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mercredi, 24 octobre 2012

CIAO, ALBERTO

CIAO, ALBERTO

Oggi, una mattina come tante, iniziata non bene e non male, nella normalità, mentre stavo iniziando a dedicarmi alle mie occupazioni quotidiane, squilla il telefono, è un mio / nostro sodale che mi da la triste notizia che Alberto B. Mariantoni è andato oltre.

Mi scorrono nella mente ricordi, immagini, idee, le interminabili discussioni fatte in altrettante interminabili nottate, la voglia di combattere contro questo mondo ingiusto ed inumano. Vado a prendere una sua lettera autografa – e già anche nei tempi di internet c’è ancora chi scrive a mano – scritta in bella calligrafia – perché per Alberto, come per la Tradizione estremo orientale, scrivere bene significava pensare bene, scritta con la penna stilografica, come si faceva una volta, anche se si lamentava che l’inchiostro non era più buono come quello di un tempo, la giro e rigiro tra le mani: non riesco a concentrarmi.

Mi sostiene solamente la consapevolezza che continueremo a stare insieme, anche se non materialmente, perché, ad un certo grado di affinità, gli spiriti si pensano.

Economista, saggista, storico, solo pochissime altre personalità possono vantare di essere state autenticamente ribelli ed eretiche. La sua attenzione si è da sempre focalizzata sulla indispensabilità di uscire dall’apparente insolubile dualismo capitalismo-marxismo. Lo studio dei meccanismi dell’economia e, di conseguenza monetari, attraverso l’analisi delle ricorrenti ed inspiegabili crisi inflazionistiche ed economiche formano, negli ultimi tempi, il nucleo centrale del suo interesse extra-storico e politico.

I suoi articoli e saggi di economia, purtroppo, conoscono una lunga notte. Le sue tesi sconvolgono le classiche coordinate di analisi economico-politica. Come pensare che economia libera ed economia statizzata in realtà abbiamo le medesime matrici e producano i medesimi risultati? Come pensare che esse congiuntamente decidano dei destini delle monete ? Come pensare che esse siano organizzativamente e finalisticamente simili ?

Alberto ancora una volta colpirà nel segno.

Testimone e protagonista del suo tempo non indietreggiò, mai, davanti al suo destino, anche quando questo gli fu avverso. Forse proprio per questa sua coerenza, tutto un “ certo “ ambiente lo ha isolato, contribuendo, tuttavia, a farne un uomo troppo alto per essere intaccato da critiche meschine.

Tante volte varcò la porta della stima personale e del successo, a differenza di altri che a quella porta bussarono, con il cappello in mano, senza mai varcarla.

E questo è, forse, il peccato che questo nostro tempo di nani non gli perdona.

“ A mio giudizio, abbiamo quella illudente e fuorviante percezione della nostra esistenza, in quanto continuiamo testardamente ed incosapevolmente a volere assolutamente “ leggere” o interpretare la realtà che ci contorna, attraverso le lenti deformanti e snaturanti della “visione ideologica” della vita e della storia”, così ci diceva e scriveva.

Ciao Alberto.

Claudio Marconi   FotoAlberto

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/  

 

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

La redazione di “Eurasia” dà l’estremo saluto ad Alberto Bernardino Mariantoni, politologo, saggista storico, esperto di questioni del Vicino Oriente e studioso delle religioni.

Lo ricordiamo come collaboratore della rivista, in particolare col suo storico saggio Dal “Mare Nostrum” al “Gallinarium Americanum”. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente (“Eurasia” 3/2005), il quale ha avuto l’inestimabile merito di sollevare definitivamente la questione dell’occupazione della nostra terra da parte di eserciti stranieri. Dopo tale illuminante articolo, anche i media collaborazionisti cosiddetti “autorevoli” dovettero “correre ai ripari” per tamponare la falla, ovvero la “fuga di notizie”, che rischiava di trasformarsi in un’alluvione; così avvenne che in una trasmissione di una rete televisiva nazionale, citando il saggio di Mariantoni, venne imbastita una ridicola messinscena tra “esperti” i quali, arrampicandosi sugli specchi, cercavano di minimizzare l’inaudita gravità di un apparato tentacolare che, per la sua sola presenza, rende nulla ogni pretesa di indipendenza e sovranità delle nazioni sottoposte a pluridecennale imposizione.

Lo ricordiamo anche come uomo, generoso, tollerante, sempre disponibile e mai “in cattedra”, sebbene, grazie alla sua esperienza diretta delle cose di cui trattava, si sarebbe potuto atteggiare a “professore” più di tanti altri che, per molto meno, fanno sfoggio di conoscenze puramente libresche, imparate dai “bignamini”.

Mariantoni era un “interventista della cultura”, nel più aureo filone dei grandi Italiani che, del loro sapere, non han fatto una base per guadagnare onori e prebende vivendo sempre da “struzzi”, ma lo hanno costantemente messo a disposizione di una “battaglia” sentita come improrogabile: quella per la libertà, l’indipendenza, l’autodeterminazione e la sovranità politica, economica, culturale e militare di tutti i popoli del mondo.

Per chi intendesse saperne di più su questa grande figura di italiano, mediterraneo ed europeo, consigliamo la lettura dei testi contenuti nel suo sito personale: http://www.abmariantoni.altervista.org/

Addio Alberto, che la morte ti sia lieve. Come tu stesso dicevi sempre, è solo la vita che va verso la vita. 

Enrico Galoppini, a nome della Redazione di “Eurasia”

Who was Alberto B. Mariantoni?

Alberto Bernardino Mariantoni è nato a Rieti ( I ), il 7 Febbraio del 1947.

E’ laureato in Scienze Politiche e specializzato in Economia Politica, Islamologia e Religioni del Vicino Oriente. E’ Master in Vicino e Medio Oriente.

Politologo, scrittore e giornalista, è stato per più di vent’anni Corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra e per circa quindici anni sul tamburino di «Panorama». Ha collaborato con le più prestigiose testate nazionali ed internazionali, come «Le Journal de Genève», «Radio Vaticana», «Avvenire», «Le Point», «Le Figaro», «Cambio 16», «Diario de Lisboa», «Caderno do Terceiro Mundo», «Evénements», «Der Spiegel», «Stern», «Die Zeit», «Berner Zeitung», «Il Giornale del Popolo», «Gazzetta Ticinese», «24Heures», «Le Matin», «Al-Sha’ab», Al-Mukhif Al-Arabi», nonché «Antenne2», «Télévision Suisse Romande», «Televisione Svizzera Italiana», ecc.

E’ esperto di politica estera e di relazioni internazionali, con particolare riferimento ai paesi arabi e musulmani e dell’Africa centrale ed occidentale. Ha al suo attivo decine e decine di inchieste e di reportages in zone di guerra e di conflitti politici. E’ autore di oltre trecento interviste ai protagonisti politici ed istituzionali dei paesi del Terzo Mondo e della vita politica internazionale.

Ha insegnato presso la Scuola di Formazione continua dei giornalisti di Losanna. E’ stato Professore invitato presso numerose Università Europee e Vicino-Orientali.

Ha scritto: «Gli occhi bendati sul Golfo» (Jaca Book, Milano 1991); «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (Pygmalion, Paris, 1992); «Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

Dal 1994 al 2004, è stato Presidente della Camera di Commercio Italo-Palestinese.

Nel 2009-2010 ha collaborato, come docente, con lo I.E.M.A.S.V.O - Istituto 'Enrico Mattei' di Alti Studi sul Vicino e Medio Oriente di Roma.

English:

Alberto Bernardino Mariantoni was born in Rieti (Italy), on February 7th, 1947.

He graduated in Political Sciences and specialized in Political Economy, and Islamic studies and Religions of the Middle-East. He is also a post-graduate Master in the Near and Middle East.

As a political commentator, writer and journalist he was – for more than twenty years – permanent correspondent at the United Nations in Geneva (Switzerland). For approximately fifteen years he was included in the list of front-page editorialists of “Panorama” (a major, nationally distributed Italian news magazine). He has collaborated with top-ranking, prestigious national and international media organs, such as “Le Journal de Genève”, “Radio Vaticana”, “Avvenire”, “Le Point”, “Le Figaro”, “Cambio 16”, “Diario de Lisboa”, “Caderno do Terceiro Mundo”, “Evénements”, “Der Spiegel”, “Stern”, “Die Zeit”, “Berner Zeitung”, “Il Giornale del Popolo”, “Gazzetta Ticinese”, “24Heures”, “Le Matin”, “Al-Sha’ab”, and “Al-Mukhif Al-Arabi”, plus “Antenne2”, “Télévision Suisse Romande”, “Televisione Svizzera Italiana”, etc.

He is an expert on foreign politics and international relations, with particular reference to Arabic and Muslim countries, and the countries of Central and West Africa. He has authored many dozens of inquiries into, and reports from, war zones/regions struck by political conflicts. He has also authored more than 300 interviews with political and institutional personages of Third World countries and the international political scene.

He has taught for the continuing professional development school for journalists in Lausanne (Switzerland). He has been ‘guest professor’ at various European and Near-East Universities.

He has written: «Gli occhi bendati sul Golfo» (blindfolded on the Gulf) (published by Jaca Book, Milan, 1991) and «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (the unsaid on the Israel-Arab conflict) (published by Pygmalion, Paris, 1992);«Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

From 1994 to 2004, he was Chairman of the Italian-Palestinian Chamber of Commerce.

In 2009-2010, he collaborated as professor with I.E.M.A.S.V.O – ‘Enrico Mattei’ Advanced Studies Institute on the Near and Middle East, Rome (Italy).

 

Qatar : un soutien indéfectible aux extrémistes

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Qatar : un soutien indéfectible aux extrémistes

par Ali El Hadj Tahar

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/   


En février 2010, le Qatar signe un pacte de défense avec la Syrie et l’Iran. Mais pendant que Hamad serrait la main de Bachar El-Assad, il conspirait activement contre lui. Quelques mois plus tard, le pacte de défense devient un pacte d’ingérence avec le financement des terroristes islamistes pour renverser le dernier raïs arabe.

L’opposition qui réside à l’étranger, précisément celle du Conseil national syrien (CNS), avait eu comme premier président le nommé Burhan Ghalioun, celui-là même qui a été le conseiller politique d’Abassi Madani, le chef du FIS dissous ! Désigné par l’Occident comme l’unique représentant de l’opposition syrienne, au mépris des autres formations politiques activant en Syrie ou à l’étranger, le CNS refuse tous les appels d’El-Assad au dialogue et veut un renversement du pouvoir, comme le CNT l’a fait en Libye.

Ce n’est ni l’opposant Haytham Manaa, ni le Comité national de coordination pour le changement démocratique (CNCD), ni les partis de l’opposition présents en Syrie (et activant légalement dans le cadre de la Constitution de février 2012) qui sont reconnus par l’Occident, mais ce CNS dominé par les islamistes et demandant l’ingérence militaire dans leur propre pays. Sur conseil de stratèges militaires, le bras armé du CNS, l’Armée syrienne libre (ASL) — qui écrit sur son Facebook «de trancher la gorge aux soldats du régime» ! — cherche à adopter la même stratégie que celle adoptée en Libye : prendre des villes et en faire des forteresses imprenables, des «zones d’exclusion» en termes militaires ou des «Etats islamiques» en jargon wahhabite. Outre le soutien logistique et politique occidental, les rebelles de l’ASL jouissent aussi de la complicité turque, jordanienne et de certaines factions politiques libanaises affichée sans crainte de choquer qu’Israël soit aussi de la partie contre ce pays arabe qui cesserait aussitôt d’être attaqué s’il disait oui à une «paix des braves» avec Tel-Aviv au détriment du peuple palestinien.

Comme le CNT libyen parachuté par l’OTAN, le CNS se compose d’islamistes notoires et d’opposants vivants à l’étranger, sans aucune légitimité ni assise nationale. Outre le massacre de milliers de civils et de militaires et la destruction des infrastructures du pays par l’entremise de terroristes ramassés aux quatre coins du monde, le complot contre la Syrie ne vise pas que ce pays : sa réussite aura des effets désastreux sur le Liban, la Jordanie et sur la question palestinienne tout en rendant l’Iran très fragile et maintiendra les Etats-Unis comme puissance hégémonique mondiale. C’est pour la résurgence d’un monde bipolaire et équilibré où l’OTAN n’imposerait pas sa loi que la Chine et la Russie ont plusieurs fois opposé leur veto à l’intervention en Syrie. En outre, il y a la volonté de briser la création de l’axe énergétique Iran-Irak-Syrie-Liban. La Jordanie et la Turquie se sont exclues de cet axe, préférant jouer les cartes de l’axe pro-américain, tout comme Doha. En tant qu’allié d’Israël, Erdogan a préféré jouer les couleurs de son parti religieux plutôt que les intérêts stratégiques de son pays. Être du côté des «parias» (Syrie, Irak, Iran) lui a semblé désavantageux mais le rapport des forces actuel donne raison aux faibles, pas à Doha, Riyad ou à Istanbul, sans parler de la Jordanie qui a mal misé toutes ses cartes.

La Syrie est visée car il y a aussi la volonté occidentale de mettre le grappin sur les réserves gazières de la Méditerranée. Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think-tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme d’immenses réserves de gaz et les plus importantes seraient en territoire syrien ! «La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient», écrit Imad Fawzi Shueibi.

Les sponsors du djihad

Selon l’International Herald Tribune des 4-5 août, «les 2,3 millions de chrétiens, qui constituent environ 10% de la population du pays, connaissaient sous la dynastie Assad une situation encore plus privilégiée que la secte chiite alaouite à laquelle appartient le président». Le journal ajoute que l’Armée syrienne libre aurait chassé 80 000 chrétiens de leurs foyers dans la province de Homs. Pour leur plan, les Occidentaux et leurs supplétifs ont fait venir près de 40 000 mercenaires islamistes de Libye, Jordanie, Égypte, Tunisie, Afghanistan, Pakistan, Irak, Tchétchénie… Même un Palestinien a été arrêté lorsqu’il était sur le point de se faire exploser dans le pays qui a perdu son Golan à cause de la Palestine !

Beaucoup d’autres sont venus du monde dit libre, de France, d’Australie, d’Espagne, de Grande- Bretagne, Hollande, Canada… Selon le Daily Mail du 3 septembre 2012, le MI6 a répertorié près de cent terroristes résidant en Angleterre et qui combattent en Syrie. Ils les appellent «combattants de la liberté» quand ils tuent en Orient, et terroristes s’ils tuent en Occident. Quand ils rentreront en Angleterre, ils ne seront pas inquiétés. Le crime légalisé ! L’un de ces terroristes a même avoué qu’il exerçait comme docteur dans un hôpital anglais ! Un congé sabbatique pour un djihadiste anglais.

L’afghanisation de la Syrie a commencé mais cela ne se fait pas sans la pakistanisation de la Jordanie, du Liban et de la Turquie. Toutes sortes d’armes se déversent en Syrie actuellement. Si les autorités libanaises ont découvert un bateau d’armements et interpellé son équipage, huit ou neuf autres seraient déjà passés. Dernièrement, l’ASL a menacé d’abattre des avions civils syriens, ce qui a fait dire au vice-ministre des Affaires étrangères Guennadi Gatilov : «Les menaces de l’opposition syrienne d’abattre des avions civils est le résultat de livraison irresponsable des Manpads (les systèmes portatifs de défense aérienne).»

Certains médias ont révélé, début août, que l’ASL a obtenu environ 20 Manpads de la Turquie. Selon les experts russes, l’Arabie Saoudite et le Qatar sont derrière ces livraisons. D’ailleurs, fin août dernier, CNN et NBC ont annoncé qu’Obama avait autorisé la livraison d’armements lourds aux rebelles anti-Bachar. Puis comme pour les Stinger livrés aux talibans, on voudra «récupérer» ces Manpads et autres SAM 7 puis on fera semblant d’avoir échoué de les récupérer. Prolifération d’armes = prolifération de terroristes : stratégie idéale pour promouvoir Al-Qaïda. La douane turque, celle d’un pays membre de l’OTAN, a récemment donné l’autorisation de débarquer des dizaines de tonnes d’armes destinées aux terroristes syriens, selon le Times !

Au Moyen-Orient et au Maghreb, le Qatar est depuis longtemps connu comme le principal sponsor de l’islamisme. Et Hamad s’est fait beaucoup d’amis parmi les opposants arabes, même s’ils ne sont pas islamistes comme ce fut le cas au Yémen où il a financé à la fois le parti islamiste Islah (opposé à l’ancien président Ali Abdullah Saleh) et les rebelles Houthis du nord. Cela n’a pas plu à l’Arabie Saoudite, qui veut éradiquer ces opposants chiites qu’elle accuse de vouloir instaurer un khalifat chiite.

En Égypte, Doha a financé les Frères musulmans alors que Riyad a subventionné les salafistes. Si Riyad avait soutenu les Frères musulmans, Doha aurait soutenu les salafistes ! Avoir des vassaux, c’est ce qui compte pour Doha ! Au Caire, la place Tahrir était occupée par une minorité cairote mais Al Jazeera focalisait dessus quotidiennement, gonflant les rumeurs et amplifiant les dérapages pour susciter un surplus d’adrénaline au sein des foules arabes assoiffées de miracles. Alors le prédicateur islamiste, l’Égyptien Youssef Al-Qardaoui, exilé à Doha depuis cinq décennies, animateur de l’émission «La Charia et la Vie» a encore clamé le djihad et ordonné au «Pharaon» de démissionner… En langue qatarie, la contre-révolution se dit révolution ! Un «pharaon» est un impie à massacrer.

10 000 missiles perdus sans blanc-seing étatsunien ?

Les Occidentaux qui tirent les ficelles ont trouvé un argument costaud pour leurrer ou faire taire les masses arabes : l’islamisme politique, disent-ils, s’est assagi et il peut accepter les règles démocratiques. C’est aussi ce qu’a ressassé l’émir du Qatar sur sa chaîne de propagande, Al Jazeera, pour qui le «péril vert» n’existe pas. «Les islamistes radicaux, dont les vues ont été forgées sous des gouvernements tyranniques, peuvent évoluer en participant au pouvoir si les révolutions tiennent leurs promesses de démocratie et de justice», disait en septembre 2011 un Hamad converti en agent de pub pour Abdel Jalil, Ghannouchi, Morsi et consorts. Les milliers de terroristes qu’ils ont envoyés en Libye, en Syrie et au Mali sont bien sages, eux aussi.

L’impérialisme occidental sait désormais qu’il ne peut se passer de l’aide ou plutôt de la joint-venture avec les pays du Golfe ; et la première opération de cette union est probablement la destruction spectaculaire du World Trade Center le 11 septembre, opération transformée en attaque terroriste pour les naïfs. Aujourd’hui, plus de la moitié des habitants de la planète ne croient pas la thèse officielle américaine, dont 90% des Allemands, 58% des Français et 15% des Américains. Le Qatar semble avoir les mains libres partout. Or, accueillir des terroristes, perdre 10 000 missiles en Libye, lancer des attaques contre la Libye, la Tunisie, l’Égypte et la Syrie, sans un blanc-seing américain est impossible !

On ne peut pas remettre en question ou chambouler un ordre géopolitique existant sans la volonté et l’accord des grandes puissances ! Vibrionner ainsi en Afrique du Nord et au Moyen-Orient, dans le terrain de jeu américain et français, est impossible, à moins d’être le fou du roi en personne. Soutenir le terrorisme islamiste ouvertement, en Afrique, en Asie, sans se faire taper sur les doigts, ou au moins récolter l’étiquette «d’Etat voyou» est inacceptable pour l’entendement : c’est ce que disent plusieurs analystes, journalistes, officiels et anciens agents de renseignement occidentaux dont Michel Chossudovsky, et l’ancien officier du MI6, Alistair Crooke. On ne peut pas non plus avoir des velléités de changer la carte géopolitique de l’Afrique, en tout cas ses gouvernements, sans accord ou instruction de l’Oncle Sam : c’est ce que disent plusieurs analystes dont Eric Denécé, le spécialiste des renseignements, et même le frère musulman Tarik Ramadhan.

L’implication du Qatar, donc des Etats-Unis, devient de plus en plus évidente avec le recul et avec le raz-de-marée, prévisible, des islamistes et surtout avec la volonté de casser le dernier bastion républicain et moderniste, la Syrie comme le fut la Libye. Il se peut que l’Arabie Saoudite, trop fragile, n’ait pas été informée de toutes les parties du plan mais a posteriori elle a adhéré à tout, et ne pouvait rien pour sauver Ben Ali et Moubarak, comme elle a accueilli avec bonheur la mort de Kadhafi qui a osé insulter le roi Abdallah. Les ennemis d’Al-Qaïda sont alors éliminés (Ben Ali, Moubarak, Kadhafi) ou visés (Syrie, Mauritanie, Algérie).

Cerise sur le gâteau, le «printemps arabe» donne même lieu à des gouvernements islamistes, proches du Qatar et de l’Arabie Saoudite, qui ont fourni argent, pub et même armes et contingents. L’Occident se devait de récompenser ses amis pour tous les efforts qu’ils ont déployés à leur profit (guerre entre l’Iran et l’Irak, deux guerres contre l’Irak, octroi de bases militaires, approvisionnement en pétrole au prix désiré).

Désormais, ils sont impliqués dans la redéfinition de la carte du monde, d’autant qu’ils sont devenus nécessaires pour toute action en terre arabe ; et ils sont rétribués par la possibilité d’installer leurs copains salafistes, islamistes ou fréristes aux commandes des pays conquis. Les valets deviennent des supplétifs.

Ali El Hadj Tahar

Number 2 U.S. Military Commander In Turkey

Number 2 U.S. Military Commander In Turkey

Hürriyet Daily News
October 23, 2012

US admiral in Turkey to discuss closer cooperation in anti-PKK fight

Sevil Küçükkoşum

Admiral_James_A__Winnefeld,_Jr.jpgANKARA: A top U.S. admiral is visiting Turkey today amid increasing military cooperation between Washington and Ankara on the fight against the outlawed Kurdistan Workers’ Party (PKK) and mounting tension on the Turkish-Syrian border to Syria’s crisis.

Adm. James Winnefeld, the vice chairman of the Joint Chiefs of Staff, is in Turkey as part of a previously scheduled counterpart visit with Deputy Chief of the Turkish General Staff Gen. Hulusi Akar, an official from the U.S Embassy to Turkey said.

“Admiral Winnefeld will participate in a series of discussions on military-to-military cooperation and mutual defense issues impacting both Turkey and the United States,” U.S. embassy spokesman in Ankara, T.J. Grubisha, told the Hürriyet Daily News today.

The fight against the PKK will top the agenda of the talks, while the Syrian crisis will also be discussed, a Turkish official told Daily News prior to the talks with the U.S. admiral. The Turkish side is also set to brief Winnefeld about problems related to intelligence-sharing between the U.S. and Turkey, the official said.

Francis Ricciardone, the U.S. ambassador to Ankara, told the Turkish media last week that a U.S. official would visit Turkey in the upcoming days to discuss cooperation between the two countries on the issue of fight against the PKK.

Ricciardone expressed his disappointment with frequent references to Washington’s unwillingness in the fight against the PKK and said he felt sorry and angered by such suspicions. “This makes our enemy successful in placing suspicion between allies. This might give hope to our enemies,” he said.

Ricciardone also said Washington had suggested that Turkey implement “tactics, techniques and procedures” (TTP), a multidisciplinary military maneuver that paved the way for the killing of Osama bin Laden, the architect of the Sept. 11 terrorist attack.

mardi, 23 octobre 2012

Turkey leads US-sponsored Military Encirclement of Syria

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Turkey leads US-sponsored Military Encirclement of Syria

Despite widely reported concerns of blowback in Syria due to the arming of jihadist groups, a military build-up on Syria’s borders is proceeding apace.

Racep Tayyip Erdogan’s Islamist government in Turkey is leading the way, using the pretext of stray mortar fire from Syria that killed five civilians to legitimise the deployment of 250 tanks, jets, helicopter gunships, troops, artillery emplacements and antiaircraft batteries on the border.

The Turkish Parliament recently granted war powers to Erdogan to send troops into Syria. Daily targeting of Syrian facilities was followed last week by the use of F16s to force down a civilian Syrian Airlines Airbus en route to Damascus from Moscow, with claims that it was carrying Russian weaponry.

Erdogan used the United Nations Security Council as a platform to attack Russia and China—“one or two members of the permanent five”—for vetoing anti-Syrian resolutions and demand an overhaul of the Security Council.

Turkey, along with the Gulf States led by Qatar, is also behind a push to unite Syria’s divided opposition forces, with the explicit aim of overcoming the qualms of the Western powers over arming the opposition and backing it militarily. There is an agreement to announce a joint leadership on November 4 at a conference in Qatar, just two days before the US presidential elections.

Foreign supporters “are telling us: ‘Sort yourselves out and unite, we need a clear and credible side to provide it with quality weapons,’” a source said.

Ensuring an effective command structure under the nominal discipline of the Free Syrian Army (FSA) and the actual control of Turkey and its allies requires the inclusion of rival military leaders Riad al-Asaad, Mustafa Sheikh and Mohammad Haj Ali (all defectors from the regime of Syrian President Bashar al-Assad), as well as various leaders of provincial military councils inside Syria. Funds are also being funneled into the Local Coordinating Committees—hitherto held up by various ex-left groups around the world as being independent of the imperialist powers.

UN Arab League mediator Lakhdar Brahimi is making great play of urging Iran to arrange a four-day cease-fire beginning October 25 to mark the Muslim religious holiday of Eid al-Adha. He is saying less about a proposal, more indicative of the UN’s role, to dispatch a 3,000-strong troop force to Syria.

The Daily Telegraph reported that Brahimi “has spent recent weeks quietly sounding out which countries would be willing to contribute soldiers” to such a force, ostensibly to be made operable following a future truce.

The direct involvement of US and British forces would be “unlikely”, given their role in Iraq, Afghanistan and Libya, so Brahimi “is thought to be looking at more nations that currently contribute to Unifil, the 15,000-strong mission set up to police Israel’s borders with Lebanon.”

These include Germany, France, Italy, Spain and Ireland—“one of which would be expected to play a leading role in the Syria peacekeeping force.”

The proposal was leaked by the Syrian National Council (SNC), with whom Brahami met in Turkey at the weekend. On Monday, the SNC was meeting for a two-day summit in the Qatari capital, Doha. Qatar’s prime minister, Sheikh Hamad bin Jassem al-Thani, took the occasion to push for military intervention in Syria. He told reporters, “Any mission that is not well armed will not fulfil its aim. For this, it must have enough members and equipment to carry out its duty.”

The SNC’s 35-member general secretariat was meeting in Doha to discuss “the establishment of mechanisms to administer the areas which have been liberated” in Syria, according to sources.

Discussions of the direct involvement of European troops in Syria are in line with confirmed reports that the US and Britain have despatched military forces to Jordan, for the purported purpose of policing its border and preventing a spill-over of the conflict.

US Defense Secretary Leon Panetta acknowledged the move at an October 10 meeting of NATO defence ministers in Brussels. The US has repeatedly issued denials of a growing military presence in Turkey located at the Incirlik airbase, but Panetta confirmed that Washington had “worked with” Turkey on “humanitarian, as well as chemical and biological weapons issues.”

The next day, the Times of London and the New York Times reported that Britain too has upward of 150 soldiers and military advisors in Jordan. Jordanian military sources said France may also be involved.

Anonymous senior US defence officials told Reuters that most of those sent to Jordan were Army Special Operations forces, deployed at a military centre near Amman and moving “back and forth to the Syrian border” to gather intelligence and “plan joint Jordanian-US military manoeuvres.”

There is “talk of contingency plans for a quick pre-emptive strike if al Assad loses control over his stock of chemical weapons in the civil war,” Reuters added.

Turkey’s bellicose stand has produced widespread media reports that the US and other NATO powers risk being “dragged into” a wider regional war. This in part reflects real concerns and divisions within imperialist ruling circles and in part an effort to conceal the Western powers’ instrumental role in encouraging military conflict.

Attention has been drawn to the refusal of NATO to heed appeals by Turkey for it to invoke Article 5 of its charter authorising the military defence of a member nation. But despite this, NATO has publicly gone a long way towards endorsing Turkey’s actions.

NATO Secretary-General Anders Fogh Rasmussen told reporters at the same Brussels summit that “obviously Turkey can rely on NATO solidarity… Taking into account the situation at our southeastern border, we have taken the steps necessary to make sure that we have all plans in place to protect and defend Turkey,” [emphasis added].

The previous day, a senior US defence official said, “We engage with Turkey to make sure that should the time come where Turkey needs help, we’re able to do what we can.”

In an indication of the type of discussions taking place in the corridors of power, several policy advisers have gone into print to outline their proposals for a proxy military intervention by Turkey to which the US could then lend overt support.

Jorge Benitez, a senior fellow at the Atlantic Council, urged in the October 15 Christian Science Monitor: “To preserve its credibility in Turkey and the region, NATO should offer radar aircraft and/or rapid reaction forces.”

“Too much attention has been focused on the question of invoking Article 5, the alliance’s mutual defence clause,” he added. Other options were available. Before the US-led war against Iraq in 2003, he noted, Turkey had requested a consultative meeting under Article 4 of the NATO treaty “to discuss how the alliance could help Turkey deter an attack from Iraq.”

Using this pretext, NATO approved Operation Display Deterrence, including the dispatch of four AWACS radar aircraft, five Patriot air defence batteries, equipment for chemical and biological defence, and “more than 1,000 ‘technically advanced and highly capable forces’ to support Turkey during the Iraq conflict.”

Soner Cagaptay of the Washington Institute for Near East Policy published an article in the October 11 New York Times on a three-point strategy he called “the right way for Turkey to intervene in Syria.”

He urged Turkey to “continue the current pattern of shelling across the border every time Syria targets Turkey” in order to “weaken Syrian forces” and let the FSA “fill the vacuum;” to “combine shelling with cross-border raids to target Kurdish militants in Syria;” and, if things “get worse along the border,” to stage “a limited invasion to contain the crisis as it did in Cyprus in the 1970s.”

Auf Kriegskurs: Europas Linke wirbt für „humanitäre Interventionen“

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Auf Kriegskurs: Europas Linke wirbt für „humanitäre Interventionen“

 
„Ich glaube an zwei Prinzipien: Nie wieder Krieg und nie wieder Auschwitz.“ (1)

Diese Worte wurden auf dem Parteitag der Grünen im Mai 1999 gesprochen, der während des NATO-Bombardements auf Jugoslawien, an dem sich auch Deutschland beteiligte, stattfand. Sie kamen aus dem Mund des Grünen-Politikers und damaligen Außenministers Joschka Fischer. Sein Kommentar sollte den Krieg gegen das serbische Volk rechtfertigen. Dasselbe Volk, das bereits in zwei Weltkriegen unter dem deutschen Imperialismus zu leiden hatte.

In den 1970er Jahren war Fischer ein linksradikaler Aktivist und in den 1980er Jahren gehörte er zu den Mitbegründern der Grünen. Das Anliegen hinter der Parteigründung war es, den verschiedenen Umwelt- und Antikriegsgruppen eine parlamentarische Repräsentation zu verschaffen. Hätte in der damaligen Zeit jemand über die Möglichkeit gesprochen, dass diese Partei gegen Ende des Jahrtausends eine aktive Rolle in einem Aggressionskrieg gegen Jugoslawien spielen würde, es wäre als absurd abgestempelt worden. Eine direkte Beteiligung Deutschlands an einem Krieg war ein völliges Tabu, und niemand auf Seiten der Linken oder der Rechten hätte es gewagt, eine solche Option in Erwägung zu ziehen. Nach 1945 war es allgemeiner Konsens, dass von Deutschland nie wieder ein Krieg ausgehen sollte.

Der politische Übergang in Deutschland, der sich in großen Teilen Westeuropas widerspiegelte, ist wichtig für das Verständnis, wie es dazu kam, dass viele Mainstream-Linke zu modernen Kriegstreibern wurden, oftmals sogar in einem größeren Maße als ihre konservativen Widersacher.

Mit ihrem Eintreten für das Konzept des „Humanitären Interventionismus“ und ihrer moralischen Autorität erscheinen die „progressiven“ politischen Entscheidungsträger viel glaubwürdiger als die  lärmenden neokonservativen Hassprediger, wenn es darum geht, eine militärische Intervention vor der Bevölkerung zu rechtfertigen.

In Westeuropa sind die meisten Befürworter der Militarisierung innerhalb der Mainstream-Linken mit den grünen oder den sozialdemokratischen Parteien verbunden. Einer der ersten Verfechter militärischer „humanitärer Interventionen“ war Daniel Cohn-Bendit, Mitglied der Grünen in Frankreich. Er war auch einer der Vordenker der Abschaffung der europäischen Nationalstaaten zugunsten einer stärkeren Europäischen Union. Während des Bürgerkriegs in der ehemaligen jugoslawischen Republik Bosnien verlangte Cohn-Bendit die Bombardierung der Serben. Jeder, der damit nicht einverstanden sei, würde dieselbe Schuld auf sich laden wie diejenigen, die während des faschistischen Massenmords im Zweiten Weltkrieg tatenlos zuschauten:

„Schande über uns! Wir, die Generation, die unsere Eltern so sehr für ihre politische Feigheit missachtet hat, schauen jetzt selber scheinbar hilf- und machtlos und doch selbstgefällig dabei zu, wie die bosnischen Muslime Opfer einer ethnischen Säuberung werden.“  (2)

Während des Bosnien-Krieges wurde die Masche perfektioniert, mittels der Zeichnung von Parallelen zu den Verbrechen der Nazis jene zu dämonisieren, die den geostrategischen Interessen des Westens im Wege stehen. Exemplarisch dafür steht die Geschichte von den sogenannten Todescamps in Bosnien: Als Beweis für die angebliche Existenz von Konzentrationslagern, die von den Serben in Nazi-Manier betrieben würden, veröffentlichte eine britische Zeitung im August 1992 ein Foto, das einen abgemagerten Mann hinter einem Stacheldrahtzaun zeigt. Wie später jedoch der deutsche Journalist Thomas Deichmann herausfand, stand der Mann außerhalb des Zaunes und war  nicht hinter Stacheldraht gefangen. (3)

Natürlich gab es Gefangenenlager auf allen Seiten und die Bedingungen dort waren zweifellos oftmals schrecklich. Die Sache ist jedoch die, dass die westliche Propaganda versuchte, die Seite der Kroaten und Muslime reinzuwaschen, indem sie ganz und gar als Opfer dargestellt, während gleichzeitig die bosnischen Serben als Barbaren und Nazis präsentiert wurden.

Kontrahenten oder auch ganze Bevölkerungsgruppen mit einem Etikett zu versehen, um diese zu dämonisieren, ist kein neues Konzept in der Kriegspropaganda. Ein entpolitisiertes Verständnis von Faschismus, als lediglich eine Form des Nationalismus, ermöglicht es der postmodernen Linken, Aggressionskriege als „humanitäre Interventionen“ und somit „antifaschistische“ Aktionen zu präsentieren. Die traditionelle linke Sichtweise sieht im Faschismus hingegen nicht nur eine chauvinistische, rassistische Ideologie, sondern berücksichtigt auch dessen wirtschaftlichen Hintergrund und dessen Bündnis mit der Hochfinanz, der Rüstungsindustrie und den politischen Eliten.

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Als der UN-Sicherheitsrat im März 2011 die Resolution 1973 zur Errichtung einer Flugverbotszone über Libyen verabschiedete, die als Vorwand für einen Angriff auf das Land diente, enthielt sich Deutschland zusammen mit Russland, China, Indien und Brasilien der Stimme. Die schwarz-gelbe Regierungskoalition erntete für diese Haltung heftige Kritik aus den Reihen der Sozialdemokraten und vor allem aus den Reihen der Grünen, die der Bundesregierung vorwarfen, nicht stärker eine Pro-Kriegs-Position bezogen zu haben. Der ehemalige Außenminister Joschka Fischer attackierte seinen Amtsnachfolger Guido Westerwelle dafür, die Resolution der Kriegstreiber nicht unterstützt zu haben und merkte an, dass der Anspruch Deutschlands auf einen ständigen Sitz im UN-Sicherheitsrat damit „in die Tonne getreten“ wurde. (4)

Es ist daher nicht überraschend, dass sich im gegenwärtigen Konflikt in Syrien – welcher erheblich vom Westen orchestriert und finanziert wird, wie auch die Bürgerkriege in Jugoslawien und Libyen – grüne und linksliberale Politiker in Westeuropa als die stärksten Befürworter einer Strategie der Eskalation gebärden. In einer Fernsehdebatte verwehrte sich die Grünen-Vorsitzende Claudia Roth gegenüber jeder Stimme der Vernunft, die für Verhandlungen mit der Assad-Regierung plädiert. (5) Zu diesen zählt auch der Autor und ehemalige Politiker Jürgen Todenhöfer, der eine ausgewogene Position vertritt und jüngst für ein Interview mit Bashar Al-Assad nach Damaskus reiste, damit die Welt auch die „andere Seite“ hören könne. (6) Die Tatsache, dass überhaupt jemand Al-Assad seine Meinung sagen lässt, war für Claudia Roth zu viel. Sie drückte ihre Verärgerung über Todenhöfers Reise in unmissverständlichen Worten aus.

Zur selben Zeit war es der frisch gewählte „sozialistische“ Präsident François Hollande, der als erstes westliches Staatsoberhaupt die Option eines Angriffs auf Syrien öffentlich in Erwägung zog. In seiner Erklärung ließ er die Welt wissen, dass er eine „internationale militärische Intervention in Syrien“ nicht ausschließe. (7)

Hollandes Wahl zum Präsidenten war Ausdruck der Hoffnung vieler Menschen, Nicolas Sarkozys reaktionärer, neoliberaler und korrupten Politik ein Ende zu bereiten und sie durch eine humanere Form zu ersetzen. Was die Außenpolitik angeht, setzt Hollande bedauerlicherweise die neokoloniale Agenda seines Vorgängers fort. (8)

Sowohl im Fall Libyens als auch Syriens forderte Bernard-Henri Levy, ein französischer Philosoph, professioneller Selbst-Promoter und häufig Objekt des Gespötts der Medien, seine Regierung zur Intervention auf, um das „Töten unschuldiger Zivilisten“ zu verhindern. (9) Sein Ruf nach Krieg wurde natürlich als humanistischer Graswurzel-Aktivismus verkauft. In einem offenen Brief an den Präsidenten, veröffentlicht unter anderem von der Huffington Post, zog er das Massaker in Hula als Rechtfertigung für eine Intervention heran. (10) Die Tatsache, dass die Fakten darauf hindeuten, dass es sich bei den Opfern um Anhänger des Assad-Regierung gehandelt hat und diese von Aufständischen getötet worden sind (11), konnte der Schwarz-Weiß-Malerei des virtuosen philanthropischen Aktivisten nichts anhaben.

Von „Auschwitz“ in Bosnien und im Kosovo hin zum „syrischen Diktator“, der Frauen und Kinder abschlachtet, die Strategie, mit der der Widerstand der Bevölkerung gegen einen Aggressionskrieg überwunden werden soll, bleibt dieselbe: Es wird an ihr Schuldbewusstsein und an ihr schlechtes Gewissen appelliert – die „schaut-nicht-tatenlos-zu“-Taktik. Und niemand beherrscht diese Taktik besser als die heutigen „progressiven“ falschen Samariter.

Eingedenk dessen wenden wir uns wieder dem Beispiel Deutschland zu. Bisher hat sich die deutsche Regierung aktiv daran beteiligt, antisyrische Propaganda zu verbreiten. Sie legt aber nicht dieselbe Begeisterung für eine Intervention an den Tag, wie sie sich in den Reihen der „Progressiven“ ausmachen lässt. Auch wenn sich nicht viel Positives über die neoliberale, US-freundliche Regierung Angela Merkels sagen lässt, so ist sie nicht in demselben Ausmaß wie die rot-grüne Opposition dazu bereit, das Risiko eines militärischen Abenteuers einzugehen und spricht sich dementsprechend weiterhin für eine „diplomatische Lösung“ aus. (12) Auch wenn die Vita der schwarz-gelben Regierung zeigt, dass sie weit davon entfernt ist, in Sachen Interventionismus unschuldig zu sein (13),  könnte es noch schlimmer kommen, falls sich nach den Bundestags-Wahlen im Jahr 2013 erneut eine rot-grüne Regierung konstituiert, wie es zwischen 1998 und 2005 der Fall war. Schließlich hat sie seinerzeit die historische Leistung vollbracht, zum ersten mal seit 1945 Kriege in der deutschen Öffentlichkeit salonfähig zu machen.


Der Artikel erschien im Original am 21. September bei Global Research unter dem Titel Europe’s Pro-War Leftists: Selling “Humanitarian Intervention.  Übersetzung: Hintergrund


Anmerkungen

(1) http://germanhistorydocs.ghi-dc.org/docpage.cfm?docpage_id=4440.
(2) http://web.archive.org/web/20101122200452/http://esiweb.org/index.php?lang=en&id=281&story_ID=19&slide_ID=3.
(3) http://web.archive.org/web/19991110185707/www.informinc.co.uk/LM/LM97/LM97_Bosnia.html.
(4) http://www.sueddeutsche.de/politik/streitfall-libyen-einsatz-deutsche-aussenpolitik-eine-farce-1.1075362.
(5) http://www.ardmediathek.de/das-erste/hart-aber-fair/21-00-besser-wegschauen-und-stillhalten-darf-uns-syrien?documentId=11083714.
(6) https://www.youtube.com/watch?v=NBJlpY1qX28.
(7) http://www.spiegel.de/international/world/french-president-leaves-open-possibility-of-military-intervention-in-syria-a-835906.html.
(8) Während seiner Präsidentschaft war Sarkozy verantwortlich für die militärischen Interventionen in Libyen und der Elfenbeinküste.
(9) http://www.guardian.co.uk/world/2012/may/25/levy-libya-film-screening-cannes-festival.
(10) http://www.huffingtonpost.com/bernardhenri-levy/syria-massacre-houla_b_1552380.html.
(11) Siehe beispielsweise: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=31455.
(12) http://www.tagesschau.de/ausland/syrien1576.html.
(13) So lässt Deutschland den Aufständischen über den Bundesnachrichtendienstes militärische Unterstützung zukommen. Siehe: http://www.wsws.org/articles/2012/aug2012/syri-a21.shtml.

lundi, 22 octobre 2012

Siria: L’emiro, Erdogan e Hollande… combattono la stessa guerra!

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Siria: L’emiro, Erdogan e Hollande… combattono la stessa guerra!

di Mouna Alno-Nakhal

Fonte: aurorasito  

Alla vigilia del quattordicesimo vertice francofono tenutosi a Kinshasa, il 12-14 ottobre 2012, il presidente francese François Hollande ha indicato i buoni e i cattivi… la Palma d’oro è andata a due paesi: Qatar e Turchia, che ha omaggiato per il loro atteggiamento e/o comportamento, in quanto campioni della democrazia e/o dell’azione umanitaria in relazione al “conflitto siriano!”

I meriti dell’emiro del Qatar fanno colare molto inchiostro nel nostro bell’esagono, lasciamo che i nostri parlamentari e funzionari democratici, come il signor Yves Bonnet, ex prefetto ed ex direttore della DST, dibattano, come ha fatto su France 5. Poi, dopo aver sentito o letto i punti chiave dell’intervento del nostro Presidente su France 24, date un’occhiata qui sotto alle “cartine”, soprattutto quella corrispondente alla famosa “zona cuscinetto”, corridoio umanitario, area protetta, o come volete, lento a materializzarsi per i nostri governi, precedente e attuale, desiderosi di porre fine allo stato siriano, alla sua geografia, al suo popolo, alla sua cultura, alla sua storia e alle sue infrastrutture che non si è finito di demolire…


Un pezzo di carta, tra le altre carte, ridisegnato per le esigenze occidentali, un secolo dopo l’altro… semplice “ri-partizione” di un Medio Oriente da sempre ambito, e che sperano materializzarsi al momento convenuto, costi quel che costi! 

I. I punti chiave dell’intervento di Yves Bonnet su France 5 [1]
[...] C’è ancora la propaganda salafita. Dobbiamo ancora chiamare le cose con il loro nome! Ci sono paesi stranieri, due in particolare: Qatar e Arabia Saudita… non si limitano solo pagare i calciatori del Paris Saint Germain! Quando vedo il Qatar preoccupato per la situazione nella nostra periferia… Di che s’immischia? É una grande democrazia il Qatar! Tutti sanno che è una democrazia… ero Prefetto, trovo assolutamente intollerabile che un certi paesi stranieri vengano a far fronte alla situazione delle nostre periferie … E l’Arabia Saudita? Qual’è la tolleranza religiosa in questo paese? Si tratta di paesi che sono la negazione stessa dell’espressione democratica. E questi sono i paesi che vengono ad occuparsi dei nostri affari… è propaganda salafita! Tutti sanno che si tratta di propaganda salafita oggi, non solo in Francia, ma anche nei paesi dell’Africa sub-sahariana è pagata da Arabia Saudita e Qatar! Credo che tutti dovremmo porci chiaramente delle domande su questi paesi che si pretendono nostri alleati, nostri amici… [...]
Quello che vorrei anche dire, se mi permettete di chiarire. Questo è quello che siamo, siamo una democrazia, cerchiamo di assimilare in qualche modo, con i vecchi processi francesi, nuove popolazioni musulmane e che in genere non pongono problemi… E siamo nella confluenza di due strategie principali. C’è la strategia americana per la demolizione di tutti i regimi arabi laici. Ciò è stato fatto in modo sistematico. Ne vediamo i risultati meravigliosi! Con, vorrei dire e lo dirò in ogni caso, il problema dei cristiani d’Oriente di cui nessuno parla… scomparsi… che stanno scomparendo dall’Iraq … che scompariranno dalla Siria! E mi dispiace, non vedo perché non prestarvi attenzione! Penso che ci sia un problema troppo grave… [...]


Quindi c’è questa strategia americana per demolire i regimi arabi laici, sospettati di aver avuto rapporti più o meno amichevoli con l’Unione Sovietica. Sono ancora gli americani che hanno creato al-Qaida… Mi dispiace, questo è un fatto che non è contestato da nessuno! Seconda cosa: è la strategia dei paesi del Golfo che accresce il salafismo, lo diffonde… Penso che siamo d’accordo. Ho detto per inciso, inoltre, che il termine antisemita non mi va bene per nulla, perché gli arabi sono semiti e si sa che i due terzi degli ebrei non sono semiti… ma alla fine, andiamo! Poi parlare di giudeo-fobia… ma no, parliamo francese! Entrambe le politiche sono confluite, perché questi due paesi del Golfo, in particolare il più potente è un fedele alleato degli Stati Uniti. E siamo presi in questo tipo di vortice in cui cerchiamo di preservare la nostra identità, la nostra democrazia, con non poche difficoltà. Ma non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Credo che siamo ancora in una società che è in fase di guarigione, in termini di vita tra le comunità…
[Trascrizione parziale, ma parola per parola.]

II. I punti chiave del discorso del Presidente Holland su France 24 [2]
[...] Il Qatar sostiene l’opposizione a Bashar al-Assad, dopo, ricordo recentemente… esserne stato uno dei sostenitori. E’ con l’opposizione. Vuole aiutare l’opposizione. Anche Noi! Anche la Francia! Quindi diciamo che si deve unire l’opposizione e deve essere preparata al dopo Bashar al-Assad! E questa transizione deve essere una transizione verso la democrazia… non al caos… alla democrazia… vale a dire che il progetto deve soddisfare tutte le forze interne ed esterne, che domani vorranno un libera e democratica Siria! Il Qatar ha il suo posto. Può aiutare. E’ in grado di supportarli e noi lo facciamo con buon accordo. Ma per noi, non si tratta di fornire armi, e l’abbiamo detto ai ribelli … di cui non sapremmo nulla delle loro intenzioni. Dei “territori che sono stati liberati”, ho chiesto da chi questi territori possono essere protetti. Poi ho detto il Qatar, ma non solo il Qatar, che conduce un “lavoro umanitario” in una serie di paesi, tra cui il Mali…!

Ho detto loro: “Fate attenzione, a volte pensate di essere nel campo umanitario, ma è possibile che siate responsabili senza saperlo, e che vi ritroviate a finanziare iniziative di cui possono beneficiare i terroristi“. Hanno detto che le autorità del Qatar… e così… l’Emiro e il suo primo ministro, sono estremamente vigili in relazione a ciò, e io gli credo! Quindi… io sono in una posizione in cui non lascio passare nulla! [...] prima parte Bashar, più la transizione sarà sicura in Siria… Più a lungo dura il conflitto, più i rischi sono grandi… allora prima c’è il rischio di una guerra civile, dopo il rischio del caos… o della “partizione”. Mi rifiuto!
Quindi… la Francia, è in prima linea. E’ stata molo “osservata” negli ultimi mesi … dalla mia elezione! Guardate quello che abbiamo fatto. Siamo noi che abbiamo chiesto che l’opposizione possa riunirsi, questo è già stato fatto, a luglio, qui a Parigi… e riunirsi in un “governo provvisorio”! Siamo stati i primi a dirlo, i primi a dire che bisognava anche “proteggere le zone liberate”, i primi ad assicurare che ci potesse essere un aiuto “umanitario”… è ciò che facciamo in Giordania [3]; i primi a dire anche che dovevamo coordinarci affinché gli “sfollati e i rifugiati”  possano essere ricevuti in buone condizioni, in particolare per il prossimo inverno, i primi a dire che dobbiamo fare di tutto affinché Bashar al-Assad se ne vada e a trovare una soluzione, anche vicino a lui… ho sentito la proposta della Turchia dal suo vice presidente. [4]


Ci sono delle “personalità” in Siria che possono essere una soluzione per la transizione, ma non nessun compromesso con Bashar al-Assad! [...] La Turchia si è “trattenuta in modo particolare” e voglio elogiare l’atteggiamento dei suoi leader, perché sono stati assalti, ci sono state delle provocazioni [5]!


Quindi… La Turchia sta facendo di tutto per impedire il conflitto… che sarebbe anche nell’interesse della Siria: “la creazione di un conflitto internazionale potrebbe unire la Siria contro un aggressore che dovrebbe provenire dall’esterno!” Quindi… dobbiamo fare di tutto affinché il conflitto siriano, più esattamente, “la rivoluzione siriana” non trabocchi in Turchia, Libano, Giordania. Allora… la mia responsabilità è grande, perché la Francia vuole che il Libano mantenga la sua integrità! La mia responsabilità è grande perché condivido ciò che accade in Giordania [6]… di nuovo, un processo democratico… e i rifugiati che sono ancora molto numerosi!
[Trascrizione parziale, ma parola per parola.]

III. La mappa della “zona cuscinetto” di Erdogan che tarda a realizzarsi [7]
Il progetto di una “zona cuscinetto” in territorio siriano, che il governo turco vorrebbe stabilire con il sangue e il fuoco, ammassando e sostenendo “bande armate” che provengono da tutto il mondo e attraversano i confini nord e nord-ovest della Siria, su una regione che dovrebbe estendersi dal punto di confine siriano di al-Salama alle coste settentrionali, attraversando la regione di Idlib [8]; gli obiettivi essenziali della sua realizzazione sono i seguenti:
1. A’zaz e le piccole città a nord di Aleppo, tra cui Maaret al-Nouman, Khan Shaykhun e Jisr al-Shughour, che si trovano intorno alla città di Idlib, che l’opposizione armata vorrebbe destinare a sua capitale tramite il sostegno del vicino turco! Questa zona rappresenta il 5% della superficie della Siria, è densamente popolata [17% della popolazione] è ricco di petrolio e di zone agricole [40% dei terreni arabili]. Aprirebbe la strada verso le coste del Mediterraneo, attraversando la bellissima zona conosciuta come al-Kassatel, quindi al-Kassab e al-Hafa, e i villaggi turcomanni e curdi nella campagna circostante Latakia, senza dimenticare l’incrocio con l’atteso “Sangiaccato di Alessandretta”, usurpato con il Trattato di Losanna nel 1923. Infatti, è importante notare che questi luoghi quasi confinanti con la Turchia, sono caratterizzati da una popolazione mista araba e turcomanna, ancora influenzata da tradizioni, cultura e usanze della Turchia. Da qui l’operazione del governo turco che, prima dell’avvio delle sue ‘bande armate’, era volto a carpire la fiducia dei siriani di questa zona, facilitando il loro passaggio del confine e, strada facendo, il lucroso contrabbando di armi, poi spedite in tutto il paese come preludio per la creazione della necessaria zona cuscinetto, una volta che le operazioni armate avessero raggiunto il punto culminante ad Aleppo, nelle zone di accesso a Idlib e intorno alla città di Latakia. Così il governo Erdogan ha previsto l’isolamento di questo territorio, ricco e strategico, nel nord-ovest della Siria, prima di annetterlo alla provincia di Hatay, all’incirca corrispondente al vicino sangiaccato di Alessandretta, precedentemente già annesso. Infine, ciò avrebbe realizzato il piano del mandato francese del secolo scorso, per la partizione della Siria in tre piccoli Stati, come dimostrano le “tre stelle” della bandiera brandita dai cosiddetti valorosi rivoluzionari della libertà!
2. Jabal al-Zawiya, il cui territorio accidentato ha notevolmente aiutato le bande armate a diffondersi, cercando di controllare la regione fin dall’inizio della cosiddetta “crisi siriana”, e in cui si sono rifuggiati sottraendosi all’esercito regolare siriano quando è arrivato a Idlib.
3. Maaret al-Nouman è diventato il rifugio, l’arsenale e la base principale per la riassegnazione di queste bande, ora che Jabal al-Zawiya ha mantenuto la sua promessa. 4. la provincia di Idlib, particolarmente strategica, perché si trova alla confluenza di tre grandi città: Aleppo, Hama, Homs e financo Latakia. Questo è il piano assegnato al governo turco, che è intenzionato a creare la sua famosa zona cuscinetto sotto la copertura di un aiuto presumibilmente umanitario, per la protezione dei “profughi e dei rifugiati sul proprio territorio.” Dietro l’impegno di Ankara ad accogliere e sostenere i terroristi jihadisti, destinati alla Siria, si profila il sogno neo-ottomano di ripristinare l’egemonia sulla regione dell’impero ottomano decaduto, partendo dalla Siria!
[Traduzione completa dell'articolo originale di Salloum Abdullah per TopNews di Nasser Kandil].

IV. Mappa, tra le altre, del “Medio Oriente ridisegnato” a vantaggio dell’occidente [9]
Quanto sarebbe migliore il Medio Oriente!“, aveva detto il colonnello Ralph Peters sull’Armed Forces Journal degli Stati Uniti [10], presentando il ridisegno del Medio Oriente come un accordo “umanitario” e “giusto”. Aveva detto: “i confini internazionali non sono mai completamente giusti. Ma il grado di ingiustizia che pesa sulle spalle di quanti sono costretti a riunirsi o separarsi, fa un enorme differenza… spesso la differenza tra la libertà e l’oppressione, la tolleranza e la barbarie, l’autorità della legge e il terrorismo, o anche la pace e la guerra.” Capisca chi vuole!


Per non parlare delle tragedie palestinese, irachena, libica… a Voi giudicare le conseguenze di tale cinismo, a quanto pare condiviso da molti leader occidentali, sui cittadini siriani consegnati e martirizzati dall’”orda terrorista” sostenuta dalle potenze civili e democratiche con il pretesto della responsabilità… di proteggere!

Mouna Alno-Nakhal 16/10/2012

Riferimenti:
[1] i punti chiave dell’intervento dell’ex prefetto ed ex direttore della DST, Yves Bonnet su France 5
[2] Altri punti chiave dell’intervento di Francois Hollande
[3] Siria: manovre militari in Giordania… semplice messaggio o segni premonitori di una operazione militare congiunta di 19 paesi [Dr. Amin Hoteit]
[4] Siria: non avete trovato nulla di meglio di Faruk al-Shara? [Al-Hayat quotidiano siriano filo-opposizione!]
[5] Nessuna guerra, niente lacrime! (rriyet) [Nuray da Mert]
[6] Preparazione di una escalation della guerra in Siria, il Pentagono sta dispiegando forze speciali in Giordania [Bill VanAuken]
[7] Articolo originale del 14/10/2012, di Salloum Abdullah per TopNews di Nasser Kandil [Libano]
[8] NB: Mappa completata da quella indicata nella’rticolo originale [7] per individuare i punti chiave, in mancanza di meglio.
[9] Il progetto per un ‘Nuovo Medio Oriente’ [Mahdi Darius Nazemroava]
[10] ‘Come sarebbe migliore il Medio Oriente’ [Ralph Peters]

 Mondialisation, 16 ottobre 2012
Copyright © 2012 Global Research

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora

samedi, 20 octobre 2012

La democrazia dell'oppio

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La democrazia dell'oppio

di Giulietto Chiesa


Fonte: lavocedellevoci

   
   
Nei giorni scorsi ho ricevuto un'informazione molto interessante, direi perfino curiosa, se non fosse che e' anche tragica. Pare - ma e' sicuro - che Hamid Karzai, il presidente dell'Afghanistan, nelle ultime settimane abbia segretamente sottoposto i 34 governatori delle province afghane a una prova di scrittura e lettura, verificando che ben 14 tra essi sono analfabeti. Non mi e' stato detto chi fossero i 14 tapini, ma la curiosita' e' cresciuta. Perche' mai Karzai ha improvvisamente sentito il bisogno di conoscere il livello d'istruzione dei suoi governatori? Che gli e' successo (intendo dire, a Karzai)?

A me e' venuto il sospetto che lo abbia fatto per toglierne di mezzo alcuni. Segnatamente, magari, quelli che non desiderano che egli si ricandidi (non essendo Karzai ricandidabile, a termini di costituzione, per una terza volta). Non si sa mai. Metti caso che i governatori disposti ad appoggiare un cambio costituzionale siano in numero attualmente insufficiente: ecco che gli analfabeti, che forse non sono cosi' tanti, o cosi' pochi, potrebbero essere accompagnati alla porta e sostituiti.

Insomma la prova di alfabetismo potrebbe essere nient'altro che un trucchetto per cambiare la costituzione afghana - del resto molto giovane - e restare al potere ancora qualche annetto.

Niente stupore. Se fosse cosi' potremmo solo dire che Karzai sta imitando le gesta di George Bush, quello che lo ha portato al potere. Anche Bush il giovane trucco' le elezioni: sia quelle del 2000, sia quelle successive del 2004. Dunque, perche' non imitarlo?

Poi ho ricevuto un'altra informazione, anch'essa attendibile ma un tantino diversa. Ve la trasmetto. Karzai ha licenziato 10 governatori. Non so se fossero dieci analfabeti, ma pare che fossero "morosi". Il che e' peggio. Morosi nel senso che ciascuno di loro deve pagare, e ha pagato, circa 30.000 dollari al mese personalmente al presidente in carica. Fatti un po' di conti vorrebbe dire che Karzai incassava e incassa 12 milioni 240 mila dollari l'anno di tangenti. Pare che uno dei governatori cacciati via in malo modo, quello della provincia di Helmand, avesse lasciato ridurre la produzione di oppio nel suo territorio addirittura del 40%. E come paghi il boss se non vendi droga? Cosi' mi sono fermato a riflettere sul significato della presenza dei militari italiani in Afghanistan in questi anni. Eravamo la' per fare che cosa? Per rendere molto bene imbottito il conto americano di Karzai. Qui finisce un ragionamento e ne comincia un altro. Mi ricordo di Emma Bonino, che fu mandata dal Parlamento europeo a certificare la validita' delle elezioni afghane in un lontano momento tra il 2004 e il 2005 (non ricordo bene, ma non importa). Torno' tutta contenta e spiego' al colto e all'inclita che quelle elezioni erano un trionfo democratico. Tutto era andato benissimo, non c'erano stati brogli, le schede elettorali erano chiarissime e tutti erano andati disciplinatamente a votare pur essendo nella stragrande maggioranza analfabeti (ma questo la Emma nazionale non lo disse).

I parlamentari europei, per meta' distratti, per l'altra meta' del tutto incapaci di valutare e per l'altra meta' ancora assolutamente convinti della giustezza della linea americana che quelle elezioni aveva voluto, applaudirono.

Lo so che non ci possono essere tre meta' di una unita', ma in quel parlamento europeo dominato dalla destra e da un discreto livello di stupidita' maggioritaria vi garantisco che potevano esserci anche cinque meta' di una unita'.

Era l'epoca trionfale della guerra al terrore. Osama bin Laden era morto soltanto tre volte e, dunque, gliene restavano ancora sei, giusto fino al maggio del 2011, e dunque bisognava tenere duro sul tema dell'esportazione della democrazia. La signora Emma Bonino era stata mandata a celebrare l'esportazione democratica in Afghanistan e, dunque, la questione era chiusa prima ancora di venire aperta. E qui viene il terzo ragionamento. Ma che diavolo significa questa democrazia? Non ho ancora trovato nessuno che sia in grado di spiegarmi come si puo' considerare democrazia una situazione in cui la maggioranza della popolazione, che non ha mai messo una scheda in un'urna, viene spinta a fare gesti di cui non puo' nemmeno comprendere il significato. Per la semplice ragione che non sa leggere quella scheda.

KABUL, ITALIA

Poi mi sovviene che mi trovo in un paese molto civile e moderno, nel quale milioni di persone, che pure sanno leggere le schede, non vanno a votare dopo avere visto i nomi su quelle schede e averli sentiti parlare in televisione. E altri milioni vanno a votare senza conoscere i loro programmi, pur potendo leggerli, in quanto non e' in base a quei programmi che votano i candidati, ma per i favori che sperano di ottenere da quei candidati. E tutti quei pochi che vanno a votare non possono decidere niente comunque perche' quei nomi altri li hanno fatti stampare sulle schede senza nemmeno consultarli, e dunque debbono prendere per buono quello che passa il convento. Allora mi viene in mente quello che scriveva Michael Ledeen, uno dei neocon cruciali che organizzarono la guerra contro l'Afghanistan e contro l'Irak, in un suo libro intitolato "La guerra contro i mostri del terrore"

Scriveva che l'America ha come obiettivo quello di disfare (undo) le societa' tradizionali. E aggiungeva che loro hanno paura di noi perche' non vogliono essere cancellati. Per cui ci attaccano perche' vogliono sopravvivere, cosi' come noi dobbiamo distruggerli per andare avanti nella nostra missione storica.

Subito ho pensato che si riferisse agli afghani, o agli iracheni. Ma poi ho avuto un'illuminazione: si riferiva a noi. L'unica differenza sta nel fatto che loro reagiscono per non essere cancellati, mentre noi ci lasciamo docilmente cancellare.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

vendredi, 19 octobre 2012

Geheime Interessen: Die Wahrheit über den Stellvertreterkrieg in Syrien

Geheime Interessen: Die Wahrheit über den Stellvertreterkrieg in Syrien

Henning Lindhoff

Im Syrienkonflikt bahnt sich ein größerer Krieg an, in den auch das NATO-Mitglied Deutschland schnell hineingezogen werden könnte. Die großen Medien berichten viel über Syrien, enthalten uns allerdings systematisch einen Teil der Wahrheit vor.

Am Donnerstag, den 4. Oktober 2012 erreichte der Bürgerkrieg in Syrien eine neue Eskalationsstufe. Im türkischen Akçakale verloren eine Frau und vier Kinder ihr Leben durch Granatbeschuss aus dem nahen syrischen Aleppo. Wer die Granaten abgefeuert hatte, blieb bislang unbekannt. Es gibt allerdings Informationen von Insidern, nach denen die Granaten aus den Bestanden der NATO stammen sollen.

MEHR: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/henning-lindhoff/geheime-interessen-die-wahrheit-ueber-den-stellvertreterkrieg-in-syrien.html

jeudi, 18 octobre 2012

Les plans impérialistes de l’Occident, pour l’avenir de l’Afghanistan

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Les plans impérialistes de l’Occident, pour l’avenir de l’Afghanistan

«Ce n’est pas difficile de résoudre ce problème», c’est, du moins, l’avis le l’ambassadeur britannique, à Kaboul, Richard Stagg, en ce qui concerne les vieux problèmes frontaliers entre l’Afghanistan et le Pakistan.Stagg demande, d’ailleurs, aux deux parties d’engager, à ce sujet, des négociations sérieuses, qui aboutiraient, selon lui, à l’instauration et au renforcement de la paix et de la sécurité, dans la région. Selon ce diplomate britannique haut gradé, il est devenu, de nos jours, plus facile, par rapport à il y’a 10 ans, de trouver une solution au litige frontalier pakistano-afghan.

Dans le même temps, l’expert politique russe, Alexandre Kniazev,  de l’Institut de l’Orient de l’Académie des sciences de Russie, a laissé entendre que l’Afghanistan avait préparé des documents, en vue de reconnaître la ligne Durand, comme frontière internationale. «Cela fait un an qu’on a préparé, au sein du gouvernement afghan, des documents, en vue de la reconnaissance de cette ligne, comme la frontière définitive entre l’Afghanistan et le Pakistan ; quoi qu’un règlement définitif de cette question ne soit  pas l’œuvre de Karzaï, car cette question va, sans doute, provoquer la réaction négative de la majorité Pachtoune de l’Afghanistan qui souhaite, avec insistance, que les régions tribales pachtounes, maintenues, actuellement, sous la souveraineté pakistanaise, soient annexées au territoire afghan», estime l’expert russe.

Le débat autour des problèmes frontaliers des deux pays s’est déclenché, suite à une réunion tripartite de haut niveau, il y a 10 jours, à New York, entre l’Afghanistan, le Pakistan et la Grande Bretagne, avec, pour thème phare, la signature de l’accord stratégique entre Kaboul et Islamabad. Depuis, cette question a ravivé le débat politico-médiatique, dans les deux pays voisins. Dans l’un comme l’autre des deux pays, ces milieux accordent une importance particulière à la coopération bilatérale, surtout, en matière de sécurité, qui pourrait se faire, de la meilleure manière, par la signature d’un accord de sécurité ; mais une coopération sûre et durable ne pourrait s’obtenir, selon eux, qu’une fois résolu le litige frontalier, et cela, d’ailleurs, dans un climat de confiance mutuelle. L’expert afghan, Javid Kouhestani, partage, aussi, cette vision, et pense que pour résoudre ces problèmes, les deux pays vont devoir essayer de créer un climat de confiance. «Durand est considérée comme une ligne hypothétique, sur fond des interactions politiques, en Afghanistan ; dans la littérature politique, elle est pourtant qualifiée de  »ligne imposée »», estime le spécialiste afghan des questions politiques, pour lequel, tout pays qui souhaite voir l’Afghanistan et le Pakistan établir des relations stratégiques bilatérales, devrait œuvrer, dans un premier temps, à un règlement de leurs différends.

Rappelons, en passant, que la Ligne Durand a été définie, en 1893, dans le cadre d’un traité signé, sous la gouvernance d’Abdurrahman Khan, avec Henry Mortimer Durand, diplomate et administrateur colonial, en Inde britannique. Avec l’indépendance de l’Inde vis-à-vis de son colonisateur britannique, et la création du Pakistan, le gouvernement afghan de l’époque ne reconnaît plus la ligne Durand et depuis, existe, toujours, entre l’Afghanistan et le Pakistan, un litige frontalier, qui devient parfois très sérieux. Disposant des antécédents coloniaux, dans le sous-continent indien, marqués par une ligne Durand toujours vivante, comme une source de tension, dans les relations Kaboul/Islamabad, les responsables londoniens font, de nouveau, leur entrée, sur la scène, pour imposer leur génie de structuration géopolitique, véhiculer leur influence et réaliser leurs plans susceptibles d’assurer les intérêts de l’Occident.

Pour ce faire, les Britanniques, mais aussi, et surtout, les Américains, ont leurs deux méthodes, qui consistent à nourrir l’insécurité et à diviser l’Afghanistan, en plusieurs secteurs. A ces méthodes, s’ajoutent, également, des analyses irréalistes des médias occidentaux, disant, à titre d’exemple, qu’une fois que les forces étrangères auront quitté l’Afghanistan, une guerre civile, en bonne et due forme, se déclenchera, dans ce pays. Et-il donc nécessaire de rappeler que tout cela vise à y justifier leur présence éternelle ? Les rapports publiés par les appareils de renseignement des pays occidentaux, dont l’Allemagne, ainsi que, par les sources otaniennes et les milieux sécuritaires et militaires états-uniens, donnent matière à réflexion, là où ils disent qu’un Afghanistan évacué des troupes étrangères sera, sans nul doute, gouverné par les Taliban. Dans le même cadre, le commandant adjoint des forces de l’OTAN, en Afghanistan, le Général britannique Adrian Bradshaw a lancé une mise en garde, quant à un retrait précipité des troupes étrangères du sol afghan. Parallèlement, le Département d’Etat américain a fait part de l’envoi, en deux groupes, de quelque 3.000 effectifs militaires, pour aider les forces de sécurité afghanes à assurer la transition, prévue vers la fin de l’année encours ou en début de l’année 2013.

Sur ce fond, le Président afghan, Hamid Karzaï, a demandé à son peuple de ne pas se laisser pas influencer par les médias étrangers. Il a qualifié d’inexactes, les analyses et les campagnes négatives élaborées par certains titres de la presse étrangère, au sujet de l’avenir de l’Afghanistan, et dire qu’à travers ces reportages à caractère, plutôt, sécuritaire, les médias occidentaux cherchent à réaliser leurs objectifs. Ces campagnes, Hamid Karzaï les considèrent comme faisant partie d’une guerre des nerfs et, en plus, pas très sérieuses. «On voit les médias occidentaux publier, chaque jour, des articles et analyses irréalistes, sur l’avenir de l’Afghanistan, une fois que les forces étrangères en seront sorties», dit également Hamid Karzaï, pour lequel la situation sécuritaire s’est, relativement, améliorée, et les événements fâcheux se sont réduits, dans le pays, depuis que les forces internationales ont commencé à confier les responsabilités sécuritaires aux forces afghanes.

La deuxième méthode prévue par le génie de géopolitique britannique destiné à l’Afghanistan consiste en la division de ce pays. Selon les médias, le ministère britannique des Affaires étrangères a rédigé un plan prévoyant la division de l’Afghanistan en 8 secteurs. Les Britanniques ont, également, élaboré, à l’intention des responsables américains et pakistanais, ce plan C, qui confie aux Taliban la gestion de certains de ces 8 futurs secteurs ou  »Velayats » du pays.

«La création d’une autorité locale placée sous gouvernance d’un Premier ministre puissant pourrait en finir avec la corruption d’Etat et les différends tribaux, en Afghanistan», selon ledit plan, qui confie la gestion de certains secteurs aux Taliban», précise Tobias Ellowd, député conservateur britannique, et de préciser ces 8 secteurs, à savoir : Kaboul, Kandahar, Herat, Balkh, Kunduz, Jalalabad, Khost et Bamian. Ce plan colonialiste, à cause de ses retombées imprévisibles, dont une division du pays, s’est heurté à de vives critiques, à l’intérieur de l’Afghanistan, du fait qu’il risque d’aggraver la crise interne. En fait, le plan de remplacement du régime souverainiste, en Afghanistan, par un Ordre fédéraliste, avait été élaboré, auparavant, par certains responsables américains, qui, en plus, ont organisé des réunions avec les groupes politiques opposés au gouvernement afghan. A son tour, le Président afghan, Hamid Karzaï, a, vivement, rejeté les plans et réunions de ce genre, qui constituent, selon lui, un cas flagrant d’ingérence, dans les affaires intérieures de son pays.

Pour leur part, les experts russes estiment que la stratégie américaine, en Afghanistan et en Asie centrale, s’inscrit dans le cadre du plan du Grand Moyen-Orient. Pour preuve : ils se réfèrent à certaines mesures américaines, en Afghanistan, et dans des pays centre-asiatiques, dont la construction d’une base, à Mazar-e -Sharif. Entre autres, Alexandre Kniazev estime que le premier objectif de la guerre américano-otanienne, en Afghanistan, consiste à insécuriser la région. «Nourrir l’insécurité, en Asie centrale et au Kazakhstan, est vital pour l’OTAN et les Etats-Unis. Les questions, dont on entend parler, depuis presque un an et demi, au sujet des changements géopolitiques à apporter, en Afghanistan, deviennent, donc, hyper-importantes, dans cette perspective», estime l’expert russe.

A en croire le Dr. Najibullah Lafraie, l’ancien ministre afghan des Affaires étrangères du gouvernement  Burhaneddin  Rabbani, et professeur à l’Université d’Otago, en Nouvelle Zélande, le plan C du ministère britannique des Affaires étrangères est conçu, en principe, pour assurer la bonne application des plans occidentaux, en Afghanistan. Pour rappel, une fois que le plan A stipulant un Afghanistan occupé ou influencé par les Etats-Unis aura commencé à montrer sa faiblesse, pour répondre aux attentes des Occidentaux, les consultations  commenceront, en vue d’élaborer un nouveau plan. Ainsi, un plan B a-t-il été élaboré, en 2010, par l’ancien ambassadeur américain, en Inde, Robert Blackwill, un plan qui prévoit le démembrement de l’Afghanistan, en deux secteurs : un secteur Nord, contrôlé par un gouvernement central stipendié, et un secteur Sud, confié aux Taliban. Ce plan reste, d’ailleurs, toujours, sur la table, pour la politique étrangère américaine. Sur ce fond, la vieille puissance colonialiste britannique continue de croire que pour assurer la réussite des plans de balkanisation de l’Afghanistan, il serait sage de réserver une bonne partie du gâteau à chacune des ethnies afghanes ; cette thèse reste, ainsi, à l’origine du plan C britannique, pour l’avenir de ce pays.

Les nouvelles, sur l’élaboration de ce plan, ont fait réagir le Porte-parole du ministère afghan des Affaires étrangères, Janan Mosazai, qui regrette de l’avoir entendu. «Le monde ne manque pas, dirait-on, de gens absurdes, et ceux qui avancent ces plans semblent dépourvus d’une bonne santé mentale», affirme le porte-parole du ministère afghan des Affaires étrangères, et d’ajouter que les Afghans ont défendu, durant des décennies, en sacrifiant leur vie et en versant leur sang, la souveraineté nationale de leur pays ; la solidarité nationale des Afghans est, ainsi, restée intacte, selon ses dires, même, aux moments les plus obscurs et les plus tristes de l’histoire de l’Afghanistan.

Die weiteren Auswirkungen des syrischen Krieges bedrohen einen fragilen Irak

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Die weiteren Auswirkungen des syrischen Krieges bedrohen einen fragilen Irak

von Tim Arango, Bagdad

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

Nur neun Monate, nachdem die amerikanischen Streitkräfte ihre lange und kostspielige Besetzung hier [im Irak] beendeten, stellt der Bürgerkrieg in Syrien Iraks fragile Gesellschaft und seine noch junge Demokratie auf die Probe, verschlimmert die konfessionellen Spannungen, treibt den Irak näher an Iran und wirft ein Schlaglicht auf die Sicherheitsdefizite.
Aus Furcht, dass sich irakische Aufständische mit Extremisten in Syrien zusammenschliessen, um einen Zweifrontenkrieg für eine sunnitische Vorherrschaft zu führen, befahl Premierminister Nuri Kamal al-Maliki vor kurzem Wachen an die westliche Grenze, um erwachsene Männer, selbst Ehemänner und Väter mit Familien im Schlepptau, daran zu hindern, zusammen mit Tausenden von Flüchtlingen, die dem aufreibenden Krieg nebenan zu entkommen suchen, in den Irak zu kommen.
Weiter nördlich haben irakische Behördenvertreter eine andere Sorge, die auch mit den Kämpfen jenseits der Grenze in Zusammenhang steht. Türkische Kriegsflugzeuge haben ihre Angriffe auf die Verstecke kurdischer, durch den Krieg in Syrien aufgerüttelter Aufständischer in den Bergen, intensiviert, was die Unfähigkeit des Irak zur Kontrolle seines eigenen Luftraums unterstreicht.
Die Verhärtung der Positionen der Widersacher in Syrien – die im ganzen Irak widerhallen – wurde bei den Vereinten Nationen deutlich, als der neue Sondergesandte für Syrien, Lakhdar Brahimi, dem Sicherheitsrat eine trostlose Beurteilung des Konflikts abgab und sagte, er sehe keine Aussicht auf einen Durchbruch in absehbarer Zukunft.
Die übergreifenden Auswirkungen des syrischen Krieges haben die Aufmerksamkeit auf für amerikanische Beamte unangenehme Realitäten gelenkt: Trotz nahezu neun Jahren militärischen Engagements – ein Einsatz, der heute mit einem Waffenverkaufsprogramm von 19 Milliarden Dollar weitergeführt wird – ist die Sicherheitslage im Irak zweifelhaft und sein Bündnis mit der theokratischen Regierung in Teheran wird stärker. Die schiitisch dominierte Führung des Irak ist derart beunruhigt über einen Sieg der sunnitischen Radikalen in Syrien, dass sie sich Iran angenähert hat, der ein gleichartiges Interesse mit der Unterstützung des syrischen Präsidenten Bashar al-Assad verfolgt.
Es gibt bereits Anzeichen dafür, dass sunnitische Aufständische im Irak versucht haben, sich mit syrischen Kämpfern zu koordinieren, um einen regionalen konfessionellen Krieg in Gang zu setzen, wie irakische Stammesführer berichteten.
«Kämpfer von Anbar gingen dorthin, um ihre Konfession, die Sunniten, zu unterstützen», sagte Scheich Hamid al-Hayes, ein Stammesführer in der Provinz Anbar im westlichen Irak, der einst eine Gruppe ehemaliger Aufständischer führte, welche die Seiten wechselten und sich den Amerikanern bei der Bekämpfung von al-Kaida im Irak anschlossen.
In Reaktion darauf haben die Vereinigten Staaten versucht, ihre Interessen im Irak abzusichern. Sie haben auf den Irak erfolglos Druck ausgeübt, dass er Flüge aus Iran aufhält, die irakischen Luftraum durchqueren und mit denen Waffen und Kämpfer zum Assad-Regime befördert werden, obwohl laut einem Bericht von The Associated Press ein Regierungssprecher am Wochenende sagte, der Irak würde mit stichprobenartigen Durchsuchungen iranischer Flugzeuge beginnen.
Während einige Führer des Kongresses gedroht haben, die Hilfe an den Irak einzustellen, wenn die Flüge nicht aufhörten, versuchen die Vereinigten Staaten ihre Waffenverkäufe an den Irak zu beschleunigen, um ihn als Verbündeten zu halten, wie Generalleutnant Robert L. Caslen Jr., der für diesen Einsatz zuständige Kommandant, sagte. Im Zuge der Verschlechterung der Sicherheitslage fällt es den Vereinigten Staaten schwer, Waffen – vor allem Luftabwehrsysteme – schnell genug zu liefern, um die Iraker zufriedenzustellen, die sich in einigen Fällen anderswo umsehen, vor allem in Russland.
«Obwohl sie eine strategische Partnerschaft mit den Vereinigten Staaten wollen, erkennen sie die Schwachstelle und haben ein Interesse daran, mit dem Staat mitzugehen, der in der Lage ist zu liefern und ihren Bedarf, die Lücke in ihren Fähigkeiten, so schnell wie möglich zu schliessen», sagte General Caslen, der hier ein der amerikanischen Botschaft unterstelltes Büro des Pentagon leitet, das Waffenverkäufe an den Irak vermittelt.
Die Vereinigten Staaten versorgen den Irak mit überholten Flakgeschützen, gratis, aber sie werden nicht vor Juni [2013] eintreffen. In der Zwischenzeit haben die Iraker Raketen aus der Zeit des Kalten Krieges gesammelt, die auf einem Schrottplatz einer Luftwaffenbasis nördlich von Bagdad gefunden wurden, und versuchen nun, sie funktionsfähig zu machen. Irak verhandelt mit Russland über den Kauf von Luftabwehrsystemen, die viel schneller geliefert werden könnten als die von den Vereinigten Staaten abgekauften.
«Der Irak erkennt, dass er seinen Luftraum nicht kontrolliert, und sie sind sehr empfindlich darauf», so General Caslen. Jedes Mal, wenn ein türkischer Kampfflieger in den Luftraum des Irak eindringt, um kurdische Ziele zu bombardieren, sagte er, würden irakische Beamte «das sehen, sie wissen es, und sie nehmen das übel».
Iskander Witwit, ein ehemaliger Offizier der irakischen Luftwaffe und Mitglied des Sicherheitsausschusses des Parlamentes, sagte: «So Gott will, werden wir den Irak mit Waffen rüsten, die in der Lage sind, diese Flugzeuge abzuschiessen.»
Das amerikanische Militär zog Ende letzten Jahres ab, nachdem Verhandlungen über eine verlängerte Truppenpräsenz scheiterten, weil die Iraker einer Verlängerung der rechtlichen Immunität für irgendeine verbleibende Macht nicht zugestimmt hätten. Als die Amerikaner gegangen waren, feierte der Irak seine Souveränität, während sich Militärvertreter in beiden Ländern über die Mängel des irakischen Militärs ärgerten und nach Wegen der Zusammenarbeit suchten, die keine öffentliche Debatte über Immunitäten erforderten.
Der Irak und die Vereinigten Staaten sind dabei, ein Abkommen auszuhandeln, das zur Rückkehr von kleinen Einheiten amerikanischer Soldaten in den Irak für Ausbildungseinsätze führen könnte. Auf Ersuchen der irakischen Regierung, so General Caslen, wurde kürzlich eine Einheit von Soldaten für «Special Operations» der Armee in den Irak verlegt, um in Terrorbekämpfung zu beraten und mit Geheimdienstinformationen zu helfen.
Demnach sucht das Land – auch wenn es sich enger an Iran anlehnt und beabsichtigt, Waffen von Russland zu kaufen – immer noch die militärische Unterstützung der Vereinigten Staaten. Dies, weil der Irak noch immer mit einer starken Aufstandsbewegung konfrontiert ist, deren häufige Angriffe Fragen darüber aufgeworfen haben, ob die Terrorbekämpfungstruppen des Irak fähig sind, sich einer solchen Bedrohung zu stellen.
In Anbar, so der Stammesführer Hayes, haben Aufständische unter dem Namen Freie Irakische Armee Einheiten gebildet, die mit al-Kaida verbunden sind, womit sie das Banner nachahmen, unter dem die syrischen Sunniten kämpfen. «Sie treffen sich und betreiben Rekrutierung», sagte er. Die Gruppe hat auch einen Account bei Twitter und eine Facebook-Seite.
Ähnliche Einheiten sind in der Provinz Diyala entstanden, und sie haben laut lokalen Beamten einen Ruf zu den Waffen in Syrien als Rekrutierungsinstrument genutzt. Wenn Kämpfer in Syrien sterben, werden Beerdigungen von den örtlichen Familien im geheimen abgehalten, um die schiitisch dominierten Sicherheitskräfte nicht darauf aufmerksam zu machen, dass sie ihre Söhne nach Syrien geschickt haben. Laut einem lokalen Geheimdienstmitarbeiter wurde ein solches Begräbnis vor kurzem unter dem Vorwand durchgeführt, dass der gefallene Kämpfer bei einem Autounfall ums Leben gekommen sei und nicht, wie es tatsächlich war, in Kämpfen in Aleppo.
Während westliche Politiker eine Intervention in Syrien erwägen, beunruhigt sie auch, dass der Krieg des Landes zu einem ausgewachsenen konfessionellen Konflikt werden könnte wie derjenige, der den Irak von 2005 bis 2007 verschlang. Für die Iraker, die damals nach Syrien flohen und die nun zurückkehren – nicht freiwillig, sondern um ihr Leben zu retten – ist Syrien bereits der Irak.
«Es ist genauso, wie es im Irak war», schilderte Zina Ritha, 29, die nach mehreren Jahren in Damaskus nach Bagdad zurückkehrte. Zur Freien Syrischen Armee (F.S.A.) meinte Zina Ritha: «Die F.S.A. zerstört Häuser der Schiiten. Sie entführen Menschen, vor allem Iraker und Schiiten.»
Unlängst an einem Morgen besuchten Zina Ritha und ihre Schwiegermutter ein hiesiges Zentrum für Rückkehrer, wo Familien eine Zahlung von vier Millionen irakischen Dinars oder rund 3400 Dollar von der Regierung erhalten. Die Leute im Zentrum sagen, dass es für Iraker in Syrien keine Sicherheit gebe: Schiiten werden von Rebellen angegriffen, Sunniten von den Regierungskräften. Und jederzeit können sie ins Visier genommen werden, einfach weil sie Ausländer sind.
Abdul Jabbar Sattar, ein alleinstehender Mann in den 40ern, ist Sunnit. Nach einem Bombenanschlag im Juli in Damaskus, bei dem mehrere hochrangige Sicherheitsbeamte ums Leben kamen, litt sein Wohnviertel unter Beschuss rund um die Uhr. Er kehrte mit einem Satz Kleider und wenig Geld in den Irak zurück, da er auf der Flucht ausgeraubt wurde.
«Es ist die gleiche Lage, wie sie früher im Irak war», sagte er. «Jeder hat Angst vor dem anderen.»    •

Zum Bericht beigetragen haben Duraid Adnan, Yasir Ghazi und Omar al-Jawoshy von Bagdad, und ein Angestellter der The New York Times aus der Provinz Diyala.

Quelle: The New York Times vom 24.9.2012
(Übersetzung Zeit-Fragen)

mardi, 16 octobre 2012

La Turquie à la croisée des chemins

La Turquie à la croisée des chemins : du « zéro-problème » au maximum d’ennuis

par Ramzy Baroud 

 
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Le consensus dans la presse a été général, ou du moins est-ce ce qui parait : la Turquie est imbriquée dans un désordre au Moyen-Orient qui n’est pas de son fait, alors que son « Zéro problème avec les voisins » – un moment la pièce maîtresse de la politique étrangère du Parti de la Justice et du Développement (AKP) – s’est avérée être une notion romantique de peu d’utilité en realpolitik.

Le but de la politique étrangère de la Turquie, « construire les liens forts économiques, politiques, et sociaux avec les voisins immédiats du pays tout en diminuant sa dépendance envers les États-Unis semblait être en vue, » écrivait Sinan Ulgen presque il y a presque un an. « Mais le Printemps arabe a exposé les vulnérabilités de la politique, et la Turquie doit maintenant chercher un nouveau principe directeur pour son engagement régional. »

Cette analyse n’était pas isolée et elle a été reprise de nombreuses fois. Elle suggère une certaine naïveté dans la politique étrangère turque et fait apparaître ses ambitions régionales comme désintéressées. Elle imagine également que la Turquie a été rattrapée par une série d’événements fâcheux, lui forçant la main pour agir de manière contradictoire avec ce qui devrait être sa véritable politique. Cette vision des choses n’est pas tout à fait exacte.

Les escarmouches récentes entre la Syrie et la Turquie qui ont commencé le 4 octobre, par des tirs d’obus de mortier depuis le côté syrien et qui ont coûté la vie à 5 personnes, dont 3 enfants, ont été « le dernier sang versé par la Turquie ». L’agence de presse turque Anadolu a rapporté les excuses syriennes officielles par le canal des Nations Unies peu après le bombardement, et le gouvernement syrien a promis une enquête, dont le sérieux demeure douteux. Mais les militaires turcs ont rapidement exercé des représailles, alors que le parlement venait de voter la prolongation d’une année le mandat qui leur permet d’exécuter des opérations trans-frontalières. Indépendamment de la violence à la frontière de la Syrie, ce mandat visait à l’origine les combattants kurdes du nord de l’Irak et il avait été déjà inscrit pour un vote mi-octobre.

L’évolution de la situation semble singulièrement irréelle. Il y a peu de temps encore, le Premier Ministre Turc Recep Tayyip Erdogan avait pris l’initiative d’un rapprochement avec la Syrie et l’Iran, au mécontentement d’Israël et des États-Unis. Il s’était référé au Président Syrien Bashar Al-Assad comme à « un frère », sachant bien toutes les implications politiques du terme employé. Quand la Turquie a voté contre des sanctions à l’égard de l’Iran aux Nations Unies en juin 2010, « elle a provoqué une crise, » selon un article du Wall Street Journal. Plus tard, la Turquie s’était disputée avec l’OTAN au sujet de l’initiative d’un nouveau système de missiles qui vise clairement l’Iran et la Syrie. « La Turquie est le opt-out [le participant qui se désengage - N.dT] de l’Alliance dans les pays Musulmans, » disait le même journal. Ces développements se produisaient dans la foulée de l’incursion militaire israélienne meurtrière contre le bateau turc Mavi Marmara, qui transportait de nombreux militants pacifistes turcs dans le cadre d’une initiative plus large – La Flotille de la Liberté de Gaza – destinée à briser le siège sur Gaza. Israël a assassiné 9 civils turcs et en a blessé beaucoup d’autres.

Erdogan comme d’autres officiels turcs, s’était élevé au rang de superstar parmi les peuples arabes, au moment ou justement l’un d’eux évinçait le Président égyptien Hosni Mubarak, lui-même complice dans le siège de Gaza. Tout naturellement, l’AKP devint un modèle politique, le sujet de débats universitaires sans fin ou à la télévision. Même culturellement et économiquement, la Turquie représentait alors une particularité dont il fallait débattre.

À l’intérieur, Erdogan et son parti étaient crédités d’une croissance économique massive et d’avoir su la gérer, et d’avoir pu – dans le cadre d’un système démocratique à présent contrôlé par des civils élus – mettre au pas un état-major militaire qui avait toujours été enclin aux coups d’État. À l’extérieur, Erdogan et son Ministre des Affaires Étrangères Ahmet Davutoglu, avaient réussi à partiellement briser l’isolement de la Turquie vis-à-vis de plusieurs dirigeants arabes, dont le libyen Mouammar Kaddafi. (Les dirigeants turcs s’étaient tout à fait rendus compte des récriminations des peuples arabes tandis qu’ils concluaient des contrats valant des milliards de dollars avec les dictateurs mêmes qu’ils ont aidé à évincer, ou encouragé à ce qu’ils soient renversés.) Bien que la sérieuse dispute d’Ankara avec Tel Aviv n’ait pas entraîné de changement côté israélien ou américain envers les Palestiniens, il y eut un sentiment de réelle satisfaction que, enfin, un pays assez fort comme la Turquie ait eu le courage de s’opposer à l’intransigeance et aux insultes israéliennes.

Puis la Tunisie renversa son président, et les cartes de la politique étrangère de la Turquie ont été mélangées comme jamais auparavant. Si les États-Unis, la France et d’autres pouvoirs occidentaux étaient en pleine contradiction dans leurs positions concernant les soulèvements, les révolutions et les guerres civiles qui ont traversé le Moyen-Orient et l’Afrique Du Nord ces 18 derniers mois, la politique étrangère de la Turquie fut particulièrement embrouillée.

Tout d’abord, la Turquie répondit d’une façon qui paru distante avec de brefs discours au sujet des droits, de la justice et de la démocratie des peuples. En Libye, les enjeux étaient plus élevés car l’OTAN était acharnée à contrôler les implications des révoltes arabes toutes les fois que cela lui était possible. La Turquie fut le dernier membre de l’OTAN à se joindre la guerre contre la Libye. Le délai s’est avéré coûteux car les médias arabes qui poussaient à la guerre s’en sont pris à la réputation et à la crédibilité de la Turquie.

Quand les Syriens se sont rebellés, la Turquie était cette fois prête. Elle s’appliqua à prendre très tôt l’initiative d’appliquer ses propres sanctions à Damas. Puis elle alla encore plus loin en refusant de voir que sa zone frontalière autrefois si bien gardée, se retrouvait inondée par la contrebande, le transport d’armes et les combattants étrangers. En plus d’accueillir le Conseil National de la Syrie, elle a également fourni un asile sûr à l’Armée Libre de la Syrie, qui a lancé sans aucun frein ses attaques depuis la frontières turque. Tandis que tout cela était justifiée au nom de la lutte contre l’injustice, c’était en fait une des principales raisons qui ont mis une solution politique hors de portée. La Turquie a transformé un conflit ensanglanté et brutal en une véritable lutte régionale. Le territoire syrien s’est retrouvé exploité pour un conflit indirect impliquant divers pays, camps politiques et idéologies. Et comme la Turquie est un membre de l’OTAN, cela signifiait que l’OTAN était aussi impliquée dans le conflit avec la Syrie, même si c’est d’une manière moindre que lors de sa guerre contre la Libye.

Naturellement, la dimension kurde dans le rôle de la Turquie en Syrie est énorme. Il est plus rarement mentionné dque la Turquie s’active en permanence à contrecarrer n’importe quel contrecoup venant des Kurdes dans la région du nord-est de la Syrie, qui risquent d’ouvrir un nouveau front, le premier étant grande partie confiné au nord de l’Irak. Écrivant dans le quotidien turc Zaman, Abdullah Bozkurt a parlé « d’une stratégie hautement risquée pour la Turquie, qui veut contrôler les rapides développements en Syrie du nord grâce aux services du Gouvernement Régional du Kurdistan dans l’Irak voisin, afin d’éviter d’être directement impliquée en Syrie. » De plus, Ankara a discrètement fait pression sur le SNC pour que celui-ci adopte une posture plus favorable vis-à-vis de la question kurde. Bozkurt a aussi rapporté que « Ankara a en toute discrétion poussé le SNC à élire en juin un indépendant kurde, Abdulbaset Sieda, en tant que dirigeant de compromis… afin que la Turquie puisse exercer son influence sur les environ 1,5 millions de Kurdes en Syrie. »

En effet, le ainsi-nommé Printemps arabe a rendu confuse la politique étrangère turque à l’égard des pays arabes, et même vis-à-vis de l’Iran, bien qu’il ait ensuite entraîné sa redéfinition. La Turquie était plutôt passive avant ou après les bouleversements. L’impression que la Turquie était restée en retrait et que les affrontements à sa frontière sud ont finalement poussé Ankara à s’impliquer, est cependant incorrecte et trompeuse. Indépendamment de la façon dont les politiciens turcs souhaitent justifier leur participation aux conflits, il n’y a aucune échappatoire possible au fait qu’ils ont participé à la guerre contre la Libye et qu’ils sont maintenant empêtrés, dans une certaine mesure volontairement, dans le brutal désordre qui règne en Syrie.

La triste ironie est que quelques heures après que la Turquie ait exercée des représailles aux tirs d’obus par la Syrie, le ministre israélien Dan Meridor se soit autorisé à déclarer aux journalistes à Paris qu’une attaque contre la Turquie était une attaque contre l’OTAN – manifestation sournoise d’une solidarité calculée. Il a ajouté que « si le régime d’Assad devait tomber, ce serait un coup déterminant contre l’Iran. » Avigdor Lieberman, le ministre israélien des Affaires Étrangères avait du mal à cacher son excitation, car ce que les néoconservateurs américains ont du mal à accomplir est maintenant mis en œuvre par procuration. Lieberman – pas vraiment ce que l’on peut appeler un visionnaire – a prédit l’irruption « d’un Printemps persan » qui selon lui, doit être soutenu. Pour Israël et les États-Unis, maintenant que la Turquie est embarquée pour de bon, les possibilités sont sans fin.

Ankara doit reconsidérer son rôle dans cette calamité qui ne cesse de s’aggraver et adopter une politique plus raisonnable. La guerre ne devrait pas être à l’ordre du jour. Trop de gens ont déjà été tués.

Ramzy Baroud (http://www.ramzybaroud.net), un journaliste international et directeur du site PalestineChronicle.com. Son dernier livre, Mon père était un combattant de la liberté : L’histoire vraie de Gaza (Pluto Press, London), peut être acheté sur Amazon.com. Son livre, La deuxième Intifada (version française) est disponible sur Fnac.com

lundi, 15 octobre 2012

Une nouvelle doctrine américaine : contenir l’Eurasie par le chaos

Pierre DORTIGUIER:

Une nouvelle doctrine américaine : contenir l’Eurasie par le chaos

 
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Le magazine texan Stratfor que nous citons, et auquel nous renvoyons, The Emerging Doctrine of the United States | Stratfor est un thermomètre de la température américaine et vise surtout à préparer l’opinion à distinguer entre les intérêts apparents et réels des Etats-Unis, à court et à long terme, ; il n’est donc pas destiné à un très vaste public, ni non plus formellement confidentiel, mais répond aux questions des élites déconcertées par le tapage médiatique « à usage de l’Américain moyen »

« Au cours de la fin de semaine dernière, des rumeurs ont commencé à émerger que l’opposition syrienne permettrait  à des  éléments  du « régime d’Assad » (sic)  à rester en Syrie et de participer au nouveau gouvernement. …  Ce qui se passe en Syrie est importante pour une nouvelle doctrine étrangère émergente aux États-Unis – une doctrine selon laquelle  les États-Unis ne prennent pas la responsabilité principale des événements, mais qui permet  aux crises régionales de se déployer jusqu’à ce qu’un nouvel équilibre régional soit  atteint. »

Le magazine simplifie volontairement, par souci de pédagogie la formule géopolitique U.S, en insistant sur  ses « intérêts fondamentaux » », à savoir e que assure la base de la prospérité américaine : « cela se résume à l’atténuation des menaces contre les Etats-Unis par le contrôle des mers  en empêchant l’émergence d’une puissance eurasienne qui serait en mesure de mobiliser des ressources à cette fin. Cette nouvelle doctrine consiste « à empêcher le développement d’une substantielle puissance nucléaire intercontinentale qui pourrait menacer les Etats-Unis, au cas où un pays ne serait pas découragé par la puissance américaine pour un motif quelconque. »

Dans cette perspective de maintien de supériorité « l’intérêt américain pour ce qui se passe dans le Pacifique est compréhensible .Mais même là les Etats-Unis, du moins pour l’instant, laissent les forces régionales s’engager dans une lutte qui n’a pas encore affecté l’équilibre régional de la puissance des Alliés américains, et les mandataires de cette puissance, comprenant les Philippines, le Viêt-Nam et le Japon ont été joué aux échec des les mers de cette région »  –sous entendu contre la Chine, et l’on notera que le Viêt-Nam est dans la sphère politique antichinoise depuis sa dernière lutte frontalière, au mépris des sacrifices nationaux antérieurs !- »sans une imosition directe de la puissance navale américaine, même si une telle perspective », conclut Stratfor Global Intelligence, « semble possible » !

Viennent maintenant les leçons que les Américains auraient tiré des derniers engagements ! la campagne d’Irak et la résistance irakienne ont conduit au retrait des forces US et l’iran y aurait gagné une plus grande puissance et un sentiment de sécurité.

La campagne libyenne est présentée –avec une certaine hypocrisie- comme une initiative française et aurait été  plus difficile, voire un échec, sans le soutien de l’aviation US.

La guerre syrienne, naturellement justifiée par l’influence croissante de l’Iran, et visant moins un Etat que ses relations étrangères avec l’Iran, la Russie et la Chine amène à  préciser cette nouvelle politique ; le conflit est régional, les Alliés des Américains sont chargés de l’entretenir, même sans arriver à une solution radicale, et l’auteur Friedmann raconte qu’il a exposé ceci à ses interlocuteurs d’Asie centrale qui espéraient voir un engagement plus net des forces US !

Les conséquences en sont une poursuite indéfinie de la lutte intestine en Syrie et une pression continue sur l’Iran, dans laquelle l’arme économique prime sur tout affrontement utopique militaire.  Ce qu’il importe est de bien lire la conclusion de l’analyse, qui montre que les Etats-Unis sont  eux-mêmes dirigés par une force occulte qui veut l’affrontement général en négligeant les embrasements locaux.
Il s’agit de tester la force de la puissance émergente russo-chinoise !

«  Cela a forcé la fois le régime syrien et les rebelles de reconnaître l’improbabilité d’une victoire militaire pure et simple. Tant le soutien de l’Iran au régime et les diverses sources de soutien à l’opposition syrienne se sont révélés  indécis. Les rumeurs d’un compromis politique émergent en conséquence.

Dans le même temps, les États-Unis ne sont pas prêts à s’engager dans une guerre avec l’Iran, ni prêts  à souscrire à l’attaque israélienne en l’accompagnant de leur soutien avec le soutien militaire . Les USA utilisent  un moyen efficace de pression – des sanctions – qui semblent  avoir eu un certain effet par  la dépréciation rapide de la monnaie iranienne . Mais les Etats-Unis ne cherchent pas à résoudre la question iranienne, il n’est pas prêt à assumer la responsabilité principale, sauf si l’Iran devient une menace pour les intérêts fondamentaux des États-Unis. Il se contente de laisser les événements se dérouler et à n’agir que s’ il n’y a pas d’autre choix

Les Etats-Unis ne sont pas prêts à intervenir par la force militaire conventionnelle.

Cela ne signifie pas que les États-Unis se désengagent  de la scène mondiale. Ils contrôlent  les océans du monde et génèrent  près d’un quart du PNB mondial du produit intérieur. Alors que le désengagement est impossible, l’ engagement contrôlé, basé sur une compréhension réaliste de l’intérêt national, est possible.

Cela va bouleverser  le système international, en particulier celui des alliés américains. Il créera également des contraintes aux États-Unis à la fois de la gauche politique, qui se veut une politique étrangère humanitaire, et le droit politique, qui définit l’intérêt national au sens large. Mais les contraintes de la dernière décennie pèsent  lourdement sur les Etats-Unis et vont donc changer la façon dont le monde fonctionne.

Le point important est que personne ne décide cette nouvelle doctrine. Il émerge de la réalité à laquelle les  Etats-Unis sont confrontés. C’est la force des  de doctrines qui se font jour. Elles se manifestent d’abord et sont annoncés quand tout le monde se rend compte que c’est comme ça que les choses fonctionnent. »

Une fois cette leçon de la Stratfor bien lue, une question se pose : qui dirige la politique US, l’intérêt national capitaliste-come partout, avec ses limites et ses confrontations  ou une politique impériale qui prend les Etats-Unis pour écran et vise à non pas bâtir un ordre, mais régler un désordre général, la maintenir par sa théorie du chaos minimum, abattre un adversaire fort, plutôt qu’imposer la puissance qu’elle n’a pas ? A cet égard, une alliance avec les USA est un chèque en blanc donné à un inconnu !

Pierre Dortiguier

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Mikhail Fomitchew

 
otan-turquie-copie-1.jpgLaut dem Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen ist die Nordatlantikallianz bereit, die Türkei zu schützen, falls dies notwendig sein sollte, und hat eine solche Maßnahme bereits geplant.

„Wir haben die notwendigen Pläne, um die Türkei nötigenfalls zu schützen“, so Rasmussen zu Journalisten vor der Eröffnung eines zweitägigen Treffens der Verteidigungsminister der 28 Nato-Mitgliedsländer.

Der Nato-Rat erörterte bei einem Treffen auf Botschafterebene am 4. Oktober den Beschuss eines Grenzterritoriums der Türkei durch die syrische Armee und verurteilte diesen Zwischenfall entschieden.

Gemäß dem Artikel 4 des Washingtoner Vertrages kann jedes Mitglied der Allianz um Konsultationen bitten, wenn seine territoriale Integrität, politische Unabhängigkeit oder Sicherheit gefährdet werden.

Zuvor hatte ein Gesprächspartner von RIA Novosti im Nato-Hauptquartier versichert, dass die Anwendung des Artikels 5 des Washingtoner Vertrages, der eine Antwort der Nato im Falle einer Aggression gegen eines der Mitgliedsländer dieses militärpolitischen Blocks vorsieht, bei dem Treffen nicht erwähnt worden sei. Der Artikel 5 wurde lediglich einmal - nach den Terroranschlägen auf die USA  am 11. September 2001 - angewendet.

Die Nato und die Uno forderten bei diesem Treffen von Syrien, jegliche Aggressionsakte gegen die Türkei  unverzüglich einzustellen. Die syrischen Behörden drückten ihrerseits den hinterbliebenen Familien der Toten ihr Beileid aus und erklärten, dass sie zu diesem Zwischenfall ermitteln.

Der Konflikt zwischen Syrien und der Türkei spitzte sich zu, nachdem vom syrischen Territorium abgefeuerte Artilleriegeschosse im Distrikt Aksakal im Südosten der Türkei explodiert waren. Im Ergebnis kamen fünf Menschen ums Leben und elf weitere wurden verletzt. Als Antwort auf den Beschuss führte die Türkei Schläge gegen das syrische Gebiet, von wo aus das Feuer geführt wurde.

Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen hatte zuvor mehr als einmal betont, die Allianz habe nicht die Absicht, sich in den syrischen Konflikt einzumischen.
 
 
 
 

dimanche, 14 octobre 2012

Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.

  
 

Enrique Ravello:
Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.
Chipre debe su nombre a la palabra latina aes Cyprium (metal de Chipre) en referencia al cobre, metal de gran importancia en la Antigüedad y del que la isla contaba con numerosos yacimientos. Esto, unido a su posición estratégica entre Europa Asia y África, ha hecho que desde los primeros tiempos de la Historia, Chipre haya sido un lugar de conflicto y conquistas entre las potencias de la zona. Siendo ocupada sucesivamente por civilizaciones africanas (egipcios) asiáticas (asirios) y europeas (minoico-micénicos y helenos) hasta pasar a formar parte del Imperio romano en el año 57 a. C. Allí predicaron San Pablo y San Barnabé y Chipre fue el primer lugar del mundo gobernado por un cristiano, aún formando parte del Imperio romano. La romanización de Chipre, supuso le llegada de administradores romanos, pero la mayoría de población siguió siendo de origen helénico establecida allí desde tiempos de Micenas y reforzada tras la invasión de la isla por Alejandro Magno en 331 a. C.
Tras la caída de Roma, la isla fue motivo de constantes disputas entre Bizancio (Imperio romano de Oriente) y los árabes. Siendo conquistada por los cruzados al mando de Ricardo Corazón de León en 1192, quien se llegó a coronar como Rey de Chipre. En las disputas mediterráneas, pasó a formar parte de la Serenísima República de Venecia en 1489 hasta que cayó definitivamente en manos tucas en 1570. Señalar que durante todos estos siglos la composición étnica de la isla se mantuvo estable, hablándose el griego en la totalidad del territorio. La llegada de los otomanos impuso una administración turca, grupos de greco-chipriotas empezaron a formar parte de la misma, varios de ellos se convirtieron al islam para no pagar los impuestos que se encargaban de recaudar al resto de la población, y se familiarizaron con el uso de la lengua turca: éste es el origen de los primeros turco-chipriotas, es decir helenos convertidos al islam, formando parte de la administración otomano y usando el turco también como lengua familiar.
La ocupación otomana terminó en 1878 cuando tras el Congreso de Viena, Chipre pasó a ser un dominio británico, con la categoría de colonia desde 1914. La población chipriota, anhelaba no la independencia de la isla sino la llamada enosis (unión a Grecia), aspiración mayoritaria aún hoy entre la mayoría greco-chipriota En Chipre es imposible ver la bandera de la isla si no es acompaña de la griega –incluso en edificios oficiales- y muy frecuentemente de una amarilla con águila negra, que es la del antiguo Imperio bizantino.  En los años posteriores de la Segunda Guerra Mundial, la enosis es liderada por el famoso arzobispo Makarios, que sería deportado a  las islas Seychelles por los británicos.
Es en 1960 cuando Reino Unido, Grecia y Turquía llegan a un acuerdo que declara independiente la isla, pero mantiene la posesión británica de varias bases militares. Una de las condiciones que puso Londres para esta independencia fue prohibir constitucionalmente la unión de Chipre con Grecia. La constante británica de evitar la creación e grandes Estados en Europa que puedan convertirse en potencias locales. De haberse unido Chipre y Grecia en ese momento, seguramente se hubiera evitado la posterior invasión turca del norte de la isla.
 
Turquía ocupa el norte de Chipre. Limpieza étnica y expolio del patrimonio greco-chipriota
En 1974 hay un golpe pro-griego en Chipre apoyado por la “Dictadura de los coroneles” desde Grecia cuya finalidad era incorporar Chipre al Estado heleno. Este hecho provocó la reacción turca, que invadió militar m ente el norte de la isla, proclamando unilateralmente la República Turca del Norte de Chipre (RTNC), estado no reconocido por ningún otro país, excepto la propia Turquía y la Conferencia Islámica. Casi 40 años después, del aquel golpe y de la dictadura de los coroneles sólo queda el recuerdo, sin embargo el norte de Chipre sigue ocupado militarmente por Ankara y esa autoproclamada RTNC se mantiene detrás de una frontera militar que el ejército turco ha trazado para defenderla.
 
El pasado 29 de septiembre tuve la oportunidad de visitar la zona junto a una delegación del Parlamento europeo compuesta por miembros del FPÖ, el VB y el Front National. Visita que sirvió para comprobar in situ la realidad de la isla, y de la limpieza étnica y expolio del patrimonio que se lleva desde la zona turca. La vista empezó en la Fundación Makarios III –el nombre del arzobispo al que hemos hecho referencia anteriormente- allí se exhibe una magnífica colección de iconos que se han logrado recuperar recientemente. Todos ellos provienen de iglesias greco-ortodoxas que en 1974 quedaron en zona turca, las iglesias fueron abandonas y sus murales e iconos bizantinos despedazados por los turcos para ser vendidos por mercaderes de arte en circuitos ilegales; el gobierno greco-chipriota pudo descubrir este expolio y recuperar gran parte de estos tesoros iconográfico que ahora son exhibidos en un museo a cargo de la mencionada fundación. La vista continúo con la recepción oficial por parte del obispo de Kernia (Karinia), cuya diócesis esta de pleno en zona turca donde tiene prohibida la entrada; él –como la mayoría de fieles de su diócesis- vive en la zona griega tras haber sido expulsados por los turcos de sus hogares y de sus iglesias, ejemplo de fe y voluntad, no dan por perdida su tierra y sueñan con volver allí cuando Chipre esté reunificado y pacificado.

Fresco bizantino roto por los turcos
Finalmente en varios coches particulares atravesamos la frontera militar que separa la zona de ocupación turca del resto de la isla. Allí pudimos comprobar cómo las iglesias y cementerios ortodoxos habían sido abandonados y profanados por los turcos. Vimos también como entre la población local los antiguos turco-chipriotas son una minoría, el grueso de la misma la constituyen turcos venidos del interior de Anatolia. Históricamente los turcófonos eran poco más del 10% de la población distribuida por toda la isla, hoy son el 18% todos concentrados en el norte, mientras que los griegos que históricamente también poblaban esa parte norte fueron expulsados en 1974.  Hoy la zona turca vive exclusivamente de las subvenciones mensuales que reciben todos sus habitantes directamente del gobierno turco, sin que tengan la más mínima producción ni actividad económica. El Gobierno de Ankara ha decidido colonizar la zona con la gente más pobre y atrasada de su país y para ello necesita subvencionarlos constantemente; ni que decir tiene que una de las primeras víctimas de este proceso de limpieza étnica y colonización han sido los propios turco-chipriotas anteriores a 1974 hoy concentrados en el norte y convertidos en una minoría respecto a los turco-anatolios con un nivel cultural y económico tremendamente más bajo que el suyo.

Icono ortodoxo recuperado por las autoridades chipriotas del expolio turco
Es necesario recordar que Chipre entró en la Unión Europea en 2004. Ese mismo año se produjo un referéndum para la posible reunificación de la isla en las condiciones actuales por parte de la ONU, la respuesta greco-chipriota fue clara el 76% votó en contra al considerar que el plan de la ONU perpetuaba el status quo de la ocupación turca y deba ventajas increíbles a esa minoría en el futuro y supuesto gobierno “unificado” de la isla. Durante el referéndum y posteriormente, los greco-chipriotas han insistido en que la opción que ellos siguen apoyando es la enosis (unión con Grecia). Por este motivo la parte de Chipre que está integrada en la UE es la greco-chipriota, aunque como oficialmente la UE no reconoce la RTNC, la parta norte es territorio comunitario que no está bajo jurisdicción europea al permanecer ocupado militarmente por Turquía. Es decir que una la UE tiene parte de su territorio bajo ocupación militar turca, lo que debería ser condición suficiente para detener cualquier diálogo mutuo hasta que dicha ocupación finalice. Esto suponiendo que la UE tenga la voluntad política y diplomática real de defender a los pueblos europeos, algo que los hechos nos demuestran permanentemente que no es así.

Pope de Karinia en el exilio
Chipre y Grecia han sido desde siempre la vanguardia de la civilización europea ante el avance oriental y musulmán. Hoy lo siguen siendo, vimos con la valentía y la determinación que los greco-chipriotas luchan día a día por recuperar un patrimonio y un territorio que es suyo. Dedicamos este artículo a todos ellos y en espacial a las autoridades civiles y religiosas que tan amablemente nos acompañaron durante nuestra visita. Ellos nos pidieron que diéramos a conocer la situación, este artículo es parte de la promesa que les hicimos.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya


Russland und Deutschland feilen an Plan für militärische Kooperation

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Russland und Deutschland feilen an Plan für militärische Kooperation

Der russische Verteidigungsminister Anatoli Serdjukow und sein deutscher Amtskollege Thomas de Maiziére haben sich bei einem Treffen am Montag in Berlin darauf geeinigt, gemeinsam einen Plan für die militärische Zusammenarbeit im kommenden Jahr zu konzipieren. Der Plan soll bis Dezember vorliegen, wie die Sprecherin des russischen Ministers, Irina Kowaltschuk, mitteilte.

Serdjukow, der zu einem offiziellen Besuch in der Bundesrepublik weilt, würdigte die Zusammenarbeit zwischen den Landstreitkräften beider Staaten und sprach sich für eine engere Kooperation im Bereich der Kriegsmarine aus. Die beiden Minister erörterten die militärtechnische Zusammenarbeit und sprachen über internationale Probleme wie den europäischen Raketenschild, die Lage in Afghanistan, im Nahen Osten und in Afrika.

Zudem informierte Serdjukow über die Entstehung des Ausbildungszentrums Mulino an der Wolga. Die Ausbildungsstätte für die russische Armee wird vom deutschen Technologie- und Rüstungskonzern Rheinmetall AG gebaut.

La Syrie, au cœur de la Guerre tiède

 

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La Syrie, au cœur de la Guerre tiède ? D’une désinformation médiatique à une intervention programmée

par Jean Géronimo

Sans-titre-3-150x150.jpgSpécialiste des questions économiques et stratégiques russes - Docteur des Universités, vice-major de promotion de licence et maîtrise de sciences économiques, UPMF Grenoble. Lauréat de la Fondation Robert Schuman. Ancien allocataire de recherche de la Région Rhône-Alpes

Jean.Geronimo@upmf-grenoble.fr

« Il faut empêcher de réitérer le scénario libyen en Syrie »

  Vladimir Poutine, 27/02/2012 (1)

 

La crise syrienne est, aujourd’hui, arrivée à un point critique. Une guerre fratricide massacrant, pour partie, des innocents, est en cours.

Dans ses grandes lignes, cette guerre est médiatisée par les intérêts politico-économiques des grandes puissances. Mais, très tôt, elle a été polluée par les nouvelles idéologies religieuses et nationalistes, surfant sur les maladresses occidentales et la soif de libertés de peuples en perdition – au prix de dérives politiques incontrôlables et, sans doute, irréversibles.

 

A l’origine, cette quête identitaire a été précipitée par la « fin des idéologies » (D. Bell)  issue de la disparition de l’URSS, en décembre 1991, qui a favorisé le retour du religieux comme idéologie alternative et, au moins, réactivé son rôle politique et identitaire. Dans le même temps, la disparition du verrou idéologique de la Guerre froide a suscité l’émergence de micro-conflits périphériques désormais porteurs, sur l’Echiquier arabe, d’aspirations révolutionnaires. En ce sens, la délégitimation de l’idéologie communiste aurait agi comme facteur catalyseur d’une instabilité systémique à l’échelle du monde et dont la crise syrienne ne serait, au final, qu’un sous-produit – une forme d’effet émergent.

La (prévisible) réaction d’auto-défense du régime syrien face à la terrible violence « révolutionnaire » attisée de l’extérieur a débouché, aujourd’hui, sur une inquiétante guerre civile – imputée par les médias occidentaux, de manière (trop) systématique et erronée, au seul président Bachar El-Assad. Pourtant, l’opposition armée anti-Assad est responsable de davantage de tueries étrangement passées sous silence et qui, en d’autres lieux, auraient pu être qualifiées de « crimes contre l’humanité », pour reprendre une expression trop souvent manipulée par la gouvernance néo-libérale sous leadership américain, dans l’optique de justifier ses actions répressives.

Avec une certaine légitimité, on peut donc s’interroger sur l’existence d’une pensée unique, structurellement favorable aux « rebelles », et verrouillant l’information sur le déroulement de la « révolution » syrienne – sous l’impulsion de l’Organisation syrienne des droits de l’homme (OSDH), étrange ONG politiquement (très) orientée et semblant avoir un monopole « légitime » sur l’information. Régulièrement émise par l’OSDH, l’information sur la nature et l’ampleur des massacres censés perpétrés par le régime Assad est, en effet, admise comme vérité scientifique par le consensus médiatique – formatant, par ce biais, une opinion publique internationale hostile au régime syrien. Toutefois, ce dernier reste – heureusement – soutenu par l’axe sino-russe.

L’issue, tant désirée par les promoteurs du Printemps arabe, ne semble désormais plus faire de doutes. Mais pour Moscou, c’est plutôt un Hiver islamiste, réchauffé par le doux soleil de la Charia, qui se prépare – avec, naturellement, la complicité américaine.

Comment et pourquoi en est-on arrivé là ? Et qui, surtout, y avait intérêt ?

Vers un point de non retour, pour réitérer le « scénario libyen »

De manière indéniable, ce point de non retour a été favorisé de l’étranger dans le cadre d’une stratégie de communication politiquement orientée et unilatéralement focalisée contre la « dictature » Assad, désigné par le consensus médiatique comme l’ennemi à abattre.

Très clairement, dès l’origine, la rébellion anti-Assad a été financée et armée par des membres clés (riches en pétrodollars) de la Ligue arabe, principalement l’Arabie saoudite et le Qatar. Très vite, elle a été encouragée par l’administration américaine et ses alliés traditionnels, avides de s’insérer dans la vague révolutionnaire portée par l’histoire et, surtout, de profiter des opportunités politiques – dont celles de contenir les ambitions russes, voire chinoises, dans une région stratégique sur les plans politique et énergétique. Ainsi, dans un premier temps, la Turquie a discrètement servi d’appui logistique pour les « rebelles » et, dans un second temps, elle s’est ouvertement montrée désireuse de passer à l’offensive, c'est-à-dire à l’action armée sur le territoire syrien. Au nom de la liberté des peuples et, naturellement, de leur droit à disposer d’eux-mêmes – la couleuvre est, tout de même, dure à avaler. D’autant plus, si on est russe.

Les infiltrations aux frontières ont été nombreuses au début de la « révolution ». Comme par hasard, tous les points de conflits sont anormalement et systématiquement proches de la frontière syrienne – curieux, tout de même, que nos médias ne se soient pas interrogés sur cette troublante coïncidence. Cette situation est illustrée, depuis fin juillet, par la volonté des « rebelles » de contrôler certains postes-frontières dans le but de faciliter les « passages », autrement dit, les actions militaires et les attentats contre les positions syriennes.

Une telle configuration confirme l’hypothèse d’une aide extérieure, très tôt invoquée par le président syrien Bachar El-Assad et qui, sans surprise, n’a jamais été prise au sérieux par les médias occidentaux, perdus dans le ciel bleu du monde de l’ignorance apprise, alimentée par la seule information diffusée par l’OSDH. Loin d’être spontanée, cette « révolution » est donc orientée et, en ce sens, elle apparaît davantage comme une « évolution », impulsée de l’extérieur et sur laquelle surfent les stratégies manipulatrices de puissances ambitieuses. Mais, dans la mesure où il s’agit d’un retour en arrière sur le plan politico-social – surtout en ce qui concerne le statut de la femme et des libertés individuelles (dont politiques) –, je parlerai plutôt « d’involution ».

Tout a été fait, dans le cadre d’un scénario programmé, pour provoquer l’armée régulière et les structures de sécurité de l’Etat syrien de manière à les contraindre à une réaction violente et créer, par ce biais, une instabilité croissante auto-cumulative, à terme, potentiellement explosive. En outre, ce chaos a été aggravé par l’émergence de milices privées, parfois de nature religieuse, et échappant à tout contrôle gouvernemental. Au final, il s’agit d’atteindre un seuil critique (déclencheur de « l’explosion »), synonyme de guerre civile – quitte à sacrifier quelques civils, quotidiennement imputés par l’OSDH au « sanguinaire » président Assad ou, alternativement, à d’inévitables « dégâts collatéraux ». Et quitte, aussi, à générer une situation anarchique caractérisée par la délégitimation des lois et structures étatiques. Une catastrophe programmée.

Aujourd’hui, l’Etat syrien, dont l’autorité est considérablement érodée, n’a même plus – au sens de Max Weber – le monopole de la « violence légitime » sur son territoire, traditionnellement considéré comme le socle de la stabilité d’un Etat-souverain. Désormais, le terreau est donc propice à la répétition du « scénario libyen », selon l’expression usitée de V. Poutine.

Sous prétexte de défendre les intérêts légitimes du peuple syrien, l’insidieuse politique arabo-occidentale a, objectivement et, sans doute, consciemment, contribué à ce chaos.

Complicité arabo-occidentale, au nom d’un troublant messianisme moral

Les « Amis de la Syrie » ont, très tôt, instrumentalisé la crise syrienne pour défendre leurs propres intérêts qui font du départ d’El-Assad, la pierre angulaire de leur stratégie.

Les intérêts de cette coalition hétéroclite se rejoignent, sur certains points précis – dont celui de placer un pouvoir « ami », apte à gérer l’après-Assad –, et, à la base, ils sont structurellement opposés à ceux de l’axe sino-russe. Redoutant une déstabilisation régionale, l’axe sino-russe prône en effet une solution politique négociée qui n’implique pas, nécessairement, l’élimination du président syrien. Nuance politique essentielle, expliquant la division, donc l’impuissance du Conseil de sécurité de l’ONU à travers le blocage systématique de ses résolutions par les responsables russes et chinois – mais c’est aussi, cela, la démocratie. Sur ce point, on peut d’ailleurs s’interroger sur la viabilité d’une résolution prônant une « transition démocratique » en Syrie et soutenue par l’étrange tryptique Arabie Saoudite-Qatar-Turquie. Avec le blanc-seing occidental…

Des intérêts économiques (contrôle de l’énergie), politiques (lutte d’influence) et stratégiques (inflexion des rapports de force) sont les enjeux sous-jacents au conflit syrien exacerbé, en définitive, par la montée brutale d’Al Qaïda (reconnue par Washington) et par l’opposition religieuse sunnites/chiites. Dans son essence, cette opposition forme une ligne de fracture confessionnelle auto-destructrice et à jamais ré-ouverte, parce que politiquement non neutre – et facilement manipulable, donc utile aux régimes hostiles au maintien du président Assad.

Le leitmotiv humanitaire, a été à la fois le fil conducteur et l’habillage légitime de l’ingérence croissante de la coalition arabo-occidentale dans le processus politique interne de la Syrie. Ce devoir d’ingérence progressivement institué devrait, à terme, justifier une intervention (sous une forme à définir) dans l’optique de renverser le régime Assad et, s’il le faut, sans la légitimité onusienne – pour contourner le barrage sino-russe. Désormais, avec le soutien actif des services secrets allemands, américains, britanniques et français, tous les efforts de la coalition arabo-occidentale sont concentrés vers cet ultime objectif. Pour l’heure, l’idée d’imposer une zone d’exclusion aérienne (définie comme zone de sécurité) pour créer un « couloir humanitaire » fait, peu à peu, son chemin. Le problème est qu’un tel « couloir » a, déjà, fait l’objet d’une instrumentalisation politico-militaire en d’autres lieux et d’autres temps. Pour Moscou, une telle leçon ne s’oublie pas et, surtout, ne doit plus se répéter.

L’essentiel est d’arriver, après la réélection d’Obama, au point de basculement de la crise (« seuil critique ») provoquant l’intervention finale et, en cette fin d’été, nous y sommes proches. Cette intervention militaire est rejetée par russes et chinois, psychologiquement marqués par  les tragédies serbe (1999), irakienne (2003) et libyenne (2012), où la manipulation des règles internationales et des mécanismes onusiens a été flagrante, mettant en cause, selon eux, la légitimité de la gouvernance mondiale. De façon troublante, cette transgression des règles est réalisée au nom de valeurs morales supérieures, selon la tradition post-guerre froide inaugurée par la vertueuse Amérique, investie de sa « destinée manifeste » et de son libéralisme triomphant – un discours, certes, bien rôdé.

Un sous-produit de cette inconscience politique occidentale a été la propagation du syndrome révolutionnaire, via un Islam radical moralisateur, au-delà de l’Echiquier arabe : dans le monde post-soviétique et sur le continent africain, au Mali pour commencer, avec l’extension de la Charia. Avec, à la clé, d’irréversibles dégâts collatéraux.

Pour l’axe sino-russe, il y a une ligne rouge à ne pas franchir dans cette partie stratégique dominée par les grandes puissances – notamment, en Syrie. Mais les dés sont, déjà, pipés.

Poursuite du reflux russe sur l’Echiquier arabe, sous bienveillance américaine

Dans l’hypothèse d’un renversement du président Assad, la Russie (avec la Chine et l’Iran)  serait la principale perdante.

Pour rappel, la Syrie est un des principaux alliés de l’Iran dans la région et la disparition d’Assad isolerait davantage Téhéran – ce que souhaitent, pour diverses raisons, de nombreux Etats arabes et occidentaux. D’autre part, le renversement d’Assad risquerait de déstabiliser le Liban et au moins, d’y redéfinir le jeu politique interne avec, notamment, l’affaiblissement du Hezbollah libanais. L’évolution syrienne est donc politiquement non neutre pour l’Etat israélien et sa stratégie au Moyen-Orient et, en ce sens, pour le destin géopolitique de la région.

A cela, il convient de préciser que l’Azerbaïdjan, ex-république de l’URSS très sensible désormais – comme d’autres Etats de la périphérie post-soviétique – aux sirènes américaines (et à leurs dollars), rêve de créer un « Grand Azerbaïdjan » étendu à une partie de l’actuelle Iran. Dans cette optique, l’affaiblissement de l’axe Iran-Syrie serait une bonne chose pour ses prétentions territoriales. Moscou redoute un tel scénario, d’autant plus qu’il nuirait dangereusement aux intérêts de son fidèle allié et partenaire stratégique, l’Arménie – dont l’existence (et celle de ses bases militaires) serait, dés lors, menacée.

En outre, par l’intermédiaire de son ministre des affaires extérieures, Ahmet Davutoğlu, la Turquie – véritable base arrière et levier de l’influence américaine en Eurasie – revendique, de manière troublante, le rôle de « pionnier du changement démocratique » au Moyen-Orient. En fait, la défense de ses intérêts nationaux – qui intègrent le « problème » kurde – a incité la Turquie à s’ingérer dans la crise syrienne. Et, surtout,  elle l’oblige à maintenir une veille stratégique dans le Nord de la Syrie convoité, selon Ankara, par les « extrémistes kurdes ». Enfin, il faut rappeler que la Turquie rêve toujours d’un Empire ottoman étendu à l’Asie centrale ex-soviétique. Tout est donc en place, pour la partie finale.

Tendanciellement, on assisterait donc à la poursuite du roll back (reflux) de la puissance russe, conduite par l’administration américaine depuis la fin de la Guerre froide et qui vise, aujourd’hui, à affaiblir ses alliances traditionnelles – donc, son pouvoir potentiel sur longue période – en zones arabe et post-soviétique. Car, qu’on le veuille ou non, l’administration Obama est objectivement tentée de manipuler les « révolutions » pour, à terme, étendre sa zone d’influence et sécuriser, par ce biais, les principales sources d’approvisionnement et routes énergétiques – d’où l’intérêt de « stabiliser », c'est-à-dire de contrôler politiquement la Syrie, le Liban et l’Iran, véritables nœuds stratégiques de la région. Une telle extension se réaliserait au détriment des dernières positions russes, héroïquement tenues sur l’Echiquier  moyen-oriental et, en particulier, en Syrie, face à la pression médiatique et politico-militaire de la coalition arabo-occidentale – mais, pour combien de temps encore ?

Dans cette optique et de manière officielle, l’administration américaine vient de reconnaître la nécessité de renforcer significativement son soutien au « processus révolutionnaire et démocratique » en œuvre en Syrie. Dans ses grandes lignes, cette action s’inscrit dans le prolongement de sa récente ingérence – via de douteuses ONG – dans le processus électoral russe et, de façon plus générale, dans le cheminement politique incertain de la périphérie post-soviétique en vue d’y imposer la « démocratie ». Naturellement, selon les normes occidentales.

Ce faisant, Washington officialiserait une stratégie qui, en réalité, a commencé bien plus tôt. Tendanciellement, cette stratégie s’appuie sur la démocratie comme nouvelle idéologie implicite et globalisante, vecteur de sa domination politique dans le monde. Au regard d’une lecture plus structurelle de la crise syrienne, médiatisée par les intérêts des puissances majeures, cette attitude américaine n’est pas une surprise et, au contraire, semble cohérente avec une ligne de long terme axée sur la défense de son leadership régional – contre les intérêts russes.

L’hyper-puissance américaine avance ses pions, inéluctablement.

L’Arabie saoudite, nouveau « pivot géopolitique » de l’hyper-puissance ?

La poursuite du « Printemps islamiste », à dominante sunnite, renforce les positions de l’Arabie saoudite dans la région et donc, de manière indirecte, les prérogatives de l’axe USA-OTAN.

Sur ce point, on remarquera que les monarchies du Golfe, qui sont (très) loin d’être plus démocratiques que la Libye et la Syrie ont été, jusque là, étrangement épargnées par la vague révolutionnaire. Avec une certaine légitimité, on peut donc se demander pourquoi ? Et pourquoi passe-t-on sous silence le sort des 80 000 chrétiens expulsés de leurs foyers par les « révolutionnaires » syriens dans la province d’Homs, en mars 2012 ? Enfin, pourquoi ne parle-t-on pas des persécutions quotidiennes de la population chiite (majoritaire à 70%) au Bahreïn, associée à un verrouillage total de l’opposition (et de l’expression) politique ? Cette répression est « supervisée » par l’armée saoudienne encline, à la moindre occasion, à faire intervenir ses chars – sorte d’application arabe de la doctrine Brejnev de « souveraineté limitée » – et cela, quels qu’en soient les coûts humains. Terrible et révélateur silence médiatique.

La réaction occidentale a été tout autre lorsque la Russie est – justement – intervenue avec ses chars en Géorgie en 2008, pour protéger ses ressortissants et ses soldats d’un massacre annoncé, après l’inquiétante initiative du président Saakachvili. Comment expliquer cette lecture des Droits de l’homme (et des peuples) à géométrie variable ? Et pourquoi les chars russes seraient-ils plus « coupables » que les chars arabes – ou américains, en d’autres circonstances, lors des « croisades » morales punitives ? Pour Moscou, une telle situation confirme le maintien d’un esprit de Guerre froide visant à la marginaliser, de manière définitive, sur la scène internationale. Un « deux poids, deux mesures » politiquement insupportable, et presque blessant.

  La principale conséquence de l’extension de la domination sunnite au Moyen-Orient gagné par la contagion « révolutionnaire » est que, par l’intermédiaire de l’Arabie saoudite, comme levier d’ingérence privilégié, l’administration américaine renforce son  contrôle de la région. Parce que, par définition, il sera dorénavant plus facile pour Washington d’actionner un seul levier pour dicter sa politique régionale et défendre, ainsi, ses intérêts de grande puissance. Dans ce schéma, l’Arabie saoudite devient une pièce maitresse  (« pivot », au sens de Brzezinski) des Etats-Unis sur l’Echiquier arabe permettant, désormais, à l’hyper-puissance d’agir sur les événements et d’orienter le jeu, sans véritable opposition. Une contrepartie possible serait alors, pour Washington, de tenir compte des intérêts politiques de l’Arabie saoudite dans les régions musulmanes de l’ex-espace soviétique, âprement convoitées dans le cadre de son face-à-face avec la Russie. En ce sens, la crise syrienne cache un enjeu politique plus global, fondamentalement géostratégique – et, de manière indiscutable, lié au déroulement de la Guerre tiède.

Cette tendance au renforcement de la gouvernance unipolaire, légitimée par l’éclatante victoire américaine de la Guerre froide, est officiellement et régulièrement dénoncée par Vladimir Poutine, depuis son fameux discours de Munich de 2007 sur la sécurité dans le monde. Les faits, comme les hommes, sont – parfois – têtus.

Paradoxalement, les involutions arabes, sous bienveillance américaine, ne feront qu’accélérer cette tendance (2).

Et, maintenant, que faire ?

 

Jean Géronimo

Grenoble, le 30 août 2012

 

(1) http://fr.rian.ru/discussion/20120227/193517992.html : « La Russie et l’évolution du monde », article de V. Poutine sur la politique étrangère russe, 27/02/2012 – RIA Novosti.

(2) Les crises arabes et leurs implications géopolitiques pour la Russie, sont traitées dans le post-scriptum (50 pages) inséré dans la nouvelle édition de mon livre : « La Pensée stratégique russe Guerre tiède sur l’Échiquier eurasien : les révolutions arabes, et après ? ». Préface de Jacques SAPIR, mars 2012, éd. SIGEST, code ISBN  2917329378 en vente : Amazon, Fnac, Decitre (15 euros).

Note de l'Editeur  : Diffusion autorisée avec texte complet et renvois , mention de l'auteur .

 

The Waning of American Power in the Middle East

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Who Will Tell the President?

The Waning of American Power in the Middle East

by PATRICK COCKBURN
 
 
Are the days of American predominance in the Middle East coming to an end or is US influence simply taking a new shape? How far is Washington, after refusing to try to keep Hosni Mubarak in power in Egypt, facing the same situation as the Soviet Union in 1989, when the police states it had sustained in Eastern Europe were allowed to collapse?

The US is obviously weaker than it was between 1979, when the then Egyptian president, Anwar Sadat, signed the Camp David agreement and allied Egypt with the US, and 2004/05, when it became obvious to the outside world that the Iraq war was a disaster for America. At the time, General William Odom, a former head of the National Security Agency, the biggest US intelligence agency, rightly called it “the greatest strategic disaster in American history”.

Since then, the verdict of the Iraq war has been confirmed in Afghanistan, where another vastly expensive US expeditionary force has failed to crush an insurgency. In the last few weeks alone, Taliban fighters have succeeded in storming Camp Bastion in Helmand province and destroying $200m worth of aircraft. So many American and allied soldiers have now been shot by Afghan soldiers and police that US advisers are under orders to wear full body armour when having tea with their local allies.

The Arab Spring uprisings posed a new threat to the US, but also opened up new options. Support for Mubarak was decisively withdrawn at an early stage, to the dismay of Saudi Arabia and Israel. But the Muslim Brotherhood had long been considering how it could reach an accommodation with the US that would safeguard it against military coups, and enable it to chop back the power of the Egyptian security forces. This was very much the successful strategy of the Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan and his Justice and Development (AKP) party, explaining why it was prepared to join the US in invading Iraq in 2003 and why it has become the chief instrument of American policy towards Syria in the past year.

This alliance with Islamic but democratic and pro-capitalist parties in Egypt and Turkey is obviously in the interests of the US and the Atlantic powers. But their support for democratic change in North Africa and West Asia is determined by self-interest. It does not, for instance, extend to Bahrain where the Sunni al-Khalifa monarchy has been busily locking up its Shia opponents and retreating from promises of meaningful reform. But new allies must at some point mean fresh policies. In sharp contrast to the Mubarak regime, a new government in Egypt is unlikely to support covertly Israeli military action such as the bombardment of Lebanon in 2006 and of Gaza in 2008.

A problem for the White House is that American voters have not taken on board the extent to which US influence has been reduced. For all the rhetoric about the Iraq war being a strategic disaster, the American political and military elite has also failed to appreciate the extent and consequences of failure. It is extraordinary to discover, according to recent revelations, that as late as 2010 Vice-President Joe Biden was under the impression that he could blithely decide who would be president of Iraq. Biden’s grip on Iraqi geography appears to be as shaky as his understanding of its politics. On one occasion in Baghdad, he lauded all the good things the US had done for Baku, the capital of Azerbaijan, having apparently mistaken it for Basra in southern Iraq.

The killing of the US ambassador to Libya, Christopher Stevens, and the burning of the US Consulate in Benghazi could have been a worse political disaster for President Barack Obama than it turned out to be. It highlighted that the rebels who overthrew Muammar Gaddafi were not quite as they had been presented by the US government and media during the war past year. The US State Department appears to have had an unhealthy belief in its own propaganda, not seeing that its consulate in Benghazi was in one of the most dangerous places in the world. The assault did not come out of a blue sky. Fighters had shot at the convoy of the British ambassador, Sir Dominic Asquith, in Benghazi a few weeks earlier. In July last year, the rebels’ own commander, Abdel Fatah Younis, was abducted and murdered by men nominally under his command in revenge for repressive actions he had carried out before he defected from Gaddafi’s forces.

Diplomats and soldiers are often curiously blind to dangers facing them. It may be that both live in very inward-looking communities and somehow cannot internalise how somebody outside may think and act. I remember in 1983 in Lebanon talking to the highly intelligent US marine commander whose soldiers were based near Beirut airport. In theoretical terms, he could see very clearly that American forces had some very dangerous enemies and were vulnerable to attack, but he unaccountably failed to take effective measures that might have stopped a truck packed with explosives killing 241 marines when their base was destroyed. Likewise, the Green Zone in Baghdad from 2003 on had elaborate fortifications, but its outer defences were manned at one moment by former Peruvian policemen from Lima and, at another, by ex-soldiers from Uganda hired on the cheap by a security company.

A more effective political opponent than Mitt Romney could surely have inflicted damage on Obama over the Benghazi debacle. A measure of Romney’s ineptitude is that he failed to do so and, instead of scoring points, he came across as opportunistic and ignorant. After all, Obama has been conducting a policy of retreat in Iraq, Afghanistan and Egypt without quite coming clean about it. Romney’s denunciation of Obama for “apologising” for America was shallow demagoguery, though rhetoric on the American right should not be dismissed too casually. George W Bush’s supporters used to spout similar nonsense, but only after 9/11 did it become appallingly clear that they believed a lot of what they were saying.

Supposing Obama is re-elected in November, will the US stance change at all? The endlessly repeated Israeli threats to launch air strikes on Iran have always struck me as being most likely highly successful bluff, since threats alone have served Israeli purposes so well, isolating Iran economically and diverting attention from the Palestinians.

More immediately, will the US move after the election, possibly acting through Turkey, to take military action to displace Bashar al-Assad in Syria? There is something deceptive about David Cameron implying that Russia and China are responsible for the slaughter of Syrian children.

A central problem in getting rid of President Assad and the Baathist regime is that the war against him is not just for and against autocracy. If this were the only issue, how come that the Sunni absolute monarchies of the Arabian peninsula are Assad’s fiercest enemies? The struggle is also between Shia and Sunni and between Iran and its enemies, guaranteeing that Assad has support in Tehran, Baghdad and Beirut. The quickest way to end the war is to reassure Assad’s allies at home and abroad that they are not next in line for elimination.

PATRICK COCKBURN is the author of “Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq

samedi, 13 octobre 2012

Iran, Syria and the Balance of Power in the Middle East

The "Resistance Bloc" is Fighting for Its Life

Iran, Syria and the Balance of Power in the Middle East

by PATRICK COCKBURN
 
 
Turkish artillery is firing across the border into Syria. Explosions have torn apart buildings in Aleppo, Syria’s largest city, making their floors collapse on top of each other so they look like giant concrete sandwiches. The country resembles Lebanon during its civil war, the victim of unbearable and ever-escalating violence but with no clear victor likely to emerge.

In Iran, Syria’s most important ally in the region, sanctions on oil exports and central bank transactions are paralysing the economy. The bazaar in Tehran closed after violent protests at a 40 per cent fall in the value of the currency, the rial, over the past week. Demonstrators gathered outside the central bank after finding they could no longer get dollars from their accounts. Popular anger is at its highest level since the alleged fixing of Iran’s presidential election of 2009.

Will these events lead to a change in the balance of power at the heart of the region? Iran and Syria were the leaders for the past 10 years of the so-called “resistance bloc”, the grouping that supported the Palestinians and opposed the US-led combination that brought together Arab dictatorships and Israel in a tacit alliance. This anti-American bulwark was at the height of its influence between 2006 and 2010 after the failed US invasion of Iraq and Israel’s bombardment of Lebanon and Gaza.

At first, the Arab Spring seemed to favour the “resistance bloc”. Without Syria and Iran having to lift a finger, President Hosni Mubarak and President Zine el-Abidine Ben Ali were driven from power in Egypt and Tunisia. And Bashar al-Assad seemed confident, in the first months of 2011, that his opposition to the US, Arab autocracies and Israel would protect him against the revolutionary wave.

Eighteen months later, it is the “resistance bloc” that is fighting for its life. Turkey is becoming ever more menacing to Syria and impatient of American restraint. After the US presidential election, Washington could well decide that it is in its interests to go along with Turkish urgings and give more military support to the Syrian opposition. The US might calculate that a prolonged and indecisive civil war in Syria, during which central government authority collapses, gives too many chances to al-Qa’ida or even Iran. It has had a recent example of how a political vacuum can produce nasty surprises when the US ambassador to Libya, Christopher Stevens, was killed in Benghazi last month.

An ideal outcome from the American point of view is to seek to organise a military coup against the Syrian government in Damascus. Zilmay Khalilzad, a former US ambassador to Iraq and Afghanistan, wrote recently in Foreign Policy magazine that the US should take steps “empowering the moderates in the opposition, shifting the balance of power through arms and other lethal assistance, encouraging a coup leading to a power-sharing arrangement, and accommodating Russia in exchange for its co-operation”.

By becoming the opposition’s main weapons’ suppliers, the US could gain influence over the rebel leadership, encourage moderation and a willingness to share power. Mr Khalilzad envisages that these moves will prepare the ground for a peace conference similar to that held at Taif in Saudi Arabia in 1989 that ended Lebanon’s 15-year civil war. It is also what the US would have liked to have happened in Iraq after 1991.

More direct military involvement in Syria could be dangerous for the US in that it could be sucked into the conflict, but outsourcing support for the rebels to Saudi Arabia and the Sunni monarchies of the Gulf may be even riskier. Arms and money dispensed by them are most likely to flow to extreme Sunni groups in Syria, as happened when Pakistani military intelligence was the conduit for US military aid to the Afghan Mujahideen in the 1980s.

Instead of a fight to the finish – and that finish would probably be a long way off – a peace conference with all the players may be the only way to bring an end to the Syrian war. But it is also probably a long way off, because hatred and fear is too deep and neither side is convinced it cannot win. The Kofi Annan plan got nowhere earlier this year because the government and rebels would only implement those parts of it that favoured their own side.

How does Iran view its endangered regional position in the Middle East? Iran’s policy is usually a mixture of practical caution and verbal crudity – the latter often represented to the outside world by President Mahmoud Ahmadinejad. But in its struggles with the Americans in Iraq after 2003, Iran was realistic and seldom overplayed its hand. It may be under pressure from sanctions now, but its situation is nothing like as serious as it was during the Iran-Iraq war of 1980 to 1988. More recently, Iranians joked that only divine intervention could explain why the US had disposed of its two main enemies, the Taliban and Saddam, in wars that did more good to Iran than the US.

But the success of sanctions on oil exports and Iranian central bank operations seems to have caught Tehran by surprise. Oil revenues have fallen and the cost of food, rent and transport is up. In recent years, Iranians have become big foreign travellers, but last week were stopped withdrawing rials from their dollar accounts. No wonder they’re angry.

But enemies of the Iranian regime should not get up their hopes too early. An Iranian journalist in Tehran sympathetic to the opposition said to me last year that “the problem is that the picture of what is happening in Iran these days comes largely from exiled Iranians and is often a product of wishful thinking”. The Iranian regime is far more strongly rooted than the Arab regimes overthrown or battling for survival. The Iranian-led bloc in the region may be weaker, but it has not disintegrated.

PATRICK COCKBURN is the author of “Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq

Le Rouge , le Vert et le Noir : Serguei Oudaltsov chez les séparatistes islamistes Tatars !

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Le Rouge , le Vert et le Noir : Serguei Oudaltsov chez les séparatistes islamistes Tatars !

http://zebrastationpolaire.over-blog.com/

On connaissait déja  les liens troubles de l'extrême-gauche française avec le fondamentalisme islamique [ lien ] .

Il en est de même en Russie .

La nouvelle date du 12 aout 2012 et elle vient de m'être communiquée  par un correspondant Russe s'intéressant aux problèmatiques ethno-séparatistes .

Le 12 aout 2012 , soit quelques jours après l'attentat contre les chefs religieux musulmans du Tatarstan [ lien vers article ] , le chef du " Front de Gauche " Russe Serguei Oudaltsov s'est rendu à Kazan [ capitale du Tatarstan ] pour y rencontrer les " jeunes " séparatistes islamistes tatars du mouvement " Azatlyk " - indépendance - dont leur chef Naïl  Nabiullin  .[ lien ]

A cette occasion le frondegôchiste  russe a appellé les séparatistes islamistes tatars a faire " front commun " et à mener des actions communes dans les rues et dans les usines : " Il est temps de réunir toutes les forces qui peuvent contribuer à l'affaiblissement du régime de Poutine " .

Selon certaines sources , le leader frondegôchard aurait aussi rencontré des membres de l'organisation terroriste Hizb ut-Tahrir contre laquelle il " n' a pas de préjugés " !

Notons que Naïl Nabulin considére lui qu'il n' a " rien à dire aux fondamentalistes d' Hizb ut-Tahrir "! ...

Le leader du frondegôche  Russe , le rouge Oudaltsov , s'est même proposé de jouer les " casques bleus " entre les islamistes  " verts " tatars et les nationalistes " noirs " Russes pour qu'ils puissent défiler côte à côte lors des " marche des millions "  Car ce n'est pas gagné ! Alors qu'il estimait pouvoir réunir 10 000 à 15 000 manifestants à Kazan pour la " marche des millions " , celle-ci n'a réunie que 50 à 100 personnes le 15 septembre dernier  : Islamistes , séparatistes , frondegôchistes , libéraux , Pussyriotistes ....confondus   ! [ lien ]   et [ lien ]  

On savait déja que Serguei Oudaltsov ne dédaignait pas la compagnie d'un Alexandre Belov-Potkine du DPNI -  ex Mouvement contre l'Immigration Illégale - et des nationalistes Oukraïniens [ lien ] .

On s'étonne de pouvoir encore s'étonner d'apprendre qu'il fréquente des terroristes islamistes et des terroristes séparatistes ! 

La presse et la blogosphère Russe se sont  amusés  de cette union de la carpe et du lapin en parlant de " califat rouge " ou " wahhabisme gauchiste  "!

Russland zwischen Souveränität und Abhängigkeit

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Russland zwischen Souveränität und Abhängigkeit

Fjodor Lukjanow für RIA Novosti

Ex:

 

http://de.rian.ru/opinion/20121005/264601140.html/

 
In dieser Zeit haben Russland und der Rest der Welt einen tiefgreifenden Wandel durchlebt.

Diese Wandlungen lassen sich schwer zusammenfassen, aber eines ist offensichtlich: Seit dem Ende des 20. Jahrhunderts verschwimmen die Grenzen zwischen den Staaten.

Den Regierungen fällt es zunehmend schwerer, die Prozesse um den Zustand ihres Landes unmittelbar zu kontrollieren. Russland ist da keine Ausnahme. In Russland ist dieser Trend sogar besonders deutlich zu sehen.

Russland und der Rest der Welt

Die stetig zunehmende Abhängigkeit von äußeren Faktoren kam nicht überraschend. Das Auseinanderfallen der Sowjetunion begann bereits in den 1960er-Jahren. Damals machte sich das Land wegen der Erschließung neuer Gas- und Ölvorkommen in Sibirien und deren Exports nach Westeuropa von der Konjunktur des internationalen Rohstoffmarktes abhängig. Der Öl- und Gasexport sowie die Einnahmen wuchsen kontinuierlich, aber auch die Situation auf dem Weltmarkt wirkte sich auf die Sowjetunion aus.

Bis in die 1980er-Jahre profitierte das Land vom permanenten Anstieg der Rohstoffpreise. Dann aber begann die Rezession, die für die UdSSR fast zum Verhängnis wurde.

Andererseits ging der Kreml, der seinen Einfluss in Europa stärken wollte, ein politisches Spiel im Rahmen des Helsinki-Prozesses ein. Am Ende erreichte Moskau sein Ziel: Die bestehenden Grenzen wurden anerkannt. Es musste sich jedoch dem kostspieligen Entwicklungsprogramm für die Dritte Welt anschließen, was später eine wichtige Rolle für die Wandlungen spielen sollte, die zum Zerfall der Sowjetunion geführt haben.

Im Grunde hatte die sowjetische Führung selbst die Voraussetzungen für diese Reformen geschaffen: „Frische Luft“ kam endlich durch den Eisernen Vorhang.

Mit den Folgen der Abhängigkeit vom Rohstoffexport und des „Imports“ der Sehnsucht nach Freiheit musste sich Michail Gorbatschow auseinandersetzen. Das Ergebnis ist allen bekannt. Der Einfluss des Westens hat die Erosion der Sowjetunion beschleunigt, aber nicht verursacht. Die Sowjetunion wurde das Opfer der eigenen Unfähigkeit, die Situation in den Griff zu bekommen.

Boris Jelzin kam an die Macht, als Russland sich bereits geöffnet und als Teil der Welt etabliert hatte. Dies geschah jedoch, weil Chaos nach dem Zerfall der Sowjetunion herrschte, und der äußere Einfluss sich in dieser Situation als gegenläufig und widerspruchsvoll erwies. 

Aber selbst damals, als der russische Staat den Anschein erweckte, nahezu handlungsunfähig zu sein, behielt er die Kontrolle über seine wichtigsten Funktionen und Prozesse innerhalb des Landes.

Vernetzte Welt

Um die Jahrhundertwende wurden die Staatsgrenzen noch durchlässiger. In seiner ersten Amtszeit als Präsident ging es Putin vor allem darum, Russland aus der Misere zu holen, während die Situation in der Welt stabil zu sein schien. Jahre später sollte sich jedoch alles ändern. 

Russland erstarkte, wenngleich die Methoden nicht unumstritten waren. In der Welt begannen dagegen destruktive Prozesse, die sich aber auch auf die Lage in Russland auswirkten.

Die Globalisierung, die ursprünglich in der Wirtschaft begann, weitete sich allmählich auf andere Gebiete aus. Einzelne Staaten verloren die Möglichkeit, sich gegen äußere Einflüsse abzusichern.

Innere Faktoren der Instabilität verschmelzen sofort mit den äußeren, mit der Reaktion der Großmächte bzw. mit deren Interessen, mit der Einflusskraft der ideologischen Dogmen usw.

Verantwortungsvolle Staatsoberhäupter müssen angesichts der weltweiten Turbulenzen einen Mittelweg zwischen dem eigenen Konservatismus und der gesellschaftspolitischen Entwicklung im eigenen Land finden. Übertreibungen könnten dazu führen, dass sie die Kontrolle verlieren.

Die Politiker blicken in eine ungewisse Zukunft und müssen deshalb in der Lage sein, wenigstens kurzfristige Entwicklungen zu erkennen.

Der hippokratische Grundsatz „Primum non nocere“ scheint der einzig vernünftige Weg zu sein. Jegliche Aktivitäten, harte Maßnahmen könnten die Welt ins Wanken bringen. Die Politiker müssen heute vor allem in der Lage sein, schnell auf  Ereignisse zu reagieren.

Selbstzerstörerende Welt

Putin ist in seiner dritten Präsidentenamtszeit ein erfahrener Politiker, der die Perspektiven der Welt eher skeptisch sieht.

Früher hatte Putin die Unfähigkeit bzw. Weigerung des Westens kritisiert, Russland als gleichberechtigten Partner zu akzeptieren. Zudem warf er dem Westen vor, Russlands Interessen verletzen zu wollen.

Mittlerweile rätselt er darüber, warum der Westen sich selbst zerstört und die ohnehin ernsthaften Probleme noch mehr zuspitzt. 

Die Ereignisse in der Welt, der Mangel an Vernunft lassen ihn offenbar an der Zweckmäßigkeit und Möglichkeit der eigenen Schritte gegenüber dem Westen zweifeln. Sein Credo ist: Auf innere oder äußere Impulse reagieren!

Wenn man genau weiß, wie eine Herausforderung aussieht und woher sie kommt, sind Antworten leichter zu finden. Wichtig sind nicht konkrete Verhaltensstrategien, sondern das eigene Potenzial und die Anzahl der Instrumente, die zum richtigen Zeitpunkt angewendet werden müssen.

Souveränität über alles

Ein wichtiges Thema für Putin ist die Unantastbarkeit der Souveränität Russlands. Dieses Denken kennzeichnet seine Vorgehensweise. Er ist überzeugt, dass Souveränität die letzte Stütze eines mehr oder weniger soliden Systems ist. Ohne Souveränität geht der letzte Faktor verloren, der das wachsende Chaos strukturieren kann.

Das seit dem 18. Jahrhundert existierende Westfälische Staatensystem bestimmte die Kooperationsprinzipien, die manches Mal hart, dafür aber klar und verständlich waren. Dieses Modell stütze sich auf souveräne Staaten, die als Struktureinheiten dienten. Wenn diese Elemente plötzlich verschwinden, stellt sich die Frage, worauf sich diese Konstruktion überhaupt stützen könnte. Denn eine konzeptuelle Alternative für Souveränität gibt es nicht.

In letzter Zeit redet Putin gerne von der „Soft Power“ – der russischen und anti-russischen.

Die jüngsten umstrittenen russischen Gesetzesänderungen sind  nachvollziehbar: Russland muss sich gegen den äußeren Einfluss zur Wehr setzen. Putin sieht sich offenbar von den traurigen Erfahrungen der Sowjetunion gewarnt: Damals konnte der Staat den attraktiven Ideen und Argumenten von außerhalb nicht widerstehen und fiel letztendlich auseinander.

Russlands Abhängigkeit von der internationalen Marktkonjunktur ist nach wie vor ein Problem. Ideologische und intellektuelle Einflüsse von außerhalb abzuwehren ist die eine Sache. Eine andere Sache ist aber, dass Putin jetzt eine eigene Idee vorschlagen muss.

Dazu ist Russland jedoch noch nicht bereit. Es entsteht aber der Eindruck, dass ein solcher Versuch in absehbarer Zeit unternommen wird. Wie dies in der unberechenbaren Welt funktionieren wird, steht aber in den Sternen.


Zum Verfasser: Fjodor Lukjanow ist der Chefredakteur der Zeitschrift "Russia in Global Affairs"

Die Meinung des Verfassers muss nicht mit der von RIA Novosti übereinstimmen.

 
 
 

vendredi, 12 octobre 2012

Arabischer Ultraimperialismus

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Arabischer Ultraimperialismus

Ex: http://sachedesvolkes.wordpress.com/

Der arabischen Reaktion, den feudalistisch-wahabitischen Verbündeten der USA und der EU, Katar und Saudi Arabien laufen die westlichen Kriegsvorbereitungen gegen das nationalprogressive Regime in Syrien noch zu schleppend, Auch eines der Lieblingskinder europäischer Phantasten, die sich einen liberalen „arabischen Frühling“ herbeihalluzinieren – Tunesien – dessen Staatsführung in der Hand von Islamisten ist, drängt wie Katar und Saudi Arabien auf einen arabischen Kriegseinsatz in Syrien. Dagegen hat sich nun doch etwas überraschend die Muslimbruderschaft in Ägypten ausgesprochen und sich dabei verbal der iranischen, russischen und chinesischen Position angenähert. Der ägyptische Präsident Mursi tritt nun für eine friedliche Beilegung des Konfliktes ein. Im Gegensatz zu Moskau, Peking und Teheran geht es Mursi aber um einen „Regime Change“ von dem laut dem Ägypter die syrische Assad-feindliche Muslimbruderschaft profitieren soll.

Die Golfreaktionäre möchten in der Region natürlich nicht nur Bashar Al-Assad und die nationalistisch-sozialistische Baath-Partei stürzen und dabei die Alawiten und Christen in Syrien massakrieren, sondern darüber hinaus einen Religionskrieg zwischen Sunniten und Schiiten entzünden. Weitere Kriegsgebiete wären der Iran, der Irak, Libanon, Bahrain und wohl auch die Türkei, wo Assad unter der Bevölkerung große Sympathien genießt, zudem gehören etwa 20 bis 30 Prozent der Türken der alevitischen Glaubensrichtung an, die mit den Alawiten in Syrien verbandelt ist. Die Kriegsträume der besten Verbündeten der sogenannten „Westlichen Wertegmeinschaft“ im Nahen Osten dienen also der Entfachung eines großen regionalen Krieges.

Die gestiegene Anzahl von Todesopfern des Bürgerkrieges in Syrien gerade in den letzten Tagen dürfte auf das Drängen der arabischen Reaktion nach einem arabischen Bruderkrieg zurückzuführen sein. Die hetzerische Propagandamaschinerie von Al Jazeera und Al Arabiya weckt unter den Sunniten zudem die Furcht vor einer schiitischen Einflussnahme durch den Iran. Der Terror der wahabitischen, salafistischen und sonstigen Gruppierungen hat über Syrien hinaus zudem längst den Irak und den Libanon erreicht.

Dies alles hindert im „freien“ Westen die NATO-Propagandisten und Gutmenschen freilich nicht daran weiterhin das Märchen vom „Schlächter“ Assad zu verbreiten, der irgendwie wohl gar den „Weltfrieden“ gefährden soll. Besorgnisserregend sei vor allem die prosyrische Einflussnahme des Iran, während man zu dem Terror der Al-Kaida-ähnlichen Gruppierungen weitestgehend schweigt oder die salafistischen Terrorgruppen gar als „Freiheitskämpfer“ und „Demokraten“ glorifiziert.

Nun zeigt sich nicht nur das sie sogenannte „Arabische Liga“ sondern auch zahlreiche sunnitische Islamisten – die dem Westen bisher als „größte Bedrohung“ des westlichen „Freiheitsbegriffes“ und der „marktkonforme Demokratie“ (Angela Merkel) galten – nichts weiter als die wichtigsten Herrschaftsinstrumente des Imperialismus im Nahen Osten und Nordafrika sind. Dies hatte sich insbesondere in Libyen gezeigt, wo eine Allianz arabischer Feudalreaktionäre, sunnitischer Islamisten und antinationaler Separatisten durch die Unterstützung der NATO, Frankreichs, Großbritannien und der USA, das einst unter Gaddafi reiche Land in Chaos, Krieg und Verarmung stürzten.

Die arabische Reaktion, salafistische Terrorgruppen, sowie die Muslimbrüder vertreten im Nahen Osten einen wilden Ultraimperialismus, der den USA, der BRD, Frankreich und Großbritannien nur noch den Vorwurf entgegenzubringen hat nicht imperialistisch und kriegsentschlossen genug gegen Syrien, den Iran oder die Hisbollah im Libanon vorzugehen. Das hochgradig reaktionäre Programm ist dabei auf Völker- und Religionsmord gegen Schiiten, Christen, Alawiten, Aleviten, Drusen und andere Gruppen ausgerichtet.

Verfasser: Sozrev

jeudi, 11 octobre 2012

Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël

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Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël !!!

par Mireille DELAMARE

Ex: http://www.polemia.com/    

Un article étonnant qui mérite, bien sûr, investigations et vérifications. Prélevé sur le site iranien francophone IRIB, publié en pleine campagne électorale américaine, il prévoit des changements stratégiques et géopolitiques insoupçonnables. « Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : " Preparing For A Post Israel Middle East " (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). » De quoi s’agit-il ?
Géopolitique fiction, canular, argument purement électoral, intox ? Le rapport, sinon sérieux, semble authentique si l’on tient compte des fonctions très officielles de ses auteurs. A les en croire, « la disparition du régime judéo-sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran. »
Polémia

IRIB – Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : « Preparing For A Post Israel Middle East » (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). Cette analyse de 82 pages a été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain regroupant pas moins de 16 agences dont le budget annuel dépasse les 70 milliards de dollars. Preuve donc que la disparition du régime sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran.

Ce document « Preparing For A Post Israel Middle East » conclut que les intérêts nationaux américains et israéliens divergent fondamentalement. Les auteurs de ce rapport affirment qu’Israël est actuellement la plus grande menace pour les intérêts nationaux américains car sa nature et ses actions empêchent des relations normales entre les Etats-Unis et les pays arabes et musulmans et dans une mesure croissante avec la communauté internationale.

Cette étude a [donc] été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain comprenant 16 agences avec un budget annuel de 70 milliards de dollars. Cette communauté du renseignement comprend les départements de la marine, de l’armée de terre, de l’armée de l’air, des corps de Marines, des garde-côtes, le ministère de la défense et agence de renseignement, les départements de l’Energie, de la sécurité intérieure, l’Etat, le Trésor, l’agence de lutte anti-drogue, le FBI, l’agence de sécurité nationale, l’agence de renseignement géo spécial, l’agence de reconnaissance nationale et la CIA.

Parmi les conclusions de ce rapport on trouve :

 

  • Israël, compte tenu de son occupation brutale [et] sa bellicosité, ne peut pas être sauvé, tout comme le régime d’Apartheid de l’Afrique du Sud n’a pu l’être alors même qu’Israël a été le seul pays « occidental » à entretenir des relations diplomatiques jusqu’en 1987 avec l’Afrique du Sud et a été le dernier pays à se joindre à la campagne de boycott avant que le régime ne s’effondre ;
  • la direction israélienne est de plus en plus éloignée des réalités politiques, militaires [et] économiques du Moyen-Orient en accroissant son soutien aux 700.000 colons illégaux vivant en Cisjordanie occupée ;
  • le gouvernement de coalition post-travailliste Likoud est profondément complice et influencé par le pouvoir politique et financier des colons et devra faire face à de plus en plus de soulèvements civils domestiques avec lesquels le gouvernement américain ne doit pas s’associer ou s’impliquer ;
  • le Printemps arabe et le réveil islamique a, dans une large mesure, libéré une grande partie des 1,2 milliard d’Arabes et Musulmans pour lutter contre ce qu’une très grande majorité considère comme une occupation européenne illégale, immorale et insoutenable de la Palestine et de la population indigène  ;
  • le pouvoir arabe et musulman qui s’étend rapidement dans la région comme en témoignent le Printemps arabe, le réveil islamique et la montée en puissance de l’Iran, se fait simultanément – bien que préexistant – avec le déclin de la puissance et de l’influence américaines, et le soutien des Etats-Unis à un Israël belliqueux et oppressif devient impossible à défendre ou  à concrétiser compte tenu des intérêts nationaux américains comprenant la normalisation des relations avec les 57 pays islamiques ;
  • l’énorme ingérence d’Israël dans les affaires intérieures des Etats-Unis par l’espionnage et des transferts illégaux d’armes : cela comprend le soutien à plus de 60 « organisations majeures » et approximativement 7.500 fonctionnaires américains qui obéissent aux diktats d’Israël et cherchent à intimider les médias et les organisations gouvernementales ; cela ne devrait plus être toléré ;
  • le gouvernement américain n’a plus les ressources financières ni le soutien populaire pour continuer à financer Israël. Ce n’est plus envisageable d’ajouter aux plus de 3 mille milliards de dollars d’aide directe ou indirecte d’argent des contribuables versés à Israël depuis 1967, ces derniers s’opposant à ce que l’armée américaine continue de s’impliquer au Moyen-Orient. L’opinion publique américaine ne soutient plus le financement et les guerres étatsuniennes largement perçues comme illégales pour le compte d’Israël. Cette opinion est de plus en plus partagée en Europe, en Asie et au sein de l’opinion publique internationale ;
  • les infrastructures d’occupation ségrégationniste d’Israël sont la preuve d’une discrimination légalisée et de systèmes de justice de plus en plus séparés et inégaux qui ne doivent plus être directement ou indirectement financés par les contribuables américains ou ignorés par les gouvernements des Etat-Unis ;
  • Israël a échoué comme Etat démocratique autoproclamé et le soutien financier et politique américain ne changera pas sa dérive comme Etat paria international ;
  • les colons juifs manifestent de plus en plus un violent racisme rampant en Cisjordanie soutenu par le gouvernement israélien devenu leur protecteur et leur partenaire ;
  • de plus en plus de juifs américains sont contre le sionisme et les pratiques israéliennes, inclus les assassinats et les brutalités à l’encontre des Palestiniens vivant sous occupation, les considérant comme des violations flagrantes du droit américain et international et cela soulève des questions au sein de la communauté juive américaine, eu égard à la responsabilité de protéger (R2P) (1) des civils innocents vivant sous occupation ;
  • l’opposition internationale à un régime de plus en plus d’Apartheid se fait l’écho de la défense des valeurs humanitaires américaines ou des attentes américaines dans le cadre de des relations bilatérales avec les 193 pays membres de l’ONU.

Le rapport se termine en préconisant d’éviter des alliances rapprochées auxquelles s’oppose la majeure partie du monde entier et qui condamnent les citoyens américains à en supporter les conséquences.

A l’évidence Israël va se précipiter sur ce rapport bientôt publié pour faire pression sur les deux candidats à la présidentielle américaine, Obama et Romney, pour voir qui des deux en minimisera le plus les conclusions, s’engageant même à le ranger au placard en promettant d’accroître l’aide financière et militaire à l’entité coloniale judéo-sioniste fossoyeuse de l’Empire américain.

Mireille Delmarre
IRIB (iran French Radio)
3/09/2012

Note de la rédaction : voir http://en.wikipedia.org/wiki/Responsibility_to_protect

Correspondance Polémia – 25/09/2012

mercredi, 10 octobre 2012

En Syrie l’OTAN vise le gazoduc

L’art de la guerre : en Syrie l’OTAN vise le gazoduc

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La déclaration de guerre, aujourd’hui, n’est plus d’usage. Pour faire la guerre il faut par contre encore trouver un casus belli. Comme le projectile de mortier qui, parti de Syrie, a fait 5 victimes en Turquie. Ankara a riposté à coups de canons, tandis que le parlement a autorisé le gouvernement Erdogan à effectuer des opérations militaires en Syrie. Un chèque en blanc pour la guerre, que l’Otan est prête à encaisser. Le Conseil atlantique a dénoncé « les actes agressifs du régime syrien à la frontière sud-orientale de l’Otan », prêt à déclencher l’article 5 qui engage à assister avec la force armée le pays membre attaqué. Mais déjà est en acte le « non-article 5 » -introduit pendant la guerre contre la Yougoslavie et appliqué contre l’Afghanistan et la Libye- qui autorise des opérations non prévues par l’article 5, en dehors du territoire de l’Alliance.

Eloquentes sont les images des édifices de Damas et Alep dévastés par de très puissants explosifs : œuvre non pas de simples rebelles, mais de professionnels de la guerre infiltrés. Environ 200 spécialistes des forces d’élite britanniques Sas et Sbs –rapporte le Daily Star-  opèrent depuis des mois en Syrie, avec des unités étasuniennes et françaises. La force de choc est constituée par un ramassis armé de groupes islamistes (jusqu’à hier qualifiés par Washington de terroristes) provenant d’Afghanistan, Bosnie, Tchétchénie, Libye et autres pays. Dans le groupe d’Abou Omar al-Chechen –rapporte l’envoyé du Guardian à Alep- les ordres sont donnés en arabe, mais doivent être traduits en tchétchène, tadjik, turc, en dialecte saoudien, en urdu, français et quelques autres langues. Munis de faux passeports (spécialité de la Cia), les combattants affluent dans les provinces turques d’Adana et du Hatay, frontalières de la Syrie, où la Cia a ouvert des centres de formation militaire. Les armes arrivent surtout par l’Arabie saoudite et le Qatar qui, comme en Libye, fournit aussi des forces spéciales. Le commandement des opérations se trouve à bord de navires Otan dans le port d’Alexandrette. Pendant ce temps,  sur le Mont Cassius, au bord de la Syrie, l’Otan construit une nouvelle base d’espionnage électronique, qui s’ajoute à la base radar de Kisecik et à celle aérienne d’Incirlik. A Istanbul a été ouvert un centre de propagande où des dissidents syriens, formés par le Département d’état Usa, confectionnent les nouvelles et les vidéos qui sont diffusées par des réseaux satellitaires.

La guerre Otan contre la Syrie est donc déjà en acte, avec le motif officiel d’aider le pays à se libérer du régime d’Assad. Comme en Libye, on a fiché un coin dans les fractures internes pour provoquer l’écroulement de l’état, en instrumentalisant la tragédie dans laquelle les populations sont emportées. Le but est le même : Syrie, Iran et Irak ont signé en juillet 2011 un accord pour un gazoduc qui, d’ici 2016, devrait relier le gisement iranien de South Pars, le plus grand du monde, à la Syrie et ainsi à la Méditerranée. La Syrie où a été découvert un autre gros gisement près de Homs, peut devenir un hub de couloirs énergétiques alternatifs à ceux qui traversent la Turquie et à d’autres parcours, contrôlés par les compagnies étasuniennes et européennes. Pour cela on veut la frapper et l’occuper.

C’est clair, en Turquie, pour les 129 députés (un quart) opposés à la guerre et pour les milliers de gens qui ont manifesté avec le slogan « Non à l’intervention impérialiste en Syrie ».

Pour combien  d’Italiens est-ce clair, au parlement et dans le pays ?[1]

 

Edition de mardi 9 octobre 2012 de il manifesto

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20121009/manip2pg/14/manip2pz/329867/

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

[1] Même question, évidemment, pour les députés et population français –et britanniques- qui participent par leurs impôts notamment aux opérations clandestines des forces spéciales en Syrie, NdT.

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Historique du grand jeu gazier

Une première lecture de la carte du gaz révèle que celui-ci est localisé dans les régions suivantes, en termes de gisements et d’accès aux zones de consommation :

  1. Russie : Vyborg et Beregvya
  2. Annexé à la Russie : Turkménistan
  3. Environs plus ou moins immédiats de la Russie : Azerbaïdjan et Iran
  4. Pris à la Russie : Géorgie
  5. Méditerranée orientale : Syrie et Liban
  6. Qatar et Égypte.

Carte des gisements de gaz et de pétrole, des infrastructures ainsi que des gazoducs et oléoducs du Moyen-Orient

Moscou s’est hâté de travailler sur deux axes stratégiques : le premier est la mise en place d’un projet sino-russe à long terme s’appuyant sur la croissance économique du Bloc de Shanghai ; le deuxième visant à contrôler les ressources de gaz. C’est ainsi que furent jetées les bases des projets South Stream et Nord Stream, faisant face au projet étasunien Nabucco, soutenu par l’Union européenne, qui visait le gaz de la mer Noire et de l’Azerbaïdjan. S’ensuivit entre ces deux initiatives une course stratégique pour le contrôle de l’Europe et des ressources en gaz.

Pour la Russie :

Le projet Nord Stream relie directement la Russie à l’Allemagne en passant à travers la mer Baltique jusqu’à Weinberg et Sassnitz, sans passer par la Biélorussie.

Le projet South Stream commence en Russie, passe à travers la la mer Noire jusqu’à la Bulgarie et se divise entre la Grèce et le sud de l’Italie d’une part, et la Hongrie et l’Autriche d’autre part.

Pour les États-Unis :

Le projet Nabucco part d’Asie centrale et des environs de la Mer Noire, passe par la Turquie où se situent les infrastructures de stockage, puis parcours la Bulgarie, traverse la Roumanie, la Hongrie, arrive en Autriche et de là se dirige vers la République Tchèque, la Croatie, la Slovénie et l’Italie. Il devait à l’origine passer en Grèce, mais cette idée avait été abandonnée sous la pression turque.

Nabucco était censé concurrencer les projets russes. Initialement prévu pour 2014, il a dû être repoussé à 2017 en raison de difficultés techniques. À partir de là, la bataille du gaz a tourné en faveur du projet russe, mais chacun cherche toujours à étendre son projet à de nouvelles zones.

Cela concerne d’une part le gaz iranien, que les États-Unis voulaient voir venir renforcer le projet Nabucco en rejoignant le point de groupage de Erzurum, en Turquie ; et de l’autre le gaz de la Méditerranée orientale : Syrie, Liban, Israël.

Or en juillet 2011, l’Iran a signé divers accords concernant le transport de son gaz via l’Irak et la Syrie. Par conséquent, c’est désormais la Syrie qui devient le principal centre de stockage et de production, en liaison avec les réserves du Liban. C’est alors un tout nouvel espace géographique, stratégique et énergétique qui s’ouvre, comprenant l’Iran, l’Irak, la Syrie et le Liban. Les entraves que ce projet subit depuis plus d’un an donnent un aperçu du niveau d’intensité de la lutte qui se joue pour le contrôle de la Syrie et du Liban. Elles éclairent du même coup le rôle joué par la France, qui considère la Méditerranée orientale comme sa zone d’influence historique, devant éternellement servir ses intérêts, et où il lui faut rattraper son absence depuis la Seconde Guerre mondiale. En d’autres termes, la France veut jouer un rôle dans le monde du gaz où elle a acquis en quelque sorte une « assurance maladie » en Libye et veut désormais une « assurance-vie » à travers la Syrie et le Liban.

Quant à la Turquie, elle sent qu’elle sera exclue de cette guerre du gaz puisque le projet Nabucco est retardé et qu’elle ne fait partie d’aucun des deux projets South Stream et Nord Stream ; le gaz de la Méditerranée orientale semble lui échapper inexorablement à mesure qu’il s’éloigne de Nabucco.

L’axe Moscou-Berlin

Pour ses deux projets, Moscou a créé la société Gazprom dans les années 1990. L’Allemagne, qui voulait se libérer une fois pour toutes des répercussions de la Seconde Guerre mondiale, se prépara à en être partie prenante ; que ce soit en matière d’installations, de révision du pipeline Nord, ou de lieux de stockage pour la ligne South Stream au sein de sa zone d’influence, particulièrement en Autriche.

La société Gazprom a été fondée avec la collaboration de Hans-Joachim Gornig, un allemand proche de Moscou, ancien vice-président de la compagnie allemande de pétrole et de gaz industriels qui a supervisé la construction du réseau de gazoducs de la RDA. Elle a été dirigée jusqu’en octobre 2011 par Vladimir Kotenev, ancien ambassadeur de Russie en Allemagne.

Gazprom a signé nombre de transactions avec des entreprises allemandes, au premier rang desquelles celles coopérant avec Nord Stream, tels les géants E.ON pour l’énergie et BASF pour les produits chimiques ; avec pour E.ON des clauses garantissant des tarifs préférentiels en cas de hausse des prix, ce qui revient en quelque sorte à une subvention « politique » des entreprises du secteur énergétique allemand par la Russie.

Moscou a profité de la libéralisation des marchés européens du gaz pour les contraindre à déconnecter les réseaux de distribution des installations de production. La page des affrontements entre la Russie et Berlin étant tournée, débuta alors une phase de coopération économique basée sur l’allégement du poids de l’énorme dette pesant sur les épaules de l’Allemagne, celle d’une Europe surendettée par le joug étasunien. Une Allemagne qui considère que l’espace germanique (Allemagne, Autriche, République Tchèque, Suisse) est destiné à devenir le cœur de l’Europe, mais n’a pas à supporter les conséquences du vieillissement de tout un continent, ni celle de la chute d’une autre superpuissance.

Les initiatives allemandes de Gazprom comprennent le joint-venture de Wingas avec Wintershall, une filiale de BASF, qui est le plus grand producteur de pétrole et de gaz d’Allemagne et contrôle 18 % du marché du gaz. Gazprom a donné à ses principaux partenaires allemands des participations inégalées dans ses actifs russes. Ainsi BASF et E.ON contrôlent chacune près d’un quart des champs de gaz Loujno-Rousskoïé qui alimenteront en grande partie Nord Stream ; et ce n’est donc pas une simple coïncidence si l’homologue allemand de Gazprom, appelé « le Gazprom germanique », ira jusqu’à posséder 40 % de la compagnie autrichienne Austrian Centrex Co, spécialisée dans le stockage du gaz et destinée à s’étendre vers Chypre.

Une expansion qui ne plait certainement pas à la Turquie qui a cruellement besoin de sa participation au projet Nabucco. Elle consisterait à stocker, commercialiser, puis transférer 31 puis 40 milliards de m³ de gaz par an ; un projet qui fait qu’Ankara est de plus en plus inféodé aux décisions de Washington et de l’OTAN, d’autant plus que son adhésion à l’Union européenne a été rejetée à plusieurs reprises.

Les liens stratégiques liés au gaz déterminent d’autant plus la politique que Moscou exerce un lobbying sur le Parti social-démocrate allemand en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, base industrielle majeure et centre du conglomérat allemand RWE, fournisseur d’électricité et filiale d’E.ON.

Cette influence a été reconnue par Hans-Joseph Fell, responsable des politiques énergétiques chez les Verts. Selon lui quatre sociétés allemandes liées à la Russie jouent un rôle majeur dans la définition de la politique énergétique allemande. Elles s’appuient sur le Comité des relations économiques de l’Europe de l’Est —c’est-à-dire sur des entreprises en contact économique étroit avec la Russie et les pays de l’ex Bloc soviétique—, qui dispose d’un réseau très complexe d’influence sur les ministres et l’opinion publique. Mais en Allemagne, la discrétion reste de mise quant à l’influence grandissante de la Russie, partant du principe qu’il est hautement nécessaire d’améliorer la « sécurité énergétique » de l’Europe.

Il est intéressant de souligner que l’Allemagne considère que la politique de l’Union européenne pour résoudre la crise de l’euro pourrait à terme gêner les investissements germano-russes. Cette raison, parmi d’autres, explique pourquoi elle traine pour sauver l’euro plombé par les dettes européennes, alors même que le bloc germanique pourraient, à lui seul, supporter ces dettes. De plus, à chaque fois que les Européens s’opposent à sa politique vis-à-vis de la Russie, elle affirme que les plans utopiques de l’Europe ne sont pas réalisables et pourraient pousser la Russie à vendre son gaz en Asie, mettant en péril la sécurité énergétique européenne.

Ce mariage des intérêts germano-russes s’est appuyé sur l’héritage de la Guerre froide, qui fait que trois millions de russophones vivent en Allemagne, formant la deuxième plus importante communauté après les Turcs. Poutine était également adepte de l’utilisation du réseau des anciens responsables de la RDA, qui avaient pris soin des intérêts des compagnies russes en Allemagne, sans parler du recrutement d’ex-agents de la Stasi. Par exemple, les directeurs du personnel et des finances de Gazprom Germania, ou encore le directeur des finances du Consortium Nord Stream, Warnig Matthias qui, selon le Wall Street Journal, aurait aidé Poutine à recruter des espions à Dresde lorsqu’il était jeune agent du KGB. Mais il faut le reconnaitre, l’utilisation par la Russie de ses anciennes relations n’a pas été préjudiciable à l’Allemagne, car les intérêts des deux parties ont été servis sans que l’une ne domine l’autre.

Le projet Nord Stream, le lien principal entre la Russie et l’Allemagne, a été inauguré récemment par un pipeline qui a coûté 4,7 milliards d’euros. Bien que ce pipeline relie la Russie et l’Allemagne, la reconnaissance par les Européens qu’un tel projet garantissait leur sécurité énergétique a fait que la France et la Hollande se sont hâtées de déclarer qu’il s’agissait bien là d’un projet « européen ». À cet égard, il est bon de mentionner que M. Lindner, directeur exécutif du Comité allemand pour les relations économiques avec les pays de l’Europe de l’Est a déclaré, sans rire, que c’était bien « un projet européen et non pas allemand, et qu’il n’enfermerait pas l’Allemagne dans une plus grande dépendance vis-à-vis de la Russie ». Une telle déclaration souligne l’inquiétude que suscite l’accroissement de l’influence Russe en l’Allemagne ; il n’en demeure pas moins que le projet Nord Stream est structurellement un plan moscovite et non pas européen.

Les Russes peuvent paralyser la distribution de l’énergie en Pologne dans plusieurs pays comme bon leur semblent, et seront en mesure de vendre le gaz au plus offrant. Toutefois, l’importance de l’Allemagne pour la Russie réside dans le fait qu’elle constitue la plate-forme à partir de laquelle elle va pouvoir développer sa stratégie continentale ; Gazprom Germania détenant des participations dans 25 projets croisés en Grande-Bretagne, Italie, Turquie, Hongrie et d’autres pays. Cela nous amène à dire que Gazprom – après un certain temps – est destinée à devenir l’une des plus importantes entreprises au monde, sinon la plus importante.

Dessiner une nouvelle carte de l’Europe, puis du monde

Les dirigeants de Gazprom ont non seulement développé leur projet, mais ils ont aussi fait en sorte de contrer Nabucco. Ainsi, Gazprom détient 30 % du projet consistant à construire un deuxième pipeline vers l’Europe suivant à peu près le même trajet que Nabucco ce qui est, de l’aveu même de ses partisans, un projet « politique » destiné à montrer sa force en freinant, voire en bloquant le projet Nabucco. D’ailleurs Moscou s’est empressé d’acheter du gaz en Asie centrale et en mer Caspienne dans le but de l’étouffer, et de ridiculiser Washington politiquement, économiquement et stratégiquement par la même occasion.

Gazprom exploite des installations gazières en Autriche, c’est-à-dire dans les environs stratégiques de l’Allemagne, et loue aussi des installations en Grande-Bretagne et en France. Toutefois, ce sont les importantes installations de stockage en Autriche qui serviront à redessiner la carte énergétique de l’Europe, puisqu’elles alimenteront la Slovénie, la Slovaquie, la Croatie, la Hongrie, l’Italie et l’Allemagne. À ces installations, il faut ajouter le centre de stokage de Katrina, que Gazprom construit en coopération avec l’Allemagne, afin de pouvoir exporter le gaz vers les grands centres de consommation de l’Europe de l’ouest.

Gazprom a mis en place une installation commune de stockage avec la Serbie afin de fournir du gaz à la Bosnie-Herzégovine et à la Serbie elle-même. Des études de faisabilité ont été menées sur des modes de stockage similaires en République Tchèque, Roumanie, Belgique, Grande-Bretagne, Slovaquie, Turquie, Grèce et même en France. Gazprom renforce ainsi la position de Moscou, fournisseur de 41 % des approvisionnements gaziers européens. Ceci signifie un changement substantiel dans les relations entre l’Orient et l’Occident à court, moyen et long terme. Cela annonce également un déclin de l’influence états-unienne, par boucliers antimissiles interposés, voyant l’établissement d’une nouvelle organisation internationale, dont le gaz sera le pilier principal. Enfin cela explique l’intensification du combat pour le gaz de la côte Est de la Méditerranée au Proche-Orient.

Nabucco et la Turquie en difficulté

Nabucco devait acheminer du gaz sur 3 900 kilomètres de la Turquie vers l’Autriche et était conçu pour fournir 31 milliards de mètres cubes de gaz naturel par an depuis le Proche-Orient et le bassin caspien vers les marchés européens. L’empressement de la coalition OTAN-États-unis-France à mettre fin aux obstacles qui s’élevaient contre ses intérêts gaziers au Proche-Orient, en particulier en Syrie et au Liban, réside dans le fait qu’il est nécessaire de s’assurer la stabilité et la bienveillance de l’environnement lorsqu’il est question d’infrastructures et d’investissement gaziers. La réponse syrienne fût de signer un contrat pour transférer vers son territoire le gaz iranien en passant par l’Irak. Ainsi, c’est bien sur le gaz syrien et libanais que se focalise la bataille, alimentera t-il Nabucco ou South Stream ?

Le consortium Nabucco est constitué de plusieurs sociétés : allemande (REW), autrichienne (OML), turque (Botas), bulgare (Energy Company Holding), et roumaine (Transgaz). Il y a cinq ans, les coûts initiaux du projet étaient estimées à 11,2 milliards de dollars, mais ils pourraient atteindre 21,4 milliards de dollars d’ici 2017. Ceci soulève de nombreuses questions quant à sa viabilité économique étant donné que Gazprom a pu conclure des contrats avec différentes pays qui devaient alimenter Nabucco, lequel ne pourrait plus compter que sur les excédents du Turkménistan, surtout depuis les tentatives infructueuses de mainmise sur le gaz iranien. C’est l’un des secrets méconnus de la bataille pour l’Iran, qui a franchi la ligne rouge dans son défi aux USA et à l’Europe, en choisissant l’Irak et la Syrie comme trajets de transport d’une partie de son gaz.

Ainsi, le meilleur espoir de Nabucco demeure dans l’approvisionnement en gaz d’Azerbaïdjan et le gisement Shah Deniz, devenu presque la seule source d’approvisionnement d’un projet qui semble avoir échoué avant même d’avoir débuté. C’est ce que révèle l’accélération des signatures de contrats passés par Moscou pour le rachat de sources initialement destinées à Nabucco, d’une part, et les difficultés rencontrées pour imposer des changements géopolitiques en Iran, en Syrie et au Liban d’autre part. Ceci au moment où la Turquie s’empresse de réclamer sa part du projet Nabucco, soit par la signature d’un contrat avec l’Azerbaïdjan pour l’achat de 6 milliards de mètres cubes de gaz en 2017, soit par l’annexion de la Syrie et du Liban avec l’espoir de faire obstacle au transit du pétrole iranien ou de recevoir une part de la richesse gazière libano-syrienne. Apparemment une place dans le nouvel ordre mondial, celui du gaz ou d’autre chose, passe par rendre un certain nombre de service, allant de l’appui militaire jusqu’à l’hébergement du dispositif stratégique de bouclier antimissiles.

Ce qui constitue peut-être la principale menace pour Nabucco, c’est la tentative russe de le faire échouer en négociant des contrats plus avantageux que les siens en faveur de Gazprom pour North Stream et South Stream ; ce qui invaliderait les efforts des États-Unis et de l’Europe, diminuerait leur influence, et bousculerait leur politique énergétique en Iran et/ou en Méditerranée. En outre, Gazprom pourrait devenir l’un des investisseurs ou exploitants majeurs des nouveaux gisements de gaz en Syrie ou au Liban. Ce n’est pas par hasard que le 16 août 2011, le ministère syrien du Pétrole à annoncé la découverte d’un puits de gaz à Qara, près de Homs. Sa capacité de production serait de 400 000 mètres cubes par jour (146 millions de mètres cubes par an), sans même parler du gaz présent dans la Méditerranée.

Les projets Nord Stream et South Stream ont donc réduit l’influence politique étasunienne, qui semble désormais à la traîne. Les signes d’hostilité entre les États d’Europe centrale et la Russie se sont atténués ; mais la Pologne et les États-Unis ne semblent pas disposés à renoncer. En effet, fin octobre 2011, ils ont annoncé le changement de leur politique énergétique suite à la découverte de gisements de charbon européens qui devraient diminuer la dépendance vis-à-vis de la Russie et du Proche-Orient. Cela semble être un objectif ambitieux mais à long terme, en raison des nombreuses procédures nécessaires avant commercialisation ; ce charbon correspondant à des roches sédimentaires trouvées à des milliers de mètres sous terre et nécessitant des techniques de fracturation hydraulique sous haute pression pour libérer le gaz, sans compter les risques environnementaux.

Participation de la Chine

La coopération sino-russe dans le domaine énergétique est le moteur du partenariat stratégique entre les deux géants. Il s’agit, selon les experts, de la « base » de leur double véto réitéré en faveur de la Syrie.

Cette coopération ne concerne pas seulement l’approvisionnement de la Chine à des conditions préférentielles. La Chine est amenée à s’impliquer directement dans la distribution du gaz via l’acquisition d’actifs et d’installations, en plus d’un projet de contrôle conjoint des réseaux de distribution. Parallèlement, Moscou affiche sa souplesse concernant le prix du gaz, sous réserve d’être autorisé à accéder au très profitable marché intérieur chinois. Il a été convenu, par conséquent, que les experts russes et chinois travailleraient ensemble dans les domaines suivants : « La coordination des stratégies énergétiques, la prévision et la prospection, le développement des marchés, l’efficacité énergétique, et les sources d’énergie alternative ».

D’autres intérêts stratégiques communs concernent les risques encourus face au projet du « bouclier antimissiles » US. Non seulement Washington a impliqué le Japon et la Corée du Sud mais, début septembre 2011, l’Inde a aussi été invitée à en devenir partenaire. En conséquence, les préoccupations des deux pays se croisent au moment où Washington relance sa stratégie en Asie centrale, c’est-à-dire, sur la Route de la soie. Cette stratégie est la même que celle lancée par George Bush (projet de Grande Asie centrale) pour y faire reculer l’influence de la Russie et de la Chine en collaboration avec la Turquie, résoudre la situation en Afghanistan d’ici 2014, et imposer la force militaire de l’OTAN dans toute la région. L’Ouzbékistan a déjà laissé entendre qu’il pourrait accueillir l’OTAN, et Vladimir Poutine a estimé que ce qui pourrait déjouer l’intrusion occidentale et empêcher les USA de porter atteinte à la Russie serait l’expansion de l’espace Russie-Kazakhtan-Biélorussie en coopération avec Pékin.

Cet aperçu des mécanismes de la lutte internationale actuelle permet de se faire une idée du processus de formation du nouvel ordre international, fondé sur la lutte pour la suprématie militaire et dont la clé de voute est l’énergie, et en premier lieu le gaz.

Le gaz de la Syrie

Quand Israël a entrepris l’extraction de pétrole et de gaz à partir de 2009, il était clair que le bassin Méditerranéen était entré dans le jeu et que, soit la Syrie serait attaquée, soit toute la région pourrait bénéficier de la paix, puisque le 21ème siècle est supposé être celui de l’énergie propre.

Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme les plus grandes réserves de gaz et c’est en Syrie qu’il y aurait les plus importantes. Ce même institut a aussi émis l’hypothèse que la bataille entre la Turquie et Chypre allait s’intensifier du fait de l’incapacité Turque à assumer la perte du projet Nabucco (malgré le contrat signé avec Moscou en décembre 2011 pour le transport d’une partie du gaz de South Stream via la Turquie).

La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient. Et à partir de la Syrie, porte de l’Asie, il détiendra « la clé de la Maison Russie », comme l’affirmait la Tsarine Catherine II, ainsi que celle de la Chine, via la Route de la soie. Ainsi, il serait en capacité de dominer le monde, car ce siècle est le Siècle du Gaz.

C’est pour cette raison que les signataires de l’accord de Damas, permettant au gaz iranien de passer à travers l’Irak et d’accéder à la Méditerranée, ouvrant un nouvel espace géopolitique et coupant la ligne de vie de Nabucco, avaient déclaré « La Syrie est la clé de la nouvelle ère ».

Source : Mecanoblog

A Concepção Sagrada dos Espaços

A Concepção Sagrada dos Espaços

por Orazio M. Gnerre

Ex: http://legio-victrix.blogspot.be/ 



Texto da palestra de Orazio Gnerre, do Instituto Millenium, no IIIº Encontro Nacional Evoliano em João Pessoa.

Boa noite à todos,

Com a permissão do público e do professor Dugin, começarei.

Nós definimos o tema que escolhemos para a nossa discussão, "a concepção do espaço sagrado." Como você bem sabe, a escola de pensamento do tradicionalismo integrante baseia-se sobre um determinado assunto: os conceitos polares opostos subjacentes à abordagem dialética da realidade humana são dois simetricamente opostos - Tradição e Modernidade. Por Tradição compreendemos de modo geral a abordagem do "sagrado" ao real, uma leitura simbólica da mesma que, trabalhando com o que Carl Schmitt chamou de "catolicismo romano e forma política" princípio da representação, consideraremos o plano como um reflexo do mundo imanente transcendente, como expresso sistematicamente pela filosofia platônica. É um erro, porém definir o conservadorismo como um ramo da filosofia derivada do idealismo platônico porque, em sua visão ortodoxa, é considerada a ciência que estuda a manifestação do Uno pré-existente imanente - uma revelação eterna - e as estradas a fim de acessar sua experiência direta. A abordagem tradicional também pode ser definida cosmologicamente. A modernidade é a ruptura drástica com a concepção de existência simbólica e espiritual: a chave para o que não é mais cosmológico, como é na concepção tradicional, e sim mecânico. Se o pensamento tradicional é generalizante, representante, universalizante e essencialmente metafísico, o pensamento moderno, como seu oposto radical, manifesta-se como fragmentado, mecanicista e potencialmente niilista. Digo "basicamente" niilista porque, no desenrolar do fenômeno moderno, não esgota as possibilidades (ou pelo menos, não tivemos a oportunidade de conhecer este evento), mas aprofunda-se, expandindo sua influência e aumentando o grau de entropia que contém, provando ser o tempo da grande confusão prevista por René Guénon. Mais do que um sociólogo, incluindo Jedlowsky, advertiu-nos o fato de que a suposta pós-modernidade não é outra coisa senão o fenômeno moderno que é o apenas aparentemente negar a si mesmo, ele se quebra e se expande, criando uma nuvem de "modernidade diversas", e, aparentemente contrário ao contrário, de fato, todos os participantes do mesmo projeto e relativista perspectivista que, em aparente oposição ao primeiro evento universalista e racionalista da modernidade, na verdade, partes da natureza e cartesiana subjetivista. O professor Dugin, em seu discurso na conferência internacional de Moscou "Contra o mundo pós-moderno", tem bem definida a pós-modernidade como a queda da modernidade, então a expansão, a hipertrofia do princípio da quantidade que caracteriza a própria modernidade. Também o professor Dugin tem repetidamente salientou a necessidade de uma restauração da categoria filosófica do objetivismo, em oposição à natureza subjetivista da modernidade: na verdade ele não é o único que viu no universalismo marxista e no objetivismo (assim como na derrubada da manifestação idealista tripartite do Espírito) a continuação de categorias clássicas e tradicionais de pensamento. Cito neste caso o filósofo italiano Costanzo Preve que, em conjunto com Domenico Losurdo, representam a aresta de corte efectivo da Europa neomarxista. 

 

Se, como já dissemos, Tradição e Modernidade se opõem totalmente (e não dialeticamente), aqui é que ambos se projetam de cada fenômeno, porque, na verdade, são duas chaves reais para a leitura totalizante. É evidente, portanto, que deve haver um "sagrado" (tradicional e religioso) e "profano" (moderno e niilista), mesmo com o conceito de espaço, a importância de lugares, a interpretação providencial de áreas geográficas. O principal trabalho a que deve ser feita referência quando se trata desta diferença de abordagem é "O sagrado e o profano", texto esclarecedor do historiador romeno de religiões, famoso por ser ligado ao movimento da Legião do Miguel Arcanjo, professor, então, University, em Chicago, Mircea Eliade. Em seu texto explicativo, ele salienta as diferenças irreprimíveis que existem entre um homem religioso e secular, entre um homem e um homem da tradição da modernidade, na consideração do tempo, da vida, e lugares. Especialmente este último tema é que nos interessa em particular.

 

 

Eliade parte de um pressuposto geral, que é a base da consideração do fator espaço do homem religioso, o homem da Tradição: o mundo não é real. Neste sentido, a única coisa que o homem tradicional via como real, no entanto, era o Sagrado. A objetividade hegemônica do sagrado era aquele pelo qual o homem pudesse fazer o mundo real. O homem tradicional foi o vencedor real do mundo, o verdadeiro governante dos elementos (como ele era, interiorizados no pentagrama, que milênios mais tarde tornou-se o símbolo do Império Soviético sacral), como o filho dos deuses. O antropocentrismo tradicional, longe de ser semelhante ao do Iluminismo, ao contrário do último reconheceu a primazia do sagrado, como a única verdade incontestável. Como para os seres humanos, também criados devem ser realizados, "tornar-se o que você é", afirmando que o neoplatônico Santo Agostinho chamou "o poder" - estar no poder. E ele foi o homem, na verdade, o "Subcreator" (nas palavras de John Ronald Reuel Tolkien) que consagrou lugares, fez-se sagrado, tornando o domínio do Ser brilhante, e participando da criação de Deus também na concepção agostiniana, na verdade, a única coisa que se possa imaginar está sendo a adesão (que é a revelação do Santo), onde o mal é profundo como forte é a sua separação. Mesmo hoje, arar a terra perpetuamente consagrada ao Divino de nossos pais, cujos espíritos, anjos e santos padroeiros intercedem porque não afundam no abismo da não-existência. A perene conquista do Mundo do homem tradicional, então passou através da socialização do próprio mundo. O desenvolvimento desta verdade metafísica foi implementada após a revelação de Cristo, no ideal de evangelização ou Jihad. Útil a este respeito é lembrar que, para o homem tradicional, sendo o mundo espiritual mais importante e mais "real" do que o material, a primeira batalha era travada arduamente para conquistar a nível interno, uma luta até a morte pelo assassinato de seu Ego: esse foi o simbolismo de que também tratava o Barão Julius Evola, a que esta reunião é dedicada, a Grande Guerra Santa (para São Bernardo de Claraval, um dos grandes mestres do monasticismo ocidental, que são inspirados pelos cistercienses e trapistas) ou o Grande Jihad (o profeta Maomé). A corrida espacial foi qualitativamente inferior à horizontal para vertical, a conquista de seu microcosmo, a sua transferência sobre o domínio de si mesmo do indivíduo: a sacralização de si mesmo. Como o Buda disse: ". Entre aquele que vence na batalha mil vezes mil inimigos, e apenas aquele que vence a si mesmo, este é o melhor dos vencedores de cada batalha" . Qualitativamente inferior, mas não menos importante, a conquista horizontal, que Eliade identifica com o landname da tradição germânica, foi o processo pelo qual o homem subtraíu lugares no domínio da água, sem forma, do escuro, para render-se ao domínio da forma, da terra, e da luz. Igualmente Eliade considerava que estes dois princípios arquetípicos existem não apenas no plano horizontal, mas também sobre o eixo vertical. O nível horizontal é expresso pelo conceito axis mundi, o eixo do mundo, o centro radical da realidade. É importante que o eixo do mundo é único para si mesmo, ou localizado em um lugar (poderia realmente existir ...) que pode ser verdadeiramente chamado de centro de todo o mundo. No Mundo da Tradição tudo é relativo e tudo é absoluto, porque é o completo domínio do símbolo. É no templo que o homem tradicional no centro de seu mundo, que é o templo axis mundi. Não poderia ser de outra forma, para todos aqueles que vivem na orientação ao Sagrado: O templo é o seu ponto de referência, como um lugar de encontro entre a terra e os céus. Mas o templo, sendo o eixo do mundo, não só tem o valor de Scala Coeli, a Escada aos Céus: ele também ligou o homem à polaridade oposta, o mundo do informe, as águas primordiais. Esta é a ambivalência simbólica entre os pináculos das igrejas e suas criptas. O templo é de forma que, ao mesmo tempo, permite que você suba ao céu e retenha a água. É uma função mística e exorcista.

É interessante ver que todos estes arquétipos tradicionais nós podemos encontrar também em um pensador substancialmente “laico”, embora pessoalmente muito religioso. Falamos do já mencionado católico alemão Carl Schmitt, uma das mentes mais agudas do século passado, a quem o estudo do direito e mesmo da geopolítica devem muito. Ele abordou o problema espacial/territorial em duas obras suas, que lembramos serem “O Nomos da Terra” e “Terra e Mar”, este último escrito na forma de conto. Ele identificava duas fases da história da Civilização, que chamava respectivamente terrestre e marítima, e que nós podemos associar facilmente ao Mundo da Tradição e o da Modernidade. Segundo Schmitt estas duas concepções não estão ligadas somente a limites históricos, mas também a vínculos territoriais. Este é o motivo pelo qual a concepção terrestre está estritamente ligada ao bloco continental europeu e asiático, enquanto a marítima remete à Grande Ilha, a anglosfera que define o bloco anglo-americano. A primeira concepção, a terrestre, é ligada substancialmente aos princípios tradicionais do Sagrado (que em sentido político, se transpõem na comunidade orgânica, na hierarquia, na legitimidade, e no domínio da Forma e da Política), a segunda ao invés prova ser a manifestação do profano (nas suas expressões sociais de individualismo, igualitarismo, no domínio do informe e na ausência da norma). É aqui que se demonstra claramente o quanto a contraposição da Terra consagrada e da Água está presente também no pensamento de Schmitt. Não é casual que a manifestação da modernidade ocorra gradualmente, por meio da descoberta progressiva do novo mundo. Este é um argumento que tem sido aprofundado, partindo da geografia sagrada, pelo professor Dugin, e disso falaremos mais tarde. A Norma se demonstra em Schmitt com a legítima apropriação do território por parte de uma comunidade humana, que acaba sendo precisamente a consagração da mesma: é aqui que retorna o conceito já citado de landname. O landname é válido, porém somente na estabilidade: é a estabilidade que garante a legitimidade da norma (pelo mesmo motivo pelo qual o não se ater ao ordenamento jurídico pré-existente durante uma revolução política não é considerado ilegítimo). É assim que o landname só possui sentido na perspectiva terrestre. Um dos personagens pelos quaiso pensador alemão foi mais influenciados foi o nobre espanhol Donoso Cortés, herdeiro do que foi o último baluarte contra o avanço do poder marítimo anglo-saxão, a Santa Espanha Católica. Cortés, diplomata europeu de imenso calibre, homem político sem igual e agudo pensador, conhecia bem a realidade das revoluções igualitárias de 1848 e os ambientes da Restauração, considerando que entreteve também uma correspondência com o chanceler Metternich. Nele, feroz opositor da deriva anárquica europeia, Schmitt vê o defensor por excelência da Norma, da Lei. Como Schmitt, também Cortés também estava a procura daqueles que poderiam deter o avanço do anticristo, o processo de decadência total, o kat-echon, um papel que na tradição russa é preenchido pelo Imperador, e ele o identificou (com ou sem razão) em Napoleão III. O próprio Cortés define a Inglaterra como “a Grande Meretriz” (ou seja, Babilônia), que, como é sabido, na simbologia apocalíptica indica a mãe do Anticristo. Schmitt destaca várias vezes, em “Terra e Mar”, a natureza genealógica que liga o Império Britânico aos Estados Unidos da América. A conexão resulta então muito simples, em pleno acordo com todos os movimentos de resistência à Nova Ordem Mundial, que veem nos EUA “o Grande Satã”. Na Itália há dois livros dedicados ao ensinamento antimundialista que se pode tirar do Barão Evola, um de Carlo Terracciano, conhecido e amigo do Professor Dugin, e o outro de Pietro Carini. A lição de Cortés, entre outras coisas, está ligada profundamente à obra majestosa do primeiro opositor da Revolução Francesa (etapa central do processo subversivo na Europa), Joseph de Maistre, embaixador da Savóia junto ao czar. Ele e seu irmão Xavier se comprometeram firmemente ao lado da Rússia na luta contra o jacobinismo, um no sentido político, o outro no sentido militar.

 

 

Na abordagem sacra ao estudo dos espaços, não é possível deixar de recordar o papel desempenhado pelo presente professor Aleksandr Dugin, uma importante mente de nosso século, que abarca da geopolítica à filosofia, da sociologia à metafísica. Ele, como bem explica em muitos dos seus textos, está profundamente empenhado em difundir através de suas obras o elo estreito e direto que existe entre a geopolítica e a geografia sagrada, partindo especialmente das teorias do geopolítico alemão Karl Haushofer, que, sob a guarda do alpinista e estrategista britânico Mackinder, teorizava a integração política e militar do bloco continental europeu e asiático (que ele chamou de Heartland – Coração da Terra), contra a integração igual e oposta da World-Island (a Ilha-Mundo anglo-americana). Não definindo com o termo guenoniano de “ciência sagrada” a geopolítica, o professor Dugin a enquadra no âmbito daquelas pseudo-ciências que, por não terem sido completamente racionalizadas, e preservando ainda um alto nível de generalizações, manteve vivos, ainda que inconscientemente, aqueles arquétipos tradicionais dos quais estamos tratando. Em seu texto “Da Geografia Sagrada à Geopolítica”, cujas teses confluíram sucessivamente no “Paradigma do Fim”, o professor indaga antes de tudo o significado simbólico dos pontos cardeais na contraposição geopolítica “leste-oeste” e sociológica “norte-sul”. Leste e Oeste, na dialética geopolítica do mundo bipolar, constituía claramente o binômio da contraposição mundial da guerra Fria, bem como dois modelos diferentes de abordagem da vida. Se de um lado o Leste representava a “geométrica ordem prussiana” socialista, o Oeste simbolizava ao contrário o modelo hedonista do capitalismo desenfreado. Com a queda da contraposição dos blocos, e a transição pouco estável ao mundo unipolar, essa diferença não tem sido aplacada, de fato, ela foi radicalizada. Se bem que aparentemente também o Leste do mundo tem sido influenciado pelos dogmas modernos do progresso e do crescimento econômico exponencial, não podemos deixar de notar como nele estão ressurgindo (acima de tudo graças à parcial independência geopolítica de que pode desfrutar) os modelos culturais fundamentais para uma restauração integral. A oposição Leste-Oeste, no pensamento duginiano, se revela como a manifestação da contraposição do Oriente e do Ocidente metafísicos, ou melhor, simbólicos: a eterna ambivalência do apolíneo nascer do Sol e de sua descida nas Águas ocidentais. Os termos do desafio entre os dois pólos se tornam a Ascensão e a Queda, o Nascimento e a Morte, Criação e Dissolução. Em vários textos o professor se ocupou também do significado simbólico do centro geográfico que animam este desafio titânico dos continentes. Em dois de seus trabalhos, publicados na Itália no volume “Continente Rússia”, editado em 1991, ele diz limpidamente como, em uma perspectiva sacral e simbólica, a Sibéria – centro do Continente – coincide em realidade com a Hiperbórea, e a América do Norte se corresponde ao invés com a mitológica Ilha dos Mortos, a “terra verde”, da mitologia egípcia, a segunda Atlântida, o local das práticas obscenas de cultos orgiásticos. A segunda contraposição polar se identifica ao invés com Norte e Sul que, em uma concepção profana de sublevação, representam a parte rica e a pobre do globo, Primeiro e Terceiro Mundo. Nós todos conhecemos o simbolismo que na vasta literatura tradicional permeia os Pólos, especialmente o Norte. O Norte, ponto superior do Eixo do Mundo, nada mais é que o ápice solar. O Norte representa a superabundância de riqueza espiritual, o estágio último da Ascese. O Sul (de um ponto de vista simbólico e não meramente geográfico representa o contrário. A mentalidade profana, que em tudo opera a derrubada satânica dos significados, imanentizando esta contraposição em um sentido puramente geográfico, a preencheu com o significado de riqueza e pobreza materiais. Na concepção tradicional o nórdico é aquele que retorna ao gelo, aquele que perde o elemento passional e egoístico “demasiado humano” e que transcende a dimensão humana pela heroica. Já o racismo branco anglo-saxão ou pan-germanista, levado ao ápice político pelo Império Britânico em sua escana colonial global, e pelo hitlerismo ideológico ao nível europeu, demonstrava os elementos fundamentais dessa inversão demoníaca, ainda que preservando, no segundo caso, alguns elementos simbólicos da Tradição. O próprio Barão Evola escreveu muito sobre a necessidade de formar e criar uma raça do espírito, uma elite de aristocratas do espírito. O neopaganismo hitlerista, ao qual o orientalista, historiador das religiões e ex-tenente da SS italiana Pio Filippani Ronconi deu a alcunha de “contra-iniciático”, transpôs tudo a um plano biológico, invertendo o problema.

 

Em nossa opinião, também a cessão do Alasca polar por parte da Rússia aos Estados Unidos, no século XIX, representa um passo em direção à queda do Oriente do Norte espiritual. Não se há de duvidar do fato de que, se o Alasca tivesse permanecido nas mãos do Império Russo, o movimento bolchevique, fortificado no Gelo Eterno, teria empurrados suas hordas aos próprios portões da Pátria do Capitalismo. A sorte histórica seguramente teria sido diversa. No entanto, “os caminhos do Senhor são infinitos”, e Ele opera de maneiras misteriosas.

A ideologia eurasiática revivida pelo professor Dugin, e adaptada ao contexto pós-soviético, representa um destes modelos culturais alternativos, radicalmente verdadeiros, com os quais combater arduamente a Decadência iminente, para ataca-la em seu coração, nas suas contradições mais profundas, e superá-la gloriosamente. Não há dúvida de que as ações do antimoderno atingirão o seu objetivo porque, como dito pelo Para Urbano II durante o Concílio de Clermont: “Deus vult!” – Deus o quer. A Eurásia-Rússia, perfeito centro do Continente, da Heartland, representa hoje um farol de esperança para o Oriente e para o Sul do Mundo, para os europeus orgulhosos de suas próprias tradições e não alinhados ao unipolarismo estadounidense, não só geopolítico, mas também cultural, e para todos os Povos livres que sofreram o martírio por parte dos emissários da Decadência. Penso, neste momento, no heroico povo sírio, uma cidadela de Luz, onde os filhos de Deus xiitas, católicos e ortodoxos estão lutando tenazmente contra as hordas inimigas. A Eurásia, núcleo de reconciliação dos polos, porta do templo de Jano, que se abre para gerar a Unidade do real, se mostra como o Eixo do Mundo global, o templo geográfico, o ponto de partida para o landname total, a sacralização completa do Mundo, a Era do Espírito de Joaquim de Fiore, o Reino do Ar de Carl Schmitt, a terceira concepção espacial.

AMEN.

Tradução por Raphael Machado e Álvaro Hauschild