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samedi, 03 octobre 2009

La mafia e lo sbarco alleato in Sicilia

La mafia e lo sbarco alleato in Sicilia (9 luglio, 1943)

  

 

Alberto Bertotto - http://www.rinascita.info/



Tra gli storici è ancora aperta la diatriba sul ruolo avuto dalla mafia siciliana nella preparazione dello sbarco alleato. Tale diatriba è certamente sostenuta dagli apparati mafiosi perché tendono ad assumersi un merito e un potere che in realtà non potevano ricoprire in quel lontano 1943. In Sicilia, grazie al Prefetto Mori, buona parte delle forze di mafia erano state confinate o incarcerate. Anche se i capi erano rimasti liberi, gran parte della manovalanza mafiosa era stata neutralizzata. A tal proposito molti studiosi tra i quali Francesco Renda e Salvatore Lupo sgomberano subito il campo da ogni possibile equivoco. Scrive il Lupo: “La storia di una mafia che aiutò militarmente gli angloamericani nello sbarco in Sicilia è soltanto una leggenda priva di qualsiasi riscontro, anzi esistono documenti inglesi e americani sulla preparazione dello sbarco che confutano questa teoria; la potenza militare degli alleati era tale da non avere bisogno di ricorrere a questi mezzi. Uno dei pochi episodi riscontrabili sul piano dei documenti è l’aiuto che Lucky Luciano propose ai Servizi Segreti della marina americana per far cessare alcuni sabotaggi, da lui stesso commissionati, nel porto di New York; ma tutto ciò ha un valore minimo dal punto di vista storico, e soprattutto non ha alcun nesso con l’operazione ‘Husky’. Lo sbarco in Sicilia non rappresenta nessun legame tra l’esercito americano e la mafia, ma certamente contribuì a rinsaldare i legami e le relazioni affaristiche di Cosa Nostra siciliana con i cugini d’oltreoceano”. Se l’ipotesi che gli “amici degli amici” abbiano avuto un ruolo decisivo nello sbarco angloamericano in Sicilia è da scartare (ne dubito fortemente, ndr), è tuttavia innegabile che gli alleati si servirono dell’aiuto di personaggi del calibro di Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo per mantenere l’ordine nell’isola occupata. E’ fuori discussione anche il fatto che il boss americano Vito Genovese, nonostante fosse ricercato dalla polizia statunitense, divenne l’interprete di fiducia di Charles Poletti, il capo del comando militare alleato (AMGOT).


“Certamente gli alleati non conoscevano la realtà siciliana e di volta in volta, di Paese in Paese, cercavano l’interlocutore di maggior prestigio sul piano del potere locale che era rappresentato invariabilmente dalla mafia, dall’aristocrazia terriera e dalla Chiesa che spesso erano tra loro legate da comuni interessi. Non a caso il nome di Calogero Vizzini fu suggerito agli angloamericani da suo fratello Vescovo e dal “Movimento indipendentista siciliano” (MIS) nelle cui fila militavano fianco a fianco i rappresentanti dell’aristocrazia terriera come Lucio Tasca, nominato Sindaco di Palermo e capimafia come Vizzini, Navarra, Genco Russo e l’allora giovanissimo Tommaso Buscetta. Immediatamente dopo lo sbarco degli alleati prese corpo e spessore inoltre il MIS. Mentre ancora nell’isola si combatteva, il 28 luglio del 1943 già volantini separatisti, che invitavano a proclamare l’indipendenza della Sicilia, cominciarono a circolare e il giorno dopo l’entrata a Palermo delle truppe americane i separatisti chiesero e ottennero di essere ricevuti dal tenente colonnello Poletti, capo dell’ufficio affari civili del Governo militare alleato per presentare formale richiesta di poter informare i Governi inglese e Usa che la Sicilia intendeva essere indipendente. Intanto, secondo quanto deciso a Casablanca su suggerimento di W. Churcill, il Governo militare di occupazione doveva evitare qualsiasi collaborazione con i partiti politici isolani, anche con quelli che si dichiaravano anti-fascisti. Gli alleati si affidarono, pertanto, ai suggerimenti del clero e dei maggiorenti locali per nominare i nuovi Sindaci che così furono in buona parte scelti tra i mafiosi o i separatisti: il conte Lucio Tasca, il capo dei separatisti, a Palermo e Genco Russo, boss mafioso, a Mussomeli. Col passare dei mesi vista l’impossibilità di rifornire con proprie scorte la popolazione, gli alleati puntarono sulla riorganizzazione degli ammassi, affidandone la gestione ai grandi proprietari, agli aristocratici ed ai mafiosi per indurre i piccoli proprietari, che in prevalenza alimentavano il mercato nero, a contribuire all’ammasso. Si rafforzava così la posizione delle élite agrarie nel quadro istituzionale del Governo d’occupazione. Da qui l’impressione che gli alleati tendessero a favorire i separatisti. In realtà le nomine erano avvenute nella logica stessa del Governo d’occupazione: gli unici esponenti della ristretta classe dirigente nei piccoli Paesi erano proprio i mafiosi e, nei grandi centri urbani, i sostenitori del separatismo. Appare invece priva di fondamento la ipotesi di un pactum sceleris tra mafia e alleati per l’occupazione della Sicilia. Il rinnovato potere della mafia, nella magmatica società del dopoguerra, avrebbe però fornito al potere politico un alleato fedele alle istanze filo-occidentali di cui probabilmente gli americani si avvalsero d’allora in poi” (F. Misuraca, A. Grasso. Lo sbarco in Sicilia. www.ilportaledelsud.org).


Quali oscure operazioni di spionaggio si celavano dietro lo sbarco angloamericano in Sicilia nell’estate del 1943? La conquista dell’isola fu sostenuta dalla collaborazione della mafia con i Servizi Segreti americani? E chi furono i protagonisti di questo accordo? Chi erano gli agenti segreti sbarcati con le truppe del generale Usa G. Patton? E perché migliaia di soldati italiani si arresero già al primo giorno dell’invasione e la popolazione civile accolse con esagerata festosità gli alleati? Sul Web si legge: “Il libro Mafia & Alleati racconta le vicende che dal 1941 al 1943 hanno come protagonisti i boss mafiosi americani, i padrini siciliani e i Servizi Segreti degli Stati Uniti. Ripercorre l’inchiesta del commissario investigativo dello Stato di New York, William Herlands, condotta nel 1954, e alla luce della documentazione di recente declassificata dagli Archivi statunitensi, rende di facile comprensione la miriade di informazioni e di controinformazioni che la stimolante questione ha prodotto negli anni. Sullo sfondo dell’occupazione angloamericana della Sicilia, l’operazione ‘Husky’ (10 luglio-17 agosto del 1943), Lucky Luciano, Calogero Vizzini, gli agenti segreti Corvo, Scamporino, Marsloe, il capo dell’Amgot Charles Poletti e tanti altri, sono le figure che popolano le pagine di questo lavoro. Nel libro vengono anche pubblicati, per la prima volta in Italia, i nomi e le fotografie di numerosi agenti segreti arruolati nelle file dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della Cia) con il compito di spianare la strada in Sicilia all’esercito del generale Patton e ristabilire la democrazia in Italia dopo la caduta del fascismo. Altri argomenti che Ezio Costanzo, l’autore del saggio, affronta riguardano il ruolo avuto dall’Amgot, il Governo militare alleato, nella rinascita della mafia, le biografie di Lucky Luciano e di Calogero Vizzini, la nascita della nuova mafia, il fronte anti-comunista costituitosi con l’aiuto dell’Intelligence statunitense, le azioni di spionaggio condotte dai Servizi Segreti alleati durante l’operazione Husky”.


Il libro è stato di recente presentato alla Fiera Internazionale del Libro di Torino. Sono intervenuti Gian Carlo Caselli, magistrato, Procuratore generale di Torino, Procuratore capo anti-mafia a Palermo dal 1993 al 1999; Gianni Oliva, storico e scrittore, Carlo Romeo, direttore Segretariato sociale Rai (che ha organizzato la presentazione), Tiziana Guerrera, editrice de Le Nove Muse, che ha pubblicato il volume. “Con un linguaggio semplice e diretto, ha affermato lo storico Gianni Oliva nel suo intervento, indirizzato anche ai lettori meno esperti di storia, l’autore mette in luce, con particolare documentazione frutto della sua ricerca negli Stati Uniti, gli accordi tra il Naval Intelligence americano (i Servizi Segreti della marina) e la malavita organizzata italoamericana per favorire lo sbarco in Sicilia e per liberare il porto di New York dalle spie nazifasciste (operazione Underwold), riportando numerose testimonianze dei protagonisti rilasciate durante l’inchiesta Herlands e poco note al grande pubblico. Il libro di Costanzo è un ottimo lavoro di analisi di quel momento storico che affronta anche le conseguenze
sociali e politiche che il riemergere della mafia provoca nell’immediato dopoguerra in Sicilia”.


Ha affermato Gian Carlo Caselli: “Si tratta di un libro che si legge tutto d’un fiato e che offre una serie di particolari di quegli anni dell’occupazione angloamericana della Sicilia rimasti fino ad oggi poco chiari. Costanzo offre ai lettori la possibilità di addentrarsi nelle intrigate maglie dell’organizzazione dei Servizi Segreti americani e nelle operazioni condotte per l’occupazione della Sicilia nell’estate del 1943. La pubblicazione di una serie documenti redatti dagli stessi agenti segreti durante la loro permanenza in Sicilia rende questo lavoro di grande attualità e permette di comprendere come gli intrecci tra mafia e politica abbiano trovato nella Sicilia occupata
dell’estate del ‘43 il loro humus ideale per svilupparsi ed accrescersi nella società siciliana del dopoguerra”.

Le testimonianze e i racconti dei protagonisti hanno fatto emergere dati incontrovertibili sull’esistenza di tale accordo e su come la mafia americana sia stata determinante per garantire sia la sicurezza delle navi in partenza per l’Europa, sia la minuziosa ricerca di notizie in vista dell’occupazione della Sicilia”.
Alcuni documenti dell’Office of Strategic Services hanno fornito anche un’utile chiave di lettura del momento immediatamente successivo della conquista della Sicilia e del periodo dell’amministrazione alleata dell’isola; carte che attestano che gli interventi occulti del Governo americano negli affari interni dell’Italia sono andati oltre il pur sincero e legittimo spirito di libertà e di democrazia, per incunearsi nelle scelte politiche ed economiche della Nazione come quelle dirette ad impedire ai comunisti di vincere le prime elezioni del dopoguerra. L’alleanza con i ceti conservatori dell’isola, realizzata attraverso la mediazione della mafia, è servita agli alleati non solo per amministrare l’isola durante la loro permanenza siciliana, ma ancor più per porre le basi di un futuro politico-sociale dell’Italia senza i comunisti, mal visti sia dai cattolici-liberali che dai mafiosi. Dopo lo sbarco americano, la mafia ebbe così, per la prima volta nella sua storia, l’onore di essere portata sulla scena come legittima organizzazione politico-amministrativa, garantita da un esercito di occupazione. Alla robustezza della tradizione i vecchi padrini poterono aggiungere il
piacevole prestigio che procurava loro la protezione dei conquistatori. Alcuni studiosi, nel riprendere l’argomento, continuano a definire il rapporto tra mafia e Servizi Segreti alleati “una leggenda” o, nella migliore delle ipotesi, ne danno una spiegazione che strizza l’occhio agli
americani, sostenendo che esso scaturì da necessità dapprima militari e, successivamente, amministrative per controllare i territori occupati. Insomma, una scelta “sfortunata” i cui risultati (la riorganizzazione del potere mafioso nell’isola) non erano stati previsti. Un po’ quanto ha
dichiarato, in una delle sue ultime interviste rilasciate alla BBC londinese, Anthony Marsloe, ufficiale dei Servizi Segreti della marina americana sbarcato in Sicilia assieme alle truppe del generale Patton: “...Bisognava sfruttare qualunque cosa per difendere l’America e favorire
ciò che si stava facendo e si poteva fare...Alcune delle persone contattate erano mafiose? Non me ne poteva fregar di meno di quello che erano se potevano fornire una qualsiasi informazione che avrebbe contribuito allo sforzo bellico”. In realtà, la collaborazione tra Servizi Segreti americani e mafia fu pianificata nei suoi particolari. A conferma di ciò, una testimonianza ufficiale di un altro agente del Naval Intelligence Usa, sbarcato assieme a Marsloe a Gela, Paul Alfieri, che conferma l’accordo con i mafiosi dell’isola: “...Nella stragrande maggioranza dei casi, questi contatti furono frutto della collaborazione con il boss Lucky Luciano. Le informazioni avute si sono rivelate assai utili” (E. Costanzo. Mafia e Alleati. Servizi Segreti americani e sbarco in Sicilia.
www.controstoria.it).


Sempre per restare in tema: Abrogati nel 1942 i “decreti Mori” parecchi mafiosi ritornati in Sicilia avviarono contatti con gli alleati che incominciarono ad arruolare uomini d’origine siciliana. A mezzo dei pescherecci, i mafiosi esercitarono lo spionaggio nel Mediterraneo; poi fornirono notizie sulle infrastrutture dell’isola, la dislocazione e la consistenza delle truppe dell’Asse in Sicilia. Del resto perché gli alleati iniziarono l’invasione dell’Europa meridionale dalla Sicilia, anziché dalla Sardegna o dalla Corsica, dalle quali sarebbe stato agevole effettuare sbarchi in Toscana, in Liguria o in Provenza? La tranquillità nelle retrovie delle truppe che sarebbero sbarcate costituiva la preoccupazione principale dei comandi alleati: fu scelta la Sicilia con la certezza di poter contare sull’appoggio della mafia. Fu quest’ultima ad ospitare, dal 1942, oltre al colonnello Charles Poletti, futuro Governatore militare dall’aprile 1943, anche il colonnello britannico Hancok e un buon numero d’infiltrati italoamericani. Nella relazione conclusiva della Commissione anti-mafia presentata alle Camere il 4 febbraio del 1976 si legge: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell’esercito americano furono inviati nell’isola per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l’occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò una apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della preparazione psicologica della Sicilia.

Fu così predisposta una fitta rete informativa che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia e mandò nell’isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori”.
Ma l’episodio certo più importante è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco da Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana. Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell’infiltrazione alleata in Sicilia prima dell’occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l’idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell’esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia e per preparare le popolazioni locali all’occupazione imminente dell’isola. Luciano venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”. E’ un fatto che quando il 10 luglio del 1943 gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, raggiunsero Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...E’ storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d’accordo con il gangsterismo americano, s’adoperò per tenere sgombra la via da un mare all’altro...”. Ancora la Commissione anti-mafia: “La mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”.


Scrisse Lamberto Mercuri: “Fu in quei mesi che la mafia rinacque e non tardò ad affacciarsi alla luce del sole: in realtà non era mai morta, né completamente debellata: le lunghe ed energiche repressioni del Prefetto Mori ne avevano sopito per lungo tempo ardore e vigoria e fugato all’estero i capi più rappresentativi e più spietati che avevano tuttavia mantenuto contatti e legami con l’onorata società dell’isola”. Nella confusione seguita all’invasione e alla caduta del fascismo, la mafia vide l’opportunità di riorganizzare il vecchio potere, di insinuarsi nel vuoto del nuovo, raccogliendo i frutti della collaborazione con gli alleati. Molti suoi uomini noti ebbero cariche importanti: per esempio, un mafioso celeberrimo, don Calogero Vizzini, fu nominato da un tenente americano Sindaco di Villalba; nella cerimonia d’insediamento, fu salutato da grida di “Viva la mafia!”. “Vito Genovese, ha scritto Mack Smith, benché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso l’omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzò la sua posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a restaurarne l’autorità...”.

Don Vito divenne il braccio destro indigeno del Governatore Poletti, ma una banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel porto di Napoli, li riempiva di farina e di zucchero (pure sottratti agli alleati) per poi venderli nelle città vicine. Altri mafiosi, meno noti, divennero interpreti o “uomini di fiducia” degli alleati, i neo padroni dell’isola sicula. L’atteggiamento del Governo militare fu ispirato a criteri utilitaristici; sta di fatto, però, che quest’apertura verso gli “amici degli amici” permise in breve alla mafia di riorganizzarsi, di riacquistare l’antica ed indiscussa influenza. Aveva sempre cercato l’alleanza con il potere (anche con quello fascista, agl’inizi), ma per la prima volta le veniva conferito un crisma di legalità e di ufficialità che le consentiva d’identificarsi con il potere. I “nuovi quadri” saldarono o ripresero solidi legami con la malavita americana, indirizzandosi verso il tipo di criminalità associata “industriale” caratteristico del gangsterismo Usa nel periodo tra le due guerre. Il seguito della vicenda dimostra come, grazie agli angloamericani, la seconda guerra mondiale rappresentò per la mafia l’occasione d’oro per una rigogliosa rinascita. I fatti l’hanno dimostrato ampiamente. Si suole dire oggi, da chi intende sminuirne il successo, che il fascismo non debellò la mafia, semplicemente la costrinse all’inazione, tant’è vero che poi si ridestò più forte di prima. Se fu poco, perché il regime attuale non perviene al medesimo risultato? Basterebbe. Senza più delitti ed attività criminale, la mafia si ridurrebbe ad una patetica, folcloristica conventicola segreta che non darebbe noia e non farebbe più paura a nessuno” (V. Martinelli. Il ritorno della mafia in Sicilia. Un regalo degli alleati. Volontà, n. 12, Dicembre, 1993).


Facciamo un passo in dietro per dare i giusti meriti a chi gli sono dovuti. Un altro “grande successo” del regime fascista, messo dalla propaganda nel conto attivo insieme alla “battaglia del grano”, alle trasvolate e alla bonifica dell’Agro Pontino, fu la lotta contro la mafia. Protagonista di questa impresa (che si sviluppò fra il 1925 ed il 1929) fu Cesare Mori, il cosiddetto “Prefetto di Ferro”. Mori nel ‘21 era Prefetto di Bologna e fu il solo Prefetto d’Italia a opporsi alle orde dilaganti dei fascisti. Quando Mussolini salì al potere trovandosi tra l’altro ad affrontare il problema del banditismo e della mafia siciliana, gli venne fatto il nome di Mori. Mussolini disse: “Voglio che sia altrettanto duro coi mafiosi così come lo è stato coi miei squadristi bolognesi”. Così Mori partì per la Sicilia come uno sceriffo mediterraneo dell’epoca moderna. Arruolerà uomini, guardie giurate e truppe regolari per le sue battaglie campali, ma non si sottrarrà anche a epici inseguimenti e duelli a cavallo. Nessuno come lui arrivò ad umiliare tanto la mafia. Se non riuscì fino in fondo nel suo intento, ciò dipese dal potere politico, che fermò la sua azione quando stava per travolgere le più alte e vitali strutture della “onorata società”. La vera mafia, la cosiddetta “alta mafia”, non è dunque debellata, ma il regime si vanta ugualmente di averla distrutta e tale tesi sarà unanimemente accettata anche dagli storici. In effetti il fascismo, dopo la grande retata di “pesci piccoli” realizzata da Cesare Mori, viene a patti con l’ “alta mafia”. Nel 1929 richiama a Roma il “Prefetto di Ferro” (verrà nominato Senatore, ndr) e, in un certo senso, “restituisce” la Sicilia ai capi mafiosi ormai fascistizzati. Infatti, i condoni e le amnistie, subito concesse dal Governo dopo il richiamo di Mori, hanno favorito molti pezzi da novanta che, appena tornati in libertà, si sono subito schierati fra i sostenitori del regime anche se, dopo il 1943, gabelleranno i pochi anni di carcere o di confino come prova del loro anti-fascismo. I più avvantaggiati dal nuovo corso politico sono tuttavia gli esponenti dell’ “alta mafia” che, ormai al sicuro da ogni sorpresa, aderirono in blocco al fascismo e i grandi proprietari terrieri che, grazie alle leggi liberticide del regime, non ebbero più bisogno delle “coppole storte” per tenere a freno i braccianti o i fittavoli più irrequieti. Anche questi gruppi sociali fecero pressione sul Governo affinché liberasse l’isola dall’incubo di Mori. Col ritorno della normalità, poterono nuovamente dedicarsi ai loro affari e ai loro traffici senza più correre il rischio di essere colpiti dagli imprevedibili fulmini dell’intransigente Prefetto Mori (Il fascismo e la mafia. www.ilduce.net).

vendredi, 02 octobre 2009

Türkische Gemeinde kritisiert brandenburgischen Lehrplan

kenan-kolat.jpgTürkische Gemeinde kritisiert brandenburgischen Lehrplan

BERLIN. Der Vorsitzende der Türkischen Gemeinde in Deutschland, Kenan Kolat, hat den brandenburgischen Lehrplan kritisiert, weil darin das Massaker an der Armeniern zwischen 1915 und 1917 als „Genozid“ bezeichnet wird.

In der türkischen Tageszeitung Hürriyet kündigte Kolat an, er werde sich in dieser Angelegenheit an den Ministerpräsidenten Matthias Platzeck (SPD) wenden. Der Vorwurf des Völkermordes an den Armeniern sei für türkische Schüler eine besondere Belastung und setze sie psychologisch unter Druck. Außerdem gefährde er den inneren Frieden, sagte Kolat.

Er habe zudem in einem Brief an Kanzlerin Angela Merkel (CDU) gegen den geplanten Bau einer Gedenkstätte für den Potsdamer Pfarrer Johannes Lepsius (1858-1926) protestiert. Lepsius war 1914 Mitbegründer der Deutsch-Armenischen Gesellschaft und dokumentierte 1915/16 den Völkermord an den Armeniern im Osmanischen Reich. (krk)

QUELLE : http://jungefreiheit.de/

(Photo: Kenan Kolat)

 

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Charles Michel en denken op lange termijn...

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Charles Michel en denken op lange termijn...

Geplaatst door yvespernet op 23 september 2009

…blijkt geen goede combinatie. En waar blijkt dit uit?

…blijkt geen goede combinatie. Aanleiding hiervoor?
http://www.hln.be/hln/nl/2659/Voedselcrisis/article/detail/1000036/2009/09/22/Eindelijk-Michel-pleit-om-honger-te-bestrijden-met-melk-die-boeren-wegkappen.dhtml
Elke vijf seconden overlijdt in de wereld een kind van de honger, en boze boeren gieten hier in Europa de melk met de miljoenen liters uit op hun akkers: heel veel mensen hebben het hier bijzonder moeilijk mee en ze worden eindelijk bijgetreden door een politicus.
Pleidooi
Onze minister voor Ontwikkelingssamenwerking Charles Michel gaat bij EU-voorzitter Zweden en bij de Verenigde Naties bepleiten om de melk die boze boeren nu op hun akkers lozen naar landen te sturen waar hongersnood heerst, zoals Somalië, Ethiopië en Kenia….blijkt geen goede combinatie. Aanleiding hiervoor?

http://www.hln.be/hln/nl/2659/Voedselcrisis/article/detail/1000036/2009/09/22/Eindelijk-Michel-pleit-om-honger-te-bestrijden-met-melk-die-boeren-wegkappen.dhtml

Elke vijf seconden overlijdt in de wereld een kind van de honger, en boze boeren gieten hier in Europa de melk met de miljoenen liters uit op hun akkers: heel veel mensen hebben het hier bijzonder moeilijk mee en ze worden eindelijk bijgetreden door een politicus. [...] Onze minister voor Ontwikkelingssamenwerking Charles Michel gaat bij EU-voorzitter Zweden en bij de Verenigde Naties bepleiten om de melk die boze boeren nu op hun akkers lozen naar landen te sturen waar hongersnood heerst, zoals Somalië, Ethiopië en Kenia.

lk geef toe, het klinkt allemaal simpel en heel nobel. Wij hebben voedsel te veel, zij hebben voedsel teveel. Maar door de landbouwoverschotten te gaan weggeven, ga je niets oplossen. Sterker nog, dan ga je de zaken veel erger maken. Één van de grootste problemen van Afrika zit immers in de kapitaalsconcentratie. Je hebt een kleine topklasse met enorm veel geld, een enorme onderlaag met niets en daartussen zit amper iemand. Er is in andere woorden geen middenstand in Afrika, geen lokale ondernemers, geen “burgerij” (in de mate dat die term volledig toepasbaar is hier).

Wat gaat gratis voedsel weggeven veroorzaken? In gebieden waar enkel een economische woestenij is, kan dat inderdaad problemen op korte termijn oplossen. In gebieden waar er nog een iewat onafhankelijk economisch leven is, onafhankelijk van de grote elites aan de top en waar de middenstand genoeg kapitaal kan vergaren om te overleven, is dit soort beleid een regelrechte ramp! Laten we ons even verplaatsen in de geest van de gemiddelde Afrikaanse consument in die laatste gebieden. Je hebt honger en je kan kiezen:

  1. Voedsel bij de lokale winkel kopen en kapitaal verliezen.
  2. Voedsel krijgen bij de voedselbedeling uit westerse landen.

Het overgrote merendeel zal voor optie twee kiezen. Dit zorgt echter voor een verarming van de lokale Afrikaanse economie en een verergering van de economische toestand in Afrika. Iets dat destijds ook gebeurd is in de vleesmarkten rond de Sahel-landen waar de gratis voedseloverschotten vanuit Europa uiteindelijk een economische sector in opbouw, die op lange termijn had kunnen zorgen voor een onafhankelijkheid van die landen voor voedselvoorraad, instortte. Men zou beter dit voedsel aan goedkope prijzen verkopen aan de lokale middenstand gecombineerd met een beleid waarbij microkredieten een prominente rol spelen.

 

mercredi, 30 septembre 2009

Les arguments rationnels ne manquent pas - Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

Les arguments rationnels ne manquent pas

Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

090925

Ex: http://www.insolent.fr/
Je boucle aujourd'hui le dossier consacré à la question turque, mon petit livre paraissant la semaine prochaine, un peu plus lourd que prévu (1).

Au moment où j'écris, en vue de conclure, d'importantes transformations agitent le débat politique en Turquie même, sans que les Européens semblent en recevoir l'information. Il s'agira probablement d'évolutions en partie réelles. Le parti actuellement majoritaire AKP, et les forces confrériques qu'il représente, poussent leurs pions pour des raisons essentiellement nationales. Mais le courant de réforme a explicitement été développé fin juin en fonction de la candidature à l'Union européenne, en vue de la rendre présentable. Cela a été répété par le premier ministre Erdogan et par le président de la république Abdullah Gül.

On a ainsi assisté à une offensive diplomatique en direction des Arméniens, en leur promettant à terme la réouverture d'une frontière dont le blocage enclave complètement leur pays. On a vaguement ouvert la porte à une normalisation du statut de minorités religieuses. Or ces dernières se trouvent numériquement si affaiblies qu'on se demande désormais quelle menace elles pourraient bien représenter encore pour l'ombrageux jacobinisme turc. On prend ainsi en otage leurs représentants afin d'en faire des agents de la diplomatie turque, dans la tradition des pays totalitaires.

La plus importante avancée serait proposée aux Kurdes. Or, après que le chef du gouvernement ait reçu certains dirigeants de leur contestation, une passe d'armes considérable aura opposé entre le 25 août et le 22 septembre, les dirigeants politiques et le chef d'État-Major des forces armées turques, le général Basbug. Celui-ci avait déclaré en août que l'armée ne pourrait accepter et que par conséquent elle s'opposerait à tout plan violant l'article 3 de la constitution lequel dispose 1° que la Turquie est un État unitaire et indivisible, et 2° que sa langue est le turc. Les opposants kémalistes et nationalistes faisaient chorus et criaient à la trahison gouvernementale. On ne pouvait menacer plus nettement d'une hypothèse de putsch récurrente dans la vie politique de ce pays depuis qu'en 1946 il a adopté le pluralisme démocratique.

En moins d'un mois, et malgré le ramadan, le chef du gouvernement et du parti AKP est intervenu à la télévision pour démentir toute rumeur de réforme vraiment radicale, et enfin le 22 septembre à Mardin le général Basbug pouvait déclarer désormais qu'il avait obtenu satisfaction, et qu'il ne fallait plus s'inquiéter. Il ne fallait même plus que les officiers regardent les fausses nouvelles déprimantes annoncées par les chaînes de télévision de leur beau pays. Aucune vraie concession linguistique ou institutionnelle ne sera faite aux Kurdes. L'armée n'a même pas eu besoin de faire la démarche de l'hiver 1996-1997, où elle avait forcé le gouvernement à la démission. Elle pense avoir obtenu gain de cause en se contentant de froncer les sourcils à la fin de l'été.

Toute cette affaire était donc destinée à ménager les apparences auprès des interlocuteurs de Bruxelles, aux gens si représentatifs comme Emma Bonino, Michel Rocard et autres directeurs de conscience qui relayent la propagande de nos chers amis. Les réformes promises demeureront cosmétiques ou elles ne verront même pas le jour. Mais cela suffira à quelques médiats européens de saluer de nouveaux "espoirs", d'hypothétiques "accords en vue", de prétendus "progrès dans la négociation" aussi fallacieux que par le passé.

Et, à vrai dire, quand on s'efforce, depuis des années, de suivre l'avancée de la candidature d'Ankara auprès de l'Europe institutionnelle, on éprouve une véritable difficulté s'agissant de comprendre la logique de ceux qui s'y acharnent. Ils peuvent appeler cette carpe lapin, ils ne parviennent pas à faire courir devant nos yeux ce malheureux poisson, et cela dure depuis 20 ans. À force de mentir cependant ils finissent petit à petit par persuader à la partie bienveillante de l'opinion qu'il courra. Bientôt on pariera sur sa victoire.

Turgut Özal a déposé son dossier en 1987 près d'un quart de siècle après le premier accord d'association commerciale de 1963. À cette époque, premier ministre désigné par une dictature il rassurait les milieux d'affaires, et il mettait en place la transition vers un régime civil conforme aux desiderata du coup d'État militaire de septembre 1980. Le général Evren dirigeait le pays en qualité de président de la république désigné par l'Etat-Major de l'armée. Il s'agissait de normaliser l'apparence de la vie politique mais également l'image internationale du pays. À cette candidature pratiquement personne, en Europe, ne pouvait croire vraiment. On s'interrogeait alors à Bruxelles : « comment éluder sans vexer ». Il initiait cette demande alors que la commission Delors s'employait à franchir une première étape en direction de la construction politique, prolongeant la communauté économique des premiers traités. Cette évolution allait donner naissance à l'Union européenne scellée en 1991 à Maastricht. Or à l'époque la Turquie briguait le 13e siège d'une communauté ne comptant encore que 12 membres. Aujourd'hui nous avons atteint le nombre de 27 nations. D'autres nouvelles adhésions se profilent (Croatie, Islande par exemple) plus vraisemblables, plus mûres que celle de ce pilier de l'OTAN.

À vrai dire, survolant les problèmes, le Département d'État de Washington semble la seule bureaucratie qui ait toujours cru, ou fait semblant de croire, à l'appartenance européenne de ce pays. Et comme cela n'a jamais rien coûté aux présidents américains, ils réitèrent régulièrement, quand ils rencontrent leurs homologues turcs, l'expression conventionnelle de leur opinion favorable, à la grande satisfaction des médiats d'Istanbul. Surestimer cependant le poids de telles déclarations diplomatiques tendrait à masquer les responsabilités de la sottise européenne.

Car, en même temps, subrepticement, dans les coulisses bruxelloises, le dossier technique continue d'avancer. Certes il suit un rythme de tortue. Certes il fait bon marché de toute vraisemblance. Certes il chemine dans la plus totale opacité. Certes en 2007 un candidat à la présidence de la république française a pu se faire élire en promettant de s'opposer à cette avancée turque. Pourtant en 2008, une réforme constitutionnelle fourre-tout, votée à Versailles, a permis de supprimer sans que les citoyens n'y prennent garde les dispositions introduites par l'éphémère article 88-5. Celui-ci avait été présenté comme la garantie suprême contre toute hypothèse d'un élargissement non voulu. Selon cet ancien additif à la constitution de 1958, tout traité de cette nature devait être soumis à un référendum de ratification par les Français. Mais hélas rien ne garantissait cette garantie. On la fit passer à la trappe un an après la victoire électorale.

Parallèlement encore, l'un après l'autre s'ouvrent des "chapitres" de négociations comme une tablette de chocolat, grignotée carré par carré, avant de disparaître : 35 chapitres, puis la ratification. Quand donc a-t-on vu une chose aussi extraordinaire qu'un dernier morceau de chocolat, le 36e, demeurer stoïquement et chastement, immangé, esseulé, dans son écrin de papier argenté, après que ses 35 confrères aient disparu ?

On va donc chercher à forcer la résistance naturelle des systèmes de droit, des hommes politiques et des citoyens pour des motifs géostratégiques chimériques inventés dans des bureaux aseptisés, entièrement coupés de toute réalité européenne charnelle. On va faire propager ces mots d'ordre par tous les serre-files habituels du politiquement correct.

Chacun d'entre nous a pu rencontrer tel ou tel de ces bons esprits. Dociles, ils croient dur comme fer à leur astrologie indémontrée mais péremptoire, car transmise depuis l'Antiquité grâce aux mages de la Chaldée ou de la Perse. Ils nous invitent à dépasser le stade, qu'eux-mêmes n'ont sans doute jamais atteint, celui la conscience nationale, identitaire ou européenne ; à les entendre, il faudrait voir plus haut et plus loin dans le devenir de l'humanité. La lourdeur de la géographie leur indiffère. La tragédie de l'Histoire leur échappe. Seul compte leur désir de paraître intelligents, et si cette illusion se révèle impossible, ils se voudront au moins dans le vent.

Or l'idée de prétendre les Turcs européens mériterait plutôt de se voir noter pour son ineptie, pour sa contradiction, et même, au fond, pour sa cocasserie.

On peut égrener des arguments rationnels. Ils ne manquent pas.

On les retrouvera tout au long du petit volume qui sort de presse ces jours-ci.

Essayons de les résumer pour constituer une sorte de fil conducteur.

1° Argument géographique. Ce pays ne se situe tout simplement pas en Europe. Il n'a donc pas plus vocation à participer à la confédération de notre continent que la possession du département français de la Guyane ne situe l'Hexagone en Amérique.

2° Argument mémoriel. Rationnellement, on professera sans doute que, si même les dirigeants d'Ankara consentaient de reconnaître le génocide arménien, cela ne déplacerait pas d'Asie en Europe le siège de leur gouvernement. Mais le seul fait que cet État s'obstine à nier les crimes commis par son prédécesseur de 1915, puisqu'il s'agissait du gouvernement jeune-turc et de l'empire ottoman, en dit long sur la différence de mentalité des gouvernants actuels de ce pays et ceux des nations d'Europe.

3° Argument linguistique. La langue turque n'est pas européenne. La culture à laquelle elle renvoie vient d'Asie centrale, mêlée au cours de l'Histoire aux apports d'autres cultures de l'orient, persanes et arabes.

4° Argument de la violence sociale. La société turque est fondée sur l'acceptation permanente d'une violence dont l'Europe s'est affranchie depuis plusieurs siècles.

5° Argument du système juridique. À plusieurs reprises, depuis le XIXe siècle, l'Empire ottoman d'abord, puis la république kémaliste ont cherché à importer sur le papier les pratiques et les principes juridiques de l'occident. Mais l'état de droit est fort loin de s'être vraiment acclimaté. Un certain nombre d'interdictions pèsent de manière redoutable sur la liberté d'expression, sur le droit de propriété, etc. L'importation des 85 000 pages de la réglementation européenne se révélerait inapplicable et illusoire.

6° Argument de l'économie. On invoque bien souvent l'imbrication des économies. En réalité, le pas décisif, franchi sous l'impulsion de la présidence français en 1993, et sous l'influence de MM. Balladur et Juppé, forçant le parlement européen à ratifier l'Union douanière, a créé une situation paradoxale. La sous-traitance industrielle développe l'économie turque sur la base du fait qu'elle n'est tributaire ni de la zone euro ni de la réglementation bruxelloise. Il en va de même avec d'autres pays émergents, on peut comparer cette situation avec celle de la Chine : cette forme de coopération économique exclut toute intégration juridique, monétaire, sociale et politique.

7° Argument du coût. La politique agricole et toutes les subventions et redistributions que l'Europe pratique ne sauraient mettre aux normes avant des décennies, à partir des budgets communautaires actuels, sans une modification radicale du pouvoir de financement de Bruxelles, cet immense pays aux besoins considérables. On notera par exemple que la formation brute de capital fixe y est à peine supérieure à celle de la Grèce, sept fois moins peuplée. L'Europe a encore de gros efforts à accomplir pour intégrer complètement les pays de l'est. Qui payera ?

8° Argument historique. Certes la plupart des nations européennes ont été en conflit, et alliées, les unes contre les autres, alternativement. Le seul ennemi commun des Européens depuis le XVe siècle a été la Turquie. On ne connaît pas les princesses turques ayant épousé un seul de nos rois.

9° Argument des réalités criminelles. À défaut de nous avoir donné ses princesses par le passé, ce pays nous expédie ses mafieux, ses trafics de drogue, ses réseaux d'immigration clandestine, ses énormes contrefaçons de nos marques, etc. On appelle cela un "grand pays ami".

10° Argument de l'homogénéité européenne. Bien évidemment cette irruption romprait toute perspective de constitution d'une société européenne, toute l'évolution naturelle de l'union vers la confédération, puis de celle-ci vers la fédération. On comprend mieux pourquoi les partisans de l'Europe des États, dite "intergouvernementale", adversaires forcenés de tout fédéralisme parce qu'adversaires de l'Europe, poussent cette candidature.

11° Argument de la taille et du poids dans les institutions. Insérée dans une Europe démocratique, la Turquie deviendrait, du seul fait de sa population, le principal État, elle compterait le plus grand nombre d'eurodéputés, etc.

12° Argument démocratique : les peuples n'en veulent pas. Cela devrait suffire à nos gouvernants.

Enfin, on doit mettre à part le contre argument des racines chrétiennes de l'Europe. Il préoccupe légitimement les croyants des diverses Églises et qui a été mentionné par Jean-Paul II et Benoît XVI ne peut pas être passé à la trappe. On peut constater qu'il existe aussi des racines européennes dans le christianisme, que Platon se retrouve chez les Pères de l'Église, qu'Aristote se retrouve dans saint Thomas d'Aquin, etc. manifestant une imprégnation réciproque des deux réalités. Mais on constate aussi qu'il est surtout invoqué "a contrario" par ceux qui prétendent "ne pas vouloir blesser les musulmans", qui veulent "empêcher que l'Europe soit un club chrétien". Mais précisément personne n'a jamais proposé rien de tel. On finit par se demander si l'argument ne consiste pas à considérer que la vraie raison, le meilleur titre de ce pays exotique à entrer dans la famille européenne viendrait de ce qu'il n'en a jamais fait partie. Il s'agirait de vouloir à tout prix le faire entrer, de soutenir, contre toute raison, cette encombrante candidature, parce qu'il est musulman.

Apostilles
  1. Notre "Cahier de l'Insolent" consacré à "La Question Turque" paraîtra avec quelques jours de retard, début octobre pour tenir compte débats importants ces jours-ci en Turquie. Il formera un petit livre finalement plus épais, de 164 pages, et coûtera en librairie 15 euros à l'unité après parution. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander à l'avance, au prix franco de port de 8 euros pour un exemplaire, 35 euros pour la diffusion de 5 exemplaires (maintenu jusqu'au 1er octobre). Règlement par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.
JG Malliarakis

mardi, 29 septembre 2009

Offensive atlantiste et pétrolière en Italie

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Offensive atlantiste et pétrolière en Italie

 

L’offensive atlantiste en Italie a de fortes odeurs d’hydrocarbures. En effet, les services spéciaux de Washington n’évoquent plus l’anti-communisme d’hier ni même l’anti-fascisme d’avant-hier, mais les oléoducs et gazoducs des lignes South Stream et Nabucco. Par la voix du collabo Giuseppe Vatinno, responsable d’ “Energie e Ambiente” (“Energie et Environnement”), le gouvernement Obama a condamné la politique énergétique de l’agence pétrolière italienne ENI, jugée “eurasienne” et “russophile”. Les propos de Vatinno ont été prononcés immédiatement après le long discours public d’Obama (un hasard?), où, récemment, le premier président afro-américain de l’histoire a évoqué les dangers  que courait la pauvre Europe en se plaçant sous la dépendance énergétique de la Russie (ce qui ne serait qu’une tentative de se soustraire à la dépendance totale qui la lie aux Etats-Unis...).

 

L’intervention de Vatinno prouve, d’abord, que le “soft power” fonctionne toujours de manière optimale dans le monde des médias. On obtient toujours un collabo et des effets de presse en un quart de tour. Ensuite, cela prouve, mais on s’en doutait, qu’il y a une continuité parfaite entre la politique pétrolière de Bush, Rice et Cheney et celle, plus diffuse mais bien réelle, d’Obama et de son équipe. Qui plus est, c’est au moment même où se met en place la stratégie de séduction à l’endroit de l’Arménie préconisée par le chef de la diplomatie turque Davutoglu, que Vatinno exhorte les Italiens à dénoncer la politique pétrolière de l’ENI et du gouvernement Berlusconi. Davutoglu et Erdogan courtisent (hypocritement) une Arménie enclavée pour qu’elle lâche du lest dans la région du Haut Karabakh qu’elle occupe après l’avoir délivrée du joug azéri. Un retrait arménien permettrait de laisser passer des oléoducs et des gazoducs sans aucun obstacle, et sous le seul contrôle des Turcs, entre les rives caspiennes de l’Azerbaïdjan turcophone et les côtes turques de la Mer Noire et de la Méditerranée. Vatinno déclare que l’ENI et l’Italie doivent abandonner le tracé de “South Stream”, amenant les hydrocarbures russes vers l’Europe et la péninsule italique et opter pour le tracé “Nabucco”, qui amène les hydrocarbures azéris via la Turquie! Le collabo Vatinno, le gouvernement Obama et la diplomatie de Davutoglu travaillent donc de concert, avec une orchestration parfaite.

 

Vatinno exhorte en même temps tous les pays de l’UE à écouter l’appel d’Obama! Il faut obéir au nouveau “chef”. Les doigts sur les coutures du pantalon. En dehors de ce que dit le chef, point de salut et, puisqu’il est partiellement “noir”, si vous ne lui obéissez pas, vous êtes un “raciste”, na, tralala. Obama ha sempre ragione!

 

Pour obtenir l’oreille des Européens, Vatinno n’hésite pas à qualifier le tracé “Nabucco” d’ “européen” et à stigmatiser “South Stream” d’ “asiatique” (mais sans évoquer “North Stream”...!). Pour le quotidien romain “Rinascita”, c’est là une “thèse incroyable”: “South Stream” est bien plus européen que “Nabucco” puisqu’il traverse la Bulgarie, la Grèce et aboutit en Italie (tous pays de l’UE); “Nabucco”, lui, traverse des pays non membres de l’UE, qui sont en guerre ou en état d’instabilité chronique, à cause des stratégies antirusses manigancées dans les officines du Pentagone: la Géorgie et la Turquie. L’atlantisme est une idéologie foncièrement irréaliste du point de vue européen: le discours de Vatinno le prouve à l’envi. Son argumentation n’a aucun fondement tangible, c’est-à-dire aucun fondement géographique sérieux.

 

La leçon à tirer de la gesticulation télécommandée de Vatinno: il est temps que les Européens prennent conscience de leur propre géographie; se tournent vers le réel concret et tellurique plutôt que vers les nuées et les fumées diffusées par les médias pour les amener à sortir du réel et, ainsi, à perdre tout sens de leur souveraineté.

 

(source: “Italia e Russia, legame necessario”, in “Rinascita”, Rome, 22 septembre 2009).

lundi, 28 septembre 2009

De quoi se mêle Hervé Morin?

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De quoi se mêle Hervé Morin?

 

Atlantiste délirant, Hervé Morin, ministre sarköziste de la défense en France, a lancé un appel à l’Italie, pour qu’elle ne retire pas ses troupes d’Afghanistan, sous la pression du peuple, las de voir couler en pure perte le sang de soldats italiens. En effet, six malheureux soldats du contingent italien viennent d’être tués dans un attentat suicide et le peuple italien manifeste sa rage de voir ses fils sacrifiés sur le sinistre autel d’une guerre totalement inutile à leur patrie et à l’Europe. Berlusconi, qui prend le pouls de l’opinion publique de la péninsule et sait d’instinct ce que veut son peuple, avait déclaré le 17 septembre dernier “que l’Italie désirait rapatrier ses troupes le plus vite possible”. Morin, sous la dictée de ses maîtres américains alarmés, exhorte dès lors les Italiens à demeurer présents en Afghanistan et à parachever le travail qu’ils avaient promis de faire: former la police afghane, supposée prendre le relais des soldats de l’OTAN dans un Afghanistan enfin pacifié (mais ce n’est pas demain la veille...). Pire: Morin passe du ton larmoyant, qui fait appel à la solidarité atlantiste, à la menace à peine déguisée, qui affirme que tout retrait italien doit procéder d’une “décision internationale”. Bref: l’Italie n’a pas le droit à la moindre parcelle de souveraineté nationale, n’a pas le droit d’envoyer ou de ne pas envoyer ses soldats où bon lui semble.

 

Nous constatons avec amertume que Paris redouble de zèle atlantiste, se veut le pompon de l’OTAN, l’élève-modèle, depuis son retour au bercail otanesque, en traitant sa “soeur latine” avec  une rudesse à peine déguisée et totalement injuste et injustifiable, sans le moindre respect pour ses sentiments et son chagrin. Notons que ce discours de Morin à Nijrab, lors d’une visite de quarante-huit heures aux troupes françaises stationnées en Afghanistan, arrive au même moment où le Général américain McChrystal, dans un rapport secret dont la presse d’Outre Atlantique a eu vent, réclame à Obama et à tous les alliés des Etats-Unis, l’envoi de renforts substantiels sur le terrain afghan. Hasard ou collusion?

 

Le sarközisme est l’idéologie larbine de l’américanisme, avec pour paradoxe qu’il émane d’une matrice gaullienne! A Colombey-les-Deux-Eglises, un vénérable ancêtre doit se retourner dans son caveau!

 

(source: Giampaolo Cufino, “Il Ministro della Difesa francese chiede all’Italia di rimanere in Afghanistan”, in: “Rinascita”, Rome, 22 septembre 2009).

Medvedev en Suisse

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Medvedev en Suisse

 

Medvedev se rendra en Suisse prochainement, pour une réunion de travail, immédiatement avant le sommet du G20 prévu à Pittsburgh aux Etats-Unis. Michael Ambuhl, le ministre suisse des affaires étrangères, a annoncé la couleur: “La Suisse a le désir de se faire une idée que ce qu’est la Russie aujourd’hui, en abandonnant les vieux stéréotypes de la guerre froide”. Quant à Hans Rudolf Merz, président de la Confédération Helvétique, il a déclaré: “La Russie est un pays stratégique. L’énergie, les fournitures de gaz et de pétrole sont des questions extrêmement importantes. Voilà pourquoi nous devons cultiver des relations”. Pour sa part, Medvedev a dit, très judicieusement, que “la Suisse est un pays libre de tout préjugé et en dehors des blocs”.

 

Cette parole n’est pas anodine, aussi peu anodine que celle d’Ambuhl. Elle exhorte, indirectement, tous les Etats d’Europe à se débarrasser de préjugés fabriqués par un certain “soft power”, à jeter aux orties tous les réflexes conditionnés qui empêchent de sortir de l’ornière (atlantiste) et d’envisager l’avenir en toute sérénité, à penser en dehors de toutes les logiques incapacitantes imposées jadis par les blocs. Mais le bloc soviétique n’existe plus. Il n’existe plus qu’un seul bloc qui impose, à la plupart des pays d’Europe, des “préjugés”: c’est le bloc rassemblé autour de Washington et de l’OTAN. Un bloc qui tente par tous les moyens de pérenniser les “stéréotypes de la guerre froide” qu’Ambuhl demande d’abandonner.

 

Le voyage de Medvedev en Suisse est l’occasion de forger entre Russes et Suisses des liens étroits sur les plans de l’énergie et des finances. Mais c’est aussi l’occasion de rendre hommage à la seule politique souverainiste qui soit: celle de la neutralité. Parce que la neutralité est, simultanément, une volonté de ne pas se laisser embrigader dans les errements de l’internationalisme américain. Et soit dit en passant, cet internationalisme-là n’est pas un concert volontaire de nations souveraines et libres, mais un cosmopolitisme régenté par un hegemon qui ne tolère aucune originalité comportementale. Le liant qui soude vaille que vaille ce cosmopolitisme ne relève pas d’une nécessité mais d’une propagande, inlassablement répétée par mille et un canaux médiatiques. Une propagande fabriquée de “préjugés” et de “stéréotypes”.

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dimanche, 27 septembre 2009

Vers un Axe Berlin-Moscou?

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ARCHIVES de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

 

Vers un Axe Berlin-Moscou?

 

Même si leurs cultures et leurs évolutions historiques respectives ont été très différentes, la Russie et l'Allemagne ont depuis longtemps un point commun, celui de n'avoir qu'imparfaitement assimilé le modèle occidental moderne; face à celui-ci, les deux pays ont suivi des évolutions “anormales”, de formes et d'ampleurs très différentes. Au cours des deux siècles qui viennent de s'écouler, la conscience de soi dans ces deux pays a été confrontée à des phénomènes culturels et politiques dérivés d'une modernité qu'ils ont désirée ou refusée mais qui, dans tous les cas de figure, a germé dans des milieux substantiel­lement anglais ou français. Allemands et Russes ont donc perçu ces milieux comme fondamentalement étrangers à eux et les ont rejettés.

 

Ensuite, la différence entre l'Allemagne et la Russie est moindre qu'entre l'Allemagne et l'Occident sur les plans de la géopolitique et de la géoculture, si bien que l'on peut affirmer que les catégories intellectuelles élaborées par les Allemands pour répondre aux questions de l'identité nationale allemande peuvent être reprises et repensées sans problème majeur dans le contexte russe. Signalons notamment que, dès les slavophiles de la première génération, la pensée russe a fait sienne la nostalgie des conservateurs ro­mantiques allemands: une société traditionnelle, communautaire et organique qu'ils opposaient à la so­ciété moderne, mécanique, atomisée et désacralisée (c'est l'antinomie spenglérienne entre Kultur et Zivilisation, et celle de Tönnies entre la Gemeinschaft et la Gesellschaft). Les difficultés à assimiler cette modernité occidentale ont débouché en Allemagne et en Russie sur l'affirmation de deux systèmes totali­taires, qui, quoique de signes opposés, étaient tous deux fondés sur le refus du modèle politico-culturel de l'Occident.

 

Le totalitarisme allemand a été battu militairement. Après cette défaite, la partie occidentale de l'Alle­ma­gne a connu une intégration rapide et sans heurts dans les communautés européennes et dans le systè­me occidental. Le totalitarisme russe, en revanche, s'est désintégré de l'intérieur, victime de son échec politique total. Aujourd'hui, ces deux pays  —l'Allemagne réunifiée et la nouvelle Russie postsovié­tique—  sont à la recherche d'une identité nouvelle, d'un nouveau rôle à jouer: le premier le cherche en Europe, le second dans tout l'espace eurasiatique. Tous deux suscitent de l'inquiétude: l'Allemagne parce que son poids politique commence à égaler son poids économique; la Russie parce qu'elle est en­core une très grande puissance militaire et qu'elle est géopolitiquement instable.

 

En un certain sens, la montée en importance de l'une correspond au déclin de l'autre, du moins en Europe centrale et orientale. Mais ce processus ne semble pas induire de la conflictualité entre les deux pays, au contraire, on semble revenir à un meilleur équilibre dans leurs zones d'influence respectives. Depuis la dissolution de l'URSS et la chute du Mur de Berlin, les rapports germano-russes sont de plus en plus in­tenses parce qu'il y a désormais confluence objective de bon nombre de leurs intérêts géopolitiques et économiques.

 

une européanisation sur un mode allemand

 

Du reste, même si l'Allemagne et la Russie se sont retrouvée chaque fois dans des camps opposés au cours des deux guerres mondiales, il serait erroné de penser que leurs consciences nationales se sont, sous la dictée des événements, pensées brusquement en opposition irréductible l'une à l'autre. En fait les deux guerres mondiales ont interrompu momentanément des processus de profonde interaction politique et culturelle entre les deux pays, comme on avait pu l'observer aux XVIIIième et XIXième siècles. Au cours de cette période la Russie s'est européanisée essentiellement sur un mode allemand et protestant (du point de vue russe, c'est là un mode “occidental”), a entretenu des rapports étroits  —y compris dy­nastiques—  avec le monde germanique et a maintenu un rapport de solide complicité avec la Prusse, autre puissance bénéficiaire de la partition de la Pologne. Les affrontements germano-russes pendant les suicides européens de 1914-18 et de 1939-45 et dans le conflit idéologique entre national-socialisme et communisme stalinien sont des exceptions et non pas la norme dans les rapports germano-russes.

 

anti-occidentalisme et germanophilie

 

On ne sera dès lors pas surpris d'apprendre que dans les milieux nationalistes russes actuels les posi­tions anti-occidentales s'accompagnent souvent de fortes tendances germanophiles. On peut l'observer par exemple dans le programme géopolitique énoncé par Jirinovski, personnage qui, malgré ses écarts verbaux, n'est pas aussi confus et velléitaire qu'on pourrait le croire à première vue (1). Ses incohérences et ses improvisations ne doivent pas nous empêcher de discerner chez lui un programme géopolitique suffisamment clair, où il pose la Russie comme opposée à la Chine et au monde islamique (surtout turc), et envisage de s'allier en Europe avec l'Allemagne, à l'égard de laquelle Jirinovski  —comme beaucoup de Russes d'hier et d'aujourd'hui—  nourrit des sentiments complexes, où se mêlent la peur et l'admiration. Le projet de Jirinovski semble reprendre quelques-uns des points essentiels du Pacte Molotov-Ribbentrop d'août 1939, notamment ceux qui impliquent un partage entre l'Allemagne et la Russie de l'Europe centrale et orientale: division de la Pologne, absorption de l'Autriche, de la République Tchèque et de la Slovénie par l'Allemagne, des républiques baltes, de l'Ukraine, de la Biélorussie et de la Moldavie par la Russie (2).

 

En d'autres occasions, Jirinovski semble songer non pas à une partition pure et simple de ces territoires, mais à des zones d'influence bien définies. Quoi qu'il en soit, le “projet” nationaliste et panslaviste de Jirinovski tente de récréer, de concert avec l'Allemagne, les solides liens économiques et culturels qui, pendant deux siècles, avaient contribué au développement de la Russie; de cette façon, il reprend à son compte  —et très clairement—  la ligne de la politique impériale pré-révolutionnaire.

 

«Elementy» et l'eurasisme

 

Dans l'orbite du néo-nationalisme russe, nous trouvons une autre option pro-allemande, qui ne se réfère pas à la ligne idéologico-politique du panslavisme mais à une forme d'anti-occidentalisme extrême, l'eurasisme. Dans cette perspective, l'alliance stratégico-militaire entre la Russie et l'Allemagne est con­sidérée comme l'axe porteur d'un espace eurasiatique et continental opposé au monde atlantique. Cette thématique est centrale dans une revue comme Elementy, organe officiel du néo-eurasisme russe.

 

Dans le premier numéro de cette revue, on trouve le compte-rendu d'une table ronde qui a eu lieu en 1992 à Moscou à l'Académie d'Etat-Major russe sur le thème “La Russie, l'Allemagne et les autres”. Parmi les participants, outre quelques représentants de la “nouvelle droite” européenne, il y avait les Généraux Klokotov, Pichev et Iminov, qui, tous trois, enseignent à cette Académie. Tous les participants se sont dits convaincus de la nécessité d'un puissant tandem politique et militaire germano-russe pour stabiliser le continent européen (3).

 

Le troisième numéro d'Elementy  publie des réflexions sur le rôle de l'Allemagne dans une rubrique intitu­lée “Le bloc continental” (4), reprend un article de Moeller van den Bruck (1876-1925), figure centrale de la Révolution Conservatrice allemande après 1918 («L'Allemagne entre l'Europe et l'Occident»). Cet article affirme la spécificité culturelle allemande et insiste sur la nécessité d'avoir des liens privilégiés avec la Russie pour permettre à l'Europe de se soustraire au déclin provoqué par l'“occidentalisation” moderne (5).

 

les thèses du Colonel Morozov

 

Mais, toujours dans ce n°3 d'Elementy, l'article qui exprime au mieux cette nouvelle tendance germano­phile du néo-eurasisme russe, est celui du Colonel E. Morozov, intitulé «Les relations germano-russes: l'aspect géostratégique» (6). Pour le Colonel Morozov, le rapprochement germano-russe a des motifs his­toriques: depuis Pierre le Grand, on constate que quand les deux pays sont alliés, ils en tirent des avan­tages considérables. Et des motifs géopolitiques: l'un est au centre de l'Europe, l'autre au centre de l'Eurasie. Les difficultés d'un éventuel rapprochement germano-russe sont les suivantes: elles sont d'ordre psychologique, car Russes et Allemands se méfient les uns des autres depuis les deux conflits sanguinaires de ce XXième siècle; elles sont ensuite d'ordre stratégique: l'Allemagne s'étend vers l'Est, ce qui est inévitable vu la faiblesse des petits Etats qui “se situent entre Stettin et Taganrog et entre Tallin et la Crète”, et vu la crise actuelle que traverse la Russie. Mais l'expansion économique allemande ac­tuelle ne heurte pas fondamentalement les intérêts vitaux de la Russie. Ces difficultés doivent être sur­montées, d'après Morozov, en prenant conscience des énormes avantages stratégiques qu'une alliance entre les deux pays pourrait apporter, surtout dans la double perspective de redéfinir les espaces euro­péens et de redimensionner la présence américaine en Europe et le rôle global de Washington dans le monde.

 

De telles thèses sont largement diffusées dans les rangs de l'opposition nationale-communiste et dans les hautes sphères de l'armée; elles acquerront du poids, deviendront de plus en plus visibles, si la situa­tion politique oblige à renforcer ces secteurs-là de la société russe. Mais dans ce cas, il n'est pas dit que l'hypothétique nouvel axe germano-russe soit réellement praticable, à moins que l'Allemagne réunifiée décide d'abandonner la politique d'intégration européenne que la RFA avait suivie sans réticence depuis les années 50. Mais ça, c'est un autre problème.

 

Aldo FERRARI.

(article paru dans Pagine Libere, n°11-12/1995).

 

Notes:

(1) Cf. «Le mie frontiere», entretien de Vladimir Jirinovski avec Rolf Gauffin, in Limes, n°1/1994, pp. 25-32.

(2) Sur Jirinovski circule un essai récent, confus et prétentieux, rédigé par deux “spécialistes” se dissimulant derrière des pseudo­nymes. En trad. it.: G. Frazer & G. Lancelle, Il libretto nero di Zirinovskij, Garzanti, Milano, 1994.

(3) Cfr. Elementy, n°1/1992, pp. 22-25.

(4) Cfr. Elementy, n°3/1993, pp. 21-22.

(5) Ibidem, pp. 30-33.

(6) Cfr. Elementy, n°5/1994, pp. 26-30.

samedi, 26 septembre 2009

L'axe paneuropéen Paris Berlin Moscou

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L’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou

En 2002 sortait Paris – Berlin – Moscou par Henri de Grossouvre (1). Un an après, l’actualité semblait avaliser cette perspective avec le refus de la France, secondée par l’Allemagne et la Russie, de cautionner l’aventure étatsunienne en Irak. Cependant, l’invasion de ce pays, puis l’arrivée à la Chancellerie et à l’Élysée d’atlantistes patentés avortèrent cet axe embryonnaire et surtout de circonstance. Sept ans plus tard, Marc Rousset relance le concept qui présente l’avantage de dépasser à la fois le strict souverainisme national et l’utopie mondialiste.

Imposant, l’ouvrage est aussi stimulant. Nourri par les lectures d’Yves-Marie Laulan, Samuel Huntington, Julien Freund, Carl Schmitt, Alain de Benoist, Régis Debray, Emmanuel Todd, etc., Marc Rousset prend note de l’échec essentiel de la présente construction européenne et offre une alternative : l’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou.

La Françallemagne ou le chaos multiculturel


Hostile à l’adhésion turque, l’auteur s’inquiète de la sous-natalité des Européens et de son terrible corollaire, l’immigration extra-européenne de peuplement. Pour lui, les petits égoïsmes nationaux devraient s’estomper au profit d’une réconciliation des « deux poumons » de l’Europe : l’ensemble occidental romano-protestant et son pendant oriental orthodoxe. L’auteur de La nouvelle Europe de Charlemagne (1995) conçoit l’Europe de l’Ouest comme un espace « néo-carolingien » organisé autour d’une unité politique étroite entre Paris et Berlin. Marc Rousset veut la Françallemagne. « Y aura-t-il un jour un État franco-allemand comme il en fut naguère de l’Autriche-Hongrie ? La France et l’Allemagne constituent une continuité spatiale de plus de cent quarante millions d’habitants. La restauration de l’espace communautaire franc est la tâche dévolue tant aux Français qu’aux Allemands. Elle est la condition préalable à toute unité européenne […]. La France et l’Allemagne sont liées par une Schicksalgemeinschaft, une “ communauté de destin ”, affirme-t-il » (p. 133) (2). Plus loin, il ajoute sans hésiter qu’« il n’y a que la Françallemagne augmentée éventuellement de l’Italie, de l’Espagne, des États de Bénélux et de l’Autriche pour présenter un bloc suffisamment homogène, puissant et crédible, capable de s’appuyer ou de s’allier avec la puissance russe » (p. 532).

Or l’homogénéité ethnique, gage et/ou facteur de la puissance selon l’auteur, est-elle encore possible quand on connaît la déliquescence multiraciale de nos sociétés ? « Une société multi-ethnique conduit tout droit inexorablement, au mieux à des troubles et des affrontements, au pire au chaos et à la guerre civile, car il lui manque la philia, la fraternité sincère, réelle et profonde entre les citoyens » (p. 523), observe-t-il avec lucidité. Une France européenne ne présuppose-t-elle pas au préalable le retour au pays massif et inconditionnel des allogènes ?

Marc Rousset dénonce avec raison l’islamisation du continent, mais il ne voit pas que ce phénomène n’est que la conséquence inévitable de l’immigration. Plus grave, l’auteur reproduit sur l’islam les lieux communs les plus banaux. Il apporte son soutien à Robert Redeker, grand contempteur naguère du mouvement national. Il assimile l’islamisme à un « nouveau totalitarisme » (p. 300) ou à un « fascisme vert » (p. 301), ce qui est erroné et préjudiciable. Le concept de totalitarisme fait l’objet de discussions animées au sein de la communauté historienne. Quant à assimiler l’islamisme au fascisme, n’est-ce pas s’incliner devant l’« antifascisme » obsessionnel et perdre  la bataille du vocabulaire ? Enfin, vouloir, à la suite de quelques musulmans « éclairés », un « islam des Lumières » (p. 290), n’est-ce pas une ingérence dans une matière qui n’intéresse pas au premier chef les Européens ? Est-il vraiment indispensable de promouvoir la modernisation et/ou l’occidentalisation de l’islam, c’est-à-dire la contamination de cette religion par le Mal moderne, matérialiste et individualiste ?

L’économie comme instrument de la puissance

La dépression démographique n’est pas le seul défi à une possible entente paneuropéenne. Suivant le prix Nobel d’économie Maurice Allais, l’auteur conteste le libre-échange et la mondialisation, la « fuite des cerveaux » et la désindustrialisation. Il rappelle qu’« avec la délocalisation de son tissu industriel et depuis peu de ses services informatiques et de gestion, l’Europe perd chaque année des centaines de milliers d’emplois. Ce furent d’abord les emplois les moins qualifiés. Ce sont aujourd’hui des métiers à haute technicité qui sont externalisés vers l’Asie » (p. 49). Il s’effraie par ailleurs de la généralisation des emplois précaires du fait de la concurrence exacerbée planétaire aussi bien là-bas où le pauvre hère travaille dix heures par jour pour un salaire misérable qu’ici avec la pression exercée sur les rémunérations par les étrangers clandestins délinquants réduits en esclavage par un patronat immonde. Il craint en outre que l’essor des services à la personne ne soit « favorisé [que] par le contexte d’inégalité sociale croissante » (p. 55). Bref, « il est vital pour l’Europe de ne pas rester à l’écart du monde industriel moderne, de concevoir un développement industriel fort, créateur d’emplois pour la prochaine génération, d’assurer un renouvellement de son tissu manufacturier » (p. 56), clame  cet ancien directeur général chez Aventis, Carrefour et Veolia.

Cependant, l’industrie et le tertiaire à haute valeur ajoutée ne doivent pas mésestimer la caractère stratégique de l’agriculture. À rebours des thèses sociologiques du cliquet ou d’un secteur agricole surproductiviste et sans presque de paysans, on a la faiblesse de croire qu’une économie humainement satisfaisante suppose un équilibre entre les secteurs primaire, secondaire et tertiaire. Les questions agricole et nutritionnelle sont en passe de devenir des enjeux majeurs du XXIe siècle. Avec la maîtrise de l’eau douce et le contrôle des ressources naturelles énergétiques, la quête de terres arables devient une priorité, car elles sont à l’origine, par l’auto-suffisance qu’elle induit, de la souveraineté alimentaire. Signalons que dans cette recherche bientôt éperdue, l’Europe détient un atout considérable avec les immenses Terres noires fertiles de Russie et, surtout, d’Ukraine (3). Ce simple fait inciterait l’Europe, la France et l’Allemagne, à régler en arbitres le contentieux entre Moscou et Kiyv afin de rendre effective une entente géopolitique respectueuse de tous les peuples.

Surmonter les querelles nationales !


Concernant les relations entre l’Ukraine et la Russie, notre désaccord est total avec Marc Rousset. S’appuyant sur l’historiographie conventionnelle française, il mentionne la « Russie de Kiev » alors que le terme « Russie » n’apparaît qu’en 1727. Il aurait été plus juste de parler de « Rous’ » ou de « Ruthénie ». Certes, « pour les Russes, l’Ukraine est une partie intégrante de la Russie, une simple annexe de Moscou » (p. 363). Cela implique-t-il de nier l’existence du peuple ukrainien ? Marc Rousset le pense puisqu’il affirme que « l’identité ukrainienne n’existe pas. Cette identité, exception faite de la Galicie, est une variante de l’identité russe et non une nationalité constituée qui s’interposerait durablement entre Russie, Pologne et Slaves du    Sud » (p. 367). Ignore-t-il que la langue ukrainienne s’est formalisée deux décennies avant la langue russe ? L’auteur se fourvoie quand il explique que « le russe et l’ukrainien sont si proches que deux locuteurs parlant chacun sa langue se comprennent sans interprète » (p. 367). Autant écrire qu’un Castillan et un Catalan se comprennent sans mal… relevons une autre erreur : « à Kiev, il est difficile de trouver un panneau autre qu’en russe » (p. 366). En réalité, l’ukrainien domine largement l’espace public de la capitale de l’Ukraine. Sait-il enfin que les dirigeants de la « Révolution orange », Viktor Iouchtchenko et Yulia Timochenko, viennent des confins orientaux, russophones, du pays et non de Galicie ?

L’axe paneuropéen ne pourra pas faire l’économie d’une résolution équitable et sereine des lancinantes questions nationalitaires inter-européennes. La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou compenserait la complexe problématique impériale russe. Les Russes n’ont toujours pas fait le deuil de leur empire, tsariste puis soviétique, d’où cette politique agressive envers l’étranger proche (4) qui, par méfiance, se place sous la protection illusoire de l’O.T.A.N. Le projet paneuropéen de puissance transcenderait la frustration légitime de nos amis russes en un salutaire désir de renaissance géopolitique tant pour la Russie que pour les Allemands et les Français.

Comment alors acquérir cette puissance ? Force est de constater qu’à part les Russes, Français et Allemands ne se préoccupent guère de ce sujet. Le confort émollient de la Modernité les châtre psychologiquement. L’héroïsme est dévalorisé, remplacé par l’héroïne. En Afghanistan, les soldats allemands protestent contre leurs conditions de vie qu’ils jugent trop sommaires. Plus de soixante ans de rééducation mentale commencent à se payer et l’addition sera lourde. On aboutit au même constant en France. Le salut viendrait-il de la guerre économique mondiale ? En effet, le « nouveau continent » appliquerait la préférence communautaire, l’autarcie des grands espaces, le patriotisme économique et une coopération franco-germano-russe fort intense. « Il est temps que la France, l’Allemagne et la Russie coopèrent davantage pour de grands projets dans de nombreux d’une façon volontariste, que l’Eurosibérie se décide à enrayer son déclin, que les jeunes Européens désabusés, à l’égoïsme matérialiste hypertrophié, sortent de la torpeur passive et annihilante de la société de consommation futile et frustrante avec ses gadgets inutiles et loufoques, de l’idéologie américaine de la marchandise passion avec l’argent pour seul horizon, se guérissent d’une certaine forme de sida mental conduisant au renoncement à leur identité propre, à un idéal, au dépassement de soi » (p. 12). De ce fait, face à la montée des périls vitaux, « les Européens doivent […] se tourner vers les occidentalistes de la Russie, pousser les feux d’une réconciliation russo-ukrainienne et russo-géorgienne en lieu et place de la gifle inacceptable, du casus belli, que représenterait pour la Russie l’entrée de l’Ukraine et de la Géorgie dans l’O.T.A.N. » (p. 527).

Quel avenir pour le continent paneuropéen ?


L’enjeu est considérable. « L’Europe doit-elle être simplement un sous-ensemble d’un empire transatlantique à direction américaine, ou est-elle, au contraire, un moyen pour les nations européennes de contrebalancer, avec l’aide de la Russie, les menaces […] ainsi que le poids de “ l’Amérique-monde ” ? L’Europe occidentale doit-elle, tel un paquet bien ficelé, continuer à être intégrée au One World dirigé depuis Manhattan ? » (p. 12). Anxieux, Marc Rousset se demande si l’idée européenne « serait un moyen de créer enfin cette “ Troisième Rome ” dont ont toujours rêvé séparément la France, l’Allemagne et la Russie » (p. 198). « Cette Eurosibérie, prévient-il, serait véritablement indépendante, ne menacerait personne, mais personne également, que ce soit la Chine, les États-Unis ou l’Islam ne pourrait non plus véritablement indépendante la menacer. C’est pourquoi la France et l’Allemagne devraient remodeler l’architecture européenne en concertation avec la Russie » (pp. 198 – 199).

Dans ce plaidoyer se retrouve l’impératif démographique. Marc Rousset rappelle que l’Extrême-Orient russe est un quasi-désert humain tandis que sur l’autre rive de l’Amour vivent des millions de Chinois. Une alliance avec la Françallemagne renforcerait la Russie face à Pékin. « Un droit à l’occupation doit donc être reconnu aux peuples européens sur l’espace allant du nord du Portugal au détroit de Behring, en incluant le Nord-Caucase et la totalité de l’espace sibérien. Sur cet espace, cinq cents millions d’Européens et cent cinquante millions de Russes devraient pouvoir prolonger jusqu’à Vladivostok les frontières humaines et culturelles de l’Europe » (p. 46).

Il importe néanmoins de ne pas confondre les thèses de Marc Rousset avec les visions de Guillaume Faye ou les ratiocinations d’Alexandre Del Valle. « Nous croyons en l’Eurosibérie comme un simple concept géographique, mais en aucun cas à un empire eurosibérien qui aurait pu être réalisé par l’U.R.S.S. si elle avait gagné la Guerre froide et occupé l’Europe de l’Ouest. L’Eurosibérie de facto et de jure avec une seule capitale ne peut être réalisée que par une nation dominante disposant des ressources militaires, humaines et naturelles nécessaires, ce qui n’est le cas aujourd’hui d’aucune nation européenne, Russie incluse » (p. 532).

Dans ce cadre grand-européen, quelle en serait la langue institutionnelle et véhiculaire ? Sur ce point, M. Rousset surprend ! Il dénie tout droit à l’anglais d’être la lingua franca de l’Europe-puissance. Il soutient le multilinguisme, mais se détourne des langues vernaculaires, ce qui est dommage. Est-il partisan du retour au latin ? A priori oui, mais, après un examen minutieux, il l’estime inadapté à notre époque. Le français aurait-il toute sa chance comme le suggéra naguère l’archiduc Otto de Habsbourg-Lorraine ? Ce serait l’idéal parce que la langue de Stendhal est réputée pour sa richesse, sa clarté et son exactitude. Marc Rousset craint néanmoins qu’on accuse la France d’impérialisme linguistique. Il se déclare finalement favorable à l’espéranto. Envisagé comme une langue universelle, l’espéranto est surtout une marque du génie européen. Il serait une langue utilitaire européenne appropriée qui ne froisserait aucune susceptibilité linguistique tant nationale que régionale. On ne peut que partager ici son raisonnement.

La nouvelle Europe sur terre et… sur mer !


Le destin de la nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou serait-il uniquement continental, terrien ? Marc Rousset n’en doute pas et reprend à son compte la célèbre dichotomie géopolitique entre la Terre et la Mer. Or l’Union européenne dispose d’un domaine d’Outre-mer (dont de nombreux archipels non peuplés), ce qui en fait potentiellement la première puissance maritime au monde. Il est fâcheux que l’auteur accepte cette opposition désormais classique, mais fallacieuse. Non, la France n’est pas qu’une « nation terrienne » (p. 36) ! Au-delà des succès navals de Louis XVI et des échecs en mer de Napoléon Ier, rappelons  que l’amiral Darlan joua un rôle capital  dans la création d’une remarquable flotte de guerre à la fin de la IIIe République. Des remarques similaires s’appliquent à la Russie qui dispose d’une immense façade littorale arctique prise jusqu’à maintenant plusieurs mois par an par les glaces. Mais si le fameux « réchauffement climatique » se manifestait, la Russie ne deviendrait-elle pas de fait une puissance navale ? Songeons déjà qu’au temps de l’Union soviétique, les navires de l’Armée rouge patrouillaient sur toutes les mers du globe, preuve manifeste d’une indéniable volonté thalassocratique…

Il ne faut pas que ces quelques critiques gâchent le thème central de l’essai de Marc Rousset. Il a écrit, il y a neuf ans, Les Euroricains qui était un cri d’alarme contre la « yanquisation » du « Vieux Monde ». À cette colonisation globale, il apporte maintenant une solution envisageable à la condition que les hommes politiques saisissent le Kairos et que s’établisse sur tout notre continent une communion d’esprit bien aléatoire actuellement. Le dilemme est posé : nos contemporains accepteront-ils d’être des sujets transatlantiques ou bien des citoyens paneuropéens ? Accepteront-ils l’abêtissement ou le redressement ? Comprendront-ils enfin que la France et l’Europe, que nos nations et l’Europe ne s’opposent pas, mais se complètent ? Louis Pauwels concluait son « Adresse aux Européens sans Europe » par cette évidence : « Qui s’étonnerait, à y bien regarder, du peu de patriotisme de la jeunesse française ? Trop peu d’Europe éloigne de la patrie. Beaucoup d’Europe y ramène. Ils seront patriotes quand nous serons européens. » (5)

Georges Feltin-Tracol

Notes


1 : Henri de Grossouvre, Paris – Berlin – Moscou. La voie de l’indépendance et de la paix, L’Âge d’Homme, 2002.

2 : On peut dès lors très bien imaginer que Strasbourg devienne la capitale françallemande, ce qui faciliterait le transfert à Bruxelles de toutes les institutions européennes.

3 : L’Arabie saoudite vient ainsi d’acquérir en Ukraine des milliers d’hectares de terres fertiles.

4 : On appelle « l’étranger proche » les États issus de l’éclatement de l’U.R.S.S. et que le Kremlin considère comme son aire d’influence traditionnelle.

5 : Louis Pauwels, Le droit de parler, Albin Michel, 1981.

• Marc Rousset, La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou. Le continent paneuropéen face au choc des civilisations, Godefroy de Bouillon, 2009, 538 p., préface de Youri Roubinski, 37 €.

vendredi, 25 septembre 2009

Insécurité: un socialiste brise le tabou du laisser-faire

Insécurité :

un socialiste brise le tabou du laisser-faire

Ex: http://unitepopulaire.org/ 

 

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« Nous avons longtemps passé pour un pays à faible criminalité, ce qui était encore vrai il y a vingt ou trente ans. Mais les choses ont bien changé, et en mal. En matière de violence dans les rues, nous avons, sinon dépassé, du moins rattrapé nos voisins. […]

La différence de traitement que nous réservons aux délinquants selon qu'ils sont mineurs ou majeurs fait de la Suisse un cas tout à fait à part sur le plan international ! […] Toutes les statistiques, celles de la police comme celles des cliniques et des assurances montrent clairement qu'il y a augmentation et aggravation de la violence. Cette hausse commence surtout dans les années 90, quand nous avons clairement réorganisé notre temps libre pour devenir une société qui tourne vingt-quatre heures sur vingt-quatre. […] La vie nocturne a ainsi évolué de façon extrême ces vingt dernières années. Et les études le montrent clairement: les jeunes qui passent régulièrement leur temps dehors, soit en moyenne quatre heures ou plus par jour, commettent six fois plus d'actes de violence que ceux qui ne passent qu'une demi-heure ou une heure dehors.

Les années 90 correspondent aussi à la fin du rideau de fer en Europe. Sa chute a entraîné un changement dans la direction des flux migratoires vers la Suisse. […]. Les années 90 correspondent aussi à un autre changement d'importance : l'avènement de l'ordinateur dans les foyers. Avec son arrivée, puis celle des portables, les parents ont perdu tout contrôle sur la consommation médiatique de leurs enfants. […] Les personnes qui consomment souvent des vidéos ou des jeux violents commettent beaucoup plus d'actes de violence que les autres. La corrélation est probante, mais la causalité l'est moins. En d'autres termes: ceux qui consomment des vidéos violentes le font-ils parce qu'ils ont une propension naturelle à la violence ou deviennent-ils violents parce qu'ils consomment ces vidéos ? Je crains hélas que la recherche ne parvienne jamais à répondre à cette question. […]

Entre 1992 et 2006, le nombre de parents qui fixent une heure de rentrée à leurs enfants reste constant: plus de 80% des parents le font. Mais les enfants de 2006 respectent beaucoup moins cette exigence. Ceux qui disent ne jamais la respecter ou rarement sont 6% en 1992. Et 28% en 2006 ! C'est un sacré changement ! Etre parent, aujourd'hui, c'est beaucoup plus difficile qu'il y a vingt ou trente ans. En fait, si la violence augmente, ce n'est pas à cause d'une dégénérescence de la nature humaine, mais d'un changement global de l'environnement social. A un certain moment, nous avons voulu tout libéraliser, tout laisser aller, c'était très à la mode... […] Une certaine gauche a le sentiment, surtout depuis 1968, qu'elle est d'abord là pour combattre tout ce qui ressemble à de la répression. Or, sans structures, une société ne peut pas fonctionner. Il n'y a pas de prévention sans répression. »

 

 

Martin Killias, criminologue, professeur à l’Université de Zürich, membre du Parti Socialiste, interviewé par L’Illustré, 15 juillet 2009

jeudi, 24 septembre 2009

Pour un grand espace européen! Sans libre-échange!

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Thorsten HINZ:

 

Pour un grand espace européen ! Sans libre-échange!

 

Oui à l’Europe ! Non aux eurocrates de Bruxelles !

Le continent a besoin d’une nouvelle volonté de puissance !

 

Le jugement rendu à Karlsruhe récemment, à propos du Traité de Lisbonne a le mérite de la  clarté: le “Sur-Etat”, qui nous tient sous sa tutelle, et dont les gouvernements et les bureaucrates bruxellois visent le parachèvement, n’est pas sanctionnable comme s’il émanait d’un jugement de Dieu. Nous ne sommes pas contraints de l’accepter. Mais survient alors une autre question fondamentale: celle de l’avenir de l’Europe. Le jugement de Karlsruhe n’a en aucune façon réglé ce problème-là, n’a pas tranché la question de savoir si l’Europe et l’eurocratisme bruxellois sont une seule et même chose.

 

Un simple regard sur la carte, sur les statistiques, sur les rapports de forces et autres ordres de grandeur nous fait voir, sans détours, que les Etats de petites et moyennes dimensions en Europe ne peuvent freiner leur perte de signification à l’échelle du globe que s’ils agissent de concert. D’autres faits sont également patents: les anciens conflits entre Etats européens s’atténuent graduellement, de nouveaux conflits d’intérêts émergent, mais plus aucun de ceux-ci n’est encore existentiel. Si on les mesure à l’échelle du globe, les convergences d’intérêts entre Européens dominent et les divergences passent à l’arrière-plan. 

 

Constituer une puissance hégémonique continentale est un souci, voire un cauchemar, qui hante depuis plus d’un siècle la politique intérieure du sous-continent européen, même si cela peut paraître anachronique face à la domination mondiale qu’exercent les Etats-Unis et à l’émergence de nouveaux centres de puissance en Asie. Se précipiter encore dans des conflits intérieurs à l’Europe et, de surcroît, à l’incitation de puissances extra-européennes, n’aurait qu’un résultat: accroître la puissance des autres et pérenniser la mise sous tutelle de l’Europe.

 

La crise financière et économique, qui frappe la planète entière, nous apporte quelques arguments supplémentaires en faveur d’une européanisation de la politique en Europe.  Cette  crise a déjà conduit à réévaluer les phénomènes liés à la globalisation. Bien entendu, soyons  clairs, on ne pourra pas réduire à néant les acquis de la globalisation qui a commencé il y a plus de 500 ans par la découverte, l’exploitation et la colonisation du monde par les puissances européennes; cependant, la globalisation ne pourra plus rester, désormais, un but en soi, une idée que personne ne pourra jamais contester. Au cours de ces récentes années, il semblait que la tâche principale des Etats ne consistait plus qu’en une seule chose: se déréguler eux-mêmes, renoncer à toutes leurs fonctions de contrôle et de direction. Capitaux et marchandises devaient s’écouler et vagabonder en toute liberté; la vie humaine, elle, devait se réduire à une existence d’abeilles besogneuses, acceptant la “flexibilité”, en concurrence avec des homologues tout aussi aliénées dans le monde entier. On planifiait une guerre de tous contre tous, dernière conséquence de la victoire totale qu’avait obtenue le modèle anglo-saxon de libre-échange après deux guerres mondiales et une guerre froide. 

 

Il y a deux ans encore, on ne faisait aucun effort intellectuel pour justifier ce modèle: il portait sa légitimité en lui-même. Ceux qui osaient encore le critiquer étaient traités d’incorrigibles passéistes, de réactionnaires, de bornés, de nationalistes, d’anti-modernes, d’ennemis de la liberté, etc. On les ridiculisait. Et voilà que soudain, la charge de la preuve a changé de camp. L’idéologue français Emmanuel Todd, dans “Après la démocratie”, constate “qu’il faudra soit abolir le suffrage universel et renoncer ainsi à la démocratie soit limiter le libre-échange, par exemple en inventant des formes intelligentes de protectionnisme au niveau continental européen, ce qui impliquerait de remettre en question le système économique actuellement dominant”.

 

La proximité conceptuelle entre le protectionnisme que Todd appelle de ses voeux et l’ébauche d’un “grand espace” continental chez le juriste allemand Carl Schmitt est patente. Pour l’Europe actuelle, l’enjeu n’est pas seulement la démocratie mais porte sur l’ensemble de ses traditions historiques et culturelles, ancrées sur son territoire. Tout néo-protectionnisme européen émergent ne devra pas se limiter au seul domaine de l’économie. Sur les plans politiques et éthiques aussi, la logique du libre-échange devra être jugulée. Avant toute chose, l’Europe devra renoncer à l’universalisme contenu dans ce discours idéologique et banalisé sur les droits de l’homme qui sert de vulgate générale. Cet universalisme avait accompagné l’expansion économique et coloniale des pays d’Europe occidentale mais il a atteint ses limites aujourd’hui (que l’on songe à la Chine...). Aujourd’hui, cet universalisme ne sert plus qu’à une chose: sur les plans politique, moral et juridique, à donner un instrument de pression potentiel à des cultures ou des religions extra-européennes, étrangères au continent européen, pour que celles-ci, à leur tour, mettent en oeuvre une stratégie d’expansion en Europe même. Sur le plan des droits de l’homme, l’Europe a aussi besoin d’un protectionnisme qui entraînerait de donner priorité et protection aux propres citoyens européens dans leur propre “Maison commune”.

 

C’est pourquoi l’Europe politique future doit s’édifier sur des bases nouvelles, historiques, intellectuelles, culturelles et spirituelles. Car l’universalisme mis en pratique par les eurocrates en poste à Bruxelles est lié étroitement aux mythes fondateurs de l’Union Européenne. Celle-ci, en effet, considère que l’année 1945 constitue un point de départ historique et que les Etats-Unis, avec la forme de libéralisme et de libre-échange qu’ils ont importée dans leur zèle missionnaire, ont été les sauveurs de l’Europe.

 

Ces positions signifient ipso facto de fonder moralement l’UE sur la victoire emportée sur le pays qui a dû, doit et devra contribuer le plus aux charges financières en vue de structurer le grand espace européen et qui constitue, de surcroît, le pays le plus indispensable de tous à la formation de l’Europe! Par conséquent, tous les autres partenaires de la construction européenne en arrivent à considérer que les contributions allemandes sont des “réparations” à payer pour cause de deuxième guerre mondiale au lieu de les considérer comme des investissements pour un futur commun à bâtir de concert et dans lequel, eux aussi, auraient la responsabilité et le devoir de contribuer à l’intérêt collectif. 

 

En Allemagne, ce malentendu a conduit à une grande lassitude à l’égard de l’Europe: les Allemands, en effet, se sentent grugés et exploités; ils ont l’impression qu’on les maltraite, qu’on exige trop d’eux, tandis que l’élite qui fait fonctionner leur pays accepte pour eux le rôle du financier unique pour maintenir la cohésion d’un tout désormais branlant alors même que cette élite n’est plus capable de lancer des initiatives politiques en faveur de l’Europe. Les Allemands ont expurgé leur passé jusqu’à satiété, placé partout des garde-fous pour que plus  aucun dérapage nationaliste ne soit possible: les autres partenaires de l’UE, en cette matière, en ont fait trop peu.

 

La distance temporelle qui nous sépare aujourd’hui des événements de la seconde guerre mondiale doit nous amener à interpréter la tragédie européenne du 20ème siècle comme une auto-destruction collective, où tous ont eu leur part! Cette auto-destruction procède d’erreurs de jugement sur la situation réelle de l’Europe, au sein même du continent et en dehors de lui, notamment sur une évaluation erronée de l’influence globale qu’exerçait le Vieux Continent. Les  bénéficiaires de ces erreurs de jugement ont été la Russie soviétique et les Etats-Unis, deux puissances étrangères à l’espace européen. Si une nouvelle tragédie de même ampleur devait frapper l’Europe demain, d’autres bénéficiaires en tireraient profit et les conséquences en seraient, cette fois, irréversibles.

 

Si l’Europe ne formule pas bien vite une volonté de puissance commune et la défend de manière crédible, elle ne pourra pas opposer un modèle alternatif au libre-échange actuel. Or le contraire se profile à l’horizon: comme les mythes fondateurs de l’UE sont une fatalité, ils invitent les puissances extérieures à appuyer et favoriser les tensions intérieures en Europe, à les exploiter, à les pérenniser. Derrière l’accord britannique à une adhésion turque se profile l’intention de réduire l’idée européenne à n’être plus rien d’autre qu’une simple acceptation du libre-échange: l’Europe ne serait donc pas un bloc géopolitique autonome, structurée par une identité autochtone, mais une vague zone de libre-échange. La Pologne, la République Tchèque ou l’Italie, qui soutiennent, elles aussi, le désir des Turcs d’adhérer à l’UE, se réjouissent du coup de Jarnac qu’elles infligent ainsi à l’Allemagne et se vantent d’être les partenaires les plus féales des Etats-Unis, procurant du même coup, à ceux-ci, une sorte de levier d’Archimède pour disloquer l’unité européenne.

 

Une Europe qui reposerait sur de nouvelles bases politiques et spirituelles, qui considérerait que ses formes culturelles et ses modes de vie valent la peine d’être protégés, une Europe qui se montrerait prête à assurer sa défense, deviendrait, aux yeux des Allemands, un objectif digne d’être réalisé et justifierait les paiements disproportionnés qu’ils paient pour l’édification européenne. Mais, dans ce domaine, nous ne devons pas nous limiter aux seuls questions financières.

 

Voilà pourquoi, nous devons dire “oui” à l’Europe et, dans certaines conditions, à l’UE, mais uniquement si elle constitue une tentative de donner forme au continent. Mais nous devons dire “non”, et cela de manière décisive et tranchée, à la domination des bureaucrates et des idéologues fumeux qui pontifient à Bruxelles!

 

Thorsten HINZ.

(article paru dans “Junge Freiheit”, n°34/2009; trad.  franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 23 septembre 2009

Le bouclier antimissile américain en Europe relancé?

Le bouclier antimissile américain en Europe relancé ?

Des missiles SM-3 en Europe...

PARIS (NOVOpress) – Contrairement à ce que pouvait laisser penser la décision du président Obama de renoncer à implanter un système antimissile en Pologne et en Tchéquie, les Etats-Unis n’ont nullement renoncé à leur projet de bouclier antimissile en Europe, bien au contraire.

En effet, dans un article paru samedi dans The New-York Times, Robert M. Gates, secrétaire à la Défense des Etats-Unis l’affirme très clairement : « nous renforçons la défense antimissile en Europe, nous ne l’abandonnons pas» .

Selon lui, le système qui vient d’être abandonné ne serait pas entré en service « avant au moins 2017 et probablement beaucoup plus tard»  alors que le nouveau plan prévoit un déploiement, effectif dès 2011, de missiles d’interception SM-3 embarqué à bord de navires, sans doute en Méditerranée orientale. Une deuxième phase, « vers 2015″, verra, elle, le déploiement d» une version améliorée du SM-3 au sol « en Europe du sud et centrale» .

Bref, la tutelle militaire américaine sur L’Europe, renforcée par le retour de la France dans l’Otan, a encore de beaux jours devant elle.

[cc [1]] Novopress.info, 2009, Article libre de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info [2]]


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

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[1] cc: http://fr.novopress.info http://creativecommons.org/ licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[2] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info

Lettre ouverte à Hervé Morin, ministre de la Défense euro-atlantiste

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Lettre ouverte à Hervé Morin,

ministre de la Défense euro-atlantiste

 

 

 

Monsieur le ministre de la Défense de l’Occident,

 

 

 

 

Je m’autorise de vous interpeller avec un titre erroné puisque, renouant avec une mauvaise habitude pratiquée sous le septennat giscardien, le terme « nationale » a été supprimé de l’intitulé officiel de votre ministère. Permettez-moi par conséquent de vous désigner tour à tour comme le ministre de la Défense euro-atlantiste ou celui de la Défense de l’Occident, tant ces deux appellations me paraissent vous convenir à merveille.

 

 

 

Si je vous adresse aujourd’hui la présente algarade, sachez au préalable que je ne vise nullement l’élu local normand que vous êtes par ailleurs. L’adhérent au Mouvement Normand que je suis soutient, tout comme vous, l’indispensable (ré)unification normande des deux demi-régions. Notre désaccord concerne l’avenir de la France, de son armée et de l’Europe de la défense.

 

Je vous dois d’être franc. Quand en mai 2007, vous avez été nommé au ministère de la rue Saint-Dominique, j’ai immédiatement pensé à une erreur de recrutement : vous n’êtes pas fait pour occuper ce poste, faute d’une carrure suffisante. Comment cela aurait pu être autrement avec un Premier ministre qui, lui, est un fin connaisseur de la chose militaire depuis de longues années ? Il s’agissait surtout de vous récompenser pour avoir abandonné (trahi, diraient de mauvaise langues) entre les deux tours de la présidentielle votre vieil ami François Bayrou et rallié le futur président.

 

 

 

D’autres, tout aussi non préparés aux fonctions de ce ministère éminemment régalien, auraient acquis au contact des militaires une stature politique afin de viser, plus tard, bien plus haut. Hélas ! Comme l’immense majorité de vos prédécesseurs depuis 1945, voire depuis l’ineffable Maginot, et à l’exception notable d’un Pierre Messmer, d’un Michel Debré ou d’un Jean-Pierre Chevènement, vous êtes resté d’une pâleur impressionnante. Pis, depuis votre nomination, vous avez démontré une incompétence rare qui serait risible si votre action ne nuisait pas aux intérêts vitaux de la France et de l’Europe.

À votre décharge, je concède volontiers qu’il ne doit pas être facile de diriger un tel ministère à l’ère de l’« omniprésidence omnipotente » et de sa kyrielle de conseillers, véritables ministres bis. Faut-il en déduire qu’une situation pareille vous sied et que vous jouissez en fait des ors de la République ?

 

 

 

Je le croyais assez jusqu’à la survenue d’un événement récent. Depuis, j’ai compris que loin d’être indolent, vous effectuez un véritable travail de sape, pis une œuvre magistrale de démolition systématique qui anéantit quarante années d’indépendance nationale (relative) au profit d’une folle intégration dans l’O.T.A.N. américanocentrée, bras armé d’un Occident mondialiste globalitaire.

 

 

Vous vous dîtes partisan de la construction européenne alors que vous en êtes l’un de ses fossoyeurs les plus déterminés. L’Europe, sa puissance sous-jacente, ses peuples historiques vous indiffèrent, seule compte pour vous cette entité despotique de dimension planétaire appelée « Occident ».

 

 

 

Qu’est-ce qui m’a dessillé totalement les yeux en ce 6 février 2009 ? Tout simplement votre décision inique et scandaleuse de congédier sur le champ Aymeric Chauprade de son poste de professeur au Collège interarmées de Défense (C.I.D.). Brillant spécialiste de géopolitique, Aymeric Chauprade présente, dans un nouvel ouvrage Chronique du choc des civilisations, des interprétations alternatives à la thèse officielle des attentats du 11 septembre 2001. Exposer ces théories « complotistes » signifie-t-il obligatoirement adhérer à leurs conclusions alors qu’Aymeric Chauprade, en sceptique méthodique, prend garde de ne pas les faire siennes ?

 

 

 

Peu vous chaut l’impartialité de sa démarche puisque, sur l’injonction du journaliste du Point, Jean Guisnel, auteur d’un insidieux article contre lui, vous ordonnez son exclusion immédiate de toutes les enceintes militaires de formation universitaire. Mercredi dernier – 11 février -, l’infâme Canard enchaîné sortait une véritable liste d’épuration en vous enjoignant d’expulser d’autres intervenants rétifs au politiquement correct. Auriez-vous donc peur à ce point (si je puis dire) de certains scribouillards pour que vous soyez si prompt à leur obéir, le petit doigt sur la couture du pantalon ? Faut-il comprendre que Jean Guisnel et autres plumitifs du palmipède décati sont les vrais patrons de l’armée française ?

 

 

 

Avez-vous pris la peine de lire l’ouvrage incriminé ? Votre rapidité de réaction m’incite à répondre négativement. Il importe par conséquent de dénoncer votre « attitude irresponsable, irrespectueuse et indigne », car « nier la réalité est une attitude particulièrement inquiétante pour un ministre et qui n’atteste pas du courage que chacun est en droit d’attendre d’un haut responsable politique ». Qui s’exprime ainsi ? M. Jean-Paul Fournier, sénateur-maire U.M.P. de Nîmes, irrité par la fermeture de la base aéronavale de NÎmes – Garons, cité par Le Figaro (et non Libé, Politis ou Minute) du 9 février 2009. Le sénateur Fournier a très bien cerné votre comportement intolérable et honteux.

 

 

 

Aymeric Chauprade interdit de tout contact avec le corps des officiers d’active, vous agissez sciemment contre l’armée française, contre la France. En le renvoyant, vous risquez même de devenir la risée de l’Hexagone. En effet, le 12 juillet 2001, Aymeric Chauprade publiait dans Le Figaro un remarquable plaidoyer en faveur d’un « bouclier antimissile français ». Et que lit-on dans Le Figaro du 13 février 2009 ? « La France se lance dans la défense antimissile »… Certes, nul n’est prophète en son pays, mais quand même, ne peut-il pas y avoir parfois une exception ?

 

 

 

Votre action injuste me rappelle d’autres précédents quand l’Institution militaire sanctionnait des officiers coupables de penser par eux-mêmes et de contester ainsi le conformisme de leur temps : le général Étienne Copel, le colonel Philippe Pétain, le lieutenant-colonel Émile Mayer, le commandant Charles de Gaulle.

 

 

Anticonformiste, Aymeric Chauprade l’est avec talent et intelligence; il s’inscrit dans la suite prestigieuse des Jomini, Castex et Poirier. Voilà pourquoi le réintégrer au C.I.D. serait un geste fort pour l’indispensable réarmement moral d’une armée qui en a grand besoin.

 

 

 

Je doute fort, Monsieur le ministre de la Défense euro-atlantiste, que ma missive vous fera changer d’avis. Qu’importe ! Libre à vous de rester insignifiant et de figurer dans les chroniques comme le Galliffet de la réflexion stratégique.

 

Recevez, Monsieur le Ministre, mes salutations normandes.

 

 

 

Georges Feltin-Tracol

Terre & Peuple Magazine n°40

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Terre & Peuple Wallonie - Communiqué

TERRE &PEUPLE Magazine n°40

 

Le thème du numéro 40 du T&P Mag est ‘Notre Europe’, l’Europe des peuples. Sous le titre ‘L’orage monte’, Pierre Vial avertit contre la guerre que les services américains présentent comme inévitable avec un Iran où ils aimeraient refaire leur coup des révolutions ‘oranges’. Dans le même temps, ils programment la colonisation pacifique de l’Europe par l’islam. En attendant la phase militaire.

M. Alain épingle la découverte par deux chercheurs canadiens d’une corrélation entre l’environnement favorable à l’épanouissement d’un enfant et la taille de son cerveau, déterminante pour le développement de son intelligence.

Pierre Vial, à propos de l’importance du facteur ethnique, souligne les ennuis que la Chine rencontre avec les Ouïgours musulmans et turcophones dans l’ancien Turkestan oriental où sont importées des masses de Chinois Han. Pékin impute les émeutes à la diaspora ouïgour américaine.

Emmanuel Ratier relève que Jovia Stanisic, chef de la sûreté serbe, a été ‘blanchi’ devant le Tribunal de La Haye des préventions de crime contre l’Humanité, la CIA ayant révélé que le ‘vrai cerveau du régime Milosevic’ était un homme à elle !

Jean Haudry présente son dernier ouvrage ‘La triade pensée-parole-action dans la tradition indo-européenne’. Dans une variante, le corps (ou une de ses composantes) tient lieu d’action et, dans une autre, la vue tient la place de la pensée, chacun de ces cinq termes étant ensuite étroitement lié au feu. A partir du feu de la parole, le feu est à l’origine du théâtre, avec Agni (en Inde) et avec Dionysos (en Grèce).

Pour ouvrir le dossier ‘Notre Europe’, Pierre Vial remarque que nombre d’Européens, rebutés par l’Europe de Bruxelles sont tentés de rejeter jusqu’à l’idée d’Europe. D’où l’importance de claires définition et délimitation du concept.

Il interroge d’abord l’ami Robert Spieler, délégué général de la NDP, qui prône une Europe de la puissance. Pour celui-ci, si Rome a bien été assassinée par le christianisme, ce dernier s’est ensuite laissé européaniser et Celse n’aurait pas condamné celui des croisades et de la Reconquista. La révolution française, facteur décisif de la décadence européenne, a remplacé la nation incarnée dans le Roi par l’Etat-nation désincarné, par le chauvinisme de qui vont être allumées les guerres civiles européennes. L’Europe de la puissance ne peut se concevoir que comme partenaire de la Russie, car le protectionnisme n’est efficient qu’à l’échelle d’un continent.

Pour définir ‘l’Europe et ses frontières’, Alain Cagnat s’étend, dans une contribution magistrale, sur rien moins qu’un quart de la revue. Il rappelle la vision des ‘pères fondateurs’ Schumann-Monet, réductrice de l’Europe à la minuscule extrémité du continent eurasiatique et à deux branches de l’activité économique dans un marché libéral et pacifique. Les critères de Copenhague la confirment comme une communauté de valeurs universelles, plutôt que comme communauté de destins. D’autant plus sûrement que, s’élargissant, elle souffre déjà d’indigestion, alors que les plus illuminés la voient s’étendre à la planète entière, conformément à la vision stratégique des administrations américaines successives. Mais cette Union n’est qu’un nain sur le plan de sa défense, car elle y affecte (en % du PIB) loin de la moitié de ce qu’y consacrent les Etats-Unis et la Turquie et à peine moins que les épouvantails russes et chinois. Contre lesquels on prétend la protéger, quand ce n’est pas l’entraîner dans des guerres hasardeuses.

L’Union européenne a usurpé l’idée européenne pour devenir une machine à broyer les peuples européens pour le compte de leur prédateur américain, lequel se dissimule derrière l’imposture de l’Occident. Historiquement, l’occident est né de la scission de l’Empire romain en un Empire d’orient et un Empire d’occident. Ce dernier va digérer difficilement les grandes invasions germaniques durant la lente gestation du moyen âge, durant lequel l’Empire d’orient connaît un essor resplendissant, jusqu’au séisme du schisme des églises romaine et orthodoxe, en 1054, et surtout jusqu’au sac de Constantinople, en 1204, commandité par les marchands vénitiens. Ce ne sera qu’après la chute de Byzance en 1453 que, l’Europe orientale tombant sous la botte ottomane, la civilisation européenne s’identifie à l’occident.

Le basculement vers le monde anglo-saxon a lieu en 1945, lorsque le ‘monde libre’ oppose au ‘monde communiste’ un système de valeurs universelles qu’il prétend ‘indépassable’et qui va exercer une véritable dictature de l’esprit. Celle-ci va de pair avec l’hypocrisie (un fossé sépare les principes proclamés et les actes) et le double langage, dérives que dénonce même Samuel Huntington, dans son fameux ‘Choc des civilisations’. Dans le même temps, la Russie est rejetée dans l’arriération et la barbarie et, quand le monde orthodoxe se défend contre le terrorisme islamiste, on l’accuse même de provoquer un occident réservé aux protestants et aux catholiques. Réserve qui y inclut les Croates et les Polonais, mais qui en exclut Grecs, Serbes et Bulgares et coupe l’Ukraine en deux ! Alors qu’il saute aux yeux que les catholiques sont plus proches des orthodoxes que des protestants, lesquels comme les musulmans s’interdisent toute représentation du divin. En réalité, la distinction est un artifice géopolitique des thalassocraties anglo-saxonnes, pour contenir la menace que représente pour elles le vieux continent, en particulier la Russie qu’on empêche de s’allier à l’Europe, en la rejetant dans une prétendue barbarie.

Au sud de l’Europe, la Mer méditerranée est tout sauf une frontière. Elle est bien plutôt une porte par où s’engouffrent la multitude afro-maghrébine, avec l’islam qui en est le glaive. L’UPM (Union pour la Méditerranée) de Sarkhozy, prix de consolation à la Turquie, regrouperait cinquante-sept pays, mais pas la Russie ! Et elle servirait de nouvel accélérateur à la sacro-sainte immigration. La simple constatation de l’ampleur de celle-ci suffit à rendre infréquentable aux yeux des nouveaux prophètes mondialistes, qui veulent faire de l’Europe « un ensemble affranchi de toute identité ». L’ONU prévoit pour sa part d’en faire « la principale zone d’immigration du monde », avec 1,3 milliards d’habitants d’ici à 2050 !

Le péril de l’immigration est décuplé par l’islam, à l’égard de qui les responsables européens sont d’une lâcheté ignoble, feignant d’ignorer sa maxime usuelle ‘Baise la main que tu ne peux couper’. Alors que nos prisons sont des pépinières d’islamistes haineux, les traîtres sont déjà empressés de leur remettre les clés de leurs citadelles et proclament : « Les racines de l’Europe sont autant musulmanes que chrétiennes » (Chirac) et « Les musulmans sont une chance que les Européens doivent saisir » (Semprun). Pour leur part, les musulmans sont tranquillement certains qu’ils feront régner sous peu la charia sur les vieilles terres européennes.

A en croire Huntington, l’Europe orientale, et la Russie sur qui Byzance a rayonné durant onze siècles et qui est appelée à lui succéder (Moscou est la Troisième Rome, depuis que la fille du dernier Empereur Constantin XI Paléologue a épousé le Grand Duc de Kiev), n’aurait rien en commun avec l’Europe occidentale, à la seule exception de l’héritage gréco-romain, vu sous le prisme byzantin. C’est s’obnubiler sur l’importance du protestantisme et gommer sans plus Pierre le Grand, Catherine II et les philosophes, l’art et la littérature russes, et le bouclier qu’ont constitué durant des siècles pour les autres Européens les Russes et les Polonais contre les poussées asiatiques.

Pour ce qui est de l’intrusion de la Turquie dans l’Europe, le loup américain est sorti du bois, avec les injonctions à l’Union européenne de George Bush Jr (« La Turquie appartient à l’Europe ») et d’Obama. Alors que, au fil des siècles, elle s’est toujours manifestée comme un prédateur féroce et qu’elle a sans timidité poursuivi dans cette ligne avec Chypre, avec les Arméniens et avec les Kurdes.

A la différence de l’Oural, le Caucase est une véritable frontière européenne, avec l’embarras que les peuples caucasiens sont mélangés, Indo-européens chrétiens ou musulmans (Russes, Ossètes, Arméniens) et Caucasiens chrétiens (Géorgiens) et ne se trouvent pas toujours du bon côté de la chaîne. Pour la Russie, le poids historique de la Transcaucasie est trop important pour que Moscou puisse se retenir d’être ferme.

Il faut se souvenir que le peuplement de l’Europe s’est fait en trois phases : les peuples des mégalithes (dont ils ont couvert le continent de l’Irlande à Malte et du Portugal à la Scandinavie) ; ensuite les Caucasiens ou proto-basques, Alpins, Dinariques et Méditerranéens ; et enfin les Indo-européens, avec une vague italique suivie d’une vague barbare, celto-germanique et slave. L’identité de ces derniers, tangible dans leur culture, leurs arts plastiques, leur littérature et leur musique, les a toujours placés à l’égard des arabo-musulmans et des ottomans dans des rapports de force. Que leur paganisme ait cédé devant une religion orientale monothéiste est un fait mystérieux, bien que le christianisme s’y soit souplement superposé, reprenant ses fêtes et transformant ses héros en saints. A côté de racines gréco-romaines et bibliques, l’Europe a de puissantes racines barbares. Elle se confond jusqu’au XVIe siècle avec la chrétienté. Mais, avec la colonisation, l’Eglise catholique a retrouvé sa vocation mondialiste, à la différence de l’Eglise orthodoxe, russe, serbe, grecque, bulgare, qui est restée identitaire. Les racines chrétiennes de l’Europe ne sont donc que des racines parmi d’autres, mais il est significatif de constater que ce sont ceux-là mêmes qui lui refusent des racines chrétiennes qui lui en attribuent des musulmanes !

Conclusion : l’utopie de l’Eurosibérie est le seul espoir de survie des Européens.

Jean-Gilles Malliarakis promet que la pression turque va se renforcer sur le Parlement européen, où la gauche menée par Cohn-Bendit trouve face à elle diverses droites en principe hostiles à l’adhésion, malgré ses réseaux unanimement pro-turcs, malgé un Sarkhozy qui s’est dit défavorable, avec une perfide Albion, qui désire l’adhésion, et une présidence suédoise favorable, coachées par Obama et Mme Clinton. L’ami Mallia, Européen plus grec que nature, est contre bien sûr !

Sous le titre ‘L’Europe blanche’, Pierre Vial souligne que la mort voulue de l’Europe consiste bien à l’amener à trahir à son sang, en persuadant l’homme européen qu’il est ‘coupable de ce qu’il est’ (Guillaume Faye), qu’il a une dette à payer et qu’il s’en acquittera d’abord en se métissant. A ceux qui propagent ce sida mental, l’auteur dédie ce passage d’un chant de Lansquenets : « Un jour viendra où les traîtres paieront. » Il rappelle que la race européenne est très précisément définie dans de nombreux traités d’anthropologie. Seule la conscience de cette identité peut constituer le front commun contre l’invasion. Mais la simple évocation de cette réalité est une entreprise à haut risque. Pour la première fois depuis des millénaires, les peuples européens ne règnent plus sur leur propre espace. (Dominique Venner). Dénoncer la trahison que Platon qualifie de crime est devenu suspect, comme est suspect de citer Aristote qui avertit que l’absence de communauté ethnique est facteur de sédition politique. La fin de Rome est venue avec l’oubli de la loi du sang, quand saint Paul, qui se flatte d’être né dans un famille juive au sang pur, peut se réclamer de la citoyenneté romaine. Ce que l’Edit de Caracalla accorde en 212 à tous les habitants de l’Empire. Il faudra la menace d’Attila (451) pour réveiller la communauté de sang des Gallo-Romains et des Germains face aux Asiatiques, synthèse heureuse qui fait naître l’Europe du moyen âge. Et la menace du djihad pour fédérer, en 732, les Europenses de sang sous un chef franc Charles Martel. Et de citer Disraëli, premier ministre juif de la Reine Victoria : « La race est tout ; il n’existe pas d’autre vérité et toute race doit périr qui abandonne son sang à des mélanges. » Ce qui est le principe même du racialisme qui, au contraire d’être raciste, vise le respect mutuel de chaque race sur sa terre propre. Alors que la société multiraciale est inévitablement une société multiraciste.

C’est sur deux expériences de la pédagogie de Rudolf Steiner que se clôture ce numéro. Une pédagogie qui prône une approche différenciée selon le tempérament de l’enfant. Une pédagogie qui attend du maître qu’il trouve son ‘mode artiste’, en sachant se faire aux circonstances et à ses élèves. Le classement des steinériens au nombre des sectes est le fait de l’ignorance, sinon de la malveillance et du sectarisme. Si l’école Steiner est réservée à l’égard du consumérisme (usage immodéré de la télé par les enfants), elle est attentive à ne pas retrancher ceux-ci du corps social.

On notera encore la recension du dernier livre de Dominique Venner : ‘Ernst Jünger, un autre destin européen’, paru aux éditions du Rocher.

mardi, 22 septembre 2009

Université d'été 1995: la question du fédéralisme

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

Université d'été de la F.A.C.E. (juillet 1995)

Résumé des interventions

 

Samedi 29 juillet 1995 (après-midi)

 

Les équivoques du fédéralisme

(intervention de Christiane Pigacé)

 

Le fédéralisme peut être ce que nous souhaitons en ultime instance, mais pour souhaiter sans se fourvoyer, il faut être conscient, comme nous l'enseigne d'ailleurs Miglio, des équivoques du fédéralisme, même si le professeur italien opte finalement pour l'étiquette “fédéraliste” en abandonnant toutes les autres.

 

L'option fédéraliste de Miglio, comme toutes les autres options politiques qui animent les débats d'aujourd'hui, se profile sur fond d'une idéologie dominante pour laquelle les sciences politiques n'auraient plus de spécificité. Pour Lecat, par exemple, elles ne seraient plus que les expressions verbales d'énarques qu'étudieraient d'autres énarques. Les sciences politiques seraient ainsi reléguées en un vase clos. Or le politique, par définition, est partout, manifeste et bien visible ou occulté par les circonstances. En cas d'occultation prolongée, en cas d'amnésie du politique, son apparition ou sa ré-apparition se fait sentir, devient nécessité voire urgence. Parce qu'il y a crise, il faut des décisions, donc il faut une politique, il faut réactiver le politique qui était éventuellement en sommeil. Aujourd'hui, dans cette ambiance de “rectitude politique” où les sciences politiques ne sont plus que les discours des énarques revus et corrigés par d'autres énarques, les concepts-clés de ces sciences politiques ont été détournés de leur sens, parce que certains groupes financiers, dominant la sphère économique voire la fameuse “bulle spéculative”, poursuivent des objectifs bien particuliers: 1) asseoir un discours dominant d'où toute décision, tout esprit de décision, aurait disparu; 2) généraliser un champ de pures discussions. Sans décision et plongé dans d'interminables discussions [dans les parlements ou dans les médias], on finit par ne plus avoir besoin de légitimité historique, donc par évacuer les légitimités jusqu'à leurs dernières traces, tout en tentant un processus de légitimation de cette discussion perpétuelle. C'est donc dans cet espace équivoque que se meuvent aujourd'hui les sciences politiques. La classe dominante actuelle, le mandarinat contemporain, les politologues de cour se livrent donc à un travail constant de relecture, de reconstruction des concepts à fins d'évacuer la légitimité, de la refouler et de la neutraliser.

 

En 1789, au moment où les Français veulent évacuer une légitimité qui s'est enlisée, ils pensent utiliser la technique du suffrage universel pour en instaurer une nouvelle. Mais ce suffrage n'est que censitaire et ne capte pas tous les désirs et les vouloirs du peuple. Pour nous, le retour à 1789 ne doit pas être une volonté de restaurer l'ancien régime ou d'avaliser les projets et les pratiques d'une démocratie incomplète parce que censitaire ou purement représentative (avec risque de voir cette représentativité confisquée par des professionnels du jeu politicien), mais un retour à la pensée de Siéyes, qui a tenté un dernier effort pour reprendre un pouvoir qui échappait au peuple. Dans cette optique, l'homme d'Etat véritable est celui qui dit ce que le peuple veut dire et souhaiter son apparition au bon moment, quand le besoin de décision se fait sentir, constitue un idéal démocratique, contrairement à ce que veut nous faire croire l'actuelle “rectitude politique”.

 

Pour tous ceux qui s'opposent au fédéralisme, celui-ci est défini comme un abandon de “souveraineté”, sur le plan intérieur comme sur le plan extérieur. Mais la souveraineté n'est pas un idéal: elle relève de l'efficacité. La souveraineté est parfois latente. Elle existe dans la mesure où elle se fonde sur les identités et les légitimités européennes. C'est au fur et à mesure que celles-ci s'estompent ou disparaissent que la souveraineté se perd elle aussi. Les empires meurent d'uniformisation. Car l'uniformisation tue la diversité légitime, c'est-à-dire les adaptations politiques, juridiques, économiques aux lieux qui, de fait, sont toujours différents les uns des autres. Raison aussi pour laquelle aucun “fédéralisme” ne saurait s'imposer par décret et que tout fédéralisme décrété de cette façon n'aurait effectivement aucune légitimité et serait incapable d'exercer une quelconque souveraineté. Actuellement, le fédéralisme est équivoque, est entaché d'“équivocité” dans la mesure où il est un mélange inefficace d'administratif et de politique. Le fédéralisme ne peut être ni abandon de souveraineté (et de légitimité) ni uniformisation sécurisante. Signalons aussi que toute opposition binaire du jacobinisme au fédéralisme ne tient pas la route; le jacobinisme, au départ, est un phénomène essentiellement politique et non administratif, dans le sens où il visait à soutenir l'effort de guerre. Au départ, le jacobinisme n'a nullement prévu une centralisation uniformisante sur le plan administratif; on constate même, à l'analyse, que certains jacobins étaient fédéralistes.

 

Le débat fédéraliste en Italie

(intervention du Dr. Giorgio Mussa)

 

Dans les médias italiens et internationaux, le Prof. Gianfranco Miglio fait figure de “sécessioniste”, en tant qu'éminence grise de la Ligue du Nord. C'est depuis plusieurs décennies que Gianfranco Miglio réfléchit aux questions du fédéralisme. Pour lui, le fédéralisme tel qu'il l'a défini, constitue une réponse constitutionnelle à la crise politique européenne et plus particulièrement à la crise de cette forme politique spécifique qu'est l'Etat moderne.

 

Pour Miglio, une constitution est fédérale si elle vise à remplacer une ancienne constitution qui ne l'était pas; si elle vise à articuler la vie politique sur deux plans, un plan fédéral et un plan “cantonal”; si elle accorde toute leur place aux phénomènes sociaux horizontaux (les citoyens et les entreprises qu'ils animent); si elle manifeste le souci de respecter les traditions locales; si elle prévoit une économie de marché.

 

Sur base de ses investigations en matières constitutionnelles, Miglio propose, dans le cadre de la politique italienne actuelle de: 1) Partager l'Italie en trois cantons, avec compétences universelles; 2) de faire représenter l'unité de la nation italienne par les représentants suprêmes de ces trois cantons; 3) de faire du “directoire fédéral” l'organe collégial du gouvernement; 4) de prévoir une assemblée fédérale de 346 députés; 5) de séparer davantage le législatif de l'exécutif; 6) d'accorder à un Sénat des compétences pour trancher sur les principes fondamentaux; 7) d'adjoindre au législatif élu sur base de partis concurrents une chambre des corporations, représentatrice des forces vives de la nation et des cantons; 8) d'adopter un fédéralisme fiscal.

 

dimanche, 20 septembre 2009

Rusia y Dinamarca estudian tender el gasoducto Nord Stream por territorio danés

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Rusia y Dinamarca estudian tender el gasoducto Nord Stream por territorio danés

El jefe del Gobierno ruso, Vladímir Putin, sostuvo hoy una conferencia telefónica con su homólogo danés Lars Lokke Rasmussen, con quien estudió la posibilidad de tender el gasoducto Nord Stream (Corriente Norte) a través de la zona económica exclusiva de Dinamarca.

“Las partes examinaron la posibilidad de construir un tramo del gasoducto en la zona económica exclusiva de Dinamarca”, informó el portavoz del Gobierno ruso, Dmitri Peskov.

Al principio, cuando el proyecto llevaba el nombre de Gasoducto de Europa del Norte, se pensaba tenderlo hasta el Reino Unido. Pero luego, los parámetros del proyecto cambiaron y recibió el nombre de Nord Stream. Finalmente se decidió tenderlo hasta el territorio alemán.


El gasoducto Nord Stream será una nueva ruta de exportación del gas ruso principalmente a Alemania, Reino Unido, Holanda, Francia y Dinamarca. Su extensión alcanzará 1.220 km y el primer tramo deberá entrar a funcionar en 2010.

Extraído de RIA Novosti.

~ por LaBanderaNegra en Septiembre 16, 2009.

jeudi, 17 septembre 2009

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda economica

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda económica

Kosovo y Estados Unidos firmaron este lunes su primer acuerdo bilateral de ayuda económica, centrado en las infraestructuras, aunque el monto no fue precisado, anunciaron fuentes oficiales en Pristina.

“La ayuda se destinará al desarrollo (de Kosovo) y en particular a las diferentes infraestructuras, y en consecuencia a la economía, los transportes y la educación”, declaró el presidente kosovar, Fatmir Sejdiu.

El canciller kosovar indicó en un comunicado que otro acuerdo de 13 millones de dólares fue firmado con Estados Unidos para reforzar el Estado de derecho en Kosovo.

El ministro de Relaciones Exteriores, Skender Hyseni, indicó que la ayuda sería empleada en crear “una estructura legal estable” en Kosovo.


Estados Unidos fue uno de los primeros países en reconocer la independencia de Kosovo, proclamada de manera unilateral en febrero de 2008.

Belgrado no reconoce la independencia y considera que Kosovo es una provincia serbia.

Extraído de Univisión.

~ por LaBanderaNegra en Septiembre 14, 2009.

dimanche, 13 septembre 2009

Gerbert l'Européen

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Gerbert l'Européen 

 

En 1996, un colloque consacré à Gerbert, le pape de l'an Mil, Sylvestre II, a eu lieu à Aurillac. Les actes de ce colloque viennent d'être publiés sous le titre de Gerbert l'Européen.  Pierre Riché écrit en introduction à propos de Gerbert, alors archevêque de Reims: «Il attire de nombreux élèves venus de toutes les régions de l'Europe. Son école rayonne même en Lotharingie, en Italie, en Germanie. Un écolâtre de Magdebourg étonné par ce succès, envoya un de ses étudiants saxons pour prendre des notes au cours de Gerbert à Reims. Malheureusement, il n'était pas compétent et fit à son maître un rapport inexact. Gerbert devait prouver sa supériorité à Ravenne en 981. Pour son élève Otton III, il écrivit un traité de logique. Ses connaissances sur l'astrolabe à partir de 983 sont l'objet de discussions mais sa lettre à Lobet de Barcelone, traducteur d'un traité arabe, prouve qu'il s'intéresse à la question. La construction de son abaque fait penser qu'il connaît l'existence des chiffres arabes. Sa science musicale est indéniable . Après sa mort, les disciples de Gerbert ont vanté ses mérites et de nombreux manuscrits contenant ses œuvres authentiques ou non ont été diffusés. Gerbert a si bien redonné vigueur à l'enseignement de la dialectique et des sciences qu'il inquiète les clercs de son époque. En cela, il rappelle Boèce qui était son modèle, et dont il connaît les œuvres. Comme lui, Gerbert est un homme de science, son Dieu n'est pas tellement celui d'Abraham, d'Isaac et de Jacob, mais le Dieu des philosophes et des savants. Comme Boèce, il croit que Dieu est le Bien suprême, celui qui régit le monde, qui organise l'harmonie des sphères et détient les Idées; comme Boèce, la philosophie est sa consolation: “La philosophie est le seul remède que j'ai trouvé... J'ai préféré les loisirs de l'étude qui ne trompent jamais aux incertitudes et aux hasards de la guerre”. C'est à ses amis d'Aurillac qu'il écrit cette lettre à une époque de difficultés, car Gerbert l'Européen qui connaît la Catalogne, Rome, Reims, Ravenne, la Saxe, les pays slaves, est resté fidèle à son monastère d'Aurillac et trouve auprès de ses anciens maîtres un réconfort. C'est en pensant à ses maîtres d'Aurillac qu'il a écrit: “La gloire du maître, c'est la victoire du disciple”». Les actes regroupent vingt-trois interventions d'universitaires et chercheurs français et étrangers (JdB).

 

Gerbert l'Européen, Comité d'expansion économique du Cantal, Hôtel du Département , F-15.000 Aurillac. 364 pages. 195 FF.

 

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samedi, 12 septembre 2009

Entra en vigor en Italia la ley que tipifica la inmigracion clandestina

Entra en vigor en Italia la ley que tipifica la inmigración clandestina

ROMA (NOVOpress) – Hoy entran en vigor en Italia la ley que tipifica como delito la inmigración clandestina y la que contempla la creación de rondas de vigilancia de ciudadanos que prestarán apoyo a los cuerpos de seguridad italianos ante el aumento de la delincuencia, impulsadas por el Ministro de Interior Roberto Maroni, de la Lega Nord. 

 

Hay muchos equívocos. Hemos percibido un fenómeno difuso y por esto lo hemos decidido regularizar, dando a los alcaldes la posibilidad, si lo quieren, de organizar estas actividades”, comenta Maroni.

La ley salió adelante con los votos a favor, fundamentalmente del partido identitario padano Lega Nord impulsor de la iniciativa y tipifica como delito la inmigración clandestina y prevé multas de hasta 10.000 euros y la expulsión inmediata para los que no tengan los papeles en regla. Asimismo, se penará con la cárcel a quienes alojen o alquilen habitaciones a los inmigrantes que se encuentren en situación irregular.
De igual manera la ley, establece la posibilidad de que los ciudadanos organicen rondas o patrullas urbanas no armadas, cuya misión es dar aviso a la policía y garantizar la seguridad nocturna de los italianos. Dichas rondas estarán compuestas, prioritariamente, por ex carabineros y policías, que cuenten con al menos 25 años de edad y no tengan antecedentes penales. Además, está en manos de las administraciones locales la posibilidad de adoptar o no estas medidas de seguridad ciudadana.
Dichas medidas traen causa de una ola de violaciones acaecidas en Roma, Bolonia y Milán perpetradas por extranjeros y que conmocionaron a toda la sociedad italiana.
“Ya hemos impedido que los barcos llenos de clandestinos lleguen a nuestras costas, hoy, nos ocupamos de aquellos que viven en nuestro suelo, de la criminalidad, del tráfico de droga y la prostitución, a esa gente no la queremos aquí” señaló Federico Bricolo de la Lega Nord. Por su parte, el Ministro Maronia ha señalado que debido a estas medidas se congratula de “haber detenido los flujos de inmigración ilegal desde Libia”
Estas medidas ya fueron adoptadas por el consejo de Ministros y fueron definitivamente aprobadas por el Parlamento italiano entrando en vigor en el día de hoy, en lo que supone uno de los mayores avances europeos en la lucha contra la inmigración, la delincuencia y defensa de la identidad.

[cc [1]] Novopress.info, 2009, Texto original cuya copia y difusión pueden ser libres siempre que se mencione la fuente de procedencia [http://es.novopress.info [2]]


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Céline et l'homme européen

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« Céline et l’homme européen »

[1964]

Reproduit dans le "Bulletin célinien", n°262, mars 2005

 

Que pensait un jeune nationaliste européen de Céline dans les années soixante ? On peut s’en faire une idée en lisant cet article publié en 1964 dans la revue de Jean Thiriart (1922-1992), L’Europe communautaire. Céline n’échappait alors pas à une lecture très politisée de son œuvre. Un document.

 

   On a voulu tuer Céline, on a voulu faire taire ce corps et cette âme qui clamaient à la face du monde le dégoût qu’ils avaient des hommes, on a voulu éteindre cet incendie de vérité qui s’est allumé en 1932. Ils ont échoué dans leur entreprise criminelle ; aujourd’hui, plus que jamais, Céline revit en nous. Des livres, des études ont été consacrés au prophète de la décadence occidentale. La Pléiade lui consacre un ouvrage... Céline occupe dans l’histoire de la littérature européenne, avec Drieu La Rochelle et Brasillach, une place incontestable.

 

   Dans son œuvre, quelle est la place de l’Europe ; de cette Europe qu’avec beaucoup d’écrivains et d’hommes politiques, il prévoyait et espérait ?

 

   Le problème ici n’est pas de découvrir subitement un Céline politique : il avoue lui-même, dans plusieurs ouvrages et interviews, que seule la médecine l’intéressait et que, par ce biais, il a débouché dans un monde en folie, dans une France décadente, dans une Europe avortée. Plus qu’une conception politique, Céline avait de l’homme européen une conception quasi médicale ; plus que le continent, c’était l’homme qu’il voulait réformer.

   Dans D’un château l’autre il fustige les Français : « La sensibilité européenne s’émeut que pour tout ce qu’est bien anti-elle ! ennemis avérés ! tout son cœur ! masochisse à mort ! » Il prouvait par cette phrase qu’avant comme après la guerre, sa volonté de réforme était demeurée intacte.

 

De Bardamu au surhomme

 

   La première qualité que nous, Européens, devons reconnaître à Céline, c’est d’avoir dépeint magnifiquement et réellement nos défauts, vices et manies. Dès le Voyage au bout de la nuit, la fresque est esquissée ; à travers Bardamu, c’est le fond le plus lâche, timoré et vicieux de l’homme européen qu’il dépeint ; il en fait son credo, sa raison même de vivre : « Quand on sera au bord du trou faudra pas faire les malins, nous autres, mais faudra pas oublier non plus, faudra raconter tout sans changer un mot de ce qu’on a vu de plus vicieux chez les hommes et puis poser sa chique, puis descendre. Ça suffit comme boulot pour une vie tout entière » (Voyage au bout de la nuit).

 

   Le Français y est malmené, secoué comme un fétu de paille, submergé sous un flot de reproches assénés par une plume au vitriol. Mais l’homme malmené du Voyage au bout de la nuit à Nord n’est pas seulement le Français, c’est l’Allemand, l’Anglais, l’Américain... En un mot, l’homme blanc. Et si Céline s’emporte à propos des vices proprement spécifiques aux Français (le vin, poison national), il n’en néglige pas pour autant les tares de tous les autres Blancs. C’est cet homme qu’il attaque à travers des pages mouillées de bave rageuse, cet homme décadent. Bardamu – car c’est lui – si faible et si timoré dont le seul courage – mais un courage héroïque, propre à celui qui, se souvenant de sa grandeur passée se sent retomber dans la fange –, est une lucidité effroyable et cynique de son état. Bardamu, mais un Bardamu sans courage, c’est l’homme européen d’aujourd’hui, timoré, exclusivement jouisseur, négrophile, ayant perdu la fierté de son passé et de sa race ; et Céline de vaticiner une apocalyptique humanité de bâtards négrifiés, tous « ahuris par les Juifs au saccage, hypnotisés, dépersonnalisés, dressés aux haines absurdes, fratricides... » (L’École des cadavres). Ces Français, ces Européens, le docteur Céline les a bien connus, tâtés, diagnostiqués : foies cirrhosés, estomacs dilatés, yeux glauques... C’étaient eux, la race des seigneurs. Plus qu’un autre, il a réveillé les Aryens de leur torpeur à grands coups de gifles, il secouait leur apathie, leur incroyable naïveté, leur instinct de lucre et de jouissance...

   Mais mieux qu’un Savonarole, Céline a tracé le chemin de la Réforme.

 

Le Procès de l’Humanité

 

   Ce n’est pas tout de ramener l’homme à ce qu’il est vraiment, encore faut-il comparer les hommes entre eux, faire le procès de l’humanité, des races. Le mérite de Céline est d’avoir été scrupuleusement objectif ; s’il tempête contre les juifs, il lance à l’Aryen des épithètes peu flatteuses. Mais si l’Aryen est décadent, à qui la faute ? À son insatiable appétit de jouissance et, écrit Céline, si l’Aryen est devenu tellement jouisseur, la faute en revient aux juifs qui, poussés par le démon de l’argent, feraient n’importe quoi pour amener les gentils à acheter leurs marchandises et leurs idées. Le juif pour Céline est l’obsession, la hantise. Rendus responsables de tous les maux de l’humanité, Céline les aurait inventés s’ils n’avaient pas existé, tant ils nous apparaissent comme de parfaits boucs émissaires,  trop  parfaits  même.  Le  mot « juif », à force d’être écrit et martelé dans toutes les phrases, finit par devenir le symbole même de la décadence occidentale... Il n’émeut plus, et ce mot, dépassant son sens étymologique, constitue en fin d’analyse les quatre lettres symboliques de décadence, sans pour autant  qu’il faille  conclure  que le  mot « juif » signifie encore israélite.

 

   C’est à travers ces diatribes anti-juives qu’il fouette les Français, les Européens... Peuples paresseux, lâches, ahuris par l’argent, l’envie, l’alcool. « La France est extrêmement vendue, foie, nerf, cerveau, rognons aux grands intérêts vinicoles ». Peuple gourmand aussi, qui règle ses conflits diplomatiques autour d’une table bien garnie et dont les ministres promènent à l’envi leurs grosses bedaines satisfaites. Peuple où tout est conçu pour les sens... peu pour l’esprit. Et par-dessus cet amas de vices, viennent se greffer la haine et la méfiance, tous les hommes se méfient les uns des autres, construisent leur petit monde personnel, écartent le voisin. « Faire confiance aux hommes, c’est déjà se tuer un peu » (Voyage au bout de la nuit). Voilà pour le juif, voilà pour l’Aryen.

 

   Le nègre ne hante pas Céline : les Noirs, il les a connus tout au long de ses périples africains, nus et sauvages ; il a décrit leur situation dans les colonies avec réalisme et sincérité... ce qu’il n’aimait pas chez eux, a-t-il écrit dans Bagatelles pour un massacre, c’était surtout le bruit du tam-tam.

 

   Il ne pouvait deviner avant la guerre, la décolonisation, la « civilisation » ultra-rapide des fils de l’anthropophage. Il ne les prend guère au sérieux... Il a décrit avec sincérité certains mauvais traitements auxquels ils étaient soumis sous le drapeau français, il a fort bien raconté la vie des coloniaux, ces hommes d’Occident qui se décomposaient corps et âme sous le soleil meurtrier d’Afrique et qui se défoulaient parfois sur le nègre. Céline néglige le Noir, ce dernier ne peut être à l’heure actuelle un facteur de décadence, du moins tant qu’il reste en Afrique.

   Reste le Jaune : « Le jaune a toutes les qualités pour devenir le roi de la terre ». Céline ne cache pas l’admiration qu’il porte aux Asiatiques, il admire leur ascétisme, leur calme, leur impassibilité stoïque ; mais il les craint. Avant sa mort, le Jaune était devenu son obsession ultime, il voyait les hordes asiatiques jaillir en Europe et trucider allègrement les Aryens. Ce devait être sa dernière hantise.

 

Vers une ascèse européenne

 

   « On a honte de ne pas être plus riche en cœur et en tout et aussi d’avoir jugé quand même l’humanité plus  basse qu’elle  n’est vraiment au fond ». Après  avoir fait un procès terrible de l’humanité, Céline s’apaise et accorde aux hommes des qualités et des élans qui existent, cachés certes, mais qui, découverts, peuvent conduire un être vers le sommet de ses réalisations.

 

   L’ascétisme, voilà un grand mot pour définir une doctrine célinienne des hommes, ne voyons pas dans ce mot, somme toute fort bizarre, une forme mystique, a fortiori métaphysique ; Céline ne rêve pas de l’Européen ascète comme un Chinois ni comme un moine contemplatif, mais plutôt comme un guerrier nordique qui sait affronter la vie dans les meilleures conditions physiques et morales. L’homme devrait être une espèce de chevalier celtique qui sur son cheval se dirige dans une plaine battue par les vents, tout droit, l’œil fixé sur son but et indifférent à la tempête.

 

   Il ne faut pas non plus croire que l’homme européen devrait être « la belle bête sauvage » de Nietzsche, ou un surhomme en puissance ; ce serait se tromper lourdement sur les buts réformateurs de Céline. Buts qui ne visent qu’à rendre à l’homme une place conforme à ce qu’il est en réalité. Il n’y a pas de dépassement de la nature humaine souhaité par L.-F. Céline.

 

   Car s’il est vrai que l’homme est descendu bien bas, que l’Européen est menacé dans son existence même, il ne peut être sauvé qu’en vivant en conformité avec sa nature de mortel ; seul, écrit Céline, un ascétisme bien compris (un ascétisme à la Labiche, pour l’imiter) permettra à l’homme de contrôler et son corps et son esprit. Écoutons Céline répondre à l’écrivain belge Marc Hanrez qui lui demandait si, selon lui, la race future de l’humanité serait une race d’ascètes. « Ah, uniquement une race d’ascètes ! Des ascètes qui feraient une cure effroyable pour éliminer toutes ces tendances vers la tripaille... Autrement, c’est un monstre. On essayerait d’élever des cochons comme on élève les hommes ; personne n’en voudrait ; des cochons alcooliques ! Nous sommes plus mal élevés que les cochons, beaucoup plus mal élevés que les chiens, les canards ou les poules... Aucune race vivante ne résisterait au régime que suivent les humains. »

 

   Les fondements de cette doctrine de l’ascétisme se retrouvent à partir des pamphlets dont le style si différent des romans est lui-même un instrument éducateur. Comparer Bagatelles pour un massacre à La France juive d’Edouard Drumont serait comparer un volcan à un verre d’eau bouillante. Par le style même, Céline arrache le lecteur de sa béatitude bourgeoise, il le force à suivre, bon gré mal gré, un flot impétueux, dont les remous sont autant de coups infligés aux consciences reposées.

   C’est d’ailleurs la grande révolution des lettres françaises de ce siècle que ce style dont l’originalité et la subtilité ne sont plus à décrire... Car s’il y eut de grands moralistes, de grands réformateurs, force nous est de constater que pas un seul n’a remué autant ses lecteurs que Céline, pas un seul ne put être lu à la fois par l’ouvrier et l’intellectuel, aucun n’a osé appeler les choses par leur nom. La conception de l’homme chez Martin Heidegger – toute considération métaphysique mise à part – et chez Louis-Ferdinand Céline se rejoignent. L’existence de Bardamu, à cette différence près que le docteur Bardamu refuse de réaliser toutes ses possibilités, est que son long voyage au bout de la nuit n’est éclairé par aucun éclair de puissance extrahumaine.

 

La fraternité européenne

 

   « Haïr les Allemands est un acte contre nature ». Cette phrase de Céline que de Gaulle serait normalement le dernier à désapprouver est significative de l’esprit européen de son auteur. Voyageur, l’écrivain a connu l’Europe, l’Amérique et la Russie, il a vécu en Allemagne, en Angleterre, en Scandinavie. Spécialiste des hommes, Céline a compris combien au sein d’un groupe déterminé, les Européens par exemple, les différences artificielles s’estompent. C’est au nom de sa connaissance profonde de l’Européen qu’il se refusera à une guerre voulue – selon lui – par les juifs et les francs- maçons. Sa réponse à Maurras qui préconisait : « Ni Berlin ni Moscou » est significative, elle aussi, de son esprit européen... « Ce n’est pas “Ni Berlin, ni Moscou”, c’est “Avec les juifs ou contre les juifs' » (L’École des cadavres).

 

   Ayant vécu la guerre de 1914, il se permet tout contre elle, lui crache à la figure, l’engueule comme un charretier. Pol Vandromme devait écrire que Céline parle de la guerre non pas avec son cœur, mais avec ses entrailles. « Les Aryens d’Europe n’ont plus trente-six cartes dans leur jeu, deux seulement. La “carte anglaise”, et ils cèdent une fois de plus à l’Intelligence Service, se jetant une fois de plus dans le massacre franco-allemand, dans la plus pharamineuse, fulgurante, exorbitante, folle boucherie qu’on aura jamais déclenchée dans le cours des siècles (peut-être pour la dernière fois : les jaunes sont aux portes !) » (L’École des cadavres). Pourtant, contrairement aux pacifistes de nos jours, qui se prostitueraient au premier envahisseur venu, Céline, après avoir été le chantre du pacifisme, ira s’engager comme volontaire en 1939, opposant ainsi un démenti formel à ceux qui l’accusaient de lâcheté.

 

   Il désire ardemment une Europe « des Aryens » comme il l’appelle, ce qui dénote quand même un sens européen quelque peu obsessionnel.

 

   Mais ce qu’il désire par-dessus tout, c’est la fraternité européenne ; cette fraternité sans cesse violée le long de l’histoire par les caprices et les désirs des « grands » de ce monde. « Nous sommes séparés de l’Allemagne depuis 1100 ans de merde, de conneries furieuses, 1100 ans de mensonges sans arrêt, de trémolos ignobles, de palliatifs vaseux, de rémissions louches, de revanches toujours plus infectes, de solutions pourries » (L’École des cadavres).

 

   Et le voilà à vaticiner sur une Europe future franco-allemande. « Ensemble on commandera l’Europe » (L’École des cadavres), une Europe où toutes les haines «européennes seront sublimées contre les allogènes. Il faut de la haine aux hommes pour vivre, soit ! c’est indispensable, c’est évident, c’est l eur  nature.  Ils  n’ont  qu’à l’avoir pour les juifs, cette haine, pas pour les Allemands » (L’École des cadavres).«La guerre franco-allemande est la condition même, l’industrie suprême de l’Angleterre. C’est la prospérité anglaise toute cuite » (L’École des cadavres).

 

   Non, Céline ne comprenait pas fort bien toute la complexité du problème européen en 1939, et ce n’est certes pas en 1964 que nous devrions appliquer les idées d’un homme de génie, mais dont le « canular » était une raison d’être... Qu’on s’entende bien, je ne conteste pas un certain sens politique à Céline, mais de par son esprit sectaire et exclusif, Céline a faussé, consciemment ou non, beaucoup de données.

 

    Il n’empêche que les pages consacrées à la réconciliation européenne restent des exemples d’une volonté prête à tout faire pour réaliser cette union tant attendue.

 

La morale de l’histoire

 

    Et maintenant que ce souffle prodigieux qui ébranla l’Europe est tombé, que devons-nous attendre de celui qui écrivait dans Les beaux draps : « Une société civilisée, ça ne demande qu’à retourner à rien, déglinguer, redevenir sauvage, c’est un effort perpétuel, un redressement infini... »

   Tout d’abord, une grande leçon.

 

   Les prédictions de Céline se sont réalisées : depuis 1945, l’Europe agonise ; battue, divisée, des soldats étrangers se partagent son territoire, son indépendance économique et politique a disparu. À quand ce qui lui reste d’indépendance culturelle ? Partout nous avons été humiliés, en Algérie où nos soldats quasi vainqueurs ont amené le drapeau sous les huées de la foule et pour la plus grande gloire du communisme et du capitalisme international ; au Congo où nos femmes, nos filles, nos hommes ont été violés ou massacrés, alors que nous ministres traînant leurs gros ventres bégayaient vaguement à l’ONU des paroles de pleutres, de masochistes, de sous-hommes. Partout nous avons été chassés comme de la vermine sans que nous ayons accompli un geste d’homme fort, nous avons quitté le monde, honteux de nous-mêmes et de notre passé... Nous avons laissé au communisme et à l’américanisme l’Indochine française, l’Algérie française, le Congo belge, le Goa portugais, demain peut-être nous leur donnerons l’Angola portugais, l’Afrique du Sud européenne... À moins qu’un ultime sursaut de défense ne vienne nous tirer de notre béate torpeur – de notre merde, dirait Céline.

 

   Nos pays eux-mêmes sont en décomposition : putrides, ils sombrent dans la fange d’un démocratisme honteux et dégradant et dont la démagogie est le plus bel appel à la jouissance matérialiste et concupiscente que nous ayons eu en 2000 ans de Gloire et d’Histoire !

 

   Et que dire alors du peuple européen ahuri par la course à l’argent, par la furie de la jouissance qui le pousse à toutes les prostitutions, à tous les marchandages, à toutes les hontes possibles ?

   Que reste-t-il d’une jeunesse dévirilisée, « yéyétisée », ivre de « vivre », croupissant dans le bourbier du matérialisme jouisseur et despote qui règne en maître actuellement ?

 

   Il faut que le message de Céline résonne à nouveau, tel un oracle à nos oreilles, il faut que se relève de son ignominie l’homme d’Occident déchu. Le message de Céline doit être pour nous un message d’espoir et non le glas de notre destin.

   Revenons à un style de vie plus naturel, adapté à notre tempérament et à nos espérances. Retrouvons l’exacte mesure des choses et des hommes…

   Sinon, le jour de notre décadence, l’énorme rire dionysiaque et prophétique de Louis-Ferdinand Céline nous poursuivra jusque dans notre tombeau.

 

Georges DOMINIQUE

(L’Europe communautaire, 1964)

vendredi, 11 septembre 2009

Marx en de hoofddoek

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Marx en de hoofddoek

Geplaatst door yvespernet

De discussie over de hoofddoek verhit de gemoederen steeds meer aan de athenea. Het is duidelijk dat een groep moslim(a’)s een agressieve campagne voeren tegen mensen die de hoofddoek vrijwillig willen maken en die tegen het secularisme in de scholen zijn. Op deze manier ontdekken ze ook eens dat pluralisme effectief pluralisme is en dus niet de dominantie van één mening. Maar een ander nieuwsfeit sloeg toch weer alles. Wie deed immers olijk mee met het protest op het hoofddoekenverbod?

http://www.socialisme.be/lsp/archief/2009/09/07/actieverbod.html

Met de Actief Linkse Scholieren hebben we deelgenomen aan de protestacties tegen het hoofddoekenverbod, ook al zijn wij niet de organisatoren van het protest.

En wat willen ze daar mee bereiken? Het beeld krijgen dat marxisten opeens de kant kiezen van islamisten? De LSP pakt op hun webstek van tijd tot tijd uit met verwijzingen naar de Spaanse Burgeroorlog. Een oorlog waarbij linkse militanten gekend waren voor hun aanvallen op de clerus en religieuze symbolen. En nu zouden ze opeens moeten gaan kiezen voor het toelaten van de hoofddoek? Dat ze aan de extreem-linkse kant al een lange tijd aan ideologische bloedarmoede lijden is geweten, maar dit slaat toch alles. Dat ze hun communistische literatuur over religie toch nog maar eens opnieuw lezen…

Mijn mening over dit alles? Geef de moslims hun eigen onderwijs, zoals de Joden hebben, maar dan gericht op het terugkeren naar het land van herkomst. Wij zijn van de vreemdelingenproblematiek af en de landen van herkomst hebben een opgeleide elite die het land socio-economisch hervitaliseren. Een win-win-situatie dus.

jeudi, 10 septembre 2009

PRESSESCHAU (Sept. 09 - 1)

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PRESSESCHAU - September 2009 (1)

Einige Links. Bei Interesse anklicken...



Afghanistan-Krieg
Obama will mehr Soldaten von Deutschland
Der August wird der Monat mit den höchsten Verlusten für die USA in Afghanistan seit Beginn des Militäreinsatzes. US-Präsident Obama fordert nach SPIEGEL-Informationen nun mehr deutsche Truppen – allerdings machen der Bundeswehr am Hindukusch schon jetzt Personalnot und marode Ausrüstung zu schaffen.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,645785,00.html

Weißer Südafrikaner als Flüchtling anerkannt
Kanada hat einen weißen Südafrikaner als „rassistisch Verfolgten“ anerkannt. Der regierende ANC tobt. Der Mann war insgesamt sieben Mal von Schwarzen überfallen worden. Er gab an, die Regierung unternehme nichts in Sachen Kriminalität gegen Weiße. Die Einwanderungsbehörde befand, daß der Weiße „eher ein Opfer wegen seiner Rasse als ein Opfer von Kriminalität ist“. Anerkennung eines Rassismus gegen Weiße – im politisch korrekten Europa unvorstellbar!
http://www.pi-news.net/2009/09/weisser-suedafrikaner-als-fluechtling-anerkannt/
http://afrikaner-genocide-achives.blogspot.com/

Weißrußland
Lukaschenko gesteht Wahlfälschung – nach unten
http://www.welt.de/politik/ausland/article4414017/Lukaschenko-gesteht-Wahlfaelschung-nach-unten.html
http://diepresse.com/home/politik/aussenpolitik/504697/index.do?from=gl.home_politik

Israel
Olmert wegen Korruption angeklagt
http://www.faz.net/s/RubDDBDABB9457A437BAA85A49C26FB23A0/Doc~EE6EAC992EF52477E833BA2DE0ED27A69~ATpl~Ecommon~Scontent.html
http://de.euronews.net/2009/09/01/israels-justiz-greift-in-der-polit-szene-durch-/

Schutz Homosexueller soll ins Grundgesetz
HAMBURG. Die Hamburger Bürgerschaft setzt sich dafür ein, den Schutz Homosexueller vor Diskriminierung im Grundgesetz zu verankern. Sowohl die Regierungsparteien CDU und Grüne als auch die oppositionellen Sozialdemokraten haben angekündigt, einem solchen Antrag zuzustimmen.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M50ba891e14d.0.html

Studie
Finanzkrise vernichtete bislang 10,5 Billionen Dollar
Von Martin Greive
Ein Jahr nach der spektakulären Pleite der US-Investmentbank Lehman Brothers kommt die ganze Wahrheit ans Licht. Laut einer aktuellen Berechnung für WELT ONLINE hat der Kollaps der Finanzwirtschaft weltweit einen Schaden von 10,5 Billionen Dollar verursacht – davon ein beträchtlicher Teil in Deutschland. Doch der Crash hat auch etwas Gutes.
http://www.welt.de/wirtschaft/article4418941/Finanzkrise-vernichtete-bislang-10-5-Billionen-Dollar.html

Extrem-Geothermie
Forscher holen Hitze aus Hannovers Boden
Von Henning Zander, Hannover
In Deutschland läßt sich die Erdwärme kaum nutzen, dachte man bisher. Forscher wollen nun das Gegenteil beweisen. In der norddeutschen Tiefebene bohren sie ein vier Kilometer tiefes Loch. Die Hitze aus dem Inneren der Erde könnte Deutschlands Energieproblem lösen.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/0,1518,646096,00.html

Günter Kießling
Einst gedemütigter Bundeswehr-General gestorben
http://www.focus.de/politik/deutschland/guenter-kiessling-einst-gedemuetigter-bundeswehr-general-gestorben_aid_430529.html

Streit um Hessischen Kulturpreis beigelegt
Christliche Preisträger nun doch für Kermani
http://www.faz.net/s/Rub9B4326FE2669456BAC0CF17E0C7E9105/Doc~E105DF3DDEDC344F3AC870C478B9E3A96~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Euthanasie
von Karlheinz Weißmann
Die Interviews auf der letzten Seite von „Bilder und Zeiten“ können mich immer wieder überraschen. Oft bittet die FAZ jemand zum Gespräch, dessen Name mir noch nie begegnet ist. So auch im Fall von Carl-Henning Wijmark, einem schwedischen Autor, der seinen Ruhm vor langer Zeit mit einer „pornographischen Nazi-Satire“ begründete und seit Beginn des neuen Jahrhunderts als „Vordenker der Demographie-Debatte sichtbar“ wurde.
Sei dem, wie dem sei. In dem Interview, das Wijmark am vergangen Sonnabend gegeben hat, ging es jedenfalls um Euthanasie und vor allem um die Tendenz in seiner skandinavischen Heimat wie in der Schweiz, den Niederlanden und Belgien, aktive Sterbehilfe an alten Menschen zu legalisieren.
http://www.sezession.de/6670/euthanasie.html#more-6670

Menschwerdung
von Anni Mursula
Seit dem Zweiten Weltkrieg ist in Deutschland wohl kaum etwas so heilig wie die Menschenwürde. Sie ist der unantastbare Kern des Grundgesetzes und steht niemals zur Diskussion.
Doch in der Realität gilt der Schutz der Menschenwürde nicht für das ungeborene Leben. Um die Argumentation für die Abtreibung dennoch ethisch und gutmenschlich akzeptabel zu machen, wird immer suggeriert, daß ein Embryo erst Mensch werden muß, um die Menschenrechte zu erhalten.
Wo dieses Menschsein anfängt, wird beliebig verschoben: Mal ist es nach der Einnistung des Embryos, mal nach der zwölften Schwangerschaftswoche, mal ist eine vermutete Behinderung des Ungeborenen Grund genug, ihm das Lebensrecht abzusprechen. Wird eine Behinderung diagnostiziert, kann das Kind bis zum Einsetzen der Wehen abgetrieben werden. (Vorausgesetzt die Mutter sagt, sie komme damit psychisch nicht zurecht.)
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M52e05a9d96d.0.html

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Ziemlich scharfer, aber letztlich doch recht treffender Kommentar aus der Diskussion zur Abtreibungsfrage im JF-Leserforum:

(...) Abtreibung ist illegitim, sofern sie aus Egoismus und Lebensfeindlichkeit geschieht. Anders sieht es bei der kriminologischen (nach Vergewaltigung) und der medizinischen Indikation aus (bei Lebensgefahr für die Mutter bzw. schwerer Schädigung des Kindes). Hier halte ich Abtreibung für absolut legitim und notwendig.

Wem ist damit gedient, wenn Paare mit Kinderwunsch nach der Geburt eines schwerbehinderten Kindes, das nun ihre lebenslange Fürsorge verlangt, so gebunden sind, daß sie in der Folge häufig auf weitere Kinder verzichten, obwohl sie aller Wahrscheinlichkeit noch gesunden Nachwuchs hätten haben können? Auch dies ist lebensfeindlich, da im Ergebnis das biologische Aussterben dieser Erblinien steht. Ich weiß nicht, was daran konservativ sein soll.

Deshalb stehe ich auch der Pränatal- und Präimplantationsdiagnostik keineswegs negativ gegenüber. Sofern sie verantwortungsvoll eingesetzt werden (d.h. lebensdienlich und damit im besten Sinne konservativ), können derartige eugenische Maßnahmen durchaus ein Segen sein. Darüber sollten die christlich-konservativen Heuchler und Pharisäer mit ihrem wie eine Monstranz vor sich hergetragenen Gutmenschentum mal nachdenken!

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Rot-Rot-Grün
Linke träumen von der Macht im Land
Die Landtagswahlen könnten eine historische Zäsur bedeuten. Möglicherweise wird es erstmals rot-rot-grüne Landesregierungen geben – gleich im Doppelpack. Sowohl im Saarland als auch in Thüringen zeigt sich insbesondere die Linke enorm stark. Schon warnen die Mahner.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,645908,00.html

Planmäßige Ausgrenzung
Von Mina Buts
Darf ein guter Pfadfinder heutzutage ein Zugabteil mit Jugendlichen vom Freibund teilen? Die Antwort lautet ganz klar: Nein, darf er nicht! Zu groß ist die Gefahr, etwas von dem Gedankengut, das im Freibund vertreten wird, könne auf die Pfadfinder übertragen werden.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M57eedf1305f.0.html

Einer der ewigen Stichwortgeber hat sich mal wieder gemeldet
GdP-Vorsitzender Konrad Freiberg: Polizei warnt vor Gewalt durch Neonazis
http://www.focus.de/politik/weitere-meldungen/rechtsextremismus-polizei-warnt-nach-festnahme-von-bombenbauer-vor-eskalation_aid_430369.html

Attac-Geschäftsführerin Sabine Leidig wechselt zur Linkspartei
http://www.pressrelations.de/new/standard/result_main.cfm?r=380104&sid=&aktion=jour_pm&quelle=0&n_firmanr_=109361&pfach=1&detail=1&sektor=pm&popup_vorschau=0
http://www.bild.de/BILD/regional/frankfurt/dpa/2009/08/28/spitzenkandidatin-leidig-tritt-in-die-linke.html

Mythen
Die Feuer der Hölle
Der als Polizistenmörder verurteilte schwarze Autor Mumia Abu-Jamal ist der berühmteste Todeskandidat der Welt. Linke verehren ihn, die Witwe Maureen Faulkner aber kämpft für ihre Wahrheit. Nun sieht es so aus, als würde sie gewinnen. Von Cordula Meyer
http://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,645083,00.html

Die taz-Journalistin und Egon Flaig
von Thorsten Hinz
Unlängst wurde in Berlin-Kreuzberg eine taz-Journalistin von einem Türken angesprochen, und zwar von hinten: „Zieh dir einen BH an, es stört mich, wie du rumläufst.“ Der Mann war um die 30, die Frau anderthalb Jahrzehnte älter. „In dem Moment war ich nur wortlos, geplättet und fühlte mich erniedrigt“, berichtete sie. „Welches Recht nehmen sich solche Typen eigentlich heraus, nicht nur über die Kleidung fremder Frauen zu urteilen, sondern ihnen dieses Urteil auch noch in einem Befehlston mitzuteilen?“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M568653a1779.0.html

Im Bundestag notiert: Gedenktafel für gefallene deutsche ISAF-Soldaten
Verteidigung/Kleine Anfrage
Berlin: (hib/AW/STO) Die Fraktion Die Linke möchte von der Bundesregierung wissen, warum die Gedenktafel für gefallene deutsche ISAF-Soldaten auf dem internationalen Friedhof in Kabul in Nähe zum Grab von Manfred Oberdörffer errichtet wurde. In ihrer Kleinen Anfrage (16/13902) führt die Fraktion an, Oberdörffer habe der „nationalsozialistischen Wehrmacht-Spezialeinheit ,Brandenburg‘“ angehört und sei 1941 „als Geheimagent zur Vorbereitung einer weiteren Angriffsfront der faschistischen Kriegsführung in Asien“ gestorben.

Deserteur-Denkmal in Köln eingeweiht
von Hinrich Robohm
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5726d8d7820.0.html

Das Trauma
von Thorsten Hinz
Am 70. Jahrestag des Kriegsausbruchs wird Kanzlerin Merkel sich zu einer Gedenkveranstaltung in Danzig einfinden. Dort wird sie verbreiten, was sie eben auf einer Vertriebenenveranstaltung sagte: daß die Vertreibung „unmittelbare Folge deutscher Verbrechen“ war und es „kein Umdeuten der Geschichte“ gibt.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M53b5d627f41.0.html

So sieht’s der Pole ...
Zweiter Weltkrieg
Die andere Erinnerung an 1939
Wenn Angela Merkel und Wladimir Putin kommende Woche nach Danzig reisen, werden sie bei der Gedenkfeier zum Kriegsbeginn vor 70 Jahren mit Polens Sicht auf den Überfall (sic!) konfrontiert werden. Auf SPIEGEL ONLINE erklärt Pawel Machcewicz, Berater von Premier Donald Tusk, warum die Polen den Zweiten Weltkrieg anders erinnern – und dem deutschen Gedenkbetrieb mißtrauen.
http://einestages.spiegel.de/static/topicalbumbackground/4823/die_andere_erinnerung_an_1939.html

Sven Felix Kellerhoff von der WELT hetzt gegen Scheil und Schultze-Rhonhof ...
„Polen wartet, fast fatalistisch“
Von Sven Felix Kellerhoff
Hitlers Schuld am Zweiten Weltkrieg steht eindeutig fest. Dennoch verkaufen sich apologetische Bücher zum 1. September 1939 gut
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article4437824/Polen-wartet-fast-fatalistisch.html

Scheil und Schultze-Rhonhof
Von Götz Kubitschek
Die Historiker Stefan Scheil und Gerd Schultze-Rhonhof sind ziemlich erfolgreich in ihrem Versuch, die Diplomatiegeschichte im Vorfeld des Zweiten Weltkriegs einer Revision zu unterziehen. Während „die Zunft“ ihrer Fachkollegen die Auseinandersetzung mit ihnen scheut, kauft das Publikum die gut lesbaren und in redlichem Ton verfaßten Bücher in großen Stückzahlen.
Deshalb versucht Sven Felix Kellerhoff in der heutigen „Welt“, einen weiteren Riegel vor dieses aus seiner Sicht unstatthafte Treiben zu schieben. Weil ihm das inhaltlich nicht gelingen kann, muß er zum Denunziationsinstrumentarium greifen.
http://www.sezession.de/7044/scheil-und-schultze-rhonhof.html#more-7044

Die polnische Besetzung von Gleiwitz
von Stefan Scheil
Die Ansichten über Ursachen und Verantwortungen für den Ausbruch des Zweiten Weltkrieges sind in Bewegung gekommen, davon zeugen ausnahmsweise sogar einige Beiträge in großen deutschen Zeitungen.
http://www.sezession.de/7049/die-polnische-besetzung-von-gleiwitz.html

Der Weg in den Krieg
BERLIN. Vor siebzig Jahren begann mit der Beschießung der Westerplatte bei Danzig der Zweite Weltkrieg. Die Ursachen für den Konflikt, der sich schließlich zum Weltbrand ausweitete, liegen jedoch weiter zurück.
In einer Serie für die JUNGE FREIHEIT erläutert Generalmajor a. D. Gerd Schultze-Rhonhof die Vorgeschichte des 1. September 1939.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5d6eb49d759.0.html

Generalmajor a.D. Gerd Schultze-Rhonhof über die Ursachen des Zweiten
Weltkriegs. Knapp einstündige Rede
http://video.google.com/videoplay?docid=-1423208573050100159&hl=de

Ein Kino-Film sollte den „Überfall“ rechtfertigen
Von Hanns-Georg Rodek
Es ist ein Bild, aus unzähligen amerikanischen Western vertraut: ein Treck, der bis zum Horizont reicht, Siedler in ihren Planwagen auf dem Weg gen Westen, wo ein neues, besseres Leben auf sie wartet. Auch das deutsche Kino hat solch eine Szene aufzuweisen. Sie stammt aus „Heimkehr“, und auch hier fährt eine unendlich lange Kolonne von Siedlerwagen ins gelobte Land, nach Westen, „heim ins Reich“.
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article4437822/Ein-Kino-Film-sollte-den-Ueberfall-rechtfertigen.html

Geschichte, die nicht vergeht
Von Gerhard Gnauck
Auch 70 Jahre nach Ausbruch des Zweiten Weltkriegs ringen Europas Politiker um die richtigen Worte
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article4437829/Geschichte-die-nicht-vergeht.html

Zweiter Weltkrieg
Polen warnt vor „Verfälschung“ der Geschichte
Genau heute vor siebzig Jahren beschoß das deutsche Kriegsschiff „Schleswig-Holstein“ das zur Festung ausgebaute polnische Munitionsdepot in Danzig. Polens höchste Repräsentanten haben nun bei der Gedenkfeier zu Beginn des Zweiten Weltkriegs an die Verantwortung Deutschlands erinnert. Sie warnten davor, die Geschichte zu vergessen.
http://www.welt.de/politik/ausland/article4438278/Polen-warnt-vor-Verfaelschung-der-Geschichte.html

Ansonsten wären die polnischen Ulanen wohl vermutlich schon bis Berlin vorgedrungen gewesen ...
Gedenken an Zweiten Weltkrieg
Kaczynski wirft Sowjetunion „Messerstich in den Rücken“ vor
Polens Präsident hat bei der Gedenkfeier zum Ausbruch des Zweiten Weltkriegs scharfe Töne gegen die frühere Sowjetunion angeschlagen: Stalin habe Polen mit dem Einmarsch der Roten Armee im September 1939 einen tödlichen Stoß versetzt, sagte Lech Kaczynski.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,646181,00.html

Polen
Merkel, Putin und Kaczynski gedenken Beginn des Zweiten Weltkriegs
Bundeskanzlerin Merkel, Rußlands Ministerpräsident Putin und weitere Politiker haben in Polen mit Präsident Lech Kaczynski eine Zeremonie zum Gedenken an den Beginn des Zweiten Weltkriegs begonnen. Auf der Westerplatte in Danzig wurde ein Kranz niedergelegt. Merkel unterstrich Deutschlands Verantwortung für den Zweiten Weltkrieg, Kaczynski würdigte Soldaten, die gegen Nazi-Deutschland kämpften.
http://www.focus.de/panorama/vermischtes/polen-merkel-putin-und-kaczynski-gedenken-beginn-des-zweiten-weltkriegs_aid_431595.html

Zitat Donald Tusk: „Wir sind hier zusammengekommen, um daran zu erinnern, wer den Krieg begonnen hat, wer der Schuldige war, wer der Henker in dem Krieg war und wer das Opfer der Aggression war.“

Polen: „Für Demut kein Grund“
DANZIG. Um Viertel vor fünf, siebzig Jahre nach den ersten Schüssen des deutschen Linienschiffes „Schleswig-Holstein“ auf das polnische Munitionsdepot auf der Westerplatte im damaligen Freistaat Danzig, haben die Spitzen des polnisches Staates die nationalen Gedenkfeierlichkeiten eröffnet. Staatspräsident Lech Kaczyński (PiS) und Ministerpräsident Donald Tusk (PO) warnten in ihren Ansprachen vor Umdeutungen der Geschichte.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5d574615fdf.0.html

Das Merkel übertrifft sich mal wieder selbst. Hündischer geht’s nicht ...
„Ich verneige mich vor den Opfern“
Von Lars-Broder Keil
Merkel bekennt sich in Danzig zur „immerwährenden Verantwortung“ Deutschlands für Kriegsleid und Holocaust
http://www.welt.de/die-welt/politik/article4444950/Ich-verneige-mich-vor-den-Opfern.html

1. September 2009. Kanzlerin Merkel erinnert an deutsche Kriegsschuld und betont „immerwährende geschichtliche Verantwortung“ (was immer das sein soll) ...
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5iaIDwS-IoF6I0AyAOeHlngI1ahcA
http://derstandard.at/fs/1250691529347/Ueberfall-auf-Polen-Merkel-bekennt-sich-zu-Deutschlands-Schuld
http://www.abendblatt.de/politik/deutschland/article1165031/Kanzlerin-Merkel-verneigt-sich-vor-Kriegsopfern.html
http://www.focus.de/panorama/vermischtes/70-jahrestag-des-zweiten-weltkriegs-merkel-bekennt-sich-zur-geschichtlichen-verantwortung-deutschlands_aid_431797.html

Putin erkennt russische Kriegsschuld nicht an
70 Jahre Kriegsbeginn
Alle warten auf Putin – doch der schweigt zu Stalin
http://www.welt.de/politik/deutschland/article4443063/Alle-warten-auf-Putin-doch-der-schweigt-zu-Stalin.html

Geschichte im „Stern“
Angriff auf Polen:
Der Weg in den Vernichtungskrieg
http://www.stern.de/politik/deutschland/angriff-auf-polen-der-weg-in-den-vernichtungskrieg-1506349.html

Wolfgang Venohr, Kriegsschuld und die Deutschen in Polen
von Dieter Stein
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5297d164e6f.0.html

Mehrheit der Polen heißt „Zwangsaussiedlungen“ gut
Eine überwältigende Mehrheit der Polen sieht die Zwangsaussiedelungen der Deutschen nach dem Zweiten Weltkrieg als gerechtfertigt. Zwischen 1939 und 1945 kamen sechs Millionen Polen (sic!) gewaltsam ums Leben.
http://diepresse.com/home/politik/zeitgeschichte/505236/index.do?_vl_backlink=/home/politik/index.do

Ein Beispiel für deutschen „Schuldstolz“ ...
Kolumne Kopfwelten: Hitlers Erbe
70 Jahre ist der Beginn des 2. Weltkriegs her. Muß sich auch die Internet-Generation noch schuldig fühlen für die Verbrechen ihrer Urgroßväter? Neue psychologische Forschungen geben eine Antwort. Von Frank Ochmann
http://www.stern.de/wissen/mensch/muskeltest/kolumne-kopfwelten-hitlers-erbe-1506473.html

Über die Vorgeschichte wüßte man gerne mehr ...
Massaker
Wie die Deutschen im polnischen Borów metzelten
Von Gerhard Gnauck
750 Dörfer metzelten die Wehrmacht und die deutschen Polizeikräfte in Polen nieder, darunter Borów. Konrad Schuller hat seine Bewohner besucht und mit den letzten Überlebenden gesprochen. In einer packenden Reportage erzählt er von ihrem Leid, aber auch von den Tätern und was sie nach 1945 trieben. [Interessant sind auch die Leserkommentare!]
http://www.welt.de/kultur/literarischewelt/article4417880/Wie-die-Deutschen-im-polnischen-Borow-metzelten.html

SPIEGEL-TV: Hitlers Westfeldzug
http://www.spiegel.de/video/video-1018716.html

Letzter Senf zu Tarantino
Von Thorsten Hinz
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M590401dd143.0.html

Ein Besuch lohnt sich ...
Staats- und Wirtschaftspolitische Gesellschaft e.V.
http://www.swg-hamburg.de/index.html

Die englischsprachige Ausgabe von SPIEGEL Online über den Umgang der heutigen Deutschen mit der Schlacht im Teutoburger Wald ...
Battle of the Teutoburg Forest
Germany Recalls Myth That Created the Nation
By David Crossland in Kalkriese, Germany
http://www.spiegel.de/international/germany/0,1518,644913,00.html

Schöppingen auf der Flucht vor Rechts
In Schöppingen ist man auf der Flucht vor der rechten Gefahr. Selbst nachdem ein 18jähriger einem irakischen Asylbewerber zum Opfer gefallen ist, wird sorgfältig nur nach rechts geschaut. So dient denn auch dieser Mord dem „Kampf gegen Rechts“. Zu den Trauerfeierlichkeiten am Donnerstag schickte die Antifa Wächter vorbei, und am Freitag wurden die Schüler vorzeitig entlassen, weil angeblich Rechtsextreme die Schule stürmen wollten.
Die Westfalennachrichten schieben den vorgezogenen Schulschluß nach Angaben des Schulleiters auf „aktive Trauerbewältigung“. Eine Drohung habe es nicht gegeben. Schöppinger Eltern kommentieren.
http://www.pi-news.net/2009/08/schoeppingen-auf-der-flucht-vor-rechts/

Schulschließung: „Alles nur geträumt?“
Schöppingen – Wurden die Schulen in Schöppingen am Freitag vorzeitig geschlossen, weil mit den trauernden Schülern nach dem gewaltsamen Tod eines 18jährigen ein normaler Unterricht nicht mehr möglich war? Oder gab es – anders als Polizei und Schulen es darstellen – doch anonyme Drohungen, die zu diesem Schritt veranlaßten? Darüber wird in Schöppingen inzwischen kontrovers diskutiert. Polizei und Schulleitungen hatten am Freitag auf Anfrage der WN mitgeteilt, daß das vorzeitige Unterrichtsende nur aufgrund der Stimmungslage der Schüler erfolgt sei. Ein Polizeisprecher verneinte auf konkrete Nachfrage, daß es Drohungen gegeben habe. Die Polizei blieb auch am Wochenende bei dieser Darstellung. Ein Sprecher der Kreispolizeibehörde Borken machte auf erneute Anfrage der WN deutlich, daß der vorzeitige Unterrichtsabbruch nicht in Folge anonymer Drohungen erfolgt sei. Im Internet habe es lediglich Hinweise darauf gegeben, daß Rechtsextreme zu einer Demonstration i
 n Schöppingen erscheinen könnten. Diesen Hinweisen sei die Polizei nachgegangen und habe in diesem Zusammenhang auch eine Schülerin aus Schöppingen vernommen. Dabei sei der Internet-Hinweis, so der Polizeisprecher wörtlich, „wie eine Blase geplatzt“. Vor Ort in Schöppingen sei es am Freitag – dem Tag der Beerdigung des 18jährigen Opfers – nicht zu irgendwelchen Demonstrationen gekommen.
http://www.ahlener-zeitung.de/lokales/kreis_borken/schoeppingen/1114606_Schulschliessung_Alles_nur_getraeumt.html



Auseinandersetzung zwischen Deutschen und Türken in Brandenburg ...
GEWALT: Tatort Lindow: Die Täter sind bekannt
Gegenseitige Beschimpfungen standen am Beginn der Auseinandersetzung / Staatsanwaltschaft ermittelt
http://www.maerkischeallgemeine.de/cms/beitrag/11593447/61299/Gegenseitige-Beschimpfungen-standen-am-Beginn-der-Auseinandersetzung-Staatsanwaltschaft.html

Nach der Schägerei
Türkiyemspor-Präsident erhebt Vorwürfe gegen Ermittler
Nach dem Vorfall zwischen Lindower Jugendlichen und jungen Fußballspielern des Berliner Vereins Türkiyemspor diskutiert der Ort über die Auslegung der Ereignisse. Viele Lindower wollen nicht an einen fremdenfeindlichen Übergriff glauben. Die Staatsanwaltschaft ermittelt gegen beide Seiten.
http://www.tagesspiegel.de/berlin/Brandenburg-Tuerkiyemspor-Lindow;art128,2885783

POL-F: 090824 - 1057 Gallusviertel: Randalierende Spieler lösen Polizeieinsatz auf Fußballplatz aus
Frankfurt (ots) – Am Sonntag, den 23.08.2009 gegen 16.00 Uhr, wurde der Polizeinotruf während eines Fußballspiels von einem Mitglied der Gästemannschaft informiert, daß sie unter anderem durch Ordner der Gastgeber auf dem Sportplatz an der Sondershausenstraße massiv beleidigt und durch Handgreiflichkeiten attackiert werden. Darüber hinaus wären ihnen Schläge nach dem Spiel angedroht worden. Vorausgegangen waren angeblich strittige Schiedsrichterentscheidungen. Da sie in der Vergangenheit schlechte Erfahrungen mit den Gastgebern gemacht hatten, verständigte man die Polizei.
Entgegen der Darstellung einiger Vertreter der Gastgeber hat das aggressive Verhalten von Spielern und sonstigen Verantwortlichen zu dem Erscheinen der Polizei vor Ort geführt. Die Notwendigkeit der Polizei zeigte sich schon beim Eintreffen. Hier schlug ihnen bereits eine deutlich aufgeheizte Stimmung seitens der Gastgeber entgegen. Es kam durch mehrere Spieler der Platzherren unmittelbar zu massiven Beleidigungen und Bedrohungen der Beamten. Ein 30jähriger Marokkaner beleidigte noch aus dem laufenden Spiel heraus die Beamten mit „dreckige Hurensöhne“, „Schmok“, „Weicheier“ und weiteres mehr.
http://www.presseportal.de/polizeipresse/pm/4970/1462697/polizeipraesidium_frankfurt_am_main

Haarsträubendes Video über Ausländerterror in Berlin ...
Kriminelle Ausländer zeigen ihr Waffenarsenal – Akte09
http://www.youtube.com/watch?v=jMGmbhEAZUc

Hier noch einmal die zu Beginn des „Akte“-Berichts gezeigte Attacke in voller Länge ...
Ausländergewalt: Orientalen prügeln auf Polizisten ein
http://www.youtube.com/watch?v=huNaVq0wwJw

Früh übt sich ...
Köln – Mehmet (8): „Ich stech euch ab“
http://www.express.de/nachrichten/region/koeln/ich-stech-euch-ab_artikel_1251217065251.html

Molenbeek(Brüssel): Polizei kapituliert im Mohammedaner-Viertel
http://www.youtube.com/watch?v=jacisnCWbk4

Staatliche Bekenntnisschulen
Andersgläubige müssen draußen bleiben
Von Hermann Horstkotte
„Kurze Beine, kurze Wege“ – diese plausible Regel für Erstkläßler hat Nordrhein-Westfalen abgeschafft. Dort zählt jetzt der Taufschein an einem Drittel der staatlichen Schulen mehr als gute Nachbarschaft. Die Folge: Katholiken bleiben unter sich, vor allem Muslime werden ausgegrenzt.
http://www.spiegel.de/schulspiegel/wissen/0,1518,645731,00.html

361° Toleranz – Antwort auf den Aufruf der Bundeskanzlerin
http://www.youtube.com/watch?v=5hK-7zLvc2k

361 Grad Toleranz – Mobbing gegen Deutsche
http://www.youtube.com/watch?v=An6JedBSmIg

Erstkläßler
Warum früh eingeschulte Kinder seltener aufs Gymnasium wechseln
Für viele Eltern kann die Grundschule gar nicht früh genug losgehen. Doch oft hat das fürs Kind Nachteile. Die Forscherin Andrea Mühlenweg, 32, erklärt im Interview, wieso ein paar Tage viel ausmachen können und der schnellste Weg nicht immer eine Abkürzung ist.
http://www.spiegel.de/schulspiegel/wissen/0,1518,645004,00.html

Wörter, die keiner versteht
Die schlimmsten „Sprachpanscher des Jahres“
„Slacklining“, „Gymmotion“ und „Feel Well Woman“: Mit solchen Wortschöpfungen hat sich der Deutsche Turner-Bund (DTB) beim Verein Deutsche Sprache sehr unbeliebt gemacht. Deshalb wurde der DTB jetzt zum „Sprachpanscher des Jahres“ gekürt. Auf den Plätzen folgen zwei große Konzerne.
http://www.welt.de/kultur/article4417540/Die-schlimmsten-Sprachpanscher-des-Jahres.html

Hausbesetzung als bürgerliche Geste
Die Wohlfühl-Variante der Hafenstraße: In Hamburg haben junge Künstler leere Häuser im Gängeviertel besetzt und alle sind dafür. Tim Ackermann traf den Schirmherrn der Besetzer, Daniel Richter
http://www.welt.de/die-welt/kultur/literatur/article4425233/Hausbesetzung-als-buergerliche-Geste.html

Antike Schriften
Jäger des verlorenen Wissens
Von Dirk Husemann
Nur ein Prozent aller Schriften der Griechen, Römer und Ägypter soll die Zeiten überdauert haben. Bis heute suchen Forscher nach den Überresten der Bibliothek von Alexandria – und in Papyrusfragmenten nach Gedanken aus einer vergangenen Welt.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,644238,00.html

Unbewußte Signale
Schluckauf – ein Überbleibsel der Evolution
Von Harald Czycholl
„Da denkt jemand an dich“ ist die gängigste Erklärung für den Schluckauf. Dabei ist es eigentlich schlicht ein Nerv, der da gereizt wird. Schon als Fötus im Mutterleib gibt es die Hickser. Der längste bekannte Schluckauf eines Menschen dauerte fast 70 Jahre. Gegen Schluckauf hilft ein alter Trick.
http://www.welt.de/wissenschaft/medizin/article4448407/Schluckauf-ein-Ueberbleibsel-der-Evolution.html

Snapshots of the Continent Entre Deux Guerres: Keyserling's Europe (1928) and Spengler's Hour of Decision (1934)

Snapshots Of The Continent Entre Deux Guerres:

Keyserling’s Europe (1928)

And

Spengler’s Hour Of Decision (1934)

Swiftly on beginning my graduate-student career in 1984 I observed that people calling themselves intellectuals – the kind of people whom one met in those days as fellows in graduate humanities programs – tended to be obsessed with topicality and immediacy.  Some adhered explicitly to one or another ideology of the a-historical, identifying so strongly with a perceived avant-garde or “cutting edge” that yesterday struck them as contemptible, a thing to be denounced so as to make way for the reformation of existence.  But the majority were (and I suppose are) conformists looking for cues about what effective poses they might strike or words employ to signify their being “with it.”  To be “with it” in a comparative literature program in California in the mid-1980s meant to be conversant with “theory,” and “theory” in turn meant the latest oracular pronouncement by the Francophone philosophe du jour, as issued almost before the writer wrote it by the those beacons of scholastic responsibility, the university presses.  First it was Michel Foucault, then Jacques Derrida, and then Jean-Michel Lyotard.  As tomorrow swiftly became yesterday, one sensed a panic to keep up with the horizonless succession of “with-it” gurus in fear that one might appear to others, better informed, as clownishly derrière-garde.

Being reactionary by conviction, I decided on an opposite course: to ignore the avant-garde and to read backwards, as it were, into the archive of forgotten and marginal books that no one deemed respectable by the establishment was reading anymore, and sideways into the contemporarily unorthodox.  Part of the providential harvest of that eccentric project, which became a habit, is my acquaintance with two quirky tomes that, despite their oddness, seem to me to stand out as notable achievements of the European mind in the decade before World War Two.  One is Count Hermann Keyserling’s Europe (1928); the other is Oswald Spengler’s “other book,” The Hour of Decision (1934).   Both speak to us, in the God-forsaken present moment, with no small critical alacrity.

I. Spengler has proved a more durable figure than Keyserling, but the reading audience during the early years of the Weimar Republic would have known Keyserling better than Spengler.  People talked about Spengler, but they read Keyserling, whose style was the more accessible.  Of Baltic Junker descent, Graf Hermann Alexander Keyserling (1880 – 1946) fared badly in the aftermath of the Great War.  He lost title to Rayküll, the hereditary Keyserling estate in Junker-dominated Livonia, when the newly independent Estonian Republic, conspicuously failing to reverse erstwhile Bolshevik policy, expropriated (or rather re-expropriated) the fixed holdings of the German-speaking ex-aristocracy.  Keyserling found himself stateless, dispossessed, and in search of a career, his sole remaining asset consisting in his education (higher studies at Dorpat, Heidelberg, and Vienna).  Marriage to Otto von Bismarck’s granddaughter (1919) returned Keyserling to something like a station while the success of his first book, The Travel Diary of a Philosopher (1922), stabilized his finances.  The Travel Diary, immediately translated into a half-dozen languages including English, remains readable, even fascinating.  In 1914, before the outbreak of hostilities, Keyserling had undertaken a global circumnavigation, the lesson of which the Diary, a nation-by-nation account of the world at that moment, meditatively records.

 

The Diary bespeaks a cosmopolitan-liberal attitude, flavored by a pronounced mystical inclination.  Europe, or Das Spektrum Europas in the original German, will strike readers by contrast as an apology (highly qualified) both for nationalism and for individualism.  Keyserling’s “spectroscopic analyses” of the various European peoples, in their peculiar individualities as well as in their complex relation to one another, advances the argument that, if Europe ever were to forge administrative unity out of its querulous variety, it would only ever do so by granting full rights and legitimacy to the varieties.

Keyserling favors a modest pan-European government, whose chief function would be the mediation of disputes between the otherwise sovereign nation-states, but characteristically he supplies no details.  Keyserling’s notion of a pan-European administration differs in its modesty from many being advanced at the time by such as H. G. Wells, whose speculative utopias – as for example in Men Like Gods – uniformly foresee the dissolution of the nation-state, not just into a pan-European arrangement, but, rather, into a World Republic.  Of course, Wells assumes that English, not French or Mandarin, will be the singular unifying tongue of that Republic.  The elites will educate people so that anything like a national identity disappears completely in the first captive generation.  In the concluding chapter of Europe, in a discussion of national “style,” Keyserling insists on the contrast between his own sense of identity and the “international,” or specifically political type of identity, promulgated by the Communists and Socialists.  In the case of the specifically political identity, the subject yields his individuality to merge with the ideological construction.   Keyserling reacts to this as to a toxin.  “When I analyze my own self-consciousness,” Keyserling poses, “what do I find myself to be?”

Keyserling answers: “First and foremost, I am myself; second, an aristocrat; third, a Keyserling; fourth, a Westerner; fifth, a European; sixth, a Balt; seventh, a German; eighth, a Russian; ninth, a Frenchman – yes, a Frenchman, for the years during which France was my teacher influenced my ego deeply.”  We note that politics never enters into it.  Reading the autobiographical passages of Europe, especially those in the chapter on “The Baltic States,” one gets the impression, incidentally, that belonging to Baltdom ranks as rather more important for Keyserling’s self-assessment than its place in his explicit hierarchy of identities would suggest.

Europe deploys a well-thought-out dialectic of individual and national character, whose subtleties Keyserling presents in his “Introduction.”  In the same “Introduction,” the author also sets forth his case for the absolute legitimacy of judging nations and cultures against one another.  Keyserling fixes over the whole of Europe an epigraph drawn from Paul to the Romans: “For all have sinned and come short of the glory of God.”  His dialectic follows from his conviction of imperfectness both of the basic human nature and of human arrangements for the conduct of political existence.

Keyserling can note, by way of a widely applicable example, that the Latin subject’s sense of his status as “civis Romanus… awoke in him as an individual a profound sense of self-discipline and obligation”; Keyserling can also assert that, “The man who attempts to deduce his own worth from the fact that he is a member of a particular group is thinking askew, and, besides presenting an absurd spectacle, gets himself disliked.”  The two statements imply, for Keyserling, no contradiction.  In the spirit of Saint Paul, Keyserling indeed hazards the sweeping – and, to some, disturbing – rule that, “in not a single nation is the national element, as such, bound up with anything of worth” because “the gifts of every nation are balanced by complementary defects.” As Keyserling sees things, “the only value in the national spirit is that it may serve as the basic material, as the principle of form, for the individual.”  In the ironic consequence, as Keyserling closes out his syllogism, “it is for this very reason that every nation instinctively measures its standing by the number and quality of world-important figures which it has produced.”

Whereas on the one hand in Keyserling’s epigrammatic judgment, “the individual and the unique are more than the nation, be it one’s own or another,” on the other hand “value and mass have absolutely nothing to do with each other.”  Apropos of Keyserling’s disdain for the “mass,” he notes that, “Christ preached love of one’s neighbor just because he did not have in mind philanthropy and democracy.”

Invoking Hebrew theology and German music as examples, Keyserling argues that: “A nation can achieve significance for humanity only in certain respects; namely, those wherein its special aptitudes fit it to become the appointed organ for all humanity.” Thus to evoke “abstract considerations of justice” is for Keyserling a “useless” exercise flying in the face of a “cosmic truth.” Given the central role of the individual in Keyserling’s scheme, readers will register little surprise when, in Europe, the author insists that the individual not only possesses the right, but indeed lives under an ethical imperative, to render public judgment on collectivities, with reference to a metaphysical hierarchy of values.  “Strength and beauty are higher, in the absolute sense, than weakness and ugliness; superiority is higher, too, in the absolute sense, than inferiority, and the aristocratic is higher than the plebieian.”  Europe offers, among other pleasures, Keyserling’s giving himself “free rein” to articulate such judgments in a spirit of “inner liberation,” in which the cultured reader will surely participate, treating everyone with equal severity and irony.

Keyserling admits, “There are some who will have for this book nothing but resentment.”  He hopes indeed that “all Pharisees, all Philistines, all nitwits, the bourgeois, the humorless, the thick-witted, will be deeply, thoroughly hurt.”  These are words almost more apt – but certainly more apt, supremely apt – for Anno Domine 2009 than for 1928; but one nevertheless presupposes their legitimacy in context.  Keyserling reminds his readers in advance that he will have imposed the same criteria in assessing “my own people,” meaning the Balts, as in assessing others.

 

II. One can only sample the wares, so to speak, in a summary of Europe, keeping in mind Keyserling’s warning that he must necessarily offend the easily offended.  Readers will need to explore Europe on their own to discover what Keyserling has to say about Netherlanders, Hungarians, Romanians, Swedes, and Swiss.  What follows makes reference only to the chapters on England, France, and Germany.  Does the order of the chapters imply even the most modest of hierarchies, with the first chapter taking up the analysis of England?  Keyserling must have recognized the importance of his Anglophone audience to his popularity.  His treatment of the English, while unsparing in principle, does seem warmed somewhat by fondness.  For Keyserling, that odd phenomenon of “Anglomania” (nowadays one would say “Anglophilia”) tells us something, by way of indirection, about its object.  “One nation sees itself mirrored in the other, not as it is, but as it would like to be; just as, during the World War, every nation attributed to its enemy the worst features of its own unconscious.”

On England.  With characteristic nakedness of statement, Keyserling credits the Anglo-Saxon, not with “intelligence” but rather with “instinct.”  According to Keyserling, “the whole [English] nation… has an unconquerable prejudice against thinking, and, above all, against any insistence on intellectual problems.”  Being creatures of instinct, Englishmen act with certitude or at least with the appearance of certitude.  It is this certitude, translated pragmatically as the habit of taking bold action, which others so admire, even while misunderstanding it, in the Anglo-Saxon spirit.  “The Englishman… is an animal-man”; and “at the lowest end of the scale he is the horse-man, with corresponding equine features.”  The aversion to ratiocination explains the British Empire, which “simply grew up, with no intention on anybody’s part,” to be governed by the colonial-administrator type, who “rarely thinks of anything but food, drink, sport, and, if he is young, flirtations.”

More than God, whatever his sectarian dispensation, Keyserling’s Englishman worships “the rules of the game.”  Thus his “loyalty to one’s land, one’s party, one’s class, one’s prejudices… the first law” so that “the question of absolute value is beside the point.”  From these inclinations stem “British empiricism, so despised by the French, which enables the British successfully to anticipate the crises precipitated by the spirit of the times.”  Yet if the Englishman were ungifted intellectually, he would be, in Keyserling’s estimate, “all the more gifted psychologically,” with the consequence that the Briton possesses “skill in handling human material [that] is extraordinary.”  Nestling at the core of that gift is the principle, which Keyserling classifies as “primitive,” that one should “live and let live.”  The English sense of individuality and of rights is likewise primitive, in the positive sense of being a reversion, against the modern tide, to the atheling-egotism of the Beowulf heroes and King Alfred.  More than any other European nation, England has preserved medieval customs that might prove healthily anodyne to the deculturation inherent in modernity.  Yet Keyserling fears that the English will fail to preserve custom and will plunge into “the Mass Age” more thoroughly than other nations, just as the offshoot American nation, in his judgment, had already done.

On France.  Chortling Gallic readers need only to have turned the page to receive their own stinging dose of Keyserling’s patented forthrightness.  It starts out flatteringly enough.  Whereas the Englishman lives according to instinct, the Frenchman, taking him in the generality, behaves like a “universally intelligible life-form”; one sees in him a creature of “the conscious” and of “the intellect,” whose rationality has concocted, in the Gallic idiom, “a perfect language for itself.”  So it is that “all Occidental ideology, whenever it can be expressed at all in French, finds in the body of that language its most intelligible expression.”  Nevertheless, “however clear the intelligence of the Frenchman may be, his self-consciousness is emotional rather than intellectual,” being as such, “easily and violently aroused,” with the emotion itself its “own ultimate justification.”  From Parisian emotiveness, from the esteem in which others regard France, and using the intellectual precision of the French language, comes the least attractive of Gallic qualities: “The Frenchman… has always seen in his opponent the enemy of civilization.”  Just that inclination emerged in 1914, but the ferocity of the Jacobins showed its presence at the birth of the French Republic.

As Keyserling sees it, however, France is not a dynamic, but an essentially conservative, nation, which is what has enabled it to survive its endless cycle of revolutions.  The real role of France after 1918 should not have been, as the French took it on themselves to do through the League of Nations, to “restore” – that is, to transform – Europe after some rational pattern; it should have been to conserve the precious vestiges of pre-Revolutionary culture.  “The French are par excellence the culture nation of Europe.”

On Germany.  On the topic of Germany, Keyserling begins by quoting his old friend Count Benckendorff, the Czar’s ambassador in London: Ne dites pas les allemands; il n’y a que des allemands.”  (“Speak not of the Germans; there are only Germans.”)  According to Keyserling, “The German exists only from the viewpoint of others”; yet not quite, as one can make applicable generalizations.  A German is an “object creature” whose “life-element lies, once and for all, in that which, externally, emerges most typically in the cult of the object.”  A German is by nature therefore an expert, dedicated to his own expertise and to expertise qua itself as the principle of orderly existence.  Keyserling avails himself of a standing joke: “If there were two gates, on the first of which was inscribed To Heaven, and on the other To Lectures about Heaven, all Germans would make for the second.”  German interest in objects and objectives gives rise to German technical prodigality – the German primacy in precision Engineering and the mechanical systematization of everyday life.  Despite its orientation to the objects, the German mentality suffers from “unreality.”  How so?

“The personal element in man,” Keyserling remarks, “declines in direct proportion as his consciousness becomes centered in detached, externalized ideas; and for those who have to deal with him it really becomes impossible to know what they can expect and what they can rely on.”  Keyserling does not foresee the collapse of the Weimar Republic and the catastrophe of the dictatorship, but he does, in the just-quoted sentence, see the cause of both.

The concluding chapter of Europe attempts a summing-up with a forecast.  Keyserling writes: “Europe is emerging as a unity because, faced at closer range by an overwhelming non-European humanity, the things which Europeans have in common are becoming more significant than those which divide them, and thus new factors are beginning to predominate over old ones in the common consciousness.”  But, in compliance with his dialectic, Keyserling issues a warning.  The unification of the European nations as they confront the non-European must avoid the result of producing “frantic Pan-Europeans” who, forgetting the specificity of the constituent nationalities, “understand each other not better, but worse than before.”  If that were to happen, Europe would have been effectively “Americanized.”  Keyserling concludes on an ominous note: “More than one culture has died out before reaching full blossom.  Atlantis, the Gondwana continent, went the way of death.  Infinite is human stupidity, human slothfulness.”

III. Keyserling and Oswald Spengler (1880 – 1936) never exactly knew each other; rather, they lived in standoffish awareness of each other, with Keyserling playing the more extroverted and Spengler the more introverted role.  In February 1922, Keyserling wrote to Spengler from Darmstadt, enclosing his review of The Decline of the West, and inviting Spengler to participate in a “School of Wisdom” seminar to be held at the Count’s Darmstadt house.  (The “School of Wisdom” was Keyserling’s lecture-foundation, which operated from 1920 until the Nazi regime shut it down in 1933.)  Spengler declined the invitation on the grounds that the audience was likely to be “young people stuffed with theoretical learning.”  Spengler remarked to Keyserling in his reply, that, “by wisdom I understand something that one obtains after decades of hard practical work, quite apart from learning.”  Spengler makes his adieu by promising to have his publisher send the new edition of The Decline to his correspondent.  The tone of Keyserling’s invitation perhaps abraded Spengler’s sense of propriety; Keyserling does presume a willingness to cooperate that, to Spengler, might have seemed a bit too peremptory. Keyserling nevertheless rightly presupposed that he shared many judgments with Spengler – just not the judgment concerning the obligatory status of a social invitation from Keyserling.

 

The Hour of Decision, like everything that Spengler authored, is a rich mine of observation and insight, difficult to summarize, mainly because it communicates so thoroughly with the monumental Decline, to which it forms an epilogue.  The core of The Hour is its diptych of concluding chapters on what Spengler calls “The White World-Revolution” and “The Coloured World-Revolution.”  As in the case of Keyserling’s ironic forthrightness, only more so, Spengler’s plain speaking makes him consummately politically incorrect.  The Hitlerian regime would suppress The Hour just as it suppressed Keyserling’s Darmstadt lecture-institute.  Both were unforgivably heterodox in the totalitarian context.  Spengler, writing in the onset of “die Nazizeit,” saw nothing particularly new in the dire developments of the day, only an intensification of the familiar Tendenz.  The West’s terminal crisis had been in progress already for a hundred chaotic years; the great spectacle of disintegration would only continue, not merely in the external world of institutions and forms, but also in the internal world of spiritual integrity.

Conjuring the image of the modern megalopolis and echoing Ortega’s alarm over the masses, Spengler writes, “A pile of atoms is no more alive than a single one.”  Crudely quantitative in its mental processes, the modern mass subject equates “the material product of economic activity” with “civilization and history.”  Spengler insists that economics is merely a sleight-of-hand discourse for disguising the real nature of the “catastrophe” that has overcome the West, which is a failure of cultural nerve.

In The Hour, Spengler builds on notions he had developed in The Decline, particularly the idea that the West has ceased to be a “Culture,” a healthy, vital thing, and has entered into the moribund phase of its life, or what Spengler calls “Civilization.” Into the megalopolis, “this world of stone and petrifaction,” writes Spengler, “flock ever-growing crowds of peasant folk uprooted from the land, the ‘masses’ in the terrifying sense, formless human sand from which artificial and therefore fleeting figures can be kneaded.”  Spengler stresses the formlessness of “Civilization,” in which “the instinct for the permanence of family and race” stands abolished.  Where “Culture is growth,” and “an abundance of children,” “Civilization” is “cold intelligence… the mere intelligence of the day, of the daily papers, ephemeral literature, and national assemblies,” with no urge to prolong itself as settled custom, well-bred offspring, or a posterity that honors tradition.  The “White World-Revolution” consists in the triumph of “the mob, the underworld in every sense.”

The mob, which sees everything from below, hates refinement and despises anything permanent.  The masses want “liberation from all… bonds [and] from every kind of form and custom, from all the people whose mode of life they feel in their dull fury to be superior.”  Hence the appeal of egalitarianism to the masses.  But, as Spengler argues, egalitarianism is really only a slogan, a euphemism.  The real trend is “Nihilism.”

The pattern of “Nihilism” emerged in the French Revolution, with its vocabulary of leveling, as in the radically politicizing etiquette of citoyen” and in the supposedly universal demand for “Liberty, Equality, and Fraternity.”  “The central demand of political liberalism,” writes Spengler, consists in “the desire to be free from the ethical restrictions of the Old Culture.”  Yet as Spengler insists: “The demand was anything but universal; it was only called so by the ranters and writers who lived by it and sought to further private aims through this freedom.”  We see this identical pattern today in the various concocted emergencies and so-called universal demands that the current thoroughly liberal-nihilistic regime in the United States trots out serially to justify its consolidation of power, whereby it ceaselessly attacks what remains in the American body-politic of form and custom.  In Spengler’s aphorism: “Active liberalism progresses from Jacobinism to Bolshevism logically.”

In Spengler’s judgment, moreover, one would make a mistake in equating Bolshevism, as people would have done in the 1930s, uniquely with the Soviet Union.  “Actually [Bolshevism] was born in Western Europe, and born indeed of logical necessity as the last phase of the liberal democracy of 1770 – which is to say, of the presumptuous intention to control living history by paper systems and ideals.”

When Spengler remarks on the theme of tolerance (so-called) in liberalism-nihilism, one thinks again of the existing situation in Europe and North America the first decade of the Twenty-First Century.  Inherent to form is its rigorous exclusion of the formless.  In its aggressive demand for inclusion of the rightly excluded, which belongs to its destructive impetus, the liberal-nihilistic regime works actively to de-stigmatize anti-social behavior.  Thus under liberalism-nihilism “tolerance is extended,” by self-denominating representatives of the people, “to the destructive forces, not demanded by them.”  Of course, the “destructive forces” do not refuse the extension.  On historical analogy, Spengler refers to this as “the Gracchan method.”  When once, as had already happened in Europe in Spengler’s time, “the concept of the proletariat [had] been accepted by the middle classes,” then the formula for cultural suicide had at last all of its ingredients in place.  “I am aware,” writes Spengler, “that most people will refuse with horror to admit that this irrevocable crashing of everything that centuries have built up was intentional, the result of deliberate working to that end… But it is so.”

 

IV. Like another, later analyst of modernity in its agony, Eric Voegelin, Spengler sees at the root of Liberalism-Nihilism the perversion of a religious idea.  “All Communist systems in the West are in fact derived from Christian theological thought: More’s Utopia, the Sun-State of the Dominica Campanella, the doctrines of Luther’s disciples Karlstadt and Thomas Münzer, and Fichte’s state-socialism… Christian theology is the grandmother of Bolshevism.”  The materialism – which is again a type of nihilism – of Marxism and socialism never contradicts the case for liberalism-nihilism as a perversion of Gospel themes.  “As soon as one mixes up the concepts of poverty, hunger, distress, work, and wages (with the moral undertone of rich and poor, right and wrong) and is led thereby to join in the social and economic demands of the proletarian sort – that is, money demands – one is a materialist.”  But, this being Spengler’s point, one may have the belief-attitude with respect to one’s materialist doctrines that the fanatic of God has for his mental idol, with the concomitant fierceness and ruthlessness.  The end of real Christianity is “renunciation.”  With reference to the sentence of Adam, writes Spengler, the Gospel tells men, “do not regard this hard meaning of life as misery and seek to circumvent it by party politics.”

In a precise description of the modern, immigration-friendly, general-welfare state, Spengler remarks that “for proletarian election propaganda,” an opposite principle to the Gospel one is required: “The materialist prefers to eat the bread that others have earned in the sweat of their face.”  When the Gracchan rabble dominates from below so that the demagogues might manipulate from above, then it will come to pass that “the parasitic egoism of inferior minds, who regard the economic life of other people, and that of the whole, as an object from which to squeeze with the least possible exertion the greatest possible enjoyment” will seek its bestial end in “panem et circenses.”  Once the majority descends to vulgar consumption through extortion – and through a mere pretence of work under the welfare-umbrella of “the political wage” – then the society has doomed itself.  It can only lurch in the direction of its inevitable demise.  Even the keen-eyed will not want to confront reality.  They will, as Spengler writes, “refuse in horror” to believe what they see.  Spengler might have been thinking about a letter from his correspondent Roderich Schlubach dated 9 October 1931.  Schlubach writes: “I frankly admit that much of what you prophesied [in The Decline] has taken place.  The decline of the West seems to be at hand, and still I do not believe in an end of the world, only in an entire change in our circumstances.”

That is “The White World-Revolution” – the triumph of rabble-envy, the destruction of form, childlessness, and the childishness of mass entertainments.  Indeed, “an entire change in our circumstances,” as Schlubach says, not grasping that his words mean the opposite of what he intends.  What of “The Coloured World-Revolution”?  Keyserling had admonished, in the concluding chapter of Europe, that Europe in its chafing unity would come under threat from the nearby non-European world.  In Spengler’s historical theory, the threat of external barbarism always coincides with the passage of the “Culture” into its deliquescent rabble-stage – the stage that the Decline-author ironically calls “Civilization.”  Earlier, in the robustness of the culture-stage, the ascendant people inevitably imposes itself on neighboring and foreign peoples whose levels of social complexity and technical sophistication are lower and who cannot effectively resist encroachment.  Spengler emphasizes that it cannot be otherwise.  The people of the less-developed society gradually grow conscious of a difference, which the emergent demagogue-class of the more-developed society in its liberal paroxysm swiftly encourages them to see as an injustice.

Thus, Spengler asserts, “the White Revolution since 1770 has been preparing the soil for the Coloured one.”  The process has followed this course:

The literature of the English liberals like Mill and Spencer… supplied the “world outlook” to the higher schools of India.  And thence the way to Marx was easy for the young reformers themselves to find.  Sun Yat Sen, the leader of the Chinese Revolution, found it in America.  And out of it all there arose a revolutionary literature of which the Radicalism puts that of Marx and Borodin to shame.

Spengler, who was consciously and deliberately distancing himself from the National Socialists, reminds his readers that he is not “speaking of race… in the sense in which it is the fashion among anti-Semites in Europe and America today.”  He is simply comparing the attitude to life of existing peoples.  The Western nations compete for dominance with non-Western nations whether they want to do so or not.  The non-Western nations, like Japan, act in bold accord with ideologies that cast the West in a scapegoat role, and that are overtly racist.  The West has enemies.  It cannot choose not to be in enmity with them; they choose enmity peremptorily.  The West can either stand up to its assailants or succumb.  When Spengler turns to demography, to his tally of Western birth-replacement deficits and burgeoning populations elsewhere, his discourse strikes us, not as dated, but as entirely contemporary.  “The women’s emancipation of Ibsen’s time wanted, not freedom from the husband, but freedom from the child, from the burden of children, just as men’s emancipation in the same period signified freedom from the duties towards family, nation, and State.”

The attitude of the European middle class, judging by its failure to oppose the vulgarization of society and again by its unwillingness to perpetuate itself in offspring, is one of abdication before the forces of nothingness – this is true whether it is 1934 or 2009.  Like the proletariat, the bourgeoisie then and now hungers only for panem et circenses, or, as we so quaintly call it in present-day America, the consumer lifestyle.  Spengler predicts, in The Hour, that the non-Western world will grow increasingly hostile and predatory towards the West, seeing the decadent nations as easy pickings and seeking opportunities to assault and humiliate the bitterly resented other.  Spengler believes that the nihilistic tendency of Western revolutionaries will merge with the similar tendencies of their non-Western, colonial or ex-colonial counterparts and that the internal and external masses will cooperate in a common destructive project.  What else was the bizarre alliance between the Nazi regime in Berlin and the Bushidoregime in Tokyo?  Or between Heinrich Himmler and the Grand Mufti of Jerusalem?  Just this intimate cooperation of homebred totalitarians with inassimilable fellah-collaborators seems today to be the case, for example, in Great Britain and Sweden – and to no little extent, not merely with respect to illegal Mexican immigration, in the United States as well.

The Hour of Decision remains a shocking book.  It will shock even conservatives because they cannot have avoided being assimilated in some degree to the prevailing dogma about what one may or may not say.  One can imagine the reaction of contemporary liberals to the book if only they knew anything about it: spitting, blood-shot indignation.  Contemporary liberals have already banned almost the entirety of Spengler’s vocabulary under the strictures of self-abasing multiculturalist dhimmi-mentality. The Hour is also a radical book, not least in its notion, also present in both volumes of The Decline that, the crisis of the West, which began already in the Eighteenth Century, would likely play itself out right through the end of the Twentieth Century and beyond.  The disquiet that comes across at the end of Keyserling’s Europe, which appeared as we recall in 1928, asserts itself as greatly heightened apprehension in the final chapter of The Hour, which appeared in German in 1934 and in English in 1936, after Goebbels had suppressed further publication of the German edition.  The National Socialists, like modern liberals, could not bear to be identified by a strong voice, as who and what they actually were.

mercredi, 09 septembre 2009

Terre et Peuple: TABLE RONDE 2009


Terre et Peuple

Résistance Identitaire Européenne

TABLE RONDE 2009

www.terreetpeuple.com

Dimanche 4 octobre 2009 :

 

XIVe Table Ronde de TERRE ET PEUPLE :

"Pour la Reconquête, reviens Charles Martel !"


à Villepreux (région Parisienne)

 

contact@terreetpeuple.com

 

  

XIV_Table_ronde_2009

mardi, 08 septembre 2009

Albanokosovares responsables del agravamiento de la situacion

Albanokosovares responsables del agravamiento de la situación

El portavoz del Ministerio de Asuntos Exteriores de Rusia, Andréi Nesterenko, declaró hoy que los albanokosovares son los responsables del agravamiento de la situación en la provincia serbia de Kosovo.

“Los albanos de Kosovo son los responsables del continuo agravamiento de la situación en esa provincia”, manifestó el diplomático ante la prensa.

En la ciudad de Kosovska Mitrovica, en el norte de Kosovo, se registraron varios enfrentamientos en dos semanas después que varias familias albanesas decidieran volver a la parte serbia (norte) de la ciudad. Varias personas recibieron heridas en los enfrentamientos.


El descontento de los serbios se debe a que los albaneses intentan restaurar sus casas destruidas durante el sangriento conflicto interétnico de 1998-1999. Según los serbios, esas casas se encuentran en la parte serbia de la ciudad.

La policía kosovar y las fuerzas de la misión de la Unión Europea en Kosovo (Eulex) intervienen frecuentemente para detener los enfrentamientos.

“Los albanokosovares quieren restaurar sus casas, pero ese mismo derecho se les niega a los serbios haciendo reducir aún más su espacio étnico”, explicó Nesterenko.

Los serbios kosovares afirman que, en principio, no se oponen al retorno de los albaneses a la parte norte de Kosovska Mitrovica, pero insisten en que la devolución de los bienes inmuebles a los unos y otros sea equitativa y que se garantice la seguridad a los serbios que también deseen regresar a sus casas abandonadas hace años.

“Es tarea de las misiones internacionales presentes en Kosovo de mantener la seguridad en esa provincia y prevenir las provocaciones antiserbias porque el problema de Kosovo representa uno de los mayores retos a la seguridad en los Balcanes”, señaló el portavoz de la diplomacia rusa.

Extraído de RIA Novosti.