dimanche, 10 août 2008
Il simbolismo degli scacchi
Il simbolismo degli scacchi
di Titus Burckhardt
Il simbolismo degli scacchi
Il gioco degli scacchi, come è noto, è originario dell’India. L’Occidente medievale lo ha conosciuto grazie alla mediazione dei Persiani e degli Arabi, come testimonia fra l’altro l’espressione “scacco matto” (in tedesco: Schachmatt) derivante dal persiano shah (re) e dall’arabo mat (è morto). Nel Rinascimento furono cambiate alcune regole del gioco: la regina e i due alfieri (erano in origine elefanti che trasportavano una torre fortificata) acquistarono maggiore mobilità; il gioco divenne più astratto e matematico, e si allontanò dal suo modello concreto (la strategia) senza comunque perdere i tratti essenziali del suo simbolismo.
Nella posizione iniziale dei pezzi, l’antico modello strategico resta evidente; vi si riconoscono le due armate disposte nell’ordine di battaglia in uso presso gli eserciti dell’antico Oriente: le truppe leggere, rappresentate dai pedoni, formano la prima linea, mentre il grosso dell’armata è costituito dalle truppe pesanti, i carri da guerra (le torri), i cavalieri (i cavalli) e gli elefanti da combattimento (gli alfieri); il re e la sua dama - o il suo “consigliere” - si tengono al centro delle truppe. La forma della scacchiera corrisponde al tipo “classico” del Vastu-mandala, il diagramma che costituisce anche il tracciato fondamentale di un tempio o di una città. Tale diagramma è simbolo dell’esistenza, concepita come un “campo d’azione” delle potenze divine. Il combattimento rappresentato dal gioco degli scacchi è dunque figura, nel suo significato più universale, del combattimento dei devas con gli asuras, degli “dei” con i “titani”, o degli “angeli” (i devas della mitologia indù sono infatti analoghi agli angeli delle tradizioni monoteiste) coi “demoni”: tutti gli altri significati del gioco derivano da questo.
La più antica descrizione del gioco degli scacchi che sia giunta fino a noi si trova nelle “Praterie d’Oro” dello storico arabo al-Mas’udi, vissuto a Baghdad nel IX secolo. Al-Mas’udi attribuisce l’invenzione, o la codificazione, del gioco ad un re indù chiamato “Balhit”, discendente di “Barahman”. Vi è qui una confusione evidente fra una casta, quella dei Brahmani, ed una dinastia; ma l’origine brahmanica del gioco degli scacchi è dimostrata dal carattere eminentemente sacerdotale del diagramma a 8 x 8 quadrati (ashtapada). D’altronde, il simbolismo guerriero del gioco si rivolge agli Kshatriyas, la casta dei principi e dei nobili, come del resto è indicato da al-Mas’udi quando egli scrive che gli Indù consideravano il gioco degli scacchi (shatranj) come una “scuola di governo e di difesa”. Il re Balhit avrebbe scritto un libro su questo gioco, di cui “fece una sorta di allegoria dei corpi celesti, come i pianeti e i dodici segni zodiacali, dedicando ogni pedina ad un astro.”. Notiamo che gli Indù contano otto pianeti: il sole, la luna, i cinque pianeti visibili ad occhio nudo e Rahu, l’”astro oscuro” delle eclissi; ognuno di questi “pianeti” domina una delle otto direzioni dello spazio. Continua al-Mas’udi: “Gli Indiani attribuiscono un misterioso significato alla progressione geometrica effettuata sulle caselle della scacchiera; essi stabiliscono un rapporto fra la causa prima, che domina tutte le sfere ed a cui tutto fa capo, e la somma del quadrato delle caselle della scacchiera.”. Qui, l’autore confonde probabilmente il simbolismo ciclico implicito nell’ashtapada con la famosa leggenda secondo la quale l’inventore del gioco chiese al monarca di riempire le caselle della sua scacchiera con dei chicchi di grano, ponendo un solo chicco sulla prima casella, due sulla casella successiva, quattro sulla terza e così via, fino alla 64° casella, ottenendo così un totale di 18446744073709551616 chicchi. Il simbolismo ciclico della scacchiera consiste nel fatto che essa esprime lo sviluppo dello spazio secondo il quaternario e l’ottonario delle direzioni principali (4×4x4=8×8), e che sintetizza, sotto forma “cristallina”, i due grandi cicli complementari del sole e della luna: il duodenario dello Zodiaco e le 28 case lunari; d’altra parte, il numero 64, somma delle caselle della scacchiera, è un sottomultiplo del numero ciclico fondamentale 25920, che misura la processione degli equinozi. Abbiamo visto che ciascuna fase di un ciclo, “fissata” nello schema di 8×8 quadrati, è dominata da un astro e simboleggia al contempo un aspetto divino personificato da un deva (certi testi buddhisti descrivono l’universo come una tavola di 8×8 riquadri, fissati per mezzo di corde d’oro; questi riquadri corrispondono ai 64 kalpas del Buddhismo. Nel Ramayana, la città inespugnabile degli dei, Ayodhya, è descritta come un quadrante avente otto comparti su ciascun lato. Nelle Tradizione cinese, i 64 segni derivanti dagli 8 trigrammi commentati nell’I-King. Questi 64 segni sono generalmente disposti in maniera tale che corrispondono alle otto regioni dello spazio). In tal modo questo mandala rappresenta contemporaneamente il cosmo visibile, il mondo dello Spirito e la Divinità nei suoi molteplici aspetti.
Al-Mas’udi afferma dunque con ragione che gli Indiani spiegano “con dei calcoli” basati sulla scacchiera “il cammino del tempo ed i cicli, le influenze superiori che agiscono su questo mondo ed i legami che le collegano con l’anima umana.”. Il simbolismo ciclico della scacchiera era noto ad Alfonso il Saggio, il celebre trovatore di Castiglia che compose nel 1283 i suoi Libros de Acedrex, opera che s’ispira in gran parte alle fonti orientali. Alfonso il Saggio descrive anche un’antichissima variante del gioco degli scacchi (il “gioco delle quattro stagioni”) che richiede quattro giocatori, così che le pedine, disposte ai quattro angoli della scacchiera, avanzino in un senso rotatorio analogo al movimento del sole. Le 4×8 pedine devono essere di colore verde, rosso, nero e bianco; esse corrispondono ai quattro elementi: aria, fuoco, terra ed acqua, ed ai quattro “umori” organici. Il movimento dei quattro gruppi simboleggia la trasformazione ciclica.
Questo gioco, che richiama stranamente certi riti e certe danze “solari” degli Indiani dell’America settentrionale, mette in evidenza il principio fondamentale della scacchiera. La scacchiera può essere considerata come uno sviluppo di uno schema composto da quattro quadrati alternativamente neri e bianchi, e costituisce di per sé un mandala di Shiva, Dio nel suo aspetto di “trasformatore”: il ritmo quaternario, di cui questo mandala è come la “cristallizzazione” spaziale, esprime il principio del tempo. I quattro quadrati, disposti intorno ad un centro non manifestato, simboleggiano le fasi cardinali di ogni ciclo. L’alternanza delle caselle bianche e nere, in questo schema elementare della scacchiera, ne evidenzia il significato ciclico e ne fa l’equivalente rettangolare del simbolo estremo orientale del yin-yang; essa è un’immagine del mondo visto sotto l’aspetto del suo dualismo intrinseco. Se il mondo sensibile, nel suo dispiegamento integrale, risulta in qualche modo dalla moltiplicazione delle qualità inerenti allo spazio e di quelle del tempo , il Vastu-mandala, dal canto suo, deriva dalla divisione del tempo secondo lo spazio: ricordiamo a questo proposito la genesi del Vastu-mandala a partire dal ciclo celeste indefinito, ciclo diviso dagli assi cardinali e poi “cristallizzato” in una forma rettangolare. Il mandala è dunque il riflesso inverso della sintesi principale dello spazio e del tempo, ed è in ciò che risiede la sua portata ontologica.
D’altra parte, il mondo è “intessuto” delle tre qualità fondamentali o gunas, e il mandala rappresenta questa “tessitura” in modo schematico, conformemente alle direzioni cardinali dello spazio. L’analogia tra il Vastu-mandala e la tessitura è evidenziata dall’alternanza dei colori, che ricorda un tessuto il cui ordito e la cui trama sono alternativamente apparenti o nascosti. L’alternanza del bianco e del nero corrisponde d’altro canto ai due aspetti, in linea di principio complementari ma in pratica opposti, del mandala: questo è da una parte un Purusha-mandala, cioè un simbolo dello Spirito universale (Purusha) in quanto sintesi immutabile e trascendente del cosmo; d’altra parte, esso è un simbolo dell’esistenza (Vastu) considerata come il supporto passivo delle manifestazioni divine. La qualità geometrica del simbolo esprime lo Spirito; la sua estensione puramente quantitativa esprime l’esistenza. Del pari, la sua immutabilità ideale è “spirito”, la sua fissazione limitativa è “esistenza” o materia; nella polarità considerata, quest’ultima non è la materia prima, vergine e generosa, ma la materia secunda tenebrosa e caotica, radice del dualismo esistenziale. Ricordiamo a questo proposito il mito secondo cui il Vastu-mandala rappresenterebbe un asura, personificazione dell’esistenza bruta: i devas hanno sconfitto questo demone, stabilendo le loro “dimore” sul corpo disteso della loro vittima; essi gli imprimono così la loro “forma”, ma è lui che li manifesta (il mandala di 8×8 quadrati è anche detto Manduka, la “rana”, per allusione alla Grande Rana che sostiene tutto l’universo ed è il simbolo della materia indifferenziata e oscura).
Questo doppio senso che caratterizza il Vastu-Purusha-mandala, e che si ritrova, d’altronde, in modo più o meno esplicito, in ogni simbolo, verrà per così dire “attualizzato” dal combattimento che il gioco degli scacchi rappresenta. Questo combattimento, dicevamo, è essenzialmente il conflitto fra devas e asuras, che si disputano la scacchiera del mondo. E’ qui che il simbolismo del bianco e del nero, già contenuto nell’alternanza delle caselle della scacchiera, acquista tutto il suo valore: l’armata bianca è quella della Luce, l’armata nera è quella delle tenebre. Da un punto di vista relativo, la battaglia raffigurata sulla scacchiera rappresenta sia quella di due veri e propri eserciti terreni, ciascuno dei quali combatte in nome di un principio, sia quella dello spirito e delle tenebre nell’uomo (in una guerra santa, è possibile che ciascuno dei due avversari possa legittimamente considerarsi il protagonista della lotta della Luce contro le tenebre. E’ questa un’altra conseguenza del duplice senso di ogni simbolo: quello che per l’uno è espressione dello Spirito, può essere l’immagine della materia tenebrosa agli occhi dell’altro). Sono, queste, le due “guerre sante”: la “piccola guerra santa” e la “grande guerra santa”, secondo un’espressione del Profeta. E’ da notare l’affinità fra il simbolismo del gioco degli scacchi ed il tema della Bhagavad-Gita, il libro parimenti rivolto agli Kshatriyas. Se si traspone il significato dei diversi pezzi del gioco nell’ordine spirituale, il re sarà il cuore o lo spirito e le altre figure saranno le diverse facoltà dell’anima. Le loro mosse corrispondono d’altronde a differenti modalità di realizzazione delle possibilità cosmiche rappresentate dalla scacchiera: vi è il movimento assiale delle “torri” o carri da guerra, il movimento diagonale degli “alfieri” o elefanti, che si spostano su caselle di uno stesso colore, ed il complesso movimento dei cavalieri. Il movimento assiale, che “taglia” attraverso i diversi “colori”, è logico e virile, mentre il movimento diagonale corrisponde ad una continuità “esistenziale”, perciò femminile. Il salto dei cavalieri corrisponde all’intuizione.
Ciò che più affascina l’uomo di casta nobile e guerriera, è la relazione fra volontà e destino. Ora, il gioco degli scacchi illustra proprio questa relazione, in quanto i suoi concatenamenti restano sempre intelligibili senza essere limitati nella loro varietà. Alfonso il Saggio, nel suo libro sul gioco degli scacchi, racconta che un re dell’India volle sapere se il mondo obbedisce all’intelligenza o al caso. Due saggi, suoi consiglieri, fornirono risposte contrastanti e, per provare le rispettive tesi, uno di loro prese come esempio il gioco degli scacchi, in cui l’intelligenza prevale sul caso, mentre l’altro portò dei dadi, immagine della fatalità. Del pari, al Mas’udi scrive che il re “Balhit”, il quale avrebbe codificato il gioco degli scacchi, preferì quest’ultimo al nerd, un gioco d’azzardo, poiché nel primo “l’intelligenza trionfa sempre sull’ignoranza”. Ad ogni fase del gioco, il giocatore è libero di scegliere fra varie possibilità; ma ogni mossa comporterà una serie di conseguenze ineluttabili: la necessità delimiterà vieppiù la libera scelta, facendo sì che il termine del gioco non rappresenti il frutto del caso, bensì il risultato di leggi rigorose. E’ qui che si rivela non soltanto la relazione fra volontà e destino, ma anche fra libertà e conoscenza: prescindendo da eventuali inaccortezze dell’avversario, il giocatore manterrà la propria libertà d’azione nella misura in cui le sue dimensioni coincideranno con la natura stessa del gioco, ovvero con le possibilità che questo implica. In altri termini, la libertà d’azione va in questo caso di pari passo con la preveggenza e con la conoscenza delle possibilità; l’impulso cieco, di contro, per quanto possa apparire libero e spontaneo in un primo momento, si rivela a conti fatti come una non-libertà. L’ “arte regia” sta nel governare il mondo (esteriore o interiore) in conformità con le leggi che gli sono proprie. Questa arte presuppone la sapienza, che è conoscenza delle possibilità; ora, tutte le possibilità sono contenute in sintesi nello Spirito universale e divino. La vera sapienza è l’identificazione più o meno perfetta con lo Spirito (Purusha), simboleggiato dalla qualità geometrica della scacchiera (lo Spirito o il Verbo è la “forma delle forme”, vale a dire il principio formale dell’universo), “sigillo” dell’unità essenziale delle possibilità cosmiche. Lo Spirito è la Verità: nella Verità l’uomo è libero, fuori di essa è schiavo del destino. Questo è l’insegnamento del gioco degli scacchi. Lo Kshatriya che ad esso si dedica non vi trova solo un passatempo, un modo di sublimare la sua passione guerriera e la sua sete d’avventura, ma anche (in proporzione alla sua capacità intellettuale) un supporto speculativo, una via che dall’azione porta verso la contemplazione.
Titus Burckhardt
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R. Vaneigem: "Nous qui désirons sans fin"

Vaneigem: «nous qui désirons sans fin»
Les écrits des auteurs situationnistes bénéficient chez nos amis toujours d'un accueil intéressé surtout depuis que la crise sociale du capitalisme libre-échangiste confirme certaines de leurs prévisions. Le délitement de la société débouchant sur “une nouvelle forme de lutte spontanée: la criminalité”, selon Guy Debord et ce, dès 1968 (voir NdSE n°20), ou sur une crise de l'école sans précédent jusqu'à devenir “une bureaucratie parasitaire destinée à s'effondrer sous le poids de sa propre inutilité”, selon Raoul Vaneigem dans son opuscule Avertissement aux écoliers et lycéens paru l'an dernier (voir NdSE n°16). Voici une lucidité sociale indéniable qu'aujourd'hui monsieur-tout-le-monde peut vérifier dans sa vie quotidienne. Fait significatif: son Avertissement... a joui d'un succès incroyable: plus de 100.000 exemplaires vendus et Guy Debord, lui aussi, n'avait jamais connu une diffusion aussi considérable. Vaneigem, qui avait peu écrit après son ouvrage maître Traité de savoir vivre à l'usage des jeunes générations (1967), semble inspiré par les temps présents puisqu'il enchaîne maintenant succès sur succès.
Ainsi il aura fallu attendre trente ans pour que les prophéties des auteurs situationnistes se révèlent exactes. Debord décédé, il reste à Vaneigem le soin de décrire l'aboutissement de celles-ci. Après son essai sur le système éducatif, il publie Nous qui désirons sans fin, analyse critique de la société marchande en déclin, livre conçu sous forme de brèves analyses et de thèses. L'idée centrale en est que le capitalisme mondial n'est plus qu'un système parasitaire déterminant l'existence d'une bureaucratie où le politique est aux ordres d'une pratique usuraire. Toute l'organisation sociale est ainsi menacée jusque dans sa contestation qui, ne cherchant d'autre solution en dehors de l'économie d'exploitation, se dégrade avec elle.
Cependant ce livre se veut optimiste puisqu'il en appelle à une société vivante vouée à dépasser la nôtre: la réponse est en chacun d'entre nous, dès l'instant où il lui importe avant tout de renaître à ce qu'il y a en lui de plus vivant. Dans ses paragraphes généralement courts, Vaneigem n'arrive pas toujours à éviter des répétitions, ce qui en rend la lecture parfois un peu lassante. Malgré ce défaut de forme, sa démonstration apparaît comme brillante surtout lorsqu'il s'agit de démonter les mécanismes d'un capitalisme spéculatif, qui reste le point fort de l'ouvrage. Alors les aphorismes éclairants jaillissent, criants de vérité, délicieux joyau pour l'esprit, comme:
* «Il a fallu que le libre-échange conquière la terre entière et la désole au nom de sa liberté pour se convaincre dans les faits que l'être humain ne se pouvait confondre totalement avec la marchandise».
* «La désagrégation sociale et le désarroi des mentalités s'accentuent à mesure que le capital se retire lentement et sûrement du secteur de la production».
Presque à chaque instant nous pouvons vérifier le bien fondé de ces affirmations.
Dans une société où la croissance n'avait jamais été aussi importante, générant une production gigantesque de richesse, le travail avait fini par être accepté, la consommation en étant sa consolation. On en vient maintenant à réduire le chômage en produisant des emplois sans nécessité comme s'il importait “aux yeux des gouvernants de fournir un salaire plutôt que d'accorder une aumône”. Créer des emplois parasitaires, tel est le projet de société de ce capitalisme.
Vaneigem décrit alors cet univers étrange, dans lequel nous sommes, avec beaucoup de réalisme: «Une apathie générale consume les individus et les foules dans la corrosion du désenchantement, la morosité du jour qui se lève, une indigne résignation, la rage absurde de révolte sans révolution. Le parasitisme érigé en pratique par une rentabilité prioritaire colporte des comportements d'assistés, déclenche des réflexes d'obédience, remplace le poing sur la gueule par la main qui mendie».
Malheureusement pour lui, ce discours jusqu'ici inégalé vient d'être repris pour le très grand public par la romancière Viviane Forrester dans L'horreur économique, essai, il faut bien le dire verbeux, qui jouit actuellement d'une grande notoriété médiatique. Ses thèses, somme toutes assez banales, dont la finalité est de sauver, par une dernière version sociale-démocrate, la démo-ploutocratie, se trouve confortée par un sondage C.S.A. pour L'événement du jeudi qui révèle des résultats proprement effrayants pour les partisans du système: 31 % des personnes interrogées estiment que le système économique leur inspire de l'horreur, 40 % l'ennuie, 82 % pensent qu'il accroît les inégalités, 70 % pensent que les chefs d'entreprise sont prêts à sacrifier leurs employés au nom de la sacro-sainte rentabilité économique. Face à l'ampleur de la crise sociale que la France est en train de connaître une prise de conscience timide des populations est en train de s'opérer.
Bien entendu, nous partageons également l'analyse de Vaneigem sur la destruction de l'environnement qui le rattacherait plutôt au courant de la deep ecology. Il pense également que la crise pourra engendrer des mouvements de reconversion comme nous pouvons l'observer actuellement dans des mouvements alternatifs tel le S.E.L. Et son appel à un dépassement du religieux, en dehors de toutes les sectes, son attaque à mots couverts contre la célèbre phrase de Malraux («le XXIième siècle sera religieux ou ne sera pas») sont d'un intérêt certain.
Par contre ses développements sur la société vivante, appelée à dépasser la nôtre, sont décevants. Ceci parait malgré tout logique, si l'on prend en considération que la situation actuelle, radicalement nouvelle ne permet absolument pas de deviner ce que sera le monde de demain: une situation à l'albanaise est-elle envisageable chez nous? Alors pourquoi affirmer que “le renouveau de la femme et de l'enfant est l'avenir du monde”?, affirmation qui apparaît ici presque gratuite est surtout bien naïve.
Et puis même si nous souscrivons pleinement à une affirmation comme “Qui prête moins d'attention à ses désirs qu'à son travail ne devrait pas s'étonner qu'il travaille contre lui”. Nous ne sommes quand même pas assez bêtes pour croire à un épanouissement de l'individu par le travail. Seuls les cons n'ont pas encore compris une telle banalité!
Nous ne croyons d'ailleurs pas non plus à un changement de la nature humaine par l'éducation à laquelle Vaneigem semble croire, alors que, pour ma part, je pense que la scolarisation actuelle est déjà surannée. Des études aussi poussées n'ont été acceptées par les enfants des classes modestes justement en contrepartie d'une promotion sociale quasiment impossible à réaliser aujourd'hui, et alors permise par les quelques décennies de grande croissance économique. D'une certaine manière, le désordre actuel est un retour à la situation qui régnait dans les campagnes au XIXième siècle ou les instituteurs avaient le plus grand mal à apprendre à lire à des petits paysans qui préféraient déjà à l'époque garder leurs vaches dans les champs ou jouer à la guerre des boutons: une version traditionnelle du repli sur sa communauté d'origine et du phénomène des bandes ethniques, en quelque sorte. Enfin comme dans son précédent ouvrage, Vaneigem fait une impasse totale sur le rôle fondamental que jouent les médias dans le système qu'il dénonce.
Alors je me suis dit, en voyant les piles de bouquins empilés de Vaneigem sur le rayon “sociologie” d'une FNAC, que les écrits des vrais rebelles, ceux qui veulent une véritable alternative au système, ne sont disponibles ni dans les kiosques, ni dans les librairies, temples de ce monde de la culture marchande et dont par conséquent les marchandises doivent le plus souvent chanter les louanges, sauf exceptions rarissimes. Nous, à “Synergies”, sommes de véritables auteurs de samizdats et c'est là notre fierté et notre force.
En définitive, il s'agit donc là d'un livre à aborder en ayant à l'esprit le fait que cette pensée démystifie en partie le sens du progrès propre au judéo-christianisme et à ses avatars libéraux et marxistes. Dans cette optique, Vaneigem marche dans les pas laissés par Nietzsche, Guénon ou Cioran: c'est ce qui nous intéresse dans sa pensée.
Pascal GARNIER.
Raoul VANEIGEM, Nous qui désirons sans fin, Paris, Le Cherche-Midi éditeur, 1996, Collection “amor fati”, 189 p., 98 FF.
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samedi, 09 août 2008
M. Déat: Ein Plansozialist in der Kollaboration

Marcel Déat: ein Plansozialist in der Kollaboration
Analyse: Reinhold BRENDER, Kollaboration in Frankreich im Zweiten Weltkrieg. Marcel Déat und das Rassemblement National Populaire, Oldenbourg, München, 1992, 228 S., DM 78, ISBN 3-486-55895-1.
Marcel Déat endete seine politische Karriere als “Faschist”. Aber als “Faschist” war er nicht typisch. Philosoph und Soziolog, Lehrer in einem Pariser Eliten-Gymnasium, Theoretiker der neuen Strömungen in der Soziologie, war auch Déat ein sozialistischer Aktivist. Sehr früh stellte er fest, daß der konventionnelle Sozialismus Frankreichs in einer Sackgasse geirrt war. Parteien, Verbände und Gewerkschaften hatten sich, wie schon Michels feststellte, verbonzt, verbürgerlicht und verkalkt. Mit seinem philosophischen Klarblick versuchte Déat in den Jahren 30, den Sozialismus zu erneuern. Der “néo-socialisme” wurde eine neue Partei (1933-1936), die leider politisch scheiterte.
Quelle der Inspiration war für Déat der “Planismus” des belgischen Sozialistenleiter Hendrik De Man. Nach einer ganzen Reihe hochintellektueller Seminare in Kloster von Pontigny, lehnte doch die Gewerkschaft SFIO den neosozialistischen Planismus ab. Déat wurde tief enttäuscht, sowie seiner Genosse De Man in Brüssel. Da liegt der Hauptgrund ihres späteren kollaborationistischen Engagements. Beide Altkämpfer der europäischen Sozialdemokratie versuchten dann ihre erneuerenden Ideen mit den deutschen Nationalsozialisten zu verwirklichen. Auch das scheiterte. Déat engagierte sich auch für den Frieden. Genauso wie Hendrik De Man, wollte Déat keinen neuen Krieg in Europa. Deshalb entwickelte er eine “außenpolitische Konzessionsbereitschaft”, die mit einer “Innenpolitischen Neuorientierung” gepaart wurde.
Diese “innenpolitische Neuorientierung” mußte in den Augen des sozialistischen Patrioten Déat die französische Nation stärken. Die déatistische Zeitschrift Redressement schlug folgende Politik vor: sich von antikapitalistischen Tendenzen in Italien und Deutschland inspirieren, damit die französische Wirtschaft ohne zerstörende und unnötige Klassenstreitereien genesen und sich weiter entwickeln konnte. Mit einer starken Wirtschaft, einer sozialen Sicherheit und dem innenpolitischen Frieden konnte auch einen europäischen Krieg vermeiden werden. Nach 1940, schlug Déat die Gründung einer Einheitspartei vor, um das Programm des Vorkriegsneosozialismus zu realisieren. Er stoß bei anderen kollaborationnistichen Verbänden auf Widerstand. Nichtdestoweniger gründete er seinen “Rassemblement National-Populaire”, wo die meisten Kaderleute aus den Gewerkschaften kamen. Der Engagement für die deutschfreundliche Kollaboration bedeutete keinesfalls ein Schwung nach rechts.
Im Gegenteil schlugen Déats Kameraden Albertini und Zoretti eine “Orientierung nach links” und den Aufbau eines “sozialistischen Frankreichs” vor. Brenders Studie enthält auch eine Übersicht der Ideologie des RNPs: Integration in das “neue Europa”, neue innereuropäischen solidären Perspektiven in der Außenpolitik, eine Re-Organisation der Wirtschaft, die Kreation eines “neuen Menschen” (ausgesprochen ein Ideal von links!), die Einführung in Frankreich der Idee einer Volksgemeinschaft (“communauté populaire”). Brender analysiert auch die Schwächen des französischen “Faschismus”, vergleicht die Kollaboration in Frankreich und im übrigen Europa, erklärt wie das NS-Deutschland die Kollaboration konzipierte. Im Anhang findet der Leser eine Tabelle der Kollaborationsparteien und eine Karte zur geographischen Verbreitung der Kollaborationsparteien in Frankreich 1940-1944.
Fazit: die Lektüre dieses streng wissenschaftlichen Buches erlaubt uns, die Kollaboration von links zu verstehen. Die Zusammenarbeit mit den NS-deutschen Besatzer ist nicht nur Sache der konservativen, katholischen oder rechten Kräfte (Pétain und sein Vichy-Regime oder die altkatholischen Elemente im wallonischen Rexismus, usw.), wie es die konformistische antifa-Geschichtsschreibung ständig wiederholt, sondern auch der progressistischen Linken. Die Enttäuschungen der Vorkriegszeit, wo die jungen Kräfte des französischen Sozialismus von den korrupten Bonzen nicht au sérieux genommen wurden, haben in diesem bitteren Engagement zur deutschen Seite eine erhebliche Rolle gespielt. Brender erklärt uns meisterlich dieses Prozeß. Nebenbei sei auch erwähnt, daß De Gaulle teilweise von der Soziologie Déats beeinflußt wurde und daß Déats Genosse Albertini eine schöne Karriere im Nachkriegsfrankreich gemacht hat. Er leitete den “Institut Occidental” und ist heutzutage noch die Hauptreferenz für die französischen Universitäts-Studenten, die die Geschichte des Wirtschaftsdenken studieren. Albertini klassifizierte nämlich die Strömungen des Wirtschaftsdenkens in orthodoxen Strömungen (Liberalen, Manchester-Liberalen, Marxisten, sozial-demokratische Keynes-Anhänger) und heterodoxen Strömungen (Vitalisten, Ökonomen, die von der Lebensphilosophie beeinflußt wurden, die deutsche “historische Schulen”, Institutionalisten, Schumpeter-Schüler). Nonkonformisten und Vorfechter jeder Form eines Dritten Weges sind in diesem Sinn “Heterodoxen”. “Heterodoxen” lehnen den abstrakten Ökonomismus ab und behaupten, die Wirtschaft sei nicht nur von wirtschaftlichen Kategorien geprägt sondern hängt auch von historischen Kontexten und Traditionen ab. Albertini ist Déats Erbe auf höchstem Niveau in der französichen Politologie (Robert STEUCKERS).
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Sur Ion Antonescu

Erich KÖRNER-LAKATOS:
Ion Antonescu, Maréchal et Conducator
Quelques jours après le deuxième arbitrage de Vienne (30 août 1940), qui règlait les contentieux entre la Hongrie et la Roumanie sous la houlette de von Ribbentrop, des troubles éclatent à Bucarest. En effet, les Roumains sont consternés: sans qu’un seul coup de fusil n’ait été tiré, la Bessarabie, le Nord de la Boukovine et la moitié de la Transylvanie ont été perdus et on s’attend à la perte du Sud de la Dobroudja. La Grande Roumanie de 1918, voulue par les Français à Versailles, s’est tout bonnement effritée. La colère du peuple se tourne d’abord contre le roi et contre sa maîtresse, Madame Lupescu. Le roi ne sait quelle décision prendre. Le conseil de la Couronne se réunit en permanence. C’est alors qu’un général se présente au Château royal: il s’appelle Ion Antonescu. L’officier vient d’un cloître éloigné de Bistritza, où le souverain l’a fait interner. La résidence royale devient subitement le lieu d’un affrontement. Antonescu évoque l’état d’esprit qui règne au sein du peuple et des forces armées et force le roi à se contenter d’un rôle purement représentatif. Le monarque appelle alors le commandant de sa garde. Il lui pose la question: ses soldats sont-ils prêts à tirer sur les manifestants? Le commandeur des prétoriens roumains répond par la négative.
Carol II ne voit dès lors pas d’autre issue: sur l’heure, en ce 4 septembre 1940, il nomme Antonescu Premier Ministre. Après avoir reçu la promesse de pouvoir quitter le pays sain et sauf, le roi abdique, s’en va au Portugal, pays généralement choisi par beaucoup d’exilés à l’époque. Son successeur est son fils Mihail, qui cède au nouvel homme fort de la Roumanie bon nombre de ses prérogatives royales: il n’en gardera que cinq.
Qui est donc cet homme qui veut sortir son pays de la crise, d’une main de fer? Ion Antonescu est le fils d’une ancienne famille d’officiers. Il est né le 15 juin 1882 à Pitesti en Valachie, dans le pays vallonné, semi-montagneux, qui annonce les Carpathes du Sud. Avec le grade de major, il s’était distingué pendant la première guerre mondiale. Après la Grande Guerre, par des coups de hussard, il lutte victorieusement contre la république communiste des Conseils hongrois, ce qui lui vaut un avancement rapide. Sous le règne de Carol II, en 1933, il accède au poste de chef d’état-major. Antonescu se jette avec fougue dans sa nouvelle mission mais ses projets déplaisent au monarque. Antonescu démissionne au bout d’un an. En 1937, il assume brièvement la charge de ministre de la défense. Ce poste de ministre n’est qu’une fausse promotion car le général n’est guère apprécié du roi et de la camarilla de la cour: il a des manières trop ouvertes, un style direct et surtout il mène une vie d’ascète. Pour les gens simples, Antonescu incarne le contraire diamétral de ce que représente à leurs yeux la caste dominante roumaine de Bucarest, francophile et aux moeurs dépravées, dont le symbole était le roi Ferdinand, plus tard Carol, alcoolique notoire. Les cercles dominants du “Paris de l’Est” se complaisaient dans le clinquant d’une “victoire” fictive lors de la première guerre mondiale. Le gouvernement avait fait édifier un arc de triomphe dans la capitale.
Après cette parenthèse, le nouveau chef d’Etat (le “Conducatorul al Statului”) se met énergiquement au travail. Un jour seulement après son entrée en fonction, les négociateurs roumains signent le Traité de Craiova qui sanctionne la rétrocession de la Dobroudja méridionale à la Bulgarie. En échange, les Roumains obtiennent ce qu’ils voulaient par ailleurs: que Berlin et Rome garantissent l’intangibilité de leurs nouvelles frontières. Sur le plan de la politique intérieure, Antonescu innove également. Il appelle plusieurs représentants de la fameuse Garde de Fer dans les cabinets ministériels. Le chef des gardistes roumains, Horia Sima, devient son représentant, son substitut. Le nouveau gouvernement demande à Berlin une aide substantielle pour réorganiser l’armée roumaine. Les Allemands ne se le font pas demander deux fois car ils songent surtout au pétrole de Ploesti. Le 15 septembre, le Général Kurt von Tippelskirch arrive à Bucarest. Des troupes composées d’instructeurs le suivent très rapidement: en tout, 20.000 hommes. Le calcul d’Antonescu est clair: il veut récupérer les régions perdues, en montrant une loyauté exemplaire à l’égard d’Adolf Hitler. A la fin du mois d’octobre 1940, les Soviétiques occupent trois îles dans le delta du Danube, acte qui soude littéralement Bucarest à Berlin. La réponse à la provocation soviétique est simple: la Roumanie adhère immédiatement au Pacte des Trois Puissances (ou l’Axe Berlin-Rome-Tokyo).
A la fin du mois de mai 1941, les troupes allemands commencent à se déployer le long de la Moldava, où, dans le cadre d’une mobilisation cachée, stationnent déjà quinze divisions roumaines. Au début de l’Opération Barbarossa, 200.000 soldats de l’infanterie allemande se trouvent sur le sol roumain. Le 12 juin 1941, Antonescu rencontre Hitler. Celui-ci l’informe de l’imminence de la guerre à l’Est. Le Chancelier du Reich est séduit par ce général aux arguments clairs, aux discours sans fioritures inutiles et lui offre aussitôt le commandement de toutes les unités de l’aile droite du futur front de l’Est. Ce “Groupe d’armées Antonescu” comprend la 11ème Armée allemande et les 3ème et 4ème armées roumaines. Le matin du 22 juin fatidique, Antonescu part immédiatement pour le front, dans un train spécial. Les Roumains étaient déjà en train de consolider des têtes de pont sur la rive orientale du Prouth. Le 26 juin, des appareils soviétiques bombardent Bucarest, la zone pétrolifère de Ploesti et le port de Constanza sur la Mer Noire.
Le Conducator devint rapidement le terreur des états-majors. Il harangue ses troupes, veille à ce qu’elles soient parfaitement approvisionnées. Les soldats l’adorent: sans peur, le Général vient leur rendre visite sous le feu de l’ennemi dans les tranchées les plus exposées du front. Au départ, le “Groupe d’armées Antonescu” avait reçu pour mission de protéger la Roumanie contre toute attaque soviétique vers le Danube. Mais au bout d’une semaine, ce groupe d’armées s’élance à l’attaque, avec succès car, le 26 juillet, il prend la ville d’Akkerman (ou, en roumain, “Getatea-Alba”) sur le cours inférieur du Dniestr, qui redevient roumaine, comme toute la Bessarabie et le Nord de la Boukovine. La population acclame les troupes roumaines libératrices. Le 6 août 1941, Antonescu est le premier étranger à recevoir la Croix allemande de Chevalier; deux semaines plus tard, le roi le nomme Maréchal de Roumanie. Après avoir atteint le fleuve-frontière qu’est le Dniestr, Antonescu renonce à ses fonctions de commandant de groupe d’armées et retourne à Bucarest. Beaucoup pensent qu’avec la reconquête de la Bessarabie, que Moscou avait obtenue en faisant pression sur la Roumanie, la guerre est finie. Le jeune roi Mihail déclare: “Nous devons rester sur le Dniestr. Entrer en Russie signifierait agir à l’encontre de la volonté du pays”. Mais personne ne l’écoute.
Antonescu prend alors une décision qui sera lourde de conséquence: il croit aux vertus de la Blitzkrieg, de la guerre-éclair, et fait marcher les troupes roumaines dans la région qui s’étend immédiatement au-delà de la rive orientale du Dniestr. Les Roumains l’annexent sous le nom de Transnistrie. Lors de la prise d’Odessa, les difficultés surviennent: la ville ne capitule qu’au bout de deux mois et les Roumains ont dû faire appel à l’aide allemande. En décembre 1941, le Reich demande à ses alliés de participer plus activement à la consolidation du front oriental. Antonescu, sans broncher, renforce ses contingents, dans l’idée de récupérer bientôt le nord de la Transylvanie, devenu hongrois. Vingt-six divisions de l’armée royale roumaine garnissent désormais le flanc sud du front de l’Est. Vers la fin de l’année 1942, la fortune des armes change de camp. Le 19 novembre 1942, les Soviétiques amorcent une grande offensive vers le Don, ce qui conduit à l’effondrement de la 3ème armée roumaine. En même temps, l’Armée Rouge annihile la 4ème armée dans la steppe des Kalmoucks.
Au début de l’année 1943, le Maréchal Antonescu est pris entre deux feux. Les pertes énormes en hommes font que le roi se met à douter de son Premier Ministre. Par ailleurs, lors d’une rencontre, Hitler le morigène cruellement. Dans une atmosphère de glace, où la conversation est menée debout, l’Allemand le rend responsable du désastre sur le Don et à Stalingrad. Au printemps, Antonescu envoie des négociateurs pour traiter avec les alliés occidentaux. A la mi-mai, ces négociations sont rompues parce que les conditions imposées parl es Anglo-Américains sont trop dures. “Nolens volens”, Antonescu est contraint de poursuivre le combat dans le camp de l’Axe. Neuf mois plus tard, les troupes soviétiques s’approchent des frontières roumaines. Dans le royaume, on décrète la mobilisation générale. Le “Groupe d’Armées d’Ukraine méridionale”, commandé par le Colonel-Général Hans Friessner compte à l’été 1944 un million de soldats.
Le 20 août, les feux de l’enfer se déchaînent. Après une préparation d’artillerie qui a duré des heures, où les Soviétiques lancent des milliers et des milliers de fusées “Katiouchka”, les blindés de Staline se taillent une brèche dans le front. Deux jours après, Antonescu se présente chez Freissner, qui commence par lui servir un bon verre de vin, avant de lui annoncer que l’effondrement menace, est imminent. Le roi, à son tour, passe à l’action, et ordonne au Prince Stirbey, chef de la délégation roumaine qui négocie au Caire, d’accepter les conditions draconiennes imposées par les Alliés pour un armistice. C’est alors que se répèta un scénario sembable à celui qui eut lieu à Rome un an plus tôt: le souverain convoque Antonescu au palais l’après-midi du 23 août; lors de l’audience, des officiers affidés au roi s’emparent de la personne du Maréchal.
Le nouveau Premier Ministre est le Colonel-Général Constantin Sanatescu. A vingt-deux heures, à la fin de cette journée de tumultes, les Roumains entendent la voix de leur roi à la radio: “la dictature a pris fin et ainsi toute forme d’oppression”. Le gouvernement Sanatescu rompt le lendemain toutes les relations avec Berlin et déclare la guerre à l’Allemagne le 25 août.
Ion Antonescu et ses plus proches collaborateurs sont alors aux mains des communistes roumains, actifs dans la clandestinité; ils livrent leurs prisonniers aux Soviétiques. Après deux ans d’emprisonnement en Union Soviétique, l’ancien Premier Ministre roumain revient à Bucarest. Un procès pour crimes de guerre s’organise, qui se termine par une sentence de mort comme l’avaient exigé les Soviétiques. Tôt le matin du 1 juillet, on amena le Maréchal dans la cour de la prison militaire de Bucarest-Jilava. Ce furent les dernières minutes de la vie de Ion Antonescu.
Erich KÖRNER-LAKATOS.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°32/2006; trad. franç.: Robert Steuckers).
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vendredi, 08 août 2008
Du symbolisme de la couleur safran en Inde

Karlheinz WEISSMANN:
Du symbolisme de la couleur safran en Inde
Les productions de “Bollywood” bénéficient depuis un petit temps déjà d’un engouement certain en Occident. Mais cet intérêt intellectuel n’est pas exempt d’une ironie un peu grinçante: on se moque de ce cinéma indien quand il aborde des thèmes que les Indiens prennent au sérieux, thèmes que l’on juge “dépassé” dans cet Occident qui allie permissivité et progressisme. Raison pour laquelle, il s’avèrera intéressant d’observer quelles réactions suscitera une nouvelle série intitulée “La couleur safran” dans les cinémas allemands. La série traite d’un aspect fort peu connu de la lutte indienne pour la liberté contre la domination coloniale britannique, d’une part, et de l’ampleur de la corruption et de l’arbitraire politique en Inde à l’heure actuelle, d’autre part. “La couleur safran” symbolise dès lors la nostalgie que cultive le peuple indien pour l’autonomie sociale et politique et pour la préservation de ses héritages.
L’Inde est restée jusque aujourd’hui le principal producteur de safran, avec l’Arabie Saoudite et le Maroc. Cette plante, dans la tradition, n’a pas qu’une signification pratique, elle est aussi un symbole. Cet honneur qu’on lui réserve dérive certes de sa rareté et de sa grande valeur; elle était déjà connue et appréciée dans les grandes cultures de l’antiquité, y compris dans l’espace méditerranéen. C’était un produit typique de l’Asie.
La rareté, et donc la cherté, du safran explique pourquoi on ne l’utilise en grande quantité qu’à des occasions exceptionnelles et lors d’importantes cérémonies. Lors de certaines fêtes, les femmes indiennes remplacent la marque qu’elles portent généralement sur le front par une marque de couleur safran. Le riz est de cette couleur lors des repas de mariage ou lors des fêtes données en l’honneur des dieux. Seuls les dieux disposent du safran en abondance, ce qui explique pourquoi les dieux du panthéon hindou sont souvent représentés avec une peau de couleur safran. Ceux qui se rapprochent d’eux, surtout les ascètes sadhous, peuvent porter des robes de cette couleur divine. C’est cette tradition vestimentaire que les moines bouddhistes et les Sikhs ont repris à leur compte pour leurs effets traditionnels.
La couleur safran demeure néanmoins une couleur propre aux cultes hindous. Sur le drapeau national indien, la bande supérieure est de couleur safran et y représente la religion dominante de l’Union Indienne. Le blanc du drapeau est la couleur des bouddhistes et le vert celle des Musulmans. Les rapports entre ces trois grandes religions ont toujours été tendus. Beaucoup d’Hindous pensent aujourd’hui que l’Inde devrait être un “Hindustan”, car seule la tradition immémoriale aryenne devrait guider la marche de la nation. D’après les protagonistes les plus radicaux de cette vision, tout véritable Indien devrait suivre les préceptes de la religion héritée des ancêtres.
Des groupes militants tels le “Shiv Sena”, l’ “Armée de Shiva”, argumentent de la sorte. On considère en Inde que leurs adeptes forment les “brigades safran” car ils défilent en portant des vêtements variant du jaune à l’orange, derrière des fanions consacrés aux dieux, également de couleur safran ou rouge. Ces fanions étaient déjà mentionnés dans le Bhagavadgita: aujourd’hui, on les orne de svastikas ou du signe désignant la syllabe sacrée “Om”, comme sur les temples. Certaines de ces formations militantes sont armées et leurs adversaires les désignent comme les “fascistes en safran”. On les accuse de perpétrer des attentats contre les Musulmans et les Chrétiens et de détruire des locaux ou des bâtiments appartenant à des adeptes de ces religions. Sur le long terme, ces actes de violence sont bien moins importants que le mouvement de fond qui “safranise” l’Inde, qui compénètre toute la société et que véhiculent ces groupes de militants hindouistes. Cet ensemble est coordonné par le “Sangh Parivar”, terme qui veut plus ou moins dire “la communauté nationale de tous les Hindous”, une organisation qui chapeaute un grand nombre de groupes et de formations et qui a été fondée en 1925 déjà, du temps de la colonisation britannique. Son influence croissante aujourd’hui s’explique parce qu’elle reçoit désormais l’appui et la protection du BJP au pouvoir (ou “Bharatiya Janata Party”). Le BJP, parti populaire hindou, s’est développé depuis que le Parti du Congrès a perdu de son influence; il est devenu la principale force politique à l’intérieur de l’Union Indienne. La croissance du BJP ne s’est pas soldée uniquement par un changement de parti au pouvoir mais surtout par une remise en question du concept de nation que Nehru et les autres chefs du Parti du Congrès avaient voulu promouvoir depuis l’indépendance de l’Inde.
La “couleur safran” ne symbolise donc pas l’Inde en tant que concept géographique, territorial, en tant qu’entité étatique, mais indique une revendication identitaire portée par la religion et la culture, capable d’une virulence explosive.
Karlheinz WEISSMANN.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°31-32/2006; trad. franç.: Robert Steuckers).
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Le Livre celtique des jours...

Le Livre celtique des jours...
Analyse: Caitlín MATTHEWS, The Celtic Book of Days. A Celebration of Celtic Wisdom, Godsfield Press Ltd, New Alresford, 1995, 128 p. (format: 233 mm x 210 mm), nombreuses ill., ISBN 1-899434-10-0.
Dans cet ouvrage richement illustré, Caitlín Matthews nous offre un livre familial, destiné à être lu jour après jour, à accompagner la maisonnée tout au long du cycle cosmique qui se répète chaque année. Elle explique la fascination récente pour l'héritage mythologique et cosmogonique celtique par la présence dans ces traditions d'un cycle annuel bien clair. La succession des rythmes saisonniers (samhain, imbolc, beltane et lughnasadh) est ponctuée par des fêtes et des célébrations qui sont autant de moyens de découvrir et sa propre personnalité et une spiritualité transpersonnelle, indiquant à la personne sa localisation transindividuelle.
Nous sommes hommes et personnes, nous avons notre spécificité inaliénable, certes, mais nous n'en sommes pas moins imbriqués dans les cycles de la planète Terre qui échappent à notre contrôle, nous sommes nourris par ses éléments, par les végétaux et les animaux qui y poussent, y croissent ou y gambadent. Suivre un cycle cosmique à travers le jeu de célébrations cultuelles, c'est apprendre chaque jour une leçon, entrevoir directement ce que sont les rythmes de la Terre , découvrir l'immense et inextricable réseau qu'est la vie, avec sa multiplicité inépuisable, irréductible à des schémas unitaires ou simplificateurs. Chacune des grandes fêtes celtiques (samhain, imbolc, beltane et lughnasadh) sont des “portes” initiatiques qui introduisent à une même réalité tout à la fois identique et mouvante, affichant des facettes changeantes de couleurs, de lumières et d'obscurité, qui finiront par retrouver les tons et tonalités qu'elles viennent de perdre, par l'effet d'un éternel retour, d'un cycle cosmique, fondement inamovible du réel.
Ainsi, la fête du samhain est une période qui débute quand les travaux agricoles ont cessé, que les mesures pratiques de la communauté pour affronter l'hiver ont été prises: c'est alors que cette communauté recommunique avec ses ancêtres disparus et s'adonne à l'introspection; la fête d'imbolc célèbre les émergences, les bourgeonnements, l'innocence primale; la fête de beltane inaugure la période de créativité et de forte expression; la fête de la lughnasadh exprime la maturité et la consolidation des acquis. Numineusement parlant, chacune de ses facettes du réel tellurique n'est-elle pas marquée par des rythmes et des forces différentes, que l'on honore par des fêtes et cultes différents, rendant hommage à des forces, tantôt ascendantes tantôt déclinantes? Vouloir ne célébrer que telle ou telle fête, la maturité plutôt que l'introspection, le bourgeonnement plutôt que la forte expression, etc. est une mutilation de la personnalité qui, quoi qu'on fasse, a toujours été et l'une et l'autre à un moment de son existence et deviendra et l'une ou l'autre dans le futur.
Caitlín Matthews explique les raisons qui l'ont poussée à rédiger et à recomposer cet almanach celtique (plutôt celtique-insulaire) des jours et des semaines: «Les facteurs [naturels] qui nous relient à nos ancêtres celtiques sont les territoires sur lesquels ils ont vécu et qui nous donnent notre sens du lieu; ce sont les traditions qu'ils ont pratiquées qui nous donnent aussi notre sens du lieu; et puis, il y a les saisons qui nous relient à eux au-delà de fort nombreuses strates temporelles. Pour beaucoup de gens qui liront notre livre dans d'autres parties du monde, seuls le sens de l'espace et le sens du temps seront pertinents, car ils habitent un site différent qui possède sa propre sagesse». Caitlín Matthews jette les bases les plus simples et les plus solides d'une religion qui relie vraiment parce qu'elle lie au sol, à un sol particulier. Et l'instrument le plus commode pour restaurer cette religiosité immémoriale —dans un monde marqué par les fausses religions de l'éradication obsessionnelle et de l'acharnement “linéariste” contre toutes les expressions cycliques— est l'almanach, compagnon de tous nos ancêtres depuis la disparition de la tradition orale. Caitlín Matthews nous en a composé un très beau. Il faut la remercier.
Kevin McCearnnok.
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jeudi, 07 août 2008
Intervista a G. Sessa su "Il Barone e la generazione '78"

di Marco Cossu
Uno come Giovanni Sessa è facile annoverarlo nella schiera dei giovani delusi dal Movimento sociale italiano negli anni Settanta… e infatti "poi mi sono avvicinato ai gruppi che nascevano ai margini e al-di-fuori dell'ambiente strettamente legato al Msi: per esempio, nel periodo universitario ero vicino a Lotta popolare (movimento attivo soprattutto a Roma tra il 1974 e il 1976 guidato da Paolo Sgrò, Carlo Alberto Guida e Paolo Signorelli, N.d.R.)"
Lei come è arrivato ad Evola?
Il mio interesse per Evola è nato dalle discussioni che una volta si tenevano nelle sedi dei partiti - nella fattispecie il Msi. Il primo libro, Rivolta contro il mondo moderno, lo lessi a 15 anni; nel periodo universitario ho conosciuto l'Evola filosofo in senso stretto: Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e Fenomenologia dell'individuo assoluto… che proprio in quegli anni venivano ripubblicati dalle Edizioni Mediterranee. Va considerato che la mia lettura di Evola si sviluppa soprattutto negli anni Settanta, che dal punto di vista editoriale sono gli anni del maggior successo: sia perché c'era un movimento giovanile molto sensibile alle tematiche evoliane, sia perché Evola rappresentava l'unico autore che aveva dato una visione a tuttotondo di un uomo "altro" rispetto a quello che la situazione culturale dell'epoca proponeva.
Come era visto Evola nell'ambiente della destra giovanile?
Era un punto di riferimento assai importante… almeno per quei giovani che facevano della propria scelta politica una scelta di vita e non soltanto una scelta partitica. In quegli anni maturò anche un progetto critico nei confronti di Evola: negli ambienti della cosiddetta Nuova destra - non tanto in quella francese quanto quella italiana, che faceva riferimento a Marco Tarchi - nacque l'idea di come la deriva di un tradizionalismo di tipo dogmatico avesse portato questo ambiente ad una sorta di paralisi politica. In questo senso molti cominciarono a guardare con interesse più all'Evola filosofo in senso stretto e non al tradizionalismo… al quale peraltro Evola giunge più tardi, attraverso René Guénon.
Evola è ancora oggi uno degli autori più letti dai giovani di destra, tuttavia vi è una sorta di demonizzazione nei suoi confronti. Perché?
C'è una duplice ragione: da un lato un'incapacità degli ambienti evoliani di rendere Evola per quello che effettivamente è stato, dall'altro una sorta di congiura politica di coloro che invece dovrebbero ascoltarlo. Non credo che Evola sia letto soltanto dai giovani di destra; soprattutto l'artista d'avanguardia e il filosofo, è un Evola apprezzato anche a sinistra… sia per alcune pubblicazioni che lo hanno fatto conoscere meglio, sia per l'interesse accademico che prima non c'era. Credo che Evola possa interessare tutti coloro che sono critici rispetto allo stato delle cose contemporaneo, quindi è chiaro che anche un giovane di sinistra può essere interessato ad Evola.
Però c'è ancora una pregiudiziale antifascista…
Evola è qualcosa molto di più del fascismo. Lo si può collocare probabilmente all'interno di quel vasto movimento di pensiero a volte impropriamente definito "rivoluzione conservatrice", quindi al fianco di altri pensatori che come lui hanno lambito ambienti del fascismo ma non sono definibili fascisti in senso stretto. Probabilmente Evola da un punto di vista esistenziale non era né fascista né antifascista, era un a-fascista rispetto al regime.
Molti hanno accostato Cavalcare la tigre al terrorismo di destra…
Per quello che hanno fatto i presunti o reali terroristi di destra, non può essere certo accusato Evola. Le distanze che egli prese dalle cosiddette interpretazioni nazimaoiste sono state molto chiare. Se qualcuno ha pensato di realizzare il pensiero evoliano con atti di terrorismo, credo si sia fortemente sbagliato.
Se un evoliano fosse presidente dell'Unione europea, cosa farebbe?
Certamente stilare un manifesto che metta in luce come gli aspetti economicistici e monetaristici fini a se stessi non abbiano nulla a che fare con l'Europa. Avrebbe qualcosa da ridire anche sulle radici cristiane: per un evoliano la vera tradizione europea è quella pre-cristiana.
Cosa possono recepire i giovani del XXI secolo del messaggio evoliano?
Dovrebbero recepirlo come un richiamo a realizzare nelle condizioni storiche attuali quello che chiamiamo Tradizione, che in Evola di fatto vive nell'"individuo assoluto". Non certamente come un tentativo di volgersi con lo sguardo semplicemente al passato ma come un'incitazione a realizzare nel presente queste realtà. Attraverso una loro personale valorizzazione… perché Evola parla ai singoli, parla alle coscienze dei singoli perché questi agiscano poi politicamente. Evola è un autore che può parlare ancora oggi a tutti.
Giovanni Sessa è docente di Storia delle Idee all'Università degli Studi di Cassino ( n.d.r. )
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Révolution conservatrice et "fondamentalisme esthétique"

Révolution conservatrice et "fondamentalisme esthétique"
Qu'est-ce que le “fondamentalisme esthétique”? Il convient de répondre d'emblée à cette question, pour comprendre ce que l'on entend par là. Le “fondamentalisme esthétique”, d'après Stefan Breuer, est une attitude d'opposition contre la culture et la technique modernes, c'est une critique pure et dure de la civilisation. En ce sens, il est part intégrante d'une tradition intellectuelle qui n'a pas cessé d'être active depuis le romantisme jusqu'aux critiques contemporaines du “pan-technicisme”. Le “fondamentalisme esthétique” a connu son apogée entre 1890 et 1910. Dans son livre consacré à ce filon de l'histoire intellectuelle allemande, Breuer aborde surtout les auteurs de cette époque.
Au centre de son enquête figurent essentiellement le poète Stefan George et sa revue Blätter für die Kunst. Ensuite, il aborde d'autres personnalités importantes et d'autres cercles de la fin du XIXième et du début du XXième: Hugo von Hofmannsthal, les “Cosmiques”, le philosophe-écologue Ludwig Klages, le “théoricien de la sagesse” Georg Simmel et l'“anti-roi” par rapport à George, Rudolf Borchardt, pour n'en citer que quelques-uns. Breuer analyse la personnalité des “maîtres” et des “disciplnes” et examine les structures de domination qui en découlent, de même que l'impact extérieur de ces groupes.
Au centre de cette enquête, nous trouvons un questionnement sur la signification politique de ces poètes et penseurs. Breuer lui-même souligne qu'il serait faux de voir dans ce “fondamentalisme esthétique” un courant parallèle à la “révolution conservatrice”. Hugo von Hofmannsthal a certes forgé le concept de “révolution conservatrice”, mais il entendait par là un “conservatisme culturel” dirigé contre la civilisation moderne, c'est-à-dire quelque chose “de totalement différent du néo-nationalisme qui opérait sous la même étiquette” et qui “rien que pour mener jusqu'au bout sa politique d'expansion devait exploiter à fond les atouts de la civilisation moderne” (p. 5). Les “esthètes fondamentaux” de ce conservatisme n'ont dès lors pas été en 1914 des adeptes du patriotisme belliciste, car des “esprits pertinents comme George ou Klages ne se sont jamais fait d'illusion: cette guerre allait être menée avec les moyens de la civilisation et même dans le cas d'une victoire improbable de l'Allemagne, la question fondamentale n'aurait pas reçu de réponse décisive: que faire de la civilisation et de ses effets dans notre pays même...?” (p. 212).
Nous avons donc affaire à des esthètes conservateurs, dont l'hostilité à la modernité doit éveiller l'attention des écologistes. La vision du monde de Klages représente en effet un fondamentalisme écologique radical et tout-à-fait pur, souligne Breuer: «Pour Klages, les choses étaient claires: les sciences exactes, et l'idée de “progrès” qui en dérivait, dépendaient étroitement d'un ordre économique centré sur l'argent et le capital... Comme en témoignent ses écrits posthumes, c'est dans son œuvre que, longtemps avant que n'existe le cercle de George, Klages s'était intensément préoccupé des relations entre le christianisme, le capitalisme et le rationalisme; c'est également dans cette œuvre de Klages que le désavantage majeur des Allemands, leur “barbarité” (Barbarentum), a été inversé en une positivité” (pp. 196 et ss.).
La pire des barbarités n'était pas pour ces esthètes fondamentaux l'“arriération culturelle” mais la sur-exploitation moderne du monde: c'est la raison pour laquelle les cercles tournant autour des personnalités de George et de Klages ont salué l'“instinctuel” et le “tellurique” comme les qualités essentielles des Allemands, tandis que le protestantisme et le prussianisme étaient radicalement dévalorisés au titre d'expressions de la modernité rationaliste. George, en se référant à Max Weber, soulignait qu'il existait un lien étroit entre le protestantisme et le capitalisme: «Partout où la forme protestante du christianisme trouve accès, elle capitalise, industrialise et modernise les peuples» (p. 200).
Il m'apparait particulièrement intéressant de suivre la tentative de Breuer de classer ces penseurs et poètes dans le paysage politique de la première moitié du XXième siècle: «Le fondamentalisme esthétique, empiriquement parlant, comme le montre l'exemple de la “république des poètes” de Bavière en 1919, peut parfaitement se manifester sous une forme de “gauche”. Mais nous voyons alors éclore une tension entre les orientations universalistes-éthiques et les orientations esthétiques, où les premières finissent par avoir le dessus, si bien que les formes de gauche sont le plus souvent des formes de transition, tandis que la qualité spécifiquement esthétique et a-éthique postule une attitude particulariste, laquelle, traduite en option politique, révèle une affinité avec la droite politique» (p. 226).
Breuer examine de ce fait les intersections possibles entre le fondamentalisme esthétique et les prémisses de droite de la “révolution conservatrice”, du nationalisme et du national-socialisme. Mais dans l'enquête de Breuer manque (ndlr: comme d'habitude serait-on tenté de dire...) la référence aux diverses formes du fédéralisme qui, au début du XXième siècle, n'était nullement un phénomène marginal en Allemagne du Sud. La “version populaire” de l'esthétisme des cercles conservateurs, le “Heimatkunst” (l'art du terroir), cultivait de fortes sympathies pour ce fédéralisme. Ni George ni Hofmannsthal n'ont été actifs dans les mouvements régionalistes, mais ce non-engagement ne constitue pas une preuve, car ils ne se sont pas engagés davantage dans les formations nationalistes.
Ensuite, on peut affirmer sans se tromper que leur vision du monde était en opposition très nette avec celle de la “révolution conservatrice”. Quand Ernst Jünger manifestait une ivresse de technophilie et quand Moeller van den Bruck, dans le but de construire une Allemagne puissante, acceptait sans hésitation et sans a priori des phénomènes tels la croissance exponentielle de la population, les mégapoles, l'industrie et le prolétariat, “dans les cercles du fondamentalisme esthétique, ces phénomènes étaient jugés purement et simplement comme les expressions du ‘contre-monde‘” (p. 230).
En bref: «L'objectif (de la révolution conservatrice) était de voir éclore une autre modernité ou plutôt une modernité autre» (p. 230). Tandis que les fondamentalistes esthétiques exigeaient la “négation totale de la modernité”, allant jusqu'à postuler, avec Borchardt, “de réduire en poussière les mégapoles allemandes”.
Dans cette hostilité de principe contre toutes les manifestations et les phénomènes de la modernité, nous trouvons, clairement exprimée, la différence qui oppose ce fondamentalisme esthétique au national-socialisme, car, écrit Breuer, “le national-socialisme se distingue du fondamentalisme esthétique par le fait qu'il accepte pleinement l'esprit du temps. Le national-socialisme ne procède pas, comme l'ont répété sur le mode du moulin à prière tibétain Thomas Mann et Georges Lukacs, d'une vulgarisation de l'anti-rationalisme ou de l'irrationalisme, mais, bien au contraire, d'une vulgarisation du rationalisme; il ne nie pas fondamentalement la modernité, mais ne la nie que sectoriellement” (p. 237).
Ce constat posé par Breuer est très important: il campe clairement les véritables clivages politiques de notre époque contemporaine, où nous avons, d'un côté, des progressistes et des rationalistes de droite et de gauche et, de l'autre, des conservateurs. Raison pour laquelle les “esthètes” peuvent être considérés non pas comme les précurseurs des bruns, mais comme les précurseurs des verts. “Avec le national-socialisme, nous avons un mouvement qui accède au pouvoir, en poursuivant en bien des points celui du XIXième siècle, dont les adeptes voulaient frapper George à mort et faisaient de cette intention l'une de leurs missions les plus urgentes. Ce mouvement comprenait les goûts artistiques petits-bourgeois de Hitler et, plus encore, sa conception positiviste des sciences, son enthousiasme pour la technique moderne et, en tout premier lieu, son obsession pour les idées d'eugénisme et d'hygiène raciale” (p. 233).
En même temps, cette critique fondamentale du progressisme chez les “esthètes” les distinguent des pires manifestations que l'on observe dans le camp conservateur, notamment cette propension à croire que la technique, le rationalisme et la politique de puissance ne sont pas mauvais en soi, mais qu'il importe qu'ils tombent dans de bonnes mains (c'est-à-dire dans des mains allemandes).
Ce qui rapproche les esthètes des fascistes, pense Breuer, “c'est la grande valorisation de la dimension charismatique” (p. 238). Mais les preuves qu'il avance pour soutenir ce point de vue laissent à désirer et son argumentation est nébuleuse. Elle semble cadrer avec cette douteuse tradition intellectuelle qui fait miroiter à l'horizon une “ligne” au-delà de laquelle se situerait le “malheur”, le “mal”, l'“innommable”. Type de raisonnement que les scientifiques feraient bien d'oublier...
La conclusion de Breuer, toutefois, est pertinente: le fondamentalisme esthétique est effectivement le concept qui s'oppose le plus “purement” et le plus radicalement à toutes les tendances progressistes, cherchant à imposer la modernisation (p. 241). Breuer admet qu'à une époque comme la nôtre où la crise écologique est d'une indéniable évidence, où les ressources se raréfient, où le prix à payer pour survivre est de plus en plus élevé, pour maintenir à flot cette foi déraisonnable dans les progrès techniques et autres, l'idée progressiste se grève de lourds paradoxes. Raison pour laquelle, nous devons reconnaître que les œuvres de Klages, George et Hofmannsthal “ont reconnu bien avant le mouvement écologiste les dangers que recelait cette idée” (p. 242).
Heinz-Siegfried STRELOW.
(article paru dans Ökologie, n°1/1997; trad. franç.: Robert Steuckers).
Stefan BREUER, Ästhetischer Fundamentalismus. Stefan George und der deutsche Antimodernismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1995.
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mercredi, 06 août 2008
Bernd Rabehl: 70 ans !

Bärbel RICHTER:
Hommage à Bernd Rabehl pour ses 70 ans !
Les conformistes de gauche disent de lui qu’il est un rénégat mais une seule chose le rebutait essentiellement: la partialité et le sectarisme dans lesquels se complaisaient volontairement tant de militants au siècle des idéologies. Bernd Rabehl s’est toujours frayé un chemin entre les contradictions du monde politique, entre les blocs idéologiques, soutenu en cette errance par un esprit de joueur inné. Ce goût de l’errance et du jeu lui est venu carrément dès le berceau. En 1944, en pleine guerre, sa mère demande le divorce. Son père, adjudant d’état-major dans les services médicaux de l’armée et féru de jeux de hasard, s’installe à l’Ouest après la guerre. Son ex-femme et ses enfants restent à l’Est, à Rathenow dans le Brandebourg. Cette décision du père marquera durablement l’itinéraire politique de Bernd Rabehl. Mais les impressions les plus marquantes de son enfance sont évidemment les bombardements nocturnes, les hurlements de sirènes et les signaux de la BBC, car sa mère écoutait en secret les “émetteurs ennemis”.
Le goût et le talent pour le théâtre de la politique, il les a acquis fort tôt, encouragé par ses professeurs. En 1948 déjà, quand beaucoup d’autres jeunes allemands de la zone soviétique refusaient de s’y engager, il adhère à la FDJ (le mouvement de jeunesse du régime). Il devient membre d’un groupe théâtral d’agitprop communiste et s’y taille une réputation de bon acteur. En 1949, il est présent lors de la cérémonie du 8 mai au cimetière militaire soviétique de Rathenow: le garçonnet de 11 ans est debout face aux formations d’honneur de l’armée rouge et des délégations du parti et des “comités d’entreprise”, ainsi que des “masses populaires” présentes bon gré mal gré. Il récite des poèmes d’Erich Weinert ou de Johannes R. Becher. Il chante dans le choeur “Karl-Marx”. C’est là qu’il apprendra l’hymne légendaire de la révolution bourgeoise, “Die Gedanken sind frei” (“Les idées sont libres”). Ce chant est resté depuis lors son chant favori.
En 1952, quand tous avaient finalement adhéré à la FDJ et renoncé à la confirmation chrétienne au profit de la “Jugendweihe” (“L’initiation de la jeunesse”), lui, las de tant de conformisme, par défi, opte pour la confirmation. Le prêtre luthérien explique au jeune confirmé que le Christ avait été un “combattant de la liberté”. Son choix n’eut aucune conséquence: personne ne lui en tint rigueur.
Le 17 juin 1953, lors du soulèvement des ouvriers berlinois contre le régime pro-soviétique, il apprend, sur les barricades, à connaître des communistes et des socialistes oppositionnels. Un camarade de classe disparaît pour dix ans dans un pénitencier car il avait été impliqué dans l’assassinat d’un espion de la STASI, connu de tous dans la ville. Rabehl, lui, arrache le portrait de Staline qui ornait sa classe. Après que le soulèvement populaire eut été écrasé, le socialisme du régime n’eut plus d’attrait pour lui. Plus tard, il suivit à la radio, captivé, les récits de l’insurrection hongroise et des grèves générales polonaises de 1956.
Enfant d’ouvrier —sa mère travaille dans une équipe de nettoyage— il peut achever ses études secondaires à l’ “Oberschule”. Pour sa composition de maturité (“Abitur”), il est libre de choisir le thème; il décide de parler de “la mort” et écrit une variation sur Walter Ulbricht et la mort de la RDA. Conséquence: le secrétaire du parti convoque l’ensemble des élèves de dernière année dans le grand auditorium de l’école. Il exige que Rabehl fasse son auto-critique. Mais au lieu de se rétracter, il dénie une fois de plus tout avenir à la RDA. Silence de mort dans la salle. La sanction est toutefois modérée: on ne lui donne pas son diplôme de fin de secondaire; il doit redoubler sa classe puis “faire ses preuves dans la production”. C’est là qu’il rencontre les anciens meneurs de la grève générale du 17 juin 1953. On lui interdit alors de s’inscrire en histoire et il ne reçoit l’autorisation de n’étudier que l’agronomie à la “Humboldt-Universität” de Berlin-Est. Quatre semaines après, il franchit la ligne de démarcation et s’installe à Berlin-Ouest.
L’édification du Mur de Berlin, en 1961, hérisse ce jeune homme qui, lui, avait encore eu le temps de franchir la ligne sans devoir essuyer de coups de feu. De nombreux jeunes, dont Rudi Dutschke, qu’il ne connaissait pas encore à l’époque, marchent vers le Mur pour protester. Lorsqu’ils tentent, avec un piolet, de jeter bas le Mur, la police militaire américaine intervient et disperse les jeunes manifestants.
Pendant l’automne de l’année 1961, Rabehl entame des études de sociologie, de philosophie et d’histoire d’Europe orientale à la “Freie Universität” de Berlin. Parmi ses professeurs, il y avait bon nombre de communistes dissidents, dont Otto Stammer; bien vite, Rabehl et Rudi Dutschke prennent contact avec la “Subversive Aktion”, qui gravitait autour de Dieter Kunzelmann. Leur but? Démasquer le caractère autoritaire et non démocratique de l’Etat et de la société par des provocations bien ciblées. En 1965, le groupe rejoint le SDS (les étudiants de la gauche extra-parlementaire), où il constituera la principale fraction. Dans les années cruciales de 1967 et 1968, Rabehl appartient au comité dirigeant du SDS.
Après l’attentat contre Dutschke en avril 1968, Rabehl tentera de maintenir le mouvement dans le sens où Dutschke l’avait voulu. Ce sera l’échec. L’opposition extra-parlementaire (APO) se délite et se fractionne en sectes et groupuscules; une partie des militants “se militarisent”. Quant à Rabehl, il entame sa carrière d’enseignant universitaire.
Trente ans après, en 1998, d’anciens militants du SDS se réunissent à l’occasion d’un symposium et fixent leur ligne pour l’avenir: s’immerger dans la coalition socialiste-libérale, sous prétexte que c’est “une nécessité”. Rabehl n’admet pas cette démarche. Il choisit une fois de plus un chemin de traverse, une voie ardue, et commence à évoquer la dimension “nationale-révolutionnaire” de 68, que Dutschke et lui incarnaient tout particulièrement. Il prononce un exposé dans ce sens devant les étudiants nationaux-conservateurs de la Corporation “Danubia” de Munich. Rabehl venait alors de franchir le pas qui le mènera là où il se trouve aujourd’hui: dans l’espace de la dissidence la plus osée, en restant conséquent avec sa logique subversive et révolutionnaire mais en suscitant l’incompréhension de beaucoup. Rabehl n’a jamais été un rénégat: bien plutôt un dialecticien pragmatique. Le discours tenu à la Danubia de Munich, et la plupart de ses exposés, articles et essais prononcés ou publiés depuis 1998, se situent pourtant dans le même esprit que celui de la “Subversive Aktion”: ils ne dénoncent peut-être plus les mêmes ennemis qu’hier mais concentrent le tir sur les “camarades” de jadis qui se sont alignés sur l’une ou l’autre fraction de l’établissement.
Le 30 juillet 2008, Bernd Rabehl fêtera ses 70 ans. Ad multos annos!
Bärbel RICHTER.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°31-32/2008; trad. franç.: Robert Steuckers).
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Intervista a C. Bonvecchio ed a C. Risé
Intervista a Claudio Bonvecchio ed a Claudio Risé sulla pubblicazione del libro Apologia dei doveri dell’uomo Di Claudio Bonvecchio (Asefi Editore, 2002, www.asefi.it) |
a cura di Antonello Vanni |
Redazione: «Prof. Bonvecchio lei, nel suo ultimo libro, parla del dovere come di una visione che si inscrive in un progetto globale teso a rivalutare l’essere stesso dell’uomo in relazione alla trascendenza. Il dovere stesso testimonierebbe l’esistenza, la vitalità e la potenza. A suo parere quanto è possibile rimettere al centro il dovere e dunque tale visione, quanto è possibile onestamente riavvicinare l’uomo alla trascendenza ed al Sacro?». Claudio Bonvecchio: «Riavvicinare l’uomo alla Trascendenza e al Sacro non è cosa facile. Anzi, è una impresa titanica. Ma diventa possibile nella misura in cui ciascuno – poiché ciascuno è in grado di farlo – scruta se stesso, cerca di conoscersi, cerca di equilibrare la propria personalità, cerca l’armonia nascosta, la divina scintilla che è in lui. Questa DOVEROSA ricerca fornisce essa stessa gli strumenti, indica i compagni di strada ed allevia le fatiche del cammino. Bisogna volerlo, però o forse – ancora una volta – lasciar parlare la propria interiorità e scoprire così, magari con stupore, che è essa che lo desidera». R.: «Prof. Risé, l’Apologia dei doveri inizia e si chiude con la proposta di rimettere al centro una precisa visione dell’essere umano e del mondo, dell’essere umano che vive nel mondo. In questa visione come si colloca la proposta dell’identità maschile che lei ha recentemente indicato nel suo libro Essere Uomini (Red Editore, Como)? Cosa ne pensa del fatto che se la sfera del Sacro sfuma all’orizzonte l’uomo si sente interiormente vuoto mentre si circonda all’esterno di un deserto?». Claudio Risé: «Il sacro è caratterizzato dal Tabù, che esprime un divieto, ma significa soprattutto: colmo di energia. La de-sacralizzazione della vita dell’uomo (compiuta attraverso il processo di secolarizzazione), ha comportato dunque un’enorme perdita di energia. Nulla, nell’essere umano, è più tabù, ma egli è completamente scarico, vuoto. E deserto diventa il mondo che lo circonda, anch’esso privo di energie perché non più vissuto come sacro». R.: «Prof. Bonvecchio, parlare di doveri e cioè di onore, compito, incombenza, impegno, dono è assai rischioso: chi osa alzare questa voce viene accusato grossolanamente di conservatorismo, oscurantismo, razzismo o mentalità fascista…Quale rimane allora la strada che un uomo che, come lei dice, vuole realizzare la sua vita come missione nella Comunità per gli altri può intraprendere?». Bonvecchio: «Sta scritto che “mille cadranno alla mia destra e diecimila alla mia sinistra”. Cosa importa del brusio dei mediocri, delle voci distraenti e delle balbuzie intellettuali se chi intraprende questa strada è convinto di ciò che fa? Per troppo tempo abbiamo rifiutato l’eroismo del quotidiano. Si tratta di riscoprire dentro di noi una sopita virilità ed affrontare i simbolici draghi che si pongono sul cammino con animo intrepido e sicuro. Sicuro di portare un messaggio, una proposta, un nuovo (e antico) modo di essere. Ricordava Nietzsche che chi ha sperimentato l’aria delle vette rifugge da quella della pianura». R.: «Prof. Risé nell’Apologia dei doveri si riflette sulla causa che spinge gli uomini prima a rivendicare i diritti e poi sistematicamente a calpestarli. Lei come scienziato sociale e come psicanalista, quali crede siano le cause di questo atteggiamento?». Risé: «L’enfasi sulla rivendicazione dei diritti deriva dal processo di impoverimento dell’uomo realizzato attraverso l’allontanamento del sacro. L’individuo della secolarizzazione, senza Dio, è soprattutto un soggetto di bisogno, perché non possiede più l’energia del sacro. Ciò lo pone in una situazione d’ansia, da cui cerca di uscire rivendicando i diritti. Di cui poi non sa che fare perché il vero problema, il vuoto, rimane. E viene anzi aggravato dall’impoverimento psichico, e simbolico derivante dal porsi come soggetto di bisogno, anziché come portatore di forze». R.: «Prof. Bonvecchio, un’ipotesi possibile è che la civiltà dei diritti sia una maschera dietro la quale si nascondono i veri registi: il mercato, l’interesse, l’utile, il dio denaro. Cosa ne pensa di questa supposizione, ce ne può dare un esempio concreto?». Bonvecchio: «Non è una supposizione: è una realtà. Un esempio: l’ONU. Si proclamano diritti e s’invocano risoluzioni che verranno disattese – per motivi di mero interesse politico-economico - dai paesi che le sottoscrivono, come nel caso della Cina. Eppure tutti continuano a crederci: o fingono? Per molti l’inganno della o la vita come inganno non è una novità. Vogliamo essere come loro? Vogliamo – come diceva Sombart – stare dalla parte degli eroi o dei mercanti? A questa domanda tutti siamo chiamati a rispondere». R: «Prof. Risé nell’Apologia si afferma che solo una comunità che si fonda sui doveri rende ogni singolo uomo membro attivo ed indispensabile alla continuità e sopravvivenza della comunità stessa. Tali doveri però possono esistere solo se vi è un atto di trasmissione, se qualcuno tramanda questi saperi. L’assenza di questa comunicazione, di cui lei spesso ha parlato, non è estremamente pericolosa per la società stessa?». Risé: «La trasmissione del sapere del sacro, l’iniziazione, è stata abolita appunto per allontanare l’uomo dalla consapevolezza dei suoi doveri (ai quali corrispondeva un reale potere), per convincerlo di essere solo soggetto di bisogno, e ridurlo quindi a una condizione di schiavo». R: «Prof. Bonvecchio una parola che al giorno d’oggi non è molto nominata, neppure in ambito pedagogico ed educativo come bene da trasmettere ai giovani è virtus. Lei, nella sua proposta, cosa intende con questa parola?». Bonvecchio: «Intendo un HABITUS, un modo di essere, uno stile di vita: in una parola il coraggio di essere ciò che si è anche se si è contro tutti». R.: «Prof. Risé secondo Bonvecchio lo sviluppo di un’ipocrita società dei diritti è avvenuto parallelamente ad uno sbilanciamento dell’equilibrio psicologico dell’uomo verso l’eccessiva razionalizzazione, astrattezza, artificialità. Lei da anni nei suoi libri, in particolare nel Maschio selvatico (Red, Como), sostiene la necessità per l’uomo di riavvicinarsi all’istinto e ad una dimensione meno artificiale e fabbricata. Che cosa però può garantire che tale riavvicinamento non conduca all’esatto opposto della situazione attuale cioè verso un’eccessiva istintualità capace di guidare l’uomo verso pericolose direzioni già viste nella Storia?». Risé: «Non mi sembra che l’istinto, da cui in epoca moderna ci si è sempre più allontanati, abbia rappresentato negli ultimi secoli un grosso percolo per lo sviluppo umano. Nazismo e comunismo, i due grandi flagelli del secolo scorso, furono entrambi caratterizzati da una forte repressione istintuale, a favore dello sviluppo di forme di pensiero tipicamente ossessive, molto lontane dal mondo delle forze e dei sentimenti primordiali. Oggi, due lesbiche hanno ottenuto, grazie alla clonazione, un figlio sordo, come loro. Episodi di questo genere, monumenti di egoismo e di onnipotenza, premessa delle mostruosità del domani, nascono da un’inflazione del pensiero, degli individui, degli scienziati, e dei legislatori, non certo da un eccesso di istinto». Per concludere R.: «Prof. Bonvecchio, Simone Weil nel suo Preludio a una dichiarazione dei doveri osservava che “è eterno solo il dovere verso l’essere umano ed il progresso si misura su di esso”. Qual è secondo lei il principale dovere dell’uomo e quale il principale dovere della Comunità?». Bonvecchio: «Il principale dovere dell’uomo è quello di tendere verso la totalità, verso quell’armonica pienezza che in tutte le Tradizioni coincide con la divinizzazione dell’uomo e con l’umanizzazione del divino. Significa scoprire il fuoco interiore, quel Sé alchemico che, come la pietra filosofale, trasforma tutto in oro: nell’oro simbolico, ben inteso. Significa scoprire nell’unità dei contrari la gioia di una vita diversa, significa riscoprire la propria vera identità in un corpo spiritualizzato ed in uno spirito corporizzato. Attuare questo – come ben sapevano gli antichi – è anche il dovere di una Comunità che voglia essere tale». R.: «Prof. Risé lei, nelle sue ricerche sull’identità maschile, sostiene l’importanza del sacrificio come sfondo di crescita verso la maturità, l’autonomia e l’indipendenza. Cosa ne pensa della citazione con cui Bonvecchio chiude la sua Apologia dei doveri: “Pur di salvare la vita, non è il caso di perdere ogni motivo di vivere” (Giovenale)?». Risé: «La nostra vita è per gli altri. Per il mondo delle creature, anche non umane, e per Dio. Il resto non ha alcuna importanza». |
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Banlieue rouge

La "banlieue rouge" ou l'entrée en politique de "la zone"
“Porte d’Orléans, tous les cafés étaient fermés. Les grands espaces déserts des nuits de banlieue commencent là”, raconte Roger Vailland dans Bon pied, bon oeil (1950). A l’époque l’image d’un Paris vivant et populaire s’opposait à celle d’une banlieue souvent triste et grise, parfois, pourtant, traversée d’éclairs de fête: les goguettes et les guinguettes de La Belle équipe. C'est un regard parmi d’autres que celui de Vailland. Banlieue des marges, banlieue de la sécession par rapport au “régime bourgeois”, banlieue de la rélégation, mais aussi banlieue du repos et de la famille “qui pousse” au vert, banlieue des dimanches sur l’herbe, des baisers volés et des amants qui se donnent, banlieue bastion du prolétariat et fief des vendeurs de l’Humanité, ces images se sont superposées au fil du temps.
Particulièrement en région parisienne, un curieux composé se forme. D’un coté, l’esprit “anar”, sentimental et grande gueule: celui des années Gabin. De l’autre, un esprit de solidarité, de camaraderie et de lutte sur fond d’identification à un parti politique de masse qui represente une forme de contre-société et d’espoir, le P.C.F. Et l’étonnant est que les deux “marchent “ ensemble: le mythe de l’anarchiste “de droite” Gabin est associé à celui du dirigeant communiste Thorez (“Maurice”).
La banlieue est, pour ses habitants à l’origine rurale, façon de s’acclimater à la ville. L’ouvrier et l’employé cultivent leurs jardins-ouvriers, revendiquent pour les transports, participent à la vie politique locale par des réseaux associatifs et amicaux, où, à partir de 1920 et surtout de 1930, le parti communiste tient une place grandissante. En un mot, le banlieusard est fier de “sa” banlieue. “Bobigny, notre Bobigny”, chante-t-on dans la future préfecture de la Seine Saint Denis. Mais le banlieusard veut aussi continuer à intervenir dans Paris. La banlieue est pour lui un lieu d’enracinement, elle ne doit pas être un ghetto. “Demain, moi je serai place de la république. Mon pater s’y est battu en février 1934 contre les factueux (...). Place de la République , j’y tiens, même si maintenant je crèche ici en banlieue”. De là l’image de la banlieue comme “écume battant les murs de la ville”, comme dit Le Corbusier. Image que les communistes s’emploient à renforcer: “Paris encerclé par le prolétariat révolutionnaire !”, écrit Paul Vaillant-Couturier dans l’Humanité du 13 mai 1924, à la suite de législatives favorables à l’extrème-gauche. Espoir de certains qui est bien sûr la crainte des autres. Renversement de la situation de la Commune : les Versaillais sont dans Paris et les Communards autour !
La banlieue est aussi le banc d’essai des modernités. Par exemple en architecture, avec une construction comme le groupe scolaire baptisé in extrémis Karl Marx (à la place de Jean Jaurès) à Villejuif. Construite par André Lurçat en 1933, c’est “la plus belle école de France” selon l’Humanité, tandis que le grand quotidien conservateur de l’époque, Le Matin, fulmine: “Ce groupe scolaire campagnard (sic) est plus luxueux que le plus moderne des lycées parisiens”.
Avant 1914, l’installation en banlieue est parfois une étape dans l’ascension sociale. On quitte les appartements petits de Paris, - mais dont les loyers sont souvent bloqués - pour se mettre “à l’aise” en banlieue. Cela se voit dans les écrits de Jules Romains. Mais pour beaucoup, l’installation en banlieue, c’est la recherche d’un air meilleur, de plus de place, et le souci de se rapprocher des usines, c’est-à-dire de son lieu de travail. Ce qui est parfois totalement contradictoire... comme à Aubervilliers réputé pour ses mauvaises odeurs.
Dans l’entre-deux-guerres, période de crise aigüe du logement, la banlieue, c’est surtout la construction de “pavillons”. Ces constructions pavillonnaires se font dans les difficultés financières, au sein de lotissements souvent dénués de tout assainissement, par carence et esprit de lucre des propriétaires privés. L’état des lotissements est souvent d’autant plus dramatique que si les maisons rurales étaient construites la plupart du temps par des gens de métier, l’auto-construction représente en banlieue une part importante des bâtisses. De nombreuses luttes sont alors menées, faisant pression sur les pouvoirs publics et les propriétaires pour la viabilisation et l’arrivée d’équipements. La banlieue est aussi le terrain de l’expérience des cités-jardins, habitat conçu pour l’ensemble des couches populaires et moyennes, à mi chemin entre la maison de village et l’immeuble collectif, mais où les espaces verts sont au cours de années trente grignotés dans la mesure où l’Etat ne tient pas ses propres engagements financiers. Ceci aboutira à limiter l’expérience des cités-jardins à environ une quinzaine (Suresnes, Vitry, Chatenay-Malabry, le Plessis-Robinson, Charenton, ...). En même temps sont construits, comme à Drancy de sinistre mémoire, les premiers grands ensembles et gratte-ciels.
Banlieue verte des jardins (400 m2 en moyenne) et banlieue grise des usines, la banlieue est aussi rouge, dans la mesure où elle est dominée par le Parti communiste, au vrai surtout dans la première couronne, beaucoup moins au delà, et non sans exceptions: Boulogne-Billancourt est socialiste jusque dans les années 60, jamais communiste, Aubervilliers est jusqu'à la guerre la ville de l'ancien socialiste pacifiste devenu homme de la droite modérée Pierre Laval. Mais le P.C est une force ascendante pendant une trentaine d'années. Dans le département de la Seine , le nombre de municipalités communistes passe de 11 à 26 entre 1929 et 1935. A la veille de la guerre, le maire communiste d’Ivry Marrane dispute au socialiste Sellier, le maire de Suresnes, l’hégémonie au sein de l’association des maires de la région parisienne. L’enjeu (déjà !) est de proposer des solutions globales à la question de l’engorgement de la région parisienne. Et si les personnalités locales comptent, soit qu'elles existent à partir du vote communiste - comme Clamanus à Bobigny, avant son ralliement à Doriot sous l'Occupation, soit en réaction contre le P.C, - comme Laval à Aubervilliers, elles sont fragiles. Doriot est ainsi battu à la législative de 1937 à Saint-Denis par le candidat communiste.
Cette banlieue des années Thorez et des années Gabin est tuée par le déménagement des usines en province, par la montée de l’individualisme, la fin des cinémas et l’arrivée de la télé “couleur”, la destruction des vieux coeurs de ville (voir ainsi l’assassinat de Choisy-le-roi) et le désenchantement de la politique. Dans un film superbe de Denys de La Patellière , Rue des Prairies (1959), on voit un chef de chantier, habitant cette rue alors villageoise du 20ème arrondissement, travailler à la construction de Sarcelles, c’est-à-dire à sa propre fin par la construction d’un cadre de vie dans lequel il n’aura plus sa place. Allons, allons ! pas de nostalgie. Comme l’écrit l’historienne Annie Fourcaut dans son beau prologue: “La forme de la ville a, depuis la révolution industrielle, toujours changé plus vite que le coeur des mortels, et la nostalgie, accompagnée de peur sociale, est le mode habituel d’appréhension des changements urbains”. On ne saurait mieux dire.
Pierre Le Vigan.
Revue Autrement: Banlieue rouge, 1920-1960. Années Thorez, années Gabin: archétype du populaire, banc d’essai des modernités, Sous la direction d’Annie Fourcaut, Le Seuil, 1992.
Voir aussi:
* Hérodote, Après les banlieues rouges, n°43, 1986.
* Les premiers banlieusards. Aux origines des banlieues de Paris, 1860 - 1940, sous la direction d'Alain Faure, 1991, éditions CREAPHIS (79 Rue du Faubourg Saint-Martin, 75 010 PARIS). 284 pages, 195 F.
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mardi, 05 août 2008
L'Union Méditerranéenne éloigne l'UE de la Russie

Bernhard TOMASCHITZ:
L’Union Méditerranéenne éloigne l’UE de la Russie
Critique du projet transatlantiste de Sarközy
Pour le président français Nicolas Sarközy, la création de l’Union Méditerranéenne est un “rêve devenu réalité”. Cette nouvelle construction, qui a été portée sur les fonds baptismaux à Paris le 13 juillet 2008, inclut, outre les 27 Etats membres de l’UE, tous les pays riverains de la Mer Méditerranée, à l’exception de la Libye. L’objectif officiel de cette organisation, qui aura deux présidents et un secrétariat à Tunis, est, pour l’essentiel, la coopération dans les domaines de l’économie, de l’éducation, de l’assainissement écologique de la Méditerranée et de la consolidation de la démocratie et de l’Etat de droit. La réalisation de ce projet chéri du Président actuellement en fonction du Conseil de l’UE coûtera bien cher au contribuable. D’après les chiffres avancés par la commissaire européenne aux affaires étrangères, Benita Ferrero-Waldner, Euro-Bruxelles mettra la somme de neuf milliards d’euro, d’ici à 2013, à la disposition de la région couverte par cette UM.
L’Union Méditerranéenne, structure préparée de longue date, aura, pour autant qu’elle fonctionnera dans les faits, d’énormes retombées géostratégiques. Sarközy avait parlé de cette Union Méditerranéenne au début de l’année 2007, dans le cadre de la campagne pour les élections présidentielles en France et, pour la réaliser, a dû accepter un compromis avec l’Allemagne.
Au départ, cette Union Méditerranéenne devait se limiter aux Etats de l’UE riverains de la Méditerranée. Pour éviter de faire capoter le projet, et face aux réticences de la Chancelière fédérale Angela Merkel, il a dû ouvrir le projet à tous les Etats de l’UE.
Mais dans les pays du Nord de l’UE, en Allemagne, en Pologne, en Suède ou dans les Pays Baltes, personne ne se réjouit de la création de cette Union Méditerranéenne. Ces pays du Septentrion de notre sous-continent auraient préféré consolider les relations de l’UE avec la Russie, riche en matières premières. Le ministre suédois des affaires étrangères, Carl Bildt, a émis son opinion lors de la fête pompeuse qui a marqué la fondation de l’UM à Paris: pour lui, cette UM est certes “souhaitable sur le fond”, mais, ajoutait-il, “elle ne changera pas le monde en un jour”. Bildt employait évidemment un langage diplomatique; traduit en clair, cela équivaut à: “Elle est belle votre fête ici, mais finalement tout ça, c’est du bidon!”.
Nous assistons donc à un déplacement du centre de gravité de l’UE, qui glisse ainsi de l’Est au Sud. En ce sens, l’UM se révèle pour ce qu’elle est: un truc de la stratégie internationale des Etats-Unis pour éloigner l’UE de la Russie. En fin de compte, Washington ne veut pas seulement encercler la Russie mais aussi empêcher que ne se constitue encore, plus tard, un “Axe Paris-Berlin-Moscou”, comme en 2003 lorsque Washington a déclenché sa guerre d’agression contre l’Irak. La Russie dispose des moyens d’offrir à l’UE une alternative attrayante à la domination sans partage des Etats-Unis sur le monde. Récemment, le Président russe Dimitri Medvedev a donné son aval à un document où l’on déclare que “la constitution d’un système ouvert et démocratique de sécurité et de coopération régionales et collectives qui garantira l’unité de la région euro-atlantique de Vancouver à Vladivostok”, but qui sera “l’objectif principal de la politique étrangère russe en direction de l’Europe”.
Vu l’existence de tels projets à Moscou, les Etats-Unis ont de la chance d’avoir à l’Elysée depuis juin 2007 un “transatlantiste” avéré en la personne de Nicolas Sarközy. Contrairement à son prédécesseur, le président français actuel ne veut pas seulement ancrer davantage encore son pays dans l’OTAN mais, en plus, lier solidement la politique européenne de sécurité et de défense à l’alliance nord-atlantique. Car l’OTAN, a déclaré Sarközy, “est notre alliance: nous avons contribué à la créer et nous en sommes aujourd’hui l’un des principaux bailleurs de fonds”. Or, aujourd’hui, il faut bien le constater, le seul but de l’existence de cette OTAN est de parfaire l’encerclement de la Russie.
La création de l’UM renforce les soupçons de ceux qui craignent qu’elle servira à introduire la Turquie dans l’UE, et, plus tard, aussi Israël. Il y a un peu plus d’un an, Sarközy se drapait dans le rôle du lutteur clairvoyant, qui allait tout faire pour empêcher l’adhésion turque à l’UE; aujourd’hui, changement d’attitude: il veut se comporter “de manière loyale” à l’égard d’Ankara. “Si de nouvelles conditions d’adhésion doivent être prises en considération, ce sera la présidence française du conseil qui le fera”, vient de dire Sarközy en marge de la cérémonie de fondation de l’UM. Le président français ne cesse de proclamer qu’il est “un ami d’Israël” et que la France “se trouvera toujours aux côtés” de l’Etat créé jadis par le mouvement sioniste.
Les efforts que Sarközy et les Américains déploient pour entraîner l’UE dans les conflits du Proche Orient sont patents depuis longemps déjà. Sur ce plan, les déclarations du ministre allemand des affaires étrangères, Joschka Fischer, en octobre 2005 sont révélatrices: “La sécurité de l’Europe ne dépendra plus des ses frontières orientales mais de la situation dans le bassin oriental de la Méditerranée et au Proche Orient. La Turquie, dans cette conception de la sécurité européenne, doit devenir un pilier de cette sécurité et toutes les entreprises visant à empêcher cette évolution relèvent tout simplement de la courte vue”. C’est en ces termes que le “Daily Princetonian”, quotidien de la célèbre université américaine de Princeton, cite le politicien allemand, situé à la gauche de la gauche.
Quant à Zbigniew Brzezinski, conseiller en matières de sécurité de l’ancien président américain Jimmy Carter, il remarquait, dès 1997, que “la France ne vise pas seulement un rôle politique central dans une Europe unie mais qu’elle se veut aussi le noyau d’un groupe d’Etats nord-africains et méditerranéens, qui, ensemble, ont les mêmes intérêts”. Conclusion: c’est parce que l’Europe dépend entièrement des Etats-Unis que l’extansion de la sphère d’influence de l’UE dans l’espace méditerranéen sera simultanément un accroissement de l’influence américaine dans cette région.
Bernhard TOMASCHITZ.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°30-31/2008; trad. franç.: Robert Steuckers).
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Silvio Gesell: Der "Marx" der Anarchisten

Silvio Gesell: der “Marx” der Anarchisten
Analyse: Klaus SCHMITT/Günter BARTSCH (Hrsg.), Silvio Gesell, “Marx” der Anarchisten. Texte zur Befreiung der Marktwirtschaft vom Kapitalismus und der Kinder und Mütter vom patriarchalischen Bodenunrecht, Karin Kramer Verlag, Berlin, 1989, 303 S., ISBN 3-87956-165-6.
Silvio Gesell war ein nonkonformistischer Ökonom. Er nahm zusammen mit Figuren sowie Niekisch, Mühsam und Landauer an der Räteregierung Bayerns teil. Der gebürtige Sankt-Vikter entwickelte in seinem wichtigsten Buch “Die natürliche Ordnung” ein Projekt der Umverteilung des Bodens, damit ein Jeder selbständig-autonom in totaler Unabhängigkeit von abstrakten Strukturen leben konnte. Günter Bartsch nennt ihn ein “Akrat”, d.h. ein Mensch, der frei von jeder Bevormündung ist, sei diese politischer, religiöser oder verwaltungsartiger Natur. Für Klaus Schmitt, der Gesell für die deutsche nonkonforme Linke wiederentdeckt (aber nicht kritiklos), ist der räterepublikanische Akrat ein der schärfsten Kritiker der “Macht Mammons”. Diese Allmacht wollte Gesell mit der Einführung eines “Schwundgeldes” bzw. einer “Freigeld-Lehre” zerschmettern. Unter “Schwundgeld” verstand er ein Geld, das man nicht thesaurisieren konnte und für das keine Zinsen gezahlt wurden. Im Gegenteil war für Gesell die Hortung von Geldwerten die Hauptsünde. Geld, das nicht in Sachen (Maschinen, Geräte, Technik, Erziehung, Boden, Vieh, usw.) investiert wird, mußte durch moralischen und ökonomischen Zwang an Wert verlieren. Solche Ideen entwickelten auch der Vater des kanadischen und angelsächsichen Distributismus, C. H. Douglas, und der Dichter Ezra Pound, der in den amerikanischen Regierung ein Instrument des Teufels Mammon sah. Douglas entwickelte distributistische Bauern-Projekte in Kanada, die teilweise noch heute existieren. Pound drückte seinen Dichterhaß gegen Geld- und Bankwesen, indem er die italienischen “Saló-Republik” am Ende des Krieges unterstütze. Pound versuchte, seine amerikanische Landgenossen zu überzeugen, keinen Krieg gegen Mussolini und das spätfaschistischen Italien zu führen. Nach 1945, wurde er in den VSA zwölf Jahre lang in einer Irrenanstalt eingesperrt. Er kam trotzdem aus dieser Hölle ungebrochen zurück und ging bei seiner Dochter Mary de Rachewiltz in Südtirol wohnen, wo er 1972 starb.
Neben seiner ökonomischen Lehre über das Schwund- und Freigeld, theorisierte Gesell einen Anarchofeminismus, wobei er besonders die Kinder und die Frauen gegen männliche Ausbeutung schützen wollte. Diese Interpretation des matriarchalischen Archetyp implizierte eine ziemlich scharfe Kritik des Vaterrechts, der in seinen Augen die Position der Kinder in der Gesellschaft besonders labil machte. Insofern war Gesell ein Vorfechter der Kinderrechte. Praktish bedeutete dieser Anarchofeminismus die Einführung einer “Mutterrente”. «Gesell und sein Anhänger wollten den gesamten Boden den Müttern zueignen und ihnen bzw. ihren Kinder die Bodenrente bis zum 18. Lebensjahr der Kinder als “Mutter-” bzw. “Kinderrente” zukommen lassen. Ein “Bund der Mütter” soll den gesamten nationalen und in ferner Zukunft den gesamten Boden unseres Planeten verwalten und (...) an den oder die Meistbietenden verpachten. Nach diesem Verfahren hätte jeder einzelne Mensch und jede einzelne Gruppe (z. B. eine Genossenschaft) die gleichen Chancen wie alle anderen, Boden nutzen zu können, ohne von privaten oder staatlichen Parasiten ausgebeutet zu werden» (S. 124). Wissenschaftliche Benennung dieses Systems nach Gesell hieß “physiokratische Mutterschaft”.
Neben den langen Aufsätzen von Bartsch und Schmitt enthält das Buch auch Texte von Gustav Landauer (“Sehr wertvolle Vorschläge”) und Erich Mühsam (“Ein Wegbahner. Nachruf zum Tode Gesells 1930”).
Fazit: Das Buch hilft uns, die Komplexität und Verwicklung von Ideen zu verstehen, die in der Räterepublik anwesend waren. Ist Niekisch wiederentdeckt und breit kommentiert, so ist seine Nähe zu Personen wie Landauer, Mühsam und Gesell kaum erforscht. Auch interressant wäre es, die Beziehungspunkte zwischen Gesell, Douglas und Pound zu analysieren und zu vergleichen. Letztlich wäre es auch, die Lehren Gesells mit den national-revolutionären Theorien eines Henning Eichbergs in den Jahren 60 und 70 und mit dem Gedankengut, das eine Zeitschrift wie Wir Selbst verbreitet hat. Eichberg hat ja auch immer den Akzent auf das Mütterliche gelegt. Er sprach eher von einem mütterlich-schützende Mutterland statt von einem patriarchalisch-repressive Vaterland. Ähnlichkeiten, die der Ideen-Historiker nicht vernachlässigen kann (Robert STEUCKERS).
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J. Parvulesco: J. Koizumi et le grand réveil du Japon

Jean PARVULESCO
Junichiro Koizumi et le grand réveil du Japon
Il s'est donc en apparence définitivement refermé sur nous le formidable piège planétaire tendu par la conspiration mondiale des Etats-Unis et de ce qui se tient, dans l'ombre, derrière ceux-ci, saisissant dans ses mâchoires d'acier les nations de l'Europe grand-continentale et de l'Amérique Latine, dont la liberté vivante, le destin eschatologique et l'intégration politico-historique finale pourraient représenter très effectivement un péril absolument critique, un péril mortel pour le "grand dessein" en cours de l'impérialisme hégémonique américain, dont les préliminaires obscurcissent déjà l'horizon de la proche histoire mondiale à venir.
Cependant, alors que les nations encore libres de l'Europe de l'Ouest sembleraient avoir cessé de se débattre sous l'étreinte aliénante, dévastatrice, de la conspiration mondialiste à l'œuvre, des nations eurasiatiques grand-continentales, comme l'Inde et le Japon, viennent de se libérer de celle-ci, par leurs propres moyens, et de se donner —ou d'être en train de se donner— un autre destin, fondé sur leur propre liberté reconquise.
Car ce qu'Atal Béhari Vaypajee à réussi à faire en Inde, Junichiro Koizumi se trouve en train de le faire, aussi, au Japon : l'un et l'autre portés démocratiquement au pouvoir par des immenses vagues de prise de conscience national révolutionnaire, n'ont pas un seul instant hésité, une fois au pouvoir, d'entamer abruptement le processus de libération intérieure de leur pays de sous l'emprise subversive extérieure de la conspiration mondialiste.
Ainsi se fait-il que, tout comme la "Nouvelle Russie" de Vladimir Poutine, l'Inde d'Atal Béhari Vajpayee et le Japon de Junichiro Koizumi, se retrouvent, à l'heure actuelle, ensemble, sur la ligne de front de l'ébranlement sismique abyssal poussant le "Grand Continent" eurasiatique à retrouver son être propre et sa prédestinée originelle, archaïque, ébranlement qui suscite, mobilise, assure et affirme les fondations actives du mouvement de libération impériale engageant, en profondeur, l'ensemble du "Grand Continent" eurasiatique en train de se réveiller, et qui finalement l'emportera.
Dans un fort important article intitulé "Les relations récentes entre la Russie et l'Inde", Gilles Troude, chercheur au DESC de la Sorbonne , écrit, dans Géostratégiques (Paris) de mars 2001 : " ... face au monde unipolaire dominé par la puissance écrasante des Etats-Unis, qui ne connaissent plus aucun rival non seulement sur le plan économique, mais aussi dans les domaines militaire et politique, ne s'oriente-t-on pas lentement vers un triangle stratégique Inde-Chine-Russie, seul capable de rivaliser avec la super-puissance qui se veut maîtresse du monde?".
"C'est ce que redoutent les spécialistes américains en affaires internationales, qui ont perçu les signes d'une coopération accrue entre la Russie , la Chine et l'Inde, et d'un sentiment croissant dans ces trois pays, spécialement après la campagne de bombardements de l'OTAN en Yougoslavie au printemps 1999, que la puissance américaine devait d'une manière ou d'une autre être tenue en échec. Bien que ces trois pays soient encore très loin de fusionner en un Axe eurasien anti-OTAN, ces analystes se disent inquiets du fait de l'apparition d'une menace potentiellement très grave : une alliance qui regrouperait environ deux milliards et demi d'êtres humains, une puissance militaire formidable et un stock impressionnant d'armes nucléaires —puisque l'Inde est maintenant officiellement une puissance nucléaire— le ciment de cette coalition étant de contrer la domination globale de l'Amérique".
"Ce serait un désastre pour les Etats-Unis".
"Si ce tissu de relations progresse, a déclaré Charles William Maynes, président de la Fondation Eurasia , think tank basé à Washington, alors vous aurez le cœur continental du monde (heartland) —deux milliards de personnes en Chine et en Inde allié à la formidable puissance technologique que représente la Russie. Ce serait un désastre pour les Etats-Unis".
Et encore, Gilles Troude, tout en se méprenant sur le sens final de la situation politique propre, réelle, de la Chine actuelle et à venir, de la ligne de destin préconçue de celle-ci, qui l'exclut d'avance de l'unité, de la réintégration impériale grand-continentale eurasiatique, ne tient-il étrangement pas compte non plus dans ses analyses, du "grand réveil" national du Japon en train d'avoir lieu à l'heure présente. Dont le rôle apparaît déjà comme absolument décisif dans la mobilisation en cours d'un front grand-continental eurasiatique d'opposition politico-stratégique totale aux desseins de la conspiration mondialiste menée par Washington.
En réalité, c'est l'extraordinaire puissance vitale innée, profonde, secrète, du peuple japonais qui a rendu possible, et pu assurer l'avènement au pouvoir, à l'heure précise où il fallait que cela se fasse, de l'homme providentiel, du "concept absolu" qu'est Junichiro Koizumi, porteur charismatique du nouveau grand destin du Japon. Quelqu'un devait venir, et la volonté du peuple japonais a fait qu'il vienne.

Avec Junichiro Koizumi, la loi providentielle se trouve une nouvelle fois vérifiée qui veut que les pays finissent toujours par trouver les dirigeants prédestinés qu'ils méritent, et cela est entièrement certain aussi pour Vladimir Poutine et sa "Nouvelle Russie", tout comme pour Atal Béhari Vajpayee et l' "Inde Terminale" en train d'émerger actuellement à la face de l'histoire.
Aussi est-il grand temps que l'on finisse par comprendre, en Europe, qui est réellement Junichiro Koizumi, et de quel grand destin révolutionnaire est-il porteur.
Junichiro Koizumi, porteur d'un nouveau destin pour le Japon
Junichiro Koizumi est en effet l'homme chargé par le destin —et par 75 % des Japonais— d'opérer les retrouvailles finales du Japon d'aujourd'hui avec l'histoire antérieure du "Grand Japon", l'homme chargé de renouer avec l'identité impériale du Japon, intemporelle, que l'on avait dû faire semblant de suspendre le 15 août 1945, le jour de la "capitulation".
Car il est chose désormais notoire que Junichiro Koizumi se fait ouvertement prévaloir de sa fidélité tout entière à la ligne nationale, traditionnelle et impériale de son prédécesseur et maître à penser, l'ancien premier ministre, membre aussi du PDL, Yasuhiro Nakasone (1982-1987), qui, le premier, avait osé briser le tabou démocratique concernant le temple shintoïste Yasukuni, à Tokyo, en s'y rendant en pèlerinage le 15 août 1985. Ce qui avait provoqué alors une vague de violences protestataires, menées en sous-main par les services secrets politiques de la Chine communiste, dans plusieurs pays de l'Asie ayant connu l'occupation japonaise. Car le temple shintoïste Yasukuni, à Tokyo, est le très haut sanctuaire de la mémoire nationale japonaise, le symbole suprême de son identité profonde, intacte, hors d' atteinte, qui ne tient compte en rien de la vaste campagne de désinformation montée par les Etats-Unis après la fin de la dernière guerre au sujet des "culpabilités" du Japon.
De son côté, Junichiro Koizumi avait déjà affirmé, à plusieurs reprises, lui aussi, sa ferme intention de se rendre, le 15 août 2001, anniversaire de la "capitulation" du Japon en 1945, au temple Yasukuni, pour participer aux cérémonies religieuses "en hommage à la mémoire des héros tombés pour la défense du Japon". Un geste dont la portée symbolique apparaît comme évidente de par elle-même, et d'une évidence décisive. Et irréversible.
Mais, en fait, c'est le 13 août qu'il s'y est rendu, essayant ainsi de relativement désinvestir la montée des protestations plus ou moins artificiellement soulevée par sa décision. Car les forces réunies de la réaction et du Front Rouge s'étaient en effet saisies de l'occasion pour lancer un tir de barrage intensif contre la décision du premier ministre Junichiro Koizumi de se rendre officiellement en pèlerinage au temple Yasukuni. Mais rien n'y fait. Tout comme rien n'avait pu le convaincre de revenir sur son décret autorisant —et incitant— que les manuels scolaires d'histoire adoptent des positions ouvertement "révisionnistes" au sujet des "responsabilités" du Japon lors de la dernière guerre.
Situé au centre de Tokyo, près du Palais Impérial, sur la colline du Kudan, le temple shintoïste Yasukuni est en effet consacré à la mémoire des 2,5 millions de combattants japonais tombés face à l'ennemi, dont les âmes —y inclus celles des treize "criminels de guerre"— ou soi-disant tels— pendus par les Forces Américaines d'occupation, avec, en premier lieu, le général Hideki Tojo, le premier ministre de l'empereur Hirohito— s'y trouvent rassemblées, dans l'invisible, autour du miroir liturgique, suprêmement sacré, qui en constitue le pivot cosmique. Yasukuni est, dans l'invisible, une immense mer d'âmes en perpétuelle réverbération, veillant sur l'Empire.
Il est tout à fait certain qu'une majorité décisive de Japonais estiment que leur pays à été, lors de la dernière guerre, la victime d'un complot concerté, de dimensions planétaires, mené par les Etats-Unis, qui visaient à interdire la présence effective du Japon en Asie et dans le Pacifique; face à quoi, le Japon n'a rien fait d'autre que de se battre pour sa survie, aux abois, dans les termes d'un combat à la fois final et total. Dont on connaît la conclusion apocalyptique de Hiroshima et de Nagasaki.
Dans les dépendances du temple Yasukuni, un musée consacré à la mémoire nationale japonaise présente actuellement une grande exposition officielle intitulée "Comment nous avons combattu" (en anglais, "La guerre et les soldats du Japon"), exposition dont le témoignage fondamental est axé sur le souvenir des milliers de kamikazes ayant offert leurs jeunes vies pour la sauvegarde de l'Empire. "Rendez-vous à Yasukuni !", s'écriaient-ils en s'envolant pour le sacrifice suprême. Dans le film qui en montre les exploits héroïques, surhumains —divinisants, en termes de shintoïsme— on affirme : "Beaucoup de gens pensent que, dans la guerre d'il y a cinquante ans, le Japon avait été gravement dans son tort: cela est absolument faux. Ainsi le procès de Tokyo est-il nul et non avenu. Le commandant en chef de nos Armées, le général Hideki Tojo a été accusé de "crimes contre l'humanité" et pendu par les Forces Armées d'occupation, les Etats-Unis ayant été les seuls à exiger sa condamnation à mort. Il est temps que le Japon se réveille! Il est grand temps que le Japon reconnaisse la vraie réalité de sa propre histoire! Japon, réveille-toi!".
On sait que la doctrine de gouvernement de Junichiro Koizumi se trouve être fort proche de la vision d'ensemble qui est celle de Shintaro Ishihara, élu, en 1999, gouverneur de Tokyo avec une écrasante majorité, "par un vote quasi-plébiscitaire sur des positions ultra-nationalistes, anti-américaines, ouvertement partisan de la transformation du "Corps de Défense" en une nouvelle grande Armée Japonaise, et auteur d'un livre de grand succès, "Le Japon qui sait dire non", ainsi que d'un roman aux thèses non-conformistes, "La saison du soleil" (Tayô no kietsu). Et l'on sait également que le groupe de jeunes idéologues et des intellectuels qui se tiennent actuellement derrière Junichiro Koizumi est mené au combat par le professeur Fujiuka Nobukatsu, de l'Université de Tokyo, dont la pensée se veut orientée vers la recherche renouvelante, révolutionnaire, des fondations cachées constituant la prédestination originelle du Japon, du "Grand Japon".
Quant au train des réformes totalement bouleversantes que le premier ministre Junichiro Koizumi compte imposer, d'urgence, au Japon, la formule décisive appartient au professeur de l'Université de Tokyo, Yoshiro Tanaka, qui déclarait, récemment, que ce que l'on attend de celui-ci, c'est "qu'il fasse la "Troisième Révolution", après celles de l'ère des Meiji, et de l'après-guerre de 1945". Car, ainsi que nous en avertit Heizo Takenaka, ministre chargé de la politique économique dans l'actuel gouvernement de Junichiro Koizumi, "... si nous engageons maintenant les réformes qui s'imposent, nous devrons accepter aussi les douleurs qui s'ensuivront, et qui seront des plus grandes; mais, si ces réformes, nous les repoussions encore, cela peut nous mener directement à la mort". Car telle est, aujourd'hui, dans sa réalité immédiate, et la plus profonde, la situation socialo-économique du Japon qui, en fait, se trouve au bord du gouffre. Contrairement à toutes les apparences, et c'est bien ce qu'il faut quand même ne pas ignorer. Car des anciennes pesanteurs dissimulées sont à présent venues à échéance, et coûte que coûte il faudra faire face.
Le recours salvateur aux Forces Armées
Cependant, outre le train de réformes qui devront bouleverser de fond en comble les actuelles infrastructures politico-administratives et économiques du Japon, ce qui équivaut, en effet, à une rupture intérieure comme celle qui s'était produite à l'ère des Meiji, Junichiro Koizumi nourrit aussi —et sans doute surtout— le "grand dessein" de redonner aux Forces Armées nationales la place qui doit être fondamentalement la leur, c'est-à-dire tout à fait la première dans la configuration politico-historique du pays ayant retrouvé son propre centre de gravité en lui-même, hors de tout assujettissement, hors de toute ingérence ou domination étrangères.
Même si, pour cela, il faudrait que Junichiro Koizumi parvienne à faire réviser l'actuelle Constitution japonaise, dont le fameux "article 9" interdit au Japon de pouvoir disposer d'une "Armée Nationale". Or c'est bien ce à quoi Junichiro Koizumi est très fermement décidé à faire aboutir son action politique de gouvernement dont la clef de voûte est précisément constituée par le retour du Japon à son identité politico-militaire antérieure, avec tout ce que cela implique au niveau de la "grande histoire", des grandes décisions historiques et politiques immédiatement à venir, en Asie et dans le Pacifique et, aussi, dans le cadre des futurs choix du Japon par rapport à l'unité grand-continentale eurasiatique émergente.
Dans son retour qui n'est politiquement pas dépourvu de tout danger sur le coup même, mais qu'il entend poursuivre d'une manière tout à fait résolue, vers la reconstitution d'urgence des Forces Armées nationales du Japon, Junichiro Koizumi retrouve le mouvement fondamental de toute entreprise de salut et de délivrance nationale révolutionnaire face à la mainmise subversive, aliénante, des conspirations mondialistes et socialo-gauchistes d'infrastructure trotskiste —toujours "la réaction et le front rouge"— qui détiennent aujourd'hui très effectivement le pouvoir politique, économico-social et culturel partout dans le monde. En se tournant, comme il est en train de le faire, vers les Forces Armées nationales du Japon, Junichiro Koizumi ne fait, à son tour, que ce qu'avait fait Vladimir Poutine en Russie, Atal Béhari Vajpayee en Inde et Vojislav Kostuniça en Serbie, ce que tente de faire, souterrainement, à l'heure actuelle, Silvio Berlusconi en Italie: le recours aux Forces Armées est, toujours, la toute dernière chance des instances persistantes de l'Être en train de succomber aux manœuvres d'encerclement, de pénétration intérieure et d'anéantissement menées par les agences d'investissement et de désappropriation du non-être en marche vers l'établissement final de l'anti-monde et de l'Anti-Empire d'au-delà de la fin.
Et c'est ainsi que l'entreprise de redressement national révolutionnaire de Junichiro Koizumi, actuellement en cours, appartient déjà, en fait, au vaste front contre-stratégique grand-continental eurasiatique —et latino-américain aussi— d'opposition désormais irréversible à l'entreprise de subversion anti-historique accélérée poursuivie par la conspiration planétaire "mondialiste" au service de la "Superpuissance Planétaire" des Etats-Unis et de ce qui se tient caché derrière ceux-ci.
Car, en tout état de cause, il faudra comprendre que le retour de Junichiro Koizumi vers le recours aux Forces Armées représente, aussi, la décision sous-entendue —mais désormais sans retour— de l'éloignement et, à terme, de la rupture du pacte d'assujettissement implicite —à la fois sur le plan militaire, économique et idéologico-culturel— du Japon à l'égard des Etats-Unis, et, de par cela même, sa nouvelle orientation fondamentale, d'une part, vers l'Asie et le Pacifique et, d'autre part, vers le "Grand Continent" eurasiatique, et vers sa future adhésion —déjà décidée— à l'Axe grand-continental Paris-Berlin-Moscou.
Aussi dois-je faire état, à ce sujet, des confidences que vient de me faire Alexandre Douguine à la suite de son récent voyage officiel d'information au Japon, où il avait pu constater la très exceptionnelle attention avec laquelle des hautes instances politico-administratives du Ministère des Affaires Etrangères suivent aujourd'hui la marche en avant de certains projets européens grand-continentaux concernant la mise en situation, en premier lieu, de l'Axe Paris-Berlin-Moscou, projets auxquels le Japon serait disposé à apporter un soutien politico-diplomatique inconditionnel et suractivé: pour le Japon, la prolongation —et l'achèvement— de l'axe grand-continental européen Paris-Berlin-Moscou jusqu'à New Delhi et Tokyo constitue déjà une nécessité allant de soi, inéluctablement. De toutes les façons, pour aussi confidentielles qu'elles puissent se vouloir momentanément, la présence économique active et l'assistance politico-militaire du Japon en Inde est désormais une réalité de laquelle on ne saurait en aucun cas pas ne pas tenir compte d'une manière fort significative. Des grandes choses décisives sont en train de se passer là-bas, souterrainement, entre Tokyo et New Delhi, dont les conséquences ne tarderont pas d'agir en profondeur. Le tout sans doute à l'instigation, ou tout au moins avec l'aval agissant de Moscou, Vladimir Poutine s'y trouvant personnellement engagé dans la suite de cette entreprise de l'ombre: c'est la grande géopolitique, il faut le comprendre, qui constitue les fondements dissimulés de l'histoire en marche. Aujourd'hui comme hier.
Le tracé mystique de nos futurs combats
Tout concourt donc à prouver, déjà, que l'usage qu'entend faire Junichiro Koizumi du pouvoir qui vient de lui être démocratiquement confié par le peuple japonais, sera celui d'une reprise politico-historique révolutionnaire totale des destinées profondes de celui-ci, ouvertement reconnues comme telles ou ne fut-ce que partiellement tenues encore pour secrètes. Car il y a une eschatologie occulte de l'histoire nationale japonaise, dont les horizons intérieurs s'ouvrent à une double intelligence, à la fois supra-historique et cosmique, de ce monde-ci à son terme et de son au-delà caché: c'est ce qui constitue la véritable force supra-historique collective du Japon, et c'est aussi ce qui fait que le Japon s'identifie lui-même, totalement, à la conscience transcendantale commune de l'ensemble des peuples du "Grand Continent" eurasiatique, réunis dans la certitude visionnaire, préontologique, de la dimension fondamentalement eschatologique de l'histoire dans son ensemble final. La conscience archaïque commune, abyssale, des peuples du "Grand Continent" eurasiatique considère l'histoire comme le lieu même du salut supra-historique de la fin d'au-delà de la fin, la sainteté suprême étant, pour ces peuples, celle de l'héroïsme des combattants humains et suprahumains devant conduire à cette fin et au-delà de cette fin.
Aussi la réunification politique —la réintégration— grand-continentale eurasiatique mise actuellement en piste par le projet de l'axe contre-stratégique Paris-Berlin-Moscou-New Delhi-Tokyo devra-t-elle se trouver dédoublée, en profondeur, par une nouvelle prise de conscience commune quant à l'identité de la prédestination spirituelle, polaire, de l'ensemble des peuples de l'espace impérial eurasiatique. Or l'avènement de cette prise de conscience spirituelle, à la fois impériale et polaire eurasiatique, c'est ce que va constituer, désormais, la tâche des combattants idéologiques pour la plus Grande Europe et de leurs engagements politico-historiques de haut niveau. Une grande mystique combattante vient ainsi d'être née, qui à présent est en cours de développement révolutionnaire, "destinée à changer la face du monde".
Dans ce développement en cours, la part des "groupes géopolitiques" va devoir être des plus décisives: en effet, s'il y a une nouvelle prise de conscience civilisationnelle de dimensions grand-continentales eurasiatiques, ce sera en premier lieu aux "groupes géopolitiques" que celle-ci sera due, à leurs engagements héroïques de la période nocturne de la clandestinité, à leur travaux d'agitation, d'affermissement et d'affirmation révolutionnaire suractivée qu'ils devront livrer, à présent, en plein jour, une fois que la doctrine de la libération grand-continentale sera ouvertement appelée à devenir la volonté agissante de l'ensemble des peuples appartenant à l'espace originel d'une même communauté d'Être polaire et de destin eschatologique final.
Dans l'immense bataille révolutionnaire qui s'annonce pour une nouvelle prise de conscience historique commune de l'espace intérieur eurasiatique, les "groupes géopolitiques" seront donc les cellules de base de la marée montante de l'éthos vivant, de la conscientisation en marche vers le changement total, vers la transfiguration finale d'une civilisation à prédestination apocalyptique: la grande heure des "groupes géopolitiques" sera venue quand l'unité d'être de l'ensemble grand-continental eurasiatique sera reconnue comme la suprême valeur agissante de sa propre histoire terminale, en même temps que de sa propre histoire recommencée.
D'autre part, d'une manière plus concrète, plus immédiatement objective, il est tout à fait certain que, dans l'état actuel des choses, ce dont nous aurons le plus besoin, c'est d'un certain nombre de centres d'études, de recherches et de documentation (CERD) visant les profondeurs en même temps que réellement exhaustifs quand à leurs objectifs propres, d'un certain nombre de "foyers de rayonnement" au service de notre connaissance active, à jour, de la situation et des réalités actuelles de l'Inde, du Tibet et du Japon, de la partie à proprement parler asiatique du "Grand Continent", vers laquelle devront désormais se porter tous nos efforts de rapprochement, de réactualisation politico-historique et de ré-identification spirituelle de stade final avec ces peuples appartenant à la même communauté de destin profond.
D'ailleurs, le problème des relations continentales Europe/Asie n'est pas du tout nouveau. Déjà en 1940, dans son essai géopolitique aussi fondamental que décisif, Le bloc continental Europe Centrale-Eurasie-Japon, "imprimé mais non distribué", Karl Haushofer déplorait vivement l'absence flagrante, catastrophique, de centres européens d'étude et de recherches de haut niveau sur l'Inde, le Japon et l'Eurasie en général. Karl Haushofer pouvait cependant se féliciter de l'existence et des activités, à plusieurs égards exemplaires, de l'"Institut pour le Moyen et l'Extrême-Orient" de l'Italie mussolinienne, fonctionnant "sous la direction du Sénateur Gentile, de l'archiduc Tucci, du duc d'Avarna, fils de l'ancien ambassadeur d'Italie à la cour de Vienne".
Dans la situation d'émergence spéciale qui est la nôtre aujourd'hui, il faudrait donc qu'au moins six de ces Instituts pour le Moyen et l'Extrême-Orient soient installés d'urgence, deux en France, deux en Allemagne, un en Italie et un en Espagne. La Russie devant être, pour le moment, considérée à part, où plusieurs de ces genres d'Instituts existent déjà, et qu'il s'agirait alors plutôt de réorganiser, de restructurer et d'en intensifier les activités en cours d'une manière nouvellement significative.
Dans l'ensemble, la zone de problèmes concernant la Chine se devra d'être, cependant, étudiée à part, suivant une disposition d'esprit offensive, préventivement contre-stratégique. Car, située à l'intérieur de l'espace grand-continental eurasiatique, la Chine représente, pourtant, géopolitiquement, une tête de pont du monde "extérieur", "océanique". Relevant d'une vocation irréductiblement auto-centrée, la Chine se trouve de par cela même assujettie à l'"influence extérieure" des Etats-Unis et aux conspirations mondialistes anti-continentales, "océaniques", d'encerclement et d'investissement offensif du "Grand Continent" eurasiatique. La Chine se trouve préontologiquement engagée dans le camp ennemi du "Grand Continent", dans le "camp océanique" du Léviathan, du "non-être".
D'autre part, la rencontre finale entre les destinées spirituelles profondes de l'Europe et certaines prédestinations encore cachées de l'Asie se maintenant dans l'ombre ne trouvent-elles pas un domaine de jonction spécifique à travers des convergences ardentes qui s'imposent en matière de religion vivante, de religion en marche? N'est-ce pas dans l'invisible que viennent à se faire les grandes rencontres spirituelles, le Feu de l'Esprit ne se révèle-t-il pas irrationnellement dans les visions spéciales de ses élus secrets?
On sait que saint Maximilien Kolbe, le martyre d'Auschwitz, avait visionnairement pressenti le double cheminement de l'Inde et du Japon vers le catholicisme. Ayant lui-même séjourné au Japon, et notamment à Hiroshima et à Nagasaki —et l'on peut ainsi mieux comprendre les raisons du choix de ces deux villes pour cibles du feu nucléaire en août 1945, quand on sait qu'il s'agissait des deux villes catholiques du Japon— il y avait en effet acquis la certitude intérieure du grand avenir catholique du Japon.
En même temps, sans avoir pu réellement donner cours à son brûlant désir de se rendre personnellement comme missionnaire en Inde aussi, les relations personnelles de saint Maximilien Kolbe avec certains tenants de l'hindouisme initiatique l'avaient amené à penser la même chose de l'Inde: non pas dans les termes d'un raisonnement concerté, mais dans la perspective fondamentalement irrationnelle d'une vision spirituelle propre, d'une grâce de voyance à ce sujet, à laquelle il avait eu l'accès en tant que porteur d'une mission spéciale, ultérieure, décisive. Une mission occultement prophétique.
En ce qui concerne le Japon, il est vrai que le shintoïsme initiatique se prête à des rapprochements doctrinaux assez flagrants avec le grand catholicisme mystique. Dans la figure ensoleillante d'Amatarasu, ne pourrait-on pas distinguer une préfiguration enclose de l'Immaculée Conception? De même que les trois objets du culte impérial shintoïste —le "miroir", le "poignard" et le "joyaux"— pourraient également trouver des correspondances extrêmement révélatrices dans le catholicisme. Ainsi le "Miroir" —fondamentalement présent à Yasukuni— rappelle le Miroir du Cœur Immaculé de Marie, alors que le "Poignard" peut être identifié à l'Epée du Verbe Vivant. "Alors l'Impie se révèlera, et le Seigneur le fera disparaître par le souffle de sa bouche, l'anéantira par la manifestation de sa Venue", II Th., II, 8. Et, quant au "Joyau", cette figure polaire, centrale, conduit au mystère nuptial suprême de l'Aedificium Caritatis. Il faut savoir oser pénétrer derrière le voile.
Car c'est bien dans cet horizon spirituel ultime qu'il fait situer l'actuelle tentative révolutionnaire entreprise et poursuivie par Junichiro Koizumi au Japon, pays secret s'il en fut. Toutes ses initiatives politico-administratives comportent un dédoublement spirituel occulte, un répondant immédiat sur le plan de l'invisible. C'est l'autre monde qui, aujourd'hui, agit au Japon, à des fins très hautes.
Jean PARVULESCO.
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lundi, 04 août 2008
Jacques Pirenne: oligarchies de politiciens professionnels
Sur ce texte ancien de Jacques PIRENNE :
Voici une petite analyse intéressante de l'historien Jacques PIRENNE (fils de Henri) dans le tome 6 de son livre "LES GRANDS COURANTS DE L'HISTOIRE UNIVERSELLE" pp. 708-709, imprimé par les "ÉDITIONS DE LA BACONNIÈRE , NEUCHATEL" et publié par ALBIN MICHEL en 1955.
Cette analyse concerne la période de l'avant seconde guerre mondiale. Vous observerez que sa conclusion "sent le belge" (la stabilité par le compromis) et, à la lueur du temps, montre bien le chemin parcouru par les partis dits "démocatiques".

Jacques PIRENNE :
La vie politique est prise en mains par une oligarchie de politiciens professionnels
Le parlementarisme fondé sur l'opinion, avait été le fait, à l'origine, de petites minorités: Le corps électoral s'est progressivement accru, au fur et à mesure que s'est étendue l'instruction et qu'a augmenté le niveau de vie, c'est-à-dire l'indépendance matérielle de la masse. Après 1918, le suffrage universel est devenu partout une réalité. Le parlementarisme s'est adapté à ce régime nouveau dans lequel l'immense majorité des électeurs ignore tout des problèmes qui se posent au pays. Tout naturellement les partis ont visé à les embrigader en les groupant selon leurs intérêts matériels. Le socialisme, parti de classe, a encadré la masse; en défendant ses intérêts, il lui a imposé en même temps une discipline et un dogme.
En face du socialisme, le parti catholique a, lui aussi, créé des organisations professionnelles diverses, en superposant aux intérêts de classe l'idéal religieux. Seul le parti libéral, respectueux, de par son essence, de la liberté individuelle, ne s'est pas organisé. Partout, de ce fait, il s'est trouvé réduit à n'être qu'un parti minoritaire.
Dans les régimes totalitaires, un parti unique impose ses chefs et son dogme à la population tout entière. Dans les pays parlementaires, chaque parti impose sa direction à la fraction de l'opinion politique qu'il représente et encadre. Le droit de vote du citoyen se trouve ainsi réduit à accepter en bloc le programme et les hommes que lui propose tel ou tel parti. Ainsi le suffrage universel a-t-il eu pour conséquence de créer une oligarchie politique formée par les dirigeants des divers partis, lesquels ne constituent qu'une très petite minorité du corps électoral.
Seule la Suisse , par l'usage du référendum, a conservé au citoyen une liberté qui lui permet d'exercer une action directe sur la législation. Dans tous les autres pays parlementaires, cette oligarchie politique tend de plus en plus à se transformer en une classe spéciale. La politique devient une profession. Le mandataire est rétribué. L'extension constante des attributions de l'Etat ne cesse d'augmenter l'influence des hommes politiques. Le dirigisme économique leur livre de larges secteurs de la vie économique, leur ouvrant ainsi quantité de possibilités de profits. Pour faire partie de cette minorité dirigeante de la politique, il faut se plier à une stricte discipline, franchir des échelons qui, des organisations de parti, mènent aux mandats municipaux, provinciaux ou législatifs. Le parti fait un bloc; il donne ses Consignes ; il a ses intérêts, qu'il place avant ceux de l'État. En marge du parlement, les partis constituent un rouage irresponsable, mais tout-puissant, de la vie politique. Ils dominent le parlement, voire même le gouvernement, dont tous les ministres appartiennent à leurs organisations.
Ainsi le personnel politique se transforme en une oligarchie, comme le personnel des grands groupements capitalistes. Entre ces deux oligarchies des rapports se nouent; des services s'échangent.
Il en résulte une profonde transformation du régime parlementaire, de plus en plus dominé par les intérêts de classes ou de groupes que représentent les partis. Le rôle de l'élite intellectuelle y devient de plus en plus réduit, et la valeur des mandataires politiques, dont la plus grande partie ne joue plus au parlement que le rôle de figurants, tend à baisser.
Les partis constituent dorénavant les cadres des régimes parlementaires. Et tout naturellement, comme toujours lorsqu'une société possède des cadres politiques ou sociaux, ces cadres ont tendance à constituer des oligarchies privilégiées.
Comme la source de la puissance de ces oligarchies réside dans la possession du pouvoir, les partis luttent tout naturellement pour disposer du pouvoir en faisant et en défaisant des coalitions, de sorte que l'État se trouve ballotté d'un parti à l'autre.
L'autorité du gouvernement diminue tandis que celle des partis augmente; or, l'interventionnisme de l'État ne cesse d'étendre les attributions du gouvernement. Les partis, ou plutôt les petites oligarchies qui les dirigent et qui, à tour de rôle, se partagent les portefeuilles, étendent ainsi de plus en plus leur mainmise sur l'État et sur le pays.
Tel quel, cependant, le régime parlementaire demeure un régime d'opinion. En dehors des partis, en effet, se maintient une masse flottante d'électeurs qui se portent, lors des élections, vers l'un ou l'autre parti selon les tendances du moment. Si bien que malgré leur rigidité, les partis restent influencés par l'opinion. En outre, la succession des partis au gouvernement maintient l'équilibre entre les intérêts divers qu'ils représentent. Les crises ministérielles empêchent ainsi des crises sociales. Elles jouent le rôle de soupapes de sûreté. L'instabilité apparente du pouvoir, dans les régimes parlementaires, est la raison de la stabilité du régime lui-même. L'évolution démocratique des pays parlementaires a rallié tous les partis à une politique de réformisme social qui, à travers les crises ministérielles, s'est adaptée aux intérêts de tous les groupes sociaux.
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Chavez à Moscou, Minsk, Lisbonne et Madrid

Chavez rencontre le Président biélorusse Loukhatchenko
Siro ASINELLI:
Chavez à Moscou, Minsk, Lisbonne et Madrid
A la recherche d’une géostratégie planétaire alternative
Le 21 juillet 2008 a commencé une semaine “brève mais intense” pour le président vénézuélien Hugo Chavez. En effet, il a entamé un voyage en Europe. Première étape: il aété reçu par son collègue russe Dimitri Medvedev, le 22. Outre ce rendez-vous moscovite, le chef d’Etat latino-américain prévoit également de brèves étapes en Biélorussie, en Espagne et au Portugal. Ce voyage n’a duré que quatre jours mais, avant de l’entamer, Chavez, lors du rendez-vous hebdomadaire et dominical qu’il donne à son peuple, en parlant à la radio, n’a pas hésité à le qualifier de “stratégique”. Il a expliqué en direct durant l’émission “Alo, preidente!”: “Il s’agit d’un voyage très important, je dirais même qu’il s’agit d’un voyage stratégique et géopolitique dont l’objectif est de consolider toujours davantage la position du Venezuela”.
A l’ordre du jour, nous trouvons essentiellement la coopération bilatérale dans les domaines du développement technologique, militaire, scientifique et énergétique. Les antennes de la communauté internationale ont donc indubitablement cherché à capter le maximum sur les rencontres du 22 à Moscou. La veille du voyage en Russie, où Chavez est arrivé dans la nuit du 21 au 22, le président vénézuélien n’a fait aucun mystère sur les buts de son périple européen; sur le plan formel, a-t-il dit, l’objectif est “de créer des relations d’amitié sur base d’une sensibilité politique commune”. Sur le plan plus strictement matériel, cela se traduira par la signature de plusieurs contrats, pour des montants de plusieurs millions de dollars, portant sur la livraison d’armes. Le premier citoyen du Venezuela a lui-même évoqué l’acquisition possible, par Caracas, de chars russes et d’autres matériels de haute technologie destinés aux forces armées vénézuéliennes. Des sources, en provenance des milieux de l’industrie militaire russe, citées par de nombreux organes de presse latino-américains, confirment que plusieurs contrats de ce type étaient déjà sur la table autour de laquelle se sont réunis Chavez et Medvedev. Dès le 22, de vieux projets préparés entre le “Palacio Miraflores” de Caracas et l’ancien président russe —et actuel premier ministre— Poutine pourront se concrétiser. Notamment l’acquisition par le Venezuela de trois sous-marins diesel de la classe “Varchavianka” et de la troisième génération. Ce contrat, l’an passé, avait été l’objet d’âpres critiques de la part des pays soumis aux Etats-Unis, qui craignent l’alliance russo-vénézuélienne.
Par ailleurs, rappelons qu’en 2006 un embargo unilatéral avait été décrété à propos de la vente d’armes au Venezuela: de ce fait, les Etats-Unis avaient laissé le champ libre à leurs rivaux russes, devenus, en conséquence, les principaux fournisseurs des forces armées du pays latino-américain mis à l’écart de l’américanosphère. En deux ans, les contrats militaires conclus entre la Russie et le Venezuela portent sur un chiffre qui dépasse désormais les quatre milliards de dollars américains. Parmi les accords russo-vénézuéliens qui ont fait froncé les sourcils des atlantistes: la construction, encore en cours, d’une usine de fusils d’assaut fabriqués sur le modèle de la Kalachnikov de la toute dernière génération, l’AK-103, sur le territoire vénézuélien. Pour ceux qui ne cessent de dénigrer la “République bolivarienne” de Caracas, c’est la preuve que les institutions contrôlées par Chavez seront au premier rang pour fournir des armes à tous les guerilleros d’Amérique latine.
La signature des deux présidents ne sera finalement que simple formalité: fin juin, le vice-président vénézuélien Ramon Carrizales et le ministre de la défense Gustavo Rangel se trouvaient déjà tous deux à Moscou. Mais l’importance des relations entre Moscou et Caracas ne se limite pas au domaine militaire. Avec la nationalisation des ressources énergétiques, qui s’est opérée au cours des trois dernières années au Venezuela après l’approbation de lois visant à soutenir les atouts de la souveraineté nationale, Chavez a réussi à attirer habilement sur son territoire les grandes compagnies d’Etat russes, elles aussi récupérées et tirées des griffes des capitaux privés et étrangers grâce aux trains de lois impulsés par Poutine au cours de ses deux mandats présidentiels. A la fin de l’année 2006, la Lukoil a commencé à extraire du pétrole des gisements vénézuéliens, tandis que la Gazprom a obtenu, dès 2005, la licence d’exploiter les dépôts de gaz naturel dans le Golfe du Venezuela.
Les projets communs dans les secteurs militaire, minier et scientifique connaîtront forcément des développements dans l’avenir, comme l’a d’ailleurs confirmé le ministre des affaires étrangères de Caracas, Nicolas Maduro. Si le point fort reste la coopération militaire, il n’en demeure pas moins vrai qu’ “il s’agit d’une alliance qui permettra à notre pays de rompre le bloc militaire que l’élite américaine cherche à nous imposer”. Les pourparlers en vue de créer une banque russo-vénézuélienne laissent entrevoir des perspectives plus vastes. L’objectif de cette banque sera de financer de futurs projets bilatéraux. L’idée est venue à la suite de la création, sous l’impulsion de Chavez, de la “Banco del Sur”, qui fonctionne déjà en Amérique latine. Nous avons là une autre facette du grand projet d’alternative globale aux actuelles institutions financières privées comme la Banque Mondiale et le Fond Monétaire International, que Chavez a récemment proposé lors du sommet “Petro Caribe”, en suggérant comme futurs partenaires la Russie, la Biélorussie, la Chine, l’Inde et l’Iran.
Le voyage en Europe de Chavez ne s’est toutefois pas terminé à Moscou. Le 23, le président vénézuéliens’est rendu à Minsk pour rencontrer son homologue biélorusse Alexander Loukachenko, avec lequel il avait déjà signé des accords bilatéraux en matières d’énergie, de technologie etaussi dans un secteur fondamental pour la Biélorussie: celui de la coopération agro-alimentaire.
A Lisbonne, où il s’est rendu après avoir quitté Moscou et Minsk, Chavez a été l’hôte du premier ministre portugais José Socrates. Les deux hommes ont signé de nouveaux contrats de coopération alimentaire et énergétique, tandis que les premiers pétroliers vénézuéliens étaient déjà en route pour le Portugal, comme Chavez l’avait annoncé à la radio, avant son départ.
En fin de périple, Chavez s’est retrouvé en Espagne, où il s’est rendu, non pas tant pour signer certains accords commerciaux, mais surtout pour sceller la paix, à la suite de la querelle haute en couleurs qui l’avait opposé naguère au Roi Juan Carlos. Celui-ci lui avait lancé un peu diplomatique “Mais ne peux-tu donc pas la fermer?” lors du Sommet Ibéro-Américain à Santiago du Chili. Les deux protagonistes de l’algarade verbale semblent avoir enterré la hache de guerre. Chavez a rencontré à Madrid le premier ministre José Luis Rodriguez Zapatero puis s’est probablement rendu dans la résidence royale d’été à Majorque. Chavez avait annoncé et espéré cette visite dans son discours à la radio, sur un ton mi-sérieux mi-facétieux: “J’aimerais bien te faire l’accolade, Juan Carlos, mais tu sais que je ne la fermerai jamais et que je continuerai à parler pour un monde de justice et d’égalité”.
Siro ASINELLI.
(article paru dans le quotidien romain “Rinascita”, 22 juillet 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).
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La guerre postmoderne: entretien avec Claudio Risé

La guerre postmoderne: entretien avec Claudio Risé
Depuis 1945, toutes les guerres se déclenchent dans le monde à partir d'un refus des Etats nationaux vecteurs de la modernité. Claudio Risé, psychanalyste jungien et professeur de polémologie, collabore à plusieurs publications. Ses travaux les plus récents concernent la psychologie de l'agressivité (Il maschio selvatico. Come ritrovare l'istinto rimosso dalle buone maniere, Red Edizioni); en règle générale, le Prof. Risé aborde la thématique du ³virilisme² (Parsifal, Red Edizioni; Maschio amante felice, Frassinelli). Son dernier travail affronte un thème bien différent: la guerre postmoderne (La guerra postmoderna. Elementi di polemologia; Editrice Tecnoscuola, Gorizia, 1996). C'est sur ce dernier ouvrage que nous l'avons interrogé, à la suite de son brillant exposé lors de notre dernière université d'été.
Q.: Dans l'ensemble de vos travaux, quelle place occupe ce livre sur la guerre?
CR: D'une part, il est la continuation de toutes mes recherches. Mon Parsifal raconte l'archétype du guerrier, tel que nous l'a rapporté Wolfram von Eschenbach, qui n'est pas du tout le chaste moine de Wagner. Chez Wolfram von Eschenbach la guerre est l'événement historique par lequel se manifeste l'instinct viril dans toutes es contradictions: don de soi et, simultanément, destructivité. D'autre part, j'ai voulu confronter deux disciplines dans cet ouvrage: la science politique et la psychologie des profondeurs. Je les ai aussi confrontées à ce phénomène qu'est la guerre et qui a modifié la face du monde de 1945 à nos jours. La guerre, ou la menace de la guerre, a démenti toutes les spéculations nées de l'idéologie des Lumières, selon lesquelles nous avancerions vers l'unification politique et culturelle de la planète, or le fait est que le nombre des Etats est passé de quarante à environ deux cents!
Q.: Pourquoi parlez-vous de ³guerre postmoderne²?
CR: Parce que les guerres d'aujourd'hui, les guerres qui éclatent autour de nous, sont des luttes contre les universalismes imposées par la modernité ³illuministe² des révolutions bourgeoises. Les peuples pris dans les mâchoires annihilantes du mondialisme refusent cette conception occidentale de la liberté-égalité-fraternité que leur ont imposée les puissances colonisatrices. Ils partent en guerre pour rechercher leurs appartenances, leurs identités, pour reformuler des projets historico-politiques qui ont été balayés jadis par les impérialismes d'essence bourgeoise. Mon livre cherche à décrire les caractéristiques de ces guerres (qui se déroulent dans le monde), de ces peuples et de ces cultures niés dans leur identité, mais qui s'opposent aux Etats dits nationaux, mais en réalité multinationaux, parce qu'ils sont les vecteurs de la modernité. Ils s'opposent aux désastres culturels et territoriaux imposés par les grandes entreprises multinationales, qui sont en réalité les ³sujets forts² de ces Etats. Cette guerre globale contre l'homogénéisation est aussi un aspect de l'actuel ³globalisme².
Q.: Le globalisme recèlerait donc des aspects contredisant son projet de conquête culturelle et économique par l'Occident bourgeois? Votre position n'est-elle pas un peu ambigüe ou peut-être trop optimiste?
CR: Le globalisme est un aspect central de la réalité dans laquelle nous vivons, et c'est à partir du fait global qu'il représente que nous devons commencer à réfléchir. Je me sens très proche de Jünger et d'une bonne part des protagonistes de la ³révolution conservatrice², quand ils nous demandent d'aller de l'avant, de partir du présent pour retravers, traverser et récupérer le passé. L'informatisation globale, par exemple, a fourni un formidable instrument aux mouvements de récupération identitaire et a plongé dans un crise très profonde (pour l'heure, elle n'est pas encore surmontable) les instruments de contrôle politique des puissances dominantes qui sont les soi-disant ³services de sécurité². Je m'intéresse également aux pressions anti-sécularisantes que produisent, dans un monde global, les cultures (comme l'Islam mais il n'est pas le seul). Elles sont hostiles aux processus de sécularisation dérivés des bourgeoisies protestantes et accentués à la suite des révolutions bourgeoises. Le globalisme provoque une revitalisation du ³sacré naturel² (et, du point de vue psychologique, de l'instinct qui y est lié). La culture de la ³pensée faible² avait décrété que ce sacré et cet instinct avaient été évacués. J'ai ensuite pris en considération les coups très graves que la civilisation occidentale avait infligés aux cultures traditionnelles lors de leur rencontre, surtout quand elle a imposé à tous l'appareil normatif des lois et des règlements générés par la modernité. Ces lois et ces règlements sont très intrusifs et s'insinuent profondément dans la sphère privée, et ainsi dans l'instinct, comme nous l'a bien décrit Foucault. Une armée de prostituées, des bandes de gamins, partent en guerre, avec, en poche, les clefs d'un paradis bien différent de celui que nous avions imaginé, des bandits provenant du monde entier sont en train de mettre à mal toutes les constructions hypocrites de la ³political correctness² et du ³processus de civilisation² si cher à Freud et à Norbert Elias. Ce sont tous ces phénomènes qui m'intéressent et tous sont indubitablement les fruits du globalisme.
Q.: Comment cette ³guerre postmoderne² se concilie-t-elle avec Clausewitz?
CR: Je pense personnellement qu'elle ne se réconcilie pas trop avec les théories du général prussien. Clausewitz voyait la guerre comme une forme du pouvoir politique de l'Etat, comme ³la politique qui dépose sa plume et empoigne l'épée². Les guerres postmodernes, quant à elles, sont des guerres de nations ³organiques², de nations objectives, vivantes, contre l'appareil juridico-administratif des Etats. Les guerres postmodernes se combattent au nom de valeurs culturelles et transcendentes plus qu'au nom de pouvoirs politiques et ³mondains². Elles fuient les règles du pouvoir et échappent ainsi à celles de la diplomatie et de la stratégie. Elles se réconcilient davantage avec les ³forces obscures, inconnues², par lesquelles le Dieu de Tolstoï (qui tient dans sa main les c¦urs des rois) se manifeste dans l'histoire. La polémologie, telle que l'a imaginée Gaston Bouthoul dans les années 1950-1970, a eu la capacité de saisir cet aspect profond, inconscient, non calculé, du phénomène de la guerre. Ce n'est pas un hasard si les études ultérieures ont plutôt cherché à oublier cet aspect, pour revenir aux considérations conventionnelles sur la stratégie ou sur le droit ou l'économie. Ce n'est pas un hasard si la peur de ces passions étreint les universitaires modernes. Car ces passions sont des passions qui se réfèrent au divin, à des essences transpersonnelles, comme cela se manifeste dans toutes les guerres.
(entretien paru dans Orion, n°8/1996).
[Synergies Européennes, Orion (Milano) / NdSE (Bruxelles), Septembre, 1996]
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