vendredi, 19 juin 2009
Migrazione e diaspore : prospettive geopolitiche
MIGRAZIONI E DIASPORE:
PROSPETTIVE GEOPOLITICHE
di Louis Sorel*
SINERGIE EUROPEE – BOLZANO / BRUXELLES – AGOSTO 2004
La mobilità degli uomini e, correlativamente, l’esistenza delle diaspore sono fenomeni antichi, ma in questi ambiti come in molti altri ci troviamo a vivere un’accelerazione della storia. Effettivamente questi ultimi decenni hanno conosciuto importanti e durevoli movimenti di popolazioni su scala planetaria, nonché una generalizzazione del fatto diasporico. Nei limiti del tempo qui concessoci cercheremo di inquadrare questi fenomeni in una prospettiva geopolitica, la geopolitica essendo qui compresa come analisi dei rapporti di potenza tra politìe/unità politiche così come fra «attori anomici ed esotici» — come dice Lucien Poirier — vale a dire non-statuali.
Utilizzeremo qui lo studio delle migrazioni e delle diaspore per imparare le dinamiche del sistema-Mondo. Dopo aver tracciato una rapida geografia delle migrazioni e diaspore, ne prenderemo in considerazione le conseguenze geopolitiche interne — la destrutturazione degli Stati-Nazione del «Nord» — ed esterno: il rinnovamento delle problematiche «internazionali» e conflittuali.
IL «PIANETA NOMADE»
[Questo titolo riprende il tema dell’VIII edizione del Festival internazionale di geografia di Saint-Dié-des-Vosges (ottobre 1997), «Il pianeta nomade, le mobilità geografiche di oggi»]
I flussi migratori contemporanei si organizzano attorno a pochi grandi poli/centri attrattori che possono agevolmente essere rappresentati su di un planisfero.
Principale centro attrattore, gli Stati Uniti: nel secolo scorso questo grande paese d’immigrazione ha polarizzato l’essenziale dei flussi europei, ma nel corso degli anni venti, e in seguito alla trasformazione delle correnti migratorie — la maggior parte delle quali è rappresentata dalle popolazioni euro – mediterranee e slave — lo Stato federale ha deciso di adottare misure restrittive. Nel 1965, al termine di quattro decenni di chiusura delle frontiere, queste misure sono state abolite, e negli ultimi
anni l’immigrazione è ripresa al ritmo di circa un milione di ingressi legali l’anno. Questi flussi originano dall’immediata periferia — Messico, Caraibi e America Latina —, dall’Asia orientale e dai paesi del «Sud»
non europei. Gli Stati Uniti contano così circa 20 milioni d’immigrati della prima generazione.
Altro centro attrattore, il continente europeo: l’Europa del Nord – Ovest, a partire dagli anni Cinquanta, e ormai l’Europa del Sud. Gli immigrati rappresentano circa 15 milioni di individui nell’Unione europea (senza contare i naturalizzati e i clandestini) e questi flussi persistono.
Dapprima essi hanno avuto origine dagli ex territori coloniali, più o meno periferici, ma oggi assistiamo a una mondializzazione dei flussi migratori senza rapporto con le eredità storiche (colonizzazione/decolonizzazione).
Terzo centro attrattore, fino alla fine degli anni Ottanta, i paesi petroliferi del Medio Oriente (ai quali bisogna aggiungere la Libia). In mancanza di censimenti, il peso delle popolazioni immigrate è di difficile valutazione, ma è ragionevole stimarlo fra i 7 e gli 8 milioni di persone — il che, in termini relativi, è parecchio. In molte petromonarchie gli immigrati rappresentano più della metà della popolazione. Tuttavia è necessario precisare che dopo la Guerra del Golfo i flussi migratori si sono invertiti e ancora nel 1997 le espulsioni sono state numerose.
La geografia delle migrazioni comprende anche centri d’attrazione secondari, tali cioè da polarizzare flussi su distanze più corte: l’Australia, paese – continente stiracchiato tra geografia e storia; la Costa d’Avorio, la
Nigeria e la Repubblica sud – africana; il Venezuela, l’Argentina e il Brasile; certe zone dell’Asia sul versante Pacifico… Nel corso di quest’esposizione analizziamo le cose dal punto di vista del «Nord» e di
conseguenza privilegiamo i flussi a lunga distanza e i ragionamenti su scala planetaria.
Diversi e numerosi fattori si combinano per spiegare la potenza e la direzione di questi flussi migratori: fattori demografici, economici, storici, culturali e politici.
FATTORI DEMOGRAFICI: anche se oggi è un po’ riduttivo, in materia tutti sono a conoscenza del dualismo Nord/Sud. Nei paesi sviluppati, ci sono popolazioni stabili e in via d’invecchiamento; nei paesi in via di
sviluppo, popolazioni giovani dalla demografia galoppante. Questo differenziale di crescita si spiega con la transizione demografica, modello che sembra unanimemente accettato. Tuttavia s’impongono due osservazioni. La prima è la differenziazione crescente delle situazioni dei paesi e delle macro - regioni del «Sud», autentico mosaico demografico. La seconda è il rinnovamento delle tesi maltusiane presso alcuni autori, fra cui Jean – Christophe Rufin (L’empire et les nouveaux barbares, Jean-Claude Lattès, 1991) e Yves – Marie Laulan (Les nations suicidaires, François-Xavier de Guibert, 1998).
FATTORI ECONOMICI: tanto per i flussi Nord/Sud che per quelli Sud/Sud, la ricerca di migliori condizioni di vita è uno dei principali fattori esplicativi delle migrazioni internazionali. Nel corso del periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, e in seguito all’afflusso di petrodollari in Medio Oriente fra gli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, gli immigrati sono in cerca d’impiego. Al giorno d’oggi, sono i sistemi sociali che giocano il ruolo di pompa aspirante.
FATTORI STORICI E CULTURALI: abbiamo già menzionato il ruolo del passato coloniale nei flussi migratori; l’espansione delle potenze europee ha comportato la diffusione delle lingue del Vecchio Continente e la mondializzazione delle sue forme di civiltà. In compenso questi retaggi hanno facilitato le migrazioni Nord/Sud. È vero che a partire dalla metà degli anni Settanta le ondate migratorie sono planetarie e scarsamente rapportabili alle geografie coloniali di un tempo. È altresì necessario
prendere in considerazione un altro fattore culturale: lo strapotere dei media occidentali (soprattutto americani). La circolazione a tutto campo dei medesimi suoni e delle medesime immagini genera una sorta di «immaginario migratorio» e un’ideologia dello sradicamento che stanno alla base dei
movimenti di popolazione. Nei paesi ricettori, questa stessa atmosfera globale è propizia ad un certo lassismo in materia di regolazione dei flussi migratori. Per concludere col ruolo dei fattori culturali, è del pari necessario segnalare che le delocalizzazioni – rilocalizzazioni delle unità produttive nei paesi del «Sud», diffondendo i modelli occidentali, contribuiscono a un certo numero di partenze, com’è stato possibile osservare nelle cosiddette maquiladoras — unità produttive messicane situate nelle immediate vicinanze della frontiera settentrionale del paese e controllate da aziende statunitensi.
FATTORI POLITICI: è il caso delle persone che fuggono da un regime politico dato e/o da una situazione bellica. Lo statuto di questi rifugiati politici è stato specificato dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e l’Alto
Commissariato per i Rifugiati dell’ONU, creato nello stesso anno e con sede nella stessa città, si fa carico attualmente di circa 27 milioni di persone.
Per far fronte alla pressione migratoria derivante da questa trafila, quasi tutti i paesi sviluppati hanno, chi più chi meno, inasprito le condizioni d’accesso allo statuto di rifugiato politico.
Come si vede, nella perennità e nell’espansione dei flussi migratori giocano un complesso di cause rilevanti e un vero e proprio sistema di mobilità.
La conseguenza di questi flussi migratori è la costituzione di diaspore.
Il fenomeno è antico, legato a migrazioni non meno antiche. Gérard Chaliand e Jean – Pierre Rageau (Atlas des diasporas, Odile Jacob, 1991) chiamano «diaspora» un popolo disperso su vasti spazi e territori non collegati fra loro, e le cui differenti ramificazioni persistono nella loro identità, a dispetto della pressione delle popolazioni autoctone. Nella maggior parte dei casi questa dispersione è legata ad un evento originario traumatico: massacri, genocidi, deportazioni, catastrofi naturali. Tuttavia, gli autori dell’Atlas des diasporas non mantengono sistematicamente l’insieme di questi criteri, il che ci permette di utilizzare a buon diritto il termine «diaspora» lato sensu.
Gli esempi più antichi di questo fenomeno sono ben noti: si pensi alla diaspora greca, ebrea e armena, senza dimenticare gli Zigani che al giorno d’oggi sono gli unici a non possedere né Stato né territorio di
riferimento (diaspora integrale). Nel corso del XVI secolo, con la tratta atlantica (il commercio triangolare), ha avuto inizio la dispersione delle popolazioni nere; nel XIX secolo si sono verificate la diaspora irlandese, quella cinese e quella indiana. Il nostro secolo ha rafforzato il fenomeno con un nuovo esodo di popolazioni armene, in seguito al genocidio commesso dai Turchi e dai Curdi alla fine della prima guerra mondiale, e altri avvenimenti e rapporti di forza geopolitici hanno poi generato la diaspora palestinese,
quella libanese e quella vietnamita.
Con il potenziamento e la mondializzazione dei flussi migratori, il fatto diasporico si generalizza: ci accontenteremo qui di menzionare le diaspore arabo – musulmana e nera, particolarmente visibili in Europa occidentale.
Certo, non sempre un disastro è all’origine di queste diaspore contemporanee e i loro membri talvolta rappresentano soltanto una parte poco rilevante della popolazione dei paesi d’origine. In compenso, con la rivoluzione delle comunicazioni (aeree e satellitari) i differenti segmenti di queste popolazioni sono sempre meglio collegati fra loro e la loro coscienza culturale e geopolitica comune si va rafforzando. Non sembra dunque indebito estendere il termine di «diaspora» a questi fenomeni.
LA DESTRUTTURAZIONE DEGLI STATI-NAZIONE DEL «NORD»
La conseguenza geopolitica interna della ridistribuzione delle popolazioni è dunque la destrutturazione degli Stati – Nazione del «Nord». Prima di esaminare questo fenomeno, dobbiamo prima di tutto soffermarci sulla forma politica che domina l’Occidente moderno.
Secondo Carl Schmitt e Julien Freund, il politico è un’essenza, vale a dire un’attività umana originaria rispondente a un dato basilare, in questo caso la conflittualità. Funzione del politico è di assicurare la concordia interna e la sicurezza esterna delle collettività umane costituite.
Successore dello Stato regale, lo Stato – Nazione è una delle manifestazioni storiche del politico, la forma politica propria della modernità. I suoi tratti distintivi sono i seguenti: centralizzazione dei poteri e abbassamento dei corpi intermedi; omogeneizzazione culturale e giuridica del territorio assunto. Questo tipo di politica cerca di far coincidere popolo – lingua – cultura, territorio e Stato.
Questa volontà di omogeneizzazione è strettamente legata al processo di democratizzazione delle società politiche occidentali. In effetti la democrazia è un regime che postula l’identità della volontà popolare e
della legge, l’identità dei governanti e dei governati. Essa suppone un démos, vale a dire un popolo la cui forte omogeneità e la chiara coscienza di ciò che propriamente lo fonda permettono l’emergere di un’autentica volontà generale (si pensi a Jean – Jacques Rousseau). È per questo che in epoca
moderna si è potuto esercitare la democrazia, o quantomeno approssimarvisi, soltanto all’interno di un quadro nazionale.
Questo ideale «nazionale» non è sempre stato realizzato, al di là di tutto.
Si sa che certe nazioni — e non delle minori: pensiamo alla Francia — si sono forgiate all’incrocio di aree culturali distinte (benché in seno ad una medesima civiltà) e sono multietniche. Se non altro ci si è avvicinati, in certa misura, all’omogeneità degli spiriti, sia nelle nazioni dell’Europaoccidentale che in quelle dell’America settentrionale. Oggi, flussi migratori massicci da un lato e la crescita correlativa delle minoranze razziali dall’altro (popolazioni arabo – musulmane in Francia e in numerosi altri Stati europei; popolazioni ispaniche negli Stati Uniti) mettono nuovamente in discussione l’omogeneità del paese d’accoglienza. La coesione di queste società, la loro «governabilità» — tanto per usare un termine
in voga — sono intaccate e, infine, a essere minacciati sono proprio i fondamenti e le strutture dello Stato – Nazione stesso.
Costretti a far fronte alla sfida immigratoria, un certo numero di Stati pensa di riuscire a controllare la situazione praticando una politica di assimilazione. In questo contesto il termine è preso come sinonimo di «naturalizzazione» nel senso etimologico del termine.
Tuttavia l’assimilazione non avviene per decreto: essa dipende da molteplici variabili — peso numerico e dinamismo demografico della popolazione da assimilare; distanza etnoculturale; dinamismo demografico, forza e attrattività del modello culturale della popolazione d’accoglienza. Ora, i paesi interessati dall’immigrazione vivono una crisi dei modelli di assimilazione. Prendiamo la Francia: essa non è più un impero, e neppure la Grande Nazione di un tempo; ha perduto il suo prestigio, e i suoi
meccanismi d’integrazione (scuola, esercito, partiti politici e sindacati) hanno perduto smalto proprio quando il mercato del lavoro non riesce più ad assorbire l’impatto dei nuovi venuti. La distanza etnoculturale degli immigrati aumenta sempre più, dal momento che i paesi d’origine non rientrano più in ambito continentale europeo ma appartengono ad altre sferedi civiltà.
Altro esempio, gli Stati Uniti. Il melting–pot si è rivelato inefficace di fronte alle identità negra e ispano-americana, tanto che oggi quando si parla delle popolazioni degli Stati Uniti, si preferisce usare il
termine di salad–bowl (insalata mista) per indicare la giustapposizione, e non la fusione, di elementi disparati e irriducibili fra loro. Una parte dell’establishment WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant) teme addirittura che gli Stati Uniti finiscano col divenire una «maggioranza di minoranze». L’immigrazione e le sue conseguenze sono all’origine di numerosi dibattiti politici, di referendum e di nuove leggi: nel 1986, legge Simpson – Rodino sul ristabilimento delle quote; referendum californiano sulla risoluzione 187 detta «Save Our State» (i clandestini non avranno più accesso ai servizi sociali, medici e amministrativi); nel 1996, adozione di una legislazione più restrittiva sull’immigrazione; nel 1998, nuovo referendum
californiano sull’adozione dell’inglese come lingua ufficiale.
Nei paesi del «Nord» di tradizione assimilatrice, questo tipo di politica non è dunque riuscito a «naturalizzare» la maggior parte delle popolazioni interessate. Di fronte ai problemi migratori, oltre alle politiche di controllo e d’inversione dei flussi che s’impongono appare necessaria un’altra opzione, già praticata da parecchi anni in area anglosassone: quella del multiculturalismo.
L’opzione multiculturale è stata scelta dapprima in America del Nord — il «comunitarismo all’americana» è di volta in volta un modello o uno spauracchio — in ragione della sconfitta subita dal melting – pot. Essa
si articola sui seguenti princìpi:
- la diversità etnoculturale è non soltanto un fatto, ma un fatto positivo che occorre tutelare e promuovere;
- gli uomini concreti non possono essere separati dalle loro appartenenze etnoculturali;
- le culture devono pertanto essere riconosciute nella sfera pubblica.
È da poco che l’Europa deve confrontarsi con questo tipo di situazione — il necessario riconoscimento delle identità regionali e delle patrie carnali non deve essere confuso con l’immigrazione su vasta scala di elementi non–europei: quindi il dibattito assimilazionismo/multiculturalismo vi è di recente introduzione.
Questa scelta corrisponde alla visione del mondo e ai valori che ci sono propri, ma nel contempo ci induce a porci un certo numero di domande:
- tutte le «differenze» sono compatibili?
- non esistono necessariamente dei fenomeni di rigetto?
- è possibile mettere legittimamente sullo stesso piano il sistema diusi/costumi/norme degli allogeni e quello degli indigeni?
- ci si può accontentare di giustapporre orizzontalmente delle «comunità» nel quadro di una «grande società» (di mercato)?
- e se no, su quali basi enunciare delle norme collettive sovracomunitarie?
- un «patriottismo costituzionale» senza contenuto culturale?
- dei valori universali?
- e se sì, quali?
In realtà, c’è da temere che l’opzione multiculturale non sia altro che l’intellettualizzazione di evoluzioni che si è ormai rinunciato a controllare, avendo come orizzonte una società di mercato all’americana in cui le
solidarietà comunitarie giochino il ruolo di assistenti sociali.
Ricordiamo che gli insiemi multiculturali, particolarmente gli imperi, che hanno preceduto e/o sono coesistiti con gli Stati – Nazione, e hanno saputo resistere al tempo, avevano un collante: lealismo dinastico, pratica di una medesima religione e patriottismo basato su di un’unica civiltà permettevano
di superare le differenze etnoculturali e linguistiche. Oggi, niente di tutto questo!
L’opzione multiculturale va dunque rivista secondo il metro della ragione politica, quand’anche la ragione filosofica dovesse soffrirne. Per assicurare il necessario primato demografico, culturale e politico degli
autoctoni bisogna rispettare qualche condizione sine qua non: controllo e inversione dei flussi migratori; cittadinanza piena e totale per i soli indigeni e assimilati; politica prevalentemente nazionale ed europea. Le popolazioni immigrate non-assimilate non beneficerebbero né della cittadinanza né di un certo numero di diritti ad essa connessi, ma in compenso esse si vedrebbero concedere uno statuto di popolo – ospite. A queste condizioni, l’opzione multiculturale è compatibile con la perennità delle nostre identità europee; in caso contrario, essa sfocerà immancabilmente in situazioni drammatiche, poiché i paesi d’accoglienza
dei flussi migratori saranno lacerati fra civiltà diverse. Le cose sono già molto avanti su questa china…
IL RINNOVAMENTO DELLE PROBLEMATICHE «INTERNAZIONALI»
L’espansione delle correnti migratorie mondiali e la moltiplicazione delle diaspore partecipano, con i movimenti di valuta e di capitale (si pensi al mega-mercato finanziario mondiale) e la rivoluzione delle comunicazioni, alla complessificazione delle relazioni cosiddette internazionali, dal momento che nuovi attori s’impongono sulla scena mondiale.
Dal XVI al XX secolo, lo spazio mondiale si è venuto progressivamente lastricando di Stati — forma politica che ha conosciuto l’apogeo nel XIX secolo. Attore totale, lo Stato-Nazione è l’unico soggetto del diritto
internazionale; dopo il 1945, il fenomeno di territorializzazione (appropriazione delle terre emerse) si è esteso all’Oceano mondiale.
Oggi si contano circa 200 Stati, 185 dei quali sono membri dell’ONU.
Tuttavia la mondializzazione dell’ordine statuale e territoriale non può dissimulare altre e più gravi tendenze. L’«èra occidentale» è stata segnata anche dalla massificazione dei flussi di ogni tipo, particolarmente nella seconda metà del XX secolo: flussi di merci, di capitali, d’immagini e di suoni, e infine di uomini. Contrariamente alla crisi del 1929, quella del 1973 non ha affatto rallentato il movimento bensì l’ha accelerato: grazie a questo, reti molteplici — anche migratorie — scavalcano i territori statali.
Dunque nuovi attori si affermano — aziende transnazionali e multinazionali, organizzazioni non-governative, mafia, sette… e diaspore. Così queste catene di «colonie» e di enclaves collegate da flussi più o meno intensi, avvolgono doppiamente gli Stati-Nazione. Dall’alto, con le reti transnazionali che
esse costituiscono; dal basso, con la formazione di comunità infra-nazionali che si autoregolano. A fianco degli Stati, ineludibili ma di fatto elusi, e non più in grado di padroneggiare in modo esclusivo il gioco mondiale, si affermano dunque delle forze transnazionali, «attori anomici ed esotici», legate alle migrazioni passate e presenti. Le questioni della Svizzera, Stato sovrano, col Congresso Ebraico mondiale danno l’idea della potenza di alcune di queste forze.
Altra conseguenza dei flussi migratori, lo «scontro delle civiltà» descritto e analizzato da Samuel P. Huntington. È noto che secondo il geopolitologo americano la politica mondiale si ricompone secondo degli assi culturali, e le linee di frattura traccerebbero nuove frontiere fra le civiltà. Il metodo
di suddivisione scelto da Huntington è certo contestabile — si pensi alla confusione di Europa e America del Nord in una stessa civiltà occidentale da un lato, e dall’altro il limite stabilito fra cristianità latina e
cristianità greca (spazio slavo-ortodosso) — ma il modello interpretativo che egli propone, il «paradigma civilizzazionale», non è privo d’interesse.
Per riprendere le categorie utilizzate da questo autore, non si può fare a meno di constatare che le civiltà occidentale e slavo-ortodossa dividono uno stesso destino demografico. Altri autori — Yves Lacoste (Silhouetter le troisième millénaire. Tout sauf la fin de l’histoire, in “Le Monde”, 24 ottobre 1997) e Yves-Marie Laulan (Les nations suicidaires, op. cit.) — adottano del resto una definizione di Occidente allargata, che comprende America del Nord, Europa e Russia. In questo senso l’Occidente — il
«mondo-razza bianco», per dirla con Jean Cau — dovrebbe confrontarsi con le civiltà demograficamente massicce: arabo-musulmana, negro-africana, indiana e cinese.
Al riguardo, le proiezioni della Banca Mondiale, pubblicate nel 1994 poco prima della conferenza dell’Onu sulle popolazioni e lo sviluppo organizzata al Cairo, sono particolarmente illuminanti. Da qui al 2030 la
popolazione dovrebbe raggiungere la cifra di 8,5 miliardi (+ 50%) e, soprattutto, le dinamiche regionali saranno destinate a differenziarsi profondamente: l’Europa, Russia inclusa, passerebbe da 731 a 742 milioni di individui (+2%); l’Asia da 3,4 a 5,1 miliardi (+ 35%); l’Africa da 720 milioni a 1,6 miliardi
(+ 103%); l’America del Nord da 295 a 368 milioni (+ 25%); l’America Latina da 475 a 715 milioni (+ 50%). Si può dunque rilevare la forte atonia demografica delle popolazioni di ceppo europeo, tanto più che il tasso di crescita previsto per l’America del Nord, certo più importante che in Europa, sarebbe dovuto soprattutto alla forza dell’immigrazione e alla fecondità delle minoranze etniche. Secondo altre stime recenti, di qui a trent’anni i “Caucasici” (Americani di ceppo europeo) rappresenteranno il 52% della popolazione degli Stati Uniti, contro il 73% di oggi.
Queste dinamiche demografiche differenziate inducono una nuova geografia strategica, quella delle interfacce Nord/Sud: la frontiera Usa/Messico, fra America del Nord e America Latina; più ancora la frontiera Mediterranea, fra Europa e Africa; e il lato meridionale della Russia, contiguo alle aree arabo-musulmana e sino-confuciana. Queste linee di divisione sul piano demografico e su quello civilizzazionale sono dei potenziali fronti di aggressività, con qualche riserva sul Rio Grande. Naturalmente la geografia
strategica non si riduce a queste zone polemogene; è possibile circoscrivere molte altre linee di frattura, relative a poste ben altro che demografiche.
Del resto, migrazioni e diaspore comportano lo straripamento di certe civiltà sulle aree di altre civiltà. Qui è necessario ricorrere alla descrizione fatta da Huntington della struttura di una civiltà: al
centro, lo Stato o gli Stati faro, i più potenti e i più centrali dal punto di vista culturale; intorno, gli Stati membri che s’identificano pienamente, in termini culturali, con la loro civiltà d’appartenenza; alla periferia,
paesi divisi, a cavallo di una o più frontiere di civiltà, con importanti differenze culturali fra le loro componenti umane; all’estrema periferia, negli Stati delle civiltà adiacenti, minoranze culturalmente affini.
Questo schema può essere facilmente applicato alle situazioni geopolitiche contemporanee. Così la civiltà arabo-musulmana beneficia dello scambio con importanti minoranze culturalmente affini nell’ecumene europeo, particolarmente dinamiche sul piano demografico e religioso e, dopo gli accordi di Dayton (1995), con un’entità musulmana, il principato di Sarajevo. Del pari, la civiltà cinese dispone, con le sue importanti minoranze d’oltremare, di una «rete di bambù» estesa sull’Asia del Sud-Est ma anche sull’America del Nord e, benché in misura minore, sull’Europa Occidentale. Lo «scontro delle civiltà» è anche interno. Strettamente legata con l’interazione generalizzata degli spazi e delle popolazioni —questa è una delle definizioni del mondialismo — è l’elaborazione di nuovi modelli conflittuali a partire da situazioni osservabili.
Primo modello, l’intervento esterno, divenuto frequente con le numerose crisi statuali e la riconfigurazione del sistema internazionale. Dopo la fine del conflitto Est/Ovest, le potenze cosiddette occidentali (e la
Russia) manifestano una spiccata propensione agli interventi esterni sui loro confini meridionali per mantenervi una certa stabilità. I governi cercano soprattutto di evitare un confronto diretto con flussi improvvisi e massicci di rifugiati politici e, nel quadro di una politica di controllo dei flussi migratori, intendono tenere la situazione ben salda in pugno.
Dunque gli eserciti sono ristrutturati in modo da poter condurre a buon fine questo tipo di operazione (forze ridotte ma flessibili ed estremamente mobili). Questi interventi non sono sempre militari e aperti: vi si
devono includere le politiche di sostegno agli Stati-cuscinetto e ai regimi-bunker del «Sud».
Altro modello conflittuale, quello dei conflitti identitari. François Thual** (Les conflits identitaires, Ellipse-IRIS, 1995) ha descritto e teorizzato questo scontro dei caos limitati del Sud e, in Europa, quelli
dei Balcani e del Caucaso. Quando questi conflitti si scatenano in prossimità degli spazi sviluppati del «Nord», essi inducono le grandi potenze a intervenire. Questa forma di conflitto mette alle prese gruppi
culturalmente/religiosamente differenziati (etnie, nazionalità, confessioni religiose), ciascuno dei protagonisti essendo convinto del pericolo di estinzione (processo di vittimizzazione). I mezzi di comunicazione moderni permettono di mobilitare le popolazioni interessate e la diaspora, se c’è diaspora, che in tal caso assicura il sostegno economico e lo scambio mediatico. Le ricomposizioni della geografia umana dei paesi sviluppati potrebbero portare benissimo all’estensione di questo tipo di conflitto, prefigurato, su scala minore, dagli scontri etnici delle periferie.
Questo rapido giro panoramico sui fenomeni migratori e sul fatto diasporico ha mostrato gli stretti legami esistenti fra il mercato del sistema-Mondo e la crescente potenza dei flussi umani. Il sistema-Mondo è di fatto un sistema di mobilità fondato sulla messa in relazione generalizzata (mondializzazione/globalizzazione) e l’elogio del nomade (Jacques Attali, Lignes d’horizon, Fayard, 1990). Esso genera una delocalizzazione planetaria e uno sradicamento massiccio di cui la «crisi migratoria globale» (S. P. Huntington) è l’aspetto più visibile e più gravido di conseguenze.
Gli effetti destrutturanti dei flussi transnazionali — umani, commerciali, finanziari, informativi — sono tali che sembra necessario imporre loro una logica politica e quindi riterritorializzarli. Se è vero che lo Stato-Nazione resta un elemento fondamentale del sistema-Mondo, è anche vero che esso attualmente è superato dall’estensione delle scale geografiche e dalla potenza dei flussi planetari, segnatamente umani. La «crisi migratoria globale», come gli altri aspetti della mondializzazione, richiedono dunque una riflessione sul rinnovamento delle forme politiche. Qualcuno si richiama agli imperi.
* Autore con Robert Steuckers e Gunther Maschke del volume “Idee per una geopolitica europea”, pubblicato dalla Società Editrice Barbarossa
** Autore del volume “Geopolitica dell’ortodossia”, pubblicato in Italia dalla Società Editrice Barbarossa
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mercredi, 17 juin 2009
Islam: Obama lance un "missile" symbolique vers l'Europe
Islam : Obama lance un « missile » symbolique vers l'Europe
Après la Bosnie, le Kosovo, la Turquie, les Etats-Unis via le président américain lancent un nouveau message symbolique en vue de déstabiliser l'Europe. Barack Obama a défendu aujourd'hui au Caire le port du voile pour les musulmanes en Occident, prenant le contre-pied de la France.
C'est par trois fois que M. Obama a pris la défense du voile islamique dans son discours prononcé à l'Université du Caire, critiquant le fait qu'un pays occidental « dicte les vêtements » qu'une musulmane « doit porter ».
Au nom de la laïcité, la France a banni en 2004 dans les écoles les signes religieux ostentatoires avec une loi interprétée comme ciblant surtout le voile islamique. La polémique fait également rage au Canada et en Allemagne alors qu'en Belgique, 90% des écoles le bannissent et il est jugé « discriminatoire » par un décret du Conseil d'Etat.
« Il est important pour les pays occidentaux d'éviter de gêner les citoyens musulmans de pratiquer leur religion comme ils le souhaitent, et par exemple en dictant les vêtements qu'une femme doit porter », a-t-il lancé.
Sans jamais citer la France ou d'autres pays, il a enchaîné en affirmant qu'« on ne doit pas dissimuler l'hostilité envers une religion devant le faux semblant du libéralisme ».
« Je sais qu'il y a un débat sur ce sujet », a encore dit M. Obama avant de trancher sur ce sujet toujours controversé en Occident devant un public trié sur le volet, parmi lequel de nombreuses femmes voilées.
« Je rejette », a-t-il ainsi affirmé, « les vues de certains en Occident » pour qui le fait « qu'une femme choisisse de couvrir ses cheveux a quelque chose d'inégalitaire ».
Il a encore souligné que « le gouvernement américain s'est porté en justice pour protéger le droit des femmes et des filles à porter le voile » et « punir ceux qui voudraient le leur dénier ».
Pour la première fois, une Américaine musulmane portant le voile, Dalia Mogahed, d'origine égyptienne, a fait son entrée à la Maison Blanche comme conseillère de Barack Obama.
Mais la question du port du voile, notamment à l'école, met aussi à l'épreuve des gouvernements et opinions publiques dans des pays musulmans.
M.G.
<http://www.dailymotion.com/fr/channel/news>
08/06/2009
Corespondance Polémia
13/06/2009
M.G.
00:49 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : islam, europe, affaires européennes, obama, etats-unis, alliance etats-unisislam, voile islamique | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 16 juin 2009
Interview pour "Sinergeias Europeias"
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994
Robert STEUCKERS:
Interview pour Sinergeias Europeias (n°2)
1. Pendant l'été 1993, toute la presse européenne a parlé de la convergence entre intellectuels de droite et intellectuels de gauche. En Belgique avez-vous été la cible de cette nouvelle inquisition? A votre avis, qu'est-ce qui a fait éclater l'affaire?
L'affaire germait depuis la Guerre du Golfe, du moins en France. Un groupe d'intellectuels a eu le courage de signer un manifeste contre cette entreprise guerrière orchestrée par les Etats-Unis et l'ONU, avec la bénédiction de tous les intellectuels bien-pensants de la place de Paris, ceux qui, précisément, sont passés du «col Mao au Rotary». Alain de Benoist, le chef de file de la Nouvelle Droite était l'un des co-signataires, de même que Gisèle Halimi, Roger Garaudy, Max Gallo, Antoine Waechter (le leader des Verts), Claude Cheysson (un ancien ministre de Mitterrand), etc. Alain de Benoist apparaissait comme le seul homme de «droite» dans cet aréopage. A la suite de l'agitation pour ou contre la Guerre du Golfe, on a pu croire qu'un nouveau «Paysage Intellectuel Français» allait se dessiner, où la stricte dichotomie gauche/droite du temps de la guerre froide n'aurait plus eu sa place. La disparition de cette dichotomie a eu l'effet d'un traumatisme chez ceux qui s'étaient enfermés dans toutes les certitudes de l'Europe divisée, avaient vécu —au sens vraiment alimentaire du terme— des convictions, artificielles et bricolées, qu'ils affichaient sans nécessairement les ressentir, sans y croire toujours vraiment. La chute du Rideau de Fer a obligé les esprits à repenser l'Europe: chez les intellectuels bruyants du journalisme parisien, qui sont très prétentieux et peu cultivés, qui ignorent tout des langues, des littératures, de la vie politique des peuples voisins, le choc a été rude: ils apparaissaient d'un coup aux yeux de tous pour ce qu'ils sont vraiment, c'est-à-dire des provinciaux enfermés dans des préjugés d'un autre âge. Leur ressentiment, le complexe d'infériorité qu'ils cultivent avec une rancœur tenace (ce qui est pleinement justifié, parce qu'ils sont réellement inférieurs à leurs collègues européens, japonais ou américains), voilà ce qui a transparu dans la campagne de l'été 1993. Les connaissances encyclopédiques d'Alain de Benoist, sa volonté de «scientificiser» les discours politiques, les nouveaux clivages, plus subtils, moins manichéens, qui surgissaient à l'horizon, étaient sur le point de leur faire définitivement perdre la face. Ils ont voulu retarder leur déchéance et ils ont lancé cette campagne absurde. Ils ont donné libre cours à la haine qu'ils vouent depuis longtemps au «Pape» de la ND qui, malheureusement pour lui, ne cesse de commettre des maladresses psychologiques.
En Belgique, je n'ai pas été la cible d'une campagne similaire parce que la gauche et la droite ont été quasi unanimes pour condamner cette guerre, y compris dans les médias habituellement très conformistes. L'ambassadeur d'Irak, le Dr. Zaïd Haidar, a été interviewé par tous les journaux, par la radio et la télévision. J'ai eu l'occasion de prononcer une conférence à ses côtés. Le Dr. Haidar est un homme remarquable, un diplomate de la vieille école, un conciliateur né: il a fait l'admiration de tous et suscité le respect de l'ensemble de ses interlocuteurs. Ensuite, Jan Adriaenssens, un haut fonctionnaire des affaires étrangères à la retraite, a réussi de main de maître à faire renaître les sentiments anti-américains dans l'opinion publique belge, en accusant les Etats-Unis, la Grande-Bretagne et la France de jeter de l'huile sur le feu et de nuire aux intérêts de la Belgique. Même si mon pays ne brille généralement pas par l'originalité de ses positions et si le débat intellectuel y est absent, la Guerre du Golfe a été une période d'exception, où nos points de vue ont été largement partagés par les protagonistes en place sur l'échiquier politique. Nous avons donc vécu une Guerre du Golfe très différente en Belgique (et en Allemagne): l'hystérie anti-irakienne des nullités journalistiques parisiennes n'a eu prise sur personne. Qui plus est, la Belgique est le pays qui a le mieux résisté aux Américains qui insistaient lourdement pour que l'on envoie des troupes ou des avions. L'Allemagne, après le refus belge, s'est d'ailleurs alignée sur les positions de Bruxelles.
Dans l'opposition aux menées bellicistes de l'Ouest, les nationalistes de gauche et de droite se retrouvent traditionnellement dans le même camp, surtout si la France joue les va-t-'en-guerre. Automatiquement, surtout dans la partie flamande du pays, on se hérisse contre toute forme de militarisme français et l'opinion se dresse vite contre Paris, par une sorte d'atavisme. Récemment, début 1994, le journaliste flamand Frans Crols a ordonné à l'un de ses jeunes collègues, Erick Arckens, d'aller interviewer Alain de Benoist à Paris, pour faire la nique à ses homologues parisiens et pour montrer qu'il respectait les traditions: les Français persécutés chez eux ont toujours, dans l'histoire, pu librement exprimer leurs idées à Bruxelles. Alain de Benoist, persécuté en 1993, n'a pas fait exception. Alors qu'on avait oublié son existence en Belgique depuis les heures de gloire de la Nouvelle Droite (1979-80), il est réapparu soudainement dans la Galaxie Gutenberg comme un diablotin qui sort d'une boîte, comme une vieille redingote qu'on retire de la naphtaline. Ses persécuteurs ont raté leur coup en Belgique et lui ont permis de s'exprimer en toute liberté dans l'un des hebdomadaires les plus lus de la partie néerlandophone du pays.
La hargne des journalistes parisiens, qui se piquent d'être à gauche, provient sans nulle doute de l'importance considérable qu'a eue le parti communiste en France. L'enrégimentement des esprits a été en permanence à l'ordre du jour: il fallait réciter son catéchisme, ne pas désespérer Billancourt. On ne faisait plus d'analyser, plus de philosophie, on faisait de l'agit-prop, de la propagande: maintenant que la donne a changé, tout cela ne vaut plus rien. En Belgique, le PC a toujours été insignifiant, les communistes, groupusculaires, étaient la risée du peuple, qui voyait s'agiter ces pauvrets sans humour, toujours de mauvaise humeur, dépourvus de joie de vivre. Les Français ont eu des communistes puristes, qui n'avaient rien compris à la dialectique de Hegel et de Marx, qui avaient adopté cette philosophie allemande sans en comprendre les ressorts profonds. Les communistes français ont érigé le marxisme sur un piédestal comme une idole figée, de la même façon que les Jacobins et les Sans-Culottes avaient dressé un autel à Bruxelles pour la «Déesse Raison», devant la population qui croulait de rire et se moquait copieusement de cette manie ridicule. Ces idolâtries puériles ont conservé leur pendant dans les débats, même aujourd'hui: les intellectuels parisiens, bizarrement, ne s'entendent jamais sur les faits, mais sur des abstractions totalement désincarnées: ils imaginent une gauche ou une droite toutes faites, y projettent leurs fantasmes. Et ces momies conceptuelles ne changent jamais, ne se moulent pas sur le réel, n'arraisonnent pas la vie, mais demeurent, impavides, comme une pièce de musée, qui prend les poussières et se couvre de toiles d'araignée. De telles attitudes conduisent à la folie, à la schizophrénie totale, à un aveuglement navrant. La campagne de 1993 est une crise supplémentaire dans ce landerneau parisien, peuplé de sinistres imbéciles dépourvus d'humour et incapables de prendre le moindre recul par rapport à leur superstitions laïques. Ils sont inadaptés au monde actuel en pleine effervescence.
2. Mais la convergence gauche/droite est-elle une situation nouvelle?
Non. Et paradoxalement, ce sont des convergences du même ordre qui attirent encore et toujours les historiens des idées. Ce ne sont pas les conventions de la droite ou de la gauche, la répétition à satiété des mêmes leitmotive qui intéresse l'observateur, l'historien ou le politiste. Mais les fulgurances originales, les greffes uniques, les coïncidentiae oppositorum. En France, la convergence entre Sorel, Maurras, Valois et les proudhoniens en 1911 ne cesse de susciter les interrogations. L'effervescence des années 30, avec le néo-socialisme lancé par Henri De Man, Marcel Déat, Georges Lefranc, les initiatives d'un Bertrand de Jouvenel, d'un Georges Soulès (alias Abellio), etc. sont mille fois plus captivantes que tout ce que disaient et faisaient les braves suiveurs sans originalité. A long terme, les moutons sont les perdants dans la bataille des idées. Les audacieux qui vont chercher des armes dans le camp ennemi, qui confrontent directement leurs convictions à celles de leurs adversaires, qui fusionnent ce qui est apparamment hétérogène, demeurent au panthéon de la pensée. Les autres sombrent inéluctablement dans l'oubli. En Italie, le débat est plus diversifié, l'atmosphère moins étriquée: depuis près de vingt ans, depuis la fin des «années de plomb», hommes de gauche et hommes de droite ne cessent plus de dialoguer, d'approfondir la radicalité de leurs assertions, sans se renier, sans renier leur combat et celui des leurs, mais en élevant sans cesse la pensée par leurs disputationes fécondes.
3. En Russie, en octobre 93, on a vu sur les mêmes barricades des communistes et des nationalistes. Cette situation est-elle due à l'existence d'un ennemi commun, Eltsine, où cette alliance fortuite a-t-elle des bases solides, qui lui permettront de durer?
Bien sûr, le pari qu'Eltsine a fait sur le libéralisme échevelé, sur un libéralisme sauvage qui ne respecte aucun secteur non marchand, qui refuse les héritages culturels, a immanquablement contribué au rapprochement entre communistes et nationalistes, pour qui un ensemble de valeurs non-marchandes demeure cardinal; valeurs sociales pour les uns, valeurs historiques et politiques pour les autres, valeurs culturelles pour tous. A mon avis ce rapprochement n'est pas fortuit. Il faut savoir qu'il y a eu une dimension nationale dans le bolchévisme et que Staline s'est appuyé sur ces résidus de nationalisme pour asseoir puis étendre son pouvoir. Avant son avènement, certains spéculaient sur une «monarchie bolchévique», où un Tsar serait revenu aux affaires mais en utilisant à son profit l'appareil politique, économique et social mis en place par Lénine et ses camarades. Ensuite, quand l'opposition extra-parlementaire en Occident adoptaient les modes gauchistes, le style hippy et raisonnaient au départ des travaux de Marcuse (Eros et civilisation) ou de Reich (le freudo-marxisme), la contestation russe était populiste, nationaliste et écologiste. En témoignent les œuvres de Valentin Raspoutine et de Vassili Belov. Ces auteurs déployaient une mystique des archétypes, ruinaient les arguments des idéologies progressistes, prônaient un retour aux valeurs morales de la religion orthodoxe, chantaient les valeurs de la terre russe, sans aucunement encourir les foudres du régime. Au contraire, on leur décernait le Prix Lénine, même s'ils condamnaient clairement le technicisme matérialiste du léninisme! Les libéraux, en revanche, qui prônaient une occidentalisation des mœurs politiques soviétiques, ont été mis sur la touche. Le rapprochement entre nationalistes et communistes, l'émergence d'un corpus patriotique russe au sein même des structures du régime, datent d'il y a vingt ou trente ans. La perestroïka n'a fait que donner un relief plus visible à cette convergence. Les événements tragiques d'octobre 1993 ont scellé celle-ci dans le sang. La mystique du sang des martyrs russes, tombés lors de la défense du Parlement (de la “Maison Blanche”), sera-t-elle le ciment d'un futur régime anti-libéral?
4. Cette alliance se poursuivra-t-elle après la chute d'Eltsine et des libéraux?
Les élections de décembre 93 ont introduit un facteur nouveau: le nationalisme de Jirinovski, sur lequel les observateurs se posent encore beaucoup de questions. Est-ce une formule nouvelle ou une provocation destinée à fragmenter le camp nationaliste, à isoler les communistes, à tenir à l'écart les éléments patriotiques les plus turbulents? Je crois qu'il est encore trop tôt pour répondre. Les nationalistes radicaux en tout cas rejettent Jirinovski. Au-delà de toute polarisation gauche/droite, une chose est certaine: le libéralisme est inapplicable en Russie. L'essence de la Russie, c'est d'être «autocéphale», de refuser toute détermination venue d'ailleurs. La Russie ne peut prospérer qu'en appliquant des recettes russes, ne peut guérir que si l'on applique sur ses plaies des médications russes. L'alliance anti-libérale des communistes, qui vont au nationalisme pour se guérir de leurs schémas, et des nationalistes, qui refusent la déliquescence libérale, est une formule russe, non importée. Dans ce sens, elle peut survivre à haute ou à basse intensité.
5. Une telle alliance peut-elle se transposer dans les pays occidentaux?
Ce qui est certain, c'est que le discours de la gauche classique est désormais obsolète. La rigidité communiste n'est pas adaptée à la souplesse d'organisation que permettent les nouvelles technologies. Mais, en Occident, le nombre des exclus ne cesse de croître, les clochards apparaissent même sur les bancs publics des villes riches du Nord de l'Europe continentale (Thatcher les avait déjà fait réapparaître en Angleterre). Les secteurs non marchands tombent en quenouille: l'associatif n'est plus subsidié, l'enseignement va à vau-l'eau, on n'investit pas dans l'urbanisme ou l'écologie, on ne crée pas d'emplois dans ces secteurs, la stagnation économique empêche d'accroître la fiscalité. Bref, le libéralisme cesse de bien fonctionner en Europe. Mais les structures syndicales de la sociale-démocratie restent lourdes, dépourvues de souplesse. Face au déclin, nous assistons à toutes sortes de réflexes poujadistes incomplets, qui se traduisent par des succès électoraux, suivis de stagnation. Les mécontents n'ont pas encore trouvé la formule alternative adéquate qui devra immanquablement conjuguer la souplesse administrative, calquée sur la souplesse des nouvelles technologies, aux réflexes sociaux et nationaux. Ces réflexes visent au fond à rapprocher les gouvernants des gouvernés, à trouver des formules de représentation à géométrie variable, fonctionnant dans des territoires de petites dimensions à mesures humaines. Cette nouvelle forme inédite de démocratie locale chassera la démocratie conventionnelle qui a déchu en un mécanisme purement formel. Enfin, la formation d'un bloc européen, qui se dessine à l'horizon, surtout depuis que l'Autriche, les pays scandinaves et les pays du «Groupe de Visegrad» (Hongrie, Pologne, République tchèque) ont demandé leur adhésionà la CEE, nous obligera à trouver une formule politique et sociale différente de celle des Etats-Unis, puissance avec laquelle nous entrerons inévitablement en conflit. Or cette formule doit tenir compte, pour être séduisante, des impératifs urgents que le régime actuel est incapable de résoudre: ces impériatifs sont sociaux, identitaires et écologiques.
(propos recueillis par Julio Prata).
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lundi, 15 juin 2009
Alla conquista del cuore della terra
Archivio - 2003
Piero Pagliani(1) :
ALLA CONQUISTA DEL CUORE DELLA TERRA
Il testo completo su http://www.fedevangelica.it/glam/docglam/42/glam42.exe
Parte I. Potere, egemonia e guerra. La guerra e i cicli sistemici. Tipi di guerra - Violenza, potere politico e potere economico - Le fasi storiche ricorrenti di accumulazione del capitale e le “guerre sistemiche”. I cicli sistemici storici. Il ciclo britannico (Rule Britannia! Britannia rule the waves) - Non “imperialismo” ma “tipi di imperialismo” - L’Impero britannico e l’imperialismo britannico. Il ciclo americano - La crisi del ciclo americano - La fine del ciclo americano (L’Oriente è rosso?). Cala il sipario. La supremazia statunitense come accanimento terapeutico? Dallo scontro tra civiltà allo scontro nelle civiltà: Lo scontro nelle civiltà - La volontà e la rappresentazione - Autori e beneficiari: la pseudo-logica dominante - Perché l’Islam politico - L’impero autoreferenziale statunitense e il cosiddetto “spirito protestante” - I valori occidentali e la loro esportazione. Nota su maggioranza, minoranza e soggetti alternativi. Il sipario strappato: è possibile una resistenza? Appendice A: i primi cicli sistemici. Il ciclo genovese-iberico - Il ciclo olandese - La nascita dello stato-nazione capitalistico inglese.
Parte II. La conquista dell’Eurasia. L’Eurasia. Un posto che ne vale la pena. Le caratteristiche uniche dell’Eurasia - L’Heartland: Asia Centrale e Caucaso. Ovvero, la Torre di Babele. Breve profilo dei contendenti principali. La Russia - La Cina - La Turchia - L’Iran - L’Uzbekistan - La geopolitica degli Stati Uniti: dalla crisi egemonica alla conquista dell’Heartland. Impero o Imperialismo?. Il pendolo delle “opportunità”: i punti salienti della storia recente. Cambiamenti strategici nella storia recente dell’Heartland - L’eredità di Bush Jr. - I nuovi schieramenti - Excursus: perché è stato ucciso il Comandante Massud? - La conquista dell’Heartland e la guerra all’Iraq. L’Heartland e la geopolitica delle risorse energetiche. Premessa - Stime delle riserve energetiche in Asia Centrale - Pensieri geostrategici - Le pipeline: tra geopolitica e keynesismo di guerra - Gli sporchi giochi attorno alla BTC - La BTC: un’opera sovvenzionata dall’apparato militare-industriale? Geopolitica delle risorse naturali: ambiente e acqua. Generalità - Cenni sulla questione dell’acqua in Medio Oriente: l’asse “idro-militare” Turchia-Israele - Cenni sulla questione delle risorse idriche in Asia Centrale - Petrolio e acqua: il caso dello Xinjiang - Petrolio e ambiente: il caso del Bosforo. Epilogo. Excursus: di nuovo sull’autoreferenzialità. Appendice B: Il conflitto del Nagorno-Karabakh - Le contraddizioni degli USA nella politica eurasiatica: Sezione 907 contro Silk Road Strategy Act. Appendice C: L’Olocausto Armeno. Gli Armeni - Il genocidio - “Umanità” è un concetto geopolitico, come le direttrici delle pipeline.
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Come è tristemente noto, le guerre sono sempre rivestite da ideali. E’ un meccanismo che gli antichi Romani avevano codificato nel famoso "si vis pacem, para bellum", se vuoi la pace prepara la guerra. Il meccanismo dell’ossimoro, della contraddizione in termini. "Pace è guerra" come, riecheggiando Orwell, giustamente la scrittrice e militante indiana Arundhati Roy intitolava un suo articolo sull’Afganistan. "Guerra Umanitaria", "Guerra Etica" e via celando la verità, con il corredo di "effetti collaterali", "precisione chirurgica", "prezzi giusti da pagare" (da parte delle vittime, ovviamente), ecc. Nonostante l’assordante clamore di questo sistema di inganni, è ormai evidente a tutti che in ogni angolo del mondo milioni di persone in qualche modo hanno capito che i "conflitti locali" degli ultimi tre lustri, giustificati da questi o quei motivi, inventati o reali che siano, fanno in realtà parte di una produzione in serie progettata e realizzata, con gli inevitabili aggiustamenti in corso d’opera, dall’attuale potenza capitalistica dominante, gli USA, e dal suo entourage che incomincia ad assumere forme instabili e cangianti.
Il petrolio: una spiegazione necessaria ma non sufficiente
Moltissime persone hanno anche incominciato ad intuire che il petrolio deve c’entrare non poco in questi conflitti. La guerra del Golfo era paradigmatica, ma anche ai tempi di quella contro la Serbia qualche osservatore controcorrente e attento si era ricordato di un progetto per fare transitare attraverso il Kossovo in direzione dell’Europa occidentale gli idrocarburi fossili provenienti dai terminali sul Mar Nero(2). Probabilmente era un motivo secondario, però forse non così tanto, vista poi l’ampiezza della base di Camp Bondsteel, costruita in Kossovo vicino a oleodotti e corridoi energetici da una affiliata della compagnia petrolifera "Halliburton Oil" di cui Cheney era Direttore Generale(3). Poteva essere una coincidenza. Ma anche l’Afganistan è da anni considerato un territorio di transito preferenziale (rispetto all’invisa Repubblica Islamica dell’Iran) per gli idrocarburi fossili estratti dalla zona del Mar Caspio che saranno diretti verso l’Oceano Indiano. Infatti, un intervento in Afganistan contro i recalcitranti (e irriconoscenti) Talebani era già nell’agenda di Clinton, senza bisogno del destro poi "offerto" da Osama bin Laden. E, similmente, anche l’intervento nel Kossovo era già stato deciso molto prima del preteso "genocidio"(4). E ora di nuovo l’Iraq. A freddo. Anche qui, per pura coincidenza, troviamo il petrolio, esattamente la più grande riserva mondiale dopo l’Arabia Saudita. Petrolio di ottima qualità, economico da estrarre. E, ancora per puro caso, l’oro nero si trova anche in quasi tutti i Paesi elencati nell’agenda antiterrorismo degli Stati Uniti: Iran, Sudan, Indonesia. Il petrolio è quindi un collante evidente dei conflitti avvenuti e di quelli a venire. Ma esiste un’altra coincidenza ancora più interessante: tutti e tre gli "Stati canaglia" canonici sono in Asia. Inoltre, verosimilmente i prossimi obiettivi saranno decisi insieme ad Israele e quindi, riflettendo la strategia geopolitica di questo Paese, che insiste sul Medio Oriente e sull’Asia Centrale (via Turchia), saranno anch'essi concentrati in quest’area(5). Troppe coincidenze fanno, ovviamente, un piano lucido. Ma quale piano? Questo piano ha a che fare solo con il petrolio? O è un piano più vasto?
Il "cuore della terra" e il controllo delle "nuove vie della seta"
Ci sono molti motivi per ritenere che il controllo delle risorse energetiche costituisca un fattore importante di un calcolo più ampio. Secondo il mio modo di vedere i martoriati Iraq e Afganistan, i tristemente noti Kossovo e Bosnia, così come gli sconosciuti, ma anch'essi infelici, Azerbaijan e Georgia e il furbo Uzbekistan sono tutte tappe di quella che definisco "la conquista del cuore della Terra", cioè l’attuazione riveduta e aggiornata della classica "dottrina Brzezinski" di conquista del centro dell’Eurasia, o meglio ancora, prendendo a prestito il nome di una legge statunitense varata all’uopo nel 1999, il Silk Road Strategy Act, sono tappe verso il controllo delle nuove vie della seta, delle risorse energetiche che vi fanno capo e di quelle del Golfo. Ma per un fine strategico più complesso. Le tappe successive potrebbero essere l’Iran, la Siria o anche un’Arabia Saudita già adesso in pesantissima crisi economica e sociale e ulteriormente destabilizzata dal probabile dopo Saddam(6). Più facilmente, con i soldi e non con le armi, ovverosia alla moda dell’Uzbekistan (già da tempo infeudato a Stati Uniti e Israele), sono ormai a portata di mano il Kirghizistan e il Tagikistan(7). Interessante sarà vedere cosa gli Stati Uniti intenderanno fare con il Kazakistan, il cui petrolio è appetito da tutti e potrebbe essere essenziale per dare un senso economico ad un oggetto su cui vale la pena soffermarsi brevemente: la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che unirà i pozzi petroliferi di un Azerbaijan ormai praticamente federato alla Turchia, a un grande terminale petrolifero proprio sulla costa mediterranea del (bellissimo) paese fondato da Atatürk, passando attraverso una Georgia che non vede l’ora di sbarazzarsi della presenza militare russa (che comunque tra qualche anno dovrà sgombrare il campo grazie ai Protocolli di Istanbul). Ma per sperare di fornire alla BTC la quota giornaliera di petrolio imposta dai calcoli economici bisognerà vincere le indecisioni del governo di Astana, alternativamente propenso verso la Cina, la Russia, l’Iran e l’Occidente. Per quanto riguarda il Turkmenistan, per ora apparentemente c’è poco da sperare dato che sembra soddisfatto degli accordi che legano i suoi ricchissimi giacimenti di gas naturale alla rete di gasdotti della russa Gazprom. E, come ben sanno gli Stati Uniti, le pipeline non sono solo corridoi energetici, ma anche diplomatici.
Il keynesismo di guerra delle pipelines.
La BTC, fortemente voluta dal dipartimento di Stato statunitense (e non, si noti bene, da quello dell’energia come sarebbe stato naturale) è un’opera quasi sconosciuta – e specialmente ai nostri più gettonati commentatori – ma per ora è il miglior esempio di attuazione nel nuovo impero formale degli USA di quel "keynesismo di guerra" di cui tanto si parla. Infatti benché non abbia attualmente una prospettiva molto profittevole questa pipeline ha, tuttavia, il nobile compito geostrategico di sottrarre il petrolio del Mar Caspio all’influenza russa, cinese e iraniana e di cementare la "nuova via della seta" Turchia-Georgia-Azerbaijan, che in realtà inizia in Israele e termina nel bel mezzo dell’Asia Centrale a ridosso della Cina. Un vero e proprio paradigma della strategia statunitense. Una strategia che ha l’obiettivo conclamato di contrastare, attraverso il controllo dei principali fattori strategici (posizione geografica e risorse energetiche), la possibilità che in Eurasia si formi un’aggregazione di forze che possa mettere in discussione la supremazia statunitense, la quale, per leggere a ritroso una spudorata ammissione del dottor Kissinger, è solo un altro modo per definire la cosiddetta "globalizzazione". Se questa strategia è evidente, se non altro perché dichiarata senza troppe remore dai responsabili statunitensi, ne sono però meno evidenti le motivazioni più profonde. Al di là delle apparenze, della propaganda e delle certezze anche di sinistra, ritengo che sia più che sensato porsi delle domande, se non altro a partire dalla constatazione che è alquanto strano che gli Stati Uniti sentano minacciata la propria supremazia proprio dopo che l’unica altra superpotenza, l’URSS, è collassata.
I diritti umani come transponder per bombardieri
La vulgata propagandistica narra di una lotta titanica contro un terrorismo internazionale senza obiettivi razionali ma motivato da istinti premoderni se non addirittura primordiali. Una lotta che si complementa con una missione storica: la difesa e l’ampliamento dei diritti umani, della sicurezza globale e della democrazia. Queste sono le motivazioni superficiali, ovvero quelle che si vuole far apparire in superficie, come la punta di un iceberg. Ma già un solo metro sotto il livello del mare spariscono, perché lì iniziano quelle più profonde. Come l’Afganistan insegna, diritti umani, sicurezza e democrazia non sono nemmeno "side effects" della guerra, che purtroppo sono di tipo ben differente. Al contrario, l’uso strumentale dei diritti umani equivale esattamente alla loro cerimonia funebre. Infatti il problema che pone questo scenario è che quando i diritti umani sono utilizzati come armi politiche o quando seguono compatibilità strategiche e non sono invece concepiti come diritti individuali e collettivi universali, indivisibili e inalienabili, diventano inservibili perché ogni richiamo ad essi rischia di diventare un transponder per bombardieri. La motivazione più recepita e variamente elaborata dalla sinistra è invece il petrolio. Come abbiamo visto è sicuramente più pertinente; tuttavia è parziale e questa parzialità rischia di metterne in ombra la pregnanza: perché infatti gli Stati Uniti avrebbero la necessità di acquisire militarmente questo controllo dato che, almeno apparentemente, hanno una forza politica ed economica tale da attrarre e condizionare qualsiasi paese produttore, dall’Arabia Saudita alla Russia? L’utile di breve e medio termine che ne ricaverebbero vale gli altissimi rischi economici, politici e militari che queste aggressioni comportano? La risposta non può consistere nel ribaltare gli assiomi statunitensi e vedere negli USA un "Regno del Male" con l’aggravante di essere guidato da un gruppo dirigente particolarmente ignorante, aggressivo e arrogante (cosa sicuramente vera) che ormai non riesce ad inventarsi nient’altro che la conquista imperialistica diretta delle risorse altrui. E’ chiaramente una spiegazione limitata, a volte frutto di legittima esasperazione, ma non accettabile, per il semplice motivo che in linea di principio anche le spiegazioni che prendono in considerazione fattori irrazionali o mitologici devono comunque inserirli in un quadro analitico razionale.
Il dominio statunitense: parabola di un ciclo sistemico di accumulazione del capitale
Un quadro analitico razionale che ritengo possa inquadrare con successo i fenomeni che stiamo osservando, da quelli più materiali a quelli più ideologici, ci è fornito dall’analisi dei cicli sistemici di accumulazione del capitale, così come è elaborata dalla scuola di pensiero detta del "sistema-mondo", raccolta attorno al "Fernand Braudel Center for the study of Economies, Historical Systems, and Civilizations", dell’Università di Binghamton, New York e guidato da Immanuel Wallerstein, Andre Günder Frank e Giovanni Arrighi e, in posizione più eccentrica e spesso critica, Samir Amin. In particolare, secondo Giovanni Arrighi ogni ciclo sistemico di accumulazione è egemonizzato da una singola potenza e presenta una fase iniziale di espansione materiale basata sulla produzione e sul commercio cui segue una fase di crisi e decadenza, caratterizzata da un disimpegno del capitale dalla produzione e dal commercio e da un suo impegno nella speculazione finanziaria internazionale (si veda G. Arrighi, "Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo". Il Saggiatore, 1996). Questa espansione finanziaria è alimentata dalla concorrenza tra gli Stati per succedere alla potenza egemone in crisi, concorrenza che richiama il capitale attraverso un’espansione del debito pubblico e le spese per il riarmo che si ampliano a dismisura durante le fasi di crisi sistemica. Seguendo questa analisi arriviamo allora ad uno scenario sorprendente: gli Stati Uniti fanno quel che fanno non perché sono senza rivali ma perché la loro supremazia è in crisi. O, per essere più precisi, perché sono in crisi – e da tempo – i meccanismi di base di riproduzione di questa supremazia. Infatti, secondo la valutazione di molti studiosi, anche appartenenti a scuole di pensiero differenti, gli Stati Uniti stanno vivendo la fase di declino della loro egemonia nata con la fine della II Guerra Mondiale. In termini più ampi, la Superpotenza sta percorrendo la fase discendente di una parabola iniziata alla fine del XIX secolo e che ha raggiunto il suo apice negli anni tra il 1945 e i primi anni settanta del novecento. Di questa crisi potrebbero approfittare (anche qui, non per intrinseca perfidia o per odio antioccidentale, ma per occidentalissimi meccanismi concorrenziali) alcune potenze di dimensione continentale come gli stessi Stati Uniti: in primo luogo la Cina, poi la Russia e, in prospettiva, anche l’India. Questa partita tutta eurasiatica è però estremamente aperta e lo strapotere bellico statunitense la sta spostando su un piano militare. Cosa che è storicamente avvenuta in tutte le precedenti fasi di crisi sistemica individuate da Giovanni Arrighi.
Decadenza e violenza
La fine di un ciclo egemonico è infatti sempre un periodo di violenza, così come il suo inizio. Per la precisione l’egemonia è l’evoluzione di un dominio ottenuto con la forza e, parimenti, l’esaurirsi di un’egemonia favorisce l’uso della forza per far emergere un nuovo dominio. La violenza è dunque un modo iniziale e finale di esercizio del potere. L’esercizio maturo è ottenuto tramite l’egemonia, ovverosia facendo condividere gli scopi del potere anche a chi è soggetto gerarchicamente al potere stesso. Un’egemonia può basarsi su meccanismi ideologici e/o materiali e, si può dire, è compiuta quando li comprende entrambi. Meccanismi ideologici classici sono la fedeltà ad un gruppo etnico, ad una religione o il riconoscimento di un nemico o di interessi comuni, e quindi essi stabiliscono i modi in cui il potere è legittimato e può essere esercitato, anche in termini coercitivi (termini che sono ereditati dai meccanismi violenti con cui inizia la parabola dominio-egemonia-dominio e, per dirla con Marx, ricompaiono quando le cose non vanno più per il loro "corso ordinario"). Sono dinamiche che tendono a raggruppare, a definire spazialmente l’area di egemonia. In generale diremo che sono dinamiche che tendono a territorializzare. Dinamiche che vengono esaltate da eventi come Pearl Harbour o l’11 settembre, o in periodi come la Guerra Fredda. Meccanismi materiali sono quelli di carattere economico, il riconoscersi in un circuito commerciale o produttivo o anche finanziario, come attori e/o beneficiari. Questi meccanismi non sono necessariamente territorializzanti. Anzi spesso tendono alla deterritorializzazione, a rompere le frontiere spaziali. E ciò accade patologicamente quando una giurisdizione territoriale diventa un limite per l’accumulazione del capitale. A partire dagli albori del capitalismo nelle città-stato dell’Italia settentrionale, i due tipi di meccanismi di potere possono considerarsi – in linea di principio – appannaggio di gruppi separati, risultato di un lungo processo di differenziazione tra centri di potere politico territoriale e centri di potere economico, tra Stati e imprese. E’ a questo punto dell’evoluzione storica che si può parlare di "Capitale" come distinto dal "Potere" (territorialista).
La logica del Capitale e la logica del Potere
La divaricazione dei comportamenti di potere e capitale è innanzitutto spiegata dal fatto che il primo segue una logica di spazi-di-luoghi mentre il secondo segue una logica di spazi-di-flussi. La logica degli spazi-di-luoghi è funzionale alla razionalità del potere che è dettata da fattori come la formazione dello Stato, coi suoi meccanismi di riproduzione del controllo del territorio dove il potere è installato, quelli di espansione in ampiezza e le motivazioni ideologiche e morali che si di solito si intrecciano a questi fattori. La logica degli spazi-di-flussi è invece dettata da criteri come il calcolo del rapporto costi-benefici di ogni intrapresa e il controllo della capacità di acquisto, intesi come strumenti organici all’unico scopo della logica puramente capitalistica: generare denaro tramite denaro. E’ la particolare fusione di queste due logiche che permise l’ascesa delle città-stato italiane, dando l’avvio ai grandi cicli di accumulazione del capitale. Una storia che inizia col tentativo da parte dei mercanti europei di recuperare i mezzi di pagamento che si erano concentrati in Oriente e specialmente in Cina, aree che fino a metà del 1700 forniranno la quasi totalità dei prodotti manifatturieri mondiali. Ma perché il capitale si allea col potere tramite il meccanismo del debito pubblico? In sintesi questo matrimonio d’interessi è dovuto in alcune situazioni alla ricerca di protezione territoriale da parte del capitale apolide e, più in generale, ai calcoli del capitale rispetto le capacità del potere con cui si sta alleando di permettergli una successiva espansione materiale. Infatti ad ogni alleanza del capitale con il potere, stipulata durante la fase di espansione finanziaria, che è caratterizzata dal disimpegno del capitale dalle attività di trasformazione della natura, è seguita una fase di espansione materiale, caratterizzata invece dall’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, a scala ben maggiore di quella precedente. A sua volta il potere si allea col capitale per consolidarsi ed espandersi, ovvero per coprire i "costi di formazione dello Stato" e i "costi di protezione". Storicamente questa alleanza fa emergere una e una sola potenza capitalistica mondiale la cui egemonia caratterizza un ciclo sistemico di accumulazione. Questa potenza capitalistica sarà quella capace di accentrare il monopolio dei mezzi di pagamento e di "presentare i propri interessi come interessi generali di tutti gli altri agenti (stati-nazione, cittadini) o di un importante gruppo di essi" (Arrighi, op. cit.). E avendo rilevato il potere a spese della potenza egemone declinante (e degli altri contendenti), questa posizione gli permette, per l’appunto, di avviare la nuova grande espansione materiale di cui ha bisogno il capitale. Quando l’espansione materiale incomincia a diventare un limite alla valorizzazione del capitale allora inizia anche il divorzio tra il capitale e la potenza egemone in carica. Questo momento di passaggio è quindi indotto da una crisi generale di accumulazione "che segna il punto più alto del periodo di espansione materiale (D -->M) e dà inizio al periodo di espansione finanziaria (M -->D’)" (ibidem(8)). Come commenta Arrighi, D è segno di libertà di azione da parte del capitale: varie scelte di valorizzazione sono possibili. D -->M è uno specifico impegno del capitale che però viene sottoposto alle rigidità incorporate da M. Infine M -->D’ è un disimpegno grazie al quale il capitale riacquista una libertà d’azione, D’, allargata. E’ con questa dinamica che il capitale affronta la dialettica limite-condizione delle composizioni di potere territoriali storicamente date e le trasforma. Il disimpegno del capitale dalla produzione e commercio di merci inizia quando l’espansione materiale genera capitali che non possono incrementare "se non a patto di non essere più reinvestiti nelle attività che li hanno generati". La ragione di questo fenomeno risiede nel successo stesso dell’espansione materiale che genera pressioni concorrenziali di vario tipo (pressione verso l’alto dei salari, concorrenza per l’approvvigionamento delle materie prime, concorrenza sugli sbocchi commerciali dei prodotti, eccetera). Queste pressioni abbattono il profitto sotto quelle soglie che gli agenti capitalistici ritengono "tollerabili". Si ha allora una crescente fuoriuscita di capitali dall’investimento nelle attività produttive e commerciali e si genera una massa crescente di denaro in cerca di occasioni di profitto(9). La fase di espansione finanziaria, come si è detto, è resa possibile dalla concorrenza tra gli Stati per il capitale mobile, concorrenza che è indotta a sua volta dalla loro rivalità nella successione alla potenza egemone, ancora in carica ma uscente. Questa successione avviene facendo leva su due punti: a) l’acquisizione diretta o indiretta delle reti commerciali-industriali del soggetto egemone uscente; b) la centralizzazione dei mezzi di pagamento internazionali. L’espansione finanziaria è quindi legata a una fase di caos sistemico che genererà una nuova egemonia al cui interno saranno riorganizzati i processi di accumulazione del capitale su scala mondiale. L’inizio della fase discendente di un ciclo egemonico è segnalato da una crisi detta "crisi spia" (s1, s2, …, nel diagramma successivo) perché in effetti è la "spia" di una più profonda e fondamentale crisi sistemica, che lo spostamento verso l’alta finanza (la finanziarizzazione) dissimula e ritarda fino all’avvento della "crisi terminale" (t1, t2, …, nel diagramma). In realtà, "lo spostamento può fare molto più di questo: esso può trasformare per chi lo promuove e lo organizza, la fine dell’espansione materiale in un "momento meraviglioso" di nuova ricchezza e di nuovo potere, come è avvenuto, in misura diversa e secondo modalità differenti, in tutti e quattro i cicli sistemici di accumulazione. Tuttavia, per quanto meraviglioso possa essere questo momento per coloro che traggono maggiormente vantaggio dalla fine dell’espansione materiale dell’economia-mondo, esso non è mai stato l’espressione di una soluzione durevole della crisi sottostante. l contrario è sempre stato il preludio a un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione ancora dominante con uno nuovo." (ibidem)
Il "momento meraviglioso" in piena crisi sistemica, di cui parla Arrighi, è stato rappresentato ai giorni nostri dalla nuova belle époque reaganiana-clintoniana che ha raddoppiato la classica belle époque a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
L’egemonia USA, ultimo ciclo sistemico storico
Fatte queste premesse, si possono individuare i seguenti cicli sistemici (adattamento da Arrighi, op. cit.):
Ci sono molte interessanti osservazioni sono indotte da questo diagramma. Le condensiamo qui indicando solo la continua accelerazione del ritmo (tempo sempre minore per l’ascesa, lo sviluppo e la sostituzione di un regime sistemico) e l’aumento della complessità organizzativa richiesta ad una potenza per poter emergere come dominante (lo si nota tramite la scala sull’ordinata da me aggiunta allo schema di Arrighi). Queste dinamiche sembrano confermare l’osservazione fatta da Marx nel terzo libro del Capitale, secondo la quale "il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso", ragion per cui la produzione capitalistica supera questa contraddizione "unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta". L’ultimo ciclo di espansione materiale inizia con la vittoria degli Stati Uniti nella Guerra dei Trent’anni per la successione all’egemonia britannica (1914-1945) e con la I Guerra Fredda che permette a Truman di vincere le resistenze di un Congresso isolazionista ed estendere su una zona artificialmente limitata del mondo le idee di New Deal mondiale elaborate da Roosevelt (bisogna infatti notare che nei piani di Roosevelt non era contemplata nessuna suddivisione del mondo e anche l’Unione Sovietica vi rientrava a pieno diritto). Per vincere quelle resistenze l’amministrazione Truman invocava un’emergenza internazionale che il sottosegretario di Stato, Acheson, aveva "previsto" in Corea, in Vietnam o a Taiwan. Chissà come Acheson "indovinò" veramente perché, come ebbe a dire, "la Corea arrivò e ci salvò". Era il 1950. La I Guerra Fredda era ormai ufficialmente dichiarata. Il mondo veniva diviso in due e il New Deal poteva propagarsi su un "mondo" in formato ridotto e quindi gestibile: il "Mondo Libero". Come ci ricorda Gore Vidal, le resistenze e le proteste contro la politica estera di Truman e la complementare politica interna di sicurezza nazionale, da parte degli uomini del defunto Roosevelt (come ad esempio l’ex vicepresidente Henry Wallace) furono emarginate o criminalizzate anche con l’accusa di"comunismo" (sic!) (si veda Gore Vidal, "Le menzogne dell’impero". Fazi Editore, 2002) Fu così che sull’onda del più grande riarmo che il mondo avesse mai visto in tempo di pace si costituì lo strumento per continuare a sostenere gli aiuti all’Europa anche dopo la conclusione del Piano Marshall e impedire che innanzitutto il Vecchio Continente (o almeno la sua parte "libera") e poi il Giappone si isolassero dagli Stati Uniti. Gli organismi sovranazionali di governo del mondo, che nella visione di Roosevelt avrebbero dovuto sancire il carattere politico del governo mondiale, furono tenuti sullo sfondo. Le organizzazioni nate con gli accordi di Bretton Woods – cioè Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – e l’ONU ebbero solo una funzione ancillare nei confronti del governo statunitense (anche la Corea fu un’operazione di "polizia internazionale") oppure furono ostacolate. L’unico effetto rivoluzionario degli accordi di Bretton Woods fu che la produzione del denaro mondiale passò sotto l’esclusivo controllo di una ristretta rete di autorità governative (in linea con il primato della politica sulla finanza codificato dal New Deal rooseveltiano). Tra il 1950 e il 1968 assistiamo così alla più grande espansione materiale della storia del capitalismo (la cosiddetta "Età dell’Oro del capitalismo"), all’ombra di un dominio formale statunitense, speculare a quello sovietico, ovverosia di una struttura gerarchica di Stati con a capo gli USA, dominio a cui cercarono di sottrarsi la Francia gaullista e Cuba. Ma tra 1968 e il 1973 si consuma la "crisi spia" del ciclo americano. La crescente concorrenza internazionale, con conseguente disimpegno dei mezzi di pagamento dagli investimenti produttivi e il progressivo impegno nella speculazione finanziaria – ad esempio nell’Eurovaluta – e una serie di tracolli politico-militari del campo occidentale (guerra del Vietnam, guerra del Kippur) congiunti all’impossibilità da parte delle autorità statali di tenere sotto controllo i flussi monetari generati dalle multinazionali, che seguendo la logica degli spazi-di-flussi sfuggono costantemente alle singole giurisdizioni pur basandosi su di esse, portarono alla fine del gold-dollar-standard (la base aurea mediata dal dollaro che aveva sostenuto il periodo di sviluppo materiale) e all’inedito fenomeno della stagflazione: la stagnazione accompagnata dall’inflazione. Il ciclo americano era entrato in crisi globale a meno di trent’anni dal suo inizio.
Un accanimento terapeutico: cercar di succedere a se stessi
Dopo tentativi del governo statunitense di ridurre alla ragione l’alta finanza, contrastando le manovre speculative con una continua inflazione e un continuo deprezzamento del dollaro, con Reagan assistiamo ad un processo opposto: la ricerca di nuova alleanza tra potere e capitale suggellata dalla trasformazione degli Stati Uniti nel più grande mercato offshore del mondo (deregulation) e con un riarmo sfrenato che trasformò il debito pubblico statunitense in un immenso aspirapolvere di capitali, così potente da risucchiare tutte le eccedenze dei Paesi industrializzati e uccidere sul nascere le speranze di "recupero" dei Paesi che, all’epoca, si dicevano "in via di sviluppo". La politica di Reagan con la sua II Guerra Fredda rappresentò dunque una duplicazione della I Guerra Fredda di Truman, ma per scopi totalmente opposti: mentre Truman voleva risolvere il problema della ridistribuzione della capacità di acquisto concentrata negli Stati Uniti, Reagan aveva invece il problema di riconcentrarla. Un’altra differenza consisteva nel fatto che con la sconfitta del Vietnam gli Stati Uniti abbandonarono la politica di impero formale per entrare in una fase di impero informale dove l’egemonia era esercitata tramite il mercato, più o meno come era successo nel 1800 con il periodo di libero mercato nel Regno Unito durante il precedente ciclo di accumulazione. Nel caso degli USA erano però il crescente deficit commerciale e l’enorme indebitamento pubblico che, congiunti alla supremazia monetaria, politica e militare fungevano da forza centripeta del mercato mondiale. Questa situazione si è estesa all’era Clinton, grazie all’esasperata finanziarizzazione dell’economia trainata dalla forza del dollaro (crescita della bolla speculativa) e alla massiccia terziarizzazione(10). Ed è così che negli anni novanta del secolo scorso, gli Stati Uniti hanno vissuto il culmine del loro "momento meraviglioso". Ma altri meccanismi erano all’opera. L’egemonia statunitense reaganiana-clintoniana era strutturalmente debole. Al contrario dei precedenti storici, ultimo l'Impero Britannico, gli Stati Uniti non avevano, e non hanno, un surplus strutturale da reinvestire all’estero e favorire la crescita (subordinata) dei Paesi che ricadevano sotto il loro tramontante impero informale o che ricadranno sotto il loro futuro dominio. Ne segue che la crescita degli USA e del sistema capitalistico occidentale (Giappone ed Europa) lascia indifferenti, nei migliori dei casi, le sorti del restante i restanti 4/5 del mondo, dato che questo sistema, sia in termini economici, sia in termini culturali, sia in termini politici "non ha più nulla da proporre all’80% della popolazione del pianeta" mondiale (Amin).(S. Amin, "Oltre il capitalismo senile". Edizioni Punto Rosso). La supremazia, statunitense per utilizzare le categorie offerteci dall’approccio del sistema-mondo, si gioca allora esclusivamente sulle attività di formazione e di protezione dello Stato. E’ una supremazia che comunque permette agli Stati Uniti di convertire in forza gravitazionale che agisce sul mercato i loro disavanzi (quello dei conti con l’estero ha ormai superato il 430 miliardi dollari) e di porsi al primo posto nell’ambito degli armamenti e della ricerca scientifica, attività strettamente legata al riarmo, e che consentono loro di ipotecare almeno quattro dei cinque monopoli individuati da Samir Amin coi quali si esercita la supremazia mondiale: monopolio della tecnologia, controllo dell’accesso delle risorse naturali, monopolio dei mezzi di comunicazione e dei media, monopolio degli armamenti di distruzione di massa (cfr. Samir Amin, “Il capitalismo del nuovo millennio”. Edizioni Punto Rosso, 2001). Il quinto monopolio, il controllo mondiale dei flussi finanziari, è invece più problematico. Negli anni novanta si è assistito infatti ad una impressionante crescita asiatica nell’alta finanza. Fatti 100 i beni delle maggiori 50 banche mondiali, la percentuale giapponese è passata dal 18% del 1970 al 48% del 1990, mentre le riserve in valuta estera sono passate dal 10% del 1980 al 50% del 1994. Questa crescita è stata accompagnata da un’eccezionale espansione industriale. L’Unione delle Banche svizzere ha stabilito in un’analisi comparativa che a partire dal 1870 non c’è mai stata una crescita economica paragonabile a quella recente del Sud-Est e dell’Est asiatico iniziata poco dopo la crisi sistemica del 1968-1973 (+ 8% annuo di media). In più questa crescita è avvenuta in un periodo di stagnazione nel resto del mondo e si è propagata come un’onda dal Giappone alle Tigri asiatiche, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong, e da lì alla Malaysia, alla Tailandia e all’Indonesia, fino a coinvolgere anche il Vietnam. E ora la Cina. Come si sa, i carghi provenienti dall’Oriente in Europa sono zeppi di merci, mentre quelli in direzione contraria sono mezzi vuoti, riproducendo singolarmente la situazione che avveniva all’inizio del capitalismo seicento anni fa. Similmente, come nella seconda metà dell’800 la produzione industriale britannica era ormai surclassata da quella statunitense e tedesca, allo stesso modo oggi assistiamo al declino industriale dell’Occidente a favore dei nuovi Paesi emergenti(11). "La contraddizione dell’egemonia mondiale USA ha innanzitutto a che fare con un percorso di sviluppo caratterizzato da alti costi di protezione e riproduzione, ovvero sulla formazione di un apparato militare di ampiezza globale ad alta intensità di capitale e sulla diffusione di uno schema di consumo di massa insostenibile e devastante che hanno finito per destabilizzare la potenza degli USA. Al contrario, l’eredità storica dell’Asia dell’Est di minori costi di riproduzione e di protezione hanno dato alle agenzie governative e d’affari della regione un decisivo vantaggio competitivo nella economia globale fortemente integrata. Se questa eredità verrà preservata, è un fatto ancora non chiaro." (Arrighi, op. cit.) Come risultato evidente di questa contraddizione, la sconfitta del Vietnam forzò gli USA a riammettere la Cina nei normali circuiti commerciali e diplomatici mondiali, ampliando il raggio dell’espansione e dell’integrazione regionale, in cui la Cina stessa, con la sua base demografica, le potenzialità di crescita e la disponibilità di forza-lavoro è diventata un gigante assoluto, attraendo quote crescenti di mezzi di pagamento. La Cina ha ormai superato il Giappone nella fornitura di merci agli USA e le autorità cinesi "hanno in mano il destino dei cambi dell’intero continente asiatico." (M. De Cecco, "La Repubblica, Affari & Finanza", 13-1-03) (12). Non è quindi un caso che gli Stati Uniti abbiano previsto che tra il 2017-2020 la Cina diventerà un avversario strategico. L’arcano profondo dell’attacco a Oriente sta forse proprio qui. Evitare che il capitale si allei con l’emergente stato-nazione-continente cinese. E per raggiungere questo obiettivo deve cercare, finché è ancora in tempo e finché ne è ancora capace, di arginare il più possibile la propria decadenza e di occupare, come sanno i giocatori esperti, il "centro della scacchiera". Ed è possibile, anche se con difficoltà. Le difficoltà nascono dal fatto che, per dirla in termini un po’ naïve, gli Stati Uniti non hanno assolutamente tanti soldi da spendere in guerre. E su questo il Movimento deve far leva e fa leva (giustissima la campagna "Non un uomo, non un soldo per la guerra"). Già quella del Golfo fu pagata per oltre il 70% dagli alleati e in special modo da Arabia Saudita, Emirati e – nota oggi dolente – da Giappone e Germania(13).La possibilità deriva invece dal fatto che in parziale contrasto con le fasi di crisi sistemica precedenti, oggi non si assiste ad una fusione della potenza finanziaria e di quella militare in un ordine più alto, ma si assiste invece ad una loro fissione: la centralizzazione della potenza militare negli USA da una parte e dall’altra la dispersione del potere finanziario in un arcipelago asiatico formato da stati-nazione, città-stato, diaspore, che non hanno né singolarmente né collettivamente nessuna possibilità di eguagliare la potenza militare statunitense né, per adesso, la possibilità di sostituirsi agli USA come centro organizzativo della finanza internazionale (Arrighi, op. cit.). Ma non è detto che questa situazione possa perdurare in eterno. Anzi, storicamente ciò non è mai successo. Non ci vorrà moltissimo tempo per arrivare al punto culminante della concorrenza per lo scambio politico con il potere finanziario. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo e le date 2017-2020 previste dai suoi strateghi lo stanno a testimoniare.
I diritti umani e le convenzioni internazionali sono pipelines: seguono linee geostrategiche.
In questa situazione gli Stati Uniti, se vorranno mantenere la posizione di potere, dovranno cercare di scambiare la propria capacità bellica e di formazione dello stato con il potere finanziario dell’Asia orientale, eventualmente "mediante una rinegoziazione dei termini dello scambio politico che ha legato il capitalismo dell’est asiatico al keynesismo militare globale degli Stati Uniti durante tutta l’epoca della guerra fredda." (Arrighi, op. cit.). Contemporaneamente dovrà cercare di bloccare sul nascere ogni ipotesi di aggregazione di nuovi complessi o alleanze territoriali capaci di competere con questo piano. I corollari comportamentali di politica internazionale a nostro avviso sono: 1 non permettere un’autonomia politica europea; cercare di indebolire la Russia e, soprattutto, tenerla il più possibile lontana dall’Unione Europea (e l’ammissione nella UE di alcuni Paesi dell’Est e della Turchia potrebbe favorire entrambe queste manovre); 2 indebolire la Cina e cercare di disgregarla (utilizzando a fondo, tanto per iniziare, la questione tibetana e poi, o contemporaneamente, quella degli Uiguri nello Xinjiang(14)); 3 separare l’India (il terzo gigante territoriale asiatico) dall’Asia orientale, centrale e dalla Cina (a questo fine il conflitto in Kashmir è una benedizione da coltivare, assieme alla politica dell’attuale governo, guidato dal Bharatiya Janata Party, che a dispetto del suo proclamato, e spesso facinoroso, nazionalismo indù sta consegnando l’India alle più aggressive multinazionali occidentali). E’ in questo quadro che inseriamo la lotta per il mantenimento e l’incremento dei cinque monopoli - e quindi anche la lotta per il controllo esclusivo delle risorse energetiche - e possiamo ipotizzare che l’attuale III Guerra Fredda, o III Guerra Mondiale, si svolgerà quindi, o meglio si stia già svolgendo, attorno a questi cinque monopoli e al loro intreccio, con la finalità sistemica di ricentralizzare negli USA l’accumulazione di capitali o, per lo meno, di ricentralizzare il comando sui suoi fattori. Io credo perciò che siamo rientrati in una fase di neo-imperialismo, simile all’imperialismo che caratterizzò l’ultimo atto del ciclo britannico, dove, però nessuna potenza neo-imperialista è ancora pronta a raccogliere le sfide della Superpotenza. Dopo la Prima e la Seconda Guerra Fredda, ne stiamo quindi vedendo una terza replica che però non è più solo fredda anche se, forse, non sarà globalmente catastrofica, almeno per questo giro. Una pseudo guerra mondiale o una pseudo guerra fredda che a quanto si riesce a intravedere approderà, se avrà successo, a un’altra stagione di imperialismo formale statunitense, ovvero a un nuovo ordine gerarchico tra Stati con a capo gli USA. In termini generali, gli Stati Uniti stanno rifluendo dall’egemonia al dominio, chiudendo, ad un più alto livello, il cerchio iniziato nel 1945-1947. Infatti, se con Bush padre e con Clinton c’era stata una fase in cui si era pensato di ristabilire un ordine mondiale di tipo rooseveltiano, rivitalizzando e ridefinendo, ad usum delphini, gli organismi di governo internazionali, ora con Bush figlio sembra invece di essere ritornati ad un ridimensionamento unilateralista alla Truman, con le stesse tinte nazionalistiche e con la stessa tendenza all’impero formale. E come già successe allora con De Gaulle, la Francia cerca anche oggi di sganciarsi, seguita però stavolta.da diversi Paesi, tra cui l’altro pilastro dell’Unione Europea, la Germania, aprendo così un conflitto tra le due sponde dell’Atlantico e all’interno della stessa Unione. Conflitto ampiamente "previsto" con stizza e minacce da Martin Feldstein, ora consigliere di Bush, alla vigilia dell’introduzione dell’Euro (cfr. "Il Sole 24 Ore", novembre 1997). Condoleeza Rice dice quindi molto di più di quanto intenda fare quando paragona questo periodo agli anni 1945-1947. Perché questa, suo malgrado corretta, affermazione ci riporta alla mente l’invocazione dell’amministrazione Truman per una "emergenza internazionale" che infatti, come ricorda il professor Chalmers Johnson, venne riproposta tale e quale da D. Cheney, D. Rumsfeld e dagli altri allegri compari del Project for a New American Century, in un loro rapporto del settembre 2000, dove si dichiararono in attesa di "un evento catastrofico e catalizzante come una nuova Pearl Harbour"(15). Come accadde al sottosegretario di Stato di Truman, anche Cheney e Rumsfeld si rivelarono a loro modo "preveggenti" e con l’11 di settembre 2001 ebbero la loro auspicata nuova Pearl Harbour che legittimò la reazione unilaterale e dilagante degli USA. Tuttavia la nuova situazione, cioè il collasso dell’unico possibile contendente degli Stati Uniti, rischia di trasformare questo unilateralismo in un limite fondamentale all’esercizio del potere. Se infatti la strategia da Truman a Reagan si basava sulla possibilità di ritagliarsi una fetta di mondo su cui poter esercitare prima il proprio dominio e, in seguito, la propria egemonia, ora l’espansione globale di questa fetta rischia di portare a ciò che è stato definito un "sovradimensionamento strategico", ovverosia ad avere "interessi così estesi che sarebbe difficile difenderli tutti nello stesso momento e quasi altrettanto difficile abbandonarne uno qualunque senza correre rischi anche maggiori." (P. Kennedy, "Ascesa e declino delle grandi potenze". Garzanti, 1993)
Il Movimento e la guerra, quintessenza della mercificazione della vita umana
Se si accetta questa interpretazione della realtà, allora il rifiuto etico della guerra è costretto a fare in conti con un obiettivo immane: trasformare radicalmente la logica di sviluppo economico, di formazione dello stato e di esercizio della forza che è stata seguita negli ultimi seicento anni. O almeno contrastarla. Un compito non facile, lungo e complesso. Ma non impossibile, perché l’avversario non è poi così invulnerabile come si vuole presentare. Ma è vulnerabile non perché un’organizzazione di fanatici è capace di bombardarlo con un’azione terroristica, frutto avvelenato proprio della logica da contrastare, o perché un satrapo asiatico, altro frutto di questa logica, può in teoria infliggere sensibili perdite agli eserciti che vogliono aggredirlo. Al contrario, lo è perché esso stesso nel corso del tempo ha prodotto il proprio principale anticorpo: la coscienza dell’indivisibilità e dell’universalità dei diritti umani. Una coscienza che nello stesso campo occidentale è cresciuta in modo esponenziale come reazione all’iperconsumismo, alla dilatatissima alienazione economicistica e all’esasperata polarizzazione delle ricchezze, ovverosia come reazione al radicale attacco a valori di base politici, etici, sociali e religiosi elaborati e conquistati nel corso di secoli. Tutto ciò è testimoniato proprio dal carattere composito del movimento contro la globalizzazione liberista e le sue guerre, la cui varietà non dovrebbe destare meraviglia se si pensa che "il capitalismo innovativo e globale non è affatto soltanto anti-proletario (come continuano ad opinare i veteromarxisti operaisti), ma è anche e soprattutto anti-borghese, perché l’ethos nobiliare-borghese si è sempre ostinato a mantenere sfere vitali non mercificabili, o per lo meno non interamente mercificate." (Costanzo Preve, "Il Bombardamento Etico", Editrice CRT, Pistoia, 2000, pag. 39)(16). E non è difficile allora capire perché un’opinione pubblica trasversale, avvilita dall’arroganza economica e politica del potere, già allarmata per i tentativi di privatizzazione della vita cresciuti sull’onda dei successi della bioingegneria e preoccupata per il cattivo stato di salute del pianeta avvertibile tutti i giorni, consideri istintivamente e implicitamente (e giustamente) lo scambio morti-per-petrolio – il più evidente tra gli scambi proposti dall’amministrazione Bush – come l’inaccettabile quintessenza della mercificazione della vita umana. Ed è infatti mia opinione che la guerra, e specialmente la guerra moderna, sia da rubricarsi proprio sotto questa voce. Allo stesso modo possiamo aggiungere che, con tutte le sue contraddizioni, lo stesso risveglio religioso di questi anni non è altro, e proprio da un punto di vista squisitamente laico, che una manifestazione del fatto che l’essere umano è un animale ideologico, ermeneutico e metafisico, e non lo schiavo di una "mano invisibile" che lo inchioda alla pura materialità. E’ questa "dimensione antropologica transtorica" - per usare un concetto di Samir Amin - a spingere l’uomo a fare la propria storia. Ed è la moderna pratica politica laica il terreno più favorevole per compierla, perché "la democrazia moderna si attribuisce subito il diritto d’invenzione, a fare qualcosa di nuovo. Sta tutto qui il senso del segno di uguaglianza che la Filosofia dei Lumi pone tra Ragione ed Emancipazione." (S. Amin, "Oltre la mondializzazione". Editori Riuniti, 1999). Fare la propria storia vuol dire emanciparsi dall’alienazione mercantilistica e capire che un nuovo ciclo di espansione materiale capitalistico presupporrebbe una fase di conflitti crescenti e senza esclusione di colpi e, inoltre, sia che esso venga incentrato di nuovo sugli Stati Uniti sia, a maggior ragione, che venga incentrato su un nuovo stato-continente come la Cina che deve recuperare velocemente le fasi "pesanti" di sviluppo perdute, equivarrebbe con ogni evidenza ad un collasso ecologico-sociale planetario. L’emancipazione dall’alienazione mercantilistica non può quindi limitarsi all’Occidente, ma deve estendersi in ogni parte del mondo, Asia in primo luogo. E sembra anche evidente che questa emancipazione non è più appannaggio esclusivo di un soggetto sociale specifico, come nella tradizione marxista, ma di una rete di soggetti in larga misura ancora da definire e, addirittura, da identificare e che possono variare da Paese a Paese, eppure già reali e operanti. L’alternativa a questa emancipazione potrebbe non esserci, né singolarmente né come specie: "[…] prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia umana, non è dato sapere." (G. Arrighi, op. cit.)
NOTE
(1) Consulente di una transnazionale statunitense specializzata in informatica e in servizi nel settore petrolifero-energetico. Collaboratore di istituti di ricerca in Europa e in Asia nel campo dell’algebra della logica, sistemi esperti e analisi logico-algebrica di informazioni incomplete, è autore di memorie scientifiche e ha tenuto seminari e conferenze in Canada, Francia, Germania, Giappone, India, Polonia, Romania e Stati Uniti. Per un incarico di consulenza, ha vissuto in Turchia dall’inverno 2000 all’estate 2001. Durante questo soggiorno ha approfondito la propria documentazione sulla politica interna e internazionale di quel paese e delle repubbliche centroasiatiche e transcaucasiche. E’ membro della Chiesa Evangelica Metodista, al cui interno ha promosso la discussione sulle politiche neo-liberiste. (http://www.surf.it/logic)
(2) E’ il caso di Sergio Cararo (si veda il sito http://digilander.libero.it/acta_imperii/balcani01.html).
(3) I termini più generali della questione iugoslava sono verosimilmente quelli discussi da Alberto Negri in http://www.sottovoce.it/conflitti/corridoi1.htm
(4) Così Gerard Segal, ex direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, un anno prima dell’intervento contro la Serbia: "Dovremo intervenire unilateralmente in Kossovo? La risposta sarà in larga misura un calcolo politico, ma l’interrogativo solleva questioni fondamentali attinenti alle finalità della potenza militare" (La Repubblica, 10-7-1998).
(5) Con la probabile aggiunta eccezionale e precauzionale, appena il gioco si farà duro, della perenne spina nel fianco: Cuba.
(6) Il reddito medio dell’Arabia Saudita è diminuito di più del 50% dall’inizio della reaganomics ad oggi.
(7) "Non con le armi" non è però in ultima analisi una descrizione esatta. La guerra per sottrarre all’influenza Russa i Paesi centrasiatici e transcaucasici si sta combattendo in Cecenia. La Cecenia, infatti, prima della guerra alla Serbia è stata la riprova che la Russia era così debole da non riuscire a venire a capo di un conflitto locale in casa propria (figuriamoci all’estero); dopo l’11 settembre è stata la merce di scambio per ottenere il lasciapassare per l’Asia centrale ex-sovietica, mentre oggi costituisce la situazione di crisi che continua a mantenere la Russia sotto pressione militare e politica. Il conflitto in Cecenia è uno dei tanti il cui compito è quello di non finire, a totale dispetto e dispregio delle sofferenze che provoca.
(8) Nelle classiche formule di Marx, D sta per capitale (denaro), M sta per "merci" (ma possiamo anche intendere M come mezzi o strumenti dell’espansione materiale) mentre D’ è il capitale accresciuto grazie a quei "mezzi"(D'=D+x).
La formula con cui Marx descrive la logica generale di accumulazione del capitale è quindi D -->M -->D’, mentre quella con cui descrive l’accumulazione finanziaria tramite interessi è D -->D’ (il denaro che "procrea" direttamente denaro). Arrighi, su un diverso piano di astrazione, spezza la formula generale di Marx in due momenti storico-logici separati: l’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, D -->M, che dà luogo alla dinamica di accumulazione D -->M -->D’ (espansione materiale), e il disimpegno dalla produzione materiale e progressivo impegno nelle attività finanziarie, M -->D’, che innesca il meccanismo di accumulazione abbreviato D -->D’ (espansione finanziaria).
Marx definisce la finanziarizzazione come "una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria", associandola così all’inizio del modo di produzione capitalistico, che in quanto tale è caratterizzato invece dalla formula D -->M -->D’ (cfr. , "Il Capitale", Libro I, Vol 3, Sezione VII, cap. 24). Se quindi si concepisce il capitalismo come un unico ciclo sistemico, una nuova fase di finanziarizzazione sarà vista come un sintomo di putrefazione (Lenin) o di decadenza (Keynes) del sistema. E’ di fatto il grande schema a cui si attiene anche Samir Amin, sebbene in modo altamente creativo e per nulla meccanico (dato che al suo interno contempla possibili ‘sottocicli’). Schumpeter, al contrario considerava la finanziarizzazione sintomo della fine di un ciclo di accumulazione e, nella sua scia, Arrighi la considera caratteristica della fine di un ciclo sistemico di accumulazione e di inizio di un ciclo successivo. Va allora notato che lo stesso Marx non parla di un’unica fase iniziale di accumulazione, ma di diverse fasi di accumulazione originaria che si sono susseguite nella Storia, ognuna basandosi sui frutti di quella precedente (Venezia, Olanda, Inghilterra e, presagiva, Stati Uniti). Tuttavia lo schema dei cicli sistemici di accumulazione non è derivabile direttamente da Marx (e in ciò l’interpretazione di Amin sembra più ortodossa di quella di Arrighi).
(9) I famosi "capitali fluttuanti speculativi" oggetto della Tobin tax, cavallo di battaglia di ATTAC, hanno questa origine.
(10) Attualmente è calcolato che il rapporto tra transazioni commerciali e transazioni finanziarie sia 1:80, cifra che illustra bene cosa si intenda per “disimpegno dalla produzione e dal commercio”.
(11) La partecipazione dell'apparato produttivo di Giappone, Germania e USA all'economia internazionale è passata dal 54% nel 1961 al 40% nel 1996 (IFRI-Ramses).
(12) La diaspora capitalistica cinese nel mondo ha contribuito in modo fondamentale a questo processo, sia finanziando direttamente la crescita cinese, sia fungendo da intermediaria finanziaria e commerciale (modello "One Nation, Two Systems").
(13) Per gli USA e gli UK il presidente Chirac è "un verme" non perché senza la Francia non si possa fare la guerra materialmente, ma perché la Francia trascina le posizioni di molti Paesi, in primo luogo la Germania, senza i quali è difficile farla finanziariamente.
(14) "Una volta che il momento è maturo, non sarà impossibile che i nazionalisti separatisti dello Xinjiang, assistiti da forze ostili interne e internazionali, si mettano a contrastare il governo locale e quello centrale e chiedere supporto alla comunità internazionale, proprio come i separatisti albanesi nel Kossovo, Yugoslavia. In quel momento non possiamo escludere la possibilità che il blocco militare della NATO guidato dagli USA agisca contro la Cina in un modo o nell’altro, anche con mezzi militari, con il pretesto di salvaguardare i diritti umani dei gruppi etnici di minoranza." Al Yu, "Kossovo Crisis and Stability in Cina’s Tibet and Xinjiang", Ta Kung Pao, FBIS.CHI-97-223, August 11, 1997.
(15) Cfr. Chalmers Johnson, "I missili di oggi sull’Iraq sono partiti 50 anni fa". Supplemento al N. 5 di Carta, febbraio 2003.
(16) "A proposito infine della tradizione culturale borghese, l’attuale globalizzazione non ‘occidentalizza’ affatto il pianeta (come sostengono noti confusionari sempre pubblicati, recensiti e pubblicizzati), dal momento che essa globalizza un modello di vita rigorosamente post-occidentale, posteriore al declino comune delle occidentalissime classi borghese e proletaria, e nichilisticamente posteriore a tutte le forme di saggezza e di religione occidentali." (Costanzo Preve, op.cit. pag. 47)
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samedi, 13 juin 2009
Über den Begriff Mitteleuropas
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993
Robert Steuckers:
Über den Begriff "Mitteleuropa"
Sehr geehrte Damen und Herren,
Vor der deutschen Wiedervereinigung also vor 1990 sprach man öfters als heute vom Mitteleuropa, von einer mitteleuropäischen Annäherung bzw. einem mitteleuropäischen Kulturraum in den deutschen Medien als heute. Die Grünen, die Pazifisten, die linke Flügel der nordeuropäischen Sozialdemokratie unter dem geistigen Impuls von Männern wie Willy Brandt oder Olof Palme erwähnten damals eine atomwaffenfreie Friedenszone von Nordschweden bis zur griechischen Grenze, die die Streitkräfte der Supermächte geographisch trennen würde. Diese Sozialdemokraten pazifistischer Überzeugung kämpften eigentlich für die Errichtung einer «Gürtel der Neutralen». Was Palme in Schweden vorschlug, war wie ein Echo des Rapacki-Plan im Polen der 60er Jahre. Ihrerseits schlugen der General Jochen Löser und Frau Ulrike Schilling eine «mitteleuropäischer Friedenszone» mit historisch gut begründeten und sachlichen Argumenten (cf. Neutralität für Mitteleuropa. Das Ende der Blöcke, C. Bertelsmann, München, 1984). Aber dieser sozial-demokratische und pazifistische Diskurs, obwohl sehr relevant und geopolitisch durchaus koherent, erschien dem geschichtsunbewußten Publikum als eher abstrakt oder eben als intellektuele Spinnerei. Kritisch kann man zwar sagen, daß dieser Diskurs bloß zeitbedingt war und, zumindest im Falle der Pazifisten, die Palme laut verehrten, keine historisch-konkrete Perspektive bot.
Der Mitteleuropa-Begriff wurde elastisch im Laufe des zwanzigsten Jahrhunderts gedacht. Einerseits haben wir den Begriff eines reichszentrierten Mitteleuropas, mit Deutschland als Rumpf. Andererseits haben wir einen alternativen Begriff, der das Mitteleuropa zu einem «Cordon» reduziert, das nur Staaten zählt, die weder deutsch noch russisch sind. Dieses Mitteleuropa ist dann Pufferzone zwischen den deutschen und russischen Reichen und sollte als Ziel haben, eine Bündnis zwischen diesen zwei Giganten zu verhindern.
Das reichszentrierte Mitteleuropa hatte seine optimalen Grenzen zur Zeit der Karolinger: die Westgrenze lief von den Küsten des Nordsees, also von Friesland, bis zur Küste des Mittelmeers in der Provence; die Ostgrenze lief von der Odermündung bis zur Adria, d.h. zur dalmatischen Küste. Die Achsen Rhein-Rhône und Ostsee-Adria machten aus dem mitteleuropäischen Raum einen weltoffenen Raum mit Zugang zum Atlantischen Ozean und zum Mittelmeer. Dieser Raum hat parallele Flüsse in der norddeutschen Ebene (Schelde, Maas, Rhein, Weser, Elbe, Oder, Weichsel) und in dem burgundischen Raum (Saône, Rhône), die in Richtung Süd-Nord oder Nord-Süd fliessen. Demgegenüber steht der französischen Kernraum mit ebenfalls parallele Flüsse, die aber in Richtung Ost-West fliessen (Somme, Seine, Loire, Garonne). Das Schicksal der Völker hing in diesen Zeit sehr stark von diesen geographischen Bedingungen ab. Flüsse erleichterten die Kommunikationen. Ländliche Strassen waren unsicher und große Mengen Güter konnten nicht mit Karren befördert worden. Zu diesen drei Reihen Flüßen muß man einen vierten Fluß mitrechnen: die Donau, die eine West-Ost-Achse darstellt. Das nach den Türken-Kriegen erweiterte reichszentrierte Mitteleuropa wurde im neunzehnten Jahrhundert noch Donauräumisch bestimmt. Pläne entstanden, um einen gemeinsamen Markt mit den heutigen Benelux-Ländern, dem Reich, der Schweiz, der Donau-Monarchie, Rumänien, Serbien und Bulgarien entstehen zu lassen. Der östereichische Industrie-Leiter Alexander von Peez, Geographen wie Kirchhoff und Partsch, Penck und Hassinger, versuchten diesen Raum theoretisch zu fassen und schlugen Methoden und Pläne vor, um den balkanischen Raum als Ergänzungsraum für die industrialisierten Zonen des Altreichsgebietes zu organisieren. Diese Donau-bedingten Geopolitik projizierte sich weiter, über Anatolien nach Mesopotamien bis zur Küste des Persischen Golfes. Das erklärt die deutsch-österreichisch-ottomanische Bündnis im ersten Weltkrieg, aber auch teilweise die amerikanische Intervention in Irak in September 1990. Ein Europa ohne Eisernen Vorhang darf in den Augen der amerikanischen Geopolitiker und Planer sich nicht bis zur Persischen Golf ausdehnen, wie damals das Reich und Österreich-Ungarn nicht über den Balkan und das Ottomanische Reich über ein Fenster auf den Indischen Ozean geniessen.
Eben um diese geopolitische Dynamik zu torpedieren, fanden die Verfasser des Versailler Vertrages einen neuen Mitteleuropa-Begriff aus. Dieser Begriff sieht den mitteleuropäischen Raum als Pufferzone, als «Cordon sanitaire» zwischen Deutschland und Russland oder als Hindernis, als «Barrière» gegen jede friedliche, nicht-koloniale und wirtschaftliche Expansion Nordmitteleuropas in Richtung des Persischen Golfes. 1919 warnte der britische Geopolitiker Halford John Mackinder vor einer deutsch-russischen Bündnis, die dazu bestimmt war, ein gewaltiges Kontinentalblock zu organisieren, wo die angelsächsischen Seemächte keinen Zugriff mehr haben würden. Deshalb suggerierte Mackinder, ein «Cordon sanitaire» zwischen dem besiegten Deutschland und der aufkommenden Sowjetunion zu errichten. Lord Curzon, der Mann der die polnisch-sowjetische Grenze festlegte, war ein aufmerksamer Leser der geopolitischen Thesen Mackinders. Er versuchte sie in der Praxis umzusetzen. Der Franzose André Chéradame legte 1917 die Methoden aus, womit die Allierten die Achse Hamburg-Persischer Golf fragmentieren müßten, um
1) Deutschland seine Absatzmärkte im Ottomanischen Bereich wegzunehmen;
2) Die Donau-Monarchie zu zerstören und alle Zugänge zur Adria dem kleinen Österreich zu verhindern;
3) Bulgarien zu zähmen und ihm alle Zugänge zum Mittelmeer zu sperren;
4) Ein Großserbien zu schaffen, die alle Küsten der Adria kontrollieren würde;
5) Ein Großrumänien zu schaffen, um Ungarn und Bulgarien zu schwächen.
Fazit: Mitteleuropa unter deutscher Führung darf kein Zugang zum Mittelmeer mehr besitzen. Damit vollendete sich den historischen Prozeß, daß im Frühmittelalter mit dem Verlust der Provence, des Rhônetales und des Hafens von Marseille durch geschickte französische Ehepolitik. 1919 besitzt der geplante mitteleuropäische Markt mit dem Ottomanischen Reich als Ergänzungsraum kein Zugang mehr zum Mittelmeer. Erinneren wir uns doch, daß der Bonaparte es schon zwischen 1805 und 1809 versucht hat, Österreich und Ungern den Zugang zur Adria zu sperren: aus Südkärnten, Slowenien, Westkroatien und Dalmatien wurden die sogennanten «Illyrische Départements» zusammengestellt, die unmittelbar von Paris regiert wurden. Man begreift so, wie wichtig die Adria war, ist und bleiben wird. Deshalb erkannte Hans-Dietrich Genscher bewußt oder unbewußt sofort die Unabhängigkeit Sloweniens und Kroatiens; er konnte so ein der schlimmsten Überbleibsel von Versailles wegschaffen. Im Westen waren einige Kanzleien damit nicht ganz einverstanden. Ein Wort noch über das Prinzip der nationalitäten des US-Präsidenten Woodrow Wilsons. Die Mittelmächte verteidigten damals keine nationale bzw. nationalistische Prinzipien sondern Übernationale bzw. reichische Prinzipien. Der österreichische Kronprinz wollte eine eidgenössenschaftliche Strukturierung der südslawischen Gebiete der Donau-Monarchie. Kroatien, Slowenien und Bosnien-Herzegowina hätten eine eidgenössenschaftliche Verfassung gahbt, selbstverständlich auch für die orthodoxen Serben, die sich in diesen Gebieten im Laufe der Jahrhunderte niedergelassen hatten.
Das Mitteleuropa, das der Westen sich wünscht, darf keinen Zugang zum Mittelmeer haben. Heute wird dieser Mitteleuropa-Begriff u. a. von dem ungarischen Philosoph György Konrád propagiert. Konrád, der sich schon im Dissidententum zur Zeit Breschnews für einen humanen Sozialismus engagiert hatte, hat trotzdem richtige Argumente: Der mitteleuropäische Raum stellt eine Buntheit von Völker dar, also passen die Lösungen der homogöneisierenden Jakobinismus nicht; dieser Raum ist mit dem deutschen Volksraum nicht zu vergleichen, weil Deutschland und Deutschösterreich ethnisch homogen sind und politische Strukturen entwickeln, die eben für die ethnisch heterogenen Regionen Ostmitteleuropas nicht geeignet sind. Konrád fügt hinzu, daß das Experiment des «real existierenden Sozialismus» absolut notwendig ist, um einer künftigen mitteleuropäischen Konföderation beitreten zu können. Sein Standpunkt ist also nicht der gleiche wie der der französischen und englischen Diplomaten von 1918-19, aber haben geographisch bzw. geopolitisch das selbe Resultat. So bleiben in der Optik Konráds nur Polen, die Tschechoslowakei (die aber heute nicht mehr als solche besteht) und Ungarn, um diese hypothetische Konföderation beizutreten. Ich zweifle doch daran, daß eine solche Konföderation Überlebenschancen haben würde. In der Zwischenkriegszeit belasteten schon bestimmte Strukturmängel das politische Leben dieser Staaten: Das Heeresetat des polnischen Staates war wahnsinnig hoch, so daß die zivile Sektoren der Wirtschaft total vernachlässigt wurden; die Verbindungen mit Eisenbahn zwischen Böhmen einerseits und Berlin oder Wien andererseits waren erheblich erschwert, was nicht ohne Konsequenz für Handel und Wirtschaft war; Ungarn wurde von einem Admiral regiert und hatte überhaupt keinen Zugang zum Meer übrig; der ungarische Staat war ganz offensichtlich ein Krüppelstaat.
Weiter kann man sagen, daß das reichszentrierte Mitteleuropa, also m.a.w. der Raum des Karolingischen Reiches, grenzen mit fast alle anderen Staaten bzw. Völker in Europa. Strategisch gesehen, ist sein Spielraum den ganzen europäischen Kontinent. Strategisch gibt es also eine Art Gleichnis zwischen dem Reich des Mittelalters bzw. Deutschland bzw. die Bündnis zwischen dem wilhelminischen Deutschland und der Donaumonarchie und Gesamteuropa.
Der schwedische Geopolitiker Rudolf Kjellén hat es sofort nach dem ersten Weltkrieg erkannt. Mit modernen Mitteln, dank sei der Geschwindigkeit der motorisierten Truppen und der Luftstreitkräfte, lässen sich Bayern oder Tirol auf den Stränden der Normandie verteidigen. Die Bretagne und die Normandie gehören also seit Juni 1944 zum gleichen strategischen Raum als etwa Frankenland oder Kärnten. Dieser Fakt wird selbstverständlich heute, wo Raketen die entscheidende Waffen sind, bestättigt und bekräftigt. Soweit was Raum und Geschichte betrifft.
Im 19. Jahrhundert versuchte der Philosoph Constantin Frantz ein Föderalismus zu entwickeln, die alle Kräfte, die innerhalb des Volkes wirkten, bündeln könnte. Föderalismus hieß nicht bei ihm «spalten», wie die Separatisten aller Art es denken, sondern bündeln. Weiter wollte sein bündelnder Föderalismus die konkreten und ortsverbundenen Identitäten nicht zerstören, sondern sie auf einem höheren Niveau entfalten. Dieser Sinn für Verschiedenheit und dieses Respekt für lokale Belange entspricht einem typischen mitteleuropäischen Rechtsempfinden, das man u.a. bei den Austro-Marxisten, bei den konservativen Föderalisten und Regionalisten, in bestimmten Punkte des Programms der FPÖ Jörg Haiders, bei gewissen Anhänger der neuen Rechten, bei linken Regionalisten oder Grünen wieder. Das deutsche Verfassungsrecht seit 1949 ist davon geprägt. Die Schweiz wird seit 700 Jahre durch diese Prinzipien regiert. Die Tschechei und die Slowakei haben sich getrennt und suchen eine Lösung in einem Föderalismus bundesdeutscher bzw. schweizerischer Art. Regionen innerhalb oder außerhalb des mitteleuropäischen Raumes suchen die Möglichkeit, ihre Gemeinsamkeiten unmittelbar (d.h. ohne die Intervention zentralistischer Behörden) auszubeuten. Beispiele dieses Zusammenrückens gibt es in Hülle und Fülle: Alpen-Adria, ARGE-Alpen, Bodensee-Gemeinschaft, Sarlorlux (Saar-Lothringen-Luxemburg), Euroregio (NL-Limburg, VL-Limburg, Provinz Lüttich/Wallonien, Kreise Aachen und Köln, Deutschsprachige Gemeinschaft im Königreich Belgiens). In Spanien entwickelt sich ein «asymmetrischer Bundestaat», wo die Teile das Recht haben, eine eigene Außenpolitik zu treiben. In Frankreich, dem stärksten zentralisierten Staat Europas, wird die Notwendigkeit allmählich gefühlt, daß die Regionen an Autonomie gewinnen müssen, um nicht das Risiko zu laufen, in der Rückständigkeit zu fallen. Aber die Föderalisierung Frankreichs wird noch hartnäckig von gestrigen Kräften mit Erfolg bekämpft. Ich nehme hier die Gelegenheit, weil hier auch ein Vertreter der deutschen Menschenrechten-Kommission tagt, um die Anwesenden daran zu erinnern, daß Paris gewissen KSZE- oder UNO-Beschlüsse geweigert zu unterzeichen hat, weil diese den Schütz der Minderheiten vorsahen. Paris hat dafür gemeinsame Front mit Bulgarien, Rumänien (schon zur Zeit Ceaucescus) und Griechenland gemacht. In Italien, die Erfolge der Regionalisten der Lega Lumbarda werden die letzte Reste der römischen Zentralismus verschwinden lassen. In Großbritannien, erheben sich jetzt mehr und mehr Stimmen, um dem Lande eine Verfassung zu geben. Andererseits macht die sog. devolution Fortschritt. Schottland und Wales zählen ungefähr 5 Millionen Einwohner, Nordirland ist eine Raumeinheit für sich, aber England zählt 45 Millionen Einwohner, was das Gleichgewicht zwischen den Teilen zerstört. Deshalb suggerieren Juristen eine Verteilung Englands in neun historisch gewachsenen Ländern.
Das Problem der Subsidiarität
Heute wird die Subsidiarität allgemein verstanden als eine Absage der eigenen Souveränität, d.h. der nationalen bzw. staatlichen Souveränität, zugunsten einer übergeordneten Instanz, z.B. Europa. Europa entscheidet in den wichtigen Sachen und läßt Länder, Regionen, Gemeinden, eventuelle nationale Staaten die alltägliche Verwaltung. So haben die Briten, besonders die Konservativen um Frau Thatcher und John Major, den Begriff Subsidiarität verstanden. Theoretisch bedeutet aber eigentlich die Subsidiarität was ganz anders.
In der parawissenschaftlichen Literatur, die aber wichtig durch ihrem Impakt in den Medien ist, sagt etwa ein Alvin Toffler in seinem letzten Buch, Powershift, daß heute durch Faxgeräte, Computer, Modems, usw. die Zentralisierung der Großunternehmen nicht mehr notwendig ist. Die Großunternehmen, deren Etat manchmal größer ist als der Etat mancher europäischer Staaten, entwickeln sich jetzt in Mosaik, d.h. so, daß die Buchhaltung der Filialen bzw. der örtlichen Zweige völlig autonomisiert wird. Buchhaltung muß ortsnah werden, d.h. Rechnung damit halten, daß Sachen bzw. Unternehmen immer örtlich bestimmt sind.
In der streng wissenschaftliche Literatur, z. B. im erwähnenswerten Buch von Frau Prof. Chantal Millon-Delsol (L'Etat subsidiaire. Ingérence et non-ingérence de l'Etat: le principe de subsidiarité aux fondements de l'histoire européenne, Presses Universitaires de France, Coll. «Léviathan», Paris, 1992) , die in Paris in der Sorbonne doziert, bedeutet Subsidiarität die Autonomie aller Verwaltungsebenen oder aller Körperschaften, die eine gegebene Gesellschaft strukturieren. Chantal Millon-Delsol findet das prinzip Subsidiarität im deutschen Verwaltungsrecht zurück. Unter anderem in den Gemeindeordnungen, deren Art. 75 sagt: «Die Gemeinde darf nichts unternehmen, daß das private Sektor unternehmen kann». Subsidiarität wird hier nicht explizit sondern implizit formuliert. Diese Undeutlichkeit sollte verfassungsmäßig geregelt werden.
«Mitteleuropa» ist auch der Raum, wo dieses Rechtsempfinden implizit oder explizit (in der Schweiz z. B.) besteht. Rückkehr zur Mitte heißt deshalb auch Rückkehr zu diesem Rechtsempfinden. Was unseren Zeitgenossen auch zwingt, Aufmerksamkeit zu zeigen, wo Abweigungen auftauchen. Abweichungen sind entweder ein Zuviel an Staatlichkeit (Tocqueville stellte es für das hegelsche Preußen seiner Zeit) oder ein Zuwenig an Staatlichkeit (Tocqueville und Hegel stellten es gemeinsam für den Vereinigten Staaten fest, wo ein Despotismus durch Mangel an Staatlichkeit herrschte).
Das Rechtsempfinden Mitteleuropas kann als Modell für Gesamteuropa dienen. Strebungen in dieser Richtung können heute in Frankreich oder in Großbritannien beobachtet werden, wo ein strenger Zentralismus allmählich vor einer bescheidenen «Devolution» weicht oder wo eine stets wachsende Minderheit von Juristen eine moderne Verfassung fordern (Großbritannien hat nämlich keine Verfassung).
Mitteleuropa ist auch der Raum, wo Ordo-Liberalismus entstanden ist. Liberalismus reinsten Wassers führt zur Anarchie durch Mangel an Staatlichkeit. Totalitarismus sowjetischer Prägung führt zur Verknochung und Verbonzung durch Mangel an Autonomie. Ordo-Liberalismus wäre in diesem Sinne ein Gleichgewicht zwischen der stabilitätstiftenden Tradition und der erneuerungsschaffenden Dynamik.
Ordo-Liberalismus und Subsidiaritätsprinzip wären also die Grundpfeiler eines renovierten Gesamteuropas, in dem Gemeinschaften, Gemeinden und Gemeindewesen, ein eigenes Leben, ein Eigentum (im Sinne Stirner) , eine Eigenheit bzw. eine «Identität» (1) hätten und bewahren könnten. Damit diese Gemeinwesen sich entfalten können, brauchen sie eine garantierte Autonomie. Aber welche Kräfte wurden diese Autonomie gefährden?
1. Der äußere Feind. Dieser greift an, so daß Ernstfall bzw. Ausnahmezustand herrscht. In solchen extremen Fällen, gewinnt Autorität oder Diktatur (im Sinne Bodins oder Schmitts) Signifikanz.
2. Die ideologische Verblendung. Wenn ideologische Verblendung herrscht, ist der Staat kein dienstleistendes Prinzip, kein Instrument der Autonomie mehr. Der Staat wird dann bloß ein äußeres Instrument, das sich die Kräfte der Gemeinschaften bzw. Körperschaften innerhalb des Volkes bedient, um eine abstrakten Ideologie im Konkreten zu verwirklichen. So, zum Beispiel, die Ideologie der totalen, absoluten Freiheit herrscht in den Vereinigten Staaten: die Kriminalität aber wächst und das Schulwesen geht zugrunde. Die französische Revolution wollte die Idee der Gleichheit verwirklichen, was zu eine permanente Bürgerkrieg geführt und das Land definitiv geschwächt hat. Die Idee des Wohlfahrtstaates haben im Nachkrieg die Behörden Großbritanniens und Schwedens durchführen wollen; das hat aber die Industrie zertrümmert oder die Gesellschaft verknochet. Die Historiker führen auch manchmal aubereuropäiche Beispiele: das Mandarinat hat das traditionnelle China geschwächt und die Idee eines Ameisenstaates das Inkareich ruiniert.
Subsidiarität heißt, daß der Staat eine Regulationsinstanz ist (die Regulation, durch die sog. Regulationisten vertreten, wird allmählich heute —zumindest theoretisch— das Regierungsprojekt derjenigen Sozialisten, die die Wohlfahrt retten wollen aber trotzdem anerkannt haben, daß die Gleichheitswahn zur Starrheit führt). Die Regulationisten sind meistens innerhalb der sozialdemokratischen Parteien aktiv und ihre Projekten sind öfters mit denjenigen der grünen Humansozialisten, die das Kalmar-Prinzip in der Industrie verteidigen, gekoppelt.
3. Verantwortungslosigkeit bzw. Verantwortungsmüdigkeit der Bürger. Das Prinzip Subsidiarität bzw den subsidiären Staat zu verteidigen, ist eine schwere Aufgabe, weil die Behörden müssen dann ihre natürliche Tendenz, sich auszuweiten, bremsen, und zur gleichen Zeit, muß die zivile Gesellschaft erfolgreiche Initiativen nehmen. Um solche Initiativen zu nehmen, muß die Bevölkreung streng politisch bewußt sein, was heutzutage höchst problematisch ist, da in unseren westlichen Konsumgesellschaften das Spielerische die Oberhand hat.
In den rein wissenschaftlichen Werken der Professorin Chantal Million-Delsol heißt Subsidiarität:
1) Autonomie bestehen lassen bzw. fördern, wo sie vorhanden ist.
2) Alle Formen des Zentralismus vermeiden, da jeder Zentralismus eigentlich eine abstrakte Ideologie ins Konkrete verwirklichen will, was eine praktische Unmöglichkeit ist.
3) Eine Anthropologie, die den Menschen, die Gemeinden akzeptiert, wie sie sind, und nicht wie sie sein sollten.
Ein der akutsten Probleme unserer Zeit, ist es, daß Europa von Ideologen regiert wird. Ein erheblicher Teil unserer Regierenden sind keine nüchterne Beobachter der menschlichen Pluralität oder der erdhaften Wirklichkeit. Joze Pucnik, Leiter der slowenischen Sozialdemokratie, behauptete sehr richtig in einem Interview, daß die Menschenrechte konkrete und nicht abstrakte Rechte sind, d.h. daß diese Rechte sind, die in einem historischen Kontext eingebettet und daran angepaßt sind. Menschenrechte sind Produkte bestimmter Geschichten, variieren also vom Ort zu Ort, vom Zeitraum zu Zeitraum, und sind nicht ganz allgemein die Produkte einer bloßen Deklaration.
Fazit: Unser Ort ist der mitteleuropäische Raum, wo sich ein bestimmtes Rechtsempfinden im Laufe der Geschichte entwickelt hat. Unser Kampf für eine eigene Verfassung und für unsere Ort- und Zeitbedingte Rechte sollte selbstverständlich Rechnung halten mit diesem Raumbestimmtheit und diesem Rechtsempfinden. Das heißt Rückkehr zur Mitte. Besser gesagt: zu unsere eigene Mitte.
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vendredi, 12 juin 2009
Roter Spitzeneurokrat
Roter Spitzeneurokrat
Die Sozialisten sind an der Wirtschaftskrise mitverantwortlich
von Andreas Mölzer
Als farbloser Eurokrat zeigte sich einmal mehr der rote Spitzenkandidat für die EU-Wahl, Hannes Swoboda, bei der ORF-„Pressestunde“ am vergangenen Sonntag. Der Vertrag von Lissabon, der Österreich sowie den übrigen 26 EU-Mitgliedstaaten die letzten Reste ihrer Souveränität nehmen soll, wurde vom stellvertreten Vorsitzenden der sozialdemokratischen Fraktionen im Europäischen Parlament in den höchsten Tönen gelobt. Damit wird deutlich, daß der angebliche Schwenk in der roten EU-Politik, den vor einem Jahr der damalige Bundeskanzler Gusenbauer und sein nunmehriger Nachfolger Faymann in einem Leserbrief an den Herausgeber der größten Tageszeitung des Landes kundtaten, nichts anderes eine Bürgertäuschung war.
Aber der Vertrag von Lissabon scheint Herrn Swoboda noch nicht weit genug zu gehen. Schließlich schwadronierte er am Pfingstsonntag im Staatsfunk von einem „EU-Sozialvertrag“. Gewiß, die EU muß aus der gegenwärtigen Wirtschafts- und Finanzkrise, zu deren Entstehen sie durch ihre Huldigung des freien Kapitalverkehrs erheblich beigetragen hat, ihre Lehren ziehen. Aber dazu braucht es keinen Sozialvertrag, der womöglich Brüssel Kompetenzen in den Bereichen Arbeitsmarkt und Soziales zuzuschanzt. Wichtiger wäre statt dessen ein Umdenken in der EU-Polit-Nomenklatura, damit sich die EU endlich in einen Schutzwall gegen die Globalisierung nach US-amerikanischem Vorbild verwandelt. Daß die EU bislang der Verteilerkreis der Globalisierung war, ist freilich nicht allein die Schuld der ach so bösen Neokonservativen, wie Swoboda in der „Pressestunde“ behauptet hat. Schließlich wird die allmächtige EU-Kommission von Europas Christdemokraten und Sozialdemokraten nach einem ausgeklügelten System zusammengestellt, das sogar den heimischen rot–schwarzen Proporz in den Schatten stellt. Ähnliches gilt für das Europäische Parlament, wo alle wichtigen Entscheidungen, bevor darüber im Plenum abgestimmt wird, von den beiden großen Fraktionen, der Europäischen Volkspartei und den Sozialisten, ausgepackelt werden. Und in der roten Fraktion des Europaparlaments ist Herr Swoboda kein unbedeutendes Rädchen, sondern der stellvertretende Vorsitzende. Auch im Europäischen Rat, der die Richtung der EU vorgibt, sind mit dem Briten Brown, dem Spanier Zapatero, aber auch mit Österreichs Bundeskanzler Faymann eine ganze Reihe Sozialdemokraten vertreten, die schon längst die von Swoboda kritisierten Mißstände hätten abstellen können.
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L'honneur d'un général
Marc Reguy - http://www.voxnr.com |
C'est à ce difficile labeur apologétique que s'est livré maitre Jure Vujic, intellectuel franco- croate, géopoliticien et écrivain, en publiant en Croatie son dernier livre Quand les anges se taisent-apocryphe de Ante Gotovina.
Souvenons nous. Le général Gotovina était l’un des accusés le plus recherché du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie (TPIY). Il est inculpé de crimes de guerre et de crimes contre l’humanité lors de l’Opération Tempête (Oluja) entre 4-7 août 1995 dans la région de Krajina (sur la frontière bosniaque, dans la Slavonie de l’Est touchant la Serbie) en Croatie. Cependant le général Gotovina n’est pas l’un de ces généraux « habituels » avec des registres immaculés derrière eux.. Il n’avait que dix-huit ans quand il a fuit la Yougoslavie pour s’engager dans la Légion étrangère. Après avoir été qualifié de l’école de formation des parachutistes à Pau, il est devenu membre du 2éme Régiment étranger parachutiste, et est entré dans les Commandos de recherche et d’action en profondeur. Gotovina a participé aux opérations de la Légion étrangère à Djibouti, Kolwezi (Zaïre) et en Côte d’Ivoire. Après cinq ans de service, il a quitté l'armée française en 1979. Pendant les années 1980, Gotovina a travaillé pour plusieurs entreprises privées de sécurité françaises. Dans les années 1990, on retrouve ses traces au Paraguay. Là-bas en 1991, dans un bar à Iguac, son destin a changé pour jamais. Il a rencontré quelques réfugiés croates, qui lui ont raconté le massacre des policiers croates à Borovo Selo (dans la banlieue de Vukovar) ce qui l'a décidé de rentrer au pays pour y rejoindre les forces armées. Une fois en Croatie, il a gravi les échelons de la hiérarchie militaire à toute vitesse grâce à sa formation et à ses talents, que possédaient très peu de soldats croates à l’époque. D’abord, il a été nommé au 1er Brigade de la Garde « Tigres » de l’Armée croate avec la mission de former les nouvelles recrues. Bientôt il a abandonné cette mission pour combattre dans la région de Novska (sur la frontière bosniaque, en Slavonie) où il a été blessé. En novembre 1994, Gotovina a été promu au grade de général de division. En septembre 2000 cependant, le nouveau président croate Stjepan Mesic a mis le général Gotovina et six autres généraux à la retraite d'office après que ceux-ci aient refusé de coopérer dans les enquêtes sur les «crimes de guerre». Gotovina a été aussi accusé de conspiration en vue d'un coup d’État par Ivo Pukanic, le directeur de l’hebdomadaire croate Nacional. Son nom a été rayé des cadres militaires. Connu en France, légendaire en Croatie, Gotovina a été inculpé de crimes de guerre et de crimes contre l’humanité par le TPIY le 21 mai 2001.
Le livre en question a, dès sa sortie, suscité de nombreuses controverses et a fait l'objet d'une campagne de dénigrement et de diffamation systématique contre son auteur de la part de la presse croate qui est en majorité gauchisante et anti-nationale. Il est vrai que la Croatie des années 1990, souverainiste et nationaliste sous le règne du feu président Tudjman, n'est pas la Croatie d'aujourd'hui largement plongée dans un système néolibéral capitaliste et pro-atlantiste (la Croatie ayant rejoint l'Otan tout récemment). De sorte, qu'un intellectuel comme Vujic, anti-conformiste de sensibilité nationaliste gêne, comme du reste c'est le cas dans toute l'Europe occidentale. Sur près de seize chapitres, le livre qui ressemble plus à un essai philosophique qu'à une biographie, tend sous forme de fragments à restituer la teneur symbolique et métaphysique du général Gotovina. Le livre est un plaidoyer pour les valeurs artistocratiques européennes, guerrières et spirituelles, une vrai claque à la politique politicienne, à la prébende quotidienne de la justice soit-disant internationale, et à l'esprit de lucre et pharisien qui domine la politique contemporaine. Les nombreuses références littéraires francophones ( Péguy, Bernanos, Drieu ) témoignent d'un vaste travail d'analaye et de synthèse literraire et philosophique. Le livre fait aussi référence à la théologie angélique et au phénomène politique du sacrifice empruntée au philosophe Girard.
Au dela du conflit traditionnel et séculaire entre serbes et croates, il convient de faire le bilan de la justice internationale du tribunal de la Haye : le tribunal en question n'est un instrument politique de plus du systéme néolibéral anglo-saxon qui a pour but de criminaliser et de mettre sur un pied d'égalité tous les belligerants du conflit yougoslave, Mladić et Gotovina, pour établir un protectorat atlantiste en Croatie comme en Serbie.
Relevons aussi l'étrange parcours de Jure Vujic, cet intellectuel parfois inclassable et contradictoire. Ayant vécu en France, ancien élève de la Faculté de droit Assas, il est issu des milieux nationaux-révolutionnaires dits „terceriste“, il sera le chef de fil de la jeunesse nationaliste croate en France, pour devenir plus tard l'un des animateurs du cercle „Minerve“ et collaborateur de divers organes de la nouvelle francaise et belge dans le cadre du cercle Synergies européennes. Dans le giron de Synergies européennes, il fondra le mensuel de géopolitique Au fil de l'épée dont de nombreux numéros seront consacrés à la guerre dans les Balkans. Il tissera un vaste reseau franco-italien, belge, espagnol regroupant de nombreux intellectuels d'horizons aussi divers que le neofascisme, le trotskisme et le personnalisme chrétien. Après une courte carrière d'avocat, dans les années 1990, il partit comme volontaire en Croatie pour soutenir la lutte de libération de ses concitoyens croates. Proche du Parti du droit croate et des Argentins peroniste issus de l'émigration croate, il rompt assez vite avec la tendance conservatrice de la droite croate qu'il juge trop peu moderniste, révolutionnaire et sociale. Actuellement, Vujic prône un rapprochement de la gauche nationale croate avec la droite nationaliste et eurasiste dans une perspective de front uni contre le glolablisme néolibéral occidental. C'est dans cette persepctive qu'il participe aux réunions et conférences du Renouveau croate côte à côte avec l'amiral Domazet Loso, et le fils du président Tudjman Miroslav Tudjman, et l'ex-marxiste converti au catholicisme Zdravko Tomac.Diplomé de la Haute école de guerre des forces armées croates, il donne régulièrement des conférences géopolitiques et philosophiques. Vujic se consacre aussi a la poésie et signe de nombreux articles sur Hoffmansthal, Leopardi ou Sfefan George, il a publié en Croatie aux éditions Ceres une prose biligue ( francais et croate) Eloge de l'esquive un essai posthermétiste sur le devenir de l'écriture, l'être et le temps.
C'est à lui que l'on doit largement avec ces publications et ses articles dans les journaux Vjesnik, Foku“, Hrvatski list, la diffusion de la pensée révolutionnaire-conservatrice en Croatie. Un vrai travail de défrichage et de diffusion métapolitique dans un pays où la «droite» campe encore sur des positions conservatrices et anti-communistes primaires. Vujic se consacre actuellement à des travaux de recherches sur la géopolitique eurasiste et publira un livre l'autonomne prochain sur l'Eurasie contre l'atlantisme, dont la préface est de Robert Steuckers.
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jeudi, 11 juin 2009
Brève analyse des élections européennes...
BRÈVE ANALYSE DES ÉLECTIONS EUROPÉENNES...
Voici l'analyse des résultats des élections européennes que nous a adressé notre ami Coclés :
Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/
1/ EN FRANCE :
- Le premier enseignement de ces élections est la continuelle progression de l'abstention. Traditionnelle lors des élections européennes, celle-ci s'accroît encore en 2009, marquant une défiance grandissante des citoyens vis à vis du monde politique et vis à vis de la construction européenne. L'abstention touche particulièrement les classes populaires et les plus jeunes, ce qui a des implications immédiates pour les partis qui réalisent habituellement leurs meilleures performances dans ces couches de la population (extrême droite et extrême gauche).
- Succès de la droite sarkozyste, arrivée largement en tête. Une crise économique sans précédent, l'usure du pouvoir et les virulentes attaques du PS et du MoDem contre la personne du chef de l'État n'ont pas réussi à affecter son potentiel électoral. Ceci étant, les réserves de voix de l'UMP semblent se tarir ; outre chez les abstentionnistes, elles ne se trouvent plus que chez les souverainistes qui ont subi une lourde défaite. La thématique de "l'Europe qui protège" l'a largement emporté sur celle de "la France seule". Une parenthèse semble se fermer de ce point de vue.
- Malgré la lourde défaite du Parti socialiste, la gauche réformiste, également présente chez les amis de Daniel Cohn-Bendit au sein de la liste Europe Écologie, ne recule pas et le camp social-démocrate s'il sait dépasser les querelles qui sont à l'origine de son émiettement partitocratique et s'il renforce son message écologiste, ce qui est probable, demeure un concurrent sérieux pour la droite libérale.
- De manière générale, les forces du "système" renforcent leur emprise électorale tandis que la contestation à prétention radicale continue de s'affaiblir alors que les circonstances, crise du capitalisme et crise écologique (qui sont fondamentalement une seule et même chose), paraissent pourtant susceptibles de ménager une voie nouvelle pour une contestation de fond.
- Les listes emmenées par Daniel Cohn-Bendit, José Bové et Éva Joly font jeu égal avec les socialistes et les dépassent dans de nombreuses villes et dans des grandes régions urbanisées comme l'Ile-de-France et le Sud-Est. S'adressant aux couches citadines les plus scolarisées de la population, qu'il serait caricatural de réduire aux "bobos", ces listes sont les seules à avoir pris au sérieux les enjeux proprement européens de cette élection. Emmenées par des personnalités notoirement connues mais atypiques, elles ont labouré le terrain depuis l'automne et n'ont pas hésité à délivrer un message sortant des ornières simplistes de la politique-slogan. Notons également que leurs leaders ne pratiquent pas la langue de bois habituelle, tout en se gardant de la démagogie simpliste. Autant de choses qui démentent les calculs et les pratiques de la plupart des États-Majors politiques.
- L'extrême droite lepéniste met un coup d'arrêt à sa descente aux Enfers. Les 6,3 % d'électeurs qu'elle rassemble, malgré une abstention massive, semblent devoir constituer un socle inaltérable. Le parti va donc continuer d'exister sous la houlette de Marine Le Pen. Comme c'était attendu, et comme le passé l'a toujours confirmé, les dissidences ne sont pas parvenues à percer dans l'électorat, bien que leurs scores ne soient pas ridicules, dans le Centre comme dans le grand Nord-Ouest. Notons pour finir que la liste Dieudonné perd son pari. Même si elle obtient son meilleur score en Seine-Saint-Denis, force est de reconnaître qu'elle n'a pas su mobiliser les Banlieues. Pour l'extrême droite comme pour l'extrême gauche, celles-ci demeurent des terres de mission rétives à toute politisation. La révolte "politique" des banlieues demeure un mythe, tant pour ceux qui y fondent des espérances "révolutionnaires" que pour ceux qui en manipulent le risque afin d'effaroucher les "bons Français".
- Enfin, même si un "nationaliste-autonomiste" corse se trouve élu sur la liste Europe Écologie du Sud-Est, le régionalisme est absent d'une compétition dont les circonscriptions territoriales sont incompatibles avec son expression.
2 / EN EUROPE :
Les résultats européens confirment pour la plupart les résultats français, laissant ainsi apparaître une homogénéisation des réflexes politiques à l'échelle du continent. La droite libérale et pro américaine se renforce partout, ce qui signifie que l'ancrage dans le capitalisme et dans la "solidarité atlantique" vont sans doute se durcir. Le rêve d'une Europe autonome dans le concert des grands espaces s'éloigne. Le slogan de l'Europe-puissance apparaît de plus en plus comme un voeu pieux.
Le recul de la social-démocratie est général, ce qui ne fait qu'enregistrer l'usure d'un discours qui n'a pas su s'adapter aux défis d'un libéralisme conquérant, souvent mâtiné de "populisme", qui parle sans complexe le langage de l'économie comme destin. En ce sens, le succès de la "droite européenne" est aussi l'indice d'une défaillance identitaire. De nombreux observateurs font par ailleurs remarquer que l'extrême droite progresse presque partout, ce qui est exact, mais peu mettent le doigt sur les impasses que celle-ci véhicule. Ces impasses sont de deux ordres. Nombre de ces mouvements sont tenaillés par un imaginaire libéral qui fait d'eux, en cas de besoin, de simples forces auxiliaires de la droite libérale, c'est-à-dire d'une idéologie qui incarne le contraire de ce que l'extrême droite est sensée "penser". Le deuxième point, c'est que ces extrêmes droites, étant souvent sous l'emprise des archéo-nationalismes, elles sont évidemment incapables de s'entendre et de peser à l' échelle du Parlement Européen. Il va de soi, par exemple, que pour un "nationaliste" hongrois l'ennemi principal, c'est le "nationaliste" roumain ou slovaque, bien plus que le concept abstrait que représente le "système". Il en va évidemment de même pour le nationaliste roumain. On pourrait multiplier les exemples.
À contrario, on peut dire que le succès des écologistes à l'échelle du continent est beaucoup plus porteur d'avenir que les succès des extrêmes droites, tout simplement parce que l'écologie unifie tandis que le nationalisme sépare.
Au total, aucune force ne semble se dégager à l'échelle du continent qui puisse faire barrage, voire même freiner, la réalisation du "modèle" européen tel qu'il est conçu par les oligarchies dirigeantes et mis en musique à Bruxelles.
Coclés
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Brève analyse des élections européennes...
BRÈVE ANALYSE DES ÉLECTIONS EUROPÉENNES...
Voici l'analyse des résultats des élections européennes que nous a adressé notre ami Coclés :
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1/ EN FRANCE :
- Le premier enseignement de ces élections est la continuelle progression de l'abstention. Traditionnelle lors des élections européennes, celle-ci s'accroît encore en 2009, marquant une défiance grandissante des citoyens vis à vis du monde politique et vis à vis de la construction européenne. L'abstention touche particulièrement les classes populaires et les plus jeunes, ce qui a des implications immédiates pour les partis qui réalisent habituellement leurs meilleures performances dans ces couches de la population (extrême droite et extrême gauche).
- Succès de la droite sarkozyste, arrivée largement en tête. Une crise économique sans précédent, l'usure du pouvoir et les virulentes attaques du PS et du MoDem contre la personne du chef de l'État n'ont pas réussi à affecter son potentiel électoral. Ceci étant, les réserves de voix de l'UMP semblent se tarir ; outre chez les abstentionnistes, elles ne se trouvent plus que chez les souverainistes qui ont subi une lourde défaite. La thématique de "l'Europe qui protège" l'a largement emporté sur celle de "la France seule". Une parenthèse semble se fermer de ce point de vue.
- Malgré la lourde défaite du Parti socialiste, la gauche réformiste, également présente chez les amis de Daniel Cohn-Bendit au sein de la liste Europe Écologie, ne recule pas et le camp social-démocrate s'il sait dépasser les querelles qui sont à l'origine de son émiettement partitocratique et s'il renforce son message écologiste, ce qui est probable, demeure un concurrent sérieux pour la droite libérale.
- De manière générale, les forces du "système" renforcent leur emprise électorale tandis que la contestation à prétention radicale continue de s'affaiblir alors que les circonstances, crise du capitalisme et crise écologique (qui sont fondamentalement une seule et même chose), paraissent pourtant susceptibles de ménager une voie nouvelle pour une contestation de fond.
- Les listes emmenées par Daniel Cohn-Bendit, José Bové et Éva Joly font jeu égal avec les socialistes et les dépassent dans de nombreuses villes et dans des grandes régions urbanisées comme l'Ile-de-France et le Sud-Est. S'adressant aux couches citadines les plus scolarisées de la population, qu'il serait caricatural de réduire aux "bobos", ces listes sont les seules à avoir pris au sérieux les enjeux proprement européens de cette élection. Emmenées par des personnalités notoirement connues mais atypiques, elles ont labouré le terrain depuis l'automne et n'ont pas hésité à délivrer un message sortant des ornières simplistes de la politique-slogan. Notons également que leurs leaders ne pratiquent pas la langue de bois habituelle, tout en se gardant de la démagogie simpliste. Autant de choses qui démentent les calculs et les pratiques de la plupart des États-Majors politiques.
- L'extrême droite lepéniste met un coup d'arrêt à sa descente aux Enfers. Les 6,3 % d'électeurs qu'elle rassemble, malgré une abstention massive, semblent devoir constituer un socle inaltérable. Le parti va donc continuer d'exister sous la houlette de Marine Le Pen. Comme c'était attendu, et comme le passé l'a toujours confirmé, les dissidences ne sont pas parvenues à percer dans l'électorat, bien que leurs scores ne soient pas ridicules, dans le Centre comme dans le grand Nord-Ouest. Notons pour finir que la liste Dieudonné perd son pari. Même si elle obtient son meilleur score en Seine-Saint-Denis, force est de reconnaître qu'elle n'a pas su mobiliser les Banlieues. Pour l'extrême droite comme pour l'extrême gauche, celles-ci demeurent des terres de mission rétives à toute politisation. La révolte "politique" des banlieues demeure un mythe, tant pour ceux qui y fondent des espérances "révolutionnaires" que pour ceux qui en manipulent le risque afin d'effaroucher les "bons Français".
- Enfin, même si un "nationaliste-autonomiste" corse se trouve élu sur la liste Europe Écologie du Sud-Est, le régionalisme est absent d'une compétition dont les circonscriptions territoriales sont incompatibles avec son expression.
2 / EN EUROPE :
Les résultats européens confirment pour la plupart les résultats français, laissant ainsi apparaître une homogénéisation des réflexes politiques à l'échelle du continent. La droite libérale et pro américaine se renforce partout, ce qui signifie que l'ancrage dans le capitalisme et dans la "solidarité atlantique" vont sans doute se durcir. Le rêve d'une Europe autonome dans le concert des grands espaces s'éloigne. Le slogan de l'Europe-puissance apparaît de plus en plus comme un voeu pieux.
Le recul de la social-démocratie est général, ce qui ne fait qu'enregistrer l'usure d'un discours qui n'a pas su s'adapter aux défis d'un libéralisme conquérant, souvent mâtiné de "populisme", qui parle sans complexe le langage de l'économie comme destin. En ce sens, le succès de la "droite européenne" est aussi l'indice d'une défaillance identitaire. De nombreux observateurs font par ailleurs remarquer que l'extrême droite progresse presque partout, ce qui est exact, mais peu mettent le doigt sur les impasses que celle-ci véhicule. Ces impasses sont de deux ordres. Nombre de ces mouvements sont tenaillés par un imaginaire libéral qui fait d'eux, en cas de besoin, de simples forces auxiliaires de la droite libérale, c'est-à-dire d'une idéologie qui incarne le contraire de ce que l'extrême droite est sensée "penser". Le deuxième point, c'est que ces extrêmes droites, étant souvent sous l'emprise des archéo-nationalismes, elles sont évidemment incapables de s'entendre et de peser à l' échelle du Parlement Européen. Il va de soi, par exemple, que pour un "nationaliste" hongrois l'ennemi principal, c'est le "nationaliste" roumain ou slovaque, bien plus que le concept abstrait que représente le "système". Il en va évidemment de même pour le nationaliste roumain. On pourrait multiplier les exemples.
À contrario, on peut dire que le succès des écologistes à l'échelle du continent est beaucoup plus porteur d'avenir que les succès des extrêmes droites, tout simplement parce que l'écologie unifie tandis que le nationalisme sépare.
Au total, aucune force ne semble se dégager à l'échelle du continent qui puisse faire barrage, voire même freiner, la réalisation du "modèle" européen tel qu'il est conçu par les oligarchies dirigeantes et mis en musique à Bruxelles.
Coclés
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Elections européennes: retour sur les résultats
Elections européennes : retour sur les résultats...
par Robert Spieler
Délégué général de la
Nouvelle Droite Populaire
Un triomphe pour Cohn-Bendit, une victoire pour Sarkozy, un échec cinglant pour Bayrou et Martine Aubry, la ringardisation de Villiers et du FN.
Le triomphe de Cohn-Bendit.
Les transferts importants de suffrages, tant du PS que du Modem, vers les écologistes expliquent ce triomphe. Les bobos des villes (cf les résultats impressionnants de certains arrondissements de Paris, où Cohn-Bendit écrase le PS et aussi l’UMP) ont voté massivement pour des listes qui ont eu le mérite d’aborder la question européenne et qui sont incarnées, au niveau national, par un homme qui dépasse largement ses concurrents en termes d’aisance et de charisme médiatiques. La diffusion sur France 2, deux jours avant le vote, du film écologiste « Home » d’Arthus-Bertrand, fort bien réalisé, a créé une ambiance, un « buzz » favorable aux préoccupations environnementalistes qui a fait basculer massivement des électeurs indécis. Il est aussi bien plus chic, dans un dîner, de dire que l’on a voté Cohn-Bendit plutôt que Bayrou ou Aubry. Ceci dit, la chaîne publique, qui n’a rien à refuser à Sarkozy, a délibérément choisi de programmer ce film la veille du scrutin, avec comme conséquence mécanique d’affaiblir le PS. Elle s’en défend en prétendant que la décision avait été prise il y a un an et qu’elle ignorait la date des élections européennes. Elle se moque du monde. Les élections européennes ont toujours lieu début juin…
L’effondrement de Bayrou.
Le problème de Bayrou est qu’il est persuadé d’avoir un destin. Las, il n’a pas la stature, ni la « gueule » d’un destin. Son électorat est par ailleurs composé, pour reprendre la formule d’Abel Bonnard, de « modérés, modérément courageux ». Les modérés n’aiment ni les invectives, ni les coups bas, ni l’opposition frontale au Pouvoir. Bayrou ne sera jamais président, si ce n’est de son parti, condamné à se réduire comme peau de chagrin. Même le talentueux polémiste (et excellent connaisseur de la chanson française) Jean-François Kahn, tête de liste du Modem dans la région Est, n’aura pas réussi. C’est que le produit vendu n’est pas bon et ne correspond pas aux attentes des acheteurs potentiels. Un flop en termes de marketing…
La victoire de Sarkozy.
Cette victoire est certes relative, puisqu’on peut considérer, pour se consoler, que 70% des Français ont voté pour d’autres listes. Le raisonnement est quelque peu spécieux. L’UMP a certes bénéficié de la faiblesse de ses adversaires, mais la victoire n’en est pas moins réelle. L’habileté manœuvrière et le cynisme de Sarkozy, qui pratique l’ouverture à gauche tout en s’exprimant contre l’entrée de la Turquie dans l’U.E., autorisant cependant la poursuite des négociations, gesticulant sur des thématiques sécuritaires, « enfume » littéralement les électeurs. Sarkozy bénéficie aussi de l’insigne médiocrité de ses adversaires et de la propagande diffusée par des médias complaisants. Nul besoin d’un ministère de l’Information, comme ce fut le cas sous De Gaulle. Aujourd’hui, les vassaux précèdent les désirs de leur maître…
Le lourd échec du PS.
Englué dans ses divisions, les querelles d’ego et l’inanité de son programme qui s’exprime en phrases sentencieuses et creuses, le PS n’est plus, depuis longtemps, un parti proche du peuple. Son électorat, largement composé de fonctionnaires, de bobos et d’apprentis bobos, est d’une solidité et d'une fidélité relatives. La faiblesse de Bayrou aurait pu cependant permettre au PS de s’ériger en opposant n° 1 de l’UMP sans l’irruption tonitruante de Cohn-Bendit. Le PS n’a cependant pas d’inquiétude majeure à avoir quant aux prochaines échéances, dès lors qu’il saura réaliser son unité. Pour ce qui concerne l’élection présidentielle, Cohn-Bendit a d’ores et déjà annoncé qu’il ne serait en aucun cas candidat, témoignant d’une lucidité certaine quant à ce qu’est une élection présidentielle et ce que sont des européennes.
Une extrême gauche qui n’émerge pas.
On aurait pu imaginer que la crise sociale et économique pouvait représenter un puissant vecteur de développement de l’extrême gauche. Rien de tel. Le NPA de Besancenot (étrange idée de changer le nom de son mouvement la veille de l’élection) se situe sous la barre des 5%. Le Front de gauche (PC et Mélenchon) dépasse les 6%. Difficile d’être révolutionnaire et d’avoir des visées électoralistes. Difficile de mobiliser un éventuel électorat issu de l’immigration, quand celui-ci se fiche des élections. Difficile de mobiliser les « petits blancs » sur la thématique intégrationniste et collaborationniste. Proudhon, au secours…
La ringardisation souverainiste : MPF et FN.
L’erreur de Villiers fut d’abandonner son sigle MPF, relativement connu, pour Libertas, totalement inconnu. Le discours anti-européen, fût-t-il justifié pour ce qui concerne cette Europe des nains de Bruxelles, ne rencontre plus qu’un faible écho chez des Français bien conscients que les enjeux économiques et sociaux liés à la crise, les enjeux diplomatiques et ceux de la Défense ne peuvent être résolus à l’échelle du seul hexagone.
Le FN, quant à lui, continue d’asséner des slogans absurdes et irréalistes, tels le retour au franc et l’abandon de l’euro. Un discours ringard et passéiste. Le FN atteint un étiage de l’ordre de 6% des suffrages, qui lui permet de conserver trois élus au Parlement européen, contre sept auparavant, mais lui interdit d’espérer, vu le mode de scrutin imposant d’atteindre la barre des 10%, une espérance de succès aux prochaines élections régionales. La quasi disparition de conseillers régionaux et les départs massifs des derniers cadres de valeur empêcheront ce mouvement de réunir les 500 signatures de maires et de conseillers régionaux pour présenter un candidat à l’élection présidentielle. Sauf si Sarkozy le décide. Pourquoi le ferait-il ? Aider Marine Le Pen à représenter un Front familial et résiduel pourrait empêcher, dans son esprit, l’émergence d’une résistance nationale et identitaire puissante. La vacuité idéologique, l’hystérie comportementale, une exceptionnelle capacité à diviser, l’insulte comme vade-mecum politique, qui caractérisent Marine Le Pen, sont de puissantes qualités pour la stratégie de Sarkozy, qui ne verrait au demeurant que des avantages à ce qu’elle soit élue maire d’Hénin-Beaumont, ce à quoi l’UMP (et le PS) s’emploient en présentant des têtes de liste particulièrement médiocres.
Caton l’Ancien concluait tous ses discours, devant le Sénat de Rome, par cette formule : « Delenda est Cartago », Carthage doit être détruite, pour que Rome vive. Oui, Carthage doit être détruite.
- Lisez l’analyse particulièrement intéressante de Coclés sur le site Synthèse Nationale, concernant les élections européennes.
- Lisez aussi, vendredi prochain, l’article de Robert Spieler : « Que faire ? »
10:56 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : europe, affaires européennes, parlement européen, élections européennes, élections, france, alsace, politique, politique internationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Réinformation sur les élections européennes
Réinformation sur les élections européennes
Les grands médias jouent un rôle croissant sur les élections : d’abord en influençant directement les électeurs (l’opération du film Home fut exemplaire à cet égard) ; ensuite en commentant le verdict des électeurs dans le sens qui convient à l’idéologie dominante. D’où l’utilité de mettre en lumière par la réinformation les aspects occultés des scores électoraux (*).
Le recul des groupes politiques co-gestionnaires de l’Union européenne
Le Parlement européen est dirigé par deux groupes principaux :
- le groupe populaire démocrate chrétien, en léger recul de 36,7% à 35,9% ;
- le groupe socialiste, en recul important de 27,6% à 22% ;
soit une chute globale des forces dominantes de 64,3% à 57,9%.
Le troisième groupe en ordre d’importance, le groupe libéral, recule lui aussi, passant de 12,7% à 10,9%.
Il convient par ailleurs de noter que le groupe démocrate chrétien sera amputé de 10% de ses effectifs : les conservateurs britanniques (25 députés) ayant annoncé durant la campagne électorale qu’ils quittaient ce groupe eurofédéraliste.
La modeste progression des écologistes
Servi par un calendrier médiatique plus que favorable – avec la Journée de l’environnement le 5 juin et le lancement mondial du film Home – les écologistes sont passés de 5,5% à 7,1%. Une progression finalement modeste, d’autant qu’elle est largement due à un seul pays, la France : en termes de sièges, la progression des Verts ne sera que d'un siège en dehors des 8 sièges supplémentaires apportés par les listes Cohn-Bendit !
La forte progression des listes « autres »
Une fois de plus le scrutin européen a été marqué par une progression de l’abstention qui atteint 56,91% en moyenne dans l’Union, soit 2,6% de plus qu’en juin 2004. Or cette désaffection des électeurs pour les urnes européennes se double d’une forte croissance des votes en faveur des non-inscrits et des « autres » : ces listes diverses avaient obtenu 3,8% des suffrages en 2004 ; elles quadruplent leurs voix avec 12,6% des suffrages en 2009. Signalons à ce sujet la percée de la liste des « Pirates », favorables aux libertés sur Internet, qui recueille 7,1% des suffrages et gagne 1 siège en Suède.
La percée des listes nationales et identitaires
Mais au sein de ces « autres » le phénomène le plus notable – et le plus occulté – c’est la percée des mouvements nationaux et identitaires. Les résultats les plus significatifs sont obtenus :
- en Grande-Bretagne, avec le Parti national britannique (BNP) qui obtient 8,4% des suffrages et deux sièges, dans un contexte de très grande hostilité de l’Etablissement britannique à l’égard des nationaux ;
- en Autriche, où le Parti des libertés (FPÖ) qui a fait campagne contre « l’entrée de la Turquie et d’Israël dans l’Union européenne » double son score de 2004 et obtient 13,1% des suffrages (18% au total avec le BZÖ de feu Jorg Haïder) et deux sièges ;
- aux Pays-Bas, avec le Parti des libertés de Geert Wilders, radicalement hostile à l’immigration et à l’islamisation, qui obtient 17% des suffrages et quatre députés ;
- au Danemark, où le Parti du peuple danois double ses suffrages et obtient deux sièges avec 14,8% des voix ;
- en Hongrie, où le Mouvement pour une meilleure Hongrie, très critique sur l’islam et l’immigration, recueille 14,77% des suffrages et envoie 3 députés à Bruxelles ;
- en Italie, où la Ligue du Nord double aussi ses suffrages et le nombre de ses députés, avec 10,22% (rassemblant ainsi plus de 20% des électeurs dans le nord du pays là où elle est candidate) et 8 parlementaires européens ;
- en Finlande, où le Parti des vrais Finlandais obtient 14% des voix (au lieu de 0,5% en 2004) et gagne deux sièges ;
- en Grèce, où le Rassemblement populaire orthodoxe (LAOS) double ses voix (7,45%) et obtient deux sièges ;
- en Flandre, où le Mouvement flamand (Vlaams Belang) obtient 15,98% des suffrages et deux sièges ; en recul toutefois de 7,58% par rapport à 2004 en raison de la concurrence de deux nouvelles listes nationales et populistes : la Nouvelle alliance flamande (NVA : 9,71%) et la Liste Dedecker (LDD : 7,41%), soit un total de 32,94% ;
- en Bulgarie, le Parti national Ataka, qui a fait campagne contre l’entrée de la Turquie dans l’Union, double ses voix et ses sièges et obtient 12,1% et deux mandats ;
- en Lettonie, l’Union pour la patrie et la liberté obtient 7,5% et un siège ;
- en Lituanie, le mouvement Ordre et Justice obtient 12,45% et deux sièges ;
- en Slovaquie, le Parti national slovaque (SNS) emporte un premier siège avec 5,5% des voix ;
- en Roumanie, les nationalistes du Parti de la Grande Roumanie reviennent au Parlement européen avec deux sièges et un score de 8,7%.
Il n’y a qu’en France qu’on observe un mouvement de recul, le Front national passant de 9,8% à 6,3% et ne conservant que 3 sièges sur 7.
En dépit de cette particularité française, les résultats de ces mouvements pensant « mal » sont notables : malgré les campagnes de diffamation, de diabolisation et de limitation d’accès aux médias, ces mouvements obtiennent 35 sièges (France non comprise), soit un triplement de leur représentation.
Les souverainistes pâtissent de leurs ambiguïtés
Libertas, le mouvement de réforme de l’Union européenne de l’intérieur, lancé par l’Irlandais Declan Ganley, échoue partout : son seul député sera Philippe de Villiers, en net recul en France, avec 4,6% des suffrages.
Dans les pays scandinaves « les Mouvements de juin » qui avaient fait élire des députés en Suède et au Danemark disparaissent : au Danemark la chute de 9% à 2,3% des suffrages s’explique par une prise de position en faveur de l’adhésion de la Turquie à l’Union européenne !
A contrario, il faut noter le bon résultat de l’Union pour l’indépendance du Royaume-Uni (UKIP) qui se maintient à 16% malgré le repositionnement eurosceptique du Parti conservateur britannique. En Autriche la liste de Hans-Peter Martin progresse même de 14,04% à 17,9%. Les résultats autrichiens et britanniques sont d’autant plus significatifs qu’ils s’accompagnent d’une forte progression des mouvements anti-immigration.
La vraie fausse victoire de l’UMP
Dans ce concert européen, la France fait triplement bande à part :
- les écologistes y progressent fortement, ce qui n’est pas le cas dans le reste de l’Europe ;
- les mouvements nationaux et identitaires y régressent, a contrario de ce qui est observé dans la quasi-totalité des pays européens ;
- le parti au pouvoir y réalise un score de moins de 30%, ce qui est très rare en Europe.
Ce dernier point mérite un éclaircissement :
Les médias et la classe politique française ont souligné comme un succès les 27,8% des suffrages obtenus par l’UMP. Une comparaison avec nos voisins européens conduit à relativiser ce résultat.
Le Parlement européen classe visuellement les données électorales pour faire apparaître à part les scores des partis et coalitions de gouvernement : beaucoup dépassent 40%, voire 50% des suffrages. Très peu ne parviennent pas à franchir la barre des 30%. L’UMP est dans ce cas et s’y trouve en bien mauvaise compagnie aux côtés de :
- trois partis socialistes en débâcle : le Labour britannique (15,3%), le Parti socialiste hongrois (17,34%) et le Parti socialiste portugais (26,5%) ;
- et de deux formations gouvernementales de pays au bord de la faillite : l’Irlande (25,97% pour la coalition nationale) et l’Estonie (27,55% pour la coalition modérée).
Conclusions
Ainsi les lignes de force de ces élections européennes sont bien différentes de celles qui ont été présentées aux Français.
Le désaveu de l’Union européenne se manifeste :
- par la progression de l’abstention (+ de 2,6%) ;
- par le recul des groupes gouvernant le Parlement européen (socialiste et démocrate chrétien) : -6,4% ;
- par la progression considérable des formations « autres » : +8,8% ;
- par le triplement des sièges (hors France) des mouvements nationaux et identitaires, clairement hostiles à l’immigration, passant de 14 à 35 ;
- par l’affaiblissement des groupes euro-fédéralistes par l’abandon du PPE par le Parti conservateur britannique.
Bien sûr, chacun de ces points mériterait d’être analysé en profondeur. Ce n’était pas l’objectif de cette étude qui visait simplement à rappeler l’objectivité des faits.
J.-Y. Le Gallou
Polémia
10/06/2009
(*) Cette étude est faite à partir des résultats communiqués par le Parlement européen :
http://www.elections2009-results.eu/fr/new_parliament_fr.html
Par souci de simplification, nous n’avons pris en compte que les formations ayant obtenu des élus.
Pour en savoir plus sur l’historique des mouvements populistes en Europe, le lecteur pourra utilement se reporter à ma communication à la XXIVe Université annuelle du Club de l’Horloge : « Europe : le temps joue pour le populisme »
http://www.polemia.com/article.php?id=1803
J.-Y. Le Gallou
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"Barrez-vous, les Américains!"
« BARREZ-VOUS LES AMERICAINS ! »
Editorial du numéro 36 de Rébellion ( bientôt disponible)
* Propos tenu par un prolétaire de l’usine Molex à Villemur-sur-Tarn
Cela est désormais clairement dit ; la rhétorique médiatique ne prenant le soin que de présenter la chose sous le mode interrogatif : la classe ouvrière serait-elle devenue xénophobe ? Qu’a-elle fait ? Elle proteste contre les délocalisations… La suspicion est lancée et comme on le sait, le traitement réservé à ceux que le pouvoir a choisis arbitrairement de qualifier comme tels, est la marginalisation et surtout la répression. Toute velléité de défense un peu vive, de la part des prolétaires victimes des licenciements massifs et quotidiens, est d’emblée qualifiée de « violences faites aux biens et aux personnes ». Il s’agit en fait des « séquestrations » de dirigeants d’entreprises dont usent les travailleurs afin de se faire entendre et non d’actes de vandalisme et de violence illégitime comme le laisse entendre le gouvernement. Ainsi, grâce à la terminologie juridico-politique dominante, est neutralisé le sens de l’action concrète conduite par ceux qui sont acculés par le capital dans l’ultime réserve de la protection de leur simple existence et survie économique et sociale, de même qu’est corrélativement brouillée, occultée, la forme de la lutte de classe que peut prendre cette autodéfense du prolétariat. Un étau répressif et idéologique, est de ce fait constitué, entre d’un côté, le pôle « xénophobie » et de l’autre, « violence illégitime ». Seul, le discours idéologique du capital et de ses représentants gouvernementaux, institutionnels et médiatiques - dans sa parfaite transparence neutralisante, instrumentalisante - aurait la légitimité de dire la vérité objective dans son unicité, gommant par là même les aspérités des contradictions les plus vives, les plus exacerbées, qui naissent pourtant, de manière bien réelle sur le terrain de la vie sociale. Car ce qu’il faut cacher est le secret le plus profond, le plus inavouable : le capitalisme est un système agonisant ; aucune thérapie ne viendra à bout de son pourrissement inéluctable. Sa contradiction originelle le mine toujours mais de façon toujours plus exacerbée, plus ample et intense : accumulation de richesses à un pôle de la société, paupérisation, précarité, insécurité sociale à un autre. Satisfaction, jouissance indécente et aliénée d’un côté, inquiétude permanente, lutte quotidienne pour continuer son existence de l’autre.
Cette situation a l’avantage – vécu douloureusement par le prolétariat – de poser clairement à la conscience des travailleurs, la question de l’absence de réponse à la crise dans le cadre du capitalisme. Cette crise dont les « spécialistes » nous disent qu’elle ne sera qu’un mauvais souvenir dans quelques mois ou une année et qui nous est ainsi présentée comme une fatalité naturelle, certes d’ampleur inégalée mais comme, somme toute, il peut y en avoir dans l’histoire naturelle climatique. Météorologie, économie politique même combat ! Il serait d’ailleurs intéressant d’étudier sous cet angle, l’usage idéologique quotidien du message météorologique adressé aux citoyens par les nouveaux prêtres médiatiques commentant celui-ci. Zeus supplanté par Météo France : que pouvons-nous faire de notre vie alors que le ciel nous tourmente quotidiennement ? Osciller entre fatalisme et reconnaissance impuissante des déterminismes naturels. La vie sociale serait du même ordre et de même niveau. Pourtant les prolétaires commencent à prendre des initiatives et c’est bien cela qui inquiète la classe dominante. La mobilisation contre les licenciements est importante et certains ont même l’idée de traverser les frontières afin de soutenir leurs camarades en Allemagne, par exemple, victimes des mêmes mesures, le trop fameux « plan social » (encore une entourloupe de vocabulaire, que de rhétorique de la part de la bourgeoisie ! C’est tout ce qui lui reste depuis qu’elle ne pense plus). Leur action exprime bien un internationalisme en acte (et non verbeux comme celui des gauchistes) articulé à la préoccupation de la conservation locale de leurs conditions de travail dont se moquent bien les actionnaires et dirigeants des entreprises capitalistes (1) : le capital n’a pas de patrie. De là, la parole de dépit- que nous citons en exergue - du prolétaire de Molex à la suite de la « libération », grâce à la présence des forces de police, du dirigeant « séquestré » de cette usine, (« Barrez-vous les américains ! ») mais qui n’en révèle pas moins une compréhension intuitive de la condition faite aux travailleurs par les multinationales toutes puissantes. Dans sa simplicité, la formule va bien plus loin que toutes les arguties proposées par les têtes « pensantes » de la politique qui ne voient là qu’impudence xénophobe. Elle touche du doigt la violence faite aux exploités par la mondialisation impérialiste du capital sur tous les continents. Cette violence faite aux économies locales de subsistance où s’effondre la simple possibilité de se nourrir modestement dans les pays du Sud, engendrant les bidonvilles des mégalopoles et l’émigration de désespoir, la violence faite de guerres locales où s’affrontent des bandes armées par le capital afin de se partager des territoires soumis à la rapine, la violence déclenchée par les interventions américano-otanesques à visées géostratégiques et géoéconomiques (Irak, Balkans,Afghanistan, déstabilisation du Pakistan, etc.), la violence enfin que subissent les prolétaires des nations relativement plus nanties mais qui voient leurs acquis sociaux et vitaux se réduire comme peau de chagrin. Ainsi le rejet de ce système par les travailleurs commence à se faire entendre et c’est cette parole qu’il s’agit d’étouffer sous la calomnie voire la répression.
Il restera un long chemin à parcourir, pour les plus humbles, afin de comprendre la portée et la nature des enjeux qu’il leur faudra affronter. Ils n’auront pas d’alliés parmi les partis politiques électoralistes (2), de faux amis au sein de ceux se proclamant « anticapitalistes », pèsera la chape de plomb du clivage droite/gauche et pour finir, en Europe, ils seront sous surveillance du cheval de Troie de l’OTAN. Pour autant, le capital se nourrit de leur travail (3) et de ce point de vue il dépend d’eux. La seule perspective qui vaille, alors, est le socialisme ; lorsque les prolétaires forgent les instruments politiques leur permettant de renverser le rapport de force entre les classes sociales.
Notes :
1.« L’intérêt exprime une fraction de la plus-value ; un simple quota du profit classé sous un nom particulier ; le quota qui revient au simple propriétaire du capital, qui est intercepté par lui. Mais cette partition simplement quantitative se transforme en partition qualitative qui donne aux deux fractions une forme concrète métamorphosée dans laquelle ne semble plus battre la moindre artère de leur être originel. […] L’intérêt en soi exprime donc précisément l’existence des conditions de travail en tant que capital dans leur opposition sociale au travail et leur métamorphose en forces personnelles exerçant leur pouvoir sur le travail. Il résume le caractère aliéné des conditions de travail par rapport à l’activité du sujet. Il représente la propriété du capital ou la simple propriété capitaliste, en tant que moyen de s’approprier les produits du travail étranger, comme une domination s’exerçant sur du travail étranger. Mais il représente ce caractère du capital comme quelque chose qui lui revient en dehors du procès de production lui-même, et n’est en aucune façon le résultat de la déterminité spécifique de ce procès de production. Il ne le représente pas en opposition au travail, mais, au contraire, sans rapport avec le travail et comme un simple rapport entre un capitaliste et un autre capitaliste. » Karl Marx. Théories sur la plus-value. Tome III. P.580.81.82. Editions Sociales. Lorsque le fétichisme du capital se reflète de manière inversée dans la conscience des actionnaires et des financiers sous la forme de l’inquiétude pour leur taux d’intérêt ce sont les affres du chômage et des délocalisations que vivent concrètement les prolétaires.
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Dont les représentants européens élus ont montré, une fois de plus, leur servilité envers une idéologie impérialiste en quittant la salle lors du discours du Président iranien à la conférence dite Durban II.
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Ceux qui cherchent à dépasser le faux clivage droite/gauche devraient trouver là matière à réflexion, c’est-à-dire dans la dynamique du rapport entre classes sociales et dans la recherche adéquate des moyens politiques et doctrinaux, nécessaires à une intervention dans les luttes politiques et sociales. D’après les derniers chiffres disponibles et d’après les extrapolations rationnelles que l’on peut faire, il y a environ, aujourd’hui, entre 8 et 10 millions de personnes vivant sous le seuil de pauvreté. Cela s’appelle la prolétarisation. Potentiellement, l’explosion sociale guette le système. Le mouvement théorique et pratique auquel nous appartenons est l’expression de cette potentialité.
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mercredi, 10 juin 2009
Eventuels vainqueurs et présumés vaincus
ÉVENTUELS VAINQUEURS ET PRÉSUMÉS VAINCUS
Chronique hebdomadaire de Philippe Randa
http://www.philipperanda.com/
Le paysage politique français est-il véritablement changé depuis que le résultat des élections européennes dimanche soir ? Force est de constater qu’il suscite en tout cas beaucoup de perplexité. Pour les éventuels vainqueurs, tout comme pour les présumés vaincus.
Tout d’abord, sur l’Europe… Avec 60 % d’abstention, il est clair que l’immense majorité des Français s’en désintéresse, d’autant que le nombre impressionnant de listes en compétition offrait tous les choix possibles. Cette abstention remet bien évidemment en cause la représentativité réelle des 72 élus nationaux et n’en donne pas davantage aux abstentionnistes, suivant l’adage que les absents n’ont pas seulement toujours tort, mais n’existent pas ! Les urnes ont beau avoir été plus qu’à moitié vide, les fauteuils du parlement européen n’en seront pas moins occupés, ne leur en déplaise.
L’UMP, avec un tiers des suffrages exprimés, confirme que Nicolas Sarkozy est incontestablement passé maître d’œuvre dans l’art de diviser ses adversaires. Car c’est à l’évidence bien davantage sur la faiblesse (euphémisme !) de ses opposants, bien davantage que sur les résultats de son action présidentielle, que les Français, faute de mieux, ont confirmé le leadership électoral de son parti.
Mais ce parti ne rassemble toutefois qu’un électeur sur trois sur moins d’un Français sur deux autorisé à déposer un bulletin de vote… Et il ne peut compter sur aucun allié politique potentiel. Il reste donc un géant aux accords électoraux d’argile et aux très possibles déconvenues électorales à venir.
Le Parti socialiste s’est certes ridiculisé dans cette élection avec 14 % de suffrages, mais on rappellera que la liste menée par un certain Nicolas Sarkozy (avec Alain Madelin) avait obtenu le brillant score de 12,82 % à ces mêmes élections de 1999, tandis que celle menée par Charles Pasqua et Philippe de Villiers les devançait à 13,05 %. On sait ce qu’il est advenu ensuite des uns et des autres…
L’incontestable percée des listes écologistes de Daniel Cohn-Bendit, Eva Joly et José Bové est à relativiser… Sauront-ils faire perdurer leur succès, voire l’augmenter ? Il est clair que dans un premier temps, leur succès va surtout contribuer à diviser encore plus l’opposition au chef de l’État. D’autant que ces écologistes-là doivent tout au soutien médiatique dont ils ont outrageusement bénéficié, le point d’orgue de ce soutien ayant été la diffusion télévisuelle du film « Home », le vendredi soir précédant l’élection.
Le Modem essuie un échec tout aussi incontestable, du moins dans les ambitions qu’il affichait durant la campagne électorale et en comparaison du résultat de François Bayrou à l’élection présidentielle. Mais ce n’est pas le premier essuyé par le Béarnais et il a montré son incontestable aptitude à rebondir. Ceux qui ne cesse de l’enterrer ont sans doute encore beaucoup de pelletées électorales à lui asséner. Et s’ils se lassaient avant lui ?
Celui qui a rempli sa mission électorale, c’est à l’évidence Jean-Luc Mélenchon. Chargé par ses camarades socialistes de ramasser au fond des urnes les derniers des mohicans communistes et de stopper l’ascension d’Olivier Besancenot. Il peut être pleinement satisfait.
Enfin, Marine Le Pen tire incontestablement son épingle électorale du scrutin. Sa réélection dans la région nord lui assure la légitimité que lui contestait tous ceux qui ont quitté le Front national. Ces derniers ont par ailleurs démontré qu’en politique, les démissionnaires sont comme les abstentionnistes, ils perdent toute légitimité.
08:23 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : europe, affaires européennes, france, élections européennes, union européenne, politique, élections | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Organisation socialiste révolutionnaire européenne
Les autocollants de l'organisation socialiste révolutionnaire européenne seront bientôt disponibles.
Pour tout renseignement : osre@hotmail.fr - http://rebellion.hautetfort.com/
00:20 Publié dans Politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : europe, affaire européenne, socialisme, socialisme révolutionnaire, révolution populaire, gauche, gauche nationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Le "Rhin de Fer": un axe ferroviaire vital pour Anvers et pour la Flandre
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997
Le «Rhin de fer»: un axe ferroviaire vital pour Anvers et pour la Flandre
En marge de l'affaire Dutroux, de la Commission “Rwanda”, de l'enquête sur les tueurs fous du Brabant wallon, etc., les travaux du parlement de la communauté flamande sont passés à l'arrière-plan de l'actualité. C'est injuste car cet organe de représentation prend souvent des initiatives politiques importantes. Parmi celles-ci, il y a sans nulle doute la résolution sur le Rhin de Fer —une ligne de chemin de fer devant relier le port d'Anvers à la Ruhr et à la grande voie fluviale européenne “Rhin-Main-Danube”— qui a été acceptée quasiment à l'unanimité par les députés flamands, toutes tendances confondues, au-delà de tous les clivages idéologiques, pourtant tenaces en Belgique. Mais l'histoire de cette ligne de chemin de fer est fort longue et mouvementée.
Quand, à la fin des années 30 du siècle passé, le chemin de fer commençait à s'imposer sur le continent européen, les Pays-Bas (Hollande + Belgique) vivaient un divorce tragique. La Prusse étendait sa puissance en Allemagne et cherchait à consolider ses positions commerciales en s'implantant surtout à Anvers. Pour faciliter ces nouvelles relations entre Anvers et la Prusse, on a songé très tôt à construire un axe ferroviaire Est-Ouest entre le grand port sur l'Escaut et la région de la Ruhr, qui démarrait son développement industriel. A l'époque, le chemin de fer était un moyen de transport révolutionnaire et la ligne envisagée a rapidement été surnommée le “Rhin de fer”. La ligne devait traverser une région pauvre, la Campine (en néerl.: “de Kempen”), passer par la localité de Neerpelt puis se diriger vers les villes nord-limbourgeoises de Weert et de Roermond, pour franchir ensuite la frontière allemande et passer par Dalheim, Rheydt et Mönchengladbach. A Duisburg, la ligne aurait dû aboutir sur les rives du Rhin et y aurait trouvé une connexion avec le transport fluvial, d'une part, avec le réseau de chemin de fer allemand, à l'époque en pleine croissance.
Quand, en 1939, la séparation des Pays-Bas entre le Nord (les Pays-Bas actuels) et le Sud (la Belgique) est définitivement sanctionnée par les puissances européennes, le Limbourg du Nord devient néerlandais. Du coup, le libre passage d'un chemin de fer essentiellement “belge” pose problème. A ce moment, le “Rhin de fer” n'était encore qu'un projet, mais les grandes puissances n'avaient pas l'intention de nuire aux intérêts de la Prusse. Le Traité de Londres, qui réglementait la séparation de la Belgique et de la Hollande, prévoyait expressis verbis le droit de passage des chemins de fer à travers le territoire nord-limbourgeois. Pour bon nombre d'observateurs (dont l'homme politique libéral anversois Delwaide), cette disposition du traité était due à la clairvoyance du Premier Ministre britannique Palmerston, lui aussi un libéral. Mais il nous paraît plus juste de dire, en accord avec toute l'histoire de la diplomatie en Europe, que c'est davantage le génie politique prussien qui a imposé à La Haye le libre passage de la ligne ferroviaire Anvers-Duisburg.
Les débuts du “Rhin de fer”
A partir de 1879, dès que la ligne est mise en œuvre, jusqu'en 1914, le “Rhin de fer” ne connait que des succès. Le développement phénoménal du port d'Anvers, qui avait résolument choisi d'être un port accessible par chemin de fer, et les excellentes relations entre la Belgique nouvelle et l'Allemagne unifiée ont fait du “Rhin de fer” l'une des lignes du continent les plus usitées pour le transport des marchandises. Quand éclate la première guerre mondiale et que les Pays-Bas restent neutres, la ligne cesse d'être utilisée pendant quatre ans. Les Allemands organisent alors une autre ligne, plus longue, passant par Aix-la-Chapelle (Aachen/Aken), Visé (Wezet) et Tongres (Tongeren). Aujourd'hui encore on appelle cette ligne, la ligne Montzen. Celle-ci constitue un fameux détour passant par le territoire wallon et est désavantagée par les nombreuses pentes abruptes qui jalonnent son parcours. Sur certaines parties du trajet, on devait à l'époque utiliser deux locomotives, ce qui entraînait des coûts supplémentaires et des retards considérables.
Après 1918, on continue, curieusement, à utiliser la ligne Montzen, au détriment du Rhin de fer, pourtant plus court et moins cher. Certes, la politique néerlandaise des tarifs y est pour quelque chose, mais c'est surtout la sottise fondamentale de la politique belge (belgiciste et francophile jusqu'au délire) qui a fait que l'on a persisté à maintenir en service la seule ligne Montzen, mise en place par l'armée allemande d'occupation! Dans les cercles francophiles dominants de l'époque, où le verbe et les discours étaient plus prisés que les saines réalités économiques, le “Rhin de fer” était considéré comme une “ligne boche”, alors qu'elle avait surtout avantagé Anvers et la Belgique! Il fallait donc “oublier” le Rhin de fer. Du point de vue flamand, on peut dire que le détour par la ligne Montzen, avec ses hangars, ses locomotives supplétives et ses autres services complémentaires donnaient du travail à des cheminots wallons. Pendant ce temps, le Rhin de fer tombait en quenouille. Entre 1940 et 1944, les Allemands le rétablissent mais uniquement pour des raisons militaires. Quand la Wehrmacht se retire, elle sabote la ligne; les Américains la remettent en état, mais les autorités belges cessent de l'utiliser après les hostilités!
Une liaison très utile
Pourtant, le Rhin de fer est sans nul doute l'une des liaisons ferroviaires les plus utiles d'Europe en ce moment. Le port d'Anvers qui cherche depuis longtemps à se relier à l'hinterland allemand est le principal demandeur d'une remise en service. Depuis la chute du Rideau de fer, les pays de l'ancien bloc de l'Est deviennent pour nous d'importants partenaires commerciaux. Les flux d'échanges entre ces pays et le reste de l'Europe et du monde passent pour une bonne part à travers l'Allemagne et se dirigent vers Anvers. Le transport par route est de plus en plus problématique vu les bouchons et sa lenteur. Il ne peut plus faire face seul aux flux d'échanges nouveaux. Le chemin de fer acquiert dès lors de nouveaux atouts.
Mais il n'y a pas qu'Anvers qui est demandeur. Zeebrugge aussi, sur la côte flamande de la Mer du Nord face à l'Angleterre, estime qu'il est important désormais d'avoir une bonne liaison Est-Ouest. Les Ouest-Flamands de Zeebrugge réclament donc, de concert avec les Anversois, la ressurection du Rhin de fer. Mieux: le Rhin de fer pourrait être l'un de ces grands projets européen en matière de transport de marchandises. L'Europe veut en effet imposer des axes ferroviaires internationaux à grande vitesse desservant les principaux ports et zones industrielles du continent. La ligne Londres-Dunkerque-Zeebrugge-Gand-Anvers-Duisburg serait un bon prolongement du Rhin de fer.
Rotterdam a compris depuis longtemps qu'il devait avoir une bonne liaison directe avec l'Allemagne. Le port néerlandais veut installer une nouvelle ligne Betuwe, qui coûtera des millions et sacrifiera, hélas, bon nombre d'hectares dans les réserves naturelles du pays.
Sur le plan psychologique, il me paraît important qu'un port qui cherche à “se vendre” aux armateurs et aux transbordeurs puisse présenter de bonnes liaisons avec l'hinterland, permettant de débarquer les marchandises, de les transporter directement, sans détours inutiles, à des prix compétitifs, de quai à quai. La ligne Montzen, que les autorités des chemins de fer belges (SNCB) se sont sottement obstinées à maintenir, n'est pas d'une grande utilité pratique pour les ports flamands de Zeebrugge et d'Anvers.
Les initiatives
Les nationalistes flamands du Vlaams Blok ont estimé important de s'engager pour la ressurection du Rhin de fer. Ils ont pris l'initiative au niveau parlementaire. Ils ont réclamé la remise en œuvre du Rhin de fer. Un mois à peine après l'installation du nouveau Parlement flamand, j'ai proposé personnellement une résolution relative au Rhin de fer, où j'ai demandé au gouvernement flamand d'entamer sans tarder des pourparlers avec la SNCB, dans le but de remettre en fonction cette ligne vitale. Un an plus tard, c'est plutôt le dossier du TGV qui focalisait toute l'attention du secteur des transports. Nous ne nous sommes pas découragés, nous avons continué à intervenir et à formuler des propositions dans le sens d'une remise en service du Rhin de fer. Il a fallu attendre juin 1997 pour que le Parlement flamand daigne enfin ouvrir le dossier.
Dans la Commission de l'Aménagement du Territoire, des Travaux Publics et des Transports, nous nous sommes rapidement aperçus que nous pouvions compter sur un consensus en la matière. Comme je viens de le dire, tant Zeebrugge qu'Anvers sont sur la même longueur d'onde. Les Limbourgeois se sont rangés sans hésiter à leurs côtés, car le projet du Rhin de fer leur plait. Sur le plan du transport des personnes, le Limbourg a toujours été traîté par dessus la jambe par la SNCB belge. Le Rhin de fer pourrait dès lors contribuer à désenclaver cette province flamande.
Le gouvernement flamand a donc étudié la “faisabilité” du projet. En février 1997 déjà une étude du bureau Tractebel, Technum et Prognos avait démontré qu'avec un petit investissement de 1,3 à 5,7 milliards, on pouvait s'attendre à engranger des bénéfices de l'ordre de 15% à 93%.
Du coup, sans tergiverser, sans discuter, la Commission a adopté avec le plus parfait consensus une résolution basée sur les propositions des nationalistes du Vlaams Blok. Pour l'essentiel, le Parlement flamand demande aux instances compétentes de remettre sans tarder le Rhin de fer en service. Cette résolution est l'une des rares initiatives du Vlaams Blok qui n'ait pas été torpillée par les autres députés. Dans le projet du Rhin de fer, les députés flamands se sont montrés unanimes, le “cordon sanitaire” établi autour des nationalistes, que l'on s'obstine à ignorer, n'a pas fonctionné. Seul un député d'AGALEV (parti écologiste) s'y est montré hostile.
Et l'avenir?
Les anciens partisans du Rhin de fer, le directorat-général pour les transports de l'Union Européenne et la Deutsche Bahn, continuent à appuyer avec enthousiasme le projet. Les Néerlandais, au départ assez réservés, viennent de déclarer par la bouche de leur ministre des transports Jorritsma, qu'ils ne s'y opposeraient pas. Seule la SNCB rétrograde et son ministre de tutelle francophile Daerden —un socialiste appartenant à un parti de corrompus ayant sans cesse maille à partir avec la justice— continuent à s'opposer aux lois naturelles de la géopolitique, à privilégier des idées fumeuses (parisiennes évidemment) au détriment des réalités économiques les plus évidentes. L'établissement belge ne se soucie guère d'une résolution du Parlement flamand. Cependant, celle-ci a été acceptée à l'unanimité. Il est donc temps que l'établissement flamand, que les dynamiques entrepreneurs anversois frappent du poing sur la table et imposent le Rhin de fer en toute indépendance, en exigeant par exemple la “défédéralisation” de la SNCB et le transfert de ses compétences à la Flandre et à la Wallonie.
Jan PENRIS.
(article paru dans Vlaams Blok, n°9/1997).
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mardi, 09 juin 2009
"The Economist about Belgium
"The Economist" About Belgium
http://www.economist.com/world/europe/displaystory.cfm?story_id=13743268
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L'Italia e il grande gioco asiatico
Archives - 2003
Valerio Ricci :
L'Italia e il grande gioco asiatico
Il precedente della guerra del golfo
Obiettivi reali e obiettivi dichiarati nella guerra moderna
L'impero marittimo americano ed il controllo dell'Hearthland
La nuova via della droga. La battaglia degli oleodotti
L'importanza di una politica di potenza italiana ed europea.
Prima di ordinare ai propri generali l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein ebbe un lungo colloquio con l’ambasciatrice americana a Bagdad. La guerra con l’Iran era finita da pochi anni e gli irakeni credevano di poter riscuotere i crediti internazionali maturati in precedenza. Gli USA in effetti, preferendo l’ideologia Baath del laico Irak alla dottrina Sharia della teocrazia di Teheran, in pochi anni avevano garantito a Saddam Hussein un potenziamento militare straordinario e l’impunità per l’enorme utilizzo di gas tossici contro gli iraniani. Nel 1991, forte di un appoggio occidentale pluridecennale, il dittatore di Bagdad era convinto di poter occupare il piccolo ed opulento emirato confinante rischiando al massino una condanna formale dell’ONU o, al limite, un conflitto di bassa intensità. L’ambasciatrice USA, avendo ricevuto istruzioni tanto generiche quanto sospette da Washington, sembrò confermare le impressioni di Saddam Hussein. L’invasione del Kuwait, invece, portò l’Irak al massacro. Gli USA, bandendo in fretta la crociata umanitaria, scatenarono l’inferno contro Bagdad. La guerra durò circa un un e mezzo ed il Kuwait venne “liberato” con estrema facilità. Bush senior tuttavia, invece di proseguire il conflitto sino alla capitale irakena, fatto che avrebbe comportato la destituzione di Saddam Hussein, preferì porre fine alle ostilità.
L’obiettivo dichiarato ovvero la realizzazione di un’operazione di polizia internazionale era stato centrato. Ma, soprattutto, venne raggiunto l’obiettivo reale dell’intervento militare americano nel golfo. La guerra aveva permesso a Washington, per la prima volta nella storia, di imporre un controllo militare diretto sui giacimenti petroliferi del golfo persico. Gli americani, escludendo clamorosamente il loro tradizionale partner mediorientale di Tel Aviv, avevano allestito a tale scopo una coalizioneinternazionale forte del sostegno di numerosi paesi arabi più o meno moderati: Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Oman, Qatar etc. Gli USA, in questo modo, poterono stanziare per la prima volta le proprie truppe in Arabia Saudita. Oggi, a più di dieci anni dal conflitto, sono ancora lì. I nuovi equilibri determinatisi a loro favore spiegano perché gli americani abbiano imposto una relativa pacificazione dell’area del golfo, minacciata ‘potenzialmente’ dalla presenza del dittatore di Bagdad ancora solidamente al potere. E proprio la ‘minaccia” permanente irakena a giustificare oggi le basi militari americane in Arabia Saudita. La pacificazione del golfo ha trovato sin dall’inizio due grandi avversari i cui interessi attuali da una parte confliggono e dall’altra convergono. Se il fondamentalismo islamico, infatti, considera la liberazione della Mecca un obiettivo prioritario, il nazionalismo israeliano vede nella “pace” americana in medio oriente un ostacolo oggettivo alla sua politica di espansione nei territori palestinesi.
Il precedente significativo della guerra del golfo consente di evidenziare un aspetto peculiare della guerra moderna, a suo modo un segno eloquente dei tempi, per cui nei conflitti militari l’obiettivo reale non coincide mai con quello ufficialmente dichiarato. Quest’ultimo assume un’importanza del tutto relativa. Le stragi dell’11 settembre hanno motivato la reazione militare anglo-americana contro il regime talebano di Kabul, colpevole di aver protetto Bin Laden e la sua multinazionale del terrore. Se però la guerra del golfo costituì l’effetto evidente della strategia per il medio oriente concepita da Bush senior e dalle lobbies che lo sostenevano, la genesi dell’attuale crisi mondiale appare molto più complessa, chiamando in causa una pluralità di soggetti e di interessi contrapposti, anche all’interno dello stesso mondo occidentale, non facili da decifrare dall’esterno. L’abbattimento di un aereo siberiano da parte della contraerea ucraina e la tragedia del 12 novembre, in tal senso, hanno posto interrogativi inquietanti. Quello che rileva in tale sede, tuttavia, è l’individuazione delle ragioni reali dell’intervento militare anglo-americano nel cuore dell’Asia. Anche in tal caso la coalizione planetaria allestita in grande fretta è nata con l’obiettivo dichiarato di realizzare un’opera di polizia internazionale, consistente in concreto nella “liberazione” dell’Afghanistan e nella cattura del terrorista saudita. Ma l’obiettivo reale è di ben altra natura.
L’Afghanistan, stretto tra l’Asia centrale e le regioni che si affacciano sull’oceano indiano, è situato in una regione di estrema rilevanza geopolitica, soprattutto per gli USA che costituiscono per definizione un impero essenzialmente marittimo. La talassocrazia statunitense si estende da sempre lungo l’Oceano Atlantico trovando nella massa continentale centroasiatica, ad essa tradizionalmente estranea, un naturale bilanciamento del suo potere. Questa regione, denominata Hearthland dal geopolitico inglese sir Halford Mackinder, costituirebbe a livello strategico il “perno” del mondo. Mackinder sosteneva che in linea teorica il controllo dell’Hearthland consente il controllo dell’isola del mondo (l’insieme della massa continentale eurasiatica e dell’Africa) mentre il controllo di quest’ultima permette a sua volta il dominio sul mondo stesso. Se gli americani, già dominatori degli oceani, arrivassero in un futuro non immediato a controllare l’Hearthland, si determinerebbe a loro favore una situazione di egemonia mai raggiunta sin ora. La stampa iraniana vicina all’Ayatollah Khamenei, del resto, ha interpretato le manovre USA nel cuore dell’Asia come l’effetto di una nuova strategia americana finalizzata nel lungo periodo alla definizione di un “mondo unipolare”. Prima dei fatti dell’11 settembre le prospettive geopolitiche degli USA erano assai differenti e l’unipolarismo a stelle e strisce sembrava un’ipotesi impraticabile. La grave crisi economica del gigante economico americano, la graduale crescita dei partners occidentali, l’irrompere anche a livello economico di potenze extraeuropee dotate di risorse nucleari, si erano saldate ad una forte tendenza neoisolazionista affermatasi nello stesso impero americano, lasciando presupporre un futuro scandito da un inedito policentrismo geopolitico.
Questa tendenza neoisolazionista ha trovato però una forte opposizione sia all’interno degli stessi potentati USA sia negli alleati storici degli americani in medio oriente, gli israeliani, in rotta con la famiglia Bush e le sue lobbies di riferimento dai tempi della guerra del golfo. L’abbattimento delle torri gemelle e l’attacco al Pentagono hanno generato una crisi mondiale talmente forte da mischiare completamente tutte le carte in tavola. La linea Huntington, fondata sulla formula del conflitto tra civiltà e rigettata dall’amministrazione Bush, torna prepotentemente di attualità. Una presenza militare nel cuore dell’Asia, sino a ieri, sembrava impensabile. Oggi le divisioni di montagna dell’esercito USA, giustificate dalla necessità di intervenire rapidamente in Afghanistan, sono stanziate presso le basi militari uzbeke, a metà strada tra i giacimenti petroliferi del Caspio e le regioni occidentali della Cina. L'Uzbekistan, governato da un regime autoritario in lotta con il fondamentalismo islamico, è uno dei paesi dell'area centroasiatica più ricco di risorse energetiche al punto di meritare citazioni particolari, certo non casuali, nell'ultima fatica editoriale di George Soros.
Washington ha precisato da subito che si sarebbe trattato di una guerra molto lunga (di cui la liberazione di Kabul ha rappresentato solo la prima fase) lasciando intendere una presenza continuativa del proprio contingente militare nella repubblica postsovietica. Gli americani, in questo modo, hanno aperto la partita per il controllo dell'Hearthland che si giocherà in modo decisivo nei prossimi anni, muovendo innanzitutto dall'attuale e non agevole gestione del governo afgano postalebano del presidente Rabbani. Questo governo, in ogni caso, non potrà prescindere dal sostegno determinante dell'etnia di maggioranza pashtun. L'unica attività commerciale svolta in Afghanistan negli ultimi decenni è stata quella della droga: Kabul è il principale produttore mondiale di oppio. Il 90% dell'eroina presente nel mercato europeo esce da laboratori afgani e pakistani. La lotta internazionale alla produzione e al traffico di droga, negli ultimi anni, ha assunto tratti molto spesso grotteschi tali da suscitare sospetti negli osservatori più maliziosi. Lo United Nations Drug Control Program, diretto da Pino Arlacchi, già nel 1997 iniziò un'opera di pressione verso il regime afgano per indurlo a rinunciare alla produzione di oppio, proponendo in alternativa la conversione dei campi in coltivazioni di mandorle e albicocche. A tale scopo Kabul percepì un finanziamento di 16 milioni di dollari. Gli effetti dell'indulgente politica dell'UNDCP furono disastrosi perché aumentò sino a garantire, nel 1999, un raccolto annuo più che duplicato rispetto al precedente.
Il solo Afghanistan in quell'anno immagazzinava 4691 tonnellate di oppio rispetto alle 6000 complessive mondiali. Lo United Nations Drug Control Program aveva fallito clamorosamente e qualcuno si interrogò sulla singolare fretta di Kabul nell'accumulare quantità di oppio che eccedevano, di gran lunga, la "domanda" del mercato europeo della droga. Nel 2000 la produzione continuava a marciare spedita quando il mullah Omar emise un decreto di divieto assoluto della coltivazione di oppio. Sul finire della primavera del 2001, quasi d'incanto, i satelliti russi ed americani attestavano che le coltivazioni dell'oppio erano state eliminate da tutto il territorio allora controllato dai talebani, pari al 90-95% dell'Afghanistan. Le coltivazioni permanevano solo nelle zone come Badakshan che già prima della guerra erano controllate dall'alleanza del nord. Malgrado i toni trionfalistici assunti da qualche media, tuttavia, il problema droga in Afghanistan non solo permaneva, ma assunse toni ancora più preoccupanti. L'oppio immagazzinato negli ultimi anni, secondo i dati forniti dalla Conferenza Interpool già nel 2000, consente all'Afghanistan di rifornire i tossicodipendenti europei per i prossimi tre anni.
I bombardamenti anglo-americani avrebbero reso impossibile la coltivazione dell'oppio e gli osservatori più smaliziati riflettono sulla sorprendente lungimiranza dimostrata dai talebani nella programmazione della produzione che, tra l'altro, ha comportato un aumento vertiginoso dei prezzi della droga acquistata in territorio afgano. Questo rialzo dei prezzi è pari al mille per cento. Le ultime novità del mercato dell'eroina, inoltre, riguardano anche le rotte del traffico europeo. Un elemento di novità ha messo in crisi la tradizionale rotta balcanica che, muovendo dall'Afghanistan, supera l'Iran, passa la Turchia e attraverso il corridoio kosovaro raggiunge l'Europa. L'Iran infatti, preoccupato dall'aumento straordinario del consumo di oppio nel proprio territorio, ha intrapreso una lotta reale al traffico di eroina arrivando ad intercettare, da solo, circa la metà dell'eroina sequestrata in tutto il mondo. Questo ha indotto i narcotrafficanti ad impegnare una nuova rotta, quella baltica. Essa descrive una traiettoria che partendo dall'Afghanistan taglia le repubbliche postsovietiche, raggiunge Mosca e di lì, muovendo verso il Baltico, scende poi nel resto d'Europa. Nel 2000 l'Interpool annunciava il crescente ruolo acquisito dalla nuova rotta baltica che oggi si dimostra perfettamente alternativa a quella balcanica.
Il prezzo dell'eroina sale vertiginosamente durante il tragitto lungo questi paesi privi, sino a ieri, della presenza militare americana. Essa, al confine afgano costa dai 2 ai 4 mila dollari al chilo, in Kirghizistan 7 mila mentre a Mosca balza a 50 mila. Nel mercato europeo, da ultimo, può arrivare ad un prezzo pari a 100 mila dollari al chilo. Le necessità logistiche della guerra all’Afghanistan hanno consentito alle truppe americane di trovarsi di nuovo in un territorio che va ad intrecciarsi con le rotte dei trafficanti di eroina in viaggio verso l’Europa. Persino quotidiani come il “Corriere della Sera”, al di sopra di ogni sospetto di anti-americanismo preconcetto, hanno raccontato la “singolare” vicenda del Generale Dostum, militare dell’Alleanza del nord notoriamente legato alla CIA. Dostum, ricercato dai taliban, ma inviso anche all’alleato Massud (ucciso proprio pochi giorni prima delle stragi americane), per alcuni anni si nascose tra l’Iran e la Turchia. Dopo la tragedia dell’11 settembre è tornato in Afghanistan, puntando direttamente alla liberazione del suo vecchio “feudo” Mazar-i-Sharif. Raggiunto il suo obiettivo verso la metà dello scorso novembre, il Generale Dostum ha trovato pressoché intatti gli hangar della sua linea aerea privata, utilizzata in passato per esportare l’oppio a Samarcanda. Ad inizio degli anni novanta sia la CIA sia l’ISI, il servizio segreto pakistano, iniziarono a lavorare in Afghanistan nel contesto di un quadro operativo che consentì successivamente l’ascesa al potere dei talebani.
L'obiettivo era quello di porre le condizioni idonee alla realizzazione, in un futuro non immediato, di un oleodotto e di un gasdotto che, muovendo dalle repubbliche centroasiatiche postsovietiche, attraverso l’Afghanistan ed il Pakistan, raggiungessero il mare arabico. L’esecuzione di un questo progetto avrebbe determinato una situazione oggettivamente sfavorevole agli interessi russi ed iraniani. Le grandi compagnie anglo-americane, consapevoli delle enormi risorse di petrolio e di gas naturali offerte dalle regioni che si affacciano sul Caspio, da tempo studiano per questo motivo strategie di intervento nel cuore dell’Asia. Le ricerche americane del resto, effettuate in Alaska e nelle terre del nord, hanno fornito risultati deludenti, accentuando ulteriormente l’importanza strategica dell’area centroasiatica in termini di potenziale energetico. Nel frattempo è entrato in funzione l’oleodotto Tangiz-Novorossijk che, saldando il Kazakistan alle coste russe del Mar Nero, ha innescato un business internazionale di proporzioni gigantesche. Questo oleodotto esalta il ruolo geoeconomico della Russia e potrebbe determinare per l’Europa, da sempre sottoposta al “ricatto” del petrolio, una svolta di portata epocale. Nel maggio scorso l’ENI, giocando d’anticipo, ha acquisito i diritti di sfruttamento dei giacimenti della regione russa di Astrakhan che si affaccia proprio sui pozzi petroliferi di Tangiz.
Un altro progetto di oleodotto, altrettanto rilevante sotto il profilo economico, è quello di Kashagan-Kharg Island. Esso prevede il collegamento del Caspio con le coste iraniane. Il 23 luglio scorso del resto, proprio nel Caspio, Londra e Teheran avevano rischiato un serio incidente diplomatico: la marina militare iraniana respinse verso la costa azera una nave della British Petroleum che stava effettuando prospezioni ritenute sospette. Oggi la crociata “umanitaria” nel cuore dell’Asia consente alle multinazionali anglo-americane di tornare in gioco nella partita del pètrolio e del gas, determinando un nuovo rimescolamento delle carte. I progetti di oleodotti e gasdotti diretti sia verso le coste sia verso l’interno del Pakistan, tornano prepotentemente di attualità. E infatti evidente che chiunque voglia recitare un ruolo di primo piano nella nuova epoca, sorta con la tragedia dell’11 settembre, non può essere estromesso dal “grande gioco” asiatico. Si deve considerare, a tale proposito, che la situazione politica dei paesi adiacenti al Caspio è fortemente instabile. Questo lascia supporre che le grandi potenze mondiali, formalmente concordi nell’azione di liberazione di Kabul, hanno avviato dietro le quinte una contesa a livello d'intelligence che troverà nelle numerose conflittualità etniche presenti nella regione uno dei suoi punti chiave. Gli USA hanno fatto la prima mossa. La presenza militare anglo-americana in Uzbekistan infatti, giustificata dalle necessità logistiche della guerra contro il regime taliban, ha sancito il nuovo orientamento di politica internazionale del regime di Tashkent. Dopo una continua e a volte convulsa oscillazione tra Mosca e Washington., il presidente Karimov ha posto le basi per una relazione stretta e duratura con gli americani.
Il rischio di una reimpostazione complessiva della geopolitica dell’Asia centrale in chiave antirussa ed antieuropea, pertanto, inizia a farsi evidente proprio nel momento in cui sembravano emergere, sulle rive del Mar Nero, le serie premesse di un’evoluzione improvvisa della prospettiva eurasiatica. Un errore commesso da taluni dopo l’11 settembre è stato quello di ritenere il fondamentalismo islamico sprovvisto di un disegno strategico di ampio respiro. Se al-Qa’ida non è il frutto di alcuna fiction televisiva, ipotesi per la verità piuttosto azzardata, allora risulta impossibile equipararla alle organizzazioni estremistiche occidentali. Le potenzialità finanziarie e le modalità operative dimostrate dalla nuova multinazionale del terrore, a prescindere dalle probabili e finanche ovvie connivenze, testimoniano l’esistenza di un progetto complesso che esclude categoricamente ogni forma di improvvisazione. Di là dai numerosi interessi che hanno generato la crisi mondiale dell’11 settembre, è arduo sostenere che il fondamentalismo islamico abbia agito per puro masochismo.
Concepire l’attacco a New York come un’azione fine a sé stessa che, anzi, avrebbe determinato in tempi brevissimi il solo risultato della perdita dell’Afghanistan, appare un paradosso insostenibile. Occorre ricordare che l’escalation del terrorismo islamico contro gli USA ebbe inizio con il primo attentato al Word Trade Center nel 1993 ovvero due anni dopo lo stanziamento militare americano in Arabia Saudita. La “riconquista” di questo paese, all’interno del quale è situata La Mecca, costituisce ovviamente l’obiettivo prioritario del fondamentalismo islamico. Se la stessa Palestina infatti, malgrado la recente crescita di Hamas e della Jihad, assume un’importanza secondaria nell’ambito di un’ipotetica strategia fondamentalista, l’Afghanistan è stata in questi anni, oltreché una redditizia fonte di finanziamento, una mera base logistica e di addestramento dei nuovi miliziani dell’Islam. La rapida caduta di Kabul, dopo l’apocalissi dell’11 settembre, era oggetto di previsioni addirittura scontate. E' probabile, pertanto, che la strategia islamica si snodi sul lungo periodo. La guerra in Afghanistan ha schiuso agli americani la strada del cuore asiatico, ad essi tradizionalmente proibita, garantendo in prospettiva la possibilità di accedere alle enormi risorse petrolifere del Caspio.
Un futuro certo non imminente potrebbe rendere l’Arabia Saudita e forse l’area intera del golfo persico non più indispensabili, in modo assoluto, per gli interessi americani. Se si verificasse tale ipotesi, il governo moderato di Riyad troverebbe serie difficoltà di tenuta, considerato il proliferare sempre più fitto del fondamentalismo nel proprio territorio. È altrettanto evidente che se l’interesse americano dovesse progressivamente spostarsi lungo la direttrice centroasiatica, anche il nazionalismo israeliano alla lunga ne trarrebbe diretto giovamento. In realtà l’orientamento conservato in medio oriente dagli USA, dopo l’11 settembre, non conforta assolutamente questa ipotesi. Le relazioni tra Washington e Tel Aviv hanno raggiunto momenti critici. Ma la progressiva evoluzione della partita che si sta giocando a ridosso del Caspio potrebbe riservare, in un futuro non imminente, novità clamorose anche nel golfo persico. A risultare sprovvista di una strategia geopolitica, piuttosto, è proprio l’Europa che ha gestito in modo inadeguato la crisi dell’11 settembre. La gravità oggettiva delle stragi di New York, d'altronde, non avrebbe permesso comunque una gestione differente della crisi: nessuno avrebbe potuto pretendere l’interdizione della strada verso il cuore dell’Asia agli americani colpiti da un attacco terroristico senza precedenti nella storia. Le grandi potenze mondiali, per questo motivo, hanno preferito intraprendere negoziati bilaterali con gli USA facendo di necessità virtù. La Cina, ad esempio, ha fornito il suo assenso all’intervento americano ottenendo probabilmente maggiore "comprensione” per l'azione repressiva verso la minoranza mussulmana nelle regioni dello Xinijang.
La Russia, come si è visto, nutre interessi diretti nella regione centroasiatica che verranno gestiti secondo un lavoro sottile di intelligence. Ma è logico supporre che un “alleggerimento” sulla Cecenia rappresenti il costo formale che gli americani si sono impegnati a “sopportare” per l’assenso di Mosca alla guerra contro l’Afghanistan. I grandi d’Europa, consapevoli dell’importanza della partita, hanno preferito escludere dal proprio tavolo i partners più deboli. L’Italia, trovatasi ancora una volta avulsa dal “grande gioco”, ha deciso di partecipare attivamente al conflitto asiatico, segnando una piccola significativa svolta rispetto ai primi cinquanta anni del suo dopoguerra. Il senso di questa scelta ha determinato nelle differenti aree di opposizione radicale atteggiamenti di dissenso ampiamente prevedibili. Ma la questione dell’intervento italiano, come dimostrano i paragrafi precedenti, è stata posta secondo termini errati. Gli USA infatti, forti di un consenso mondiale mai raggiunto negli ultimi cinquanta anni, non avevano alcun interesse alla partecipazione italiana alla guerra afgana. Washington, soddisfatta dell’assenso formale di Roma, non aveva ragione di pretendere un’ulteriore manifestazione di sudditanza da una nazione considerata molto poco utile sotto il profilo militare.
Il minor numero di soggetti presenti realmente nel conflitto asiatico avrebbe garantito la massima agilità americana nella partita più importante, quella postúbellica. E significativo che l’accettazione americana della proposta di Berlusconi sia stata formulata sprezzantemente per fax: qualche giornalista dotato di una buona dose di ironia ha proposto il paragone della contrattazione via Internet con un’agenzia di viaggi. In realtà l’intervento militare, consistente essenzialmente nelle attività postbelliche di peacekeeping, serve solo all’Italia. Quando le aree radicali, da tempo oscillanti tra pacifismo ed anti-americanismo verbale, riflettevano sulla linea da assumere la guerra afgana era quasi terminata. Antimoderni per taluni e mercanti della droga per altri, del resto, i taliban non potevano godere delle simpatie riservate ai loro numerosi predecessori dello scorso secolo. Constatata l’impossibilità oggettiva di evitare la presenza americana nel cuore dell’Asia, una partecipazione italiana ed europea al conflitto presentava solo aspetti positivi. La guerra afgana, peraltro, ha assunto tratti di evidente virtualità. Tonnellate di bombe ad alta tecnologia sono state scagliate contro i sassi di Kabul mentre il magazzino della Croce Rossa Internazionale veniva colpito tre volte nell’arco di dieci giorni.
L’intervento militare, deciso in extremis, consente ora all’Italia di partecipare, seppure con un ruolo decisamente modesto, al “grande gioco” iniziato a ridosso del Caspio. Una posizione nettamente defilata, al contrario, avrebbe determinato l’unico effetto di una nuova completa esclusione di Roma dalla grande politica mondiale. Il paragone con la guerra di Crimea avrà infastidito i lettori più esigenti, ma ha la sua efficacia. Il silenzio delle aree radicali, dissimulato da sterili manifestazioni di protesta contro la guerra americana, rivela l’assenza in Italia di un’avanguardia culturale e politica. Quest’ultima, denunciando pubblicamente i termini reali del conflitto in atto, avrebbe potuto esprimere una linea interventista capace di invocare non solo una legittima protezione degli interessi asiatici dell’ENI, ma soprattutto, una politica di potenza italiana ed europea nell’Hearthland, nel quadro di quella concezione eurasiatica che dovrebbe caratterizzarla fisiologicamente. Il fatto avrebbe generato in linea di principio un piccolo, significativo elettroshock delle coscienze che, invece, saranno presto consegnate all’immaginario cinematografico americano del soldato italiano suonatore di mandolino. A rendere impossibile in Italia una linea di avanguardia delle aree radicali contribuiscono essenzialmente due fattori: l’incapacità di un approccio politico ed il timore di essere assimilate alle forze moderate. Una lettura politica della crisi mondiale avrebbe consentito di ragionare non su schemi desueti ed astratti, ma in base all’ovvio criterio dell’interesse nazionale ed europeo. Il timore dell’identificazione con soggetti non graditi, del resto, costituisce una manifestazione di forte immaturità ideologica: la politica è l’arte del possibile e la storia non inventa mai nulla di nuovo. L’interventismo di Corridoni non sarà mai quello di Salandra.
Tratto da orion n° 206
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lundi, 08 juin 2009
Des Européennes sans Europe!
Des européennes sans Europe !
Le Billet de Patrick Parment
C’est Jean-Luc Mélenchon qui a le mieux commenté les résultats de cette élection européenne : les Français ne veulent pas de cette Europe-là. Cette Europe en question, c’est celle, technocratique, de Bruxelles ou de Strasbourg sur laquelle les Européens n’ont aucune prise. C’est une Europe du fric aux mains des lobbies, une Europe qui se gausse des peuples et de la personnalité de chacun d’entre eux. C’est une Europe sans conscience politique, sans vision géopolitique et sous influence. Les députés européens sont des guignols impuissants et les eurodéputés français largement débordés par les Anglais ou les Allemands, qui ont formé depuis longtemps le personnel ad hoc. La France ne s’impose à Bruxelles – et encore, voir la crise du lait – qu’en situation de rupture et quand le pouvoir politique s’en mêle pour régler en général un problème de politique intérieure. De ce point de vue, nous ne sommes pas les seuls à dénoncer cette Europe-là. Ce reproche est d’ailleurs général sur le continent.
Mais à qui la faute, quand le mandat européen sert en politique intérieure à récompenser ou recaser des élus qui n’ont aucune compétence particulière. Le cas de Rachida Dati n’est pas isolé. Et le vote des électeurs ne fait que confirmer l’absence d’intérêt pour ce " bazar ".
On notera en premier lieu le fort taux d’abstention – près de 60%. C’est le premier démenti. Ensuite, le score de l’UMP est médiocre – autour de 28% -, même si elle arrive en tête, dans un paysage politique dévasté par un Sarkozy qui s’ingénue à brouiller les cartes et casser tous les repères.
Les échecs successifs du Parti socialiste l’ont anéanti et il n’arrive pas à cadrer son discours dans ce contexte de crise économique majeure. Etre anti-libéral ne suffit pas. Le PS a du mal à formuler une vision politique globale et cohérente de la société française dont il est déconnecté. Sarkozy est basique et pragmatique et carbure à l’esbroufe. Il occupe tout le champ médiatique sans exprimer pour autant une vision socio-économique cohérente. Pour des raisons qui nous échappent – pas tant que ça quand même –, il a décidé d’aligner sa politique étrangère sur celle des Etats-Unis. Il va avoir des surprises, Obama opérant des revirements, notamment sur le Moyen-Orient, lourds de conséquences.
Et le score des Verts de terre ! 16%, à parité avec le PS. Mais c’est un score qui nie l’Europe à plein nez. Les écolos n’ont aucune substance politique, c’est un vote par défaut quand on ne veut pas se prononcer pour la droite ou la gauche. Le seul dénominateur commun à tous ces gens-là, c’est le casse-croûte. Cohn-Bendit est depuis belle lurette un suppôt du libéralisme ambiant et un parfait opportuniste. Que vient foutre la mère Eva Joly dans ce bazar ? Expliquez-moi ça. Manquent Hulot et Arthus Bertrand pour compléter le tableau, mais eux ont trouvé d’autres filières pour se faire du pognon, nettement plus lucratives. Inutile de dire qu’à l’Europe, tout ce petit monde ne pèse rien. Donc, ce vote n’a, en soi, rien d’européen.
La déculottée que vient de prendre François Bayrou est intéressante, car elle situe bien le personnage sur la scène politique française. Il va falloir qu’il revoie ses théories et son égo surdimensionné vient d’en prendre un coup.
Non, ces élections, d’ailleurs expédiées en deux temps trois mouvements par les partis, n’intéressent personne. Ce qui, en soi, est fort dommage. Car cette Europe est une réalité avec laquelle on doit compter chaque jour. Si nous avions une classe politique responsable, on formerait un personnel en conséquence qui pourrait alors peser sur les décisions de Bruxelles ou de Strasbourg. Je ne dis pas que l’on s’en porterait mieux, je dis simplement qu’on cesserait d’être absent d’un jeu qui se fait souvent sans nous. Ce ne sont pas les gens qui manquent, c’est la volonté politique. Retour à la case départ.
14:32 Publié dans Le Billet de Patrick Parment
15:56 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : élections européennes, europe, parlement européen, élection, démocratie, politique, politique internationale, affaires européennes, france | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Mal di Bruxelles
Mal di Bruxelles
Lo spettro dell’euroscetticismo si aggira per l’Europa. In realtà, è sempre così a ogni turno di elezioni Europee: un po’ perché, di voto in voto, l’assoluta mancanza di poteri del Parlamento Europeo si fa più manifesta, proprio in raffronto al modo in cui da quando c’è l’Euro l’Europa è diventata invece più importante nella vita dell’europeo della strada; un po’, perché proprio perché questa consultazione conta pochissimo può essere un modo eccellente per sfogare la propria voglia di protestare, senza esporre il proprio Paese a troppi rischi. Infatti, è tradizionale il fenomeno di quei partiti anti-Europa che prendono voti solo alle elezioni Europee: dal quel Movimento Popolare anti-Cee che nel 1979 e 1984 fu la lista più votata alle Europee danesi, anche se nel 2004 si era ridotta a un solo eletto; a quel Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (Ukip) che apparso senza risultati nel 1994 ebbe tre eletti nel 1999 e addirittura 12 nel 2004, rivelandosi il terzo partito. Stando ai sondaggi l’Ukip dovrebbe crescere ancora: dal 16,1 al 19%, che potrebbe portarlo addirittura al secondo posto, davanti allo stesso partito di governo laburista. Il dato è tanto più significativo se si pensa che nel contempo è accreditato un 7% al Partito Nazionale Britannico (Bnp): un partito di destra dura, non solo anti-europea, che potrebbe valere un paio di seggi. Nel 2004 aveva ottenuto un 4,9, che per un’incollatura lo aveva lasciato sotto la soglia si sbarramento.
L’Olanda di Wilders
Il risultato più clamoroso dovrebbe però essere quello dei Paesi Bassi, dove arriverebbe addirittura primo col 30% il Partito per la Libertà (Pvv) di Geert Wilders. Già deputato per partito liberale di destra Vvd (in Olanda c’è pure quello liberale di sinistra dei Democratici 66), Wilders se n’è andato sbattendo la porta, ed ha creato un nuovo movimento che fa la media tra il tradizionale liberismo del Vvd; la linea anti-immigrazione selvaggia di Pim Fortuyn, i resti del cui movimento è assorbito; una nuova sensibilità di allarme verso l’Islam, iniziata in particolare con l’omicidio di Theo Van Gogh; e in più anche una nuova sensibilità euroscettica, emersa in particolare con referendum che nel 2005 bocciò il Trattato costituzionale.
No all’ingresso della Turchia, esclusione degli appena ammessi Romania e Bulgaria, riduzione dell’esecutivo al solo Commissario per gli Affari Economici e abolizione del Parlamento Europeo sono gli slogan del Pvv. Curiosamente Wilders appare prendere voti anche alla sinistra anti-europea del Partito Socialista (da non confondere con quello Laburista, al governo): terzo partito alle ultime politiche col 17,3% dei voti, potrebbe perderne la metà.
L’Irlanda di Libertas
Un altro referendum sui cui il tratto di Lisbona è inciampato è stato quello irlandese. Declan Ganley, il miliardario che guidò la campagna per il no, da quell’esperienza ha sviluppato un partito anti-europeo che paradossalmente non solo si presenta solo alle Europee, ma è pure organizzato come partito paneuropeo: una struttura con cui Ganley dice di voler raggiungere i 100 seggi che gli permetterebbero di raggiungere i liberali come terzo gruppo al Parlamento Europeo. Presumibilmente, è un obiettivo irraggiungibile. Libertas è però accreditata dai sondaggi del 12% in Irlanda, del 9% in Polonia, del 6% in Germania e del 5% nella Repubblica Ceca. Nell’Europa dell’Est il movimento di Ganley finisce però in qualche modo per danneggiare le intenzioni di voto per gli euroscettici locali. Nel 2004, ad esempio, la Lega delle Famiglie Polacche ebbe il 15,2% dei voti, mentre il gruppo Legge e Giustizia dei gemelli Kaczynski arrivò al 12,7. Alle politiche del 2005 i gemelli erano arrivati al 27, riducendo la Lega all’8. E nel 2007 erano saliti al 32,11, ulteriormente asciugando la Lega all’1,3. Adesso i sondaggi li danno tra il 17 e il 25. A parte Libertas, una parte del voto da loro perso dovrebbe andare al partito di protesta contadina Autodifesa della Repubblica di Polonia, che dall’1,53% delle politiche arriverebbe all’11. Come i socialisti olandesi, quello è però un partito che utilizza tematiche di estrema destra all’interno di un discorso soprattutto di estrema sinistra. Nella Repubblica Ceca soffre della concorrenza di Libertas il Partito Democratico Ceco del presidente Václav Klaus: una formazione piuttosto assimilabile ai conservatori britannici, ma un bel po’ più euroscettici. Dal 30% delle scorse Europee, adesso starebbe al 20.
I Veri Finlandesi
Un dato clamoroso è quello del Partito Pirata, che in Svezia arriverebbe terzo col 7,9% dei voti, dallo 0,6% delle politiche. Ma la sua è una battaglia molto settoriale: libertà di scaricare da Internet e privacy assoluta per gli internauti sono i due punti che in pratica esauriscono tutto il suo programma. Sempre in Scandinavia, prenderebbe più del doppio rispetto al 2004 il Partito del Popolo, formazione più o meno assimilabile a quella di Haider in Austria, meno i sospetti di neo-nazismo: dal 6,8 al 15%. Meno impressionante è però la progressione rispetto alle politiche del 2007, dove stava già al 13,8. Col 5% delle intenzioni di voto, anche nella delegazione finlandese dovrebbe fare la sua comparsa una lista di protesta di destra: i Perussuomalaiset, “Veri Finlandesi”, eredi di una Lega Rurale che peraltro in passato partecipò pure al governo. Anche qui il dato è però in linea tra il 4,1 alle politiche del 2007 e il 5,4% alle amministrative del 2008.
Appare un po’ in ribasso il partito nazionalista fiammingo Vlaams Belang in Belgio: dal 14 al 12%. E anche il Fronte Nazionale in Francia: dal 9,81 al 7. Nel primo caso, per il modo in cui i democristiani fiamminghi hanno fatto proprie le istanze locali in modo sempre più aggressivo. Nel secondo caso, per la presenza di forti liste di protesta anti-Sarkozy e anti-socialisti sia a sinistra, col Nuovo Partito Anticapitalista del postino Olivier Besancenot al 6%; sia al centro, col MoDem di François Bayrou al 14%. In fortissima ripresa invece rispetto al 2004 la destra austriaca: con l’Fpö di Heinz-Christian Strache che dal 6,31% arriva al 15 e la Bzö degli eredi di Haider al 5. È invece giù rispetto alle ultime politiche, dove l’Fpö aveva passato il 17 e la Bzö il 10. Ma in Austria alle Europee c’è la lista di protesta dell’ex-socialdemocratico Hans-Peter Martin, che nel 2004 prese il 14% ed ora dovrebbe bissarlo.
Lo Jobbik ungherese
In lieve ascesa la destra nazionalista del Partito Nazionale Sloveno: dal 5% del 2004 al 6, comunque insufficiente ad avere un eletto. Col 10% dovrebbe invece entrare al Parlamento Europeo il Partito Nazionale Slovacco, anche se sta un po’ sotto rispetto al dato delle politiche. E sul 10% sono anche altre tre formazioni di destra dura: il Movimento per una Migliore Ungheria (Jobbik), che alle politiche del 2006 aveva avuto appena lo 0,01%; la bulgara Unione Nazionale Attacco (Ataka), che già aveva un eurodeputato e che alle politiche stava sull’8%; e il Partito della Grande Romania, che dopo i 5 eletti delle scorse europee alle politiche era rimasto fuori dal Parlamento, ma che ora dovrebbe riportare due eletti. Tra di loro, forse, il miliardario e presidente dello Steaua Gigi Becali: in passato nemico del leader del partito Corneliu Vadim Tudor, ma che ora lo stesso Tudor ha candidato per liberarlo dal carcere dove è rinchiuso dopo un raid di sue guardie del corpo contro ladri di auto.
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Il trionfo di Wilders
A meno di un’inversione di rotta, come quella impressa dagli elettori olandesi, che hanno incoronato il Pvv primo partito proprio a Rotterdam, governata da un sindaco marocchino. Soltanto nell’Amsterdam delle luci rosse la sinistra mantiene consensi.
«È un deputato coraggioso e un punto di riferimento che non ha temuto di sfidare le minacce degli islamisti che attaccano chi documenta il carattere macellaio di questo fondamentalismo islamico», dichiara il leghista Mario Borghezio, unico politico italiano che ha osato incontrarlo a Roma, il 19 febbraio scorso, in occasione del conferimento a Wilders del premio Oriana Fallaci. «Se gli olandesi lo hanno apprezzato, io stesso ho avuto modo di trovare un’intesa con lui. E ora spero di averlo nel mio gruppo», annuncia Borghezio prospettando un successo anche per la Lega Nord sulla scia del successo del Pvv: «Sono convinto che noi otterremo almeno il doppio rispetto alle ultime elezioni, conquistando un deputato anche nell’Italia centrale». Il vento di destra non è soltanto una reazione ai governi socialisti, allora? «No, è una reazione sana all’invasione islamica».
Comunque gli anniversari non perdonano. Esattamente vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, mentre nella capitale tedesca si decide finalmente di abbattere il monumento a Karl Marx e Friedrich Engels, si incrina anche il predominio del multiculturalismo e del politicamente corretto.
Sarà per questo che la Commissione europea è atterrita dal risultato elettorale nel Paese che aveva fatto della tolleranza e dell’integrazione una bandiera. Vorrebbero che si sapesse più tardi possibile. Bruxelles si sentono già accerchiati e tentano un ultima sortita con un attacco all’Aia, che già dalla serata di giovedì aveva diffuso il verdetto delle urne, nonostante l’embargo comunitario che impone di attendere la fine delle elezioni in tutta l’Ue prima di procedere alla pubblicazione dei risultati. Lo scopo è di evitare che il voto in alcuni Paesi possa influenzare chi vota dopo.
Ma ormai era fatta. Gli exit poll privati circolavano già appena dopo la chiusura delle urne. Inutile tentare di mantenere il segreto, che tanto non era più tale. Le autorità olandesi assicurano che daranno a Bruxelles tutte le spiegazioni richieste sulla diffusione dei risultati elettorali delle europee, privilegiando comunque il diritto degli elettori di conoscere rapidamente i risultati.
Gli euroburocrati sono incerti sul da farsi. Rischiano di lanciare un messaggio controproducente. Se l’opinione pubblica interpretasse il richiamo come una punizione inflitta all’Olanda per aver votato a destra, più che per aver violato le normative comunitarie, la perdita di consensi verso Eurolandia potrebbe ampliarsi ancora.
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Bruselas ocupa un lugar central en el espionaje
Bruselas ocupa un lugar central en el espionaje
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Bruselas es un nido de espías. El fin de la guerra fría no solo no ha reducido la actividad de los servicios secretos extranjeros en la capital belga, sino que ha multiplicado sus acciones y sus objetivos. Y es tan intensa que la Comisión Europea difundió hace poco una nota interna entre sus directivos para que tomaran medidas ante los intentos repetidos y crecientes de “obtener documentación confidencial y delicada” de la actividad del Ejecutivo comunitario.
La nota indicaba que “algunos países, grupos de presión, periodistas y agencias privadas intentan obtener informaciones protegidas”. Y precisaba que “personas vinculadas a servicios secretos” actúan bajo la cobertura de “becarios, periodistas, funcionarios de los estados de la Unión Europea (UE) agregados a la Comisión Europea y técnicos informáticos”.
“Bruselas es, junto a Washington y Ginebra, una de las tres ciudades clave para los servicios de espionaje de todo el mundo”, explica Kristof Clerix, autor del libro Los servicios secretos extranjeros en Bélgica. “Los métodos siguen siendo los mismos de la guerra fría: ganar la confianza y después explotar esa confianza. Lo que ha cambiado es el uso de las nuevas tecnologías y la importancia cada vez mayor de las cuestiones económicas”, precisa Clerix, periodista de la revista belga de política internacional MO. “Los grandes países no dudan en utilizar sus servicios secretos para promocionar y defender sus intereses económicos e industriales en un mundo globalizado”, añade.
“Aún más interesante”
“En asuntos políticos y militares, Bruselas es aún más interesante para los espías que en la época de la guerra fría”, destaca Clerix. La OTAN ya no se limita a la defensa de los aliados, sino que ha emprendido operaciones militares en Bosnia, Kosovo y Afganistán y ha extendido su influencia a las antiguas repúblicas soviéticas de Asia central. La UE tiene competencias en política exterior y defensa y también desarrolla operaciones militares y políticas de envergadura (Bosnia, Kosovo, Macedonia, Congo, Somalia).
Además de estas cuestiones políticas y militares clásicas, hay otros tres factores que refuerzan el interés de Bruselas para los servicios de espionaje extranjeros: la presencia en Bélgica de centros tecnológicos de uso espacial y militar, el papel del país como retaguardia del terrorismo internacional y las nutridas comunidades inmigrantes turcas, marroquís y de África central, muy activas políticamente y que son vigiladas de cerca por los gobiernos de sus países de origen.
Retaguardia del terrorismo
“En los últimos 20 años Bélgica ha desempeñado un papel importante en el terrorismo internacional. Es un país pequeño, del que es fácil huir, con una importante comunidad inmigrante musulmana”, señala Clerix. “El primer manual de yihad en la UE fue publicado en Bélgica, los asesinos del líder rebelde afgano Ahmad Sha Masud tenían pasaporte belga y quienes realizaron los atentados de Madrid tuvieron vínculos con Bélgica”, detalla Clerix.
China es uno de los nuevos actores más activos en el tablero del espionaje en Bélgica, con un interés muy marcado en la obtención de informaciones científicas y tecnológicas, pero vigilando también la cuestión tibetana, los opositores políticos y el movimiento religioso Falun Gong. Asimismo, China es especialista en utilizar a sus estudiantes para obtener informaciones, asegura Clerix.
Al margen del espionaje estadounidense a las transacciones bancarias mundiales a través de la empresa Swift –que continúa pese al escándalo que levantó–, el caso reciente más grave de espionaje se produjo en el Consejo de Ministros de la UE de forma continuada durante ocho años, hasta su detección en 2003.
Un conjunto de cinco cajas instaladas durante la construcción del edificio permitía interceptar las conversaciones telefónicas de las delegaciones de España, Francia, Alemania, Italia, el Reino Unido y Austria. Fuentes diplomáticas responsabilizaron a Israel, pero nadie se atrevió a formular una acusación oficial y los investigadores belgas recibieron instrucciones de no profundizar demasiado, según fuentes próximas al caso.
El sector privado también es víctima reiterada de los espías. En los últimos años, por ejemplo, nueve empresas del parque tecnológico de Lieja han sido víctimas del robo de discos duros y ordenadores con datos técnicos clave, mientras que los ladrones desestimaron la sustracción de material muchísimo más valioso.
Eliseo Oliveras
Extraído de Xornal.
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Un article 216 bien significatif
Un article 216 bien significatif
Le grand écrivain turc Gürsel (1) publiait ainsi, dans Le Monde du 24 mai une fort révélatrice tribune à propos de la candidature de son pays à l'Union européenne. Reconnaissons une fois de plus que nous nous trouvons en présence d'arguments forts, parfois même émouvants.
Schématiquement, et sur presque tous les points qu'il choisit d'évoquer, en laissant de côté très soigneusement les autres, on ne peut sans doute que donner raison à son argumentation.
Et même, fort habilement au bout du compte, demeure-t-il en deçà de ce qu'il pourrait développer. En bon connaisseur des dialogues socratiques, il laisse ainsi au lecteur le soin de compléter sa propre démarche rhétorique.
Il répond, par exemple, avec intelligence à un argument que lui avait servi Jean-Claude Casanova : celui-ci avait mentionné la mémoire de Lépante, certainement différente en Europe et sur les rives du Bosphore. À cette question Nedim Gürsel oppose une autre question : celle des relations franco-allemandes et de la mémoire de la bataille de Verdun.
Je crois au fond un peu vaines de telles mobilisations virtuelles autour des grandes batailles de l'histoire. Dans le cas précis, la trace de Lépante n'existe généralement pas dans la conscience nationale des Français. À l'époque de cette petite et courte croisade, en 1571, seule une poignée de puissances catholiques se mobilisèrent à l'appel du Pape. L'expédition, jugée victorieuse, demeura sans lendemain et sans incidence sur le sort des chrétiens. Le souvenir de don Juan d'Autriche n'a pas dû beaucoup ressembler à celui de Cervantès. Le royaume des Lys, quant à lui, avait hérité d'une alliance nouée par François Ier, elle-même consécutive au désastre de Pavie. Il aurait plutôt penché en faveurs des Ottomans. Mais il se préoccupait surtout de sa propre guerre civile déchirant catholiques et protestants.
On pourrait, ainsi, reprendre à l'infini une broderie sur chacun des thèmes évoqués par Nedim Gürsel.
Son cheminement logique butte cependant sur sa propre conclusion
Voici en effet ce que M. Gürsel ajoute, comme un cheveu sur la soupe, à la fin de son joli texte :
"Un procès est actuellement en cours à propos de mon dernier roman, Les Filles d'Allah, paru, en Turquie, en mars 2008. Je suis jugé pour avoir "dénigré les valeurs religieuses" selon l'article 216 du code pénal turc, qui prévoit une peine allant de six mois à un an de prison. Il s'agit d'un délit d'opinion, d'une atteinte grave à la liberté d'expression et de création, surtout dans une république qui se dit laïque. Peu importe, j'ai désormais confiance en la justice de mon pays et j'espère que le jour où il intégrera l'Union européenne, il n'y aura plus de procès de ce genre."
En toute franchise d'ailleurs nous ne pouvons guère nous bercer de l'hypothèse de la fin, pourtant désirable, de tels procès. Nous en observons plutôt le début et l'arrivée au pouvoir en 2002, confirmée et même amplifiée en 2007, de la vague islamique semble en constituer l'annonce. Ah certes, formellement, le gouvernement de l'AKP a su normaliser certaines libertés publiques, rognant les prérogatives de l'Armée dans ce pays qui se sent assiégé.
Mais les procédures judiciaires ne constituent que le reflet de la conception que se fait une société de l'ordre public et des bonnes mœurs. Un pays se voulant européen et se proclamant "laïc" devrait abroger d'abord l'article 216 du code pénal turc qui interdit et sanctionne de peines de prison le "dénigrement les valeurs religieuses".
M. Nedim Gürsel se sait lui-même le bienvenu à Paris, dans un pays qu'il considère comme sa seconde patrie, où il travaille et où on publie de beaux livres de lui. Il me fera la grâce de m'épargner la description des divergences qui nous opposent, oui nous tous Européens de toutes confessions, croyances ou incroyances, aux "valeurs religieuses", celles de la loi islamique concrète, que ce code pénal prétend protéger.
Et c'est pour cette raison, et pour quelques autres, que l'idée de faire de la Turquie, en tant qu'État, un Membre de l'Union européenne me paraît largement incongrue.
Apostilles
- Nedim Gürsel est aussi, en France, directeur de recherche au CNRS. Auteur de nombreux romans, il a publier "La Turquie : une idée neuve en Europe" ("Empreinte du temps présent" éditeur)
JG Malliarakis
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Ernst Jünger - Un autre destin européen
Un nouveau livre de Dominique Venner : Ernst Jünger. Un autre destin Européen
En librairie depuis le 15 mai 2009. Il s’agit de la première biographie consacrée en France à Ernst Jünger, grande et énigmatique figure du XXe siècle. Le 9 janvier 1995, à la veille de son centenaire, il adressait ce message de connivence à Dominique Venner : « Nous autres, camarades, nous pouvons montrer nos blessures ! »
Le livre :
Très jeune héros de la Grande Guerre, nationaliste opposé à Hitler, ami de la France, Ernst Jünger (1895-1997) fut le plus grand écrivain allemand de son temps. Mais ce n’est pas rendre service à l’auteur d’Orages d’acier que de le ranger dans la catégorie des bien pensants. Il n’a cessé au contraire de distiller un alcool beaucoup trop fort pour les gosiers fragiles. C’est ce Jünger, dangereux pour le confort, que restitue Dominique Venner. Il y replace l’itinéraire de l’écrivain dans sa vérité au cœur des époques successives qu’il a traversées. Belliciste dans sa jeunesse, admirateur d’Hitler à ses début, puis opposant irréductible, subsiste en lui le jeune officier héroïque des troupes d’assaut qui chanta « la guerre notre mère », et l’intellectuel phare de la “Révolution conservatrice”. Mais il fut aussi le guerrier apaisé qui tirait gloire d’avoir donné son nom à un papillon.
Dans cette biographie critique, Dominique Venner montre qu’aux pires moments du siècle, Jünger s’est toujours distingué par sa noblesse. En cela il incarne un modèle. Dans ses écrits, il a tracé les lignes d’un autre destin européen enraciné dans les origines et affranchi de ce qui l’opprime et le nie.
Dominique Venner, Ernst Jünger. Un autre destin Européen. Editions du Rocher, 240 p..
Source : le site Internet Dominique Venner.
Disponible en particulier sur Libre-Diffusion.com.
Article printed from :: Novopress Québec: http://qc.novopress.info
URL to article: http://qc.novopress.info/?p=5120
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dimanche, 07 juin 2009
El gobierno kosovar y el crimen organizado
El gobierno kosovar y el crimen organizado
Ex: http://labanderanegra.wordpress.com/
Para suscitar desórdenes y el uso desproporcionado de la fuerza por parte de Belgrado en Kósovo, la OTAN reclutó a delincuentes locales que formaron el «Ejército de Liberación de Kósovo» (UÇK). Estos individuos nunca abandonaron su actividad criminal. En lo consecutivo, la OTAN se avendrá, de tal manera, a esta organización mafiosa que dejará manifiesto su imposibilidad de reclutar gente honesta para servir a los intereses extranjeros. El ascenso unilateral del Kósovo ocupado al rango de Estado independiente, en 2008, ha conferido la impunidad a un gobierno dirigido por una organización criminal muy bien conocida por los servicios de policías occidentales, tal como lo demuestra un artículo de Weltwoche, publicado en 2005 y que reproducimos en nuestras columnas.
Tres de los políticos más importantes de Kosovo están profundamente involucrados en el crimen organizado, en particular, del tráfico de droga. Esto es, precisamente, lo que demuestran los documentos secretos de los Servicios de Inteligencia alemanes, de la ONU y de la Kfor (Kosovo Force), una fuerza internacional de estabilización. Estos documentos inculpan a Ramush Haradinaj, quien ocupó el cargo de Primer Ministro hasta marzo de 2005; a Hashim Thaçi, Primer Ministro desde enero de 2008 hasta la fecha y líder del Partido Democrático de Kosovo y a Xhavit Haliti, miembro de la presidencia del Parlamento. Cada uno de ellos hizo carrera en el Ejército de Liberación de Kosovo, vivieron varios años en Suiza y, hasta hoy, mantienen relaciones de negocio y personales en ese mismo país.
En el análisis de las 67 páginas del informe de los Servicios de Inteligencia alemanes del 22 de febrero de 2005, se puede leer, por ejemplo: « Gracias a actores claves (como Haliti, Thaçi y Haradinaj) existe una relación estrecha entre la política, la economía y estructuras criminales que operan a nivel internacional. Las redes criminales que la sostienen propician la inestabilidad política, porque no tienen, evidentemente, interés en que se instaure un orden estatal eficaz que podría perjudicar sus prósperos negocios. Fácil de entender por qué los principales actores del crimen organizado aspiran apuestos de primera importancia dentro del gobierno o dentro de partidos y/o mantienen muy buenas relaciones con esas esferas ». El crimen organizado se transforma, de este modo, en « un medio político propicio ». Este es el análisis que los Servicios de Inteligencia consideran « información clasificada ».
Uno de estos personajes claves, Hashim Thaçi, apodado « la Serpiente » es el presidente del Partido Democrático de Kosovo y muy conocido en Suiza. Según los Servicios de Inteligencia alemanes, Thaçi controla parte importante de las actividades criminales de Kosovo. «Se presume que Thaçi, junto a Haliti, es uno de los financiadores del asesino profesional Afrimi», presunto responsable de, al menos, once asesinatos por encargo.
Thaçi, de 36 años, vivió desde 1995 varios años en Suiza en calidad de refugiado. Gracias a una beca, hizo estudios en la Universidad de Zúrich de historia de los países del Este. En 1992 fue uno de los fundadores del UÇK y, más tarde, se convirtió en su líder. En 1999, se hizo súbitamente conocido por su participación, en calidad de jefe de la delegación de la tienda albano-kosovar en las negociaciones de paz albano-serbias de Rambouillet. Allí se dio a conocer por la comunidad internacional como hombre político.
En esta misma época, de acuerdo a los Servicios de Inteligencia alemanes, Thaçi controlaba un «servicio de seguridad», «una red criminal que operaba en todo Kósovo». « Es probable que en 2001 mantuviera contacto con la mafia checa y la albanesa. En octubre de 2003 habría estado ligado estrechamente, en el marco del tráfico de armas y droga, a un clan al que se le acusa de lavado de dinero y chantaje.
El clan de los albaneses de Kosovo
El segundo personaje clave, Ramush Hardinaj de 37 años, es, sin duda, uno de los políticos más controvertidos de Kósovo. En el informe de los Servicios de Inteligencia alemanes se le hace mención de la siguiente forma: « La estructura que rodea a Haradinaj es, fundamentalmente, un clan familiar de la ciudad de Decani que se dedica a todo tipo de actividades criminales, políticas y militares, que influyen, considerablemente, en las condiciones de seguridad de todo Kósovo. El grupo comprende alrededor de 100 miembros implicados en el tráfico de droga, armas y mercancía sometida al régimen aduanero. Además, Haradinaj controla gobiernos comunales».
En un informe secreto del 10 de mayo de 2004, la Kfor designa a este grupo como «la más poderosa organización criminal» de la región y agrega que Haradinaj a puesto su mano, también, en la distribución de la ayuda humanitaria y la ha utilizado como instrumento de poder.
Gracias a la colaboración activa de la comunidad internacional y, particularmente a la de Estados Unidos, Haradinaj ha podido abrirse camino. Llega a Suiza en 1989, hablando inglés y francés de corrido, en calidad de trabajador inmigrante. Se desempeñó como guardia en una discoteca de la estación de ski de Leysin. En febrero de 1998 vuelve a Kósovo y organiza operaciones militares del UÇK. Después de la guerra, se hará conocido por estar involucrado en enfrentamientos armados con otros clanes, hechos que inmediatamente fueron interpretados por la ONU como « actos de venganza y ajuste de cuentas ». Efectivamente, se trató de un caso de lucha de poder entre familias mafiosas, como lo muestra el ejemplo siguiente.
La Central Intelligence Unit ( CIU ), el servicio de inteligencia de la ONU describe, en su informe del 29 de diciembre de 2003, un caso en el que ven implicados diplomáticos: El 7 de julio del año 2000 Haradinaj ataca la casa de un clan de un clan rival que le hacía competencia en el tráfico de drogas. Según la CIU, Hadinaj pretendía robar 60 kilos de cocaína que esta familia escondía. Resultó herido en intercambio de balas y debió escapar.
Antes de que Haradinaj pudiera ser interrogado por los policías de Naciones Unidas, fue puesto en un helicóptero militar italiano y llevado a una base de la armada estadounidense, en una operación rápidamente organizada por dos presumibles agentes de la CIA. La policía de Naciones Unidas recibió, desde su cuartel general en Pristina, la orden de « renunciar a todas las medidas en su contra».
La razón por la que la policía se abstuvo de realizar lo pertinente al caso es que se temió que su arresto, que pudo convertirse en la imputación de un « héroe de combate por la liberación », caldeara los ánimos en una situación que ya era tensa. Después de este incidente, Haradinaj fue puesto a salvo en Estados Unidos. « Durante su estadía recibió entrenamiento y Estados Unidos le prometió ayudarlo en su carrera política, si Kosovo lograba independizarse, él sería su candidato favorito ».
De regreso en Kosovo, el protegido de USA funda un nuevo partido, la « Alianza por el futuro de Kosovo » y en diciembre de 2004 se convierte en Primer Ministro conforme al deseo de Estados Unidos. Sin embargo, no durará más de tres meses en el cargo. En marzo de 2005 renuncia y se presenta ante el Tribunal Penal Internacional de la Haya. Se le acusa por haber cometido, de manera sistemática, crímenes de limpieza étnica acompañados de torturas y violaciones en contra de serbios y gitanos. A pesar de ello, bajo la fuerte presión de Estados Unidos y contra la voluntad de la fiscal en jefe a cargo del caso, Carla del Ponte, fue liberado de la prisión preventiva y pudo dedicarse de momento a la actividad política. Su procesamiento comenzará en la Haya, probablemente, en 2007. Ninguna denuncia ha sido presentada, hasta el momento, por crimen organizado. ( Terminó siendo absuelto el 3 de abril de 2008).
El atentado de Zúrich
Xhavit Haliti, apodado «Bunny», también es uno de los personajes que juegan un rol importante en Kósovo. Según la Kfor, este miembro de la presidencia del Parlamento y vicepresidente del Partido Democrático de Kósovo « es un criminal conocido, implicado en tráfico de drogas y armas». El informe de los Servicios de Inteligencia alemanes afirma que «Haliti está involucrado tanto en el lavado de dinero, el tráfico de droga, armas y de humanos, como en asuntos de prostitución, además de pertenecer al principal círculo de la mafia. Como personaje clave en el crimen organizado, manipula, siempre, grandes sumas de dinero».
Al igual que Haradinaj y Thaçi, Haliti comenzó su carrera en Suiza. Estudió psicología en ese país, a fines de los años ochentas. En 1990 fue víctima de un atentado con motivaciones políticas. Un año más tarde, era parte de la presidencia del Movimiento Popular de Kósovo y organizaba el UÇK desde Suiza. Se cree que antes y durante la guerra abasteció de armamento a el UÇK y controló el Homeland Calling Fund. Inmigrantes albano- kosovares de Suiza y Alemania donaron, más o menos voluntariamente, 400 millones de dólares a este fondo.
La Kfor escribió: « Una vez que las donaciones disminuyeron después de la guerra, Haliti se arroja a la actividad criminal organizada a gran escala ». Según la misma fuente, Haliti no representa un caso único; « lo sorprendente es que casi todos los cabecillas del crimen organizado son comandantes o jefes de unidades especiales de la UÇK ». Respecto a Haliti, tampoco se cuenta, aún, con nada que justifique una querella penal.
Estos tres ejemplos demuestran, una vez más, que Suiza fue un centro de actividad del UÇK. Es allí donde, antes del conflicto, se recolectaron millones destinados a la compra de armas y a la propaganda y, también, donde se reclutó a los combatientes para la « lucha por la libertad de los albaneses oprimidos de Kósovo ». En el verano de 2001, el Consejo Federal decidió que los representantes de las organizaciones albano-kosovares debían descontinuar su actividad política y la recaudación de fondos. Respecto a Haliti, el Consejo Federal emitió la prohibición de su entrada en territorio suizo.
Opio para Europa
Los informes secretos de los Servicios de Inteligencia alemanes hacen suponer que, a pesar de la administración de la ONU y la Kfor, Kósovo es uno de los principales centros de convergencia del crimen en Europa. Una de las razones es que el tráfico de drogas es altamente lucrativo. Gran parte del opio que se cosecha, de manera creciente, en Afganistán llega al mercado europeo convertido en heroína desde Albania y Kósovo. Según Klaus Schmidt, jefe de la Misión de Asistencia de la Comunidad Europea (PAMECA), cada día 500 a 700 kilos de opio llegan a Albania y Kósovo para ser transformados en sus laboratorios. Diariamente, un millón de euros de dinero de la droga se intercambian en el mercado gris de la capital albanesa de Tirana. Los especialistas afirman que se trata de cártel de droga más importante formado en curso de los últimos años.
De acuerdo al informe de los Servicios de Inteligencia alemanes, incluso los desórdenes de 2004, que llevaron a Kósovo al borde de una nueva guerra civil, fueron fomentados por criminales quisieron continuar dedicándose al tráfico con toda tranquilidad. « A principios de abril de 2004 sabíamos, gracias a medios encargados de la seguridad en los Balcanes, que los disturbios de Kósovo habían sido planeados y ejecutados a petición del crimen organizado. Durante los disturbios, camiones repletos de heroína y cocaína pasaron las fronteras sin ningún control, porque la policía de la ONU y los soldados de la Kfor estaban totalmente ocupados en el control de los disturbios ». Este hecho lo confirmaron policías de la ONU en Pristina, quienes prefirieron guardar sus identidades por seguridad. La policía de la ONU se queja de que no se ha hecho nada, hasta el momento, en contra de los criminales.
La ONU y la Kfor no han resuelto el problema, ni siquiera una parte de él. La policía de la ONU carece, particularmente, de medios. « Vamos a la batalla con espadas de madera », se lamenta un policía de alto rango de la ONU. Pero, sobre todo, carece de apoyo político para actuar, de manera eficaz, contra los clanes mafiosos. Según los Servicios de Inteligencia alemanes « ni los gobiernos regionales ni el Ejecutivo están interesados en la lucha contra el crimen organizado, porque están vinculados a él ». Un jefe de policía de la ONU, encargado de la lucha contra el crimen organizado, declaró a Weltwoche que « personeros de renombre, incluyendo el ex Primer Ministro, fueron propulsores de los disturbios de marzo, que fueron organizados por una estructura criminal conocida. Numerosos servicios lo saben, sin embargo, nada se hace en contra de esta estructura ». Ésta es su explicación: « Evitan que se desaten nuevos desórdenes, que se producirían sin duda, en el caso de que se iniciara una investigación criminal en contra de Ramush Haradinaj ».
Una de las consecuencias que trae dejar las cosas tal como están es que en Europa, especialmente en Suiza, alemania e Italia, los clanes albano-kosovares constituyen un poder criminal dominante. Los Servicios de Inteligencia alemanes consideran que aquello representa «un gran peligro para Europa ». Muchas comisarías de policía de la ONU se restituyen a los servicios de la policía kosovar. El problema es que los antiguos encargados permanecen en sus puestos y son los mismo que están bajo sospecha por mantener lazos estrechos, a menudo familiares, con jefes conocidos de la mafia.
Los documentos citados descansan en el resguardo de los cajones de los tribunales.
Jürgen Roth
Traducido por Carla Francisca Carmona, extraído de Red Voltaire.
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Paul Morand et Bucarest
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991
Paul Morand et Bucarest
Les éditions Plon viennent de rééditer la promenade littéraire de Paul Morand sur Bucarest. Notre collaborateur Hugues Rondeau, a glissé l'ouvrage dans ses poches et est parti à travers les rues de la capitale roumaine sur les traces de l'ambassadeur écrivain.
En arrivant dans la gare de Bucarest, le voyageur ne peut s'empêcher de se répéter cette entrée en matière des discours des ministres de la IIIe République que plaisante Morand : « la Roumanie, notre sœur latine ». Tout est latin en effet en cette ville où les cris résonnent de pavillons en immeubles, de boutiques en échoppes, au milieu des odeurs qu'exalte la chaleur dans les soupirs d'hommes paresseusement attablés. Vingt ans de national-communisme à la Ceaucescu, près d'un demi-siècle d'amitié tendue avec l'Union soviétique, n'ont pas entamé le caractère des Roumains. Là comme ailleurs les structures lourdes de l'histoire ont eu raison des vissicitudes du moment.
Paul Morand écrit que « Bucarest s'affermit au centre de l'amphithéâtre valaque protégé par le grand arc carpatique, courbé comme le dos d'un portefaix turc, et appuyé à sa base sur le fleuve nourricier par où était descendu un jour l'empereur Trajan, père des Roumains ». Pas une ligne n'est à changer dans cette description et s'il était quelque homme pressé qui mette en doute l'empreinte des Césars en Roumanie, il lui suffit pour se détromper d'observer les visages des habitants de Bucarest, autant de preuves que plus d'un légionnaire romain fut oublié au cœur de la Roumanie ou s'est oublié au cœur des Roumaines.
Bucarest, terre latine, en partage les défauts et d'abord celui d'un certain laisser-aller qui confine, en un parallèle de ses cousines Naples ou Tunis, à la saleté. Morand en fut dès l'abord frappé et reprend dans son texte les propos de voyageurs anglais, espions vénitiens ou négociants suédois qui voyaient au XVIIIe siècle s'entasser le fumier devant les portes. Les rues de Bucarest étaient alors de véritables radeaux sur la boue mouvante, « les véhicules y roulant lourdement, soulevant les madriers qui retombaient en s'enfonçant dans la glaise molle ».Le bitume et les trottoirs ont peu à peu, sous l'influence des Hohenzollern-Roumanie puis de la dictature communiste, pavé ce cloaque. Il n'en demeure pas moins qu'aujourdhui comme dans le Bucarest de 1935 que décrit Morand, routes et allées, impasses et cours, sont empreintes des remugles de la boue d'hier. Des époques d'une hygiène précaire, les habitants de la capitale roumaine ont conservé un redoutable fatalisme qui ruinait jusqu'aux rêves de pureté socialiste de Nicolae Ceausescu. Le voyageur ne doit pas hésiter à Bucarest pour se frayer le soir un chemin à enjamber les poubelles, vérifiant par la même que si en certaines cités, la nuit tous les chats sont gris, en Roumanie tous les rats sont noirs.
On connait l'intérêt que portait Morand aux cités radieuses, Venises de tous les sourires, on s'imagine donc que ce Bucarest des années trente a les attraits outranciers des belles du sud. Las, la ville est empreinte d'une indicible tristesse, apanage de toute éternité de la Roumanie. Morand l'explique, en reprenant un texte du prince de Ligne, par la domination turque qu'eut à subir pendant des siècles le pays. « La crainte qu'ils ont des Turcs, l'habitude d'apprendre de mauvaises nouvelles... les ont accoutumés à une tristesse invincible. Cinquante personnes qui se rassemblent dans une maison ou une autre ont l'air d'attendre le fatal cordon ». Il va sans dire que la terreur pratiquée par la mythique Securitate, bras armé du Conducator, n'a pas enclin les habitants de Bucarest à l'optimisme.
A première vue la ville manque donc d'attrait et déçoit le voyageur. Ce que résume Paul Morand en décrivant la lassitude de l'hospodar, gouverneur nommé par la Sublime Porte, qui arrivant d'Istambul, « trouve sa résidence misérable ».
Pourtant derrière ces façades lépreuses, le Bucarest de 1935 comme celui de 1990, recèle des charmes insoupçonnés. L'un des moindres n'est pas l'extraordinaire vitalité de ses intellectuels. Paul Morand s'avoue admiratif devant le talent multiforme des Roumains, véritable magie noire de l'esprit : « leur drôlerie, leur verve, leur mordant , leur rapidité , leur bon sens cynique les rendent redoutable. Il n'est pas facile de tenir sa place dans une discussion entre Roumains. » L'assertion reste aujourd'hui pertinente. Depuis la pseudo-révolution de décembre 1989, qui a brisé les cadres par trop rigides du stalinisme à la Ceausescu, Bucarest tout entière bruit des jeux de l'intellect. Les Roumains ont pendant les décennies du communisme triomphant maintenu la flamme vacillante de leurs brillantes élites (les écrivains Vasile Alecsandri, Mihail Eminescu, Mihail Sadoveanu auxquels succèderent les exilés de génie : Cioran, Ionesco, Eliade, Vintilia Horia). La terre était féconde et de nouvelles pousses ne demandaient qu'à poindre. L'arrivée au pouvoir d'Ilescu a ainsi permis à des écrivains comme Doïna Cornea ou Alexandre Paleologu de devenir de véritables autorités morales. Morand qui chantait les louanges des salons littéraires du Bucarest des années trente n'aurait pas été outre mesure surpris de la curiosité intellectuelle de toute une population qui n'hésite pas aujourd'hui à afficher dans les magasins des portraits de Mircea Eliade.
Bucarest est aussi la Mecque des hommes de presse. Dans les années trente, les journaux y faisaient flores, Morand se délectant en son hôtel de la lecture de Cuvântul, de Curentul, de Criterion ou de Viata Romana, toutes publications « à la tenue tout à fait remarquable ». La dite révolution de décembre 1989 a permis à l'histoire de faire un saut dans le temps et de restaurer au delà des années de censure politique, le pluralisme de l'écriture. Le flâneur salarié qui met ses pas dans ceux de Paul Morand peut à son tour gagner son gîte avec une moisson de titres divers, parmi lesquels il faut surtout retenir le très anti-conformiste România Mare, nationaliste et anti-sémite ou la gazette littéraire Arca qui affiche une indépendance que l'Occident se doit de jalouser.
Cette exubérance intellectuelle séduit d'autant plus le lecteur francophone qu'elle se fait à l'ombre de Corneille et de Montesquieu. On ne dira jamais assez combien les Roumains sont pétris de culture française classique et des feux des Lumières. Paul Morand voit les prémices de cette osmose entre les deux pays dans la croisade que menèrent en 1396 Mircea le Grand, voevode de Valachie, et les chevaliers francs commandés par le fils du duc de Bourgogne, Jean sans Peur, contre l'ennemi commun qu'était le Turc.
C'est alors noué dans le sang des combats et notamment dans les souffrances de la défaite de Nicopolis, une durable entente que viendra renforcer la lointaine protection qu'accorde au XVIe siècle Henri III, roi de France, à Pierre Boucle-d'Oreille, prince valaque avide de dominer l'ensemble des provinces roumaines. Quelques années plus tard, c'est un prince moldave, Jacques Basilic-Héraclide Despotas, qui entame des études de médecine à la faculté de médecine de Montpellier. Cette tradition se maintient jusqu'à nos jours et il n'est pas jusqu'au Premier ministre roumain en exercice, Petre Roman, qui n'ait été potache sur les bancs de l'université de Toulouse.
Paul Morand ne se lasse pas de ce visage de la Roumanie, terre d'épanouissement pour les élites. Pourtant il préfère consacrer les plus belles pages de son livre à d'autres minois, ceux des femmes de Bucarest. Elles l'ont dès l'abord séduit, au point qu'il a songé à donner pour sous-titre à cette balade citadine, « le portait d'une jolie femme ». Il est vrai que de temps immémoriaux les douces de Bucarest font rêver les hommes d'Orient et d'Occident. Le chroniqueur Dionisie Eclesiarcul raconte ainsi qu'un amiral ottoman exigea au cours d'une visite en Roumanie que les boyards lui amène leurs boyaresses. Devinant ses intentions, ils firent venir des prostitués, les couvrirent de bijoux et les présentèrent comme leurs femmes. Vers la fin de la soirée, l'amiral demanda à l'hospodar de lui garder la plus belle et d'envoyer les autres à ses lieutenants. Les Ottomans ne dominent plus le monde et la concupiscence des hommes n'est plus ce qu'elle était mais le voyageur ne se contraint guère pour détourner le regard vers tant de poitrines de paysannes que servent des pieds menus. Pour ceux qui douteraient de l'admiration que l'on se doit de porter à ces odalisques des Carpates, Morand cite encore une fois le prince de Ligne : « Des femmes charmantes (...) une jupe extrêmement légère, courte et serrée masque leurs charmants contours, et une gaze en manière de poche dessine et porte à merveille les deux jolies pommes du jardin de l'Amour.».
Ces lignes prennent toute leur signification si l'on sait que Morand qui aimait à dire « Je n'aime pas qu'on me mette la main dessus, que ce soit un homme ou une femme » (cité par Ginette Guitard-Auviste dans la Nouvelle Revue de Paris n°13), ne succomba que pour la main de la princesse Soutzo, ex-épouse d'un hospodar roumain. A ce grand sceptique du couple ( « Je pensais comme le disait souvent Marie Laurencin qu'un et un ne font pas deux, mais trois, et que trois ce n'est pas une bonne compagnie »), Hélène Soutzo s'offrira comme si indispensable qu'il ne saura lui survivre plus de dix-sept mois. Il est sans doute souhaitable pour tous les imitateurs de l'auteur de l'Europe galante en son périple roumain de tomber à leur tour dans les rets de fatales filles de Bucarest, (« Hélène était la seule femme que je puisse épouser : auprès d'elle je ne m'ennuie jamais »). A défaut, le voyageur des années quatre-vingt dix à qui plus d'un visage souri en autant de possibles aventures garde à son tour, une fois l'éloignement consommé, le parfum d'une ville sensuelle, avec en tête cette ritournelle de Le Cler, promeneur de 1860, et qui résume le labeur essentiel de la cité : « A Bucarest on fait l'amour, ou bien on en parle ». Cette évocation légère de l'infinie séduction des belles descendantes des tribus Thraces révèle peut-être finalement la véritable nature de l'âme roumaine. La Roumanie est une nation femelle et cela explique sans doute qu'au printemps des peuples, elle ait vécue son étrange révolution comme une Commedia dell Arte. Faux procès de vrais dictateurs, complots étranges et génocides de pacotilles prennent un tour nouveau à l'aune de la féminité analysée par Morand : « Les femmes (...) rebâtissent le monde à mesure que les hommes le détruisent. Les catastrophes, elles les banalisent en révolutions, les révolutions en fêtes foraines et, notre goût du meurtre, elles en font de l'amour (Le dernier dîner de Cazotte, Nouvelles des yeux, 1965)». Morand a donc volontairement placé le nœud gordien et l'épilogue de son livre sous le riche signe de la féminité, clé de la Roumanie car source de vie, ce qu'il résume ainsi : « La leçon que nous offre Bucarest n'est pas une leçon d'art mais une leçon de vie (...). Capitale d'une terre tragique où souvent tout finit dans le comique, Bucarest s'est laissé aller aux événements sans cette raideur, partant sans cette fragilité que donne la colère. Voilà pourquoi à travers la courbe sinueuse d'une destinée picaresque, Bucarest est resté gai ». Il est rarement en littérature d'observation que l'histoire aura rendu plus juste puisque aujourd'hui sur les ruines d'une bibliothèque détruite par les combats de l'hiver 1989 se pressent, dans les chaleurs de l'été, des jeunes filles en fleur, minaudant.
La Roumanie est ainsi une nation phénix, toujours prête à renaître de ses cendres et il suffirait que le gouvernement d'Iliescu suive dans la tombe la dictature du génie des Carpates pour que revive le Bucarest des années trente qu'a connu Morand. Ce serait là encore la démonstration du phénomène de glaciation qu'a fait subir le communisme aux peuples de l'Est, préservant par delà les miasmes de l'idéologie, leur véritable identité et peut-être également de façon plus malicieuse la preuve du génie littéraire de Paul Morand. En attendant cet hypothétique salut, Bucarest reste l'indispensable et unique (faute de guide officiel) Baedeker de la capitale roumaine. Morand a écrit dans Le Voyageur et l'amour : « l'amour est aussi un voyage », on serait tenté à la lecture de son livre de proclamer que l'inverse est aussi vrai, le voyage est un amour, Monsieur Morand, puisque vous nous faites tant aimer Bucarest.
Hugues Rondeau
Bucarest, Paul Morand, Plon, 293 pages, 100 francs.
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