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lundi, 08 juin 2009

Mal di Bruxelles

Mal di Bruxelles

Lo spettro dell’euroscetticismo si aggira per l’Europa. In realtà, è sempre così a ogni turno di elezioni Europee: un po’ perché, di voto in voto, l’assoluta mancanza di poteri del Parlamento Europeo si fa più manifesta, proprio in raffronto al modo in cui da quando c’è l’Euro l’Europa è diventata invece più importante nella vita dell’europeo della strada; un po’, perché proprio perché questa consultazione conta pochissimo può essere un modo eccellente per sfogare la propria voglia di protestare, senza esporre il proprio Paese a troppi rischi. Infatti, è tradizionale il fenomeno di quei partiti anti-Europa che prendono voti solo alle elezioni Europee: dal quel Movimento Popolare anti-Cee che nel 1979 e 1984 fu la lista più votata alle Europee danesi, anche se nel 2004 si era ridotta a un solo eletto; a quel Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (Ukip) che apparso senza risultati nel 1994 ebbe tre eletti nel 1999 e addirittura 12 nel 2004, rivelandosi il terzo partito. Stando ai sondaggi l’Ukip dovrebbe crescere ancora: dal 16,1 al 19%, che potrebbe portarlo addirittura al secondo posto, davanti allo stesso partito di governo laburista. Il dato è tanto più significativo se si pensa che nel contempo è accreditato un 7% al Partito Nazionale Britannico (Bnp): un partito di destra dura, non solo anti-europea, che potrebbe valere un paio di seggi. Nel 2004 aveva ottenuto un 4,9, che per un’incollatura lo aveva lasciato sotto la soglia si sbarramento.

L’Olanda di Wilders

Il risultato più clamoroso dovrebbe però essere quello dei Paesi Bassi, dove arriverebbe addirittura primo col 30% il Partito per la Libertà (Pvv) di Geert Wilders. Già deputato per partito liberale di destra Vvd (in Olanda c’è pure quello liberale di sinistra dei Democratici 66), Wilders se n’è andato sbattendo la porta, ed ha creato un nuovo movimento che fa la media tra il tradizionale liberismo del Vvd; la linea anti-immigrazione selvaggia di Pim Fortuyn, i resti del cui movimento è assorbito; una nuova sensibilità di allarme verso l’Islam, iniziata in particolare con l’omicidio di Theo Van Gogh; e in più anche una nuova sensibilità euroscettica, emersa in particolare con referendum che nel 2005 bocciò il Trattato costituzionale.

No all’ingresso della Turchia, esclusione degli appena ammessi Romania e Bulgaria, riduzione dell’esecutivo al solo Commissario per gli Affari Economici e abolizione del Parlamento Europeo sono gli slogan del Pvv. Curiosamente Wilders appare prendere voti anche alla sinistra anti-europea del Partito Socialista (da non confondere con quello Laburista, al governo): terzo partito alle ultime politiche col 17,3% dei voti, potrebbe perderne la metà.

L’Irlanda di Libertas

Un altro referendum sui cui il tratto di Lisbona è inciampato è stato quello irlandese. Declan Ganley, il miliardario che guidò la campagna per il no, da quell’esperienza ha sviluppato un partito anti-europeo che paradossalmente non solo si presenta solo alle Europee, ma è pure organizzato come partito paneuropeo: una struttura con cui Ganley dice di voler raggiungere i 100 seggi che gli permetterebbero di raggiungere i liberali come terzo gruppo al Parlamento Europeo. Presumibilmente, è un obiettivo irraggiungibile. Libertas è però accreditata dai sondaggi del 12% in Irlanda, del 9% in Polonia, del 6% in Germania e del 5% nella Repubblica Ceca. Nell’Europa dell’Est il movimento di Ganley finisce però in qualche modo per danneggiare le intenzioni di voto per gli euroscettici locali. Nel 2004, ad esempio, la Lega delle Famiglie Polacche ebbe il 15,2% dei voti, mentre il gruppo Legge e Giustizia dei gemelli Kaczynski arrivò al 12,7. Alle politiche del 2005 i gemelli erano arrivati al 27, riducendo la Lega all’8. E nel 2007 erano saliti al 32,11, ulteriormente asciugando la Lega all’1,3. Adesso i sondaggi li danno tra il 17 e il 25. A parte Libertas, una parte del voto da loro perso dovrebbe andare al partito di protesta contadina Autodifesa della Repubblica di Polonia, che dall’1,53% delle politiche arriverebbe all’11. Come i socialisti olandesi, quello è però un partito che utilizza tematiche di estrema destra all’interno di un discorso soprattutto di estrema sinistra. Nella Repubblica Ceca soffre della concorrenza di Libertas il Partito Democratico Ceco del presidente Václav Klaus: una formazione piuttosto assimilabile ai conservatori britannici, ma un bel po’ più euroscettici. Dal 30% delle scorse Europee, adesso starebbe al 20.

I Veri Finlandesi

Un dato clamoroso è quello del Partito Pirata, che in Svezia arriverebbe terzo col 7,9% dei voti, dallo 0,6% delle politiche. Ma la sua è una battaglia molto settoriale: libertà di scaricare da Internet e privacy assoluta per gli internauti sono i due punti che in pratica esauriscono tutto il suo programma. Sempre in Scandinavia, prenderebbe più del doppio rispetto al 2004 il Partito del Popolo, formazione più o meno assimilabile a quella di Haider in Austria, meno i sospetti di neo-nazismo: dal 6,8 al 15%. Meno impressionante è però la progressione rispetto alle politiche del 2007, dove stava già al 13,8. Col 5% delle intenzioni di voto, anche nella delegazione finlandese dovrebbe fare la sua comparsa una lista di protesta di destra: i Perussuomalaiset, “Veri Finlandesi”, eredi di una Lega Rurale che peraltro in passato partecipò pure al governo. Anche qui il dato è però in linea tra il 4,1 alle politiche del 2007 e il 5,4% alle amministrative del 2008.

Appare un po’ in ribasso il partito nazionalista fiammingo Vlaams Belang in Belgio: dal 14 al 12%. E anche il Fronte Nazionale in Francia: dal 9,81 al 7. Nel primo caso, per il modo in cui i democristiani fiamminghi hanno fatto proprie le istanze locali in modo sempre più aggressivo. Nel secondo caso, per la presenza di forti liste di protesta anti-Sarkozy e anti-socialisti sia a sinistra, col Nuovo Partito Anticapitalista del postino Olivier Besancenot al 6%; sia al centro, col MoDem di François Bayrou al 14%. In fortissima ripresa invece rispetto al 2004 la destra austriaca: con l’Fpö di Heinz-Christian Strache che dal 6,31% arriva al 15 e la Bzö degli eredi di Haider al 5. È invece giù rispetto alle ultime politiche, dove l’Fpö aveva passato il 17 e la Bzö il 10. Ma in Austria alle Europee c’è la lista di protesta dell’ex-socialdemocratico Hans-Peter Martin, che nel 2004 prese il 14% ed ora dovrebbe bissarlo.

Lo Jobbik ungherese

In lieve ascesa la destra nazionalista del Partito Nazionale Sloveno: dal 5% del 2004 al 6, comunque insufficiente ad avere un eletto. Col 10% dovrebbe invece entrare al Parlamento Europeo il Partito Nazionale Slovacco, anche se sta un po’ sotto rispetto al dato delle politiche. E sul 10% sono anche altre tre formazioni di destra dura: il Movimento per una Migliore Ungheria (Jobbik), che alle politiche del 2006 aveva avuto appena lo 0,01%; la bulgara Unione Nazionale Attacco (Ataka), che già aveva un eurodeputato e che alle politiche stava sull’8%; e il Partito della Grande Romania, che dopo i 5 eletti delle scorse europee alle politiche era rimasto fuori dal Parlamento, ma che ora dovrebbe riportare due eletti. Tra di loro, forse, il miliardario e presidente dello Steaua Gigi Becali: in passato nemico del leader del partito Corneliu Vadim Tudor, ma che ora lo stesso Tudor ha candidato per liberarlo dal carcere dove è rinchiuso dopo un raid di sue guardie del corpo contro ladri di auto. 

(http://www.libero-news.it/articles/view/548501)

Il trionfo di Wilders

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Il trionfo di Wilders, crociato anti-islam nell’Olanda multietnica
Ora che il Pvv – il Partito per la Libertà – di Geert Wilders ha triplicato i propri consensi, trionfando con un probabile 21% e ipotecando sei seggi alle elezioni europee nei Paesi Bassi, nella vicina Bruxelles si scorge l’avvisaglia di una valanga di voti anti-europei, o almeno euroscettici. Lo pensano anche a Londra, dove il Times prevede un successo della destra. E soprattutto a New York, dove il Wall Street Journal “candida” Wilders alla guida del governo nel 2011 e anticipa i successi dei «partiti nazionalisti» anche «nel Regno Unito, in Francia, Italia, Ungheria, Romania, Austria e Belgio». Come la nave-fantasma dell’Olandese volante annuncia sventure a chi la incontra, le urne presagiscono il crollo del vecchio modello di Unione a 27, che più si allarga e più si sfalda.

A meno di un’inversione di rotta, come quella impressa dagli elettori olandesi, che hanno incoronato il Pvv primo partito proprio a Rotterdam, governata da un sindaco marocchino. Soltanto nell’Amsterdam delle luci rosse la sinistra mantiene consensi.

«È un deputato coraggioso e un punto di riferimento che non ha temuto di sfidare le minacce degli islamisti che attaccano chi documenta il carattere macellaio di questo fondamentalismo islamico», dichiara il leghista Mario Borghezio, unico politico italiano che ha osato incontrarlo a Roma, il 19 febbraio scorso, in occasione del conferimento a Wilders del premio Oriana Fallaci. «Se gli olandesi lo hanno apprezzato, io stesso ho avuto modo di trovare un’intesa con lui. E ora spero di averlo nel mio gruppo», annuncia Borghezio prospettando un successo anche per la Lega Nord sulla scia del successo del Pvv: «Sono convinto che noi otterremo almeno il doppio rispetto alle ultime elezioni, conquistando un deputato anche nell’Italia centrale». Il vento di destra non è soltanto una reazione ai governi socialisti, allora? «No, è una reazione sana all’invasione islamica».

Comunque gli anniversari non perdonano. Esattamente vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, mentre nella capitale tedesca si decide finalmente di abbattere il monumento a Karl Marx e Friedrich Engels, si incrina anche il predominio del multiculturalismo e del politicamente corretto.

Sarà per questo che la Commissione europea è atterrita dal risultato elettorale nel Paese che aveva fatto della tolleranza e dell’integrazione una bandiera. Vorrebbero che si sapesse più tardi possibile. Bruxelles si sentono già accerchiati e tentano un ultima sortita con un attacco all’Aia, che già dalla serata di giovedì aveva diffuso il verdetto delle urne, nonostante l’embargo comunitario che impone di attendere la fine delle elezioni in tutta l’Ue prima di procedere alla pubblicazione dei risultati. Lo scopo è di evitare che il voto in alcuni Paesi possa influenzare chi vota dopo.

Ma ormai era fatta. Gli exit poll privati circolavano già appena dopo la chiusura delle urne. Inutile tentare di mantenere il segreto, che tanto non era più tale. Le autorità olandesi assicurano che daranno a Bruxelles tutte le spiegazioni richieste sulla diffusione dei risultati elettorali delle europee, privilegiando comunque il diritto degli elettori di conoscere rapidamente i risultati.

Gli euroburocrati sono incerti sul da farsi. Rischiano di lanciare un messaggio controproducente. Se l’opinione pubblica interpretasse il richiamo come una punizione inflitta all’Olanda per aver votato a destra, più che per aver violato le normative comunitarie, la perdita di consensi verso Eurolandia potrebbe ampliarsi ancora.

(http://www.libero-news.it/articles/view/549452)

http://www.pi-news.org/wp/uploads/2009/05/pk090523_islamwildersanklage_en.jpg

Bruselas ocupa un lugar central en el espionaje

Bruselas ocupa un lugar central en el espionaje

Ex: http://labanderanegra.wordpress.com/

Bruselas es un nido de espías. El fin de la guerra fría no solo no ha reducido la actividad de los servicios secretos extranjeros en la capital belga, sino que ha multiplicado sus acciones y sus objetivos. Y es tan intensa que la Comisión Europea difundió hace poco una nota interna entre sus directivos para que tomaran medidas ante los intentos repetidos y crecientes de “obtener documentación confidencial y delicada” de la actividad del Ejecutivo comunitario.

La nota indicaba que “algunos países, grupos de presión, periodistas y agencias privadas intentan obtener informaciones protegidas”. Y precisaba que “personas vinculadas a servicios secretos” actúan bajo la cobertura de “becarios, periodistas, funcionarios de los estados de la Unión Europea (UE) agregados a la Comisión Europea y técnicos informáticos”.


“Bruselas es, junto a Washington y Ginebra, una de las tres ciudades clave para los servicios de espionaje de todo el mundo”, explica Kristof Clerix, autor del libro Los servicios secretos extranjeros en Bélgica. “Los métodos siguen siendo los mismos de la guerra fría: ganar la confianza y después explotar esa confianza. Lo que ha cambiado es el uso de las nuevas tecnologías y la importancia cada vez mayor de las cuestiones económicas”, precisa Clerix, periodista de la revista belga de política internacional MO. “Los grandes países no dudan en utilizar sus servicios secretos para promocionar y defender sus intereses económicos e industriales en un mundo globalizado”, añade.

“Aún más interesante”

“En asuntos políticos y militares, Bruselas es aún más interesante para los espías que en la época de la guerra fría”, destaca Clerix. La OTAN ya no se limita a la defensa de los aliados, sino que ha emprendido operaciones militares en Bosnia, Kosovo y Afganistán y ha extendido su influencia a las antiguas repúblicas soviéticas de Asia central. La UE tiene competencias en política exterior y defensa y también desarrolla operaciones militares y políticas de envergadura (Bosnia, Kosovo, Macedonia, Congo, Somalia).

Además de estas cuestiones políticas y militares clásicas, hay otros tres factores que refuerzan el interés de Bruselas para los servicios de espionaje extranjeros: la presencia en Bélgica de centros tecnológicos de uso espacial y militar, el papel del país como retaguardia del terrorismo internacional y las nutridas comunidades inmigrantes turcas, marroquís y de África central, muy activas políticamente y que son vigiladas de cerca por los gobiernos de sus países de origen.

Retaguardia del terrorismo

“En los últimos 20 años Bélgica ha desempeñado un papel importante en el terrorismo internacional. Es un país pequeño, del que es fácil huir, con una importante comunidad inmigrante musulmana”, señala Clerix. “El primer manual de yihad en la UE fue publicado en Bélgica, los asesinos del líder rebelde afgano Ahmad Sha Masud tenían pasaporte belga y quienes realizaron los atentados de Madrid tuvieron vínculos con Bélgica”, detalla Clerix.

China es uno de los nuevos actores más activos en el tablero del espionaje en Bélgica, con un interés muy marcado en la obtención de informaciones científicas y tecnológicas, pero vigilando también la cuestión tibetana, los opositores políticos y el movimiento religioso Falun Gong. Asimismo, China es especialista en utilizar a sus estudiantes para obtener informaciones, asegura Clerix.

Al margen del espionaje estadounidense a las transacciones bancarias mundiales a través de la empresa Swift –que continúa pese al escándalo que levantó–, el caso reciente más grave de espionaje se produjo en el Consejo de Ministros de la UE de forma continuada durante ocho años, hasta su detección en 2003.

Un conjunto de cinco cajas instaladas durante la construcción del edificio permitía interceptar las conversaciones telefónicas de las delegaciones de España, Francia, Alemania, Italia, el Reino Unido y Austria. Fuentes diplomáticas responsabilizaron a Israel, pero nadie se atrevió a formular una acusación oficial y los investigadores belgas recibieron instrucciones de no profundizar demasiado, según fuentes próximas al caso.

El sector privado también es víctima reiterada de los espías. En los últimos años, por ejemplo, nueve empresas del parque tecnológico de Lieja han sido víctimas del robo de discos duros y ordenadores con datos técnicos clave, mientras que los ladrones desestimaron la sustracción de material muchísimo más valioso.

Eliseo Oliveras

Extraído de Xornal.

Un article 216 bien significatif

Un article 216 bien significatif

Ex: http://www.insolent.fr/
090602Nul ne saurait douter de la force symbolique, dans l'opinion, de la question de l'adhésion de la Turquie. Nos hommes politiques le savent, qui en manipulent les ressorts. Car dans l'esprit de bon nombre d'électeurs européens, ce dossier cristallise à la fois les incertitudes quant aux institutions actuelles, et les inquiétudes relatives à la sauvegarde de l'identité. Reste que de vrais problèmes se posent et que l'opacité des négociations en cours ne fait que les aggraver.

Le grand écrivain turc Gürsel (1) publiait ainsi, dans Le Monde du 24 mai une fort révélatrice tribune à propos de la candidature de son pays à l'Union européenne. Reconnaissons une fois de plus que nous nous trouvons en présence d'arguments forts, parfois même émouvants.

Schématiquement, et sur presque tous les points qu'il choisit d'évoquer, en laissant de côté très soigneusement les autres, on ne peut sans doute que donner raison à son argumentation.

Et même, fort habilement au bout du compte, demeure-t-il en deçà de ce qu'il pourrait développer. En bon connaisseur des dialogues socratiques, il laisse ainsi au lecteur le soin de compléter sa propre démarche rhétorique.

Il répond, par exemple, avec intelligence à un argument que lui avait servi Jean-Claude Casanova : celui-ci avait mentionné la mémoire de Lépante, certainement différente en Europe et sur les rives du Bosphore. À cette question Nedim Gürsel oppose une autre question : celle des relations franco-allemandes et de la mémoire de la bataille de Verdun.

Je crois au fond un peu vaines de telles mobilisations virtuelles autour des grandes batailles de l'histoire. Dans le cas précis, la trace de Lépante n'existe généralement pas dans la conscience nationale des Français. À l'époque de cette petite et courte croisade, en 1571, seule une poignée de puissances catholiques se mobilisèrent à l'appel du Pape. L'expédition, jugée victorieuse, demeura sans lendemain et sans incidence sur le sort des chrétiens. Le souvenir de don Juan d'Autriche n'a pas dû beaucoup ressembler à celui de Cervantès. Le royaume des Lys, quant à lui, avait hérité d'une alliance nouée par François Ier, elle-même consécutive au désastre de Pavie. Il aurait plutôt penché en faveurs des Ottomans. Mais il se préoccupait surtout de sa propre guerre civile déchirant catholiques et protestants.

On pourrait, ainsi, reprendre à l'infini une broderie sur chacun des thèmes évoqués par Nedim Gürsel.

Son cheminement logique butte cependant sur sa propre conclusion

Voici en effet ce que M. Gürsel ajoute, comme un cheveu sur la soupe, à la fin de son joli texte :
"Un procès est actuellement en cours à propos de mon dernier roman, Les Filles d'Allah, paru, en Turquie, en mars 2008. Je suis jugé pour avoir "dénigré les valeurs religieuses" selon l'article 216 du code pénal turc, qui prévoit une peine allant de six mois à un an de prison. Il s'agit d'un délit d'opinion, d'une atteinte grave à la liberté d'expression et de création, surtout dans une république qui se dit laïque. Peu importe, j'ai désormais confiance en la justice de mon pays et j'espère que le jour où il intégrera l'Union européenne, il n'y aura plus de procès de ce genre."
Tout d'abord on serait tenté, avec certains négociateurs européens d'intervertir l'ordre des préalables. Cela deviendrait alors, plus raisonnablement et plus rationnellement : quand ce genre de procès cessera définitivement, à ce moment-là, et pas avant, on pourra commencer à discuter vraiment, des clauses techniques, économiques, géopolitiques, que sais-je encore, de l'adjonction à l'Europe fragmentée de ce grand bloc d'Asie mineure qui la prolonge vers le Proche Orient.

En toute franchise d'ailleurs nous ne pouvons guère nous bercer de l'hypothèse de la fin, pourtant désirable, de tels procès. Nous en observons plutôt le début et l'arrivée au pouvoir en 2002, confirmée et même amplifiée en 2007, de la vague islamique semble en constituer l'annonce. Ah certes, formellement, le gouvernement de l'AKP a su normaliser certaines libertés publiques, rognant les prérogatives de l'Armée dans ce pays qui se sent assiégé.

Mais les procédures judiciaires ne constituent que le reflet de la conception que se fait une société de l'ordre public et des bonnes mœurs. Un pays se voulant européen et se proclamant "laïc" devrait abroger d'abord l'article 216 du code pénal turc qui interdit et sanctionne de peines de prison le "dénigrement les valeurs religieuses".

M. Nedim Gürsel se sait lui-même le bienvenu à Paris, dans un pays qu'il considère comme sa seconde patrie, où il travaille et où on publie de beaux livres de lui. Il me fera la grâce de m'épargner la description des divergences qui nous opposent, oui nous tous Européens de toutes confessions, croyances ou incroyances, aux "valeurs religieuses", celles de la loi islamique concrète, que ce code pénal prétend protéger.

Et c'est pour cette raison, et pour quelques autres, que l'idée de faire de la Turquie, en tant qu'État, un Membre de l'Union européenne me paraît largement incongrue.

 

Apostilles

  1. Nedim Gürsel est aussi, en France, directeur de recherche au CNRS. Auteur de nombreux romans, il a publier "La Turquie : une idée neuve en Europe" ("Empreinte du temps présent" éditeur)
JG Malliarakis

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Ernst Jünger - Un autre destin européen

Un nouveau livre de Dominique Venner : Ernst Jünger. Un autre destin Européen

En librairie depuis le 15 mai 2009. Il s’agit de la première biographie consacrée en France à Ernst Jünger, grande et énigmatique figure du XXe siècle. Le 9 janvier 1995, à la veille de son centenaire, il adressait ce message de connivence à Dominique Venner : « Nous autres, camarades, nous pouvons montrer nos blessures ! »

Image Hosted by ImageShack.usLe livre :
Très jeune héros de la Grande Guerre, nationaliste opposé à Hitler, ami de la France, Ernst Jünger (1895-1997) fut le plus grand écrivain allemand de son temps. Mais ce n’est pas rendre service à l’auteur d’Orages d’acier que de le ranger dans la catégorie des bien pensants. Il n’a cessé au contraire de distiller un alcool beaucoup trop fort pour les gosiers fragiles. C’est ce Jünger, dangereux pour le confort, que restitue Dominique Venner. Il y replace l’itinéraire de l’écrivain dans sa vérité au cœur des époques successives qu’il a traversées. Belliciste dans sa jeunesse, admirateur d’Hitler à ses début, puis opposant irréductible, subsiste en lui le jeune officier héroïque des troupes d’assaut qui chanta « la guerre notre mère », et l’intellectuel phare de la “Révolution conservatrice”. Mais il fut aussi le guerrier apaisé qui tirait gloire d’avoir donné son nom à un papillon.

Dans cette biographie critique, Dominique Venner montre qu’aux pires moments du siècle, Jünger s’est toujours distingué par sa noblesse. En cela il incarne un modèle. Dans ses écrits, il a tracé les lignes d’un autre destin européen enraciné dans les origines et affranchi de ce qui l’opprime et le nie.

Dominique Venner, Ernst Jünger. Un autre destin Européen. Editions du Rocher, 240 p..

Source : le site Internet Dominique Venner.

Disponible en particulier sur Libre-Diffusion.com.


 

Article printed from :: Novopress Québec: http://qc.novopress.info

URL to article: http://qc.novopress.info/?p=5120

dimanche, 07 juin 2009

El gobierno kosovar y el crimen organizado

El gobierno kosovar y el crimen organizado

Ex: http://labanderanegra.wordpress.com/

Para suscitar desórdenes y el uso desproporcionado de la fuerza por parte de Belgrado en Kósovo, la OTAN reclutó a delincuentes locales que formaron el «Ejército de Liberación de Kósovo» (UÇK). Estos individuos nunca abandonaron su actividad criminal. En lo consecutivo, la OTAN se avendrá, de tal manera, a esta organización mafiosa que dejará manifiesto su imposibilidad de reclutar gente honesta para servir a los intereses extranjeros. El ascenso unilateral del Kósovo ocupado al rango de Estado independiente, en 2008, ha conferido la impunidad a un gobierno dirigido por una organización criminal muy bien conocida por los servicios de policías occidentales, tal como lo demuestra un artículo de Weltwoche, publicado en 2005 y que reproducimos en nuestras columnas.

Tres de los políticos más importantes de Kosovo están profundamente involucrados en el crimen organizado, en particular, del tráfico de droga. Esto es, precisamente, lo que demuestran los documentos secretos de los Servicios de Inteligencia alemanes, de la ONU y de la Kfor (Kosovo Force), una fuerza internacional de estabilización. Estos documentos inculpan a Ramush Haradinaj, quien ocupó el cargo de Primer Ministro hasta marzo de 2005; a Hashim Thaçi, Primer Ministro desde enero de 2008 hasta la fecha y líder del Partido Democrático de Kosovo y a Xhavit Haliti, miembro de la presidencia del Parlamento. Cada uno de ellos hizo carrera en el Ejército de Liberación de Kosovo, vivieron varios años en Suiza y, hasta hoy, mantienen relaciones de negocio y personales en ese mismo país.


En el análisis de las 67 páginas del informe de los Servicios de Inteligencia alemanes del 22 de febrero de 2005, se puede leer, por ejemplo: « Gracias a actores claves (como Haliti, Thaçi y Haradinaj) existe una relación estrecha entre la política, la economía y estructuras criminales que operan a nivel internacional. Las redes criminales que la sostienen propician la inestabilidad política, porque no tienen, evidentemente, interés en que se instaure un orden estatal eficaz que podría perjudicar sus prósperos negocios. Fácil de entender por qué los principales actores del crimen organizado aspiran apuestos de primera importancia dentro del gobierno o dentro de partidos y/o mantienen muy buenas relaciones con esas esferas ». El crimen organizado se transforma, de este modo, en « un medio político propicio ». Este es el análisis que los Servicios de Inteligencia consideran « información clasificada ».

Uno de estos personajes claves, Hashim Thaçi, apodado « la Serpiente » es el presidente del Partido Democrático de Kosovo y muy conocido en Suiza. Según los Servicios de Inteligencia alemanes, Thaçi controla parte importante de las actividades criminales de Kosovo. «Se presume que Thaçi, junto a Haliti, es uno de los financiadores del asesino profesional Afrimi», presunto responsable de, al menos, once asesinatos por encargo.

Thaçi, de 36 años, vivió desde 1995 varios años en Suiza en calidad de refugiado. Gracias a una beca, hizo estudios en la Universidad de Zúrich de historia de los países del Este. En 1992 fue uno de los fundadores del UÇK y, más tarde, se convirtió en su líder. En 1999, se hizo súbitamente conocido por su participación, en calidad de jefe de la delegación de la tienda albano-kosovar en las negociaciones de paz albano-serbias de Rambouillet. Allí se dio a conocer por la comunidad internacional como hombre político.

En esta misma época, de acuerdo a los Servicios de Inteligencia alemanes, Thaçi controlaba un «servicio de seguridad», «una red criminal que operaba en todo Kósovo». « Es probable que en 2001 mantuviera contacto con la mafia checa y la albanesa. En octubre de 2003 habría estado ligado estrechamente, en el marco del tráfico de armas y droga, a un clan al que se le acusa de lavado de dinero y chantaje.

El clan de los albaneses de Kosovo

El segundo personaje clave, Ramush Hardinaj de 37 años, es, sin duda, uno de los políticos más controvertidos de Kósovo. En el informe de los Servicios de Inteligencia alemanes se le hace mención de la siguiente forma: « La estructura que rodea a Haradinaj es, fundamentalmente, un clan familiar de la ciudad de Decani que se dedica a todo tipo de actividades criminales, políticas y militares, que influyen, considerablemente, en las condiciones de seguridad de todo Kósovo. El grupo comprende alrededor de 100 miembros implicados en el tráfico de droga, armas y mercancía sometida al régimen aduanero. Además, Haradinaj controla gobiernos comunales».
En un informe secreto del 10 de mayo de 2004, la Kfor designa a este grupo como «la más poderosa organización criminal» de la región y agrega que Haradinaj a puesto su mano, también, en la distribución de la ayuda humanitaria y la ha utilizado como instrumento de poder.

Gracias a la colaboración activa de la comunidad internacional y, particularmente a la de Estados Unidos, Haradinaj ha podido abrirse camino. Llega a Suiza en 1989, hablando inglés y francés de corrido, en calidad de trabajador inmigrante. Se desempeñó como guardia en una discoteca de la estación de ski de Leysin. En febrero de 1998 vuelve a Kósovo y organiza operaciones militares del UÇK. Después de la guerra, se hará conocido por estar involucrado en enfrentamientos armados con otros clanes, hechos que inmediatamente fueron interpretados por la ONU como « actos de venganza y ajuste de cuentas ». Efectivamente, se trató de un caso de lucha de poder entre familias mafiosas, como lo muestra el ejemplo siguiente.

La Central Intelligence Unit ( CIU ), el servicio de inteligencia de la ONU describe, en su informe del 29 de diciembre de 2003, un caso en el que ven implicados diplomáticos: El 7 de julio del año 2000 Haradinaj ataca la casa de un clan de un clan rival que le hacía competencia en el tráfico de drogas. Según la CIU, Hadinaj pretendía robar 60 kilos de cocaína que esta familia escondía. Resultó herido en intercambio de balas y debió escapar.

Antes de que Haradinaj pudiera ser interrogado por los policías de Naciones Unidas, fue puesto en un helicóptero militar italiano y llevado a una base de la armada estadounidense, en una operación rápidamente organizada por dos presumibles agentes de la CIA. La policía de Naciones Unidas recibió, desde su cuartel general en Pristina, la orden de « renunciar a todas las medidas en su contra».

La razón por la que la policía se abstuvo de realizar lo pertinente al caso es que se temió que su arresto, que pudo convertirse en la imputación de un « héroe de combate por la liberación », caldeara los ánimos en una situación que ya era tensa. Después de este incidente, Haradinaj fue puesto a salvo en Estados Unidos. « Durante su estadía recibió entrenamiento y Estados Unidos le prometió ayudarlo en su carrera política, si Kosovo lograba independizarse, él sería su candidato favorito ».

De regreso en Kosovo, el protegido de USA funda un nuevo partido, la « Alianza por el futuro de Kosovo » y en diciembre de 2004 se convierte en Primer Ministro conforme al deseo de Estados Unidos. Sin embargo, no durará más de tres meses en el cargo. En marzo de 2005 renuncia y se presenta ante el Tribunal Penal Internacional de la Haya. Se le acusa por haber cometido, de manera sistemática, crímenes de limpieza étnica acompañados de torturas y violaciones en contra de serbios y gitanos. A pesar de ello, bajo la fuerte presión de Estados Unidos y contra la voluntad de la fiscal en jefe a cargo del caso, Carla del Ponte, fue liberado de la prisión preventiva y pudo dedicarse de momento a la actividad política. Su procesamiento comenzará en la Haya, probablemente, en 2007. Ninguna denuncia ha sido presentada, hasta el momento, por crimen organizado. ( Terminó siendo absuelto el 3 de abril de 2008).

El atentado de Zúrich

Xhavit Haliti, apodado «Bunny», también es uno de los personajes que juegan un rol importante en Kósovo. Según la Kfor, este miembro de la presidencia del Parlamento y vicepresidente del Partido Democrático de Kósovo « es un criminal conocido, implicado en tráfico de drogas y armas». El informe de los Servicios de Inteligencia alemanes afirma que «Haliti está involucrado tanto en el lavado de dinero, el tráfico de droga, armas y de humanos, como en asuntos de prostitución, además de pertenecer al principal círculo de la mafia. Como personaje clave en el crimen organizado, manipula, siempre, grandes sumas de dinero».

Al igual que Haradinaj y Thaçi, Haliti comenzó su carrera en Suiza. Estudió psicología en ese país, a fines de los años ochentas. En 1990 fue víctima de un atentado con motivaciones políticas. Un año más tarde, era parte de la presidencia del Movimiento Popular de Kósovo y organizaba el UÇK desde Suiza. Se cree que antes y durante la guerra abasteció de armamento a el UÇK y controló el Homeland Calling Fund. Inmigrantes albano- kosovares de Suiza y Alemania donaron, más o menos voluntariamente, 400 millones de dólares a este fondo.

La Kfor escribió: « Una vez que las donaciones disminuyeron después de la guerra, Haliti se arroja a la actividad criminal organizada a gran escala ». Según la misma fuente, Haliti no representa un caso único; « lo sorprendente es que casi todos los cabecillas del crimen organizado son comandantes o jefes de unidades especiales de la UÇK ». Respecto a Haliti, tampoco se cuenta, aún, con nada que justifique una querella penal.

Estos tres ejemplos demuestran, una vez más, que Suiza fue un centro de actividad del UÇK. Es allí donde, antes del conflicto, se recolectaron millones destinados a la compra de armas y a la propaganda y, también, donde se reclutó a los combatientes para la « lucha por la libertad de los albaneses oprimidos de Kósovo ». En el verano de 2001, el Consejo Federal decidió que los representantes de las organizaciones albano-kosovares debían descontinuar su actividad política y la recaudación de fondos. Respecto a Haliti, el Consejo Federal emitió la prohibición de su entrada en territorio suizo.

Opio para Europa

Los informes secretos de los Servicios de Inteligencia alemanes hacen suponer que, a pesar de la administración de la ONU y la Kfor, Kósovo es uno de los principales centros de convergencia del crimen en Europa. Una de las razones es que el tráfico de drogas es altamente lucrativo. Gran parte del opio que se cosecha, de manera creciente, en Afganistán llega al mercado europeo convertido en heroína desde Albania y Kósovo. Según Klaus Schmidt, jefe de la Misión de Asistencia de la Comunidad Europea (PAMECA), cada día 500 a 700 kilos de opio llegan a Albania y Kósovo para ser transformados en sus laboratorios. Diariamente, un millón de euros de dinero de la droga se intercambian en el mercado gris de la capital albanesa de Tirana. Los especialistas afirman que se trata de cártel de droga más importante formado en curso de los últimos años.

De acuerdo al informe de los Servicios de Inteligencia alemanes, incluso los desórdenes de 2004, que llevaron a Kósovo al borde de una nueva guerra civil, fueron fomentados por criminales quisieron continuar dedicándose al tráfico con toda tranquilidad. « A principios de abril de 2004 sabíamos, gracias a medios encargados de la seguridad en los Balcanes, que los disturbios de Kósovo habían sido planeados y ejecutados a petición del crimen organizado. Durante los disturbios, camiones repletos de heroína y cocaína pasaron las fronteras sin ningún control, porque la policía de la ONU y los soldados de la Kfor estaban totalmente ocupados en el control de los disturbios ». Este hecho lo confirmaron policías de la ONU en Pristina, quienes prefirieron guardar sus identidades por seguridad. La policía de la ONU se queja de que no se ha hecho nada, hasta el momento, en contra de los criminales.

La ONU y la Kfor no han resuelto el problema, ni siquiera una parte de él. La policía de la ONU carece, particularmente, de medios. « Vamos a la batalla con espadas de madera », se lamenta un policía de alto rango de la ONU. Pero, sobre todo, carece de apoyo político para actuar, de manera eficaz, contra los clanes mafiosos. Según los Servicios de Inteligencia alemanes « ni los gobiernos regionales ni el Ejecutivo están interesados en la lucha contra el crimen organizado, porque están vinculados a él ». Un jefe de policía de la ONU, encargado de la lucha contra el crimen organizado, declaró a Weltwoche que « personeros de renombre, incluyendo el ex Primer Ministro, fueron propulsores de los disturbios de marzo, que fueron organizados por una estructura criminal conocida. Numerosos servicios lo saben, sin embargo, nada se hace en contra de esta estructura ». Ésta es su explicación: « Evitan que se desaten nuevos desórdenes, que se producirían sin duda, en el caso de que se iniciara una investigación criminal en contra de Ramush Haradinaj ».

Una de las consecuencias que trae dejar las cosas tal como están es que en Europa, especialmente en Suiza, alemania e Italia, los clanes albano-kosovares constituyen un poder criminal dominante. Los Servicios de Inteligencia alemanes consideran que aquello representa «un gran peligro para Europa ». Muchas comisarías de policía de la ONU se restituyen a los servicios de la policía kosovar. El problema es que los antiguos encargados permanecen en sus puestos y son los mismo que están bajo sospecha por mantener lazos estrechos, a menudo familiares, con jefes conocidos de la mafia.

Los documentos citados descansan en el resguardo de los cajones de los tribunales.

Jürgen Roth

Traducido por Carla Francisca Carmona, extraído de Red Voltaire.

Paul Morand et Bucarest

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

 

 

Paul Morand et Bucarest

 

Les éditions Plon viennent de rééditer la promenade littéraire de Paul Morand sur Bucarest. Notre collaborateur Hugues Rondeau, a glissé l'ouvrage dans ses poches et est parti à travers les rues de la capitale roumaine sur les traces de l'ambassadeur écrivain.

 

En arrivant dans la gare de Bucarest, le voyageur ne peut s'empêcher de se répéter cette entrée en matière des discours des ministres de la IIIe République que plaisante Morand : « la Roumanie, notre sœur latine ». Tout est latin en effet en cette ville où les cris résonnent de pavillons en immeubles, de boutiques en échoppes, au milieu des odeurs qu'exalte la chaleur dans les soupirs d'hommes paresseusement attablés. Vingt ans de national-communisme à la Ceaucescu, près d'un demi-siècle d'amitié tendue avec l'Union soviétique, n'ont pas entamé le caractère des Roumains. Là comme ailleurs les structures lourdes de l'histoire ont eu raison des vissicitudes du moment.

 

Paul Morand écrit que « Bucarest s'affermit au centre de l'amphithéâtre valaque protégé par le grand arc carpatique, courbé comme le dos d'un portefaix turc, et appuyé à sa base sur le fleuve nourricier par où était descendu un jour l'empereur Trajan, père des Roumains ». Pas une ligne n'est à changer dans cette description et s'il était quelque homme pressé qui mette en doute l'empreinte des Césars en Roumanie, il lui suffit pour se détromper d'observer les visages des habitants de Bucarest, autant de preuves que plus d'un légionnaire romain fut oublié au cœur de la Roumanie ou s'est oublié au cœur des Roumaines.

 

Bucarest, terre latine, en partage les défauts et d'abord celui d'un certain laisser-aller qui confine, en un parallèle de ses cousines Naples ou Tunis, à la saleté. Morand en fut dès l'abord frappé et reprend dans son texte les propos de voyageurs anglais, espions vénitiens ou négociants suédois qui voyaient au XVIIIe siècle s'entasser le fumier devant les portes. Les rues de Bucarest étaient alors de véritables radeaux sur la boue mouvante, « les véhicules y roulant lourdement, soulevant les madriers qui retombaient en s'enfonçant dans la glaise molle ».Le bitume et les trottoirs ont peu à peu, sous l'influence des Hohenzollern-Roumanie puis de la dictature communiste, pavé ce cloaque. Il n'en demeure pas moins qu'aujourdhui comme dans le Bucarest de 1935 que décrit Morand, routes et allées, impasses et cours, sont empreintes des remugles de la boue d'hier. Des époques d'une hygiène précaire, les habitants de la capitale roumaine ont conservé un redoutable fatalisme qui ruinait jusqu'aux rêves de pureté socialiste de Nicolae Ceausescu. Le voyageur ne doit pas hésiter à Bucarest pour se frayer le soir un chemin à enjamber les poubelles, vérifiant par la même que si en certaines cités, la nuit tous les chats sont gris, en Roumanie tous les rats sont noirs.

 

On connait l'intérêt que portait Morand aux cités radieuses, Venises de tous les sourires, on s'imagine donc que ce Bucarest des années trente a les attraits outranciers des belles du sud. Las, la ville est empreinte d'une indicible tristesse, apanage de toute éternité de la Roumanie. Morand l'explique, en reprenant un texte du prince de Ligne, par la domination turque qu'eut à subir pendant des siècles le pays. « La crainte qu'ils ont des Turcs, l'habitude d'apprendre de mauvaises nouvelles... les ont accoutumés à une tristesse invincible. Cinquante personnes qui se rassemblent dans une maison ou une autre ont l'air d'attendre le fatal cordon ». Il va sans dire que la terreur pratiquée par la mythique Securitate, bras armé du Conducator, n'a pas enclin les habitants de Bucarest à l'optimisme.

 

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A première vue la ville manque donc d'attrait et déçoit le voyageur. Ce que résume Paul Morand en décrivant la lassitude de l'hospodar, gouverneur nommé par la Sublime Porte, qui arrivant d'Istambul, « trouve sa résidence misérable ».

Pourtant derrière ces façades lépreuses, le Bucarest de 1935 comme celui de 1990, recèle des charmes insoupçonnés. L'un des moindres n'est pas l'extraordinaire vitalité de ses intellectuels. Paul Morand s'avoue admiratif devant le talent multiforme des Roumains, véritable magie noire de l'esprit : « leur drôlerie, leur verve, leur mordant , leur rapidité , leur bon sens cynique les rendent redoutable. Il n'est pas facile de tenir sa place dans une discussion entre Roumains. » L'assertion reste aujourd'hui pertinente. Depuis la pseudo-révolution de décembre 1989, qui a brisé les cadres par trop rigides du stalinisme à la Ceausescu, Bucarest tout entière bruit des jeux de l'intellect. Les Roumains ont pendant les décennies du communisme triomphant maintenu la flamme vacillante de leurs brillantes élites (les écrivains Vasile Alecsandri, Mihail Eminescu, Mihail Sadoveanu auxquels succèderent les exilés de génie : Cioran, Ionesco, Eliade, Vintilia Horia). La terre était féconde et de nouvelles pousses ne demandaient qu'à poindre. L'arrivée au pouvoir d'Ilescu a ainsi permis à des écrivains comme Doïna Cornea ou Alexandre Paleologu de devenir de véritables autorités morales. Morand qui chantait les louanges des salons littéraires du Bucarest des années trente n'aurait pas été outre mesure surpris de la curiosité intellectuelle de toute une population qui n'hésite pas aujourd'hui à afficher dans les magasins des portraits de Mircea Eliade.

 

Bucarest est aussi la Mecque des hommes de presse. Dans les années trente, les journaux y faisaient flores, Morand se délectant en son hôtel de la lecture de Cuvântul, de Curentul, de Criterion ou de Viata Romana, toutes publications « à la tenue tout à fait remarquable ». La dite révolution de décembre 1989 a permis à l'histoire de faire un saut dans le temps et de restaurer au delà des années de censure politique, le pluralisme de l'écriture. Le flâneur salarié qui met ses pas dans ceux de Paul Morand peut à son tour gagner son gîte avec une moisson de titres divers, parmi lesquels il faut surtout retenir le très anti-conformiste România Mare, nationaliste et anti-sémite ou la  gazette littéraire Arca qui affiche une indépendance que l'Occident se doit de jalouser.

 

Cette exubérance intellectuelle séduit d'autant plus le lecteur francophone qu'elle se fait à l'ombre de Corneille et de Montesquieu. On ne dira jamais assez combien les Roumains sont pétris de culture française classique et des feux des Lumières. Paul Morand voit les prémices de cette osmose entre les deux pays dans la croisade que menèrent en 1396 Mircea le Grand, voevode de Valachie, et les chevaliers francs commandés par le fils du duc de Bourgogne, Jean sans Peur, contre l'ennemi commun qu'était le Turc.

 

C'est alors noué dans le sang des combats et notamment dans les souffrances de la défaite de Nicopolis, une durable entente que viendra renforcer la lointaine protection qu'accorde au XVIe siècle Henri III, roi de France, à Pierre Boucle-d'Oreille, prince valaque avide de dominer l'ensemble des provinces roumaines. Quelques années plus tard, c'est un prince moldave, Jacques Basilic-Héraclide Despotas, qui entame des études de médecine à la faculté de médecine de Montpellier. Cette tradition se maintient jusqu'à nos jours et il n'est pas jusqu'au Premier ministre roumain en exercice, Petre Roman, qui n'ait été potache sur les bancs de l'université de Toulouse.

 

Paul Morand ne se lasse pas de ce visage de la Roumanie, terre d'épanouissement pour les élites. Pourtant il préfère consacrer les plus belles pages de son livre à d'autres minois, ceux des femmes de Bucarest. Elles l'ont dès l'abord séduit, au point qu'il a songé à donner pour sous-titre à cette balade citadine, « le portait d'une jolie femme ». Il est vrai que de temps immémoriaux les douces de Bucarest font rêver les hommes d'Orient et d'Occident. Le chroniqueur Dionisie Eclesiarcul raconte ainsi qu'un amiral ottoman exigea au cours d'une visite en Roumanie que les boyards lui amène leurs boyaresses. Devinant ses intentions, ils firent venir des prostitués, les couvrirent de bijoux et les présentèrent comme leurs femmes. Vers la fin de la soirée, l'amiral demanda à l'hospodar de lui garder la plus belle et d'envoyer les autres à ses lieutenants. Les Ottomans ne dominent plus le monde et la concupiscence des hommes n'est plus ce qu'elle était mais le voyageur ne se contraint guère pour détourner le regard vers tant de poitrines de paysannes que servent des pieds menus. Pour ceux qui douteraient de l'admiration que l'on se doit de porter à ces odalisques des Carpates, Morand cite encore une fois le prince de Ligne : « Des femmes charmantes (...) une jupe extrêmement légère, courte et serrée masque leurs charmants contours, et une gaze en manière de poche dessine et porte à merveille les deux jolies pommes du jardin de l'Amour.».

 

Ces lignes prennent toute leur signification si l'on sait que Morand qui aimait à dire « Je n'aime pas qu'on me mette la main dessus, que ce soit un homme ou une femme » (cité par Ginette Guitard-Auviste dans la Nouvelle Revue de Paris n°13), ne succomba que pour la main de la princesse Soutzo, ex-épouse d'un hospodar roumain. A ce grand sceptique du couple ( « Je pensais comme le disait souvent Marie Laurencin qu'un et un ne font pas deux, mais trois, et que trois ce n'est pas une bonne compagnie »), Hélène Soutzo s'offrira comme si indispensable qu'il ne saura lui survivre plus de dix-sept mois. Il est sans doute souhaitable pour tous les imitateurs de l'auteur de l'Europe galante en son périple roumain de tomber à leur tour dans les rets de fatales filles de Bucarest, (« Hélène était la seule femme que je puisse épouser : auprès d'elle je ne m'ennuie jamais »). A défaut, le voyageur des années quatre-vingt dix à qui plus d'un visage souri en autant de possibles aventures garde à son tour, une fois l'éloignement consommé, le parfum d'une ville sensuelle, avec en tête cette ritournelle de Le Cler, promeneur de 1860, et qui résume le labeur essentiel de la cité : « A Bucarest on fait l'amour, ou bien on en parle ». Cette évocation légère de l'infinie séduction des belles descendantes des tribus Thraces révèle peut-être finalement la véritable nature de l'âme roumaine. La Roumanie est une nation femelle et cela explique sans doute qu'au printemps des peuples, elle ait vécue son étrange révolution comme une Commedia dell Arte. Faux procès de vrais dictateurs, complots étranges et génocides de pacotilles prennent un tour nouveau à l'aune de la féminité analysée par Morand : « Les femmes (...) rebâtissent le monde à mesure que les hommes le détruisent. Les catastrophes, elles les banalisent en révolutions, les révolutions en fêtes foraines et, notre goût du meurtre, elles en font de l'amour (Le dernier dîner de Cazotte, Nouvelles des yeux, 1965)». Morand a donc volontairement placé le nœud gordien et l'épilogue de son livre sous le riche signe de la féminité, clé de la Roumanie car source de vie, ce qu'il résume ainsi : « La leçon que nous offre Bucarest n'est pas une leçon d'art mais une leçon de vie (...). Capitale d'une terre tragique où souvent tout finit dans le comique, Bucarest s'est laissé aller aux événements sans cette raideur, partant sans cette fragilité que donne la colère. Voilà pourquoi à travers la courbe sinueuse d'une destinée picaresque, Bucarest est resté gai ». Il est rarement en littérature d'observation que l'histoire aura rendu plus juste puisque aujourd'hui sur les ruines d'une bibliothèque détruite par les combats de l'hiver 1989 se pressent, dans les chaleurs de l'été, des jeunes filles en fleur, minaudant.

 

La Roumanie est ainsi une nation phénix, toujours prête à renaître de ses cendres et il suffirait que le gouvernement d'Iliescu suive dans la tombe la dictature du génie des Carpates pour que revive le Bucarest des années trente qu'a connu Morand. Ce serait là encore la démonstration du phénomène de glaciation qu'a fait subir le communisme aux peuples de l'Est, préservant par delà les miasmes de l'idéologie, leur véritable identité et peut-être également de façon plus malicieuse la preuve du génie littéraire de Paul Morand. En attendant cet hypothétique salut, Bucarest reste l'indispensable et unique (faute de guide officiel) Baedeker de la capitale roumaine. Morand a écrit dans Le Voyageur et l'amour : « l'amour est aussi un voyage », on serait tenté à la lecture de son livre de proclamer que l'inverse est aussi vrai, le voyage est un amour, Monsieur Morand, puisque vous nous faites tant aimer Bucarest.

 

Hugues Rondeau

 

Bucarest, Paul Morand, Plon, 293 pages, 100 francs.

samedi, 06 juin 2009

Elecciones, pero ?para cuàl Europa?

Elecciones, pero ¿para cuál Europa?

Ex: http://labanderaegra.wordpress.com/

Cuando el enemigo concentra sus fuerzas pierde territorio

V.N.Giap

¿La de los banqueros y de la expatriación del sistema productivo? ¿La minimalista reducida a “mercado+moneda” y nada más? ¿La de las elites que han derrumbado el Estado social y ahora sueñan con los Estados Unidos Occidentales? ¿O la de los partidos mediáticos cobijados en las tinieblas del “gran mercado transatlántico”?

En la víspera de las elecciones europeas, los electores no están mostrando interés en un Parlamento de funciones limitadas y confundidas. Dominado por una “comisión” que funge de gobierno autocrático, cuyos inamovibles representantes son designados por los gobiernos. Ningún elector jamás ha elegido a Solana o Barroso, pero es real el riesgo de que sus cargos se conviertan de vitalicios a hereditarios.

Asimismo, el desinterés es reforzado por la tragicómica vicisitud de la Constitución europea, dos veces reprobada en las urnas por los electores, pero el resultado ha sido olímpicamente ignorado. Será aprobada por los diputados nacionales, con triquiñuelas y maniobras muy al oscurito.


La única cosa clara en la Unión Europea (UE), ocupada con las heladas ráfagas de una caída del 5% de la producción, es la indiscutible y total autoridad del Banco Central Europeo: se impone a los parlamentos nacionales, al de Estrasburgo y a todos los electorados. Éste es el verdadero gobierno del bloque europeo, que ha sido reducido a la esencia demacrada de la utopía ultraliberal: mercado y moneda. Nada más.

No tiene una política social, mucho menos una línea internacional coherente porque carece de una visión geopolítica nítida. Sin una defensa autónoma propia, porque eligió la sumisión a los Estados Unidos, cuando reforzó la camisa de fuerza de la OTAN, tras la implosión de la Unión Soviética y la desaparición del Pacto de Varsovia.

La integración europea, desde que pasó de las manos de pocos estadistas de espesor que la fundaron a la de los tecnócratas de las finanzas, se ha reducido a mera aplicación de “5 macrodogmas liberales”, dando un atrevido salto acrobático de 6 a 27 Países. Grandes cantidades, estadísticas, PIB, triunfalismos inmotivados y cero visión estratégica. Justo en el momento en que está decayendo el unipolarismo y, con él, la supremacía “occidental”.

El furor globalista ha impuesto a las economías del Este europeo, integralmente estatalizadas, el pasaje a tapas forzadas a la deregulation, denacionalización, privatización a favor de las multinacionales europeas y norteamericanas. Un electroshock doctrinario del monopolismo estatal al privado, sin preservativos amortiguadores.

Hoy, el área del este es un conejillo de Indias para la reingeniería darwinista del FMI, que se dispone a mandarla en bancarrota irreversible, con el mismo modus operandi que hundió a Brasil, los pequeños y medianos dragones, etc. Ayer el fulmíneo y veleidoso “agrandamiento” hacia el este había merecido los aplausos exaltados de los halcones de Washington.

Envalentonados, brindaban a la “nueva Europa” con el plomo en las alas, rellenada de vasallos con agudas fobias antirusas y deseosos de capitalizar su vocación de “caballos de Troya”. De esta forma, el utopismo de las elites, de la BCE y de Bruselas ha engendrado una entidad sin forma, un meta-Estado con un proceso decisorio contradictorio y paralizante, sobre todo en esta fase de deglobalización tra los cracks de la borrachera ultraliberal.

Europa no cuenta con materias primas y ni siquiera energía. Para el petróleo depende de los Países árabes y para el gas de Rusia; sin embargo, promueve una política exterior antiárabe y agresivamente antirusa. La dependencia energética es un hecho del bloque europeo, así como la necesidad de la cooperación con los rusos para los abastecimientos de gas. ¿Cómo se explica, entonces, la veleidad de incorporar a Ucrania y Georgia en la OTAN? ¿Cómo se justifican las provocativas maniobras de la OTAN en curso en el Cáucaso?

Es una contradicción esquizofrénica entre objetivos e instrumentos para obtenerlos, entre proyección geopolítica e iniciativa militar que –ay de nosotros- no es soberana ni autónoma. La UE es rehén de las fobias antirusas no sólo de polacos y checos, sino también de las microrepúblicas del Báltico. Además, la versión atrevida del atlantismo no ha variado desde la época de los Bush.

Es como si nada hubiera pasado. No han asimilado que el jaque de Estados Unidos en Irak ha conllevado la pérdida definitiva del feudo sudamericano. ¿Qué perderá la UE con la tambaleante aventura atlantista en Afganistán? Con buena probabilidad, el regreso a la cuestión social al centro del debate público y la reactivación de la lucha de clase.

La “Comisión” de Bruselas es inestable y no logra conjugar los intereses concretos de Europa con los de un tambaleante hegemonismo absoluto que Estados Unidos intentan resucitar con la OTAN. Los Estados Unidos Occidentales o “grande mercado transatlántico” son una quimera de pesadilla.

Hay un conflicto de intereses entre el bloque europeo y el anglosajón, reforzado por un anacronista proceso decisorio basado en la rotación semestral. Baste pensar que el actual maniobrero de la UE –el checo Vaclav Klaus- está convencido que el crack financiero se ha generado por demasiadas limitaciones impuestas por los Estados (sic) y por el excesivo interventismo público (sic-sic). Y es un ferviente partidario de la instalación de armamento estratégico de Estados Unidos en la República Checa.

Europa está en un estado de confusión, se complace de las amputaciones realizadas por las elites a su peculiar estado-social, deindustralización acelerada y expatriación del sistema productivo. Las subvenciones estatales al banco y a la bolsa de valores responsable del desastre es la última arrogante respuesta de los “banqueros centrales”.

Atrincherados tras la muralla ideológica de su “autonomía”, ejercen el poder de disponer a su gusto de los erarios y de los recursos de las naciones. Así como la “Comisión”, no han sido elegidos por nadie y se atribuyen el derecho de imponer unilateralmente las terapias para curar las enfermedades que ellos mismos crearon.

Pero curiosamente los Países mejor equipados para enfrentar la inevitable deglobalización son aquellos en los que la “autonomía” de los bancos centrales y de las finanzas no es un dogma. Entre todos, valga el ejemplo de China.

Tito Pulsinelli

Traducido por Clara Ferri, extraído de Rebelión.

"Deutschland wurde nie richtig souverän"

„Deutschland wurde nie richtig souverän“

Staatsrechtler Karl Albrecht Schachtschneider über die internationale Stellung der Bundesrepublik und warum die Parteien und der „Kampf gegen rechts“ gegen das Grundgesetz verstoßen

Ex: http://www.zurzeit.at

Das Grundgesetz ist ein Provisorium, das nun schon seit 60 Jahren besteht. Wie lebt es sich damit?

Karl Albrecht Schachtschneider: Mit dem Grundgesetz würde es sich gut leben lassen, und ich halte es für eine gute Verfassung. Am Anfang waren die Grundprinzipien des Rechts – also Freiheit, Gleichheit, Brüderlichkeit, Demokratie – gut verwirklicht. Aber seit den späten 60er Jahren stimmt unsere Verfassungswirklichkeit zunehmend weniger mit dem Grundgesetz überein, ja man kann sagen, daß das Grundgesetz gegenwärtig eigentlich bedeutungslos geworden ist.

Und was ist der Grund dafür?

Schachtschneider: Der Grund ist natürlich die Integration in die Europäische Union. Denn ein erklärtes Ziel der ganzen europäischen Integration war ja immer die Einbindung Deutschlands, weil die Mächtigen dieser Welt nie bereit waren, Deutschland eigenständig werden zu lassen.

Wirklich souverän ist Deutschland nie geworden, trotz des Deutschlandvertrages 1955 und auch nicht durch den 2+4-Vertrag 1990. Das zeigt sich schon daran, daß Deutschland sich nicht eigenständig militärisch entfalten kann, also z. B. gar nicht in der Lage wäre, sich zu verteidigen, es kann sich nicht so bewaffnen, wie gegebenenfalls Angreifer bewaffnet wären, und ein solches Land ist nicht wirklich eigenständig souverän. Aber die Europäische Integration diente ganz entschieden auch der Einbindung Deutschlands, weil man auch ohne Deutschland schlecht Europa beherrschen kann und ohne Europa schlecht Eurasien und ohne Eurasien schlecht die Welt.

Ohne die Zustimmung der Westmächte gäbe es das Grundgesetz nicht und damit keine Bundesrepublik wie wir sie heute kennen. Ist die Bundesrepublik, provokant formuliert, so ein Projekt der Sieger des Zweiten Weltkrieges?

Schachtschneider: Das ist sie zumindest auch. Aber man darf auch nicht übersehen, daß sehr viele kulturelle Elemente Deutschlands da eingeflossen sind. Der Text wäre höchstwahrscheinlich nicht viel anders gewesen, wenn die Alliierten keinen Einfluß genommen hätten. Die hatten die Besatzungsmacht und die Hoheit, aber die deutschen Parlamentarier, also der Parlamentarische Rat, haben großen Einfluß gehabt und den Alliierten viel abgerungen, insbesondere Carlo Schmid, der wesentliche Aspekte formuliert hat. Daher würde ich sagen, daß nach dem Zusammenbruch des Deutschen Reichs das Grundgesetz eine Fortsetzung der nie in Kraft getretenen Verfassung von 1849 und auch der Weimarer Reichsverfassung ist und in der Kontinuität deutscher Verfassungsgeschichte steht und keine oktroyierte Verfassung ist. Wenn man z. B. die Definition der Freiheit nimmt, dann wird sie mit dem Sittengesetz definiert uns ist nun mal reiner Kantianismus und sehr deutsch. Und der Föderalismus ist amerikanisch, aber auch deutsch und auch österreichisch.

In der Charta der Vereinigten Nationen gibt es noch immer die Feindstaatenklausel. Ist Deutschland eigentlich ein Mitglied zweiter Klasse der internationalen Gemeinschaft?

Schachtschneider: Ja, allemal! Solange die Feindstaatenklausel in der Charta der Vereinten Nationen steht, ist Deutschland kein voll akzeptiertes Mitglied.

Und was sind die Folgen?

Schachtschneider: Die Folgen sind sicherlich die schon angedeutete Politik, daß man eben darauf achtet, daß Deutschland militärisch nicht eigenständig ist, weil Deutschland als Problem empfunden wird. Ich denke, daß im Ernstfall auf Deutschland, falls es die Einbindung in die europäische Integration aufkündigen würde, ein ganz erheblicher Druck, auch von den Vereinigten Staaten ausgeübt werden würde. Und sollte Deutschland bei dieser Politik bleiben, dann bestünde die Gefahr militärischer Maßnahmen. Also ist Deutschland zu dieser Politik gezwungen und kann nicht Mitglied des Sicherheitsrates mit vollem Stimmrecht sein und vieles andere mehr.

Aber dafür darf Deutschland zahlen.

Schachtschneider: Zahlen darf man immer! Das ist ganz klar. Deutschland muß sich immer das Wohlwollen erkaufen und leider ist die deutsche Öffentlichkeit da auch wenig informiert und auch nicht so wirklich interessiert. Das ist durch einen erheblichen Wohlstand ermöglicht worden und ich höre und hörte immer wieder den Satz: „Wenn es uns doch gut geht, wen interessieren die politischen Ereignisse“.

In Österreich wird immer kritisiert, daß die Demokratie von einem Parteienstaat überdeckt und geschwächt wird. Trifft dieser Befund auch auf die Bundesrepublik zu?

Schachtschneider: Uneingeschränkt! Also ich halte den Parteienstaat, so wie wir ihn haben, für eine Fehlentwicklung der Demokratie und eine Verfallserscheinung der Republik im alten aristotelischen Sinne. Wären die Parteien anders strukturiert, nämlich freiheitlich, dann wäre das in Ordnung. Es wird immer Parteien geben, sie aber zu einem Strukturelement des politischen Systems zu machen, wie es von der Gesetzgebung mit Förderung durch das Bundesverfassungsgericht geschehen ist, widerspricht dem Grundgesetz, wonach die Parteien bei der Willensbildung mitwirken. Das Problem ist, daß die Parteien innerlich nicht offen, sondern festgefügt sind. Offene Mitgliedschaften und innere Demokratie sind nicht durchgesetzt worden, und statt dessen wurden – auch vom Bundesverfassungsgericht – Führung, Geschlossenheit und Gefolgschaft zu Strukturprinzipien der Parteien erklärt.

Und damit wären eigentlich die Parteien grundgesetzwidrig …

Schachtschneider: Ich halte es für grundgesetzwidrig. Denn im Grundgesetz steht, die innere Ordnung der Parteien muß demokratischen Grundsätzen entsprechen. Das tun sie aber nicht, denn demokratische Grundsätze bedeuten nicht nur, daß die Funktionäre gewählt werden, sondern zur Demokratie gehört auch, daß demokratische Grundsätze gelebt werden, etwa das Recht der freien Rede. Dieses Recht der freien Rede hat man aber nicht in der Partei, und es gibt auch keinen Rechtsschutz. Die Parteigerichtsbarkeit geht in Deutschland über drei Instanzen und erst danach können Sie mit sehr geringen Rechtsschutzmaßstäben zu ordentlichen Gerichten gehen. Also haben sie praktisch keinen Rechtsschutz in den Parteien den wichtigsten politischen Institutionen.

Im politischen Leben der Bundesrepublik spielt der sogenannte „Kampf gegen Rechts“ eine große Rolle. Inwieweit ist dieser eigentlich mit dem Grundgesetz vereinbar?

Schachtschneider: Überhaupt nicht! Es ist unfaßbar, daß sich das in dieser Formulierung etablieren konnte. Daß extremistische Parteien, wenn sie die verfassungsmäßige Ordnung der Bundesrepublik Deutschland oder die öffentliche Ordnung gefährden, zurückgedrängt werden, steht im Grundgesetz und dafür gibt es ein Verfahren. Aber wie schwer sich das Bundesverfassungsgericht bei Verbotsverfahren tut, zeigte sich bei der NPD. Aus guten Gründen hat das Bundesverfassungsgericht den Verbotsantrag abgelehnt, weil Äußerungen nicht der NPD, sondern dem Verfassungsschutz zugeordnet werden mußten. Und auch die Medien spielen eine unheilvolle Rolle: Anstatt die freie Rede und das freie Wort zu pflegen, gibt es wieder diesen für Deutschland typischen Moralismus – und Moralismus ist genau das Gegenteil von Moral. Also das ist Robespierrescher Tugendterror, natürlich sind die Terrormaßnahmen nicht ganz so schlimm, aber man wird öffentlich ruiniert, und der Druck ist ganz enorm. Ich erfahre es ja selbst, daß einem vorgeschrieben wird, wo man reden darf und wo nicht. Aber ich nehme darauf keine Rücksicht, denn ich habe einfach die innere Einstellung, mir nicht von irgendwelchen Zeitungen vorschreiben zu lassen, mit wem ich reden darf.

 
Das Gespräch führte Bernhard Tomaschitz.

vendredi, 05 juin 2009

!Liberate!

¡Libérate!

jeudi, 04 juin 2009

El desinterés y desconocimiento auguran une altisima abstencion en los comicios europeos en el bloque del Este

El desinterés y desconocimiento auguran una altísima abstención en los comicios europeos en el bloque del Este

Europa central y oriental apenas acudirá a votar en las elecciones europeas del 7 de junio. Al menos, eso vaticinan las encuestas. La grave crisis económica y financiera internacional, que ha colocado a países como Letonia, Hungría y Rumanía al borde de la quiebra, monopoliza la preocupación de unos ciudadanos con poca cultura democrática y escasa información sobre la naturaleza de la UE y sus órganos legislativos, y que se dejan arrastrar con bastante facilidad por la demagogia populista, que tienen adeptos tanto en las filas de la derecha como de la izquierda en países como Polonia, Chequia, Bulgaria, Rumanía o Hungría.

La debilidad de una UE dividida entre países ricos y pobres, fuertes y débiles, desanima también a muchos ciudadanos. Diez de los 27 países que acuden a las elecciones europeas (Lituania, Letonia, Estonia, Eslovenia, Hungría, Polonia, Chequia, Eslovaquia, Rumanía y Bulgaria) pertenecen al antiguo bloque del socialismo real. La mayoría ingresó en la Unión en 2004 y Bucarest y Sofía lo hicieron en 2007. Es la segunda vez que participan en comicios para renovar el Parlamento Europeo. Bulgaria y la República Checa, presidenta semestral de la UE, celebrarán las elecciones el 5 y 6 de junio, respectivamente, y Eslovaquia también el sábado.


Elecciones de segunda

El primer ministro búlgaro, el socialista Serguei Stanishev, fue el encargado de dar el pistoletazo de salida para las europeas el pasado martes en el país más pobre de la UE, donde los electores confían siete veces más en los eurodiputados que en sus parlamentarios nacionales. Pero en general los países del Este consideran las europeas como unas elecciones de segunda división, y la crisis económica juega en contra del 7-J. Los analistas políticos vaticinan por ello una campaña electoral pobre en recursos y aún más escasa en movilización y entusiasmo de la ciudadanía.

Según el Eurobarómetro, Polonia y Rumanía, los dos países del Este con mayor peso político e institucional en la UE -50 y 33 eurodiputados, respectivamente- se colocan entre los estados más europeístas, pero sus poblaciones se sitúan entre los europeos que menos acudirán a votar el 7-J. Se prevé que sólo el 13% de los polacos acudirá a las urnas, En el caso de Hungría, la abstención podría ser del 70% y del 60% en Bulgaria.

Paco Soto

Extraído de Diario Vasco.

Euro-america o Eurasia?

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Archives - 2003

 

 

Euro-america o Eurasia?

 

 

 

Intervento di Fausto Sorini svolto al seminario internazionale PCdoB di Brasilia del 25-26 Settembre 2003, dedicato all'analisi del quadro mondiale (tratto da http://www.resistenze.org)

 

1) Con l’occupazione militare dell’Iraq si è espressa in modo organico una volontà di dominio globale da parte dei settori più aggressivi dell’imperialismo americano. Controllare il Medio Oriente, maggiore riserva petrolifera mondiale, significa condizionare tutte le dinamiche economiche del pianeta, ed in particolare quelle di Unione europea e Cina, che dal petrolio di questa regione sono ancora oggi largamente dipendenti. Non a caso Russia e Cina, nel primo incontro al vertice tra Putin e Hu Jintao, hanno deciso di intensificare la cooperazione in campo energetico.

 

2) Lo scenario è quello di una competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo. Gli Stati Uniti, di fronte alle proprie difficoltà economiche, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove aree economiche, geo-politiche e valutarie che ne minacciano il primato mondiale, scelgono la guerra “permanente” e “preventiva” per tentare di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. E dove si propongono di raggiungere una superiorità schiacciante sul resto del mondo, per cercare di invertire una tendenza crescente al declino del loro primato economico.

Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% del PIB del mondo; oggi sono al 25% (come l’Unione europea). Con le attuali tendenze dell’economia mondiale, i centri studi dei Paesi più industrializzati prevedono un ulteriore dimezzamento della % Usa nei prossimi 20 anni. Sarebbe la fine dell’egemonia mondiale dell’imperialismo americano, l’ascesa di nuovi centri di potere, capitalistici e non, un’autentica rivoluzione negli equilibri planetari. Si sono fatte guerre mondiali per molto meno.

 

3) Unione europea, Russia, Cina, India sono le principali potenze economiche e geo-politiche emergenti dotate anche di forza militare. L’Eurasia è il principale ostacolo al dominio Usa sul mondo. Chi avesse ancora dei dubbi, si rilegga Paul Wolfowitz, ideologo dell’amministrazione Bush : “Gli Stati Uniti devono appoggiarsi sulla loro schiacciante superiorità militare e utilizzarla preventivamente e unilateralmente…Il nostro primo obiettivo è di impedire l’emergere ancora una volta (dopo l’Urss - ndr) di un rivale…Ciò richiede ogni sforzo per impedire ad ogni potenza ostile di dominare una regione il cui controllo potrebbe consegnarle una potenza globale. Tali regioni comprendono l’Europa occidentale, l’Asia orientale (la Cina - ndr), il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia sud-occidentale (l’India - ndr)”. 

 

4) Non si tratta di una linea congiunturale, facilmente reversibile con un cambio di presidenza, ma di un orientamento che viene dal profondo dei settori più aggressivi e oggi dominanti dell’imperialismo americano. Un orientamento strategico che guarda alle grandi sfide del 21° secolo, non una breve parentesi. Vi sono differenze nei gruppi dominanti Usa e nell’opinione pubblica, nella stessa amministrazione Bush. Ma le posizioni meno oltranziste oggi sono minoranza e prevedibilmente lo saranno per molto tempo, fino a quando la linea attuale non andrà incontro a sconfitte economiche o militari (tipo Vietnam).

 

5) Gli Usa aspirano, come ha ben sintetizzato Fidel Castro, ad una “dittatura militare planetaria”. E’ una minaccia “diversa”, ma per certi aspetti più grande di quella rappresentata dal nazi-fascismo nel secolo scorso. Gli Usa dispongono oggi di una superiorità militare sul resto del mondo assai maggiore di quella che Germania, Giappone e Italia avevano all’inizio della seconda guerra mondiale. Nemmeno il Terzo Reich pensava al dominio globale del pianeta, così come esso viene teorizzato da alcuni esponenti dell’amministrazione Bush. Ciò spiega perché la linea della “guerra preventiva” suscita una opposizione tanto vasta, che coinvolge la grande maggioranza dei Paesi del mondo. E’ significativo che gli Usa, con la scelta di fare la guerra all’Iraq, siano rimasti in forte minoranza nell’Assemblea generale dell’Onu e nel Consiglio di Sicurezza, dove non solo hanno avuto l’opposizione dei paesi maggiori (Francia, Germania, Russia, Cina), ma dove non sono riusciti – pur esercitando pressioni fortissime – a “comprare” il voto di paesi come Messico, Cile, Angola, Camerun, da cui non si attendevano tante resistenze. Con la guerra in Iraq gli Usa hanno scontato un isolamento politico senza precedenti. Si calcola che solo il 5% dell’opinione mondiale abbia sostenuto la guerra. Una nuova generazione che, con il crollo dell’Urss e la crisi dell’ideale comunista, era cresciuta in tanta parte del mondo col mito del modello americano, oggi comincia ad aprire gli occhi e a maturare una coscienza critica potenzialmente antimperialista, come non si vedeva dai tempi del Vietnam. E’ un grande patrimonio, che peserà nel futuro del mondo.

 

6) La spinta verso un mondo multipolare è inarrestabile, anche se essa procederà con gradualità, perché nessuno oggi ha la volontà e la forza di sfidare apertamente gli Usa. Cresce in ogni continente la tendenza alla formazione di “poli regionali”, volti a rafforzare la cooperazione economica, politica, militare dei paesi dell’area per essere presenti sulla scena mondiale con maggiore potere contrattuale. Tutti ritengono di avere bisogno di tempo per rafforzarsi. Questo può spiegare la prudenza della Cina (e per altri versi della Russia) nei rapporti con gli Usa: vogliono rinviare ad altri tempi una possibile frattura, che in particolare la Cina mette nel conto. Mentre Francia e Germania, con diversa collocazione, non considerano matura la fine del legame transatlantico. Tali disponibilità al compromesso si sono espresse nel voto unanime (con la non partecipazione della Siria) a favore della risoluzione 1483 (22 maggio 2003) del CdS dell’Onu, che in qualche misura legittima a posteriori l’occupazione militare dell’Iraq e “riconosce” i vincitori. La questione si ripropone nella trattativa in corso in questi giorni, in cui si tratta di definire natura, ruolo e comando di un eventuale coinvolgimento dell’Onu in un Iraq tutt’altro che normalizzato, dove gli Usa sono impantanati, costretti a spendere cifre astronomiche, militarmente sotto il tiro di una resistenza irakena che si rivela più tenace e radicata del previsto. Le maggiori potenze che pure si sono opposte alla guerra, nella logica della più classica realpolitik - puntano anche a non farsi escludere da ogni influenza sul nuovo Iraq e dai giganteschi interessi legati alla ricostruzione del paese; e a tutelare i propri interessi in campo, dalle concessioni petrolifere al recupero dei debiti contratti dal vecchio regime di Saddam Hussein. Cercano di costringere gli Usa, oggi in difficoltà, ad accettare quei vincoli Onu ai quali nei mesi scorsi si erano sottratti. Il rischio è quello di contribuire a sostenere e legittimare l’occupazione militare e il comando degli Usa in Iraq, offrendo loro un salvagente senza significative correzioni della loro politica aggressiva. Vedremo su quali basi avverrà il compromesso.

 

7) Questa guerra ha fatto nascere un forte movimento popolare, che ha coinvolto centinaia di milioni di persone, in ogni continente. Il 15 febbraio 2003 più di cento milioni di persone hanno manifestato contemporaneamente in ogni parte del mondo. Era dalla fine degli anni ’40, dai tempi del Movimento dei partigiani della pace, che non si vedeva una mobilitazione così estesa a tutte le latitudini. Si tratta di una delle novità più importanti del quadro internazionale dopo il 1989. Anche se tale movimento non ha avuto la forza per fermare la guerra e oggi vive una fase di delusione e di riflusso, si sono poste importanti premesse per le lotte future e per la ricostruzione di un movimento mondiale contro la logica imperialista della guerra, che non si fermerà. Vi è qui un terreno fondamentale di lavoro per i comunisti e le forze rivoluzionarie di ogni parte del mondo. Purtroppo mancano forme anche minime di coordinamento internazionale di tale lavoro; e questo limite, che dura ormai da molti anni, non vede ancora in campo ipotesi di soluzione ed iniziative adeguate da parte dei maggiori partiti comunisti che avrebbero la forza e la credibilità per prenderle. Ciò rende tutto più difficile, ed espone il movimento contro la guerra, soprattutto in alcune regioni del mondo, all’influenza prevalente delle socialdemocrazie, delle Chiese o di alcuni raggruppamenti trotzkisti (come è stato finora, in buona misura, nel movimento di Porto Alegre). L’appuntamento del prossimo Forum Sociale Mondiale in India, potrebbe vedere in proposito alcune novità, ed un suo ampliamento unitario: in senso geo-politico, con il coinvolgimento dell’Asia, oltre l’asse originario imperniato su Europa occidentale, Stati Uniti e America Latina (poi si dovrà guardare all’Africa, all’Europa dell’Est, alla Russia); e in senso politico, con l’auspicabile superamento di una persistente pregiudiziale antipartitica, che si è finora risolta in sorda ostilità soprattutto nei confronti dei partiti comunisti. Se sarà così, il movimento non potrà che trarne vantaggio, consolidamento e maggiori legami coi movimenti operai dei rispettivi paesi, con generale beneficio del movimento mondiale contro la guerra e la crescita in esso di una più matura coscienza antimperialista.

 

8) L’opposizione alla “guerra preventiva” viene non solo dalle tradizionali forze di pace, ma anche da parte di potenze imperialiste come Francia e Germania, che fanno parte del nuovo ordine mondiale dominante. Potenze non “pacifiste”, come si è visto in Africa (ad es. in Congo, dove la competizione interimperialistica tra Francia e Stati Uniti, per il controllo delle immense risorse minerarie della regione è costata la vita in pochi anni a 4 milioni di persone…); o nella guerra della Nato contro la Jugoslavia, che ha visto Francia e Germania pienamente coinvolte. Questi paesi sono gli assi portanti dell’Unione europea, un progetto autonomo di costruzione di un polo imperialista (con la sua moneta : l’ euro) che vuole giocare le sue carte nella competizione globale. E che in prospettiva punta a dotarsi di una forza militare autonoma dagli Usa. Questi paesi non accettano di sottomettersi al dominio Usa, ma procedono con prudenza in questo processo di autonomizzazione : non hanno oggi la forza di sfidare apertamente gli Usa, non hanno un sufficiente consenso degli altri Paesi dell’Unione europea per mettere apertamente in discussione l’equilibrio “transatlantico”.

 

9) Le contraddizioni che oppongono la grande maggioranza dei Paesi del mondo al progetto militarista e unipolare Usa, sono di natura diversa: -vi sono contrasti tra imperialismo e Paesi in via di sviluppo, che aspirano alla pace e a un ordine mondiale più giusto nella ripartizione delle ricchezze del pianeta; - vi sono contrasti tra imperialismi, per la ripartizione delle risorse mondiali e delle rispettive sfere di influenza; - vi sono contrasti tra imperialismo e paesi di orientamento progressista (Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Brasile, Libia, Siria, Palestina, Sudafrica, Bielorussia, Moldavia…) che in vario modo aspirano ad un modello di società diverso dal capitalismo dominante. Si evidenzia qui in particolare il contrasto con la Cina, grande potenza socialista (economica e nucleare), diretta dal più grande partito comunista al mondo, che sta emergendo come la grande antagonista degli Usa nel 21° secolo. Questo dichiarano apertamente vari esponenti Usa, che valutano che nei prossimi 20 anni, con gli attuali tassi di sviluppo, il PIB della Cina potrebbe eguagliare quello degli Usa, il divario di potenza militare potrebbe ridursi, e quindi “bisogna pensarci prima che sia tardi”, se non si vuole che la Cina divenga per gli Stati Uniti, nel 21° secolo, quello che l’Urss è stata nel secolo scorso; - vi sono contrasti con grandi paesi come la Russia e l’India (potenze nucleari), che pur non avendo oggi una coerente collocazione progressista in campo internazionale, non fanno parte del sistema imperialistico dominante, e hanno interessi nazionali e una collocazione geo-politica che contraddicono le aspirazioni egemoniche degli Usa. La Casa Bianca, nel suo documento sulla Sicurezza nazionale del settembre 2002, li definisce paesi dalla “transizione incerta”, che potrebbero evolvere verso una crescente omologazione agli interessi Usa e al suo modello sociale e politico (distruzione di ogni statalismo in campo economico, democrazia liberale in campo politico-istituzionale, rinuncia al potenziamento del proprio potenziale militare e nucleare e ad ogni “non allineamento” in politica estera…); ma che potrebbero evolvere in senso opposto e quindi rappresentare una “minaccia” per l’egemonia Usa e per l’attuale ordine mondiale dominante.

 

10) Vi è una spinta, nei vari continenti, alla formazione di entità regionali più autonome dagli Usa e con un proprio protagonismo sulla scena mondiale: -in Europa, con l’Ue e il rapporto Ue-Russia; -nell’area ex-sovietica, con la Csi; -in America Latina, con il Mercosur e la convergenza progressista di Brasile, Cuba, Venezuela…; -in Africa, con l’Unione africana e il Coordinamento per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi dell’Africa australe (SADC), imperniato sul nuovo Sudafrica e sui governi progressisti della regione (Angola, Mozambico, Namibia, Zimbabwe, Congo, Tanzania…); -in Asia, con lo sviluppo del rapporto Cina-Asean/Cina-Vietnam. Nel 2010 i dieci paesi dell’Asean e la Cina formeranno il più grande mercato comune del pianeta; con le spinte verso una riunificazione della Corea su basi di neutralità, denuclearizzazione e allontanamento di tutte le basi militari straniere; con il rafforzamento del ruolo del “Gruppo di Shangai” (Russia, Cina, Kazachistan, Kirghisia, Uzbekistan, Tagikistan) : imperniato sull’asse russo-cinese, con la recente significativa richiesta di Putin all’India di entrare a farne parte. Il processo di avvicinamento tra Cina e India pesa enormemente sugli equilibri mondiali.

 

11) Gli Usa osteggiano il formarsi di questi “poli regionali” e cercano di favorirne la “disaggregazione”, oppure di sostenere all’interno di essi l’egemonia delle forze che sono sotto la loro influenza. Ne derivano contrasti di natura diversa nei principali organismi internazionali (Onu, FMI, G7, Wto, Unione Europea, nella stessa Nato). Ultimo in ordine di tempo il fallimento del vertice WTO a Cancun, dove è emerso uno schieramento “Sud-Sud”, imperniato su Cina, India, Brasile, Sudafrica (e con la significativa presenza di paesi come Cuba e Venezuela) che si è fatto interprete degli interessi dei Paesi in via di sviluppo, contro le pretese egemoniche dei maggiori centri dell’imperialismo. Le contraddizioni tendono continuamente a ripresentarsi : basti pensare alle tensioni e alle minacce che investono Iran, Siria, Arabia Saudita, crisi palestinese, Corea del Nord, Venezuela, Cuba; ad una situazione interna all’Iraq non normalizzata; alla permanente competizione economica e valutaria Usa-Ue / dollaro-euro... Ma c’è diversità di interessi in campo, di progetti politici e di modello sociale, anche tra le forze che si oppongono all’unilateralismo Usa. Ad esempio : la Cina, il Vietnam, Cuba, il Venezuela…non hanno la stessa collocazione strategica, della Germania di Schroeder o della Francia di Chirac, che invece difendono un certo modello economico e un ordine mondiale fondato sul predominio delle grandi potenze capitalistiche. Emblematica la vicenda di Cuba che è sostenuta dai Paesi socialisti e progressisti, ma osteggiata dall’Unione europea che si è vergognosamente avvicinata agli Usa nel rilancio di una campagna ostile. La lotta di classe non è scomparsa, così come non scomparve negli anni ’40 quando forze tra loro assai diverse per riferimenti sociali e politici trovarono una comune convergenza contro il nazi-fascismo, per poi tornare a dividersi negli anni della guerra fredda, perché portatori di interessi e di modelli di società tra loro alternativi.

 

12) Il fatto che l’opposizione alla guerra di grandi paesi come Russia, Cina, Francia, Germania non abbia superato una certa soglia di asprezza (oltre la quale il contrasto tende a spostarsi sul terreno dello scontro aperto, anche militare); il fatto che momenti di forti divergenze si alternino a situazioni in cui prevale la ricerca di una mediazione e di un compromesso, sorge non già – come sostengono le teorie di Toni Negri sul nuovo impero - dall’esistenza di interesse omogenei di un presunto “capitale globale” e di un presunto “direttorio mondiale” in cui esso troverebbe espressione politica organica e unitaria, ma da rapporti di forza internazionali che, sul piano militare, non consentono oggi a nessun paese o gruppo di paesi di portare una sfida aperta, oltre certi limiti, alla superpotenza Usa.

 

13) Come ricostruire internazionalmente un contrappeso capace di condizionare la politica estera degli Stati Uniti? Questo è il problema n°1 per tutte le forze che non vogliono una nuova tirannia globale. E’ necessaria la convergenza di più forze, tra loro assai diverse: -innanzitutto la resistenza del popolo irakeno e delle forze che in Medio Oriente la sostengono (Siria, Iran, resistenza palestinese…) per mantenere aperto il “fronte interno”, contro l’occupazione militare, e scoraggiare nuove avventure. E’ necessario un sostegno internazionale a questa resistenza, oggi pressochè inesistente al di fuori del mondo arabo; sostegno non separabile da quello alla causa palestinese, in grave difficoltà dentro una dinamica politico-diplomatica sempre più condizionata dagli Usa, che con Israele vogliono il controllo pieno del Medio Oriente; -la ripresa del movimento per la pace negli Usa e su scala mondiale, riorganizzando le sue componenti più dinamiche e determinate, per impedirne la dispersione e il riflusso; -il consolidamento delle più larghe convergenze politico-diplomatiche tra Stati, contro l’unilateralismo Usa, senza di che è impensabile una ripresa di ruolo dell’Onu (obiettivo che non va abbandonato, in assenza di alternative più avanzate che oggi non esistono). Si impone un maggior ruolo dell’Assemblea generale rispetto al Consiglio di Sicurezza e una composizione più rappresentativa del Consiglio stesso; -lo sviluppo, negli Stati Uniti, di una opposizione alla politica di Bush e in Gran Bretagna a quella di Blair, oggi entrambi in crisi di consenso. La difesa intransigente del diritto di Cuba, della Siria, dell’Iran, della Corea del Nord e di ogni altro paese minacciato a proteggere la propria sovranità da ogni ingerenza esterna, è parte integrante della lotta contro il sistema di guerra, indipendentemente dal giudizio che ognuno può avere sulla situazione interna di questo o quel paese.

 

14) Come evolverà l’Europa? Sono emerse divisioni non facilmente superabili tra Usa e Unione europea, all’interno dell’Unione europea e della Nato (cioè tra alleati del tradizionale blocco atlantico), come mai era accaduto nel dopoguerra. Nell’Unione europea (e nella Nato) continuerà il contrasto tra filo-americani e sostenitori di un’Europa più autonoma dagli Usa, imperniata sul rapporto preferenziale tra Francia - Germania - Russia. Anche per questo gli Usa vorrebbero l’ingresso nell’Ue di Turchia e Israele, loro alleati di fiducia (soprattutto Israele, perché anche in Turchia, come si è visto in relazione al conflitto irakeno, sta emergendo una dialettica nuova). Una sconfitta elettorale (possibile) dei governi di centro-destra in Italia e in Spagna, favorirebbe una collocazione europea più autonoma.

 

15) E’ vero che gli Usa sono oggi orientati ad agire anche militarmente in modo unilaterale, senza farsi condizionare né dall’Onu nè dalla Nato, ma essi non rinunceranno alla Nato, che continua ad essere per loro uno strumento prezioso per controllare l’Europa e le strutture politico-militari, di sicurezza, di intelligence, nonché l’industria e la tecnologia militare dei Paesi europei integrati nell’Alleanza. E per disporre di basi militari sul continente, poste sotto il loro controllo, magari spostandole o creandone di nuove nei paesi europei più fedeli e sottomessi, come alcuni paesi dell’Est. Gli Usa dispongono di una presenza militare in 140 Stati su 189 (con altri 36 vi sono accordi di cooperazione militare), con 800 basi militari e 200.000 soldati dislocati all’estero in permanenza (esclusi quelli presenti in Iraq). Ciò rende attualissima e non rituale la ripresa di una iniziativa del movimento per la pace per la chiusura delle basi militari Usa nei rispettivi Paesi. Per il ritiro di tutti i militari impegnati all’estero a supporto di azioni di guerra e di occupazione militare. Per attivare iniziative e dinamiche di disarmo in campo internazionale.

 

16) Un intellettuale britannico vicino a Tony Blair, ha scritto dopo la guerra in Iraq che in Europa il bivio è “tra euroasiatici, che vogliono creare un’alternativa agli Usa (lungo l’asse Parigi – Berlino – Mosca – Delhi – Pechino) ed euroatlantici, che vogliono mantenere un rapporto privilegiato con gli Usa”. Tony Blair ha espresso con chiarezza la sua linea euroatlantica in una intervista al Financial Times (28.05.2003), affermando: “Alcuni auspicano un mondo multipolare con diversi centri di potere che si trasformerebbero presto in poteri rivali. Altri pensano, e io sono tra questi, che abbiamo bisogno di una potenza unipolare fondata sulla partnership strategica tra Europa e America”. Dunque: “Euro-america” o “Eurasia”?

 

17) Chi vuole un’ Europa davvero autonoma dagli Usa e dal suo modello di società, deve avere un progetto alternativo, che vada oltre l’attuale Unione europea e le basi su cui essa è venuta formandosi e che comprenda tutti i paesi del continente (anche Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia…). Un progetto che: -sul piano economico, contrasti la linea delle privatizzazioni e prospetti la formazione di poli pubblici sovranazionali (interessante la proposta, in altro contesto, che il presidente venezuelano Hugo Chavez ha sottoposto a Lula, per la formazione di un polo pubblico continentale per la gestione delle risorse energetiche, collegato ad una banca pubblica regionale che serva a finanziare progetti di sviluppo e con finalità sociali); -sul piano politico-istituzionale, contrasti ipotesi federaliste volte a svuotare la sovranità dei Parlamenti nazionali e sostenga un’ipotesi di Europa fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani, non subalterna ai poteri forti delle maggiori potenze imperialistiche che dominano l’attuale Unione europea; -sul piano militare, preveda un sistema di sicurezza e di difesa pan-europeo, alternativo alla Nato, comprensivo della Russia (una sorta di Onu europea), che già oggi – considerando il potenziale nucleare di Francia e Russia – disporrebbe di una forza difensiva sufficiente a dissuadere chiunque da un’aggressione militare all’Europa. Dunque, un progetto opposto a quello di un riarmo dell’Unione europea, di una sua militarizzazione e vocazione imperialistica, volte a rincorrere gli Usa sul loro terreno. E’ vero che oggi l’imperialismo franco-tedesco è assai meno pericoloso per la pace mondiale di quello americano e può fungere a volte da contrappeso. Ma guai a trarne una linea di incoraggiamento al riarmo dell’Ue: i movimenti operai e i popoli europei, e qualsivoglia progetto di Europa sociale e democratica, verrebbe colpiti al cuore da una politica di militarizzazione del continente su basi neo-imperialistiche. Essa stimolerebbe la corsa al riarmo a livello internazionale, e il costo di una crescita esponenziale delle spese militari, in un’Europa neo-liberale dove già oggi vengono colpite duramente le spese sociali, distruggerebbe quel poco che rimane dell’Europa del Welfare.

 

18) L’Unione europea non può fare da sola. Se vuole reggere il confronto con gli Usa ed uscire dalla subalternità atlantica, deve essere aperta ad accordi di cooperazione e di sicurezza con la Russia (che è parte dell’Europa), con la Cina, l’India; e con le forze più avanzate e non allineate che si muovono in Africa, in Medio Oriente, in America Latina. Solo una rete di unioni regionali, non subalterne agli Usa (di cui l’Europa sia parte) può modificare i rapporti di forza globali e condizionare la politica Usa. Gli Usa non possono fare la guerra a tutto il mondo.

 

19) In paesi come Russia, Cina, India – potenze nucleari in cui vive la metà della popolazione del pianeta, che potrebbero esprimere tra 20 anni un terzo della ricchezza mondiale (e che la stessa amministrazione Bush definisce “paesi dalla transizione incerta”) – le forze comuniste, di sinistra, antimperialiste, non subalterne al modello neo-liberista e agli Usa, costituiscono già oggi una forza maggioritaria (in Cina) o che potrebbe diventarlo (Russia, India) nell’arco di un decennio.

Un’alleanza elettorale in India tra Congresso e Fronte delle sinistre (animato dai comunisti) potrebbe vincere le prossime elezioni (previste per il 2005), su un programma che recuperi le istanze progressive del non-allineamento. Un’avanzata dei comunisti e dei loro alleati alle prossime elezioni politiche in Russia può creare le condizioni per un compromesso con Putin (con una parte almeno delle forze che sostengono Putin) e collocare la Russia su posizioni più avanzate. Sono possibilità, non certezze. Per questo parlo di un processo che potrebbe maturare “nell'arco di un decennio”. Ma che dispone delle potenzialità per affermarsi e su cui forze importanti in questi Paesi stanno lavorando.

 

20) Come ha sintetizzato Samir Amin, “un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico”. Un’ Eurasianon allineata può rappresentare un interlocutore fondamentale anche per le forze progressiste in America Latina e in Africa. Non sarebbe il socialismo mondiale, ma certamente un avanzamento strategico nella direzione giusta. E con il clima politico che caratterizza il mondo di oggi, non sarebbe poco.

 

 

 

mercredi, 03 juin 2009

Bürokratischer Wahnsinn

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Bürokratischer Wahnsinn

Acht Milliarden Euro gibt die EU allein für die Verwaltung aus

Von Andreas Mölzer

Sondersituationen wie die gegenwärtige Wirtschaftskrise erfordern Sondermaßnahmen. Alle Ausgabenposten sind auf ihre Zweckmäßigkeit hin zu überprüfen, und gegebenenfalls ist der Rotstift anzusetzen. Dabei ist das Einsparungspotential im Bereich der Beitragszahlungen Österreichs an die Europäische Union besonders groß, weshalb die Republik dringend Maßnahmen ergreifen muß, um nationale Steuerungsmaßnahmen ergreifen zu können anstatt abhängig vom Brüsseler Diktat Gelder verteilt zu bekommen. Natürlich hat Österreich als eine der reicheren Volkswirtschaften Europas einen Beitrag zur EU zu leisten – aber nicht in der Höhe und nicht in dieser Form.

In den vergangenen Jahren belief sich der österreichische Nettobeitrag auf rund 600 bis 700 Millionen Euro. Der geschätzte Nettobeitrag unseres Landes wird in der EU-Haushaltsperiode 2007 bis 2013 übrigens 6,02 Milliarden Euro betragen, was in alter Währung 83 Milliarden Schilling sind. Angesichts der gewaltigen wirtschaftlichen und finanziellen Herausforderungen, vor denen Österreich steht, wäre es mehr als sinnvoll, den heimischen Nettobeitrag auf 300 Millionen Euro zu reduzieren. Überhaupt sollte die Wirtschaftskrise – nicht nur von Österreich, sondern auch von den übrigen Mitgliedstaaten – zum Anlaß genommen werden, Zuständigkeiten und und Höhe des Haushalts der Europäischen Union auf ihre Sinnhaftigkeit hin zu überprüfen. Schließlich hat sich die EU in den vergangenen Jahrzehnten zu einem bürokratischen Monster entwickelt, das Unsummen an Steuergeldern verschlingt. So belaufen sich etwa die Verwaltungskosten auf acht Milliarden Euro, was kein Wunder ist, wenn man bedenkt, daß 40.000 Beamte im Sold Brüssels stehen. Und mit der Gier nach immer mehr Kompetenzen ist ein undurchdringlicher Dschungel an Vorschriften entstanden: Insgesamt sind es fast 130.000 Richtlinien, und das Amtsblatt der EU umfaßt 800.000 Seiten. Keine Überraschung ist, daß dieser bürokratische Wahnsinn Mißbräuchen Tür und Tor öffnet. Allein im Vorjahr entstand durch mehr als 12.000 gemeldete Unregelmäßigkeiten ein Schaden in der Höhe von 1,2 Milliarden Euro.

Die einzige Möglichkeit, um diesen Mißstand abzustellen, besteht in weitreichenden Renationalisierungen. Denn je mehr Kompetenzen die Nationalstaaten haben und je näher die Entscheidungen beim Bürger getroffen werden, desto eher werden Sparsamkeit und Zweckmäßigkeit Einzug halten.

A propos des accords Reagan/Gorbatchev

 

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SYNERGIES EUROPÉENNES - Juin 1988

 

 

 

A propos des accords Reagan-Gorbatchev

 

 

par Jean-Rémy Vanderlooven

 

 

La récente signature, en décembre dernier, du traité américano-soviétique portant sur une réduction des euro-missiles a fait couler beaucoup d'encre. La ren-contre à Moscou de Reagan et de Gorbatchev prouve en tout cas que cet accord est durable. Enfin un évé-nement médiatique qui ne soit sucité ni par une catastrophe ni par un scandale?

 

 

Bien que le traité, désormais ratifié par le Congrès américain, ne concerne que 3 à 7% de la puissance de feu nucléaire des deux super-puissances, réactions et com-mentaires ont fusés en tous sens.

 

Certains en ont déduit, hâtivement sans doute, que Reagan et Gorbatchev s'étaient soudain convertis au pacifisme angélique, d'autres y ont trouvé une preu-ve supplémentaire du machiavélisme soviétique, et quelques-uns, enfin, sont partis en quête d'un para-pluie, pas trop troué, sous lequel se réfugier frileu-sement. Toutes ces gesticulations révèlent un double manque considérable: la lucidité et la dignité.

 

 

En fait, la signature de ce traité trouve sa véritable im-portance historique, en tant que signe d'une dou-ble modification d'analyse et de stratégie dans le chef des deux grands et "subsidiairement" du statut de l'Europe de l'Ouest.

 

 

USA

 

 

Depuis quelques années, la stratégie mondiale des E-tats-Unis se réoriente en fonction de deux éléments re-lativement neufs. D'une part, une résurgence de la tentation isolationniste. Celle-ci est illustrée, au plan économique, par les différentes "guerres" euro-amé-ricaines (aciers, pâtes, etc.), ou encore, par la dégringolade —voulue— du dollar sur toutes les pla-ces financières, ce qui a pour double effet de faire fi-nancer la démagogie reaganienne par le reste du mon--de et d'élever des barrières autour du marché in-térieur américain. Parallèlement, au plan militaire, l'IDS ne sanctuarise que le territoire américain.

 

 

D'autre part, la source de la vitalité américaine glisse de la côte Est vers la côte Ouest, recentrage motivé par le transfert du centre de gravité économique de l'At-lantique-Nord au Pacifique. Cette double con-train-te, à laquelle s'ajoute au relatif manque de "fia-bi-lité" des alliés de l'OTAN, conduit, dans la pensée stratégique américaine, à une marginalisation toujours plus marquée de l'Europe de l'Ouest. Un désengagement progressif des Américains en Europe est donc de plus en plus probable.

 

 

URSS

 

 

En ce qui concerne l'URSS, il serait temps d'aban-donner nos phantasmes concernant une quelconque volonté de démocratisation de type "occidentalo-libéral". La nouvelle direction du pays a relevé un dé-fi d'une toute autre nature: la modernisation d'un sys-tème économique obsolète, condition de survie de l'empire. Cette exigence détermine le choix de nou-velles priorités: la société civile et l'infrastructure économique/technologique prennent, momentané-ment (?), le pas sur la logique d'un impérialisme pu-rement militaire et sur son corrolaire, la course aux armements.

 

Cette réorientation fondamentale devra permettre à la fois le transfert de ressources financières et humai-nes à l'intérieur de l'URSS et, via une amélioration du "look" diplomatique, une meilleure collaboration avec le reste du monde. Si tout ceci peut se traduire par une moindre militarisation de la société sovié-ti-que, par une relative décentralisation du pouvoir et par un assouplissement des normes de commu-nica-tion et d'information, l'Union Soviétique restera mal-gré tout fort éloignée d'un quelconque "plura-lis-me".

 

 

Les indices de ce changement de stratégie ne man-quent pas; l'URSS s'est longtemps montrée très ac-ti-ve dans le monde par ses interventions militaires, sou-vent massives. Dans les pays d'Europe centrale, à Cuba, au Vietnam, en Angola, en Ethiopie, en Af-gha-nistan (ces entreprises ont d'ailleurs eu pour effet d'atténuer le complexe d'"assiégés" des dirigeants so-viétiques).

 

Or, plus récemment, un relatif désengagement est per-ceptible, illustré, par exemple, par une aide plus dis-crète au Nicaragua, par la non-intervention directe en Pologne, par les velléités de retrait d'Afghanistan ou encore par le traité sur les euromissiles.

 

 

Tout cela rend l'étouffement complet des satellites eu-ropéens moins impératif et diminue l'acuité de l'af-frontement avec les nations ouest-européennes.

 

 

Europe de l'Ouest

 

 

Les Européens de l'Ouest ne peuvent nullement es-pé-rer imposer une stratégie propre et volontariste dans le cadre de ces bouleversements.

 

 

En effet, du fait des conséquences de ses guerres ci-viles et des erreurs historiques qui ont jalonné les po-litiques de colonisation puis de décolonisation, l'Europe a dû renoncer à son rôle de leader mondial. Cependant, les atouts qu'elle conserve, doivent lui permettre de développer une tactique "opportuniste" en fonction du relatif espace d'autonomie qui s'offre à elle.

 

 

Cette tactique devrait s'articuler sur trois options fon-damentales: 1) le neutralisme (non-alignement idéo-logique par rapport aux deux super-puissances; ce que les Allemands nomment plus justement la Blockfreiheit);  2) le recentrage et 3) la redécouverte de ces axes naturels de collaboration internationale.

 

 

Neutralisme

 

 

"Plutôt rouge que mort?". Certainement pas: une tel-le attitude n'est qu'une façon, parmi d'autres, de sa-crifier, une fois de plus, l'essentiel: la dignité. En fait, le nouveau neutralisme dont ont besoin le centre et l'ouest de notre continent est la première condition de son indépendance: il s'agit de s'affranchir de la tu-telle exercée par les deux grands, tutelle qui n'apporte qu'une protection illusoire au prix d'une vassalisation bien réelle. Dans cette optique, tant l'iso-la-tionnisme américain que l'attitude nouvelle des Soviétiques à l'égard du glacis est-européen sont des opportunités qui ne peuvent être négligées.

 

 

Recentrage

 

 

Au-delà de cette neutralité réinventée, l'espace euro-péen ainsi créé ne pourra définir son identité et affir-mer sa vocation internationale qu'en faisant appel à un système de références et de projets se rapportant à lui-même.

 

 

Potentiels culturels et traditions politiques purement européens sont, en effet, appelés à former la base d'une vision prospective de notre devenir, par la mi-se en avant de la communauté de destin de nos peu-ples. Nous voilà bien éloigné du "grand marché" pu-rement mercantile et ouvert à tous vents que nous proposent nos technocrates...

 

 

Axes d'ouverture

 

 

Contrairement aux dires des farfelus du mondialisme militant, l'avenir international de l'Europe ne passe pas par Séoul ou Lima, lieux pour nous excentri-ques, appartenant à l'espace sud- ou nord-pacifique.

 

 

Notre histoire indique à suffisance les solidarités (et les interdépendances) naturelles qui devraient être ré-ac-tualisées: l'axe est-ouest d'une part, l'axe nord-sud d'autre part.

 

Les conditions d'émergence du premier axe ont été dé-veloppées dans le points précédent. En ce qui con-cerne le deuxième axe  —l'Afrique—  sa réalité est clairement inscrite dans les faits. Nombre de nos pro-blèmes parmi les plus concrets, comme l'immi-gration ou l'approvisionnement en énergie, par exemple, ne pourront être résolus que sur base d'un dialogue trans-méditerranéen.

 

 

Défis

 

 

Il s'agit donc, pour l'Europe, de relever un défi: re-constituer une identité européenne propre qu'il fau-dra concrétiser dans un espace autonome et inscrire dans une alternative internationale dynamique.

 

Au boulot,...

 

 

Jean-Rémy VANDERLOOVEN.

 

 

mardi, 02 juin 2009

UE: toujours plus loin de la démocratie

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Union Européenne : toujours plus loin de la démocratie...

Lundi, 25 Mai 2009 - http://unitepopulaire.org/ 

« La campagne pour le scrutin parlementaire qui se tiendra du 4 au 7 juin est lancée. La menace de l’abstention est forte, tant l’Union est accusée d’être une machine bureaucratique Rien de tel que des perspectives floues pour saboter une élection cruciale. A travers les vingt-sept pays de l’Union européenne, la campagne pour l’élection au Parlement européen lancée dimanche risque de ressembler à une opération massive de déminage.

Trois cent septante-cinq millions d’électeurs sont convoqués, du 4 au 7 juin, pour élire les 736 eurodéputés qui les représenteront pendant cinq ans à Strasbourg et Bruxelles. Or, tandis que les sondages prédisent déjà une abstention record – supérieure à 60% – la confusion attendue pour la fin d’année 2009 rend assez impossible la mission des candidats. A une exception près: celle du camp eurosceptique, emmené par le parti Libertas du magnat irlandais Declan Ganley, leader du collectif noniste à l’origine du rejet du Traité de Lisbonne dans son pays lors du référendum du 12 juin 2008. Tout découle, justement, du suspense qui entoure toujours ce fameux texte, successeur de la défunte Constitution européenne enterrée par les non français et néerlandais de mai-juin 2005. […]

La conséquence de ce flou politique est de brouiller encore plus l’image d’une Union déjà accusée d’être une machine bureaucratique éloignée des citoyens. La preuve est faite que le Parlement européen, plus puissant que les parlements nationaux dans les domaines de compétence communautaire, fonctionne sur la base de coalitions gauche-droite et d’alliances nationales éloignées des slogans de campagne. La probabilité est forte que la nomination de la future Commission, qui devra être avalisée par les eurodéputés, soit reculée à la fin 2009 pour tenir compte du référendum irlandais sur le Traité de Lisbonne, ce qui augmentera d’ici là les manœuvres en coulisses entre les Etats membres. »

Le Temps, 18 mai 2009

lundi, 01 juin 2009

L'Eurabie a une capitale: Rotterdam

L'Eurabie a une capitale: Rotterdam

Ex: http://chiesa.espresso.reppublica.it

Ici, des quartiers entiers donnent une impression de Moyen Orient, les femmes circulent voilées, le maire est musulman, les tribunaux et les théâtres appliquent la charia. Un grand reportage dans la ville la plus islamisée d'Europe

par Sandro Magister


 



ROME, le 19 mai 2009 – L’un des résultats les plus incontestables du voyage de Benoît XVI en Terre Sainte est l’amélioration des rapports avec l'islam. Les trois jours passés en Jordanie, puis la visite à la Coupole du Rocher à Jérusalem ont fait passer dans le grand public musulman – pour la première fois aussi largement – l'image d’un pape ami, entouré de leaders musulmans heureux de l’accueillir et de collaborer avec lui pour le bien de la famille humaine.

Mais la distance entre cette image et la réalité crue des faits est également incontestable. Non seulement dans les pays sous domination musulmane, mais aussi là où les disciples de Mahomet sont minoritaires, par exemple en Europe.

En 2002 Bat Ye'or, une chercheuse née en Egypte et de nationalité britannique, spécialiste de l’histoire des minorités chrétiennes et juives – dites "dhimmi" – dans les pays musulmans, a créé le mot "Eurabie" pour définir le destin vers lequel elle voit se diriger l'Europe. Un destin de soumission à l'islam, de "dhimmitude".

Oriana Fallaci a repris le mot "Eurabie" dans ses écrits et lui a donné une résonance mondiale. Le 1er août 2005, Benoît XVI l’a reçue en audience privée, à Castel Gandolfo. Elle refusait le dialogue avec l'islam, lui le voulait et le veut. Mais ils sont tombés d'accord – comme elle l’a raconté ensuite – pour reconnaître "la haine de soi" dont l'Europe fait preuve, son vide spirituel, sa perte d'identité, alors même que le nombre d’immigrés de confession musulmane y augmente.

La Hollande est à cet égard un test extraordinaire. C’est le pays où le libre arbitre individuel est le plus développé – au point que l'euthanasie des enfants y est permise – où l'identité chrétienne s’est le plus effacée, où la présence musulmane devient la plus arrogante.

Le multiculturalisme y est la règle. Mais les contrecoups sont également dramatiques: de l’assassinat du leader politique anti-islamiste Pim Fortuyn à la persécution de la dissidente somalienne Ayaan Hirsi Ali et au meurtre du metteur en scène Theo Van Gogh, condamné à mort pour le film "Submission" qui dénonce les crimes de la théocratie musulmane. Le successeur de Fortuyn, Geert Wilders, vit depuis six ans sous protection policière 24 heures sur 24.

Il y a en Hollande une métropole où cette nouvelle réalité se voit à l’œil nu, plus qu’ailleurs. Où des quartiers entiers sont des morceaux de Moyen-Orient, où se dresse la plus grande mosquée d'Europe, où les tribunaux et les théâtres appliquent des éléments de la loi islamique, la charia, où beaucoup de femmes circulent voilées, où le maire est musulman et fils d’imam.

Cette métropole, c’est Rotterdam, deuxième ville de Hollande pour la population, premier port d'Europe pour le volume des échanges.

Le reportage qui suit, réalisé à Rotterdam et publié par le quotidien italien "il Foglio" le 14 mai 2009, est le deuxième d’une série de sept qui constitue une grande enquête sur la Hollande.

L'auteur, Giulio Meotti, écrit aussi pour le "Wall Street Journal". Il publiera en septembre prochain un livre-enquête sur Israël.

La photo ci-dessus, intitulée "Musulmanes à Rotterdam", a figuré dans une exposition de deux photographes hollandais, Ari Versluis et Ellie Uyttenbroek en 2008.


Dans la casbah de Rotterdam

par Giulio Meotti


A Feyenoord, on voit partout des femmes voilées filer comme l’éclair dans les rues du quartier, évitant tout contact, surtout avec les hommes, même un contact visuel. Feyenoord a la taille d’une ville, 70 nationalités y cohabitent, on y vit de subventions et d’habitat populaire. C’est là que l’on comprend le mieux que la Hollande – avec toutes ses lois anti-discrimination et toute son indignation morale – est une société à ségrégation totale. Bombardée deux fois par la Luftwaffe pendant la seconde guerre mondiale, Rotterdam est une ville neuve. Comme Amsterdam, elle est en dessous du niveau de la mer mais, contrairement à la capitale, elle n’a pas de charme libertin. A Rotterdam ce sont les vendeurs arabes d’aliments halal qui dominent l'esthétique urbaine, pas les néons des prostituées. Partout on voit des casbah-cafés, des agences de voyages qui offrent des vols pour Rabat et Casablanca, des posters de solidarité avec le Hamas et des cours de néerlandais à prix avantageux.

Deuxième ville du pays, c’est une ville pauvre mais aussi le moteur de l'économie avec son vaste port, le plus important d'Europe. Peuplée majoritairement d’immigrés, elle possède la mosquée la plus haute et la plus imposante de toute l’Europe. 60 % des étrangers qui arrivent en Hollande viennent habiter ici. Ce qui frappe le plus quand on entre dans la ville en train, ce sont les mosquées énormes, fascinantes, dans un paysage verdoyant, luxuriant, boisé, humide : on dirait des corps étrangers par rapport au reste. On l’appelle "Eurabie". Imposante, la mosquée Mevlana des Turcs a les minarets les plus hauts d'Europe, plus hauts même que le stade de l’équipe de football Feyenoord.

Beaucoup de quartiers de Rotterdam sont sous le contrôle de l'islamisme le plus sombre et le plus violent. La maison de Pim Fortuyn se détache comme une perle dans une mer de tchadors et de niqabs. Elle se trouve au 11 Burgerplein, derrière la gare. De temps à autre, quelqu’un vient poser des fleurs devant la maison de ce professeur assassiné à Amsterdam le 6 mai 2002. D’autres laissent un papier: "En Hollande on tolère tout, sauf la vérité". Un millionnaire nommé Chris Tummesen a acheté la maison de Pim Fortuyn pour qu’elle reste intacte. Le soir précédant le meurtre, Pim était nerveux, il avait dit à la télévision qu’un climat de diabolisation s’était créé contre lui et ses idées. Et puis c’est arrivé, avec ces cinq coups de feu dans la tête, tirés par Volkert van der Graaf, militant de la gauche animaliste, un jeune maigrelet, calviniste, aux cheveux rasés, aux yeux sombres, habillé comme un écologiste pur - gilet fait main, sandales, chaussettes en laine de chèvre - végétarien absolu, "un garçon impatient de changer le monde", disent ses amis.

Depuis peu, on a vu apparaître, au centre de Rotterdam des photos mortuaires de Geert Wilders, placées sous un arbre avec une bougie indiquant sa mort prochaine. Aujourd’hui l’homme politique le plus populaire de la ville est Wilders, héritier de Fortuyn, ce professeur homosexuel, catholique, ex-marxiste, qui avait lancé un parti pour sauver le pays de l'islamisation. A ses funérailles il ne manquait que la reine Béatrice pour que l'adieu au "divin Pim" devienne royal. D’abord présenté comme un monstre (un ministre hollandais l’a traité d’"untermensch", sous-homme pour les nazis), il a ensuite été idolâtré. Les prostituées d’Amsterdam ont déposé une couronne de fleurs au pied de l'obélisque des victimes sur la place Dam.

Il y a trois mois, L'Economist, un hebdomadaire éloigné des thèses anti-islamiques de Wilders, qualifiait Rotterdam de "cauchemar eurabe". Pour beaucoup de Hollandais qui y vivent, l'islamisme est aujourd’hui un danger plus grave que le Delta Plan, le système de digues compliqué qui empêche les inondations venues de la mer, comme celle de 1953 qui fit 2 000 morts. La pittoresque petite ville de Schiedam, à côté de Rotterdam, a toujours été un bijou dans l’esprit des Hollandais. Mais elle a perdu cette aura de mystère il y a trois ans, quand elle est devenue, dans les quotidiens, la ville de Farid A., l'islamiste qui menaçait de mort Wilders et la dissidente somalienne Ayaan Hirsi Ali. Depuis six ans, Wilders vit sous protection policière 24 heures sur 24.

A Rotterdam les avocats musulmans veulent aussi changer les règles de droit, demandant à pouvoir rester assis quand le juge entre. Ils ne reconnaissent qu’Allah. L'avocat Mohammed Enait a refusé de se lever quand les magistrats sont entrés dans la salle, disant que "l'islam enseigne que tous les hommes sont égaux". Le tribunal de Rotterdam lui a reconnu le droit de rester assis: "Il n’existe aucune obligation juridique imposant aux avocats musulmans de se lever devant la cour, dans la mesure où ce geste est en opposition avec les préceptes de la foi musulmane". Enait, qui dirige le cabinet d’avocats Jairam Advocaten, a expliqué qu’il "considère tous les hommes comme égaux et n’admet aucune forme de déférence envers qui que ce soit". Tous les hommes, mais pas toutes les femmes. Enait est connu pour son refus de serrer la main aux femmes, dont il a dit plusieurs fois qu’il les préférait avec la burqa. Et des burqas, on en voit beaucoup à Rotterdam.

Que l'Eurabie existe désormais à Rotterdam, cela a été démontré par une affaire survenue en avril au Zuidplein Theatre, l’un des plus prestigieux de la ville, moderniste et fier de "représenter la diversité culturelle de Rotterdam". Situé au sud de la ville, il est subventionné par la mairie que dirige Ahmed Aboutaleb, musulman et fils d’imam. Il y a trois semaines, le Zuidplein a accepté, au nom de la charia, de réserver tout un balcon aux femmes. Cela se passait non pas au Pakistan ou en Arabie saoudite, mais dans la ville d’où les Pères Fondateurs sont partis pour les Etats-Unis. Ici les pèlerins puritains débarquèrent du Speedwell qu’ils échangèrent contre le Mayflower. Ici a commencé l'aventure américaine. Ici, aujourd’hui, la charia est légalisée.

A l’occasion du spectacle du musulman Salaheddine Benchikhi, le Zuidplein Theatre a répondu favorablement à sa demande de réserver les cinq premiers rangs aux femmes. Salaheddine, éditorialiste du site Morokko.nl, est connu pour son opposition à l'intégration des musulmans. Le conseil municipal l’a approuvé: "Selon nos valeurs occidentales, la liberté de vivre sa vie en fonction de ses convictions est un bien précieux". Un porte-parole du théâtre a aussi défendu le metteur en scène: "Il est difficile de faire venir les musulmans au théâtre, alors nous sommes prêts à nous adapter".

Le metteur en scène Gerrit Timmers est également prêt à s’adapter. Ce qu’il dit est assez symptomatique de ce que Wilders appelle "auto-islamisation". Le premier cas d’autocensure est apparu justement à Rotterdam, en décembre 2000. Timmers, directeur du groupe théâtral Onafhankelijk Toneel, voulait mettre en scène la vie de la femme de Mahomet, Aïcha. Mais l'œuvre a été boycottée par les acteurs musulmans de la compagnie quand il est devenu évident qu’ils allaient être une cible pour les islamistes. "Nous aimons beaucoup la pièce, mais nous avons peur", ont-ils dit. Le compositeur, Najib Cherradi, a déclaré qu’il se retirerait "pour le bien de ma fille". Le quotidien "Handelsblad" a intitulé un article "Téhéran sur Meuse", du nom du fleuve qui arrose Rotterdam. "J’avais déjà fait trois spectacles sur les Marocains et, pour celui-là, je voulais des acteurs et des chanteurs musulmans", nous raconte Timmers. "Mais ils m’ont dit que c’était un sujet dangereux et qu’ils ne pouvaient pas y participer parce qu’ils avaient reçu des menaces de mort. A Rabat un article a dit que nous finirions comme Salman Rushdie. Pour moi, il était plus important de continuer le dialogue avec les Marocains que de les provoquer. Voilà pourquoi cela ne me pose pas de problème si les musulmans veulent séparer les hommes et les femmes dans un théâtre".

Nous rencontrons le metteur en scène qui a introduit la charia dans les théâtres hollandais, Salaheddine Benchikhi. Il est jeune, moderne, orgueilleux, parle un anglais parfait. "Je défends le choix de séparer les hommes des femmes parce qu’ici il y a la liberté d'expression et d’organisation. Si les gens ne peuvent pas s’asseoir où ils veulent, c’est de la discrimination. Il y a deux millions de musulmans en Hollande et ils veulent que notre tradition devienne publique, tout évolue. Le maire Aboutaleb m’a soutenu".

Il y a un an, la ville est entrée en ébullition quand les journaux ont rendu publique une lettre de Bouchra Ismaili, conseillère municipale de Rotterdam: "Ecoutez bien, freaks fous, nous sommes ici pour y rester. C’est vous qui êtes des étrangers ici, avec Allah de mon côté je ne crains rien ; laissez-moi vous donner un conseil: convertissez-vous à l'islam et trouvez la paix". Il suffit de faire un tour en ville pour comprendre que, dans bien des quartiers, on n’est plus en Hollande mais dans un morceau de Moyen-Orient. Certaines écoles ont une "salle du silence" où les élèves musulmans, majoritaires, peuvent prier cinq fois par jour, avec un poster de la Mecque, le Coran et des ablutions rituelles avant la prière. Un autre conseiller municipal musulman, Brahim Bourzik, veut faire dessiner en divers points de la ville des emplacements où s’agenouiller en direction de la Mecque.

Sylvain Ephimenco, journaliste franco-hollandais, vit à Rotterdam depuis 12 ans. Il a été pendant 20 ans correspondant de "Libération" en Hollande et est fier de ses références de gauche. "Même si je n’y crois plus maintenant", dit-il en nous accueillant dans sa maison qui donne sur un petit canal de Rotterdam. Non loin de là se trouve la mosquée Al-Nasr de l'imam Khalil al Moumni, qui, au moment de la légalisation du mariage gay, a dit que les homosexuels étaient des "malades pires que des porcs". De l’extérieur, on voit que la mosquée, construite par les premiers immigrés marocains, a plus de 20 ans. Moumni a écrit une brochure qui circule dans les mosquées hollandaises, "Le chemin du musulman", dans lequel il explique qu’il faut couper la tête aux homosexuels et "l’accrocher au bâtiment le plus haut de la ville". A côté de la mosquée Al-Nasr nous nous asseyons dans un café réservé aux hommes. En face, il y a un abattoir halal musulman. Ephimenco a écrit trois essais sur la Hollande et l'islam ; aujourd’hui c’est un éditorialiste connu du quotidien chrétien de gauche "Trouw". Il a la meilleure perspective pour comprendre une ville qui, peut-être plus qu’Amsterdam elle-même, incarne la tragédie hollandaise.

"Ce n’est pas vrai du tout que Wilders recueille des voix dans les banlieues ; tout le monde le sait même si on ne le dit pas", nous dit-il. "Aujourd’hui, les électeurs de Wilders sont des gens cultivés, même si au début c’était la Hollande des classes modestes, des tatoués. Beaucoup d’universitaires et de gens de gauche votent pour lui. Le problème, c’est tous ces voiles islamiques. Derrière chez moi, il y a un supermarché. Quand je suis arrivé, il n’y avait pas un seul voile. Aujourd’hui, à la caisse, il n’y a que des musulmanes en tchador. Wilders n’est pas Haider. Il est de droite mais aussi de gauche, c’est un Hollandais typique. Ici, il y a des horaires réservés aux femmes musulmanes à la piscine. Voilà l'origine du vote pour Wilders. Il faut arrêter l'islamisation, la folie du théâtre. A Utrecht, il y a une mosquée où les services municipaux sont séparés pour les hommes et les femmes. Les Hollandais ont peur. Wilders s’oppose au Frankenstein du multiculturalisme. Moi qui étais de gauche et qui aujourd’hui ne suis plus rien du tout, je dis que nous avons atteint la limite. J’ai senti que les idéaux des Lumières étaient trahis par cet apartheid volontaire, je sens que, dans mon cœur, les idéaux d'égalité entre hommes et femmes et de liberté d'expression sont morts. Ici la gauche est conformiste et la droite a une meilleure réponse au multiculturalisme fou".

Tariq Ramadan, le célèbre islamiste suisse qui est aussi consultant spécial de la municipalité, enseigne à l’Erasmus University de Rotterdam. Des déclarations de Ramadan critiquant les homosexuels ont été découvertes par la plus connue des revues gay hollandaises, "Gay Krant", dirigée par un journaliste loquace, Henk Krol. Dans une cassette vidéo, Ramadan définit l'homosexualité comme "une maladie, un désordre, un déséquilibre". Dans le même film, Ramadan parle aussi des femmes, "dans la rue, elles doivent garder les yeux baissés". Le parti de Wilders a demandé que le conseil municipal soit dissous et l'islamiste genevois chassé, mais ce dernier a vu son contrat renouvelé pour deux ans. Au même moment, de l’autre côté de l'océan, l'administration Obama confirmait à Ramadan que l’accès au territoire des Etats-Unis lui restait interdit. Dans l’un des films que détient Krol, Ramadan dit aux femmes: "Allah a une règle importante: si tu cherches à attirer l'attention par du parfum, par ton aspect ou tes gestes, tu n’es pas dans la bonne direction spirituelle".

"Quand Pim Fortuyn a été tué, cela a été un choc pour tout le monde : un homme avait été assassiné à cause de ce qu’il disait", nous dit Krol. "Ce pays n’était plus le mien. Je pense encore à quitter la Hollande, mais pour aller où? Ici nous avons tout critiqué, l’Eglise catholique et la protestante. Mais quand nous avons critiqué l'islam, on nous a dit: Vous êtes en train de créer de nouveaux ennemis! ". D’après Ephimenco, le secret du succès de Wilders, c’est la rue: "A Rotterdam il y a trois mosquées énormes, dont l’une est la plus grande d'Europe. Il y a de plus en plus de voiles islamiques et un élan islamiste venu des mosquées. Je connais beaucoup de gens qui ont quitté le centre-ville pour la banlieue riche et blanche. Mon quartier est pauvre et basané. C’est une question d’identité, dans la rue on ne parle plus néerlandais, mais arabe et turc".

Nous rencontrons l'homme qui a hérité de la rubrique de Fortuyn au quotidien "Elsevier". Bart Jan Spruyt est un jeune et vigoureux intellectuel protestant, fondateur de la Edmund Burke Society mais surtout auteur de la "Déclaration d’indépendance" de Wilders, dont il est le collaborateur depuis le début. "Ici, un immigré n’a pas besoin de lutter, d’étudier, de travailler, il peut vivre aux frais de l’Etat", nous dit Spruyt. "Nous avons fini par créer une société parallèle. Les musulmans sont majoritaires dans beaucoup de quartiers et demandent la charia. Ce n’est plus la Hollande. Notre usage de la liberté a fini par se retourner contre nous, c’est un processus d’auto-islamisation".

Spruyt était un grand ami de Fortuyn. "Pim a dit ce que l’on savait depuis des décennies. Il a attaqué l’establishment et les journalistes. Il y a eu un grand soulagement populaire quand il est entré en politique, on l’appelait le ‘chevalier blanc'. La dernière fois que j’ai parlé avec lui, une semaine avant sa mort, il m’a dit qu’il avait une mission. Son assassinat n’a pas été le geste d’un fou solitaire. En février 2001, Pim a annoncé qu’il voulait que l’article premier de la constitution hollandaise sur la discrimination soit modifié parce que selon lui, et il avait raison, cet article tue la liberté d’expression. Le lendemain, dans les églises hollandaises, en général vides et utilisées pour des réunions publiques, le journal d’Anne Frank a été lu en guise de mise en garde contre Fortuyn. Pim était vraiment catholique, plus qu’on ne le croit ; dans ses livres il critiquait l'actuelle société sans père, sans valeurs, vide, nihiliste".

Chris Ripke est un artiste connu en ville. Son atelier est proche d’une mosquée dans Insuindestraat. En 2004, choqué par l’assassinat du metteur en scène Theo Van Gogh par un islamiste hollandais, Chris a décidé de peindre sur le mur de son atelier un ange et le commandement biblique "Gij zult niet doden", tu ne tueras pas. Les gens de la mosquée voisine ont trouvé le texte "offensant" et ont appelé celui qui était alors maire de Rotterdam, le libéral Ivo Opstelten, qui a ordonné à la police d’effacer la peinture, jugée "raciste". Wim Nottroth, un journaliste de télévision, s’est mis devant en signe de protestation. La police l’a arrêté et le film a été détruit. Ephimenco a fait pareil à sa fenêtre: "J’y ai placé une grande toile blanche avec le commandement biblique. Des photographes et la radio sont venus. Si on ne peut plus écrire ‘tu ne tueras pas' dans ce pays, alors cela veut dire que nous sommes tous en prison. C’est comme l'apartheid, les blancs vivent avec les blancs et les noirs avec les noirs. Il y a un grand froid. L'islamisme veut changer la structure du pays". Ephimenco pense qu’une partie du problème est la déchristianisation de la société. "Quand je suis arrivé ici, dans les années Soixante, la religion était en train de mourir, un fait unique en Europe, une déchristianisation collective. Et puis les musulmans ont remis la religion au centre de la vie sociale. Aidés par l'élite antichrétienne".

Nous sortons faire un tour dans les quartiers islamisés. A Oude Westen on ne voit que des arabes, des femmes voilées de la tête aux pieds, des magasins alimentaires ethniques, des restaurants islamiques et des shopping centers de musique arabe. "Il y a dix ans, il n’y avait pas tous ces voiles", dit Ephimenco. Derrière chez lui, dans une zone bourgeoise et verdoyante avec des maisons à deux étages, il y a un quartier islamisé. Partout des enseignes musulmanes. "Regardez tous ces drapeaux turcs. Là, il y a une église importante, mais elle est vide, plus personne n’y va". Au centre d’une place se dresse une mosquée avec des inscriptions en arabe. "Avant, c’était une église". Pas très loin, il y a le plus beau monument de Rotterdam, une petite statue en granit de Pim Fortuyn. Sous la tête en bronze brillant, la bouche ouverte pour prononcer le dernier discours en faveur de la liberté de parole, il y a une inscription en latin: "Loquendi libertatem custodiamus", gardons la liberté de parler. Chaque jour quelqu’un dépose des fleurs.

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Le quotidien qui a publié l’enquête:

> Il Foglio

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Tous les articles de www.chiesa à propos des rapports entre l’Eglise catholique et le monde musulman:

> Focus ISLAM

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Traduction française par
Charles de Pechpeyrou.

 

 

La diplomatie turque instrumentalise un Islam de faux semblants

La diplomatie turque instrumentalise un islam de faux semblants

090526Une inquiétude circule en ce moment sur la toile, à propos de l'ouverture d'un bureau de propagande islamique, pardon : d'information, à Bruxelles, par le gouvernement d'Ankara. Et, certes, on peut s'inquiéter des contrevérités que déversera cette structure en direction des gogos européens, sur la prétendue tolérance coranique et autres mythes.

Mais je crois nécessaire aussi d'attirer l'attention sur un autre aspect du marché de dupes que la diplomatie de ce pays entretient en instrumentalisant, à son profit, et toujours à sens unique, le fait religieux.

Ainsi, le chef de l'État turc M. Abdullah Gül s'est rendu en Syrie, du 15 au 17 mai en visite officielle. Sur l'étonnante photo du dîner protocolaire à Damas, on peut voir MM. Assad et Gül aux côtés de leurs deux épouses. Et bien évidemment celle qui arbore son foulard traditionnel islamique vient d'Ankara.

Ce signe, devenu totalement banal n'intéresse pas les médiats, sauf pour les plus radicaux, peut-être les moins aveuglés, à y voir une preuve supplémentaire des distances, que prend, avec la laïcité constitutionnelle de la république, le gouvernement de l'AKP.

Ce commentaire vient immédiatement à l'esprit. Il peut cependant contenir une illusion, et par conséquent un danger. De tout temps la puissance ottomane a su se servir de la religion mahométane : elle n'a jamais sacrifié à celle-ci le moindre de ses intérêts.

Et cela continua même sous un Mustapha Kemal. Si dégagé de l'influence des sultans, si méprisant de la religion ancestrale, il aurait proclamé un jour : "cette théologie putride rêvée par un Bédouin immoral est un cadavre qui empoisonne nos vies". (1) Mais il n'a pas répugné à confier à une administration, le soin d'organiser des prêches du vendredi dans toutes les mosquées, de tous les villages du pays, dans la langue de l'État, et non plus du Prophète, et en conformité avec les directives du gouvernement.

Aujourd'hui l'objectif du gouvernement de l'AKP, théorisé par l'expert Davutoglu dont on vient de faire un ministre, consiste à remettre en selle l'influence de la Turquie dans un proche orient arabe incapable de se structurer par lui-même ni de se fixer des objectifs réalistes dans son contentieux avec Israël.

En cela le passage de Abdullah Gül à la Banque islamique de développement en Arabie saoudite, de 1983 à 1991, va évidemment au-delà du symbole. Ses biographes insistent sur la rupture qui l'aurait séparé du chef historique de l'islamo-nationalisme turc, M. Necmettin Erbakan. Or celui-ci avait été évincé par l'armée en 1997 alors qu'il présidait un gouvernement de coalition. On n'a jamais trop explicité ce qui le rendait infréquentable et ce qui, à l'inverse, permet aux deux compères Gül et Erdogan, ses disciples d'alors, de passer, aujourd'hui, pour acceptables.

L'explication la plus probable me semble tenir au système d'alliance qu'impliquerait aux yeux des musulmans turcs leur appartenance solidaire à la communauté islamique.

Pour Erbakan, l'expression de celle-ci eût conduit à la rupture de l'alliance militaire avec Israël. Cela, l'État-major et le Conseil de sécurité nationale d'Ankara (MGK) ne pouvaient l'admettre.

Pour Gül et Erdogan, plus subtils, il s'agit de se présenter désormais comme les porte-parole naturels et traditionnels des peuples musulmans : les déclarations du Premier ministre en janvier à Davos puis en avril celles du chef de la diplomatie (2) allaient explicitement dans ce sens et le voyage de Damas le confirme. Et, au nom de leurs frères, les compères demanderont à l'État hébreu de faire un certain nombre de concessions, bref de se montrer plus "raisonnable" que pendant les 8 années de la présidence de GW Bush. Cette habile attitude va par ailleurs dans le sens des préoccupations actuelles du département d'État à Washington.

Je n'en retire pas cependant, bien au contraire, la conviction que, par cette démarche, la Turquie prouve son appartenance à la famille des nations européennes. Pour cette raison et pour plusieurs autres je ne crois pas sérieux de vouloir l'imposer au sein de l'Union européenne.

 

Apostilles

  1. J'avoue apprécier, de cette affirmation, la radicalité existentielle. Souvent citée, cependant, je ne lui ai jamais trouvé d'autres sources que la biographie de Kemal par Benoist-Méchin
  2. M. Ali Babakan, après un forcing qui indisposa les Européens, fut remplacé par M. Ahmet Davutoglu.
JG Malliarakis

samedi, 30 mai 2009

Karel Martel en de Slag bij Poitiers

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Karel Martel en de Slag bij Poitiers

Deze Frankische koning is over het algemeen onbekend. Toch heeft Europa zeer veel aan hem te danken. Het was immers Karel Martel die de moslimopmars in Europa een halt toe riep en daarmee de tot dan toe de onoverwonnen legers van de Islam een eerste beslissende nederlaag toebracht. Zonder deze overwinning had de wereld er totaal anders uitgezien en was er van het huidige Europa met onze normen en waarden, cultuur en andere verworvenheden totaal geen sprake geweest.

Leven van Karel Martel

Karel Martel werd geboren in Herstal (in het huidige Wallonië) op 23 augustus 676. Hij was een onwettige zoon van Pepijn II en zijn concubine Alpaida. Karel werkte zich op boven zijn jongere halfbroers, de Pepiniden en andere rechtmatige erfgenamen van Pepijn II.

In de onzekere toestand na de dood van Pepijn II in 714 had de Friese koning Radboud Utrecht heroverd op de Franken en met zijn vloot in 716 zelfs Keulen bedreigd tijdens de Slag bij Keulen, die de Friezen wonnen. Karel Martel zijn eerste overwinning als aanvoerder van het Frankische leger kwam in 716 in de Slag bij Amel. Daar versloeg hij de Neustrische koning Chilperik II door hem te overvallen met een hinderlaag. In 717 maakte Karel Martel zich van de totale macht meester en werd koning der Franken. Het jaar daarop verdreef hij de Saksen en won waarschijnlijk zo ook Utrecht terug. Toch was dit alles slechts klein bier ten opzichte van wat hij nu moest gaan presteren.

00:10 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : francs, pippinides, histoire, europe, moyen âge, bataille | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 29 mai 2009

De terugkeer van de Natiestaat als Alternatief voor de Globalisering

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De Terugkeer van de Natiestaat als Alternatief voor de Globalisering

Europa valt tegenwoordig niet meer weg te slaan uit de actualiteit. Factoren zoals de economische en financiële crisis, het Verdrag van Lissabon en eurodolle politici hebben de EU tot het actueel brandpunt gemaakt. Daarom is het ook hoogste tijd over onze positie (en dus onze toekomst) tegenover de EU na te denken. In alle eerlijkheid, mijn persoonlijke visie op Europa (en nationalisme in het algemeen) heb ik nogal moeten herzien het afgelopen jaar, de huidige economische crisis heeft dan ook een grote rol in het openen van mijn ogen gespeeld. We zullen immers moeten erkennen dat Europa het project geworden is van het volksvreemd internationaal kapitalisme, dat hiermee niets minder wil dan de weg naar de mondiale globalisering voorbereiden.

Voor nationalisten valt de rol die aan Europa wordt toegekend op te delen in vier stromingen. Interessant deze eerst eens te overlopen.

Europees nationalisme Een eerste stroming is die van het Groot-Europa van Jean-François Thiriart, het Imperium van Francis Parker Yockey. Hier zou Europa unitair staan, alle natiestaten en volkeren dienden op te gaan in een nieuwe eenheid. Dit idee was in de jaren ’50 door de voormannen van de post-WO II jaren naar voren geschoven, waaronder Herr Adolf von Thadden en Sir Oswald Mosley. Het ambitieus project van een Europees volk, een extensie van het patriottisme door synthese van alle onderlinge volkeren gecombineerd met puur objectieve geostrategie, is echter nooit uit de diaspora geraakt. Enkel zij die zich diep genoeg in de geopolitiek schoolden (een minderheid) konden zich herin vinden en het heeft dan ook weinig impact buiten het intellectueel terrein gemaakt.

Regionalisme Tweede stroming, het ‘Europa der volkeren’, dat van de 100 vlaggen. Deze these kent binnen de Vlaamse beweging (en soortgelijken) veel populariteit. Tot nog toe is er echter nog niemand geweest die hier een concrete visie aan heeft kunnen hangen EN dit ook heeft volgehouden. Nieuw-Rechts heeft afgedaan, Guillaume Faye telt niet meer sinds zijn meest recente evoluties, en op Alain de Benoist zijn geopolitieke avonturen ga ik niet eens in. Daarbij moet men er bewust van zijn dat het ontbreekt aan elke serieuze poging tot socio-economische verantwoording voor dit Europa. De enigen die dit wel kunnen verdedigen vanuit een dergelijke analyse zijn ironisch genoeg net de neoliberalen zelf, denken we maar aan het Warandemanifest en de ‘Vlaamse reflex’ van Lijst Dedecker. Hier later meer over.

Westen Derde naar voren geschoven ‘alternatief’, dat van de atlantisten, de as Washington-Londen-Tel Aviv. Hier maak ik echter niet veel woorden aan vuil, behalve te wijzen op de transatlantische resoluties van de EU van 5 januari 2005, die de EU de facto net zo afhankelijk van de VSA zal houden als sinds ’45 de trend is. Sowieso is dit een visie die Europa niet centraal stelt maar de belangen van het Westen wil verdedigen. De afgelopen decennia zouden moeten hebben aangetoond wat het Westen voor Europa heeft betekend. Doorgaan betekent Europa definitief ten onder laten gaan.

Gaullisme Ten slotte, Europa als derde macht beschouwen, de gaullistische visie. Dit is in haar destijds vastgelegde vorm echter voorbijgestreefd. De Gaulle, die in volle Koude oorlog zeer militaristisch dacht, zal vandaag ook moeten erkennen dat we niet meer die luxe kunnen veroorloven en de bipolaire wereld allang niet meer geldt zoals destijds het geval was. Zij die het toch nog aanhangen in een verhuidigde vorm zijn bovendien altijd collaborateurs van de particratie geweest, denken we aan de gaullisten binnen de UMP van Sarkozy. Als enige voordeel kunnen we hier wel stellen dat deze gaullisten tenminste de grootste anti-Europese stroming vormen op dit moment.

Paradoxaal genoeg wordt dit overigens toch nog vaak aangehangen door zij die zich juist tegen de natiestaat uitspreken maar het ‘Europa der volkeren’ te weinig ambitieus vinden. Deze mensen kunnen zich enkel voortdurend tegenspreken, de visie van de Gaulle was er immers een van een verbond van natiestaten, sterk en bekwaam genoeg om ook onderling onafhankelijk te kunnen staan. Gaullistische volksnationalisten moeten toch eens uitleggen hoe ze hier een Vlaanderen van 6 miljoen situeren.

Met dit artikel zal een poging gedaan worden tot serieuze analyse van bovenstaande opties in het licht van de Europese globalisering. Het zal in deze context zijn dat een modern nationalisme haar weg moet zoeken en het zal dus dringend een realistische en actuele oplossing moeten kiezen. Dat in het licht van de huidige crisis ook de Vlaams-nationalisten socio-economisch willen gaan denken is zeer mooi en inderdaad levensnoodzakelijk, willen ze een toekomst hebben. Maar wie het spel mee wil spelen moet ook consequent blijven en niet schrikken als de puzzelstukken plots anders dan gedacht vallen. Voor romantische spielerei is geen plaats meer. Het is dan ook mijn hoop dat de controverse welke ik met dit artikel ongetwijfeld zal scheppen niet op hysterie zal botsen, maar een hoognodig debat op gang brengt, een waarin ook onderstaande overwegingen worden meegerekend. De wereld is aan het globaliseren, hoogste tijd om dit te erkennen en onze plaats op te eisen, voor het te laat is.

Groot-Europa gekaapt


Kijken we nog eens terug naar de eerste optie. Inderdaad, dit is globalisering, dit is het laten opgaan van de volkeren in een groot nieuw volk. Thiriart & co bedoelden het goed natuurlijk en men kan ook vandaag van een actuele geldigheid spreken gezien de Europese volkeren (vooral in West-Europa) voor een groot deel verdwenen zijn door verwestersing, decadentie, complexen… Probleem is dat zij die dit vandaag aanhangen geen objectieve bezwaren kunnen opperen tegen de EU haar expansiedrang, haar munt, haar grenzenvervaging… De kritische intellectuelen die het nog altijd aanhangen klagen deze feiten wel aan, maar zijn danig in het defensief gedrongen dat ze geen enkel concreet en werkbaar alternatief tegenover de neoliberale evolutie meer kunnen stellen.

Deze optie heeft nooit een brede aanhang gekend en nu in de 21ste eeuw zal ze de nood aan heroriëntering moeten erkennen. Het is immers precies dit Groot-Europa wat de internationalistische kapitalisten hopen te verwezenlijken in hun eigen optiek. Ze hebben het project van de Europese nationalisten gekaapt. Bedoeling was dat sinds de jaren ’50 de wakkere Europeanen elkander gingen opzoeken voor het avant-gardistisch project van een gezamenlijk Europees Rijk met grote ‘R’. In de plaats hebben de liberale globaliseerders dit project nu over genomen in het voordeel van de culturele nivellering en in het nadeel van de natiestaat. De strijd van Thiriart (die van geopolitieke versterking door de Europese natiestaat) naast deze van de EU uitspelen (die van geopolitieke vernietiging door Europese globalisering), is verwrongen logica en sowieso een gevaarlijke mentaliteit. Voor men het beseft zal men immers uitgegroeid zijn tot de nuttige idioten van de EU.

Dit is de kern van de problematiek, samengevat in de volgende these: de strijd van de EU volgen, maar tegelijk beweren deze anders in te willen vullen, is geen realistische oppositie. Men zal hopen ergens onderweg het roer over te kunnen nemen, maar wat garandeert dit en waarom zou het Groot-Europees nationalisme aantrekkelijk genoeg zijn voor de huidig Groot-Europese liberaal globalisering op eender welk moment te doorbreken? Wat voor een antwoord kunnen Europese nationalisten geven op de oorzaken van de crisis? Wat voor alternatief kan geponeerd worden tegenover het ondemocratisch Europees parlement? Daarmee niet gesteld dat het Groot-Europa onmogelijk is, maar het biedt geen enkele mogelijkheid tot duidelijke oppositie wanneer de vijand het zelf hanteert.

Ten slotte, het deel van de aanhangers van deze stroming die in een Europa o.l.v. Rusland een geactualiseerde versie zien zullen slechts op dezelfde problematiek botsen als andere Europese nationalisten. Zulke theoretische avonturen spreekt niemand aan, zelfs de Russen niet.

Het Europees nationalisme is voor velen nog altijd een ver-van-ons-bed-show. Gelukkig maar misschien, of de EU zou ten onrechte nog veel populairder zijn. Wat er van deze beweging bestaat (zoals VoxNR) doet nog altijd goed werk op intellectueel vlak, maar om te vermijden dat ze tot nuttige idioten van de euroglobalisering uitgroeien kunnen ze het beter bij hun boeken en websteks houden.

Nuttige idioten


Gevaarlijker dan het Europees nationalisme, en nu ga ik een zeer zware uitspraak doen, is het regionalisme (incl. separatisme), dat van het Europa van 100 vlaggen. Zo’n stelling choqueert, maar het is noodzakelijk deze ballon te doorprikken in het licht van de EU-leviathan, hieronder zal duidelijk worden waarom.

Zoals gesteld, dit wordt óók enthousiast aangehangen door een deel van de globaliseerders zelf (zelfs Open VLD heeft de ‘V’ van ‘Vlaams’). Hun motivatie ontspringt echter niet uit een romantisch volksgevoel, de lokale gebruiken, producten en talen. Hun motieven zijn zeker niet die van bijvoorbeeld flaminganten! Neen, het zou overduidelijk moeten zijn dat deze ‘regionalisten’ het uiteenvallen van de natiestaten nastreven en daarmee dus met al haar instellingen die de volkeren binnen de natiestaat op dit moment beschermen. Het is de natiestaat die op dit moment de groei van de EU tegenhoudt, niet de ‘bedreiging’ van een ‘onafhankelijk’ Vlaanderen. Stel je even voor dat de republiek Vlaanderen straks opgericht wordt door een eurodolle Open VLD tezamen met een ultraliberale LDD, aangevuld met een N-VA die het allemaal niet zo goed weet. Wat zal er dan in onze grondwet komen (als die er dan überhaupt van komt)? En hoeveel van de huidige nationale instellingen zullen dan wel niet naar Europees niveau worden overgeheveld? Separatisme is niet voor niets het stokpaardje van anarcho-kapitalisten zoals Hans-Herman Hoppe geworden (die overigens niet toevallig enkele jaren geleden door het Vlaams Belang werd uitgenodigd).

Nog een groter probleem, en dit is veel doordringender omdat het bij de oprechte regionalisten zelf ligt, ze hebben een voor de EU onschuldige perceptie van de geschiedenis. Niet de strijd tussen klassen telt, maar die tussen volkeren is wat de wereld doet draaien. Ik herinner me hoe Bert Schoofs (kamerlid VB) in een debat over de economische crisis (oktober 2008, UHasselt) behoorlijk gewaagde uitspraken deed over de bankiers. Welke bankiers? De Franse, franskiljonse en Waalse natuurlijk. En dus zien we over het hoofd dat heel de bancaire wereld uit een internationale volksvreemde klasse bestaat, of deze bank nu de Franse Dexia dan wel Vlaamse KBC is doet er niet toe. En dus hebben we ook geen kritiek op de ECB, de euro, het Verdrag van Maastricht…

Regionalisten hebben dan ook geen reden tegen de EU te zijn. Wel in tegendeel, het is enkel binnen de context van de EU dat regionalisten hun plannen voor een onafhankelijk Vlaanderen, Catalonië, Lombardië… kunnen bereiken. Anders krijgen deze ministaten immers grote schaalproblemen. Deze optimale onderlinge afhankelijkheid werd zelfs door Freddy Heineken (ja, die Heineken) na het Verdrag van Maastricht geopperd door een “optimale” herverkaveling van Europa voor te stellen in landen van ca. 7 miljoen inwoners. Identitaire regionalisten staan weliswaar kritisch tegenover de Europese globalisering, maar over de uiteindelijke lotsbestemming bestaat geen twijfel, de EU is een goede zaak an sich voor het regionalisme in haar huidige vorm (óók voor dat zogezegd rebelse Ierland).

Alle tekenen aan de wand die het regionalisme zelf in vraag stellen blijft men dogmatisch blind voor. Men wil niet eens de vraag stellen waarom met het Verdrag van Maastricht zoveel opvallende gunstmaatregelen ten voordele van regio’s en zogeheten ‘Eurocities’ werden genomen. Of waarom er zoveel liberalen tegenwoordig voor een onafhankelijk Vlaanderen zijn. Decentralisering is wat het EU-project nodig heeft, natiestaten als Duitsland, Frankrijk en Italië zijn een veel groter probleem dan “enggeestige volksnationalisten”.

De inconsequente houding is thans overduidelijk. Vlaams-nationalisten willen een eigen immigratie- en arbeidspolitiek volgen, maar dit valt niet te combineren met onder meer het Schengenakkoord (vrije mensen- en goederenstroom), het Verdrag van Maastricht (de EMU) en het Bolognadecreet (Europese integratie van de kennissector). Hoe kan er op nationaal vlak een immigratiepolitiek gevoerd worden wanneer men binnen Europa zelf vrij mag bewegen? En hoe kan een onafhankelijk nationaal arbeidersmarktbeleid met een open Europese economie gevoerd worden? Men zal hiervoor aan de willekeur van de beslissingen op Europees vlak overgelaten zijn.

Ook nu krijgen we dus wederom de strijd waarbij men de EU volgt, maar wel anders wil invullen. Opnieuw geen echte oppositie en dus opnieuw geen echt alternatief. Opnieuw verwacht men ergens onderweg het roer over te kunnen nemen, net als de Europese nationalisten. Erger nog, de vele regionalistische bewegingen binnen Europa zijn op dit hoogsteigen moment actief bezig de nuttige idioten van de EU uit te hangen. Zo zien we bijvoorbeeld met het Forza Flandria project, om samen met ultraliberalen een Vlaamse Republiek te bereiken! Forza Flandria betekent voor het internationalistisch kapitalisme wat het trotskisme voor het communisme betekent, een verborgen overgangsprogramma dat uiteindelijk tot de wereldhegemonie zal leiden. En men beschuldigt zij die het daar niet mee eens zijn van muiterij tegenover de Vlaams-nationale zaak?

Kleine opmerking wellicht, dat men mij niet verkeerd begrijpt, het regionalisme als leitmotiv verwerpen betekent niet daarmee het beleidsmatig subsidiariteitsbeginsel in de vuilnisbak gooien. Maar de maatstaven hiervoor zijn dan ook zo vaag, wie wil zich vandaag de dag nog uitspreken als overtuigd centralist tegen beter weten in? Daarbij zijn beleidsmatige overwegingen puur praktisch, het is zeker geen structureel debat, dus waar is de vijand van de regionalisten? Een stel oud-strijders, royalisten en lokale politici die staan te popelen op EU postjes zodat ze de lokale politiek achterwege kunnen laten?

De strijd van regionalisten tegen de EU is niet overtuigend. Net als de Europese nationalisten verworden deze tot nuttige idioten van het neoliberale Europa. Komen ze dan toch met alternatieven, dan zijn deze op zijn zachtst gesteld halfslachtig en zonder concreet uitgewerkte visie. Of helemaal doorgeslagen intellectueel avonturisme, zoals Alain de Benoist, die als eerste voorwaarde een zeer ver doorgevoerd ecologisme vooropstelt. Zijn theorieën zijn volledig consequent door die voorwaarde, maar kunnen daarom ook weinig aanhang krijgen in de huidige context. Het ‘Europa der volkeren’ blijft in dit licht getuigen van wishful thinking en zeker geen realistisch analyseren.

Nood aan echte oppositie


Zowel het onbekend Europees nationalisme als het onrealistisch regionalisme zijn dankzij een algemene sfeer van kortzichtigheid de onverwachte bondgenoten van de het eurodol neoliberaal project geworden. Ze hebben de keus tussen de rol van nuttige idioten, dan wel de intellectuele diaspora. Er kan vanuit deze twee visies onmogelijk een overtuigende oppositie gevoerd worden tegen de EU. Pijnlijk was het om op een recent kopstukkendebat (mei 2009, UHasselt) de vraag te mogen stellen of de partijen die eerder kritisch dan positief tegenover het Bologna-decreet staan even de hand op willen steken. Het bleef stil.

Toch is aan deze oppositie een echte nood. De Verenigde Staten van Europa is voor ons een allesvernietigend monster. Wie dat nog niet heeft willen inzien loopt zwaar achter op de actualiteit en kan best het volledig geschifte boek van Verhofstadt lezen om te ondervinden hoe ver het inmiddels gekomen is. De euro heeft onze monetaire soevereiniteit afgenomen, sindsdien kunnen we onze nationale economie nog uitsluitend met halfslachtige beleidsmatige maatregelen (‘stimulansen’) beheren, aangezien een moderne economie juist valt en opstaat bij haar monetair beleid. Dat men nu makkelijker over de grens kan winkelen zal niets veranderen aan dat we straks helemaal niet meer zullen kunnen winkelen tegen dit tempo. Het Schengenakkoord heeft onze economieën op import-export afgestemd en ons zo van onze kernsectoren beroofd. Een voorgestelde Europese belasting, en daarmee een Europese obligatiemarkt, ketent onze toekomst aan een berg schulden waar geen enkele garantie op afbetaling voor bestaat. Wel kan nu al op een briefje worden gegeven dat bij nieuwe schulden de belastingen omhoog zullen moeten worden getrokken. Geen probleem als de nationale heffingen naar beneden gaan, en dus verplaatsen we nog wat bevoegdheden naar Brussel, Straatsburg en Bankfurt.

Alle decreten en verdragen, Maastricht, Lissabon, Leuven, Bologna, Rome… zij betekenen niets meer dan de uitholling van de nationale structuren ten voordele van een internationalistische en oncontroleerbare moloch. Niets wijst op een verandering in het karakter van de EU. Porren met de boodschap “waarom doen we het niet zus of zo?” is halfslachtig en wordt ook zo gepercipieerd door de bevolking, die de EU-globalisering als vanzelfsprekendheid is gaan aanvaarden. Geen bewustzijn, geen oppositie; geen oppositie, geen bewustzijn. Dus wat nu?

Andersglobalisme werkt niet


Hierboven is zo diep als nodig was ingegaan op de gevaren van het neoliberaal globalisme en de kortzichtigheid en naïviteit van daar andersglobalisme tegenover proberen te stellen. Inderdaad, eender welk andersglobalisme, zij het nu dat van de multiculturele wereldverbeteraar, de Europese nationalist, dan wel de identitaire aanhanger van ‘glokalisering’. Eender welke vorm van globalisering zal een te halfslachtig antwoord op de EU bieden, eender welke vorm zal niet anders kunnen dan meegaan met de neoliberale stroom omdat ze enkel met ‘ja maar’ kan antwoorden en vrijwel nooit met een duidelijk ‘neen’. Men zal de massa’s niet weten te overtuigen zonder duidelijke boodschap. Opnieuw: geen bewustzijn, geen oppositie; geen oppositie, geen bewustzijn.

Men zal inmiddels de (verkeerde) indruk hebben gekregen dat dit artikel wil oproepen tot de grenzen dicht te gooien en/of België gewoon heel te laten. Het is echter niet de bedoeling onmogelijk romantische projecten, namelijk een volledig afgesloten onafhankelijke Vlaamse dan wel Belgische ministaat, te propageren als alternatief. Er is reeds gesteld geweest dat regionalisten nood hebben aan de EU voor hun onafhankelijkheid (of wat daarvoor moet doorgaan) en dat geldt ook voor Vlaanderen. Daarnaast moet men blind zijn om te denken dat België al veel onafhankelijker in de wereld kan staan. Immers, twee factoren die het doorslaggevend economisch draagvlak voor echte onafhankelijkheid vormen: een eigen munt en een eigen afzetmarkt. Het zijn juist deze factoren waar kleine landen, zij het nu van 6 dan wel 10 miljoen, onmogelijk op kunnen hopen. Tenzij ze meestappen in de diepgroene plannen van een Alain de Benoist natuurlijk. Aannemende dat dit niet de bedoeling is en via Europa oppositie voeren tegen Europa niet kan, komen we voor een moeilijke keus te staan.

Deze keus wil ik graag met een analogie beproeven, namelijk hoe de Belgische verdamping zich op Europees vlak zou kunnen afspelen. België is (con)federaal geworden en hoewel ik opnieuw niet aan de beleidsmatige voordelen van het subsidiariteitsbeginsel wil raken, is de Belgische inboedel hierdoor ontmanteld. We noemen: Cockerill Sambre (nu van Arcelor), Société Générale (ooit 60% van onze economische activiteit, nu Frans geworden), Petrofina ( ‘gefuseerd’ met het Britse Total), Dexia (meer Frans dan Belgisch) en als meest recente aanwinst voor de internationale bankiers: Fortis. Oh ja, zogezegd allemaal “Waalse” en “franskiljonse” bedrijven, maar in dat geval mogen de franskiljons de Vlaams-nationalisten oprecht bedanken voor de cadeautjes die het einde van een Belgische natiestaat tot gevolg heeft gehad. Stellen we ons nu eens voor dat de andere natiestaten ook hoe langer hoe meer uit elkaar vallen. Wie biedt het meest voor Suez? Dexia heeft flink klappen geleden, wie haar wil krijgt er mooi de afhankelijkheid van tal van Belgische en Franse overheidsinstellingen bij. En wat dan wel niet met de Duitse metaalsector? Nederlandse havens? Britse olie? Uitverkoopjes! Europa! Revolutie! Maar dan wel niet ons Europa en niet onze revolutie…

Sabena: Red de solidariteit!

In de opsomming van de Belgische ontmanteling ontbrak nog een ander recent geval, dat van Sabena. Wie kan zich herinneren dat de Nederlandse KLM destijds een redelijk aantrekkelijk bod hierop heeft gedaan? En wie kan zich herinneren dat de reflex hiertegen toen uit Waals-Brusselse hoek kwam? Ze vreesden teveel Nederlandse invloed! Fijn, die Belgische reflex. België als klein land kon onmogelijk Sabena recht houden zoals Italië vandaag wel doet met Alitalia. De perverse situatie is dat de Belgische reflex van deze zogeheten natiestaat – een reflex die in Frankrijk, Italië en zelfs Nederland wel werkt – op een failliet uitdraait! Sabena had in samenwerking met KLM vandaag nog kunnen bestaan.

Een land met een BBP van een dikke 350 miljard EUR kon het niet trekken, maar samen met Nederland zou het een draagvlak van tegen de 1.000 miljard EUR hebben betekend! Dat is bijna zoveel als Spanje! Zo’n natiestaat kan de binnenlandse economie beschermen en soevereiniteit verzekeren. Het uiteen laten vallen van België, had Sabena nog bestaan, zou opnieuw onmogelijk zonder Europa kunnen gebeuren, de luchtvaartmaatschappij had nooit blijven bestaan gezien het belangenaandeel uit Waals-Brusselse hoek. Deze zullen dat ‘Dietsland’ nooit een cadeautje doen na afgestoten te zijn geweest. Al zal Parijs vast wel een dankjewel sturen voor Wallonië te mogen annexeren. Onafhankelijkheid goed voor Wallonië? Voor Frankrijk ja, voor Serviërs moest er tenminste eerst nog een oorlog overheen gaan en wij staan vrijwillig 17.000 km² af? En daarmee is de Brussel-problematiek nog niet eens aangekaart!

‘Red de Solidariteit’ krijgt nu wel een heel grimmige dimensie. De ministaat België heeft, omwille van haar inherent karakter, in de eigen voet geschoten met Sabena. Ze heeft bewezen protectionisme niet (meer) te kunnen veroorloven. Naar de toekomst toe mogen we ons aan nog honderd Sabena’s verwachten tegen dit tempo. En voorzover er daarna nog iets recht staat zal Europa wel een paar keer flink doorstampen. België, Europa heeft u vermoord en dat is uw eigen schuld. Ga dat nu niet op de Vlaams-nationalisten steken, de schuld ligt in uw eigen dwaas separatisme van 1830, toen u zelf besloot een ministaat te worden zonder kracht, macht en identiteit. “België is al zo klein”, horen we de belgicisten klagen. België is nu al te klein voor de autarkische reflex van de natiestaat te kunnen veroorloven! Zowel belgicisten als Vlaams-nationalisten hebben dan ook geen recht van spreken in de 21ste eeuw, zij het nu over “solidariteit” dan wel “solidarisme”…

Antiglobalisme: de terugkeer van de natiestaat


Het antwoord op het gevaar van de Europese Unie ligt dan ook in een realistisch antiglobalisme. Realisme, na decennia regionalisering en verval, zal nu “een extensie van het patriottisme” betekenen, naar de woorden van Sir Oswald Mosley in zijn naoorlogs werk ‘Europe a Nation’. Mosley, een Europees nationalist, schreef zijn boek echter in een tijd dat de natiestaat nog niet bedreigd werd. Inmiddels zijn we door de regionaliseringen terug naar de Middeleeuwen gekatapulteerd en is Europa gekaapt door precies datgene wat ermee bestreden moest worden. Het is dus niet dat de idee van Europa permanent afgeschreven moet worden, maar als we een realistische oppositie willen voeren tegen het internationaal kapitalisme, zullen we eerst op onszelf moeten kunnen terugvallen. In het geval van Ierland betekent dat Groot-Brittannië, voor Catalonië is er Spanje en voor Vlaanderen niet België maar de BENELUX. Er is nood aan nieuwe samenlevingsvormen die zichzelf kunnen beschermen door soeverein in een globaliserende wereld te staan. Dit is belgicisme noch jacobinisme, dit is Vlaams- noch Europees verraad, dit is een nuchtere conclusie waar geen enkel historisch of cultureel argument tegenover kan staan.

Concreet vraagt autarkie een draagvlak voor volledige monetaire autonomie (vaste wisselkoersen, rentebepaling, staatsschuldbeleid), malthusiaans-geïnspireerde demografie (agricultuur beschermen, stabiel groeibeleid, immigratiebeleid), nationale economie (kapitaalsconcentratie, sectorbescherming, corporatisme)… Samengevat, een economie die bekwaam is in dienst van het volk te staan. Tenzij ik het verkeerd begrepen heb is dit ook wat Vlaams-nationalisten tegenwoordig onder solidarisme verstaan. In dat geval zullen de solidaristen niet anders kunnen dan zich achter dit artikel te scharen.

Wij zijn Vlamingen. Zijn wij Europeanen? Niet zolang Europa dat van het internationaal kapitalisme is, net zo min als wij Westers zijn zolang het Westen dat van de VSA-decadentie is. Het Vlaams-nationalisme was een reactie tegen de kapitale fout van 1830. Ze heeft daarmee niet alleen ‘Vlaanderen’ maar heel België gered van de Franse invloed. Nu staan de Lage Landen (allemaal!) nog altijd verdeeld en nu is er meer dan ooit de nood aan hereniging. Nu hebben we de kans de Delta terug te verenigen, een unie van meer dan 27 miljoen inwoners, 1.000 miljard EUR BBP (bijna zoveel als Spanje!), een havenmacht van wereldformaat en nog tal van andere factoren die een echte nationale soevereiniteit toestaan. Binnen deze unie zal Vlaams, Frans, Duits en nog veel meer gesproken kunnen worden. Binnen deze unie kunnen de onderlinge geschillen nog beter opgelost worden dan binnen Europese context, waar het aan alle identiteit ontbreekt. Geen grendelwetten meer, geen wafelijzerpolitiek en geen federaal conflictmodel. Waarom zouden Vlamingen hier iets op tegen hebben? Het verbant de Franse net zo goed als de Europese hegemonie. En waarom zouden Walen zich hier tegen verzetten? Het wordt dit of als randgebied van Frankrijk dan wel Europa van de wereldkaart verdwijnen.

Met deze unie kan een helder en realistisch alternatief op de Europese Unie worden geboden. De toekomst van Vlaanderen ligt niet bij de Europese Unie, ze ligt bij haarzelf, bij de Delta Unie. Wij hebben de mogelijkheid tot een eigen munt, een eigen economie, een eigen landbouw en er is zelfs een referentiepunt dat ons historisch bindt. We zouden als nationalisten van een Europese minderheid niet minder dan trots moeten zijn op onze gezamenlijke geschiedenis en lotsbestemming! Voor ons bestaat er tenminste een duidelijk antwoord op deze globaliserende wereld. Europese volkeren, zeker die van de Lage Landen, hebben geen recht op klagen over separatisme in een tijd dat het internationaal kapitalisme ons gehele bestaan bedreigt door een gevaarte als de EU. En bedenk ten slotte dat ik met dit artikel nog niet eens de bedreiging van buiten Europa heb aangekaart.

Nu is de tijd aangebroken voor een project waar we gezamenlijk een antwoord voor de globalisering kunnen bieden. Laat ons dan ook in deze globaliserende wereld staan als grootse, sterke natie met een groots, sterk volk. Laat ons bekwaam en zelfzeker van onze eigen identiteit, kracht en macht gezamenlijk de uitdagingen van de toekomst met geheven hoofd aangaan.

Ik kan het niet laten als afsluiter terug te denken aan het gedicht ‘The Charge of the Light Brigade’ van Alfred Tennyson:

“[…]
Theirs not to make reply,
Theirs not to reason why,
Theirs but to do and die:
Into the valley of Death
Rode the six hundred.
[…]”


Zou toch niet zo’n slecht idee zijn, eerst eens te bezinnen…


Metamilitant
Nationaal Censor

[Metamilitant is Nationaal Censor en hoofd van de Nationalistische Vormingscel. De meningen geuit in dit opiniestuk weerspiegelen echter niet noodzakelijk deze van de NSV! en zijn geheel voor persoonlijke rekening.]

lundi, 25 mai 2009

Elecciones europeas

http://3via.eu/

La situation est-elle prérévolutionnaire?

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La situation est-elle prérévolutionnaire ?

Six thèses sur les bouleversements politiques

1/ Contrairement à ce que soutiennent les historiens et les sociologues, les bouleversements politiques, et notamment les révolutions, sont imprévisibles :

Il faut se méfier en effet de la tendance contemporaine à rationaliser a postériori des évènements, pour y plaquer une grille de lecture idéologique et souvent moralisante, sinon religieuse : l’histoire est alors perçue comme fatalité ou comme châtiment des « fautes » commises par ceux qui perdent le pouvoir. On se souvient de l’ouvrage de Tocqueville L’Ancien Régime et la Révolution, emblématique du genre, puisque son auteur conclut que c’est la monarchie centralisatrice qui est responsable de la Révolution.

Mais cette approche idéologique sert en général surtout à légitimer le nouveau pouvoir issu de ces mêmes bouleversements et accessoirement à valoriser auprès des nouveaux maîtres, celui qui se livre à cette lecture rétrospective de l’histoire. Les universitaires sont passés maîtres en la matière. Ces analyses a posteriori expriment aussi la croyance dans le sens de l’histoire que des esprits « éclairés » pourraient décrypter.

En réalité très rares sont ceux qui sont capables de prévoir de tels évènements : ils sont surtout incapables de les dater. Ils ne sont en outre jamais écoutés.

L’exemple de la chute de l’URSS est éclairant : on peut certes trouver de bons auteurs qui ont annoncé sa décadence ou sa fin (comme par exemple G. Le Bon et son analyse de l’utopie) : mais personne n’a prévu exactement les circonstances ni encore moins la date où elles se sont produites. Sans parler de tous ceux qui se sont trompés quant aux modalités (ex. H. Carrère d’Encausse).

2/ Il est extrêmement rare en outre que les acteurs, sans parler des spectateurs, de ces bouleversements aient conscience de ce qui se produit vraiment :

La lecture des « journaux » rédigés par les contemporains de bouleversements politiques majeurs est éclairante sur ce plan : tels Fabrice à Waterloo, ils ne relèvent souvent que des détails insignifiants qui ne permettent pas d’avoir une vue d’ensemble de ce qui se passe vraiment. De fait comme le dit la sagesse populaire « l’histoire est comme l’herbe : on ne la voit pas pousser ». On se souvient que Lénine fait une conférence à Zurich au début de 1917 pour faire le constat que la révolution n’éclatera pas ! Quelques semaines plus tard il est à Petrograd.

En outre ces témoignages passent à côté d’un phénomène politique essentiel mis en lumière par J.Monnerot : l’hétérotélie qui fait que les acteurs politiques conduisent souvent sous le poids des circonstances des politiques contraires à leurs intentions déclarées. Bien rares sont ceux qui veulent le reconnaître. Qui aurait prévu que le Général De Gaulle serait l’artisan d’un rapprochement franco-allemand ? Certainement pas en 1940 !

3/ Les explications économiques et sociales des bouleversements politiques sont en général dénuées de fondement :

Ce type d’explications a posteriori des bouleversements révolutionnaires est réductionniste et traduit l’influence de la sociologie marxiste de l‘histoire, très en vogue depuis le XXème siècle dans l’université et la recherche : les révolutions seraient la conséquence de l’exploitation sociale, devenue insupportable aux masses (comme le fascisme en Europe serait la conséquence de la crise de 1929 et de l’inflation). Le triomphe du capitalisme en Occident conduit en outre à survaloriser les facteurs économiques par rapport à tous les autres.

Il est pourtant contestable que la pauvreté ou la misère conduise toujours à la révolte et surtout débouchent sur des bouleversements politiques durables. Ils conduisent tout autant à l’apathie et au repli sur soi. Les révolutions ont comme moteur l’espoir en un monde meilleur. La grande misère débouche tout aussi bien sur le désespoir.

En outre les pauvres sont en général fragiles : ils sont dès lors peu capables d’ébranler à eux seuls un ordre politique, encore moins un état moderne. Ces concepts sont enfin extrêmement relatifs : un chômeur aujourd’hui n’est pas dans la situation d’un chômeur dans les années 30.

On peut surtout défendre tout aussi bien le point de vue inverse : les révolutions sont plutôt le fait de ceux qui veulent préserver leur situation ou qui veulent renforcer leur position. Comme le dit l’adage « les mutineries éclatent à l’arrière, jamais au front » : c’est-à-dire qu’elles sont en général le fait de ceux qui ont peur d’aller au front.

L’analyse de l’origine sociale des principaux acteurs révolutionnaires du XVIIIème au XXème siècle est d’ailleurs éclairante : ils étaient avant tout originaires de la petite ou moyenne bourgeoisie provinciale et non pas des miséreux et très rarement des « travailleurs manuels ».

Beaucoup de bouleversements politiques ont été initiés en réalité par l’action de certaines élites à l’encontre des aristocraties en place, plus que par une révolte populaire : par exemple la révolution anglaise a été provoquée par la petite noblesse soucieuse de préserver ses libertés locales face au pouvoir royal. Et ce sont les libéraux qui ont conduit par leurs intrigues le tsar, l’empereur d’Allemagne ou le roi d’Espagne à l’abdication, ouvrant la voie à la révolution. La Révolution française aurait-elle eu lieu si Louis XVI et la Cour n’avaient pas été si sensibles aux Lumières ? Ne vivons nous pas justement aujourd’hui la « révolte des élites » en Occident, selon l’expression de Ch .Lasch ? Le poisson ne pourrit-il pas d’abord « par la tête » ?

4/ Les révolutions frappent tout aussi bien les régimes et les Etats réputés jusqu’alors solides et forts, que les plus instables:

C’est l’autre aspect de leur caractère imprévisible.
En Europe tous les pays ont connu des révolutions politiques plus ou moins violentes. Les plus brutales ont touchées des Etats considérés alors comme puissants: France en 1789, Russie en 1917, Allemagne en 1919.
Le phénomène révolutionnaire a pour caractéristique en effet l’implosion rapide de tout le système institutionnel : les régiments se mutinent, la police disparaît du jour au lendemain, les fonctionnaires n’obéissent plus, les usines s’arrêtent, les amis d’hier se haïssent.
Mais jusqu’au moment fatal rien ne le laissait vraiment prévoir. Ce qui prouve que les révolutions ont avant tout des causes psychologiques et morales.
A l’époque contemporaine la France a connu un temps ce phénomène étrange : en mai 1968, avant le retour de Baden-Baden de De Gaulle, qui a justement réussi à interrompre le processus d’implosion.

5/ C’est la combinaison catastrophique de multiples causes qui conduit aux révolutions :

Le propre d’une catastrophe est de combiner différentes causes normalement indépendantes mais qui brusquement produisent des effets convergents et inattendus.

Le Titanic coule sans secours parce que le commandant veut naviguer vite de nuit (sans radar..) dans une zone d’icebergs, parce qu’un iceberg est de forme biscornue, parce que toutes les cloisons étanches ne sont pas posées et parce qu’aucun bateau alentours n’interprète correctement les signaux de détresse qu’il émet.

Il en va de même des bouleversements politiques qui sont assimilables à des catastrophes. Ils ne peuvent se réduire à une cause unique.

Car l’accumulation de petites causes peut produire de grands effets comme le savait la sagesse populaire et comme le redécouvre la théorie du chaos. C’est aussi ce qui rend difficile les prévisions politiques car les régimes sont des systèmes complexes.

Plus grande la complexité, plus élevé le risque de conjonction imprévue.
Souvent un évènement joue à lui seul le rôle de catalyseur de la crise politique : dans l’histoire il s’agit souvent d’un évènement extérieur (défaite militaire notamment). Il est intéressant de relever d’ailleurs que les républiques en France ont toutes chuté à l’occasion de conflits extérieurs.

6/ Malgré les apparences, on ne doit donc pas exclure l’occurrence de bouleversements politiques majeurs dans les sociétés occidentales d’aujourd’hui :

Les sociétés occidentales modernes sont certes dotées d’appareils de répression et de sidération de l’opinion – en particulier grâce au pouvoir médiatique – formidables et qui paraissent sans précédent dans l’histoire. Les citoyens sont en général réduits au silence (« majorités silencieuses ») car ces sociétés sont devenues de puissantes oligarchies.

Mais ne disait-on pas la même chose de tous les puissants empires qui se sont pourtant effondrés ?

On ne doit pas oublier en outre que ces sociétés sont de plus en plus hétérogènes, en particulier du fait de l’immigration de masse, donc plus complexes. La domination des valeurs marchandes a conduit en outre à l’atomisation sociale. Sous l’influence des médias ces sociétés deviennent composées de foules psychologiques, aux réactions sentimentales imprévisibles.

Pour l’instant le Système qui s’est imposé en Occident paraît inexpugnable. Mais pour combien de temps ?

Michel Geoffroy
07/05/09

Polémia


 

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dimanche, 24 mai 2009

La quasi-réunification: l'Ouest déchante déjà!

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SYNERGIES EUROPÉENNES - Décembre 1989

La quasi-réunification: l'Ouest déchante déjà!

par Gilles TEGELBECKERS

Les journaux occidentaux, surtout ceux des trois puis-sances d'occupation, ont salué, début no-vembre, la disparition du Mur de Berlin. "Démo-cratie" oblige. Personne ne peut évidemment se déclarer partisan des barbelés, des champs de mines, ne peut idéaliser les ordres de tirer à vue, ne peut applaudir à la mort des malheureux abat-tus froidement pour avoir voulu quit-ter la RDA. Mais dès que le Chancelier Kohl a parlé de "procéder à l'élaboration de structures confédéra-tives", dès que le peuple, à Leipzig et à Dresde, a scandé sa volonté de réunification, dès que les ci-toyens de la RDA ont fait la chasse aux flics de la po-lice politique et qu'un général de cette même police a échappé de justesse au lynchage, les politiciens de l'établissement en Occident et les prêtres du journa-lisme bien-pensant ont chan-gé de disque. On dirait de-puis deux ou trois se-maines qu'ils regrettent les vo-pos, les chiens policiers, les mines et les barbelés. Au moins, du temps d'Ulbricht, les choses étaient simples: les mauvais étaient de l'autre côté et, eux, les "généreux démocrates" étaient ici, parmi nous, pour nous dispenser leurs bienfaits, en détour-nant acces-soi-rement les deniers publics pour satisfaire quelques caprices.

L'Allemagne, paume de la "main Europe"

L'euphorie de la chute du Mur est bien finie. Les Oc-cidentaux s'aperçoivent que leurs construc-tions poli-tiques, la CEE et l'OTAN, n'ont été que des structures provisoires qui contredisent les lois de la géopolitique. L'Europe est une et indi-visible: il ne peut y avoir d'Europe à long terme sans l'inclusion des pays du COMECON et sans le retour de la Russie dans le giron européen commun. Cette unité continentale n'est pas pos-sible sans la réunification: l'Europe, pour parler en termes d'allégorie, est une main, avec une pau-me, en l'occurrence l'Allemagne avec la Hongrie et la Tchécoslovaquie, et cinq doigts insulaires ou pénin-sulaires (Iles Britanniques, Scandinavie, Ibérie, Italie et Balkans). Sans pau-me, pas de cohésion. Rien que des doigts isolés, repliés sur eux-mêmes. Dans la même logique, l'Ukraine et la Biélorussie forment le poignet, tandis que la Russie-Sibérie forme le bras. La France actionne le pouce ibérique: sa double ou-verture sur l'Atlantique et la Méditerranée en fait la frange laté-rale de la paume. Elle est de ce fait indissoluble-ment liée à la paume et la politique de vouloir la dislo-cation de la paume va fina-lement à l'encontre de ses intérêts. Le processus de cet automne constitue en quelque sorte la restructuration de la "main Europe". Les troubles en Biélorussie et en Ukraine signalent que le poignet participe lui aussi à ce travail de restructuration.

Le défi de Kohl, qui a lancé un plan de réunification en dix points, provoque un sursaut chez les Alliés occi-dentaux et à Moscou. Kohl, en formulant son plan, cherche à atteindre plu-sieurs objectifs. D'abord, cou-per l'herbe sous les pieds de Schönhuber, le dyna-mique leader des Républicains. En arrêtant la progres-sion républi-caine, il arrête l'hémorragie de son propre parti. Il garde pour lui les voix des réfugiés silésiens et poméraniens, qui, avec leur famille, donnaient à la CDU/CSU le pourcentage de suffrages né-cessaires à obtenir la majorité. Ensuite, il tente tout bonnement de faire avancer le processus de réunification auquel aspi-rent tous les Allemands. Les dix points de Kohl inquiètent Gorbatchev, pas tant parce que les Russes craignent la réuni-fication (au fond, ils la souhaitent pour diminuer la puissance des Etats-Unis) mais parce que cet appel, venu trop tôt, a déclenché des troubles en RDA, accéléré les choses en Tchécoslovaquie, pro-voqué des incidents avec les troupes russes stationnées là-bas et fragilisé la position de Gorbatchev qui doit encore lutter chez lui contre les internationalistes anti-européens et certains staliniens partisans du statu quo.

Dans l'Europe de demain, il y aura place pour tous

L'ouverture des frontières de la RDA, de la Hongrie et de la Tchécoslovaquie, la libérali-sation en Pologne, constituent un processus de suture de notre continent. La libre circulation des personnes et des marchandises provoquera un bouleversement pacifique et une multi-plica-tion des échanges économiques. La CEE ne peut plus se replier sur elle-même: elle est contrainte de s'élargir jusqu'aux frontières de l'URSS et puis de s'insinuer jusqu'aux rives de la Mer d'Okhotsk. S'il n'y a plus de barrière militaire, les lois de la géopoli-tique peuvent jouer à fond, sans restriction. Elles don-nent tort à l'Occident, à l'espace où sont nés les prin-cipes désincarnés du libéralisme, qu'il soit de mouture anglo-saxonne ou française. Mitterand et Thatcher, parce qu'ils ne se sont pas débarrassés de vieux ré-flexes obsolètes, croient que leurs pays seront margi-nalisés devant une Allemagne réunifiée. Or, dans le processus de restructuration euro-péen-ne, il y place pour tous: les Espagnols, par exemple, qui sont géo-graphiquement coupés de l'Europe dite de l'Est, ont élaboré un plan d'aide et de coopération très cohérent. Le Président von Weizsäcker a proclamé à Moscou que Fran-çais et Allemands pouvaient se partager les investissements en URSS et qu'il n'y avait pas en ce domaine de concurrence franco-alle-mande.

Il est évident que les systèmes français et britannique sont conçus pour vivre repliés sur eux-mêmes, en cul-tivant une sorte de nostalgie impériale désuète. Il est temps de proclamer dans ces deux pays une peres-troïka qui ba-layerait les institutions résiduelles et en édifie-rait de nouvelles. Rien ne sert de bouder comme le fait Mitterand, tiraillé entre une vision gaul-lien-ne grande-européenne et un repli sur l'Occi-dent avec sa bonne vieille laïcité et sa pensée individualiste. Rien ne sert non plus de ressortir la vieille alliance franco-russe contre le retour de l'Allemagne: contrairement au passé, les peuples de la Zwischeneuropa  (l'Europe d'entre-deux) marcheraient cette fois du côté allemand. Et il n'est pas sûr que les Baltes et les Ukrainiens fe-ront bloc avec les Russes. Le modèle fédéral allemand et la constitution fédé-rative soviétique (même si du temps de Staline, Khroutchev et Brejnev, elle a été manipulée dans le sens de la russification) sont bien plus séduisants que le jacobinisme français, toujours incapable de se réformer, d'accorder un statut d'autonomie à ses provinces selon le modèle des Län-der  allemands. La solution: octroyer aux pro-vinces françaises le même statut que les Länder  allemands, dans une Europe où ce statut se serait généralisé (les Polonais de Solidarnosc  y songent aussi). Le centra-lisme couplé à l'in-dividualisme libéral affaiblissent; la notion de peuple et le centrage des énergies populaires autour d'échelons administratifs intermédiaires, de re-lais, fédèrent les forces et les amplifient.

Les réactions en Israël

Mais les réactions les plus intéressantes à la nouvelle donne en Europe nous sont venues d'Israël. Le Mur de Berlin était le symbole d'une punition, écrit Mena-chem Shalev dans le Jerusalem Post.  Il avait une si-gnification "métaphy-sique". Sa disparition clôt l'univers mental de notre après-guerre, au sein duquel le sionisme avait pu se déployer. Benjamin Begin, fils de l'ancien ministre et militant de l'Irgoun, entend combattre la réunification en toutes circonstan-ces. Pire, l'Europe risque de revenir à l'avant-plan et le conflit du Proche-Orient de déchoir en importance. La fin de la guerre froide réduira l'importance stratégique de la Palestine pour la puissance protectrice américaine. Un député de la Knesseth a dit à ce propos: "Nous pourrions devenir une sorte de Sri Lanka proche-oriental, un phénomène marginal de l'histoire mondiale". A Malte, Bush a déclaré que pour le Proche-Orient, aucune divergence de vue ne le séparait de Gorbatchev. Ce qui signifie en clair que les que-relles du Proche-Orient ont cessé de préoc-cuper les deux grands et les Européens. Les cortèges d'assassinats brutaux, revendiqués au nom de principes religieux fumeux, qu'ils soient juifs, chrétiens ou musulmans, ont fini par lasser. Le Liban et la Pa-lestine devront désor-mais régler leurs propres pro-blèmes sans inter-vention étrangère. Il est temps par ailleurs que les retombées de ces conflits stupides, is-sus d'un âge théologique, cessent d'importuner les Euro-péens. Des mesures doivent être prises avec éner-gie pour que les protagonistes de ces barbaries ne puissent étendre leurs fantasmes sur le sol sacré de notre Europe. Le panier à crabes pro-che-oriental ne vaut pas qu'on lui sacrifie le moindre matelot breton: que Mitterand le sache et que les foudres de guerre, nostalgiques d'un passé colonial, se le mettent en tête. Autant que l'argent du contribuable français aille sou-tenir une usine de chaussures en Ukraine... Une bon-ne godasse vaut mieux qu'un précepte théolo-gique, qu'une sourate absconse ou qu'une icône sur la crosse de fusil d'un fou de dieu libanais.

Les Juifs réformistes américains ont d'ailleurs très bien compris que le Proche-Orient ne valait plus un kopeck. Lors de leur rassemblement à la Nouvelle-Orléans, quatre conférences sur 125 seulement trai-taient encore d'Israël. Quant à l'ex-cellent historien is-raëlien Dan Diener (Univer-sité de Tel Aviv), il a réfuté d'un haussement d'épaule l'argument qui décrétait le Mur de Berlin symbole d'une punition: "ce sont des Al-lemands qui l'ont construit et cela n'a rien à voir avec l'holocauste; il n'y a pas de rapport logique entre la discorde inter-allemande et Auschwitz".

L'Europe revient au centre de nos préoccu-pations. Le Proche-Orient et l'Afrique s'estom-pent à l'horizon de nos soucis. Il ne s'agit pas d'un repli sur soi définitif de la part des Eu-ropéens mais d'un recentrage légi-time, prélude nécessaire à notre retour en force sur la scène historique. Cette fois, nous ne serons plus dés-unis mais rassemblés. Avant cette heure décisive, une perestroïka devra souffler sur la partie occidentale de notre continent. Une perestroïka doublée d'une vo-lonté énergique de balayer les corruptions. Comme à Leipzig. Nous sommes tous des manifestants de Leipzig. Nous sommes tous des citoyens de Dresde en colère.

Gilles TEGELBECKERS.

 

vendredi, 22 mai 2009

Eslovenia-Croacia: cainismo ex-yugoslavo

Eslovenia-Croacia: cainismo ex-yugoslavo

Diferendo con Eslovenia le complica a Croacia su acercamiento con la Unión Europea

En el piso de una taberna en los Balcanes, el dueño trazó una raya amarilla: a un lado queda Eslovenia; al otro, Croacia, de modo que quienes piden un bistec de cerdo y una jarra de cerveza en un país de la Unión Europea, salen de las fronteras comunitarias un rato después, en busca de los baños. Y el asunto es motivo de risa para los parroquianos.

La anécdota, contada por el diario británico The Independent, sirve para recordar que ambos países, escindidos de Yugoslavia a principios de los años 90, todavía tienen un litigio fronterizo. Se trata de la bahía de Piran, un espacio de apenas 13 kilómetros cuadrados que está complicándole a Croacia el avance hacia su integración en la UE.

Sí, porque desde diciembre pasado Eslovenia bloquea el proceso, hasta tanto no se resuelva el contencioso. «¡Tanto lío por cinco o seis cuadras!», pensará el lector no enterado, pero sucede que ese espacio tan reducido es prácticamente lo único con que cuentan los eslovenos para poder acceder a aguas profundas, pues el país está geográficamente aprisionado entre Italia y Croacia, a las que, si algo les sobra, es agua salada…


El diferendo esloveno-croata cumple ya 19 años, y aunque Ljubljana y Zagreb han tenido tiempo de sobra para definir por dónde pasa la línea amarilla, hasta ahora «nananina». Con un pequeño detalle: la primera entró a la UE en mayo de 2004, mientras que la segunda está aún a la puerta.

¿Qué significa eso? Pues que, para admitir a un nuevo miembro en el bloque comunitario, tienen que levantarse 27 manos para aprobarlo, y la de Eslovenia se ha quedado abajo a última hora, cuando se preveía que las negociaciones terminarían a finales de 2009, y que Croacia ingresaría en 2011.

No será la primera vez que se utiliza esta ventaja para frenar la adhesión de un país candidato: poco tiempo atrás, Chipre bloqueó las conversaciones con Turquía, porque esta decidió no permitir el acceso de barcos y aeronaves chipriotas a su territorio. Otro caso, el de la Antigua República Yugoslava de Macedonia, puede sentarse a esperar las calendas griegas, porque —¡vaya coincidencia de palabras!— Grecia no permitirá su adhesión hasta que aquella quite de su denominación oficial el nombre «Macedonia». Atenas recela de futuras pretensiones anexionistas hacia su norteña provincia homónima, patria de aquel belicoso Alejandro que conocemos por los libros de historia…

De pronto, la UE suena el silbato de árbitro. Olli Rehn, comisario europeo para la Ampliación, propone un plan: cinco jueces —de ellos, uno esloveno y otro croata— tendrán a su cargo la partición exacta de la frontera. Croacia querría dividir la bahía en partes iguales, pero a Eslovenia le parece que ello obstaculizaría la navegación de sus barcos. Entonces, con esta suerte de «ni pa’ ti, ni pa’ ti», la Comisión Europea pone en manos de los dos la resolución del conflicto por vías más expeditas. Y los croatas, que consideraban llevar el asunto a la Corte Internacional de Justicia de La Haya, han dado el sí. Falta ahora su contraparte…

Paradójicamente, si a alguien le beneficiaría salir rápido de este asunto y no enredarse en La Haya, es a Zagreb. Con la crisis económica apagando los embullos de los países eurocomunitarios de recibir a nuevos miembros (por regla general, cortos de billete), y mientras los pronósticos internos dicen que la economía se encogerá en un 3,7 por ciento y que el de-

sempleo subirá rápidamente (ahora ronda el 14 por ciento), tal vez al país de la corbata más le valdría ahorrarse papeleos y correr cuanto antes bajo el paraguas de Bruselas. Es lo que hará, previsiblemente, Islandia.

Debe ser por eso que algunos políticos de los países miembros de la UE confiesan que, en verdad, les importa un pepino ácido el tema de la bahía de Piran, y más les preocupa sumarse un nuevo socio que vendría con el pico abierto, como los pichones en el nido, en un momento en que hay muy poca lombriz que repartir. Otros, entretanto, se fijan más en un aspecto hasta aquí no mencionado: la rampante corrupción y la amenaza del crimen organizado, que ha sacado de escena, bombas mediante, lo mismo a periodistas que a abogados.

El sitio web oficial de la UE lo refiere: «En Croacia, la corrupción afecta sobre todo a los sectores de la salud, la construcción, la economía y las ciencias, así como al aparato judicial y a la administración local y pública», mientras que el propio comisario Rehn, la pasada semana, dedicó un aparte en un discurso a recordarle al país balcánico que «aún tiene mucho que hacer en cuanto a la reforma judicial y el combate a la corrupción».

Quizá sea tiempo de que Zagreb pregunte al tabernero por dónde le aconseja pasar la rayita amarilla, y de poner la cabeza en asuntos más urgentes.

Luis Luque Álvarez

Extraído de Juventud Rebelde.

dimanche, 17 mai 2009

Ambitieuse Turquie, myopie de la Vieille Europe

Ambitieuse Turquie, myopie de la vieille Europe

090513Ex: http://www.insolent.fr/
Beaucoup de choses changent, en Anatolie comme ailleurs. La seule qui ne se modifie pas ressemble fort, en Europe, à de l'aveuglement. Et il ne faut certes guère trop compter sur la campagne des élections dites européennes. Elle n'avivera guère, je le crains, la prise de conscience des citoyens. Quant aux problèmes associés à l'élargissement on ne les regardera que par le petit bout de la lorgnette. La négociation menée depuis 2004 entre Bruxelles et Ankara demeurera subreptice, sur des bases faussées.

Osons cependant entreprendre ici de corriger quelques illusions d'optique.

Rien de plus faux, d'abord rien de plus contraire à l'Histoire, rien de plus trompeur pour l'avenir que l'idée romantique de "la vieille Turquie immobile." Propagée par Pierre Loti, elle ne correspond qu'aux fantasmes surannés du personnage. Mais elle continue ses ravages.

Ce peuple de la steppe est venu d'Asie centrale au XIe siècle. S'il avait correspondu en quoi que ce soit aux rêveries des orientalistes, le pays qui porte son nom n'existerait même pas.

Aujourd'hui animé d'une grande énergie, bouillonnant de ses contradictions et de son dynamisme vital, il se pousse à nouveau sur la scène mondiale.

Occupant dès maintenant une place géostratégique décisive, poussant son économie vers l'avenir, il cherche aussi l'agrandissement de son espace vital.

L'Union européenne, quant à elle, formatée en 1991 par le traité de Maastricht, déformée par le traité signé à Nice en 2001, n'en finit pas de ne pas se doter d'une véritable politique extérieure. Cela vaut peut-être mieux, penseront d'ailleurs certains, tant que le président de la commission de Bruxelles, actuellement M. Barroso, et tant que la majorité du parlement de Strasbourg persisteront à raisonner et à agir, au rebours des intérêts, et surtout de l'âme de notre Vieux Continent.

Telle une certaine fusée expérimentale détournée par une puissance mauvaise, et que le professeur Tournesol préféra détruire plutôt que de la perdre, je sais que certains croient sauver l'Europe en lui retirant ses institutions. J'espère qu'on pardonnera quand même à ceux qui souhaitent encore donner une dernière chance à la raison.

Personne ou presque n'ose s'insurger contre la manière péremptoire dont les évolutions nous sont présentées. On voudrait bien pourtant pouvoir renvoyer dos-à-dos les docteurs Tant-Pis du souverainisme comme leurs confrères Tant-Mieux de l'eurocratie. Les choix binaires et caricaturaux proposés aux citoyens, moins sots que l'imaginent les communicants, ne sauraient être tenus pour étrangers à l'indifférence que suscite à ce jour la campagne actuelle.

Néanmoins, sans illusion pour l'immédiat, m'adressant à une partie plus éclairée, plus rare aussi, de l'opinion, je voudrais souligner l'évolution de la politique régionale d'Ankara depuis le début de l'année 2009.

Cet hiver, en février, un nouveau secrétaire d'État chargé des relations avec l'Europe est apparu. Ce négociateur s'appelle M. Egemen Bagis. On ne peut pas considérer comme positive l'évolution qui en est résultée si j'en juge par l'évaluation d'un grand quotidien du soir, habituellement moins sévère pour ce pays :
"méthode" d'Ankara pour adhérer à l'Union européenne crée le malaise à Bruxelles
Au-delà de la polémique sur la nomination de M. Rasmussen,
"c'est la méthode suivie par Ankara qui pose problème"
, souligne un diplomate bruxellois. S'incarnant en porte-parole des pays musulmans, ce qui a aussi fortement déplu, M. Erdogan a relancé les interrogations quant à la volonté réelle de son pays de respecter la liberté d'expression, l'une des exigences les plus fortes des négociateurs européens.
"Très choqué" par la pratique de la Turquie et son évolution vers ce qu'il a appelé "une religion plus renforcée, une laïcité moins affirmée", Bernard Kouchner a, quant à lui, saisi l'occasion pour affirmer, mardi 7 avril, qu'il n'était plus favorable, désormais, à l'entrée de la Turquie dans l'Union européenne.
La
Et, début mai, on apprenait la nomination d'un nouveau ministre des Affaires étrangères en la personne de M. Davutoglu, qui en réalité a toujours conseillé la politique de MM. Erdogan et Gül.

Deux mots sur ce nouvel interlocuteur. Pour la première fois dans ce pays, il ne s'agit pas d'un parlementaire du parti au pouvoir, mais d'un professeur de Relations internationales. Or la ligne qu'il représente risque fort d'étonner tous ceux qui imaginent à la fois une Turquie aspirant avant tout à une intégration européenne et, en même temps, une sorte de barrière contre les divers courants de l'islamisme proche-oriental.

Puissance régionale, aspirant à jouer un rôle mondial, la république fondée par Mustapha Kemal a cessé de se penser elle-même comme une sorte de pré carré inviolable, protégée contre elle-même par son armée laïque, gardant jalousement des frontières définitives. Il va falloir désapprendre les images fortes, convaincantes, mais hélas fausses, propagées par Benoist-Méchin.

En 2004 par exemple, pour complaire à la commission de Bruxelles, une révision constitutionnelle majeure liquidait la conception théoriquement nationaliste de la supériorité du droit interne. En même temps, symboliquement, la peine de mort était abolie. Donc désormais, quand ce qu'on appelle "l'État profond" voudra se débarrasser d'un gêneur, d'un journaliste arménien ou d'un contestataire quelconque il devra renoncer aux méthodes judiciaires. Il lui restera le recours de l'assassinat. Le scandale momentané sera suivi d'une enquête stérile, d'un procès truqué, et enfin d'un jugement débonnaire quand les exécuteurs auront bien voulu se livrer à la police. Jusqu'ici ça ne marche pas trop mal, dans cet excellent pays, où l'on attache plus d'importance à la cuisine qu'à la philosophie, je veux dire à la pratique plutôt qu'aux grandes idées abstraites.

Ankara peut donc avancer sereinement, et impunément sur la voie de son projet multidirectionnel.

Nommé officiellement le 1er mai Ahmet Davutoglu, 50 ans, se verrait, nous assure-t-on, accusé par ses adversaires de "néo-ottomanisme".

Cette expression, citée par "Libération" (2) ne veut strictement rien dire.

Ou plutôt elle peut recouvrir des concepts tout à fait contradictoires.

"L'ottomanisme" historique domina l'évolution de l'Empire au cours du XIXe siècle. Cela fonctionna à partir des années 1830- 1839 ("Tanzimat" réformateur), puis 1856 (égalité complète des citoyens vis-à-vis du service militaire). Et cela dura jusqu'à la catastrophique révolution jeune-turque de 1908-1909. Cette évolution eût conduit à un résultat sans doute préférable à ce que fabriquèrent le sinistre Enver pacha, jusqu'en 1918, puis Mustapha Kemal.

Parler de "néo-ottomanisme" permet de ne pas comprendre.

En fait la "doctrine Erdogan" consiste à dire par la bouche de M. Davutoglu de façon très réaliste :
"la Turquie ne peut pas privilégier ses liens avec l’Orient ou avec l’Occident car les deux sont indissolublement liés".
Si l'Europe disposait d'une véritable politique extérieure commune, elle mettrait un terme aux négociations d'adhésion. Elle proposerait l'alternative dite "franco-allemande", celle d'un partenariat. Et elle le ferait sur le simple constat de cette évidence : dès lors qu'elle ne "privilégie pas ses liens avec [ce qu'elle considère comme] l'occident" elle ne cherche pas à appartenir pleinement à notre famille de nations "occidentales".

Que le caractère "multidirectionnel" de son projet dépasse, certes, comme celui de l'hitlérisme défini dès les années 1920, ses capacités propres, ne l'empêchera pas de nuire. Dans les années 1980 la junte militaire avait inventé Turgut Özal. Premier ministre (1983-1989) puis président de la république civil (1989-1993), il déposa auprès de l'Union européenne la candidature d'Ankara. Or il donnait déjà du monde turc une définition très large "de l'Adriatique à la muraille de Chine".

Nous ne nous trouvons donc pas dans une situation de véritable innovation doctrinale, due à on ne sait quelle bouffée d'islamisme mystique. Les confréries auxquelles se rattachent, aussi bien aujourd'hui MM. Erdogan et Gül que M. Özal hier, n'ont jamais pensé autre chose. Je développerai bientôt ce point particulier. Ahmet Davotuglu n'en donnera sans doute que la version savante et diplomatique.

Et pour bien comprendre les choix que la Turquie devrait et pourrait opérer, on peut citer plusieurs potentialités.

1° la plus déstabilisante pour le proche orient vise les pétroles du nord de l'Irak. Elle prétend s'appuyer sur les droits de la minorité turkmène dans la ville de "Kirkouk à moitié kurde" (3). Sans le vote de mars 2003 du parlement d'Ankara, qui ne permit pas alors, faute d'une majorité suffisante, l'envoi d'un premier contingent de 62 000 hommes aux côtés des Anglo-Américains, nous pourrions en observer le scénario.

2° la plus classique pour les stratèges conservateurs consiste à intervenir pour "maintenir l'ordre dans le Kurdistan irakien" en frappant une fois de plus dans la zone montagneuse où se réfugient les rebelles marxistes-léninistes du PKK, mais aussi en satellisant les "Kurdes modérés" installés au pouvoir.

3° la plus extravagante mais aussi la plus inquiétante pour le gouvernement chinois, qui la prend très au sérieux, consiste à encadrer la contestation des Ouïgours du Sin-kiang, supposés de race turque et de religion mahométane.

4° la plus illusoire vise les anciennes républiques dites "musulmanes" détachées de l'Union soviétique en 1991. Elle permettrait de réunir l'Anatolie au "Turkestan" chinois via l'ancien "Turkestan" russe. Ce programme "panturquiste", après avoir beaucoup intéressé les Allemands à partir de 1941 (4) a séduit, semble-t-il, un certain nombre d'hommes d'affaires occidentaux. Au début des années 1990, les Ouzbeks, Kazakhs, Kirghiz, Turkmènes et Azéris (5) ont vu avec plaisir arriver des cousins très lointains. Ces gens aimables leur parlaient un idiome forgé par Kemal sous le nom de langue "soleil", voisin des leurs. De plus ils semblaient susceptibles de compter en dollars. Mais tout le monde est revenu sur terre, et le projet a depuis tourné court. Le plus important pays de la région, l'Ouzbékistan fait accessoirement figure de principal opposant à cette "grande idée".

5° la plus immédiate, celle qui préoccupe Israël, consiste à se présenter comme le porte-parole des pays musulmans du proche orient et à prendre en main le projet d'un État palestinien, en mettant en place un accord avec la Syrie, etc. Freinée par le gouvernement Bush, cette démarche semble prendre de la crédibilité avec la présidence d'Obama.

6° la plus dangereuse pour l'Europe, la seule qui la concerne directement, vise une expansion rêvée dans les Balkans, en direction de l'Adriatique, vers l'ensemble des territoires que l'on appelait autrefois "Roumélie". Le secrétaire général de l'Organisation de la Conférence islamique, le Turc Ekmeleddin Ihsanoglu est parvenu, lors la XIe réunion des 57 pays musulmans qui s'est tenu à Dakar en 2008, à faire insérer une résolution se solidarisant et appelant explicitement à une intervention en vue de protéger les coreligionnaires opprimés dans les Balkans et en citant la Thrace occidentale et la Bulgarie. Dans les années 1990 on a appelé cela la flèche verte. Elle vise en fait l'ensemble des pays du sud-est européen.

Pour toutes ces raisons et pour quelques autres je juge, quant à moi, fort périlleux pour ne pas dire inconvenant d'imaginer l'adhésion de la Turquie à l'Union européenne.

 

Apostilles

  1. cf. Le Monde édition du 11 avril 2009
  2. cf. Libération du 5 mai.
  3. cf. Le livre de Amanj al-Barzanji "Kirkouk à moitié kurde" Cairn 2007
  4. Date où ils mirent un terme à leur alliance avec Staline. Un rapport secret de 1943 rédigé par l'ambassadeur du Reich Von Papen, et publié après la guerre, démontrait l'absurdité de ce projet. En 1944 un jeune officier pro-nazi Alpaslan Turkes fut emprisonné pour y avoir imprudemment adhéré. Plus tard il fondera, et dirigera jusqu'à sa mort, le parti des Loups gris "MHP" qui représente environ 15 % du corps électoral, qui a plusieurs fois participé au gouvernement et siège actuellement au parlement sur la base de cette doctrine inchangée.
  5. Le Tadjikistan appartient, lui, du point de vue linguistique, à la sphère iranienne.
JG Malliarakis

Susbielle: le déclin de l'empire européen

Présentation de l'éditeur
Sur l'échiquier mondial, l'Europe est un nain politique. Placée sous la tutelle des Etats-Unis depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale, elle n'est qu'un dominion américain qui s'en remet à son protecteur pour assurer sa défense. Dans un monde en profonde recomposition, elle n'a ni frontières stables ni exécutif. Avec 500 millions d'habitants, l'empire le plus riche de la planète est dépourvu d'armée et de stratégie collective. En un mot, l'Europe, faible et désunie, est une proie facile. Qui s'en emparera ? Les Etats-Unis, pour lesquels l'Europe n'est qu'une pièce de l'" Occident chrétien ", la grande coalition qui doit s'opposer à l'émergence de l'Asie ? La Russie, l'Inde ou la Chine, qui lorgnent avec envie ce continent prospère et pourtant si fragile ? L'Allemagne, qui domine l'Union européenne et veut la façonner sur le modèle du Saint Empire romain germanique ? La crise économique va-t-elle accélérer le processus d'intégration ou creuser les divisions entre les Vingt-Sept ? La France, dans cet ensemble, jouera-t-elle les premiers rôles ou les utilités ? Une seule certitude : dans cette période de fortes turbulences, l'Europe ne maîtrise plus son destin. Attention, danger !

Jean-François Susbielle, Le déclin de l'empire européen, Ed. First, 2009.

00:28 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : europe, affaires européennes, actualité, politique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook