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mercredi, 12 mai 2010

Problema greco, affare europeo

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Problema Greco, affare europeo

di Roberto Zavaglia - 10/05/2010

Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Non bisognava essere dei veggenti per indovinare che le draconiane "misure di austerità" imposte dal governo greco in cambio del prestito elargito dalla Ue e dal Fmi avrebbero causato imponenti proteste, con il rischio di violenze più o meno diffuse. E' noto che, ad Atene, la battaglia politica è sempre molto "vivace" e le organizzazioni sindacali piuttosto combattive. Il sangue che è già scorso è stato, probabilmente, causato da quelle frange di estrema sinistra, che in Grecia si riuniscono per lo più sotto le bandiere anarchiche, la cui presenza non va sopravvalutata. Si tratta di poche migliaia di persone che nella capitale stazionano nel quartiere di Exarchia, dove vivono in scalcagnate comunità all'interno di case occupate. Pur essendo un mito per gli "antagonisti" di tutta Europa, dal punto di vista politico questi gruppi radicali, anche se sono in grado di produrre danni, contano poco.


  Sarebbe diverso se una parte della popolazione più indebolita dai piani governativi abbandonasse le forme pacifiche di contestazione. Nel giudicare le mosse del premier Papandreou, gli europei dovranno dunque tenere conto della sua esigenza di mantenere la pace sociale nella nazione. Le misure decise sono così pesanti che avrebbero provocato una reazione non solo nell'esuberante Grecia, ma in qualsiasi altro Paese europeo. Per rientrare dal debito fuori controllo, sono previsti il blocco degli stipendi dei lavoratori pubblici fino al 2014, l'abolizione di tredicesima e di quattordicesima per gli impiegati statali che guadagnano oltre 3.000 euri al mese, la cancellazioni di bonus che sono parte rilevante dello stipendio, l'aumento di altri due punti dell'Iva, con un incremento del 10% delle tasse su benzine, sigarette e alcolici, l'innalzamento dell'età pensionabile.  


  Va detto che quelle che sono state definite le cicale greche non se la passavano poi così bene nemmeno prima. I salari sono già bassi: quello minimo è pari al 60% dei corrispettivi olandese, belga, francese e al 50% dell'irlandese. La divisione della ricchezza, poi, è maggiormente sperequata rispetto agli altri Paesi dell'Eurozona. Il sistema economico greco ha molte colpe per l'attuale crisi. Il settore pubblico è ipertrofico ed inefficiente, essendo stato gonfiato con massicce assunzioni di carattere clientelare, l'evasione fiscale è immensa -perfino per un Paese come il nostro dove, al momento del conto, la domanda rituale è "con o senza fattura?"- la corruzione è ampiamente diffusa a tutti i livelli. Per l'economia greca, però, l'entrata nell'euro, tanto desiderata e poi raggiunta nel 2001, non è stato probabilmente un grande affare. Pur essendo i suoi prodotti  poco competitivi, Atene non può più attuare svalutazioni competitive della moneta al fine di   abbassare i prezzi delle sue merci, ma per rimettere in ordine i conti ha a disposizione solo lo strumento, doloroso, dei tagli e dell'innalzamento delle tasse. 


  Sono state comunque le esitazioni dell'Unione Europea ad aggravare la crisi, incoraggiando la speculazione finanziaria. La cancelliera Merkel, in particolare, ha a lungo tentennato, dando l'impressione di volere abbandonare la Grecia al proprio destino. Se è vero che la Germania non può essere il bancomat dei Paesi in difficoltà, bisogna però aggiungere che sono i tedeschi ad avere maggiormente guadagnato dall'entrata in vigore dell'euro, pur avendo abbandonato l'amato marco, vero e proprio simbolo identitario della nazione nel dopoguerra. Grazie alla parità monetaria, l'industria tedesca, infatti, ha potuto inondare con i suoi prodotti di alta qualità soprattutto i Paesi più deboli dell'area euro.
  Giova inoltre ricordare che una parte consistente del debito greco è detenuto, oltre che da quelle francesi, dalle banche tedesche che, in caso di default, si potrebbero trovare nella condizione di chiedere sussidi governativi. Gli aiuti ad Atene sono dei prestiti al gravoso tasso del 5% che, se rimborsati, produrranno cospicui profitti per i Paesi che li hanno concessi i quali si indebitano a tassi minori. Si calcola che la stessa Germania guadagnerebbe, solo con la prima tranche di prestiti, 622 milioni di euri, la Francia 465 milioni e l'Italia 356 milioni. Comunque, la crisi greca, più di ogni altra cosa, ci ha mostrato che la solidarietà europea è un concetto aleatorio. Le settimane passate nell'incertezza, i toni "nazionalistici", con i quali i vari governi hanno voluto far mostra di difendere i risparmi dei propri cittadini, hanno evidenziato quanto l'Europa sia debole anche rispetto a quella moneta comune che riteneva il suo capolavoro e il suo gioiello.


  Finalmente, la Merkel, mercoledì scorso, in un discorso al parlamento, che la stampa tedesca ha giudicato storico, ha dato l'impressione di assumersi le responsabilità che competono a un Paese così importante. Dopo avere dichiarato che "è in gioco il futuro dell'Europa e della Germania in Europa", la cancelliera ha aggiunto perentoriamente che "l'Europa oggi guarda alla Germania. Senza di noi o contro di noi non si può prendere alcuna decisione". Sembrerebbe la prima rivendicazione del ruolo di guida di Berlino in Europa, dopo decenni in cui la Germania ha messo ogni impegno per diluire la sua forza economica in un europeismo consensuale, negando di volere primeggiare anche politicamente. Ferma da tempo in stazione la locomotiva franco-tedesca, non sarebbe una brutta notizia che la sola Germania si decidesse a fare da traino per l'integrazione europea, abbandonando scrupoli e paure suscitati dal suo passato.


  Sarebbe davvero eccessivo, però, trarre da un discorso parlamentare conclusioni politiche certe.  L'Europa attuale, anche dal punto di vista economico, ha bisogno di rilevanti riforme che metteranno in luce se c'è davvero chi ambisce a fare da sprone agli altri. Oggi, si capisce che è stato sbagliato dotare della stessa moneta Paesi con divari economici troppo marcati. Probabilmente, si pensava di valersi ancora una volta del metodo funzionalista, compiendo un passo importante sul piano economico, nella convinzione che la coesione sociale scaturitane favorisse il rafforzamento delle istituzioni politiche. E' vero che l'integrazione continentale è nata con la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), ma adesso ci si è spinti a un punto in cui l'iniziativa politica deve precedere ogni altra istanza.


  Anche nel governo dell'economia, senza una politica fiscale comune e senza un coordinamento delle finanze dei vari Paesi, l'euro rappresenterà più una gabbia che un'opportunità, lasciando i  Paesi più deboli nelle grinfie degli avvoltoi alla Soros. In fin dei conti, mentre l'Europa trema per la crisi della Grecia che rappresenta solo lo 0,3% del pil mondiale, gli Usa non sembrano avere le stesse difficoltà per la quasi bancarotta della ben più sostanziosa (economicamente) California. Vale a dire che, senza la politica e senza un governo responsabile, le potenze economiche sono solo tigri di carta.

 

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Crise: "le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps"

Crise : « le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps »

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Jean-Luc Gréau n’est pas vraiment un agité altermondialiste. Cadre au CNPF puis au Medef pendant trente-cinq ans, c’est un économiste iconoclaste qui nourrit sa réflexion aux meilleures sources : Smith, Schumpeter et Keynes. A la différence de bon nombre de ses pairs, il a vu venir la crise, comme il la voit aujourd’hui se poursuivre. Un économiste avisé. L’espèce est rare.

Le Choc du mois : Quelles sont selon vous les nouveautés radicales qui caractérisent la globalisation économique mise en place dans les années 1980-1990, et dont vous dites qu’elles ont changé la nature même du libéralisme économique ?

Jean-Luc Gréau : Nous percevons maintenant avec netteté les deux orientations cruciales qui ont ouvert la voie à la transformation économique et financière de ces trente dernières années.

Une première orientation est donnée par la subordination de l’entreprise aux volontés expresses de ces actionnaires puissants que sont les fonds de placement. La personne morale « entreprise » a été instrumentalisée et abaissée au rang de machine à faire du profit (money maker).

Le phénomène est manifeste pour les sociétés cotées qui ne sont pas protégées par un capital familial ou par des actionnaires de référence, mais il affecte aussi beaucoup de sociétés non cotées, contrôlées par des fonds dits de « private equity » qui ont les mêmes exigences que les actionnaires boursiers.

Une deuxième orientation est représentée par le libre-échange mondial qui concerne surtout l’Europe, espace le plus ouvert au monde, et à un moindre degré, les Etats-Unis.

Cette ouverture des marchés des pays riches revêt une importance cruciale du fait que, contrairement au double postulat de suprématie technique et managériale des Occidentaux d’une part, et de spécialisation internationale du travail d’autre part, les pays émergents ont démontré leur capacité à rattraper nos économies et à s’emparer de parts de marché croissantes, y compris dans les secteurs à fort contenu technologique. Sait-on que les Etats-Unis subissent, depuis 2003, un déficit croissant de leurs échanges dans ces secteurs ?

La grande transformation s’est produite quand ces deux orientations ont conjugué leurs effets pour entraîner les économies développées dans une spirale de déflation rampante des salaires qui a été longtemps masquée par l’endettement des particuliers. C’est cela que signifie au premier chef la crise des marchés du crédit déclenchée en 2007 : l’incapacité pour de nombreux ménages occidentaux de rembourser une dette disproportionnée.

Estimez-vous que nous allons vers une sortie de crise comme le prétendent les chefs d’Etat du G-20 ?

Non, la crise du crédit privé n’est pas résorbée, en dépit de ce qu’affirme la communication tendancieuse de la corporation bancaire : elle couve discrètement dans les comptes de nombreux organismes.

Aujourd’hui, nous devons faire face de surcroît à une montée des périls sur la dette publique de la plupart des pays occidentaux, pour ne pas dire tous. L’affaissement des recettes fiscales, le subventionnement des banques en faillite et les mesures de relance ont sapé les fondements de l’équilibre des comptes publics.

Pour conjurer les nouveaux périls, il faudrait que se manifeste une providentielle reprise économique forte et durable redonnant aux Etats les moyens de faire face à leurs obligations financières. Mais les orientations qui ont conduit au séisme sont toujours à l’œuvre et l’on peut craindre au contraire leur renforcement.

Comment interprétez-vous la crise suscitée par l’explosion de la dette publique grecque ?

La faillite virtuelle de la Grèce, qui devrait précéder de peu celle d’autres pays européens, nous enseigne deux choses.

La première est que le choix d’une monnaie unique impliquait le choix corrélatif d’une union douanière. Or, nous avons fait, immédiatement après Maastricht, le choix inverse de l’expérience, en forme d’aventure, du libre-échange mondial et de la localisation opportuniste d’activités et d’emplois dans les sites les moins chers.

Ce choix a fragilisé par étapes les économies les moins compétitives, de la périphérie européenne, mais aussi des économies dignes de considération comme la française et l’italienne. Il a en outre conduit l’Allemagne, puissance centrale, à réduire ses coûts du travail, pour se maintenir à flot grâce à un courant d’exportation croissant, mais au prix d’une consommation chroniquement en berne, qui pèse sur les exportations des partenaires européens vers le marché allemand. L’Europe, s’il n’est pas trop tard, ne sera sauvée que par une remise en cause du dogme libre-échangiste.

Entretien extrait du Choc du mois n° 37, mai 2010

La deuxième est probablement que la monnaie unique a joué, à l’inverse de ce qu’imaginaient ses concepteurs, un rôle d’inhibiteur des faiblesses et des déséquilibres. Avant la crise, tous les pays de la zone euro bénéficiaient de conditions d’emprunt favorables. Les écarts de taux entre l’Allemagne et les pays aujourd’hui directement menacés étaient tout à fait négligeables. C’était là la grande réussite apparente de l’euro.

Mais ce faisant, et avec l’apport complémentaire des fonds dits de cohésion structurels, les pays membres de la zone euro n’ont, en dehors de l’Allemagne et des Pays-Bas, pas pensé leur modèle économique.

Des déficits extérieurs structurels sont apparus partout où l’on n’avait pas les moyens de relever le double défi du libre-échange et de la monnaie forte. Ces déficits structurels n’ont aucune chance de se résorber, sauf dans deux hypothèses : la sortie de l’euro par les pays concernés ou l’entrée en violente dépression de la demande interne. On conviendra que chacune de ces hypothèses renferme la probabilité de la fin de l’Europe, telle que nous l’avons vue vivre depuis les commencements du projet. […]

D’après vous, la crise économique que doit affronter le monde depuis trois ans a-t-elle ébranlé la solidité des dogmes libre-échangistes ?

Hélas, à l’instant présent, les dogmes, les tabous et les interdits qui définissent l’expérience néo-libérale restent en place. On se réjouit officiellement de ce que le libre-échange ait survécu, malgré la gravité de la crise dont il constitue pourtant une cause majeure. On exhorte maintenant les pays sinistrés ou en difficulté à de nouveaux sacrifices, sans prendre en considération le risque de retour en force de la crise de la demande et de rechute consécutive de l’ensemble des marchés financiers.

L’aveuglement persiste et s’aggrave, en dehors de petits cercles de personnes placées en prise directe avec les entreprises ou les territoires sinistrés. Une chape de plomb s’est à nouveau refermée sur les consciences sincèrement ouvertes au débat. Mais le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps. Patience !

A lire : Jean-Luc Gréau, La Trahison des économistes, « Le Débat », Gallimard, 250 p., 15,50 €

Novopress

lundi, 10 mai 2010

L'EUROMILLION grec

L'EUROMILLION GREC
Chronique hebdomadaire de Philippe Randa

greek_riots.jpgLes experts, du haut de leurs brillants diplômes obtenus à la sueur de très coûteuses études, appréhendent parfaitement la grave crise économique qui frappe la Grèce. Ils la commentent, d’ailleurs et comme toujours, fort savamment. Avec des mots, des comparaisons, des réflexions et des prévisions dont ils ont seuls le secret. Et qu’importe s’ils disent aujourd’hui le contraire de ce qu’ils affirmaient il y a peu et que les faits démentent demain leurs certitudes actuelles. Ils sauront tout aussi excellement démontrer qu’ils l’avaient annoncé et que le commun des mortels ne les a pas bien compris.
C’est que le commun des mortels n’est pas un expert, lui. Rare est celui qui partage avec eux les secrets économiques du monde. Est-ce bien d’ailleurs de sa faute puisqu’on le repaît plus facilement avec ceux des d’alcôves des princes qui nous gouvernent ?
Mais, tout de même, le commun des mortels finit par s’interroger. Comment la France dont le Premier ministre François Fillon révélait en avril 2008 que “les caisses sont vides depuis trente-trois ans”(1), qui prévoyait – ce qui ne mange jamais de pain, surtout noir – un retour à l’équilibre budgétaire en… 2012 – et dont rien ne laisse à penser qu’elles ont été remplies depuis lors – peut-elle “prêter”, sur trois ans, quelques 16,8 milliards d’euros ?
Comment ? En empruntant, bien sûr, mais des emprunts qui “ne creuseront pas les déficits publics (État, comptes sociaux, collectivités locales) déjà très lourds de la France”…
C’est peut-être vrai, mais en la circonstance, il aurait été plus honnête de reconnaître qu’on allait surtout “s’enrichir en s’endettant” contrairement aux solennelles déclarations des États qui entendent “aider” la Grèce au nom de la solidarité européenne !
Cette opération sera en effet bénéfique à la France qui empruntera à environ 3 % et prêtera à 5 % à nos bons amis hellènes. Soit un gain de quelques 150 millions d’euros !
Au Parlement européen, Daniel Cohn-Bendit a mis les pieds dans le plat en fustigeant une telle hypocrisie : “On fait de l’argent sur le dos de la Grèce. C’est intolérable”.
Intolérable sans doute… On savait déjà qu’“impossible n’est pas français”, on apprend désormais que c’est encore moins européen !
Reconnaissons alors que le plan d’aide financière à la Grèce, approuvé par l’Union européenne et le Fonds monétaire international (FMI), n’est rien d’autre qu’un plan de business financier… et on comprendra peut-être mieux pourquoi les Grecs, malgré la douteuse réputation qu’on leur prête, goûtent fort peu les derniers outrages économiques qu’on entend leur faire subir.

NOTE
(1) Interview de François Fillon, Premier ministre, à France Inter le 1er avril 2008, sur la situation financière de la France.

dimanche, 09 mai 2010

Die Euro-Festung wird sturmreif geschossen!

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Die Euro-Festung wird sturmreif geschossen!

Niki Vogt / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am gestrigen Dienstag-Nachmittag meldete die israelische Website »Globes«, dass Spanien einen Hilfskredit von 280 Milliarden Euro fordere. Deutschland sei weder fähig noch willens, Spanien bei einer solchen Summe noch Rückhalt zu bieten. Daher sei das Schicksal des Euro besiegelt. Das Gerücht verbreitete sich wie ein Lauffeuer an den Börsen.

Nur weil in Griechenland die Aufstände alles Augenmerk auf sich zögen, sei das immense Schuldenproblem Spaniens irgendwie aus dem Fokus der Analysten geraten. Neben dem Schuldenproblem sei auch eine Arbeitslosigkeit von über 20 Prozent ein unlösbares Problem für das Land, schreibt Globes. Im Gegensatz zu Griechenland sei Spanien europäisches Herzland und seine riesigen Schulden eine ungeheure Gefahr für die ganze Eurozone. Wenn Deutschland schon so gezögert habe, Griechenland zu helfen, sei es bei Spanien vollkommen ausgeschlossen, meint die israelische Website.

Um 12.30 Uhr gaben die Ratingagenturen Moody’s und Fitch ein Statement heraus, dass sie Spaniens Kreditrating nicht herabstufen würden, was anschließend ebenfalls von S&P bestätigt wurde. Der Euro war zu diesem Zeitpunkt bereits auf einen Dollarkurs von 1,3085 gefallen.

Um 13.45 Uhr zeigten die Börsenticker schon einen Kurs von 1,3045, ein deutlicher Rutsch unter die Unterstützunglinie von 1,3080 Dollar. Das nächste Kursziel heißt nach Einschätzung von Börsenexperten 1,2886 Dollar. Nach einem kurzen Abtauchen auf unter 1,3000 stand das Euro-Dollar-Verhältnis um kurz nach 18.00 Uhr MEZ wieder bei 1,3044.

Reuters veröffentlichte sofort das Dementi des spanischen Premierministers José Luis Rodriguez Zapatero, der diese Gerüchte als kompletten Unsinn bezeichnete. Zapatero begab sich sofort zu einer Presseerklärung nach Brüssel und stellte klar, dass die Behauptung vollkommen aus der Luft gegriffen sei und Spanien ernsthaft schaden könne. Er kündigte vehemente Gegenaktionen an, da der spanische Markt als Reaktion auf diese Gerüchte sofort eingebrochen war.

Zapatero betonte, Spanien sei absolut solvent, auch wenn sein Land seinen Finanzsektor so schnell wie möglich restrukturieren müsse.

Dax und Dow Jones sowie andere Börsenindizes und die Edelmetallpreise brachen als Reaktion sofort drastisch ein.

Auch wenn sich das Gerücht, Spanien habe eine Hilfe in Höhe von 280 Milliarden Euro gefordert, als falsch herausstellen sollte, ist es fraglich, ob der neue Angriff auf die Eurozone ohne bleibenden schweren Schaden abgewehrt werden kann. So ein Gerücht wird nicht aus Versehen lanciert. Hier geht es ganz offenbar um das gezielte Zersprengen der Währungsunion. Die Raubtiere lassen nicht ab von der angeschlagenen Beute.

Falls den Regierungen Europas nicht ganz, ganz schnell etwas deutlich Besseres zur Lösung des Riesenproblems einfallen sollte, als erneut Deutschland mit vorgehaltener Pistole und der Drohung des gemeinsamen Untergangs auszuschlachten, geht in allerkürzester Zeit das Licht aus in Europa.

 

__________

Quellen:

http://www.globes.co.il/news/article.aspx?did=1000556900&fid=1225

http://www.forexcrunch.com/rumor-spain-will-ask-for-280-billion-of-aid/

http://www.reuters.com/article/idUSTRE6433K620100504

 

Mittwoch, 05.05.2010

Kategorie: Allgemeines, Gastbeiträge, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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vendredi, 07 mai 2010

Japan kämpft mit öffentlichen Tribunalen gegen Schuldenkrise an

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Japan kämpft mit öffentlichen Tribunalen gegen Schuldenkrise an

BN-Redaktion / http://www.blauenarzisse.de/  

Fast genauso schlimm wie in Griechenland gestaltet sich gegenwärtig die finanzielle Lage Japans. Die Schulden des „Landes der aufgehenden Sonne“ betragen rund 200 Prozent des Bruttoinlandsproduktes. Der stellvertretende Direktor beim Internationalen Währungsfonds (IWF), Naoyuki Shinohara, forderte deshalb radikale Sparmaßnahmen. Sonst würde Japan bald kein frisches Geld am Kapitalmarkt mehr bekommen. Und die Regierung bemüht sich tatsächlich auf ungewöhnliche Weise: Sie hat live im Internet übertragene Tribunale eingeführt, auf denen der Rotstift angesetzt wird.

Seit September 2009 wird Japan von den Demokraten unter Ministerpräsident Yukio Hatoyama regiert. Doch die Zustimmung für die Regierung im Volk schwindet. Man wirft ihr Unentschlossenheit vor. Mit dem vor kurzem eingeführten Finanztribunal will Hatoyama nun gegensteuern. Beobachtet von zig Kameras und Zuschauern sowie live übertragen im Internet, steht auf dem Tribunal die Frage auf der Tagesordnung, an welchen Ecken und Enden gespart werden könnte.

Die Bürger bekommen so einen Einblick in die wirkliche finanzielle Situation des Landes und können in Echtzeit per Twitter Sparvorschläge machen. Insbesondere stehen die intransparenten Schattenhaushalte und staatliche Verschwendung auf dem Prüfstand. Insgesamt sollen so rund 6600 Behörden sowie öffentliche und regierungsnahe Organisationen auf Geldverschwendung untersucht werden.

mercredi, 05 mai 2010

Sociaal en economisch bloedbad dreigt vanaf juli

"Sociaal en economisch bloedbad

dreigt vanaf juli"

VDAB-topman Fons Leroy vreest dat er 60.000 werklozen kunnen bijkomen.

"Wij vrezen vanaf juli voor een sociaal en economisch bloedbad", waarschuwt voorzitster Christine Mattheeuws van het Neutraal Syndicaat voor Zelfstandigen (NSZ) in De Zondag. Ook de VDAB maakt zich zorgen.

Volgens het NSZ verhindert het ontslag van de federale regering een verlenging van de anticrisismaatregelen, omdat daarvoor een wetswijziging nodig is. Ondernemingen die het moeilijk hebben, zullen van deze maatregelen, die een "pak bedrijven en werknemers voor heel wat rampspoed hebben behoed, geen gebruik meer kunnen maken en zullen mogelijk werknemers moeten ontslaan".

"Verschillende werkgevers zullen aan afdankingsrondes beginnen. We vrezen voor een sociaal en economisch bloedbad", aldus de voorzitster.

"Zwaarste jaar ooit"
Nog in De Zondag voorspelt topman Fons Leroy van de Vlaamse arbeidsbemiddelingsdienst VDAB dat 2010 het zwaarste jaar ooit wordt voor de werkgelegenheid in Vlaanderen. "Volgens de recentste schattingen zullen er dit jaar 60.000 werklozen bijkomen", waarschuwt hij. (belga/tw)

dimanche, 25 avril 2010

Akute Kriegsgefahr im Libanon?

LIBAN-30-07-08.jpgAkute Kriegsgefahr im Libanon?

Niki Vogt

 

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Der US-Kongressabgeordnete Adam Schiff war am Mittwoch, den 14. April, Gastgeber einer kleinen, aber feinen Runde. Einer der Gäste im Kreis des Ausschusses der »Freunde Jordaniens im Kongress« im »US-House of Representatives«, war niemand Geringerer als König Abdullah II. von Jordanien. Seine Ansprache dort war nach Auskunft eines der Anwesenden »höchst ernüchternd«.

König Abdullah zeigt sich äußerst besorgt, dass ein bewaffneter Konflikt zwischen Israel und der Hisbollah im Libanon bevorstehe. Der König benutzte das englische Wort »imminent«, was »unmittelbar bevorstehend« bedeutet.

Die Hisbollah hat seit der Wahl im letzten November Sitz und Stimme im libanesischen Parlament. Sie unterhält seitdem offizielle Kontakte und Beziehungen zu Regierungen anderer Staaten wie beispielsweise Frankreich. Ein Krieg zwischen dem Libanon und Israel würde alle Bemühungen um Normalisierung und Einrichtung von diplomatischen Beziehungen wie zwischen USA und dem direkt daneben liegenden Syrien zunichte machen.

Die Kriegsgerüchte sind nicht neu. Schon am 4. Februar veröffentlichte der Christian Science Monitor unter der Überschrift »Was steckt hinter den erneuten Kriegsängsten in Israel und Libanon?« die säbelrasselnden Kriegstreibersprüche des israelischen Außenministers Liebermann gegen den Libanon – und Syrien. Öffentlich drohte Liebermann dem syrischen Präsidenten Bashar Assad, dass dieser in einem Krieg mit Israel nicht nur der Verlierer sein werde, sondern mit ihm auch seine ganze Familie entmachtet werde.

Grund für die Wut der Israelis ist das offensichtliche Erstarken der Hisbollah, ihr unaufhaltsamer militärischer Aufbau und die Tatsache, dass sich die ehemaligen Underdogs mit dem Terroristen-Image nun als ernstzunehmende politische Gegenspieler auf dem Parkett der Weltpolitik zu etablieren beginnen.

Die Bedrohungslage fühle sich im Libanon genauso an, wie in den Monaten vor der Israelischen Invasion 1982. Jeder wusste, dass sie kommen würde, sagte Ghazi Aridi, der Verkehrsminister des Libanon. Das Land hat sich seitdem stabilisiert, hat eine Periode relativer Stabilität genossen und erstmals 1,9 Millionen Touristen in der schönen Landschaft am Mittelmeer willkommen geheißen. Langsam verblassen die Bilder der zerschossenen Altstadt Beiruts im kollektiven Gedächtnis der Europäer, man hofft auf noch bessere Touristenzahlen in diesem Jahr.

Die Nachrichtenagentur AFP meldete am 15. April, die US-Regierung habe zufällig ebenfalls am Mittwoch, als der jordanische König zu Gast war, eine Warnmeldung herausgegeben, es seien möglicherweise Scud-Raketen an libanesische Hisbollah-Milizen verkauft worden. Dies stelle ein »erhebliches Risiko« für den Libanon dar. Man werde diesem Verdacht nachgehen, hieß es.

Die kuwaitische Zeitung Al-Rai Al-Alam hatte vor ein paar Wochen Informationen erhalten, die behaupteten, die Israelis hätten Scud-D-Raketen an der syrisch-libanesischen Grenze gesichtet und wurden nur durch die Amerikaner davon abgehalten, dort alles in Grund und Boden zu bombardieren.

Israels Präsident Shimon Peres hatte am vergangenen Dienstag Syrien vorgeworfen, es versorge die Hisbollah mit Scud-Raketen. Ein nicht genannter höherer US-Regierungsbeamter sagte gegenüber AFP, es sei ganz im Gegenteil überhaupt nicht klar, ob eine solche Lieferung bisher stattgefunden habe.

Währenddessen verbreitete Präsident Peres über die Sender: »Syrien gibt vor, den Frieden zu wollen, liefert aber gleichzeitig Scud-Raketen an die Hisbollah, deren einziges Ziel die Bedrohung Israels ist.« – Sprach’s und flog direkt darauf nach Frankreich, um mit Präsident Sarkozy dieses Thema zu erörtern. Eine probate Strategie.

Warum also das alles?

Eine Erklärung könnte sein, dass die Obama-Regierung mühevoll und vorsichtig Beziehungen zu Syrien aufgebaut hatte, um das Land als Vermittler in die festgefahrene Pattsituation der Friedensgespräche im Nahen Osten einzubeziehen. Es sollten in den nächsten Tagen Diplomaten ausgetauscht werden. Obama hatte bereits Robert Ford als ersten Botschafter für Damaskus ernannt.

Das musste nun erst einmal vertagt werden.

Ein herber Rückschlag für Obama, der seiner von Israel ausgebremsten Vorzeige-Friedensinitiative im Nahen Osten neuen Schub verleihen wollte.

Shlomo Brom, der ehemalige Leiter des Planungsstabes der israelischen Armee, formulierte es vor zwei Woche deutlicher: »Das strategische Planziel im nächsten Krieg ist es, zu verstehen, dass man das Problem nicht in einem Schritt lösen kann. Der einzige Weg, es zu lösen, ist, den Libanon zu besetzen und Hisbollah rauszukicken. Das ist nicht einfach, und Israel will den Preis dafür nicht bezahlen.«

»Beim nächsten Mal wird vielleicht die UN uns bitten, aus Nordisrael wieder abzuziehen – anstelle Israel, den Südlibanon wieder zu räumen«, meinte Abu Khalil, ein 22-jähriger Hisbollah-Kämpfer.

»Ich glaube nicht, dass Israel jetzt einen Krieg brauchen kann, und der Hisbollah juckt auch nicht das Fell vor lauter Übermut«, meint Timur Goksel, ein ehemaliger UNIFIL-Funktionär. »Natürlich kann Israel den Libanon aufmischen, aber das wird Israel teuer zu stehen kommen. Die Hisbollah wird aus jeder Ecke feuern, und es wird viel mehr Tote auf israelischer Seite geben als 2006.«

Die Lunte am Pulverfass Nahost glimmt.

 

__________

Quellen:

http://www.thewashingtonnote.com/archives/2010/04/jordans_king_sa/

http://www.politico.com/blogs/laurarozen/0410/The_Scud_through_his_Syria_nomination.html?showall

http://thecable.foreignpolicy.com/posts/2010/04/09/congress_wants_to_know_is_syria_rearming_hezbollah

http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5gNU1tGuyPXPQO9mnAHavQp-eZ0UQ

http://www.csmonitor.com/World/Middle-East/2010/0204/What-s-behind-renewed-war-jitters-in-Israel-Lebanon/(page)/2

 

Mittwoch, 21.04.2010

Kategorie: Politik, Terrorismus, Allgemeines

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mercredi, 31 mars 2010

Après la Grèce, le Portugal... le scénario de contagion est en marche

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Après la Grèce, le Portugal... le scénario de contagion est en marche

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Après la Grèce, le Portugal est-il en passe de devenir le nouveau « maillon faible de l’Europe ? » L’agence de notation financière Fitch a annoncé, mercredi 24 mars, qu’elle abaissait d’un cran la note de la dette à long terme du Portugal, de « AA » à « AA-« , faisant part de ses inquiétudes sur les déficits et la solvabilité du pays. Jeudi, en fin de matinée, la Bourse de Lisbonne a plongé de plus de 2,2 %.

Ce changement de notation, qui survient à la veille du débat au Parlement portugais du programme de stabilité et de croissance du pays, « montre que le scénario de contagion en Europe, que l’on a beaucoup évoqué ces derniers mois, est en train de se matérialiser », souligne Marie de Vergès, du service Économie du « Monde, » qui explique les fondements de cette décision et les conséquences qu’elle peut avoir. (Cliquez ici pour écouter son analyse.)

L’agence Fitch a justifié sa décision par la crainte « d’éventuelles conséquences de la crise sur l’économie portugaise et sur ses finances publiques à moyen terme, compte tenu de la fragilité structurelle du pays et de son fort endettement ». « Même si le Portugal n’a pas été affecté outre mesure par la crise mondiale, les perspectives de reprise économique sont plus faibles que pour les 15 autres membres de la zone euro, ce qui va peser sur ses finances publiques à moyen terme », a développé Douglas Renwick, un responsable de Fitch.

Cet abaissement reflète les contre-performances budgétaires du Portugal en 2009, avec un déficit de 9,3 % du PIB, contre 6,5 % prévu par Fitch en septembre. Le gouvernement portugais a réaffirmé son « ferme engagement » à redresser ses finances publiques. 

« Dans la situation actuelle de nervosité et de volatilité des marchés financiers internationaux (…), il est fondamental que le Portugal démontre un ferme engagement politique dans la mise en œuvre du programme de stabilité et de croissance, en vue de redresser les comptes publics et réduire le déficit extérieur par une récupération de la compétitivité », a déclaré le ministère des finances.

Le gouvernement table par ailleurs sur une hausse de ses recettes grâce à la suppression de nombreux bénéfices fiscaux et un vaste plan de privatisations sur fond de reprise timide de la croissance (+0,7% prévu en 2010).

Le Monde

mardi, 30 mars 2010

La génération du millénaire massacrée par la crise

La génération du millénaire massacrée par la crise

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Ils ont eu 18 ans en 2000 et subissent la «grande récession» de plein fouet. Ils ne laisseront personne dire que c’est le plus bel âge de la vie.

Les générations se suivent et ne se ressemblent pas. Cela se voit à l’œil nu aux États-Unis.

Ainsi 38% des millennials – les adultes qui ont eu 18 ans en 2000 ou après – portent un ou plusieurs tatouages. Leurs pères et mères, les baby-boomers aujourd’hui âgés de 46 à 64 ans, ne sont que 6% à être tatoués. Quant à la classe d’âge intermédiaire, les gens nés entre 1965 et 1981 – «la génération X» selon les sociologues américains -, 32% arborent des dessins sous-cutanés.

Voilà ce que nous apprend une enquête réalisée en début d’année par le très réputé Pew Research Center. Cet organisme indépendant se présente comme un fact tank, un révélateur des faits et gestes de la société américaine.

Le Pew Research entend dresser le portrait des 50 millions d’Américains qui forment la «génération du millénaire», traduirait-on en français. Il nous dit tout sur leurs options politiques, leurs statuts professionnels et leurs modes d’expression.

Derniers embauchés, premiers au chômage

Les millennials constituent un groupe à part politiquement. Ils ont voté à 66% pour Barack Obama, alors que le reste de la population a donné tout juste la moitié de ses votes au candidat démocrate. Par ailleurs, les moins de 30 ans – la première génération élevée au biberon des technologies numériques – ont pour les trois quarts d’entre eux un profil sur Facebook ou un autre réseau social. Les baby-boomers ne sont que 30% à en avoir créé.

Être de plain-pied avec les nouveaux instruments de communication ne donne pourtant pas un avantage décisif sur le marché du travail. Ils ont été les plus touchés par «la grande récession » de 2008-2009. Selon Pew Research, «les nouveaux entrants sur le marché du travail ont été les derniers à être embauchés et les premiers à perdre leur job ». Ce qui explique que 37% des millennials (ayant terminé leurs études) sont au chômage ou en dehors de la vie active. «La plus forte proportion depuis plus de trois décennies.»

Or cette passe difficile risque d’avoir des effets durables. Les jeunes diplômés des collèges qui arrivent dans une économie maussade pourraient en subir les effets négatifs, y compris salariaux, pendant quinze ans, selon une étude de Lisa B. Kahn de l’Université de Yale, qui prend pour référence les récessions antérieures et actuellement très commentée outre-Atlantique.

Les vieux plus démoralisés que les jeunes

Les millennials, une classe sacrifiée ? Ils ne le pensent pas. Paradoxalement, 41% des moins de 30 ans se montrent «satisfaits de la situation présente », contre à peine 30% pour les plus âgés. La crise immobilière et financière, la récession et les guerres menées en Afghanistan et en Irak semblent avoir plus entamé le moral des vieux que des jeunes.

C’est «la génération la mieux éduquée de toute l’histoire américaine », explique Pew Research, qui note que seulement 25% des Américains interrogés – tous âges confondus – redoutent «un conflit de générations ». Son enquête est un concentré de l’optimisme du Nouveau Monde, avec ce titre roboratif : «The Millennials : Confident. Connected. Open to Change» («Les millénaires : Confiants. Connectés. Ouverts au changement»).

Il est dommage que l’Europe et la France ne disposent pas de recherches équivalentes sur leurs jeunes. Bien avant que ne survienne la «grande récession», le sociologue Louis Chauvel, l’auteur de Destin des générations, dénonçait le triple handicap des classes d’âges qui ont succédé aux baby-boomers.

Les écarts salariaux s’élargissent (en 1977, les quinquagénaires gagnaient 15% de plus que les trentenaires, la différence atteignait 40% en 2000), les risques de déclassement deviennent plus fréquents, et l’accès à la politique plus difficile. Louis Chauvel nous fait remarquer que la Chambre des députés élus en juin 2007 a été la plus âgée de toute l’histoire de nos républiques !

De son côté, l’Insee considère que «la génération (née après) 1945 est la dernière pour laquelle le revenu par unité de consommation est supérieur à celui des générations précédentes» («Les revenus et les patrimoines des ménages», édition 2009). Rappelons que dans le langage si spécial des statisticiens, le célibataire compte comme une «unité de consommation», mais le fameux foyer «papa, maman, la bonne et moi» ne vaudra que 2,5 unités…

Tendances exacerbées avec la crise

Il est à craindre que ces tendances se soient exacerbées avec la crise, comme le laisse entendre Martin Hirsch, le haut-commissaire à la Jeunesse. «Entre le troisième trimestre 2008 et le troisième trimestre 2009, le taux de chômage a augmenté 2,7 fois plus vite pour les jeunes que pour la population totale (+ 4,6 points contre + 1,7) pour atteindre 23,8% (9,1% pour l’ensemble de la population », écrit-il dans « L’État de l’opinion, TNS Sofres 2010 ». Les jeunes en question sont les moins de 25 ans, selon la typologie classique de l’administration française, qui répugne à raisonner en termes de générations.

La remarque de Martin Hirsch n’en est pas moins de bon sens : «Les jeunes sont ainsi confrontés à une situation paradoxale : la démographie et la politique sociale de la France les désignent comme ceux sur qui vont porter la dette publique et le poids des retraites, mais l’accès à l’emploi leur est difficile.» Voilà une thématique appelée à un grand avenir dans les mois qui viennent.

Le Figaro

mercredi, 24 mars 2010

LEAP: les cinq séquences de la phase de dislocation géopolitique globale

LEAP : les cinq séquences de la phase de dislocation géopolitique globale

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Communiqué public du Laboratoire Européen d’Anticipation Politique (LEAP), du 15 mars 2010

En cette fin de premier trimestre 2010, au moment où sur les fronts monétaires, financiers, commerciaux et stratégiques, les signes de confrontations se multiplient au niveau international, tandis que la violence du choc social de la crise se confirme au sein des grands pays et ensembles régionaux, le LEAP/Europe2020 est en mesure de fournir un premier séquençage anticipatif du déroulement de cette phase de dislocation géopolitique mondiale.

Hercule capturant Cerbère, par Hans Sebald Beham, 1545 - Cliquez sur l'image pour l'agrandir


Nous rappelons que cette phase ne peut être un prélude à une réorganisation pérenne du système international que si, d’ici le milieu de cette décennie, les conséquences de l’effondrement de l’ordre mondial hérité de la seconde guerre mondiale et de la chute du Rideau de Fer, sont pleinement tirées. Cette évolution implique, notamment, une refonte complète du système monétaire international, pour remplacer le système actuel, fondé sur le Dollar américain, par un système basé sur une devise internationale, dont la valeur dérive d’un panier des principales monnaies mondiales, pondérées par le poids respectif de leurs économies.

En publiant, l’année dernière à la même époque, un message en ce sens sur une pleine page du Financial Times, à la veille du sommet du G-20 à Londres, nous avions indiqué que la « fenêtre de tir » idéale pour une telle réforme radicale, se situait entre le printemps et l’été 2009, faute de quoi le monde s’engagerait dans la phase de dislocation géopolitique globale à la fin 2009 (1).

Cliquez sur le graphique pour l'agrandir

L’ « Anneau de Feu » des dettes souveraines – Répartition graphique des Etats, en fonction de leur dette et de leur déficit publics (en % PIB) – Source : Reuters Ecowin, 02/2010

L’échec du sommet de Copenhague en décembre 2009, qui met fin à près de deux décennies de coopération internationale dynamique sur ce sujet, sur fond de conflits croissants entre Américains et Chinois, et de division occidentale sur la question (2), est ainsi un indicateur pertinent, qui confirme cette anticipation de nos chercheurs. Les relations internationales se dégradent dans le sens d’une multiplication des tensions (zones et sujets), tandis que la capacité des Etats-Unis à jouer leur rôle d’entraînement (3), ou même tout simplement de « patron » de leurs propres clients, s’évanouit chaque mois un peu plus (4).

En cette fin de premier trimestre 2010, on peut notamment souligner :

. la dégradation régulière des relations sino-américaines (Taïwan, Tibet, Iran, parité Dollar-Yuan (5), baisse des achats de Bons du Trésor US, conflits commerciaux multiples…)
. les dissensions transatlantiques croissantes (Afghanistan (6), OTAN (7), contrats ravitailleurs US Air Force (8), climat, crise grecque…)
. la paralysie décisionnelle de Washington (9)
. l’instabilité sans répit au Moyen-Orient (10) et l’aggravation des crises potentielles Israël-Palestine et Israël-Iran
. le renforcement des logiques de blocs régionaux (Asie, Amérique latine (11) et Europe en particulier)
. la volatilité monétaire (12) et financière (13) mondiale accrue
. l’inquiétude renforcée sur les risques souverains
. la critique croissante du rôle des banques US associée à une réglementation visant à régionaliser les marchés financiers (1)
. etc.

Evolution de la rentabilité (en %) du New York Stock Exchange de 1825 à 2008 – Sources : Value Square Asset Management / Yale School of Management, 2009

Parallèlement, sur fond d’absence de reprise économique (15), les confrontations sociales se multiplient en Europe, tandis qu’aux Etats-Unis, le tissu social est purement et simplement démantelé (16). Si le premier phénomène est plus visible que le second, c’est pourtant le second qui est le plus radical. La maîtrise de l’outil de communication international par les Etats-Unis, permet de masquer les conséquences sociales de cette destruction des services publics et sociaux américains, sur fond de paupérisation accélérée de la classe moyenne du pays (17). Et cette dissimulation est rendue d’autant plus aisée que, à la différence de l’Europe, le tissu social américain est atomisé (18) : faible syndicalisation, syndicats très sectorisés sans revendication sociale générale, identification historique de la revendication sociale avec des attitudes « anti-américaines » (19)… Toujours est-il que, des deux côtés de l’Atlantique (et au Japon), les services publics (transports en commun, police, pompier…) et sociaux (santé, éducation, retraite…) sont en voie de démantèlement, quand ils ne sont pas purement et simplement fermés ; que les manifestations (20), parfois violentes, se multiplient en Europe, tandis que les actions de terrorisme domestique ou de radicalisation politique (21) sont de plus en plus nombreuses aux Etats-Unis.

En Chine, le contrôle croissant de l’Internet et des médias est, avant tout, un indicateur fiable de la nervosité accrue des dirigeants pékinois, en ce qui concerne l’état de leur opinion publique. Les manifestations sur les questions de chômage et de pauvreté continuent à se multiplier, contredisant le discours optimiste des leaders chinois sur l’état de leur économie.

En Afrique, la fréquence des coups d’Etat s’accélère depuis l’année dernière.

Et en Amérique latine, malgré des chiffres macro-économiques plutôt positifs, l’insatisfaction sociale nourrit les risques de changements de cap politique radicaux, comme on l’a vu au Chili.

Evolution de la dépense nominale (22) dans l’OCDE (en % du PNB de l’année précédente) – Source : MacroMarketMusings / David Beckworth, 11/2009

L’ensemble de ces tendances est en train de former très rapidement un « cocktail socio-politique explosif », qui conduit directement à des conflits entre composantes de la même entité géopolitique (conflits Etats fédérés/Etat fédéral aux Etats-Unis, tensions entre Etats-membres dans l’UE, entre Républiques et Fédération en Russie, entre provinces et gouvernement central en Chine), entre groupes ethniques (montée des sentiments anti-immigrés un peu partout) et recours au nationalisme national ou régional (23) pour canaliser ces tensions destructrices. L’ensemble se déroulant sur fond de paupérisation des classes moyennes aux Etats-Unis, au Japon et en Europe (en particulier au Royaume-Uni et dans les pays européens et asiatiques (24), où les ménages et les collectivités sont les plus endettés).

Dans ce contexte, le LEAP/E2020 considère que la phase de dislocation géopolitique mondiale va se dérouler selon cinq séquences temporelles, qui sont développées dans ce [numéro], à savoir :

0. Initiation de la phase de dislocation géopolitique mondiale – T4 2009 / T2 2010
1. Séquence 1 : Conflits monétaires et de chocs financiers
2. Séquence 2 : Conflits commerciaux
3. Séquence 3 : Crises souveraines
4. Séquence 4 : Crises socio-politiques
5. Séquence 5 : Crises stratégiques

Par ailleurs, dans ce numéro [...], notre équipe présente les huit pays qui lui paraissent plus dangereux que la Grèce en matière de dette souveraine, tout en présentant son analyse de l’évolution post-crise de l’économie financière, par rapport à l’économie réelle. Enfin, le LEAP/E2020 présente ses recommandations mensuelles (devises, actifs…), y compris certains critères pour une lecture plus fiable des informations, dans le contexte particulier de la phase de dislocation géopolitique mondiale.

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Notes :

(1) Joseph Stiglitz et Simon Johnson ne disent désormais pas autre chose, quand ils estiment que la crise est en train de devenir une occasion ratée de réforme du système financier mondial, qui va conduire rapidement à de nouveaux chocs. Source : USAToday, 12/03/2010

(2) Américains et Européens ont des positions diamétralement opposées sur ce sujet et l’arrivée au pouvoir de Barack Obama n’a fait que rendre plus compliqué le positionnement public des Européens (puisqu’ils se sont affirmés d’emblée « Obamaphiles »), sans changer la donne sur le fond.

(3) Même dans le domaine de la recherche, la place des Etats-Unis recule très rapidement. Ainsi, le classement mondial des meilleures institutions de recherche ne compte plus que six institutions américaines sur les quinze premières, contre quatre européennes et deux chinoises ; et aucune, dans les trois premières places. Source : Scimago Institutions Rankings 2009, 03/2009

(4) Comme l’illustre l’attitude d’Israël, qui agit dorénavant de manière presque injurieuse vis-à-vis de Washington. C’est un indicateur important, car personne mieux que les alliés les plus proches, n’est en mesure de percevoir le degré d’impuissance d’un empire. Les ennemis, ou bien les alliés récents ou éloignés, sont incapables d’une telle perception, car ils n’ont pas un accès aussi intime au pouvoir central, ni un recul historique suffisant pour pouvoir déceler une telle évolution. L’éditorial de Thomas Friedman dans le New York Times du 13/03/2010 illustre bien le désarroi des élites américaines, face à l’attitude de plus en plus désinvolte de leur allié israelien, et également l’incapacité de l’administration américaine à réagir fermement à cette désinvolture.

(5) Le ton monte considérablement sur cette question, qui devient un enjeu de pouvoir symbolique autant qu’économique, pour Pékin comme pour Washington. Sources : China Daily, 14/03/2010 ; Washington Post, 14/03/2010.

(6) Le repli probable d’un grand nombre de troupes de l’OTAN hors d’Afghanistan, en 2011, conduit ainsi la Russie et l’Inde à développer une stratégie commune, notamment avec l’Iran, pour prévenir un retour des Talibans au pouvoir ! Source : Times of India, 12/03/2010

(7) Outre la chute du gouvernement néerlandais sur la question de l’Afghanistan, c’est maintenant d’Allemagne que vient l’idée d’intégrer la Russie à l’OTAN, une bonne vieille idée russe, au prétexte que l’OTAN n’est plus pertinente dans sa forme actuelle. Source : Spiegel, 08/03/2010

(8) Les Européens sont tous très remontés, suite à la décision de Washington d’éliminer, de facto, l’offre européenne du grand contrat de renouvellement des ravitailleurs de l’US Air Force. Cette décision marque probablement la fin du mythe (en vogue en Europe) d’un marché transatlantique des armements. Washington ne laissera pas d’autres compagnies que les siennes gagner de tels grands contrats. Les Européens vont donc devoir envisager sérieusement de se fournir essentiellement, eux aussi, auprès de leur industrie de défense. Source : Financial Times, 09/03/2010

(9) Même le Los Angeles Times du 28/02/2010 se fait l’écho des inquiétudes de l’historien britannique Niall Ferguson, qui estime que l’ « empire américain » peut désormais s’effondrer du jour au lendemain, comme ce fut le cas pour l’URSS.

(10) Et le fait que l’ensemble du monde arabe est désormais fortement affecté par la crise économique mondiale, va ajouter à l’instabilité régionale chronique. Source : Awid/Pnud, 19/02/2010

(11) Le Vénézuela s’équipe ainsi d’avions de chasse chinois. Une situation de scénario de politique fiction, il y a seulement cinq ans. Source: YahooNews, 14/03/2010

(12) Comme nous l’avions anticipé dans les précédents [numéros], la « crise grecque » se dissipant, on retourne aux réalités des tendances lourdes de la crise et, comme par hasard, depuis quelques jours, on commence à voir de nouveau des analyses qui mettent en perspective la perte, par les Etats-Unis, de leur notation AAA concernant leur dette ; et la fin du statut de monnaie de réserve du Dollar. Sources : BusinessInsider/Standard & Poor’s, 12/03/2010

(13) Le graphique ci-dessous illustre la volatilité toujours plus forte qui caractérise les places financières et qui, selon le LEAP/E2020, est un indice de risque systémique majeur. Si on regarde la rentabilité du New York Stock exchange sur plus de 180 ans, on constate que les années de la décennie passée (2000-2008 et on pourrait certainement y ajouter 2009) figurent aux extrêmes des meilleurs et des pires résultats. C’est un résultat statistiquement improbable, sauf à ce que les marchés financiers, et les tendances qui les animent, soient entrés dans une phase d’incertitude radicale, détachés de l’économie réelle et de son inertie. La taille des ordres passés sur les marchés financiers mondiaux s’est ainsi réduite de 50% en cinq ans, sous l’effet de l’automatisation et des méthodes à « haute fréquence », accroissant donc leur volatilité potentielle. Source : Financial Times, 21/02/2010

(14) Le récent avertissement du Secrétaire d’Etat au Trésor US, Thimoty Geithner, concernant les risques de dérive transatlantique en matière de réglementation financière, n’est que le dernier indice de cette évolution. Source : Financial Times, 10/03/2010

(15) Dernier exemple en date, la Suède, qui pensait avoir traversé la crise, se retrouve à nouveau plongée dans la récession, au vu des très mauvais chiffres du 4° trimestre 2009. Source : SeekingAlpha, 02/03/2010

(16) Le taux de chômage US est désormais voisin de 20%, avec des pics à 40%-50% pour les classes sociales défavorisées. Pour éviter de faire face à cette réalité, les autorités américaines pratiquent, à très grande échelle, une manipulation des chiffres de la population active et de la population à la recherche d’emploi. L’article de Steven Hansen publié le 21/02/2010 sur SeekingAlpha et intitulé « Which economic world are we in ? », offre une perspective intéressante à ce sujet.

(17) Une analyse, certes radicale mais très bien documentée et assez pertinente de cette situation, est développée par David DeGraw sur Alternet du 15/02/2010.

(18) Source (y compris les commentaires) : MarketWatch, 25/02/2010

(19) C’est la suspicion du « Rouge », du « Coco », qui dormirait dans chaque syndicaliste ou manifestant pour des causes sociales.

(20) Même aux Etats-Unis, où les étudiants manifestent contre les hausses des droits d’inscription et où la population s’inquiète de la fermeture de la moitié des écoles publiques dans une ville comme Kansas City, tandis qu’à New York ce sont 62 brigades de pompiers qui vont être supprimées. Sources : New York Times, 04/03/2010 ; USAToday, 12/03/2010 ; Fire Engineering, 11/03/2010

(21) De Joe Stack aux Tea Parties, la classe moyenne américaine tend à se radicaliser très rapidement depuis la mi-2009.

(22) La dépense nominale est la valeur totale des dépenses, dans une économie non corrigée de l’inflation. C’est, en fait, la valeur de la demande totale. On constate, sur ce graphique, que la crise marque un effondrement de la demande.

(23) Le terme régional est utilisé ici au sens géopolitique, d’ensemble régional (UE, Asean…).

(24) Ainsi en Corée du Sud, l’endettement des ménages continue de s’aggraver avec la crise, tandis que les entreprises accumulent des réserves de liquidités au lieu d’investir, car elles ne croient pas à la reprise. Source : Korea Herald, 03/03/2010

LEAP Europe 2020

(Merci à SPOILER)

mardi, 23 mars 2010

la Grèce préfigure la tiers-mondialisation de l'Europe

g1-583.jpgLa Grèce préfigure la Tiers-Mondialisation de l’Europe

Par Bernard Conte, Maître de conférences à l’université de Bordeaux

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La cure d’austérité drastique à laquelle la Grèce est sommée de se soumettre, trouve son modèle dans les politiques d’ajustement structurel qui ont été imposées par le FMI aux pays du Sud, après la crise de la dette déclenchée par la remontée des taux de la Fed en 1982, note l’économiste Bernard Conte. A l’époque, comme aujourd’hui, la véritable difficulté consistait à faire accepter aux peuples de supporter le coût de la crise.

Mais depuis lors, les politiques permettant de faire passer ces purges amères ont été peaufinées, prévient-il, rappelant que l’OCDE a rédigé à toutes fins utiles un guide décrivant les stratégies à employer en de telles circonstances.

On peut par exemple y lire que « si l’on diminue les dépenses de fonctionnement, il faut veiller à ne pas diminuer la quantité de service, quitte à ce que la qualité baisse. On peut réduire, par exemple, les crédits de fonctionnement aux écoles ou aux universités, mais il serait dangereux de restreindre le nombre d’élèves ou d’étudiants. Les familles réagiront violemment à un refus d’inscription de leurs enfants, mais non à une baisse graduelle de la qualité de l’enseignement. »

Cela ne vous évoque rien ?

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La Grèce est très endettée et la finance internationale attaque ce maillon faible de la zone euro pour tester la cohésion de l’ensemble, avant éventuellement de spéculer contre d’autres pays pour générer d’énormes profits.

La réaction à cette attaque devrait entraîner la mise « sous tutelle » de la Grèce par la Commission européenne, par ses partenaires au sein de la zone euro et/ou par un éventuel Fonds monétaire européen.

A l’instar des pays du Tiers-Monde à partir des années 1980, la Grèce va se voir imposer un programme d’ajustement économique et social drastique, traduisant sa Tiers-Mondialisation qui préfigure sans doute celle d’autres pays européens.

La Grèce enregistre des déficits publics importants qui doivent être financés par l’emprunt dont le cumul accroît le volume de la dette de l’État. Pour rétablir la confiance de ses bailleurs de fonds privés, le pays doit réduire son endettement. A défaut, la prime de « risque », réclamée par les bailleurs, qui s’ajoute au taux d’intérêt « normal » pourrait conduire à un taux usuraire. Georges Papandréou n’a pas le choix, il doit impérativement s’endetter moins, voire diminuer le volume de la dette grecque.

L’exemple du Tiers-Monde en 1982

La situation de la Grèce, liée au « surendettement », n’est pas sans rappeler celle des pays du Tiers-Monde lors de la crise de la dette de 1982. En effet, pour pouvoir faire face à leurs obligations financières, les pays du Sud, en quasi cessation de paiements, ont été « aidés » par le FMI et par la Banque mondiale. Ces institutions ont accordé des prêts aux pays du Sud afin qu’ils puissent rembourser leurs banques créancières. Lesdites banques ont ainsi pu transférer au FMI et à la Banque mondiale une bonne partie de leurs créances « pourries » (ou « actifs toxiques » en langage politiquement correct). En contrepartie, les pays « aidés » se sont vus imposer des programmes d’ajustement structurel, traduction du consensus de Washington d’inspiration néolibérale monétariste.

A travers l’application de ses dix commandements, le consensus de Washington vise à permettre aux pays sous ajustement de recouvrer la capacité d’assurer le service (principal + intérêts) de leur dette extérieure. Il faut, à n’importe quel prix, dégager des fonds pour payer les créanciers.

Réduire le déficit de l’État

Cette démarche passe par la compression des dépenses et l’augmentation des recettes de l’État.

L’action sur la dépense publique implique la réduction :

► de la masse salariale de la fonction publique (baisse des effectifs et/ou du niveau des traitements)

► des autres dépenses de fonctionnement (éducation, social…)

► des subventions (services publics, associations…)

► des investissements publics (infrastructures…)

L’augmentation des recettes réclame :

► l’alourdissement de la fiscalité

► la privatisation de services publics rentables (eau, électricité…)

Plus généralement, la croissance est censée élargir les marges de manœuvre par le développement de l’activité économique qui, mécaniquement, augmente les recettes de l’Etat. La croissance peut être tirée par les exportations si la production nationale gagne en compétitivité externe, grâce à la dévaluation de la monnaie nationale, ou, si cette opération se révèle impossible, par la désinflation compétitive (comme pour le franc CFA avant la dévaluation de 1994, cf. Bernard Conte, Dévaluation du Franc CFA et équilibre des paiements) qui consiste à obtenir un taux d’inflation plus faible que celui des pays concurrents.

La philosophie des programmes d’ajustement est, in fine, d’une part, de tenter d’augmenter la production locale de surplus (par la croissance) et, d’autre part, de réduire la consommation locale dudit surplus afin de l’exporter. En aucun cas, il s’agissait de se préoccuper du bien-être des populations.

Un bilan des ajustements dramatique

Malgré de nombreuses études financées par la Banque mondiale et le FMI, tendant à démontrer que l’ajustement générait de la croissance et, par effet de ruissellement, bénéficiait même aux pauvres. Les conséquences sociales négatives ont été rapidement mises à jour et dénoncées [Voir par exemple : Cornia, Giovanni Andrea, Richard Jolly, and Frances Stewart : Adjustment with a human face. Protecting the vulnerable and promoting growth, vol 1. Oxford, Clarendon Press, 1987]. Ainsi, la pauvreté s’est accrue et les classes moyennes préexistantes ont été paupérisées. Les populations du Sud ont subi les conséquences funestes de l’ajustement pour rembourser des dettes dont elles n’avaient que peu profité.

La Grèce « inaugure » les politiques d’ajustement en Europe

Jusqu’à présent, l’ajustement néolibéral imposé était réservé aux pays « non développés ». La Grèce inaugure le processus de Tiers-Mondialisation de l’Europe en passant sous les fourches caudines de « l’ajustement ». A l’instar des pays du Tiers-Monde, il s’agit de dégager des marges de manœuvre budgétaires pour rembourser la dette extérieure à travers la réduction du périmètre de l’État, la privatisation, la dérégulation, les coupes claires dans les budgets de santé, d’éducation…

La Grèce est un test pour l’Europe néolibérale

L’inconnue reste la réaction populaire. La population va-t-elle accepter l’austérité ? Déjà, des grèves et des manifestations se déroulent. Hier, le 11 mars, plus de 100 000 personnes manifestaient dans les rues d’Athènes. Au Portugal et en Espagne, la mobilisation sociale s’opère. L’ajustement va-t-il buter sur l’obstacle social ? D’autant plus que les conséquences des troubles sociaux pourraient atteindre le domaine politique avec l’émergence et l’éventuelle arrivée au pouvoir de forces politiques situées en-dehors du « consensus » : droite « molle » – gauche « caviar ». Mais, là aussi, les élites complices peuvent trouver l’inspiration dans l’expérience du Tiers-Monde pour faire « passer » les réformes.

La faisabilité politique de l’ajustement

Dans les années 1990, de nombreux travaux ont été menés, au sein de l’OCDE, sur la faisabilité politique de l’ajustement néolibéral [Cf. Christian Morrisson, La faisabilité politique de l’ajustement, Paris, Centre de développement de l’OCDE, Cahier de politique économique n° 13, 1996. (jusqu’à la dernière note, les numéros de page des citations se réfèrent au présent document)]. Christian Morrisson prévient : « l’application de programmes d’ajustement dans des dizaines de pays pendant les années 1980 a montré que l’on avait négligé la dimension politique de l’ajustement. Sous la pression de grèves, de manifestations, voire d’émeutes, plusieurs gouvernements ont été obligés d’interrompre ou d’amputer sévèrement leurs programmes » (p. 6). Il convient de minimiser les risques et adopter une stratégie politique adéquate.

Prendre des mesures politiquement et socialement peu risquées

A partir de plusieurs études-pays, Christian Morrisson met en avant « l’intérêt politique de certaines mesures [...] : une politique monétaire restrictive, des coupures brutales de l’investissement public ou une réduction des dépenses de fonctionnement ne font prendre aucun risque à un gouvernement. Cela ne signifie pas que ces mesures n’ont pas des conséquences économiques ou sociales négatives : la chute des investissements publics ralentit la croissance pour les années à venir et met sur-le-champ des milliers d’ouvriers du bâtiment au chômage, sans allocation. Mais nous raisonnons ici en fonction d’un seul critère : minimiser les risques de troubles » (p. 16). Peu importe, « dans la réalité, les entreprises du bâtiment souffrent beaucoup de telles coupures [dans les investissements publics] qui multiplient les faillites et les licenciements. Mais ce secteur, composé surtout de petites et moyennes entreprises, n’a quasiment aucun poids politique » (p.17). « La réduction des salaires et de l’emploi dans l’administration et dans les entreprises parapubliques figure, habituellement, parmi les principales mesures des programmes [d’ajustement] » (p. 29).

Selon Christian Morrisson, cette mesure est « moins dangereuse politiquement » que d’autres « et elle touche les classes moyennes plutôt que les pauvres » (p. 29). En cas de troubles (grèves…), « le gouvernement a toutefois les moyens de faire appel au pragmatisme des fonctionnaires. Il peut, par exemple, expliquer que, le FMI imposant une baisse de 20 pour cent de la masse salariale, le seul choix possible est de licencier ou de réduire les salaires et qu’il préfère la seconde solution dans l’intérêt de tous. Les expériences de plusieurs gouvernements africains montrent que ce discours peut être entendu » (p. 29). Ce qui est vrai en Afrique l’est certainement sous d’autres cieux.

Agir sur la qualité des services publics

« Si l’on diminue les dépenses de fonctionnement, il faut veiller à ne pas diminuer la quantité de service, quitte à ce que la qualité baisse. On peut réduire, par exemple, les crédits de fonctionnement aux écoles ou aux universités, mais il serait dangereux de restreindre le nombre d’élèves ou d’étudiants. Les familles réagiront violemment à un refus d’inscription de leurs enfants, mais non à une baisse graduelle de la qualité de l’enseignement et l’école peut progressivement et ponctuellement obtenir une contribution des familles, ou supprimer telle activité. Cela se fait au coup par coup, dans une école mais non dans l’établissement voisin, de telle sorte que l’on évite un mécontentement général de la population » (p. 30). Sans commentaire !

Diviser et opposer pour imposer

« Un gouvernement peut difficilement [ajuster] contre la volonté de l’opinion publique dans son ensemble. Il doit se ménager le soutien d’une partie de l’opinion, au besoin en pénalisant davantage certains groupes. En ce sens, un programme qui toucherait de façon égale tous les groupes (c’est-à-dire qui serait neutre du point de vue social) serait plus difficile à appliquer qu’un programme discriminatoire, faisant supporter l’ajustement à certains groupes et épargnant les autres pour qu’ils soutiennent le gouvernement. » (p. 17). Comme « la plupart des réformes frappent certains groupes tout en bénéficiant à d’autres, [...] un gouvernement peut toujours s’appuyer sur la coalition des groupes gagnants contre les perdants » (p. 18). Il faut donc diviser et opposer pour imposer.

Un régime « dictatorial » serait idéal pour imposer les réformes

« Une comparaison pour les pays d’Amérique latine entre des régimes démocratiques comme la Colombie, l’Équateur, le Pérou, et des régimes militaires, comme l’Argentine et le Chili, en 1981-82, montre que les troubles sont plus rares lorsque le régime est militaire [...] La comparaison entre les deux expériences de l’Argentine sous un régime militaire (en 1981) et en démocratie (1987) est parlante : le niveau de protestation a été trois fois plus élevé en 1987 et il y a eu beaucoup plus de manifestations » (p. 12). Ainsi, un régime dur serait idéal pour imposer les réformes. Le néolibéralisme serait-il en train de déraper ?

Au total, la Grèce préfigure bien la Tiers-Mondialisation de l’Europe.

Contre Info

dimanche, 21 mars 2010

Les peuples ont-ils droit au chapitre?

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Les peuples ont-ils voix au chapitre ?

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

Les Islandais ne sont pas raisonnables. Ils n’ont rien compris à la sagesse du FMI, cette providence incomparable en période de crise, qui soutenait l’accord financier élaboré par leur gouvernement. Rembourser les clients britanniques et hollandais de la banque Icesave, qui avait connu une faillite fracassante en 2008, supposait juste une prise en charge de la dette à raison de 12 000 euros par habitant. Donc payer pendant de longues années pour en venir à bout. De quoi assister en short à la fonte des glaces officiellement annoncée, avant que la note ne soit un jour intégralement réglée.

Cet accord financier, soumis au référendum, les Islandais ont préféré le rejeter purement et simplement samedi dernier. Par un « non » franc et massif, proche de l’unanimité. On s’inquiète donc dans certaines gazettes. Il ne faudrait pas que cette indifférence d’un petit peuple au bien planétaire, lequel exige naturellement le sauvetage du complexe bancaire et la socialisation des pertes, prêche un coupable exemple auprès d’autres populations. On ne devrait pas donner aussi légèrement la parole au peuple.
Le rôle des peuples dans l’évolution du système, c’est bien, au-delà des péripéties de la crise, ce qu’évoque cette affaire. Quoi qu’en disent les « spin doctors » pour faire passer la pilule, la politique du consentement est fort peu compatible avec la dynamique en cours. De fait, à mesure que se déploie l’économie libérale sous un ciel plus ou moins orageux, on assiste parallèlement, de sommets en sommets, au renforcement du FMI et à l’essor d’organes, comme l’Organisation Internationale de Travail, à l’action jusqu’ici limitée. Les uns et les autres aussi peu représentatifs que possible. C’est la réforme permanente de la gouvernance mondiale qui s’est mise en marche à la faveur de la crise. Depuis le sommet du G20 qui s’est tenu à Pittsburgh en septembre dernier, on sait que les grands de ce monde (Sarkozy prenant, à ce titre, beaucoup d’initiatives) font preuve d’une louable prévoyance. Les compétences techniques et juridiques d’une sorte d’administration internationale polycentrique ont ainsi vocation à s’étendre, comme se sont accrues les administrations intérieures des Etats depuis deux siècles. Avec les effets que l’on connaît sur les libertés concrètes et la maîtrise ordinaire du quotidien. Ainsi l’exige une régulation publique patiemment gérée à coups d’harmonisations diverses. Devant cet horizon prometteur, on cherche en vain quel peuple a confié de tels mandats à ses dirigeants. Les peuples, non, mais une certaine démocratie, sans conteste. Celle, parlementaire comme il se doit, qui reste triomphante sous les projecteurs. Rejouant sans fin le scénario désormais habituel de l’alternance unique.

Philippe Gallion

Islands Wähler widersetzten sich weltweitem Druck: Nein zum Bailout britischer und niederländischer Banken

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Islands Wähler widersetzten sich weltweitem Druck: Nein zum Bailout britischer und niederländischer Banken

F. William Engdahl

Der Inselstaat Island im hohen Norden hat vielleicht eine der zahlenmäßig kleinsten Bevölkerungen der Welt, aber die erweist sich als mutig und unbeugsam gegenüber dem internationalen Druck der Money-Trust-Banken. Bei einem vor einigen Tagen stattgefundenen landesweiten Referendum haben die Wähler die Zahlung von 3,5 Milliarden Dollar an Großbritannien und die Niederlande plus einen Zinssatz von 5,5 Prozent für den Bailout der eigenen Banken im Jahr abgelehnt, der die eigene Regierung bereits zugestimmt hatte. Das Wahlergebnis ist ein Zeichen für den international zu beobachtenden Stimmungsumschwung gegenüber den mächtigen Finanzinteressen, die die derzeitige Krise mit ihren kriminellen Exzessen erst verursacht haben und die jetzt mit der Drohung, sie seien »zu groß, um unterzugehen«, verlangen, dass ihnen die Steuerzahler aus der Patsche helfen.

Mit 93 Prozent Nein-Stimmen haben die isländischen Wähler bei einem landesweiten Referendum die unter großem Druck zustande gekommene Einwilligung der Regierung abgelehnt, für die Schulden der rücksichtslosen Banker aufzukommen. Die Vereinbarung betraf die sogenannten Icesave-Konten, die die isländische Bank Landsbanki von 2006 an zunächst in Großbritannien und später auch in den Niederlanden geführt hatte. Nach dem Zusammenbruch der Landsbanki im Oktober 2008 hatten die britische und niederländische Regierung umgehend die Anleger in ihren eigenen Ländern in Höhe des gemäß den Bestimmungen des EWR (Europäischer Wirtschaftsraum) versicherten Betrags entschädigt. Anschließend forderten sie von der isländischen Regierung eine Erstattung, in die die Regierung auch zögernd einwilligte – allerdings gegen den Widerstand der Mehrheit der isländischen Bürger.

Hannes H. Gissurarson, ehemals Vorstandsmitglied der Isländischen Nationalbank, betont in einem Artikel im Wall Street Journal, für die Regierung von Island habe keine rechtliche Verpflichtung bestanden, die Einlagen zu garantieren. Die isländische Regierung habe die EWR-Bestimmungen eingehalten und einen Garantiefonds für Anleger und Investoren eingerichtet. Wenn die Mittel dieses Fonds nicht ausreichten, die Verbindlichkeiten zu decken, dann sei die isländische Regierung rechtlich nicht verpflichtet, zusätzliche Gelder nachzuschießen. Deshalb seien die britische und niederländische Regierung auch nicht berechtigt, durch die Entschädigung der eigenen Anleger der isländischen Regierung neue Verbindlichkeiten aufzubürden.

Sowohl Jean-Claude Trichet, der Präsident der Europäischen Zentralbank, als auch der niederländische Finanzminister Wouter Bos räumen öffentlich ein, die europäischen Bestimmungen für Einlagegarantien seien nicht für den Fall des Zusammenbruchs eines gesamten Bankensektors wie 2008 in Island formuliert worden.

Die isländischen Wähler und Steuerzahler haben die Forderung der britischen Regierung abgelehnt, für die Rettungsaktion im Jahr 2008 zu zahlen.

Für Island steht sehr viel auf dem Spiel – je nach Wert der Aktiva der Landsbanki bis zu sechs Milliarden Dollar. Für ein Land mit nur 330.000 Menschen ist das ein enormer Betrag, für britische und niederländische Verhältnisse hingegen eine durchaus überschaubare Summe. Die Regierung von Island war gezwungen, angesichts der unverhohlenen Drohung finanzieller Isolierung und dem Einsatz des IWF als »Kopfgeld-Eintreiber« – wie die Isländer sagen – für England und Niederlande die Vereinbarung zu unterschreiben: Der IWF hatte dem bedrängten Land jegliche Krisenhilfe verweigert, wenn die Regierung nicht unterschriebe.

Prof. Gissurarson schreibt: »Wenn Rücksichtslosigkeit belohnt wird, dann wird bald die ganze Welt rücksichtslos. Warum sollte eine Regierung das Argument einer Bank akzeptieren, sie sei ›zu groß, um unterzugehen?‹ Warum sollten Anleger ihr Risiko auf die Allgemeinheit abwälzen können? Im Fall von Icesave haben sich die britische und niederländische Regierung vor allem deswegen dazu entschlossen, ihren Landsleuten aus der Patsche zu helfen, weil sie eine Panik im eigenen Bankensystem verhindern wollten. Das stand ihnen natürlich frei, nutzte aber Island oder seinen Banken nicht, deshalb fragen sich die Bürger Islands mit Recht, warum sie für Entscheidungen aufkommen sollten, die in Amsterdam und London gefällt werden.«

Die unerschrockenen und traditionell unabhängigen Isländer haben vor aller Welt erneut bewiesen, dass sich Wähler wehren können, wenn sich ihre Regierung feige dem Willen der Göttern des Geldes beugt: sie »sagen einfach nein«, wenn man von ihnen verlangt, für Verluste der kriminell rücksichtslosen Banker und ihrer Kunden aufzukommen, ohne je an den Gewinnen beteiligt gewesen zu sein, wie in Deutschland und vor allem in Großbritannien und den USA seit August 2008 geschehen.

Montag, 15.03.2010

Kategorie: Wirtschaft & Finanzen, Politik

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samedi, 20 mars 2010

Geheimtreffen in New York: Attacke auf den Euro, um den Dollar zu stärken

Geheimtreffen in New York:

Attacke auf den Euro, um den Dollar zu stärken

F. William Engdahl / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

euro_dollar_070920_ms.jpgDie Ursache für die dramatische Krise, die seit Anfang Januar den Euro auf Talfahrt geschickt und dem Dollar in gleichem Maße Aufwind verschafft hat, ist nicht einfach das Finanzproblem Griechenlands. Die Krise ist vielmehr das Resultat eines Komplotts und geheimer Absprachen zwischen einigen der mächtigsten Spekulanten an der Wall Street – zweifellos mit stillschweigender Rückendeckung durch das US-Finanzministerium. Das Ziel ist, den Dollar in dieser schwierigen Zeit dadurch zu retten, dass der Euro, die einzige Währung, die als alternative Reservewährung in Frage käme, geschwächt wird.

Die mächtigsten und einflussreichsten Hedge-Fonds- und Finanzplayer der Welt haben sich zu Beginn der gegenwärtigen »Griechenland-Krise« in New York hinter verschlossenen Türen versammelt, um über massive spekulative Angriffe auf den Euro zu beraten. Die mächtigsten Finanzfirmen haben sich offenbar darauf geeinigt, Finanzderivate wie die berüchtigten Credit Default Swaps (Kreditausfallversicherungen für Anleihen) einzusetzen, um den spekulativen Druck auf den Euro zu richten bzw. den Druck zu verstärken.

Im Dezember wurde der Euro noch mit 1,51 Dollar gehandelt, heute steht er bei ungefähr 1,35 Dollar. Mit einem täglichen Handelsvolumen von mindestens 1,2 Billionen Dollar stellt der Euro einen sehr großen Markt dar. Die New Yorker Hedge-Fonds haben in einem sehr verwundbaren Moment zugeschlagen, als die Nachrichten über das griechische Haushaltsdefizit die Finanzmärkte schockierten. Der Angriff auf den Euro ging mit einer Flut höchst willkommener Berichte in den amerikanischen und britischen Medien über das unmittelbar bevorstehende Auseinanderbrechen der EU und des Euro einher. Die Hedge-Fonds setzten Fremdkapital in enormer Höhe ein – oftmals das 20-Fache des eigenen Einsatzes gegen den Euro. Dabei haben sie auch ein Vielfaches verdient: manchmal Gewinne in Höhe von 100 Prozent innerhalb weniger Tage, mit geborgtem Geld.

 

Wall-Street-Insider George Soros begann seinen Propaganda-Angriff auf den Euro in Davos, nur Tage nach einem Geheimtreffen in New York.

 

An dem New Yorker Geheimtreffen, über das das Wall Street Journal in der Ausgabe vom 26. Februar berichtet, nahmen neben dem Milliardär und Hedge-Fonds-Spekulanten George Soros vom 27 Milliarden Dollar schweren Soros-Fund-Management auch Vertreter von SAC Capital Advisors LP, Greenlight Capital und andere nicht namentlich Genannte teil. Sie einigten sich auf ein konzertiertes Vorgehen gegen den Euro, wobei die griechische Finanzkrise als Hebel benutzt wurde, um dem Ganzen Glaubwürdigkeit zu verleihen.

Am 3. Februar habe ich meinem Artikel »Washingtons Währungskrieg gegen den Euro« (erschienen in KOPP Exklusiv, Ausgabe 06/2010) dargelegt, wie sich derselbe George Soros beim Weltwirtschaftsforum in Davos für die geplante Zusammenarbeit bei dem Angriff auf den Euro ausgesprochen hat. Gegenüber der Presse erklärte er damals, es gebe keine »attraktive Alternative« zum Dollar – de facto ein Signal für eine Attacke auf den Euro, den viele noch vor einem halben Jahr als Alternative zum Dollar als Weltwährung betrachtet hatten. Soros unterstrich, die »Probleme« des Euro machten ihn als Ersatz-Reservewährung untauglich.

Soros’ abfälligen Bemerkungen schloss sich der prominente New Yorker Wirtschaftswissenschaftler Nouriel Roubini an, der behauptete, die Haushaltsschwierigkeiten in Europa führten zu dem »wachsenden Risiko« der Aufspaltung der Einheitswährung: »Nicht in diesem oder in den nächsten zwei Jahren, aber irgendwann könnte die Währungsunion zerbrechen.« Bezeichnenderweise unterhalten sowohl Roubini als auch Soros enge Verbindungen zur Regierung Obama. Soros gehörte zu den ersten Spendern für Obamas Wahlkampf und Roubini ist mit Finanzminister Timothy Geithner gut befreundet.

 

Konzertierte Finanzattacken auf den Euro haben dem Dollar in einem kritischen Moment Aufwind verschafft.

 

Um den Druck auf den Euro aufrechtzuerhalten, schrieb Soros am 22. Februar einen Kommentar in der Londoner Financial Times, der bekanntesten Finanzzeitung der Welt. Dort erklärte er: »Auch wenn Griechenland überlebt, die Zukunft des Euro ist nach wie vor unsicher.«

Die nun enthüllten Einzelheiten über das New Yorker Geheimtreffen der Hedge-Fonds, bei dem die Attacke auf den Euro geplant wurde, bestätigen erneut, was ich bereits in meinem Buch Der Untergang des Dollar-Imperiums beschrieben habe: die Kräfte des Money Trust von der Wall Street greifen zu jedem nur erdenklichen Mittel, um ihre Macht zu verteidigen. Die Höhe der Verschuldung der USA und das Ausmaß der Krise sind so gewaltig, dass es für die Regierung Obama immer schwerer wird, den Mythos der »Green Shoots«, des Aufschwungs, aufrechtzuerhalten.

 

Auch Goldman Sachs maßgeblich beteiligt

Die politisch einflussreiche Wall-Street-Bank Goldman Sachs, die seit dem Beitritt Griechenlands zum Euro im Jahr 2001 an den dortigen Finanzmanipulationen beteiligt war, hat bei der jüngsten Krise ebenfalls die Hand im Spiel. Am 29. Januar trafen sich Vertreter von Goldman Sachs zusammen mit einigen anderen führenden Wall-Street-Firmen in Griechenland mit dem stellvertretenden Finanzminister und Vertretern der griechischen Nationalbank. Soros’ Hedge-Fonds-Attacke begann nur wenige Tage später.

Laut dem Bericht im Wall Street Journal haben Goldman Sachs, die Bank of America und die Londoner Barcley’s Bank gemeinsam mit Soros und den Hedge-Fonds Wetten gegen den Euro abgeschlossen, während Goldman Sachs gleichzeitig als Berater für die Regierung Papandreou tätig ist, ein offensichtlicher Interessenkonflikt.

 

Die Asien-Krise und die Krise um das britische Pfund und die EWU

Das Vorgehen der Hedge-Fonds beim Angriff auf den Euro folgt der Strategie finanzieller Kriegsführung, die Soros und andere Hedge-Fonds bereits in der Vergangenheit verfolgt haben. Soros hat 1992 mit Spekulationen gegen das britische Pfund Sterling nach eigenen Angaben eine Milliarde Dollar Gewinn gemacht – wobei Marktkenner überzeugt sind, dass damals Insider-Informationen eine Rolle gespielt haben – und die britische Regierung gezwungen, Pläne für einen Beitritt zum damals entstehenden Euro fallenzulassen. Wären Großbritannien und die mächtigen Finanzquellen der Londoner City der neuen Eurozone beigetreten, hätte das, wie viele an der Wall Street und in Washington insgeheim befürchteten, möglicherweise das Ende des Dollar als Weltreservewährung bedeutet. Die Tatsache, dass der Dollar als Weltreservewährung agiert, bildet neben dem Pentagon eine der beiden Säulen der amerikanischen Vormachtstellung in der Welt. Verlöre der Dollar diese Position, dann stünde die Zukunft des Amerikanischen Jahrhunderts, die Rolle als alleinige Supermacht, auf dem Spiel.

Ähnlich war die Lage 1997, als ein konzertierter Angriff von Hedge-Fonds, erneut unter Führung von George Soros, einen Angriff auf die Währungen und die Wirtschaft der asiatischen »Tigerstaaten« lancierte. Korea, Indonesien, die Philippinen und Malaysia, damals nachhaltige, von amerikanischer Einmischung unabhängige Volkswirtschaften, wurden durch die Attacke de facto zu Käufern amerikanischer Schulden, weil die Länder in Asien verzweifelt versuchten, sich gegen weitere Angriffe zu schützen. Wie die Sterling-Krise von 1992, so hat auch die Asienkrise von 1997–1998 den schwächelnden Dollar einige Jahre länger am Leben erhalten.

Angesichts der sich verschärfenden Depression in den USA und des Ausmaßes der Bankenprobleme, die von Tag zu Tag schwerer werden, ist die Zukunft des Dollars mehr bedroht denn je. Aus diesem Grund dramatisieren einflussreiche Kreise an der Wall Street, der Federal Reserve und im US-Finanzministerium die relativ überschaubare Krise in Griechenland zum übertriebenen Bild eines »Zusammenbruchs der EU«, weil sie hoffen, damit für ausländische Zentralbanken den Euro als Alternative zum Dollar unattraktiv zu machen. Damit soll nicht gesagt sein, der Euro und der Vertrag von Maastricht seien ein Modell einer gesunden Alternative zu den Problemen der Dollar-Zone. Sie sind alles andere als das. Es soll nur gezeigt werden, welcher geopolitische Machtkampf hinter den Kulissen tobt, um das Sinken der Dollar-Titanic zu verhindern.

 

Dienstag, 09.03.2010

Kategorie: Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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jeudi, 18 mars 2010

Austerität à la IWF erreicht die Vereinigten Staaten von Amerika

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Austerität à la IWF erreicht die Vereinigten Staaten von Amerika

Ellen Brown / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Die obligatorischen Prämien für eine private Krankenversicherung sind längst nicht alles: wenn sich die neue Arbeitsgruppe Haushalt des Präsidenten mit ihren Forderungen durchsetzt, stehen uns möglicherweise »obligatorische Sparbeiträge« und weitere, unseren Geldbeutel belastende Einsparungen bevor. Diese radikalen Austeritätsmaßnahmen sind nicht nur gar nicht nötig, die Lage wird dadurch im Gegenteil nur noch weiter verschlechtert. Die Offensive für »fiskalische Verantwortung« geht von falschen ökonomischen Voraussetzungen aus.

Wenn Milliardäre eine Milliarde Dollar versprechen, um die Öffentlichkeit über einen bestimmten Missstand aufzuklären, dann ist man immer gut beraten, ihre Pläne ganz genau zu prüfen. Der Hedge-Fonds-Magnat Peter G. Peterson war früher Vorsitzender des Council on Foreign Relations und Chef der New York Federal Reserve. Heute ist er Seniorchef der Blackstone Group, die mit der Verteilung der staatlichen Gelder bei dem umstrittenen Bailout des Versicherungskonzerns AIG, vielfach als Geschenk an die Banken kritisiert, betraut war. Peterson ist auch Gründer der Peter-Peterson-Stiftung, die es sich zur Aufgabe gemacht hat, den Kongress zu »fiskalischer Verantwortung« zu veranlassen. Dafür hat man David M. Walker angeheuert, den ehemaligen Chef des Government Accounting Office [eine dem deutschen Bundesrechnungshof vergleichbare US-Bundesbehörde], der einen Werbefeldzug für die Eindämmung des galoppierenden Haushaltsdefizits führen soll, das laut Peterson und Walker auf unverantwortliche Ausgaben durch Regierung und Verbraucher zurückzuführen ist. Die Stiftung hat den Dokumentarfilm I.O.U.S.A.* finanziert, mit dem sie die Öffentlichkeit für ihr Anliegen gewinnen möchte, nämlich verminderte Leistungen der Sozialversicherung und von Medicare (der Krankenversicherung für Bedürftige), um Kosten zu sparen und zu »fiskalischer Verantwortung zurückzukehren«.

Nachdrücklich fordert die Petersen-Pew Commission on Budget Reform Maßnahmen zur Begrenzung des US-Haltsdefizits. In beiden Häusern des Kongresses wurden Gesetzesvorschläge zur Bildung einer Arbeitsgruppe Haushalt eingebracht. Im Senat wurde der Vorschlag mit knapper Mehrheit abgelehnt, im Abgeordnetenhaus wurde er zurückgestellt, doch damit war er nicht erledigt. In seiner Rede zur Lage der Nation am 27. Januar kündigte Präsident Obama an, er werde per Exekutivorder eine Arbeitsgruppe des Präsidenten für den Haushalt einberufen, die sich dem Haushaltsdefizit und der Schuldenkrise widmen solle; die Arbeitsgruppe werde nach dem Modell der vom Kongress nicht verabschiedeten Gesetze arbeiten. Wenn der Kongress nicht für »fiskalische Verantwortung« sorgte, dann werde es eben der Präsident tun. »Mir raubt es nachts den Schlaf, wenn ich an all die roten Zahlen denke«, sagte er. Die Exekutivorder wurde am 17. Februar unterzeichnet.

Dem Präsidenten scheint entgangen zu sein, dass unser gesamtes Geld mit Ausnahme der Münzen heute in Form von »roten Zahlen« oder Schulden auf die Welt kommt. Es wird alles in den Büchern von Privatbanken erzeugt und fließt als Kredit in die Wirtschaft. Wenn es keine Schulden gibt, dann gibt es kein Geld, und genau diese privaten Schulden sind jetzt zusammengebrochen. Die Kreditvergabe in den USA ist in den ersten Monaten dieses Jahres stärker geschrumpft als je zuvor in der Geschichte des Landes. Weltweit herrscht eine Kreditklemme; wenn der Kredit schrumpft, dann schrumpft gleichzeitig auch die Geldmenge. Dann gibt es nicht genug Geld, um Waren zu kaufen, also werden Arbeiter entlassen und Fabriken geschlossen, ein ewiger Teufelskreis von Wirtschaftskollaps und Depression. Um diesen Zyklus zu durchbrechen, müssen wieder Kredite fließen, und wenn die Banken dies nicht bewerkstelligen können, dann muss die Regierung einschreiten und die Schulden selbst »monetisieren«, d.h. die Schulden in Dollars verwandeln.

Obwohl die Kreditvergabe noch immer weit unter dem früheren Niveau liegt, beteuern die Banken, sie vergäben so viele Kredite, wie ihnen nach den derzeit geltenden Bestimmungen erlaubt sei. Der eigentliche Engpass liegt bei den sogenannten »Schattengeldgebern« – jenen Investoren, die bis Ende 2007 in großem Stil zu »Wertpapieren« gebündelte Bankkredite aufgekauft und diese Kredite damit aus den Büchern der Banken genommen hatten, sodass die Banken auf der Grundlage ihres Eigenkapitals und der Einlagen wieder neue Kredite generieren konnten. Wegen der dramatisch steigenden Zahl von Ausfällen bei Subprime-Hypotheken sind die Investoren vorsichtiger geworden, solche Kredite zu kaufen, sodass die Banken und Finanzfirmen an der Wall Street sie in ihren Büchern halten und die Verluste einstecken müssen. In den Boomjahren wurde der Umfang des Marktes der Schattengeldgeber auf zehn Billionen Dollar geschätzt. Dieser Markt ist jetzt zusammengebrochen, bei der Geldmenge ist ein riesiges Loch entstanden. Dieses Loch zu stopfen, ist allein die Regierung in Washington in der Lage. Die Staatsschulden abzuzahlen, wenn das Geld bereits knapp ist, macht alles nur noch schlimmer. Wann immer in der Geschichte das Defizit verringert worden ist, ist auch die Geldmenge geschrumpft und die Wirtschaft in eine Rezession gestürzt.

 

Eine genaue Untersuchung der Pläne für eine Haushaltsreform

Das wirft die Frage auf: liegen die Verfechter der »fiskalischen Verantwortung« nur einfach falsch? Oder verfolgen sie womöglich ganz andere Absichten? Die in Erwägung gezogenen Haushaltsentscheidungen sind in der Exekutivorder vage formuliert, doch wer die früheren Pläne der Peterson Commission on Budget Reform genauer untersucht, erkennt, was gemeint ist. Laut Peterson und Walker sollten die Ansprüche aus der Sozialversicherung gesenkt werden, und das genau zu der Zeit, wo die Wall Street den Marktwert der Häuser und die privaten Rentenkonten der eigentlich Anspruchsberechtigten vernichtet hat. Es kommt noch ärger: gemäß dem Plan sollten unter dem Deckmantel »obligatorischer Sparbeiträge« die Beiträge zur Sozialversicherung erhöht werden. Diese zusätzlichen Beträge sollten automatisch vom Gehalt abgezogen werden und auf ein von der Sozialversicherungsbehörde verwaltetes Sonderkonto namens »Guaranteed Retirement Account« eingezahlt werden. Da diese Sparbeiträge »obligatorisch« waren, könnte man sein Geld nicht abheben, ohne eine saftige Strafe hinnehmen zu müssen, und statt eines willkommenen früheren Rentenbeginns aufgrund der zusätzlichen Einzahlung wurde sogar ein höheres Renteneintrittsalter gefordert. In der Zwischenzeit hätten die besagten »obligatorischen Sparbeträge« nur den Investment-Pool der Wall-Street-Banker, die die Gelder kontrollieren, vergrößert.

Genau das könnte mit der Großoffensive zur Aufklärung der Öffentlichkeit über die Gefahren der hohen Staatsverschuldung beabsichtigt sein. Der Politikanalyst Jim Capo beschreibt eine Diashow von David M. Walker nach der Premiere von I.O.U.S.A., bei der dieser einen obligatorischer Sparplan ins Spiel brachte, der sich an dem Modell des Federal Thrift Savings Plan (FSP, einem anderen staatlichen Rentenplan) orientiert. Capo kommentiert:

»Der FSP, der Angestellten von Bundesbehörden, wie beispielsweise den Mitarbeitern der Kongressabgeordneten, offensteht, hat (zumindest auf dem Papier) einen Umfang von über 200 Milliarden Dollar. Ungefähr die Hälfte dieser Vermögenswerte besteht in Form von besonderen nicht übertragbaren US-Schatzwechseln, die eigens für diesen FSP-Plan aufgelegt worden sind. Die andere Hälfte ist in Aktien, Anleihen und Wertpapieren angelegt. … Die fast 100 Milliarden Dollar in [dieser] Hälfte des Plans werden von Blackrock Financial verwaltet. Und Blackrock Financial ist – jetzt kommt’s – ein Ableger von Mr. Petersons Blackstone Group. Tatsächlich sind der FSP und Blackstone wie zwei sich ergänzende Komponenten entstanden. Man kann eigentlich gar nichts falsch machen, wenn man eine Investitionsmanagement-Firma gründet und sich gleichzeitig einen Vertrag sichern kann, der einem einen Anteil der Gehälter von staatlichen Angestellten in die Hand gibt.«

 

Was mit »fiskalischer Verantwortung« wirklich gemeint ist

Dadurch erscheint die »fiskalische Verantwortung« in einem völlig anderen Licht. Anstatt für die Zukunft unserer Enkelkinder zu sparen – wie der Präsident es zu verstehen scheint –, ist es wohl eher ein Codewort dafür, öffentliche Gelder in private Hand zu überführen und der heute bereits ausgequetschten Mittelschicht eine zusätzliche Abgabe aufzubürden. Im Jargon des Internationalen Währungsfonds (IWF) heißt so etwas »Austeritätsmaßnahme«, und dagegen gehen die Menschen in Griechenland, Island und Lettland auf die Straße. Die Amerikaner demonstrieren nur deshalb nicht, weil hier niemand sagt, was wirklich geplant ist.

Man will uns glauben machen, die »fiskalische Verantwortung« (sprich: »Austerität«) diene zu unserem Besten, sie sei tatsächlich nötig, um das Land vor dem Bankrott zu bewahren. Bei der massiven Kampagne, mit der wir über die Gefahren der Staatsverschuldung aufgeklärt werden sollen, warnt man uns immer wieder, die Verschuldung sei gefährlich hoch. Wenn ausländische Geldgeber den Hahn zudrehten, müssten die USA den Staatsbankrott erklären, und all das sei der Fehler der Bürger, die zu viele Kredite aufgenommen und zu viel Geld ausgegeben hätten. Man ermahnt uns, den Gürtel enger zu schnallen und mehr zu sparen. Da wir uns diese Disziplin anscheinend nicht selbst auferlegen könnten, müsse das die Regierung für uns tun in Form eines Plans für »obligatorische Spareinlagen«. Die Amerikaner, die schon jetzt unter hoher Arbeitslosigkeit und Kürzung der öffentlichen Ausgaben zu leiden haben, müssten noch mehr Opfer bringen und einen größeren Teil der Zeche zahlen, genauso wie in den anderen hochverschuldeten Ländern, denen der IWF Austeritätsmaßnahmen aufzwingt.

Zu unserem Glück besteht zwischen der Verschuldung bei uns und der in Griechenland, Island oder Lettland jedoch ein großer Unterschied: Wir schulden unsere Schulden in US-Dollars, unserer eigenen Währung. Unsere Regierung kann ihre Solvenzprobleme lösen, indem sie das zur Abzahlung oder zur Refinanzierung ihrer Schulden erforderliche Geld einfach selbst erzeugt. Diese bewährte Lösung geht zurück bis auf die alte Interimswährung der amerikanischen Siedler und auf die »Greenbacks«, die Abraham Lincoln in Umlauf brachte, um Zinszahlungen in Höhe von 24 bis 36 Prozent zu vermeiden.

 

 

Wirtschaftliche Angstmache

Jede Diskussion über diese vernünftige Lösung wird unweigerlich mit dem Hinweis auf einen weiteren Mythos abgewürgt, den die Finanzelite seit Langem aufrechterhält – nämlich den, es führe zur Hyperinflation, wenn die Regierung die Geldmenge erhöhen dürfe. Anstatt von ihrem souveränen Recht Gebrauch machen zu können, die erforderliche Liquidität zu erzeugen, wird der Regierung gesagt, sie müsse Kredite aufnehmen. Kredite von wem? Von den Bankern natürlich. Und woher bekommen die Banker das Geld, das sie verleihen? Sie erzeugen es in ihren Büchern, genauso wie es die Regierung sonst getan hätte. Der Unterschied ist der: Wenn es die Banker erzeugen, fallen dabei saftige Gebühren in Form von Zinsen an.

Inzwischen versucht die Federal Reserve, die Geldmenge zu erhöhen; und statt an einer Hyperinflation leiden wir weiterhin an den Folgen einer Deflation. Auch wenn bei den Banken wie wild Geld hin- und hergeschoben wird, fließt kein Geld in die Realwirtschaft. Anstatt es an Unternehmen und Privatleute zu verleihen, spekulieren die größeren Banken damit oder kaufen kleinere Banken, Grundstücke, Farmen und Produktionskapazitäten auf, während die Kreditklemme auf der Main Street unverändert weitergeht. Nur die Regierung kann diese Fehlentwicklung korrigieren, indem sie mehr Geld für Projekte bereitstellt, die Arbeitsplätze schaffen, Dienstleistungen verfügbar machen und die Produktivität fördern. Es wirkt nicht inflationär, die Geldmenge zu erhöhen, wenn das Geld für ein Mehr an Waren und Dienstleistungen verwendet wird. Zur Inflation kommt es, wenn die »Nachfrage« (Geld) das »Angebot« (Waren und Dienstleistungen) übersteigt. Wenn Angebot und Nachfrage gleichzeitig wachsen, bleiben die Preise stabil.

Die Vorstellung, die Staatsverschuldung sei zu hoch, um zurückgezahlt werden zu können, und wir überließen diese Monsterlast unseren Enkeln, ist genauso eine Falschbehauptung. Die amerikanische Staatsverschuldung ist seit den Tagen von Andrew Jackson nicht abbezahlt worden und sie braucht auch nicht abbezahlt zu werden. Sie wird einfach von Jahr zu Jahr verlängert, die Geldmenge des Landes stützt sich allein auf den »full faith and credit« [volle Würdigung und Anerkennung, ein Passus aus Artikel IV der amerikanischen Verfassung]. Die einzige Gefahr, die von einer wachsenden Staatsverschuldung ausgeht, ist eine exponenziell steigende Zinslast, aber auch diese Gefahr hat sich bislang nicht materialisiert. Die Zinsen für die Staatsverschuldung sind seit 2006 sogar gesunken – von 406 auf 383 Milliarden Dollar –, weil die Fed die Zinsen auf einen sehr niedrigen Satz festgelegt hat.

Viel weiter können sie allerdings nicht gesenkt werden, sodass die Zinslast bei weiterer Staatsverschuldung steigen wird. Doch auch für dieses Problem gibt es eine Lösung. Die Regierung kann die Federal Reserve einfach anweisen, die Schulden aufzukaufen und es ihr untersagen, die entsprechenden Schuldverschreibungen an private Kreditgeber weiterzuverkaufen. Auf ihrer Website erklärt die Federal Reserve, sie überweise ihre Gewinne nach Abzug der eigenen Kosten an die Regierung, sodass für das Geld kaum Zinsen anfallen.

All die Angstmache darüber, die Wirtschaft bräche zusammen, wenn die Chinesen und andere Investoren unsere Schulden nicht mehr kauften, ist eine weitere Irreführung. Die Fed kann die Schulden selbst aufkaufen – was sie stillschweigend bereits tut. Das ist tatsächlich eine weit bessere Alternative, als die Schulden an Ausländer zu verkaufen, denn damit schulden wir die Schulden nur uns selbst, wie Roosevelts Berater dem Präsidenten seinerzeit versichert haben, als er in den 1930er-Jahren der Defizitpolitik zustimmte, und diese in Dollars verwandelten Schulden kosteten so gut wie keine Zinsen.

Besser noch wäre es, die Fed zu verstaatlichen oder abzuschaffen und die Regierung direkt mit Greenbacks zu finanzieren, wie Lincoln es getan hat. Die heutigen Aufgaben der Fed kann das Finanzministerium ohne Weiteres übernehmen, es fielen nur Verwaltungskosten an. Es gäbe keine Aktionäre und Anteilseigner, die Gewinne abziehen. Die Gewinne könnten vielmehr auf staatliche Konten zur Finanzierung des Bundeshaushalts oder der Haushalte von Bundesstaaten und Kommunen zu null Prozent oder zumindest sehr geringen Zinsen verwendet werden. Würden die Zinszahlungen wegfallen, könnten auf nationaler oder bundesstaatlicher Ebene die Steuern deutlich gesenkt werden. Die staatlichen Geldmanager würden sich nicht hinter einem Schleier der Geheimhaltung verstecken, sondern die Bücher für die Allgemeinheit öffnen.

Eine letzte Falschbehauptung ist der angeblich drohende Konkurs der Sozialversicherung. Die Sozialversicherung kann eigentlich gar nicht bankrott gehen, weil es sich dabei um ein Umlagesystem handelt. Mit den heutigen Beiträgen zur Sozialversicherung werden die heutigen Bezieher bezahlt, falls erforderlich, kann der Beitrag erhöht werden. Als Präsident Bush 2005 seine Kampagne zur Privatisierung der Sozialversicherung startete, schrieb der Washingtoner Ökonom Dean Baker:

»Die wichtigsten Schätzungen zeigen, dass das Programm ohne jede Veränderung bis 2042 alle Leistungen gewährleisten kann. Selbst nach 2042 wird die Sozialversicherung in der Lage sein, (inflationsbereinigt) mehr zu zahlen, als die heutigen Rentner erhalten, obwohl die Einzahlungen nur ungefähr 73 Prozent der voraussichtlichen Zahlungen betragen würden.«

Heute brauchen für Einkommen über 97.000 Dollar keine Beiträge zur Sozialversicherung entrichtet zu werden, wodurch die unteren Einkommensgruppen überproportional belastet werden. Schätzungen über den Verlauf der nächsten 75 Jahre zeigen, dass das prognostizierte Defizit beim Wegfall dieser Obergrenze verschwände. Bei der Debatte der demokratischen Präsidentschaftskandidaten im Herbst 2007 waren nur Barack Obama und Joe Biden bereit, diese wichtige Alternative ernsthaft in Erwägung zu ziehen. Präsident Obama müsste nur die Lösungen in die Tat umsetzen, für die er sich im Wahlkampf eingesetzt hat.

 

Eine Aufklärungskampagne, die wir wirklich brauchen

Was wirklich hinter den Kulissen geschieht, hat wohl Prof. Carroll Quigley, Bill Clintons Mentor bei der Georgetown University, am deutlichsten enthüllt. Als von den internationalen Bankern aufgebauter Insider hat Dr. Quigley 1966 in Tragedy and Hope (Tragödie und Hoffnung) geschrieben:

»Die Mächte des Finanzkapitalismus verfolgten noch ein weitreichendes Ziel, nämlich nichts Geringeres, als ein Weltsystem finanzieller Herrschaft in privaten Händen zu errichten, mit dem sich das politische System jedes Landes und jeder Volkswirtschaft beherrschen lässt. Dieses System sollte in feudalistischer Manier durch die Zentralbanken kontrolliert werden, die gemeinsam agierten, und zwar mithilfe von Geheimabkommen, die bei häufigen privaten Treffen und Konferenzen geschlossen würden.«

Wenn das tatsächlich der Plan ist, dann ist er bereits mehr oder weniger Wirklichkeit geworden. Wenn wir nicht endlich aufwachen und begreifen, was vor sich geht und einschreiten, dann haben die »Mächte des Finanzkapitalismus« freie Bahn. Anstatt auf die Straße zu gehen, sollten wir vor Gericht ziehen, Wählerinitiativen starten und unseren Gesetzgebern zu verstehen geben, dass die Vollmacht zur Geldschöpfung, die die Elite der Privatbanker dem amerikanischen Volk entrissen hat, wieder zurückerobert werden muss. Und dazu muss auch der Präsident aufwachen, dem bisher falsche Vorstellungen über die Bedrohung den Schlaf rauben.


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*Eine Anspielung auf Schuldscheine, IOU, »I owe you« – »Ich schulde Dir« – und USA.

 

Donnerstag, 11.03.2010

Kategorie: Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mercredi, 17 mars 2010

Wall Street a aidé la Grèce à dissimuler ses dettes et a attisé la crise européenne

Wall Street a aidé la Grèce à dissimuler ses dettes et a attisé la crise européenne

Voilà la traduction du fameux article du New York Times, qui a lancé la polémique il y a un mois.

Par des tactiques analogues à celles qui ont favorisé les subprimes aux USA, Wall Street a aggravé la crise financière qui ébranle la Grèce et sapé la solidité de l’euro, en permettant aux gouvernements européens de dissimuler la croissance de leur endettement.

Tandis que les soucis causés par la Grèce ébranlaient les marchés financiers, des interviews et articles montraient que, durant une décennie, ce pays avait, avec l’aide de Wall Street, tenté de contourner l’endettement maximum imposé par l’UE (Critères de convergence européens relatifs à la dette publique). Un «deal» créé par Goldman Sachs a aidé à faire échapper des milliards de dettes à la surveillance du budget à Bruxelles.

Alors que la crise était prête à exploser, les banques cherchaient encore des moyens de soutenir les efforts de la Grèce pour ne pas rendre de comptes. Début novembre – trois mois avant qu’Athènes ne devienne l’épi­centre d’un ébranlement planétaire du monde de la finance – une équipe de Goldman Sachs s’est rendue dans la cité antique pour faire à un gouvernement qui se débattait pour payer ses dettes une proposition fort moderne ; c’est ce que racontent deux personnes qui ont été instruites lors de cette rencontre.

Les banquiers – emmenés par Gary D. Cohn, Président de Goldman Sachs – ont fait miroiter un instrument financier qui aurait repoussé dans un lointain avenir l’endettement du système de santé grec – un peu comme des propriétaires en faillite prendraient une seconde hypothèque sur leur maison, pour amortir le découvert de leurs cartes de crédit.

Autrefois, cela avait fonctionné. Des familiers de la transaction ont dit qu’en 2001, peu après l’entrée de la Grèce dans l’Union monétaire européenne, Goldman Sachs avait aidé le gouvernement grec à emprunter en secret plusieurs milliards. Ce deal, dissimulé à l’opinion publique, puisqu’il avait été présenté davantage comme une transaction moné­taire que comme un emprunt, avait aidé Athènes à remplir les critères de déficit européens tout en continuant à dépenser au-delà de ses moyens.

Athènes n’a pas donné suite à la nou­velle proposition de Goldman Sachs, mais face à une Grèce qui croule sous les dettes et aux assurances de lui venir en aide fournies par ses voisins plus riches, les deals pratiqués au cours de la dernière décennie ont amené à se poser des questions sur le rôle de Wall Street dans le dernier épisode mondial des drames de la finance.

Tout comme lors de la crise des subprimes et de l’effondrement de l’American International Group AIG, les produits financiers dérivés jouaient un rôle dans l’énorme endettement de la Grèce. Il s’agissait d’instruments financiers que Goldman Sachs, J.P. Morgan Chase et d’autres banques avaient mis au point et qui permettaient à des politiciens grecs, italiens et d’autres encore, sans doute, de dissimuler de nouveaux emprunts.

Dans des douzaines de transactions à travers tout le continent, les banques consentaient des avances – en échange de paiements ultérieurs par les gouvernements, ces engagements n’étant pas mentionnés dans les livres de comptes. La Grèce avait, par ex­emple, abandonné les taxes aéroportuaires et les profits de la loterie nationale pour les années à venir.

Des voix critiques estiment que ces engagements, n’étant pas considérés comme des crédits, trompaient les investisseurs et les in­stances de régulation, quant à l’endettement effectif d’un pays.

Quelques-unes des transactions grecques avaient reçu des noms tirés de la mythologie. L’une d’elles, par exemple, avait été baptisée Eole, nom du dieu des vents.

La crise grecque représente cependant un défi majeur pour la devise européenne, l’euro, et pour la réalisation de l’unité économique du continent. Ce pays est, pour utiliser le jargon bancaire «to big to fail» – trop grand pour qu’on le laisse s’effondrer. Car la Grèce doit au monde 300 milliards de dollars, et de grosses banques frétillent à l’hameçon dont l’appât est constitué par une bonne partie de ces dettes. Un refus de paiements aurait des conséquences dans le monde entier.

Une porte-parole du ministère grec des Finances a déclaré qu’au cours des derniers mois, le gouvernement a rencontré un grand nombre de banques et n’a pris d’engagements envers aucune. Selon elle, tous les financements de la dette «seront menés avec un grand souci de transparence». Goldman et J.P. Morgan n’ont pas souhaité s’exprimer.

Si les manipulations de Wall Street ont éveillé peu d’attention sur la côte ouest de l’Atlantique, elles ont été sévèrement critiquées en Grèce et en Allemagne par le Spiegel. «Les politiciens voudraient faire avancer les choses et dès qu’une banque leur donne les moyens de repousser un problème à plus tard, ils tombent dans le panneau», a déclaré Gikas A. Hardouvelis, économiste et ex-fonctionnaire du gouvernement, qui a contribué à la rédaction du dernier rapport sur les pratiques comptables grecques.

Wall Street n’a pas créé le problème de l’endettement européen. Mais ce sont des banquiers qui ont fourni à la Grèce et à d’autres pays la possibilité de s’endetter au-delà de leurs moyens, et par le biais de trans­actions parfaitement légales. Il existe peu de règles relatives à la manière dont un pays doit lever des fonds pour financer son armement ou son système de santé, par exemple. Le marché de la dette publique – c’est ce que Wall Street entend par «obligations d’Etat» est aussi extensible que gigantesque.

«Quand un gouvernement veut tricher, il peut le faire», dit Garry Schinasi, un vieux briscard du département de surveillance des marchés financiers du Fonds monétaire international, qui observe la fragilité du marché mondial des capitaux.

Les banques ont exploité à fond ce qui représente, pour elles, une symbiose extrêmement lucrative avec les gouvernements dépensiers. Alors que la Grèce n’a fait aucun usage de la proposition de Goldman Sachs de novembre 2009, elle a payé à cette banque plus de 300 millions de dollars au titre de la transaction de 2001, selon les affirmations de plusieurs banquiers bien au courant.

Ce genre de produits dérivés, qui ne sont ni documentés ni déclarés publiquement, contribuent à augmenter encore l’incertitude sur l’ampleur des problèmes grecs et sur l’identité d’autres gouvernements qui auraient pratiqué une comptabilité analogue, ne figurant dans aucun bilan.

L’onde de défiance inonde maintenant les autres pays situés en périphérie de l’­Europe et qui connaissent des difficultés écono­miques, tout en rendant difficile l’accès aux crédits pour certains pays, dont l’Italie, l’Espagne et le Portugal.

Pour unifier l’Europe sous la ban­nière d’une devise unique, on avait créé l’euro avec un péché originel : certains pays – notamment l’Italie et la Grèce – étaient entrés dans la zone euro avec des déficits supérieurs à ceux qu’autorise le traité qui avait créé la devise. Au lieu d’augmenter les impôts ou de réduire leurs dépenses, ces pays ont réduit artificiellement leurs déficits en recourant à des produits dérivés.

Les produits dérivés ne sont pas forcément une mauvaise chose. La transaction de 2001 incluait un produit dérivé connu sous le nom de «swap». Cet instrument, dit «échange de taux d’intérêts», peut aider des pays ou des entreprises à maîtriser les fluctuations du coût de leurs crédits, en échangeant un taux fixe contre un taux variable et inversement. Une autre forme, les swaps de devises, peut atténuer les effets de la volatilité des taux de change.

Mais, grâce à J.P. Morgan, l’Italie a fait mieux encore. En dépit de la persistance de déficits élevés, elle a réussi en 1996, grâce à un produit dérivé, à rendre son budget accep­table, au moyen d’un échange de devises avec J.P. Morgan, à un taux de change favo­rable à la Grèce, ce qui a permis au gouvernement de disposer [de] davantage d’argent. En contrepartie, l’Italie s’est engagée à effectuer des paiements ultérieurs, non enregistrés comme contraignants.

«Les produits dérivés sont un instrument très utile», selon Gustavo Piga, professeur d’économie, qui a rédigé sur la transaction italienne un rapport destiné au Council on Foreign Relations. «Ils ne deviennent dangereux que s’ils servent à enjoliver le bilan.»

En Grèce, on s’est livré à encore plus d’acrobaties financières. On en est arrivé à un marché aux puces à l’échelon national, quand les représentants des autorités ont mis en gage les autoroutes et aéroports, pour se procurer un argent dont on avait un besoin urgent.

Grâce à Eole, une écriture comptable légalement créée en 2001, la Grèce a pu, cette année-là, réduire les dettes qu’affichait son bilan. La transaction prévoyait, entre autres, une avance de liquidités à la Grèce, en ­échange de la cession de futures redevances aéroportuaires. Un deal analogue, Ariane, daté de 2000, a englouti les recettes que le gouvernement tire de la loterie nationale. En dépit des doutes exprimés par beaucoup, la Grèce a classé ces transactions comme ventes, et non comme emprunts.

Les transactions de cette sorte sont très contestées dans les milieux gouvernementaux. Dès 2000, les ministres européens des Finances ont débattu avec âpreté pour savoir s’il fallait, ou non, publier les recours aux produits dérivés utilisés de manière créative en comptabilité.

La réponse a été négative. Mais, en 2002, on a exigé la publication de la comptabilité concernant les Ariane et Eole, qui ne figuraient pas dans le bilan budgétaire des pays, et invité les gouvernements à faire une nouvelle déclaration où ils apparaissent non comme ventes, mais comme crédits.

Toutefois Eurostat, l’Office statistique des Communautés européennes, déclarait en­core en 2008 que «dans un grand nombre de cas, les opérations de titrisation des crédits sont agencées de manière à obtenir, prétendument, un résultat comptable donné, sans tenir compte de la valeur économique réelle de l’opération.» De tels artifices comptables peuvent être profitables à court terme, mais se révéler dévastateurs au fil du temps.

George Alogoskoufis – lors d’un remaniement politique, [il] a été ministre des Finances en Grèce, après le deal avec Goldman – a cri­tiqué, en 2005, cette transaction, devant le Parlement. Celle-ci obligerait le gouvernement, arguait-il, à effectuer de très lourds paiements à Goldman jusqu’en 2019.

Alogoskoufis, qui démissionna un an plus tard, a déclaré la semaine dernière par mail que Goldman avait accepté par la suite une refonte de la transaction «pour restaurer la bienveillance de la République hellène». Selon lui, le nouveau projet était meilleur pour la Grèce.

Selon deux personnes au courant de la transaction, Goldman Sachs a vendu en 2005 le swap de taux d’intérêt à la Banque nationale de Grèce, la principale banque du pays. En 2008, avec l’aide de Goldman Sachs, la banque a inclus le swap dans une écriture juridique baptisée Titlos. Selon Dealogic, un établissement de recherches sur la finance, la banque a conservé les reconnaissances de dettes de Titlos, pour les présenter comme des garanties permettant d’obtenir davantage de crédits de la BCE.

Edward Manchester, premier vice-président de l’agence de notation de solvabilité Moody’s, a déclaré que, vu les engagements à long terme, la Grèce serait en fin de compte la perdante. Selon lui, «le swap Titlos restera toujours non rentable pour le gouvernement grec.»

Source : New York Times – International Herald Tribune du 14 février 2010

dimanche, 14 mars 2010

Le déclin comme destin

Le déclin comme destin

par Guillaume Faye

declin.jpgEn apparence l’erreur d’Oswald Spengler fut immense : il annonçait pour le XXe siècle le déclin de l’Occident, alors que nous assistons tout au contraire à l’assomption de la civilisation occidentale, à l’occidentalisation de la Terre, à la généralisation de cet « Occident » auto-instauré comme culture du genre humain, dont, suprême paradoxe, les nations néo-industrielles de l’Orient constitueront peut-être d’ici peu l’avant-garde. En apparence toujours, c’est au déclin de l’Europe que nous sommes conviés. Montée en puissance de l’Occident et perte de substance de l’Europe : les deux phénomènes sont sans doute liés, l’un entraînant l’autre. Tout se passe comme si, après avoir accouché de l’Occident, répandu aujourd’hui sur toute la planète, l’Europe épuisée entrait dans un nouvel âge sombre.

La thèse ici présentée sera simple : l’Occident n’est pas « en » déclin – il est au contraire en expansion – mais il est le déclin. Et il l’est depuis ses fondements, depuis son décollage idéologique au XVIIIe siècle. L’Europe, quant à elle, n’est qu’en décadence.

Déjà, parle l’étymologie : l’« Occident » est le lieu où le soleil se couche. Et, dans son essence, la civilisation occidentale, apparent mouvement ascendant, se confond en réalité avec une métaphysique du déclin, un dépérissement du principe solaire qui, superficiellement, semble la fonder. Ce déclin intrinsèque qui est la loi de l’Occident n’est pourtant pas facile à déceler tant il est empreint de paradoxes.

Premier paradoxe : alors que l’idéologie occidentale entre dans son déclin – déclin des théories progressistes, révolutionnaires, démocratistes, etc. – la civilisation occidentale connaît, même sur le plan politique, une expansion irrésistible de ses régimes économiques et politiques, qu’ils soient socialistes ou capitalistes, au détriment des traditions locales de souveraineté et de culture. Deuxième paradoxe : alors que l’Europe semble entamer, hélas, en tant qu’ensemble continental, un dépérissement dans un nombre impressionnant de domaines, l’Occident qui constitue, pour Abellio comme pour Heidegger, le fils métaphysique et géopolitique de cette Europe, explose à l’échelle de la planète entière. Troisième paradoxe : alors qu’au sein même de notre culture, nous vivons l’implosion du sens, le déclin des grandes valeurs constituantes, l’effondrement des ressorts spirituels, nous assistons en même temps à la montée en puissance de la partie matérielle de notre culture, de sa « forme », c’est-à-dire de ses manifestations technologiques et scientifiques qui sont en passe de détenir le règne absolu de la Terre.

La civilisation technique et économique qui, partie d’Europe et d’Amérique du Nord, gagne la planète entière, ne peut pas sérieusement être confondue avec un fait de « décadence ». Les historiens nous ont montré, par exemple, que la fameuse « décadence de l’Empire Romain », trop souvent et à tort comparée avec notre situation, s’accompagnait d’une régression des « formes » de civilisation : techniques, institutions, villes, infrastructures, échanges, etc.

Toujours de plus en plus de routes, d’usines, d’avions, d’écoles, d’hôpitaux, de livres, de pollution et d’êtres humains. Troisième paradoxe : plus la « structure » explose, moins ses assises idéologiques et morales semblent assurées. On assiste en parallèle à une explosion des formes de civilisation, et à une implosion des valeurs, des idéologies et surtout de tous les fondements moraux et spirituels qui confèrent un « sens » englobant aux sociétés.

Quatrième paradoxe : si l’on se contente même de considérer le secteur de la pure économie, on observe une crise des mécanismes mondiaux de libre-échange commerciaux et monétaires, mais en même temps une irrésistible progression des technologies et de l’organisation commerciale et scientifique de l’humanité. Cinquième paradoxe : à l’heure où l’effondrement des taux de fécondité partout dans le monde (commencé en France au XVIIIe siècle et dans le Tiers-monde ces dernières années) n’a encore donné lieu à la dénatalité que dans les seuls pays industriels, la population mondiale, du fait d’une loi arithmétique simple à saisir, continue de croître à un rythme exponentiel [1].

Ces cinq paradoxes sont inquiétants. Au lieu de vivre des déclins globaux et linéaires comme les autres civilisations qui nous ont précédés, nous subissons ce que l’on pourrait nommer un « déclin emboîté dans une expansion ». Comme si la civilisation occidentale était une machine devenue folle, son centre implose tandis que sa périphérie explose. L’Europe régresse, l’Occident se répand. Le sens disparaît, les formes croissent. Le « sang » s’évapore, mais les veines se ramifient en réseaux de plus en plus vides. De moins en moins de cerveau, mais de plus en plus de corps et de muscles. De moins en moins d’humanité, mais de plus en plus d’hommes. De moins en moins de cultures, mais de plus en plus de civilisation. Tout cela ressemble étrangement à une prolifération cancéreuse. Un cancer, en effet, c’est le déclin de la différenciation qualitative des cellules au profit du triomphe de la reproduction quantitative.

La logique profonde de l’Occident, à travers l’égalitarisme social, la conversion de toutes les cultures aux mêmes modèles politiques et économiques, à travers la rationalisation de l’existence que ne peuvent même pas éviter les régimes qui, dans leurs doctrines, la combattent, c’est depuis ses fondements la réduction de l’organique au mécanique.

Le suprême paradoxe de l’Occident, c’est que son assomption est, sous l’apparence de la croissance et de la juvénilité, une entropie, c’est-à-dire une homogénéisation croissante des formes de vie et de civilisation. Or, la seule forme véritable du déclin, comme nous l’enseignent l’astrophysique et la biologie, c’est précisément l’entropie : croissance cancéreuse des cellules indifférenciées ou, selon le deuxième principe de la thermodynamique, déperdition d’énergie par homogénéisation. De ce point de vue, l’essence de l’Occident, c’est le déclin, puisque sa raison d’être est l’uniformisation des formes-de-vie humaines. Et l’essence du « progrès », c’est l’entropie. La multiplication explosive des technologies vient masquer ce déclin à ses propres protagonistes, exactement comme, dans le processus tragique de rémission des cancéreux, la prolifération des cellules indifférenciées donne, pour quelque temps, l’illusion de la santé et de la croissance organique. L’Occident est un vieillard qui se prend pour un adolescent.

Mais, dans la mesure où cette civilisation occidentale entre dans son « troisième âge », connaît à la fois un triomphe de ses formes, de ses quantités, de son expansion statistique et géographique mais un épuisement de son sens, de son idéologie, de ses valeurs, on peut se demander si elle n’est pas au bord de la résolution de ce déclin qu’elle porte en elle. Hypothèse : ce serait toute la Terre alors qui entrerait dans le temps du déclin, puisque, pour la première fois, toute une civilisation l’unifie, une civilisation minée de l’intérieur. La civilisation occidentale ressemble aux arbres de Paris : ils continuent à pousser alors même qu’ils sont rongés.

On peut considérer que l’uniformisation de la Terre entière sous la loi d’une seule civilisation – politique, économique et culturelle – est un processus bio-cybernétique, puisqu’il s’agit, comme le montrèrent Lupasco et Nicolescu, d’une homogénéisation d’énergies. Pour l’instant cette entropie est « expansive » ; elle sera un jour, comme toute entropie dans sa phase n° 2, implosive. Et n’allons pas croire, comme l’imagine Lévi-Strauss, que de « nouvelles différences » et de nouvelles hétérogénéités puissent surgir au sein d’une civilisation mondiale devenue occidentale [2]. Il ne s’agirait que de spécificités superficielles, des folklores ou des « variantes ». Et, dans la mesure où cette accession historique de l’humanité à une seule et même civilisation occidentale, démocratique, prospère, individualiste et égalitaire constitue le projet des idéologies du Progrès depuis plus d’un siècle, qu’elles soient socialistes ou libérales, ne doit-on pas se demander si l’idée même de Progrès ne serait pas la figure centrale du Déclin ? La matière et l’essence du Progrès, c’est l’accès de tous les hommes à la même condition et à la même morale sociale, réputée universelle. En ce sens, les doctrines progressistes, sécularisant les religions monothéistes de la vérité révélée, entament un processus de fin de l’histoire, de fin des histoires de chaque peuple.

Nous entrevoyons cette fin de l’histoire aujourd’hui : statu quo planétaire par la menace thermonucléaire, condominium soviéto-américain sur le monde qui gèle les indépendances nationales, « gestion » techno-économique et financière d’une économie mondiale qui uniformise les modes de production et de consommation, etc. On ne cesse de dire, après Alvin Toffler, que nous entrons dans la « troisième révolution industrielle » ; c’est vrai, mais ne perdons pas de vue néanmoins cet étonnant paradoxe : au fantastique bouleversement des formes socio-économiques correspond la glaciation des formes politiques et « historiques ». Nous vivons une « mutation immobile ». Tout vibre (technologies, rapports sociaux et économiques) mais rien ne « bouge » (géopolitique) ; ou plutôt rien ne bouge encore. Et, comme la conscience historique, les idées et les valeurs, elles aussi, congèlent.

Derrière son triomphe, la civilisation occidentale voit aujourd’hui son ressort brisé : ses mythes fondateurs et ses idéologies dépérissent et se sclérosent. Le progressisme, l’égalitarisme, le scientisme, le socialisme ont désenchanté leurs partisans et ne mobilisent plus les énergies. Les modèles politiques d’une civilisation quantitative, tout entière fondée sur l’économie, ont produit à l’Est le totalitarisme tyrannique, à l’Ouest le totalitarisme doux et despotique de la société de consommation prévu par Tocqueville, et dans le Tiers-monde, l’ethnocide et le paupérisme de masse, ce dernier masqué par la triste mystique du « développement ». Devenues anti-révolutionnaires, les idéologies occidentales, à l’image de cette civilisation néo-primitive qu’elles représentent, convergent aujourd’hui dans un social-libéralisme tiède, cynique, sans projet, gestionnaire, inessentiel, rassemblé autour de la vulgate académique des « Droits de l’Homme », dont Claude Polin a bien montré l’inanité et l’inefficacité [3]. Privée de toute transcendance, organisée dans son principe autour du rejet de toute référence au spirituel, la civilisation occidentale est l’organisation technico-rationnelle de l’athéisme. Or, mutilée de ses dieux, quels qu’ils soient, une culture humaine se condamne à terme, même si par ailleurs brille l’éclat de Mammon, même si l’accumulation technologique, la progression nominale des revenus ou les « progrès de la justice sociale » donnent l’illusion de la vitalité.

Mais cette ascension de l’économie et de la technique, au nom de quoi la prendre pour une amélioration ? Il est facile de démontrer, par exemple, que les processus mentaux de la société de consommation, même du point de vue de l’intelligence gnoso-praxique et technicienne, ne sont pas nécessairement plus élaborés que ceux des sociétés traditionnelles. La société technicienne voit, concrètement, décliner l’incorporation de « spirituel » (Evola) ou d’« être » (Heidegger), et même peut-être aussi d’intelligence dans ses formes de vie [4]. Et, paradoxalement, puisque le monde, contrairement aux vues chrétiennes n’est pas dualiste mais associe dans une apparente contradiction ce qu’il y a de plus immatériel et ce qu’il y a de plus biologique dans la même unité organique et vitaliste, il n’est pas étonnant qu’au déclin spirituel corresponde aussi le déclin de l’esprit de lignage, le déclin démographique. Conscience biologique et conscience spirituelle sont liées.

La séparation opérée par le dualisme chrétien entre Dieu et le monde a profondément marqué la civilisation occidentale, rompant avec l’unité du transcendant et de l’immanent de la tradition hellénique. Pénétrant l’inconscient collectif et les formes de civilisation, ce dualisme a progressivement donné lieu à un désenchantement et à une désacralisation du monde, à une civilisation schizophrène : d’où les séparations mutilantes entre l’Etat-Père-et-Juge et la société, entre la Loi et le peuple, entre les rationalités du libéralisme et du socialisme et l’élan vital « aveugle » (mais donc clairvoyant parce qu’« obscur ») des civilisations, entre l’individu érigé en monade et ses communautés, entre la légitimité apparente de l’Occident, c’est-à-dire cette « démocratie » dont tous (tyrans compris) se réclament sans en percevoir le sens, et les aspirations réelles des populations, entre la Technique figure dominante du temps, et l’idéologie.

Ces deux derniers points méritent des précisions. Le divorce entre la Technique, aujourd’hui prosaïque et désenchantée et l’idéologie fut souvent mal compris, notamment par Spengler et Jünger. Ce n’est pas, selon nous, la Technique qui constitue la cause du matérialisme, de l’uniformisme et de la déspiritualisation de l’Occident ; mais c’est l’idéologie occidentale elle-même qui a fait de cette Technique le moteur de sa logique mortifère. La Technique est désenchantée et non désenchantement dans son essence. La raison en est ce divorce entre l’essence de la Technique qui est, comme le vit Heidegger, poétique, lyrique, faustienne, donc spirituelle et « artistique », et les idéologies dominantes en Occident qui n’assignent à cette Technique que le prosaïsme mécanique de la domestication par le bien-être et la finalisent comme « technologie du bonheur individuel ». Si la fusée Ariane ne fait pas rêver alors qu’elle le devrait, qu’elle devrait représenter pour notre imaginaire la « transfiguration des dieux », c’est parce que sa finalité est la retransmission des émissions de télévision, c’est-à-dire l’expression du « banal » le plus plat.

Et lorsque Gilbert Durand en appelle à la renaissance des ombres de l’imaginaire, seules capables peut-être d’affronter le désenchantement de la techno-société de consommation, ce n’est pas dans la consommation du passé, dans les musées, dans les études, dans les nostalgies, dans les mythes mis en fiches informatiques qu’elles pourront être retrouvées. C’est paradoxalement dans la contemplation brute des ordinateurs eux-mêmes, dans les fusées et les centrales, bref dans une Technique qui porte en elle le plus grand potentiel de rêve que l’humanité ait pu trouver et qui est aujourd’hui neutralisée, déconnectée, par des idéologies et des modèles sociaux tout entiers dominés par la petitesse domestique et la froide logique comptable des bureaucraties.

La deuxième conséquence grave du dualisme occidental porte sur le divorce entre le régime politique officiel (la fameuse « démocratie ») et la manière dont ce régime est concrètement ressenti, est socialement vécu par les prétendus « citoyens ». Nous ne pouvons ici qu’énumérer sans les développer les effets de ce divorce : non-représentativité radicale de la classe politique, toute-puissance des féodalités minoritaires (corporations syndicales, médias, réseaux bancaires, corps technocratiques), simulacre de participation électorale des citoyens au pouvoir par le caractère inessentiel des enjeux des scrutins, volonté constante des partis politiques de détourner à leur profit l’opinion réelle du peuple, etc. Plus que jamais, l’opposition entre pays réel et pays légal demeure la règle. Fondé sur la souveraineté du peuple, l’Occident l’établit moins encore que les sociétés traditionnelles tant décriées comme tyranniques. Dans cette affaire, le plus grave n’est pas l’absence de « démocratie » (mieux vaudrait à tout prendre un pouvoir qui reconnaisse officiellement l’impossibilité de la démocratie et qui fonde la souveraineté sur – par exemple – une autocratie sacralisée) mais la schizophrénie endémique, le mensonge permanent d’un système de pouvoir qui, à l’Est comme en Occident, tire sa légitimité d’un principe (le Peuple souverain) qui non seulement n’est pas appliqué, mais dont la principale préoccupation des classes dirigeantes est d’en interdire l’application.

En effet, que craignent et que combattent le plus les partis, les syndicats, les grands corps, les médias progressistes (et en URSS le PCUS) sinon la démocratie directe, sinon le césarisme référendaire où l’avis brutal du peuple s’exprime sans ambages ? Et pourquoi redoutent-ils tant ce peuple ? Parce qu’ils savent bien que dans ses profondeurs l’humanisme, l’égalitarisme éclairé, le cosmopolitisme déraciné n’ont pas de prise. Ils savent qu’au sein du peuple « ignorant », livré à lui-même sans l’encadrement des « élites » syndicales, partitocratiques et journalistiques, vivent toujours des valeurs et des aspirations qui ne correspondent pas à ce que les scribes, les technocrates, les politiciens et les prêtres attendent.

Ceux-là, qui tiennent la position d’« élites européennes » mais qui n’en ont pas la carrure, en proie au vide intellectuel et idéologique, se rallient comme à une bouée de sauvetage à la vulgate occidentale. La « droite » et la « gauche » politique font converger leurs discours appauvris dans le même atlantisme socio-libéral. Avec impudence, la gauche française, après l’échec prévisible de son « socialisme », accomplit les funérailles discrètes de celui-ci et se nomme porte-parole du capitalisme et de l’individualisme, abandonnant définitivement tout discours révolutionnaire. Ainsi naît, sur le plan idéologique comme sur le terrain politicien, une « gauche-droite », nouveau parti unique des démocraties occidentales, qui communie dans l’atlantisme, la défense de l’Occident (thème jadis des crypto-fascistes), le reaganisme, la philosophie sommaire des Droits de l’Homme et le conservatisme.

Cette « gauche-droite » idéologique et politique ne se caractérise pas seulement par son occidentalisme mais par sa dérive anti-européenne masquée par un anti-soviétisme primaire et un discours apparemment pro-européen. Il s’agit de nier toute spécificité et toute indépendance à l’Europe en la désignant comme simple zone (et comme bouclier) de l’Occident atlantique [5].

Or il se trouve que, pour la première fois sans doute dans son histoire, l’Europe n’a plus les intérêts de l’Occident (culturels, géopolitiques et économiques) et qu’un découplage de l’Europe et de l’Occident américanomorphe est devenu nécessaire. C’est précisément parce qu’elle participe exclusivement de la civilisation occidentale – qui fut jadis européenne mais qui ne l’est plus – que l’Europe est entrée en décadence.

Les figures de la décadence européenne sont connues. Rappelons-les pour mémoire : cette civilisation qui est toujours virtuellement la plus dense et la plus puissante de la Terre, gît, comme Gulliver enchaîné, démembrée par le condominium soviéto-américain. Privée d’indépendance politique, futur champ clos d’un affrontement entre les deux Super-Gros, l’Europe vit avec la perspective de son génocide nucléaire. Le « jour d’après » ne concerne pas, en réalité, nos deux protecteurs. Victime d’une guerre économique qui la désindustrialise, en proie au centre à la colonisation et à l’occupation et, à l’ouest, à la déculturation et à l’exploitation, l’Europe est également en chute démographique. Dans tous les domaines, après avoir explosé, l’Europe, comme un trou noir, implose. Elle entre, comme après la chute de Rome, dans un nouvel âge sombre.

Mais la décadence européenne est moins grave et n’apparaît pas de même nature que le « déclin explosif » qui porte l’Occident. Ce dernier, répétons-le, est le déclin ; il porte en lui le dépérissement de toutes choses. Le déclin d’un organisme est sans rémission, parce qu’il touche ses fondements et son principe. L’Occident a un principe, abstrait, c’est l’idéologie (américanisme ou soviétisme, tous deux sécularisations du christianisme). Or l’Europe n’est pas un principe, mais un peuple, une civilisation, une histoire, de nature vivante et organique et non pas mécanique. En ce sens l’Europe n’est qu’en décadence. Elle traverse un âge sombre dont elle peut se remettre. Elle est malade et peut se guérir par auto-métamorphose, alors que l’Occident est inguérissable parce qu’il ne peut pas se métamorphoser, parce qu’il obéit à une logique linéaire, ignorant tout polymorphisme. Comme le formule l’historien Robert Steuckers, l’Occident américain est l’alliance de l’Ingénieur et du Prédicateur ; l’Occident soviétique est l’alliance de l’Ingénieur et de l’Idéologue. Or l’Idéologue et le Prédicateur perdent, en ce moment même, leur légitimité, leur mystique, leur enchantement. Le travail de l’Ingénieur, qui n’était fondé que sur la corde raide de leurs discours et qui continue, pour un temps encore, par effet inertiel, son processus, est condamné à terme parce qu’il n’est plus alimenté. L’Europe, en revanche, est l’alliance de l’Ingénieur et de l’Historien. Le discours de ce dernier, irrationnel, fondé sur les profondeurs de l’imaginaire, peut sans doute entrer en crise comme aujourd’hui, mais il est inépuisable parce qu’il peut se régénérer selon le principe dionysiaque de perpétuelle efflorescence.

L’Europe n’est que provisoirement liée au discours occidental. Ses « principes de vie » sont multiples : un peuple ne doit pas son existence, à l’inverse de l’Occident américain ou soviétique, à un mécanisme idéologique, à une légitimité « politique » qu’il faut sans cesse justifier, ou, pire encore, à la logique quantitative de l’économie. Pour survivre, un vrai peuple – cas de l’Europe et de nombreuses civilisations du « Tiers-monde » – n’a rien « à prouver ». L’Occident, lui, doit sans cesse « prouver » ; or, c’est précisément ce qu’il ne peut plus faire…

La décadence de l’Europe est liée aux effets de la civilisation occidentale, qu’il s’agisse de l’américanisme et du soviétisme. Mais, paradoxalement, le déclin déjà commencé de cette civilisation, même si dans un premier temps paraît être la cause de la décadence européenne, sera, dans un second mouvement, la condition d’une régénération de la culture européenne.

La condition d’une renaissance européenne doit être trouvée dans une auto-métamorphose comme notre histoire en connut plusieurs : abandon des idéologies occidentales et naissance de nouveaux fondements que nous ne connaissons pas encore, qui ne peuvent être qu’irrationnels et spirituels, et qui, eux aussi, n’auront qu’un temps.

Mais la civilisation normalisée, ayant transformé en morale prosaïque et réglementaire ses propres principes spirituels fondateurs, ne laisse plus d’espace à la création de valeurs mobilisatrices. Le narcissisme devient la destinée d’individus qui s’isolent dans le présentisme face à une société devenue autonome, dont les normes n’ont d’autres fins qu’elles-mêmes. Dans ces conditions, peut-on considérer comme un « retour du sens », comme une réponse spontanée de la société aux structures normalisatrices, les multiples manifestations contemporaines qui, dans leurs « explosions », font apparemment échec à la transparence rationnelle des discours et à la froideur des mécanismes techno-économiques ? Les phénomènes récents de libéralisation des mœurs, l’inventivité des groupes qui viennent en « décalage » où la sociologie pense découvrir de nouveaux types de rapports humains, le mouvement diffus de réenracinement culturel qui semble annoncer un réveil des cultures populaires contre la culture marchande de masse, etc., tout cela augure-t-il un renouveau d’un « paganisme social » contre la normalisation des Etats-Providence ? Ou bien n’assistons-nous pas à la naissance de « soupapes de sécurité », comme des porosités dans le corps de la norme par où s’échapperaient, en quantités programmées, des énergies virtuellement dangereuses qui se verraient récupérées et neutralisées, transformées en « distractions », reproduites comme « loisirs » ? Il est difficile de répondre. Cependant on ne peut s’empêcher de noter que notre époque voit coexister deux phénomènes inverses, l’un de renforcement des normes techno-économiques, l’autre de libération des morales privées. L’hétéronomie sociale répond à l’autonomisation des règles non-économiques d’existence. Ce parallélisme, qui n’est pas forcément un hasard, nous incite à considérer très attentivement la fonction des mouvements de libération et d’innovation des mœurs, sans cependant négliger les espoirs qu’ils peuvent aussi susciter. Quoiqu’il en soit, pour répondre à ce désir de normalité, devenue normalisation effective, où nous enferme l’idéologie occidentale, je suis enclin à fonder plus d’espoir sur les peuples que sur les sociétés, ces peuples que mettent en branle non pas des « vibrations » de mœurs mais des mouvements de l’histoire. Or l’Europe, avant d’être une société, n’est-elle pas d’abord un peuple ?

Paradoxalement, la chance de l’Europe réside peut-être dans sa vieillesse qui peut se transformer en jeunesse : l’Europe touchée la première par la civilisation occidentale, réagira peut-être la première contre elle. En ce cas, la décadence serait un facteur d’anti-déclin, et la sénescence, un facteur d’expérience et de rajeunissement : revenus de tout, désenchantés, les néo-européens des jeunes générations qui, dans leur « docte ignorance », ne veulent même plus savoir ce que politique, démocratie, égalité, Droits de l’Homme, développement, etc. signifient, qui ne croient plus dans le prométhéisme vulgaire des mystiques socialistes ou capitalistes, reviennent, du fait de cette apparente dépolitisation, aux choses essentielles : « nous ne voulons pas mourir, avec notre peuple, écrasés par une guerre atomique en Europe dont les enjeux ne sont pas les nôtres ; nous ne voulons pas nous « engager » auprès d’une droite ou d’une gauche, d’un occidentalisme ou d’un soviétisme qui ne sont que les visages faussement antagonistes du même totalitarisme ». Ce discours est fréquent dans la jeunesse. Tant mieux ; c’est celui de l’« Anarque » d’Ernst Jünger. C’est un discours révolutionnaire et engagé sous des apparences de désengagement et d’incivisme. C’est l’attitude des neutralistes allemands qui n’expriment nullement une démission, mais une prodigieuse énergie, l’éternelle ruse du peuple qui sait qu’on peut se relever d’un « régime politique » mais pas d’un holocauste.

La renaissance arborescente, rusée ou inconsciente, des vitalités populaires de toutes natures contre l’ordre froid des planificateurs ou des libéraux, des centralisateurs ou des décentralisateurs, des politiciens, des « humanistes », des prêtres, des professeurs, des socialismes, des libéralismes, des fascismes – et même des « anarchismes »… – contre les règlements, les réseaux, les programmes et les circuits, contre l’égalité et l’inégalité, la justice et la tyrannie, la liberté et l’oppression, la démocratie et le despotisme, la société permissive ou le totalitarisme, bref contre tous ces faux contraires, ces fausses fenêtres des idéologies occidentales dont le dessein commun est, comme jadis Moïse, d’imposer leur Loi contre la vie et le réel, cette renaissance donc, constitue aujourd’hui, notamment dans les jeunes générations, la principale force de l’anti-déclin. En-dehors des Etats et des institutions officielles des pays occidentaux qui sont devenus aujourd’hui des forces de dépérissement, il faut parler d’une résistance populaire. Résistance aux décadences, au social-étatisme, aux plats pré-cuisinés des angélismes humanitaires et des croyances progressistes, résistance de la sagesse dionysienne face à la folie prométhéenne des niveleurs, résistance multiforme dont l’indifférence croissante envers la politique n’est qu’un aspect.

Ce vitalisme social n’est pas un désengagement, mais un engagement. Dans un monde où tout ce qui se veut légitime et institué en appelle au narcissisme de masse, au travail aliéné, au présentisme, au machinisme, au déracinement, de nouvelles énergies apparaissent spontanément et, malgré les pressions des pouvoirs et des pédagogies, osent « faire de la musique sans solfège ».

Fils de la décadence, les néo-européens, nouveaux barbares, ne connaissent même plus la vulgate du moralisme humanitaire occidental. C’est là l’effet pervers – et de notre point de vue positif – du déclin de l’éducation culturelle en Europe : sous prétexte d’égalité et d’universalisme, l’idéologie dominante a négligé l’enseignement de la culture élitaire. Mais elle a jeté le bébé avec l’eau du bain. Les jeunes générations se retrouvent peut-être déculturées, privées de mémoire, ce qui était le but recherché par les professeurs de déracinement, mais également – ce qui est sans doute un événement considérable – libérées de la scholastique et des tabous des idéologies mortifères de l’Occident. Les grands concepts sacrés (Egalité, Démocratie, Politique, Liberté, Economie, Développement, etc.), responsables du déclin, flottent désormais comme des corps morts dans le panthéon mental des jeunes générations.

De deux choses l’une alors : ou bien cette fin radicale de la « culture classique » (à laquelle appartiennent malgré tout toutes les catégories politiques actuelles et toute la mystique égalitaire de l’Occident) ne donnera lieu qu’au vide et à l’immersion dans le néo-primitivisme, ou bien elle laissera surgir le fond assaini du psychisme européen, le fond issu de notre « instinct grec ». Au diagnostic apparemment pessimiste de « fin de l’histoire » qui semble toucher les Européens, on peut objecter sans doute qu’à l’étage du quotidien, de l’intensité de la vie des sociétés, les « histoires » continuent de dérouler leurs stratégies et qu’il ne faut pas jouer les Cassandre. Mais, privées de la dimension « historiale » (et non pas « politique » puisque « politique », « individualisme » et « fin de l’histoire » vont ensemble) de leur existence, démunies de perspective souveraine, les sociétés européennes pourraient-elles mêmes encore connaître dans leurs dynamiques privées et quotidiennes, dans l’énergie secrète du peuple, « des » histoires, des aventures, des pulsions créatrices ?

Nul ne peut répondre. Deux repères positifs, deux puissants facteurs de régénération peuvent néanmoins être définis au sein même de la décadence. Premier repère : le foisonnement dionysiaque de nouveaux comportements sociaux parallèles, sécessionnistes, sensuels, liés à une renaissance contemporaine de l’esthétique européenne, qui biaisent les institutions, les savoirs institués, les réseaux technocratiques, et que la sociologie de Maffelosi met en lumière, constituent à la fois le signe que la moralité réglementée, que le bourgeoisisme technomorphe de la civilisation occidentale (c’est-à-dire du déclin) butent sur l’inertie du peuple, mais aussi qu’on assiste à un regain de l’imaginaire, de l’irrationnel, de forces quotidiennes inconscientes de leur puissance. Ces forces sont celles qui donnent aux nations de grands artistes, de grands entrepreneurs. Comme la graine pendant l’hiver, nous devons coûte que coûte espérer que germent les énergies de la société civile. Demain, elles peuvent être fécondées par une souveraineté à venir, si le Destin qui ne reste jamais longtemps muet le décide.

Deuxième repère. A ce facteur de régénération intérieure, vient s’ajouter un motif possible de régénération extérieure. Il s’agit paradoxalement du grand « risque » de voir la civilisation progressiste et mondiale de l’Occident sombrer dans la crise géante. Le déclin latent deviendrait, au sens de Thom, catastrophe. En effet, à la période actuelle d’auto-résolution des crises par une fuite technologique en avant, à la macro-stabilité du système occidental, peut fort bien succéder une déstabilisation assez brutale. Nous nous dirigeons de fait vers une fin de siècle où vont converger des évolutions dont le parallélisme est pour l’instant facteur de « croissance » (cancéreuse) mais dont la rencontre, et la fusion, risquent d’être la cause d’un déséquilibre géant et planétaire. Ces « lignes évolutives » sont : les déséquilibres économiques croissants provoqués par le « développement » néo-colonial du Tiers-Monde, les effets cumulés du gel géostratégique (statu quo) imposé par les superpuissances combiné avec la sophistication et la densification des armements hyperdestructifs, la continuation de la déchéance de la démocratie à l’Ouest comme à l’Est, l’écart démographique Nord-Sud qui se creuse, l’écart population-ressources dans les pays pauvres, la montée des forces d’auto-affirmation nationales et religieuses dans le Tiers-monde parallèle au renforcement d’une technostructure mondiale, etc.

Notre temps est dominé par la menace d’un « point de rupture » qui se profile à l’horizon de la fin du XXe siècle, où l’humanité pléthorique se heurtera à des défis convergents à la fois alimentaires, écologiques, géopolitiques, etc. Or, aucune société traditionnelle ne peut les résoudre. Le retour à un modèle « holiste » et anti-technique de civilisation est impossible. Sommes-nous condamnés à la normalité occidentale ? L’ambiguïté de la modernité se reconnaît à ce qu’elle s’instaure comme seul remède des maux qu’elle a suscités. Pourtant, et pour ne donner que l’exemple de l’économie, il serait intéressant de prêter l’oreille à des nouvelles doctrines qui tentent de résoudre cette contradiction ; elles nous semblent bien plus originales que l’imposture intellectuelle du retour d’Adam Smith sous le visage publicitaire des « nouveaux économistes ». Ces nouvelles doctrines auxquelles je fais allusion, défendues en France par François Perroux, André Grjebine, François Partant, etc., préconisent l’abandon, non pas de l’industrie et de la technologie, mais de la norme universelle d’un marché et d’un système d’échange et de production planétaires. Elles se prononcent pour la construction progressive de zones « autocentrées », où les unités culturelles, politiques, économiques et géopolitiques se recouvriraient, où le productivisme marchand, le contenu des « besoins » humains, et la place de l’économique dans la société seraient repensés de fond en comble. Il s’agit, en quelque sorte, de penser une modernité qui ne soit plus mondialement normative.

Brutale ou progressive, la vraie crise est devant nous. Ou bien elle débouche sur le déclin définitif, le baiser des mégatonnes, le grand soleil nucléaire qui peut fort bien illuminer la fin de ce siècle du feu de l’holocauste des vertébrés supérieurs, ou bien, en-dehors de cette perspective à la fois terrifiante et très esthétique, la civilisation occidentale, butant sur cette « convergence des évolutions », ne pourra plus physiquement continuer à fonctionner. Faute de l’avoir envisagé sereinement, nous serions alors contraints d’organiser, au bord du tombeau, l’autarcie économique, la post-démocratie, bref de nouveaux principes politiques de vie en société. Ces principes ne seraient certainement plus ceux du progressisme occidental. Chaque région du monde improviserait sa solution…

Alors, pour éviter une telle improvisation, il appartient peut-être aux intellectuels éclairés, ceux qui aujourd’hui échappent aux grandes dogmatiques ridées de l’humanisme, du libéralisme, du socialisme, etc., de réfléchir à ces nouveaux principes, à des valeurs post-modernes capables de prendre le relais de cette longue procession d’illusions qui se confondent aujourd’hui avec le déclin et qui forment encore, hélas, le corps de cette vulgate occidentale qui tient lieu de savoir aux élites européennes.

notes
[1] Cf. sur ce point, Alain Girard, L’homme et le nombre des hommes, PUF, 1984.
[2] Claude Lévi-Strauss, Paroles données, Calmann-Lévy, 1984.
[3] Claude Polin, L’esprit totalitaire, Sirey.
[4] Julius Evola, Les hommes au milieu des ruines, Trédaniel, 1984.
[5] Cf. à ce propos, Laurent Joffrin, La gauche en voie de disparition, Seuil, 1984.

Ce texte est extrait de la brochure de Guillaume Faye, L’Occident comme déclin, 1985. Les caractères gras ont été ajoutés par le compilateur.

samedi, 13 mars 2010

Postmortem Report: het laatste werk van Dr. Sunic

Postmortem Report: het laatste werk van Dr. Sunic

Tomislav Sunic is een van de vooraanstaande kenners van Nieuw Rechts.
In 2008 was hij nog te gast op het colloquium van Identiteit-Deltastichting. Tomislav Sunic publiceert in het Kroatisch, Engels, Frans en Duits onder andere over de ideeën van Oswald Spengler, Carl Schmitt, Vilfredo Pareto en Alain de Benoist.

Zijn culturele kritiek handelt voornamelijk over: religie, cultuurpessimisme, ras, het derde rijk, liberalisme en democratie,multiculturalisme en communisme. Dit boek bundelt Sunics beste teksten van de afgelopen tien jaar. Als Europees waarnemer die het liberalisme en het communisme aan beide zijden van het IJzeren Gordijn heeft meegemaakt, schetst hij enkele indringende culturele beelden van de westelijke en postcommunistische maatschappij. Altijd erudiet en soms humoristisch, biedt dit boek een zeer leesbaar postmortem verslag over de dood van het Westen.


Dit boek kan besteld worden bij Identiteit op het volgende E-postadres voor de prijs van 18 €.(verzending inbegrepen)

jeudi, 11 mars 2010

Carrefour: "We maken winst, dus we gaan mensen ontslaan!"

Carrefour: “We maken winst, dus we gaan mensen ontslaan!”

Het is volop in het nieuws momenteel. Carrefour zal in België 1.672 banen schrappen. Blijkbaar zou Carrefour zoveel verlies maken dat ze niet anders kunnen. Maar een artikel in Trends doet wel anders vermoeden:

De winkelketen Carrefour maakte in ons land eind 2008 nog 66 miljoen euro nettowinst. Ook het bedrijfsresultaat klokte dat jaar nog af op 46 miljoen euro. De 1,6 miljard aan geldbeleggingen maakten de situatie van Carrefour België helemaal minder zwartgallig dan de berichten de afgelopen week deden vermoeden.

Bron: http://trends.rnews.be/nl/economie/nieuws/bedrijven/de-nettowinsten-van-carrefour-belgie/article-1194668433895.htm

Wat is hier aan de hand? Heel simpel, Carrefour doet zoals zovele bedrijven, namelijk aan winstmaximalisatie. An sich is dat geen probleem zolang de bedrijven verankerd zijn in de lokale gemeenschap, en dan spreek ik meer dan over een economisch belang (zijnde winst maken en jobs maken). Het gaat ook over het besef van de beheerders van een bedrijf wat de rol en impact van hun bedrijf is op de maatschappij. Iets dat bij multinationals maar zéér zelden aanwezig is, want men nu ook vandaag de dag bij Carrefour ziet. Werk in eigen streek is belangrijk, werk voor en door eigen volk is de logische én noodzakelijke aanvulling daarop.

Wanneer men enkel aan (nog meer) winst denkt, dan krijgt men dit soort toestanden. Het walgelijkste voorbeeld hiervan is bij momenten het pleidooi voor lagere lonen, etc… van bepaalde organisaties met het dreigement dat ze anders naar China gaan. Wel, dat ze dan maar vertrekken. Wij moeten niet gaan denken dat wij op enig moment kunnen gaan werken voor de Chinese lonen zonder enig moment zeer zwaar in te boeten op levenskwaliteit.

mardi, 09 mars 2010

Le peuple grec refuse de rembourser les usuriers!

Le peuple grec refuse de rembourser les usuriers!

roit-police.jpgComment réagirait le peuple de France si ses "nouvelles élites dirigeantes" lui annonçait le gel des retraites publiques et privées…

Car on veut saigner le peuple Grec, et bientôt tous les autres aussi (l'Islande doit se prononcer le 6 mars par référendum Populaire, pour un remboursement ou pas, de ses dettes à des banques anglaises et néerlandaises...).

Mais ne soyons pas dupes, l'Europe, dont les élites ont trahis encore plus qu'ailleurs, est au cœur du cyclone.
Nous sommes tous des Grecs en puissance !

Grâce à l'annonce des mesures d'économies du Gouvernement Grec, les "marchés" rassurés, réagissent positivement : entendez ils achètent massivement une dette Grecque (15 milliards proposés par les marchés pour 5 demandés dans un premier temps par le gouvernement Grec )

Pourquoi cet attrait des marchés sur un pays pourtant peu fiable et qui semble à l'agonie ?

Tout simplement car le fait de répéter massivement (merci les agences de notations, fidèles alliées des banques US) dans les médias que la "note" de fiabilité du pays allait se dégrader, a eu pour conséquence que les taux demandés par les éventuels préteurs ont grimpé sur les marchés !

Il faut bien rémunérer le risque mon bon Monsieur !
Rémunérer le risque oui, quand il est créateur d'emploi, et fait vivre une Communauté de Destin, pas quand il dépouille les Hommes et ne sert que quelques uns.

Conséquences directes, la Grèce emprunte à un taux deux fois plus élevé que celui de l'Allemagne. Rectification :  cela coute le double en intérêts, à ceux qui doivent s'en acquitter (le peuple).

Mais
une dette qui rapporte aussi aux vautours : 6,4 % est le taux pratiqué par les marchés pour prêter à ce pays, contre 3 % pour l'Allemagne.

La cupidité et la capacité de manigance de ces rapaces là est sans limite, et comme toujours, c'est lorsqu'elle devient trop visible que nos peuples confiants comprennent l'arnaque dont ils sont victimes !

Le destin a choisi la Grèce comme première cible, mais le peuple commence à se révolter massivement (succès de la première journée de grève générale, et les hostilités commencent à peine !).

Si ce gouvernement Grec venait à être balayé, les escrocs ont pouvoirs feraient tout pour que leur dette soit honorée, et tenteront une nouvelle fois de mettre des pantins au pouvoir.

A moins que la révolte soit violente, et qu'une sortie du Système Monétaire Européen, par la Grèce, soient envisagée.
 
Je n'ai pas de boule de cristal, alors attendons la suite, mais ce qui est certains, c'est que
dans les sphères économiques, on ne parle plus de sortie de l'Euro pour la Grèce, mais de sortie du SME (Système Monétaire Européen). Nuance...

Quand ces gens jouent avec les mots, c'est qu'ils savent que le vent tourne, et qu'il ne faut pas menacer l'édifice essentiel de leur dispositif d'asservissement des peuples :  l'Euro !

Vidéos et article complet ici :

http://robertofiorini.blog4ever.com/blog/lire-article-84180-1669905-le_peuple_grec_refuse_de_payer_les_usuriers__.html

Ethisch bankieren?

manifgrece.jpgEthisch bankieren?

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Het spreekwoord “Met zo’n vrienden heb je geen vijanden meer nodig” is wel enorm van toepassing momenteel op de rol van banken als Goldman Sachs in de Griekse financiële crisis. De Griekse overheid is nu volop bezig met extreme besparingen om hun economie, de Euro en hun plaats in de Europese Unie te redden. Bij die laatste waren ze enkel kunnen toetreden omdat zij hun begrotingstekorten konden verdoezelen. Tekorten die ze verdoezelden met de hulp van Goldman Sachs.

Goldman Sachs helped the Greek government to mask the true extent of its deficit with the help of a derivatives deal that legally circumvented the EU Maastricht deficit rules. At some point the so-called cross currency swaps will mature, and swell the country’s already bloated deficit. [...] But in the Greek case the US bankers devised a special kind of swap with fictional exchange rates. That enabled Greece to receive a far higher sum than the actual euro market value of 10 billion dollars or yen. In that way Goldman Sachs secretly arranged additional credit of up to $1 billion for the Greeks.

Bron: http://www.spiegel.de/international/europe/0,1518,676634,00.html

Uiteraard zit Griekenland nu diep in de problemen, met dank aan het hyperkapitalisme van de bankiers. Maar men zou toch denken dat met heel de zaak van de kredietcrisis en de banken die voortaan ethisch zouden gaan bankieren, dat dit soort praktijken tot het verleden zouden horen. Denk maar opnieuw…

De bank Goldman Sachs die Griekenland hielp met het verstoppen van hun enorme begrotingstekorten, waarmee ze een tijdbom onder de Griekse economie plaatsten, is nu weer betrokken in financiële transacties i.v.m. Griekenland. Een tijd geleden werd Golman Sachs nog genoemd als één van de grote redders van de Griekse economie.

A team from Goldman Sachs was in Athens on Thursday shepherding representatives ofPaulson, the US hedge fund, around meetings with local bankers, economists and analysts. The client visit, the second to Athens this month arranged by the US investment bank, highlights a deepening involvement with Greece’s socialist government as it desperately tries to shore up the public finances and avoid default – and comes after the Financial Times reported this week that the bank was mooting a controversial debt deal with China.

Goldman has not been given an official mandate by the government, but it is playing a large role in the rescue effort. Last year it took George Papaconstantinou, the finance minister, on his first roadshow to London and Frankfurt, along with Deutsche Bank.

Bron: http://www.ft.com/cms/s/0/53bbbd40-0c42-11df-8b81-00144feabdc0.html

Maar ondanks deze show die ze opzetten om zichzelf voor te stellen als de grote redders van Griekenland, komt de waarheid uiteindelijk toch aan het licht. Terwijl Goldman Sachs zichzelf aan het publiek wilt tonen als de grote redder in tijden van nood, is de bank achter de schermen actief bezig met te speculeren tegen Griekenland. Dit heeft als effect dat Griekenland véél moeilijker geld zal kunnen lenen, waardoor de crisis erger zal worden en de besparingen ingrijpender. Goldman Sachs zal eraan verdienen, de Grieken zullen de gevolgen dragen…

Bets by some of the same banks that helped Greece shroud its mounting debts may actually now be pushing the nation closer to the brink of financial ruin, Nelson D. Schwartz and Eric Dash report in The New York Times. Echoing the kind of trades that nearly toppled the American International Group, the increasingly popular insurance against the risk of a Greek default is making it harder for Athens to raise the money it needs to pay its bills, according to traders and money managers.

Bron: http://dealbook.blogs.nytimes.com/2010/02/25/banks-bet-greece-defaults-on-debt-they-helped-hide/

lundi, 08 mars 2010

Référendum en Islande: écrasante victoire du non!

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Référendum en Islande : écrasante victoire du non

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Les Islandais ont rejeté à plus de 93% la loi Icesave selon les résultats quasi définitifs annoncés dimanche. Sur la base de 90% de bulletins dépouillés, le « non » l’emporte avec 93,3% des suffrages, contre 1,5% pour le « oui ».

 

L’accord financier prévoyait le remboursement d’ici à 2024 par Reykjavik de 3,9 milliards d’euros avancés par Londres et La Haye pour indemniser leurs citoyens après la faillite de la banque en ligne islandaise Icesave.

Les quelque 230.000 électeurs appelés aux urnes ont rejeté encore plus fortement que prévu dans les sondages, l’impopulaire loi Icesave.

Diminuant la portée de ces résultats, la Première ministre Johanna Sigurdardottir a déclaré qu’ils « ne sont pas une surprise » et qu’ils « ne constituent pas un choc pour le gouvernement. » « Le référendum passé, il est de notre devoir de reprendre la fin des négociations » avec Londres et La Haye, a-t-elle déclaré à la télévision.

« Le résultat peut être interprété comme un cri de défi ou comme une conclusion écrite d’avance« , a déclaré le ministre des Affaires étrangères Ossur Skarphedinsson à la presse après l’annonce des premiers résultats.

Échec des ultimes négociations

Pour éviter le référendum et son probable non, Reykjavik s’est efforcé depuis janvier et jusqu’à la veille du scrutin de trouver un nouvel accord avec Londres et La Haye. Sans succès. « Les discussions sur Icesave sont ajournées, » a annoncé vendredi le ministère islandais des Finances dans un communiqué, précisant que le comité islandais de négociation rentrait de Londres. « Les discussions jusqu’à aujourd’hui ont été constructives et l’Islande est confiante qu’une solution mutuellement acceptable pourra être obtenue (…) L’Islande reste engagée à poursuivre le dialogue et espère que les négociations vont reprendre dès la semaine prochaine, » a ajouté le ministère.

Un peu plus tôt, le ministre des Finances Steingrimur Sigfusson avait indiqué espérer de nouvelles négociations après le référendum, mais il disait ne pas avoir reçu de garanties des Britanniques et des Néerlandais en ce sens.

Pas de démission annoncée

Selon les analystes, un non pourrait retarder le versement de prêts restants à verser du FMI et des pays nordiques, ce qui pourrait coûter jusqu’à 5% du Produit intérieur brut islandais c’est-à-dire « plus que l’accord lui-même » selon le ministre islandais de l’économie Gylfi Magnusson.

Le rejet de la loi risque par ailleurs d’affaiblir le gouvernement de gauche déjà critiqué pour consacrer trop de temps à Icesave. Le gouvernement islandais ne démissionnera pas en cas de très probable victoire du « non » samedi, a cependant assuré vendredi la Première ministre Johanna Sigurdardottir. « Nous resterons unis en ces temps difficiles, » a-t-elle dit au terme d’un conseil des ministres, soulignant que le gouvernement entendait rester en place pour régler le litige avec Londres et La Haye sur l’indemnisation de clients britanniques et néerlandais de la banque Icesave.

France2

vendredi, 05 mars 2010

Restaurer la souveraineté monétaire

Restaurer la souveraineté monétaire

Par Jean Claude Werrebrouck

Comment solder les différences de niveaux de prix intra européens, lorsqu’a disparu l’arme de la dévaluation ? La réponse classique consiste à prôner la déflation salariale – entendre blocage ou baisse des salaires, qui entraînerait une baisse relative de l’inflation et des coûts par rapport à la zone euro et permettrait de restaurer la compétitivité des économies du sud. En clair, plusieurs années d’éreintantes vaches maigres en perspective.

billets_euros_469_300_2636b.jpgL’économiste Jacques Delpla, reprenant une étude d’Olivier Blanchard, du FMI, propose une mise en œuvre à marche forcée de ce programme. Les États du sud, propose-t-il, devraient imposer une réduction coordonnée des salaires et des prix, de l’ordre de 10 à 30%. Jean Claude Werrebrouck s’inquiète des conséquences de cette mesure « abracadabrantesque », aux effets de bord imprévisibles, et qui de plus aurait pour conséquence remarquable d’être favorable aux rentiers. Face à la grande crise qui menace, le temps n’est plus aux bricolages, juge-t-il : il convient de « rétablir la souveraineté monétaire ».

L’économiste en chef du FMI, Olivier Blanchard, propose de sanctionner les « GIPEC » (Grèce, Irlande, Portugal, Espagne et Chypre), encombrants passagers clandestins du navire Euro. Puisqu’il est impossible de les « amincir » par des progrès rapides de productivité, leur permettant tout à la fois de rétablir l’équilibre extérieur, le plein emploi et l’équilibre des comptes publics, il faut en monnaie unique, passer par une dévaluation interne. Le schéma proposé est ambitieux. Puisque la monnaie unique interdit toute manipulation de la valeur externe de la monnaie, il est urgent de procéder à une révolution des prix internes.

Concrètement il s’agit d’une déflation imposée et généralisée des prix, et si possible déflation coordonnée pour assurer l’homothétie du recul. Plus concrètement encore il est proposé une baisse générale, par exemple de 30%, de tous les prix, salaires, loyers, transferts sociaux, retraites, etc.

Il s’agirait bien d’une dévaluation puisqu’il y aurait diminution du pouvoir d’achat international des résidents, en particulier celui les salariés. En même temps, la capacité exportatrice augmenterait en raison de la baisse du niveau général des coûts et des prix. Et, en principe, l’évolution positive du solde commercial serait porteuse d’un ré enclenchement dynamique de la demande globale, et donc porteuse d’emplois nouveaux. Jacques Delpla voit dans cette proposition, un keynésianisme d’un genre sans doute nouveau, marqué par le double sceau de l’acceptabilité politique (hypothèse d’homothétie dans la déflation et donc d’équité) et de l’efficience économique (ajustement plus rapide que les politiques traditionnelles de rigueur). Remarquant toutefois que le poids relatif du stock de dettes serait accru dans les mêmes proportions, il propose à enveloppe constante des budgets bruxellois, un redéploiement des fonds structurels et de la politique agricole commune vers les « GIPEC » soumis à la dévaluation interne. On peut imaginer que les dettes privées pourraient également bénéficier de ce redéploiement.

Un tel projet laisse place à de lourdes interrogations. Tout d’abord il semble bien qu’il s’agit d’une déflation organisée. Cela signifie le rétablissement d’un contrôle des prix avec toutes les difficultés correspondantes. D’abord la mise en place d’une bureaucratie nouvelle chargée du contrôle et de la gestion des litiges. Mais aussi d’inextricables difficultés d’application : dans quelle mesure les prix des marchandises, dont le contenu en input importations est infiniment variable, doivent ils baisser au même rythme que les marchandises locales ? Faut-il établir des barèmes en fonction du contenu importation de marchandises pourtant produites localement ? Plus encore, faut-il prévoir une diminution des prix des crédits nouveaux, ce qui suppose le contrôle des banques et donc du taux de l’intérêt ? La baisse des salaires pourra t’elle être uniforme ? Et surtout peut-on sérieusement imposer une telle baisse, sans voire apparaitre de gigantesques comportements opportunistes, comme dans le cas des heures supplémentaires à la française dans le cadre de la loi « TEPA » ? La liste des questions n’est évidement pas exhaustive, et seule la mise en pratique peut faire apparaitre l’étendue des problèmes, notamment l’étendue imprévisible d’externalités elles mêmes imprévisibles. Levitt et Dubner (cf « Superfreakonomics ») et plus généralement les bons connaisseurs de la micro économie savent à quel point toute intervention développe des conséquences pour le moins inattendues.

Mais au-delà, une question fondamentale se doit d’être évoquée. Si tous les prix diminuent, il est logique que la valeur du stock d’actifs financiers soit rognée dans les mêmes proportions. Pourquoi Jacques Delpla semble soucieux de ne pas déflater la dette existante, et en contre partie mobiliser à ce titre les fonds européens devenant indisponibles par ailleurs ? Le coût d’opportunité d’un tel choix a-t-il fait l’objet d’évaluation ? Pourquoi faut-il ainsi « sacraliser » la dette existante ? Et la réponse consistant à dire qu’une bonne partie de la dette est détenue par des non résidents est insuffisante car l’autre partie est détenue par des résidents qui eux – mais pour quelle raison ?- ne seraient pas soumis à la même déflation. Pourquoi faudrait-il ainsi créer 2 catégories de résidents, les titulaires de la rente s’opposant à tous les autres ?

Mieux, attendu que durant la période de déflation autoritaire, il faudrait continuer à assurer la gestion de la dette publique avec les moyens habituels des agences des Trésors, lesquels passent toujours par des adjudications, faut-il penser que les dites adjudications seraient « déflatées » comme les autres prix ? En clair les agences pourraient-elles imposer le prix de la dette souveraine nouvelle en imposant un taux ? Dans quel Traité de Sciences Economiques a-t-on pu lire qu’un acteur de marché – fusse t-il en situation de monopole – pouvait simultanément fixer et les quantités et les prix ?

Les dérapages des économistes qui – très imprudemment – se déclarent libéraux sont saisissants : au nom de l’ajustement et donc du marché, certains sont prêts à restaurer un ordre, à tout le moins autoritaire, porteur de bien des déconvenues. Comme quoi il est difficile de sacraliser l’ordre spontané de Hayek en édifiant un ordre organisé. Comme quoi il est difficile de conserver le cercle si on le transforme en carré.

Mais s’agit-il par la voie de l’autorité, de protéger des marchés libres, ou plutôt de protéger les ardeurs prédatrices de la rente ?

Car enfin, il est une façon plus simple pour sortir de l’étau les « petits un peu ronds », et ce peut-être sans même renoncer à la monnaie unique : rétablir une souveraineté monétaire dont le blog La Crise des années 2010 se fait l’ardent défenseur.

La rencontre européenne des marchés politiques nationaux a débouché sur le drame de la dénationalisation monétaire dans les années 80 et 90. Bien des mises en gardes furent étouffées dans le climat idéologique de ces années, climat porteur de sacralisation. Et la Raison – comme toujours et partout- s’est effacée devant le nouvel objet sacré. C’est que rien ne peut être entrepris contre le sacré. La violence de ce que certains commencent à appeler – à très juste titre – la « grande crise » met à nu – peut-être plus rapidement que prévu- les incohérences des choix nationaux et européens qui furent promulgués. Et les adeptes de la dénationalisation monétaire sont aujourd’hui terrorisés par l’énormité des conséquences résultant des décisions des années 90. Face à l’énormité des coûts associés au démantèlement de la zone euro ces mêmes adeptes poursuivent leur fuite en avant en imaginant des dévaluations internes abracadabrantesques. Et bien évidemment les entreprises politiques sont encore bien plus démunies devant l’épaisseur du brouillard.

Contre-Info

mercredi, 03 mars 2010

A chi giova la bancarotta della Grecia?

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A chi giova la bancarotta della Grecia?

Di fronte al disastro monetario greco, Bruxelles confida nella Germania

Ugo Gaudenzi

La crisi del debito pubblico della Grecia sta provocando lo sconquasso dell’eurocrazia. Su Bruxelles in panne fioccano infatti le analisi soddisfatte d’Oltremanica e i continui rimbrotti su e contro i “PIGS”. (Abbiamo già accennato al significato di “pigs”. Come si sa gli anglosassoni e i loro cortigiani hanno il debole per gli acronimi: così il termine non certo “neutrale “pigs” (porci nella lingua d’Albione) accomuna le nazioni Ue “deboli” o inadempienti ai parametri di Maastricht sul rapporto debito-pil e sulla “stabilità forzata” decretata dalle elites burocratiche nell’articolo 125 del trattato di Lisbona: p come Portogallo, i come Italia, g come Grecia, s come Spagna, oltre al corollario di una possibile doppia i per includere anche l’Irlanda).
Vediamo di chiarire quanto accade. In tre mesi, da qui al 15 maggio, l’Ue dei “Sedici” dovrà mettere in esecuzione un piano di sostegno alla Grecia perché possa evitare la bancarotta. In questo trimestre Atene è chiamata a operare un prelievo forzoso dalle tasche dei suoi cittadini e a programmare una consistente riduzione dell’indebitamento. Bruxelles, come deciso dai ministri ecofin ed esplicitato dal commissario Olli Rehn, cercherà per parte sua di delineare un piano di aiuti finanziari per sostenere la Grecia. In quanto a cifre i dati sono più che conosciuti: nel 2010 il rapporto pil-indebitamento sarà per la Grecia pari al 121 per cento, con un deficit ulteriore di oltre 300 miliardi di euro.
Di fronte al disastro monetario greco, a Bruxelles si sta premendo sulla “locomotiva tedesca” perché guidi la “squadra di soccorso”. Ma per Berlino non è affatto un onore, questo, ma un onere difficilmente accettabile.
Sia perché è escluso dagli stessi elementi fondativi dell’unione monetaria europea (e dai dettati dei due trattati fondanti, Maastricht e Lisbona) che un Paese membro si faccia carico della stabilità dell’eurozona con accordi di sostegno a chi è in crisi. E sia perché la lenta ripresa tedesca difficilmente potrebbe sopportare nuovi carichi e zavorre esterne. D’altra parte, proprio per evitare tali ripercussioni, i padri fondatori di quel mostro che è l’Unione europea – un’eurocrazia non eletta, priva di sovranità, priva di unità politica - avevano delegato ad un ente terzo – la Bce - la politica monetaria dell’Europa dell’euro, per lavarsi le mani da ogni obbligo di direttiva economica.
E non è certo tutto. La possibilità di una reazione a catena che destabilizzi totalmente l’eurozona è appena dietro l’angolo.
Il Fondo monetario internazionale – che di usura monetaria se ne intende – di recente ha stilato la sua consueta pagella sui “Paesi cattivi del mondo” in quanto a stabilità monetaria ed ha indicato le varie necessità di “inasprimento fiscale”, nazione per nazione, al solo fine di mantenere lo status quo governando l’indebitamento. E’ interessante notare che in cima alle classifiche si ergano Gran Bretagna e Giappone, per i quali il Fmi propone inasprimenti fiscali, nel 2010, pari al 13% del pil. Seguono a ruota Irlanda, Spagna e Grecia (9%) e quindi gli Usa (8,8%). Per l’Italia si parla della “necessità di alzare le tasse” di un altro 8 per cento…
Già. Gli Usa. Gli “spendaccioni del mondo”, quelli che hanno riempito di carta-straccia (banconote), le casseforti cinesi e che veleggiano impavidi sull’onda di un deficit di 1500 miliardi di dollari che, con la cura Obama, accumula ulteriori 300 miliardi di interessi annuali da pagare. Con un surplus di emissioni statali in scadenza per un trilione di dollari all’anno (mille miliardi di dollari), difficilmente assestabili con un risparmio dei cittadini caduto dal 2008 a livelli infimi.
Gli Usa, quelli che da tempo immemore – la Grande Depressione – usano a loro piacimento i cambi del dollaro per abbassare i costi delle importazioni di materie prime o, al contrario, per far crescere la redditività delle proprie esportazioni di brevetti, royalties, beni e servizi…
Quelli che stanno lucrando in queste settimane appunto, sulla crisi dell’eurozona, attirando investitori e risparmi oltreoceano, grazie alla totale mancanza di sovranità nazionale ed economica europea. Il tallone di Achille, voluto, costruito a tavolino a Maastricht e quindi a Lisbona, per assoggettare “l’area di libero scambio” che qualcuno si affanna a definire “Europa” ai desiderata del momento degli Stati Uniti d’America,
Una bancarotta greca val bene la sopravvivenza dei Padri Fondatori.
 


19 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=783

lundi, 01 mars 2010

On relance la candidature turque en pleine crise institutionnelle!

On relance la candidature de la Turquie
en pleine crise institutionnelle

par Jean-Gilles MALLIARAKIS / http://www.insolent.fr/

islatroie.jpgChef du gouvernement de Madrid, M. José-Luis Zapatero se croit autorisé à parler au nom de l'Espagne, et même de l'Europe. Les naïfs croyaient la présidence tournante de l'Union abolie par le traité de Lisbonne. Pour lui être agréable, on a accepté de maintenir cette fiction en sa faveur. De la sorte, il a proclamé, recevant son homologue turc, Recep Tayyip Erdogan le 22 février (1), une nouvelle avancée des négociations d'adhésion de la Turquie, ouvrant le "plus grand nombre de chapitres" thématiques de discussions en vue de son intégration.

"L'Espagne est fermement partisane de l'entrée de la Turquie dans l'Union européenne. Nous avons toujours maintenu fermement cette position. C'est le cas aujourd'hui et ce le sera demain".
Voilà donc relancée, de manière fort inquiétante et de mauvaise foi, un dossier essentiel pour notre identité, et auquel votre serviteur vient de consacrer un petit livre documenté. Dans cette présentation, l'auteur s'efforce d'expliquer au public francophone un certain nombre de contradictions de ce pays, candidat extra-communautaire malheureux depuis 1987.

Il se trouve aussi que celles-ci s'accroissent, se gonflent, de semaine en semaine, au point de paraître désormais explosives, à l'intérieur.

Ainsi ce 23 février, au lendemain même des embrassades de Séville, malencontreusement perturbées par un très méchant Kurde, très mal élevé (2) on procédait à Ankara, à Istanbul, à Bursa et à Izmir, à l'arrestation d’une cinquantaine d’officiers, dont 11 importants généraux à la retraite. Ceux-ci ont été gardés à vue et interrogés dans le cadre d'un nouveau dossier d'accusation de complot. Intitulé "Bayloz", les enquêteurs l'ont rattaché à l'interminable feuilleton judiciaire "Ergenekon". Le chef d'État major Illker Basbug, désormais sur la sellette, et dont certains demandent publiquement la destitution, doit annuler un déplacement officiel à l'étranger.

On ne peut pas tout de même pas tenir de tels développements pour d'anodines péripéties !

Parallèlement et paradoxalement l'environnement international accorde de plus en plus de créance au gouvernement des fameux "islamistes modérés" de l'AKP actuellement au pouvoir.

Les médiats de notre Hexagone pointent certes, de loin en loin, un certain nombre de problèmes. Ceux-ci nous sont même devenus presque familiers.

Ainsi la lancinante question des communautés d'origine et de langue kurdes a produit des milliers de morts dans l'affrontement du dernier quart de siècle. Assagie en partie seulement, depuis l'arrestation de son chef terroriste Ocalan en 1999, la révolte sanglante du PKK s'était transposée sur le plan légal. D'inspiration et de discours marxiste-léniniste, elle a généré un parti de gauche, le DTP, représenté à la Grande Assemblée nationale d'Ankara en dépit des filtres constitutionnels. Récemment dissous, il s'est aussitôt reconstitué, sous un autre nom.

Dans un autre ordre d'idées, la tension non résolue avec l'Arménie, comprenant la terrible question de la négation du génocide de 1915, se complique de l'imbroglio des relations avec l'Azerbaïdjan. On a donc communiqué à l'automne 2009, et Mme Clinton a cru triompher, sur un accord "réconciliateur" qui ne permettait même pas d'ouvrir les frontières entre les deux États.

D'autres exemples pourraient être donnés, que la presse parisienne laisse courageusement de côté. Ceux-là semblent suffire à édifier le lecteur quant aux difficultés générales que rencontre la ligne diplomatique annoncée par le ministre des Affaires étrangères apparu récemment M. Ahmet Davutoglou.

Sa formule a été énoncée en anglais de cuisine : "no problem with our neighbours". Or, cela peut se traduire en bon français par plusieurs formulations. Et, selon que l'on entendra "il n'existe aucun litige", ou au contraire "nous refusons de prendre en considération le moindre contentieux", ou enfin "qu'on cesse de nous enquiquiner avec les jérémiades de nos voisins", il ne s'agit plus de simples nuances dans l'interprétation.

Globalement une telle politique extérieure illustre l'adage "qui trop embrasse mal étreint".

Dans le sud-est européen, par exemple, Ankara prétend à la fois marquer en souplesse sa présence, affirmée comme traditionnelle, et souffler sur les braises des revendications de minorités islamiques, généralement slaves ou pomaques. Une idée nouvelle vient de germer – combien de temps durera-t-elle ? – celle de prendre appui sur la Serbie, vecteur improbable de la pénétration d'Ankara. Mais, quelques semaines auparavant, et plus naturellement, la Bosnie-Herzégovyne faisait l'objet de toutes les attentions, puis l'Albanie. Avec la Bulgarie et avec la Grèce on agite les droits des petites minorités musulmanes, etc. tout en prétendant, simultanément, aplanir la rugueuse relation turco-hellénique, "résoudre" le problème de Chypre, etc. Par ailleurs on laisse la presse gouvernementale comme elle le fait depuis plusieurs mois, révéler les manœuvres occultes de l'État-Major kémaliste. Et on les retrouve derrière toutes les provocations anti-grecques depuis 1955 jusqu'à celles des dernières années en Mer Égée, en passant par diverses affaires d'assassinats, comme celui du journaliste arménien Hrant Dink en janvier 2007, et d'attentats inexpliqués.

Car un aspect décisif de cette situation politique oppose deux tendances apparemment irréconciliables, au sein de la république post-kémaliste. Il ne s'agit pas seulement de deux secteurs de l'opinion, la gauche laïque et la droite islamisante, ou plus exactement confrérique. On doit constater aussi le conflit de plus en plus ouvert entre centres de pouvoirs institutionnels. Ils se combattent au nom de légitimités juridiques concurrentes. La constitution en vigueur depuis le référendum de 1982 a validé un rapport de force correspondant au coup d'État militaire dirigé par le général Evren en 1980. Plusieurs fois réformée depuis, elle a prévu en faveur de l'armée un certain nombre de prérogatives et de verrous. Au sein du pouvoir judiciaire, également, les forces laïques disposent de situations stratégiques, destinées à bloquer le retour en force de l'élément religieux. Chaque jour, de nouveaux épisodes, parfois tragiques, parfois savoureux, attisent les oppositions.

Or en même temps, la politique extérieure d'Ankara avance de plus en plus. Elle paraît prendre en main les revendications du Proche orient arabe. Elle tend à évincer progressivement l'influence du pays rival, l'Égypte.

Cela conduit cette diplomatie à s'exposer à des risques peut-être inconsidérés.

Lors de la dernière réunion, ce 29 janvier à Istanbul, des sociétés de pensées des 56 pays membres de l'Organisation de la Conférence islamique, s'est ainsi produit un événement bien significatif. L'assistance s'est levée, lors de l'intervention de Rachid Benaïssa (3), pour ovationner debout l’action pro-palestinienne du "nouvel empire ottoman" (4).

Cette popularité régionale de l'actuel gouvernement d'Ankara a pris son essor avec l'incident spectaculaire du 9 janvier 2009 à Davos entre le premier ministre turc Erdogan et Shimon Peres. Elle s'est vue confirmée par les nombreux déplacements des 3 principaux dirigeants dans divers pays arabes ces 12 derniers mois.

Inutile de dire qu'en contrepartie, la relation traditionnelle avec l'État d'Israël s'est dégradée d'autant. Avec les États-Unis, le refroidissement est devenu manifeste. Les choses vont beaucoup moins bien avec les alliés.

On peut certes se poser beaucoup de questions à propos de ce concept "néo-ottoman" dont les contours souffrent d'une absence de définition.

Il fait cependant son chemin. S'il s'agissait de reprendre la voie des réformes libérales de l'époque dite "Tanzimat", interrompues sous le règne d'Abdül Hamid, et plus encore par la seconde révolution jeune turque de 1909 (5), on pourrait se réjouïr.

En revanche il existe une différence de taille entre l'Histoire de cet Empire séculaire et le gouvernement de M. Erdogan apparu en 2003.

Historiquement, en effet, ni l'expansion de l'islam aux VIIe et VIIIe siècles, ni la pénétration seldjoucide en Asie mineure au XIe siècle, ni encore moins l'avènement de la maison d'Osman à partir du XIVe siècle ne se sont opérés contre l'élément militaire. Au contraire.

Tous les dirigeants politiques de ces différentes époques se sont affirmés comme chefs d'armées. Ils s'appuyaient, tous, sur une élite de cavaliers, dont ils ont fait des seigneurs territoriaux (6).

Imaginer un gouvernement islamique modéré, susceptible de changer de paradigme pour complaire à l'Europe des petits cochons roses, pour satisfaire au président universel Obama, et pour répondre aux rêves d'un monde sans conflit (7), peuplé de gentils bizounours et de schtroumpfs bleus, paraît donc un tant soit peu prématuré.
JG Malliarakis


Apostilles

 

  1. cf. Le Monde en ligne et AFP 22 février 2010 à 18h08
  2. Sur notre petite photo, on peut voir la remise du prix Nodo au premier ministre turc. Mais "Le passage du Premier ministre turc à Séville a été plus mouvementé que prévu. Recep Tayyip Erdogan était venu recevoir le prix Nodo, remis par la Fondation Séville aux personnalités qui œuvrent pour le dialogue entre les civilisations et les cultures. Une cérémonie feutrée dont le quotidien ABC raconte le déroulement... Mais, à la sortie de la mairie andalouse où se tenait cette soirée, il a été pris à partie par un manifestant qui lui a lancé une chaussure. Son geste s'est accompagné d'un slogan: "Vive les Kurdes, vive le Kurdistan!", lancé en espagnol, comme le montrent ces images de CNN." cf.le site de la Vigilance arménienne
  3. sur ce personnage franco-algérien qui fut fonctionnaire de l'UNESCO, on peut lire, avec les réserves d'usage la fiche wikipedia qu'il a peut-être rédigé lui-même
  4. cf. Think Tanks Of The Islamic Countries Come Together In Istanbul
  5. celle qui porte la responsabilité du génocide de 1915
  6. recourir au concept occidental de féodalité relève du contresens.
  7. annoncé par un faux prophète dans une conférence célèbre à Moscou en 1991.