Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

mercredi, 29 avril 2015

Knut Hamsun, pagano europeo contro Mammona

hamsunknut.jpg

Knut Hamsun, pagano europeo contro Mammona

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

Quando si crede nell’individuo come persona umana e non come numero imbastardito, si è a disagio nella società dei costruttori di artifici economici. Quando si ama la propria terra natìa, fatta di boschi, paesaggi, volti conosciuti, si lenzi di natura profonda, ci si sente estranei al caos volgare della massa cosmopolita. E quando si crede alla dignità dell’uomo, al suo onore di vivere in sintonia col creato e in armonia con una vita semplice e onesta, nella comunità dei simili solidali, si avverte repulsione per il mondo sub-umano dei trafficanti di denaro, dei lucratori del lavoro altrui, della setta oscura che giorno e notte tesse la tela delle frodi finanziarie e degli inganni ideologici umanitari.

kh1.jpgKnut Hamsun fu di questo stampo: l’uomo europeo eterno. Un figlio della sua terra, la Norvegia, che portò sempre nel cuore anche quando, da giovane, visse a lungo in quell’altro mondo, quel vero e proprio mondo alla rovescia che erano già alla fine dell’Ottocento gli Stati Uniti: la terra promessa della schiuma dell’umanità, dove alcuni avventurieri senza scrupoli erano diventati magnati e grandi capitalisti, dando fondo con l’ottusità fanatica che è tipica del talmudista quacchero a tutto un prontuario di egoismi utilitaristi, in ossequio alla legge oscena del profitto. Hamsun ebbe modo di conoscere bene e da vicino il concetto di “libertà” in uso nella repubblica stellata, i suoi metodi di “umanitarismo” massonico e la sua pratica di perversione acquisitiva. Conobbe di persona l’ignoranza e la rozzezza intellettuale, la povertà spirituale e l’arroganza di un ammasso umano che con l’idea tradizionale europea di popolo non ha mai avuto nulla in comune.

Un paese che, eternamente con la Bibbia in mano, praticò e pratica lo schiavismo molto più a Nord che a Sud e sia in casa propria che in quelle altrui e fin dagli esordi, erigendo quella spaventosa società di paria alienati che è la cosmopoli industriale, nella cui fornace sin dalle origini venivano gettati bambini, donne, negri e immigrati di ogni sorta, al fine di costruire un freddo Leviatano, al cui vertice una ristretta congrega di arricchiti dominava già allora con metodi discriminatori una massa enorme di manipolati. La volgarità dei gusti americani fu ben tratteggiata dal giovane Hamsun, il quale, fin dai suoi tempi, riconobbe la sostanza inferiore di una mentalità che rifiuta l’intelligenza in favore dell’astuzia, non riconoscendo il genio creatore ma solo la scaltrezza necessaria al parvenu per far fortuna con la frode, per accumulare denaro e potere.

In La vita culturale dell’America moderna (1889) il giovane Hamsun avanzava osservazioni che ognuno di noi, a così tanti decenni di distanza, farebbe bene a rimeditare: «Dal punto di vista dello spirito, l’America è in realtà una nazione terribilmente sorpassata. Possiede uomini d’affari energici, investitori scaltri, speculatori temerari, ma ha troppo poco spirito, troppo poca intelligenza… In America si è sviluppata una vita che ha come unici scopi il procacciamento del cibo, l’acquisizione di beni materiali e l’accumulo di patrimoni. Gli Ameriani sono talmente presi dalla loro corsa al guadagno che su questa si concentra tutto il loro ingegno e ogni loro interesse orbita intorno al profitto. I cervelli si assuefanno a lavorare solo con valori e sfilze di numeri, i pensieri non hanno occupazione più gradita di quella offerta dalle diverse operazioni finanziarie».

La miseria morale di un anti-popolo suddiviso fra padroni-detentori della ricchezza e massa anonima istigata all’unica legge del consumo, veniva vista da Hamsun come la degenerazione e il rovesciamento dell’ideale europeo di civiltà. Era già qualcosa di morto nonostante fosse appena nato, qualcosa di corrotto e superato. La sindrome del produttivismo ha generato incoltura e istinti volgari, in un mare di piattezza dozzinale, dove ogni barlume di quella poca cultura ricevuta di seconda mano dall’Europa diventava, allora come oggi, “merce di strada”, giornalismo popolano, sensazionalismo plebeo, una merce priva di ogni stile, qualità, valore: «In America – scriveva Hamsun – non c’è possibilità di sviluppo per le cose che non possono essere misurate in numeri e non c’è, quindi, nessuna speranza che possa nascere una vita intellettuale… Gli Americani sono uomini d’affari, nelle loro mani tutto diventa operazione economica, ma sono gente poco spirituale e la loro cultura è pietosamente inesistente». L’America ha riclato gli sbandati di mezzo mondo, ne ha fatto dei cittadini, ma cittadini americani, e nulla di più. Essi sono un deflagrante miscuglio di iattanza anglo-calvinista e di carenza valoriale, di stampo apolide e cosmopolita. Il tutto, pericolosamente rimestato, ha prodotto il paradossale etnocentrismo statunitense, un’acida infusione di fondamentalismo biblista, insolenza xenofoba, fanatismo provinciale. Hamsun sottolineava con forza questo grossolano oltranzismo: «L’assoluta ignoranza nei riguardi dei popoli stranieri e dei loro meriti è uno dei difetti nazionali dell’America. Gli Americani non studiano il grande sapere universale nelle loro common schools. La sola geografia autorizzata in queste scuole è quella americana, la sola storia autorizzata è quella americana – il resto del mondo viene liquidato con un’appendice di un paio di pagine». Ed è infatti risaputo che le famose università americane, senza la cattura a pagamento dei migliori cervelli europei, sarebbero solo vuote cattedrali di ignoranza e di incolto provincialismo.

kh2.jpgHamsun elogiava l’autoctonia, non il provincialismo; l’autoctonia di chi, avendo come lui molto viaggiato, a ragion veduta riconosce l’importanza delle radici, della Heimat, del contatto con le sane e immutabili origini. Nato nel 1860, Knut Hamsun fin dalla giovinezza fece tutti i mestieri, da calzolaio a maestro elementare a spaccapietre, finché la sua sete un po’ vichinga per gli spazi non lo portò in America dove, anche qui, nonostante il suo animo sensibile e le sue doti di poeta e scrittore, non si peritò di fare il venditore ambulante o il cocchiere: spirito di viandante, non emigrante ignaro e disperato, ma uomo ben cosciente della sua dignità. Tanto che dopo molto aver visto e conosciuto in America, in Europa e in Asia, se ne tornò alla sua terra e di questa, sentita come Madre-patria e scrigno di identità, divenne uno dei massimi cantori che abbia avuto la narrativa europea. Amore per le proprie radici, culto della terra madre, devozione panteista verso la natura e le sue segrete energie, esaltazione della vita semplice dell’uomo dei campi, di colui che difende la propria personalità dagli assalti della violenta società progressista.

Questi i valori di Hamsun. Da uomo antico, egli disprezzava le “mezze culture” che hanno partorito l’industrialismo e la febbre mercantile; in lui il prestigio aristocratico del “signore della terra” è una celebrazione di potenza poetica, che ne fa, insieme ad altri ingegni (pensiamo a Pound, a d’Annunzio, a Heidegger), uno degli ultimi grandi testimoni della civiltà europea. Il suo soggettivismo (che non è individualistico egoismo alla liberale, ma eroismo faustiano di un figlio del popolo) e il suo lirismo naturalistico lo innalzano a figura degna di un paganesimo mistico, che si leva in una vibrante condanna della razza dei profittatori.

Rude anima nordica, la sua, ma capace di passione, di sensuale commozione e di dolci abbandoni, alla maniera della natura, che sa essere ad un tempo selvaggia e tenera. Hamsun era capace di misterici trasporti, conversava con piante e pietre, avvertiva presenze sacre nei silenzi notturni: «È la luna, dico in silenzio, con passione, è la luna! E il mio cuore batte per lei con nuovi battiti. Dura qualche minuto. Un alito di vento, un vento sconosciuto viene a me, una strana pressione dell’aria. Che cosa è? Mi guardo attorno e non vedo nessuno. Il vento mi chiama e l’anima mia assentendo si piega a quel richiamo ed io mi sento sollevato dalle realtà circostanti, stretto a un invisibile petto, i miei occhi si inumidiscono, io tremo. Dio è in qualche luogo vicino e mi guarda…», così scrisse in Pan (1894), uno dei suoi capolavori.

A un simile poeta, tuttavia, la loggia dei fabbricanti d’oro volle riservare l’infamia.Vincitore nel 1920 del premio Nobel per la letteratura, Hamsun aveva aderito fin da giovane al movimento neoromantico nazionalista norvegese, che conciliava laengtam (la volontà inflessibile) con staenming, l’armonia cosmica in cui uomo e macrocosmo si fondono. Amico della Germania ma anche della cultura russa, vide con favore l’ascesa del nazionalsocialismo tedesco, ravvisando in Hitler i tratti del vendicatore della tradizione europea contro i manipolatori economici e finanziari e il creatore di una nuova religiosità di stirpe. Resa visita al Führer nel 1943 al Berghof, collaborò col regime di Quisling, difese il progetto europeo con l’arma della sua penna. E quando Hitler morì tragicamente, lungi dal piegare la testa dinanzi ai vincitori, su un quotidiano di Oslo ne celebrò la figura di «guerriero in lotta per l’umanità, un apostolo del diritto dei popoli e un riformatore del più alto rango».

kh3.jpgCe n’era abbastanza perché, alla maniera con cui gli americani e i sovietici usavano trattare i loro oppositori intellettuali, nel 1945 venisse giudicato pazzo e rinchiuso in manicomio, ripetendo la medesima via di passione imposta a Ezra Pound. Nel suo libro Per i sentieri dove cresce l’erba, scritto negli ultimi tempi della sua vita, Hamsun così ricordava la dichiarazione che aveva reso coraggiosamente davanti ai giudici: «Mi era stato detto che la Norvegia avrebbe occupato un posto eminente nella grande società mondiale germanica in gestazione; chi più chi meno, allora tutti ci credevamo. E anch’io vi avevo creduto… Pensate: la Norvegia del tutto indipendente, rilucente di luce propria nell’estremo nord dell’Europa! E quanto al popolo tedesco, come pure al popolo russo, io li vedevo come astri rilucenti. Codeste due potenti nazioni mi possedevano e pensavo che esse non avrebbero deluso le mie speranze!».

Il sogno europeo di Hamsun parve abominio ai suoi giudici democratici asserviti ai nuovi padroni, la sua passione per la patria eterna proprio dai traditori venne spacciata per tradimento. Condannato nel 1948 a un risarcimento in denaro per i suoi “crimini”, Hamsun fu rovinato moralmente e materialmente e, ultranovantenne, venne infine rinchiuso in un ospizio e ufficialmente diffamato. Ma ciò che a noi resta di lui, e che i suoi persecutori non poterono cancellare, è l’esempio di una vita libera e nobile, di un uomo che non ha piegato la schiena neppure nella sventura. Resta la sua religione della vita, del lavoro onesto e silenzioso, la sua mistica della solitudine creatrice, del senso panico della natura primordiale e del popolo che vive in sintonia con la sua terra. Restano i valori di uomo della tradizione che attraversa la degenerazione della modernità senza farsene contagiare, ma anzi rinsaldando la volontà di opporre la qualità alla quantità, la forza di un Io integro allo sfaldamento coscienziale dell’alveare massificato: tutto questo è racchiuso nei suoi molti romanzi, da Fame (1890) a Terra favolosa (1903), da Un viandante canta in sordina (1909) fino a Il cerchio si chiude (1936). La lotta sostenuta a viso aperto e per tutta la vita da quest’uomo antico e insieme moderno appare oggi un severo e insieme trascinante insegnamento per tutti coloro che non vogliono imboccare la strada della resa di fronte ai dominatori cosmopoliti.
 
Oggi Hamsun rappresenta un esempio straordinario per tutti i popoli gelosi della loro identità, e per quelli europei in modo particolare. La congiura dei dissacratori e dei farisaici materialisti, dal basso di una putrescente “normalità” da insetti, non poteva non giudicare “pazzo” un uomo così diverso da loro, così orgoglioso della sua anima norrena e del suo sangue di contadino europeo.
 
* * *
 
Tratto da Italicum, novembre-dicembre 2014, anno XXIX, pp. 30-32.

Chine, Pakistan ...et Inde

corridor.png

Chine, Pakistan ...et Inde

par Jean Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Il n'est pas impossible que la Chine et l'Inde qui jusqu'ici semblaient s'accorder pour coopérer à l'intérieur du groupe Brics, commencent à devoir élargir leurs perspectives.

Certes, Chine et Inde partagent de nombreux domaines où la coopération n'ira pas de soi vu la concurrence inévitable entre ces deux grands pays. Mais on peut penser qu'un autre sujet pourrait rapidement susciter des méfiances, tout au moins en Inde. Il s'agirait des projets de coopération qu'entretiennent la Chine et le Pakistan. Le Pakistan est un pays musulman, de plus en plus d'ailleurs pénétré de mouvements islamistes, voire éventuellement djihadistes. L'Inde est hindouiste. Dès leur indépendance, les deux pays se sont affrontés sur de nombreux points, y compris en termes de puissance militaire.

On se souvient qu'il y a quelques mois, une visite en Inde de Barack Obama, qui devait inaugurer une grandiose coopération américano-indienne, n'a pas eu tous les résultats espérés par les Américains, notamment en termes industriels. Narendra Modi, déjà au pouvoir à l'époque, avait (à juste titre) suspecté Barack Obama de vouloir mettre les technologies américaines au service, non seulement de l'Inde, mais du Pakistan.

Aujourd'hui un grand programme chinois vise à développer un "corridor" sur le territoire pakistanais, dans une des versions de la grandiose route de la soie permettant à la Chine de s'étendre vers l'ouest. Il s'agit d'un programme discuté parmi plus d'une cinquantaine d'autres d'un montant total de 28 milliards de dollars, les 20 et 21 avril, au cours de la visite officielle du président chinois Xi Jinping au Pakistan. Cette visite a été reçue par les autorités pakistanaises comme un événement majeur

Dans ce programme de corridor, le Pakistan deviendra un maillon essentiel de la relation que la Chine veut établir vers la mer d'Oman et le Moyen-Orient. Le port de Gwadar, à l'extrémité sud-ouest du Pakistan, à 100 km de l'Iran, devrait être relié avec Kashgar, ville importante de l'ouest du Xinjiang chinois, non loin de la frontière pakistanaise. La liaison devrait comporter des routes, des lignes de chemins de fer et des pipelines.Deux routes seront possibles, l'une au sud, plus longue mais plus sûre, l'autre au nord (voir la carte ci dessus, proposée sur le site du journal Le Monde).

La visite s'est conclue sur une déclaration du premier ministre pakistanais Nawaz Sharif : « Ce corridor permettra de transformer le Pakistan en carrefour régional, notre amitié avec la Chine est la pierre angulaire de notre politique étrangère » a-t-il affirmé. On peut penser que cet enthousiasme ne sera pas entièrement partagé par les autorités indiennes.

Addendum

Pour l'ancien diplomate indien et grand chroniqueur MK Bhadrakumar, que nous citons souvent, la visite de Xi au Pakistan et l'accueil qu'il a reçu pourraient significativement changer l'ensemble des perspectives diplomatiques en Asie. Il a noté sur son blog 10 points dont chacun, à l'en croire, pourrait être à lui seul une petite révolution : http://blogs.rediff.com/mkbhadrakumar/author/bhadrakumaranrediffmailcom/

  1. Les relations entre la Chine et le Pakistan se transforment. Les investissements chinois massifs profiteront, non seulement à la Chine, mais au Pakistan. Il s'agira d'une relation gagnant-gagnant. Le « corridor » prévu permettra à la Chine, non seulement d'accéder aux marchés mondiaux mais d'investir massivement au Pakistan. Elle devient ainsi garante de la stabilité et la sécurité du Pakistan, qui voit son statut international conforté.

  2. La Chine fait confiance au Pakistan, dans le présent comme dans le futur. Celui-ci pourra donc se débarrasser de son image d'Etat failli servant de repaire à des groupes terroristes. Xi a d'ailleurs félicité le Pakistan pour ses actions anti-terroristes.

  1. La Chine remplace les Etats-Unis dans le rôle de premier allié du Pakistan. Il va s'établir une alliance de peuple à peuple entre la Chine et le Pakistan, au contraire des relations avec l'Amérique qui est à la fois crainte et détestée par la population.

  2. Grâce à l'alliance chinoise, les différences de puissance entre l'Inde et le Pakistan diminueront, que ce soit au plan économique ou militaire. Le Pakistan pourra ainsi devenir attractif pour les investisseurs étrangers. Le label « made in Pakistan » concurrencera le « made in India ». Ceci d'autant plus que les indicateurs économiques et budgétaires pakistanais sont meilleurs que ceux de l'Inde. La Chine pourra ainsi favoriser l'entrée du Pakistan dans le groupe des Brics.

  1. Il en résultera d'importantes réorientations stratégiques au Pakistan. Les élites jusqu'ici traditionnellement portées vers l'Occident, malgré l'hostilité de la population, se tourneront vers d'autres horizons, notamment vers les membres du Brics, en premier lieu, sans compter la Chine, vers la Russie, puis à terme l'Iran, les Etats d'Asie centrale et même l'Inde.

  2. Le renforcement de l'influence chinoise au Pakistan contribuera à la stabilisation de la situation politique en Afghanistan, ce que les Etats-Unis n'ont jamais réussi à faire. La Chine permettra également aux membres du Brics de stabiliser leurs relations avec l'Afghanistan.

  3. La marine chinoise (navires de surface et sous-marins) pourra utiliser le port pakistanais de Gwadar, ce qui renforcera la présence chinoise dans le golfe d'Oman et l'océan indien.

  4. Les capitales du sud-est asiatique observeront attentivement comment évoluera la relation sino-pakistanaise, afin de ne pas en être exclues, tant au plan économique que politique. .

  5. La stratégie américaine, anti-russe et anti-chinoise, visant notamment à isoler la Chine, considérée comme un ennemi potentiel, devra être revue. La Russie, de son côté, jusqu'ici préoccupée par les mouvements islamistes radicaux au Pakistan, pourra devenir moins méfiante. La Chine et la Russie renforceront leurs liens avec l'Iran simultanément de ceux avec le Pakistan. Il en résultera que l'Iran et le Pakistan seront encouragés à devenir membres de l'organisation de Coopération de Shanghai.

  6. L'Inde devra elle aussi modifier profondément sa stratégie internationale. Elle est confrontée à un dilemme « existentiel ». Elle ne pourra pas poursuive une politique de méfiance à l'égard de la Chine. Au contraire, elle devra se joindre aux projets de coopération et d'investissements proposés par cette dernière. La visite de Xi au Pakistan obligera Narandra Modi, jusqu'ici très méfiant à l'égard de la Chine, à se faire plus coopératif. Ceci devrait changer le sens du déplacement de Modi à Pékin prévue dans trois semaines. D'une façon générale, l'Inde devra modifier en profondeur ses relations avec la Chine, afin de profiter de ses capacités d'investissement. En contrepartie, elle devra perdre de son intérêt pour ses relations avec l'occident, qui ne lui ont jamais rien rapporté. Modi pour ce qui le concerne doit faire confiance à la Chine de la même façon que celle-ci fait confiance au Pakistan, malgré le poids qu'y ont encore les éléments islamistes radicaux.


Notre commentaire

Manifestement, MK Bhadrakumar n'aime guère Narendra Modi. Ceci le conduit à voir avec sans doute un peu trop d'optimiste les relations de l'Inde avec la Chine et et celles de la Chine avec le Pakistan. Il n'est pas certain que l'Inde dans ses profondeurs puisse rapidement abandonner son hostilité profonde vis-à-vis du Pakistan. MK Bhadrakumar est peut-être aussi un peu trop optimiste concernant les changements radicaux de paradigmes politiques qu'apporteraient en Asie et même dans le reste du monde le rapprochement Chine-Pakistan. Néanmoins, pour l'essentiel, ses analyses paraissent pertinentes.

Comme lui, par ailleurs, on peut penser que le rapprochement Chine-Pakistan marque un nouveau revers pour la politique militariste d'Obama contre la Chine, résultant du « pivot vers l'Asie » que celui-ci avait entrepris. Nous ne nous en plaindrons pas.

 

Jean Paul Baquiast

Pro lingua latina

romanschool.jpg

Pro lingua latina
 
Un ordinateur et un téléphone portables, une calculette, un vocabulaire français de cinq cents mots, quelques notions de verlan et de globish, le mépris de la culture, le culte de la réussite, la religion de l’argent, c’est plus qu’il n’en faut pour faire son chemin dans l’existence et pour que nous ressemblions entièrement et définitivement à des porcs.
 
Journaliste et écrivain
Il a présidé la Bibliothèque de France et a publié plus d'une vingtaine de romans et d'essais. Co-fondateur de Boulevard Voltaire, il en est le Directeur de la Publication,
 
Ex: http://www.bvoltaire.fr 
 

Courage, Madame le Ministre ! Encore un effort, encore une réforme pédagogique, encore un coup de hache et ça y est. Soyons de notre temps, soyons de notre monde, l’avenir et la raison sont si évidemment de votre côté. Il y a des luxes que nous ne pouvons plus nous permettre. Ce ne sont pas seulement les charges des entreprises, c’est notre encombrant bagage culturel, ou ce qui en reste, qu’il faut alléger d’urgence. Parce qu’enfin, à quoi bon tout ce fatras ? Quel besoin pour être trader, quelle nécessité pour être chômeur, ou député, ou présentateur de télé, ou commissaire de police, ou technicien de surface, ou caissière de Monoprix, ou président de la République, ou informaticien, ou aide-soignant, ou préretraité, ou emploi-jeune, ou jardinier-paysagiste, de se frotter si peu que ce soit à Cicéron, à César, à Salluste, à Virgile, à Catulle, à Tacite, à Eschyle, à Sophocle, à Euripide, à Platon, à Aristote, à Homère ? A quoi ça sert, je vous le demande !

arton222.jpgEt comment ne pas comprendre, et comment ne pas prévoir, et comment ne pas constater que ce qui est vrai du latin et du grec l’est tout autant de l’histoire, de la géographie, de la littérature, du dessin, de la musique, de la philosophie, des langues étrangères, à l’exception naturellement de l’anglais commercial, de tout ce qui élargit notre horizon, de tout ce qui embellit notre vie, de tout ce qui nous distingue des animaux, de tout ce qui nous élève, de tout ce qu’on a ou qu’on avait la chance, quelques chances d’aborder, d’apprendre, d’aimer à l’école, au collège, au lycée, en faculté, de tout ce qui, transmis par nos aînés à leurs cadets, était transmis par ceux-ci à leurs enfants, de tout ce qui était gratuité et qu’il y a si peu de chances, si l’on n’y est pas initié avant l’âge adulte, que l’on croise de nouveau une fois entrés dans « la vie » ?

Un ordinateur et un téléphone portables, une calculette, un vocabulaire français de cinq cents mots, quelques notions de verlan et de globish, le mépris de la culture, le culte de la réussite, la religion de l’argent, c’est plus qu’il n’en faut pour faire son chemin dans l’existence et pour que nous ressemblions entièrement et définitivement à des porcs.

Les insensés ! Ils n’ont pas compris ou ils ont oublié la formule sublime du Cyrano de Rostand : « Non, non, c’est bien plus beau lorsque c’est inutile ! »

mardi, 28 avril 2015

Fondation Bill Clinton: liens avec les oligarques ukrainiens et l'EI!

 

1001101-bill-hillary-chelsea-clinton-lors.jpg

Fondation Bill Clinton: liens avec les oligarques ukrainiens et l'EI!
Auteur : Olivier Renault
Ex: http://zejournal.mobi

Fondation Clinton

C’est une affaire de famille, comme dans un véritable conte de fées, qui se donne totalement pour le bien être des hommes, des femmes et des enfants… à lire leur contenu. Sur le site de la fondation nous pouvons voir le papa (Président Clinton), la maman (Hillary Clinton) et la fille (Chelsea Clinton) ensemble en photo. Selon le site de la fondation le clan Clinton rend le monde meilleur pour tous à travers le globe, « pendant plus de 13 ans la fondation a réalisé des partenariats avec des objectifs nobles avec les gouvernements, les milieux d’affaires, les ONG et des personnes privées partout pour consolider les systèmes de la santé dans les pays en développement. Le but est de combattre le changement climatique, développer l’économie en Afrique, en Amérique Latine, aux Etats-Unis, augmenter les chances pour les femmes et les filles partout dans le monde et pour aider les Américains à vivre plus sainement ». Bref, les Clinton nous vendent le paradis sur terre, nous allons y … croire…

La pauvre Ukraine finance Clinton !

The Wall Street Journal révèle les donations de la fondation Clinton sur la période de 1999 à 2014. Les premiers donateurs viennent… d’Ukraine. Entre 2009 et 2013, pendant que Hillary « la reine » Clinton était Secrétaire d’Etat, la fondation Clinton a reçu au moins 8,6 millions de dollars de la fondation Victor Pinchuk, fondation basée à Kiev. En 2008 la Clinton Global Initiative une branche de la fondation Clinton, qui s’occupe … d’oeuvres charitables… a reçu 29 millions de dollars de Victor Pinchuk. En retour la fondation Clinton s’est investie dans la formation de la nouvelle élite en Ukraine pour mettre sur pied la démocratie. Victor Pinchuk est aussi aimé en France et par le gouvernement Hollande. Les riches sociaux-démocrates Hollande et Clinton jouent sur les mêmes cordes. Victor Pinchuk, ingénieur enrichi dans les pipelines et la métallurgie, qui dans un entretien au Figaro dit avoir trois héros : « Mon grand-père, Albert Einstein et Shimon Pérès », est devenu Chevalier des Arts et Lettres, le mercredi 27 mars 2013. Victor Pinchuk est un milliardaire coté 336e fortune mondiale par la liste Forbes en 2011 (aujourd’hui estimée à 3,7 milliards de dollars, soit 2,7 milliards d’euros). Victor Pinchuk soutient avec Clinton Global Initiative, Pride of the Country, Jewish communities, Legal clinics/Legal Aid, Davos Philanthropic Roundtable, Yalta European Strategy, Brookings Institution, Israeli Presidential Conference, Davos Ukrainian Lunch, Peterson Institute for International Economics et l’Open Ukraine Foundation de Arseniy Yatsenyuk lancée en 2007. ( Entre 1998 et 2001, Arseniy Yatsenyuk collabore à Avalbank, filiale de la banque autrichienne Raiffeisen Zentralbank, à Kiev, avant de se tourner vers la politique). Durant ces diverses conférences des personnalités comme Piotr Porochenko, Martin Schulz (président du Parlement européen), sont réunis pour parler démocratie et prospérité. Parmi les partenaires de Victor Pinchuk se trouvent l’Open Society Fondations de Soros, la fondation Clinton Clinton Global Initiative, l’Ukrainian Philanthropists Forum (UPF) …

Clinton et EI mêmes donateurs !

Selon l’article du Washington Post et des sources de libertyblitzkrieg les Clinton reçoivent des fonds de pays qui financent aussi l’Etat Islamique. De plus pendant que « la reine » Hillary Clinton était encore Secrétaire d’Etat du président Obama, la fondation Clinton a reçu de l’argent de pays ennemis des Etats-Unis ! Imaginons cette « reine » présidente des Etats-Unis ! Mais quels liens donc entre Soros, l’Israeli Presidential Conference, Jewish communities, les Démocrates US et le gouvernement de Kiev qui mène une politique de génocide en Ukraine en tuant les russophones avec l’aide du bataillon Azov qui est nazi ?

Médias français tapent sur la Russie pas sur l’Ukraine

Les Echos du 24 avril dénoncent l’aspect criminel des Clinton et leur goût hors norme de l’argent en publiant, « Fondation Clinton a engrangé des millions de dollars, après que Hillary, alors secrétaire d’Etat, eut facilité l’acquisition, par les Russes, d’Uranium One ». On apprend rien sur les donations de Victor Pinchuk et de ses amis, ni sur l’argent des pays finançant l’Etat islamique pour les Clinton mais tout de même sur le fait que la candidate à la présidence des Etats-Unis, qui prétend aider le monde, ait trahi sa fonction et son pays. Pour les Echos c’est déjà assez bien, n’est-ce pas ? Pour le monde des gens simples qui se battent au quotidien en zone EU, en Russie, en Ukraine, en Afrique, en Asie, pour nourrir leur famille cela fait beaucoup ! En tout cas nous savons à quoi servent les ONG philanthropiques occidentales et les démocrates !

- Source : Olivier Renault

Quo vadis Front national ?

FN-Jeanne-dArc.jpg

Quo vadis Front national ?

Les points de vue de Michel Lhomme sur Metamag, de Jean-Yves Le Gallou sur Polémia, de Guillaume Faye sur J'ai tout compris, de Laurent Ozon sur Boulevard Voltaire et de Julien Rochedy sur Valeurs actuelles...

Du Front national au Front européen : l'urgence d'une autre stratégie, par Michel Lhomme

Le programme économique du front national est-il crédible ?, par Jean-Yves Le Gallou

Le Front national à la croisée des chemins,par Guillaume Faye

Vers 2017. Le Front national au pied du mur, par Laurent Ozon

Pourquoi le FN ne parvient pas à tuer l'UMP ?, par Julien Rochedy

Vrije meningsuiting in een ‘multiconflictuaire' samenleving

Door: Pieter Bauwens

Vrije meningsuiting in een ‘multiconflictuaire' samenleving

Debatclub over vrije meningsuiting en religie

Een debat over de vrijheid van meningsuiting en religie, dan is een discussie over de ware islam niet veraf in deze tijden. 

Vrijheid van meningsuiting en religie. Die moeilijke combinatie was het onderwerp op de jongste debatclub (22 april 2015) in Edegem. Het panel bestond uit Boudewijn Bouckaert, Fernand Keuleneer en Wim Van Rooy.

Het recht om te beledigen

Fernand Keuleneer opende de debatten met de stelling ‘met religie spot je niet’. ‘In onze samenleving, cultuur of beschaving is ook het recht op meningsuiting niet absoluut. Niet alleen laster en eerroof zijn een misdrijf, ook belediging is dat.’ Volgens Keuleneer bestaat er niet zoiets als het recht om te beledigen. Meester Keuleneer haalde ook het Europees Hof voor de Rechten van de mens aan: ‘daar is –terecht- kritiek op, maar het hof behoort tot ons rechtssysteem. Dat hof heeft een uitspraak gedaan waarin het stelt dat je het recht hebt om niet beledigd te worden in je geloof.’

Volgens Boudewijn Bouckaert is het recht op vrije meningsuiting ook het recht om te beledigen. Het probleem is dat ‘beledigen’ juridisch moeilijk te definiëren is. Als beledigen niet mag en we omschrijven dat begrip wat te breed, ondergraaf je elke vrije meningsuiting, er kan zich altijd iemand beledigd voelen. Niet toevallig is in verschillende Europese landen het verbod op blasfemie (beledigen van de godsdienst) afgeschaft. De reden is dat ook daar de vraag rees wat de grens is tussen godsdienstkritiek en belediging. Bouckaert plaatste dat in een historische context: ‘Een moderne samenleving is gebaseerd op seculiere waarden en dus is kritiek op de godsdienst een zaak tussen burgers. Het probleem is dat die moderne samenleving onder druk staat van de islam. We moeten dat verdedigen, maar niet door blasfemiewetten opnieuw in te voeren.‘

En zo was het 'i-woord' gevallen. Net op tijd om Wim Van Rooy, toch vooral gekend om zijn islamkritiek, aan het woord te laten. Volgens Van Rooy heeft de islam ervoor gezorgd dat er nu opnieuw over vrije meningsuiting gediscussieerd moet worden. Voor hem betekent vrije meningsuiting dat je alles en iedereen mag beledigen. Een concept als ‘islamofobie’ is doelbewust uitgevonden om kritiek op de islam in de kiem te smoren.

Migratie of islam theologie.

Voor Fernand Keuleneer is het grote probleem de massale migratie en niet een islamtheologie: ‘Als je massale migratie toelaat, ga je naar een multiconflictuaire samenleving. Het getal is het probleem, niet de godsdienst.’ Keuleneer wijst er ook op dat onze anti-islamhouding de moslims samendrijft tot een blok. Boudewijn Bouckaert gaat mee in dat laatste, maar beaamt dat er veel migranten zijn, maar dat slechts een beperkte groep zorgt voor problemen, vooral moslims. Hij richt zijn blik over de oceaan. ‘De VS zijn er beter in geslaagd om inwijkelingen (ook moslims) te veramerikaniseren. Hier lukt dat niet, omdat ze de boodschap krijgen dat ze hun eigen cultuur mogen houden.’

Volgens Wim Van Rooy drijven wij de moslims niet tot een blok, ze zijn één blok. ‘In de VN hebben de moslimlanden zich verenigd. 56 landen stemmen er in één blok, inclusief landen als Iran en Syrië.’ Voor hem is het duidelijk dat de moslims misbruik maken van de vrije meningsuiting en dat moet bestreden worden. En hij trekt de parallel met de jaren ’30 waarin de nazi’s misbruik gemaakt hebben van de democratische samenleving om de macht te grijpen. We weten dat zoiets kan gebeuren, dus moeten we ingrijpen, vindt Van Rooy.

Fernand Keuleneer ziet een dubbelzinnigheid in onze samenleving. ‘Men eist een grotere vrijheid van meningsuiting, naar de vorm, maar beperkt dat tegelijk inhoudelijk. We moeten voorzichtig zijn over bevolkingsgroepen en genocides en je mag over bepaalde dingen niet meer spreken. Die beperkingen hebben niets met de islam te maken.’ Volgens Keuleneer voeren we die blasfemiewetten beter opnieuw in, mensen hebben het recht om niet beledigd te worden in hun godsdienstige overtuiging.

Zotte taal

Boudewijn Bouckaert ziet toch een probleem. ‘Waar ligt de grens tussen spot en blasfemie?’ De grens aan vrije meningsuiting moet zijn, dat je geen schade toebrengt aan anderen. Als een fundamentalist vindt dat alle vrouwen met een kort rokje hoeren zijn, dan heeft hij het recht om dat te zeggen. Je mag lelijke dingen zeggen, wie dat doet wordt dan normaal gezien tegengesproken.’ ‘We moeten fundamentalisten hun achterlijke zever laten horen en er tegen reageren.’ Al is er bij dat reageren volgens Bouckaert een nieuw probleem: ‘Door de antidiscriminatiewetten kunnen we die beledigingen niet meer sociaal sanctioneren door hen werk of een huis of iets anders te weigeren.’

Wim Van Rooy is sceptisch. ‘Er wordt niet gereageerd op de islamitische zotte taal. In de media is er een pensée unique, pro-islam'. Hij wil liever duidelijk ingrijpen: ‘We mogen niet tolerant zijn voor de niet-toleranten. Een systeem dat tolerantie verwerpt mogen we niet toelaten. Er moet dus een uitzondering gemaakt worden op de vrije mening voor de islam, omdat die zelf intolerant is.‘

Die uitspraak verscherpte het debat. Bouckaert vond dat je enkel daden mag bestraffen en dat je meningen moet toelaten. ‘We moeten consequent zijn in de vrije meningsuiting, ook voor de islam.’ Voor Fernand Keuleneer moet het debat over godsdienst inhoudelijk onbeperkt zijn, ‘maar iedereen moet de fatsoensnormen respecteren, niet beledigen en we mogen van de vrije meningsuiting geen wapen maken tegen religie. Je mag niet zeggen: “elke moslim is een potentiële terrorist”’.

En zo werd het debat over vrije meningsuiting toch een debat over de islam en de ‘het ware gelaat’ van die islam, of ‘de echte islam’ over de buitenlandse geldstromen naar moskees en de (on)mogelijkheid van een hervorming van de islam. Waarop het debat verschoof naar buitenlands beleid, Iran, Libië en Syrië. Het debat werd beëindigd met een quote van Boudewijn Bouckaert: ‘Er is nu een meningenbeleid en dat is de eerste stap naar een totalitair regime.’

De emoties laaiden nog hoog op tijdens de vragenronde uit het publiek, inclusief een revolutionair sfeertje. Maar het debat was inhoudelijk en zinvol. Het laatste woord is er niet gezegd, zoals dat hoort in een debatclub. Iedereen ging naar huis met veel stof tot nadenken.

Sur sa responsabilité dans la destruction de la Libye, BHL persiste et signe

bhl_libye2_36.jpg

Sur sa responsabilité dans la destruction de la Libye, BHL persiste et signe

Quatre ans après avoir milité pour une intervention militaire en Libye et l’élimination de Kadhafi, Bernard-Henri Lévy, croit toujours que sa solution était la bonne, l’unique possible. Face au constat du chaos, de la guerre civile, de la montée de l’islamisme, et du drame des migrants, tout juste concède-t-il que la Libye n’est pas aussi belle qu’on pouvait l’escompter. BHL ou l’art du truisme.

Bernard Henri Lévy n’est jamais aussi sûr de lui que quand l’évidence de ses errements saute aux yeux. Invité sur France-Inter le philosophe interventionniste qui plaidait jusqu’à l’Elysée pour une intervention en Libye visant à terrasser Kadhafi a la conscience très tranquille.

Confronté à la question des milliers de migrants qui partent des côtes libyennes fuyant ou profitant du chaos libyen, BHL qui se pavanait autrefois aux côtés de Sarkozy annonçant au peuple libyen sa libération et son bonheur à venir, ne se sent aucune responsabilité. Bien au contraire, maîtrisant comme personne l’art du slalom, BHL contourne l’obstacle « ceux qui pourraient peut-être se sentir une certaine responsabilité sont ceux qui ont laissé faire la guerre en Syrie. S’il y a un problème c’est en Erythrée, c’est en Syrie. La Libye, n’est qu’un thermomètre, un passage. La source de cette abomination qu’est cette hécatombe en mer, cette transformation de  la méditerranée en cimetière. Mais la source  c’est la non-intervention en Syrie, le collapse en Somalie et c’est la dictature en Erythrée ».

Accordons à BHL que tout n’a pas commencé avec lui même si ce fut l’impression laissée à l’époque par le « Serment de Tobrouk », un documentaire à sa gloire de grand libérateur de Tripoli tissant sa propre légende.

Quatre ans plus tard, BHL prend quelques distances mais y croit toujours : « La Libye n’est pas aussi belle qu’on pouvait l’escompter car l’histoire ne se fait pas en un jour. Il faut un peu de temps. Je continue à dire que la dictature de Kadhafi était l’une des pires du siècle passé, l’une des plus cruelles, l’une des plus atroces, l’une des plus arbitraires. Et les fruits de la liberté sont amers.  Il vaut mieux ça que cette espèce de chape de plomb qui pesait sur les libyens ». 

La Libye avait évidemment beaucoup de défauts au temps de Kadhafi mais elle exerçait un contrôle sur ses frontières, les islamistes n’y avaient pas « table ouverte » et  par le clientélisme et la violence, Kadhafi parvenait à « tenir » les tribus. C’est notamment le constat cruel mais pragmatique que faisait Jean-PIerre Chevènement dès 2014. Depuis, on dira avec la même prudence de Sioux que le philosophe que la Libye est peut-être encore un peu moins belle…

Régis Soubrouillard | 22 Avril 2015

Journaliste à Marianne, plus particulièrement chargé des questions internationales

Source: http://www.marianne.net/bhl-libye-n-est-pas-belle-qu-on-pouvait-escompter-100232956.html

PROCHE ET MOYEN-ORIENT. Incohérences occidentales…

bramhall-world-obama-middle-east.jpg

PROCHE ET MOYEN-ORIENT: Incohérences occidentales…

Richard Labévière
Journaliste, Rédacteur en chef  du magazine en ligne : prochetmoyen-orient.ch

Barack Obama vient de renouer avec deux des ennemis historiques de l’Amérique : Cuba et l’Iran. Pour le premier, son inscription sur la liste des Etats soutenant le terrorisme prêtait plutôt à sourire. Assurément, Cuba ne représentait plus une menace stratégique pour les Etats-Unis depuis la fin des années 80. Néanmoins, les administrations américaines successives entretenaient pieusement ce vestige de la Guerre froide en raison du poids électoral - non négligeable - des Cubains de Miami. Et si un accord intermédiaire vient d’être signé avec l’Iran, nous sommes loin d’une normalisation stabilisée. Annoncée pour la fin juin - et même si elle se concrétise -, celle-ci ne traitera pas pour autant l’épicentre de l’arc de crises proche et moyen-oriental, à savoir le conflit israélo-palestinien. Par conséquent, les postures de la Maison blanche suffisent-elles à produire une politique étrangère ?

A tout le moins, peut-on parler d’une doctrine Obama ? « Nous faisons des ouvertures, mais nous préservons toutes nos capacités », répondait dernièrement le président des Etats-Unis. Merci Monsieur de la Palice… on ne saurait mieux dire. Pour l’éditorialiste du Wall Street Journal Daniel Henninger, la doctrine Obama, « c’est parler doucement et porter un grand bâton sans la moindre intention de l’utiliser ». Mais encore ?

Depuis son fameux discours du Caire sur l’Islam[1] - destiné à tourner la page des attentats du 11 septembre 2001 et à améliorer les relations américaines avec les musulmans -, on ne peut pas dire que les résultats soient vraiment au rendez-vous. Benyamin Netanyahou est toujours au pouvoir. Il continue résolument à violer l’ensemble des résolutions des Nations unies sans être sanctionné en raison, notamment de la protection inconditionnelle de Washington. Il persiste à occuper militairement les territoires palestiniens, à construire des colonies illégales, à refuser l’idée même d’un Etat palestinien… en faisant un bras d’honneur à l’ensemble de la « communauté internationale »… Brillant !

Mais c’est au sujet de la crise yéménite que Barack Obama est le plus surprenant. Après avoir renoncé à une nouvelle guerre contre la Syrie, en signifiant, plus ou moins clairement, que les Etats-Unis ne devaient plus engager d’opérations militaires lourdes aux Proche et Moyen-Orient, le voilà cautionnant une armada saoudienne qui bombarde le pays de l’Arabie heureuse au petit bonheur la chance… Cette opération est d’autant plus absurde que ses conséquences - désastreuses pour la population civile -, favorisent in fine Al-Qaïda dans la péninsule arabique et d’autres factions salafo-jihadistes fortement implantées dans le sud du pays…

Dans ce contexte d’initiatives contradictoires et d’absence certaine de leadership au Moyen-Orient, la dernière avancée américaine la plus intéressante concerne, certainement la guerre civile syrienne : après la déclaration salutaire de l’envoyé spécial des Nations unies Staffa de Mistura - estimant que Bachar al-Assad fait partie de la solution ! -, la Maison Blanche s’est ralliée à ce constat réaliste pour enfin reconnaître qu’il faudrait reparler - tôt ou tard -, avec les autorités syriennes légales. Si, en juillet 2011, Barack Obama faisait chorus avec Messieurs Sarkozy et Cameron pour dire « Bachar dégage ! », il admet aujourd’hui que les choses ne sont pas si simples. La contagion régionale de la crise syro-irakienne nécessite une réelle prise en compte de la légitimité du gouvernement de Damas, tant pour la sauvegarde de l’intégrité territoriale du pays, que pour la protection des minorités alaouites, chrétiennes, kurdes et druzes… parties intégrantes d’un Etat-nation qui, justement, n’a pas envie de connaître le sort désastreux de l’Irak post-intervention anglo-américaine.

Malheureusement, son homologue français - obsédé à l’idée de remplacer l’Oncle Sam en Arabie saoudite -, n’est pas sur la même longueur d’onde. Dans le même temps, le ministre français des Affaires étrangères Laurent Fabius reconnaît armer la rébellion syrienne qui égorge les Chrétiens alors que son ambassadeur auprès des Nations unies à New York pousse un projet de résolution afin de protéger ces mêmes Chrétiens ! Comprenne qui pourra…

L’écrivain diplomate Jean-Christophe Rufin disait dernièrement : « à partir du moment où l’on a mis des humanitaires au ministère des Affaires étrangères et où l’on a fixé la morale comme critère unique de la diplomatie, on est entré dans une série d’actions profondément déstabilisatrices. C’est une pensée très américaine de chercher ainsi à catégoriser les gens entre gentils et méchants, c’est une vision morale du monde. Nous, dans notre tradition européenne, on analyse les forces, on prend en compte l’histoire, la géographie et les peuples. Kadhafi est un méchant, donc on l’enlève. Mais après, il se passe quoi ? Il est temps que les politiques et les diplomates respectent de nouveaux critères, plus réalistes, et non plus la seule morale humanitaire ». Bravo l’artiste !    

Richard Labévière, 24 avril 2015

[1] Prononcé le 4 juin 2009 à l’université du Caire.

The Curse Of Colonel Gadhafi

berlusconi-khadafi.jpg

The Curse Of Colonel Gadhafi

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

When they destabilized Libya and overthrew strongman Muammar Gadhafi in 2011 the U.S. and its Canadian and European allies unleashed a series of events that accounts for the steady flood into Europe of migrants from North Africa. There are, purportedly, “up to 1 million” poor, uneducated, possibly illiterate, predominantly male, and by necessity violence-prone individuals, poised to board rickety freighters in the Libyan ports of Tripoli and Zuwarah, and make the perilous journey across the Mediterranean, to southern Italy. The 900 migrants who perished off the coast of Libya when their vessel capsized embarked in Zuwara.

Zuwara has always been “famous for people smuggling,” notes Richard Spencer, Middle East editor of The Telegraph. “The modern story of Zuwara and its trade in people,” says Spencer, whose newspaper has documented the genesis of the exodus well before the U.S. press awoke to it, “was a key part of the late Col. Muammar Gadhafi’s relationship with the European Union.”

The “indigenous, pre-Arab inhabitants of North Africa,” Berbers, as they are known in the West, have long since had a hand in human trafficking. As part of an agreement he made with Silvio Berlusconi’s government, “Col. Gaddafi had agreed to crack down on the trade in people.” For prior to the dissolution of Libya at the behest of Barack Obama’s Amazon women warriors—Hillary Clinton, Susan Rice and Samantha Power—Libya had a navy. Under the same accord with the Berlusconi government (and for a pretty penny), Gadhafi’s admiralty stemmed the tide of migrants into Europe.

Here’s an interesting aside: Because he cracked down on their customary trade, the Zuwarans of Libya rose up against Gadhafi; the reason for this faction’s uprising, in 2011, was not the hunger for democracy, as John McCain and his BFF Lindsey Graham would have it.

Back in 2007, Labor Prime Minister Tony Blair also shook on an accord with Gadhafi. Diplomacy averse neoconservatives—they think diplomacy should be practiced only with allies—condemned the agreement. The “Deal in the Desert,” as it came to be known derisively, was about bringing Libya in from the cold and into the 21st century. In return, and among other obligations, Gadhafi agreed to curtail people smuggling.

Ever ask yourself why so many northern and sub-Saharan Africans flocked to Libya? As bad as it was before the West targeted it for “reform”—and thus paved the way for the daily privations of the Islamic State—Libya was still one of the mercantile meccas in this blighted and benighted region.

As dumb as “W” was in unseating Iraq’s dictator, Saddam Hussein, he acted wisely with Gadhafi. Both George Bush and Bill Clinton, before him, saw to it that, in exchange for a diplomatic relationship with the U.S., Gadhafi abandoned terrorism and weapons of mass destruction.

Africa has always provided what the cognoscenti term “push factors” for migration: “Poverty, political instability and civil war … are such powerful factors,” laments Flavio Di Giacomo, a spokesman for the International Organization of Migration in Italy. More recently, the Middle East has been the source of the flight. The chaos and carnage in Iraq is ongoing—has been since the American invasion of 2003. Of late, the civil war in Syria, in which the U.S. has sought to topple another strongman who held it all together, has displaced 4 million people. Jordan, Lebanon and Turkey have absorbed hundreds of thousands of these refugees, as they should. But there are at least 500,000 more war-worn Syrians ready to be put to sea.

Programmed from on high, Europeans, like Americans, are bound by the suicide pact of political correctness to open their borders to the huddled mass of Third World people, no matter the consequences to their societies. Gadhafi was without such compunction. In 2010, he openly vowed to “turn Europe black,” unless the neutered Europeans rewarded him handsomely for doing the work they refused to do: patrol and protect their coastline.

“Tomorrow Europe might no longer be European, and even black,” roared Gadhafi, “as there are millions who want to come in. We don’t know if Europe will remain an advanced and united continent, or if it will be destroyed, as happened with the barbarian invasions.”

Presidential candidate Hillary Clinton cackled barbarically when she learned of the demise of Col. Gadhafi, but the colonel is having the last laugh.

Course à la numérisation totale, course au contrôle total

alternatives-to-inflexible-logic.jpg

Course à la numérisation totale, course au contrôle total

par Jean Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Une campagne d'information certainement bien intentionnée se développe actuellement en France, notamment dans les milieux de l'internet, pour dénoncer les difficultés d'application, voire les risques pour les libertés publiques, pouvant découler de la loi sur le Renseignement actuellement en préparation. On lira par exemple sur ce sujet un article que vient de publier le site Android (cf ci-dessous) .

Or Marc Goodman, dans le livre Future Crimes que nous avons présenté ici, explique avec de très bons arguments que le processus de numérisation globale dans lequel nous sommes engagés, à un niveau d'ailleurs mondial, se traduira par le fait que les moyens dont disposeront les criminels seront toujours plus efficaces que ceux des services de police, tant pour mettre au point de nouvelles techniques que pour désamorcer les techniques officielles de prévention et de répression. Il ne sera même plus nécessaire pour ces criminels de faire appel à des techniciens spécialisés. Les outils seront à leur disposition sur étagère s'ils disposent d'un peu d'argent. Ce point de vue n'est pas seul en son genre. Il est partagé par de nombreux auteurs.

Ces outils seront mis au point non seulement par les grands opérateurs ou par les laboratoires spécialisés, mais par de simples start-up(s) high-tech. Celles-ci inventent sans arrêt de technologies de plus en plus efficaces, non seulement au service d'utilisations légitimes, mais aussi au service de ceux voulant échapper à la loi (cf-ci dessous l'article de Numerama). Il en résulte une marche de plus en plus accélérée vers une société non seulement numérisée mais robotisée, avec des robots autonomes de plus en plus autonomes et donc de moins en moins contrôlables. Ainsi s'intensifiera la course à l'armement déjà engagée entre les criminels de droit commun, d'un côté, les services officiels de justice et de police de l'autre.

Faudrait-il dans ces conditions que les Etats renoncent à des lois telles qu'en France celle sur le renseignement, au prétexte qu'elles seraient inefficaces ou dangereuses? Ceci paraît difficile à justifier. Ne pas prendre de tels textes ne ferait qu'encourager le nombre des inventeurs et utilisateur de technologies susceptibles d'utilisations criminelles ou terroristes. Il convient pas contre de s'assurer, dans la limite du possible, que ces textes sont pris en toute connaissance de cause par les législateurs, et qu'ils sont appliqués par des services administratifs placés sous un minimum de contrôle.

analogue_digital.jpg

Dans le domaine des armes dites de poing, on retrouve le même problème. Celles-ci se perfectionnent (kalachnikov par ex.) et se commercialisent de plus en plus. L'ancienne loi qui demande aux armuriers d'enquêter sur l'honorabilité de leurs clients est devenue tout à fait  insuffisante. Il faudra donc des lois autorisant des démarches beaucoup plus intrusives. Mais celles-ci  à leur tour encourageront de plus en plus de trafics d'armes, et la mise au point d'armes dissimulées ou sophistiquées sous l'apparence d'innocents outils, telle une perceuse électrique. Faudrait-il pour autant renoncer à légiférer? Certainement pas. On constate aux Etats-Unis les dégâts majeurs résultant du 2e Amendement constitutionnel autorisant le port d'armes par les particuliers.

Pour prendre une autre comparaison, dans un domaine très différent, selon les océanographes, le niveau des mers pourrait monter de 1 à plusieurs mètres d'ici la fin du siècle. Le phénomène sera irréversible. Les digues et autres protections seront de plus en plus débordées. Faut-il cependant aujourd'hui renoncer à les fortifier, même si ceci oblige souvent à empiéter sur les propriétés privées de bord de mer ? Certainement pas. La Hollande connaît depuis longtemps déjà ce problème. 

Références

* Site Androïd . Loi sur le Renseignement : ce qu'il faut en retenir et pourquoi elle est dangereuse : http://www.frandroid.com/0-android/justice/280804_loi-renseignement-quil-faut-retenir-dangereuse

* Revue Numérama. Imsi catchers http://www.numerama.com/magazine/32763-detecter-les-imsi-catchers-sur-votre-telephone-android.html

* Marc Goodman, Future Crimes http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=1739&r_id=

Rappelons par ailleurs que Alain Cardon, dans ses ouvrages référencés sur le site Automates Intelligents, a depuis longtemps abordé le problème du contrôle total.

Jean Paul Baquiast

00:05 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : numérisation, contrôle, contrôle total, surveillance | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Génération défonce: les ados tous shootés?

adodefonce.jpg

Génération défonce: les ados tous shootés?
 
L’une des raisons de la hausse des chiffres, c’est l’augmentation de la consommation chez les filles, toutes substances confondues. D’aucunes y verront sans doute aussi une victoire du féminisme : enfin la parité dans la défonce !
 
Ecrivain, musicienne, plasticienne
Ex: http://www.bvoltaire.fr

On ne sait pas si la représentation « sexuée » des petites filles et des petits garçons constitue « un danger pour la santé publique », comme nous le relations hier, mais ce qui à coup sûr en est un, c’est l’explosion de la consommation de drogues et d’alcool chez les jeunes.

Le Parisien publiait mardi les résultats de la dernière enquête de l’Observatoire français des drogues et des toxicomanies. Elle montre que « près de la moitié des jeunes de 17 ans, garçons comme filles, ont déjà essayé le cannabis », et que le pourcentage de ceux qui ont essayé « la MDMA , un dérivé de l’ecstasy, a doublé en trois ans ». Mais l’alcool reste toujours, et de loin, « la substance la plus expérimentée, essayée par 89,3 % des jeunes de 17 ans (91 % en 2011) », et régulièrement consommée par beaucoup. Près de 60 % des jeunes interrogés déclarent ainsi avoir déjà été ivres dans leur vie, dont 32 % des garçons et 18 % des filles qui ont connu des API (alcoolisation ponctuelle importante). Effet de l’écologie ? Le marché des champipi, des champignons est aussi en croissance.

Bref, ce sont globalement 10 % des jeunes qui se shootent et 90 % qui picolent. Certes, les parents ne valent sans doute guère mieux, à cette nuance près qu’ils se défoncent légalement en passant d’abord chez le pharmacien : la France détient toujours le triste record de consommation d’anxiolytiques et autres psychotropes.

L’une des raisons de la hausse des chiffres, c’est l’augmentation de la consommation chez les filles, toutes substances confondues. D’aucunes y verront sans doute aussi une victoire du féminisme : enfin la parité dans la défonce ! À commencer par la bonne vieille cigarette, à suivre par le shit, à noyer le tout dans la vodka.

Oui, mais voilà, ce qu’on ne dit pas parce que cela contrevient aux dogmes égalitaires, c’est qu’il existe des différences entre les femmes et les hommes qui les rendent totalement inégaux sur le plan de la santé.

L’année passée, c’est le professeur Geneviève Derumeaux, présidente de la Société française de cardiologie, qui tirait la sonnette d’alarme : avec une augmentation exponentielle des infarctus chez les femmes de moins de 50 ans, les maladies cardio-vasculaires sont aujourd’hui la cause de 31,7 % des décès chez les femmes, contre 26,4 % chez les hommes. Au même congrès de cardiologie, le Pr Claire Mounier-Véhier, chef du service de médecine vasculaire du CHRU de Lille, déclarait elle aussi : « L’explosion du tabagisme chez les jeunes filles les expose à un risque cardio-vasculaire multiplié par trois à partir de 3 ou 4 cigarettes par jour. » Un risque encore multiplié par trois si le tabagisme est associé à la prise de pilule contraceptive ! Quant à l’association pilule/tabac/alcool, les médecins la nomment « le trio mortel ».

De même, dans une lettre où il alertait récemment sur la multiplication des cancers du sein et le rôle des pilules dans cette véritable épidémie, le Pr Henri Joyeux écrivait : « Le tabagisme est catastrophique chez les femmes, qui ont une capacité respiratoire de 30 à 50 % inférieure à celle des hommes et fument autant qu’eux. Le haschich qui se répand partout dans les lycées et jusque dans les collèges fait des ravages. Pas question de dire aux jeunes que la teneur en THC (TétraHydroCannabinol, la molécule toxique) est concentrée jusqu’à 20 à 30 % pour les rendre addicts plus vite. On leur laisse croire qu’il faut faire ses expériences et qu’il s’agit d’une plante verte, donc très écologique. Tabac et drogues ont toutes sans exception des effets immunodépresseurs qui ne peuvent que préparer le corps à des catastrophes ultérieures, quand elles vont s’associer aux autres facteurs de risques. »

Si Najat Vallaud-Belkacem veut vraiment se rendre utile, elle pourrait peut-être faire diffuser l’information dans les lycées au lieu d’y faire distribuer des pilules du lendemain sans aucun contrôle médical ?

lundi, 27 avril 2015

TTIP. Le corporate power transnational à l'assaut de ce qui reste du pouvoir des Etats

bannerttip_900_500_70_c1_c_t.jpg

TTIP. Le corporate power transnational à l'assaut de ce qui reste du pouvoir des Etats

par Jean Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
Nous avions signalé il y a quelques jours, sous le titre de présentation « Les véritables maîtres du monde » une étude de chercheurs suisses publiée en 2011 et dont nous avons seulement pris connaissance récemment. Il s'agit de « The Network of global corporate control ». Or on retrouve aujourd'hui ce corporate power directement à l'oeuvre pour faire aboutir les projets de TTIP
 
Nous avions signalé il y a quelques jours, sous le titre de « Les véritables maîtres du monde » une étude de chercheurs suisses publiée en 2011 et dont nous avons seulement pris connaissance récemment. Il s'agit de « The Network of global corporate control » http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/1107/1107.5728v2.pdf. L'étude analyse dans le détail ce que les auteurs présentent comme un superorganisme organisé en filet qui étrangle le monde afin de se l'approprier. Ce superorganisme est constitué du réseau des grandes entrepris transnationales. Bien que nulle autorité n'en assure en apparence la direction, il prend toujours en temps opportun les bonnes décisions permettant d'augmenter en permanence son influence.

Evoquer un superorganisme peut surprendre. Mais ceci n'étonnera pas ceux qui étudient le fonctionnement des superorganismes, qu'ils soient constitués d'humains ou d'autres espèces vivantes. Constamment un tel organisme s'adapte aux modifications de l'environnement et tente de prendre les bonnes décisions lui permettant d'y survivre. Certains n'y réussissent pas et disparaissent. D'autres y réussissent et s'étendent tout en se renforçant.

Dans le cas des entreprises transnationales, on ne prétendra pas qu'elles n'aient pas à leur tête des chefs capables de prendre les décisions nécessaires, non seulement à la survie de l'entreprise individuelle, mais aussi au développement du système global. Néanmoins, l'expérience montre que ces chefs, quelles que soient leurs compétences, n'ont pas suffisamment de clairvoyance et de pouvoir pour analyser et maîtriser l'ensemble des facteurs nécessaires au développement de ce système. Un mécanisme encore mal analysé, dit parfois pensée de groupe ou comportement de groupe, s'établit entre eux du fait de leurs interactions. En conséquence de ce mécanisme, l'organisme tout entier, qu'il convient alors de qualifier de superorganisme, prend collectivement les décisions les plus aptes à son développement. Mais ce mécanisme est aveugle à tout ce qui n'est pas l'intérêt immédiat du superorganisme.

Stop_TTIP.jpgLe « corporate power » des entreprises transnationales, par la voix de ses représentations, affirmera à l'unisson qu'il prend les bonnes décisions, tant pour ces entreprises que pour l'humanité toute entière. Mais il suffit d'un minimum de regard critique pour constater que si, dans le court terme, certaines de ces décisions sont favorables au développement, non seulement de ces entreprises, mais de l'humanité, ce n'est pas le cas globalement. Un accord général s'est désormais établi, tout au moins entre les scientifiques, pour montrer que ces décisions conduisent à des catastrophes, en matière de réchauffement climatique, de disparition des écosystèmes et même de l'humanité en général, désormais menacée de surpeuplement, d'inégalités dans le développement et autres maux qui pourraient se révéler mortels. Même en ce qui concerne les réseaux numériques, si souvent vantés, on peut constater qu'ils encouragent autant le développement de nouvelles criminalités que celui de la culture.

Le seul remède à ces maux, aussi insuffisant et politisé qu'il soit, tient à la mise en place de réglementations et de services publics sous le contrôle des Etats nationaux, organisés pour faire entendre les exigences de l'intérêt général à long terme, plutôt que le seul profit financier et économique à court terme, moteur principal du corporate power. Or ce sont les survivances de telles réglementations et services publics que désormais ce pouvoir veut faire disparaître. Il s'agit, concernant l'Europe, des négociations sur le Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) que Washington, relayé par la Commission européenne, veut désormais faire aboutir au plus vite.

Le TTIP


Ces négociations, pour le peu que l'on en connait, visent explicitement à faire disparaitre le peu de barrières que les Etats nationaux et leurs administrations mettaient aux abus du corporate power transnational. Inévitablement, cette disparition conduira à terme aux grandes catastrophes évoquées ci-dessus, face auxquelles le corporate power, uniquement préoccupé de son profit à court terme sera incapable de faire face.

Or beaucoup de personnes s'étonnent de voir, malgré les résistances croissantes, que la marche vers le TTIP et vers son homologue pour l'Asie, l'accord de Partenariat transpacifique, continue à se dérouler inexorablement. Bientôt ces Traités seront signés et leurs effets commenceront à se faire sentir. Le corporate power en sortira renforcé, les intérêts du reste de l'humanité et du monde en général seront de plus en plus mis en danger.

Mais cet étonnement des observateurs naïfs vis-à-vis de cette marche inexorable tient au fait qu'ils n'ont pas encore pris conscience du poids aujourd'hui dominant de ce corporate power, bien décrit par l'étude précitée des chercheurs suisses. Ceux-ci ne connaissaient pas encore sans doute les projets concernant de tels traités, mais ils les auraient sûrement pris en exemple de ce qu'ils ont nommé un réseau d'appropriation du monde par les entreprises multinationales. Certaines de ces entreprises feront valoir qu'à travers ces traités, elles visent le plus grand bien de l'humanité. Mais les chercheurs suisses, ou ceux qui s'inspirent de leurs travaux, pourraient aisément montrer que le superorganisme du corporate power transnational marche aveuglément, au delà de la domination du monde, à la destruction de celui-ci. Mais alors il ne restera plus d'Etats nationaux, de services publics et de réglementations susceptibles de s'y opposer.

Annexe

Pour faire le point sur les perspectives à ce jour des négociations sur le TTIP, nous reprenons ici les principaux éléments d'un article de Paul De Clerck, Friends of the Earth Europe, Lora Verheecke, Corporate Europe Observatory et Max Bank, LobbyControl, « How TTIP could create a red tape labyrinth » https://euobserver.com/opinion/128350

Cet article est traduit, adapté et commenté sur le site DeDefensa, auquel le lecteur pourra se référer http://www.dedefensa.org/article-le_ttip_ou_le_suicide-_-la-kafka_20_04_2015.html

 

stop-TTIP.jpg

How TTIP could create a red tape labyrinth

Après deux ans de négociations entre l'UE et les USA sur le TTIP,  vous vous attendriez à être bien avertis de toutes les dispositions controversées que contient le projet. Il n'en est rien, car le pire est encore à venir.

Alors que les négociateurs se retrouvent à New York ce lundi 20 avril pour de nouvelles conversations, une nouvelle version “fuitée” d'une proposition de la Commission Européenne pour un chapitre connu sous le nom de “Coopération de Régulation” (disons CR, pour la facilité du propos de cette adaptation, – NDLR) montre que l'accord devrait mettre en place des barrières quasiment infranchissables sur la voie de toutes les législations des pays et institutions concernés. Les corps législatifs de la Commission européenne et du gouvernement US, aussi bien que des 28 États-membres et des 50 États de l'Union, pourraient tous devenir l'objet d'entraves et d'obstacles bureaucratiques sans limites.

Stop_TTIPnnnn.jpgL'objectif de la CR est d'aligner les lois présentes et à venir de l'UE et des USA pour “réduire les charges inutiles, les duplications et les divergences des régulations et règles affectant le commerce et les investissements”. Si des efforts pour une telle CR paraissent logiques et justifiées à première vue, une lecture plus attentive des propositions conduisent à s'alarmer considérablement des procédures et de leurs conséquences.

Pour parvenir à l'harmonisation désirée, la Commission propose de créer un organisme de CR, composé de fonctionnaires civils des deux côtés, qui auraient pour tâche d'apprécier dans quelle mesure les actes législatifs aussi bien de l'UE que des USA sont compatibles entre eux et avec les impératifs du commerce et des investissements. S'ils ne le sont pas, cet organisme aurait le pouvoir d'établir des barrières supplémentaires sur la voie des lois incriminées en proposant des mesures pour renforcer l'harmonisation ou réduire l'impact et les coûts sur les entreprises, – que les gouvernements seraient obligés de prendre en considération. Il pourrait, par exemple, proposer que des législations jointes USA-UE ou même internationales aient la prééminence.

Toutes ces mesures doivent avoir comme résultat inévitable d'affaiblir, de ralentir, voire de complétement stopper les processus de législation et les lois que produit ce processus. Pire encore, ces recommandations pourraient être faites à n'importe quel moment du processus législatif, donnant par conséquent l'opportunité constante d'affaiblir et de repousser le processus conduisant à l'adoption des lois, y compris à un moment où ces lois sont en train d'être examinées par les élus du peuple dans tel ou tel pays.

La CR demande aux législateurs de suivre des procédures qui conduiraient fort probablement à plusieurs années de retard pour les lois envisagées, et obligeraient les législateurs à accorder la plus sérieuse attention à toutes les contestations soulevées, jusqu'aux plus dérisoires et aux plus intrusives. Cela obligerait à créer une énorme bureaucratie de fonctionnaires civils, qui aurait pour tâche d'évaluer chaque loi nationale et chaque loi de l'UE pour voir dans quelle mesure elle s'accorderait aux lois similaires aux USA, et vice-versa. Ce processus conduirait à la production de nouvelles vagues de paperasseries bureaucratiques pour les gouvernements, et à de nouvelles dépenses pour les contribuables.

Tout cela aurait également un fort effet dissuasif auprès des législateurs de l'UE et des États-membres, de seulement tenter d'introduire de nouvelles lois pour protéger les intérêts du public. La conséquence la plus importante de la CR conduirait à un effet préventif négatif considérable. Si les législateurs savent qu'à chaque étape du processus menant à une loi leur travail peut être mis en question et examiné, ils seront beaucoup moins enclins à suivre dès le départ des références de nouveauté et des standards de grande qualité.

Les propositions actuelles de l'UE offrent au corporate power des opportunités particulièrement prometteuses d'affaiblir et de retarder les législations qu'il considère comme “anti-commerciales”, c'est-à-dire tout ce qui peut conduire à des coûts supplémentaires pour leurs compagnies. La proposition prescrit que l'UE doit inclure dans chacun des processus de régulation une consultation des actionnaires et qu'elle doit tenir compte des avis qui seront donnés. Cela donne aux groupes ainsi concernés des moyens très puissants de faire barrage à tout nouveau standard qui pourrait conduire à des coûts plus élevés.

Enfin, last but not least, la CR telle qu'elle est proposée pour le TTIP conduira à une érosion significative du processus démocratique de l'UE et des États-membres en permettant à un pays étranger d'examiner attentivement les propositions législatives et faire pression pour leur adoption avant même que les institutions démocratiques représentatives, tels que le Parlement Européen, les parlement nationaux et les États-membres, aient la possibilité de seulement les apprécier.

Tout cela donne d'énormes pouvoirs à des petits groupes d'individus qui ne sont comptables en aucune façon devant l'intérêt public européen, d'accorder la priorité aux préoccupations du commerce et de l'investissement par rapport à tout autre intérêt. La Coopération de Régulation est un système qui introduit volontairement des obstacles et des barrières pour la mise en place d'une véritable régulation. Cela devrait conduire sans aucun doute à des négociations sans fin, sans résultats, entre législateurs pour l'harmonisation de leurs lois. Ce labyrinthe de paperasserie pourrait créer effectivement un blocage complet de tout nouveau standard européen pour les domaines environnemental, social et de la santé au sein de l'Union Européenne.

Paul De Clerck, Lora Verheecke, Max Bank

Jean Paul Baquiast

¿EE.UU. INSTALÓ ARMAS ATÓMICAS EN COLOMBIA?

bases_colombia.jpg

¿EE.UU. INSTALÓ ARMAS ATÓMICAS EN COLOMBIA?

PELIGROSOS PLANES GRINGOS CONTRA VENEZUELA Y LA REGIÓN

Ex: http://laiguana.tv

Aunque el gobierno neoliberal de Juan Manuel Santos se ufana en el ámbito interno de impulsar un proceso de paz con la insurgencia de las Farc, su política internacional (dictada desde Washington), en contraposición, apunta a desestabilizar la armonía y la integración regional. Así lo dejó entrever durante su charla magistral el pasado 8 de abril en Bogotá, el sociólogo y politólogo argentino, Atilio Borón, en el marco de la Cumbre Mundial de Arte y Cultura para la Paz, organizada por la Alcaldía Mayor de la capital colombiana.

Por un lado, Borón dijo que es un contrasentido que mientras la irrupción de China en la geopolítica mundial está desplazando el protagonismo del Atlántico hacia el continente asiático, Colombia se empeña tozudamente en impulsar la Alianza del Pacífico, un invento de Washington para contrarrestar la presencia cada vez mayor de Beijing en América Latina y horadar el proceso integracionista de la Patria Grande. De otra parte, agregó, el hecho de que el gobierno de Santos en forma por demás disciplinada haya aceptado las directrices del Pentágono para que Colombia ingrese a la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN), y al mismo tiempo existan serios indicios de que el Comando Sur haya instalado armamento nuclear en este país andino, da una clara señal de amenaza para la paz de la región.

El analista argentino hizo énfasis en señalar que la OTAN no es más que “la fuerza imperial de choque”, desde la cual Washington lanza su estrategia de ofensiva militar hacia diversos países o regiones del mundo, a los que determina o considera que constituyen amenazas para sus intereses. En consecuencia, señaló, el ingreso de Colombia a esta alianza militar extracontinental no aporta en absoluto a la paz.

Conflicto colombiano es pretexto para militarización de Estados Unidos


colombia-usa-flags-expat-chronicles1.jpgDurante su conferencia en el Teatro Bogotá, Borón con su característica capacidad dialéctica y didáctica a la vez, mostró cómo en Colombia se lleva a cabo un proceso de paz con un actor armado como las Farc en medio de un mundo convulsionado por múltiples conflictos, originados en buena medida por el declive del imperialismo estadounidense.

“La paz en Colombia es la paz de toda América Latina”, fue el título de la charla del reputado analista político y catedrático universitario, actualmente director del Programa Latinoamericano de Educación a Distancia (PLED) del Centro Cultural de la Cooperación de Buenos Aires.

En desarrollo de su exposición, Borón demostró el rotundo fracaso de la intervención directa de Estados Unidos en materia de combate al narcotráfico y a la insurgencia en Colombia, desde hace ya varias décadas. Trajo a colación el ejemplo del denominado Plan Colombia suscrito por el entonces mandatario conservador Andrés Pastrana con la administración Clinton (toda una estrategia de entrega de soberanía a Washington).

Dicho Plan que a los colombianos se les vendió como una “ayuda” norteamericana, resultó un completo fiasco, pues como lo graficó Borón en cifras tomadas de informes de Naciones Unidas, el narcotráfico en vez de disminuir, aumentó. En efecto, hubo un incremento exponencial de cultivos ilícitos tanto en México, Colombia y Afganistán, países en donde coincidencialmente Estados Unidos interviene directamente.

Además, la intervención directa del Pentágono, la CIA, la DEA y el Departamento de Estado en los asuntos colombianos ha servido para el enriquecimiento de empresas de armamento norteamericano y al mismo tiempo para la financiación de campañas de congresistas estadounidenses (que hacen lobby en favor de los consorcios que se benefician), así como para la presencia de Israel.

Es que de la guerra interna en Colombia no solamente se favorece en grado superlativo Estados Unidos sino también Israel, como bien lo anotó Borón. Desde 1960, el Mossad (servicio de inteligencia) y organizaciones de espionaje israelitas que operan bajo la fachada de seguridad hacen presencia en territorio colombiano asesorando grupos paramilitares y redes mafiosas de narcotráfico.

Juan Manuel Santos tanto como ministro de Defensa como ahora en calidad de primer mandatario prohija y aplaude la presencia israelita en Colombia porque como lo ha señalado en reiteradas ocasiones, sería “muy positivo” que este país “sea el Israel de Suramérica”.

Por todo lo anterior, Borón dijo que ojalá las negociaciones de paz que se desarrollan en La Habana entre el gobierno de Santos y las Farc lleguen a buen puerto porque el conflicto colombiano es el mejor pretexto para la militarización de Estados Unidos en la región.

El contexto geopolítico

La coyuntura de la realidad sociopolítica colombiana en medio de posibilidades ciertas de poner fin a un conflicto interno de más de medio siglo pasa por el declive del imperio estadounidense, el colapso europeo, y la irrupción, en consecuencia, de nuevos actores en la escena de la geopolítica mundial.

Borón pone de manifiesto en el actual escenario mundial el protagonismo de China e India, el retorno de Rusia, la debacle de la Unión Europea, las alianzas regionales y la decadencia del imperialismo estadounidense, factores todos estos que van a tener una incidencia directa en el devenir político de América Latina.

Es enfático en llamar la atención sobre el peligro que se cierne sobre el mundo y específicamente sobre la región, el declive de Washington, pues sostiene que en la fase de descomposición los imperios se tornan más represivos y sanguinarios y trae a colación ejemplos históricos como la etapa final del imperio otomano con el genocidio armenio (en 1915), o el caso británico con la brutal represión en la India.

En el plano económico, el politólogo argentino, demuestra cómo Estados Unidos se encuentra en la sin salida: por un lado debe más de lo que produce; por otro, es cada vez más progresivo el reemplazo del dólar en el comercio internacional. Y para complementar, suministra un dato más: mientras en este año de 2015 China construirá 15 mil kilómetros de vías férreas, en contraste, la nación norteamericano no construirá mi uno solo, con lo cual su infraestructura vial comienza a quedar rezagada.

A ello hay que sumar, dice Borón, la creciente desigualdad que se viene presentando en Estados Unidos con su consecuente quiebre respecto de su integración social. No obstante, es desorbitado su gato militar, así como es evidente también su cada vez mayor aislamiento internacional, lo cual queda reflejado, por ejemplo, en las últimas derrotas que ha tenido que tragarse la Casa Blanca, precisamente, en su principal zona de influencia, América Latina. En efecto, primero tuvo que aguantarse que dos países latinoamericanos como Ecuador y Bolivia le pusieran freno a su actitud sempiterna de injerencia en asuntos internos. El presidente ecuatoriano Rafael Correa cerró la base militar de Manta; y el mandatario boliviano Evo Morales expulsó a la misión diplomática estadounidense. Más recientemente, en la OEA (el Ministerio de las Colonias como la denominó Fidel Castro), el gobierno de Obama perdió por goleada cuando planteó su intervención en Venezuela. Estos acontecimientos, agrega Boron, eran impensables apenas hace unos años.

E.U. lanza feroz reconquista de América Latina para asegurar recursos naturales

En medio del imparable desmoronamiento del imperio estadounidense, Washington no se resiste en su propósito injerencista en América Latina porque es la manera de asegurar mediante artimañas y engaños (tratados de libre comercio, golpes blandos, Alianza para el Pacífico, terrorismo económico, alianzas militares) el acceso (vía el saqueo y el pillaje) a la rica biodiversidad que produce esta región para poder seguir manteniendo su descomunal patrón capitalista de consumo.

Por esta razón, Washington despliega su artillería militar en todo el continente, como bien lo esboza Borón en su magistral libro, América Latina en la geopolítica del imperialismo, que obtuvo el Premio Libertador al Pensamiento Crítico en 2013.

PdAYd.jpg

Estados Unidos, explica este reputado analista internacional, ancla su estructura militar en América Latina tanto en Colombia como en Honduras para lanzar sus aventuras. El mar Caribe está totalmente controlado militarmente por el Pentágono, que además cuenta con alrededor de 80 bases a lo largo y ancho del hemisferio. No es gratuito tampoco que en 2008 el Comando Sur haya activado la IV Flota, coincidencialmente poco después de que el entonces gobierno brasileño de Lula da Silva anunciara el descubrimiento de un gran yacimiento petrolífero submarino en el litoral paulista.

Obviamente que los pretextos para esta descomunal militarización de Estados Unidos a lo largo y ancho del continente son el narcotráfico, los populismos (como estigmatizan a los gobiernos progresistas de la región), las calamidades naturales y la seguridad continental. Falacias que ayudan a propalar los grandes oligopolios mediáticos de propiedad de los sectores decadentes de la ultraderecha latinoamericana. Por ello Borón exhorta a no confundirse: “el nombre de todo esto es petróleo”, y de esta manera explica porque toda la estrategia de desestabilización y satanización al gobierno de Venezuela del presidente Nicolás Maduro.

¿Si Venezuela, fuera productor de tomates o de papas, Estados Unidos buscaría derribar al gobierno bolivariano de Venezuela con la activa colaboración de sus lacayos de la derecha latinoamericana?, se interroga el politólogo argentino. No es gratuito por lo tanto el feroz ataque emprendido por la Casa Blanca contra el proceso político inaugurado por el comandante Hugo Chávez. 

¿E.U. tiene armamento nuclear en Colombia?

Borón cerró su conferencia en Bogotá, dejando un inquietante interrogante: “Colombia bien podría ser hoy un país en el que Estados Unidos instaló armamento nuclear en abierta violación al acuerdo internacional regional, mediante el cual nuestros países se comprometieron a mantener América Latina como una nuclearizada zona de paz”.

Si bien, agrega, el tratado suscrito entre Uribe Vélez y Obama que autorizaba la utilización de siete bases militares fue declarado inexequible por la Corte Constitucional de Colombia, “lo cierto que este tropiezo legal no ha impedido que Estados Unidos haya proseguido operando militarmente en ese país”.

(Politiqueroscaicedonia)

Les USA jonglent entre chaos et coordination pour contenir la Chine

CAEUElQVIAI9kWp.jpg large.jpg

Les USA jonglent entre chaos et coordination pour contenir la Chine

Par Andrew Korybko

Ex: http://www.cercledesvolontaires.fr

Ce n’est aujourd’hui plus un secret que les USA sont résolus à contenir la Chine, tout en évitant soigneusement de s’engager dans une confrontation directe avec elle. En lieu et place, les USA entretiennent une double politique de création de chaos aux franges de l’ouest et du sud-ouest de la Chine tout en coordonnant une alliance d’endiguement le long du sud-est et du nord-est de sa périphérie. L’Asie Centrale, le nord-est de l’Inde et le Myanmar en représentent les composantes chaotiques, tandis que les « porte-avions insubmersibles » du Japon et des Philippines en sont les composantes coordonnées.

De cette façon les USA encerclent littéralement le pays avec des situations et des états hostiles (avec l’exception évidente étant la frontière russe), espérant que ceci puisse désorienter les décideurs politiques chinois et par voie de conséquence paver la route de l’infiltration interne à travers la déstabilisation externe. Au milieu de tous ces complots la Chine ne reste pas inactive ou passive, puisqu’elle a trois stratégies spécifiques à l’esprit pour briser la Coalition d’Endiguement Chinois (CEC) et contrer le pivot des USA vers l’Asie.

Cultiver le chaos

La stratégie de la CEC à l’ouest et au sud-ouest est de créer une ‘frange régionale’ déstabilisée à même d’infecter les provinces périphériques vulnérables de la Chine par son chaos contagieux. Cette section examine comment la grande stratégie US en Asie Centrale et dans l’ouest de l’Asie du Sud-Est est conçue précisément à cette fin, alors qu’une publication précédente de l’auteur avait déjà exploré les perspectives d’une réaction en chaîne de Révolutions Colorées émanant depuis Hong-Kong.

Turkménistan : l’état ‘ermite’ d’Asie Centrale est identifié comme le pays étant le plus vulnérable à une offensive transnationale des Talibans, dans un avenir indéfini. Si ceci devait se produire et que le pays n’était pas suffisamment prêt à se défendre, alors les conséquences désastreuses s’étendraient immédiatement à la Russie, à l’Iran et à la Chine, tel qu’il a été expliqué dans un article antérieur de l’auteur. En ce qui concerne cette dernière, ceci implique une déstabilisation massive des importations régionales chinoises de gaz naturel de la part de son plus grand fournisseur actuel, ce qui aurait évidemment des répercussions négatives au Xinjiang, ultime cible des politiques de chaos US en Asie Centrale en rapport avec la République Populaire. Plus les importations énergétiques chinoises continentales sont menacées et périlleuses, plus le pays doit s’appuyer sur leur réception par voie maritime ce qui, au regard de la supériorité navale US les place directement sous le contrôle de Washington dans l’éventualité d’une crise.

Kirghizistan : la menace stratégique émanant du Kirghizistan est plus tangible que celle trouvant son origine au Turkménistan, en ce que la république montagneuse borde directement le Xinjiang. À l’examen de la stratégie destructrice des USA en Asie Centrale, il devient évident qu’ils ont un intérêt à provoquer la chute du gouvernement kirghize par le biais d’une autre Révolution Colorée afin, entre autres choses, de créer un havre terroriste ouïghour pouvant enflammer l’insurrection ethnico-religieuse dirigée depuis l’extérieur contre Beijing. Du point de vue de la politique étrangère US, donc, une crise au Kirghizistan est un levier géopolitique qui peut être actionné pour activer davantage d’instabilité au Xinjiang, avec l’objectif d’attirer potentiellement l’Armée de Libération du Peuple dans un bourbier. Dans le schéma général des choses, les deux républiques d’Asie Centrale, le Turkménistan et le Kirghizistan, sont essentiellement des armes anti-Chinois attendant d’être (dé)construites par les USA pour être utilisées contre la province stratégique du Xinjiang, avec l’Ouzbékistan jouant aussi un rôle similaire s’il devait imploser (ou y être incité par les USA).

Inde du nord-est : dans ce recoin de l’Inde, qui peut être culturellement considéré comme la frange du nord-est de l’Asie du Sud-Est, la foule de tensions ethniques et d’insurrections émergentes qui ont lieu pourraient faire le bond d’une crise domestique, à une crise d’ampleur internationale. L’auteur avait précédemment évalué que l’une des répercussions de la violence de l’année dernière inspirée par Bodo avait été de déstabiliser la proposition de couloir commercial Bangladesh-Chine-Inde-Myanmar (BCIM), affectant négativement les projets de Beijing pour une ‘Route de la Soie du Golfe du Bengale’. Toutefois, l’internationalisation de la situation pourrait voir les guerres ethniques encourager des acteurs militants non-étatiques au Myanmar, avec comme objectif final qu’ils en viennent à déstabiliser la province du Yunnan, la région chinoise ayant la plus grande diversité culturelle et ayant été comparée à ‘un microcosme parfait‘ du pays entier. Bien que pour le moment aucune preuve n’a été avancée pouvant suggérer que les USA aient joué le moindre rôle dans l’instigation des dernières violences dans la province de l’Assam, cela n’implique pas qu’ils ne puissent pas le faire à l’avenir, surtout maintenant que les dés de la tension ethnique ont été jetés. Cette Épée de Damoclès est perpétuellement suspendue au-dessus de la tête des décideurs politiques indiens, car ils comprennent qu’elle peut être utilisée contre eux au cas où ils résistaient à la pression de Washington de se soumettre davantage à la Coalition d’Endiguement Chinois (CEC).

Myanmar : la plus grande menace conventionnelle envers la Chine le long de sa bordure méridionale (hors une Inde hostile) repose dans le débordement des guerres ethniques depuis le Myanmar vers l’intérieur du Yunnan. Actuellement, ceci se produit déjà puisque les récentes violences à Kokang (État de Shan) ont forcé des milliers de personnes hors de leurs foyers vers la Chine en tant que réfugiés, où il est rapporté qu’ils sont vus comme étant un ‘poids’ pour les autorités. Assez clairement, la Chine comprend les vulnérabilités du Yunnan face à une déstabilisation externe du même type qu’au Xinjiang, quoique manifestée autrement, d’où sa sensibilité à ce qui pourrait être un nouvel embrasement de la guerre civile au Myanmar. Après tout, l’explosion de violence inattendue a une fois de plus retardé la conclusion des pourparlers de paix longtemps attendus du pays, dont la finalisation avait été antérieurement prévue.

thediplomat_2014-04-30_14-13-00-386x288.jpgCependant, désormais d’autres groupes ethniques ont été encouragés par les affrontements, ils envoient leurs propres combattants et mercenaires à Kokang, qui est en outre d’ores et déjà sous régime de loi martiale. Il semble dorénavant que le fragile processus de paix national soit au bord de l’effondrement total, et que les combats puissent se répandre à d’autres régions si leurs milices respectives choisissent de profiter de toute déconvenue perçue du gouvernement à Kokang pour lancer leurs propres offensives. Tout ceci mènerait à la détérioration de la sécurité du Yunnan et à l’influx de milliers de réfugiés supplémentaires, certains pouvant même être affiliés à des militants voulant provoquer leurs propres soulèvements à l’intérieur de la Chine. C’est ce facteur qui effraie le plus Beijing, nommément, que les jungles du Yunnan puissent un jour devenir le foyer de combattants similaires à ceux du Xinjiang, désireux de livrer une autre portion du pays au chaos.

Schémas chaotiques: ce qui est cohérent dans tout ce chaos, c’est qu’il suit une espèce d’ordre en termes de stratégie US. Les pays étudiés longent les franges de l’ouest et du sud-ouest de la Chine, qui sont déjà mûres pour des provocations ethniques. De plus, deux des états bordant les provinces ciblées, le Kirghizistan pour le Xinjiang et le Myanmar pour le Yunnan, sont intrinsèquement instables pour des raisons qui leur sont propres, faisant d’eux des ‘bombes à retardement actives’ pouvant être incitées à exploser sur le seuil de la Chine par les USA. En ce qui concerne le Turkménistan, l’Ouzbékistan et le nord-est de l’Inde, leurs déstabilisations sont des détonateurs pour les deux ‘bombes’ principales, le Kirghizistan et le Myanmar, bien que le dysfonctionnement de n’importe laquelle des régions susmentionnées affaiblisse la Chine en lui-même. En bref, ce vecteur de la grande stratégie US est orienté vers la destruction d’états-clés de la périphérie de la Chine afin d’éroder la force du gouvernement central le long de ses propres régions périphériques, dont deux (le Xinjiang et le Yunnan) sont vulnérables face à une déstabilisation dirigée de l’extérieur et visant l’agitation ethnique.

Coordonner l’endiguement

De l’autre côté de la Chine, les USA façonnent une Coalition d’Endiguement Chinois (CEC) pour confronter Beijing et la provoquer à une intervention de type ‘Brzezinski à l’envers‘ dans la Mer de Chine du Sud (si elle n’est pas déjà entraînée au Myanmar). Le Japon et les Philippines sont les pièces centrales de cette stratégie, et il est envisagé que la Corée du Sud et le Vietnam y jouent également des rôles essentiels. Examinons les plans de Washington pour chaque pays présenté, tout en étudiant comment ils s’imbriquent tous ensemble dans le schéma plus vaste :

Les ‘porte-avions insubmersibles’

Japon : la remilitarisation du Japon sous le Premier Ministre Shinzo Abe a irrité à la fois la Chine et la Corée du Sud, qui se souviennent encore vivement des cicatrices de la Seconde Guerre Mondiale. Beijing est particulièrement troublée par la ‘réinterprétation‘ de la constitution pacifiste du Japon, où il a été décidé que ses ‘forces d’auto-défense’ pouvaient assister des alliés en guerre à l’étranger, des analystes ayant notoirement souligné que cela faisait certainement allusion à son allié de défense mutuelle, les USA. Quoiqu’il en soit, cela ne se limite pas qu’à une simple coopération avec les USA et peut également venir en appui à des armées régionales; c’est ici que les Philippines entrent en scène.

Les Philippines : comme avec le Japon, les USA conservent un engagement de défense mutuelle avec les Philippines qui a encore été renforcé par la signature d’un accord supplémentaire de 10 ans l’été dernier. Les Philippines ont élevé leurs relations avec le Japon en partenariat stratégique en 2011, ce qui fait de Tokyo le seul hormis Washington à bénéficier de ce privilège auprès de Manille, qui vient aussi d’en conclure un avec le Vietnam. Ceci est extrêmement important car il en découle que les Philippines se transforment en nœud central reliant les trois principaux partenaires de la CEC, et que tout déclenchement d’hostilités entre elles et la Chine y attirerait probablement ses trois autres partenaires, jusqu’à un certain point (ce qui est étudié plus loin).

Soutien secondaire

Vietnam : cet état d’Asie du Sud-Est est historiquement engagé dans une rivalité avec la Chine, rivalité la plus récemment exprimée au travers des émeutes anti-chinoises de 2014 et de l’antérieure Guerre Sino-Vietnamienne de 1979. Bien qu’il ne soit pas annoncé que Hanoï entre dans une relation formelle de défense avec Washington semblable à celles de Tokyo et de Manille, les liens entre les deux se sont progressivement réchauffés au fil des années, les USA allégeant un embargo de ventes d’armes au Vietnam en fin d’année dernière pour annoncer il y a une semaine qu’ils allaient leur fournir 6 patrouilleurs. La coopération militaire et la coordination stratégique sont appelées à s’intensifier dans les années à venir, tandis que les USA embarquent le Vietnam à bord de la CEC comme membre de soutien, bien qu’il ne soit pas clair si cela s’amplifie davantage en plein jour ou s’active plutôt dans l’ombre, ou encore en reste à son niveau actuel.

Considérant que le pays partage une réelle frontière terrestre avec la Chine et que la puissance militaire chinoise est plus forte sur terre que sur mer, il est présentement improbable qu’Hanoï entre en confrontation directe avec elle (à moins qu’elle ne soit garantie de réitérer ses fortunes de la guerre de 1979). Ce qui est cependant plus probable est qu’elle assume le rôle d’un double ‘meneur depuis l’arrière‘, partenaire avec les Philippines dans l’endiguement de l’activité navale de la Chine dans la Mer de Chine du Sud, pouvant éventuellement venir à leur secours dans l’éventualité d’un conflit formel. Travaillant indirectement à travers les Philippines via son nouveau partenariat stratégique avec le Vietnam, Washington et Hanoï pourraient occulter leurs liens militaires de plus en plus importants et ainsi éviter une indignation domestique concernant leur alliance militaire de facto. Non seulement cela, mais le Vietnam peut également conserver une mesure de possibilité de dénégation dans sa relation avec la CEC, bien que cela ne puisse peut-être pas rester crédible longtemps s’il va plus avant dans une coopération plus profonde avec l’US Navy, principalement en autorisant davantage d’escales portuaires à ses navires et de possibles manœuvres navales conjointes.

dc75b27a-e8d0-4ff3-9ac0-711c7cf5b2e1.jpg

 

Corée du Sud : Séoul est le maillon faible de la CEC, mais il est malgré tout nécessaire d’examiner le rôle prévu par les USA pour elle, quelle que soit leur réussite dans sa mise en œuvre. L’idée est que la Corée du Sud et le Japon forment la base de la section du Nord-Est de la CEC, mais étant donné les importants problèmes existant entre eux (prioritairement leur opinion de la Seconde Guerre Mondiale et la dispute territoriale des Rochers Liancourt), il sera difficile pour leurs gouvernements de s’accorder avec leurs citoyens sur une telle éventualité. Portant l’affaire encore plus loin, la Corée du Sud est délibérément ambigüe sur sa volonté d’héberger une infrastructure de défense anti-missiles sur son territoire, démontrant qu’elle est suffisamment pragmatique dans sa politique pour prendre en considération les intérêts de la Chine. Ceci peut être influencé par le fait que les deux ont d’ores et déjà signé un Accord de Libre Échange qui représente l’un des hauts points de la diplomatie régionale chinoise de ces dernières années.

En dépit de cela, Séoul, Tokyo et Washington se sont reliés pour partager des renseignements sur la Corée du Nord, créant un réseau pouvant facilement être dirigé contre la Chine dans un avenir défini par le ‘besoin’ s’en faisant sentir. Ceci signifie que Séoul n’est pas prêt à abandonner complètement Washington pendant encore longtemps, ayant récemment prolongé le contrôle US sur ses forces armées en temps de guerre jusqu’au milieu des années 2020. Quand le renforcement de la puissance des USA et les avancées de l’influence chinoise sont mises dos-à-dos, la Corée du Sud peut le plus clairement être vue comme un objet de compétition stratégique pour les deux grandes puissances, bien que plus de 28.000 troupes US soient actuellement stationnées dans le pays. Par conséquent, que le pays puisse s’engager entièrement en faveur de l’un ou de l’autre n’est pas certain, impliquant que les perspectives de son intégration entière dans la CEC sont sévèrement limitées bien qu’elles soient en mesure d’avoir un impact extrêmement important, dussent-elles aboutir.

Rassembler les morceaux

Chaque pièce de la CEC fait partie d’un schéma plus vaste, et certaines lignes de pensée stratégiques relient tout ensemble dans une entité semi-intégrée. Un conflit déclaré entre la Chine d’une part et le Japon ou le Vietnam d’autre part engendrerait des coûts énormes pour chaque belligérant, dont des coûts économiques (qui peuvent être considérés comme les plus importants par le Japon/Vietnam), servant ainsi de contrepoids au bellicisme et aux provocations militaires irrésistibles. Les mêmes ‘ralentisseurs’ ne sont pas aussi visibles quand il s’agit des Philippines, cependant, impliquant que le deuxième ‘porte-avions insubmersible’ des USA puisse servir ‘d’appât’ pour leurrer la Chine dans une ‘Brzezinski à l’envers’ en Mer de Chine du Sud. Alors qu’une analyse sommaire peut amener à disqualifier les Philippines de la moindre chance de succès militaire face à la Chine, un examen plus minutieux (via les détails mentionnés plus haut) indique que l’archipel peut être un énorme piège au regard des relations stratégiques et militaires qu’il entretient avec des tierces parties.

Dans l’éventualité d’hostilités entre Beijing et Manille, Washington offrirait sûrement une quelconque forme d’aide et de soutien à son allié. Ses actions en Ukraine peuvent être vues comme un coup d’essai de ce dont elle parvient à se dédouaner (et dans quels cadres de temps) dans l’assistance à un intermédiaire faible face à une grande puissance, et il est anticipé que de telles leçons stratégiques et logistiques seront certainement appliquées aux Philippines lors de tout conflit qu’elles puissent avoir avec la Chine. Tout comme l’Ukraine a servi de cri de ralliement pour réinventer l’OTAN comme alliance contre la Russie, les Philippines peuvent probablement servir de cri de ralliement pour formaliser la CEC en une organisation analogue orientée contre la Chine. Les autres partenaires stratégiques des Philippines, le Japon et le Vietnam, se rallieraient sans doute à la défense de Manille de la même façon que le font la Pologne et la Lituanie pour l’Ukraine (quoiqu’à une échelle beaucoup plus large et significative). Pour Tokyo et Hanoï, ils peuvent voir l’opportunité de projeter davantage de forces en Mer de Chine du Sud et de tester divers équipements militaires qu’ils peuvent diriger en hâte vers les Philippines (des navires dans le cas du Vietnam et des drones dans celui du Japon). Compliquant encore plus les choses seraient l’Inde et l’Australie, deux états en dehors de la région comme les USA, jetant aussi leur dévolu du côté de Manille de la même façon que le Japon et le Vietnam, utilisant le conflit fabriqué comme excuse pour renforcer leur influence dans la région.

mer_chine_du_sud.jpgCe qui compte le plus ici n’est pas de savoir si les Philippines peuvent gagner (ce qui est hautement improbable), mais le fait qu’elles puissent devenir une ‘Ukraine d’Asie du Sud-Est’, faussement dépeintes par les médias mainstream comme victimes d’une grande puissance non-occidentale (alors qu’en réalité les rôles ont été inversés) et partiellement sacrifiées afin de servir de cri de ralliement pour la concrétisation de la CEC. Non seulement la CEC serait-elle formalisée par un tel scénario, mais tous les partenaires officiels et non-officiels des Philippines pourraient également inonder la Mer de Chine du Sud de leur soutien, y établissant peut-être même une présence permanente de facto (même si il y est plutôt fait référence comme étant une présence ‘tournante‘). De plus, en leurrant la Chine vers un conflit avec les Philippines (à travers des provocations inacceptables), la CEC peut également surveiller la manière dont opèrent l’Armée et la Marine de Libération du Peuple en temps de guerre, fournissant des méthodes et des tactiques observables pouvant être analysées dans le façonnage de contre-mesures appropriées pour le ‘vrai combat’ dans un avenir indéfini.

Briser le Mur de la CEC

Tout est loin d’être perdu, toutefois, puisque la Chine a trois options qu’elle peut employer simultanément pour briser le mur d’endiguement et s’extirper de l’asphyxie stratégique projetée par les USA. Voici ce que prévoit Beijing :

L’Échange Sud-Coréen

Ainsi que décrit précédemment, la Corée du Sud est loin d’être une ardente alliée des USA, au vu des énormes avancées que la Chine y a fait au cours de la dernière décennie au point que Séoul n’a le choix que de se comporter de manière pragmatique avec elle. Ceci entend qu’il devient de plus en plus improbable qu’elle se soumette totalement à la CEC, l’enlevant de la chaîne d’endiguement en construction autour de la Chine. L’objectif de la Chine, donc, est de maintenir la ‘neutralité’ sud-coréenne dans la ‘guerre froide’ que mijotent les USA contre la Chine, avec comme scénario idéal que Séoul expédie le dossier du retour du contrôle sur ses forces armées en temps de guerre et, peut-être, impose des limites (ou des retraits échelonnés) à la présence militaire US sur place. Bien qu’un tel développement puisse sembler être un fantasme politique à l’heure actuelle, cela n’entend pas qu’il ne s’agisse pas de l’objectif final que projette la Chine. En définitive, si la Corée du Sud échange les USA pour la Chine comme partenaire favorisé (ce qui peut progressivement se produire à travers la combinaison d’un sentiment anti-US croissant, la rancune anti-japonaise et des attitudes pro-nord-coréennes), il va sans dire qu’un monumental séisme géopolitique de cet acabit engendrerait des répliques de grande portée, ressenties le plus immédiatement dans les pourparlers entre les Corées du Nord et du Sud mais s’étendant possiblement à travers le reste de la zone Asie-Pacifique.

Naviguer sur la Route de la Soie Maritime

Le plus grand acte de la Chine, à travers peut-être toute son histoire est la connexion de l’Afrique et de l’Eurasie par des routes commerciales terrestres et maritimes à son initiative. Considérant celle-ci dans le contexte de ce document, elle détient la possibilité de transformer des états géopolitiquement malavisés et potentiellement hostiles d’Asie du Sud-Est en partenaires pragmatiques sur les mêmes lignes que le modèle sud-coréen. Outre ce bénéfice stratégique majeur, la Route de la Soie Maritime obstruerait aussi le groupement commercial du Partenariat Trans-Pacifique (TPP) qui est conçu comme un bloc économique anti-chinois. Cette entité contrôlée par Washington pourrait potentiellement relier encore plus ensemble les économies associées  pour créer la ‘fondation économique’ d’un ‘OTAN d’Asie de l’Est et du Sud-Est’, la CEC, et c’est pourquoi il est si important pour la Chine de préempter ces mesures par l’entremise de la Route de la Soie Maritime.

À une échelle plus vaste, les actes de la Chine pourraient représenter un pas de plus dans l’accomplissement de son projet de Zone de Libre Échange de l’Asie-Pacifique, qui est la réponse de Beijing au TPP. Elle en a déjà posé les fondations à travers ses Accords de Libre Échange avec la Corée du Sud et l’Australie, deux alliés archétypiques des USA, démontrant qu’avec le ‘dur labeur’ déjà accompli, il sera peut-être plus facile de rassembler davantage d’entités plus politiquement pragmatiques et moins influencées par les USA dans ce réseau et dans un avenir proche. En allant plus loin, bien que la Route de la Soie Maritime ne soit pas uniquement restreinte à l’Asie-Pacifique, elle peut utiliser la région pour expérimenter diverses approches diplomatiques et économiques qui peuvent être affinées et appliquées plus loin ‘en aval’ (peut-être entre la Chine et l’Afrique de l’Est) en transformant le projet en véritable entreprise transcontinentale, pouvant un jour relier toutes les régions de libre échange de la Chine entre elles en une macro-zone de libre échange.

Renforcer l’OCS

La troisième méthode que peut employer la Chine pour rompre l’encerclement de la CEC est de renforcer l’OCS (Organisation de Coopération de Shanghaï) afin de stabiliser l’Asie Centrale. Non seulement ceci peut prévenir ou rapidement éteindre les menaces chaotiques décrites dans la première section, mais si c’est une réussite, cela peut fournir un contournement terrestre commode de la CEC (si elle n’est pas neutralisée ou empêchée de naître d’ici là) qui pourrait renforcer le vecteur continental du projet de la Route de la Soie et relativement préserver la Chine du chantage maritime des USA et de leurs alliés. Bien que cela n’efface pas complètement de telles menaces (qui doivent toujours être prises en compte dans les calculs stratégiques de la Chine), cela pourrait fournir un débouché utile et approprié pour l’engagement avec le reste de l’Eurasie et la sécurisation de précieuses importations énergétiques du bassin de la Mer Caspienne. Agrandir l’OCS serait également une manière de la renforcer, puisque cela étendrait ses responsabilités à d’autres pays avec lesquels la Chine s’engage, tout en fournissant un forum non-occidental pour la résolution des disputes entre ses membres (par exemple entre la Chine et l’Inde, ou encore entre ces deux mêmes au sujet du Népal ou du Bhoutan).

Pensées de conclusion

Les USA sont engagés dans deux guerres froides au jour d’aujourd’hui, l’une contre la Russie s’attirant presque toute l’attention, tandis que l’autre contre la Chine couve encore. Tout comme ils le font contre Moscou, les USA engendrent un voisinage d’hostilité artificielle contre Beijing et reliant par la suite les états irrités et manipulés ensemble en une espèce de coalition d’endiguement. Alors que la politique des USA se dévoile encore contre la Chine, ils apprennent à coup sûr une chose ou deux de leur campagne contre la Russie, c’est-à-dire qu’une crise a besoin d’être concoctée afin que se déroule le vecteur asiatique de la Nouvelle Guerre Froide. Le chaos qu’engendre Washington en Asie Centrale et en Asie du Sud-Est continentale convient davantage à la militarisation plutôt qu’à la politisation, ce qui explique pourquoi les USA ont besoin de fabriquer une crise en Mer de Chine du Sud impliquant les membres projetés de la Coalition d’Endiguement Chinois. Beijing devra adroitement manœuvrer entre le chaos et la coordination afin de supporter la grande déstabilisation que complotent les USA tout autour de sa périphérie, mais si elle réussit dans ses contremesures stratégiques la multi-polarité fleurira dans toute la zone Asie-Pacifique et se fortifiera à travers l’Eurasie.

Andrew Korybko est un analyste politique et journaliste pour Sputnik qui vit et étudie actuellement à Moscou.

Source : http://orientalreview.org/2015/03/16/the-us-is-juggling-chaos-and-coordination-in-order-to-contain-china/

Traduction : Will Summer

Extremism of the Wolfowitz Doctrine Governs U.S. Foreign Policy

wolfowitz_rect.jpg

Extremism of the Wolfowitz Doctrine Governs U.S. Foreign Policy

Of the various possible explanations of U.S. foreign policy, the most powerful hypothesis is that the Wolfowitz Doctrine in its original undiluted form is the guiding light of U.S. policy. No other competing explanations can rationalize as well as it can the wide range and locations of U.S. government actions, their shifts, their indifference to human life, and their apparent contradictions.

The single most important feature of this doctrine is that it casts the U.S. in a worldwide activist role whose aim is “to deter or defeat attack from whatever source”. And it proposes to accomplish this by precluding “any hostile power from dominating a region critical to our interests…”

This doctrine is conditioned by two world wars and a cold war. It says “never again”. It looks for a worldwide peace and order made in Washington and backed up by American power. It says that no powerful aggressor or potential aggressor like Germany, Japan or the Soviet Union shall be allowed by the U.S. again to rise and threaten world war or even the world order.

It is one thing to propose utopian goals. It is quite another thing to devise a means for accomplishing them. Attempting a pax Americana in practice is turning into endless warfare without reducing threats. The U.S. government itself has become the largest threat to world peace and regional stability. The U.S. government is producing countervailing forces and weakening America. If no Germany or Japan has arisen again, at least yet, it is not because the U.S. government’s policies have prevented such an occurrence. It is simply because the world’s consciousness has moved on from the ashes of two world wars and the dark tensions of a cold war.

The Wolfowitz Doctrine is extreme. It assumes that the U.S. government has the will, the insight, the wisdom, the moral fiber and the capabilities of recognizing and dealing with threats. It assumes that those on the receiving end of American restrictions, bombs, sanctions, deals, payoffs, loans, wars, institutions and ideas will either accept them or be made to accept them. It assumes away the interests of other nations that diverge from those of the U.S. It assumes that the U.S. government is right for these tasks and can do them right, this despite the fact that the U.S. military has shown itself unable to deal with insurgencies, to mention just one irksome limitation of American power. It’s extreme in its worldwide scope. It turns out that there is no region that cannot be defined as critical to U.S. interests. It also turns out that there is no threat that is to small to be defined as a threat that could grow into a larger threat. Under the Wolfowitz Doctrine, the U.S. looks for enemies, even when they are not either visible or being gestated.

The Wolfowitz Doctrine is activist. It gives the foreign policy establishment in and out of government an open-ended assignment. State and Defense revel in it. It gives the think tanks, the defense establishment, the defense companies, the mercenaries and the intelligence bureaus open-ended possibilities for mischief.

The worst thing about the Wolfowitz Doctrine is that it sounds good. It sounds like a good thing. It sounds like a good thing to do. Presidents and cabinet officers can sign on to it and feel as if they are doing good and right things. How can it not be good to remove “bad guys” who are threats? How can it not be good to defend some foreign nation’s borders from rebels or insurgents? The Vietnam War shows that it can be very bad to attempt to hold a border. Iraq shows that it can be very bad to remove a bad guy and destroy a government. Many, many bad things can happen as a result of attempting to do what seem to be good things to those attempting to implement the Wolfowitz Doctrine.

wolfowitz_card.jpgIn practice, as operations in the Middle East show, nothing is as simple as the Wolfowitz Doctrine makes it sound. What’s on paper or in some dreamer’s or planner’s head is not what happens in reality.

The Wolfowitz Doctrine is what has guided U.S. action everywhere, even in the War on Terror. All it took was for Washington to think of terrorism as a massive threat, and 9/11 saw to that. Then it became a simple if crude and unthinking application of the Doctrine to attack Afghanistan and then Iraq. Sanctions on Iran and undermining Iraq easily fell within its scope. So did Libya. Bombing Yugoslavia clearly could be rationalized by this Doctrine. Europe, in this thinking, must somehow be kept pure and free from battles and internal dissensions and struggles, even if it takes a war or two to stop such battles. On paper, there can be no struggles any longer because they are threats to “stability”. The planners become blind to the fact that attempts to enforce stability strictly produce pressures that build up, long-lived insurgencies and new instabilities and grievances.

The motive behind the Wolfowitz Doctrine is pure and noble: peace. The problem is that peace isn’t produced by a superpower enforcing it. The Doctrine lacks a foundation in reality. What happens is that impure motives invariably mix with the pure motive. Americans in government like to win. They like to be number 1. They look upon those nations who are less materially wealthy as inferior. Americans in government are impatient, arrogant and crude in their dealings with others. They are prone to make threats and employ sanctions. They think in military terms. Many impurities come to be mixed with the idea of a noble selfless superpower enforcing peace that the Wolfowitz Doctrine presumes.

The U.S. claims defense of the world order is its motive, but how can that be separated from what has to appear as an attempt to dominate? The Wolfowitz Doctrine requires dominance for its implementation. This is an internal contradiction that cannot be erased. A world policemen cannot operate without being a dominant force.

Other explanations of U.S. behavior don’t measure up as well, and I am not alone in having tried them on for size at one time or another. The other explanations include pathological leaders, evil leaders, ignorant leaders, an ignorant public, imperialism, defending the dollar, pro-Zionism and pro-Israel, and controlling oil supply. Each of these may play some role from time to time. Some of them are mixed in with applying the Wolfowitz Doctrine. Some of them are implausible, not being able to explain the full range of events.

The Wolfowitz Doctrine seems like common sense, which is why it finds support among Americans and American leaders. Yet hidden within its counsels are grave defects, and these are being exposed as the Doctrine is implemented. Activism or interventionism, if you will, is a keystone to the Wolfowitz Doctrine. Look what it has gotten us. This is because the Doctrine makes idealistic and heroic assumptions that fly in the face of realities of how the world works. This Doctrine makes mountains out of molehills. It has done this with terrorism, blowing it way, way out of proportion. This produced more terrorists or Muslim jihadists. It has done this with foreign strongmen and dictators, making them out to be huge and enormous threats that we and their peoples could not handle without war. Nonsense! Removing them has resulted in massive instability. The Wolfowitz Doctrine has made a big deal out of protecting oil supplies and allying with Saudi Arabia. This completely blew up the problem of oil security way out of proportion. The U.S. produced 6 billion barrels of oil in World War 2 without a hitch. It currently sits on 30 billion barrels of reserves, excluding the government’s cache. There is no conceivable major threat to U.S. security on the scope of a world war coming from anywhere on the entire planet. There is no reason on earth why the U.S. has to be frightened of oil supplies having to travel in narrow waters near Iran and Saudi Arabia. These government-held ideas are wild exaggerations, approaching paranoia. They show only that the government is incapable of implementing the Wolfowitz Doctrine without severe prejudice or going off the deep end.

Many aspects of U.S. foreign policy look mad and irrational. This is because they are attempting to take the Wolfowitz Doctrine to extremes under which it falls apart. It is one thing to face up to a clear and present danger or an enemy whose intentions endanger our security. It is very different to attempt to create a world in which no such dangers ever can arise because the U.S. is going to stamp them out when they are no more than glints in a potential enemy’s eyes or when they involve arbitrary assessments of some revolution somewhere, some hostilities somewhere, some terrorist act somewhere, some dictator somewhere, some massacre somewhere, some infringement of gay or women’s rights somewhere, some religious fanaticism somewhere, some emission of carbon somewhere, some nasty language somewhere or some border infringement somewhere. And all of this falls or can fall under the blanket of the Wolfowitz Doctrine.

Good riddance to the Wolfowitz Doctrine.

Email Michael S. Rozeff

Durée de la journée de travail au Moyen-Âge

xdn0.jpg

Durée de la journée de travail au Moyen-Âge

Ex: http://fortune.fdesouche.com

 

 

Cette idée admise, il restait à déterminer les limites de la journée de travail. La presque unanimité des statuts en fixe le commencement au lever du soleil ou à l’heure qui suit ce lever. Pour beaucoup de métiers, le signal précis de la reprise du travail était donné par le son de la corne annonçant la fin du guet de nuit. En revanche, le travail ne finissait pas à la même heure pour tous les métiers. Parfois, il ne se terminait qu’à la tombée de la nuit, c’est-à-dire à une heure variable selon les saisons. Parfois, au contraire, le signal de la cessation du travail était donné par la cloche de l’église voisine sonnant complies, ou par le premier crieur du soir comme pour les batteurs d’archal ou les faiseurs de clous. D’autres métiers quittaient l’ouvrage plus tôt encore, à vêpres sonnées : ainsi des boîtiers et des patenôtriers d’os et de corne.

 

Le motif le plus souvent donné pour justifier cette limitation de la durée du travail est la crainte que la fatigue de l’ouvrier et l’insuffisance de la lumière n’exercent une influence fâcheuse sur la qualité de la fabrication. « La clarté de la nuit, dit le statut des potiers d’étain, n’est mie si souffisanz qu’ils puissent faire bone œuvre et loïal ». Mais l’intérêt de l’artisan lui même n’est évidemment pas étranger à l’adoption de cette mesure. D’après le statut des baudroiers, la limitation de la journée de travail a été instituée « pour eux reposer ; car les jours sont loncs et le métier trop pénible » (Livre des Métiers).

Par exception, quelques rares corporations autorisent le travail de nuit (ouvriers de menues œuvres d’étain et de plomb, teinturiers, tailleurs d’images, huiliers, boursiers). Chez les foulons, le travail finissait au premier coup de vêpres (en carême, à complies), ce que les statuts expriment en disant que les valets ont leurs vesprées (leurs soirées). Mais si le maître avait métier (besoin d’eux), il pouvait les allouer par contrat spécial pour la durée de la vêprée, après s’être entendu avec eux sur le prix. Toutefois cette vêprée ne pouvait se prolonger au delà du coucher du soleil, ce qui signifie sans doute ici : jusqu’à la disparition complète du soleil. La journée ouvrable était ainsi, moyennant un salaire supplémentaire, allongée de deux ou trois heures.

Les règles qui précèdent permettent de déterminer assez exactement la durée de la journée normale de travail dans les corps de métier. La journée, commençant presque uniformément avec le jour (ou tout au moins dans l’heure qui suivait le lever du jour) et se terminant le plus souvent au soleil couchant, sa durée était évidemment variable selon les saisons.

Théoriquement, cette durée de la journée de travail eût dû varier d’un minimum de 8 heures 1/2 en hiver à un maximum de 16 heures en été. Mais ce maximum de 16 heures n’était jamais atteint, et le travail effectif ne devait dépasser en aucune saison 14 heures à 14 heures 1/2. En effet, les règlements ou la coutume accordaient à l’ouvrier deux repos d’une durée totale d’environ 1 heure 1/2 pour prendre son repas (chez les ouvriers tondeurs de drap, au XIVe siècle, il était accordé une demi-heure pour le déjeuner et une heure pour le dîner) ; en outre et comme il vient d’être dit, dans un grand nombre de métiers, le travail se terminait en toute saison à complies (7 heures), ou même à vêpres (4 heures du soir).

Quelques statuts renferment des dispositions spéciales. Ainsi, les statuts des foulons du 24 juin 1467 paraissant constater un ancien usage, fixent la durée du travail en hiver à 11 heures (de 6 heures du matin à 5 heures du soir) ; et en été à 14 heures (de 5 heures du matin à 7 heures du soir) ; mais il y a lieu de déduire de cette durée au moins 1 heure 1/2 pour les repas, ce qui suppose une journée de travail effectif de 9 heures 1/2 en hiver, à 12 heures 1/2 en été. Chez les ouvriers tondeurs de drap, la journée d’abord fixée en hiver à 13 heures 1/2 avec travail de nuit fut réduite en 1284 à 9 heures 1/2 par suite de la suppression du travail de nuit ; en été, ces ouvriers commençaient et finissaient le travail avec le jour.

En résumé, dans les métiers où le travail commençait et finissait avec le jour, la journée variait, déduction faite du temps des repas, de sept à huit heures en hiver à environ quatorze heures en été. Pour d’autres métiers en assez grand nombre, la journée de travail effectif évoluait entre huit à neuf heures en hiver et dix à douze heures en été.

La journée de travail de l’artisan du Moyen Age telle qu’elle vient d’être évaluée paraît au premier examen plus longue que celle de l’artisan moderne : elle était surtout plus irrégulière. Mais pour se faire une idée de la somme de travail fournie annuellement par l’ouvrier, il ne suffit pas d’apprécier la durée de la journée de travail, mais il faut tenir compte du nombre de jours de chômage consacrés au repos ou à la célébration des fêtes. Si l’on prend en considération cet élément d’appréciation, il devient évident que l’on n’exigeait pas de l’ouvrier du Moyen Age un travail sensiblement supérieur à celui de l’ouvrier du XIXe siècle : l’artisan du XIIIe siècle paraît même avoir été sous ce rapport plus favorisé que celui du XIXe siècle. L’énumération suivante des chômages obligatoires démontrera cette proposition. Le chômage est partiel ou complet selon les circonstances.

Chômage complet 

Le travail est entièrement suspendu à certains jours consacrés au repos et à la célébration de cérémonies religieuses. Il en est ainsi :

1° Tous les dimanches de l’année. L’interdiction du travail se retrouve dans tous les registres des métiers et est sanctionnée par de sévères pénalités. On lit notamment dans les Registres du Châtelet, à la date du 17 mars 1401 : « Condémpnons Jehan le Mareschal esguilletier en 10 sols tournois d’amende pour ce que dimanche passé il exposa esguillettes en vente ».

2° Les jours de fêtes religieuses. Ces fêtes étaient alors très nombreuses, et le statut des talemeliers les énumère. La liste en est longue :

Les fêtes de l’Ascension et des Apôtres, le lundi de Pâques et la Pentecôte, Noël et les deux jours qui suivent Noël…

1° Janvier. – Sainte Geneviève et l’Epiphanie
2° Février. – La Purification de la Sainte Vierge
3° Mars. – L’Annonciation
4° Mai. – Saint Jacques le Mineur et saint Philippe ; l’Invention de la Sainte Croix
5° Juin. – La Nativité de Saint Baptiste
6° Juillet. – Sainte Marie Madeleine ; Saint Jacques le Majeur et Saint Christophe
7° Août. – Saint Pierre ès-Liens ; Saint Laurent ; l’Assomption ; Saint Barthélemy
8° Septembre. – La Nativité de la Sainte Vierge ; l’Exaltation de la Sainte Croix
9° Octobre. – Saint Denis
10° Novembre. – La Toussaint et les Morts ; la Saint Martin
11° Décembre. – Saint Nicolas

Au total 27 fêtes auxquelles il faut en ajouter sans doute encore, si l’on veut tenir compte des chômages collectifs ou individuels, une demi-douzaine d’autres : la fête du saint patron de la confrérie, celle des saints patrons de la paroisse, de chaque maître en particulier, de sa femme, etc. En somme le travail était complètement suspendu chaque année pendant environ 80 à 85 jours.

Chômage partiel 

L’ouvrier bénéficie d’une réduction de la journée de travail :

1° Tous les samedis, soit 52 jours par an.

2° Les veilles ou vigiles de fêtes religieuses communément chômées « que commun de ville foire ». Ces veilles de fêtes représentent un nombre de jours sensiblement moindre que les fêtes elles-mêmes, car on ne compte qu’une vigile pour Noël contre trois jours fériés (Noël et les deux jours suivants) ; qu’une vigile contre les deux fêtes consécutives de la Toussaint et des Morts, etc. Les vigiles de certaines fêtes comme celles du patron de la confrérie, du patron de l’église paroissiale, etc., n’étaient pas chômées. Il n’en reste pas moins une vingtaine de vigiles de fêtes pendant lesquelles on chômait une partie de la journée. Il s’ensuit que pendant 70 autres journées environ le travail quotidien était sensiblement diminué.

Mais ici se pose une question très délicate. Dans la majorité des métiers le travail doit cesser le samedi au premier coup de vêpres ; dans certains autres à none ou à complies ou à tel signal donné par les cloches d’une église voisine. Parfois la cessation du travail à lieu : en charnage après vêpres ; en carême à complies. A quelles heures correspondaient ces offices et quel temps désignent ces dénominations charnage et carême. On est d’accord pour admettre que none correspondait à trois heures de l’après-midi. Mais en ce qui touche l’heure réelle de la célébration des vêpres et des complies au Moyen Age, de sérieuses divergences se rencontrent entre les érudits.

D’après de Lespinasse, l’heure de vêpres était au Moyen Age six heures du soir environ et celle de complies neuf heures du soir. La même opinion est adoptée par Eberstadt et par Alfred Franklin (Dictionnaire des corporations des arts et métiers, 1906). En revanche, Fagniez (Etudes sur l’Industrie à Paris au XIIIe siècle) émet cette opinion que vêpres se chantaient à quatre heures et complies à sept heures. Sans prétendre apporter ici une affirmation qui ne pourrait s’appuyer sur des preuves catégoriques, la fixation proposée par. Fagniez semble la plus conforme à la vérité, et nous pourrions même dire que vêpres se chantaient entre 3 et 4 heures (peut-être avec un changement d’horaire selon la saison).

En faveur de ce système milite tout d’abord un argument de bon sens. La disposition des statuts qui ordonne de cesser le travail le samedi à vêpres ou à complies a évidemment pour but, en abrégeant la durée du travail quotidien la veille du dimanche, de permettre à l’artisan d’assister ce soir là aux offices religieux ; c’est une mesure de faveur. Où serait la faveur si le travail ne devait cesser l’hiver pendant les jours les plus courts qu’à 6 heures du soir et l’été pendant les jours longs qu’à 9 heures ? Cette disposition serait alors non plus une réduction, mais plutôt une prolongation de la durée habituelle du travail quotidien qui doit finir normalement avec le jour. Car le jour finit en hiver bien avant six heures et même en juin et juillet, pendant la saison des jours les plus longs, avant neuf heures !

Par exemple, le statut des garnisseurs de gaines et des faiseurs de viroles (titre LXVI) renferme cet article 4 : « Nus du mestier ne doit ouvrer en jour de feste que commun de vile foire ne au samedi en charnage (de) puis vespres, ne en samedi en quaresme (de) puis complies, ne par nuit en nul tans ». Il est clair que cette prohibition de travailler la nuit en nul temps eût été violée chaque samedi en plein hiver si les ateliers étaient demeurés ouverts jusqu’à six heures et chaque samedi d’été où la nuit tombe avant neuf. Si au contraire on fixe vêpres à 4 heures environ et complies à 6 ou 7, il en résulte une abréviation notable de la durée du travail chaque samedi, surtout l’été en ce qui touche ceux des métiers où ce travail du samedi finit en toutes saisons à vêpres.

La tradition ecclésiastique est du reste favorable à cette interprétation. Selon l’abbé Martigny dans son Dictionnaire des Antiquités chrétiennes, « tous les témoignages prouvent que la psalmodie de vêpres – vespertina – avait lieu (dans la primitive église) après le coucher du soleil. Aussi soit en Orient soit en Occident, l’heure de vêpres fut-elle appelée lucernarium parce qu’on allumait les flambeaux pour cet office. On continua à chanter vêpres après le coucher du soleil chez les Grecs comme chez les Latins jusqu’au VIIIe et au IXe siècle. Ce n’est qu’à partir de cette époque que s’introduisit en Occident l’usage de l’Eglise de Rome qui récitait vêpres immédiatement après nones, avant le coucher du soleil ». Nones est fixé d’un avis unanime à trois heures du soir. Il n’est donc pas téméraire de conclure que vêpres devaient être chantées vers 4 heures, peut-être même plus tôt en hiver vers 3 heures ou 3 heures 1/2. La même cloche aurait alors sonné none et vêpres qui suivaient immédiatement none.

Nous disposons à cet égard d’un témoignage fort intéressant. En ce qui touche au moins le XVIe siècle, l’heure de la célébration de vêpres à Paris est fixée par un texte précis. « Tous compagnons apprentys du-dit métier (portent des lettres patentes de Charles IX de juin 1571 confirmant les statuts des patenôtriers d’os et de corne) seront tenuz de laisser besognes les quatre festes annuelles… après le tiers coup de vêpres qui est à trois heures après midy » Le texte cette fois est formel ; il date, il est vrai du XVIe siècle et non du XIIIe ; mais dans cet intervalle la fixation de l’heure des vêpres avait-elle changé à Paris ? A priori non. En 1514 en effet, une sentence du prévôt de Paris rendue à la demande des cordonniers, vise une requête de ces derniers disant que par les anciennes ordonnances du dit métier « avait été ordonné que nuls cordouenniers de Paris ne pourront ouvrer le jour du samedi depuis que le dernier coup de vêpres serait sonné en la paroisse ». Ces anciennes ordonnances sont le titre LXXXIV du Livre des Métiers dont le texte est expressément visé dans la sentence de 1514.

Or si l’heure à laquelle vêpres étaient sonnées avait été avancée ou reculée de 1268 à 1514, il paraît presque certain que les cordonniers en requérant en 1514 toute liberté de travailler désormais de nuit comme de jour et le samedi même après vêpres eussent fait mention de ce changement d’horaire ; ils insistent en effet avec détail sur les modifications survenues dans la technique de leur métier (plus grande difficulté dans la façon des souliers), alors qu’ils présentent la réglementation du temps de travail comme demeurée invariable depuis deux cents ans. « Lorsque icelles ordonnances avaient été faites ne y avait à Paris grand nombre de cordouenniers-varlets ne serviteurs et que de présent audit métier l’on ne se réglait sur lesdites ordonnances parce que deux cents ans et plus avaient été faites… » Nous conclurons donc qu’au XIIIe siècle les vêpres devaient être chantées entre 3 et 4 heures. Quant à complies, l’heure de neuf heures paraît également beaucoup trop tardive ; les données précises d’une fixation manquent encore plus que pour vêpres ; mais 6 à 7 heures paraissent bien correspondre à l’esprit des statuts qui font finir le jour ouvrable à complies en charnage pendant les jours longs.

Que faut-il entendre maintenant par charnage et par carême, termes que les statuts de métiers opposent l’un à l’autre pour faire finir le travail du samedi et des vigiles à vêpres en charnage et à complies en carême ? « Le temps du charnage ou carnaval qui précède le carême a été, dit de Lespinasse, employé chez les gens de métier pour désigner les jours courts depuis la saint Rémi (9 octobre) jusqu’aux Brandons, premier dimanche de Carême, comme l’ont dit quelques-uns. Puis le carême et le dimanche des Brandons qui coïncident avec les premiers jours de printemps ont été le point de départ de la saison des jours longs ». L’explication est certes séduisante, certains textes établissant en effet la division de l’année en deux saison : de la Saint-Rémi aux Brandons ; des Brandons à la Saint-Rémi suivante.

Mais aucun de ces textes n’identifie clairement les deux termes de cette division avec le charnage et le carême. L’opinion qui considère le mot carême comme comprenant dans le langage des métiers environ six mois de l’année – avril à octobre – la saison des jours longs, cette opinion paraît néanmoins assez vraisemblable ; car il serait étrange que le carême fini, et pendant toute la belle saison (d’avril aux premiers jours d’octobre), on fût revenu à des règles qui ne conviennent qu’à la saison d’hiver. Toutefois on ne peut ici apporter aucune certitude.

En définitive et tout compte fait, il résulte de ce qui précède que l’ouvrier du Moyen Age : 1° commençait et finissait son travail avec le jour. La journée était donc parfois plus courte, parfois plus longue que la journée du XIXe siècle ; 2° l’ouvrier fournissait dans une année un nombre de journées et d’heures de travail plutôt inférieur à celui que l’on exige de l’artisan du XIXe siècle. La moindre activité de la production, l’absence de toute spéculation, la régularité de la demande permettaient au maître de prévoir la quantité et la nature des objets qu’il devait fabriquer sans être obligé d’imposer à l’ouvrier des efforts extraordinaires. L’ouvrier travaillait donc moins longtemps, mais aussi son travail mieux équilibré, moins nerveux, moins surmené était plus soutenu, plus appliqué, plus consciencieux.

La France pittoresque

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, moyen âge, travail | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 26 avril 2015

BHL n’est-il qu’une marque publicitaire?

bhl-clown.jpg

BHL n’est-il qu’une marque publicitaire?
 
À force d’être la caricature de lui-même, BHL ne peut plus être pris au sérieux. Il offre un spectacle, au fond, divertissant. Malheureusement, ce sont les autres qui trinquent.
 
Professeur honoraire
Ex: http://www.bvoltaire.fr

Il ne nous appartient pas de juger du parcours controversé de celui qu’on n’appelle plus que par ses initiales, comme s’il était devenu une marque publicitaire. Les nouveaux philosophes, enfantés par la crise de Mai 68, ont eu des destins divers : BHL est resté fidèle à l’image qu’il définissait de l’intellectuel dans La Barbarie à visage humain. Envers et contre tout. Ce qui le conduit à un travers que François Mitterrand avait décelé en lui, lorsqu’il était son conseiller dans les années 70, et dont il espérait qu’il se débarrasserait avec le temps : « J’accepte qu’il dépense encore beaucoup d’orgueil avant de l’appeler vanité. » Las ! Il semble que l’orgueil ait perduré : ce philosophe, qui devrait douter de tout et surtout de lui-même, est le prédicateur de ses propres certitudes.

Interrogé sur France Inter par Léa Salamé, le 22 avril, il a de nouveau justifié l’intervention de 2011 en Libye, reconnaissant seulement qu’aujourd’hui la Libye « n’est pas aussi belle qu’on pouvait l’escompter ». De cette situation, il ne se sent aucunement responsable : « Ceux qui pourraient peut-être se sentir une certaine responsabilité, c’est ceux qui, par exemple, ont laissé faire la guerre en Syrie. ». Cet intellectuel, prompt à dénoncer les erreurs d’autrui, ne se remet jamais en question, il a la conscience tranquille. Le chaos qui règne actuellement en Libye ? Il faut faire confiance aux hommes et aux femmes libyens. Un peu de temps sera certes nécessaire, mais « les fruits de la liberté sont amers », n’est-ce pas ? On voit que ce n’est pas lui qui les savoure. Du reste, Kadhafi ne constituait un rempart qu’à mi-temps : « Il faisait le boulot un an sur deux. » Jean-Pierre Chevènement, qui avait critiqué le choix d’une opération militaire, déclarait sur Europe 1, en 2014, que « la Libye de Mouammar Kadhafi avait beaucoup de défauts mais exerçait un contrôle sur ses frontières » : c’est sans doute un ignare en politique, voire un complice des tyrans du Moyen-Orient, puique BHL a toujours raison !

Notre intellectuel ne s’inquiète donc guère de l’afflux des migrants qui partent des rivages libyens. Il faut sauver les « gens » en mer, « tout le reste est discutaillerie ». Et de répéter : « La source de cette abomination qu’est cette hécatombe en mer, qu’est cette transformation de la Méditerranée en cimetière, la source, c’est la non-intervention en Syrie, c’est le collapse en Somalie et c’est la dictature en Érythrée. » Oui, mais la Libye… N’insistez pas. Tout est dit. D’ailleurs, dans quelques années, l’Allemagne va manquer de sept millions de salariés. De quoi se plaint l’Europe ? Elle va pouvoir s’approvisionner !

bhl6983_1.jpg

Finalement, quand on entend de tels propos, on finit par en plaindre l’auteur. Il est tellement enfoncé dans le ciment de ses certitudes qu’il ne se rend pas compte de ses errements. À force de parler pour s’écouter, à force de se défausser, à force de se confondre avec la marque qu’il s’est forgée, à force d’être la caricature de lui-même, BHL ne peut plus être pris au sérieux. Il offre un spectacle, au fond, divertissant. Malheureusement, ce sont les autres qui trinquent.

Rusia y Argentina cierran acuerdos estratégicos


Ex: http://www.elespiadigital.com

Rusia y Argentina celebrarán consultas sobre el uso de las monedas nacionales en pagos recíprocos, según anunció el presidente ruso, Vladímir Putin. "Hemos acordado celebrar amplias consultas sobre el uso de las monedas nacionales en los pagos comerciales entre los dos países y entre socios comerciales", afirmó Putin.

Vladímir Putin lo anunció este 23 de abril tras reunirse con su homóloga argentina, Cristina Fernández de Kirchner. Las partes han firmado una serie de documentos de cooperación bilateral en los ámbitos comercial, energético, de inversiones y técnico-militar, entre otros.

Kirchner: "Agradecemos a Rusia el apoyo histórico en el tema de las Islas Malvinas"

Durante la reunión con el presidente ruso Vladímir Putin, la presidenta argentina Cristina Fernández de Kirchner ha expresado su agradecimiento a Rusia por su apoyo histórico en el tema de las Islas Malvinas.

Cristina Fernández ha agradecido el apoyo que Rusia ha brindado históricamente en la cuestión de las Islas Malvinas para que "se cumpla la resolución de la ONU en cuanto a que el Reino Unido se avenga a sentarse en una mesa a dialogar sobre la cuestión de soberanía" del archipiélago.

Versión completa de la histórica entrevista que Cristina Fernández de Kirchner concedió a RT

"Condenamos la injerencia en los asuntos de otros países"

La mandataria ha recordado que Argentina, por su parte,  ha apoyado la resolución de la ONU del 17 de febrero de este año para abordar la cuestión de Ucrania. "Creemos que la ONU, la diplomacia y la política son los únicos caminos para resolver cuestiones entre los países", ha afirmado la presidenta del país suramericano.

Y señaló que en la declaración ha sido expresada la más firme condena a todo tipo de injerencia de los países en asuntos internos de otros estados.

"Agradecemos el apoyo ruso en la lucha contra el capital especulativo"

Kirchner también ha agradecido el apoyo que Rusia brindará y ofrece continuamente a Argentina en la lucha de Argentina contra los fondos buitres, a su juicio "capitales especulativos". La mandataria argentina ha expresado su apoyo al presidente ruso y al trabajo que están desarrollando conjuntamente con el grupo G77 más China y otros países de la ONU en la redacción de una convención internacional en materia de reestructuración de la deuda soberana. Este problema es hoy, como ha destacado la mandataria, uno de los más graves que afrontan numerosos países.

Putin: "Rusia está dispuesta a proporcionar a Argentina acceso a sus últimas tecnologías nucleares"


El presidente ruso, Vladímir Putin, afirmó que Rusia está dispuesta a proporcionarle a Argentina acceso a sus últimas tecnologías en el ámbito nuclear. El mandatario ruso lo anunció tras reunirse con su homóloga argentina, Cristina Fernández de Kirchner. Las partes han firmado una serie de documentos de cooperación bilateral en los ámbitos comercial, energético, de inversiones y técnico-militar, entre otros.

La participación de la empresa rusa Rosatom en la construcción de la central nuclear en Argentina permitirá a este país sudamericano tener acceso a las últimas tecnologías rusas en la esfera de la energía nuclear, de acuerdo con el mandatario ruso.

En presencia de los dos líderes, la empresa Rosatom y el Ministerio de Planificación de Argentina han firmado un memorándum de entendimiento sobre la cooperación en la construcción de una planta de energía nuclear en el territorio argentino.

Rosatom se ha unido al proyecto de la construcción del sexto reactor en la planta de energía nuclear Atucha. "La implementación de los acuerdos alcanzados hoy en este ámbito proporcionará el acceso de Argentina a las últimas tecnologías rusas, que cumplen con los requisitos más estrictos de seguridad nuclear", señaló Putin.

Apoyo en la cuestión de las islas Malvinas

Rusia aboga por la pronta solución pacífica de la disputa entre Argentina y el Reino Unido sobre la Cuestión de las islas Malvinas, reiteró Vladímir Putin.

"Rusia apoya los esfuerzos de Argentina por llevar a cabo negociaciones bilaterales directas con el Reino Unido con el fin de lograr una rápida y pacífica solución de la controversia sobre las islas Malvinas", dijo.

Cristina Fernández, a su vez, ha agradecido el apoyo que Rusia ha brindado históricamente en la cuestión de las Malvinas para que "se cumpla la resolución de la ONU en cuanto a que el Reino Unido se avenga a sentarse en una mesa a dialogar sobre la cuestión de soberanía" del archipiélago.

El acercamiento entre la Unión Económica Euroasiática y el Mercosur

La Unión Económica Euroasiática y el Mercosur firmarán un memorando de cooperación, y su estrecha coordinación ha entrado en fase de culminación.

"Prestamos gran importancia a la creación de la interacción entre las asociaciones de la integración regional, la Unión Económica Euroasiática y el Mercado Común del Sur (Mercosur). Su coordinación está en la etapa final", subrayó Putin.

El politólogo y analista Juan Manuel Karg apunta que los acuerdos importantes logrados por Rusia y Argentina, especialmente en el ámbito energético, llevarán las relaciones bilaterales a un estatus superior.

Ámbitos de colaboración

Cooperación militar

El alto nivel de cooperación entre Rusia y Argentina permite a ambos países coordinar acciones en el ámbito internacional y abre perspectivas para una mayor cooperación en el ámbito militar y técnico-militar, según afirmó el ministro ruso de Defensa, Serguéi Shoigú, tras reunirse con su homólogo argentino, Agustín Rossi.

Suministro de combustible nuclear ruso para reactores argentinos

En el marco de la visita oficial se han firmado documentos sobre el suministro, por parte de la corporación nuclear estatal rusa Rosatom, de combustible nuclear poco enriquecido y sus componentes para reactores de investigación y de energía en Argentina.

Construcción de una central nuclear en Argentina

El asesor del presidente Vladímir Putin ha anunciado que Rusia tiene planes para construir una central nuclear en Argentina y ha detallado que "el memorándum sobre la comprensión mutua relacionado con este proyecto está preparado para la firma después de la reunión de Putin y Kirchner el jueves en el Kremlin".

Colaboración en el ámbito del gas y el petróleo

El asesor del presidente ruso, Yuri Ushakov, ha anunciado que Gazprom y la compañía nacional petrolera de Argentina, YPF, firmarán un memorándum tras la reunión entre la presidenta argentina y su homólogo ruso Vladímir Putin el jueves, informa Ria Novosti.

"Con nuevos jugadores como Rusia, América Latina se torna un espacio más seguro"

A raíz de la visita de la presidenta de Argentina a Rusia, el politólogo Atilio Borón ha expresado que la influencia de Rusia en la región latinoamericana es claramente positiva y hará más segura a la región. "La estrategia política seguida por Argentina y Rusia de forjar acuerdos y alianzas de cooperación debe ser saludada como un elemento de estabilización en un tablero geopolítico mundial muy complicado", opina Borón.

Intercambio comercial entre Rusia y Argentina

Ambos países ya gozan de estrechas relaciones en muchos ámbitos, incluido el sector económico. En concreto, en 2014 el intercambio comercial entre Moscú y Buenos Aires alcanzó 1.300 millones de dólares, una cifra que sitúa a Argentina en el tercer lugar de los socios comerciales más grandes de Rusia en América Latina, después de Brasil y México.

En cuanto a las exportaciones rusas a Argentina, el suministro de fertilizantes minerales alcanza un 39% del total, seguido por el combustible diésel y metales ferrosos. A su vez, los tres elementos principales de las exportaciones argentinas a Rusia son la carne, las frutas y nueces, y la producción lechera.

Cristina Fernández de Kirchner sobre RT

Durante su visita, la presidenta argentina ha agradecido a la cadena RT "porque muchas veces falta una visión más completa en las sociedades acerca de lo que pasa en todo el mundo". Asimismo, ha recordado que esta "excelente" señal de noticas en español ha sido recientemente incorporada a la Televisión Digital Abierta argentina, que es gratuita, lo cual "apunta esencialmente a reconocer la diversidad y la pluralidad".

L'HOMME DÉVASTÉ: De la déconstruction de la culture à la dévastation de l’homme

jfm868924.jpg

L'HOMME DÉVASTÉ: De la déconstruction de la culture à la dévastation de l’homme

Kalli GIANNELOS*
Ex: http://metamag.fr
hdev868925.jpgAutant par sa parution posthume que par la portée du projet qui en scelle l’unité, L’homme dévasté de Jean-François Mattéi s’apparente à une œuvre testamentaire. De Platon aux penseurs contemporains, Mattéi déploie une réflexion qui traverse les époques, les échelles (du monde à l’homme) et les disciplines, en quête des origines et des avatars de la figure de la dévastation de l’homme. La préface très nourrie qui introduit l’essai, réalisée par Raphaël Enthoven, situe le contexte, les enjeux, autant que la lignée dans laquelle la pensée de Mattéi s’inscrit (Platon, Heidegger, Camus...). Dans cet essai, Mattéi dénonce les effets dévastateurs de l’entreprise de déconstruction, tout en montrant que la déconstruction se déconstruit elle-même. À travers une analyse foisonnant d’exemples divers et une démarche limpide, Mattéi expose le processus de « destruction » de l’homme : son obsolescence, sa réification, sa désorientation, sa disparition. On y trouve, en creux, un humanisme redéfini à mi-chemin entre l’antihumanisme et un humanisme naïf. Les pérégrinations philosophiques de cet essai s’établissent par le biais de références multiples, puisant autant dans les ressources philosophiques que dans celles propres à la littérature, aux arts ou aux sciences. Aussi, la typologie des références de l’ouvrage, établie par Raphaël Enthoven, indique que cet essai séduira autant les « plus savants », que les « indignés », les « cinéphiles », les « snobs », les « amateurs de jargon » ou les « gamers ».

La condition de l’homme moderne : le constat de la dévastation

L’homme dévasté, qui est le dernier homme, est bien celui qui a effacé l’horizon avant de disparaître dans un ultime clignement d’œil. 

Le constat de la dévastation de l’homme moderne porte en creux le dépérissement de ce qui fut : une construction de la culture européenne, humaniste, remontant à la Grèce antique. Mattéi retrace les rouages et la cible de la déconstruction, cet anti-humanisme théorique qui a désolidarisé le XXe siècle des fondements de la culture occidentale, annihilant non seulement une certaine pensée « architectonique » mais aussi du même coup les conditions d’accès à un monde doué de sens, lui-même garant de l’humanité . Cible des déconstructeurs, l’idée architectonique qui a longtemps porté la culture européenne connaît effectivement un déclin : un déclin de l’architectonique de la cité induisant celui de l’architectonique de la pensée . Contre la déconstruction et la « barbarie » qu’il y décèle, Mattéi dénonce la stérilité de celle-ci autant que son « mouvement ravageur » qui dénote une tentative « de suppression de la condition humaine dans son imbrication avec le monde » .

Empruntant à Nietzsche la figure de l’« ensablement » et au sociologue Zygmunt Bauman celle de la « liquéfaction », Mattéi situe la dévastation comme «  l’action d’un homme qui se déserte de lui-même et du monde. » . Le corollaire de cette renonciation à l’humain est pour Mattéi que « l’homme a perdu le sens de l’orientation » , sous le coup d’une dissolution des fondements théologiques et moraux mais aussi logiques et ontologiques : « tout ce qui relevait, dans les discours de la tradition, d’un principe, d’une fondation ou d’un centre, c’est-à-dire d’une source de sens, a été répudié comme une illusion » . Aussi, selon Mattéi, « on ne peut que constater, avec la destruction de l’homme, la dévastation radicale de l’âme et du monde » . Au sein du constat de la dévastation de l’homme, on retrouve, par ailleurs, une filiation camusienne notable, soulignée par Raphaël Enthoven dans la préface. En écho à L’homme révolté de Camus, qui est « un homme qui dit non à ce qui transgresse les frontières de l’humain et qui dit oui à la part précieuse de lui-même » , Mattéi trace les contours de cette figure de l’homme « dévasté », qui est « le négatif » de l’homme révolté  et « une rupture dans la chaîne de l’humanité » . 

La déconstruction du langage, du monde et de l’art

La rupture avec la construction de l’homme est poursuivie par une entreprise de déconstruction généralisée, s’étendant du langage au corps en passant par le monde et l’art. La fascination pour le vide au sein de la pensée française du second XXe siècle inaugure une ère marquée par la volonté de rompre avec les récits fondateurs. Mattéi identifie, à cet égard, une « tragédie de la déconstruction [qui] se joue en quatre actes sur la scène du langage »  : partant de la neutralisation de l’écriture et de l’existence qui instaurent une voie impersonnelle, cette tragédie se dénoue en une reconnaissance commune pour tous les déconstructeurs qui révèlent ainsi leur objectif partagé, celui d’« en finir avec l’astre qui commandait la raison édificatrice pour laisser le champ libre à l’épuisement du désastre » . Se référant à Deleuze, Guattari et Derrida, Mattéi trace les sillons de ce mouvement déconstructeur en en soulignant les étapes, les enjeux et les effets en présence. Pour Mattéi, le corollaire de cette déconstruction est le suivant : 

Il n’y a plus dans le livre, dans l’homme ou dans les choses ni profondeur ni hauteur, seulement des lignes indécises de segmentation, des tiges superficielles ou des plateaux connectés, puis déconnectés, sans qu’aucun horizon vienne éclairer un monde dévasté. 

Prolongeant la déconstruction du langage, la déconstruction du monde brouille les frontières du réel en substituant le modèle par le simulacre. Mattéi décrypte cette nouvelle échelle de la déconstruction en faisant dialoguer, entre autres, Platon, Günther Anders, Jean Baudrillard et Guy Debord, au croisement d’œuvres cinématographiques. Ces dernières sont invoquées d’une part, comme illustration du règne des simulacres et, d’autre part, comme partie prenante à leur création. La première dimension consiste en une mise en abyme de ce monde déconstruit : Mattéi dresse ainsi une brillante analyse de la trilogie Matrix  qui « décline de façon originale le thème de la dévastation de l’homme par la technique, ou du moins celui de sa soumission aux simulacres. » . Par ailleurs, Mattéi décrit l’emprise du virtuel sur le réel, résultant de la prévalence des nouvelles technologies, faisant que l’« existence de l’homme se réduit à un fourmillement de pixels » . Des films mettant en scène une réalité virtuelle ou un monde de simulacres jusqu’aux jeux vidéo créant des univers virtuels, l’analyse de Mattéi met en évidence la question ontologique qui les relie. Le règne de la simulation et la préférence de l’image à la chose conduisent à une désertion du monde : « sous des regards dévastés, le monde est devenu un codage numérique » .

L’état des lieux de la déconstruction se poursuit avec l’art où le processus établit une « dévastation revendiquée des formes artistiques » . Mattéi en montre les effets dans cinq domaines artistiques : le langage poétique, les arts plastiques, la musique, le cinéma et l’architecture. Aussi, la modernité artistique se traduit-elle éminemment par des modifications fondamentales : « en littérature, la neutralité de l’écriture, en peinture, la vacuité de la toile, en musique, le silence de l’instrument, auront été les limites ultimes d’un art devenu étranger à lui-même » . La subordination du geste créateur au discours, la substitution de la représentation par la simulation, ou la substitution des structures en temps continu par les processus, figurent ainsi parmi les effets de cette transfiguration de l’art au contact de la déconstruction. La singularité de ce positionnement de l’art contemporain va de pair avec son aporie qui, pour Mattéi, « tient à sa dérive vers la conceptualisation et à sa confusion avec le processus » .

Face au spectre de la liquéfaction de l’humain, l’espoir en sa pérennité

Après avoir effacé le visage de l’homme dans la peinture et la sculpture, démantelé la parole dans la poésie, l’intrigue dans le roman et le cinéma, la déconstruction contraint l’homme à s’absenter d’un corps dont il tient pourtant son existence. 

Cible ultime de la déconstruction généralisée, le corps humain parachève ce mouvement de déconstruction, incarnant la figure extrême de la dévastation. Mattéi identifie ce nouveau rapport à la corporéité dans un double mouvement, de régression et de confusion de l’homme avec d’autres formes de vie et, d’autre part, une transgression vers une fusion de l’homme avec les machines : une « défiguration » ou « dénaturation » de l’homme qui conduit à sa destruction ou dévastation . La neutralisation du corps est aussi un des effets de cette déconstruction du corps, que l’on retrouve dans les gender studies : « le corps de l’homme [est] dissous par le discours qui le remplace. » . De la transgression du sexe vers le genre, Mattéi passe à la transgression de l’humain vers le surhumain : ce posthumanisme - qui a tendance à se sublimer en « transhumanisme » - procède à la construction d’un être artificiel, simulant l’homme naturel. Notre monde contemporain est pour Mattéi celui du « dernier homme » que Nietzsche avait annoncé, et le paradoxe de cette évolution en cours est qu’il s’agit bien d’un « projet humain d’en finir paradoxalement avec l’être humain » . La déconstruction théorique de l’humanité se dédouble ainsi en une déconstruction physique de l’homme.

Face au constat de la déliquescence de l’homme, le tableau dressé par Mattéi atteint son terme sur une note alarmante : « la déconstruction a fêté un bal des adieux […] L’adieu à ce qui faisait la substance de l’humanité […] l’adieu à la condition humaine » . Pourtant, dans ce sombre tableau, l’idée « a le premier et le dernier mot » et sa primauté vient sauver l’homme de son enlisement dans les simulacres . De plus, Mattéi identifie au sein d’une triple équation la liberté, l’humanité et l’acte comme « faculté de commencer », dans la lignée de Camus et Arendt . En cela, la trame de l’humanité peut être pérenne, et la dévastation dont il a esquissé la généalogie, les avatars, les contours et les enjeux, est appelée à être « passagère, vouée à disparaître » . Le cri d’espoir qui clôt cet essai est ainsi une foi en la liberté humaine, et consiste à affirmer que quoi qu’on fasse, « on ne pourra jamais effiler l’humain » .

Que l’on adhère pleinement, peu ou pas à la pensée de Jean-François Mattéi, cet essai séduit dans tous les cas par la vivacité de la pensée philosophique qui s’y déploie, et par ses miroitements diaprés qui invitent l’extra-philosophique dans une réflexion dénuée de toute prétention. Cela tempère d’ailleurs les critiques éventuelles qui pourraient être adressées à certains de ses postulats, à l’instar des objections que lui adresse Raphaël Enthoven dans sa préface, visant à nuancer certaines thèses de l’ouvrage. Le regard humain sur le monde que porte Mattéi, aussi bien que cet espoir qui l’anime et qui renaît de ses cendres in extremis, ne peut qu’émouvoir. Car y a-t-il un cri d’espoir en l’humain plus éloquent que celui d’un homme dont seule son écriture demeure ?

Jean-François Mattei, L'homme dévasté, Éditeur Grasset, Collection Essais, 288 pages, 19€ 

00:05 Publié dans Livre, Livre, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : jean-françois mattéi, philosophie, livre | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

La teoria del "nomos" in Carl Schmitt: la geopolitica come baluardo contro il nichilismo?

schmitt_HH104.jpg

La teoria del "nomos" in Carl Schmitt: la geopolitica come baluardo contro il nichilismo?

di Ugo Gaudino

La complessa produzione di Carl Schmitt, tanto affascinante quanto labirintica, ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del nichilismo e ai processi di secolarizzazione e neutralizzazione che l’hanno provocato. Spinto da un’inesorabile volontà di esorcizzare la crisi e la negatività in cui stava precipitando la decadente Europa d’inizio Novecento, il giurista tedesco si confronta impavidamente con la “potenza del Niente” – esperienza cruciale per la comprensione di quell’epoca e per restare dentro alla filosofia, come ammonivano Junger ed Heidegger in Oltre la linea –, tentando di opporre all’horror vacui soluzioni di volta in volta sempre più solide, concrete ed elementari, nel corso di un itinerario intellettuale lungo, tortuoso e per certi aspetti contraddittorio.

1. Intellettuale eclettico dalla penna sottile e dai molteplici interessi, nonché figura di primissimo piano tra i malinconici testimoni della crisi di un’epoca (quella dell’Europa degli Stati sovrani e della sua migliore creazione, il cosiddetto ius publicum europaeum), l’ambiguità di un personaggio definito non a torto “la sfinge della moderna scienza giuspubblicistica tedesca” non pregiudica la grandezza della sua prestazione, frutto di una visione del mondo disincantata che tenta di addomesticare il caos senza pretendere di neutralizzarlo completamente.

Il nucleo propulsivo della produzione schmittiana sta nel suo essere situato nel contesto di crisi dell’Europa di inizio Novecento, tanto storico-politica quanto logico-teorica. In questa sede si cercherà di far chiarezza sul secondo aspetto, analizzando i tentativi dell’autore di far fronte alla crisi del razionalismo moderno e della mediazione tra Idea e Realtà. Di fronte alle minacciose lande aperte dal nichilismo, Schmitt non reagisce affidandosi a procedimenti antitetici e costruendo edifici metafisici ormai obsoleti nell’età della tecnica né tantomeno crogiolandosi nello spleen come molti intellettuali sedotti dal “Niente”: il giurista di Plettenberg cerca invece di forzare la crisi, di radicalizzarla risalendone alle origini, decostruendola e provando a cogliervi il momento genetico di nuovo, possibile ordine per l’Occidente decadente.

Di qui la prima fase del suo percorso, quella del “decisionismo”, primo tentativo di opposizione al nichilismo. Partendo dalla consapevolezza dell’origine contraddittoria della politica, basata sulla coappartenenza originaria di violenza e forma, Schmitt afferma l’innegabilità degli aspetti entropici e distruttivi della stessa. Tramontata ogni pretesa di mediazione definitiva tra ideale e contingente da parte della ragione, la politica resta in balìa di questa frattura genealogica, in una dialettica in cui la trascendenza dell’Idea non è mai ontologicamente piena ma permeata da un’assenza originaria, immersa nelle sabbie mobili del cosiddetto “stato d’eccezione” che rispetto all’ordine si pone come ombra ed eventualità che può rovesciarlo da un momento all’altro.

La via d’uscita per imporsi sull’eccezione è individuata nella “decisione”, che nasce dal Nulla e tenta di costruire un edificio politico-giuridico nonostante le basi estremamente fragili: l’eccezione, per quanto pericolosa, è realisticamente considerata necessaria per partorire e mantenere l’ordine. Una prospettiva agli antipodi delle utopie dei normativisti, i quali trascurano la possibilità che l’ordine possa auto-rovesciarsi e restano ciecamente aggrappati alla regola ignorando che essa vive “solo nell’eccezione”, come affermato in Teologia politica. Chi decide sullo “stato d’eccezione” è per Schmitt “sovrano”, inteso come colui che riesce a compiere il salto dall’Idea alla Realtà e che ha l’ultima parola su quelle situazioni liminali in cui l’ordinamento è minacciato da gravi crisi che possono sconvolgerne le fondamenta.

Per quanto suggestiva, la fase del decisionismo sembra eccessivamente legata alla categoria dello Stato moderno, di cui il giurista appare profondamente nostalgico (pur non essendo uno “statolatra” tout court come vorrebbero farlo apparire alcuni: lo Stato è soltanto un “bel male” prodotto dalla cultura europea onde evitare la dissoluzione delle guerre civili). Pertanto, vista la crisi dei “Leviatani”, cui Schmitt assiste in prima persona nell’agonizzante Repubblica di Weimar, le strade da percorrere per neutralizzare il “Niente” sono quelle che conducono a istanze pre-statali, sopravvissute alla crisi della razionalità moderna – di cui lo Stato era un prodotto – e nelle quali ricercare l’essenza del “politico” dopo il tracollo della statualità.

2. Si apre così la seconda fase del pensiero schmittiano, incentrata sulla teoria degli “ordini concreti”: questa, ancorandosi alla concreta storicità e spazialità, rappresenta un passo in avanti rispetto alla fluidità dello “stato d’eccezione” e un ponte di collegamento con le successive elucubrazioni sul nomos. Vanificata l’illusione statocentrica, Schmitt dirige la sua lente d’ingrandimento sulle Ortungen dei popoli, soggetti in grado di decidere sulla propria esistenza politica – e quindi sulla dicotomia “amico/nemico” – anche andando “oltre” lo Stato.

Così come l’essenza del politico è ricercata al di là dello Stato, anche il diritto è ormai slegato da questo, che ha perso definitivamente il monopolio della politica che Weber gli riconosceva: pertanto, riprendendo l’istituzionalismo di Maurice Hauriou e di Santi Romano, Schmitt arriva a sostenere che le norme non coincidono né con universali astratti né con decisioni sovrane ma costituiscono il prodotto di determinate situazioni storico-sociali e di contesti in cui si articola il corpo di una nazione. Questa evoluzione ordinamentalista è una tappa necessaria per la costruzione di un edificio giuridico svincolato dallo Stato e fondato sulla concretezza di una normalità non più dipendente dal prius della decisione – in quanto creata dal sovrano – ma preesistente nella prassi di un “io sociale” sedimentatosi col tempo intorno alle consuetudini e allo ius involontarium. La decisione finisce per essere assorbita completamente in “ordinamenti concreti” dai tratti comunitaristici, emotivi ed irrazionali che sembrano avvicinarsi di molto alla concezione del Volk propugnata dal nazionalsocialismo, con cui nel corso di questi anni Schmitt ebbe un rapporto controverso. Negli ultimi anni di Weimar, infatti, il giurista si era fermamente opposto ai movimenti estremisti che avrebbero potuto mettere in pericolo la vita pubblica del Reich, tanto da denunciare l’incostituzionalità del partito nazista nel 1930. Nell’ottica schmittiana, “custode” della Costituzione era solo il Presidente del Reich, il cui ruolo fu difeso strenuamente fino all’ascesa di Hitler. Allora, principalmente per ragioni di opportunismo legate alla carriera prima ancora che per presunte affinità ideologiche, diventò membro del partito, da cui comunque fu allontanato nel 1936, accusato di vicinanza ad ambienti reazionari, conservatori e non ariani da Alfred Rosenberg.

Nonostante la palese eterodossia di un cattolico romano che rifiutava tanto il razzismo biologico quanto il tracotante imperialismo di marca hitleriana (da cui diverge il suo concetto di Grossraum), è innegabile che Schmitt in quegli anni abbia tentato, invano, di rendere compatibili le sue idee con la dottrina nazionalsocialista. Di qui l’ambizioso proposito, contenuto nel saggio del 1934 Stato, movimento, popolo, di delineare un modello costituzionale per il Terzo Reich, visto come la possibile realizzazione del “ordine concreto” in cui l’unità è assicurata dalla combinazione di questi tre elementi – probabilmente anche con l’obiettivo di arginare gli eccessi del Führer. Tuttavia, queste analogie non fanno di Schmitt un Kronjurist ma dimostrano solo la volontà dell’autore di svincolarsi dall’apparato teorico ancora legato alla dimensione statale e la necessità di elaborare un novus ordo capace di fungere da baluardo per il nichilismo.
La valorizzazione delle coordinate spazio-temporali, l’esaltazione del popolo e dell’elemento terrigno, uniti ai saggi di diritto internazionale maturati nel corso degli anni Venti e Trenta non sono dunque da considerare come tratti apologetici del regime quanto piuttosto come preludio alla teoria del nomos e ad una nuova idea di diritto priva di caratteri astratti e legata alla concretezza degli eventi storici, in cui si situa per diventare ordinamento e si orienta per modellare un ambiente, non sottraendosi alla storicità e alla temporalità ma rappresentando anzi un fattore che li co-determina.

Una riflessione dai tratti fortemente geopolitici che sembra neutralizzare la “potenza del Niente” valorizzando l’elemento spaziale in cui collocare l’idea politica, ormai lontana dagli abissi dello “stato d’eccezione”.

3. Il termine nomos viene impiegato nel suo senso originario e ricondotto alla prima occupazione di terra e a quelle attività pratico-sociali di appropriazione, divisione e sfruttamento della medesima. Il diritto è quindi unità di ordinamento e localizzazione (Ordnung und ortung) che non nasce con strumenti razionali ma neppure dalla decisione quanto dalla conquista del territorio: nella terra è situato il nesso ontologico che collega giustizia e diritto.

Di qui la necessità avvertita dal giurista esperto del mondo classico di recuperare l’etimologia autentica del termine νεμειν, che si articola in tre significati: “prendere, conquistare” (da cui i concetti di Landnahme e Seenahme, sviluppati in Terra e mare nel ’42); “dividere, spartire”, ad indicare la suddivisione del terreno e la conseguente nascita di un ordinamento proprietario su di esso; “pascolare”, quindi utilizzare, valorizzare, consumare. Soffermandosi sulla genesi della parola nomos Schmitt vuole restituirle la “forza e grandezza primitiva” salvandola dalla cattiva interpretazione datale dai contemporanei, che l’hanno “ridotta a designare, in maniera generica e priva di sostanza, ogni tipo di regolamentazione o disposizione normativistica”, come afferma polemicamente ne Il nomos della terra, pubblicato nel 1950 e summa del suo pensiero giuridico e politico. L’uso linguistico di “un’epoca decadente che non sa più collegarsi alle proprie origini” funzionalizza il nomos alla legge, non distinguendo tra diritto fondamentale e atti di posizione e facendo scomparire il legame con l’atto costitutivo dell’ordinamento spaziale.

Bersaglio di Schmitt è il linguaggio positivistico del secolo XIX che in Germania aveva reso nomos con Gesetz, ossia legge, errore d’interpretazione ricondotto all’abuso del concetto di legalità tipico dello Stato legislativo centralistico. Il nomos indica invece la piena immediatezza di una forza giuridica non mediata da leggi, di un atto di legittimità costitutivo che conferisce senso alla legalità delle stesse, di una violenza non indiscriminata né indeterminata ma ontologicamente ordinatrice. Il riferimento al celebre frammento 169 di Pindaro sul nomos basileus e al nomos sovrano in Aristotele non fanno che rinforzare la tesi secondo cui la dottrina positivistica, malgrado l’ammonimento degli esponenti della scuola “storica” come Savigny, sarebbe rimasta intrappolata nel quadro nichilistico del suo tempo, da cui Schmitt tenta di uscire riallacciandosi a quegli elementi primordiali che rappresentano una risorsa simbolica fondamentale, da cui l’uomo nasce e a cui s’aggrappa per organizzare la sua vita. Assumendo la piena consapevolezza di essere “animali terrestri” si cerca di evitare la disgregazione dell’epoca contemporanea.

4. Partendo dalla terra, che salva dall’oblio filosofico, coadiuvato da Heidegger e Junger, lo Schmitt di Terra e mare e de Il nomos della terra ritorna alla dimensione ctonia e tellurica dell’individuo, ripercorrendo la storia del mondo e armandosi contro due minacce che rappresentano facce della stessa medaglia: da un punto di vista metafisico il nichilismo della tecnica, che ha prodotto la drastica separazione tra ordinamento e localizzazione, eliminando le differenze e trasformando il nomos in legge, si rispecchia geopoliticamente nell’universalismo di stampo angloamericano, che con la sua weltanschauung utopistica ha provocato la dissoluzione dello ius publicum europaeum, cardine dell’ordine politico dell’Europa moderna.

È opportuno segnalare che questa teoria non riposa su basi radicalmente antitetiche rispetto alle elaborazioni precedenti: l’idea di Giustizia che si manifesta nel nomos è ordine che si rende visibile attraverso il disordine, presa di possesso, recinzione e nel contempo esclusione, radicamento nello sradicamento. L’ultimo Schmitt, in altre parole, traduce in termini spaziali i concetti chiave elaborati negli anni ’20. La sovranità, collocata in precedenza nel tempo concreto della modernità come epoca dell’eccezione ma ancora in uno spazio astratto, ora si radica intensamente nella concretezza spaziale e più precisamente nel vecchio continente. In seguito alla prima rivoluzione spaziale moderna, con l’irruzione sulla scena storica del mare (spazio liscio, vuoto, anomico) e con la scoperta e l’occupazione dell’America prende forma l’ordine europeo degli Stati: il nuovo nomos è riorganizzazione dello spazio, rivolgimento, rivoluzione.

Così come lo Stato moderno non espunge davvero da sé il caos, ma ne è anzi attraversato e continuamente ferito, il nuovo ordine moderno prende forma confinando questo disordine al di fuori di sé, nello spazio extraeuropeo, ma mai cercando di neutralizzarlo in via definitiva.
L’irrazionalità della guerra viene dunque confinata nelle amity lines del mare mentre sul suolo continentale, a mo’ di razionalizzazione effettiva del sacrificio, resta la guerre en forme tra Stati che si riconoscono reciprocamente come sovrani e che non mirano all’annichilimento o alla criminalizzazione del nemico. Una delle maggiori conquiste del diritto pubblico europeo è stata infatti la limitazione della guerra (Hegung des Krieges) e la trasformazione dal bellum iustum delle guerre civili di religione in conflitti “giusti” tra pari, tra hostes aequaliter iusti. Quest’atto di contenimento non è stato frutto delle ideologie razionalistiche, bensì della particolare condizione di equilibrio di cui l’Europa moderna ha goduto fino al 1914. Un assetto fondato non solo sulla dialettica vecchio/nuovo mondo – strumentalizzata da Schmitt, secondo alcuni, per difendere l’imperialismo e il colonialismo europeo -, ma anche sul rapporto tra terraferma e libertà del mare che ha fatto in primis le fortune dell’Inghilterra, che ha scelto di diventarne “figlia” trasformando la propria essenza storico-politica ed arrivando a dominare lo spazio liscio e uniforme.

Ma è nello stesso humus culturale anglosassone che le logiche di neutralizzazione passiva proliferano: il culto del razionalismo, ignaro d’eccezione e di localizzazioni e che tutto uniforma con i suoi sterili meccanismi, che impone la soppressione degli elementi irrazionali ignorando che l’Es, per citare un celebre Freud, prima o poi riesploderà in forme ancor più brutali. Torna infatti la iusta bella, che mira al totale annientamento del nemico, rappresentato stavolta dai soggetti che non si piegano al mondialismo informe e ad una condizione “utopica” che in realtà è guerra civile globale: lo sradicamento dell’u-topos conduce alla deterritorializzazione, che è perdita del nomos in quanto orientamento e ricaduta nel vortice nichilistico che l’ottimismo positivista cercava di esorcizzare con l’uso astratto della ragione.

Ciò che Schmitt cerca di affermare, pertanto, è che solo assumendo consapevolmente la propria origine abissale, la negatività di base e la possibilità della fine inscritta in sé stesso un ordinamento può sperare di sottrarsi al nichilismo: lo ius publicum europaeum ha perduto concretezza trasformando il nomos in astratta legge globale ed abbracciando ideologie internazionaliste e pacifiste che hanno solo gettato il continente in conflitti drammatici e devastanti. Facendogli perdere, inoltre, la sua specificità ed inglobandolo in quella nozione di Occidente tanto indeterminata quanto adatta per un’epoca in cui l’ordine politico sembra esser stato ingabbiato dai gangli del Niente.

Bibliografia essenziale:

AMENDOLA A., Carl Schmitt tra decisione e ordinamento concreto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999
CASTRUCCI E., Nomos e guerra. Glosse al «Nomos della terra» di Carl Schmitt, La scuola di Pitagora, Napoli, 2011
CHIANTERA-STUTTE P., Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo tra Otto e Novecento, Carocci Editore, Roma, 2014
GALLI C., Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 2010
PIETROPAOLI S., Schmitt, Carocci, Roma, 2012
SCHMITT C., Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveränität, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia 1922, trad it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del ‘politico’ (a cura di P. SCHIERA e G. MIGLIO), Il Mulino, Bologna, 1972
ID., Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia 1928, trad. it. Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984
ID., Der Begriff des Politischen, in C. SCHMITT et al., Probleme der Demokratie, Walther Rothschild, Berlino-Grunewald, 1928, pp. 1-34, trad. it. Il concetto di ‘politico’. Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna, 1972
ID., Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Reclam, Lipsia 1942, trad. it. Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo raccontata a mia figlia Anima, Adelphi, 2011
ID., Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum europaeum, Greven, Colonia 1950, trad. it. Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “ius publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991
VOLPI F., Il nichilismo, GLF editori Laterza, Roma, 2009


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Antiracisme: une juste cause dévoyée à des fins politiciennes?...

herve-juvin.jpg

Antiracisme: une juste cause dévoyée à des fins politiciennes?...

par Hervé Juvin

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ici une remarquable tribune d'Hervé Juvin, publiée par le Figaro et reproduite par La plume à gratter, dans laquelle il dénonce l'instrumentalisation de l'antiracisme par le gouvernement et ses effets destructeurs...

Et une loi sur la répression des propos racistes de plus. Qui peut être contre ? Après l’émotion suscitée par les crimes de janvier, dont l’un des objets manifestes est de terroriser ceux qui résistent à l’islamisation de la France, beaucoup peuvent pourtant s’interroger : est-ce la bonne réponse ?

Les Français constatent chaque jour que les flux migratoires sont une réalité d’importance dont il devrait être licite de débattre. Or ils se souviennent qu’on ne leur a jamais demandé leur avis et que le changement d’origine de la population française, l’une des transformations majeures de la France au cours des trente dernières années, a été subi, tenu en lisière du débat démocratique, que ses effets n’ont jamais été évalués, et qu’il n’a jamais fait l’objet d’un vote ou d’une loi ; c’est un décret qui a autorisé le regroupement familial ! Ils posent de plus en plus ouvertement la question. Voilà pourquoi la loi s’efforce d’entretenir cette mystification qui est au cœur d’un discours bien rôdé depuis la récupération de la « Marche des Beurs » par SOS Racisme et la culpabilisation des Français, poursuivie par le rapport Tuot (Conseil d’État, 2014) : tout se passe bien, d’ailleurs il ne se passe rien, il est interdit de dire qu’il y a des problèmes. Tout se passe bien, et si ça se passe mal, c’est de votre faute !

Le déni du réel dans lequel s’enfonce la France commence par la censure des mots. Sera-t-il possible de dire d’un Noir qu’il est noir, d’un Blanc qu’il est blanc, et qu’une soucoupe est une soucoupe ? L’idéologie de l’individu absolu répond que non. L’individu hors sol, que ne détermine rien, ni son origine, ni son âge, ni son sexe, ni sa foi, voilà l’idéal. Substituer l’individu abstrait, fiction juridique, aux hommes d’ici, des leurs et d’une histoire, voilà l’objet. Désintégrer ces liens, ces appartenances, ces communautés qui font de l’individu une personne, qui lui donnent une identité, voilà l’urgence !

Nous sommes au cœur de la Grande Séparation moderne. La séparation de naguère passait dans l’espace, dans la langue et dans les mœurs, entre des sociétés humaines auxquelles elle assurait la liberté de se conduire, de choisir leur destin et d’approfondir cette diversité splendide des mœurs, des cultures et des croyances qui constitue la civilisation humaine, qui n’est pas si elle n’est pas plurielle ; « il n’y a pas de civilisation s’il n’y a pas des civilisations » (Claude Lévi-Strauss). La séparation moderne met fin à cette diversité des sociétés humaines et coupe l’individu de toutes les déterminations par lesquelles l’histoire, la nation, la culture ou la religion faisaient de lui le membre d’une communauté, l’acteur d’une société et un citoyen responsable. Comme l’analyse depuis longtemps Marcel Gauchet, il n’y a que des individus qui ont des droits, et rien d’autre ne peut les singulariser ; voilà l’idéologie moderne, voilà ce qui réalise la grande séparation d’avec l’histoire comme avec la nature, voilà comment le droit entreprend d’en finir avec les nations, de dissoudre les peuples, et d’étouffer la démocratie au nom de l’Homme nouveau.

Le paradoxe est double. D’abord, l’antiracisme, au nom de l’égalité et du droit à la différence, est porteur d’une indifférenciation destructrices des cultures et des identités, à la fin de la diversité des sociétés humaines. Il promeut ce qu’il veut combattre : l’avènement d’un modèle occidentaliste qui entend faire du monde une grande Amérique au nom de l’universel. Est-ce le destin de tout Malien, de tout Malgache, de tout Algérien de devenir un Français comme les autres ? C’est que l’antiracisme confond inégalité et différence. Il affirme que la nature fait des hommes tous les mêmes, sans percevoir que ce naturalisme est la négation du travail patient, millénaire, des cultures pour se distinguer, se singulariser et se transmettre. A cet égard, les formes dévoyées de l’antiracisme constituent un anti-humanisme ou, si l’on veut,  une expression de la haine contre la culture qui trouve actuellement des expressions inédites dans le monde d’Internet, du management et du transhumanisme. Voilà qui conduit à la négation des cultures, qui ne peuvent vivre que dans un certain degré de séparation avec d’autres cultures, dans une certaine unité interne assurée par des frontières, l’éloignement, les identités singulières.

Dévoyer un grand et juste combat à des fins politiciennes est plus que méprisable, c’est dangereux. la négation de la condition humaine, qui est toujours enracinée dans un milieu, dans un contexte, dans une mémoire, fait l’impasse sur la question du moment : Comment faire société entre nous ? La Nation répondait : quelques soient leur origine, leur foi, et leurs idées, la France unit tous ceux qui la préfèrent. Le couvercle de la nation tenait ensemble ce que tout le reste séparait. La réponse disparaît, avec cette grande séparation qui nous dépouille de ce qui fait de nous des Français, les hommes de cette terre et des nôtres, pour en finir avec toute résistance au nouvel ordre mondial, du droit, du contrat et du marché.

Et nous en sommes là, à la montée d’une police des idées, des mots et de la pensée, qui pourrait bien réussir ce prodige paradoxal : faire de la race ce qu’était le sexe au XIXème siècle, ce à quoi il est tellement interdit de penser et de dire qu’on y pense toujours et qu’on ne voit plus qu’elle. L’inflation de l’antiracisme produisant le racisme ? Prodige assez banal des politiques médiocres qui pensent changer le réel par décret et se garder des choses en supprimant les mots.

Hervé Juvin (Le Figaro, 17 avril 2015)

00:05 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : hervé juvin, actualité, antiracisme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Pasolini : le chant de l’abyme

paso1.jpg

Pasolini: le chant de l’abyme

« Scandaliser est un droit. Être scandalisé est un plaisir. Et le refus d’être scandalisé est une attitude moraliste. »

Devant le journaliste français qui l’interroge, Pier Paolo Pasolini ne mâche pas ses mots. Il ne l’a jamais fait. Il vient de terminer Salo ou les 120 journées de Sodome. Le lendemain, il sera mort. C’est ainsi que débute le beau film qu’Abel Ferrara a consacré à cet homme qui paya de sa vie son droit sacré au blasphème moderne.

Rassurons d’emblée ceux que les biopics convenus lassent ou exaspèrent : le film de Ferrara n’a pas l’ambition, ni la volonté, d’embrasser toute la vie du poète italien de façon linéaire. Son récit se concentre sur les derniers jours de sa vie, comme si ces ultimes instants recelaient en eux-mêmes toute sa puissance tragique et artistique.

Alternant les scènes de vie familiale avec les interviews politiques, Ferrara s’aventure également, à la manière des récits en cascade des Mille et une nuits, dans le champ de l’imaginaire en illustrant son roman inachevé Pétrole et les premières esquisses du film Porno-Teo-Kolossal racontant le voyage d’Epifanio et de son serviteur Nunzio à travers l’Italie à la recherche du Paradis, guidés par une comète divine. Enchâssant la fiction dans la réalité (et même la fiction dans la fiction), Ferrara trace une ligne de vie viscérale entre Pasolini et ses œuvres : « Pasolini n’était pas un esthète, mais un avant-gardiste non inscrit, affirme Hervé Joubert-Laurencin. Il n’a pas vécu sa vie comme un art mais l’art comme une vie, il n’était pas « décadentiste » mais « réaliste », il n’a pas « esthétisé la politique » mais « politisé l’art ». »

Et sa voix politique, frontale mais toujours respectueuse, a eu un retentissement phénoménal dans les années 1960/1970 en Italie et en Europe, en se heurtant au conservatisme politique et au puritanisme moral. La beauté de son cinéma politique résidait dans le regard cru qu’il portait sur les choses, notamment les plus triviales. Devant sa caméra elles ne se transformaient pas en verbiage théorique. Les choses restaient des choses, d’un réel trop éclatant, trop beau, trop vrai : « Je n’ai pas honte de mon « sentiment du beau ». Un intellectuel ne saurait être qu’extrêmement en avance ou extrêmement en retard (ou même les deux choses à la fois, ce qui est mon cas). C’est donc lui qu’il faut écouter : car la réalité dans son actualité, dans son devenir immédiat, c’est-à-dire dans son présent, ne possède que le langage des choses et ne peut être que vécue. » (Lettres luthériennes)

Vent debout face à la houle

paso3.jpgPasolini était un homme du refus. Mais pas circonstancié et tiède : « Pour être efficace, le refus ne peut être qu’énorme et non mesquin, total et non partiel, absurde et non rationnel. » (Nous sommes tous en danger) C’est tout ou rien. Pasolini était CONTRE. Contre la droite cléricale-fasciste et démocrate-chrétienne mais aussi contre les illusions de son propre camp, celui du gauchisme (cette « maladie verbale du marxisme ») et de ses petit-bourgeois d’enfants.

Il était contre les belles promesses du Progrès qui font s’agenouiller les dévots de la modernité triomphante, ces intellos bourgeois marchant fièrement dans un « sens de l’Histoire » qu’ils supposent inéluctable et forcément bénéfique. « La plupart des intellectuels laïcs et démocratiques italiens se donnent de grands airs, parce qu’ils se sentent virilement « dans » l’histoire. Ils acceptent, dans un esprit réaliste, les transformations qu’elle opère sur les réalités et les hommes, car ils croient fermement que cette « acceptation réaliste » découle de l’usage de la raison. […] Je ne crois pas en cette histoire et en ce progrès. Il n’est pas vrai que, de toute façon, l’on avance. Bien souvent l’individu, tout comme les sociétés, régresse ou se détériore. Dans ce cas, la transformation ne doit pas être acceptée : son « acceptation réaliste » n’est en réalité qu’une manœuvre coupable pour tranquilliser sa conscience et continuer son chemin. C’est donc tout le contraire d’un raisonnement, bien que souvent, linguistiquement, cela en ait l’air. […] Il faut avoir la force de la critique totale, du refus, de la dénonciation désespérée et inutile. » (Lettres luthériennes)

« Les saints, les ermites, mais aussi les intellectuels, les quelques personnes qui ont fait l’histoire sont celles qui ont dit « non« , et pas les courtisans ou les assistants des cardinaux. »

C’est aussi son rejet de la nouvelle langue technique qui aplatit tout sur son passage, écrasant les particularismes culturels et linguistiques, réduisant en poussière le discours humaniste et faisant du slogan le nouveau port-étendard d’un monde mort sur lequel l’individu narcissique danse jusqu’à l’épuisement. Et la gauche, qui ne veut pas rester hors-jeu, s’engouffre dans cette brèche en prêtant allégeance à la civilisation technologique, croyant, de façon arrogante, qu’elle apportera Salut et Renouveau sans percevoir qu’elle détruit tout sentiment et toute fierté chez l’homme. Les regrets pointent : « L’individu moyen de l’époque de Leopardi pouvait encore intérioriser la nature et l’humanité dans la pureté idéale objectivement contenue en elles ; l’individu moyen d’aujourd’hui peut intérioriser une Fiat 600 ou un réfrigérateur, ou même un week-end à Ostie. » (Écrits corsaires)

Si Pasolini était épris de cette belle passion triste qu’est la nostalgie, c’était non pas celle, réactionnaire, d’un Âge d’or fantasmé, mais celle d’une époque où le peuple avait le sens de la mesure, la dignité chevillée au corps et le ventre plein. Celle d’une Italie créatrice et glorieuse. Quand les petites gens n’avaient pas la pauvre ambition de devenir les puissants qu’ils combattaient : « J’ai simplement la nostalgie des gens pauvres et vrais, qui se battaient pour renverser ce patron, mais sans vouloir pour autant prendre sa place ! Puisqu’ils étaient exclus de tout, personne ne les avait même colonisés. […] Dis-moi, maintenant, si le malade qui songe à sa santé passée est un nostalgique, fût-il idiot ou misérable avant d’être atteint ? » (Nous sommes tous en danger) Quelque chose d’humain semble fini et Pasolini pleure un monde en ruine.

L’abrutissement de masse du monde bourgeois

Ferrara filme Pasolini comme le dernier homme d’une Terre dévastée, cette Italie tant aimée et tant haïe. L’ultime représentant d’une Humanité désormais asservie par l’aliénation de la mentalité bourgeoise qui dépasse le cadre de la classe sociale. « Par bourgeoisie, je n’entends pas tant une classe sociale qu’une pure et simple maladie. Une maladie très contagieuse ; c’est si vrai qu’elle a contaminé presque tous ceux qui la combattent, des ouvriers du Nord aux ouvriers immigrés du Sud, en passant par les bourgeois d’opposition, et les « solitaires » (comme moi). Le bourgeois – disons-le par un mot d’esprit – est un vampire, qui n’est pas en paix tant qu’il n’a pas mordu le cou de sa victime pour le pur plaisir, naturel et familier, de la voir devenir pâle, triste, laide, sans vie, tordue, corrompue, inquiète, culpabilisée, calculatrice, agressive, terrorisante, comme lui. » (Contre la télévision)

paso2.jpgLa télévision étant, pour lui, le bras armé de cette aliénation de masse. « La télévision, loin de diffuser des notions fragmentaires et privées d’une vision cohérente de la vie et du monde, est un puissant moyen de diffusion idéologique, et justement de l’idéologie consacrée de la classe dominante. » (Contre la télévision) Pasolini découvre, horrifié, la propagande moderne du divertissement de masse dont la bêtise n’a d’égale que la vulgarité, sous couvert d’un manichéisme moral mis au goût du jour : «  Il émane de la télévision quelque chose d’épouvantable. Quelque chose de pire que la terreur que devait inspirer, en d’autres siècles, la seule idée des tribunaux spéciaux de l’Inquisition. Il y a, au tréfonds de ladite « télé », quelque chose de semblable, précisément, à l’esprit de l’Inquisition : une division nette, radicale, taillée à la serpe, entre ceux qui peuvent passer et ceux qui ne peuvent pas passer. […] Et c’est en cela que la télévision accomplit la discrimination néo-capitaliste entre les bons et les méchants. Là réside la honte qu’elle doit cacher, en dressant un rideau de faux « réalismes ». » (Contre la télévision)

Mais cet avilissement général est aussi de la responsabilité des hommes politiques qui acceptent tacitement de voir leur parole simplifiée, leur image dégradée, leur rôle discrédité. « L’écran de télévision est la terrible cage de l’Opinion publique – servilement servie pour obtenir un asservissement total – qui tient prisonnière toute la classe dirigeante italienne : la mèche blanche d’Aldo Moro, la jambe courte de Fanfani, le nez retroussé de Rumor, les glandes sébacées de Colombo, sont un spectacle représentatif qui tend à spoiler l’humanité de toute humanité. » (Contre la télévision)

C’était vrai du temps de Pasolini, ça l’est encore plus de nos jours. Un simple coup d’œil sur la prodigieuse machine consensuelle à fabriquer du bouffon qu’est Le Grand Journal de Canal + suffit à s’en convaincre. Un bref regard sur un quelconque programme de télé-réalité dont le but, toujours le même, est d’humilier les participants en flattant le spectateur suscite le dégoût.

Pour le romancier italien, seule une prise du conscience des téléspectateurs, un sursaut salvateur du peuple, contre cet instrument mesquin et vulgaire permettra de sortir le pays de sa torpeur générale. Il ne se faisait pourtant guère d’illusion : « Quand les ouvriers de Turin et de Milan commenceront à lutter aussi pour une réelle démocratisation de cet appareil fasciste qu’est la télé, on pourra réellement commencer à espérer. Mais tant que tous, bourgeois et ouvriers, s’amasseront devant leur téléviseur pour se laisser humilier de cette façon, il ne nous restera que l’impuissance du désespoir. » (Contre la télévision)

Le fascisme au carré de la société de consommation

paso4.jpgSi le fascisme avait détruit la liberté des hommes, il n’avait pas dévasté les racines culturelles de l’Italie. Réussissant le tour de force de combiner l’asservissement aux modes et aux objets à la destruction de la culture ancestrale de son pays, le consumérisme lui apparut comme, pire que le fascisme, le véritable mal moderne à combattre. Un mal qui s’est immiscé dans le comportement de tous les Italiens avec une rapidité folle : en l’espace de quelques années, l’uniformisation était telle qu’il était désormais impossible de distinguer, par exemple, un fasciste d’un anti-fasciste. Il n’y a plus que des bourgeois bêtes et vulgaires dans un pays dégradé et stérile.

La longue plainte de Pasolini est celle d’un homme qui assiste, impuissant, au génocide culturel de son pays : « Aucun centralisme fasciste n’est parvenu à faire ce qu’a fait le centralisme de la société de consommation. Le fascisme proposait un modèle réactionnaire et monumental, mais qui restait lettre morte. Les différentes cultures particulières (paysannes, sous-prolétariennes, ouvrières) continuaient imperturbablement à s’identifier à leurs modèles, car la répression se limitait à obtenir leur adhésion en paroles. De nos jours, au contraire, l’adhésion aux modèles imposés par le centre est totale et inconditionnée. On renie les véritables modèles culturels. L’abjuration est accomplie. On peut donc affirmer que la « tolérance » de l’idéologie hédoniste voulue par le nouveau pouvoir est la pire des répressions de toute l’histoire humaine. » (Écrits corsaires)

L’injonction hédoniste et la fausse tolérance ont également souillé la naïveté des cœurs tendres. Les hommes et les femmes sont devenus des machines se fracassant les unes contre les autres. « Le consumérisme a définitivement humilié la femme en créant d’elle un mythe terroriste. Les jeunes garçons qui marchent presque religieusement dans la rue en tenant, d’un air protecteur, une main sur l’épaule de la jeune fille, ou en lui serrant romantiquement la main, font rire ou bien serrent le cœur. Rien n’est plus insincère qu’un tel rapport réalisé concrètement par le couple de la société de consommation. » (Lettres luthériennes) La fausse libération sexuelle est en réalité une obligation sociale, créant un désarroi chez ceux qui ne se conforment pas à la panoplie du parfait petit consommateur de corps. Le couple est désormais maudit.

« Je sais qu’en tapant toujours sur le même clou, on peut arriver à faire s’écrouler une maison. »

Pasolini refuse ce bonheur factice dont l’unique cause est la satisfaction immédiate des besoins matériels, l’achat compulsif et jovial dans une société au bord du gouffre, la grande fête des magasins accueillants : « Tout le monde est malin et, par conséquent, tout le monde a sa bonne tête de malheureux. Être malin est le premier commandement du pouvoir de la société de consommation : être malin pour être heureux (hédonisme du consommateur). Résultat : le bonheur est entièrement et totalement faux, alors que se répand de plus en plus un malheur immédiat. » (Lettres luthériennes)

Le crépuscule d’un homme haï par tous

« Je suis complètement seul. Et, de plus, entre les mains du premier qui voudra me frapper. Je suis vulnérable. Soumis à tous les chantages. Je bénéficie peut-être, c’est vrai, d’une certaine solidarité, mais elle est purement virtuelle. Elle ne peut m’être d’aucune aide dans les faits. » (Contre la télévision) Prophète de sa propre destinée, Pasolini a succombé à la haine de ses contemporains.

Il fut assassiné la nuit du 1er au 2 novembre 1975 sur la plage d’Ostie, près de Rome, par une bande de misérables lâches, ces « ragazzi di vita », héros de ses romans et de ses films, qu’il côtoyait régulièrement. Assassiné par ceux qu’il aimait. Ferrara, qui a toujours été fasciné par la chute des figures mythiques, ne nous épargne pas la cruauté de ces derniers instants d’horreur. Ceux d’un homme battu à mort parce que porteur de la marque infamante du scandale. Il avait 53 ans.

À la suite de cette ignominie, certains n’hésitèrent pas à brandir cette justification puante selon laquelle « il l’avait bien cherché, ce sale PD ». Une excuse d’assassins que, sous couvert d’un puritanisme moral, on entend encore de nos jours pour justifier les pires crimes (viols, lynchages ou attentats). Pour légitimer la violence physique des bourreaux, il faut commencer par accuser « la violence symbolique » et « oppressante » des victimes. Soit la barbarie qui considère, in fine, le meurtre comme une réponse appropriée à un poème, un film ou un dessin. Une perte de sens de la mesure ahurissante. Une logique proprement fasciste.

Profondément pessimiste, Pasolini était descendu en Enfer, au-delà de l’horizon, et nous avait mis en garde : « Je ne crois pas que l’homme puisse être libre. Il ne faut jamais rien espérer : l’espérance est une chose horrible que les partis ont inventée pour garder leurs militants. » Mais il a paradoxalement chanté le plus beau des conseils à Gennariello dans ses Lettres luthériennes, celui qui mérite notre attention en tout lieu et en tout temps, celui qui fait danser la grâce avec la rage : « Ne te laisse pas tenter par les champions du malheur, de la hargne stupide, du sérieux joint à l’ignorance. Sois joyeux. »

Nos desserts :

00:05 Publié dans Biographie, Cinéma, Hommages | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : pier paolo pasolini, cinéma, film, italie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 25 avril 2015

Mesa redonda y debate sobre el concepto HISPANIDAD

Mesa redonda y debate sobre distintos puntos de vista del concepto HISPANIDAD en la actualidad, en el Hogar Social Madrid Ramiro Ledesma el 11 de abril de 2015.

Promis, la Longue Guerre avec Moscou durera jusqu’en 2024

Promis, la Longue Guerre avec Moscou durera jusqu’en 2024

Ex: http://www.dedefensa.org

unnamed.pngSelon le quotidien italien La Stampa, Obama avertit ses “amis” du bloc BAO, principalement de l’UE, que ses experts les plus fins sur la Russie ont consulté leur boules de cristal et conclu, 1) que Poutine restera au pouvoir jusqu’en 2024 (réélection en 2018), et 2) que la “guerre” (par conséquent, imagine-t-on) avec la Russie durera jusque-là ... “Au moins” jusque-là avec possibilité de poursuivre avec le successeur de Poutine, ou bien cela tient-il simplement à Poutine ? On verra ... C’est le National Security Council (NSC), c’est-à-dire l’espèce de “gouvernement spécial” qui étudie et produit les grandes orientations de la sécurité nationale pour le seul président US, qui a développé ces prévisions sous forme d’une sorte d’abstract avant d’en faire un grand rapport sous la direction de Celeste Wallander, directrice des affaires russes et eurasiennes dans cette organisation.

La Stampa dit avoir eu consultation du document adressé au gouvernement italien, comme sans doute, on peut le supposer, à d’autres pays européens et divers autres “amis” du bloc BAO. C’est RT qui signale cette publication de La Stampa sans donner beaucoup de précisions, le 22 avril 2015.

«The US reportedly expects that the ongoing confrontation with Russia would continue until at least 2024 and involve many directions. Washington wants to rally support of its European allies to continue mounting pressure on Moscow. The expected diplomatic and economic war of attrition is being outlined in a Russia policy review currently prepared by Celeste Wallander, special assistant to President Barack Obama and senior director for Russia and Eurasia on the National Security Council, reports Italian newspaper La Stampa. The publication said it learned details of the upcoming policy change from a preview that Washington sent to the Italian government to coordinate the future effort.

»US diplomats say Russia changed the cooperative stance it assumed after the collapse of the Soviet Union and is now using force to defend its national interests, the paper said. The change is attributed to the personality of Russian President Vladimir Putin, who, Washington expects, will remain in power until at least 2024. The change became apparent with the conflict in Ukraine, but was emerging since at least the 2008 conflict in South Ossetia, when Russia used military force after Georgia sent its army to subdue the rebellious region, killing Russian peacekeepers in the process.

»Washington’s solution to the new Russia is keeping sanctions pressure on it while luring its neighbors away with economic aid and investment, La Stampa said. The current round of sanctions, it reports, was designed not to have too much impact on the Russian economy so that a threat of harsher sanctions could be applied. While the tug of war in Europe continues into the next decade, Washington wants to continue cooperation with Russia in other areas like nuclear non-proliferation and space exploration. However until Putin is out of the picture, the US does not expect for things to go back to where they were, the newspaper said.

»The strategy was hardly unnoticed in Moscow, as evidenced by the annual report of the Russian Foreign Ministry published on Wednesday. The document said the US is pursuing “a systematic obstruction to Russia, rallying its allies with the goal to damage domestic economy” through blocking credits, technology transferee and an overall destabilization of the business environment.»

A ce stade d’approximation (contenu du document, réelle valeur qui lui est accordée, diffusion, etc.), il est très difficile de spéculer sur les très rares détails qui sont donnés ; au reste, il se pourrait bien que cette démarche soit inutile, tant ce type de travail débouche en général sur des spéculations invérifiables, répondant en général à un état d’esprit-Système “du jour” (ou de la semaine) puisqu’il s’agit d’évaluer quelque chose qui durera jusqu’en 2024 à la lumière d’une situation politique présente, et pour complaire à cette situation présente. En effet, sauf cas exceptionnel qui peut tenir soit d’une pulsion suicidaire soit d’un hasard extraordinaire, soit d’une défaillance tout aussi extraordinaire du Système, il n’y a en effet aujourd’hui plus rien, dans les sphères officielles et chez les experts-Système, dans le bloc BAO, qui ne réponde strictement au conformisme général, c’est-à-dire aussi bien à ce qu’attendent les dirigeants politiques selon les normes du système de la communication tel que le manipulent leurs communicants, et d’une façon générale au déterminisme-narrativiste. Le document témoigne de cela, y compris dans l’historique qui reprend tous les thèmes de la narrative du bloc BAO, y compris en attribuant toute la responsabilité de la guerre en Géorgie de 2008 à la seule Russie (c'est logique puisque les enquêtes internationales avaient confirmé à l’époque que c’était le Géorgie de Saakachvili qui avait attaqué avec les encouragements de Washington). On s’en tiendra donc à une analyse spéculative du fait lui-même de cette analyse prospective nous fixant le délai d’une Longue Guerre d’attrition avec la Russie au moins jusqu’en 2024, cela en corrélation avec le maintien au pouvoir de Poutine jusqu’en 2024.

Dans ce cas, il s’agit d’un renversement complet des perspectives et des prospectives US à cet égard, de ces derniers mois. La tendance-Système, selon les consignes écoutées au garde-à-vous, était de pronostiquer une réussite exceptionnelle de l’offensive lancée contre les Russie avec les sanctions et l’attaque financière de la fin 2014, avec comme programme pour suivre très, très rapidement un mécontentement accéléré de la population vis-à-vis du pouvoir (Poutine), la mise en cause de ce pouvoir, voire un regime change, voire même et surtout l’éclatement de la Russie à partir de 2015, – et, bien entendu, l’insupportable et autocratique Poutine balancé dans quelque poubelle de l’histoire passant par là. C’est une “pointure” dans l’expertise de l’URSS/Russie comme Strobe Talbott qui annonçait précisément cela en décembre dernier (voir Reuters, le 16 décembre 2014), comme nous le commentions le 22 janvier 2015. Il s’agissait d’un texte consacré à George Friedman, lui-même archétype de l’expert-Système postmoderne.

... Cela permet de rappeler que Friedman lui-même, dans son interview à Kommersant de décembre 2014 (voir le 22 janvier 2015) annonçait exactement la même chose que Talbott, jugeant que la Russie «fait face désormais à tous les facteurs qui ont conduit à l’effondrement de l’Union Soviétique...». C’est une précision remarquable d'originalité alors que le président de la Russie réunit 85% de soutien puisque c’est sous-entendre par conséquent que la popularité extrême du régime est “une des conditions qui ont conduit à l’effondrement de l’Union Soviétique”, – voilà donc Friedman, ou l’art de la diversion par l’inversion... Depuis, Friedman est par conséquent devenu l’expert n°1 de la pensée américaniste, qu’on écoute avec dévotion. Il devra donc simplement changer de calendrier narrativiste, et annoncer l’effondrement ou l’éclatement de la Russie pour 2025 finalement et toutes réflexions faites, – allez, disons le 4 juillet 2025, pour faire court et enrichir la fête nationale des USA qui auront à ce moment étendu leur hégémonie actuelle sur la Terre, à Mars et à Vénus (pour faire plaisir à Robert Kagan et à sa femme Victoria Nuland). Bref, – ou plutôt long, – le 22 janvier 2015, nous écrivions donc, Friedman et Talbott en bandouillère :

«... A cette lumière, voici que l’interview [de Friedman] nous apporte surtout, d’une remarque ici à une analyse là, une appréciation inédite et d’un très grand intérêt des intentions des USA maintenant que la crise ukrainienne est engagée dans son volume maximal. Cela nous instruit de la perspective qu’il faut attendre ... Les deux extraits que nous jugeons révélateurs sont les suivants:

»• “Je ne pense pas que le but principal des USA soit le changement de régime en Russie. Le but principal, c’était de limiter le plus possible les capacités de manœuvre des autorités russes, ce qui est effectivement en train de survenir. Mais il y a bien sûr d’autres facteurs qui jouent un rôle, comme par exemple le ralentissement de l’économie russe et la chute du prix du pétrole...”

»• “Mais la question principale est bien de savoir si la Russie peut évoluer dans tout cela en n’éclatant pas. Elle fait face désormais à tous les facteurs qui ont conduit à l’effondrement de l’Union Soviétique...”

»Il s’agit d’une précision capitale, qui s’accorde avec l’évolution de la situation intérieure à Washington, de l’utilisation à visage découvert par Washington de mesures d’agression et de guerre économiques contre la Russie, et jusqu’aux remarques redondantes d’Obama sur la débâcle économique de la Russie. (Comme toujours, on ne s’attache pas ici à l’intérêt de ces jugements, mais bien au fait qu’ils soient exposés en pleine lumière, rejoignant la démarche analytique-Système de Friedman.) Ainsi est-on conduit à admettre que Friedman ne dissimule rien lorsqu’il précise que Washington ne cherche pas à provoquer une situation de “regime change” à Moscou, qu’il cherche selon une logique différente à limiter, voire à neutraliser les capacités de manœuvre et de riposte du gouvernement russe. La raison en est donnée par la deuxième citation: le but, aujourd’hui à Washington, n’est plus de modifier le régime, de remplacer Poutine par une sorte d’Eltsine revu à la sauce Porochenko, mais bien d’accompagner et d’accélérer ce qui apparaît inéluctable aux yeux des experts-Système: l’effondrement de la Russie et son éclatement, – un remake décisif et enfin définitif de 1989-1991.

»Cette conception est recoupée par d’autres sources et déclarations, comme celle de Strobe Talbott, grand spécialiste[ ...] de la Russie dans l’establishment washingtonien, qui se fait spécialiste des questions ethniques pour annoncer, de son côté, l’effondrement de la Russie en 2015 à cause des poussées ethniques, notamment de la part des communautés musulmanes de la Fédération de Russie. (Voir le 16 décembre 2014, sur Reuters: “The year ahead [2015] could see the outbreak of the third Chechen war, which, in turn, could be the death knell of the Russian Federation in its current borders. If, as is imaginable, Russia dismembers itself later this century — the way the Soviet Union did in 1991 — it will largely be a consequence of President Vladimir Putin’s policies.”) Cela rejoint aussi l’idée du “breaking point” [de la Russie] pour lequel Obama affirme montrer une “strategic patience” qui sera récompensée effectivement par l’éclatement de la Russie (voir le 2 janvier 2015).»

... Et voilà que tout change ! Il va falloir modifier les manuels hyper-classifiés, puisqu’on nous annonce que l’indestructible Poutine, nouvel “homme d’acier” (“sens littéral du pseudonyme ‘Staline’”, nous dit Wikipédia), sera encore là en 2024, et donc, on l’imagine, la Russie complète et en bon état avec lui. Quant aux sanctions, décrites jusqu’à fin 2014 comme terribles et absolument dévastatrices (elles devaient emporter, avec l’ouragan financier en plus, la Russie en quelques semaines), elles deviennent d’une douceur presque angéliques, et si subtilement tactiques. («The current round of sanctions, it reports, was designed not to have too much impact on the Russian economy so that a threat of harsher sanctions could be applied.»)

Tout cela permet d’annoncer aux Européens, 1) qu’ils ont plus que jamais intérêt à rester groupés et regroupés autour du pôle de vertu, de puissance et d’intelligence que sont les USA, au moins jusqu’en 2024 ; 2) qu’ils resteront ennemis jurés de la Russie absolument poutiniennes, sans rapprochement possible, jusque-là ; 3) qu’il y aura de nouvelles sanctions puisque celles qui ont été appliquées étaient volontairement soft et qu’elles seront beaucoup plus dures que celles qui ont été imposées ; 4) que l’économie européenne, déjà sérieusement amochée par le blowback des sanctions actuelles, devra faire avec ; 5) que etc. Voilà où nous en sommes, puisque nous avons pris ce document au sérieux, et que rien ne peut plus nous étonner et que tout est possible ... Y compris que ce soit un canard concocté par WikiLeaks ou Anonymous, par la CIA dans l’un de ses multiples coups fourrés labyrinthiques ou par Poutine lui-même, pour se donner l’illusion de la durée...

La voie de l’Islande pour sortir de la crise financière

La voie de l’Islande pour sortir de la crise financière

«Ne pas écouter les marchés financiers, mais le peuple» (Olaf Ragnar Grimsson, Président d’Etat)

par Werner Wüthrich, docteur ès sciences politiques

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch

Iceland 03.jpgRécemment le gouvernement islandais a informé la Commission européenne et le Conseil européen du retrait de sa demande d’adhésion (cf. Horizons et débats no 8 du 23/3/15). Le gouvernement rose-vert avait sollicité en juillet 2009 son adhésion, après que la crise financière aux Etats-Unis ait influé de manière catastrophique sur les banques du pays. Lorsque le pays s’est rétablit étonnamment vite et qu’en avril 2013 un nouveau gouvernement a été choisi, les négociations ont été gelées. Le ministre des Affaires étrangères Gunnar Bragi Sveinsson a noté sur son site web: «Les intérêts de l’Islande sont mieux servi en dehors de l’UE.» La population n’approuverait pas l’adhésion, car ces dernières années, elle a réalisé, ce qu’elle a pu atteindre de ses propres forces. L’Islande est une île dans l’Atlantique avec 350?000 habitants. Le pays dispose de zones de pêche abondantes. Ses habitants pratiquent un peu d’agriculture avec beaucoup de moutons et accueillent de plus en plus de touristes parcourant le pays à cause de la beauté de la nature et de ses sources chaudes. Il fait bon vivre ainsi.
Lors de la dernière crise financière mondiale, l’Islande a pris une place importante – à plusieurs égards. La crise y a sévi encore beaucoup plus qu’ailleurs. En 2008, l’amoncellement de dettes était – au zénith de la crise – beaucoup plus élevé que dans les pays sud de l’UE. Alors que les dettes en Grèce s’élevaient à 175% du produit intérieur brut, les dettes de l’île atlantique (notamment celles des banques) étaient dix fois supérieur au du PIB, c’est à dire 1000% – donc un véritable scénario de catastrophe. Néanmoins, l’Islande se retrouve – sept ans plus tard – relativement en bonne santé. Comment cela s’est-il passé, comment cela a-t-il été possible?
Dans les années de la fin du millénaire, l’Islande se faisait remarquer par des taux de croissance très élevés. La raison n’était pas les fruits de la pêche, mais elle se trouvait ailleurs: les trois grandes banques s’étaient engagés dans un jeux risqué et avaient transformé l’île en une place financière globale. Elles attiraient par exemple des fonds d’épargnes de l’étranger avec des taux d’intérêts surélevés et investissaient cet argent dans des placements financiers risqués dans le monde entier – dans un premier temps avec succès. Les managers des banques responsables se présentèrent comme étant «modernes» et «ouverts» et rompirent avec les traditions de leur banque et de leur corps de métier – selon le proverbe: «Tant va la cruche à l’eau qu’elle finit par se casser.» La cassure ou la chute arriva il y a sept ans – de façon massive – et produisit très rapidement la faillite des trois grandes banques.

Le peuple montra la voie au sujet des dettes extérieures

Le traitement des dettes extérieures des trois banques islandaises était controversé. Selon la doctrine occidentale, l’Etat respectivement les contribuables devaient au moins en partie en assumer la responsabilité. Il s’agissait avant tout des fonds dits Icesave. Icesave avait, en tant que filiale en ligne de la Landsbanki nationalisée, attiré pendant plusieurs années avec des intérêts élevés de nombreux petits épargnants étrangers, dont l’argent n’était pas couvert par l’assurance islandaise des dépôts. Avant tout la Grande Bretagne et les Pays-Bas, d’où venait la plus grande partie de fonds étrangers, exigèrent que l’Etat islandais rembourse ces fonds. Il s’agissait d’environ 4 milliards d’euros (environ 12?000 euros par habitant de l’Islande). Le gouvernement négocia avec les deux pays, qui accordèrent des taux bas et des délais de remboursement longs. Le Parlement islandais accepta le résultat des négociations et adopta le 30 décembre 2009 une loi réglant les modalités de remboursement. – Mais alors le peuple sortit dans les rues avec leurs casseroles et exprima son mécontentement de devoir endosser une responsabilité qui ne lui incombait pas. Les spéculateurs étrangers devaient eux-mêmes porter les conséquences de leurs actes. Finalement, ils avaient obtenu 10% ou plus pour leur argent. «Est-ce moralement et juridiquement justifié, de simplement attribuer le risque à l’Etat et aux contribuables?», figurait sur les transparents et les tracts. L’initiative citoyenne Defence organisa diverses manifestations d’opposition. Elle récolta plus de 60?000 signatures (de 350?000 habitants) et exigea un référendum populaire. Les citoyens assiégèrent la résidence du Président d’Etat avec des feux de Bengale rouges, signalant de manière bien visible un «stop» à cette politique. Le Président d’Etat Olaf Ragnar Grimsson entendit la voix du peuple et ordonna le référendum: «Le noyau de notre Etat islandais est, que le peuple est le juge suprême sur la validité des lois. C’est ainsi que j’ai décidé, en conformité avec la Constitution, de transférer la décision sur la loi en question au peuple.» – En mars 2010, 93% des votants dirent non au paiement des dettes bancaires par l’Etat.
La Grande-Bretagne et les Pays-Bas étaient alors, faute de mieux, prêts à renégocier le remboursement des dettes bancaires. Dans un nouvel accord, l’Islande obtint des concessions supplémentaires et des allégements de paiement. Le remboursement fut prolongé jusqu’en 2046, suite à quoi la prochaine génération serait aussi concernée. Le Parlement islandais accepta. Le Président d’Etat fixa un nouveau référendum populaire. En avril 2011, le peuple refusa également cette nouvelle proposition. – Que faire?
Les Islandais résolurent leur problème bancaire de la manière suivante: les trois grandes banques durent annoncer faillite. La Landsbanki avec sa banque en ligne Icesave fut nationalisée, les deux autres ont été divisés en une «New Bank» et une «Old Bank». La New Bank (dotée de nouveaux capitaux) hérita des domaines d’activité nécessaires à l’intérieur du pays, tels les opérations de paiement, les bancomats, un service «crédit», etc. La Old Bank hérita des immenses amoncellements de dettes et toutes les affaires étrangères avec une quantité d’actifs douteux qu’on liquida lors d’une procédure de faillite. De cette manière, les guichets purent rester ouverts et les bancomats restèrent en fonction à tout moment. Les banques obtinrent de nouveaux noms. L’ancienne banque Kaupthing s’appelle aujourd’hui Arion, l’ancienne Glitinir s’appelle aujourd’hui Islandsbanki. Les trois banques (actuellement en partie en main étrangère) se limitent aux opérations bancaires traditionnelles à l’intérieur du pays.
Cette procédure de faillite nous rappelle à la déconfiture de la Swissair, suite à laquelle on a toute suite fondé une nouvelle petite entreprise – la Swiss – (actuellement contrôlée par la Lufthansa) et pendant laquelle les actifs restants de l’ancienne société et l’importante accumulation de dettes ont été entièrement liquidés lors de la procédure de faillite.

La maîtrise du quotidien et la récupération

La vie sur l’île était difficile depuis le début de la crise. La couronne islandaise perdit de sa valeur. Les prix augmentèrent. Les salaires réels baissèrent. La vie renchérit. Le chaumage augmenta. La performance économique avait déjà baissé de 7% en 2009. Le gouvernement eut besoin d’un crédit du FMI de 10 milliards de dollar, pour survivre à ces temps difficiles. Comme d’habitude, il posa ses conditions. Le gouvernement gauche-vert refusa cependant une politique de liquidation dans le domaine social. Elle réussit tout de même à remplir le programme du FMI. Des pays amis tels la Norvège et la Suède aidèrent avec de l’argent. On augmenta les impôts pour les habitants, la progression de l’impôt sur les revenus fut accentuée et on saisit une série de mesures peu orthodoxes pour réduire les dettes. On déclara, par exemple, tous crédits liés à des monnaies étrangères comme illégaux. Le gouvernement offrit aux entreprises des programmes spéciaux de restructuration de la dette. Pour les crédits immobiliers il y eut des réductions de la dette. Les petits propriétaires obtinrent des allégements de paiements. Pour protéger la monnaie et empêcher la fuite de capitaux, le gouvernement introduisit des contrôles de la circulation des capitaux toujours en vigueur. Les personnes privées voyageant à l’étranger ne peuvent changer qu’un nombre limité d’euros.
Le FMI respecta les démarches du gouvernement. Plus encore – il demanda au ministre islandais des Finances Steingrimur Sigfusson, s’il ne voulait pas devenir le responsable principal du FMI pour la Grèce. Celui-ci a cependant refusé cette proposition (Frankfurter Allgemeine Zeitung du 21/2/15).
La crise en Islande n’a pas duré longtemps. La politique énergique, soutenue par le peuple, montra rapidement des résultats. Le tourisme et l’industrie de pêche profitèrent massivement de la monnaie faible. L’Islande devint bon marché. On importa moins de biens de consommation chers, en revanche, on produisit davantage à l’intérieur du pays. Trois ans après la baisse de 7% de 2009, il y eut une augmentation de 3% – un taux plus élevé que la moyenne de l’UE. L’inflation disparut et le taux de chômage se trouve aujourd’hui à 4% – comme en Suisse. Il n’existe pas de chômage des jeunes comme dans d’autres pays, où il a atteint des dimensions catastrophiques. – L’agence de notation Fitch a de nouveau augmenté la solvabilité du pays. Elle l’a explicitement justifié par «la réussite atteinte suite à des réponses peu orthodoxes à la crise».
En outre, la décision de la Cour de justice de l’AELE de l’année 2013 – ayant cette fois-ci pris une décision au profit du peuple – a été de grande utilité puisque la responsabilité de l’Etat pour les dettes bancaires étrangères a été refusée.

Succès survenu sur fond de souveraineté et de démocratie directe

Pourquoi le pays a-t-il si vite récupéré? Décisif pour le succès fut d’un côté la voix du peuple. Les Islandais n’ont pas seulement pris les bonnes décisions lors de deux référendums. La population a également, dans un grand nombre d’activités, participé activement aux événements – et cela toujours de manière non-violente. Avec des sites internet originaux, ils se sont défendus contre des tentatives de la Grande-Bretagne de placer les Islandais dans un coin terroriste afin de pouvoir geler leurs comptes en banques en Grande-Bretagne. Les Islandais ont en outre remonté les manches et ont remis leur économie nationale au pas. Les trois «nouvelles» banques, massivement réduites, y accomplissent leur tâche traditionnelle. La population a aussi empêché que les managers responsables du dérapage des banques reçoivent, comme ailleurs, d’énormes indemnités de départ en quittant leurs postes. Un bon nombre d’entre eux doivent faire face à des procédures judiciaires. Une commission d’enquête parlementaire a publié un rapport de 2000 pages, qui désigne un petit groupe d’environ 30 managers de banques, membres du gouvernement et de la banque centrale comme responsables principaux pour la débâcle financière. La Cour suprême a récemment jugé quatre d’entre eux avec des peines de prison de cinq à six ans pour des manipulations frauduleuses du marché et des abus de confiance, la punition la plus dure jamais prononcée en Islande dans le domaine de la criminalité économique.
En outre, la propre monnaie fut décisive pour le sauvetage du pays: la baisse massive de la couronne islandaise n’a pas mené au naufrage (comme certains prophètes financiers l’avaient prédit), mais c’était la condition préalable décisive pour une guérison rapide. Aujourd’hui, la couronne islandaise s’est stabilisée à environ 30% en dessous de sa valeur avant la crise. D’autres pays pourraient s’en inspirer! Pour un membre de la zone euro, la sortie de la monnaie commune serait la base pour une voie semblable.
Le succès de la voie islandaise pour sortir de la crise bancaire se distingue fortement de la voie centraliste, dirigée d’en haut, du sauvetage des banques et de la «gestion des dettes» de l’UE, où l’on maintien artificiellement en vie les banques en faillite et rend responsables les contribuables. L’Islande a clairement contredit l’idée que le sauvetage de grandes banques est «sans alternatives» (Too big to fail). Même si la voie de l’Islande ne peut pas être copiée telle quelle pour d’autres pays, elle inspire quand même à chercher courageusement de nouvelles voies. Elle montre aussi, comment un petit pays avec sa propre monnaie peut fièrement maintenir sa place dans le monde globalisé de la finance. La retrait de la demande d’adhésion en est la conséquence logique. Les problèmes financiers ne peuvent pas être résolus à huis-clos par une petite élite, mais la population et les contribuables doivent pouvoir aider de manière constructive à trouver le chemin du succès. Le fait que le FMI ait demandé au ministre islandais des Finances d’aider à maîtriser la crise de la dette en Grèce, parle pour-soi.