les basques de son père ou de ses maîtres. Dans mes écoles, on appelait ces fils-à-papa cafteurs des « ficelles » et nul n’était plus méprisé que ces malheureux-là. Aussi, lorsque j’entends pérorer M. Lévy, je ne pense jamais à l’objet de sa harangue, mais à l’enfant en lui qui m’inspire une réelle compassion.

PHILITT : Vous écriviez, pour annoncer une conférence qui s’est tenue à Genève le 25 février : « On a vu se mettre en place une « narratologie » manichéenne qui ne pouvait avoir d’autre dénouement que la violence et l’injustice. Si l’on essayait d’en tirer les leçons ? » Le storytelling est-il devenu la forme moderne de la propagande ?

zerodark.jpgSlobodan Despot : C’est évident. Il se développe en milieu anglo-saxon (et donc partout) une véritable osmose entre l’écriture scénaristique et l’écriture documentaire. Cas extrême : le principal « document » dont nous disposions sur l’exécution supposée de Ben Laden en 2011 est le film de Kathryn Bigelow, Zero Dark Thirty, qui a tacitement occupé dans la culture occidentale la place du divertissement et de l’analyse, et de la preuve. La réussite cinématographique de ce projet (du reste dûment distinguée) a permis d’escamoter toute une série d’interrogations évidentes.

Sur ce sujet du storytelling, nous disposons d’une enquête capitale. En novembre 1992, Élie Wiesel emmena une mission en Bosnie afin d’enquêter sur les « camps d’extermination » serbes dénoncés par la machine médiatique cette année-là. Ayant largement démenti cette rumeur, la mission Wiesel fut effacée de la mémoire médiatique. Par chance, il s’y était trouvé un homme de raison. Jacques Merlino, alors directeur des informations sur France 2, fut outré tant par l’excès de la campagne que par l’escamotage de son démenti. Il remonta jusqu’à l’agence de RP qui était à la source du montage. Son président, James Harff, lui expliqua fièrement comment il avait réussi à retourner la communauté juive américaine pour la convaincre que les victimes du nazisme de 1941 étaient devenues des bourreaux nazis en 1991. Il ne s’agissait que d’une story, d’un scénario bien ficelé. La réalité du terrain ne le concernait pas.

Les stories simplistes de ce genre ont durablement orienté la lecture de cette tragédie. Ceux qui s’y opposaient, fût-ce au nom de la simple logique, étaient bâillonnés. Le livre de Merlino, Les vérités yougoslaves ne sont pas toutes bonnes à dire (Albin Michel), fut épuisé en quelques semaines et jamais réimprimé, et son auteur « récompensé » par un poste… à Pékin !

PHILITT : Comment expliquer la faible mémoire des opinions occidentales ? Comment expliquer qu’elles aient « oublié » les preuves qui devaient être apportées de l’implication russe dans la destruction du MH-17 ? Le storytelling remplace-t-il, dans l’esprit du public, la causalité mécanique par une causalité purement morale ?

Slobodan Despot : Nous vivons en effet dans une époque hypermorale — ou plutôt hypermoralisante. L’identification des faits est subordonnée à l’interprétation morale qui pourrait en découler. Si, par exemple, voir des « jeunes » molester une gamine devant votre immeuble risque de vous inspirer des pensées racistes et sécuritaires, vous êtes prié de ne pas constater l’altercation et de passer votre chemin. C’est très vil au point de vue de la moralité individuelle, mais correct selon la moralité sociétale. Une même « école du regard » a été imposée au sujet de la Russie. Au lendemain de la tragédie du vol MH-17, la sphère politico-médiatique s’est mise à conspuer le président russe en personne comme s’il avait abattu l’avion de ses propres mains. Aujourd’hui, plus personne n’en souffle mot, le faisceau d’indices étant accablant pour le camp adverse. Ces dirigeants et ces personnalités publiques disposent de suffisamment de jugeote et de mémoire pour mener rondement et même cyniquement leurs propres affaires. Mais dans un contexte impliquant l’intérêt collectif, comme la guerre contre la Russie, ils abandonnent tout sens de la responsabilité et du discernement et se comportent comme des midinettes hyperventilées. Leur tartufferie n’est même plus un vice, mais une composante anthropologique. Ils réalisent le type humain totalement sociodépendant que le nazisme et le communisme ont tenté de mettre en place avant d’être coupés dans leur élan.

PHILITT 

The ISIS-US Empire – Their Unholy Alliance Fully Exposed

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The ISIS-US Empire – Their Unholy Alliance Fully Exposed

Let’s be perfectly clear. The United States is not actually at war with ISIS. As Global Research director, economist and author Michel Chossudovsky plainly points out recently, Obama is simply waging “a fake war” against the Islamic State forces, putting on another propaganda show for mainstream media to keep his flock of American sheeple asleep in echo-chambered darkness. With a mere cursory review of recent historical events, one can readily realize that virtually everything Big Government tells us is happening in the world, you can bet is a boldface lie.

For over three and a half decades the US has been funding mostly Saudi stooges to do its dirty bidding in proxy wars around the world, beginning in Afghanistan in the 1980’s to fight the Soviets with the mujahedeen-turned al Qaeda that later would mutate into ISIS. Reagan and Bush senior gave Osama bin Laden his first terrorist gig. Our mercenary “Islamic extremists” for-hire were then on the CIA payroll employed in the Balkans during the 1990’s to kill fellow Moslem Serbs in Kosovo and Bosnia. For a long time now Washington’s been relying on the royal Saudi family as its chief headhunters supplying the United States with as needed terrorists on demand in order to wage its geopolitics chessboard game of global hegemony, otherwise known by the central banking cabal as global “Theft-R-Us.”

The Bush crime family were in bed with the bin Ladens long before 9/11 when that very morning George H W Bush on behalf of his Carlyle Group was wining and dining together with Osama’s brother at the posh DC Ritz Carlton while 19 box cutting Saudi stooges were acting as the neocon’s hired guns allegedly committing the greatest atrocity ever perpetrated on US soil in the history of this nation. And in the 9/11 immediate aftermath while only birds were flying the not-so-friendly skies above America, there was but one exception and that was the Air Force escort given the bin Ladens flying safely back home to their “Terrorists-R-Us” mecca called Saudi Arabia. On 9/11 the Zionist Israeli Mossad, Saudi intelligence and the Bush-Cheney neocons were busily pulling the trigger murdering near 3000 Americans in cold blood as the most deadly, most heinous crime in US history. If you’re awake enough to recognize this ugly truth as cold hard fact, then it’s certainly not a stretch to see the truth behind this latest US created hoax called ISIS.

Renowned investigative journalist and author Seymour Hersh astutely saw the writing on the wall way back in 2006 (emphasis added):

 To undermine Iran, which is predominantly Shiite, the Bush Administration has decided, in effect, to reconfigure its priorities in the Middle East. In Lebanon, the Administration has cooperated with Saudi Arabia’s government, which is Sunni, in clandestine operations that are intended to weaken Hezbollah, the Shiite organization that is backed by Iran. The U.S. has also taken part in clandestine operations aimed at Iran and its ally Syria. A by-product of these activities has been the bolstering of Sunni extremist groups that espouse a militant vision of Islam and are hostile to America and sympathetic to Al Qaeda.

The US Empire along with its international partner-in-crime Israel has allowed and encouraged Saudi Arabia, Qatar and the United Arab Emirates to be the primary financiers of al Qaeda turned ISIS. Even Vice President Joe Biden last year said the same. If Empire wanted to truly destroy the entire Islamic extremist movement in the Middle East it could have applied its global superpower pressure on its allied Gulf State nations to stop funding the ISIS jihadists. But that has never happened for the simple reason that Israel, those same Arab allies and the United States want a convenient “bad guy” enemy in the Middle East and North Africa, hiding the fact that al Qaeda-ISIS for decades has been its mercenary ally on the ground in more recent years in the Golan Heights, Libya, Iraq and Syria.

As recently as a month ago it was reported that an Islamic State operative claimed that funding for ISIS had been funneled through the US. Of course another “staunch” US-NATO ally Turkey has historically allowed its territory to be a safe staging ground as well as a training area for ISIS. It additionally allows jihadist leaders to move freely in and out of Syria through Turkey. Along with Israel and all of US Empire’s Moslem nation states as our strategic friends in the Middle East, together they have been arming, financing and training al Qaeda/ISIS to do its double bidding, fighting enemies like Gaddafi in Libya and Assad in Syria while also posing as global terrorist boogie men threatening the security of the entire world. Again, Washington cannot continue to double speak its lies from both sides of its mouth and then expect to continue having it both ways and expect the world to still be buying it.

A breaking story that’s creating an even larger crack in the wall of the US false narrative is the revelation that Iraqi counterterrorism forces just arrested four US-Israeli military advisors assisting (i.e., aiding and abetting) the ISIS enemy, three of whom hold duel citizenships from both Israel and America. This latest piece of evidence arrives on the heels of a Sputnik article from a couple weeks ago quoting American historian Webster Tarpley saying that “the United States created the Islamic State and uses jihadists as its secret army to destabilize the Middle East.” The historian also supported claims that the ISIS has in large part been financed by the Saudi royal family. Interviewed on Press TV the critic of US foreign policy asked why NATO ally Turkey bordering both Iraq and Syria where the Islamic State jihadists continue to terrorize, why can’t Turkey simply use its larger, vastly superior army to go in and defeat the much smaller ISIS, especially if the US and NATO were serious about destroying their alleged enemy. Again, if ISIS is the enemy, why did the US recently launch an air strike on Assad’s forces that were in process of defeating ISIS? The reason is all too obvious, the bombing was meant to afflict damage to stop Assad’s forces from beating back ISIS that the US is clearly protecting.

Finally, Tarpley reaffirmed what many others have been saying that chicken hawk Senator John McCain is actual buddies with ISIS kingpin Abu Bakr al-Baghdadi. Of course photos abound of his frequent “secret” meetings with ISIS leadership illegally conducted inside Syria. This confirmed fact provides yet one more obvious link between the high powered criminal operative posing as US senator and the so called enemy of the “free world” ISIS.

Recall that iconic photo from June last year of American supplied trucks traveling unimpeded in the ISIS convoy kicking up dust in the Iraqi desert fresh from the Syrian battlefields heading south towards Baghdad. It was no accident that they were equipped with an enormous fleet of brand new Toyota trucks and armed with rockets, artillery and Stinger missiles all furnished by US Empire. Nor was it an accident that the Iraqi Army simply did an about face and ran, with orders undoubtedly coming from somewhere high above in the American Empire. The Islamic State forces were allowed to seize possession of 2500 armored troop carriers, over 1000 Humvees and several dozen US battlefield tanks all paid for by US tax dollars. This entire spectacle was permitted as ISIS without any resistance then took control of Mosul the second largest city in Iraq including a half billion dollars robbing a bank. Throughout this process, it was definitely no accident that the United States allowed the Islamic State forces to invade Iraq as with advanced US airpower it could have within a couple hours easily carpet bombed and totally eliminated ISIS since the Islamic State possessed no anti-aircraft weapons. And even now with the hi-tech wizardry of satellites, lasers, nanotechnology and advanced cyber-warfare, the US and allied intelligence has the means of accurately locating and with far superior firepower totally eradicating ISIS if the will to do so actually existed. But the fact is there is no desire to kill the phantom enemy when in fact it’s the friend of the traitors in charge of the US government who drive the Empire’s global war policy.

Washington’s objective last year was to purposely unleash on already ravaged Iraq the latest US-made, al Qaeda morphed into the Islamic monster-on-steroids to further destabilize the Middle Eastseek a regime change to replace the weak, corrupt, Sunni persecuting Maliki government in Baghdad and ‘balkanize” Iraq into three separate, powerless, divisive sections in similar vein of how the West tore apart and dissected Yugoslavia into thirteen ineffectual pieces. The globalist pattern of bank cabal loans drowning nations into quicksand debt and transnationals and US Empire posts predatorily moving in as permanent fixtures always replace what was previously a far better off sovereign nation wherever King Midas-in-reverse targets to spreads its Empire disease of failed-state cancer. After Yugoslavia came Iraq, Afghanistan, Libya, Syria, Yemen and Ukraine. It goes on and on all over the globe. The all too familiar divide and conquer strategy never fails as the US Empire/NWO agenda. But the biggest reason ISIS was permitted to enter and begin wreaking havoc in Iraq last June was for the Empire to re-establish its permanent military bases in the country that Maliki had refused Washington after its December 2011 pullout.

With 2300 current US troops (and rising up to 3000 per Obama’s authorization) once again deployed back on the ground in Iraq acting as so called advisors, Iraq is now the centerpiece of US military presence in the Middle East region. Before a doubting House Armed Services Committee last Tuesday, CENTCOM Commander General Lloyd Austin defended Obama’s policyinsisting that ISIS can be defeated without use of heavy ground forces, feebly claiming that they’re on the run because his commander-in-chief’s air strike campaign is actually working. How many times before have we heard generals’ glowing reports to Congress turn out to be lies?

As far as PR goes, it appears the lies and propaganda are once again working. With help from the steady stream of another beheading-of-the week posted like clockwork on Youtube for all the world to shockingly see, not unlike when traffic slows down to look for bloodied car victims mangled on the highway. Apparently this thinly veiled strategy is proving successful again on the worked over, dumbed down, short attention-spanned American population. According to a poll released just a few days ago, 62% of Americans want more GI boots on the ground in Iraq to fight the latest made-by-America enemy for Iraq War III. Incredibly only 39% believe that more troops on the ground would risk another long, protracted war. Again, short attention spans are doomed to keep repeating history as in Vietnam, Iraq and Afghanistan.

This polling propaganda disinformation ploy fits perfectly with prior statements made a few months ago by America’s top commander General Martin Dempsey that the US military presence in both Iraq and Syria must be a long term commitment as the necessary American sacrifice required to effectively take out ISIS. With US leaders laying the PR groundwork for more Empire occupations worldwide, of course it’s no accident that it conveniently fits in with the Empire’s agenda to wage its war of terror on a forever basis. Efforts by Washington to “prep” Americans for these “inevitable,” open-ended wars around the globe are designed to condition them into passive acceptance of lower intensity, “out-of-sight, out-of-mind” conflicts specifically to minimize and silence citizens from ever actively opposing yet more human slaughter caused by more US state sponsored terrorism in the form of unending imperialistic wars.

Every one of these “current events” have been carefully planned, coordinated, timed and staged for mass public consumption, none more so than those beheadings of US and British journalists, aid workers and Middle Eastern Christians along with the desecration of ancient Iraqi history with dozens of destroyed museums, churches and shrines. Obama and the Empire want us all to be thoroughly horrified and disgusted so we fear and hate the latest designated Islamic enemy. Hating your enemy to the point of viewing them as the lowest of the lowest, sub-human animal is an old psyops brainwashing trick successfully employed in every single war from the dawn of violent man. It effectively dehumanizes the enemy while desensitizing the killing soldier. For over a year now we’ve seen this same MSM game being relentlessly waged to falsely demonize Putin. The sinister, warped minds of the divide and conquer strategists from the ruling class elite don’t mind the resultant hating of Moslems around the world either. That’s all by diabolical design too.

If only six organizations control the entire planet’s mass media outlet that feeds the masses their daily lies like their daily bread, another winning bet would be that in a heartbeat they could also effectively shut down the internet pipeline that showcases ISIS horror show theatrics on the global stage. But by design, they are willingly, cunningly disseminated for worldwide mass consumption.

In fact the only consistent group that’s even been able to militarily hold their own and actually challenge ISIS, the Kurds, are watching UK ship heavy arms to the same losing team the Iraqi army that ran away from defending Mosul. The last time the West gave them weapons and supplies, they handed them right over to ISIS.

In a recent Guardian article, a Kurdish captain said that the Kurds offered to even buy the second hand weapons from the British used in Afghanistan. But because the West is afraid the heavy arms might empower Kurdish nationalism into demanding their own sovereign nation for the first time in history, the US wants to ensure that Iraq stays as one nation after implanting its latest Baghdad puppet regime. The fiercely independent Kurds are feared if they were granted autonomy that they might refuse to allow their homeland to be raped and plundered by the US unlike the corrupt current Iraqi government. The Kurdish fighters could sorely use the bigger guns as they plan to launch an offensive in April or May to take back Mosul from ISIS. But when permitting an ancient ethnic group its proper due by granting political autonomy risks interfering with the Empire’s rabid exploitation of another oil-rich nation, all bets are off in doing the right thing.

The mounting evidence is stacking up daily to unequivocally prove beyond any question of a doubt that ISIS is in fact a US mercenary ally and not the treasonous feds’ enemy at all. From mid-August 2014 to mid-January 2015 using the most sophisticated fighter jets known to man, the US Air Force and its 19 coalition allies have flown more than 16,000 air strikes over Iraq and Syria ostensibly to “root out” ISIS once and for all. Yet all this Empire aggression has nothing to show for its wasted phony efforts as far as inflicting any real damage on the so called ISIS enemy. Labeled a “soft counterterrorism operation,” a prominent Council on Foreign Relations member recently characterized Obama’s scheme as too weak and ineffectual, and like a true CFR chicken hawk, he strongly advocates more bombs, more advisers and special operations forces deployed on the ground.

But the records show that all those air strikes are purposely not hitting ISIS forces because they are not the actual target. Many air strike missions from both the US Air Force as well as Israeli jets have been designed to destroy extensive infrastructure inside Syria that hurts the Syrian people, causing many innocent civilian casualties, while not harming ISIS at all. This in turn ensures more ISIS recruits for America’s forever war on terror. Repeatedly oil refineries, pipelines and grain storage silos have also been prime targets damaged and destroyed by the West. Because in 2013 Obama’s false flag claim that Assad’s army was responsible for the chemical weapons attack was thwarted by strong worldwide opposition and Putin’s success brokering the deal that had Assad turning over his chemical weapons, a mere year later ISIS conveniently provided Obama’s deceitful excuse to move forward with his air offensive on Syria after all.

Finally, on numerous occasions the US was caught red-handed flying arms and supply drops to the Islamic jihadists on the ground. According to Iraqi intelligence sources, US planes have engaged regularly in air drops of food and weapons to ISIS. These sighting began to be observed after one load was “accidentally” dropped last October into so called enemy hands supposedly meant to go to the Kurdish fighters. Realizing the US has betrayed them, as of late Iraqi security forces have been shooting down US and British aircraft engaged in providing supplies and arms to their ISIS enemy. This is perhaps the most incriminating evidence yet in exposing the truth that ISIS is being supported, supplied and protected by the US Empire more than even the Iraqi government forces the US claims to be assisting in this phony war against the militant Islamic jihadists.

Clearly the unfolding daily events and developments in both Iraq and Syria overwhelmingly indict the United States as even more of “the bad guy” than the supposed ISIS terrorists. Recently the US was caught financing ISIS and has all along supported Arab allies that knowingly fund Islamic extremism. During the six months since Obama vowed to go after them and “root them out,” countless times the US and allies have maintained the so called enemy’s supply line with regularly scheduled air drops. Meanwhile, in both Syria and Iraq after a half year of alleged bombing, ISIS forces are reported to be stronger than ever. The air strikes have not been hitting jihadist targets because the American and coalition forces’ actual targets in Syria have been vital infrastructure and civilians that are clearly attacks on Assad. All of this irrefutable evidence piling up is backfiring on the American Empire. The world is now learning just how devious, diabolical and desperate the warmongering, pro-Zionist powerbrokers who are the war criminals controlling the US rogue government really are. Their evil lies are unraveling their demonic agenda as the truth cannot be stopped.

Reprinted with permission from GlobalResearch.ca.

Lugan aux Ronchons!

Vendredi 27 mars:

Bernard Lugan aux Ronchons

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Jardiner le monde

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DE LA MONDIALISATION A LA CIVILISATION
Devoir jardiner le monde

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Quelle différence entre le droit coutumier des peuples menacés et le droit de la mondialisation fondé sur le droit occidental ? Dans le droit romain, l'homme est propriétaire de la terre. Chez les Amérindiens ou les Mélanésiens, la terre est propriétaire des hommes.

Dans toutes les communautés naturelles menacées aujourd'hui par la mondialisation, que ce soit en Amérique du Sud, chez les Papous ou à Wallis, la prétendue propriété de la terre est le cœur du problème. La propriété de la terre est-elle individuelle ou collective ? Doit-on jouir de la terre ensemble ou solitairement ?  Le modèle de la mondialisation économique prône la ''maison'', le home sweet home, el dulce hogar, le silence du privé. De la propriété collective de la terre surgit l'indivision. Dans le conflit mapuche du Chili , par toutes les soustractions de terrain opérées durant le conflit entre droit coutumier et droit néocolonial, les familles ne disposent plus que de micro-terres, à peine quelques arpents sur lesquels elles tentent de subsister. Souvent, elles n'y parviennent pas ou tout juste. Un chef mapuche tenait de son grand-père une bonne quantité de terres : c'est à peine si aujourd'hui, il lui reste un hectare ! Et pourtant, de cet unique hectare qui lui reste, le reste de la communauté l'envie : les autres n'ont carrément plus rien !

Elles sont en effet devenues rares les familles mapuches qui, après trois générations conservent encore une bonne quantité de terres, une quantité disons significative qui irait au-delà de la bicoque et du petit jardin. Mais le problème foncier n'est pas qu'une question d'appauvrissement.

En fait, la plus grande partie des sociétés du monde tirent leur origine des terres agricoles. Or, les communautés orientées vers la terre se font de plus en plus rares et elles perdent en général leurs ''propriétés''. En fait, les vieilles communautés agricoles d'autrefois n'ont rien à voir avec les grandes fermes de la Beauce ou de la Haute Marne. On touche là à un autre usage de la terre, quelque chose de profondément différent du monde du commerce agricole ou de l'agro industrie. Ainsi, la France, terre paysanne par excellence a vu petit à petit disparaître ces petites fermettes et ces vieux métayers. Le monde agricole n'est plus, la paysannerie indienne si chère à Gandhi s'estompe et meurt peu à peu à coups de suicides de paysans surendettés. Partout où une civilisation meurt,  c'est que la culture agricole s'éteint. De fait, il y a deux caractéristiques globales essentielles à la mondialisation : les nouvelles technologies et l'urbanisation. C'est la fin du monde paysan et des traditions paysannes, c'est le règne des mégapoles africaines.

Du coup, dans les derniers groupements paysans ou traditionnels, la terre cultivée depuis des siècles ne nourrit même plus son petit monde. Les réformes agraires des années 60-80 tentèrent dans de nombreuses régions du globe de solutionner le problème foncier mais elles échouèrent toutes dans l'imposition d'un modèle néo-marxiste de collectivisation forcée, un modèle coopératif importé en rupture avec la coutume. 

Dans toutes les sociétés modernes, contrairement aux illusions communistes des anthropologues du début du vingtième siècle, la propriété collective des moyens de production - quelque chose de foncièrement différent en fait du communautarisme et du solidarisme traditionnel ou spontané - dynamita le foncier et fit de la terre nouvellement et arbitrairement distribuée les derniers lopins d'une survie programmée. De fait, les réformateurs agraires propulsèrent leurs réformes par la violence systémique, menant au nom de la lutte des classes et de l'égalité fictive une guérilla armée avec l'objectif inavoué mais bien réel de déplacer les populations récalcitrantes au son martial des chants révolutionnaires ou des discours simplificateurs. Ce qui n'était pas authentiquement révolutionnaire c'est-à-dire collectivisateur, mondialisateur, internationaliste devait quitter ses terres pour rejoindre les bidonvilles de la grande ville. Ainsi, les guérilleros travaillèrent aussi à leur manière pour la mondialisation heureuse en coupant les peuples de leurs traditions, en les déracinant de leurs terres ancestrales, en les urbanisant de force. Ce ne fut pas tout à fait dans les mouvements guérilleros la terre pour tous mais la lutte des sans terres pour que la terre puisse revenir à l'appareil organisateur de la subversion. La violence était encadrée et disciplinée vers l'expropriation forcée avec un évident sens stratégique du déplacement collectif et de la spoliation matérialiste.

Aujourd'hui, au Pérou, en Bolivie en Colombie comme au Chili, on assiste à une fusion culturelle étrange et singulière : la fusion de l'agricole et de l'urbain dans une pratique économique libérale et individualiste qui reconnaît sans illusion aucune le règne mercantile de la pure utilité et de la raison économique. Montagnes, vallées, rivières et torrents sont cadastrées tandis que les blocs de béton armé assaillent les littoraux avec le brouillard de Lima comme triste  horizon.

Or, la terre est propriétaire des hommes. La terre sublime les hommes. La nature n'est pas matérialiste parce que créatrice, elle transcende le sol pour la contemplation. Elle le modèle et le transforme en de sublimes jardins. Le jardin est l'origine de la civilisation, le premier artefact mondialisé de l'inutile, de l'esthétique et du sacré.

Dès lors, le grand défi peut-être de l'humanité mondialisée est de rejardiner le monde.

 

00:05 Publié dans Ecologie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : écologie, jardins, décélération | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

War Porn

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Tomgram: Peter Van Buren, Watching the Same Movie About American War for 75 Years
 
Ex: http://www.tomdispatch.com

[Note for TomDispatch Readers: Just a small reminder that, in return for a donation of $100 or more to this site, you can choose between signed, personalized copies of two top-notch cultural histories of American war in our time: Christian Appy’s superb new book, American Reckoning: The Vietnam War and Our National Identity, and my own The End of Victory Culture. Just check out our donation page for details and for other book possibilities as well, including my new book Shadow Government: Surveillance, Secret Wars, and a Global Security State in a Single Superpower World. And remember that your donations really do keep this site rolling along! Tom]

Yes, they’ve become “the greatest generation” (a phrase that’s always reminded me of an ad line for a soft drink), but they didn’t feel that way at the time. As Susan Faludi pointed out in her classic book Stiffed and as I experienced as a boy, the men who came home from World War II were often remarkably silent about their wartime experiences -- at least with their children. My father, who had been the operations officer for the 1st Air Commando Group in Burma, had a couple of pat stories he would fall back on, if pressed, but normally only spoke of the war when angry. I can, for instance, remember him blowing up and forbidding my mother and me from using a nearby grocery store because, he claimed, its owners had been “war profiteers.” On rare occasions, he might pull out of the closet an old duffel bag filled with war souvenirs, including a Nazi armband (undoubtedly traded with someone who had been on the European front) and several glorious orange or white silk maps of Burma, assumedly meant to take up no space in a commando’s kitbag. These were thrilling moments of my childhood, though again my dad had little to say about what we looked at.

japs.jpgOtherwise, his war was a kind of black hole in family life.  But for boys like me, that mattered less than you might expect for a simple reason: we already knew what our fathers had experienced at war. We had seen it at the movies, often with those fathers sitting silently beside us.  We had seen John Wayne die on Iwo Jima and war hero Audie Murphy (playing himself) gun down the Germans.  We had been with Doolittle’s Raiders over Tokyo for more than 30 seconds, had won back Burma, landed on Omaha beach, and fought island by island across the Pacific toward Japan. And of course, as our “victory culture” assured us we would, we had won.

It’s hard to emphasize just how formative those war movies were for so many of us, especially if you add in the cheap, all-green sets of World War II toy soldiers with which we reenacted movie versions of our fathers’ war on our floors and, of course, the sticks, and later toy guns, with which we so gloriously shot down “Japs” and “Nazis” in any park or backyard.  A whole generation of young Americans would go off to Vietnam stoked on John Wayne & Co. -- on a version of war, that is, that our fathers never told us hadn’t happened.

Ron Kovic, who came back from Vietnam in a wheelchair and wrote the memoir Born on the Fourth of July, recalled the experience vividly: "I think a lot of us went to Vietnam with movie images of John Wayne in our minds. On a reconnaissance patrol, I remember once imagining that I was John Wayne."

Today, former diplomat and whistleblower Peter Van Buren explores the way American war movies, from World War II to today, have produced a remarkably uniform vision of how American war works, one that, in its modern form, is undoubtedly once again lending a helping hand to our latest conflicts. In May 2011, Van Buren arrived at TomDispatch, just back from a 12-month State Department assignment in Iraq embedded with the U.S. military. In his first piece for this site, he reported on the heroic balderdash that embedded reporters -- think, for instance, of Brian Williams -- delivered to the American people about the U.S. military.  It was, he wrote then, a kind of “war pornography.” (“Let me tell you that nobody laughed harder at the turgid prose reporters used to describe their lives than the soldiers themselves.”) So think of today’s piece, almost four years later, as a reprise on that theme with an embedded Hollywood stepping in to take the place of all the Brian Williamses of our world. Tom

War Porn 
Hollywood and War from World War II to American Sniper 
By Peter Van Buren

In the age of the all-volunteer military and an endless stream of war zone losses and ties, it can be hard to keep Homeland enthusiasm up for perpetual war. After all, you don't get a 9/11 every year to refresh those images of the barbarians at the airport departure gates. In the meantime, Americans are clearly finding it difficult to remain emotionally roiled up about our confusing wars in Syria and Iraq, the sputtering one in Afghanistan, and various raids, drone attacks, and minor conflicts elsewhere.

Fortunately, we have just the ticket, one that has been punched again and again for close to a century: Hollywood war movies (to which the Pentagon is always eager to lend a helping hand).American Sniper, which started out with the celebratory tagline “the most lethal sniper in U.S. history” and now has the tagline “the most successful war movie of all time,” is just the latest in a long line of films that have kept Americans on their war game. Think of them as war porn, meant to leave us perpetually hyped up. Now, grab some popcorn and settle back to enjoy the show.

There’s Only One War Movie

Wandering around YouTube recently, I stumbled across some good old government-issue propaganda.  It was a video clearly meant to stir American emotions and prepare us for a long struggle against a determined, brutal, and barbaric enemy whose way of life is a challenge to the most basic American values. Here's some of what I learned: our enemy is engaged in a crusade against the West; wants to establish a world government and make all of us bow down before it; fights fanatically, beheads prisoners, and is willing to sacrifice the lives of its followers in inhuman suicide attacks.  Though its weapons are modern, its thinking and beliefs are 2,000 years out of date and inscrutable to us.

Of course, you knew there was a trick coming, right? This little U.S. government-produced film wasn’t about the militants of the Islamic State. Made by the U.S. Navy in 1943, its subject was “Our Enemy the Japanese.” Substitute “radical Islam” for “emperor worship,” though, and it still makes a certain propagandistic sense. While the basics may be largely the same (us versus them, good versus evil), modern times do demand something slicker than the video equivalent of an old newsreel. The age of the Internet, with its short attention spans and heightened expectations of cheap thrills, calls for a higher class of war porn, but as with that 1943 film, it remains remarkable how familiar what’s being produced remains.

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Like propaganda films and sexual pornography, Hollywood movies about America at war have changed remarkably little over the years. Here's the basic formula, from John Wayne in the World War II-era Sands of Iwo Jima to today's American Sniper:

*American soldiers are good, the enemy bad. Nearly every war movie is going to have a scene in which Americans label the enemy as “savages,” “barbarians,” or “bloodthirsty fanatics,” typically following a “sneak attack” or a suicide bombing. Our country’s goal is to liberate; the enemy's, to conquer. Such a framework prepares us to accept things that wouldn’t otherwise pass muster. Racism naturally gets a bye; as they once were “Japs” (not Japanese), they are now “hajjis” and “ragheads” (not Muslims or Iraqis). It’s beyond question that the ends justify just about any means we might use, from the nuclear obliteration of two cities of almost no military significance to the grimmest sort of torture. In this way, the war film long ago became a moral free-fire zone for its American characters.

*American soldiers believe in God and Country, in “something bigger than themselves,” in something “worth dying for,” but without ever becoming blindly attached to it. The enemy, on the other hand, is blindly devoted to a religion, political faith, or dictator, and it goes without saying (though it’s said) that his God -- whether an emperor, Communism, or Allah -- is evil. As one critic put it back in 2007 with just a tad of hyperbole, “In every movie Hollywood makes, every time an Arab utters the word Allah… something blows up.”

*War films spend no significant time on why those savages might be so intent on going after us. The purpose of American killing, however, is nearly always clearly defined. It's to “save American lives,” those over there and those who won’t die because we don't have to fight them over here. Saving such lives explains American war: in Kathryn Bigelow’s The Hurt Locker, for example, the main character defuses roadside bombs to make Iraq safer for other American soldiers. In the recent World War II-themed Fury, Brad Pitt similarly mows down ranks of Germans to save his comrades. Even torture is justified, as in Zero Dark Thirty, in the cause of saving our lives from their nightmarish schemes. In American Sniper, shooter Chris Kyle focuses on the many American lives he’s saved by shooting Iraqis; his PTSD is, in fact, caused by his having “failed” to have saved even more. Hey, when an American kills in war, he's the one who suffers the most, not that mutilated kid or his grieving mother -- I got nightmares, man! I still see their faces!

*Our soldiers are human beings with emotionally engaging backstories, sweet gals waiting at home, and promising lives ahead of them that might be cut tragically short by an enemy from the gates of hell. The bad guys lack such backstories. They are anonymous fanatics with neither a past worth mentioning nor a future worth imagining. This is usually pretty blunt stuff. Kyle’s nemesis in American Sniper, for instance, wears all black. Thanks to that, you know he’s an insta-villain without the need for further information. And speaking of lack of a backstory, he improbably appears in the film both in the Sunni city of Fallujah and in Sadr City, a Shia neighborhood in Baghdad, apparently so super-bad that his desire to kill Americans overcomes even Iraq's mad sectarianism.

*It is fashionable for our soldiers, having a kind of depth the enemy lacks, to express some regrets, a dollop of introspection, before (or after) they kill. In American Sniper, while back in the U.S. on leave, the protagonist expresses doubts about what he calls his “work.” (No such thoughts are in the book on which the film is based.) Of course, he then goes back to Iraq for three more tours and over two more hours of screen time to amass his 160 “confirmed kills.”

*Another staple of such films is the training montage. Can a young recruit make it? Often he is the Fat Kid who trims down to his killing weight, or the Skinny Kid who muscles up, or the Quiet Kid who emerges bloodthirsty. (This has been a trope of sexual porn films, too: the geeky looking guy, mocked by beautiful women, who turns out to be a superstar in bed.) The link, up front or implied, between sexuality, manhood, and war is a staple of the form. As part of the curious PTSD recovery plan he develops, for example, Kyle volunteers to teach a paraplegic vet in a wheelchair to snipe. After his first decent shot rings home, the man shouts, “I feel like I got my balls back!”

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*Our soldiers, anguished souls that they are, have no responsibility for what they do once they’ve been thrown into our wars.  No baby-killers need apply in support of America's post-Vietnam, guilt-free mantra, “Hate the war, love the warrior.” In the film First Blood, for example, John Rambo is a Vietnam veteran who returns home a broken man. He finds his war buddy dead from Agent Orange-induced cancer and is persecuted by the very Americans whose freedom he believed he had fought for. Because he was screwed over in The 'Nam, the film gives him a free pass for his homicidal acts, including a two-hour murderous rampage through a Washington State town. The audience is meant to see Rambo as a noble, sympathetic character. He returns for more personal redemption in later films to rescue American prisoners of war left behind in Southeast Asia.

*For war films, ambiguity is a dirty word. Americans always win, even when they lose in an era in which, out in the world, the losses are piling up. And a win is a win, even when its essence is one-sided bullying as in Heartbreak Ridge, the only movie to come out of the ludicrous invasion of Grenada. And a loss is still a win in Black Hawk Down, set amid the disaster of Somalia, which ends with scenes of tired warriors who did the right thing. Argo -- consider it honorary war porn --reduces the debacle of years of U.S. meddling in Iran to a high-fiving hostage rescue. All it takes these days to turn a loss into a win is to zoom in tight enough to ignore defeat. In American Sniper, the disastrous occupation of Iraq is shoved offstage so that more Iraqis can die in Kyle’s sniper scope. In Lone Survivor, a small American “victory” is somehow dredged out of hopeless Afghanistan because an Afghan man takes a break from being droned to save the life of a SEAL.

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In sum: gritty, brave, selfless men, stoic women waiting at home, noble wounded warriors, just causes, and the necessity of saving American lives. Against such a lineup, the savage enemy is a crew of sitting ducks who deserve to die. Everything else is just music, narration, and special effects. War pornos, like their oversexed cousins, are all the same movie.

A Fantasy That Can Change Reality

But it's just a movie, right? Your favorite shoot-em-up makes no claims to being a documentary. We all know one American can't gun down 50 bad guys and walk away unscathed, in the same way he can't bed 50 partners without getting an STD. It's just entertainment. So what?

So what do you, or the typical 18-year-old considering military service, actually know about war on entering that movie theater? Don’t underestimate the degree to which such films can help create broad perceptions of what war’s all about and what kind of people fight it. Those lurid on-screen images, updated and reused so repetitively for so many decades, do help create a self-reinforcing, common understanding of what happens “over there,” particularly since what we are shown mirrors what most of us want to believe anyway.

No form of porn is about reality, of course, but that doesn’t mean it can’t create realities all its own. War films have the ability to bring home emotionally a glorious fantasy of America at war, no matter how grim or gritty any of these films may look. War porn can make a young man willing to die before he’s 20. Take my word for it: as a diplomat in Iraq I met young people in uniform suffering from the effects of all this. Such films also make it easier for politicians to sweet talk the public into supporting conflict after conflict, even as sons and daughters continue to return home damaged or dead and despite the country’s near-complete record of geopolitical failures since September 2001. Funny thing: American Sniper was nominated for an Academy Award for best picture as Washington went back to war in Iraq in what you'd have thought would be an unpopular struggle.

Learning From the Exceptions

You can see a lot of war porn and stop with just your toes in the water, thinking you've gone swimming. But eventually you should go into the deep water of the “exceptions,” because only there can you confront the real monsters.

battlehaditha.jpgThere are indeed exceptions to war porn, but don’t fool yourself, size matters. How many people have seen American Sniper, The Hurt Locker, or Zero Dark Thirty? By comparison, how many saw the anti-war Iraq War film Battle for Haditha, a lightly fictionalized, deeply unsettling drama about an American massacre of innocent men, women, and children in retaliation for a roadside bomb blast?

Timing matters, too, when it comes to the few mainstream exceptions. John Wayne’s The Green Berets, a pro-Vietnam War film, came out in 1968 as that conflict was nearing its bloody peak and resistance at home was growing. (The Green Berets gets a porn bonus star, as the grizzled Wayne persuades a lefty journalist to alter his negative views on the war.) Platoon, with its message of waste and absurdity, had to wait until 1986, more than a decade after the war ended.

In propaganda terms, think of this as controlling the narrative. One version of events dominates all others and creates a reality others can only scramble to refute. The exceptions do, however, reveal much about what we don’t normally see of the true nature of American war. They are uncomfortable for any of us to watch, as well as for military recruiters, parents sending a child off to war, and politicians trolling for public support for the next crusade.

War is not a two-hour-and-12-minute hard-on. War is what happens when the rules break down and, as fear displaces reason, nothing too terrible is a surprise. The real secret of war for those who experience it isn't the visceral knowledge that people can be filthy and horrible, but that you, too, can be filthy and horrible. You don't see much of that on the big screen.

The Long Con

Of course, there are elements of “nothing new” here. The Romans undoubtedly had their version of war porn that involved mocking the Gauls as sub-humans. Yet in twenty-first-century America, where wars are undeclared and Washington dependent on volunteers for its new foreign legion, the need to keep the public engaged and filled with fear over our enemies is perhaps more acute than ever.

So here’s a question: if the core propaganda messages the U.S. government promoted during World War II are nearly identical to those pushed out today about the Islamic State, and if Hollywood’s war films, themselves a particularly high-class form of propaganda, have promoted the same false images of Americans in conflict from 1941 to the present day, what does that tell us? Is it that our varied enemies across nearly three-quarters of a century of conflict are always unbelievably alike, or is it that when America needs a villain, it always goes to the same script?

Peter Van Buren blew the whistle on State Department waste and mismanagement during the Iraqi reconstruction in his first book,We Meant Well: How I Helped Lose the Battle for the Hearts and Minds of the Iraqi People. A Tom Dispatch regular, he writes about current events at his blog, We Meant Well. His latest book isGhosts of Tom Joad: A Story of the #99Percent.

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Copyright 2015 Peter Van Buren

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lundi, 16 mars 2015

La droite est plus activement liberticide que la gauche

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La droite est plus activement liberticide que la gauche

François Billot de Lochner, président de la Fondation de service politique, répond à Présent. Extraits

« Un renforcement du contrôle de l’Etat sur internet a été voté à l’Assemblée nationale, sous couvert de lutte contre le terrorisme. 1984 de George Orwell, c’est maintenant ?

Nous nous en approchons dangereusement. La liberté d’expression est fortement malmenée depuis un demi-siècle dans notre pays : l’accélération de la dictature politico-médiatique prend des proportions telles que nos mentalités anesthésiées risquent de se réveiller trop tard.

Un projet de loi similaire avait été présenté par l’UMP en 2010. Finalement, droite et gauche, même combat dans la répression de la liberté d’expression ?

Oui… et non ! Le combat est le même, mais la droite est plus activement liberticide que la gauche : c’est effrayant, mais c’est ainsi. La loi Pompidou-Pleven de 1972 restreint considérablement la liberté d’expression, dans une indifférence générale, et la loi Chirac-Raffarin de 2004 est un véritable outil au service de la dictature de la pensée. Ce n’est pas moi qui le dis mais Laurent Joffrin, rédacteur en chef du Nouvel Observateur, qui écrit dans un éditorial retentissant, juste avant le vote de la loi, que la France va se doter d’un outil unique au monde, mis à part dans les pays de dictature…

Vous proposez, parmi vos trente mesures pour sauver la France, d’abroger les lois de 1972 (Pleven) et de 2004 (création de la Halde), ainsi que toutes les lois mémorielles (Gayssot, Taubira…). Qui oserait le proposer dans son programme, alors que les associations antiracistes (CRAN, MRAP, LICRA), le CRIF et les médias le dénonceront à tous coups ?

Un parti courageux, ou un candidat très courageux… Il ne faut jamais désespérer des hommes ! Prenons par exemple la loi liberticide de 2004 : il suffit de la lire pour comprendre à quel point elle abîme la liberté d’expression. Un grand débat sur ce sujet avant 2017 est nécessaire et salutaire : je l’ouvre, et ne compte pas baisser la garde sur ce sujet pendant les deux ans à venir. Les partis politiques et les candidats s’en rendront très vite compte. Et s’ils restent liberticides, je communiquerai haut et fort sur le sujet ! »

L'opposition démocratique en Russie

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L’OPPOSITION DÉMOCRATIQUE EN RUSSIE
Ce n’est pas celle que vous croyez !

Ivan Blot
Ex: http://metamag.fr
Lorsque vous lisez ou écoutez les médias occidentaux, vous avez l’impression qu’il y a en Russie une forte opposition au président Poutine qui est incarnée par des noms qui reviennent en boucle : Navalny, Oudaltsov, et autrefois Nemtsov. Pourtant, cette impression ne cadre pas du tout avec d’autres informations. 

Le président Poutine, selon des instituts de sondage indépendants comme Levada, bénéficie d’un soutien de l’ordre de 85% de la population : du jamais vu, à comparer avec le soutien de 18% en France pour le président Hollande. On ne parle pas de déstabilisation du régime français alors qu’on évoque souvent ce thème pour la Russie !

De plus, les personnalités évoquées par les médias occidentaux font des scores très faibles aux élections. Le malheureux Nemtsov, assassiné peut-être par une filière islamiste, a fait dans sa ville natale de Sotchi, 18% des voix seulement. Serguei Oudaltsov n’a pas fait de score électoral significatif et se consacre plutôt à des manifestations de rue. Quant à Alexei Navalny, ancien étudiant de l’université de Yale aux Etats Unis, il obtint un maximum de voix de 30% dans une élection municipale à Moscou. Le parti libéral Yabloko fait des scores très faibles.

Curieusement, on ne parle guère de la vraie opposition qui a des parlementaires et une forte base électorale. Le plus grand parti d’opposition à Poutine reste le parti communiste, ce que l’on se garde bien de dire car le citoyen occidental moyen pourrait préférer Poutine à un retour du communisme. De plus, ce parti communiste se veut patriote ce qui est fort mal vu en Occident. En 2011, le parti de Poutine, Russie Unie, a obtenu 238 sièges avec plus de 32 millions de voix. Le parti communiste de Ziouganov obtint 19% des suffrages soit 12,5 millions de voix et 92 sièges. Russie Juste, que l’on considère comme socialiste modéré obtint 64 sièges et plus de 8 millions de voix. Le parti libéral démocrate de Jirinovski, ultra nationaliste, a eu 11,6% et 7,6 millions de voix donc 64 sièges. Iabloko, le parti libéral adoré en Occident a eu moins de 4% des voix donc aucun député à la Douma d’Etat (Assemblée Nationale).

C’est donc étonnant de voir nos médias si assoiffés d’opposition à Poutine ne jamais citer les grands partis d’opposition et leurs chefs Ziouganov (communiste) Mironov (social-démocrate) Jirinovski (ultra nationaliste) au profit de quelques personnalités artificiellement lancées dans les médias. On dirait que le monde occidental ignore la représentation démocratique au profit des opposants de rue ultra minoritaires.

Aux élections présidentielles, on retrouve les mêmes tendances. En 2012, Poutine obtint 63,6% des voix dès le premier tour. Son principal opposant communiste Ziouganov obtint 17,1%, puis le milliardaire libéral Prokhorov obtint presque 8% et le nationaliste Jirinovski 6% environ. Russie Juste, social-démocrate n’a eu que 4% à peine. La participation électorale fut des deux tiers.

On refuse de voir la réalité : les électeurs russes sont en majorité poutiniens et l’opposition reste dominée par le parti communiste de Russie. De plus, la plupart des partis représentés au parlement donc représentant effectivement une fraction populaire importante, sont patriotes. D’autres sondages évoqués dans la brochure de club de Valdaï de 2013 sur l’identité nationale révèlent que 81% des Russes se disent patriotes ou très patriotes. Les élites occidentales trouvent commodes de se prononcer contre Poutine mais en réalité elles s’opposent à l’immense majorité de la société civile russe qui défend les valeurs traditionnelles et le patriotisme. Ces élites ont d’ailleurs des problèmes croissants avec leur propre opinion publique : en France, en Angleterre, en Italie, et plus récemment en Allemagne, on observe une montée du patriotisme et des valeurs conservatrices surtout chez les jeunes. Ces élites devraient plutôt s’interroger sur leur défaveur croissante dans le public plutôt que de rêver sur une déstabilisation de la Russie parfaitement invraisemblable dans l’état de la sociologie politique de la Russie. 

Si l’on considère que la démocratie est un régime « par le peuple et pour le peuple » comme c’est écrit dans l’article deux de la constitution française, la Russie est bien plus démocratique aujourd’hui que la plupart des régimes d’Occident (sauf la Suisse). Les valeurs des élites politiques russes et du peuple russe sont les mêmes : valeurs traditionnelles, notamment chrétiennes et patriotisme. Par contre, en Occident, il y a un fossé croissant entre le peuple et les élites politiques comme je l’ai montré dans mon livre « l’oligarchie au pouvoir ». En France, MM. Bréchon et Tchernia, du CNRS ont montré que seulement 35% de la population fait confiance au gouvernement et au parlement ; Les partis ont le score catastrophique de 18% de confiance et le président Hollande n’a guère plus de soutien. Curieuse démocratie que la France où les citoyens donnent au régime la note de satisfaction de 3,9 sur 10, chiffre qui ne fait que baisser depuis une vingtaine d’années. Ce chiffre est de 8 sur 10 en Suisse, pays où les citoyens sont consultés fréquemment par référendums.

La Russie est actuellement attachée à son président qui a une légitimité démocratique réelle que beaucoup de présidents de pays occidentaux pourraient lui envier. C’est peut-être la source d’une jalousie maladive ! Mais l’opposition démocratique représentée au parlement défend elle aussi des valeurs traditionnelles et patriotiques, ce qui est inadmissibles pour des médias occidentaux formés aux valeurs de mai 68, hostiles à la famille, aux traditions, aux racines historiques et chrétiennes et détestant le sentiment patriotique lui-même. Donc ces médias se raccrochent à des opposants de rue très minoritaires dans l’électorat, adulés par les élites politiques occidentales mais peu reconnues au sein du peuple russe. En fait l’hystérie antirusse n’est pas seulement tournée contre Poutine mais aussi contre l’opposition démocratique représentée au parlement russe. C’est pour cela que l’on fait silence sur cette opposition.

Cette attitude est un aveu : en réalité les manipulateurs de l’opinion en Occident se méfient de tous les peuples, et cette méfiance leur est d’ailleurs justement retournée : 38% seulement des citoyens en France (études de Bréchon et Tchernia déjà citées) disent faire confiance aux médias pour dire la vérité !

Il ne fait donc pas s’attendre à une déstabilisation de la Russie mais plutôt à une déstabilisation en Europe occidentale où les dirigeants ont d’ores et déjà perdu beaucoup de leur légitimité populaire !

 

La Russie répond à l’appel du Venezuela

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La Russie répond à l’appel du Venezuela

Auteur : Oscar Fortin
Ex: http://zejournal.mobi

Le président Obama doit se mordre les doigts d’avoir ouvert toutes grandes les portes à la présence militaire russe en Amérique latine et dans les Antilles. Par son décret, véritable déclaration de guerre contre le Venezuela, il aura incité ce dernier à faire appel aux bons offices de la Russie et de sa technologie militaire pour assurer sa défense. S’il s’agit pour le Venezuela d’un appui de grande importance, c’est pour la Russie, à n’en pas douter, une opportunité tout à fait inattendue. Une occasion en or pour Poutine de donner la pareille à Washington qui se fait si présent politiquement et militairement en Ukraine, dans les Balkans, la Mer noire et la Méditerranée.

La nouvelle du jour qui va interpeller très fortement les bien-pensants des politiques guerrières étasuniennes est que la Russie et le Venezuela vont se joindre aux manœuvres militaires défensives planifiées pour cette fin de semaine (14 et 15 mars) dans tout le Venezuela. Le ministre de la Défense, Serguéi Shoigu, a accepté l’invitation de son collègue vénézuélien, Vladimir Padrino Lopez, pour que la Russie participe aux exercices militaires des forces de défense antiaérienne et aux manœuvres de tir de lance-roquettes multiple russe BM-30 Smerch. À ceci s’ajoute l’entrée amicale de navires russes dans les ports du Venezuela.

Cette participation de la Russie à la défense du Venezuela contre les menaces d’invasion militaire de la part des États-Unis ne sera pas sans rappeler à Obama sa propre participation militaire en Ukraine et dans la majorité des pays frontaliers à la Russie. Il sera mal placé pour se plaindre du fait qu’un pays ami, la Russie, apporte son soutien à un autre pays ami, le Venezuela, lequel est menacé d’invasion par son pire ennemi, les États-Unis.

Nous ne sommes évidemment plus en 1962, lors de la crise des missiles à Cuba où la menace nucléaire était à 90 kilomètres des frontières étasuniennes. Au Venezuela, il n’y a pas d’armes nucléaires et les frontières des deux pays sont séparées par des milliers de kilomètres. De plus, l’Amérique latine d’aujourd’hui n’est plus celle des années 1960. De nombreux peuples sont parvenus à vaincre les résistances oligarchiques et impériales pour conquérir démocratiquement les pouvoirs de l’État et les mettre au service du bien commun. De nombreux organismes régionaux se sont développés. Leur présence devient une caution de l’indépendance et d’intégration des peuples de l’Amérique latine. C’est le cas, entre autres, d’UNASUR, de MERCOSUR, de l’ALBA, de CELAC.

De toute évidence, l’Oncle SAM s’acharne à ne pas reconnaître ces changements et continue de vivre comme si l’Amérique latine était toujours sa Cour arrière dont il peut disposer à volonté. Tôt ou tard, il faudra qu’il change son attitude et ses politiques. Ce ne sont plus ces peuples qui doivent changer leurs politiques et leur régime de gouvernance, mais c’est plutôt lui qui doit procéder à ce changement. Ce sont maintenant les peuples qui lui tordent le bras pour qu’il change ses vieilles habitudes impériales en celles de partenaire respectueux et respectables.


- Source : Oscar Fortin

Le Vénézuela «extraordinaire menace pour les Etats-Unis»

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Le Vénézuela «extraordinaire menace pour les Etats-Unis»

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

En préambule d'un décret imposant un régime de sanctions (interdiction d'accès au territoire, gel des avoirs bancaires) à 7 responsables vénézueliens impliqués dans la répression violente de manifestations ayant eu lieu récemment et dirigées contre le président Maduro, Barack Obama a publié une déclaration estimant que le Venezuela était responsable «d'une inhabituelle et extraordinaire menace pour la sécurité nationale et la politique extérieure des États-Unis».
 
Le Vénézuela est ainsi assimilé à la Syrie, l'Iran ou la Birmanie, sans mentionner la Russie. Barack Obama a ajouté qu'il déclarait « l'urgence nationale pour faire face à cette menace.»

Le président Nicolas Maduro a vivement réagi à la décision américaine. «Le président Barack Obama [...] a décidé de se charger personnellement de renverser mon gouvernement et d'intervenir au Venezuela pour en prendre le contrôle», a-t-il affirmé, au cours d'un discours télévisé de deux heures. En réponse, il a décidé de nommer ministre de l'Intérieur le chef des services de renseignements sanctionné par les Américains. Le plus haut responsable diplomatique à Washington a également été rappelé.

Nous avions indiqué ici, dans un article du 11 février, que tout laissait penser qu'un coup d'Etat contre le président Maduro, successeur de Hugo Chavez et aussi détesté à Washington aujourd'hui que ne l'était ce dernier de son vivant, était sans doute en préparation.

Effectivement, peu après, le 13 février, le maire de Caracas, et figure de l'opposition Antonio Ledezma avait été arrêté par les services de renseignement, soupçonné d'avoir encouragé un coup d'Etat dans le pays. Nous ne pouvons évidemment nous prononcer sur ce point. Néanmoins il est connu de tous que les Etats-Unis, directement ou par personnes interposées, ont l'habitude de faire tomber les régimes qui s'opposent à eux en provoquant de tels pronunciamientos.

Il est clair que la nouvelle déclaration de Barack Obama contre le Vénézuéla, ressemblant beaucoup à une déclaration de guerre, ne pourra qu'être interprétée à Caracas et dans les autres capitales, ainsi qu'au sein du BRICS, comme préparant une intervention militaire. Ainsi pourrait disparaître un gouvernement dont le grand tort est d'être non aligné sur Washington et allié de la Russie, sans compter le fait que le Vénézuela dispose d'importantes réserves de pétrole sur lesquelles les grandes compagnies pétrolières américaines aimeraient bien mettre la main.

L'affaire ne sera pas cependant aussi facile qu'Obama semblait le penser. On apprend ce jour 12 mars que la Russie va se joindre aux manœuvres militaires défensives planifiées pour cette fin de semaine (14 et 15 mars) dans tout le Venezuela. Le ministre de la Défense, Serguéi Shoigu, a accepté l'invitation de son collègue vénézuélien, Vladimir Padrino Lopez. La Russie participera aux exercices militaires des forces de défense antiaérienne et aux manœuvres de tir de lance-roquettes multiple russe BM-30 Smerch. À ceci s'ajoutera l'escale de navires russes dans les ports du Venezuela.

L'Amérique ne pourra évidemment pas comparer cela à la crise des missiles de 1962 l'ayant opposée à Cuba et indirectement à l'URSS. Mais nous pouvons être certain que l'accusation sera lancée. Il serait pertinent alors de rappeler à Obama sa propre participation militaire, directement ou via l'Otan, en Ukraine et dans la majorité des pays frontaliers à la Russie, à des manoeuvres militaires plus qu'agressives.

Jean Paul Baquiast

Europe: la leçon islandaise

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EUROPE : LA LEÇON ISLANDAISE
Ils ne veulent pas de cette Europe-là!

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr

Alors que, pour cause de petite stratégie politicienne pour éviter le naufrage des départementales, les partis systémiques se rattachent à l’Europe, certains européens, eux, ne perdent pas le nord.


L’Islande a annoncé jeudi avoir retiré sa candidature à l’Union européenne, deux ans après l’arrivée au pouvoir d’un gouvernement eurosceptique de centre-droit qui promettait de mettre un terme au processus lancé en 2009. Comme quoi, on peut tenir ses promesses électorales et se passer de l'UE.


Cette décision est l’application simple du programme de la coalition de centre droit arrivée au pouvoir en 2013, qui promettait de mettre fin au processus d’adhésion. « Les intérêts de l’Islande sont mieux servis en dehors de l’Union européenne », a justifié le ministère des Affaires étrangères.


Il avait fallu des circonstances très particulières pour que Reykjavik dépose sa candidature en 2009, le premier gouvernement de gauche de l’histoire du pays, une grave crise financière qui avait ébranlé la confiance des citoyens dans leurs institutions nationales et la chute de la valeur de la couronne, qui avait suscité l’envie d’adopter l’euro…envie vite passée depuis. Plus de six ans après, l'effondrement d'un secteur financier hypertrophié qui avait plongé l'île dans la récession, la principale préoccupation d'une majorité d'Islandais n'est pas l'UE, mais les emprunts contractés durant les années de "boom" économique qu'ils ont du mal à rembourser.


Les sociaux-démocrates islandais n’ont jamais réussi à expliquer à l’opinion comment ils allaient combler le fossé entre Bruxelles et Reykjavik sur les quotas de pêche. Ce sujet épineux n’aura même pas été abordé lors des négociations entre juin 2011 et janvier 2013.


L’Europe déteste les spécificités qui font les nations


L’adhésion aurait soviétisée la principale ressource du pays. "Le gouvernement n'a pas l'intention d'organiser un référendum", a précisé le ministère des Affaires étrangères. Et mieux, "si le processus doit être repris à l'avenir, le gouvernement actuel considère important de ne pas progresser sans en référer préalablement à la Nation".


Même si une majorité des électeurs aurait souhaité un référendum, il semble difficile d'imaginer ce qui pourrait les amener à voter "oui" un jour, alors que le pays bénéficie déjà de nombreux avantages grâce à ses liens avec l'UE, sans souffrir des inconvénients. L'Islande est ainsi membre de l'Association européenne de libre échange (AELE) et applique la convention de Schengen qui permet la libre circulation des personnes. Cela permet au pays d'exporter ses produits de la mer vers le continent sans barrière tarifaire, alors même qu'il est engagé dans une "guerre du maquereau" avec l'UE. Depuis que l'Islande a relevé son quota de pêche en 2010, au motif que le réchauffement climatique aurait fait migrer l'espèce vers le nord, le conflit n'a pas pu être résolu malgré une multitude de réunions. Laisser Bruxelles décider du quota de pêche islandais paraît impensable sur l'île.


L'espace Schengen stimule une autre industrie importante pour le pays, le tourisme, crucial pour les entrées de devises. On peut donc être eurosceptique, européen  et hors de l'Union l’assumer et s’en bien porter. Gageons que Manuel Valls parlera peu de l'Islande avant le premier tour de la municipale.


The HIV/AIDS Hypothesis

 

 

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Fallacies in Modern Medicine: The HIV/AIDS Hypothesis

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

This commentary was published in the Journal of American Physicians and Surgeons Volume 20, Number 1, Pages 18-19, Spring 2015.

Modern medicine has spawned great things like antibiotics, open heart surgery, and corneal transplants. And then there is antiretroviral therapy for HIV/AIDS.

A civic-minded, healthy person volunteers to donate blood but, tested for HIV (human immunodeficiency virus), is found to be HIV-positive. This would-be donor will be put on a treatment regimen that follows the (285-page) Guidelines for the Use of Antiretroviral Agents in HIV-1-Infected Adults and Adolescents [1] and will be thrust into a medical world peppered with acronyms like CD4, ART, HIV RNA, HIV Ag/Ab, NRTI, NNRTI, PI, INSTI, PrEP, and P4P4P.

Adhering to these government-issued guidelines, a “health care provider” will start this healthy blood donor on antiretroviral therapy (ART). For the last two decades the standard for treating HIV infection is a three-drug protocol—“2 nukes and a third drug.” The “2 nukes” are nucleoside reverse transcriptase inhibitors (NRTI) and DNA chain terminators, like AZT (azidothymidine – Retrovir, which is also a NRTI). The “third drug” is a non-NRTI (NNRTI), a protease inhibitor (PI) or an integrase strand transfer inhibitor (INSTI). [2]

These drugs are toxic. With prolonged use they can cause cardiovascular disease, liver damage, premature aging (due to damage of mitochondria), lactic acidosis, gallstones (especially with protease inhibitors), cognitive impairment, and cancer. The majority of people who take them experience unpleasant side effects, like nausea, vomiting, and diarrhea.

AZT, the most powerful “nuke” in the ART arsenal actually killed some 150,000 “HIV-positive” people when it started being used in 1987 to the mid-1990s, after which, if the drug was used, dosage was lowered. [3] When an HIV-positive person on long-term ART gets cardiovascular disease or cancer, providers blame the virus for helping cause these diseases. Substantial evidence, however, supports the opposite conclusion: it is the antiretroviral treatment itself that causes cancer, liver damage, cardiovascular and other diseases in these patients. [3] They are iatrogenic diseases.

The orthodox view holds that HIV causes AIDS (acquired immunodeficiency syndrome)—one or more of an assemblage of now 26 diseases. Reinforcing this alleged fact in the public’s mind, the human immunodeficiency virus is no longer just called HIV, it is now “HIV/AIDS.”

A new development in HIV care, called preexposure prophylaxis (PrEP), promotes universal coverage with antiretroviral drugs to prevent HIV infections, based on the tenet that prevention is the best “treatment.” Given their unpleasant side effects, however, many people stop taking their antiretroviral drugs. An answer for that in the HIV/AIDS-care world is addressed by its P4P4P acronym (pay for performance for patients). With P4P4P, now under study, patients are given financial incentives to encourage them to keep taking the drugs. [2]

Could the hypothesis that the multi-billion-dollar HIV/AIDS medical-pharmaceutical establishment bases its actions on be wrong? In 1987, Peter Duesberg, a professor of molecular and cell biology at the University of California, Berkeley, who isolated the first cancer gene, and in 1970 mapped the genetic structure of retroviruses, published a paper in Cancer Research questioning the role of retroviruses in disease and the HIV/AIDS hypothesis in particular [4]. Then, in 1988, he published one in Science titled “HIV is Not the Cause of AIDS.” [5] As a result, Dr. Duesberg became a pariah in the retroviral HIV/AIDS establishment, which branded him a “rebel” and a “maverick.” Colleague David Baltimore labeled him “irresponsible and pernicious,” and Robert Gallo declared his work to be “absolute and total nonsense.”

Skeptics of the HIV/AIDS hypothesis are chastised and subjected to ad hominem attacks. Anyone who questions this hypothesis is now branded an “AIDS denier,” which is analogous to being called a Holocaust denier. Nevertheless, non-orthodox scholars have been questioning the HIV/AIDS paradigm for thirty years; and now, in the 21st century, as Rebecca Culshaw puts it, “there is good evidence that the entire basis for this theory is wrong.” [6]

A key feature of the HIV/AIDS hypothesis is that the virus is sexually transmitted. But only 1 in 1,000 acts of unprotected intercourse transmits HIV, and only 1 in 275 Americans is HIV-positive!  Drug-free prostitutes do not become HIV-positive, despite their occupation. [3,7]

HIV is said to cause immunodeficiency by killing T cell lymphocytes. But T cells grown in test tubes infected with HIV do not die. They thrive. And they produce large quantities of the virus that laboratories use to detect antibodies to HIV in a person’s blood. HIV infects less than 1 in every 500 T cells in the body and thus is hard to find. The HIV test detects antibodies to it, not the virus itself. For these and other reasons a growing body of evidence shows that the HIV theory of AIDS is untenable. [7]

A positive HIV test does not necessarily mean one is infected with this virus. Flu vaccines, hepatitis B vaccine, and tuberculosis are a few of the more than 70 things that can cause a false-positive HIV test. In healthy individuals, pregnancy and African ancestry conduce to testing HIV positive. In some people a positive test may simply indicate (without any virus) that one’s immune system has become damaged, from heavy recreational drug use, malnutrition, or some other reason. [8]

If HIV does not cause AIDS, then what does? The classic paper on AIDS causation, published in 2003 by Duesberg et al., implicates recreational drugs, anti-viral chemotherapy, and malnutrition. [9]

If the theory is wrong, how can it persist? In a review of The Origin, Persistence, and Failings of the HIV/AIDS Theory by Henry Bauer, the late Joel Kaufman writes:

“One of the most difficult things to write is a refutation of a massive fraud, especially a health fraud, in the face of research cartels, media control, and knowledge monopolies by financial powerhouses… The obstacles to dumping the dogma are clearly highlighted as Dr. Bauer discusses the near impossibility of having so many organizations recant, partly because of the record number of lawsuits that would arise.” [10]

Henry Bauer, professor emeritus of chemistry and science studies and former dean of the Virginia Tech College of Arts and Sciences, also presents a concisely reasoned refutation of the HIV/AIDS hypothesis in a 28-page online study, “The Case Against HIV,” with 51 pages of references—now 896 of them, which he continually updates. [3]

In a review of Harvey Bialy’s book, Review of Oncogenes, Aneuploidy, and AIDS: A Scientific Life and Times of Peter Duesberg, my colleague Gerald Pollack, professor of bioengineering at the University of Washington, writes:

“The book reminds us that although over $100 billion has been spent on AIDS research, not a single AIDS patient has been cured—a colossal failure with tragic consequences. It explains in too-clear terms the reasons why AIDS research focuses so single-mindedly on this lone hypothesis to the exclusion of all others: egos, prestige, and money. Mainstream virologists have assumed the power of the purse, and their self-interests (sometimes financial), propel them to suppress challenges. This is not an unusual story: challenges to mainstream views are consistently suppressed by mainstream scientists who have a stake in maintaining the status quo. It’s not just Semmelweis and Galileo, but is happening broadly in today’s scientific arena.” [11]

Adhering to the erroneous hypothesis that HIV causes AIDS, the U.S. government spends billions of dollars annually on HIV/AIDS programs and research—$29.7 Billion for fiscal year 2014. It is a waste of money. It fleeces taxpayers and enriches the HIV/AIDS medical establishment and the pharmaceutical companies that make antiretroviral drugs. The annual cost of HIV care averages $25,000-$30,000 per patient, of which 67-70 percent is spent on antiretroviral drugs. [2]

The tide is beginning to turn, as evidenced in the Sept 24, 2014, publication by Patricia Goodson of the Department of Health and Kinesiology at Texas A&M University. She notes that “the scientific establishment worldwide insistently refuses to re-examine the HIV-AIDS hypothesis,” even while it is becoming increasingly “more difficult to accept.” She writes:

“This paper represents a call to reflect upon our public health practice vis-à-vis HIV-AIDS… The debate between orthodox and unorthodox scientists comprises much more than an intellectual pursuit or a scientific skirmish: it is a matter of life-and-death. It is a matter of justice. Millions of lives, worldwide, have been and will be significantly affected by an HIV or AIDS diagnosis. If we – the public health work force – lose sight of the social justice implication and the magnitude of the effect, we lose ‘the very purpose of our mission.’” [12]

Despite its long-term, widespread acceptance, the HIV/AIDS hypothesis is proving to be a substantial fallacy of modern medicine.

REFERENCES

  1. These Guidelines are available at: http://aidsinfo.nih.gov/contentfiles/lvguidelines/adultandadolescentgl.pdf . Accessed Dec 15, 2014.
  2. “10 Changes in HIV Care That Are Revolutionizing the Field,” John Bartlett (December 2, 2013) Available at: http://www.medscape.com/viewarticle/814712 . Accessed Dec 15, 2014.
  3. The Case Against HIV, collated by Henry Bauer. Available at: http://thecaseagainsthiv.net/ . Accessed December 15, 2014
  4. Duesberg PH. Retroviruses as Carcinogens and Pathogens: Expectations and Reality. Cancer Research. 1987;47:1199-1220.
  5. Duesberg PH. HIV is Not the Cause of AIDS. 1988;241:514-517. Available at: http://www.duesberg.com/papers/ch2.html   Accessed Dec 15, 2014.
  6. Culshaw R. Science Sold Out: Does HIV Really Cause AIDS?, Berkeley, CA: North Atlantic Books; 2007.
  7. Bauer H. The Origin, Persistence and Failings of HIV/AIDS Theory, Jefferson, NC: McFarland; 2007.
  8. Duesberg PH. Inventing the AIDS Virus, Washington, D.C.: Regnery Publishing; 1996.
  9. Duesberg PH, Koehnlein C, Rasnick D. The Chemical Basis of the Various AIDS Epidemics: Recreational Drugs, Anti-viral Chemotherapy, and Malnutrition. J Biosci 2003;28:384-412. Available at: http://www.duesberg.com/papers/chemical-bases.html. Accessed Dec 15, 2014.
  10. Kauffman JM. Review of The Origin, Persistence, and Failings of the HIV/AIDS Theory, by Henry H. Bauer, Jefferson, NC, McFarland, 2007. J Am Phys Surg. 2007;12:121-122.
  11. Pollack G. Statement on HIV/AIDS at: http://www.aras.ab.ca/aidsquotes.htm Accessed Dec 15, 2014.
  12. Goodson P. Questioning the HIV-AIDS hypothesis: 30 years of dissent. Frontiers in Public Health. 2014; 2[Article 154]: 1-11. Available at: http://journal.frontiersin.org/Journal/10.3389/fpubh.2014.00154/full . Accessed Dec 15, 2014.

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Israel, Gaza, and Energy Wars in the Middle East

Tomgram: Michael Schwartz, Israel, Gaza, and Energy Wars in the Middle East
 
Ex: http://www.tomdispatch.com

oil-in-gaza.jpgTalk of an oil glut and a potential further price drop seems to be growing. The cost of a barrel of crude now sits at just under $60, only a little more than half what it was at its most recent peak in June 2014. Meanwhile, under a barrel of woes, economies like China's have slowed and in the process demand for oil has sagged globally. And yet, despite the cancellation of some future plans for exploration and drilling for extreme (and so extremely expensive) forms of fossil fuels, startling numbers of barrels of crude are still pouring onto troubled waters.  For this, a thanks should go to the prodigious efforts of "Saudi America" (all that energetic hydraulic fracking, among other things), while the actual Saudis, the original ones, are still pumping away.  We could, in other words, have arrived not at "peak oil" but at "peak oil demand" for at least a significant period of time to come.  At Bloomberg View, columnist A. Gary Shilling has even suggested that the price of crude could ultimately simply collapse under the weight of all that production and a global economic slowdown, settling in at $10-$20 a barrel (a level last seen in the 1990s).

And here's the saddest part of this story: no matter what happens, the great game over energy and the resource conflicts and wars that go with it show little sign of slowing down.  One thing is guaranteed: no matter how low the price falls, the scramble for sources of oil and the demand for yet more of them won't stop.  Even in this country, as the price of oil has dropped, the push for the construction of the Keystone XL pipeline to bring expensive-to-extract and especially carbon-dirty Canadian "tar sands" to market on the U.S. Gulf Coast has only grown more fervent, while the Obama administration has just opened the country's southern Atlantic coastal waters to future exploration and drilling.  In the oil heartlands of the planet, Iraq and Kurdistan typically continue to fight over who will get the (reduced) revenues from the oil fields around the city of Kirkuk to stanch various financial crises.  In the meantime, other oil disputes only heat up.

Among them is one that has gotten remarkably little attention even as it has grown more intense and swept up ever more countries.  This is the quarter-century-old struggle over natural gas deposits off the coast of Gaza as well as elsewhere in the eastern Mediterranean.  That never-ending conflict provides a remarkable and grim lens through which to view so many recent aspects of Israeli-Palestinian relations, and long-time TomDispatch regular Michael Schwartz offers a panoramic look at it here for the first time.

By the way, following the news that 2014 set a global heat record, those of us freezing on the East Coast of the U.S. this winter might be surprised to learn that the first month of 2015 proved to be the second hottest January on record.  And when you're on such a record-setting pace, why stop struggling to extract yet more fossil fuels? Tom

The Great Game in the Holy Land
How Gazan Natural Gas Became the Epicenter of An International Power Struggle

By Michael Schwartz

Guess what? Almost all the current wars, uprisings, and other conflicts in the Middle East are connected by a single thread, which is also a threat: these conflicts are part of an increasingly frenzied competition to find, extract, and market fossil fuels whose future consumption is guaranteed to lead to a set of cataclysmic environmental crises.

Amid the many fossil-fueled conflicts in the region, one of them, packed with threats, large and small, has been largely overlooked, and Israel is at its epicenter. Its origins can be traced back to the early 1990s when Israeli and Palestinian leaders began sparring over rumored natural gas deposits in the Mediterranean Sea off the coast of Gaza. In the ensuing decades, it has grown into a many-fronted conflict involving several armies and three navies. In the process, it has already inflicted mindboggling misery on tens of thousands of Palestinians, and it threatens to add future layers of misery to the lives of people in Syria, Lebanon, and Cyprus. Eventually, it might even immiserate Israelis.

Resource wars are, of course, nothing new. Virtually the entire history of Western colonialism and post-World War II globalization has been animated by the effort to find and market the raw materials needed to build or maintain industrial capitalism. This includes Israel's expansion into, and appropriation of, Palestinian lands. But fossil fuels only moved to center stage in the Israeli-Palestinian relationship in the 1990s, and that initially circumscribed conflict only spread to include Syria, Lebanon, Cyprus, Turkey, and Russia after 2010.

The Poisonous History of Gazan Natural Gas

Back in 1993, when Israel and the Palestinian Authority (PA) signed the Oslo Accords that were supposed to end the Israeli occupation of Gaza and the West Bank and create a sovereign state, nobody was thinking much about Gaza's coastline. As a result, Israel agreed that the newly created PA would fully control its territorial waters, even though the Israeli navy was still patrolling the area. Rumored natural gas deposits there mattered little to anyone, because prices were then so low and supplies so plentiful. No wonder that the Palestinians took their time recruiting British Gas (BG) -- a major player in the global natural gas sweepstakes -- to find out what was actually there. Only in 2000 did the two parties even sign a modest contract to develop those by-then confirmed fields.

BG promised to finance and manage their development, bear all the costs, and operate the resulting facilities in exchange for 90% of the revenues, an exploitative but typical "profit-sharing" agreement. With an already functioning natural gas industry, Egypt agreed to be the on-shore hub and transit point for the gas. The Palestinians were to receive 10% of the revenues (estimated at about a billion dollars in total) and were guaranteed access to enough gas to meet their needs.

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Had this process moved a little faster, the contract might have been implemented as written. In 2000, however, with a rapidly expanding economy, meager fossil fuels, and terrible relations with its oil-rich neighbors, Israel found itself facing a chronic energy shortage. Instead of attempting to answer its problem with an aggressive but feasible effort to develop renewable sources of energy, Prime Minister Ehud Barak initiated the era of Eastern Mediterranean fossil fuel conflicts. He brought Israel's naval control of Gazan coastal waters to bear and nixed the deal with BG. Instead, he demanded that Israel, not Egypt, receive the Gaza gas and that it also control all the revenues destined for the Palestinians -- to prevent the money from being used to "fund terror."

With this, the Oslo Accords were officially doomed. By declaring Palestinian control over gas revenues unacceptable, the Israeli government committed itself to not accepting even the most limited kind of Palestinian budgetary autonomy, let alone full sovereignty. Since no Palestinian government or organization would agree to this, a future filled with armed conflict was assured.

The Israeli veto led to the intervention of British Prime Minister Tony Blair, who sought to broker an agreement that would satisfy both the Israeli government and the Palestinian Authority. The result: a 2007 proposal that would have delivered the gas to Israel, not Egypt, at below-market prices, with the same 10% cut of the revenues eventually reaching the PA. However, those funds were first to be delivered to the Federal Reserve Bank in New York for future distribution, which was meant to guarantee that they would not be used for attacks on Israel.

This arrangement still did not satisfy the Israelis, who pointed to the recent victory of the militant Hamas party in Gaza elections as a deal-breaker. Though Hamas had agreed to let the Federal Reserve supervise all spending, the Israeli government, now led by Ehud Olmert, insisted that no "royalties be paid to the Palestinians." Instead, the Israelis would deliver the equivalent of those funds "in goods and services."

This offer the Palestinian government refused. Soon after, Olmert imposed a draconian blockade on Gaza, which Israel's defense minister termed a form of "'economic warfare' that would generate a political crisis, leading to a popular uprising against Hamas." With Egyptian cooperation, Israel then seized control of all commerce in and out of Gaza, severely limiting even food imports and eliminating its fishing industry. As Olmert advisor Dov Weisglass summed up this agenda, the Israeli government was putting the Palestinians "on a diet" (which, according to the Red Cross, soon produced "chronic malnutrition," especially among Gazan children).

When the Palestinians still refused to accept Israel's terms, the Olmert government decided to unilaterally extract the gas, something that, they believed, could only occur once Hamas had been displaced or disarmed. As former Israel Defense Forces commander and current Foreign Minister Moshe Ya'alon explained, "Hamas... hasconfirmed its capability to bomb Israel's strategic gas and electricity installations... It is clear that, without an overall military operation to uproot Hamas control of Gaza, no drilling work can take place without the consent of the radical Islamic movement."

Following this logic, Operation Cast Lead was launched in the winter of 2008. According to Deputy Defense Minister Matan Vilnai, it was intended to subject Gaza to a "shoah" (the Hebrew word for holocaust or disaster). Yoav Galant, the commanding general of the Operation, said that it was designed to "send Gaza decades into the past." As Israeli parliamentarian Tzachi Hanegbi explained, the specific military goal was "to topple the Hamas terror regime and take over all the areas from which rockets are fired on Israel."

Operation Cast Lead did indeed "send Gaza decades into the past." Amnesty International reported that the 22-day offensive killed 1,400 Palestinians, "including some 300 children and hundreds of other unarmed civilians, and large areas of Gaza had been razed to the ground, leaving many thousands homeless and the already dire economy in ruins." The only problem: Operation Cast Lead did not achieve its goal of "transferring the sovereignty of the gas fields to Israel."

More Sources of Gas Equal More Resource Wars

In 2009, the newly elected government of Prime Minister Benjamin Netanyahu inherited the stalemate around Gaza's gas deposits and an Israeli energy crisis that only grew more severe when the Arab Spring in Egypt interrupted and then obliterated 40% of the country's gas supplies. Rising energy prices soon contributed to the largest protests involving Jewish Israelis in decades.

As it happened, however, the Netanyahu regime also inherited a potentially permanent solution to the problem. An immense field of recoverable natural gas was discovered in the Levantine Basin, a mainly offshore formation under the eastern Mediterranean. Israeli officials immediately asserted that "most" of the newly confirmed gas reserves lay "within Israeli territory." In doing so, they ignored contrary claims by Lebanon, Syria, Cyprus, and the Palestinians.

gaza-marina-yacimiento-de-gas-natural.jpg

In some other world, this immense gas field might have been effectively exploited by the five claimants jointly, and a production plan might even have been put in place to ameliorate the environmental impact of releasing a future 130 trillion cubic feet of gas into the planet's atmosphere. However, as Pierre Terzian, editor of the oil industry journal Petrostrategies, observed, "All the elements of danger are there... This is a region where resorting to violent action is not something unusual."

In the three years that followed the discovery, Terzian's warning seemed ever more prescient. Lebanon became the first hot spot. In early 2011, the Israeli government announced the unilateral development of two fields, about 10% of that Levantine Basin gas, which lay in disputed offshore waters near the Israeli-Lebanese border. Lebanese Energy Minister Gebran Bassil immediately threatened a military confrontation, asserting that his country would "not allow Israel or any company working for Israeli interests to take any amount of our gas that is falling in our zone." Hezbollah, the most aggressive political faction in Lebanon, promised rocket attacks if "a single meter" of natural gas was extracted from the disputed fields.

Israel's Resource Minister accepted the challenge, asserting that "[t]hese areas are within the economic waters of Israel... We will not hesitate to use our force and strength to protect not only the rule of law but the international maritime law."

Oil industry journalist Terzian offered this analysis of the realities of the confrontation:

"In practical terms... nobody is going to invest with Lebanon in disputed waters. There are no Lebanese companies there capable of carrying out the drilling, and there is no military force that could protect them. But on the other side, things are different. You have Israeli companies that have the ability to operate in offshore areas, and they could take the risk under the protection of the Israeli military."

Sure enough, Israel continued its exploration and drilling in the two disputed fields, deploying drones to guard the facilities. Meanwhile, the Netanyahu government invested major resources in preparing for possible future military confrontations in the area. For one thing, with lavish U.S. funding, it developed the "Iron Dome" anti-missile defense system designed in part to intercept Hezbollah and Hamas rockets aimed at Israeli energy facilities. It also expanded the Israeli navy, focusing on its ability to deter or repel threats to offshore energy facilities. Finally, starting in 2011 it launched airstrikes in Syria designed, according to U.S. officials, "to prevent any transfer of advanced... antiaircraft, surface-to-surface and shore-to-ship missiles" to Hezbollah.

Nonetheless, Hezbollah continued to stockpile rockets capable of demolishing Israeli facilities. And in 2013, Lebanon made a move of its own. It began negotiating with Russia. The goal was to get that country's gas firms to develop Lebanese offshore claims, while the formidable Russian navy would lend a hand with the "long-running territorial dispute with Israel."

By the beginning of 2015, a state of mutual deterrence appeared to be setting in. Although Israel had succeeded in bringing online the smaller of the two fields it set out to develop, drilling in the larger one was indefinitely stalled "in light of the security situation." U.S. contractor Noble Energy, hired by the Israelis, was unwilling to invest the necessary $6 billion in facilities that would be vulnerable to Hezbollah attack, and potentially in the gun sights of the Russian navy. On the Lebanese side, despite an increased Russian naval presence in the region, no work had begun.

Meanwhile, in Syria, where violence was rife and the country in a state of armed collapse, another kind of stalemate went into effect. The regime of Bashar al-Assad, facing a ferocious threat from various groups of jihadists, survived in part by negotiating massive military support from Russia in exchange for a 25-year contract to develop Syria's claims to that Levantine gas field. Included in the deal was a major expansion of the Russian naval base at the port city of Tartus, ensuring a far larger Russian naval presence in the Levantine Basin.

While the presence of the Russians apparently deterred the Israelis from attempting to develop any Syrian-claimed gas deposits, there was no Russian presence in Syria proper. So Israel contracted with the U.S.-based Genie Energy Corporation to locate and develop oil fields in the Golan Heights, Syrian territory occupied by the Israelis since 1967. Facing a potential violation of international law, the Netanyahu government invoked, as the basis for its acts, an Israeli court ruling that the exploitation of natural resources in occupied territories was legal. At the same time, to prepare for the inevitable battle with whichever faction or factions emerged triumphant from the Syrian civil war, it began shoring up the Israeli military presence in the Golan Heights.

And then there was Cyprus, the only Levantine claimant not at war with Israel. Greek Cypriots had long been in chronic conflict with Turkish Cypriots, so it was hardly surprising that the Levantine natural gas discovery triggered three years of deadlocked negotiations on the island over what to do. In 2014, the Greek Cypriots signed an exploration contract with Noble Energy, Israel's chief contractor. The Turkish Cypriots trumped this move by signing a contract with Turkey to explore all Cypriot claims "as far as Egyptian waters." Emulating Israel and Russia, the Turkish government promptly moved three navy vessels into the area to physically block any intervention by other claimants.

As a result, four years of maneuvering around the newly discovered Levantine Basin deposits have produced little energy, but brought new and powerful claimants into the mix, launched a significant military build-up in the region, and heightened tensions immeasurably.

Gaza Again -- and Again

Remember the Iron Dome system, developed in part to stop Hezbollah rockets aimed at Israel's northern gas fields? Over time, it was put in place near the border with Gaza to stop Hamas rockets, and was tested during Operation Returning Echo, the fourth Israeli military attempt to bring Hamas to heel and eliminate any Palestinian "capability to bomb Israel's strategic gas and electricity installations."

Launched in March 2012, it replicated on a reduced scale the devastation of Operation Cast Lead, while the Iron Dome achieved a 90% "kill rate" against Hamas rockets. Even this, however, while a useful adjunct to the vast shelter system built to protect Israeli civilians, was not enough to ensure the protection of the country's exposed oil facilities. Even one direct hit there could damage or demolish such fragile and flammable structures.

turkey_israel_maritime.jpg

The failure of Operation Returning Echo to settle anything triggered another round of negotiations, which once again stalled over the Palestinian rejection of Israel's demand to control all fuel and revenues destined for Gaza and the West Bank. The new Palestinian Unity government then followed the lead of the Lebanese, Syrians, and Turkish Cypriots, and in late 2013 signed an "exploration concession" with Gazprom, the huge Russian natural gas company. As with Lebanon and Syria, the Russian Navy loomed as a potential deterrent to Israeli interference.

Meanwhile, in 2013, a new round of energy blackouts caused "chaos" across Israel, triggering a draconian 47% increase in electricity prices. In response, the Netanyahu government considered a proposal to begin extracting domestic shale oil, but the potential contamination of water resources caused a backlash movement that frustrated this effort. In a country filled with start-up high-tech firms, the exploitation of renewable energy sources was still not being given serious attention. Instead, the government once again turned to Gaza.

With Gazprom's move to develop the Palestinian-claimed gas deposits on the horizon, the Israelis launched their fifth military effort to force Palestinian acquiescence, Operation Protective Edge. It had two major hydrocarbon-related goals: to deter Palestinian-Russian plans and to finally eliminate the Gazan rocket systems. The first goal was apparently met when Gazprom postponed (perhaps permanently) its development deal. The second, however, failed when the two-pronged land and air attack -- despite unprecedented devastation in Gaza -- failed to destroy Hamas's rocket stockpiles or its tunnel-based assembly system; nor did the Iron Dome achieve the sort of near-perfect interception rate needed to protect proposed energy installations.

There Is No Denouement

After 25 years and five failed Israeli military efforts, Gaza's natural gas is still underwater and, after four years, the same can be said for almost all of the Levantine gas. But things are not the same. In energy terms, Israel is ever more desperate, even as it has been building up its military, including its navy, in significant ways. The other claimants have, in turn, found larger and more powerful partners to help reinforce their economic and military claims. All of this undoubtedly means that the first quarter-century of crisis over eastern Mediterranean natural gas has been nothing but prelude. Ahead lies the possibility of bigger gas wars with the devastation they are likely to bring.

Michael Schwartz, an emeritus distinguished teaching professor of sociology at Stony Brook University, is a TomDispatch regular and the author of the award-winning books Radical Protest and Social Structure andThe Power Structure of American Business (with Beth Mintz). His TomDispatch book, War Without End, focused on how the militarized geopolitics of oil led the U.S. to invade and occupy Iraq. His email address is Michael.Schwartz@stonybrook.edu.

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Copyright 2015 Michael Schwartz

Rencontre militante: Anjou/Touraine

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dimanche, 15 mars 2015

JORNADAS EVOLIANAS 2015

JORNADAS EVOLIANAS 2015
 
 
EVOLA Y AMÉRICA
EXPONDRÁN:
MARCOS GHIO (ARGENTINA)
FRANCISCO NÚÑEZ PROAÑO (ECUADOR)

25 de marzo 2015 a las 19 horas
en Uruguay 766, P.B. 4 (Buenos Aires)

Entrada libre y gratuita.

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Vers une Allemagne post-occidentale?

par Hans Kundnani
Ex: http://l-arene-nue.blogspot.fr
 
Ce texte est la traduction d'un article de Hans Kundnani, paru dans la revue Foreign affairs de janvier-février 2015. Hans Kundnani est un spécialiste de la politique étrangère allemande et officie notamment au sein d'un Think Tank, le Conseil européen pour les relations internationales. Ses analyses sont souvent remarquables, mais il me semble hélas qu'elles sont assez peu relayées en France. C'est pourquoi j'ai traduit ce papier. Il dresse le portrait d'une Allemagne telle que nous ne la connaissons absolument pas, mais telle qu'elle est assez souvent décrite - pour ce que j'en ai lu - dans la presse anglo-saxone, bien moins "coincée" que la notre sur sujet-là, et qui se refuse à en faire un tabou. Attention, ça décoiffe !
***
L'annexion de la Crimée par la Russie en mars 2014 a été un choc stratégique pour l'Allemagne. Soudain, l'agression russe mettait en cause l'ordre sécuritaire européen que la République fédérale tenait pour acquis depuis la fin de la Guerre froide. Berlin venait de passer deux décennies à tenter de renforcer ses liens politiques et économiques avec Moscou, mais l'action de la Russie en Ukraine suggérait que le Kremlin n'était plus guère intéressé par un partenariat avec l'Europe. En dépit de la dépendance de l'Allemagne au gaz russe et de l'importance de la Russie pour les exportateurs allemands, la chancelière Angela Merkel a fini par accepter de sanctionner la Russie. Elle a même contribué à persuader d'autres États membres de l'Union européenne à faire de même.
 
Mais la crise en Ukraine a rouvert de vieilles questions relatives à la relation de l'Allemagne au reste de l'Occident. En avril 2014, lorsque la radio allemande ARD demande à ses auditeurs quel rôle leur semble devoir jouer leur pays dans la crise, seuls 45% se prononcent pour une Allemagne au diapason de ses alliés de l'UE et de l'OTAN. En revanche, 49% souhaitent que l'Allemagne joue un rôle de médiateur entre la Russie et l'Ouest. Des résultats qui ont inspiré à l'hebdomadaire Der Spiegel un édito daté de mai où il met en garde l'Allemagne contre la tentation de détourner de l'Occident.

 

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La réponse germanique à la crise ukrainienne doit être replacée dans le contexte d'un affaiblissement de long terme de ce qu'on nomme la Westbindung, c'est à dire l'arrimage du pays à l'Ouest, en vigueur depuis l'après-guerre. La chute du mur de Berlin et l'élargissement de l'Union européenne ont libéré le pays de la dépendance à l'égard des États-Unis que lui imposait l'impératif de se protéger contre l'Union soviétique. Dans le même temps, l'économie allemande, très dépendante aux exportations, est devenue plus tributaire de la demande des marchés émergents, notamment du marché chinois.
 
Le pays a beau rester attaché à l'intégration européenne, ces facteurs permettent tout à fait d'imaginer une politique étrangère allemande post-occidentale. Un tel changement a des enjeux de taille. Étant donnée la montée en puissance de l'Allemagne au sein de l'UE, les relations du pays avec le reste du monde détermineront dans une large mesure celles de tout l'Europe.
 
Le paradoxe allemand
 
L'Allemagne a toujours eu une relation compliquée avec l'Occident. D'un côté, bon nombre des idées politiques et philosophiques qui comptent à l'Ouest proviennent d'Allemagne, avec des penseurs aussi majeurs qu'Emmanuel Kant. Mais d'un autre côté, l'histoire intellectuelle allemande est mêlée d'éléments plus sombres, qui ont parfois menacé les valeurs occidentales, comme le courant du nationaliste du début du XIXe siècle. À partir de la seconde moitié du XIXème, les nationalistes allemands ont cherché à définir l'identité allemande par opposition avec les principes rationalistes et libéraux de la Révolution française et les Lumières. Le phénomène a culminé dans le nazisme, que l'historien Heinrich August Winkler a défini comme « l'apogée du rejet germanique du monde occidental ». Dès lors, l'Allemagne était un cas paradoxal. Elle était partie intégrante de l'Occident tout en le défiant radicalement de l'intérieur.
 
Après la Seconde Guerre mondiale, l'Allemagne de l'Ouest participe à l'intégration européenne, et, en 1955, elle rejoint l'OTAN. Pour une bonne quarantaine d'années, la Westbindung, conduit l'Allemagne à prendre des initiatives de sécurité conjointes avec ses alliés occidentaux, ce qui représente pour elle une nécessité existentielle l'emportant sur tout les autres objectifs de politique étrangère. Le pays continue de se définir comme une puissance occidentale tout au long des années 1990. Sous le chancelier Kohl, l'Allemagne réunifiée décide d'adopter l'euro. À la fin de la décennie, elle semble même se réconcilier avec l'utilisation de la force militaire pour s'acquitter de ses obligations de membre de l'OTAN. Après le 11 septembre 2001, Gerhard Schröder promet aux États-Unis une « solidarité inconditionnelle » et engage des troupes en Afghanistan.


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Toutefois, au cours de la dernière décennie l'attitude de l'Allemagne envers le reste du monde occidental change. Dans le débat sur l'intervention en Irak en 2003, Schröder évoque l'existence d'une « voie allemande », qui se distingue de la « voie américaine ». Et depuis lors, la République fédérale n'a cessé d'affermir son opposition à l'usage de la force armée. Après son expérience en Afghanistan, elle semble avoir décidé que la meilleure leçon à tirer de son passé nazi n'était pas « plus jamais Auschwitz » - l'argument précisément invoqué pour justifier la participation à l'intervention l'OTAN au Kosovo en 1999 - mais « plus jamais la guerre ». D'un bout à l'autre de l’échiquier politique, les responsables allemands définissent désormais leur pays comme une Friedensmacht , une « puissance de paix ».
 
L'attachement de l'Allemagne à la paix a fini par conduire l'Union européenne et les États-Unis à l'accuser de jouer au cavalier solitaire au sein de l'alliance occidentale. S'exprimant à Bruxelles en 2011, le secrétaire américain à la Défense Robert Gates avertissait ainsi que l'OTAN était en voie de devenir une « alliance à deux vitesses », avec d'un côté les membres prêts à contribuer aux engagements de l'alliance, et de l'autre ceux qui appréciaient les avantages de l'adhésion, qu'ils s'agisse de garanties en termes de sécurité ou des places en État-major, mais refusaient de partager les risques et les coûts. Il pointait en particulier ces membres de l'OTAN qui refusent de consacrer à la défense le montant convenu de 2 % de leur PIB. Or l'Allemagne est à peine à 1,3 %. Récemment, la France également critiqué son voisin pour son inaptitude à fournir une contribution digne de ce nom à l'occasion des interventions au Mali ou en République centrafricaine.

 
Mais l'une des raisons pour lesquelles l'Allemagne a négligé ses obligations envers l'OTAN est que la Westbindungn'apparaît plus comme une nécessité stratégique absolue. Après la fin de la guerre froide, l'Union européenne et l'OTAN se sont élargies aux pays d'Europe centrale et orientale, ce qui fait que l'Allemagne est désormais « entourée d'amis» et non plus d'agresseurs potentiels, comme l'a dit un jour l'ancien ministre de la Défense Volker Rühe. Elle est donc bien moins dépendante des États-Unis pour sa sécurité.
 
Dans le même temps, son économie est devenue plus dépendante des exportations, notamment en direction de pays non-occidentaux. Durant la première décennie de ce siècle, alors que la demande intérieure restait faible et que les entreprises gagnaient en compétitivité, l'Allemagne devenait de plus en plus accro aux débouchés extérieurs. Selon la Banque mondiale, la part des exportations dans le PIB du pays a bondi de 33% 2000 à 48% en 2010. Ainsi, à partir de l'ère Schröder, l'Allemagne commence orienter sa politique étrangère en fonction de ses intérêts économiques et plus particulièrement en fonction des besoins de son commerce extérieur.
 
Un autre facteur a également contribué à cette réorientation. Il s'agit de la montée d'un sentiment anti-américain dans l'opinion publique. Si la guerre en Irak a rendu les Allemands confiants dans leur capacité à se montrer autonomes vis à vis des États-Unis sur les questions militaires, la crise financière de 2008 a fait naître l'idée qu'ils pouvaient également s'autonomiser dans le domaine économique. Pour beaucoup d'Allemands, la crise a mis en évidence les lacunes du capitalisme anglo-saxon et validé le bien fondé d'une économie sociale de marché comme la leur. En 2013, les révélations relatives aux écoutes de la NSA y compris sur le téléphone portable de Merkel, ont encore renforcé ce sentiment anti-américain. Désormais, beaucoup d'Allemands disent qu'ils ne partagent plus les mêmes valeurs que le États-Unis. Certains avouent même qu'ils ne les ont jamais partagées.
 

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Pour sûr, la culture politique libérale de l'Allemagne, fruit de son intégration à l'Ouest, perdurera. Mais il reste à voir si le pays continuera à suivre systématiquement ses partenaires et à défendre coûte que coûte les valeurs occidentales, alors que sa croissance est devenue tributaire de pays non-occidentaux. Pour avoir une idée de l'évolution possible d'une politique étrangère allemande post-occidentale, il suffit de se rappeler 2011, qui vit la République fédérale s'abstenir au Conseil de sécurité de l'ONU sur l'intervention en Libye, tout comme la Russie et la Chine, et à l'opposé de la France, de la Grande-Bretagne et des États-Unis. Certains responsables allemands assurent que cette décision ne reflète pas une tendance de long terme. Mais un sondage réalisé par la revue de géopolitique Politikpeu après le vote au Conseil de sécurité a montré que les Allemands se répartissent en trois groupes. Ceux qui pensent qu'il faut continuer à coopérer principalement avec les partenaires occidentaux, ceux pour qui il faut privilégier d'autres pays, comme la Chine, l'Inde ou la Russie, et ceux qui souhaitent combiner les deux approches.
 
La nouvelle Ostpolitik
 
La politique russe de l'Allemagne a longtemps été basée sur l'échange politique et sur l'interdépendance économique. Lorsque Willy Brandt devient chancelier de la RFA en 1969, il essaie de contrebalancer la Westbindung en recherchant une relation plus ouverte avec l'Union soviétique. Il inaugure une nouvelle approche devenue célèbre sous le nom d'Ostpolitik(ou « politique orientale »). Brandt pensait que l'approfondissement des entre les deux puissances pourraient éventuellement conduire à la réunification allemande, une conception que son conseiller Egon Bahr baptisa Wandel durch Annäherung: le « changement par le rapprochement ».
 
Depuis la fin de la guerre froide, les liens économiques entre Allemagne et Russie se sont encore renforcés. Invoquant le souvenir de l'Ostpolitik, Schröder entreprit lui-même une politique de Wandel durch Handel , ou « changement par le commerce ». Les responsables politiques allemands, en particulier les sociaux-démocrates, se sont faits les hérauts d'un « partenariat pour la modernisation », au titre duquel l'Allemagne fournirait à la Russie la technologie pour moderniser son économie - puis, idéalement, ses pratiques politiques.
 
L'existence de ces liens aident à comprendre la réticence initiale de l'Allemagne à l'idée d'imposer des sanctions après l'incursion russe en Ukraine en 2014. Avant de décider si elle emboîterait ou non le pas aux États-Unis, Mme Merkel a subi les pressions de puissants lobbyistes de l'industrie, emmenés par le Comité pour les relations économiques en Europe de l'Est. Celui-ci a fait valoir que les sanctions pénaliseraient durement l'économie allemande. Afin de témoigner de soutien au président russe Vladimir Poutine, Joe Kaeser, le PDG de Siemens, lui a rendu visite dans sa résidence des environs de Moscou juste après l'annexion de la Crimée. Kaeser avait alors garanti à Poutine que sa firme, qui faisait des affaires en Russie depuis près de 160 ans, ne laisserait pas quelques « turbulences de court terme » - sa manière de désigner de la crise - affecter sa relation avec le pays. Dans un éditorial publié dans le Financial Times en mai 2014, le directeur général de la Fédération des industries allemandes, Markus Kerber, écrivait que les entreprises allemandes soutiendrait les sanctions, mais le feraient « le cœur lourd ».
 

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La forte dépendance allemande à l'énergie russe a également conduit Berlin à redouter les sanctions. Après la catastrophe nucléaire de Fukushima en 2011, la République fédérale a en effet décidé de sortir du nucléaire plus tôt que prévu, ce qui a rendu le pays plus dépendant encore au gaz russe. En 2013, la Russie fournissait environ 38% de son pétrole à l'Allemagne et 36% de son gaz. L'Allemagne pourrait certes diversifier ses sources d'approvisionnement, mais un tel processus prendrait des décennies. Dans l'immédiat, elle se montre donc réticente à toute perspective de contrarier Moscou.
 
Quant aux sanctions, Angela Merkel ne s'est pas seulement heurtée à l'opposition des industriels, mais également à celle de son opinion publique. Certains, aux États-Unis ou en Europe, ont eu beau accuser le gouvernement allemand d'être trop conciliant avec la Russie, beaucoup en Allemagne, l'on trouvé au contraire trop agressif. Illustration: lorsque le journaliste Bernd Ulrich a appelé de ses vœux des mesures sévères contre Poutine, il s'est fait littéralement inonder de courriers haineux l'accusant de visées bellicistes. Même Frank-Walter Steinmeier, ministre des Affaires étrangères et perçu de longue date comme un ami de la Russie, a dû faire face à des accusations similaires. Les révélations quant à l'espionnage pratiqué par la NSA ont par ailleurs accru la sympathie pour la Russie. Comme Bernd Ulrich le notait en avril 2014, «  quand le Président russe dit se sentir oppressé par l'Occident, beaucoup ici pensent « nous aussi »».
 
Cette identification à la Russie a des racines historiques profondes. En 1918, Thomas Mann publiait un livre, Considérations d'un homme étranger à la politique, dans lequel il affirmait que la culture allemande était distincte - supérieure - à celle des autres pays occidentaux comme la France ou le Royaume-Uni. La culture germanique, soutenait-il, se trouve quelque part entre la culture russe et les cultures du reste de l'Europe. Cette idée a connu un regain de vitalité spectaculaire ces derniers mois. L'historien Winkler critiquait vertement, dans le Spiegel, en avril 2014, la démarche de ces Allemands qui expriment un vif soutien pour à la Russie, et tentent de repopulariser « le mythe d'une connexion entre les âmes russe et allemande ».
 
L'élaboration par Merkel d'une réponse à l'annexion de la Crimée a donc relevé du funambulisme. La chancelière a d'abord cherché à maintenir ouverte la possibilité d'une solution politique, au prix d'heures passées au téléphone avec Poutine, et en envoyant Steinmeier jouer l'intermédiaire entre Moscou et Kiev. Ce n'est qu'après que le vol de la Malaysia Airlines eût été abattu le 17 Juillet 2014, a priori par les séparatistes pro-russes, que les responsables allemands se sentirent à l'aise pour adopter une position plus ferme. Même alors, le soutien de l'opinion aux sanctions demeura tiède. Un sondage réalisé en août par l'ARD révélait par exemple que 70 % des Allemands soutenaient la seconde salve des sanctions européennes contre la Russie, qui comprenait l'interdiction de visas et le gel des avoirs d'une liste d'hommes d'affaires russes. En revanche, seuls 49 % se disaient prêts à continuer de soutenir les sanctions si elles devaient nuire à l'économie domestique, comme ce serait probablement le cas la troisième série de sanctions. Et cela pourrait être plus marqué encore si l'Allemagne entrait en récession, ainsi que de nombreux analystes l'annoncent. Les industriels allemands ont eu beau accepter les sanctions, ils n'en ont pas moins continué à faire pression sur Merkel pour les assouplir. En outre, l'Allemagne a clairement fait savoir qu'aucune option militaire n'était sur la table. Au moment du sommet de l'OTAN au Pays de Galles en septembre, Merkel s'est opposée au projet d'établir une présence permanente de l'Alliance en Europe orientale, et a fait valoir qu'une telle initiative constituerait un viol de l'acte fondateur OTAN-Russie 1997. Pour le dire autrement, la République fédérale n'a aucune volonté de mener une politique de containment de la Russie.

 
Le pivot vers la Chine
 
L'Allemagne s'est également rapprochée de la Chine, un indice encore plus probant de l'amorce d'une politique étrangère post-occidentale. Comme avec la Russie, les liens sont de plus en plus étroits. Durant la décennie écoulée, les exportations vers la Chine ont augmenté de façon exponentielle. En 2013, elles sont montées jusqu'à 84 milliards de dollars, presque le double du montant vers la Russie. L'Empire du Milieu est devenu le deuxième plus grand marché pour les exportations allemandes hors de l'UE, et pourrait bientôt dépasser les États-Unis pour devenir le premier. Il est d'ores et déjà le principal marché pour Volkswagen et pour la Classe S de Mercedes-Benz.

 

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Les relations entre l'Allemagne et la Chine se sont intensifiées après la crise financière de 2008, alors que les deux pays se trouvaient dans le même camp dans les débats sur l'économie mondiale. Tous deux avaient tendance à exercer une pression déflationniste sur leurs partenaires commerciaux, critiquaient la politique d'assouplissement quantitatif conduite par la Fed américaine et ignoraient les appels des États-Unis à prendre des mesures pour corriger les déséquilibres macroéconomiques mondiaux. Dans le même temps, tous deux se rapprochaient politiquement. En 2011, ils ont même commencé à tenir annuellement une consultation intergouvernementale. C'était la première fois que la Chine se lançait dans une négociation aussi étroite avec un autre pays.
 Pour l'Allemagne, la relation est essentiellement économique, mais pour la Chine, qui souhaite une Europe forte pour contrebalancer la puissance américaine, elle est également stratégique. Pékin voit l'Allemagne comme une clé pour obtenir le type d'Europe qu'elle désire, d'abord parce que la République fédérale semble être de plus en plus puissante au sein de l'Union européenne, mais peut-être aussi parce que les tropismes allemands semblent plus proches des siens que ne le sont ceux, par exemple, de la France ou du Royaume-Uni.
 
Le rapprochement Berlin-Pékin intervient cependant que les États-Unis adoptent une approche plus dure envers la Chine dans le cadre de ce qu'on appelle leur pivot vers l'Asie. Ceci pourrait poser un problème majeur à l'Occident. Si Washington venait à se trouver en conflit avec la Chine sur des questions économiques ou de sécurité, s'il venait à y avoir une « Crimée asiatique » par exemple, il y a une possibilité réelle que l'Allemagne demeure neutre. Certains diplomates allemands en Chine ont déjà commencé à prendre leurs distances avec l'Ouest. En 2012 par exemple, l'ambassadeur d'Allemagne à Pékin, Michael Schaefer, déclarait dans une interview: « je ne pense pas qu'il y existe encore une chose telle que l'Occident ». Compte tenu de leur dépendance croissante au marché chinois, les entreprises allemandes seraient encore plus opposées à l'idée de sanctions qu'elles ne le furent contre la Russie. Le gouvernement allemand serait d'ailleurs plus réticent à en prendre, ce qui creuserait encore les divisions au sein de l'Europe, puis entre l'Europe et les États-Unis.

 
Une Europe allemande
 
La peur de la neutralité allemande n'est pas chose nouvelle. Au début des années 1970, Henry Kissinger, conseiller à la sécurité nationale des États-Unis, avertissait que l'Ostpolitik à l’œuvre en RFA pourrait être une carte dans les mains de l'Union soviétique et menacer l'unité transatlantique. Il prévenait que des liens économiques plus étroits avec l'URSS ne pourraient qu'accroître la dépendance de l'Europe vis à vis de l'Est, ce qui compromettrait les solidarités à l'Ouest.
 
Le danger que pressentait Kissinger n'était pas tant un départ de la RFA de l'OTAN, mais, comme il le dit dans ses mémoires, le fait qu'elle puisse « se tenir à l'écart des tensions hors d'Europe, même quand seraient menacés les intérêts fondamentaux et la sécurité ». Heureusement pour Washington, la guerre froide a tenu ces tentations en échec, cependant que l'Allemagne de l'Ouest s'appuyait sur Washington pour assurer sa sécurité.
 
Cependant, l'Allemagne se trouve à présent dans une position plus centrale et plus forte en Europe. Pendant la guerre froide, la RFA était un État faible et quasi marginal de ce qui est devenu l'Union européenne. A l'inverse, l'Allemagne réunifiée est aujourd'hui l'une des plus fortes, si ce n'est la plus forte puissance d'Europe. Ceci étant donné, une Allemagne post-occidentale pourrait emporter à sa suite nombre d'autres pays, en particulier les pays d'Europe centrale et orientale dont les économies sont profondément imbriquées avec la. Si le Royaume-Uni quitte l'UE, comme il est en train de l'envisager, l'ensemble sera encore plus susceptible de s'aligner sur les préférences germaniques, en particulier pour tout ce qui concerne les relations avec la Russie et la Chine. Dans ce cas, l'Europe pourrait se trouver en opposition avec les États-Unis – et une faille pourrait s'ouvrir au sein du monde occidental, pour ne jamais se refermer.

Mali et Azawad

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MALI ET AZAWAD
La France paye pour ses contradictions géostratégiques

Ibrahima Sène*
Ex: http://metamag.fr

Comme les Etats Unis avec l’Armée de l’Etat Islamique qu’ils ont aidé à s’armer et à s’entraîner contre la Syrie, et qui aujourd’hui s’est retournée contre les intérêts américains, la France risque de voir un nouveau rapprochement du Mnla avec les groupes jihadistes, pour frapper ses intérêts dans la zone sahélo sahéliennes. Et Bamako, qui vient d’être frappé par un attentat meurtrier, risque de retourner à la case départ pour défendre militairement l’intégrité de son territoire et la sécurité de ses populations.


Moktar Belmoktar, chef d’un groupe armé proche d’Al Qaida, vient de revendiquer publiquement l’attaque terroriste de la nuit du 6 au 7 mars à Bamako, intervenue quelques jours seulement, après que le ministre des Affaires étrangères de la France a exigé des mouvements armés, en lutte contre Bamako, de « signer sans délai » les « Accords de paix d’Alger ».


Dans son communiqué rendu public, il ne fait aucun doute que c’est la France qui est visée dans cet attentat au Restaurant « La Terrasse », alors que le Belge et les Maliens tués dans une rue adjacente, ne seraient que des victimes collatérales lors de la fuite des assaillants. Le fait que cette attaque soit aussi intervenue dans un contexte marqué par le refus par certains mouvements rebelles de signer les « Accords d’Alger », sous prétexte de la nécessité d’un « délai pour consulter leurs bases », montre bien que ces « accords » ne mettront pas fin à la crise au Nord du Mali.


Ce serait un signal évident de la volonté de mettre en échec ce « compromis franco–algérien » pour ramener la paix dans cette partie de la zone sahélo sahélienne, que reflètent les « Accords d’Alger ». Les autorités françaises se sont avérées incapables de faire accepter par le Mnla, qu’elles ont toujours utilisé dans cette crise, ce « compromis franco-algérien » qui éloigne toute perspective d’un « Etat indépendant touareg » aux frontières de l’Algérie.


En effet, le Mnla est victime du changement politique intervenu en France avec le départ de Sarkozy et l’arrivée de François Hollande. Ce changement au niveau de l’Exécutif français, a entrainé des modifications dans les modalités de mise en œuvre des objectifs géostratégiques des autorités françaises dans la zone sahélo-sahélienne.

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C’est ainsi que l’instrumentalisation du Mnla par Sarkozy, dans la mise en œuvre de la politique géostratégique de la France au Mali, avait comme contrepartie sa promesse de le soutenir pour obtenir, de Bamako, son accord pour transformer le Nord Mali en République indépendante de l’Azawad sous la direction de celui-ci.


C’est pour mettre en œuvre cet «Accord», rendu public à plus reprises par les dirigeants du Mnla sans jamais être démentis par les autorités françaises, que ce groupe armé fut transféré et équipé en Libye sous l’égide de la France, pour s’installer au Nord Mali, avant qu’il ne s’attaque aux forces de sécurités du pays pour proclamer l’Indépendance de l’Azawad.


De leur côté, les autorités françaises mirent la pression sur Bamako pour qu’il s’attèle à respecter le calendrier électoral et tenir des élections présidentielles, plutôt que de s’occuper de la libération du Nord Mali transformé en «République indépendante de l’Azawad».


Pour la France, il faillait, après les élections présidentielles puis législatives du Mali, que les nouvelles autorités puissent ouvrir des négociations avec les séparatistes du Nord et non mener une guerre pour libérer cette partie de leur territoire national.


L’acceptation de ce scénario français, par le président Malien de l’époque, Amadou Toumani Touré (ATT), fut fatal à son régime qui fut renversé par un coup d’Etat militaire mené par de jeunes officiers outrés de l’abandon de la souveraineté de leur peuple sur toute l’étendue du territoire malien, dont une partie était livrée à des troupes jihadistes qui se livraient à des massacres des troupes des forces de sécurité et des populations, livrées à elles par le gouvernement malien.


Cette réaction patriotique des jeunes officiers fut, pour Paris, un crime de lèse-majesté qu’il fallait sanctionner sans tarder et de façon exemplaire. C’est ainsi que Paris eut recours aux Chefs d’Etat de l’Uemoa, de la Cedeao et de l’Union Africaine (U.A), qui avaient à leur tête ses «hommes liges» , pour étouffer économiquement, financièrement, militairement et politiquement, le nouveau pouvoir militaire afin de l’empêcher de mobiliser le peuple malien d’un un « rassemblement de salut national» pour libérer le Nord de leur pays, et assurer l’intégrité de leurs frontières et la sécurité du peuple.


C’est pour cela que les avoirs extérieurs du Mali furent bloqués par l’UEMOA, comme cela fut le cas de la Côte d’Ivoire sous BAGBO, et un embargo économique et sur les armes fut décrété par la Cedeao. C’est dans ce cadre que Paris suspendit ses accords de défense avec le Mali, et qu’eut lieu le blocage à Accra des armes commandées par le gouvernement du Mali, bien avant la chute de A.T.T.


Cependant, les tentatives de Sarkozy de mobiliser une armée d’intervention de la Cedeao pour le «rétablissement de l’ordre constitutionnel » au Mali furent bloqués par la résistance du Ghana et du Nigéria, malgré l’activisme de partis politiques et d’organisations de la société civile du Mali, regroupés dans un «Front anti putschiste» pour réclamer le départ des militaires, le retour à l’ordre constitutionnel pour organiser les élections dans le « respect du calendrier républicain».


Ce contexte avait paralysé le nouveau pouvoir militaire et avait permis aux groupes jihadistes de sanctuariser le Nord Mali en y imposant un pouvoir islamique radical et de chasser, vers le Burkina, le Mnla qui les avait associés dans sa lutte indépendantiste.

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C’est dans cette situation de triomphe des jihadistes qu’est intervenue la chute de Sarkozy, avec l’arrivée de Hollande qui dut changer de modalités de mise en œuvre de la politique géostratégique de la France, face au nouveau projet des groupes jihadistes,d’étendre leur pouvoir hors des limites du Nord Mali, baptisé République indépendante de l’Azawad, pour s’ébranler vers Bamako.


La France de Hollande ne pouvait donc plus attendre la tenue d’élections, encore moins l’envoi de troupes de la Cedeao, et décidait ainsi de l’« Opération Serval » en s’appuyant non pas sur l’armée malienne pour libérer le Nord Mali, mais sur le Mnla qu’elle a fait revenir du Burkina sous ses ailes. C’est ainsi que l’armée malienne fut parquée dans les environs de Gao, par la France, avec le soutien des Usa et la complicité des Nations Unies qui ont dépêché des forces pour maintenir la paix au Nord Mali, en laissant le Mnla contrôler la région de Kidal, d’où l’ «Opération Serval » avait chassé les jihadistes.


Cette deuxième occupation du nord Mali par le Mnla, grâce à la France, avait fini par convaincre ses dirigeants du respect, par Hollande, des engagements de Sarkozy d’amener Bamako à accepter leur revendication d’indépendance de l’Azawad. Et surtout que le nouveau pouvoir issu des élections présidentielles n’avait pas hésité de faire arrêter les dirigeants du putsch qui a fait tomber ATT et avait libéré certains de leurs principaux dirigeants pourtant accusés de « crimes de guerre », par les Autorités maliennes, et qui avaient même annulé les mandats d’arrêt internationaux lancés contre les autres. D’autant plus que le nouveau pouvoir avait signé de nouveaux « Accords militaires » avec la France, lui permettant d’exhausser son vœu de toujours de faire de la base militaire stratégique de Tessalit, au nord Mali, sa base opérationnelle dans le cadre de sa nouvelle opération militaire dans la zone sahélo sahélienne, baptisée « Bahran ».


Mais ce que le Mnla n’avait pas pu voir venir, c’est le changement de la politique française vis-à-vis de l’Algérie, qui ne voyait pas d’un bon œil l’avènement d’un Etat Touareg dans le nord Mali à ses frontières, et qui faisait d’elle l’alliée stratégique du nouveau pouvoir malien qui voulait empêcher la partition de son territoire. D’où le double rapprochement de Paris et de Bamako vers Alger.
C’est ainsi que l’Algérie, de verrou qu’il faillait faire sauter sous Sarkozy, au même titre que la Libye sous Khadafi, est devenue avec Hollande un partenaire stratégique dans la zone sahélo sahélienne avec qui il fallait coopérer. Et pour le Mali, l’Algérie est devenue un allié stratégique contre un Etat indépendant Touareg au Nord.


Ce n’est qu’avec la tenue des négociations de paix à Alger, que le Mnla a découvert peu à peu le changement de la politique française envers l’Algérie et ses conséquences sur les engagements qu’elle avait pris pour la réalisation de son projet politique. D’où le dépit amoureux entre Paris et le Mnla, qui refuse d’obéir aux injonctions de Paris pour signer « les Accords de Paix » d’Alger, et l’attentat spectaculaire du mouvement jihadiste proche de Al Qaida qui vient rappeler tristement ses engagements d’hier, à la France, vis-à-vis de l’Azawad.


Comme les Etats Unis avec l’Armée de l’Etat Islamique qu’ils ont aidé à s’armer et à s’entraîner contre la Syrie, et qui aujourd’hui s’est retournée contre les intérêts américains dans cette sous région du Moyen Orient, la France risque de voir un nouveau rapprochement du Mnla avec les groupes jihadistes, pour frapper ses intérêts dans la zone sahélo sahéliennes. Et Bamako, risque de retourner à la case départ pour défendre militairement l’intégrité de son territoire et la sécurité de ses populations.


La France, une fois Tessalit en poche, veut se retirer du Mali le plus rapidement possible pour concentrer ses efforts militaires au soutien du Tchad et du Niger dans la guerre contre Boko Haram, et exploiter au maximum, par sa présence, les conséquences de la reconfiguration du Nigéria et du Cameroun qu’entrainerait inéluctablement la partition attendue du Nigéria sous les effets conjugués des coups de Boko Haram et d’une grave crise post électorale. D’où son engagement total au « compromis franco-algérien » de paix qui lui permet, avec l’implication totale de l’Algérie, de mieux assurer la sécurité de ses intérêts économiques dans la zone, contre les jihadistes.


En effet, une crise post « électorale qui va paralyser l’Etat nigérian serait du pain béni pour Boko Haram en vue de faire éclater le Nigéria au détriment de nos aspirations pan africaines, et de la sécurité de nos peuples.


Les Nigérians qui ont poussé leur pays vers ce gouffre ont trahi à jamais ces aspirations des peuples d’Afrique pour satisfaire les intérêts géostratégiques des Usa et de la France en Afrique. Ils n’ont tiré aucune leçon de ceux qui, au Moyen Orient et au Mali, ont servi pour faire cette sale besogne pour les grandes puissances occidentales et qui aujourd’hui, par « dépit amoureux » s’en prennent à elles.


La preuve est aussi faite, que les « Accords de défense » avec la France et les Usa, signés par nos gouvernants, ne résistent nullement à leurs intérêts stratégiques qui priment sur nos intérêts nationaux que ces «Accords» sont censés défendre.


Bamako, devrait donc, lui aussi, profiter de l’implication totale d’Alger pour faire appliquer ces « accords de paix », et solliciter le soutien de la Cedeao, sous la direction du Ghana, et de l’Ua, sous la direction de Mugabe, pour faire respecter l’intégrité de son territoire et y assurer la sécurité de ses populations.


Plus que jamais, avec les « Accords d’Alger », les conditions sont politiquement réunies pour permettre à la Cedeao et à l’Ua, de remplir leurs missions historiques d’intégration de nos forces armées et de sécurité, pour défendre l’intégrité territoriale des Etats issus du colonialisme et la sécurité de leurs populations.


C’est ce défi que la crise politique et militaire du Nigéria lui impose aussi de relever. C’est pourquoi, il est attendu du pde la Cedeao et de l’Ua de s’impliquer auprès des partis politiques en compétition et des organisations de la société civile du Nigéria, pour éviter tout recours à la violence ou à la paralysie de l’Etat, pour régler les contentieux électoraux que le monde entier attend et que l’Afrique redoute profondément.


Pan Africanistes de tous les pays d’Afrique et de la Diaspora, Unissons-nous pour le respect des « Accords de paix d’Alger », et pour un « traitement politique » approprié de toute crise post électorale au Nigéria. Ne laissons pas les ennemis de l’Afrique nous avoir une nouvelle fois.


* journaliste à Penbazuka.org

BHL, ce Raspoutine du pauvre

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BHL, ce Raspoutine du pauvre
 
La récente polémique qui a opposé Michel Onfray et Manuel Valls ne nous a pas épargné une énième allusion à l’inénarrable Bernard-Henri Lévy.
 
Essayiste
Ex: http://www.bvoltaire.fr
 

La récente polémique qui a opposé Michel Onfray et Manuel Valls, si elle a permis que soit mieux connu le nom d’Alain de Benoist – à défaut de son œuvre -, ne nous a pas épargné une énième allusion à l’inénarrable Bernard-Henri Lévy. Cet homme, paraît-il philosophe, dont personne ne goûte ni les livres ni l’imperturbable arrogance de la mise en scène permanente de sa propre vie, est néanmoins parvenu à avoir l’oreille des puissants sans que la chose ne soit explicable rationnellement. Ministre des Affaires étrangères bis sous Nicolas Sarkozy, meneur à ce titre de l’intervention en Libye, désormais doctrinaire quasi officiel du régime socialiste à qui il dicte la conduite politique à tenir, BHL impose et les puissants disposent.

On repense dès lors à Raspoutine qui, durant le règne du tsar Nicolas II, parvint à convaincre la famille impériale qu’il avait non seulement la capacité mais également la volonté de lui venir en aide. D’abord aux bénéfices du tsarévitch Alexis, atteint d’hémophilie, de qui il améliora la santé au point que la mère de l’enfant malade, l’impératrice Alexandra Feodorovna Romanova, vit en lui un saint dont il ne fallait plus se séparer. Puis le guérisseur devint un conseiller, capable d’influencer des décisions régaliennes de Nicolas II, à la grande incompréhension des responsables civils et militaires du régime qui ne comprendront jamais que ce Sibérien hirsute venu de nulle part, ignorant des questions politiques et militaires, ait pu « hypnotiser » l’empereur.

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Si Raspoutine a pu exercer cette incroyable influence, c’est que le couple impérial avait montré les meilleures dispositions. L’impératrice, d’une grande piété et mère apeurée d’un enfant entre la vie et la mort, a trouvé dans ce guérisseur un refuge à toutes ses espérances. Il s’agit de savoir quels arguments BHL a mis en avant pour que les dirigeants de la France aient vu en lui leur source d’inspiration politique et idéologique.

Bernard-Henri Lévy partage avec Raspoutine d’être un conseiller illégitime, c’est-à-dire usant des possibilités d’un prestige acquis sur un malentendu – pour ne pas dire une esbroufe -, afin d’occuper une place où il n’a rien à faire ; là aussi à la grande incompréhension des témoins qui, même s’ils se taisent, ne comprennent pas l’incroyable pouvoir d’un BHL sur une caste politique hypnotisée et docile. Puisque ce pouvoir de séduction ne peut être expliqué ni par ses succès de librairie ni par sa popularité, qui sont pourtant des critères décisifs de nos jours, comment BHL « tient-il » ces dirigeants ? L’impératrice de Russie craignait qu’éloigner Raspoutine, ou ne pas l’écouter, les prive de la protection de Dieu et que de grands malheurs s’ensuivent. Contre quelles déconvenues nos dirigeants se protègent-ils en s’inclinant si pieusement devant la sainte parole de BHL, ce Raspoutine du pauvre ?