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dimanche, 18 avril 2010

L'insegnamento della Costituzione di Fiume

Scritto da Giorgio Emili

http://www.area-online.it/  

Dannunzio_ingressa_Fiume.jpgLa politica si spezza il cuore a forza di predicozzi e buoni sentimenti, nell’era del conflitto sociale.
La Costituzione dovrebbe fare da collante e i valori in essa contenuti dovrebbero essere totalmente condivisi. La realtà, come bene abbiano visto, è un’altra: addirittura opposta. Lo scontro è aperto, i valori non sono condivisi, aleggia da decenni l’idea non dichiarata di una parte giusta che ha vinto e che reca in sé tutto il bene possibile.

La Costituzione italiana – serve parlar chiaro -  in molte parti nasconde questa realtà.
Per molti aspetti continua a essere la Costituzione del dissenso, prodotta da una frattura della storia italiana.
Le istituzione cercano, giustamente, di evidenziare le note concilianti, il sapore pieno di salvaguardia della democrazia e dei valori innati. L’evidenza dei fatti e la scarsa considerazione, da parte dei comuni cittadini, del tessuto della nostra Costituzione (certo, quanti la conoscono realmente?, quanti hanno approfondito le sue norme?) testimoniano che il passo decisivo verso la reale distensione degli animi non è ancora compiuto. Del resto perché tanti tentativi di riforma, perché tante dichiarazioni sulla necessità di un suo adeguamento?
La fiducia nella Costituzione ha, da sempre, sopito il conflitto, rasserenato gli animi, colmato i buchi di ogni possibile deriva. Questo però, a quanto pare, non basta. Fiducia cieca nella Costituzione, ci mancherebbe, ma è bello ricordare che esiste (è esistito) un modello costituzionale diverso (e per certi versi controverso) che ha un filo conduttore invidiabile.
Da uno scritto di Achille Chiappetti abbiamo scoperto una felice ricostruzione della Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume.
«Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro, promulgato l’8 settembre del 1920, costituisce da sempre – scrive Chiappetti - un angolo oscuro quasi perduto della coscienza costituzionale del nostro Paese. Il suo testo predisposto dal socialista rivoluzionario Alceste De Ambris rappresenta infatti un insieme di estrema modernità e di inventiva anticipatoria di quelli che sarebbero stati i successivi sviluppi dell’organizzazione economica dello Stato fascista e delle democrazie moderne. Il suo impianto – spiega - fondato sul sistema corporativo e sul valore del lavoro produttivo, come fondamento dell’eguaglianza e della libertà, nonché sul non riconoscimento della proprietà se non come funzione sociale, costituisce un modello che e stato troppo spesso dimenticato». Ma la parte più affascinante di quelle considerazioni sullo statuto fiumano riguarda l’analisi di singole norme, soprattutto se confrontate con le attuali della nostra Costituzione.
«La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini  - dice lo Statuto -, senza distinzione di sesso, di stirpe, di lingue, di classe, di religione». «Amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori». Ancora: «La Reggenza si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezione e di menzogne». Si respira  - chiosa Achille Chiappetti - «un aria di positività e di concordia quasi da costituzione statunitense e non il clima di tensione e scontro che risuona nelle prime parole della nostra Carta repubblicana».
Le conclusioni hanno forte sapore dannunziano e meritano di essere segnalate. Si innalza, infatti, su tutti l’articolo XIV della Carta del Carnaro: «La vita è bella e degna che veramente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà».
«È nello Statuto fiumano, dunque, che e possibile trovare l’ispirazione per un concetto di socialità posto in maniera differente e del tutto a-conflittuale che meriterebbe di essere ripreso per dare forza ad un nuovo risorgimento italiano».
Ecco. La felicita nella nostra Costituzione non c’è – dice Chiappetti - . E non solo lui.

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La Carta del Carnero - Une constituzione scomoda

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La carta del Carnaro. Una costituzione scomoda

Scritto da Andrea Venanzoni

http://ideodromocasapound.org/   

Uscita formalmente vincitrice dal primo conflitto mondiale, l’Italia si presenta in realtà come una nazione economicamente e socialmente allo sbando; un sistema produttivo prevalentemente a base rurale rimasto inerte e cristallizzato durante i lunghi anni del logoramento bellico, inflazione, disoccupazione, un certo tasso di arretratezza politica considerata dalla popolazione al pari di immobilismo e incapacità decisionale, i primi fermenti rivoluzionari portati dalla eco sempre più vicina della Rivoluzione d’Ottobre e dello spartachismo tedesco(1), danno un quadro desolato e raggelante di un paese sulla soglia della agitazione rivoluzionaria.
In questa composita situazione, si leva alto al cielo il grido dannunziano della vittoria mutilata; fortemente ostile alla linea filo-alleati e alla politica estera di Orlando e del suo Ministro degli Esteri Sonnino (accusati di non saper gestire le delicate trattative di Versailles, soprattutto in tema di annessione della ricca città di Fiume), ancorata questa alle direttive del Presidente americano Wilson (col quale pure si registrano degli screzi , screzi originanti da una condotta scorretta del Wilson stesso che in sprezzante violazione dei principii elementari della politica internazionale si rivolge direttamente in un discorso al popolo italiano invitandolo ad accettare ciò che Orlando non sembra voler accettare, ovvero la rinuncia ai territori giuliani e dalmati),
il Vate raduna una eterogenea pattuglia di militari, ex Arditi, sindacalisti rivoluzionari, artisti, anarchici e avventurieri e alla loro testa si insedia a Fiume per lavare quella che è vissuta a tutti gli effetti come una tragica onta.
Siamo nel Settembre 1919(2).

Fiume rappresenta all’epoca una realtà decisamente particolare; alla fine del secolo XVIII l'imperatrice Maria Teresa aveva concesso alla città lo status speciale di corpus separatum, garantendo una non indifferente autonomia amministrativa e finanziaria.
La particolare posizione geografica poi e lo speciale statuto giuridico avevano favorito lo sviluppo di Fiume non solo come centro commerciale, ma pure come città cosmopolita, intellettualmente vivace. All’interno della città la componente etnica italiana era divenuta nel corso degli anni maggioritaria, tanto che la locale comunità italiana costituitasi in Consiglio Nazionale immediatamente dopo la vittoria nel primo conflitto mondiale aveva unilateralmente proclamato l’annessione all’Italia.
Per quanto possa apparire paradossale, considerato lo stato d’assedio permanente(3) e la ristrettezza geomorfologica dell’enclave, l’area fiumana diventa subito uno straordinario laboratorio socio-giuridico; sul motivo o sui motivi che hanno reso possibile ciò si è scritto in abbondanza(4), quel che preme sottolineare è naturalmente la straordinaria capacità di mediazione operata da D’Annunzio, il quale riesce sin dall’inizio in forza del suo indubitabile carisma a ricomporre le disarmonie e le fratture intellettuali registratesi tra l’anima anarco-libertaria e quella più prettamente nazionalistica.

Il primo problema da affrontare è la denominazione stessa della enclave; lungi dal rivestire solo una importanza nominalistica, la questione è invece prettamente e squisitamente politica. Mentre i nazionalisti e gli Arditi spingono affinchè Fiume divenga Reggenza e quindi estensione sulla costa giuliano-dalmata del territorio italiano, sposando quindi in pieno le tesi degli Irredentisti confluiti nel Consiglio Nazionale, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici e l’anima operaista preferiscono di gran lunga sancire un’autonomia formale e sostanziale dall’Italia utilizzando la denominazione di Repubblica.
A quanto sembra, su questo punto si consuma uno degli scontri intellettuali più intensi tra il Vate e Alceste de Ambris(5); il sindacalista rivoluzionario italiano, amico fraterno di Filippo Corridoni(6), nominato Capo di Gabinetto nel Comando Fiumano dal gennaio 1920 avrebbe senza dubbio alcuno preferito lasciare sullo sfondo le istanze meramente irredentiste e annessioniste per concentrarsi maggiormente sulla riorganizzazione amministrativa e sociale dello Stato fiumano (o della “città libera di Fiume” come si diceva ricorrendo a suggestioni anarchiche). Di questa larvata tensione dialettica tra D’Annunzio e De Ambris sarà dato trovare traccia lungo tutto il testo della Carta.

Ad ogni modo, in considerazione del non secondario fatto che l’ala militare dei Fiumani è decisamente schierata su posizioni nazionaliste e che del Consiglio Nazionale ormai fanno parte anche iscritti ai Fasci di Combattimento mussoliniani, De Ambris accetta la denominazione di Reggenza, preferendo ottenere riconoscimenti di stampo sociale nella normazione dedicata al lavoro e al sistema rappresentativo.
La stesura della Carta nasce da un imperativo eminentemente organizzativo; vi è necessità di sottoporre l’enclave ad una sia pur minimale forma di controllo e di governo, nella speranza che l’Italia nittiana smetta di temporeggiare e proceda alla tanto aspirata annessione. Quindi più che una vera e propria Costituzione, uno Statuto amministrativo legato in modo specifico alla amministrazione delle Finanze e al reperimento dei fondi di cui la eterogenea pattuglia dannunziana abbisogna(7).
Per capire lungo quale tortuoso percorso logico, giuridico e culturale quello che sarebbe dovuto essere un mero Statuto di carattere effimero si trasforma in una vera e propria Costituzione diventa imprescindibile analizzare lo staff chiamato alla operazione di studio e di redazione della Carta stessa. Operazione che tra l’altro presenta il non secondario merito di spazzare via alcune ombre di mero folklore che aleggiano ancora oggi sulla impresa, sulla Reggenza e sulla Carta fiumana.
Quando infatti ci si riferisce alla Carta del Carnaro si è soliti ritenerla frutto del genio estemporaneo del Vate e si tende a mettere in risalto solo gli aspetti più prettamente letterari (come ad esempio l’incardinamento della Musica in un testo normativo) e si dimenticano tutti quei tecnici, giuristi, economisti, sindacalisti che misero il loro impegno al servizio della redazione di uno dei testi costituzionali più innovativi dell’epoca (e che conserva notevoli accenti di modernità ancor oggi).
D’Annunzio, come detto, deve reperire dei fondi e far gestire il Ministero dell’Economia da un tecnico; inizia una ricognizione di personalità accademiche ed istituzionali che lo possano aiutare sia nella gestione delle finanze sia nell’affrontare i problemi concettuali legati alla sfera delle imposizioni fiscali. Per dirigere l’economia fiumana il Vate quindi cerca, nel marzo del 1920, di attirare a Fiume anzitutto Giuseppe Toeplitz, consigliere delegato della Banca Commerciale, che però rifiuta.
Risposta negativa il Comandante riceve anche da Giuseppe Volpi, altro grande finanziere(8).
Inaspettatamente ad accettare è una personalità che, in apparenza, non potrebbe esser più distante dai governanti fiumani; il grande economista Maffeo Pantaleoni.
Sulle motivazioni che spingono Pantaleoni ad accettare l’incarico sembra prevalere il nazionalismo dello studioso, ammesso da lui stesso nel carteggio intercorso con D’Annunzio(9). L’esponente di punta, assieme a Vilfredo Pareto, del filone italico della corrente teorica denominata marginalismo ebbe modo di percorrere durante la sua esistenza una parabola non solo teorica e di studio ma anche esistenziale che lo condusse da una acceso liberalismo individualista ad una fiducia assoluta nella forza e nel potere di equilibrio espletato dallo Stato. Tanto che Pantaleoni, nella introduzione di un suo volume, arriverà a scrivere “il più grande, il più perfetto, il più splendido nazionalista che la guerra abbia rivelato presso di noi è Gabriele D’Annunzio. Molto l’Italia deve a quest’uomo, il più straordinario per intensità di sentimento e ricchezza di pensiero”(10).

In realtà l’idillio non dura molto; quando Pantaleoni arriva a Fiume, oltre alla tenuta del Ministero a cui è stato preposto viene chiamato a collaborare al documento costituzionale ed iniziano allora feroci scontri con le anime più libertarie ed intransigenti dell’Impresa. Effettivamente conciliare la posizione rigidamente statualista (quasi statolatrica) dell’economista con quelle autonomiste, microfederaliste dei vari De Ambris e Keller o con quelle eroico-futuriste di altri personaggi diventa un gioco di ardimento equilibristico. Lo scontro più violento, ed insanabile, però si consuma con i fautori del corporativismo, dottrina questa che Pantaleoni non può e non vuole culturalmente accettare.
Il corporativismo, come noto, non conosce una sua intrinseca univocità strutturale; ne è esistita una corrente di stampo cattolico(11), una più prettamente anarco-socialista (slegata quindi, in ottica di puro mutualismo proudhoniano, da ogni intervento dello Stato(12)) ed un corporativismo statualista che sfocerà poi in quello di stampo fascista.
Per i fautori di questa corrente e per la sua immissione nella carta costituzionale il corporativismo deve essere inteso come la collaborazione delle forze economiche di una Nazione, coordinate dallo Stato, secondo principi produttivistici, al fine di proteggere le economie nazionali dai tentativi egemonici di carattere monetario e politico operati da varie consorterie internazionali. In realtà mentre per lo stesso De Ambris l’intervento statuale può essere in qualche misura limitato, per altri Fiumani, esso deve comunque essere presente.
Per Pantaleoni, il corporativismo rischia di portare con sé il germe del particolarismo economico, fenomeni di lobbying, stratificazioni sociali non più controllabili dallo Stato. Una disarmonia generalizzata ai limiti dell’anarchia.
Dopo incontri, gruppi di studio, proposte accettate, cassate, smussate e lavorate più o meno finemente di cesello, si giunge l’8 Settembre del 1920 alla Promulgazione della Carta. Un testo certamente particolare, sia per alcuni profili di radicale innovazione dell’assetto statuale sia per l’inserimento, del tutto inusuale per un testo giuridico, di licenze poetiche, passi letterari (soprattutto nella considerazione della musica come cardine dello Stato) e palesi contraddizioni di cui si darà conto successivamente, avvertendo sin da ora che aporie e contraddizioni non sarebbero mai potute mancare stante la diversità culturale (ai limiti della irriducibilità ad unità) dei contributi proposti.
Il testo della Carta viene fatto precedere da un preambolo dal sapore puramente storico-letterario, ai limiti della mitopoiesi, significativamente titolato “Della perpetua volontà popolare”, in cui si ricostruisce il valore simbolico della città libera e si fa promessa di consegnarne la gloria imperitura all’Italia (a cui tuttavia non si manca di muovere critica per l’immobilismo, con le parole “la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria vittoria” tipizzando in certa misura lo spettro della vittoria mutilata); già da questa parte della Carta si comprende chiaramente la sua differenza formale con un qualunque testo costituzionale, poiché D’Annunzio afferma ex professo di voler andare oltre il mero status di corpus separatum e di voler far entrare in vigore la Costituzione come forma di controllo temporaneo sull’area in attesa dell’annessione.

Con l’art I si radica la sovranità (non a caso gli articoli dal I al XIV vanno sotto la rubrica di “dei fondamenti”), sia a livello rappresentativo sia a livello geografico (nel testo del medesimo articolo, sempre il I si assiste al passaggio di livello logico tra radicamento della sovranità nella libera audoterminazione del popolo e dato morfologico del confine orientale da difendere...). Particolarmente significativo il disposto dell’art IV(13); si sancisce in modo inequivoco un criterio di uguaglianza sostanziale, mirandosi a superare ogni forma di discriminazione per motivi di sesso, razza, convincimento ideologico, ceto, per poi passare ad una elevazione del diritto del produttore sopra ogni altro diritto, con frasi che echeggiano i principii proudhoniani. Principii proudhoniani che tornano, sia pure giocati sul delicato crinale di libertà individuale e mantenimento dell’ordine sociale, nell’articolo V laddove si fa riferimento alla tensione verso la giustizia e alla liberazione dai vincoli e dalla soggezione.
Anche l’elencazione dei cd diritti civili e politici lascia sbalorditi per l’assoluta modernità; dopo aver stabilito in modo chiaro l’uguaglianza tra i sessi, la Carta si premura di eliminare in radice qualunque ipotesi di coartazione delle libertà individuali, soprattutto quando queste investono la delicata sfera della credenza religiosa. Unico limite, lascia chiaramente intendere l’art. VII, la contrarietà al bene comune e alla stabilità, limite che verrà normativizzato in apposite leggi (le quali comunque non potranno essere equivoche, fumose, in tanto delicata materia).
Dopo aver stabilito il diritto all’educazione come diritto imprescindibile della persona umana, si arriva ad uno degli articoli certo più significativi dell’impalcatura normativa; il IX, che recita “lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la piú utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale.”
Si tratta di una innovazione lungimirante e sociologicamente parlando di grande brillantezza; la funzionalizzazione sociale della proprietà (che avrà vasta eco nei lavori del Costituente repubblicano, tanto poi da finire ad esempio nel secondo comma dell’art 41) e la sua riconduzione nell’alveo del lavoro individuale sono frutto di una visione analitica estremamente precisa, proiettata nel futuro e senza dubbio disancorata dal dato sociale di una Italia in cui la proprietà è all’epoca quasi esclusivamente fondiaria ed in cui l’occupazione della terra costituisce risorsa primaria.
Questa concezione della proprietà rappresenta una evidente rottura con schemi ottocenteschi, che consideravano in senso deteriore qualunque intervento statale in materia di traffici interprivatistici; si pensi alla notissima frase del giurista francese Portalis, uno dei massimi ispiratori del Code Civil del 1804, secondo cui ai privati compete la proprietà, al Sovrano l’impero, sancendo concettualmente l’esistenza di due sfere che avrebbero fatto meglio ad ignorarsi a vicenda.
L’eco della impostazione borghese e napoleonica si era pesantemente riverberata nel codice civile italiano del 1865; si pensi all’articolo 436 che definiva la proprietà come “diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”, si tratta in tutta evidenza di una norma ispirata da profondo egoismo mercantilistico, in cui l’unica accezione negativa di cui può connotarsi la proprietà è quando essa arriva a minacciare l’ordine pubblico o la struttura del consesso, non rilevando quindi la mera speculazione o la distonia sociale che essa dovesse determinare. Piuttosto curioso che, nonostante come detto gli articoli 41 e 42 della costituzione repubblicana tendano ad affermare (più su carta che non nella sostanza) una funzione sociale della proprietà poi sopravvivano norme come quella dell’art 841 del codice civile, norma che ancora oggi sancisce una assolutezza dei diritti del proprietario (nel caso di specie, del proprietario del fondo).

Allo stesso modo rileva l’art. XIII in cui per la prima volta nel testo compaiono le Corporazioni, qui al pari di Cittadini e Comuni considerate forze che concorrono al moto e alla formazione universitaria e sociale. Il lavoro torna in quella che è una delle norme più singolari dell’intera Carta, l’art. XIV; formalmente dedicato ai principii religiosi, di sapore estetizzante e con una smaccata aura nietzschana (soprattutto nella definizione dell’ “uomo intiero”) vede comparire ancora una volta il lavoro, vero motore non tanto invisibile della compagine statuale fiumana.
Con l’art XVIII si entra nel delicato ambito della organizzazione corporativa; ambito delicato perché la struttura corporativa può sottendere tanto ad una ricerca esasperata della democrazia diretta, tesa alla rappresentatività cetuale e dei produttori, quanto ad un controllo capillare di schietta ispirazione organicistica o totalitaria da parte dello Stato. Detto articolo viene a prevedere le corporazioni in numero di dieci, con simbologia presa dal Comune (quindi ricorrendo direttamente ai mitemi medievali) e con proprio Statuto regolamentare interno. Il successivo articolo XIX passa in rassegna la morfologia e le caratteristiche delle varie corporazioni; merita accennare la più particolare di queste, la decima, chiamata a dare rappresentanza “ alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. E' quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all'apparizione dell'uomo novissimo, alle trasfigurazioni
ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l'ànsito penoso e il sudore di sangue. E' rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta un'antica parola toscana dell'epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: "Fatica senza fatica ".”(14)
Non a caso l’ultima corporazione è innominata ed eminentemente priva di fisiologia; essa finisce con l’incarnare lo spirito costruttore che deve informare l’azione delle precedenti nove corporazioni(15). D’altronde uno spirito-guida finisce con l’essere indispensabile se si pensa che alle Corporazioni la Carta assegna un altissimo grado di autonomia decisionale e funzionale; esse svolgono fini di mutualità sociale, mettono in piedi strutture assicurative e previdenziali, si autogovernano, impongono ai loro aderenti dei tributi per l’autofinanziamento. Vedono riconosciuta la personalità giuridica di diritto pubblico.

Il raccordo con il potere centrale, la Reggenza, è determinato dall’articolo XXI secondo un criterio di autonomia e di collaborazione, in previsione del fine ultimo; non a caso si fa esplicito parallelismo con il riconoscimento delle autonomie locali, i Comuni.
E proprio il dettato normativo concernente i Comuni (articoli da XXII a XXVI) rappresenta una delle innovazioni più radicali, riconoscimento pieno ed esplicito dell’autonomia locale al massimo grado. Si pensi invece alla situazione italiana, dall’entrata in vigore dello Statuto albertino (che tra l’altro riconosce gli enti locali ma li normativizza in modo incidentale e limitato) sino agli anni venti; gli enti locali sono organizzati secondo il modello di accentramento francese, con dei Prefetti scelti dal potere centrale e dipendenti dal Ministero degli Interni operanti nella provincia e chiamati a rappresentare il Governo e ad essere al tempo stesso organi di vertice dell’amministrazione locale, coi Comuni governati da un Sindaco scelto dal Governo (tra i consiglieri comunali) e con una serie di controlli pervasivi esperiti dal Governo stesso, controlli che non investono solo la sfera della legittimità ma anche quella del merito(16).
Ai Comuni si riconosce il potere di stipulare trattati e accordi, di comporre le fratture sociali che si dovessero riscontrare al loro interno (a meno che queste non si facciano insanabili e non debba intervenire il potere centrale della Reggenza), in caso di contrasto tra le finalità perseguite dal Comune e la Reggenza una valutazione sarà data dalla Corte della Ragione (giudice delle leggi, sorta di Corte Costituzionale antesignana) attraverso un giudizio di conflitto di attribuzioni.

Per quel che invece concerne il potere legislativo, anche qui si riscontrano delle novità significative e delle concettualizzazioni ardite e moderne; aldilà dell’aspetto nominalistico, per cui si prevedono due Camere, il Consiglio degli Ottimi e quello dei Provvisori, bisogna mettere in luce il riconoscimento del suffragio universale tout- court con estensione dell’elettorato attivo (e passivo; posto che per essere eletti nel Consiglio degli Ottimi è sufficiente il requisito del poter votare, mentre nel caso del Consiglio dei Provvisori, che è espressione delle Corporazioni, si deve appartenere alla Corporazione di riferimento) anche alle donne. L’età per votare è fissata a venti anni.
Anche qui si colgono chiaramente delle nette differenze con la normativa costituzionale italiana dell’epoca; pur rimanendo anche nel caso fiumano la legge elettorale fuori dall’alveo costituzionale (pur se l’articolo XXXI, limitatamente al Consiglio dei Provvisori, parla esplicitamente di criterio della rappresentanza proporzionale), le età per essere eletti divergono in modo inequivoco (trenta anni in Italia, venti a Fiume; si veda l’art 40 dello Statuto albertino a tale proposito). Inoltre in Italia si prevedevano requisiti censitari sconosciuti alla Carta del Carnaro.

Le due Camere, o Consigli, hanno attribuzioni radicalmente differenziate, in forza della loro diversa composizione; il potere legislativo compete al Consiglio degli Ottimi che lo esercita nella stesura del Codice penale e civile, nella organizzazione della Polizia, della Difesa nazionale, della Istruzione pubblica secondaria, delle Arti belle, dei Rapporti fra lo Stato e i Comuni. Al contrario il Consiglio dei Provvisori, espressione delle categorie corporative, ha potestà legislativa in materia di diritto commerciale, diritto della navigazione, diritto del lavoro e quelle che oggi potremmo definire relazioni industriali, diritto tributario e bancario.
Le decisioni più rilevanti, come ad esempio i trattati internazionali e la riforma del testo costituzionale, competono al cd Arengo del Carnaro (anche noto come Consiglio Nazionale), ovvero i due Consigli di cui si è detto sopra, riuniti in seduta comune.

Il potere esecutivo conosce la sua sistemazione in due articoli, il XXXV e il XXXVI; si tratta di due norme eminentemente descrittive, che passano in rassegna la struttura dei Rettori, equivalenti dei Ministri. Essi sono raccolti in un ufficio, un organo collegiale assimilabile in qualche misura al Consiglio dei Ministri in cui il primo Rettore svolge la sua funzione di coordinamento e di apertura del dibattito, come “primus inter pares”.

Una delle novità più rilevanti è situata anche nell’ordinamento giudiziario cui la Carta dedica una cospicua mole di norme; esercizio migliore non potrebbe esservi di una lettura sinottica di queste norme e delle corrispondenti che lo Statuto albertino dedica all’argomento. Salta subito all’occhio quanto scarne siano le norme previste dalla costituzione italiana vigente in quegli anni, gli articoli dal 68 al 73; articoli che rimandano prevalentemente alla legge settoriale occupandosi poco della morfologia giudiziaria e del processo.
Al contrario la Carta del Carnaro all’articolo XXXVII delinea una lunga serie di organi giudiziari, alcuni dei quali di sorprendente modernità; essi sono i Buoni uomini, i Giudici del Lavoro, i Giudici togati, i Giudici del Maleficio, la Corte della Ragione. Gli articoli successivi si dilungano in maniera organica a delineare la funzione peculiare e specifica di questi giudici.
I buoni uomini potrebbero essere considerati antesignani dei nostri giudici di pace, con competenza esclusivamente su materie civili aventi un valore non superiore alle cinquemila lire, ed una residuale competenza in sede penale per quei reati che potremmo definire bagattellari, con pena non superiore all’anno di reclusione.
L’articolo XXXIX si dilunga in maniera articolata per delineare le caratteristiche della magistratura del Lavoro, e non potrebbe essere altrimenti se si pensa l’importanza che il lavoro riveste nella Carta. Si tratta di una norma di grandissima finezza giuridica, in cui al giudice del lavoro sono rimesse le cause lavorative e legate alle dinamiche corporative, materie tecniche e come tali ben conoscibili da esperti del settore che saranno appunto nominati giudici dalle varie Corporazioni; non solo, il Costituente fiumano prevede anche, per garantire celerità e speditezza nel rendere giustizia, la creazione di sezioni specializzate, le quali saranno chiamate a riunirsi nel caso di proposizione di appello.
Vi sono poi giudici togati, giurisperiti chiamati in via residuale a decidere sulle cause che non appartengano alla giurisdizione di buoni uomini o tribunale del lavoro.
Questi giudici, in organo collegiale definito Tribunale, costituiscono giudice d’appello per quel che concerne le cause proposte davanti ai Buoni Uomini.
L’articolo XLI prevede l’istituzione del cd Tribunale del Maleficio, composto da sette cittadini-giurati e da un giudice togato con funzioni di presidente. Si tratta di una sorta di Corte d’Assise penale, competente inoltre a decidere sui reati a sfondo politico.
Vi è poi l’istituzione della Corte della Ragione, supremo giudice delle leggi (e dei provvedimenti dell’esecutivo), organo chiamato a giudicare anche dei conflitti di attribuzione tra legislatore ed enti locali(17).
Si tratta in tutta evidenza di una costituzionalizzazione della funzione giudiziaria eminentemente diversificata rispetto a quella accolta dalle carti costituzionali ispirate ai criteri francesi, in cui la magistratura è un ordine con garanzie formali e sostanziali di indipendenza rispetto agli altri poteri; certamente permane grado di autonomia, in quanto non vi è soggezione del giusdicente rispetto agli altri poteri dello Stato però allo stesso tempo non esiste nemmeno una magistratura in senso tecnico.Anzi, gran parte dei cittadini chiamati a far valere la funzione giudiziaria sono diretta emanazione di interessi corporativi, con l’eccezione dei togati e dei dottori in legge nominati a comporre la Corte della Ragione.
D’altronde basta scorrere la normativa italiana, pre e post-unitaria, in tema di ordinamento giudiziario per comprendere come la magistratura di carriera, costituita in autonoma classe specializzata, fosse divenuta a tutti gli effetti un corpo più o meno separato dall’esecutivo (più o meno perché ad esempio la legge Cortese, r.d. 2626/1865 ancorava in modo abbastanza netto la nomina dei magistrati a seguito di concorso indetto dall’esecutivo e soprattutto ne delineava lo status in termini non prettamente di indipendenza; nemmeno le modifiche intervenute successivamente, fino al 1890, andavano nel senso di una autonomizzazione, autonomizzazione che si palesò al’orizzonte solo con la legge organica Zanardelli, la l. 6878/1890 e con la legge Orlando, l. 438/1908...tuttavia nel 1920, quando la Carta del Carnaro viene promulgata la magistratura italiana gode di una piena autonomia, con tanto dell’avvenuta creazione del CSM e inamovibilità dei pretori, ed una sempre più evidente tecnicizzazione della funzione.). Nella Reggenza di Fiume a rigore non esiste una vera magistratura, non si prevedono contrappesi e bilanciamenti tra le funzioni, tanto che le Corporazioni, che appartengono a tutti gli effetti al novero dei corpi sociali e che esprimono anche una loro funzione legislativa (a mezzo di nomina di cittadini che finiranno nel Consiglio dei Provvisori), sono anche chiamate ad esprimere dei “magistrati” tecnici per il processo del Lavoro e per altre Corti.
Questa curiosa commistione di differenti livelli logici troverà una sua peculiare eco nell’ordinamento Grandi; per fare un esempio che sia chiarificatore basta leggere il paragrafo ventinovesimo della Relazione del Guardasigilli al Re, paragrafo in cui si esprime chiaramente una visione etica dello Stato e della funzione giudiziaria che deve permanere indipendente solo per non vedere turbare il giudizio del magistrato (nonostante poi il magistrato stesso debba essere “responsabilizzato” verso il raggiungimento del bene supremo della comunità statuale). Certo una nozione curiosa di indipendenza.

Consci della effimera consistenza della Reggenza, o quantomeno del suo essere minacciata dall’esercito italiano, i costituenti decidono tuttavia di costituzionalizzare la figura del Comandante, ricalcata palesemente sulla figura del “dittatore” del diritto pubblico romano; figura necessariamente transitoria, chiamata a risolvere casi di eccezionale gravità, il Comandante assomma tutti i poteri. La durata del suo incarico è stabilita dal Consiglio Nazionale, che è pure competente alla sua nomina.
La difesa nazionale, strettamente interrelata alla figura del Comandante, viene affidata al “popolo in armi”, e tanto gli uomini quanto le donne devono prendere parte alle attività militari, i primi come combattenti le seconde come ausiliarie.
L’art XLIX contiene una disposizione piuttosto oscura, prevedendo che “in tempo di pace e di sicurezza, la Reggenza non mantiene l'esercito armato; ma tutta la nazione resta armata, nei modi prescritti dall'apposita legge, e allena con sagace sobrietà le sue forze di terra e di mare”. Si tratta indubbiamente del tentativo di configurare una vera e propria milizia di popolo, sulla scia di suggestioni rivoluzionarie riprese dalla esperienza sovietica. Una conferma a questa impostazione ci arriva da uno scritto di De Ambris(18), in cui si mette in luce l’analogia intercorrente tra bolscevismo e fascismo (almeno il primo fascismo, quello cui lo stesso De Ambris aveva inizialmente abbracciato); non a caso nella temperie fiumana si tenterà la sintesi tra nazionalismo e istanze rivoluzionarie sociali, attingendo al patrimonio culturale dei cd teorici della violenza rivoluzionaria, come Blanqui e Sorel, che come noto furono tra le letture di formazione pure del giovane Mussolini.
L’oscurità della norma adombra in realtà una contraddizione; il non mantenimento dell’esercito in armi cozza decisamente con il concetto di una nazione che resta comunque armata. E per quanto, come tenta di precisare il resto della disposizione, si operi una differenza tra servizio militare attivo e istruzione militare vi è da dire che la norma non si chiarifica, se non nel senso di una enunciazione di principio che vuole appunto la determinazione di una milizia popolare.
Per rimanere in tema di spirito popolare e di democrazia diretta, alcune norme si premurano di garantire al cittadino la possibilità di partecipare, sia pur in modo limitato e mediato, al processo legislativo.

A norma dell’art LV “ogni sette anni il grande Consiglio nazionale si aduna in assemblea straordinaria per la riforma della Costituzione. Ma la Costituzione può essere riformata in ogni tempo quando sia chiesta dal terzo dei cittadini in diritto di voto. Hanno facoltà di proporre emendamenti al testo della Costituzione i membri del Consiglio nazionale le rappresentanze dei Comuni la Corte della Ragione le Corporazion.”. Invece per l’art LVI, “tutti i cittadini appartenenti ai corpi elettorali hanno il diritto d'iniziare proposte di leggi che riguardino le materie riservate all'opera dell'uno o dell'altro Consiglio, rispettivamente. Ma l'iniziativa non è valida se almeno il quarto degli elettori, per l'uno o per l'altro Consiglio, non la promuova e non la sostenga.”.
La carta costituzionale disciplina anche l’istituto della riprova, ovvero un referendum da leggersi sia in chiave propositiva quanto abrogativa.
Estremamente moderno, e attuale, l’art LIX, il quale stabilisce che “nessun cittadino può esercitare piú di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo”.
Abbiamo visto come la Carta sia un testo estremamente moderno, persino ardito in alcune parti; non mancano, come si accennava più sopra, delle contraddizioni e delle aporie soprattutto dettate dal tono generale di enunciazione solenne, persino meta- letteraria. E così, se da un lato sono comprensibili il mancato raccordo concettuale tra istanze socialisteggianti e quelle più smaccatamente nazionalistiche e statolatriche, diventa invece più arduo comprendere come in tema culturale la Carta si affretti a sancire l’uguaglianza di tutte le lingue salvo poi specificare che la lingua superiore a tutte, per retaggio storico e missione universale è quella italiana. Partizione comprensibile in termini di opportunità politica, meno in una prospettiva giuridica e costituzionale.

La Carta tuttavia non ha modo di essere messa alla prova; promulgata l’8 Settembre del 1920, quindi al crepuscolo dell’esperienza fiumana (che sarebbe definitivamente finita col cd Natale di sangue in quello stesso anno), essa si appresta quindi a passare alla storia come uno di quei documenti di altissimo valore simbolico, come la Costituzione della Repubblica romana, priva però di una reale messa in pratica.
Al Fascismo quel documento risulterà pressocchè inservibile(19) dal punto di vista pratico-organizzativo (ma non certamente da quello culturale); gli unici studiosi fascisti che si interesseranno ad essa saranno gli analisti del pensiero corporativo, come Menegazzi, Peteani, Ugo Spirito(20) ma la loro visione del corporativismo sarà decisamente differenziata rispetto a quella sussunta nel dato normativo della Carta.
Piuttosto il Fascismo riprenderà la visione del lavoro fiumana e la tipizzerà nella Carta del Lavoro, cercando di dare un seguito, mediante il Ministero delle Corporazioni, alla piena collaborazione armonica tra le classi per il superiore bene della Nazione. Ma ciò che soprattutto il Fascismo riprenderà sarà il sostrato culturale sotteso alla esperienza fiumana, anche se la funzionalizzazione sociale della proprietà sarà raggiunta soltanto nel sudario di sangue e fuoco della Repubblica Sociale.

Note

  1. Una cui anticipazione poteva essere vista su suolo italico nella cd “settimana rossa” consumatasi nel 1914, e che aveva portato alla costituzione delle prime squadre di autodifesa organizzate da industriali ed agrari per arginare le contestazioni violente delle Leghe socialiste. La fenomenologia dei moti insurrezionali e delle violenze politiche pre e post-belliche è ricostruita, nel generale quadro ricostruttivo delle origini del Fascismo, dalle teoria di Chabod, Tasca e Nenni, secondo i quali si potrebbe parlare di una “periodizzazione del fascismo”, ovvero di fasi storiche in cui il fascismo sarebbe stato presente sia pure in nuce.
  2. In realtà Orlando, suggestionato da questo clima e preoccupato che potessero nascere moti insurrezionali, anziché cercare un compromesso, resta fermo nelle pretese sulla Dalmazia ed aggiunge la richiesta di annessione di Fiume all'Italia, ordinando anche, in risposta all'appello del Consiglio Nazionale fiumano, lo sbarco di alcuni reparti militari a Fiume.
  3. La scarsa incisività diplomatica di Orlando, tornato in Italia stanco e sfiduciato, costa cara al giurista; la Camera difatti gli vota contro ed il suo posto viene preso da Nitti. Il quale Nitti si dimostra decisamente ancor meno benevolo nei confronti della ipotesi di annettere Fiume all’Italia.
  4. Vedasi ex multis, Renzo De Felice: “La Carta del Carnaro”, Bologna, Il Mulino, 1973 , Renzo De Felice: “D’Annunzio politico (1918-1928)”, Roma-Bari, Laterza, 1978 , G. Negri e S. Simoni: “Le Costituzioni inattuali”, Roma, Ed. Colombo, 1990; soprattutto il De Felice, nel suo “la Carta del Carnaro”, op. cit., p. 10, mette in luce un dato estremamente importante; D’Annunzio si trova alla guida di una pattuglia certo eterogenea per aspirazioni e idealità, ma omogenea nella tensione verso la creazione di una compagine organizzativa nuova, soprattutto omogenea nel dato sociale, cetuale e culturale. Mentre al contrario l’Italia era divisa e frammentata da divisioni sociali, culturali di grande rilevanza.
  5. C. Salaris, “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume”, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 100 .
  6. I due tra l’altro, conosciutisi nel 1908, collaboreranno per breve tempo al giornale sindacalista L’Internazionale, inoltre la sorella di Corridoni sposerà il fratello di De Ambris, Amilcare.
  7. Tanto che i Marinai fiumani vengono denominati Uscocchi, riprendendo l’antico nome dei Pirati dalmati; e la pirateria marittima non viene esclusa dal novero dei mezzi di approvvigionamento. Addirittura l’anarco-futurista Guido Keller organizza un Ufficio Colpi di Mano, la cui sezione marittima altro non fa che atti di pirateria, catturando navi mercantili e portandone i carichi a Fiume.
  8. C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, op. cit. p. 137.
  9. A. Cardini, “Il nazionalismo di Maffeo Pantaleoni e il suo carteggio con Gabriele d’Annunzio (1919-1922)”, «Studi Senesi», Supplemento alla centesima annata, Volume Secondo, 1988, pp. 806-834 e R. De Felice, “Il carteggio fiumano d’Annunzio-Pantaleoni”, «Clio», anno X, n. 3/4, luglio-dicembre 1974, pp. 519-551
  10. M. Pantaleoni “Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra”, Bari, Laterza, 1917, pp. VII-VIII.
  11. Leone XIII, Enciclica Humanum Genus, 20 aprile 1884; in quesa enclichica il Pontefice auspica di far risorgere, adattate ai tempi, strutture corporative, simili, per qualche aspetto, a quelle distrutte dai sostenitori di aride leggi economiche, contrastanti con i principii di valorizzazione e di collaborazione che da secoli la Chiesa Cattolica perfezionava e indicava ai popoli. Si pensi pure alla Rerum Novarum. E’ comunque evidente che il corporativismo cattolico è totalmente orientato su coordinate anti-statali.
  12. Come noto per Proudhon il fine ultimo cui deve tendere l’individuo è la giustizia, una giustizia che sarebbe negata dalla presenza stessa dell’autorità, sia essa metafisica o pubblicistica; applicato alla sfera lavorativa questo principio si traduce nel mutualismo, attraverso cui i lavoratori, in quanto produttori, si scambiano i prodotti, in modo da costruire un tutto armonico. In questa nuova forma di società lo Stato e le sue leggi finiscono per scomparire e la loro funzione può essere assolta da contratti liberamente stipulati, volti a risolvere i problemi della convivenza. Questo specifico aspetto dell’anarchismo proudhoniano sarà recepito anche da altri teorici dell’anarchismo, come tra gli altri Kropotkin. Non a caso il lavoratore a Fiume è considerato un produttore.
  13. La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed inalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori; abolisce o riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e gli officii, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre vigorosa e piú ricca la vita comune.
  14. La tensione verso l’orizzonte sovra-umano delle idee, un aroma nietzcshano diffuso, sottendono chiaramente in tutto il testo costituzionale dei lineamenti che potremmo definire di “costituzione-indirizzo”, intendendosi con tale espressione una normativizzazione che vuole essere sprone al cittadino affinchè si senta parte di una comunità in cammino protesa verso il raggiungimento di un fine superiore. Sul punto vedasi M. Fioravanti, Appunti di Storia delle costituzioni moderne- le libertà fondamentali”, Giappichelli, 1995, p. 99 .
  15. L’accenno ad una “mitologia del lavoro” non può passare inosservato; richiama esplicitamente quelle figure immani che saranno poi rievocate dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo. Si pensi per tutti all’operaio jungeriano.
  16. Il microfederalismo di matrice socialnazionale può essere colto in maniera esplicita laddove si confronti questa normazione con la corrispondente normativa italiana in tema di autonomie locali; il Testo Unico degli Enti Locali (d lgs 267/2000) che all’art 1, comma 3, sancisce un quadro imperativo di limiti per le autonomie stesse. Clamoroso da questo punto di vista anche l’articolo 3. Sul punto, vedasi “L’ordinamento degli Enti Locali”, a cura di Mario Bertolissi, Il Mulino, 2002, specialmente pagine 51-69; per una ricostruzione storica del sistema delle autonomie locali, G. Melis “Storia dell’amministrazione italiana”, il Mulino, p. 76
  17. XLII. Eletta dal Consiglio nazionale, la Corte della Ragione si compone di cinque membri effettivi e di due supplenti. Dei membri effettivi almeno tre, dei supplenti almeno uno saranno scelti fra i dottori di legge. La Corte della Ragione giudica degli atti e decreti emanati dal Potere legislativo e dal Potere esecutivo, per accertarli conformi alla Costituzione; di ogni conflitto statutario fra il Potere legislativo e il Potere esecutivo, fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune, fra la Reggenza e le Corporazioni, fra la Reggenza e i privati, fra i Comuni e le Corporazioni, fra i Comuni e i privati; dei casi di alto tradimento contro la Reggenza per opera di cittadini partecipi del Potere legislativo e dell'esecutivo; degli attentati al diritto delle genti; delle contestazioni civili fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune; delle trasgressioni commesse da partecipi dei poteri; delle questioni riguardanti i diritti di cittadinanza e i privi di patria; delle questioni di competenza fra i vari magistrati giudiciali. La Corte della Ragione rivede in ultima istanza le sentenze, e nomina per concorso i Giudici togati. Ai cittadini costituiti in Corte della Ragione è fatto divieto di tenere alcun altro officio, sia nella sede sia in altro Comune. Né possono essi esercitare professione o Industria o mestiere per tutta la durata della carica. L'’istituzione di un giudice delle leggi è una innovazione enorme, che precede addirittura la polemica giuridica sul “custode della costituzione” intercorsa tra Carl Schmitt e Hans Kelsen.
  18. A. De Ambris, “Dopo il trionfo fascista – Le due facce di una sola medaglia”, citato in R. De Felice, Le Interpretazioni del Fascismo, Laterza, 1989
  19. Sulla concezione e sull’ordinamento sindacale e corporativo fascista, in una prospettiva giuridica, vedasi M. Di Simone, “Il Regno di Sardegna e l’Italia Unita”, Giappichelli, 2007, p. 336-339, e A. Grilli “L’Italia dal 1865 al 1942; dal mito al declino della codificazione”, in M. Ascheri “Codificazioni Moderne”, Giappichelli, 2007, p. 238-247
  20. Spirito è probabilmente l’unico intellettuale tecnico, in polemica col corporativismo cattolico, in grado di rileggere e ricontestualizzare in cornice fascista l’esperienza costituzionale fiumana.

Tsarigrad ou le rêve brisé

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

Trouvé sur : http://www.polemia.com/campagne.php?cat_id=31&iddoc=664
[Visitez souvent le site de l’association “Polemia” de Jean-Yves Le Gallou!!]

Fabien de STENAY :

Tsarigrad ou le rêve brisé

"Je me répète lentement, pour bien m'en pénétrer, cette phrase mélancolique d'un vieux prince Bibesco : « La chute de Constantinople est un malheur personnel qui nous est arrivé la semaine dernière »." Com­me le montre la fin amère du fameux roman de Jean Raspail « Le Camp des Saints », la chute de Constan­tinople reste dans l'imaginaire européen symbole de fatalité, de perte irréversible et d'autant plus dou­loureuse. Pourtant, avec le reflux de l'Empire ottoman à partir du XVIIIe siècle, il s'en fallut de peu pour que la Seconde Rome revînt aux mains des Européens. Mais, comme souvent, ce fut la division de ceux-ci qui ruina tous les espoirs.

 

Dans l'Europe restaurée du Congrès de Vienne et de la Sainte Alliance, la Russie s'était assignée la mission de garantir l'ordre sur le continent.

 

Dès le début de son règne, le tsar Nicolas Ier (1825-1855) fit du contrôle des détroits - « les clefs de la maison » - le second objectif de sa diplomatie pour des raisons au moins autant mystiques que straté­gi­ques. La politique de grande fermeté qui suivit vis-à-vis de la Sublime Porte déboucha en 1828 sur une guerre. L'armée russe fut victorieuse, et l'avantageux traité d'Andrinople fut conclu le 14 septembre 1829 : la Russie obtenait les bouches du Danube, des territoires caucasiens, ainsi que le libre passage à travers les détroits pour ses navires marchands. Enfin, les provinces de Moldavie et de Valachie obte­naient leur autonomie et leur placement sous protectorat russe (tout en restant officiellement rattachées à l'Empire ottoman). Les armées du tsar approchaient des Balkans.

 

Toutefois, les principes arrêtés par Alexandre Ier restaient de vigueur : on se contentait d'affaiblir l'Em­pire ottoman, tout en maintenant son intégrité territoriale. Dès le début des années 1830, cette politi­que relativement modérée porta ses fruits : le sultan demanda en 1833 l'aide russe contre le soulèvement du pacha d'Egypte Mehmet Ali. En retour, un traité d'assistance mutuelle fut signé entre les deux Empi­res; une clause secrète interdisait à l'Empire ottoman d'ouvrir les Dardanelles aux bâtiments de guerre étrangers.

 

Les grandes puissances européennes, en premier lieu l'Angleterre, contestèrent le privilège accordé aux Russes, et un nouveau conflit turco-égyptien donna l'occasion d'un nouveau traité : la convention des Dé­troits, entre l'Autriche, la France, la Grande-Bretagne, la Prusse et la Russie, par laquelle les Britanniques obtinrent que les détroits soient interdits, en temps de paix, à tout navire autre que turc.

 

La Russie conservait toutefois des droits sur les populations chrétiennes de l'Empire ottoman, en parti­culier dans les Balkans.

 

Aussi, quand, en 1852, Napoléon III obtint la restitution de douze lieux saints de Palestine à l'Eglise ca­tholique qui les avait perdus en 1808 au profit de l'Eglise orthodoxe, la diplomatie russe perçut le succès français comme une menace. Au début de l'année suivante, le tsar proposa donc au gouvernement bri­tannique un plan de partage de l'Empire ottoman excluant Napoléon III : l'Egypte reviendrait à l'Angleterre tandis que la Russie obtiendrait les Principautés roumaines, la Serbie, la Bulgarie ainsi que le contrôle des détroits. Mais le projet ne pouvait qu'échouer : le tsar négligeait la force des ambitions françaises, et surtout l'hostilité des Anglais comme des Autrichiens à l'avancée russe dans les Balkans. Après une nouvelle guerre russo-turque et la destruction de la flotte ottomane le 30 novembre 1853 à Sinope, la France et l'Angleterre entrèrent en guerre contre le tsar. La guerre de Crimée se poursuivit pendant plus de deux ans et aboutit à une débâcle russe. Le nouveau tsar Alexandre II, à la tête d'une Russie en net recul, con­sacra alors une bonne partie de son énergie à réformer son Empire, et renonça pour le moment à son expansion balkanique.

 

Le climat des années 1870 renoua en partie avec celui qui suivit le Congrès de Vienne : en 1873, une al­liance des trois empereurs (Allemagne, Autriche-Hongrie, Russie) ayant pour but de préserver l'équilibre européen semblait rejouer la Sainte-Alliance.

 

Mais pour le tsar, cette place qui lui était donnée devait servir de tremplin à une nouvelle politique bal­kanique conforme à la poussée du nationalisme et du panslavisme dans l'opinion russe. Celle-ci avait en ef­fet commencé à s'engager passionnément dans la « question d'Orient » au nom de la cause panslave. Mos­cou, « troisième Rome », devait non seulement défendre les intérêts des minorités slaves et orthodoxes de l'Empire ottoman, mais aussi libérer ceux-ci du joug turc et reprendre pied à Constantinople. De plus en plus, la cité du Bosphore était désignée dans la langue russe sous le nom fortement connoté de Tsarigrad, « la ville des empereurs ». Des comités panslaves se formèrent dans les grandes villes (Mos­cou, Saint-Pétersbourg, Kiev, Odessa…), et nourrissaient leur idéologie par les écrits de plumes presti­gieuses, comme Danilevski ou Dostoïevski. Ce dernier écrivait par exemple dans le « Journal d'un écri­vain » : « Le chemin du salut exige que la Russie, et pour son propre compte, s'empare de Constantinople, car la Russie seule a le droit de dire qu'elle est à la hauteur de la tâche ». Certes, le gouvernement russe se méfiait de cette surenchère, mais elle contribua néanmoins au renforcement de l'engagement russe dans les Balkans, au moment même où les minorités orthodoxes de l'Empire ottoman se révoltèrent.

 

Le mouvement lancé en juillet 1875 par les paysans orthodoxes de Bosnie contre leurs seigneurs musul­mans se généralisa en effet à l'ensemble des Balkans.

 

Devant la féroce répression turque et l'entrée en guerre de la Serbie et du Monténégro, la Russie tint na­turellement à intervenir. Prudente, elle attendit la garantie de la neutralité autrichienne pour déclarer la guerre aux Ottomans, en avril 1877. L'engagement russe fut massif et, malgré la vive résistance tur­que, les troupes du Tsar entrèrent dans Andrinople, à 200 Km de Constantinople, en janvier 1878. Le 3 mars suivant, le traité de San Stefano entérinait la victoire de la Russie, qui obtenait de plus des terri­toires arméniens et roumains. L'Empire ottoman dut reconnaître formellement l'indépendance de la Ser­bie, du Monténégro, de la Roumanie, et accepter l'autonomie d'une grande Bulgarie englobant la Ma­cédoine.

 

Toutefois, ce traité bilatéral russo-turc, bien qu'il témoignât du dynamisme retrouvé de la politique bal­kanique russe, se heurta à l'hostilité des diplomaties autrichienne et anglaise qui voyaient d'un mauvais œil cette grande Bulgarie, vaste Etat slave client de la Russie. Les autorités russes durent bientôt ac­cepter le principe d'une conférence internationale; celle-ci se déroula à Berlin en juin et juillet 1878, sous l'égide du chancelier Bismarck et en présence des dirigeants européens de tout premier plan. La Russie dut renoncer à l'autonomie de la Grande Bulgarie et accepter que la Bosnie-Herzégovine fût occupée par l'Autriche-Hongrie. Malgré le dynamisme de la politique balkanique d'Alexandre II, la fin de son règne fut donc marquée par l'opposition virulente des Autrichiens et des Anglais, bientôt rejoints par l'Allemagne : en 1879, une nouvelle alliance, la Duplice, réunissait les Empires autrichien et allemand face à la Russie.

 

Le combat pour Tsarigrad restait toutefois une préoccupation au moins inconsciente de l'impérialisme russe. « Ce damné mirage de Constantinople », comme fait dire Soljénitsyne à l'un des personnages de «Novembre Seize», allait jouer un rôle dans les négociations qui menèrent à la Première Guerre Mon­diale et qui la rythmèrent.

 

En 1912, lors des guerres menées contre la Turquie par les Etats balkaniques, la Russie soutint ces der­niers en faisant bien comprendre à tous que la question constantinopolitaine était un domaine réservé du Tsar. Mais surtout, la mise en place de la Triple Entente impliquait un accord entre Saint-Pétersbourg et Londres : en 1905, la France avait en effet refusé de suivre les cousins Guillaume II et Nicolas II dans leur projet de grande alliance continentale, concocté à Björkö. Après cet échec, le réarmement naval de l'Allemagne inquiéta la Russie, qui, en 1907, n'eut d'autre choix que de suivre la France dans son alliance avec l'Angleterre, bien que cette dernière eût soutenu le Japon dans la guerre de 1904-1905. Mais malgré l'accord tacite de ses alliés à l'enlèvement de Constantinople aux Turcs, la Russie savait qu'elle ne pourrait faire admettre celui-ci aux Autrichiens qu'à la faveur d'une guerre victorieuse.

 

C'est donc après le déclenchement du conflit européen en août 1914 (la Russie ne déclara la guerre à la Turquie qu'en novembre) que commencèrent les manœuvres, militaires comme diplomatiques, autour de la Ville de Constantin.

 

En 1915, Anglais et Français montèrent l'opération des Dardanelles, en vue d'occuper Constantinople et de négocier sa remise à la Russie. Mais devant la résistance menée par Mustafa Kemal et le général allemand Liman von Sanders, l'offensive fut abandonnée après plusieurs mois meurtriers, et ce malgré l'épuisement imminent de l'armement turc: le retrait de l'amiral anglais De Robeck, commandant en chef de l'opéra­tion, stupéfia les Turcs qui ne pensaient pas pouvoir tenir plus longtemps ; il n'est pas impossible que la victoire ait été délibérément évitée. Mais ce n'est pas la dernière occasion manquée dans cette affaire.

 

À partir de la fin de 1916, des négociations secrètes furent ouvertes entre Vienne et Paris, par l'in­termédiaire des princes de Bourbon-Parme, frères de l'impératrice Zita et officiers dans l'armée belge. En février 1917, Charles Ier d'Autriche fit savoir qu'il était prêt à accepter, non seulement la restitution à la France de l'Alsace-Moselle (et même des places enlevées au second traité de Paris en 1815), au sujet de laquelle il fallait encore convaincre Guillaume II, ignorant tout de ces tractations, mais aussi la souve­raineté russe sur Constantinople : sans le soutien autrichien dans les Balkans, il était impossible aux Turcs de résister à une offensive de la Russie et de ses alliés. Le 24 mars, Charles Ier mit ses propo­sitions par écrit, celles-ci restant toutefois encore secrètes.

 

Mais le 31 mars 1917, Clemenceau convainquit le nouveau ministre des Affaires étrangères Ribot de rom­pre les pourparlers engagés par son prédécesseur Briand. Entre-temps, la révolution avait éclaté en Rus­sie, et celle-ci allait bientôt se retirer du conflit ; pendant que Lénine et Trotsky s'activaient en secret, Ribot trahissait les engagements de la France en révélant, aux Italiens d'abord, puis à tous, les propo­sitions autrichiennes. Les révolutionnaires de Petrograd et les radicaux de Paris mettaient fin à un vieux rêve en passe de s'accomplir.

 

Seuls de rares rêveurs espèrent encore que la Seconde Rome et Sainte-Sophie seront un jour libérées. En­core cet espoir n'est-il souvent guère plus qu'une illusion romantique.

 

Toutefois, il n'est pas exclu qu'un jour, peut-être plus proche qu'on ne l'imagine, l'Europe enfin unie ou tout du moins solidaire puisse récupérer l'antique cité fondée au VIIe siècle A.C. par les Grecs de Mégare, élevée au rang de capitale impériale par Constantin le Grand et phare de l'Europe orientale pendant un millénaire. Car si Nietzsche nous apprend que la volonté de puissance est un moteur de l'histoire, n'oublions pas pour autant combien peut être grande la puissance de la volonté.

 

Fabien de STENAY,

(10/10/2003 - © POLEMIA).

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samedi, 17 avril 2010

Il caso Némirovsky: vita, morte et paradossi di un'ebvrea antisemita

Il caso Némirovsky:
vita, morte e paradossi di un’ebrea antisemita

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 Cinque anni fa la Francia riscoprì all’improvviso una scrittrice che aveva dimenticato. Si chiamava Irène Némirovsky, era una russa di origine ebraica, era morta in un campo di concentramento nell’estate del 1942. Per un caso straordinario, le figlie avevano custodito fino a quel 2004 una valigia che conteneva la produzione letteraria materna, dattiloscritti, diari, appunti, e fra essi c’era il manoscritto del romanzo a cui Irène aveva lavorato dal giorno della disfatta bellica della Francia, giugno-luglio 1940, fino in pratica al momento in cui i gendarmi francesi si erano recati nella sua casa di campagna e l’avevano portata via. Suite française era il titolo scelto e per quanto nei piani della sua autrice esso prevedesse ancora un volume, relativo a come quel conflitto sarebbe finito, era omogeneo e a sé stante nelle due parti che lo componevano. Pubblicato a mezzo secolo di distanza, il romanzo ebbe un successo clamoroso, vinse dei premi, riportò alla ribalta il nome Némirovsky.

Anche in Italia il suo è stato un caso letterario. È Adelphi, infatti, l’editore che ne ha comprato i diritti e da Il ballo a David Golder, da Jézabel a Come mosche d'autunno a, appunto, Suite francese, ogni titolo si è rivelato un successo e ha contribuito a fare del suo autore uno dei più venduti e dei più citati. Poiché nel corso della sua vita Irène scrisse una decina di romanzi e una quarantina di racconti, il fenomeno è destinato a continuare nel tempo.

Adesso ancora Adelphi manda in libreria La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (traduzione di Graziella Cillario, pagg, 516, euro 23), uscita due anni fa in Francia da Grasset, una biografia molto ben documentata grazie alla quale del personaggio sappiamo praticamente tutto, compreso il forte tasso autobiografico della sua produzione, in pratica una sorta di reinvenzione artistica della sua famiglia, degli ambienti in cui visse, dei suoi gusti, delle sue passioni e dei suoi odii. E tuttavia, in questo saggio, così come nel successo che ha arriso a quanto finora è stato via via pubblicato, resta un elemento di ambiguità che nessuno si decide veramente a sciogliere e sul quale vale la pena di riflettere. Lo facciamo con tutta la delicatezza del caso, ma crediamo ne valga la pena.

Il fatto che la Némirovsky, intellettuale ebrea di origine, per quanto convertita al cattolicesimo, sia stata una vittima della «soluzione finale» hitleriana, potrebbe spiegare di primo acchito il perché di tanto interesse di pubblico e di critica: una sorta di risarcimento postumo per un nome che pure, negli anni Trenta, aveva goduto di risonanza, una sorta di mea culpa nei confronti di chi si era identificata con la Francia, la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, e dalla Francia in fondo era stata abbandonata e poi tradita... Nel 1929 David Golder, il suo romanzo d’esordio per Grasset, vendette 60mila copie, ebbe una riduzione teatrale e una cinematografica, quest’ultima per la regia di Julien Duvivier, che andò persino alla Mostra del Cinema di Venezia del 1932...

E però, se si va più a fondo, un po’ tutta la narrativa della Némirovsky è un susseguirsi di ritratti e di ambienti in cui la «razza ebraica», come si sarebbe detto un tempo, non appare nella sua luce migliore, ma è spesso e volentieri un concentrato di avarizia e di cupidigia, di odio e di crudeltà, di disordine sociale e morale, di incapacità e/o non volontà di assimilazione, di vera e propria «razza a parte» insomma, nemica a tutti e in fondo nemica anche a se stessa...

C’è di più: russa di nascita (Kiev, 1901), la Némirovsky fugge dal suo Paese nel momento in cui i bolscevichi prendono il potere: la sua famiglia appartiene alla buona borghesia degli affari, lei ha l’educazione classica di chi fra istitutrici e lezioni private non si mischia al contatto promiscuo delle scuole pubbliche, passa le vacanze sulla Costa Azzurra, soggiorna ogni anno a Parigi... È una «russa bianca», insomma, con un padre banchiere e finanziere, una madre che pensa soltanto alle toilettes e agli amanti, un treno di vita che l’esilio, prima in Finlandia, poi in Svezia, infine in Francia, non muta più di tanto: appartamento sulla Rive droite, in pratica affacciato sugli Champs Elisées, studi alla Sorbona, estati a Biarritz o a Dauville... L’anticomunismo, insomma, è un dato acquisito, qualcosa che Irène respira fin da ragazza: ha fatto in tempo a vedere lo scoppiare della rivoluzione, i processi sommari, i saccheggi e i massacri. Non lo dimenticherà mai.

Infine, c’è un altro elemento da aggiungere al puzzle finora composto e alla ambiguità che lo circonda. Nel suo decennio letterario la Némirovsky scrive in linea di massima per testate che appartengono al largo spettro della destra francese, ha Robert Brasillach fra i suoi critici più entusiasti, ma anche più avvertiti quanto alla sua arte, ai suoi pregi e ai suoi difetti, frequenta Paul e Hélene Morand... Non è una scrittrice di politica, certo, non si interessa più di tanto alle ideologie, certo, ma è naturaliter di quel mondo borghese, antiparlamentare, antidemocratico, anticomunista, con qualche simpatia per il fascismo, con molte perplessità sul nazionalsocialismo, nazionalista e quindi attento al suolo, al sangue, alla radici, che è il mondo della destra francese della prima metà degli anni Trenta.

La Némirovsky, insomma, faceva parte di quel milieu di ebrei antisemiti di cui oggi non si riesce quasi più ad avere un’idea, ma che fra le due guerre mondiali esistette e spesso fu intellettualmente maggioritario: un atteggiamento etico ed estetico, il disprezzo per l’oro e per l’usura, per chi era considerato un senza patria, per chi rimaneva chiuso nel suo piccolo mondo di tradizioni e di riti.

Siamo di fronte, dunque, a un destino particolarmente tragico perché la Némirovsky è, come dire, vittima dei suoi «amici», non dei suoi nemici. Nelle lettere che Michel Epstein, il marito, scriverà a Otto Abetz, il potente capo della cultura tedesca in terra di Francia, si sottolinea in fondo proprio questo: l’essere anticomunista, il non avere tenerezza per gli ebrei, il fatto che i suoi libri continuino a essere pubblicati, che insomma non sia nella lista nera degli scrittori da dimenticare... Non è nazista Irène, certo che no, e non può sapere quale tragedia politica e morale sarà il nazismo, e il suo iniziale credere in Pétain non vuol dire augurarsi sterminio da un lato, sudditanza dall’altro. Abituati a ragionare con la testa del presente sulla realtà del passato, si fa fatica a capire le scelte di campo, le motivazioni, le speranze e le illusioni. Irène non penserà mai di mettersi in salvo perché crede di essere già in salvo: fa parte dell’intellighentia, di una nazione che ama e difende i suoi scrittori, è legata da sentimenti di amicizia con intellettuali e politici che ora godono di un peso maggiore rispetto agli anni di pace, è, insomma, nella stessa barca dei «vincitori».
Perché dovrebbero buttarla a mare, perché le dovrebbero fare del male? È per questa ambiguità che non si salvò. È questa ambiguità che ancora oggi fa velo a cosa veramente fu la Francia (e non solo la Francia) di ieri.


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La "Première Rome" a abdiqué

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

La “Première Rome” a abdiqué...

Plaidoyer italien pour l’Union et l’Idée eurasistes

ex: http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/

chute-de-l-empire-romain.jpgChers amis, En Italie, indubitablement, nous trouvons les meilleurs textes en matières politi­ques. Le mouvement “Eurasien” y a pris pied. La preuve? Les  pages sur la grande toile : http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/; le texte de Francesco Boco, que nous  vous présentons ici, nous rappelle quelques faits  bien réels : nous ne sommes pas indépendants, les élites poli­tiques ont failli, sont totalement incapables de comprendre les nouvelles dynamiques géopoli­tiques à l’œuvre dans le monde. Boco propose une Union Eurasienne, en tant que bloc géostra­tégique contre la tentative américaine de contrôler le globe. Pour ce  qui concerne l’Eurasie, n’oublions pas qu’ici, à Bruxelles, la section de l’émigration russe blanche a connu des ten­dances eurasistes (voir à ce propos le  livre du Prof. Wim COUDENYS, Leven voor de Tsaar. Rus­sische ballingen, samenzweerders en collaborateurs in België, Davidsfonds, Leuven, 2004, ISBN 90-5826-252-9).

Nous nous trouvons au beau milieu d’une époque de grands bouleversements. Aux peuples d’Europe et du monde s’ouvrent des perspectives de longue haleine et de diverses sortes, que l’on peut résumer, en substance, à deux positions principales : les pays collaborateurs seront absorbés par la puissance océanique, afin de former un bloc —la seconde possibilité— contre les pays “non alignés”, c’est-à-dire contre les pays qui cherchent à se soustraire au joug américain et choisissent la voie de l’indépendance.

Depuis quelque temps, face à cette perspective, on parle de la Russie comme de la puissance potentielle capable de guider la résurrection européenne et eurasiatique. Les dernières élections russes donne bon espoir pour l’avenir. Mais il vaut quand même mieux dire que la politique et la géopolitique ne se fondent pas sur des espérances mais sur des faits.

La dure réalité nous contraint de dire, effectivement, que, si, à l’Est la “Troisième Rome” reprend du poil de la bête et que l’ours russe se remet à rugir, le “Première Rome”, elle, la vraie Rome, a abandonné depuis fort longtemps le rôle qui lui revient de droit et qu’elle ne semble plus vouloir assumer.

Un processus d’unification stratégique de l’Eurasie

Le problème, dont question, se pose surtout dans la perspective des scenarii politiques qui se manifesteront dans les prochaines décennies. Inexorablement, l’effondrement du capitalisme est prévisible, prévu par divers observateurs comme inéluctable. Nous devons dès lors prendre conscience de la situation : si, avant que cet effondrement ne soit effectif, nous ne sommes pas prêts, en tant qu’Européens et qu’Italiens, et si nous ne sommes pas suffisamment indépendants des Etats-Unis sur le plan économique, alors nous risquons de subir une crise très dure, aux aléas peu clairs. Acquérir cette nécessaire indépendance économique ne peut venir que d’une alliance territoriale, économique et militaire avec la Russie et ses satellites, c’est-à-dire amorcer le processus d’unification stratégique de l’Eurasie. Depuis longtemps déjà les Etats-Unis entreprennent d’encercler le territoire de la Russie, mais, indépendamment de cette stratégie, nous devons prendre en considération le cas de l’Italie, tel qu’il se présente à l’heure actuelle, et tel qu’il se développera à coup sûr, et avec une intensité accrue, dans le futur.

En admettant qu’il faille d’ores et déjà envisager la possibilité concrète de former le continent-Eurasie, nous devons nous demander quels seront, dans ce contexte, le rôle et la fonction de l’Italie, nous demander si nous sommes prêts ou non pour ce grand bouleversement épocal.

Vu la situation qui prévaut aujourd’hui, la réponse à ces questions est évidemment négative sur toute la ligne.

Si, soudain, le bloc eurasiatique, dont nous espérons l’avènement, venait à se former, l’Italie serait en état d’impréparation totale, surtout à cause de l’absence d’une classe dirigeante qui serait en mesure de devenir un interlocuteur valable pour la Russie et qui pourrait faire valoir les droits et les intérêts de la “Première Rome”. Depuis plusieurs décennies, l’Italie est un pays asservi. Et le restera très probable­ment même si le “patron” change, à la suite de toute une série de circonstances fortuites.

L’unique alternative possible...

Le fait majeur qui nous préoccupe est double : d’une part, le projet eurasien est l’unique alternative possible pour échapper à la domination de la puissance d’Outre Atlantique; d’autre part, on s’est jusqu’ici bien trop peu préoccupé de savoir qui devra prendre les rênes du pouvoir dans notre pays quand et si le changement survient. Nous pourrions tenir le même discours en changeant d’échelle, en passant au niveau européen...

Le “Mouvement Panrusse Eurasia” est puissant et influent en Russie; il est devenu un lobby proprement dit, un centre d’influence politique et culturel; il suffit de se rappeler qu’Alexandre Douguine, Président du Mouvement, dirige aujourd’hui une université où les idées eurasistes trouvent un très large écho.

Dans notre pays, nous devons déplorer l’absence d’un lobby eurasiste, d’un groupe de pression qui, au moment opportun, pourra s’imposer par l’action d’une classe dirigeante préparée, capable de mettre en valeur le rôle de l’Italie, un pays dont l’importance est fondamentale pour nouer des contacts avec les pays de la Méditerranée et pour jouer le rôle de médiateur incontournable dans les rapports avec les pays arabes.

Cependant les idées eurasistes en Italie ont pris pied depuis quelques années; elles ont connu une diffusion plutôt satisfaisante, si bien que, désormais, le concept d’”Eurasie” n’est plus inconnu. Toutefois, la lacune que présenterait l’Italie résiderait dans l’absence d’une classe dirigeante qui pourrait devenir un allié valable, et non une caste servile, pour la nouvelle Russie impériale.

Donner vie à un mouvement eurasiste

Il existe des maisons d’éditions et des intellectuels italiens qui diffusent inlassablement le message eurasiste; leur présence s’avère fondamentale pour notre avenir, mais elle est évidemment insuffisante. Le problème se pose donc en Italie: il faut donner vie à un Mouvement Eurasiste hypothétique, prêt à coopérer avec un mouvement analogue basé à Moscou, et capable de coordonner les ambitions d’unifi­cation continentale, par le biais d’une activité de propagande bien capillarisée et bien ajustée.

Or, aujourd’hui, le problème premier est de former les futurs cadres dirigeants de ce mouvement appelé à garantir le destin grand-continental de notre peuple et de tous les peuples d’Europe. Le milieu, que l’on qualifie à tort ou à raison de “néo-fasciste”, est, qu’on le veuille ou non, le premier à avoir pris cons­cience de l’importance du projet “Eurasie” et des potentialités qu’il représente.

La création d’un centre d’influence, d’inspiration eurasiste, passe nécessairement par l’union des forces de tous ceux qui, indépendamment de leur formation politique, se sentent proches des positions eurasistes; mais chez la frange “anti-système” de la nébuleuse dite “néo-fasciste” qui représente, de fait, le principal réservoir d’hommes, d’esprits et de moyen pour réaliser cette tâche de rassemblement général.

Soyons toutefois bien clairs : dans l’appel à l’union que nous formulons ici, nous utilisons l’expression consacrée de “néo-fascisme” surtout pour identifier une aire politico-culturelle qui, finalement, s’avère vaste et variée, où se bousculent des conceptions politiques très diverses, mais que les médiats classent sous cette étiquette, qu’ils veulent infâmante et qu’ils assimilent systématiquement à des dérapages ta­pageurs, bien visibilisés et mis en scène par les services de désinformation ou de provocations en tous genres. Nous ne prendrons, dans cette aire politico-culturelle, que les éléments de fonds, indispensables à la formation des futures élites eurasistes, c’est-à-dire :

-          Il faut que ces milieux abandonnent tout nostalgisme absurde, cessent de cultiver les clichés incapacitants et mettent en terme à toutes les “führerites” personnelles.

-          Sans renoncer à leur passé politique, sans renoncer aux devoirs qu’ils impliquent, ces milieux devront nécessairement regarder vers l’avenir et se préparer en permanence à comprendre les dynamiques géopolitiques qui animeront la planète demain et après-demain.

-          En premier lieu, il s’agit de consolider le sincère sentiment européiste présent dans ces milieux (ndt :  depuis Drieu La Rochelle) et de le hisser à la dimension supérieure, c’est-à-dire à la dimension “eurasiste”; en Italie, cet européisme et ce passage à l’eurasisme devra s’allier à la conscience que notre pays est le réceptacle de la “Première Rome” et que ce statut l’empêchera d’accepter un rôle servile dans la nouvelle donne, c’est-à-dire dans l’hypothétique union eurasiatique.

Une lutte radicale contre le néo-libéralisme

-          Ces milieux devront développer les axes idéologiques d’une lutte radicale contre le capitalisme et le néo-libéralisme, que génère toute “démocratie” à la sauce américaine, et qui constituent des menaces mortelles pour tous les peuples d’Europe, car le message politique, historique et génétique, qu’ont légué au fil des siècles, les peuples d’Europe, est celui d’une fusion entre l’idéal communautaire et l’idéal impérial.

-          Si nous concevons l’aire dite “néo-fasciste” dans cette perspective, et si nous nous adressons à elle, parce qu’elle est la plus idoine pour réceptionner notre message eurasiste, alors, en bout de course, le processus d’union continental euro-russe s’en trouvera facilité et accéléré.

-          Dans le cas où, dans le processus de formation du bloc eurasiatique, l’Italie ne se serait pas préparée à la nouvelle donne, et si les élites, dont nous entendons favoriser l’avènement, auraient été contrecarrées dans leurs desseins, rien ne changera, ou quasi rien, par rapport à la situation actuelle, comme toujours dans notre pays, la classe dirigeante sera formée d’opportunistes serviles, obséquieux devant le patron du jour, indignes d’assumer la fonction qu’ils occupent, installés au pouvoir par pur intérêt personnel.

-          Nous devons nous rappeler, ici, les enseignements de Machiavel, qui nous disait que l’aide des armes d’autrui est utile en soi, mais calamiteuse dans ses conséquences, “parce que, si l’on perd, on reste vaincu, si l’on gagne, on demeure leur prisonnier”. Dans les conditions actuelles, donc, qui découlent de la victoire américaine de 1945 en Europe, nous ne pouvons espérer être libres un jour, sauf si nous conquerrons le pouvoir à l’aide de nos seules forces et de notre détermination; nous ne le serons que si nous obtenons une Europe souveraine, indépendante et armée, prélude à une Eurasie impériale, fédérale et armée.

-          L’Union avec la “Troisième Rome” ne signifie pas une soumission servile aux volontés de Moscou, au contraire, elle signifie la réaffirmation des valeurs et de l’importance de la “Première Rome”  —et pas seulement sur le plan géopolitique— une “Première Rome” dont nous devons nous enorgueillir d’appartenir et dont nous devons nous faire les nouveaux hérauts.

-          L’Eurasie est un destin, une union continentale à laquelle l’Europe et la Russie ont toujours secrètement aspiré, comme soutenues par un esprit, un moteur invisible. Dans le passé, cette union a échoué. Cet échec nous enjoint à ne plus commettre les erreurs du passé, à nous préparer pour les bouleversements de l’avenir.

Francesco BOCO, Belluno, 30 décembre 2003.

vendredi, 16 avril 2010

Le Général Sikorski: un "trouble-fête têtu" selon ses alliés anglo-saxons

Alfred SCHICKEL:

Le Général polonais Wladyslaw Sikorski: “un trouble-fête têtu” selon ses “alliés” anglo-saxons

 

Une conversation téléphonique entre Churchill et Roosevelt révèle les causes véritables de la mort « accidentelle » du Premier Ministre polonais en exil pendant la seconde guerre mondiale

 

sikorski-bio.pngLe 25 novembre 2008, on a ouvert la crypte de la Cathédrale de Cracovie qui servait de tombeau à Wladyslaw Sikorski, premier ministre du gouvernement polonais en exil (de 1939 à 1943). Le procureur de la République de Pologne a ordonné d’exhumer le corps de Sikorski pour faire définitivement la lumière, à l’aide des méthodes techniques les plus modernes employées actuellement par la criminologie, sur les causes véritables de la mort du général et homme politique polonais, ôté à la vie, il y a plus de soixante-cinq ans lors de la chute de son avion dans la mer au large de Gibraltar. La nouvelle de la mort « accidentelle » du chef du gouvernement polonais Sikorski avait à peine été divulguée, le 4 juillet 1943, que les premiers doutes quant à la vérité de cette nouvelle étaient émis. Les experts en aéronautique et les observateurs critiques, à l’époque, ont jugé peu crédible, pour diverses raisons, la version d’un « accident d’avion ayant entrainé la mort ». La première chose qui les a frappés, c’est que lors de la chute de l’appareil utilisé par Sikorski tous les passagers n’ont pas trouvé la mort mais seulement une partie de ceux-ci, comme si certains d’entre eux avaient été « ciblés ». Par ailleurs, personne n’a pu dissimuler que le premier ministre polonais était tombé en disgrâce profonde chez Staline.

 

La peur de l’imprévisibilité d’Uncle Joe

 

On sait que Sikorski considérait que les officiers polonais assassinés, et dont les corps furent découverts par les Allemands à Katyn en avril 1943, avaient été les victimes des services secrets soviétiques. Staline a feint l’indignation face au soupçon qu’émettait Sikorski et s’en est servi comme prétexte pour rompre avec le gouvernement polonais en exil à Londres et pour répandre la rumeur que Sikorski était « un collaborateur d’Hitler ». Le président des Etats-Unis, Franklin D. Roosevelt, et le premier ministre britannique Winston Churchill, qui partageaient en secret les présomptions de Sikorski, ont fini par considérer les soupçons contre Staline, émis et réitérés par le premier ministre polonais, comme une entrave à la bonne entente au sein de l’alliance forgée entre les puissances anglo-saxonnes et le bolchevisme soviétique. Roosevelt et Churchill ont donc cherché une « solution », d’autant plus qu’ils étaient tous deux entrés en conflit avec Sikorski sur le tracé futur de la frontière polono-soviétique. Dans ce contexte, Roosevelt et Churchill soutenaient les revendications soviétiques qui réclamaient le retour à l’URSS des régions d’Ukraine et de Biélorussie occidentales, annexées par la Pologne en 1921, ce qui impliquait automatiquement de reconnaître la « Ligne Curzon » comme future frontière orientale de la Pologne. Sikorski, en revanche, voulait que ces régions demeurassent polonaises et qu’on ne tint aucun compte de la « Ligne Ribbentrop-Molotov ». Si Sikorski disparaissait de la scène politique, raisonnait-on à Londres, à Washington et à Moscou, la coalition antihitlérienne gardait toutes ses chances de survivre et de se renforcer.

 

A Londres et à Washington, on craignait par dessus tout que l’URSS sorte de cette coalition et ne fasse plus cause commune contre l’Allemagne ; c’est ce que prouve un extrait de conversation téléphonique entre Churchill et Roosevelt, daté du 29 juillet 1943, qui se trouve aujourd’hui dans les archives du « Centre de Recherches en Histoire Contemporaine » d’Ingolstadt (« Zeitgeschichtliche Forschungsstelle Ingolstadt »). Au cours de cette conversation, le premier ministre britannique dit au président des Etats-Unis « qu’Uncle Joe (le surnom donné à Staline) a entrepris des rapprochements inopportuns avec les Nazis dans le but d’un règlement négocié ». Prendre parti pour Sikorski aurait dès lors contribué à renforcer cette tendance chez Staline à vouloir s’arranger séparément avec Hitler et créer ainsi la surprise comme le Pacte Hitler/Staline d’août 1939 avait créé, lui aussi, la surprise. Roosevelt pensait également que Sikorski était un « trouble-fête têtu » qu’il fallait éliminer.

 

Finalement, Churchill s’est également exprimé expressis verbis en faveur d’une « élimination de Sikorski » : « Ces choses-là, aussi désagréables soient-elles, doivent être pourtant faites, tout simplement dans l’intérêt de la cause commune » et, dans la foulée, Churchill entraine Roosevelt avec lui dans la responsabilité de la « mort accidentelle » du premier ministre du gouvernement polonais en exil : « Je ne peux pas m’imaginer que vous ayez oublié nos entretiens personnels justement sur ce sujet-là, lors de mon dernier séjour à Washington. Cela s’est passé il y a juste deux mois. Vos vues sur la question correspondaient presque exactement aux miennes ».

 

Churchill a même durci sa position, à propos du soupçon qui pesait sur les seuls Britanniques, en répondant, piqué au vif, à Roosevelt qui cherchait à se dégager de toute responsabilité dans la mort de Sikorski parce qu’il devait tenir compte des électeurs américains d’origine polonaise. Churchill, dans la conversation téléphonique que nous évoquons, déclare sans détours à Roosevelt : « Vous savez très bien que nous avons discuté du cas Sikorski jusque dans les moindres détails et vous savez aussi que vous étiez entièrement d’accord avec la solution que je proposais. Vous ne pouvez nullement contester le fait que vous saviez et que vous êtes coresponsable. Je ne pourrai pas l’accepter ». Roosevelt a alors répondu sur un ton abrupt : « Vous devrez pourtant l’accepter. Je répète que je n’ai eu aucune connaissance préalable » ; ensuite, dur, il a adressé les paroles suivantes à Churchill : « L’un de mes plus fidèles conseillers m’a dit, quand il a appris l’accident, que trop de gens, qui n’étaient pas d’accord avec vous, avaient des accidents d’avion mortels ».

 

Roosevelt, en poursuivant la conversation avec son allié, met ensuite l’accent sur l’importance capitale de sa présidence et fait la leçon au Britannique : « Si je ne suis pas nominé, je ne pourrai pas être élu. Comprenez-vous cela ? Et si je ne suis pas élu, mon adversaire probable, que tiennent les réactionnaires et les cercles d’affaires, ne sera pas aussi coopératif et amical à l’égard de vous tous, et surtout pas à l’égard d’Uncle Joe. Si je tombe, l’alliance pourrait bien vaciller et vous aussi vous vacillerez. L’Uncle Joe pourrait alors conclure une paix séparée avec Hitler, et qu’arrivera-t-il alors à l’Angleterre ? Hitler pourrait dans ce cas tourner toute sa colère et toute son aviation contre vous pour se venger de certaines de vos actions comme le dernier raid contre Hambourg » ; Roosevelt faisant ici une allusion directe à l’ « Opération Gomorrhe » lancée deux jours auparavant par la RAF et qui a coûté la vie à 35.000 civils.

 

Révélations compromettantes sur le comportement des alliés occidentaux

 

L’incident démontre en toute clarté que les Etats-Unis ont délibérément étalé leur puissance et humilié simultanément, et de manière assez cruelle, l’Empire britannique, jadis si puissant et dont Churchill prétendait être l’intendant, responsable de son destin présent et futur. Apparemment sans en avoir eu l’intention, le président Roosevelt a contribué, par cette conversation téléphonique vespérale du 29 juillet 1943, à nous éclairer sur bon nombre d’événements peu élucidés de notre histoire contemporaine. De même, cette querelle au téléphone entre l’ « Amiral Q » et le « Colonel Warden »  —selon les pseudonymes qu’utilisaient toujours Churchill et Roosevelt à fins de camouflage, lorsqu’ils s’annonçaient sur la ligne spéciale qui les reliait et qui était mise à leur disposition par l’ « American Telephone & Telegraph » de New York  et la « British Post » de Londres—  révèle quels ont été, pendant l’été 1943, les rapports réels entre les puissances occidentales et l’Union Soviétique. En tant que source concrète de notre histoire contemporaine, cette conversation téléphonique peut se révéler explosive par son contenu, vu le débat qui secoue aujourd’hui la Pologne pour savoir quelles ont été les véritables circonstances de la mort de Wladyslaw Sikorski.

 

Prof. Alfred SCHICKEL.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°51/2008 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

 

Le Malafette della globalizzazione

Archives de Synergies Européennes -  2004

Louis VINTEUIL:

Le Malefatte della globalizzazione

sarkozy-pour-un-capitalisme-nouveau.jpgL’Europa dei nostri giorni, sotto la maschera di questa pallida caricatura che é l’Unione Europea, é sottomessa ad un processo di omogeneizzazione di cui i vettori e i principi capitalisti e militari sono quelli del “manu-militarismo” e “manu-monetarismo”.

In questo senso, l’Unione Europea costituisce un meccanismo regionale politico-economico.

In questa stessa direzione, i regimi capitalisti ultraliberali così come i sociali-liberali che sono in opera nella maggior parte dei paesi europei non costituiscono che dei meccanismi regolatori degli interessi del grande capitale finanziario raggruppato nel G7.
Le fondamenta dell’attuale costruzione europea risiedono su un sistema di valori ereditati dal Rinascimento: antropocentrismo, concezione tecnica e scientifica della vita, economicismo esacerbato, obsidionalité et biosidionalité tecnologica che considerano la natura umana come un prodotto di consumo illimitato.

Dietro il benessere materiale universale e la prosperità globale si nasconde una strategia di sviluppo, che non é in effetti che una strategia di violenza, di cui i punti cardine sono l’egocentrismo, l’antropocentrismo e la concezione dell’esistenza fondata sulla crescita continua indifferenziata e di cui le armi sono lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali e umane su scala planetaria.

Questa strategia della crescita continua (il cui padre spirituale é Joseph Retinger) non é che al fondo di una strategia della tensione che si realizza nell’utilizzo entropico dell’uomo e della natura e diventano la forma contemporanea dell’evoluzionismo global high-tech.

Il primo progetto di questa Europa capitalista iniziata a Bilderberg negli anni ‘50 e che fu tinta di un certo maccartismo americano, sarà completata dalla dottrina della Trilaterale che farà dell’Europa una confederazione, una riserva di caccia di oligarchie finanziarie internazionali.

L’Europa trasformata in un immenso supermercato, grande azienda sottomessa al gioco del mercato speculatore.

Manipolazione Mentale generalizzata


Quello che caratterizza la società globale é innegabilmente la manipolazione mentale generalizzata. In effetti la società globale é un vasto laboratorio dove ci si ingegna a creare attraverso il controllo delle coscienze una società “psico-civilizzata” che, grazie alla genetica, sperimenta la clonazione degli esseri umani, decerebrati e addomesticati.

É una qualche sorta di remake del “Procedimento Bokanosky” immaginato da Aldous Huxley ne “Il mondo nuovo”.

L’inizio é, secondo la volontà di Francis Fukuyama, con l’uso delle bio-tecnonologie, di abolire il tempo e la concretezza naturale, per mettere un termine alla storia e abolire gli esseri umani in quanto esseri concreti per andare al di là dell’umano. Attraverso i metodi della manipolazione mentale si realizza in questa società globale una nuova forma di schiavismo moderno.

In effetti, nel passaggio al XXI secolo, le nuove tecnologie, informatiche e riguardanti le immagini, rovesciano tutti i dati della vita quotidiana e altrettanto fanno per i campi di tutte le investigazioni scientifiche. Lo schermo diventa fatale e onnipresente, come del resto il regno dello spettacolo e del simulacro. É dall’interno del mondo invaso da immagini che si può vedere la manipolazione “videografica”, lo spiegarsi del regno degli artifici e delle simulazioni, il realizzarsi una nuova sacralizzazione dell’immagine e della sua presenza. La manipolazione mentale di cui parlo é collegata a quella che eserciterebbe una setta globale. In effetti, c’é una parentela flagrante tra la setta, che esige il consenso intimo ad un gruppo dato e l’adesione al mercato globale, società allo stesso tempo globale e frammentata in cellule consumistiche rese narcise. La società-bulla dei culti settari è soltanto il plagio microsociologico della setta globale planetaria che somma ciascuno di diventare un “piacevole e membro flessibile dell’umanità”.

Come nelle sette, la società globale che si propone d’abolire il tempo e la storia, nasconde in se stessa una volontà di suicidio collettivo respinta, essendo l’autodistruzione vissuta in modo indolore quasi come se fosse un viaggio spirituale verso una nuova incarnazione.

Si tratta sostanzialmente di una nuova forma di “Karma” moderno. La rivoluzione tecnologica, il regno del cyberspazio, la rivoluzione numerica e lo sviluppo delle reti elettroniche d’informazione provocano una sindrome di saturazione conoscitiva. Colpiti da un flusso continuo di informazioni e di immagini, gli individui sono sempre meno in grado di pensare e decidere, ma finalmente pronti a lavorare; sempre più stressati e abbruttiti.

La cyber-cretinizzazione


Siamo nel cuore della cyber-cretinizzazione.

La manipolazione mentale giunge alla colonizzazione dell’inconscio e dell’immaginazione, come spazio intimo onirico, simbolico ed archetipale.
Il capitalismo tradizionale, che si accontentava precedentemente della pubblicità, si attacca oggi ai settori del sogno, dell’immaginazione e alle visioni più intime del mondo.

Questa colonizzazione dell’immaginazione si opera con la diffusione di supplettivi come la science-fiction, prêt-à-porter dell’immaginario che si rivolge ai “piani interni” dell’inconscio, di un immaginario standardizzato, povero, che si riduce generalmente a forme bastarde di divulgazione, nulle tanto sul piano letterario che intellettuale.

Lo svago immaginario contemporaneo che mira ad instaurare una società di gioia permanente si riduce ad un incitamento collettivo all’acquisto. La produzione simbolica, precedentemente regolata all’evoluzione dei secoli, è diventata frenetica. Lo scopo è qui di arrivare ad una perdita d’identità e delle capacità reattive. Così la società globale è una vasta tecno-utopia a proposito della quale Armand Mattelart scrive “che si rivela un’arma ideologica di primo piano nei traffici d’influenza, in attesa di naturalizzare la visione libero-scambista dell’ordine mondiale, la teocrazia liberale”.

Una Nuova Forma di “Razzismo Globale”


L’egoismo, l’antropocentrismo e lo scientismo, che fanno da basi evoluzioniste del globalismo, sono le matrici di una nuova forma di “razzismo globale”. Infatti, da una parte la sua politica ultra-liberale e dall’altra le discriminazioni culturali ed economiche che implica, il globalismo tende ad aumentare le divisioni all’interno dello sviluppo psicologico e sociale degli uomini, che non corrisponde più all’evoluzione della sua dinamica biologica.

I tipi classici di questa nuova forma di razzismo e d’eugenismo globale derivano dalle nuove forme di manipolazione genetica e di clonazione che rovesciano il corso naturale e biologico degli uomini, mentre aumentano le disparità culturali ed economiche. Una nuova forma di darwinismo sociale postmoderno appare sotto le caratteristiche dell’ultraliberalismo globale che non lascia alcuna possibilità ai popoli ed agli individui. Una nuova forma di umanizzazione globale dell’essere umano appare con il globalismo attraverso la creazione e la promozione di un genotipo generico, consumatore flessibile interamente condizionato dall’ideologia dominante.

Questa nuova umanizzazione é l’opposto della bio-pluralità dei popoli e della terra che tende sempre più a scomparire. Il globalismo veicola in se una concezione antropocentrica della scienza mentre la scienza dovrebbe essere biocentrica. D’altra parte, il globalismo è soltanto l’espressione dell’americanizzazione unilaterale del mondo intero, l’americanismo come universalismo, l’americanismo come mondialismo, l’americanismo come neocolonialismo moderno.

Nel periodo successivo alla rivoluzione d’ottobre, Lenin scriveva: “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”.

Alla soglia del terzo millennio, il capitale internazionale fa crescere la distribuzione: il globalismo americano diventa la fase suprema dell’imperialismo moderno. Con questo globalismo impegnato a portare la prosperità a livello planetario, si è visto emergere delle “città globali”, che hanno generato un processo d’impoverimento crescente che si può qualificare come “bidonvillizzazione” accelerata su scala mondiale.

La “Formula delle 3D”


In altre parole, la fondazione del villaggio planetario accresce le differenze tra ricchi e poveri.

Nuova divisione internazionale del lavoro, nuovi conflitti sociali, capitale speculativo al 90%, ecco la nuova faccia dello sfruttamento capitalista dei grandi gruppi multinazionali. Effettivamente ciò che si intende con “mondializzazione”, è la generalizzazione del sistema capitalista a tutti gli stati del pianeta.
Il “laisser faire”, tanto caro ad Adam Smith, si è trasformato in un nuovo slogan che brama allo smantellamento delle barriere doganali, la soppressione di ogni specie di costrizioni al libero spostamento dei capitali pur esigendo la “non ingerenza” degli stati nella regolazione delle economie.

“Tutto ciò che lo Stato può fare, è non fare nulla “, dichiarano i mondialisti. Di qui la formula delle 3 D che é sempre più consacrata: de-intermediazione, de-regolamentazione ed de-chiusura dei mercati. La mondializzazione ha creato un vasto orizzonte economico che resta quasi vuoto sul piano simbolico e che si offre di conseguenza all’immaginazione utopistica.

Tuttavia si assiste paradossalmente al declino della americanità come utopia, spazio di sogno e di sostituzione.

Molti fatti supportano la tesi del fallimento della grande utopia americana: la democrazia radicale, il melting pot, i miti latino-americani dell’ibridazione o dell’ibridazione biologica da cui doveva risultare una razza superiore, sono tutta altrettante utopie che non hanno trovato traduzioni nel settore sociale ed economico ed alle quali si sono sostituiti i modelli di ghettizzazione razziale ed etnica.

L’ideologia globalista è in realtà un processo di falsificazione negativa e perfida del mondo.

Louis VINTEUIL.
traduzione di Gorgonzola per Comedonchisciotte.net

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jeudi, 15 avril 2010

"Proust è un bavoso". Viaggio nella biografia di un genio fulminato

«Proust è un bavoso»
Viaggio nella biografia di un genio fulminato

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 «Gli editori sono tutti carogne». «Non aggiungete una sillaba al testo senza preavvisarmi! Fottereste il ritmo come niente - solo io posso ritrovarlo là dov’è. Ho l’aria bavosa, ma so a meraviglia ciò che voglio. Non una sillaba. Fate anche attenzione alla copertina. Niente music Hallismo. Niente sentimentalismo tipografico. Del classico». «I critici dicono sempre fesserie. Giornalisti innanzitutto, lavorano di chiacchiere, piccoli ricatti... Ci vorrebbe qualcuno che si decidesse a coprirmi di sputi!... La gente è sadica, vigliacca, invidiosa, distruttrice. Ha bisogno di sentire il saccheggio, lo spappolamento, altrimenti non ci sta...». «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali, ma moralmente... Cani, nient’altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro. Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l’orrore del vivere».

Ma sì, è Céline che batte alla porta, strepita, irride, minaccia e s’incazza... Ben tornato Ferdinand sull’onda delle oltre 2mila pagine del volume che raccoglie una antologia monstre (più di 1500 lettere) della sua corrispondenza, dalla giovinezza alla morte (Lettres, Gallimard, collezione Bibliothèque de la Pléiade, pagg. 2080, euro 66,5; a cura di Henri Godard e Jean-Paul Louis). Per la prima volta, insieme con molti inediti, l’epistolario celiniano fino a oggi sparso e spesso disperso in innumerevoli rivi editoriali (le lettere dall’Africa, le lettere alle amiche, quelle agli editori e agli avvocati, le lettere dall’esilio) viene selezionato e cronologicamente ordinato. Il risultato è imponente.

Il carteggio è una miniera di informazioni sul Céline scrittore, sui suoi procedimenti, sulle sue idiosincrasie, ma ne scandaglia anche il privato: la passione per la bellezza («Sono pagano per la mia assoluta adorazione della bellezza fisica, della salute. Odio la malattia, la penitenza, il morboso(...) Perciò ho amato tanto l’America. La felinità delle sue donne!(...). Tranquillo stallone, guardone, palparle è un incanto senza pari, mi inebria, mi ispira - Darei tutto Baudelaire per una nuotatrice olimpionica»); il rifiuto della vita reale, obiettiva, il peso degli anni e dei guasti fisici.

Dietro il cliché del «medico dei poveri» la corrispondenza fa rigalleggiare il bell’uomo alto più di un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie. Vive in un appartamento moderno, con qualche souvenir coloniale, in rue Lepic: è cortese, ma riservato.
Ciò che nelle lettere d’anteguerra è accennato, sparso e variegato, in quelle post-belliche tende a raccogliersi su un triplice binario. Sul primo corre il métro emotif, il treno dello stile. «Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile e tesa, precisa, sferzante e cattiva iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto, di resa emotiva». «Io seguo con le parole l’emozione, non le lascio il tempo di rivestirsi in frase... l’afferro nuda e cruda, o meglio, nella sua poeticità. Perché il fondo dell’uomo malgrado tutto è poesia - il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare - il bebè canta - il cavallo galoppa - il trotto è di scuola». «Non creo nulla, in verità - è come se ripulissi (...) una statua seppellita nell’argilla -

Esiste già tutto (...) Occorre soltanto spazzare (...) portare alla luce del giorno - AVERE LA FORZA - è una questione di forza - forzare il sogno nella realtà - una questione di pulizia (...) È un lavoro da operaio - operaio nelle onde».

Sul secondo corre il vagone della negazione e/o riduzione di ciò di cui è incolpato, della «congiura» ai suoi danni. «Sono un patriota sfrenato in un Paese di degenerati, lacchè e bastardi. Si tratta di ben altra cosa che tradimento, è precisamente il contrario. Sono gli altri, tutti gli altri che galoppano urlando dietro la bandiera, gareggiando per farsi inculare dal migliore offerente». «Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e di ariani - e contemporaneamente, del resto, di ebrei! Non ho voluto Auschwitz, Buchenwald. Cazzo! Basta! (...) Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine». «La Germania mi fa naturalmente orrore. La trovo provinciale, pesante, grossolana (...) Per me è quella del ’14, la gare de l’Est, la linea dei Vosgi, la morte, la salsiccia, l’elmetto a punta».

Sul terzo, infine, fila il direttissimo delle recriminazioni, delle ingiurie, degli editori traditori, dei soldi che non arrivano, della pubblicità che manca, del boicottaggio. Sotto un torrente di minacce e prese per il culo, gli interlocutori passano la mano. Jean Paulhan, il «cervello» della casa editrice Gallimard lascia nel 1955, stanco e disgustato. «Di che si lagna quel vecchio bavoso - sarà il commento - Trova che la sposa è troppo bella, ha troppo temperamento?».

E l’antisemitismo? Céline lo trasforma in pacifismo, lo scolora, più che negarlo lo orienta in maniera diversa, fino a trasformare sé stesso nell’unico vero ebreo errante: esiliato, offeso, perseguitato... Ma dietro al razzismo c’è anche una questione di stile, come una lettera del 1943, che ha per tema Proust, mette bene in evidenza. «Lo stile di Proust? È semplicissimo. Talmudico. Il Talmud è imbastito come i suoi romanzi, tortuoso, ad arabeschi, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Per quale verso prenderlo? Ma al fondo infinitamente tendenzioso, appassionatamente, ostinatamente. Un lavoro da bruco. Passa, viene, torna, riparte, non dimentica nulla, in apparenza incoerente, per noi che non siamo ebrei, ma riconoscibile per gli iniziati. Il bruco si lascia dietro, come Proust, una specie di tulle, di vernice, che prende, soffoca riduce e sbava tutto ciò che tocca - rosa o merda. Poesia proustiana. Quanto alla base dell’opera: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: individuazione delle élites imputridite, nobiliari, mondane, invertiti etc. in vista del loro massacro. Epurazioni. Il bruco vi passa sopra, sbava, le fa lucenti. I carri armati e le mitragliatrici fanno il resto. Proust ha assolto il suo compito». Conclusione: nel 1943 l’autore della Recherche avrebbe applaudito la sconfitta tedesca a Stalingrado...

Scrittore antimaterialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. L’ideale ariano si trasformerà in beffa allorché, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante i 17 mesi di cella non un solo fottuto dei 500 milioni di ariani d’Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani». Quando si predica la purezza c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te. Un genio fulminato.


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Les "néo-conservateurs" sont les nouveaux jacobins de la Maison Blanche

Roberts.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Les “néo-conservateurs” sont les nouveaux jacobins de la Maison Blanche

Entretien avec le Prof. Paul Craig Roberts, ancien représentant

du ministre des finances de l’Administration Reagan

 

Le Professeur Paul Craig Roberts enseigne au “Centre d’Etudes stratégiques et internationales” à Washington, ainsi que dans la célèbre université de Stanford. Sous Reagan, il était le représentant du ministre des finances des Etats-Unis et, conseiller influent du président, il a contribué à donner for­me à l’économie américaine de l’époque. Le terme de “néo-conservatisme” ne reçoit pas son aval: pour lui, c’est une escroquerie, une simple étiquette qui dissimule un autre contenu. Derrière cette étiquet­te, ajoute-t-il, se cache une “bande” qui s’est soustraite à toutes les traditions américaines.

 

Pression sur la CIA

 

Q. : Professeur Roberts, il y a un an commençait la guerre contre l’Irak. Les Américains y trouve­ront-ils les armes de destruction massive qu’ils cherchent?

 

PCR : Non. Les inspecteurs américains ont expliqué qu’il n’y avait pas d’armes de destruction massive en Irak. Leur chef, David Kay, a déclaré, début mars, dans un interview, que le refus du gouvernement américain d’accepter ce fait conduisait à miner sa crédibilité en politiques intérieure et extérieure.

 

Q. : Le gouvernement Bush a-t-il été mal informé par ses services secrets au sujet des armes de destruction massives irakiennes?

 

PCR : La CIA et le service secret de l’armée, la “Defence Intelligence Agency”, n’ont pas livré d’informa­tions fausses, pour justifier l’intervention en Irak. Les informations erronées ont été fabriquées par un nouveau “bureau spécial” du Pentagone, mis sur pied par les fauteurs de guerre “néo-conservateurs”, qui veulent une invasion de l’ensemble du Moyen Orient et dépouiller l’Islam de son contenu religieux. Des officiers des services secrets ont dressé leur rapport et constaté que c’est surtout le bureau du Vice-Président qui a exercé une forte pression sur la CIA. Celle-ci a été contrainte de fournir des “informa­tions” cadrant avec l’affirmation des néo-conservateurs, qui prétendaient que l’Irak possédait des armes de destruction massive. Les néo-conservateurs ont parié sur la désinformation et ont manipulé les dé­clarations d’exilés irakiens. Ces exilés voulaient utiliser à leur profit la puissance militaire américaine pour prendre la place de Saddam Hussein.

 

Q. : L’affaire sera-t-elle soumise à une commission d’enquête indépendante?

 

PCR : Si mes compatriotes américains continuent à gérer l’occupation de l’Irak de manière erronée et que ces vices de gestion amènent toujours davantage de troupes américaines à intervenir dans une guerre civile inter-irakienne, alors  il se pourrait bien que l’on mette une commission d’enquête sur pied. L’objectif d’une telle commission d’enquête viserait d’abord, évidemment, à blanchir le gouverne­ment de Bush. Les commissions d’enquête mises sur pied par l’Etat ne sont jamais indépendantes.

 

Q. : John Kerry a-t-il une chance de battre Bush aux prochaines élections?

 

PCR : Les sondages d’aujourd’hui semblent confirmer que Kerry battra Bush. Mais il est encore trop tôt pour avoir des pronostics fiables. D’après les dernières nouvelles, Bush s’efforce de trouver un accord avec le Pakistan pour attraper Oussama Ben Laden. Les conseillers les plus influents de Bush croient que l’arrestation de Ben Laden conduirait à une euphorie, immédiatement avant les élections en novembre prochain, ce qui ramènerait Bush au pouvoir.

 

Outre les doutes quant à l’opportunité d’avoir eu à envahir l’Irak, Bush doit faire face à deux autres gros problèmes. Il s’est aliéné une bonne part de sa base conservatrice, en proposant d’amnistier des millions d’étrangers en séjour illégal aux Etats-Unis. Bon nombre de conservateurs se demandent pourquoi Bush se montre militairement si actif à l’étranger, alors qu’il renonce à défendre les propres frontières du pays.

 

Ensuite, l’autre gros problème de Bush concerne l’emploi. Les Etats-Unis, pour le moment, sont en train de perdre des emplois de haute qualification, à grand rendement productif. Un grand nombre de multinationales ont délocalisé leur production pour le marché américain, à l’étranger et ainsi quitté les Etats-Unis, car elles entendent profiter de la main-d’œuvre bon marché d’Asie. Cette délocalisation de la production à l’étranger confisque à l’économie américaine des emplois bien rémunérés, du capital et de la technologie, désormais délocalisés en Asie.

 

Internet, du fait de la très grande vitesse de communication qu’il permet, fait que des emplois très fortement rémunérés, comme ceux des ingénieurs, des  architectes, des radiologues, des conseillers financiers, des analystes boursiers et des spécialistes en toutes autres hautes technologies, quittent le pays pour migrer en Inde, en Chine, aux Philippines ou en Europe de l’Est, car on peut y faire faire les mêmes travaux pour une fraction seulement du prix qu’ils coûtent aux Etats-Unis. Or ces emplois repré­sentent traditionnellement les échelons à gravir dans la société américaine. Leur perte constituent un ressac très problématique sur les plans économique, social et politique.

 

Les emplois créés aujourd’hui aux Etats-Unis sont des emplois de bas niveau dans le secteur des services, mal rémunérés comme dans les soins de santé, les divers services subalternes et le secteur de la res­tauration. Après vingt-cinq mois de “redressement économique”, l’économie américaine a perdu plus d’emplois qu’elle n’en a créés.

 

L’actuelle mobilité du capital et de la technologie rend caducs les arguments généralement avancés par les défenseurs du libre marché. Les pertes qu’enregistrent le “premier monde” en capital et en technologie, au profit de pays jadis englobés dans le “tiers monde”, où le travail est aujourd’hui moins cher, constitue désormais un problème de premier plan et il concerne principalement les Etats-Unis, qui doivent, sur la planète, leur renommée au fait qu’ils permettaient une ascension sociale rapide. Ce n’est plus le cas. Le chef de file des conseillers de Bush en matières économiques avait déclaré que l’économie américain profitait du remplacement des emplois bien payés par des emplois mal payés, prestés par des étrangers aux Etats-Unis; cette affirmation a beaucoup nui au prestige de l’équipe de Bush.

 

Q. : Vous vous définissez comme un conservateur américain. Selon vous, selon vos options philo­sophiques, qu’y a-t-il d’erroné dans la politique extérieure de Bush?

 

PCR : La politique extérieure américaine est entièrement au service de la réélection du Président. Le gouvernement Bush a détruit le principe de multilatéralité qui avait guidé la politique extérieure des Etats-Unis sous les gouvernements de ces cinquante dernières années. Comment cela s’est-il passé? L’élection de Bush était contestée par la Court Suprême des Etats-Unis. Bush n’a pas obtenu de majorité bien claire parmi les électeurs. Les voix manquantes lui ont été attribuée d’office par la décision d’un tribunal. Les attentats terroristes contre le World Trade Center, le 11 septembre 2001, a permis aux hommes de l’ombre, qui se profilent derrière Bush, de le tirer hors du sac de noeuds que constituait le controverse née des élections; ils ont littéralement emballé Bush dans le drapeau national et l’ont hissé sur le piédestal du chef de la “guerre planétaire contre le terrorisme”. De cette façon, toute opposition à sa personne devenait impossible.

 

Cette situation a favorisé les menées des néo-conservateurs, ou, pour être plus exact, des nouveaux jacobins qui occupaient les principaux postes à responsabilité au ministère de la défense, dans les bureaux de la vice-présidence et dans les postes les plus influents de la politique extérieure. Ces nouveaux jacobins ont revendiqué une validité mondiale pour les principes qu’ils qualifiaient d’”américains”, ce qui revenait à donner à notre pays une sorte de monopole de la vertu. Le résultat de toutes ces démarches donne une idéologie militante, d’après laquelle il y aurait une obligation pour le monde de modifier toutes ses institutions pour les calquer sur le modèle américain, seul paré de toutes les vertus. Les nouveaux jacobins  visent un monde uniforme, un monde unipolaire. L’un de leurs chefs de file, Ben Wattenberg, l’a formulé comme suit : “Un monde unipolaire est une bonne chose, si l’Amérique est ce pôle”.

 

Les nouveaux jacobins sont des alliés de longue date du Likoud israélien. Un autre chef de file néo-jacobin, Norman Podhoretz, vient de nous définir la guerre contre le terrorisme comme une guerre de conquête américaine de l’ensemble du Proche Orient musulman, afin d’attaquer l’Islam à ses racines. L’entrée des troupes américaines en Afghanistan en en Irak doivent constituer les premières étapes d’une victoire prochaine et totale contre l’Islam.

 

Comme l’occupation de l’Irak génèrent des problèmes inattendus, le programme des néo-jacobins perd de son aura auprès des électeurs de Bush et des républicains en général. Pour faire face à cette fronde en sourdine, l’administration Bush s’efforce de créer un Etat policier aux Etats-Unis mêmes, en égratignant des droits civils acquis, bien inscrits dans la loi, au nom de la “guerre contre le terrorisme”. Simultané­ment, le reste du monde est invité, fermement, à prendre modèle sur la “démocratie” américaine. Com­me l’a écrit le Professeur Claes G. Ryn, dans son livre “L’Amérique vertueuse”, le programme des néo-ja­cobins conduit à une série infinie de guerres et de catastrophes.

 

(entretien paru dans DNZ,  Munich, n°13, mars 2004).

mercredi, 14 avril 2010

Why Are We Political Soldiers?

Why Are We Political Soldiers?

Ed. and trans. by Michael O’Meara / Ex: http://toqonline.com/

 

“In the final instance civilization is always saved by a platoon of soldiers.”

–Spengler

We are soldiers who serve the cause of Europe’s Renaissance — a cause as pure, hard, and imperious as our banners.

medium_p31.jpgWe are soldiers because we refuse the reformist tinkering of the dominant system, which — through its electoral and party committees, its partisan venalities, and its parliamentary charade — endeavors to ensure the self-regulation and recycling of the corrupt elites controlling the existing plutocratic system.

We are soldiers because we believe that the salvation of Europe’s family of nations depends on the destruction of the present system.

We are soldiers who serve and not merely talk, we reflect and we act.

We serve the cause of politics in the sense of Julien Freund [France's leading Schmittian scholar], knowing that the essence of action is action itself.

Our trifold praxeological, destining, and eschatological understanding of politics transcends the purely operational, pragmatic, and secular policies of modern politics. Going further, we think that propaganda by ideas is a chimera and that ideas come from action and not the reverse.

This is why we embrace the revolutionary dialectic of Carlo Pisacane, Enrico Malatesta, Carlo Cafiero, Paul Brousse, and José Antonio, who advocated the propaganda of the deed — the deed pregnant with ideas.

Our soldierly faith and duty is wedded to the national-revolutionary ideal that seeks a new political, aristocratic, hierarchical, anti-democratic, and anti-egalitarian order, situated within a European continental frame, geopolitically self-centered, disconnected from the global economy, independent of our present Atlanticist servitude, and rooted in a Eurocultural concept of civilization based on the values of blood and soil.

We are soldiers because we see history as a clashing dialectic between antagonistic forces, whose constituent elements are peoples and nations.

For conflict and struggle, as the work of Stéphane Lupasco and Max Planck demonstrates, are inherent to every system.

History is thus an endless battle between peoples organized around their distinct cultures and communities, each, consciously or unconsciously, motivated by a desire to expand and dominate.

As soldiers, we fight for the restoration of the poltical principle in the noble sense of politea, imperium, and auctoritas, and in function of Evola’s anagogy, which is capable of impregnating peoples with those specific metapolitical, spiritual, and anti-materialist values that ensure the masses’ spontaneous adhesion.

For us, as for Carl Schmitt, politics is that privileged arena in which the enemy and the friend is clearly designated.

This is why we reject the administrative or managerial concept favored by party politicians, who promote a state sustained by hedonistic frenzies — a state whose subjects are cretinized and emasculated, manipulated by consumer society and the media — subjected in this way to a whoring enterprise which organizes, directs, and patronizes them in order to dissolve all revolutionary effort in the solvent of a fake, hyper-festive order of permanent entertainment.

As soldiers, we advocate the ideal of a “polemological” state charged, above all else, with defending the survival and growth of Europe’s power from assaults by American hegemonism, radical Islam, and the extra-European colonization of our ancient lands.  In this sense, we categorically reject the social-contractual conception of the nation and seek to restore it as that mystical body passed from one generation to another.

The nation for us remains a determinism, a necessity, a force, and a will.

We are soldiers because we believe that war-like activity is the highest degree by which civilizations become complex and by which history’s primordial lever raises motherlands and city-states.

War in this Heraclitian sense has animated international relations from the time of Thucydides and from that of Machiavelli.

War is the highest expression of the state, as Hegel shows; it evokes its greatest consciousness and its greatest efficacy.

The state is and remains above all a war machine and all its other functions are subordinate to it, even if the bourgeois and managerial conception of the dominant democratic state has patched together a certain order from the ruling delinquency and its corrupting prosperity.

The international authority of the state is as great as its ability to inflict harm, and history shows that only those attached to mos majorum (ancestral law) and to a conservative opposition to the centrifugal forces succeed in attaining the aureole sovereignty of military glory.

This is the way it was in the Rome of Augustus and Diocletian, in the Russia of Peter the Great and Lenin, in the Islam of Mehmet Ali and Mustapha Kemal, in the China of Huang-di and Mao Zedong, each of whom won domestic and foreign victories before daring to impose the profound revolutionary transformation in which they believed.

As political soldiers, we seek to restore the ideal of a political vocation that transcends contemporary economism and to re-legitimate the ideal of those exceptional men who articulate and embody an ethic of conviction, responsibility, and duty.

Within the bourgeois democracies governing and offending us, there thrives a class of professional politicians and bureaucrats, of demagogues and opportunists of all sorts, whose mercenary use of high political office is motivated solely by reasons of personal gain or career.

As soldiers, we will make the necessary sweep that sends these impostors, these betrayers of our great European political ideals, to the devil.  And in this we aspire to see emperor and proletarian, animated by the same revolutionary faith, marching shoulder to shoulder: paradigm of a new heroism.

We uphold that there is an essential contingency between the state of exception and the essence of political sovereignty, constituting the point of disequilibrium separating public law from political fact.

We advocate a state of exception in order to establish the state as the emanation of a new order, as a means of terminating the general anomie and the reigning disorder.

The syntagma “force of law” rests on a long tradition of Roman and medieval law constituted for efficacy and loyalty.

We would like to restore an operational perspective invested with the archetype of the Roman juridical institution — the iustitium – enacted whenever the Roman Senate was informed of a situation that might compromise the Republic — a senatus consultum ultimum dictating measures necessary to ensure the state’s security.

This way of dealing with states of emergency harped back to the ancient concept of sol-stitium: to those instances when the law came to a stop, like the sun at its solstice, [and where the question of sovereignty -- the question of who holds ultimate authority -- was forthrightly posed].

Above all, we are political soldiers because we are militants.

Etymologically, “militants” refer to the theological distinction between the Church Militant and the Church Triumphant.

An analogy can be made between the political militant and the believer, whose truths inform all aspects of his being, especially in its essence and totality

The militant fights, attacks, and pays with his person for the triumph of his ideals.

The verb “to militate” comes from the Latin militari, which means “soldiers” (in the plural), to whom belonged a Church (an army) that required a spirit of discipline, self-sacrifice, and abnegation.

This is why militancy is at the heart of our political struggle.

The ideal militant for us must be a revolutionary, capable of dialectically linking his theoretical and practical knowledge to a global understanding of the society in which he lives.  He thus voluntarily submits himself to a disciplined routine, realizing in it a unity of theory and practice.

As political soldiers, we do not believe that evolution is automatic or that revolutions are spontaneous, because there are no fatalities in politics or in economics; the dominant, liberal, capitalist order well knows how to regenerate itself and how to overcome contradictions in order to survive.

The masses too are not solely exploited, they are mentally manipulated and alienated.

There is no revolutionary advance without a process of development, culminating in a struggle between warring peoples (lutte des peuples).

These struggles are manifested in many forms, in sectional or local struggles (at the level of the enterprise, the region, etc.)

They may appear spontaneous but they are linked to a changing consciousness and to the effort of militants who rise from below as they are directed from above.

Rank and file struggles, however exemplary, cannot accomplish a global change of the system, because such struggles address only certain lived particulars, products of the larger social complex, [not the system itself].

Instead, they need to be linked and coordinated in the form of a global, ideological vanguardist action, capable of posing issues from a system-wide perspective. It is necessary, then, to avoid an overly rigid elitism and an unserious reformism — in order to ensure a dialectical liaison between the global struggle and the local struggle, between the political action of the vanguard and the mass movement.

As political soldiers we advocate a revolution that brings about not merely structural change in the economy and the state, but also in the spirit, an ontological change that will lead to the formation a new man, free of bourgeois individualism and egoism.

This “total revolution” will affect the relations and ethics regulating the larger significance of our quotidian life.

The revolution we advocate will be a return to origins, a revolving back, that establishes an authoritarian state-order, a managed economy, and an exclusive conception of identity — a revolution carried out in harmony with the distinct mentality of European peoples and in accord with a principle of homology that purges institutions and mentalities of alien, distorting elements.

As political soldiers, we are irredeemably imbued with a tragic conception of life, knowing, with Alfred Weber, that every superior order ends up perpetuating a certain chaos as it enhances its power.

Tragic because we are conscious of the imponderable grandeur of the universe and the world and of the imperfection and finitude of human nature.

In face of this constant and paradoxical metaphysics, we advocate a re-enchantment of the world and an aestheticization of the state, as envisaged by German romantics like Goethe, Novalis, Schlegel, and Müller — conscious, as we are, that the illuminist ideas of the French Revolution [the liberal revolution of 1789], along with the general process of secularization, has since disenchanted the world in Max Weber’s sense.

We want, like Novalis, our revolution to become an organic, poetical totality in which the new state is the existential and aesthetic embodiment of our ideal of human perfection.

And once we complete this task, we will go somewhere else, farther away, always farther, way over there near our gods.

Source: “Pourquoi sommes-nous des soldats politiques?” (2003)

http://euro-synergies.hautetfort.com/tag/soldats%20politiques

Forme della personalità umana nell'Ellade

Forme della personalità umana nell’Ellade

Autore: Nuccio D'Anna

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

leonida.jpgUno degli aspetti più caratterizzanti nello studio dell’Iliade e dell’Odissea è la scoperta delle modalità da parte di tutti i personaggi che hanno un rilievo narrativo, di “entrare” in se stessi e di dialogare non solo con gli dèi che si svelano in ogni aspetto dell’accadere umano, ma anche di scrutare i propri sentimenti, di “guardare” il vasto mondo che si muove nella vita interiore. E’ una realtà particolare, non facilmente rinvenibile in altre civiltà antiche e tale da spingere alcuni studiosi del mondo ellenico ad ipotizzare una particolare capacità percettiva, probabilmente caratterizzante l’intero popolo ellenico, tesa a dare significato al senso vivo della personalità umana che già alle origini di quella civiltà ne ha reso unica la visione del mondo.

Agli albori del mondo ellenico l’uomo rappresentato da Omero ci rivela immediatamente quello che è stato definito “il suo vigile e chiaro pensiero“, una speciale capacità di guardare il mondo in modo impersonale pur avendo consapevolezza del valore del proprio Io in quell’atto essenziale, e poi di esprimere un giudizio che tiene conto contemporaneamente della realtà esteriore, della libertà insita in ogni scelta, del fatto che ciò che ne sostanzia il significato è la persona del singolo, l’uomo libero. Per esprimere questa tendenza profondamente connaturata, gli Elleni usavano il termine εύλάβεια = “circospezione”, “cautela”, che invitava ad un atteggiamento di prudente azione, di misurato rapporto prima con gli dèi, poi con il vasto mondo, infine con la comunità degli uomini. Un atteggiamento profondamente vissuto di misurato equilibrio rendeva ogni Elleno incapace di mostrare una eccessiva espansività e dava forza ad ogni loro atto nel quale si riteneva che i sentimenti dovessero dimorare come la sostanza dell’agire umano.

E’ la tragedia greca che rivela questo aspetto particolare del vivere. Qui l’uomo è continuamente messo di fronte a se stesso, alla grandiosità di sentimenti in grado di abbracciare il vasto mondo, ad emozioni che molto spesso sembrano caricarsi di un peso insopportabile, ma che nel punto in cui il protagonista li incanala nell’alveo della tradizione e li articola nella complessa sua vita interiore, risultano essenziali per la valorizzazione di sé, diventano la base per capire il significato del mondo e lo stesso “agire” degli dèi.

Nella stessa poesia lirica i vari poeti manifestano per la prima volta un senso della propria individualità che è un segnale della vivacità intellettuale di quel tempo. Essi parlano di sé, fanno persino conoscere il proprio nome, “esistono” come persone individuabili, con aspirazioni e ideali che differenziano ognuno di loro dagli altri e li caratterizzano come individui coscienti di una personalità irripetibile. Non basta dire che la lirica greca è strettamente legata a forme poetiche pre-letterarie, forse derivate dalla tradizione compositiva scaturita dal mondo del sacro, le cui radici affondano nei canti dei danzatori sacri, nei peana che arricchivano la vita rituale dei vari santuari, oppure nelle stesse canzoni popolari e contadine “ordinate” attorno a ritmi di un mondo antichissimo, tutto un insieme tradizionale che, come ha fatto notare Louis Gernet, costituiva l’elemento fondamentale della vita rituale del primitivo mondo ellenico. Quando la poesia lirica giunge al suo momento di maturità, l’individualità del poeta è chiara, non c’è nessuna possibilità di confondere le poesie di un Alceo con quelle di Saffo, le nitide descrizioni di un Anacreonte con quanto scrivono Bacchilide, Simonide o Stesicoro. Ognuno di loro canta ciò che lo distingue dagli altri e lo rende unico, irrepetibile; il canto è il frutto di una individualità che esprime un mondo interiore e un fluire di sentimenti assolutamente “personale”. La coscienza della propria personalità e del proprio mondo interiore non solo è chiaramente affermata, ma diventa il segno distintivo capace di valorizzare ogni uomo, anche coloro che ascoltano solamente questi canti, ognuno vi ritrova aspetti fondanti della propria vita interiore. Non c’è destino o fato che possa impedire all’Elleno di attingere a questo suo pulsare interiore, dove i sentimenti, gli impulsi e i valori tradizionali sono vissuti secondo modalità irripetibili, si incontrano, danno vita alla personalità individuale, ad un essere umano “completo”.

La grande filologia dell’Ottocento riteneva che nei due grandi poemi delle origini elleniche la coscienza dell’Io fosse poco evidente, qualcuno addirittura ne negava la presenza anche se l’ira di Achille, il ruolo di Ulisse, quello di Patroclo, di Ettore e di tanti altri sembravano smentire con ogni evidenza queste affermazioni, verosimilmente scaturite da una visione evoluzionistica della vita incapace di ammettere che poemi tanto antichi contenessero già tutto ciò che i filologi positivisti ritenevano caratteristico dell’uomo razionale ed “evoluto”, insomma, “moderno”. Ma la primitiva esperienza filosofica greca, la lirica, la tragedia e la stessa commedia ci dicono che la percezione dell’Io per l’Elleno era un fattore essenziale del suo modo di vedere l’universo, di percepire la vita del cosmo, di sperimentarne i ritmi, di guardare con un occhio che andava a penetrare lo stesso significato del vasto mondo.  Da ciò la varietà di termini, tipica del vocabolario ellenico, per esprimere l’atto del “vedere”, verbi che da una percezione puramente fisica a poco a poco ci trasportano in un ambito carico di significati astratti,  poi di simboli, di valori, di spiritualità. L’Elleno classico riteneva che questo suo sentimento dell’Io doveva essere vissuto fino in fondo, percepiva una distanza incolmabile fra ciò che lo caratterizzava in modo irripetibile e gli uomini che vivevano attorno a sé e sperimentavano un identico sentimento della propria specificità. Non concepì l’Io come un limite da controllare o da sopprimere, ma come un valore fondamentale capace di rendere irripetibile la stessa esistenza, caratterizzante anche le personalità divine, persino il modo di essere degli stessi dèi olimpici.

La tragedia ci rappresenta spesso un personaggio-eroe di fronte all’enigma di  sconosciute potenze estranee alla propria vita quotidiana che vorrebbero condizionarne l’esistenza, obbligarlo a scelte non appartenenti alla sua interiorità, al suo naturale atteggiarsi come un essere libero posto di fronte al vasto mondo. In questi momenti l’Elleno attinge al suo Io che “vuole”, alla volontà di determinare la stessa esistenza, di restare fedele al destino che gli è stato assegnato, di non abbandonarsi, di esigere da sé non solo il totale controllo della propria vita, ma anche di affrontare la morte, il momento ultimo dell’esistenza, con la consapevolezza di aver vissuto l’”attimo” irripetibile che è l’essere se stessi forgiando il proprio capolavoro, la propria esistenza. Per questo la sua appartenenza alla polis, ad una comunità completa ed organica, non diminuiva il senso dell’Io, il valore assegnato ad una interiorità ricca e variegata, ma si riteneva che la persona umana e la “ricchezza” di valori che ne distingueva il modo di essere, doveva essere in grado di completarsi nella vita sociale, non di spegnersi o annegare in un  “collettivo statale”.

Questo spiccato senso dell’Io ha una particolarità: il differenziare il soggetto da  un oggetto posto fuori da chi contempla la natura con sue leggi specifiche, non assimilabili a quelle dell’uomo, comporta la capacità di interpretare le leggi di quel mondo, di enucleare una loro formulazione, di astrarre dall’esperienza unica ed irripetibile del singolo delle definizioni logico-razionali che ne dovranno fare capire il significato e le costanti valide non solo per chi ha sperimentato questa capacità, ma anche per coloro che non ne sono consapevoli e restano ai margini della sua ricchezza analitica e descrittiva. Nasce la volontà di astrarre concetti logici, e dunque leggi valide universalmente quand’anche non se ne sappia comprendere il processo costruttivo. La filosofia e la scienza ellenica, il primo risultato di questa attitudine astrattiva, presuppongono un Io che analizza, si pone come soggetto riflessivo che astrae dall’esperienza contenuti ormai spesso persino estranei all’etica e al mondo del sacro. Affiora la prima esperienza di un pensiero laico.

Nella civiltà ateniese che raggiunge il sua apogeo al tempo di Pericle, la consapevolezza del valore della libertà umana è piena e condivisa. La libertà viene considerata un valore oggettivo al quale non è assolutamente possibile rinunciare se non perdendo la propria identità di uomo. E tuttavia Pericle non teme di proclamare che il limite di questa libertà sta nelle leggi che strutturano l’ordinamento giuridico e danno definizione appropriata alla libertà civica, che indirizza ognuno ad essere non solo un uomo libero, ma un cittadino libero che assieme ad altri suoi eguali esercita il proprio diritto. Il rischio di un ordinamento politico come quello dell’Atene del V secolo era che nel punto in cui cessava di essere tutelato da una personalità eccezionale come quella di Pericle, si potevano verificare forme di sfaldamento verso un individualismo esasperato che poteva condurre non solo alla decadenza dello stato, ma al suo diventare preda di avventurieri affascinanti. E’ quello che accadde alla morte di Pericle nella temperie particolare succeduta alla fine delle guerre peloponnesiache, la “guerra civile” del mondo ellenico che condusse gradatamente alla perdita della libertà e alla sottomissione all’impero macedone.

La consapevolezza del valore dell’individualità umana, il dovere di agire secondo coscienza e in piena libertà, non porta l’Elleno a staccarsi dai valori religiosi che ne sostanziano l’esistenza e nel quotidiano arricchiscono la sua vita comunitaria, i ritmi della convivenza cittadina. Quella “legge divina” il cui valore fu potentemente tratteggiato nelle tragedie di Eschilo, attraversa ogni aspetto della vita del singolo e della comunità cittadina (“tutte le leggi umane traggono nutrimento dall’unica legge divina”, egli ci dice), e non c’è abitante della Grecia arcaica, dal più umile dei contadini al più arrogante dei governanti che non ne sia stato consapevole.

Anche se i Sofisti cercarono con i mezzi della dialettica e con una parola onnipervadente di fare sperimentare una diversa dimensione dell’Io completamente staccata dai valori tradizionali; anche se molti membri dell’élite nobiliare ateniese pensarono di aderire a questa nuova realtà capace di svincolare l’Io da ogni legame rituale, di appartenenza o di eredità, la gran parte degli Elleni non si riconobbe in questa nuova predicazione che commisurava ogni cosa alla capacità di persuadere con la parola, di ammaliare, di rendere non significante ogni valore, il vivere individuale e la stessa comunità cittadina tutta. In un’epoca nella quale sembrava trionfare la ricchezza e il potere, Socrate volle ricordare che i valori reali non stavano nell’apparenza e nell’arbitrio individuale, ma nel valore che l’uomo assegnava a se stesso. Socrate valorizza il sentimento dell’Io in rapporto all’interiorità umana, alla ricchezza che riteneva di trovare nell’animo umano e alla possibilità di scoprire il Bene come un elemento essenziale e assolutamente primario nella vita dei singoli e della realtà comunitaria. Certo, il suo insistere nel dialogo con tutti per cercare quella che sembrava l’irraggiungibile verità, poteva farlo sembrare simile ai Sofisti, apparentarlo al loro modo di essere, alla loro sfrenata dialettica, e Aristofane non mancò di ridicolizzare questi aspetti del metodo educativo di Socrate. E tuttavia la sua ricerca ha un fine, mira a stabilire una precisa condizione interiore dell’uomo, a fare emergere una certezza nella quale il Bene si identifica con la coscienza dell’uomo retto. E’ una scoperta dalle conseguenze importanti che Platone non mancherà di sviluppare. Il giusto non può più sottrarsi alla verità che affiora nella propria anima, una verità che vive della certezza di azioni pure e rette, si alimenta nel rispetto della propria interiorità, si nutre di una giustizia non più delegata alle istituzioni, ma resa viva da una vita vissuta come conformità al Vero e al Bene. La grandezza della morte di Socrate, il Giusto che affronta il proprio destino pur nella consapevolezza della sentenza ingiusta decretata da un tribunale ostile e di parte, conclude una vita vissuta secondo giustizia e senza tentennamenti: l’ingiustizia (=la fuga dalla prigione preparata dai suoi discepoli) non può sostituire l’altra ingiustizia, quella che hanno orchestrato i suoi nemici condannandolo a morte. Socrate dimostra con la propria morte accettata consapevolmente e con virilità, che il rispetto delle leggi della patria non deve ridursi ad un atto esteriore “obbligato” dalla forza dello stato, ma è un “modo di essere” scaturente da una forma interiore, dalla consapevolezza che il Giusto coincide con il Bene e dimora nell’animo dell’”uomo nobile”. La legge non è una norma empirica creata per regolamentare una astratta comunità, ma è la “forma formante” della vita degli uomini liberi. L’uomo che vive della propria ricchezza interiore, si nutre di un’etica capace di rendere la vita degna di essere vissuta, non può eludere il richiamo della giustizia. Anche quando ogni cosa parrebbe giustificare la trasgressione e gli altri uomini approverebbero.

E tuttavia, per quanto attento al valore della persona, alla ricchezza dell’interiorità umana, alla consapevolezza che ogni uomo vive in rapporto con una comunità cittadina, in Socrate non troviamo una compiuta dottrina dello Stato e dei rapporti fra i cittadini. Pur nella viva e straordinaria attenzione al senso della comunità e al valore delle leggi comunitarie che l’uomo libero ha scelto, non c’è in Socrate una dottrina dello Stato, almeno non ne è rimasta traccia nelle testimonianze arrivate fino a noi. La sua attenzione al Bene come valore essenziale che giustifica il significato dell’esistenza umana, non si traduce in una riflessione compiuta sul “bene comune”, sulla società e le sue istituzioni.

L’arcaica società ellenica era arrivata alle forme di vita nella polis dopo un lungo processo che aveva trasformato antichissime tradizioni cui erano legati tutti i popoli dell’Ellade. Al centro della vita familiare troviamo il padre che nell’età arcaica copriva aspetti pontificali connessi alla sua funzione di sacerdote domestico. La madre, invece, era la garante della perpetuità del recinto familiare, del prolungamento nel tempo della famiglia, non una somma di individui legati da sentimenti, ma un tipo particolare di confraternita sacra diretta dal capo-famiglia che ne officiava i riti ancestrali conservati con cura e gelosamente custoditi e trasmessi da padre in figlio. Più all’esterno c’era il genos, costituito da tutti i “rami” che praticavano lo stesso rituale e spesso si riunivano attorno ad una tomba-ara gentilizia. La tribù riuniva una serie di genos attorno ad un culto unitario che veniva celebrato da tutti i membri nell’anniversario dell‘eroe eponimo. Quando le tribù elleniche cominciarono ad urbanizzarsi è evidente che tali ordinamenti poggianti su strutture gentilizie e familiari, non potevano più reggere e fu necessario un riadattamento sfociato in quella particolare struttura sociale da Aristotele definita il governo dei “liberi governati”.

Hoplites.jpgLa prospettiva politica di Aristotele muove dalla constatazione che l’organizzazione statale è la condizione stessa del vivere civile. E’ all’interno della polis che l’uomo può soddisfare non soltanto i suoi bisogni materiali, ma anche quelli morali solo che riesca ad equilibrare la libertà della comunità cittadina con la norma o costituzione che regola la vita civile, realizzando la concordia fra i membri dello stato, concordia che permette la partecipazione di “diritto” e di “giustizia” alla vita pubblica. Aristotele non fa altro che teorizzare la vita cittadina nella sua dimensione etica, analizzando oggettivamente una realtà politica ritenuta ormai “normale”. Nella vita comunitaria l’uomo può adempiere a funzioni altrove impossibili; solo nella realtà sociale si concretizza interamente una armonica maturazione della persona umana; solo in rapporto agli altri è possibile commisurare la grandezza di un essere libero. E’ questa dimensione che rende “vera” la celebre definizione di Aristotele secondo cui “l’uomo è un animale sociale”, nella sua interezza concepibile solo in rapporto agli altri uomini e alle istituzioni datesi liberamente da tutti i cittadini. Si tratta di una prospettiva particolare, che in sè rappresenta una novità rispetto ad altre elaborazioni di tipo politico che i vari pensatori greci non avevano mancato di elaborare. Si pensi a questo proposito a Platone e ai fondamenti dello stato da lui delineati, alle tre “classi sociali” che sostanziano il suo ideale di uno stato armonico, un ideale che G. Dumézil ha ritrovato in tutte le civiltà derivate dalla preistoria indoeuropea. Si pensi a questo proposito ai vari legislatori ellenici che in età arcaica, al sorgere delle città, ne hanno dettato i fondamenti giuridici e hanno costituito molto spesso l’elemento fondante delle molte colonie nate dalle ondate migratorie condotte all’insegna della spiritualità apollinea.

C’è in Platone una preminenza dello stato rispetto ai cittadini giustificata nella prospettiva dello “stato ideale”, di un ordinamento ideale che si ritiene possa essere il solo a conservare l’eredità più antica dell’Ellade, agli occhi di Platone l’unico in grado di garantire l’equilibrio del corpo sociale. Nelle sue tre opere politiche, la Repubblica, Le Leggi e il Politico, lo stato è la “forma” capace di dare ordine ad una sostanza=demos che lasciata a se stessa rischia di restare amorfa poichè in sé contiene elementi di dispersione e di disordine che impediscono ogni pur piccolo tentativo di erigere una società ordinata. E’ anche per questo motivo che lo stato ideale di Platone diviso nelle sue tre “classi sociali”, non fa che riflettere le tre “potenze dell’anima” che costituiscono il complesso della vita interiore di ogni uomo retto. L’ordinamento dello stato ideale, quello che probabilmente doveva attualizzare sul piano filosofico una arcaica consuetudine un tempo ben viva presso tutti i popoli indoeuropei, oggettiva l’armonia che regge la vita dell’uomo arcaico, un “corpo sociale” capace sul proprio piano di riprodurre la gerarchia delle “potenze” che ritmano la vita interiore dell’organismo umano.

La prospettiva delle Leggi è diversa. Platone qui sembra più attento a dare indicazioni perché si formi uno stato che nella realtà delle condizioni decadenti della Grecia del suo tempo possa adempiere alla sua funzione formativa, uno stato capace hic et nunc di enucleare le leggi e gli ordinamenti che devono essere come la “spina dorsale” di un corpo vivo il cui compito continua ad essere quello di dare “forma” all’informe. Proprio per queste ragioni qui è possibile trovare alcuni cenni a tradizioni antichissime nelle quali predominavano aspetti iniziatici che intendevano trasformare il giovane in un guerriero pienamente integrato nella propria comunità. A questo proposito è forse utile fare un cenno a Sparta e alla sua struttura cittadina per le oggettive similitudini che è possibile rinvenire con alcuni aspetti delle dottrine platoniche. L’ordinamento elaborato da Licurgo, che si incentrava sulla supremazia degli Spartiati e sulla selezione più rigorosa per ottenere un’élite dirigente presso la quale le caratteristiche guerriere dovevano essere assolutamente predominanti, non era altro che il tentativo di perpetuare in una società urbanizzata, strutture iniziatiche appartenenti al passato guerriero delle tribù doriche che in un’epoca ormai confinata nel mito avevano invaso il Peloponneso. Non si tratta solo della rigida educazione guerriera che, d’altronde, anche le altre città elleniche possedevano e aveva formato quei magnifici combattenti che avevano fermato l’assalto dei Persiani salvando la civiltà ellenica. Il fondamento statale spartano restava il rigido senso della comunità, la preminenza data allo stato e alla patria, la consapevolezza che la libertà del singolo non significava nulla fuori di quel contesto comunitario, il senso della custodia di valori antichissimi trasmessi mediante metodi educativi i quali, quanto ai fini, in parte è possibile trovare anche in altre aree culturali.

La prospettiva di Aristotele, questo straordinario discepolo sostanzialmente “infedele” di Platone, tuttavia è cambiata. Al centro della sua riflessione non c’è più lo stato, il genos, la fratrìa o le arcaiche famiglie con i loro culti e i loro rituali ancestrali. Lo stesso stato acquista un rilievo particolare, perde la sua preminenza sulla società e diventa l’elemento di coesione e di identità della comunità cittadina. Al centro ora troviamo il cittadino di una città che molto spesso ha eliminato tutte le tracce degli ordinamenti antichi e che non intende più ordinarsi attorno alle tradizioni custodite dalle famiglie patrizie. E’ un rivolgimento che rende molto diversa la prospettiva aristotelica e giustifica la sua attenzione al cittadino senza radici di una città cosmopolita e tesa ad aperture verso mondi nuovi che necessariamente in antico non era possibile neanche concepire. Il cittadino deve esplicare la sua libertà individuale nell’ambito di ordinamenti liberamente accettati e condivisi, deve vivere una vita sociale che è come il segno distintivo della sua ricchezza creativa, deve concorrere ad ordinare il mondo circostante e i suoi concittadini con piena aderenza allo spirito e alla lettera delle leggi, ormai diventate la vera  “ossatura” dello stato, alle quali egli stesso ha concorso.

Secondo Aristotele l’unità dello stato e la concordia dei cittadini, ossia l’equilibrio dell’organismo che egli ha in vista, non può essere conservata a lungo se le famiglie e i gruppi sociali sono economicamente dipendenti, se vige un sistema economico incapace di garantire l’autonoma esistenza dei vari corpi sociali e dei singoli cittadini. L’enucleazione del principio della proprietà privata come elemento assolutamente indispensabile per il libero esercizio della libertà individuale è uno degli elementi che danno alla dottrina aristotelica dello stato quei caratteri di “modernità” che da sempre ne hanno reso importante lo studio e la riflessione. I proprietari, sostiene Aristotele, proprio per la loro attività amministrativa, sono abituati a rispettare il diritto, a chiedere che le leggi abbiano una definizione chiara e non discussa, a decidere autonomamente e liberamente l’utile per se stessi e per la comunità cittadina tutta. L’attenzione aristotelica per questi aspetti della libera espressione della personalità umana, in sé una forma di “allargamento” e di consolidamento dello spazio di libertà individuale, si potrebbe definire come una prima delineazione di forme di sussidiarietà che solo le moderne encicliche papali hanno sviluppato in modo consequenziale.

E tuttavia il cittadino-proprietario che intende rimanere estraneo alla vita politica della propria città non può far parte del sistema politico che Aristotele ha in mente. Il cittadino deve partecipare delle decisioni politiche, il suo contributo alla vita comunitaria costituisce uno dei momenti essenziali della sua stessa vita di uomo libero, ne contrassegna il modo di essere e alcune delle stesse finalità esistenziali. L’ideale pan-ellenico del “governo dei governati” non può realizzarsi se non nel presupposto di un cittadino libero che esprime il proprio punto di vista, partecipa alla vita sociale e concorre alle decisioni dello stato. L’assunzione di responsabilità è insita in questa condizione di libertà individuale. Non potrebbe esserci per Aristotele un governo rappresentativo al quale delegare la vita legislativa. Non c’è delega che il cittadino della polis possa accettare, egli deve concorrere liberamente alla formazione delle leggi, ne deve vedere i risvolti, persino convincere gli altri di eventuali errori: il dialogo sociale è la forma della partecipazione diretta in un organismo che ha eretto al centro della propria esistenza un sistema di valori da tutti condivisi.

Nuccio D'Anna

D'où venaient les premiers Américains?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

D’où venaient les premiers Américains ?

 

clovis.jpgLorsque les Européens de l’époque de Christophe Colomb arrivèrent en Amérique, ils trouvèrent sur place des hommes qui ressemblaient plus à des Asiatiques (Chinois. Japonais ou Coréens) qu’à toute autre population. Depuis lors, l’opinion a prévalu selon laquelle les ancêtres des Indiens d’Amérique auraient émigré à partir de l’Asie du Nord. en suivant le détroit de Behring, via la Sibérie et l’Alaska, il y a environ 12 000 ans. La culture de Clovis, découverte en 1932 au Nouveau-Mexique et qui a pu être datée de 11 500 ans, a donc été longtemps considérée comme la première culture humaine qui se soit développée sur le sol américain. Ce sont les héritiers de cette culture qui auraient progressivement peuplé tout le Nouveau Monde. Mais plusieurs faits nouveaux ont récemment conduit les chercheurs à remettre en cause cette théorie, dite “Clovis First».

 

L’un de ces faits est la découverte à Monte Verde, au Chili, par Tom D. Dillehay, de l’Université du Kentucky, d’un ensemble d’artefacts humains vieux de 12 500 ans, soit un millénaire de plus que la culture de Clovis, alors que cette dernière se situe beaucoup plus au nord. C’est également le cas d’autres artefacts qui ont été découverts depuis dans un abri rocheux situé à Meadow Croft, près de Pittsburgh, en Pennsylvanie.

 

A ces données archéologiques s’en ajoutent d’autres, de type anthropologique. Plusieurs crânes ou squelettes vieux de plus de 8000 ans retrouvés en Amérique du Nord ou du Sud présentent en effet des caractères très différents de ceux des populations mongoloïdes. Le plus célèbre est le squelette remarquablement conservé de l’homme de Kennewick, découvert en 1996 sur les berges de la rivière Columbia, dans l’État d’Eastern Washington. Ce squelette, daté au radiocarbone de 9400 ans, présente des caractères typiquement européens. Il en va de même de la femme de Pehon, âgée au moment de sa mort d’environ 25 ans, qui a été retrouvée en 1959 dans la banlieue de Mexico et a été datée récemment de quelque 15 000 ans. Par ailleurs, un squelette de femme ("Luzia») découvert au Brésil et vieux d’au moins 11 500 ans présente, lui. des caractères typiquement négroïdes semblables à ceux des habitants primitifs de l’Australie et de la Polynésie.

 

L’ancienne population européenne présente en Amérique pourrait avoir été apparentée aux Aïnous, qui vivent actuellement dans l’île japonaise de Hokkaïdo. Elle serait donc elle aussi passée par le détroit de Behring. Cependant, Denis Stanford et Bruce Bradley, de la Smithsonian Institution, pensent qu’il pourrait très bien s’agir d’Européens de l’Ouest, qui auraient traversé l’Atlantique Nord à une période très reculée. Les deux chercheurs s’appuient notamment sur la ressemblance frappante existant entre les plus anciens outils de pierre taillée mis au jour en Amérique et l’industrie solutréenne attestée en Espagne et dans le Sud-Ouest de la France il y a 20 000-16 000 ans.

 

L’hypothèse qui prévaut désormais est donc celle d’un peuplement de l’Amérique beaucoup plus complexe qu’on ne le pensait jusqu’à présent. Celui-ci pourrait avoir commencé au pléistocène, il y a au moins 30 000 ans. à la fois en provenance de l’Europe, de l’Asie et de l’Australie.

 

(Sources: New York Times. 30 juin 2002: National Geographic, septembre 2002: Science Insights News. décembre 2002. In Eléments N°111)

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mardi, 13 avril 2010

Bardèche's Six Postulates of Fasciste Socialism

Bardèche’s Six Postulates of Fascist Socialism

bardecheTranslator’s Note: When liberalism becomes “a foul tyranny masking an evil and anonymous dictature of money” (the basis of Jewish supremacy), everything is inverted and perverted, so that even our word “socialism” is tarnished, associated as it now is with Washington’s Judeo-Negro regime. I thought it appropriate, therefore, to post something that reminds readers of how we once defined this term.  The following is a short excerpt from Maurice Bardèche’s Socialisme fasciste (Waterloo, 1991). — Michael O’Meara

“Socialisme fasciste” is the title of an essay by Drieu La Rochelle. Fascist socialism, though, has been largely symbolic, since it is more an idea than a record of actual achievement.

At certain points, all fascist movements had to come to terms with socialism. And all took inspiration from it: Hitler’s party was the National Socialist German Workers Party, Mussolini was a socialist school teacher, José-Antonio Primo de Rivera was a symbol of national-syndicalist socialism, Codreanu’s Iron Guard was a movement of students and peasants, Mosley in England had been a Labour Minister, Doriot in France was a former Communist and his PPF emerged from a Communist cell in Saint-Denis.

Historically, fascist movements were liberation movements opposing the confiscation of power by cosmopolitan capitalism and by the inherent dishonesty of democratic regimes, which systematically deprive the people of their right to participate [in government].

With the exception of Peron’s Argentina, circumstances have always been such as to prevent the realization of fascism’s socialist vocation.

Those fascist movements that succeeded in taking power were compelled, thus, to reconstitute an economy ruined by demagogues, to re-establish an order undermined by anarchy, to create ways of overcoming the chaos besetting their lands or to repel external threats. These urgent and indispensable tasks required a total national mobilization and dictated certain priorities.

Circumstances, in a word, everywhere prevented fascists from realizing the synthesis of socialism and nationalism, for their socialist project was necessarily subordinated to the imperative of ensuring the nation’s survival.

These circumstances were further exacerbated by another difficulty: Fascist movements were generally reluctant to destroy the structure of capitalist society.

Given that their enemy was plutocracy, foreign capital, and the usurpers of national sovereignty, the immediate objective of these movements was to put the national interest above capitalist interest and to establish a regalian state capable of protecting the nation, as kings had once done against the feudal powers.

This [fascist] policy of conserving ancient structures may have transformed the prevailing consciousness and shifted power, but it did not entail a revolutionary destruction of the old order.

Fascist nostalgia for the old regime has, indeed, been so profound that it routinely reappears [today] in neo-fascist movements that are national-revolutionary more in word than in deed.

This phenomenon is evident throughout Europe, in Italy and Germany, in Spain, in France . . .

Is it, then, a contradiction distinct to neo-fascism that it has been unable to combine the conservation of hierarchical structures upon which Western Civilization rests with measures specifically socialist?  Or do neo-fascists simply — unconsciously — express the impossibility of grafting measures of social justice onto a civilization profoundly foreign to their ideal . . . ?

We need at this point to turn to [first] principles.

Every new vision of social relations rejecting Marxism rests on a certain number of postulates, which, I believe, are common to all radical oppositional movements.

1. The first of these condemns political and economic liberalism, which is the instrument of plutocratic domination. Only an authoritarian regime can ensure that the nation’s interest is respected.

2. The second postulate rejects class struggle. Class struggle is native to Marxism and [inevitably] leads to the sabotage of the nation’s economy and to a bureaucratic dictatorship, while true prosperity benefits everyone and can be obtained only through a loyal collaboration and a fair distribution.

3. The third protects the nation’s “capital” (understood as the union of capital and labor) and represents all who participate in the productive process . . . It is a function of the [fascist] state, thus to promote labor-capital collaboration and to do so in a way that does not put labor at the mercies of capital.

4. Given that the nation’s economy is a factor crucial to the nation’s independence, it, along with the Army and other national institutions, are to be protected from all forms of foreign interference.

5. Since modern nations have become political-economic enterprises whose power resides in those who control the economy as much as it does in those who make political decisions, the nation must play a leading role in the economic as well as the political systems. The instrument appropriate to such participation in the nation’s life have, however, yet to be invented. . . .

6. Above all, the nation’s interest must take priority over every particular interest. . . .

There is nothing specifically “socialist,” as this term is understood today, in these principles, since contemporary socialism is nothing other than a form of social war whose inevitable culmination is the rule of those bureaucratic entities claiming to represent the workers [i.e., national union federations].

Nevertheless, these principles accord with another conception of socialism — one that favors a fair distribution to all who participate in the productive process. This is not the underlying idea, but the consequence thereof, inspiring our postulates.

A fair distribution, however, will never result from sporadic, recurring struggles challenging the present degradations of money. Instead, it is obtainable only through the authority of a strong state able to impose conditions it considers equitable.

Contro lo spirito di gravità

Contro lo spirito di gravità

di Adriano Scianca

   

“Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini avrà spostato tutte le pietre di confine”

Friedrich Nietzsche

Così parlò Zarathustra, III, “Dello spirito di gravità”

 

frohliche_wissenschaft.jpgVivere è sempre scegliersi dei modelli: esempi che incarnino ciò che vogliamo essere e che ci indichino la rotta. Il nostro modello è da sempre l’ardito. In questa scelta c’è certamente la gratitudine e l’ammirazione verso persone in carne ed ossa che, nella Grande Guerra e nel periodo immediatamente successivo, hanno dato anima e corpo alla Nazione. Ma c’è anche e soprattutto la percezione nitida che c’è qualcosa, nella mentalità ardita, che ancora oggi ci parla, che si innalza sopra le contingenze, che illustra un metodo e uno stile ancora oggi attualissimo.

 

L’ardito, infatti, è un volontario, uno che combatte per fede e non per costrizione. E’ l’uomo che avanza, che si stacca dal gregge e fa un passo avanti donando se stesso. Egli fa della creatività in battaglia e del coraggio le sue armi predilette. Il suo compito è essere avanguardia, entrare lì dove nessuno è mai entrato, inoltrarsi nel territorio nemico. Creare vie, tracciare percorsi, sfondare le linee nemiche. Andare avanti nella boscaglia e creare un passaggio laddove altre truppe successive creeranno strade e accampamenti. Per fare questo, l’ardito deve muoversi con libertà. Per questo gli si concede l’armamento leggero, privo dei fardelli che ostacolano l’avanzata. L’ardito non ha zavorre, per questo può inerpicarsi verso territori sconosciuti.

 

Il messaggio è chiaro: per creare, avanzare, conquistare occorre liberarsi dei fardelli. Fardelli che oggi sono innanzitutto zavorre mentali che inibiscono il corretto procedere. Vediamone alcune.

 

Zavorra numero uno: l’agorafobia. Ovvero la paura della piazza, del “fuori”. E’ il ghetto interiorizzato, l’idea che alla fine il nostro posto nel mondo siano veramente, se non le fogne, per lo meno gli scantinati, i sottoscala, gli sgabuzzini. Posti bui e umidi, dove tuttavia è rassicurante dimorare perché in essi si evita il confronto con la realtà, lo scontro con i fatti. Ci si parla addosso e per questo ci si convince di avere argomenti invincibili senza darsi la pena di mettersi veramente alla prova. Se non che la storia si fa lì fuori. l’unico campo di battaglia che conta è il mondo.

 

Zavorra numero due: l’antagonismo. L’idea, direttamente discendente dall’agorafobia di cui sopra, per cui esistiamo noi ed esiste il mondo e fra i due schieramenti si immagina una lotta senza quartiere. In questa visione noi siamo i puri e il mondo è l’impuro. O si è “servi del sistema” o si è “contro il sistema”. Logiche vecchie, estremismo inacidito. Rileggere Foucault: il sistema è un gioco di flussi (di persone, materiali, informazioni, denaro) che va, a sua volta, giocato. Bisogna essere dentro e cavalcare l’onda. E per quanto sia importante avere propri spazi – veri o metaforici – ciò che conta è essere al centro dello spazio comune. Dominare, ad esempio, l’informazione mainstream, non fare sterile e mal verificata “controinformazione” stile anni ’90.

 

Zavorra numero tre: l’ideologia. Con questo termine designiamo ogni schema teorico che tenda a imbrigliare la realtà in gabbie rigide che ne umilino la complessità e la varietà. Di tipica filiazione monoteista, le ideologie mancano di elasticità e sono le nemiche giurate di ogni pragmatismo. Si oppone alle ideologie la “visione del mondo”, che già nella definizione conserva un qualcosa di intuitivo, di non logicizzato. La visione del mondo è il grimaldello che apre le porte del presente esattamente come l’ideologia è lo schema che le chiude. Il fascismo ebbe una visione del mondo e nessuna ideologia. Il neofascismo – costretto dalle contingenze a pensare il fascismo molto più che a viverlo – ha più spesso fatto il contrario. Magari in buona fede. Ma un’ideologia in buona fede non diventa per questo più utile. Es. urlare a ogni piè sospinto “socializzazione!” è ideologico, è una soluzione pronta buona per ragionamenti sloganistici; inverare lo spirito del Manifesto di Verona nel presente alla luce delle mutate condizioni socioeconomiche è rivoluzionario.

 

Zavorra numero quattro: il viaggio mentale. Molte deviazioni, rispetto a quello che è il nostro percorso genuino, avvengono per meccanismi mentali più o meno inconsapevoli basati su processi di rimozione o transfert. In questo modo si possono spiegare alcuni dei più frequenti sbandamenti neofascisti, dall’infatuazione per la sinistra (per cui da fascisti si diventa “fascisti di sinistra” per approdare infine alla sinistra tout court e talvolta persino all’antifascismo) fino al complesso del “beduino liberatore” (quello per cui si cerca spasmodicamente un “bastione rivoluzionario” esotico destinato a propagare la rivolta per tutto il globo, anche per conto di chi è troppo impegnato a farsi i suoi viaggi mentali per pensare da sé al suo destino).

 

Zavorra numero cinque: il monologhismo. Il monologo, si sa, è il contrario del dialogo. Chi concepisce il relazionarsi agli altri nei soli termini del monologo è entrato in un circolo vizioso completamente autoreferenziale. E lo fa perché sente come irrimediabilmente debole la sua identità. Entrando in contatto con l’altro da sé potrebbe cedere, quindi si chiude a riccio. Chi è saldo nelle proprie convinzioni e nel proprio sentimento del mondo è invece consapevole di poter discutere anche con il diavolo. Perché anche il dialogo,in realtà, è una prova di forza: chi è debole viene soggiogato, chi è forte rimane se stesso.

 

Zavorra numero sei: le idee che immobilizzano. Al di là degli atteggiamenti ci sono in effetti contenuti specifici che fungono da fardello incapacitante. Tutti i moralismi, tutti i passatismi, tutti i clericalismi, ogni idea di matrice reattiva, ogni proposta formulata in termini di “valori”, qualsiasi giudizio bacchettone privo di prospettive in positivo: tutto ciò paralizza il pensiero e l’azione. Per sconfiggere lo spirito di gravità occorre riconquistare una visione chiara, lineare di ciò che siamo. Bisogna ripulire tutte le incrostazioni, raddrizzare tutte le deviazioni, potare tutti i parassiti. Per procedere con sicurezza bisogna prima ritrovare il nord.

 

Essere di Estremocentroalto, nonostante i fraintendimenti in buona o cattiva fede, non significa semplicemente sposare una formula accattivante e ingenuamente “futurista”. Significa, invece, cominciare a ragionare in controtendenza rispetto a quanto descritto sopra. Significa allenare se stessi ad un pensiero – e ad un’azione – che non dia nulla per scontato, che rimetta in discussione i pregiudizi. Esistono meccanismi mentali che vanno spezzati. Estremocentroalto è la riconquista di uno sguardo sulla realtà sgombro da nubi. E’ come se il mondo ci apparisse per la prima volta davanti agli occhi, in una visione scintillante di potenzialità da cogliere, in estrema libertà.

 

L’ottocento è sempre più morto.

Il novecento pure.

Noi continuiamo a sentirci benissimo.

Dossier Dantec (2004)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

DOSSIER “DANTEC”  :

 

Dantec devant les cochons

Source : http://ca.altermedia.info

 

MD-B.gifComme Présent l’avait prévu dès l’automne (1), le grand romancier et essayiste Maurice G. Dantec est soumis depuis quelques jours à une attaque en règle des «.Maîtres Censeurs » (2), de ces petits marquis islamo-gauchistes qui, depuis leurs quartiers chics et tranquilles de Saint-Germain veulent régenter les lettres et la pensée française.

 

Tout a commencé par une curieuse offensive à l’évidence préméditée, et collective, sur le forum du journal gratuit canadien Voir (3) qui s’est soudainement mis à vomir des messages d’insultes contre l’auteur de Babylon Babies (4) coupable, en vrac, d’être un « nazi américano-sioniste » (?), un islamophobe, un facho, et autres noms d’oiseaux.

 

Entre-temps, Dantec qui, du fait d’un quasi ostracisme dans les médias français, a pris l’habitude de lire, écrire et débattre sur le Web, lequel reste – pour le moment – un espace de liberté, commit l’irréparable péché de s’inscrire à la newsletter du Bloc Identitaire (5). Pire encore, l’écrivain poussa le vice jusqu’à accompagner cette démarche d’une lettre à Fabrice Robert, dirigeant du Bloc, pour lui préciser que, bien qu’en désaccord fondamental sur les positions de cette formation en ce qui concerne les Etats-Unis et Israël, il appréciait leur bel activisme contre le groupe de rap anti-français Sniper, pour leur défense de l’abbé Sulmont, et, plus généralement, leur lutte contre l’islamisation de la France. Last but not least, en homme courtois (quel ringard !), il leur souhaitait à la fin de cette missive, dont il autorisait la publication, tous ses vœux pour 2004… C’en était trop !

 

Ou plutôt, bien sûr, c’était enfin le « faux pas », qu’attendait le troupeau gras des cochons de la médiaklatura pour couiner en chœur leurs délations, leurs malédictions et leurs excommunications contre l’intellectuel qui avait osé, entamer un débat avec les intouchables, les lépreux de la droite identitaire !

 

Des « cochons » oui, comme disait Léon Bloy (1) qui fut aussi, en son temps, la cible d’une vindicte généralisée de la presse parce qu’il avait eu le malheur de défendre Tailhade ; et qui leur répondit en rédigeant Léon Bloy devant les cochons (6), que nous nous sommes permis de paraphraser dans notre intitulé. Des cochons comme ceux qui, dans l’excellente fable de George Orwell, prennent le pouvoir de La ferme des animaux en y installant leur totalitarisme absurde pour mieux se goinfrer au nom de la liberté.

 

Des cochons donc, vautrés dans leurs turpitudes, qui trouvent charmant d’aller biser les terroristes du Chiapas, de fêter le livre (!) chez Fidel Castro, de voter pour Arlette Laguiller, et, donc, le projet d’une bonne révolution sanglante, ou encore, et la liste serait longue, répandent leur vulgate d’anciens communistes, complices de régimes génocidaires, dans toutes les feuilles et sur tous les écrans.

 

C’est Libé, bien sûr, qui a sonné l’hallali, jeudi, en un article où l’amalgame simpliste n’avait d’égal que le verbe venimeux. Le Monde récidivait dans la foulée – « Dantec s’affiche avec l’extrême droite » - dans l’inénarrable style bolcho-jésuitique qui est le sien. Et c’est d’ailleurs dans ses colonnes que l’on pouvait lire avec stupeur la « réaction » de Patrick Raynal, directeur de collection du pestiféré Dantec, qui enfonçait ainsi l’un de ses poulains en s’estimant « catastrophé, étant contre toutes les opinions » de Maurice G. Dantec. Consternant.

 

Et l’ « affaire Dantec » d’enfler maintenant jusqu’au Canada, où le quotidien La Presse a cru bon d’apporter ses rondins au bûcher. Sans parler d’internet qui voit les sites gaucho-bobos se remplir d’indignation vengeresse. Mais nous concluions lors de notre précédent article que l’écrivain catholique n’était pas du genre à se laisser faire sans combattre. Lui qui pense la littérature comme un combat pour la Civilisation Occidentale chrétienne et se veut un « guerrier du Verbe », ne manque pas de rage et de souffle.

 

Déjà, ses réponses fusent depuis Montréal comme autant de missiles intercontinentaux ! Il y dénonce avec véhémence ces « journalistes » sans déontologie ni métier, leurs « mensonges » « qui prouvent [qu’ils sont] très proches des officines de désinformation gouvernementales ». Il assume ses écrits, avec une belle témérité qui devrait faire honte à tous les lâches du système, chiens couchés, silencieux, aux pieds des inquisiteurs de la grosse presse anarcho-trotstko-bancaire.

 

Mais nous disions aussi, « qui sait s’il ne se trouvera pas de nombreux et inattendus soutiens qui rallieront le labarum archéo-futuriste de ce Constantin de la littérature française ». Et c’est ce qui semble arriver. Déjà, nous savons que de nombreux mails et courriers de fans, issus de tous les milieux et de tous bords, partent en direction de la prestigieuse maison Gallimard (7) afin qu’elle mobilise pour soutenir son auteur. La revue culturelle Cancer ! n’est pas en reste, qui a ouvert une page spéciale sur internet (8) et dont les rédacteurs se solidarisent avec maudit ; le site subversiv.com aussi, qui publie une interview choc de Dantec et bien d’autres encore, dont, évidemment, les militants du Bloc identitaire.

 

On peut aussi imaginer, et nous l’espérons, que ses amis intellectuels et écrivains dits « nouveaux réactionnaires » qui avaient fait naguère crânement face à l’attaque du commissaire politique Lindenbergh, sauront faire preuve de solidarité avec lui. Et puis, la meilleure solution est encore d’aller acheter massivement les œuvres de Dantec, en vente dans toutes les librairies, car dans ce monde hélas dominé par le fric, c’est par le porte-monnaie qu’il faut convaincre le landerneau des lettres que ce genre de lynchage ne nous impressionne plus.

 

Olivier GERMAIN.

 

1. Faut-il brûler Maurice G. Dantec, Présent du 3 octobre 2003

2. Elizabeth Lévy, Lattès, 2002

3. www.voir.ca

4. Gallimard, La Noire, 1999

5. Bloc Identitaire – BP 13 – 06301 cedex 04 et www.les-identitaires.com

6. Mercure de France, 1895

7. Éditions Gallimard – 5, rue Sébastien-Bottin – 75328 Paris cedex 07. presse-serie-noire@gallimard.fr - Tél. : 01.49.54.42.00 Fax : 01.45.44.94.03

8. http://frkc.free.fr/revuec/dantec_nettoyage.htm sur revuecancer.com

 

“Dantec, un catholique futuriste”

 

MD grandjunction.jpgQue cette affaire Dantec est significative ! Que la France et le Québec représentent à la perfection le pire Occident ! Chez nous, une lâcheté endémique, apprise d’abord à la garderie, puis à l’école primaire, où l’on enseigne aux garçons à ne pas être des garçons, où ils sont castrés, n’ont pas le droit de se chamailler, sont traités comme de futurs hommes roses (ou gris), et ainsi de suite jusqu’à l’université. Le système d’éducation du Québec est une vaste entreprise de féminisation du mâle. On extirpe des coeurs toute violence et toute agressivité au lieu de discipliner et d’ennoblir ces instincts à l’origine des vieilles vertus militaires et chevaleresques garantes de la véritable paix et de la sécurité des plus faibles. On construit de cette façon un petit être inoffensif, fatigué, dépressif, aux instincts appauvris, sans résistance, et qui subit toujours. De là, le pacifisme des jeunes. Y a-t-il pire maladie morale ?

 

FAITES LE MORT, PAS LA GUERRE ! Ce défaitisme ignoble nous a été inculqué sur les genoux de nos professeurs. Nos politiciens sont des produits de cette éducation : des chiffes molles sans dignité. Cela c’est nous ! Le Québécois ressemble au dernier homme que redoutait Nietzsche. C’est en ce sens que le Québec est le théâtre des opérations. Le nouvel Adam, le produit glorieux (et ultime) de l’histoire universelle, c’est bien l’homo quebecensis, un homosexuel athée et pacifiste de gauche dont la bouille à la Michel Tremblay attend de se retrouver sur tous les timbres postes de l’Anation québécoise et qui tend les bras à Kofi Annan, pour que soit fondée sur le sinistre modèle québécois l’Anation mondiale ! Le Québec n’est tout entier qu’une maladie. Il est aussi, à sa manière, une prophétie. Pourquoi en sommes-nous arrivés là ? N’est-ce pas parce que nous avons imité la France ? Le totalitarisme cool à la québécoise, la décomposition arrogante, le pourrissement béat de toute une société (et non seulement d’une classe), nous viennent en droite ligne (par la gauche) de nos cousins français. La France et le Québec sont des dissociétés qui se confortent dans l’auto-adulation ("société distincte” ou “spécificité française"), l’antiaméricanisme, l’intolérance branchée, le conformisme culturel, le relativisme moral, le libéralisme extrême, une dépendance psychopathologique aux programmes sociaux, psycho-sociaux, méta-sociaux. La France et le Québec modernes, c’est l’Occident ” délivré ” du christianisme. Une proie facile !

 

Le Québec singe une France en train de crever et j’ose affirmer qu’il a dépassé son modèle. Il est vrai que la crevaison finale, lorsqu’il existe un désir sincère de ne pas être, un goût délicat d’extinction et de mensonge, une identité de plus en plus incertaine, n’est pas une tâche surhumaine. Loin de là ! L’islam dans un contexte pareil est simplement en train de terminer le travail…

 

Plusieurs ont consenti à ce qui apparaît comme une fatalité. Pas Dantec. Il a compris que l’Occident, ses libertés, sa pensée, son art, n’ont nul autre appui que le Dieu chrétien et juif, Créateur et Rédempteur. Il a donc entrepris de mettre fin à la grande crise nihiliste avant que celle-ci ne détruise l’Occident. De quoi l’accuse-t-on au bout du compte ? D’avoir greffé à des propos essentiellement raisonnables un peu de véhémence ? Eh quoi ! Il en faut lorsqu’on essaie de réveiller les morts, c’est-à-dire une gôche qui a tout bradé, l’honneur inclus, ainsi qu’une vieille droite nostalgique, neurasthénique, hystérique et paraplégique, complice de la décadence, à laquelle elle se complaît en un voyeurisme stérile et ambigu !

 

Dantec est un catholique futuriste (je mentionne que l’un des grands convertis du XXe siècle, Giovanni Papini, est issu du futurisme). Appelons catholiques futuristes ceux qui ont réussi la traversée du désert nihiliste pour enfin retrouver la Terre promise, plus splendide qu’aux premiers jours du monde. Et le voilà dans la bataille ! Qu’il est beau, qu’il est émouvant le courage du lion face aux hyènes… On le compare à Louis-Ferdinand Céline. Moi je discerne les ombres de Tertullien et de Léon Bloy, deux théophores, hagiophores, christophores et naophores (j’emploie ici le vocabulaire fastueux de saint Ignace d’Antioche), capables eux aussi d’une salutaire férocité. N’oublions jamais que nous devons affronter une énergie effrénée et vicieuse avec une vigueur virile et rationnelle (” We must meet a vicious and distempered energy with a manly and rational vigour ”, Edmund Burke).

 

Dantec nous réapprend une vertu trop dédaignée, la vertu de force. Il est bon qu’il soit parti de Nietzsche (et mieux encore qu’il ne s’y soit pas arrêté), car la vertu de force est inconsciemment (et quelquefois consciemment) méprisée par plusieurs chrétiens. Ne savent-ils plus que sans elle il n’existe ni véritable paix ni vraie justice ? La mentalité pacifiste et gauchisante est en définitive l’outil idéal pour l’islamisme et ses sbires. La lutte contre l’Islam jihadiste contribuera-t-elle à une renaissance de la France, à l’image de l’Amérique qui, elle, réussira (peut-être) sa Contre-révolution à cause de l’odieuse agression d’Al Qaeda ? L’Amérique croyait à tort avoir apprivoisé l’esprit révolutionnaire avec le libéralisme lockien et jeffersonnien. Elle ignorait que, insatiable, le principe révolutionnaire ne se contente ni de l’individualisme, ni même du collectivisme : on ne satisfait jamais un monstre dont la nature est de toujours répondre oui au mal. Pour lui, the Hell is the limit. Les meilleurs parmi les conservateurs américains ont alors compris que, s’ils ne réagissaient pas, surgirait le règne des égorgeurs, ceux-ci invités, cajolés, soutenus, par l’anomie libérale et qu’il fallait d’urgence que l’Amérique s’enracine à nouveau dans le christianisme natal qui l’a fondée. Quel spectacle et quel combat chez nos voisins du sud ! Le Joseph de Maistre américain, Orestes Brownson, enseignait déjà, en plein XIXe siècle, que le destin de l’Amérique et celui de l’Occident étaient suspendus au mouvement civilisateur universel : l’Église catholique romaine.

 

Aujourd’hui, plusieurs intellectuels américains ont recueilli la leçon du maître. Pendant ce temps, dans la Francité islamophile, le cercle des saddamistes dépités, (l’expression appartient à l’excellent Guy Millière) s’acharne contre le héros qui refuse la fin de la France, malgré la France elle-même. Osons, à la façon de Montalembert, une prédiction : le fils des croisés ne sera pas vaincu par les fils de Voltaire et par ceux de Mahomet. En tout cas, ce n’est pas la lecture, sur le site de Cancer!, des réactions d’Albert Sebag (Le Point) et de Pierre Marcelle (Libération) qui abattront un Dantec. Quel tartuffe que le premier et quel animal venimeux que le second ! Je ne me permettrai qu’une seule remarque à ces adeptes de la non-résistance à l’islam.

 

L’islamophobie, comme ils disent, est un signe de santé. Un chrétien islamophile se dénomme dhimmi (un dhimmi en devenir, comme les Français actuels, ou en fonction, comme les chrétiens du Proche Orient) ! La crainte de l’Islam est traditionnelle en Occident. Elle est en outre parfaitement justifiée par l’histoire et par la théologie. Ce n’est pas Dantec qui fait de Mahomet une des trois grandes figures de l’Antéchrist, c’est le Cardinal John Henry Newman, un exemple suprême d’urbanité (dixit l’incroyant Matthew Arnold) dans la littérature anglaise et l’un des plus grands théologiens depuis saint Thomas. Selon Newman (dans ses sermons sur l’Antéchrist), les trois grandes figures annonciatrices de l’Antéchrist sont Antiochus Épiphane, Julien l’Apostat et Mahomet. Le premier s’attaque spécifiquement à la religion (juive, évidemment). Le second est devenu empereur, quelques années après l’apparition d’une des plus terribles hérésies chrétiennes : l’arianisme. Il a d’ailleurs été éduqué par des Ariens (qui niaient la consubstantialité du Fils avec le Père et donc la divinité du Christ). L’arianisme fut pendant un certain temps quasi tout-puissant dans la chrétienté. On peut soutenir qu’il annonce l’islam et que celui-ci est bien, dans l’esprit de Newman (comme dans celui de Dantec) la grande division (plus importante que la Réforme). En ce sens, il faudrait parler de l’islam comme d’une première modernité (qui se joint en notre temps à la modernité occidentale proprement dite). L’avancée actuelle de l’islam en Europe n’est-elle pas annonciatrice de l’assaut ultime du nihilisme ? Dantec le croit : il a senti l’odeur de la bête.

 

Marcelle met sur le même plan l’antisémitisme et l’islamophobie. L’erreur est manifeste quoique nullement désintéressée ! L’antisémitisme est une abominable hérésie pour un chrétien ou un fils de chrétien, une espèce de marcionisme inconscient, un rejet de l’Ancien Testament, un crime contre la première Personne de la Sainte Trinité. Mais l’islam est l’hérésie par excellence : négation de la divinité du Christ et mépris de l’ordre naturel, une hérésie qui entraîne “la dégradation de la femme, l’esclavage de l’homme et la stérilité de la terre” (Donoso Cortès). Heureusement, il y a quelqu’un quelque part qui veille et qui résiste.

 

Jean RENAUD,

30 janvier 2004

 

Jean Renaud est le Directeur de la rédaction d’Egards, revue de résistance conservatrice - http://www.egards.qc.ca

 

Le droit de réponse de Maurice G. Dantec, REFUSÉ par Libération

 

MD-LRDM-B.gifIl existe un Paradis pour les journalistes. Comme il existe un enfer pour les écrivains.

 

Le paradis des journalistes s’appelle : LA PEUR. Et il conduit très directement à l’enfer des écrivains.

 

La Peur est le véritable maître de l’Homme de presse, c’est par elle qu’il règne, depuis bientôt 200 ans, sur la libre pensée, qu’il écrase de ses bottes à chaque occasion qui se présente. Celle-ci devient de plus en plus en rare. LA PEUR ! Son régime de domination si particulier s’est en effet instauré dans tous les esprits. Tout le monde est le flic de chacun, et de tous, et à commencer par soi-même.

 

Ernest Hello avait su, il y a plus d’un siècle, en quelques lignes fulgurantes, délimiter fermement la ligne de partage entre la peur et la crainte. La crainte c’est ce qui vous force à vous agenouiller devant la plus haute des souverainetés, et en fait elle conduit à la JOIE. La peur, créature du Diable, ne forme au final que des valets, dont l’angoisse est proportionnelle à l’ennui. Aussi, dès que par l’effet d’une sorte de hasard parfaitement impromptu, une voix ressurgit du silence, c’est-à-dire du bavardage continu qu’ils avaient cru une fois pour toute installé sous leur arbitrage, alors leur sang de navet ne fait qu’un demi-tour et leur bouche écume la rage tout juste bouillonnante des petits frustrés.

 

Pierre Marcelle est le chef de ces Archanges dont les merdicules d’encre et de papier mâché auréolent la présence plus sûrement encore que le halo des saints. Il est le Grand Vigile. Le Grand Collaborateur. Il est celui qui veut que les paroles qui sont des actes (je paraphrase à nouveau le grand Hello) cessent, immédiatement, car pour lui, la parole, il suffit de lire sa consternante prose dont on ne voudrait pas comme serpillière à urinoirs pour s’en apercevoir, la parole, pour Marcelle, c’est ce qui se répète, jusqu’à la nausée, dans les colonnes de son torchon.

 

La Peur a un seul ami. Son nom est Mensonge. Par exemple, lorsque ce triste Jdanov du Ve arrondissement se permet de dire que je me suis lié politiquement à un groupe néo-nazi, l’enflure Marcelle ne peut invoquer l’erreur : il commet sciemment un double-mensonge, comme d’autres pratiquent le double fist-fucking. Marcelle avait envoyé quelques sbires faire le sale boulot à sa place il y a une quinzaine de jours. Après tout, pourquoi paye-t-on au lance-pierre, avec des salaires de peóns brésiliens, les pigistes de Libé ?

 

Mais sa petite conjuration n’a trouvé qu’assez peu d’imbéciles pour lui emboîter le pas, mis à part ce qui fut un jour “Le Monde”. Aussi, enragé d’être forcé de constater que toute la France médiatico-culturelle ne le suivait pas comme un seul homme, prêt à brandir la tête de l’infâme au bout de sa pique, Marcelle, son courage ne parvenant pas tout à fait à se liquéfier sous lui, l’a pris à deux mains et l’a répandu dans un article dont la confection et le message rappellent fâcheusement, même certains de ses “amis” s’en sont rendus compte, les méthodes du Die Stürmer ou de la Pravda de la grande époque. Rien, absolument rien ne peut arrêter un Pierre Marcelle. Rien ne peut arrêter le nihilisme de ces petits-bourgeois de gauche, rien ne l’arrêtera, sinon sa propre agonie, qui est d’ailleurs si proche que c’est à se demander si tous ces piaillements ne signifient pas en fait que son heure, enfin, a sonné.

 

Ce qui, bien sûr, augmente d’autant la détresse du Marcelle. Le Marcelle vit dans un Monde qui doit absolument se perpétuer, c’est à dire sous la forme désormais indépassable de la contestation-marchandise.

 

Dans le Monde des Marcelle vous avez le droit d’être tout :

Vous avez le droit d’être homosexuel.

Vous avez le droit d’être athée.

Vous avez le droit d’être communiste.

Vous avez le droit d’être socialiste.

Vous avez le droit d’être écologiste.

Vous avez le droit d’être anarchiste.

Vous avez le droit d’être pro-islamiste.

Vous avez le droit d’être anti-sioniste.

Vous avez le droit d’être libéral.

Vous avez le droit d’être anti-libéral.

Vous avez le droit - et même le devoir - d’être anti-impérialiste.

Vous avez le droit (comprenons-le en fait sous le sens de “devoir") d’être anti-occidental.

vous avez le droit (devoir) d’être anti-capitaliste.

Vous avez le droit-devoir d’être contre toute “survivance de l’ordre ancien” honni.

 

Mais vous n’avez pas, bien sûr, le droit d’être “nazi”, car ce mot-valise fort pratique permet désormais d’enfermer à double tour toute pensée critique dans les oubliettes du déshonneur, mais surtout :

Vous n’avez pas le droit d’être Chrétien, et encore moins Catholique.

Vous n’avez pas le droit d’être Sioniste.

Vous n’avez pas le droit d’être opposé - théologiquement et politiquement, ce qui ne fait qu’un dans cette religion - à l’Islam (sous peine d’être taxé d’islamophobie, cette maladie mentale qui fait, comme en son temps l’anticommunisme, des dégâts sans cesse croissants dans la conscience des européens).

Vous n’avez pas le droit d’engager un dialogue poli, quoique très critique, avec des gens qui ont été enfermés dans le mot-valise des Marcelle.

Enfin, vous n’avez pas le droit de vous émouvoir, avec quelque indignation, de l’existence de centres de viol répandus par centaines dans les “cités” de notre bienheureuse “République”.

 

Les Marcelle ne veulent pas que cela s’ébruite. Car leur Paradis pourrait alors s’écrouler.

 

C’est alors que leur seule amie, la PEUR, entre en jeu. Leur Monde ne pourrait tenir sans elle, car elle est ce qui, pour le moment encore, interdit aux bouches de s’ouvrir. Mais la peur est une physique instable, elle est une créature du diable, les Marcelle s’en croient les commanditaires, ils n’en sont que les manœuvres. Et c’est pour cela que la PEUR, maintenant, leur revient à la face. Quelque chose s’est produit. Quelque chose a désorbité la peur de sa propre balistique quotidienne. Quelque chose a retourné la PEUR contre elle même. Et cette chose, ô Miracle, c’est LA PEUR ELLE-MÊME.

 

Le paradis des Marcelle n’est qu’un simulacre, un PROGRAMME. Il est à peu près aussi réel que la dernière version de SuperMario. Le Monde réel, lui, vit sous sa domination car il croit que c’est ce simulacre, le réel, et lui-même, ne lui a t-on pas assez rabâché, qui est un pur phantasme. Par exemple le type qui se fait cramer trois fois sa bagnole dans l’année vit un PHANTASME. Comme les adolescentes violées en tournantes. Comme les gens qu’on fracasse à coups de pierres parce qu’il n’auront pas donné une cigarette, comme les filles qu’on incendie avant de les jeter dans une benne à ordure.

 

Le Paradis des Marcelle n’est valable que pour les Marcelle, et leurs sous-fifres. Il n’est donc réel que pour eux. Les autres, ces pauvres phantasmes dont l’idiotie est sans cesse moquée et dénoncée par les Maîtres du Simulacron, n’ont souvent - pour survivre dans le grand camp de concentration franco-mondial - comme nourriture de subsistance que des livres. C’est pour cela que l’œil du Grand Vigile est constamment braqué sur ceux qui parviennent encore à en écrire. Car nous parlons de livres, bien sûr, pas de ces objets de consommation jetables, comme les tampons hygiéniques, que précisément la Peur a domestiqué, et propose sans cesse aux citoyens de la “République”.

 

Dans son appendicule où chaque ligne exsude de haine et d’ignorance crasse, le Roi des Marcelle ne me promet rien moins que l’Enfer! Il se fait en cela, benoîtement, l’écho des quelques rumeurs qui ont couru sur internet au sujet de ma possible ”éviction” de chez Gallimard, et qui ont, de fait, créé l’effet papillon que personne n’attendait ! Pauvre Marcelle ! Incapable d’écrire dans une langue française un tant soit peu correcte, il croit pouvoir jouer les florentins de la rue Sébastien-Bottin ! Pauvre Marcelle qui n’a pas compris que LA PEUR que lui et tous ses sbires sans cesse distillent, a mobilisé, par milliers, à ce que je sais, des lecteurs de “Dantec-le-catho-facho” qui ont CRU, en effet - et n’avaient-ils pas toutes les raisons de le faire ? - que LA PEUR, encore une fois, aurait le dessus. Car cette PEUR, c’est celle dont Pierre Marcelle fait entendre régulièrement les jappement lugubres.

 

Ils ont en effet PEUR de toute la clique qui est aux commandes de la culture, tels des Duvalier du carré germanopratin. Ils connaissent son pouvoir de nuisance. Ils vivent eux-mêmes dans la PEUR. Cette PEUR, par je ne sais quelle divine intorsion des éléments, les a alors délivrés d’elle-même. Ils ont dit : NON. Ils ont dit NON, monsieur Marcelle, nous ne voulons pas que “Dantec” rejoigne “l’enfer” dans lequel vous avez jeté déjà tant d’autres écrivains, qui ne pensent pas comme vous.

 

Ils ont dit NON à votre Paradis monsieur Marcelle : vous êtes en effet très puissant. Vous être le valet de la Peur. Regardez maintenant son Maître droit dans les yeux.

 

MgDANTEC,

 

NE PAS SUBIR

Général de Lattre

 

Pour en savoir plus: http://www.egards.qc.ca

lundi, 12 avril 2010

Intervista ad Adriano Scianca


Adriano Scianca è nato a Orvieto nel 1980. Laureato a Roma in filosofia, è giornalista e scrittore. Ha collaborato a numerose riviste culturali, tra cui «Orion», «Letteratura-Tradizione» ed «Eurasia». Per la cultura di CasaPound, gestisce l’
«Ideodromo» e ha redatto Il Manifesto dell’EstremoCentroAlto.



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Una precoce lettura dei classici evoliani, dei quali mi appassionarono l’ampio respiro e la profondità storica in cui inquadrare i rudimenti della mia visione del mondo; l’incontro con la cosiddetta «Nuova destra», che ha sciolto certe cristallizzazioni e mi ha insegnato l’importanza di un confronto serrato con il pensiero dominante al quale opporre sempre tesi altrettanto persuasive; la collaborazione con una testata «storica» del mondo nazionalrivoluzionario come «Orion» grazie alla sostanziale mediazione di Gabriele Adinolfi, che mi ha insegnato a ridare spina dorsale a quelle intuizioni neodestre troppo spesso tendenti al debolismo; il passaggio dalla teoria alla prassi con l’ingresso nella palestra dell’anima di CasaPound, nella quale tutto ha finalmente acquisito un senso.


Georg W. F. Hegel è stato un filosofo fondamentale per la storia della filosofia occidentale. Quali sono state le sue migliori intuizioni e i suoi abbagli?

Hegel ha il merito di aver concepito il reale come divenire e il difetto di averne imprigionato l’essenza nella gabbia della dialettica. I suoi testi sono pieni di intuizioni geniali intrappolate nella ragnatela del «sistema» onnicomprensivo e definitivo. Molto interessanti, ovviamente, le sue riflessioni sullo Stato come eticità.


Quanto ha influito il pensiero di Nietzsche sulla società del suo tempo? Quanto è ancora attuale il filosofo tedesco?

Nella società del suo tempo passò pressoché inosservato, stampando i suoi libri da solo e impazzendo poco prima che il suo pensiero si diffondesse come una salutare epidemia. Nella storia del pensiero occidentale, in compenso, Nietzsche segna uno spartiacque fondamentale. Esiste un «prima di Nietzsche» e un «dopo Nietzsche», c’è poco da fare. Con Giorgio Locchi amo ricordarne la fondamentale intuizione della «apertura della storia» contro ogni finalismo; con Luciano Arcella mi piace sottolinearne la fondamentale «mediterraneità» contro la pesantezza «tedesca, troppo tedesca»; con Gilles Deleuze me ne servo per stanare lo spirito reattivo in ogni sua metamorfosi.


Che cosa può ancora insegnarci oggi l’opera di Robert Brasillach?

Non ebbe il talento letterario corrosivo di un Céline né la lucida visione tragica di un Drieu. Eppure seppe dipingere il «sentimento del fascismo» come nessun altro mai. Raccontò un fascismo che era soprattutto cameratismo e allegria e continuò a guardare i campi della gioventù, i fuochi nella notte, i canti dei Balilla con lo stupore estasiato di un bambino. Ecco, Brasillach ci insegna a non perdere mai quello sguardo, ad avere diciassette anni per tutta la vita, ad essere curiosi della propria epoca.


Hai più volte citato nei tuoi scritti Gilles Deleuze. Che valore dài al suo pensiero?

Me ne innamorai leggendo all’università Nietzsche e la filosofia, libro illuminante e straordinariamente scorrevole per l’autore. La sua lettura della Genealogia nietzscheana mi rivelò un mondo. Altre sue cose sono più pesanti, soprattutto quando in esse si fa sentire l’influenza di Felix Guattari. Fu un filosofo di sinistra? Primo: chi se ne frega. Secondo: chi sono io per contraddire Alain Badiou, che ha scritto: «[All’epoca] avevo la tendenza a identificare come “fascista” la sua apologia del movimento spontaneo, la teoria degli “spazi di libertà”, il suo odio della dialettica, per dirla tutta: la sua filosofia della vita e dell’Uno-Tutto naturale».


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

È veramente paradossale che gran parte del neofascismo abbia snobbato questo pensatore. Persino un gigante come Adriano Romualdi ne parlò come di un liberale che si era dato una verniciata di fascismo. Eppure – tanto per limitarci all’essenziale – basterebbe rileggere La dottrina del fascismo, scritta insieme a Mussolini, per capire l’importanza del pensatore. Quanto all’aspetto più propriamente filosofico invito tutti a leggersi il fondamentale volume di Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato, nel quale emerge con chiarezza la parentela spirituale fra Gentile e Nietzsche.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

Prendi un gruppo di giovani svegli, colti, laboriosi, gente che costituirebbe la classe dirigente di ogni Stato e a cui sarebbe possibile vivere di rendita. Metti che invece questi ragazzi abbiano l’unico pensiero fisso di donare totalmente se stessi a un’idea e che si applichino in questo senso con un ardore e una purezza incontrovertibili, fin nelle minuzie dell’esistenza quotidiana. Metti che queste persone fondino una scuola attorno a cui orbitino migliaia di altri giovani. Una scuola perfettamente inserita nell’ufficialità di un regime che faccia di essa il bastione e il motore di una rivoluzione. Metti che scoppi una guerra e che tutti, dico tutti, gli appartenenti alla scuola partano volontari, chiedendo, implorando la prima linea. E metti infine che questi ragazzi muoiano uno a uno, nel sacrificio esemplare e religioso di se stessi sull’altare dell’idea. Ecco, questo fu la Scuola di Mistica fascista. Un episodio che fa tremare i polsi, che ci mette di fronte a noi stessi in modo definitivo. Qualcosa che azzera le discussioni. Trovatemi un Giani o un Pallotta democratici, comunisti, liberali o anarchici. Non ne esistono e questo è quanto.


Fascismo-movimento e Fascismo-regime. La dizione defeliciana ha creato non pochi fraintendimenti, in quanto alcuni hanno enfatizzato le differenze di questi due elementi, mentre altri hanno preferito uno a discapito dell’altro. Tu come la vedi?

Una distinzione che non ho mai capito: in quale regime o tipo di governo non c’è una qualche distinzione tra le proposte di poeti, filosofi, intellettuali da una parte e l’azione di amministratori, governanti, politici dall’altra? Perché allora si enfatizza questa dialettica solo nel fascismo? Forse per salvare intellettuali di prim’ordine dalla condanna generalizzata e separare così astrattamente i «buoni» dai «cattivi»? Ogni momento storico conosce lo scarto fra teoria e prassi. Il fascismo, semmai, è fra i regimi in cui meno si può proporre un simile discorso: Pavolini fu fascista di movimento o di regime? E Gentile? Giani? Ricci? Evola? Gli psicodrammi sui fatti cattivi che tradiscono sempre le intenzioni buone lasciamole a comunisti e cristiani, a noi piace il movimento che si fa regime, l’intellettuale che coincide con il militante.


Destra e sinistra nel Fascismo. Quale è stato il rapporto tra queste due «anime» durante il Ventennio? Quale il loro lascito?

Il fascismo è sintesi o non è. La sua forza fu l’unione di tutte le verghe, sottrarne una a posteriori è sbagliato, in qualsiasi senso ciò accada. Si può, ovviamente, avere una sensibilità più affine all’una o all’altra corrente, basta non prepararsi alibi con discutibili viaggi mentali. Chiamo «viaggio mentale» ogni tesi che perda di vista la complessità del reale per venire incontro a mancanze tutte nostre e consentirci di fare le cose più semplici di quanto non lo siano. Il fascismo non fu una semplice variante del socialismo o una parodia di militarismo prussiano. Forse è ora di recuperare un sano «fascismo di centro»...


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

Quando, negli anni ’30, tutti si pavoneggiavano con i distintivi del Pnf lui urlò al mondo la sua adesione a idee che trascendevano il fascismo; quando tutti, dopo l’8 settembre, se la squagliavano lui era al suo posto di milizia. Mi sembra che questo basti a definire la statura del personaggio. Molto amato quanto odiato, andrebbe semmai contestualizzato. Diciamo che fu meno importante di quanto credano i suoi adoratori e più di quanto credano i suoi detrattori. Ha scritto diverse cose discutibili e fornito indicazioni esistenziali preziose. Alle prime si sono attaccati tutti gli sfigati del mondo, convinti che la ciclicità del tempo e il kali yuga fornissero un alibi alla loro inettitudine. Sono quelli, per capirci, che continuano a scrivere «epperoché», «femina» e «Aristotile» in ossequio al maestro. E tuttavia non sarà un caso che quanto di meglio è uscito dal nostro mondo rechi una forte impronta evoliana. Pensiamo solo a personalità come Clemente Graziani, Maurizio Murelli, Cesare Ferri, Carlo Terracciano, Claudio Mutti, Walter Spedicato, Adriano Romualdi, Peppe Dimitri, Gabriele Adinolfi. Forse i tempi oggi sono maturi per riscoprire un Evola oltre le incrostazioni, comprese quelle che lui stesso contribuì a creare. Un Evola scintillante e rinnovato. Un Evola mito mobilitante, come nel bellissimo manifesto rosso della conferenza che si svolse a CasaPound nel 2004.


È corretto parlare di egemonia della sinistra nel mondo della cultura e dell’informazione?

Per esserci vera egemonia ci dev’essere un progetto, una qualche idea di società da proporre, una politica. Oggi, palesemente, tutto questo manca. L’egemonia di sinistra è stata una realtà concretizzatasi in una mafia culturale odiosissima. Ora questa egemonia arranca e lascia solo rendite di posizione. Dall’altra parte la destra non sa opporre se non lamenti e alibi per le proprie sconfitte o cialtroni prezzolati che svillaneggiano nei posti che contano finché dura il boss, senza però costruire alcunché. Da una parte c’è un’egemonia in crisi, dall’altra l’incapacità di crearne una nuova. In questo teatrino della sconfitta, l’unica proposta d’avanguardia può essere solo quella volta a creare nuova egemonia. Sull’«Ideodromo» mi è capitato di scrivere: «Guardandoci attorno ora che molti bastioni di quel fortino culturale sono caduti, dobbiamo lanciare un messaggio che sia chiaro e netto: noi l’egemonia non la chiediamo, ce la prendiamo. Se le regole del gioco sono già scritte e ci vedono relegati fuori dallo stadio, noi facciamo invasione. Non cerchiamo scuse o riconoscimenti, ci rimbocchiamo le maniche e ci riprendiamo tutto. Dire che sia facile sarebbe da pazzi. Dire che è impossibile sarebbe da vili».


È possibile proporre un altro modo di fare cultura, che sia incisivo e accattivante, in grado di superare i dettami del «politicamente corretto»?

Il politicamente corretto già non è più cultura, è un rantolo d’agonia. Per il resto, praticamente tutta la cultura che conta del ’900 è affar nostro. Basta con i complessi di inferiorità. Solo noi abbiamo gli strumenti concettuali per interpretare la modernità: usiamoli! Solo dopo aver acquisito tale consapevolezza potremo impostare una seria politica culturale. Che, ovviamente, deve essere tutta puntata a creare senso: dare senso al mondo, dare senso all’epoca presente, dare senso alla comunità nazionale. Se si fa cultura in questo modo non occorre preoccuparsi di avere un approccio «incisivo e accattivante», le cose vengono da sé.


Che cosa rappresenta CasaPound nella cornice politica attuale? Quali le prospettive future?

Rappresenta una speranza, una volontà e una via. Pregi, difetti, prospettive e pericoli non dovrei essere io a indicarli: facendone parte la cosa assumerebbe toni autoelogiativi, questi sì un vero pericolo da evitare. Credo tuttavia di essere oggettivo se affermo che Cpi è la vera novità degli ultimi anni. Le prospettive mi sembrano luminose, a patto di saper capitalizzare la crescita esponenziale del movimento ed evitare l’effetto «recupero» da parte di un sistema che ha sempre bisogno di «cattivi» folcloristici da esibire.


Quali pensi che siano le maggiori qualità di Gianluca Iannone?

Ci sarebbe molto da dire, al riguardo, e invece dirò molto poco, poiché ho l’onore di confrontarmi quotidianamente con Gianluca e so quanto poco ami la personalizzazione delle battaglie di CasaPound. Generosità, lungimiranza, coerenza e genialità dell’uomo sono sotto gli occhi di tutti, anche dei nemici. Interni ed esterni.


Come e perché nasce il manifesto dell’EstremoCentroAlto? Quale idea di società e di politica vuole proporre?

Il manifesto dell’EstremoCentroAlto nasce in onore alla sentenza di Delfi: «divieni ciò che sei». Anche noi siamo divenuti ciò che già eravamo, ovvero spiriti liberi non incasellabili in categorie. La vera sfida ora è esplicitare i contenuti già presenti nel manifesto. Personalmente vedo l’EstremoCentroAlto come una visione originaria, cristallina sulla realtà del terzo millennio, oltre tutti i residui «ideologici» e i viaggi mentali del neofascismo. I tre termini che formano la nuova definizione segnano già una discontinuità in direzione di una politica non falsamente moderata, non ondivaga, non prostituita. Quale idea della società propone? Libertaria ma responsabile, scanzonata ma severa, popolare ma gerarchica. Questo mi sembra appaia chiaramente da parole come queste: «Un’idea ed una comunità sempre in bilico tra imperium e anarchia, un sentimento del mondo che non concepisce alcun ordine sociale al di fuori di un ordine lirico. Una visione che rifiuta il grigiore burocratico della città-caserma tanto quanto l’attrazione morbosa per l’informe, per il deforme, per i maleducati dello spirito. Un’idea politica che disprezza le cosche, le oligarchie, le caste, le sette e le lobby e che immagina, per ogni Stato degno di questo nome, la partecipazione per base, la decisione per altezza e la selezione per profondità». Insomma: uno Stato sovrano che non diventi però un cerbero o un aguzzino, una società in cui sia garantita la circolazione delle élites e il popolo si senta di nuovo padrone del proprio destino.

Derechos humanos, propaganda moralista

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2001

Derechos Humanos, propaganda moralista

brainy.jpgAparato central de la ideología moderna del progreso y del igualitarismo individualista, y medio por el cual se instaura una policía del pensamiento así como la destrucción de los derechos de los pueblos.

Síntesis de la filosofía política (a menudo mal entendida) del siglo XVIII, la propaganda moralista es el horizonte inevitable de la ideología dominante. Con el antirracismo, funciona como uno de los dispositivos centrales del acondicionamiento mental colectivo, del pensamiento facil y de la parálisis de toda rebelión. Profundamente hipócrita, la ideología de los derechos humanos se adapta a todas las miserias sociales y justifica todas las opresiones. Funciona como una verdadera religión laica. "el hombre" es aqui un ser abstracto, un consumidor- cliente, un átomo despojado de sus lazos comunitarios y de sus propiedades diferenciales. Es sorprendente constatar que la ideología de los derechos humanos fue formulada por la Convención de la Revolución francesa en imitación de los puritanos americanos.

La ideología de los derechos humanos consiguió legitimarse basándose en dos imposturas históricas: la de la caridad y la filantropía, así como la de la libertad.

"El hombre" (concepto ya bastante vago) no posee derechos universales y fijos, sino solamente los que se derivan de cada civilización, de cada tradición. A los derechos humanos, es necesario oponer dos conceptos centrales:   el de los derechos del pueblo (o "derecho de gentes") a la identidad, y el de justicia, este último concepto siendo variable según las culturas y suponiendo que todos los individuos son también respetables. Pero estos dos conceptos no podrían basar en la preconcepción de un hombre universal abstracto, sino más bien en el de hombres concretos, situados en culturas particulares.

Criticar la religión laica de los derechos humanos no es obviamente hacer la apología de la barbarie, puesto que la ideología de los derechos humanos garantizó en varias ocasiones la crueldad y la opresión (la masacre de los Vendeanos o de los Indios de América). La ideología de los derechos humanos fue muy a menudo el pretexto de persecuciones. En nombre del "bien".

No representa de ninguna manera la protección del individuo, no más que el comunismo. Al contrario, se impone como un nuevo sistema opresivo, fundado sobre libertades formales. En su nombre, se va a legitimar, el menosprecio de toda democracia, la colonización poblacional de Europa (cualquiera tiene el "derecho" a instalarse en Europa), la tolerancia hacia las delincuencias liberticidas, las guerras de agresión (Serbia, Irak, etc) que se reclaman en el "derecho de injerencia", la inexpulsabilidad de los trabajadores colonizadores; pero esta ideología no se pronuncia sobre la contaminación masiva del medio ambiente o sobre el caos social causado por la economía globalizada.

Y sobre todo, la ideología de los derechos humanos es un medio hoy estratégico para desarmar al pueblo europeo culpabilizándolo en todos los ámbitos. Es la legitimación del desarme y la parálisis. Los derechos humanos son una especie de  inversión perversa de la caridad cristiana y el dogma igualitario según el cual todos los hombres se salvarian.

La ideología de los derechos humanos es el arma central actual de destrucción de la identidad de los pueblos y de la colonización alogena de Europa.

[Texto extraído del libro de Guillaume Faye: Pourquoi nous combattons, l'Aencre 2001.]