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lundi, 22 janvier 2018

Giuseppe Tucci, il più grande tibetologo del mondo

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Giuseppe Tucci, il più grande tibetologo del mondo

Chiara Giacobelli

Scrittrice e giornalista

Ex: http://www.huffingtonpost.it

Lhasa, 1948 – Arrivare fin lì, attraversare continenti, fiumi e montagne, camminare per chilometri sul tetto del mondo, per poi scontrarsi con l'amara verità: le porte del Trono di Dio erano chiuse agli stranieri. A tutti gli stranieri. Giuseppe Tucci scalciò via un sasso gelido che rotolò fino ai piedi di un lama, dritto immobile a pochi metri da lui; sapeva che Lhasa era nota ovunque per essere la città proibita, eppure due anni prima Heinrich Harrer– che all'epoca non era nessuno, ma in futuro sarebbe diventato l'idolo delle masse grazie al film Sette anni in Tibet tratto dal suo libro – era riuscito a penetrarvi insieme all'amico Peter Aufschnaiter e proprio in quel momento, mentre lui tentava ogni strada possibile per convincere i monaci a essere accolto dal Dalai Lama, si trovava all'interno di quelle mura incantate con l'importante ruolo di traduttore di notizie dall'estero. Giuseppe alzò gli occhi verso l'immenso palazzo che sovrastava una rupe scoscesa e sospirò: non sarebbe tornato a casa senza prima aver avuto accesso al luogo più segreto del pianeta.

GT-mandala.JPGEra il 5 giugno del 1894 quando un bimbo dagli occhi curiosi e le mani sempre pronte ad afferrare ciò che incontrava sul suo cammino nasceva in un confortevole appartamento di Macerata. Oggi la targa che ricorda la sua persona si trova in corso Cavour ed è facilmente visibile, tuttavia sono in molti ad avere ricordi di un adolescente di via Crispi originale, poco avvezzo a far amicizia, sempre immerso in letture e passeggiate tra le rovine storiche, che aveva attirato l'attenzione su di sé poiché spesso, durante il freddo inverno dell'entroterra marchigiano, usciva in balcone a dorso nudo e si cimentava in difficilissimi esercizi di yoga. Nessuno poteva immaginare che la città di Macerata sarebbe arrivata in un futuro non troppo lontano a dedicargli persino una via e una sede didattica a Palazzo Ugolini. Giuseppe Tucci, figlio unico di una coppia di pugliesi emigrati nelle Marche, era per tutti il ragazzino fuori dal comune che al Liceo Classico Leopardi produceva scritti e saggi impensabili per un sedicenne (tanto che la scuola conserva ancora la pagella e il diploma, insieme a un libricino realizzato dagli alunni qualche anno fa); era il ribelle solitario che spariva per pomeriggi interi nella Biblioteca Comunale Mozzi Borgetti o in quella Statale cercando di decifrare lingue incomprensibili come il sanscrito, il cinese, l'hindi e molte altre, non potendo certo prevedere che un giorno tra quelle stesse mura sarebbero state conservate quasi tutte le sue 360 pubblicazioni; infine, era il giovane esploratore che dedicava ore e ore di studio alle zone archeologiche di Urbs Salvia ed Helvia Recina. Quelle colline, quegli scavi per lui così affascinanti, quel richiamo della terra d'origine che lo spingeva a immergersi nel passato attraverso ogni modalità non lo avrebbero mai abbandonato, neppure quando spirò all'età di novant'anni nella sua casa di San Polo dei Cavalieri. Tuttavia, Macerata fu solo l'inizio di una lunghissima vita trascorsa viaggiando; una vita che lo condusse negli spazi estremi dell'Oriente, laddove nessuno era mai stato prima.

GT-reltibet.jpgGiuseppe strinse la cinghia che teneva incollati tra loro gli antichi libri e sorrise compiaciuto. Era giunto il momento di lasciare Lhasa dopo che, non molto tempo prima, era davvero riuscito a farsi ammettere – unico uomo di tutta la spedizione – sfruttando una motivazione assai semplice: era buddista. Lo era diventato, in effetti, durante la precedente visita al Tibet nel 1935 grazie all'iniziazione dell'abate di Sakya Ngawang Thutob Wangdrag. Lo raccontò lui stesso nel libro Santi e briganti nel Tibet ignoto, esplicitando anche la convinzione di essere stato un tibetano e di essersi reincarnato nei panni di un esploratore per dare voce e lustro alla cultura di un popolo in continuo pericolo, ancora troppo ignoto al resto dell'umanità. Ed era proprio per questo motivo che Tucci, in quella soleggiata giornata dall'aria frizzantina proveniente dalle vette che si estendevano intorno a lui in lontananza, non aveva nessuna intenzione di restituire l'opera costituita da ben 108 volumi preziosi e di inestimabile valore che il Dalai Lama Tenzin Gyatso – appena tredicenne – gli aveva prestato affascinato dalla sua mente erudita continuamente in cerca di risposte. D'altra parte, la storia avrebbe dimostrato in seguito che quel piccolo "appropriamento indebito" si sarebbe rivelato una fortuna, poiché permise all'enciclopedia di salvarsi arrivando ai giorni nostri integra e tradotta in vari paesi, con grande gioia del Dalai Lama stesso.

Fu dunque quella la prima volta che Tucci riuscì a varcare la soglia della città proibita, ma la sua intera esistenza appare in realtà come un susseguirsi di avventure di ogni tipo, da quelle sentimentali – si sposò tre volte, nonostante trovò il vero amore solo con l'ultima compagna Francesca Bonardi, accanto alla quale è oggi sepolto in una tomba anonima e con lo sguardo rivolto a Oriente come da lui richiesto – a quelle professionali. Si contano in totale otto spedizioni in Tibet e cinque in Nepal, oltre agli scavi archeologici condotti in Afghanistan, Iran e Pakistan. Il patrimonio di reperti (oggetti, manufatti, libri, manoscritti, fotografie, etc.) da lui rinvenuto nel corso di questi viaggi fu tale da permettergli nel 1933 di fondare insieme al filosofo Giovanni Gentile l'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente di Roma (IsMEO), con lo stesso intento che lo aveva sempre mosso, quello cioè di stabilire relazioni culturali tra l'Italia e i Paesi asiatici.

GT-philIndia.jpgSebbene Giuseppe Tucci sia oggi considerato unanimamente il più importante tibetologo del mondo e un esploratore, orientalista, professore e storico delle religioni di livello internazionale – contando le numerose università straniere e italiane in cui insegnò, o le prestigiose onorificenze ricevute – la sua figura resta tuttora avvolta nel mistero e nella discrezione. Acclamato nonché profondamente stimato all'estero, Tucci seppe sfruttare anche nel suo paese i legami politici e istituzionali che la sua immensa cultura gli aveva procurato; tuttavia, mai si piegò ai lustri del successo, ai salotti letterari e alla sete di visibilità, restando così un personaggio ben poco noto se si pensa all'estremo carisma che seppe emanare in vita, ma soprattutto alle incredibili missioni che svolse, degne di un'incomparabile genialità.

La scorsa estate la grande mostra dal titolo Tucci l'esploratore dell'anima, allestita nella città natale dall'associazione Arte nomade in collaborazione con le istituzioni, gli ha regalato un po' di quella notorietà che sempre aveva schivato, come pure fece la pubblicazione di Segreto Tibet da parte di Fosco Maraini e del libro Non sono un intellettuale a cura di Maurizio Serafini e Gianfranco Borgani. Guardando al futuro, l'Assessorato alla Cultura del Comune di Macerata sta preparando uno spazio in biblioteca per raccontare Giuseppe Tucci nella sua complessa totalità: dalla vita in carovana tra Occidente e Oriente alla "comunione fiduciosa" fra i popoli, principio che fu saldo nel suo cuore e nella sua mente. Sempre in biblioteca è inoltre conservato il Premio Jawaharlal Nehru per la Comprensione Internazionale che ricevette dal governo indiano. Qualche anno fa, invece, un'esposizione fotografica a Pennabilli dedicata a Tucci venne visitata dal Dalai Lama in persona: i presenti raccontano di averlo visto commuoversi e di aver ricordato con affetto l'esploratore italiano, mentre una lacrima gli scendeva sul viso.

Il Tibet, [che] è stato il più grande amore della mia vita, e lo è tuttora, tanto più caldo, quanto più sembra difficile soddisfarlo con un nuovo incontro. In otto viaggi, ne ho percorso gran parte in lungo ed in largo, ho vissuto nei villaggi e nei monasteri, mi sono genuflesso dinanzi a maestri e immagini sacre, ho valicato insieme con i carovanieri monti e traversato deserti, vasti come il mare, ho discusso problemi di religione e filosofia con monaci sapienti. (...) Io ero diventato tutt'uno con essi. Vivevo la loro stessa vita, parlavo la medesima lingua, mi nutrivo delle medesime esperienze, condividevo le loro ansie ed i loro entusiasmi. La fiducia genera fiducia.

Giuseppe Tucci

jeudi, 22 septembre 2016

Race et Histoire, de Claude Lévi-Strauss

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Race et Histoire, de Claude Lévi-Strauss
par Vaslav Godziemba
Ex: http://lesocle.hautetfort.com 

rh-0.jpgRace et Histoire est un livre de l'anthropologue, ethnologue et philosophe Claude Lévi-Strauss, publié en 1952. Au départ connu uniquement des cercles de la sociologie de l'époque, il est actuellement l'un des traités les plus célèbres de l'auteur. Sa lecture et son analyse, ayant connu leurs heures de gloire dans les années 70-80, tendent actuellement à être refrénées par les corps intellectuels et enseignants des grandes institutions de sciences politiques, faute à son contenu jugé paradoxalement trop polémique. En véritable scientifique, Lévi-Strauss analyse ici les rapports complexes et intimes existants entre cultures, identités, et races, posant les bases de ce qui représente à ce jour le regard le plus puissant de l'ethnologie moderne, de l'anthropologie, et plus généralement de la vie et de la mort des civilisations2.

C’est en 1952, alors que l’UNESCO publiait une série de brochures consacrées au « problème du racisme dans le monde », que Claude Lévi-Strauss avait été démarché afin de commenter celles-ci. De là naquit l’essai critique Race et Histoire, recueil de réflexions quant aux notions d’identité, de race et de culture3. L’œuvre, si elle se veut initialement une réponse aux assertions soulevées dans les brochures antiracistes de l’UNESCO, dépasse de très loin le cadre du simple commentaire critique, devenant un essai d’ethnologie et de sciences politiques à part entière, et dont la profondeur de réflexion le rend intemporel.

Il ne fait aucun doute que la méfiance des institutions à l'égard de l’essai, touchant au véritable enjeu du XXIe siècle et aux réflexions qui sont les nôtres, mérite de s'y arrêter.

Vaslav Godziemba, pour le SOCLE

La critique positive de Race et Histoire au format .pdf

 « Que les peuples ne vivent pas trop près les uns des autres, sinon, c’est la guerre, mais pas trop loin non plus, sinon, ils ne se connaissent plus et alors, c’est la guerre ! »

Claude Lévi-Strauss

I.  L’auteur de Race et Histoire : Claude Lévi-Strauss

Claude Lévi-Strauss, né le 28 novembre 1908 à Bruxelles et mort le 30 octobre 2009 à Paris est un anthropologue et ethnologue français de la seconde moitié du XXe siècle, qui a exercé une influence décisive sur les sciences humaines, devenant notamment l'une des figures fondatrices du structuralisme.

Il a été professeur honoraire au Collège de France, y a occupé la chaire d'anthropologie sociale de 1959 à 1982. Il était également membre de l'Académie française dont il est devenu le premier centenaire. Depuis ses premiers travaux sur les peuples indigènes du Brésil, qu'il avait étudiés sur le terrain entre 1935 et 1939, et la publication de sa thèse Les Structures élémentaires de la parenté en 1949, il a produit une œuvre scientifique dont les apports ont été reconnus au niveau international. Il a ainsi consacré une tétralogie, les Mythologiques, à l'étude des mythes. Mais il a également publié des ouvrages qui sortent du strict cadre des études académiques, dont le plus célèbre, Tristes Tropiques, publié en 1955, l'a fait connaître et apprécier d'un vaste cercle de lecteurs1.

Ses travaux, articulée par une cohérence rarement trouvée chez ses contemporains, ont permis de donner ses lettres de noblesse à la notion de « Sciences Humaines », souvent reléguées au rang de pseudosciences à cause de la subjectivité dont celles-ci sont imprégnées. Cette volonté de transparence objective, se voulant exsangue de toute idéologie sous-jacente, caractérise sa pensée.

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II.  Critique Positive de Race et Histoire

Commentaire liminaire et structure de l’œuvre

L'œuvre de Lévi-Strauss4 se découpe en dix chapitres thématiques portant chacun sur les réflexions qu'il jugera fondamentales afin de répondre de manière satisfaisante à la doctrine antiraciste formulée par l’UNESCO, et de comprendre les enjeux culturels et identitaires de demain. Le septième chapitre, La place de la civilisation occidentale, comprise « à l'intérieur du cortège des cultures et identités existantes », mérite toute notre attention.

Critique Positive de l’essai

La première topique de Lévi-Strauss concerne la Race et la Culture. L'auteur, dont la démarche logico-déductive se ressent dès les premières lignes, cherche à définir de manière univoque les problèmes et les notions ayant trait à la Race et à la Culture. Certaines vérités scientifiques ethnologiques, validées par la génétique et la biologie moderne, sont mises en lumière ici :

  • Les races humaines existent, dans le sens d'une diversité génétique permettant de caractériser différents « pools », ou « groupes génétiques » différents. Il est rationnel au sens de la biologie d'affirmer typiquement « L'homme blanc européen est différent de l'homme nord-africain »
  • Il y a de fait sur cette Terre, un être animal particulier car culturel : l'Homme. Celui-ci se définit donc à deux niveaux de nomenclatures différents : l'un biologique (celui du domaine des sciences dures), l'autre culturel (celui des sciences humaines)
  • Le racisme est incorrect scientifiquement, en tant que théorie visant à lier les caractéristiques biologiques aux « productions sociologiques et psychologiques des hommes », et à les hiérarchiser en conséquence. Il est même pour Lévi-Strauss le « péché originel de l'anthropologie », celui de Gobineau et des racistes de la fin du XIXe, car générateur de conclusion ne reposant sur aucune démarche réellement scientifique.

        Diversité des races, diversité des cultures

cls-2.jpgToute la subtilité de l'auteur, qui parle en scientifique et non en donneur de leçon de morale, consiste à rappeler qu'en l'état actuel de nos connaissances scientifiques, il n'y a aucune corrélation entre le phénomène génétique et le phénomène culturel, compris en sa large acceptation. On peut donc en première approche qualifier la pensée de Lévi-Strauss comme un structuralisme scientifique, a-raciste (et non anti-raciste comme on le verra par la suite). En effet là où le raciste proclame « La culture est conséquence déterminée de la biologie », Lévi-Strauss ne répond pas, comme les penseurs de l’UNESCO, héritiers de l'Universalisme chrétien dévoyé « Cette vision de l'Homme est infondée car immorale », mais que son manque de fondement provient de son manque de consistance scientifique, en tant qu'inférence logique déterminée et confirmée par l'expérience. Les sciences de la seconde moitié du XXe siècle n'auront malheureusement pas apporté plus de réponse à ces questions, déclarées taboues par les forces politiques qui gouvernent l'Occident depuis la sortie de la guerre.

Mais l'auteur prend garde à ne pas tomber dans le travers qu'il prête aux brochures de l'UNESCO. Car cette thèse, quoique diamétralement opposée à celle du racisme biologique, repose en réalité sur le même procédé logique, fondé sur un préjugé idéologique : l'antiraciste fonde la dignité universelle du genre humain sur une uniformité biologique idéelle de l'espèce ! Lui aussi participe par conséquent à valider cette relation de cause à effet. Son effet pervers sera alors paradoxalement de nier la réelle diversité inhérente au genre humain et les conséquences de cette-dernière, bonnes comme mauvaises. Poussé à son aboutissement, l'antiraciste orthodoxe s'arrimera, pris au piège de sa « morale », à une explication des phénomènes humains par les seules grilles de lecture sociale et économique, commettant ainsi des contre-sens dangereux qui auraient pu être évités en faisant place à la donne ethnico-culturelle.

Finalement, puisque la biologie est en l'état actuel impuissante à fournir un cadre explicatif satisfaisant quant à la diversité des cultures humaines, il faut, éventuellement en l'attente d'un cadre théorique acceptable, s'arrêter à observer et à fonder la diversité et l’inégalité des hommes sur la diversité et l’inégalité des cultures en tant que composantes privilégiées de l'identité des groupes humains.

Ici viennent donc naturellement se poser des questions fondamentales : comment s’exprime la diversité culturelle ? Est-elle une force ou une faiblesse ?

Il est avéré que l’on peut parler de différences culturelles au sein d’un même « tronc commun » culturel (tel l’Angleterre et l’Amérique en donnent un parfait exemple). Inversement il existe des sociétés humaines qui, rentrées très récemment en contact, paraissent appartenir à la même civilisation. Ainsi il faut admettre qu’il y a au sein des sociétés humaines, des forces « conservatrices », qui vont tendre au maintien et même à l’accentuation des particularismes, et des forces « intégrantes », qui iront dans « le sens de la convergence et de l’affinité » d’avec les autres. Le langage, pour Claude Lévi-Strauss, en donne un exemple saisissant. Là où le français, l’anglais, le russe, pourtant de même origine initialement, vont avoir tendance à se différencier, certaines langues vont a contrario se rapprocher, se mêler et se confondre avec d’autres. Le russe, quoique slave d’origine, s’est ainsi rapproché de par certains de ses traits phonétiques avec les langues finno-ougriennes et turques de son voisinage géographique immédiat. De la même manière, on note que le français a tendance à se confondre avec certains traits de la langue arabe dans les zones d’Ile-de-France à forte proportion de populations afro-maghrébines non-assimilées. L’auteur pose par conséquent qu’il existe un « optimum », eut égard aux relations mutuelles entre sociétés, de diversité « au-delà duquel les sociétés ne sauraient aller » sans danger de s’éteindre, phagocytées par l’apport allogène. Cet optimum varie fonction de nombreux paramètres tels que le nombre de sociétés prises en considération, leurs masses démographiques, leurs éloignements géographiques, les moyens de communication à disposition, la Volonté de puissance des sociétés considérées, etc. Le fantasme de la société « sclérosée » antiraciste s’avère dès lors un leurre idéologique. En effet s’il n’est pas douteux d’affirmer que les sociétés échangent, communiquent, se font la guerre, et dans des mesures relatives, se métissent entre elles, il est pour ainsi dire écrit dans leur « code génétique », car essentiel à leur survie, qu’elles désirent avant tout être soi, se distinguer et conserver leur intégrité, sans quoi elles perdraient leurs essences et mourraient.

Le paradoxe est pourtant violent : l’ethnocentrisme inhérent à la démarche de conservation de son intégrité a tendance naturellement à dépouiller l’Autre de son humanité. Ainsi, en anthropologue avisé, Lévi-Strauss remarque que dans la démarche naturelle des groupes humains, la notion même d’ « Humanité » disparait aux frontières de la tribu, du clan, voire même du village. Le reste du monde humain vivant – ceci est une constante universelle chez les hommes – apparait dès lors comme « sauvage », « non-humain », « barbare ». Il prend comme exemple, absolument baroque et pathétique, l’épisode de la découverte des Grandes Antilles, où alors que les Espagnols envoyaient des délégations afin de trancher la question de savoir si les indigènes possédaient ou non une âme, dans le même temps, ces derniers tentaient de vérifier, en noyant et immergeant les hommes blancs qu’ils avaient fait prisonniers, si leurs corps étaient autant sujet à la putréfaction que les leurs !

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Figure 1 : « Il est écrit dans le  code génétique des sociétés qu’elles désirent avant tout être soi, se distinguer et conserver leur intégrité »

Femmes biélorusses en costume traditionnel, anonyme (1999)

Un des biais les plus aboutis afin de conserver avec l’Autre une relation de respect mutuel a été celui des grands systèmes philosophiques de l’Europe : les universalismes que sont le christianisme et ses héritiers (kantisme, néokantisme, marxisme, droitsdelhommisme, …), affirmant de facto l’égalité et donc l’exigence morale de fraternité entre tous les hommes, permettaient de donner à l’Autre une dignité inédite. Cependant, au-delà de la menace évidente que représente à nos yeux ses doctrines poussées dans leurs retranchements dévoyés, Lévi-Strauss souligne que « La simple proclamation de l'égalité naturelle entre tous les hommes et de la fraternité qui doit les unir, sans distinction de races ou de cultures, a quelque chose de décevant pour l'esprit, parce qu'elle néglige une diversité de fait, qui s'oppose à l'observation ». Il en est de même pour les déclarations des droits de l’homme, énonçant un idéal « oublieux du fait que l’Homme ne réalise pas sa nature dans une humanité abstraite, mais dans des cultures traditionnelles où les changements révolutionnaires laissent des pans entiers et s’expliquent eux-mêmes en fonctions d’une situation strictement définie dans le temps et dans l’espace ». Et c’est précisément pour en finir avec cette incapacité à donner un fondement satisfaisant à la respectabilité universelle du genre humain, confronté à une vérité naturelle qui le transcende, que l’homme européen du XIXe a pu fournir un large spectre de doctrine voulant chacune à leur façon résoudre l’antinomie, du darwinisme social et des thèses racistes à l’universalisme communiste. Il est un fait historique qu’aucune n’a pu, à moyen ou long termes, fournir une explication qui ne soit pas une insulte à la pensée éclairée et un cadre satisfaisant une paix réelle entre les peuples.

Ainsi l’auteur affirme que la manière la plus efficace de respecter la véritable diversité des cultures est de préserver le droit naturel de chacune d’elle à trouver son optimum, par l’acceptation et/ou le rejet des apports qui lui sont extérieurs. La diversité apaisée au sens de Lévi-Strauss ne se fonde pas sur le métissage généralisé, qui conduirait à une uniformité totale et à la mort des civilisations, mais sur le respect réciproque par les groupes humains de la différence de l’Autre en tant qu’Autre.

        Le regard porté sur les sociétés archaïques ou les chimères du progrès

Par la suite, Lévi-Strauss invite à une réflexion autour de la valeur d’une culture ou d’une civilisation, des inégalités – apparentes ou réelles – existantes entre celles-ci, et de la relativité de la notion de « progrès », entendu dans son acceptation occidentale.

cls-3.jpgLévi-Strauss distingue pour les besoins de ses démonstrations trois types de culture que chaque société peut, de son propre point de vue, soumettre à son entendement : 1. Celles qui sont ses contemporaines, mais qui se trouvent à un autre lieu du globe ; 2. Celles qui se sont manifestées dans un espace commun à la sienne, mais à des temps antérieurs ; 3. Enfin celles qui cumulent à la fois l’éloignement spatial et temporel. En ce qui concerne les cultures du troisième groupe, le problème s’avère réglé d’avance : quoiqu’elle compose, selon les chiffres de l’ethnologie moderne, 90 à 99% de la totalité des civilisations qui ont existé depuis l’éveil de l’homme à la culture, la majorité ne sera jamais connue de façon satisfaisante, particulièrement en raison du manque de traces écrites qui la caractérise. Toute assertion globale à leur endroit apparait dès lors douteuse pour l’esprit scientifique.

Les cultures du premier groupe, à savoir nos contemporaines éloignées spatialement, sont selon Lévi-Strauss victime d’une vision qualifiée d’évolutionnisme culturel, inconsciemment véhiculée par les doctrines séculaires de la civilisation européenne. En effet au regard de l’aspect rudimentaire des productions de certaines cultures, il est pour ainsi dire a priori « évident » de voir en elle une « étape » antérieure de notre propre développement. On les qualifiera dès lors d’ « archaïques » sans plus de questionnement à leur sujet. Le voyageur occidental naïf se complaira dès lors à visiter l’âge de pierre en Nouvelle-Guinée, le Moyen-âge au Proche-Orient, ou un semblant de « siècle de Louis XIV » dans le Pékin d’avant la première guerre mondiale.

En réponse, Lévi-Strauss pose que le fait de qualifier une culture qui apparait primaire d’« archaïque », quoique jugement de valeur propre à toute civilisation, est invalidée par les recherches anthropologiques les plus basiques. Appelant à sortir d’une vision par le prisme de la grille de lecture du progrès à l’occidental, il rappelle que les productions culturelles et sociales de cultures éloignées de la nôtre sont difficilement atteignables à l’homme vivant hors de la sphère de la culture qu’il juge. On constate que la complexité de certaines cultures jugées « primitives » n’a rien à envier à celle de nos systèmes techniques, politiques ou à nos modes d’organisations sociales. A titre d’exemple, les chinois avaient dès le XIe siècle créé la machine à vapeur, soit plus de sept siècles et demi avant la révolution industrielle en Angleterre. Cela signifie qu’ils avaient des moyens techniques objectivement plus raffinés que ceux dont disposait l’Europe à la même période. Ce qui manquait à l’esprit scientifique chinois fut en l’occurrence le manque de vue sur l’application que l’on pouvait faire de cette technique.

L’opposition entre culture progressive, qui accumulerait les avancées culturelles et techniques, et culture inerte, résulterait moins d’une différence objective de raffinement des productions sociales que d’une vision déformée par notre subjectivité culturelle. Ainsi certaines cultures nous apparaitraient comme stationnaires, « non pas nécessairement parce qu’elles le sont, mais parce que leur ligne de développement ne signifie rien pour nous, n’est pas mesurable dans les termes du système de références que nous utilisons ». En effet si l’on prend l’un des critères occidentaux emblématiques d’évolution, à savoir la mise à disposition de l’homme de moyens mécaniques fonctionnels de plus en plus puissants, il parait évident que les civilisations américaines et européennes remporteraient le haut du classement, loin devant les peuples océanien et africain. Or le simple fait de changer de critère d’évaluation permettrait, c’est là l’objet d’une grande partie des travaux de Lévi-Strauss, de renverser cette hiérarchie. A titre indicatif, il n’est pas absurde de croire que si la capacité à créer un système politico-spirituel stable dans le temps et préservant les populations de l’affaiblissement de leur volonté de puissance et du nihilisme avait été pris comme critère, les pays asiatiques et moyen-orientaux seraient loin devant les peuples européens de la seconde moitié du XXe siècle !

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Figure 2 : « Certaines cultures nous apparaitraient comme stationnaires car leur ligne de développement ne signifie rien pour nous, n’est pas mesurable dans les termes du système de références que nous utilisons »

Membres des Baigas, tribu primitive du nord de L’Inde volontairement coupée du monde moderne (2013)

Toute l’attention de l’ethnologue sera dès lors porter sur la compréhension des spécificités de développement et de rapports au Monde qui caractérisent chaque peuple. Lévi-Strauss exhorte à cet égard le lecteur, par la mise en lumière de ce genre d’a priori naturel, à adopter cette même démarche. Et c’est uniquement à cette condition de compréhension de l’Autre, en tant qu’il est Autre dans toutes ses composantes, que peut s’instaurer un véritable dialogue apaisé entre les peuples, où chacun garde sa spécificité, sans concession d’aucune sorte à l’Universalisme sécularisé. A cela Lévi-Strauss ajoute par ailleurs que la notion occidentale de progrès, héritière du modèle de déroulement historiciste de la Bible dans la tradition chrétienne, et reprise après sécularisation par Hegel et Marx, entre en opposition avec l’étude historique et anthropologique. Si l’auteur ne nie pas que des progrès indéniables aient été réalisés en tout domaine depuis l’éveil à la culture de l’Homme, sa linéarité n’a rien d’évident. La simple logique formelle permet en première instance de mettre en lumière la caducité de la thèse : si le progrès était constant et linéaire, il n’y aurait pas de décadences définitives. Or des civilisations sont mortes, donc la linéarité et la nécessité du progrès n’existe pas. Les avancées civilisationnelles se font en réalité par à-coup, de manière chaotique, brutales. A titre d’exemple, l’Europe n’a connu que peu de ce que Jacqueline de Romilly appelait des « miracles historiques »5, ces époques de foisonnement intellectuel ayant permis au continent de maintenir le rang qui est le sien au sein du concert des nations : l’Antiquité Grecque, la Renaissance et la Révolution Industrielle, pour citer les plus emblématiques.

        La question de la supériorité de la civilisation occidentale

Lévi-Strauss fait remarquer que même à pousser à bout la logique du relativisme culturel, en affirmant que l'inégalité entre les cultures est infondée car il nous serait absolument impossible de sortir de nos structures mentales culturelles pour juger convenablement d'autres, un constat demeure: il y a une civilisation qui plus que toute autre dans l'histoire du monde semble faire l'unanimité quant à sa supériorité par rapport aux autres, la Civilisation Blanche Occidentale.

Le contexte d'écriture de l'œuvre est ici important à souligner: Lévi-Strauss fournit son analyse en des temps où la totalité des pays du globe a reçu, à des degrés variables selon la culture considérée, l'influence de l'Occident, en termes de structures mentales et d'organisation sociale. Le mode de vie de celui-ci a ainsi fait des émules au sein des populations de couleurs. Que ce soit à tort ou à raison, par la destruction coloniale de modèles culturels préexistants, l'assimilation des peuples extérieurs, ou naturellement par leur volonté propre, les peuples de la Terre aspiraient à une occidentalisation de leurs mœurs. À la tribune de l'ONU et dans les grandes organisations internationales de l'époque, les représentants des pays du tiers-monde n'avaient de cesse de marteler que le « plus grave problème de l'occidentalisation de leur société » était précisément « la lenteur et la petitesse de cette occidentalisation » ! Triste constat pour le défenseur de la diversité des cultures qu'était Claude Lévi-Strauss. Mais la science transcende froidement l'ethos individuel, et il lui a été longtemps forcé de constater « qu'il ne servirait à rien de vouloir défendre l'originalité des cultures humaines contre elles-mêmes ». Ainsi cette course à l'uniformisation devra s'achever de trois manières différentes :

1. Par une occidentalisation intégrale de la planète, avec des variantes relevant du folklore ici et là

2. Par la création de modèles syncrétiques, comme la Chine, l’Inde ou le monde musulman laisserait suggérer

3. Par un mouvement de reflux de l’occidentalisation, arrivée à une expansion physique « incompatible avec les mécanismes internes qui assurent son existence »

Il est à noter à cet égard que l'auteur, spectateur critique de l'évolution des sociétés au début du XXIe (Lévi-Strauss est mort en 2009, encore actif intellectuellement), pourra donner ici un semblant de réponse. Loin de s'étioler dans une américanisation heureuse, les grands blocs culturels et civilisationnels ont eu tendance, regardant ce mouvement de l'Histoire comme une agression, à accentuer le phénomène inverse : celui du réveil des « forces conservatrices » en cas d'ingérence au sein de leur modèle respectif. Ainsi la volonté d'émancipation des BRICS de la tutelle américaine, le réveil identitaire du Moyen-Orient (illustré par la montée en puissance des mouvements wahhabites et salafistes), de l'Inde ou de la Chine, apparaissent des conséquences directes de ce phénomène. Le cas de la Chine donne dans cette optique un double exemple archétypal des théories lévistraussiennes : conscient de son infériorité technique et économique de fait par rapport à la Civilisation Occidentale, l'Empire du Milieu aura permis l'entrée du modèle capitaliste anglo-saxon sur son territoire et des sciences et techniques européennes, sans pour autant renier son identité propre. Là où les mondialistes béats croyaient, pour ramasser leur pensée en une formule, que « Le iPhone créerait l'émancipation individuelle et la démocratie », le géant chinois a au contraire fourni l'illustration parfaite de cet optimum de diversité des structures internes d'un pays, prenant ce qui lui a semblé meilleur chez le voisin, rejetant le reste.

Ainsi c’est l'observation de ces processus qui permirent à Lévi-Strauss de répondre à la question centrale : sur quoi se fonde le consentement des peuples de la Terre à proclamer quasi-unanimement la supériorité de l'Occident ?

cls_4.jpgLévi-Strauss affirme que c'est l'objectivité des critères de hiérarchisation, intime à la pensée occidentale, qui permettent de la fonder, et qui peuvent se ramener, selon Leslie White6, à deux principaux : 1. L’accroissement continuel de la quantité d’énergie disponible par habitant et 2. La protection et la prolongation de la vie humaine capacitive. Ainsi tout homme désire, sauf cas pathologique, prolonger sa vie en pleine santé sur Terre. Quelle réponse plus admirable a été fournie à cet enjeu que la médecine et le mode de vie occidental ne sauraient offrir ? Toutes les sociétés (c'est une structure universelle) requièrent un accroissement de connaissances, de techniques et de savoir-faire afin de modeler leurs environnements selon leurs normes. Quel outil plus raffiné et plus efficace à cet effet que sont la Mathématique, la Science et la Technique occidentales ? Nous pourrions même aller plus loin (mais ce serait déjà rentrer dans une forme de subjectivisme idéologique) en posant pour principe qu'il y a en tout être humain une Volonté d'émancipation individuelle du cadre des méta-structures collectives, et que l'individualisme européen triomphant et prosélyte offre un médium privilégié à cette émancipation.

En conclusion sur le sujet, on s'accordera à dire que la supériorité de la Civilisation Occidentale s'entend avant tout comme l'accord entre les cultures de cette supériorité, fondée sur des critères objectifs, et répondant aux besoins essentiels et universels de toute culture humaine.

        L’accumulation culturelle et l’écart différentiel vital

Dans les dernières parties de l’essai, Lévi-Strauss tentent d’analyser et de comprendre ce qui fonde véritablement l’inégalité entre les cultures et les civilisations humaines, si cette inégalité est absolue ou relative à la culture du point de vue de laquelle on se place, et, ayant résolu ces questions, de voir sur quelles bases se fondent les relations et les collaborations entre les cultures.

Comprendre l’origine de l’inégalité entre les cultures revient à expliquer pourquoi existe-t-il des cultures « cumulatives », progressant à mesure de leur avancée dans le temps, pour arriver à un niveau de raffinement donné, et a contrario des cultures « stationnaires », ou « moins cumulatives », ne progressant pas ou peu. Pour y répondre, Lévi-Strauss fait appel à la notion de probabilité, outil mathématique réservé jusqu’à son époque aux seules sciences dures et expérimentales, telles que la thermodynamique statistique énoncée un siècle plus tôt par Boltzmann. Si l’on considère une culture donnée, une série d’évènements aléatoires dont les issues sont soit le progrès p, soit la régression r, soit le statu quo s, dépendants de divers facteurs internes et externes à la culture étudiée [X1, X2, X3.. Xn], et enfin la probabilité P d’arriver à un certain cumul de progrès p, on arrive à prouver dans quelle mesure il est naturel à l’échelle du monde que les civilisations les plus avancées soient plus rares, voire uniques, car bénéficiant de facteurs et d’un enchaînement d’évènements aléatoires propices au progrès de celles-ci. C’est précisément la rareté des séries d’évènements aléatoires favorables qui permet d’expliquer l’échelle de « cumul » et le degré plus ou moins élevé de raffinement d’une culture. Et c’est à partir de cette application des arbres événementiels probabilistes à l’ethnologie que Lévi-Strauss descend conformément aux conclusions de sa démonstration la Civilisation Occidentale du piédestal sur lequel elle reposait. Il déclare qu’il faut « être assurée du fait que si la révolution industrielle n’était pas apparue d’abord en Europe occidentale et septentrionale, elle se serait manifestée un jour sur un autre point du globe ». En d’autres termes, l’Europe n’aurait pas de mérite, pas de fierté à tirer de cette supériorité, car elle aurait très bien pu se retrouver par une autre combinaison aléatoire de facteurs propices à un autre endroit du globe, à un autre moment de l’Histoire, pour une autre culture.

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Figure 3 : « La supériorité de la Civilisation Occidentale est (…) fondée sur des critères objectifs, et répondant aux besoins essentiels et universels de toute culture humaine »

L’école d’Athènes, Raphaël (1509-1512)

Il m’est apparu que cette assertion, quoique valable dans la mesure de sa logique abstraite, était assez grossière à deux égards principaux. Premièrement elle n’est corroborée par aucun fait historique. On peut toujours spéculer sur le fait que la collusion d’autres types de facteurs (climatiques, culturelles, mythologiques, coutumiers, techniques, etc.) aient pu faire apparaitre la même avancée objective aux yeux de l’Humanité toute entière à un autre endroit que sur le continent européen. Reste qu’en l’attente d’un contre-exemple, cette « série d’évènements aléatoires » porte un nom et une définition précise : l’Europe. Et qu’on le veuille ou non, la démarche scientifique interdit de déclarer erroné un énoncé qu’elle n’a pas falsifié. La thèse qui consiste à dire « C’est l’Europe en tant qu’Europe qui a produit la révolution industrielle » est tout aussi correct scientifiquement que celle de Lévi-Strauss, et parait même plus adéquate à la réalité. Deuxièmement elle est réductrice car tendant vers un déterminisme structuraliste qui ôterait ainsi à l’Homme son libre arbitre. Car quoique modelée par des représentations mentales inhérentes à sa sphère culturelle, il a tout de même été de la volonté des hommes de faire cette révolution industrielle ! Et cette volonté, de par le moule culturel bien spécifique duquel elle émane, ne pouvait par définition se retrouver uniquement dans celui-ci : en Europe !

La deuxième assertion, moins polémique cette fois, pose que la diversité des cultures humaines et l’émulation qui réside entre elles sont à l’origine des séries cumulatives d’évènements favorables, et donc du progrès au sein d’une civilisation. Entendons-nous bien ici : Lévi-Strauss ne dit à aucun moment que la diversité ethnique interne d’une société et le métissage des cultures rendraient celles-ci plus fortes. Au contraire nous avons vu à quel point ces phénomènes représentaient la mort des particularismes, et donc des cultures considérées. Il s’agit en réalité des interactions que les cultures ont entre elles, prenant des formes diverses (échanges commerciaux de matières premières et de savoir-faire inédits, relations diplomatiques, disputations théologiques, rivalités et conflits de toutes sortes, etc.), qui permettent de stimuler l’accumulation et l’agrégation par et à une culture particulière de l’apport des autres, tout en gardant sa spécificité. Le développement de l’Europe et son raffinement civilisationnel ne peut ainsi s’entendre que dans l’optique de la diversité culturelle unique du continent et de son génie à savoir importer et assimiler à sa juste mesure des pans entiers de cultures exogènes. On peut à cet effet lister sans fin les matières premières rapportées de terres exotiques par les missionnaires et découvreurs et qui ont contribué au raffinement de la culture européenne. Pour ne prendre que l’exemple de la France, il est bon d’avoir à l’esprit que le modèle français des Grandes Ecoles d’Ingénieurs instauré par Napoléon Ier fut importé de Chine, alors utilisé pour sélectionner de manière satisfaisante et égalitaire les hommes d’exception d’un pays devant jouer avec à la fois un territoire très étendu géographiquement et un pouvoir autocratique centralisateur.

Lévi-Strauss répond ainsi au problème en concluant qu’il n’y a pas de société cumulative « en soi et par soi ». L’Histoire cumulative résulte ainsi plus pour une culture de sa conduite que de sa nature. Et l’auteur d’affirmer le corollaire logique de la proposition, à savoir qu’il n’y a qu’une seule tare qui puisse réellement affliger un groupe humain : la solitude.

Il exhorte ainsi le lecteur, l’UNESCO et les instances internationales à prendre garde à la notion dangereuse de « civilisation mondiale » voulue par certaines forces politiques. N’exprimant aucune réalité ni culturelle, ni anthropologique ou biologique, Lévi-Strauss écrit que la notion de civilisation mondiale « est forte pauvre, schématique, et que son contenu intellectuel et affectif n’offre pas une grande densité ». Ainsi il met en garde contre la notion moderne de « diversité », entendue comme le métissage ethnico-culturel des peuples dans une seule uniformité. Celle-ci, dangereuse, implique à l’inverse de sa sémantique, la parfaite homogénéité de la culture. Tout l’effort des cultures contemporaines consistera dès lors à prendre garde à préserver ce que Lévi-Strauss nomme un « écart différentiel », à savoir un éloignement optimal des cultures les unes par rapport aux autres, afin de préserver leur spécificité, soit de rester en vie, et de maintenir le processus des échanges cumulatifs permettant le progrès de chacune d’entre elles.

III.  Conclusions : Défense des particularismes et dialogue des cultures

A la lecture de Race et Histoire de Claude Lévi-Strauss, on devine aisément pourquoi l’essai a été mis à l’index par les instances d’obédiences mondialistes qui peuvent nous gouverner. Loin d’être, comme beaucoup de sociologues de gauche l’ont présenté, une ode au melting pot à l’américaine, cet essai invite en filigrane l’Européen à une actualisation de ses modes de pensées et de compréhension des races et des cultures à l’heure du crépuscule de sa civilisation.

Potiere-jalouse_754.jpgBien sûr le relativisme culturel dont fait preuve Lévi-Strauss pour les besoins de ses démonstrations parait de prime abord en contradiction avec son appel renouvelé à maintenir coûte que coûte nos spécificités civilisationnelles. Mais dans les temps troubles que nous traversons actuellement, le paradoxe est loin d’être insoluble.

A l’heure de l’affaiblissement de la volonté de puissance européenne et où l’optimum de diversité interne de nos sociétés a été largement dépassé, il est une exigence morale, car garante de notre survie, de faire valoir nos « forces conservatrices » et de réfréner les « forces inclusives » qui nous phagocytent ! Pour reprendre l’optique de Lévi-Strauss, il semble impossible de fonder un dialogue des cultures et un échange véritables si l’un des interlocuteurs n’est pas sûr de son identité propre.

Race et Histoire doit ainsi être vu comme un écho à la saillie prophétique de Paul Valéry au début du XXe : « Nous autres, civilisations, savons désormais que nous sommes mortels ! ». Il est un double appel lancé à la civilisation européenne. Premièrement un appel à tenir bon et à ne pas céder au nihilisme, sans quoi l’individu européen mourrait avec sa civilisation, soutenu par un corpus rationnel de proposition scientifique allant dans ce sens. Deuxièmement un appel à porter sur les autres peuples et cultures un regard humble et respectueux. Car en effet puisque la civilisation européenne est menacée par l’ingérence et l’uniformisation américano-libérales, il est de notre devoir de collaborer avec les autres races et cultures de la planète victimes elles aussi de cet impérialisme.

Il ne fait à cet égard aucun doute que la Russie, comme allié géopolitique naturel, se devra d’être un interlocuteur privilégié dans ce dialogue des cultures et ces avancées mutuelles qui en découleront.

Le progrès au XXIe siècle émanera de la reconnaissance de la légitimité de la multipolarité, soit du respect des particularismes culturels et civilisationnels en tant que tels.

Cette reconnaissance, qui saura être un appui de taille sur la scène internationale afin de légitimer la défense de nos valeurs, raisonne déjà dans les slogans politiques de France et d’ailleurs :

« Patriotes de tous les pays, unissez-vous ! »

Pour le SOCLE

  • Le racisme est incorrect scientifiquement, en tant que théorie visant à lier les caractéristiques biologiques aux productions sociologiques et psychologiques des hommes.
  • L’antiraciste fonde la dignité universelle du genre humain sur une uniformité biologique de l'espèce. Lui aussi participe par conséquent à valider cette relation de cause à effet.
  • Il y a au sein des sociétés humaines, des forces conservatrices, qui vont tendre au maintien et à l’accentuation des particularismes, et des forces intégrantes, qui iront dans « le sens de la convergence et de l’affinité » d’avec les autres.
  • Il existe un optimum de diversité au-delà duquel les sociétés ne sauraient aller sans danger de s’éteindre à cause d’un apport allogène trop fort.
  • Cet optimum varie fonction de nombreux paramètres: masses démographiques, éloignements géographiques, moyens de communication à disposition, etc.
  • Il est écrit dans le « code génétique » des sociétés de désirer avant tout être soi, se distinguer et conserver leur intégrité, sans quoi elles perdraient leurs essences et mourraient.
  • Aucun des universalismes de la modernité n’a pu fournir un cadre satisfaisant, une paix réelle entre les peuples.
  • La manière la plus efficace de respecter la véritable diversité des cultures est de préserver le droit naturel de chacune d’elle à trouver son optimum, par l’acceptation et/ou le rejet des apports qui lui sont extérieurs.
  • La diversité apaisée se fonde sur le respect réciproque par les groupes humains de la différence de l’Autre en tant qu’Autre.
  • Qualifier une culture qui apparait primaire d’« archaïque » est jugement de valeur invalidé par les recherches anthropologiques les plus basiques.
  • L’opposition entre culture progressive, qui accumulerait les avancées culturelles et techniques, et culture inerte, résulte d’une vision déformée par notre subjectivité culturelle.
  • La linéarité et la nécessité du progrès n’existe pas. Des civilisations sont mortes. Les avancées civilisationnelles se font par à-coup, de manière chaotique, brutales.
  • Il y a une civilisation qui semble faire l'unanimité quant à sa supériorité par rapport aux autres : la Civilisation Blanche Occidentale.
  • La supériorité de la Civilisation Occidentale se fonde sur des critères objectifs répondant aux besoins essentiels et universels de toute culture humaine.
  • Aujourd’hui, on assiste à un retour des particularismes, les cultures de couleurs prennent ce qui leur a semblé meilleur et utile chez le voisin occidental, rejetant ce dont elles ne voulaient pas.
  • Les interactions que les cultures ont entre elles (échanges commerciaux de matières premières et de savoir-faire inédits, relations diplomatiques, rivalités et conflits de toutes sortes, etc.) permettent de stimuler une culture particulière par l’apport des autres, tout en gardant sa spécificité.
  • Le développement de l’Europe et son raffinement civilisationnel sont dus à la diversité culturelle unique du continent et de son génie à savoir importer et assimiler à sa juste mesure des pans entiers de cultures exogènes.
  • L’Histoire cumulative d’une culture résulte davantage de sa conduite que de sa nature.
  • La notion de civilisation mondiale n’exprime aucune réalité ni culturelle, ni anthropologique ou biologique.
  • La notion moderne de « diversité », dangereuse, implique à l’inverse de sa sémantique, la parfaite homogénéité de la culture.
  • Tout l’effort des cultures européennes consistera pour demain à prendre garde à préserver un « écart différentiel » avec les autres, à savoir un éloignement optimal par rapport aux autres, afin de préserver leur spécificité.

IV.  Repères bibliographiques

  1. Denis Bertholet, Claude Lévi-Strauss, Paris, Odile Jacob, coll. « poches », 2008
  1. Michel Izard, Préface de Race et Histoire, Gallimard, « Folio essais », 2002
  1. Race et Histoire, brochures éditées par l'Unesco, 1952
  1. Claude Lévi-Strauss, Race et Histoire, Folio Essais, 2014
  1. Jacqueline de Romilly, Pourquoi la Grèce ?, Le Livre de poche, 2010
  1. Leslie A. White, The science of culture, New York, 1949, p.196

mardi, 20 septembre 2016

Rightist Critique of Racial Materialism

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Rightist Critique of Racial Materialism

 
Ex: http://www.katehon.com

While France and England gave materialistic, anti-traditional expressions to the concept of “the people” that was taking shape since the French Revolution, German Idealism was a return to a spiritual, metaphysical direction. The German Revolution moved in a volkish direction, where the volk was seen as the basis of the state, and the notion of a volk-soul that guided the formation and development of nations became a predominant theme that came into conflict with the French bourgeois liberal-democratic ideals derived from Jacobinism. Fichte had laid the foundations of a German nationalism in 1807-1808 with his Addresses to the German Nation. Although like possibly all revolutionaries or radicals of the time, beginning under the impress of the French Revolution, by the time he had delivered his addresses to the German nation, he had already rejected Jacobinism. Johann Heder had previously sought to establish the concept of the volk-soul, and of each nation being guided by a spirit. This was a metaphysical conception of race, or more accurately volk, that preceded the biological arguments of the Frenchman Count Arthur de Gobineau. Herder stated that the volk is the only class, and includes both King and peasant, and that “the people” are not the same as the rabble that are championed by Jacobinism and later Marxism. 

Houston Stewart Chamberlain - Occult History Third Reich - Peter Crawford.jpgFrench and English racism was introduced to Germany by the Englishman Houston Stewart Chamberlain who had a seminal influence on Hitlerism. English Darwinism, a manifestation of the materialistic Zeitgeist that dominated England, was brought to Germany by Ernst Haeckel; although Blumenbach had already begun to classify race according to cranial measurements during the 18th century. Nonetheless, biological racism reflects the English Zeitgeist of materialism. It provided primary materialistic doctrines to dethrone Tradition. Its application to economics also provided a scientific justification for the “class struggle” of both the capitalistic and socialistic varieties. Hitlerism was an attempt to synthesis the English eugenics of Galton and the evolution of Darwin with the metaphysis of German Idealism. Italian Traditionalist Julius Evola attempted to counter the later influence of Hitlerian racism on Italian Fascism by developing a “metaphysical racism,” and the concept of the “race of the spirit,” which has its parallels in Spengler, whose approach to race is in the Traditionalist mode of the German Idealists.

Because the Right, the custodian of Tradition within the epoch of decay, has been infected by the spirit of materialism, there is often a focus on secondary symptoms of culture disease, such as in particular immigration, rather than primary symptoms such as usury and plutocracy. “Race” becomes a matter of skull measuring, rather than spirit, élan and character. Hence the character of a civilisation and of a people is discerned via the types of bone and skull found amidst the ruins. History then becomes a matter of counting and measuring and statistics. How feeble such attempts remain is demonstrated by the years of controversy surrounding the racial identity of Kennewick Man in North America, having first thought to have been a Caucasian, and now concluded to have been of Ainu/Polynesian descent. The Traditionalist does not discount “race”. Rather it plays a central role. How “race” is defined is another matter. 

Trotsky called “racism” “Zoological materialism”. As an “economic materialist”, that is, a Marxist, he did not explain why his own version of materialism is a superior mode of thinking and acting than the other. They arose, along with Free Trade capitalism, out of the same Zeitgeist that dominated England at the time, and all three refer to a naturalistic life as struggle. The Traditionalist rejects all forms of materialism. The Traditionalist does not see history as unfolding according to material, economic forces, or racial-biological determinants. The Traditionalist sees history as the unfolding of metaphysical forces manifesting within the terrestrial. Spengler, although not a Perennial Traditionalist, intuited history over a broad expanse as a metaphysical unfolding. Although a man of the “Right”, he rejected the biological interpretation of history as much as the economic. So did Evola.

The best known exponents of racial determinism were of course German National Socialists, the reductionist doctrine being expressed by Hitler: 

“…This is how civilisations and empires break up and make room for new creations. Blood mixture, and the lowering of the racial level which accompanies it, are the one and only cause why old civilisations disappear…” 

The USA provided a large share of racial theorists of the early 20th century, whose conception of the rise and fall of civilisation was based on racial zoology, and in particular on the superiority of the Nordic not only above non-white races, but above all sub-races of the white, such as the Dinaric, Mediterranean and Alpine. Senator Theodore G. Bilbo of Mississippi wrote a book championing the cause of segregation, and more so, the “back-to-Africa” movement, stating that miscegenation with the Negro will result in the fall of white civilisation. He briefly examined some major civilisations. Bilbo wrote that Egyptian civilisation was mongrelised over centuries, “until a mulatto inherited the throne of the Pharaohs in the Twenty-fifth dynasty. This mongrel prince, Taharka, ruled over a Negroid people whose religion had fallen from an ethical test for the life after death to a form of animal worship”. This should be “sufficient warning to white America!” Because Sen. Bilbo had started from an assumption, his history was flawed. As will be shown below, it was Taharka and the Nubian dynasty that renewed Egypt’s decaying culture, which had degenerated under the white Libyan dynasties.  Sen. Bilbo proceeds with similar brief examinations of Carthage, Greece, and Rome. 

julius%20evola%20sintesi%20e%20dottrina%20della%20razza%20heopli.jpegJulius Evola, while repudiating the zoological primacy of “racism” as another form of materialism and therefore anti-Traditional, suggested that a “spiritual racism” is necessary to oppose the forces seeking to turn man into an amorphous mass; as interchangeable economic units without roots; what is now called “globalisation”. 

Evola gives the Traditionalist viewpoint when stating that there “have been many cases in which a culture has collapsed even when its race has remained pure, as is especially clear in certain groups that have suffered slow, inexorable extinction despite remaining as racially isolated as if they were islands”. He gives Sweden and The Netherlands as recent examples, pointing out that although the race has remained unchanged, there is little of the “heroic disposition” those cultures possessed just several centuries previously. He refers to other great cultures as having remained in a state as if like mummies, inwardly dead, awaiting a push “to knock them down”. These are what Spengler called Fellaheen, spiritually exhausted and historically passé. Evola gives Peru as an example of how readily a static culture succumbed to Spain. Hence, such examples, even as vigorous cultures such as that of the Dutch and Scandinavian, once wide-roaming and dynamic, have declined to nonentities despite the maintenance of racial homogeneity. 

The following considers examples that are often cited as civilisations that decayed and died as the result of miscegenation.

Greek

A case study for testing the miscegenation theory of cultural decay is that of the Hellenic. The ancient Hellenic civilisation is typically ascribed by racial theorists as being the creation of a Nordic culture-bearing stratum. The same has been said of the Latin, Egyptian, and others. Typically, this theory is illustrated by depicting sculptures of ancient Hellenes of “Nordic” appearance. Such depictions upon which to form a theory are unreliable: the ancient Hellenes were predominantly a mixture of Dinaric-Alpine-Mediterranean. The skeletal remains of Greeks show that from earliest times to the present there has been remarkable uniformity, according to studies by Sergi, Ripley, and Buxton, who regarded the Greeks as an Alpine-Mediterranean mix from a “comparatively early date.” American physical anthropologist Carlton S. Coon stated that the Greeks remain an Alpine/Mediterranean mix, with a weak Nordic element, being “remarkably similar” to their ancient ancestors.

American anthropologist J. Lawrence Angel, in the most complete study of Greek skeletal remains starting from the Neolithic era to the present, found that Greeks have always bene marked by a sustained racial continuity. Angel cited American anthropologist Buxton who had studied Greek skeletal material and measured modern Greeks, especially in Cyprus, concluding that the modern Greeks “possess physical characteristics not differing essentially from those of the former [ancient Greeks]”. The most extensive study of modern Greeks was conducted by anthropologist Aris N. Poulianos, concluding that Greeks are and have always been Mediterranean-Dinaric, with a strong Alpine presence. Angel states that “Poulianos is correct in pointing out ... that there is complete continuity genetically from ancient to modern times”. Nikolaos Xirotiris did not find any significant alteration of the Greek race from prehistory, through classical and medieval, to modern times. Anthropologist Roland Dixon studied the funeral masks of Spartans and identified them as of the Alpine sub-race. Although race theorists often stated that Hellenic civilisation was founded and maintained by invading Dorian “Nordics”, Angel states that the northern invasions were always of “Dinaroid-Alpine” type. A recent statistical comparison of ancient and modern Greek skulls found “a remarkable similarity in craniofacial morphology between modern and ancient Greeks.”

If miscegenation and the elimination of an assumed Nordic (Dorian) culture-bearing stratum cannot account for the decay of Hellenic civilisation, what can? Contemporary historians point out the origins. The Roman historian Livy observed: 

“The Macedonians who settled in Alexandria in Egypt, or in Seleucia, or in Babylonia, or in any of their other colonies scattered over the world, have degenerated into Syrians, Parthians, or Egyptians. Whatever is planted in a foreign land, by a gradual change in its nature, degenerates into that by which it is nurtured”.

tarn-2.jpgHere Livy is observing that occupiers among foreign peoples “go native”, as one might say. The occupiers are pulled downward, rather than elevating their subjects upward, not through genetic contact but through moral and cultural corruption. The Syrians, Parthians and Egyptians, had already become historically and culturally passé, or Fellaheen, as Spengler puts it. The Macedonian Greeks in those colonies succumbed to the force of etiolation. Alexander even encouraged this in an effort to meld all subjects into one Greek mass, which resulted not from a Hellenic civilisation passed along by multitudinous peoples, but in a chaotic mass from which Greece did not recover, despite the Greeks staying racially intact. Unlike the Jews in particular, the Greeks, Romans and other conquerors did not have the strength of Tradition to maintain themselves among alien cultures. Dr. W. W. Tarn stated of this process:

“Greece was ready to adopt the gods of the foreigner, but the foreigner rarely reciprocated; Greek Doura (the Greek temple in Mesopotamia) freely admitted the gods of Babylon, but no Greek god entered Babylonian Uruk. Foreign gods might take Greek names; they took little else. They (the Babylonian gods) were the stronger, and the conquest of Asia (by the Greeks) was bound to fail as soon as the East had gauged its own strength and Greek weakness.”

Spengler pointed out to Western Civilisation and the current epoch that one of the primary symptoms of culture decay is that of depopulation. It is a sign literally that a Civilisation has become too lazy to look beyond the immediate. There is no longer any sense of duty to the past or the future, but only to a hedonistic present. Polybius (b. ca. 200 B.C.) observed this phenomenon of Hellenic Civilisation like Spengler did of ours, writing: 

tarn-1.jpg“In our time all Greece was visited by a dearth of children and generally a decay of population, owing to which the cities were denuded of inhabitants, and a failure of productiveness resulted, though there were no long-continued wars or serious pestilences among us. If, then, any one had advised our sending to ask the gods in regard to this, what we were to do or say in order to become more numerous and better fill our cities,—would he not have seemed a futile person, when the cause was manifest and the cure in our own hands? For this evil grew upon us rapidly, and without attracting attention, by our men becoming perverted to a passion for show and money and the pleasures of an idle life, and accordingly either not marrying at all, or, if they did marry, refusing to rear the children that were born, or at most one or two out of a great number, for the sake of leaving them well off or bringing them up in extravagant luxury. For when there are only one or two sons, it is evident that, if war or pestilence carries off one, the houses must be left heirless: and, like swarms of bees, little by little the cities become sparsely inhabited and weak. On this subject there is no need to ask the gods how we are to be relieved from such a curse: for any one in the world will tell you that it is by the men themselves if possible changing their objects of ambition; or, if that cannot be done, by passing laws for the preservation of infants”.

Do Polybius’ thoughts sound like some unheeded doom-sayer speaking to us now about our modern world? If the reader can see the analogous features between Western Civilisation, and that of Greece and Rome then the organic course of Civilisations is being understood, and by looking at Greece and Rome we might see where we are heading.

Roman

Another often cited example of the fall of civilisation through miscegenation is that of Rome. However, despite the presence of slaves and traders of sundry races, like the Greeks, today’s Italians are substantially the same as they were in Roman times. Arab influence did not occur until Medieval times, centuries after the “fall of Rome”, with Arab rule extending over Sicily only during 1212-1226 A.D. The genetic male influence on Sicilians is estimated at only 6%. The predominant genetic influence is ancient Greek. The African have a less than  1% frequency  throughout Italy other than in , , and where there are frequencies of 2% to  3% . Sub-Saharan, that is, Negroid, mtDNA have been found at very low frequencies in Italy, albeit marginally higher than elsewhere in Europe, but date from 10,000 years ago. This study states: “….mitochondrial DNA studies show that Italy does not differ too much from other European populations”. Although there are small regional variations, “The mtDNA haplogroup make-up of Italy as observed in our samples fits well with expectations in a typical European population”. 

Hence, an infusion of Negroid or Asian genes during the epoch of Rome’s decline and fall is lacking, and the reasons for that fall cannot be assigned to miscegenation. What slight frequency there is of non-Caucasian genetic markers entered Rome long before or long after the fall of Roman Civilisation. There was no “contamination of Roman blood”, but of Roman spirit and élan.  

declinerome.jpgAlien immigration introduces cultural elements that dislocate the social and ethical basis of a Civilisation and aggravate an existing pathological condition. The English scholar Professor C. Northcote Parkinson, writing on the fall of Rome, commented that the Roman conquerors were subjected “to cultural inundation and grassroots influence”. Because Rome extended throughout the world, like the present Late Western, the economic opportunities accorded by Rome drew in all the elements of the subject peoples, “groups of mixed origin and alien ways of life”. “Even more significant was what the Romans learnt while on duty overseas, for men so influenced were of the highest rank”. Parkinson quotes Edward Gibbon’s Decline and Fall of the Roman Empire, referring to the Roman colony of Antioch: 

“…Fashion was the only law, pleasure the only pursuit, and the splendour of dress and furniture was the only distinction of the citizens of Antioch. The arts of luxury were honoured, the serious and manly virtues were the subject of ridicule, and the contempt for female modesty and reverent age announced the universal corruption of the capitals of the East…” 

Roman historian Livy wrote of the opulence of Asia being brought back to Rome by the soldiery:

“…it was through the army serving in Asia that the beginnings of foreign luxury were introduced into the City. These men brought into Rome for the first time, bronze couches, costly coverlets, tapestry, and other fabrics, and - what was at that time considered gorgeous furniture - pedestal tables and silver salvers. Banquets were made more attractive by the presence of girls who played on the harp and sang and danced, and by other forms of amusement, and the banquets themselves began to be prepared with greater care and expense. The cook whom the ancients regarded and treated as the lowest menial was rising in value, and what had been a servile office came to be looked upon as a fine art. Still what met the eye in those days was hardly the germ of the luxury that was coming”.

The moral decay of Rome resulted in the displacement of Roman stock, not by miscegenation, but by the falling birth-rate of the Romans. Such population decline is itself a major symptom of culture decay. The problem that it signifies is that a people has so little consciousness left as to its own purpose as a culture that its individuals do not have any responsibility beyond their own egos. Professor Tenney Frank, foremost scholar on the economic history of Rome, also considered the results of population decline, from the top of the social hierarchy downward: 

“The race went under. The legislation of Augustus and his successors, while aiming at preserving the native stock, was of the myopic kind so usual in social lawmaking, and failing to reckon with the real nature of the problem involved. It utterly missed the mark. By combining epigraphical and literary references, a fairly full history of the noble families can be procured, and this reveals a startling inability of such families to perpetuate themselves. We know, for instance, in Caesar’s day of forty-five patricians, only one of whom is represented by posterity when Hadrian came to power. The Aemilsi, Fabii, Claudii. Manlii, Valerii, and all the rest, with the exception of Comelii, have disappeared. Augustus and Claudius raised twenty-five families to the patricate, and all but six disappear before Nerva’s reign. Of the families of nearly four hundred senators recorded in 65 A. D. under Nero, all trace of a half is lost by Nerva’s day, a generation later. And the records are so full that these statistics may be assumed to represent with a fair degree of accuracy the disappearance of the male stock of the families in question. Of course members of the aristocracy were the chief sufferers from the tyranny of the first century, but this havoc was not all wrought by delatores and assassins. The voluntary choice of childlessness accounts largely for the unparalleled condition. This is as far as the records help in this problem, which, despite the silences is probably the most important phase of the whole question of the change of race. Be the causes what they may, the rapid decrease of the old aristocracy and the native stock was clearly concomitant with a twofold increase from below; by a more normal birth-rate of the poor, and the constant manumission of slaves 

While allusions to “race” by Professor Frank are enough for “zoological materialists” to spin a whole theory about Rome’s decline and fall around miscegenation of the “white race” with blacks and Orientals, we now know from the genetics that despite the invasions over centuries, the Italians, like the Greeks, have retained their original racial composition to the present. What Frank is describing, by an examination of the records that show a disappearance of the leading patrician families, is that Rome was in a spiritual crisis, as all civilisations are when they regard child-bearing as a burden. Traditionalists such as Evola pointed out that the “secret of degeneration” of a civilisation is that it rots from the top downward, and as Spengler pointed out, one of the primary signs of that rot is childlessness. That there were Roman statesmen with the wisdom to understand what was happening is indicated by Augustus’ efforts to raise the birth-rate, but to no avail. Of this symptom of moral decay, Professor Frank wrote: 

“In the first place there was a marked decline in the birthrate among the aristocratic families. … As society grew more pleasure-loving, as convention raised artificially the standard of living, the voluntary choice of celibacy and childlessness became a common feature among the upper classes. …”

RomanEmpire_117.svg.png

Urbanisation, the magnetic pull of the megalopolis, the depopulation of the land and the proletarianism of the former peasant stock as in the case of the West’s Industrial Revolution, impacted in major ways on the fall of Rome. A. M. Duff wrote of the impact of rural depopulation and urbanisation:

“But what of the lower-class Romans of the old stock? They were practically untouched by revolution and tyranny, and the growth of luxury cannot have affected them to the same extent as it did the nobility. Yet even here the native stock declined. The decay of agriculture. … drove numbers of farmers into the towns, where, unwilling to engage in trade, they sank into unemployment and poverty, and where, in their endeavours to maintain a high standard of living, they were not able to support the cost of rearing children. Many of these free-born Latins were so poor that they often complained that the foreign slaves were much better off than they, and so they were. At the same time many were tempted to emigrate to the colonies across the sea which Julius Caesar and Augustus founded. Many went away to Romanize the provinces, while society was becoming Orientalized at home. Because slave labour had taken over almost all jobs, the free born could not compete with them. They had to sell their small farms or businesses and move to the cities. Here they were placed on the doles because of unemployment. They were, at first, encouraged to emigrate to the more prosperous areas of the empire to Gaul, North Africa and Spain. Hundreds of thousands left Italy and settled in the newly-acquired lands. Such a vast number left Italy leaving it to the Orientals that finally restrictions had to be passed to prevent the complete depopulation of the Latin stock, but as we have seen, the laws were never effectively put into force. The migrations increased and Italy was being left to another race. The free-born Italian, anxious for land to till and live upon, displayed the keenest colonization activity.” 

The foreign cultures and religions that had come to Rome from across the empire changed the temperament of the Romans masses who were uprooted and migrating to the cities; where as in the nature of the cites, as Spengler showed,  they became a cosmopolitan mass. Frank writes of this: 

“This Orientalization of Rome’s populace has a more important bearing than is usually accorded it upon the larger question of why the spirit and acts of imperial Rome are totally different from those of the republic. There was a complete change in the temperament! There is today a healthy activity in the study of the economic factors that contributed to Rome’s decline. But what lay behind and constantly reacted upon all such causes of Rome’s disintegration was, after all, to a considerable extent, the fact that the people who had built Rome had given way to a different race. The lack of energy and enterprise, the failure of foresight and common sense, the weakening of moral and political stamina, all were concomitant with the gradual diminution of the stock which, during the earlier days, had displayed these qualities. It would be wholly unfair to pass judgment upon the native qualities of the Orientals without a further study, or to accept the self-complacent slurs of the Romans, who, ignoring certain imaginative and artistic qualities, chose only to see in them unprincipled and servile egoists. We may even admit that had these new races had time to amalgamate and attain a political consciousness a more brilliant and versatile civilization might have come to birth.” 

Fall-of-the-Roman-Empire.jpgWhat is notable is not that the Romans miscegenated with Orientals, but that the uprooted, amorphous masses of the cities no longer adhered to the Traditions on which Roman civilisation was founded. The same process can be seen today at work in New York, London and Paris. Duff wrote of this, and we might consider the parallels with our own time: 

“Instead of the hardy and patriotic Roman with his proud indifference to pecuniary gain, we find too often under the Empire an idle pleasure-loving cosmopolitan whose patriotism goes no further than applying for the dole and swelling the crowds in the amphitheatre”. 

The Roman Traditional ethos of severity, austerity and disdain for softness that Emperor Julian attempted to reassert was greeted by “fashionable society” with “disgust”. Parkinson remarks that “there is just such a tendency in the London of today, as there was still earlier in Boston and New York”. These “world cities” no longer reflect a cultural nexus but an economic nexus, and hence one’s position is not based on how one or one’s family unfolds the Traditional ethos, but on whether or how one accumulates wealth. 

Indian

social_pyramid_f02.jpgIndia is the most commonly cited example of a civilisation that decayed through miscegenation, the invading Aryans imparting a High Culture on India and then forever falling into decay because of miscegenation with the low caste “blacks”, or Dravidians. However, Genetic research indicates that the higher castes have retained to the present a predominately Caucasian genetic inheritance.

“As one moves from lower to upper castes, the distance from Asians becomes progressively larger. The distance between Europeans and lower castes is larger than the distance between Europeans and upper castes, but the distance between Europeans and middle castes is smaller than the upper caste-European distance. … Among the upper castes the genetic distance between Brahmins and Europeans (0.10) is smaller than that between either the Kshatriya and Europeans (0.12) or the Vysya and Europeans (0.16). Assuming that contemporary Europeans reflect West Eurasian affinities, these data indicate that the amount of West Eurasian admixture with Indian populations may have been proportionate to caste rank.

“…As expected if the lower castes are more similar to Asians than to Europeans, and the upper castes are more similar to Europeans than to Asians, the frequencies of M and M3 haplotypes are inversely proportional to caste rank.

“…In contrast to the mtDNA distances, the Y-chromosome STR data do not demonstrate a closer affinity to Asians for each caste group. Upper castes are more similar to Europeans than to Asians, middle castes are equidistant from the two groups, and lower castes are most similar to Asians. The genetic distance between caste populations and Africans is progressively larger moving from lower to middle to upper caste groups. 

“…Results suggest that Indian Y chromosomes, particularly upper caste Y chromosomes, are more similar to European than to Asian Y chromosomes.

“…Nevertheless, each separate upper caste is more similar to Europeans than to Asians.”

Citing further studies, “…admixture with African or proto-Australoid populations” is “occasional”. 

The chaos that afflicted India seems to have been of religio-cultural type rather than racial. Despite the superficiality of dusky hues, the Indian ruling castes have retained their Caucasian identity to the present. The genetic contribution of Australoids and Africans was minor. 

Egyptian

Like India, Egypt is often cited as an example of a civilisation that was destroyed primarily by miscegenation, with Negroids. However, despite the myriad of invasions and population shifts, today’s Egyptians are still more closely related genetically to Eurasia than Africa. Migrations between Egypt, Nubia and Sudan have not been extensive enough to “homogenise the mtDNA gene pools of the Nile River Valley populations”, although Egyptians and Nubians are more closely related than Egyptians and southern Sudanese. However, significant differences remain. Even now, today’s Egyptians have primary genetic affinities with Asia, and North and Northeast Africa. The least affinity is to the populations of Sub-Sahara.  The Haplotype  M1, with a high frequency among Egyptians,  hitherto thought to be of Sub-Saharan origin,  is of Eurasian origin.  

Miscegenation with Nubian “slaves” and mercenaries seems unlikely to have caused Egypt’s decay. While a Nubian or “black” pharaoh is alluded to by racial-zoologists as a sign of Egyptian decay, the Nubian civilisation had an intimate connection with the Egyptian and was itself impressive and of early origins. 

Nubian civilisation, with palaces, temples and pyramids, flourished as far back as 7000 B.C. 223 pyramids, twice the number of Egypt, have been found along the Nile of the Nubian culture-region. The Nubian civilisation was of notably long duration surviving until the Muslim conquest of 1500 A.D. The Egyptians have viewed the Nubians either as a “conquered race or a superior enemy”. Hence, Egyptian depictions of shackled black slaves, give a widely inaccurate impression of the Nubian.  Nubians became the pharaohs of Egypt’s 25th dynasty, providing stability where previously there had been ruin caused by civil wars between warlords, ca. 700 B.C. The Nubians were the custodians of Egyptian faith and culture at a time when Egypt was decaying. They regarded the restoration of the faith of Amun as their duty. It was the Nubian dynasties (760-656 B.C.), especially the rulership of Taharqa, which revived and purified Egyptian culture and religion. It was under the “white” rule of the Libyan pharaohs of the 21st dynasty (1069-1043 B. c.) that Egypt began a sharp decline. Ptolemaic (Greek) rule (332-30 B.C.) under Ptolemy IV (222 to 205 B.C.) brought to the rich and sumptuous pharaohs’ court “lax morals and vicious lifestyle” ending in “decadence and anarchy”. Byzantine rule (395 to 640 A.D.) through Christianisation wrought destruction on the Egyptian heritage, which was succeeded by Islamic rule. Of the long vicissitudes of Egypt’s rise and fall, it was the Nubian dynasty that had restored Egyptian cultural integrity. References to Nubians on the throne of the pharaohs tell no more of the causes of Egypt’s decay than if historians several millennia hence sought to ascribe the causes of the USA’s  culture retardation to Obama’s presidency as a “black”. 

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We see in Egypt as in Rome, the Moorish civilisation, India and others, the causes of culture decay and fall as being something other than miscegenation. The contemporary Westerner should look for answers beyond this if only because he can see for himself that the West’s decay has no relationship to miscegenation. The number of Americans describing themselves as “mixed race” was just under 9 million in 2010. Of the 3,988,076 live births in the USA in 2014  368,213 were non-white.  The USA did not become the global centre of culture-pestilence because of its mixed race population. What is more significant than the percentages of miscegenation, are the percentages of population decline caused by such factors as the limitation of children, and the rates of abortion. Twenty-one percent of all pregnancies in the USA are aborted. Such depopulation statics are an indication of culture pathology. 

gallery-1431027249-122315523.jpgOf Egypt’s chaos contemporary sages observed, as they did of Rome and India, a disintegration of authority, traditional religion, and the founding ethos and mythos around which a healthy culture revolves. Egypt was often subjected to invasions and to natural disasters. These served as catalysts for culture degeneration. The papyrus called The Admonitions of an Egyptian Sage, state that after invasions and what seems to have been a class war, Egypt fell apart, there was family strife, the noble families were dispossessed by the lowest castes, authority was disrespected and overthrown, lawlessness and plunder were the norm, and the nobility was attacked: “A man looks upon his son as an enemy. A man smites his brother (the son of his mother)”. Craftsmanship has become degraded: “No craftsmen work, the enemies of the land have spoilt its crafts”. There is rebellion against the Uraeus or Re. “A few lawless men have ventured to despoil the land of the kingship”. It appears that the foundations of Traditional society, god, monarch, family and land, have been caste asunder. Further, “Asiatics” have seized the land from the ancestral occupiers, and have so insinuated themselves into the Egyptian culture that one can no longer tell who is Egyptian and who is alien: “There are no Egyptians anywhere”. “Women are lacking and no children are conceived”. Evidently there is a population crisis; that perennial symptom of decay. The political and administrative structure has collapsed, with “no officers in their place”. The laws are trampled on and cast aside. “Serfs become lords of serfs”.  The writings of the scribes are destroyed. 

What is being described is not a sudden upheaval, although the allusion to natural disasters and Asiatic invasion would imply this. The breakdown of regal authority, civil authority, depopulation, laws, family bonds, religious faith, agriculture and the social structure, imply an epoch of decline into chaos. The social structure has been inversed, as though a communistic revolution had occurred. “He who possessed no property is now a man of wealth. The prince praises him. The poor of the land have become rich, and the possessor of the land has become one who has nothing. Female slaves speak as they like to their mistresses. Orders become irksome. Those who could not build a boat now possesses ships. “The possessors of robes are now in rags”. “The children of princes are cast out in the street”. 

With this inversion of hierarchy has come irreligion and the degradation of religion. The ignorant now perform their own rites to the Gods. Wrong offerings are made to the Gods.  “Right is cast aside. Wrong is inside the council-chamber. The plans of the gods are violated, their ordinances are neglected… Reverence, an end is put to it”.

Ipuwer’s admonition was not only to rid Egypt of its enemies but to return to the Traditional ethos. This meant the reinstitution of proper religious rites, and the purification of the temples. “A fighter comes forth,” Ipuwer prophesises, to “destroy the wrongs”. “Is he sleeping? Behold, his might is not seen”. The Egyptians await an avatar, the personification of the Sun God Re (which Tradition states was the first of the Pharaohs) an Arthur who sleeps but will awaken, a redeemer that is a universal symbol from the Hindu Kalki, to Jesus in the vision of John of Patmos, the Katehon of Orthodox Russia, and many others across time and place. 

Nefertiti2-Re_158267t.jpgIpuwer avers to Egypt having gone through such epochs, alluding to his saying nothing other than what others have said before his time.

The Pharaoh is castigated for allowing Egypt to fall into chaos, with his authority being undermined, and without taking corrective actions. The Pharaoh as God-king, in terms of Tradition, had not maintained his authority as the nexus between the earthly kingdom and the Divine. The Pharaoh had caused “confusion throughout the land”. Certainty of the social hierarchy, crowned by the God-king, is the basis of Traditional societies. It seems that Egypt had entered into an epoch of what a Westerner could today identify in our time as that of scepticism and secularism. Chaos follows with the undermining of Cosmos.

Nefer-rohu warned Pharaoh of similar chaos. Likewise there would be “Asiatic” invasions, natural disasters, Re withdrawing his light, and again the inversion of hierarchy: 

“The weak of arm is now the possessor of an arm. Men salute respectfully him whom formerly saluted. I show thee the undermost on top, turned about in proportion to the turning about of my belly. It is the paupers who eat the offering bread, while the servants jubilate. The Heliopolitan Nome, the birthplace of every god, will no longer be on earth”.

It is notable, again, that Nefer-rohu identifies the chaos with the breaking of the nexus with the divine, and the social order that has become “the undermost on top”. Also of interest is that Nefer-rohu refers to a redeemer, who has a Nubian mother, uniting Egypt and driving out the Asiatics, and the Libyans (the whitest of races of the region) and defeating the rebellious.  Chaos resulted not from bio-genetic-race-factors but from a falling away of the regal and religious authority. If there is a race-factor it is in regard to Nubians being the custodians of Egyptian culture in periods of Egyptian decay, analogous to the revitalising “barbarians” who wept over the decaying Roman Empire.

Islamic 

Islam had its Golden Age and rich civilisation, centred in Morocco, and extending into Spain.  It is in ruins like civilisations centuries prior.  The cultures that flourished in Morocco, both Islamic and pre-Islamic, were Berber. The Islamic civilisation they established with the founding of the Idrisid dynasty in 788 A. D. was ended by the invasion of the Fatimids from Tunisia ca. 900 A.D. Chaos ensued. Although there was a revival of High Culture during the 11th and 14th centuries, dynasties fell in the face of tribalism.  The 16th century saw a revival initiated by al-Ghalin, several decades of wars of succession after his death in 1603, and continuing decline under Saadi dynastic rule during 1627 to 1659. 

stanlane.jpgCaucasoid mtDNA sequences are at frequencies of 96% in Moroccan Berbers, 82% in Algerian Berbers and 78% in non-Berber Moroccans. The study of Esteban et al found that Moroccan Northern and Southern Berbers have only 3% to 1% Sub-Saharan mtDNA. Although difficult to define, since “Berber” is a Roman, not an indigenous term, the estimate for present day Morocco is 35% to 45% Berber, with the rest being Berber-Arab mixture. The primary point is that the Moroccan civilisation had ruling classes, whether pre-Islamic or Islamic, that remained predominantly Berber-Caucasian for most of its history, whether during its epochs of glory or of decline. Miscegenation does not account for the fall of the Moorish Civilisation. 

The High Culture of Moorish Spain (Andalusia) was brought to ruin and decay not by miscegenation between “superior” Spaniards” and “inferior” Moors but by the overthrow of the Moorish ruling caste. Friedrich Nietzsche had observed this culture denegation with the fall of Moorish Spain (Andalusia). Stanley Lane-Poole wrote of the history of decay:

“The land, deprived of the skilful irrigation of the Moors, grew impoverished and neglected; the richest and most fertile valleys languished and were deserted; most of the populous cities which had filled every district of Andalusia fell into ruinous decay; and beggars, friars, and bandits took the place of scholars, merchants, and knights. So low fell Spain when she had driven away the Moors. Such is the melancholy contrast offered by her history”.

Ibn Khaldun (1332-1406), a well-travelled sage, grappled with the same problems confronting Islamic Civilisation as those Spengler confronted in regard to The West. A celebrated scholar, political adviser, and jurist, Ibn Khaldun’s domain of influence extended over the whole Islamic world. His major theoretical work is Muqaddimah (1377), intended as a preface to his universal history, Kitabal-Ibar, where he sought to establish basic principles of history by which historians could understand events.  His theory is cyclic and morphological, based on “conditions within nations and races [which] change with the change of periods and the passage of time”. Like Evolahe was pessimistic as to what can be achieved by political action in the cycle of decline, writing that the “past resembles the future more than one drop of water another”.

Ibn Khaldun stated that history can be understood as a recurrence of similar patterns motivated by the drives of acquisition, group co-operation, and regal authority in the creation of a civilisation, followed by a cycle of decay. These primary drives become distorted and lead to the corrupting factors of luxury and domination, irresponsibility of authority and decline.

Like Spengler, in regard to the peasantry, Ibn Khaldun traces the beginning of culture to group or familial loyalty starting with the simple life of the rural - and desert – environments. The isolation and familial bonds lead to self-reliance, loyalty and leadership on the basis of mutual respect. Life is struggle, not luxury. According to Ibn Khaldun, when rulership becomes centralised and divorced from such kinship, free reign is given to luxury and ease.  Political alliances are bought and intrigued rather than being based on the initial bonds and loyalties. Corruption pervades as the requirements of luxury increase. The decadence starts from the top, among the ruling class, and extends downward until the founding ethos of the culture is discarded, or exists in name only.

timbre-citation-ibn-khaldoun_les-arabes.pngIbn Khaldun begins from the organic character of the noble family in describing the analogous nature of cultural rise and fall, caused by a falling away of the original creative ethos with each successive generation:

“The builder of the family’s glory knows what it cost him to do the work, and he keeps the qualities that created his glory and made it last. The son who comes after him had personal contact with his father and thus learned those things from him. However, he is inferior to him in this respect, inasmuch as a person who learns things through study is inferior to a person who knows them from practical application. The third generation must be content with imitation and, in particular, with reliance upon tradition. This member is inferior to him of the second generation, inasmuch as a person who relies upon tradition is inferior to a person who exercises judgment.

“The fourth generation, then, is inferior to the preceding ones in every respect. Its member has lost the qualities that preserved the edifice of its glory. He despises those qualities. He imagines that the edifice was not built through application and effort. He thinks that it was something due to his people from the very beginning by virtue of the mere fact of their descent, and not something that resulted from group effort and individual qualities. For he sees the great respect in which he is held by the people, but he does not know how that respect originated and what the reason for it was. He imagines it is due to his descent and nothing else. He keeps away from those in whose group feeling he shares, thinking that he is better than they”.

For Ibn Khaldun’s “generation” we might say with Spengler “cultural epoch”. Ibn Khaldun addresses the causes of this cultural etiolation, leading to the corrupting impact of materialism. Again, his analysis is remarkably similar to that of Spengler and the decay of the Classical civilisations:  

“When a tribe has achieved a certain measure of superiority with the help of its group feeling, it gains control over a corresponding amount of wealth and comes to share prosperity and abundance with those who have been in possession of these things. It shares in them to the degree of its power and usefulness to the ruling dynasty. If the ruling dynasty is so strong that no-one thinks of depriving it of its power or of sharing with it, the tribe in question submits to its rule and is satisfied with whatever share in the dynasty’s wealth and tax revenue it is permitted to enjoy. ... Members of the tribe are merely concerned with prosperity, gain and a life of abundance. (They are satisfied) to lead an easy, restful life in the shadow of the ruling dynasty, and to adopt royal habits in building and dress, a matter they stress and in which they take more and more pride, the more luxuries and plenty they acquire, as well as all the other things that go with luxury and plenty.

“As a result the toughness of desert life is lost. Group feeling and courage weaken. Members of the tribe revel in the well-being that God has given them. Their children and offspring grow up too proud to look after themselves or to attend to their own needs. They have disdain also for all the other things that are necessary in connection with group feeling.... Their group feeling and courage decrease in the next generations. Eventually group feeling is altogether destroyed. ... It will be swallowed up by other nations.

Ibn Khaldun refers to the “tribe” and “group feeling” where Spengler refers to nations, peoples, and races. The dominant culture becomes corrupted through its own success and its culture become static; its inward strength diminishes in proportion to its outward glamour. Hence, the Golden Age of Islam is over, as are those of Rome and Athens. New York, Paris, and London are in the analogous cultural epochs to those of Fez, Rome and Athens. The “world city” becomes the focus of a world civilisation that ends as cosmopolitan and far removed from its founding roots. Our present “world-cities’” – in particular, New York and The City of London - are the control centres of world politics, economics, and mass-culture by the fact of their also being the centres of banking. These world-cities are the prototypes for a world civilisation that continues to be called “Western”, under the leadership of the USA, a rotting centre like Fez and Rome.

The Muslim determination of what is “progress” and what is “decline” has a spiritual foundation:

“The progressiveness or backwardness of society at any given point of time is determinable in relative terms. It can be compared to other contemporary societies [like the Spenglerian method] or to its own state in the past. … for Muslim society although economic progress is not frowned upon, it is placed lower on the order of priorities as compared to other factors; e.g. the acquisition of knowledge or the provision of justice. There is also a tradition (Hadis) of the Holy Prophet that lists the symptoms of society that is in a pathological state of decline. These outward symptoms point to an underlying malaise in the society but can also provide a useful starting point for corrective actions for stopping or reversing the onset of decline”.  The high and low points of Muslim civilisation can be identified as those of a “Golden Age” or of an “Abyss”.

Comparable to the warnings of other sages, in an epoch of decline again there is an inversion of hierarchy, or more specifically here, of character, the Hadith stating that those in such a society would be corrupted, while others might resist within themselves:

“There will be soon a period of turmoil in which the one who sits will be better than one who stands and the one who stands will be better than one who walks and the one who walks will be better than one who runs. He who would watch them will be drawn by them. So he who finds a refuge or shelter against it should make it as his resort”.

Hebrew “Race”

A Traditionalist “race”, conscious of its nexus with the Divine as the basis of culture, endures regardless of contact with foreigners because of its inward strength. This allows it to accept foreigners not only without weakening the cultural organism but even strengthening it; because it accepts foreign input on its own terms. A Traditionalist “race” surviving over the course of millennia without succumbing to the cyclical laws of decay is the Jewish. They are the Traditionalist “race” par excellence. No better example can be had than this People that has maintained its nexus with its Divinity as the basis of cultural survival, whose religion is a race-founding and race-sustaining mythos. 

Phineas.jpgContrary to the beliefs of certain racial ideologues, including extreme Zionists and ultra-Orthodox Jews, this survival is not the result of bans on miscegenation. The Jewish law as embodied in the Torah, the first five books of the Old Testament, is based not on zoological race but on a race mythos. The Mosaic Law demands “race purity” in the Traditionalist sense; that of a community of belief in a heritage and a destiny. 

Bizarrely, some white racists have adopted the Torah commandments as being based on genetic purity, in their belief that whites are the true Israelites. For example the priest Phineas, at the time of Moses is held in esteem by such white supremacists because he speared an Israelite and a Midianite in the act of copulation. At this time apparently the Midianites were seducing Israel away from its God, towards Baal. A purge of Israel took place. However the chapter in its entirety makes plain this was a matter of religion, not miscegenation. The nexus between Israel and the Divine was being broken by the influence of “the daughters of Moab.” Israel’s Divinity is recorded as having threatened wrath because of “my insistence on exclusive devotion.” The Divine nexus was established for eternity with the line of Phineas because he had “not tolerated any rivalry towards his god”.  Moses himself had married the daughter of a Midianite priest, so the issue with the Midianites was clearly religious, and specifically that such foreign influences would break Israel’s nexus with the Divine that renders them a “special people”. Where marriages with Hittites, Amorites, Canaanites, et al are prohibited it is because this nexus would be subverted. However, in the same book Deuteronomy, where the Israelite war code is being established, when a city has been defeated the adult males are to be eliminated, and the women and children are to be taken to be grafted on to Israel. The commandments for this type of “scorched earth policy” were based on preventing foreigners from teaching Israel their religions. There are precise laws as to marrying a non-Israelitish captive woman, who after a month of mourning for the deaths of her family, will have the marriage consummated and thereby become part of Israel. 

Jeremiah (ca. 600 B.C.), son of the high priest Hilkiah, was one of the most significant voices against culture-decay, analogous to Ipuwer the Egyptian sage,  Titus Livius, and Cato the Censor, in Rome, and our own Spengler and Evola. He warned that Israel would prosper while the nexus with Tradition and ipso facto with the Divine was maintained; Israel would fall physically if it fell away morally from that Tradition. Jeremiah saw the destruction of the Temple of Solomon and the carrying into Babylonian captivity of Judah. As with the other Civilisations that have fallen, the first symptom had been a subversion of its founding religion. Interestingly, religious decay would be quickly proceeded by an invasion of foreigners, reminiscent of Ipuwer’s warning of Egypt’s invasion by “Asiatics”. Hence, Jeremiah warns that invasion is imminent as a punishment for Israel’s departure from the Traditional faith: “I will pronounce my judgments on my people because of their wickedness in forsaking me, in burning incense to other gods and in worshiping what their hands have made”. From their self-styled role as a Holy People, they had fallen from the oath of their forefathers, Jeremiah/YHWH admonishing: “The priests did not ask, ‘Where is the LORD?’ Those who deal with the law did not know me; the leaders rebelled against me. The prophets prophesied by Baal, following worthless idols. ‘Therefore I bring charges against you again,’ declares the LORD. ‘And I will bring charges against your children’s children’”. Jeremiah states that the priesthood has become corrupted, from whence the rot proceeds downward. “The prophets prophesy lies, the priests rule by their own authority, and my people love it this way. But what will you do in the end?” Specifically, all of Israel had become motivated by greed. The admonition was to stand at the “crossroads” as to what paths to follow, and choose “the ancient paths”. 

“From the least to the greatest, all are greedy for gain; prophets and priests alike, all practice deceit. They dress the wound of my people as though it were not serious. ‘Peace, peace,’ they say, when there is no peace. Are they ashamed of their detestable conduct? No, they have no shame at all; they do not even know how to blush. So they will fall among the fallen; they will be brought down when I punish them,” says the LORD. This is what the LORD says: “Stand at the crossroads and look; ask for the ancient paths, ask where the good way is, and walk in it, and you will find rest for your souls. But you said, ‘We will not walk in it’”.

Greed, or what we now call materialism, has been the common factor of the fall of Civilisations, referred to by sages and philosophers up to our own Spengler, Brooks Adams, and Evola. The other common factor, as we have seen, has been the corruption of religion and the priestly caste, the priests and the prophets being condemned by Jeremiah.

The perennial survival of the Israelites is based on their adherence to Tradition. Prophets such as Jeremiah are the Jews’ constant warning to stay true to their “ancient paths” or destruction will result. The Jews worldwide have had, when not a King over Israel, the focus of a coming King-Messiah, Jerusalem, the Ark of the Covenant, and the Temple of Solomon (including the plans to rebuild the Temple as another focus for the future) as their world axial points, and the Mosaic Law as a universal code of living across time and place.These axial points have formed and maintained the Jews as a metaphysical race. Whatever others might think of some of their laws and beliefs their maintenance of a Traditional nexus has allowed them to supersede the cyclic laws of decay perhaps like no other people, to overcome decline and be restored, while paradoxically being the carriers of cultural pathogens among other civilisations (Marxism, Freudianism). 

What the genetics of races shows, past and present, is that miscegenation has not been a cause for the collapse of civilisations. Perhaps dysgenics might cause such a collapse, but hitherto there seems scant evidence for it. By focusing to the point of ideological obsession and dogma on the assume causes of culture-death being that of miscegenation, the actual causes are overlooked. Perhaps civilisation, theoretically, might die through dysgenics, whether racial or otherwise, but it seems that before such a dysgenic process has ever taken place the morphological laws of organic life and death have intervened as witnessed by those such as Livy, Cato, Ibn Khaldun, and in our time Spengler, Evola and Brooks Adams.

jeudi, 02 juin 2016

Des races et du racisme

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Des races et du racisme
 Des races et du racisme

de Vautrin 

Ex: http://www.lesobservateurs.ch

L'auteur est docteur d'État et ancien maître de Conférences.

La notion de déterminisme ne fait rien d’autre que de donner une cohérence logique au rapport des choses et au rapport des gens. Néanmoins… Il est constatable et prévisible que des chiens ne donnent pas des chats. Mais des chats – sans parler des bestioles saugrenues inventées par sélection humaine – il y en existe au moins neuf lignées naturelles, par exemple les Singapouriens ou les Européens à poil court. Elles se distinguent par des génotypes et des phénotypes différents, et se sont probablement différenciées d’une lignée ancestrale commune. Bien sûr, appartenant à la même espèce, les sujets d’une quelconque lignée A peuvent s’hybrider avec ceux d’une quelconque lignée B. En raison de la ségrégation indépendante des caractères héréditaires multiples, si les hybrides de première génération sont de même phénotype et de même génotype hétérozygote, la génération suivante obtenue par croisement de ces hybrides avec première génération fait réapparaître dans une certaine proportion (qui dépend du nombre de caractères transmis) les phénotypes et génotypes des grands-parents. Statistiquement, bien sûr.

Sur la base de ces constatations déterministes, on parle de « sous-espèces ». Expression politiquement correcte pour éviter de prononcer le mot « races ». On préfère parler (par abus de mot) de « cultures » pour avoir tout de même un critère de différenciation. Car on aura beau faire, l’humain différencie aussi de l’humain. Les races se différencient d’abord génotypiquement et phénotypiquement, et toutes les arguties de certains « savants » n’y changeront rien. Elles se différencient aussi sociologiquement. Mais on comprend bien pourquoi on ne parle plus de « races » humaines, car on craint les excès du racisme. À juste titre, si l’on s’en réfère à l’Histoire. À notre histoire exclusivement, et pourtant celle des autres n’a rien à envier à la nôtre en la matière, mais il ne faut surtout pas en parler !  Pourtant, l’observation m’a appris qu’à l’exemple du « bon sens » (selon Descartes), le racisme est l’une des choses au monde les mieux partagées. C’est aussi l’une des postures les plus relatives aux points de vue idéologiques.

Bien partagé : chez nous, Guides et illuminés n’attribuent le racisme qu’au Blanc colonisateur, et donc les personnes en butte au racisme, victimes « d’exclusion » et d’«apartheid » comme, prétend-on, ce serait le cas chez nous, ne sauraient être elles-mêmes racistes. Il suffit d’avoir voyagé un peu pour savoir qu’il n’en est rien et que les ethnies non seulement s’opposent mais se hiérarchisent les unes les autres et se massacrent joyeusement en conséquence. La mémoire courte oublie l’affrontement récent des Tutsis et des Hutus, et ce n’est qu’un exemple. De fait, c’est l’exclusion inclusive[1] qui fonctionne de manière excessive, poussant l’anallactique[2] jusqu’à exacerber l’ethnocentrisme et parfois à vouloir détruire ou réduire en esclavage ceux sans qui, pourtant, la frontière n’existerait pas.

Le racisme est donc un rapport humain assez banal (j’entends déjà hurler les bonnes âmes !). Cela se distingue notamment dans le vocabulaire. J’ai été personnellement obroni, muzungu lorsqu’en Afrique les gens du peuple s’adressaient à moi, et les rappeurs de banlieue, reprenant la vulgate de leurs ethnies, parlent de face de craie, babtou (reprise du malinké toubab), ou euphoniquement de souchien. Voilà qui est tout aussi raciste que négro ou bougnoule. Il n’y a que les illuminés pour penser le contraire. Au gringo correspond à rebours le chicano, le flamisch aux « franse raten », le gabacho à l’espingouin, l’ajrad au zouaoua et ainsi de suite. La liste des termes péjoratifs utilisés dans le monde pour flétrir l’étranger-pas-de-chez-nous est infinie. Il y a gros à parier qu’il en va ainsi depuis la nuit des temps et que cela durera tant que perdurera l’espèce humaine. On aura beau faire des lois et des leçons de morale : on peut en interdire la manifestation, mais le fait échappe aux codes.

anthropologie, ethnographie, races, racisme, races humaines, définition, Lorsque cet affrontement, bataille de frontières, va jusqu’à l’ethnocide, évidemment cela pose des problèmes éthiques, mais là n’est pas mon propos. Je note simplement que dans le racisme se mêlent, pas toujours distinctement, des critères phénotypiques et des critères sociologiques.

Examinons maintenant quelques excès et abus de la notion même de racisme, liés aux différences de points de vue sur celle-ci. On se souviendra sans doute du débat sur l’opportunité d’interroger des candidats aux concours de catégorie C de la fonction publique sur La Princesse de Clèves. L’argument était que toutes ces références culturelles « discriminent » les candidats issus des « minorités visibles ». C’est-à-dire qu’un banal fait de culture est dégradé au rang d’acte raciste.  Le CRAN, Conseil Représentatif des Associations Noires de France, figurait parmi les protestataires ; l’amusant est que cette association (subventionnée) est ouvertement raciste. N’est-ce pas son président qui déplorait que la jolie Miss Bourgogne, devenue Miss France en 2012, fût « blanche comme neige » ? Mais plus fondamentalement, ce genre de démarche supposée lutter contre une forme de racisme, ne fait que flétrir a-contrario ceux qu’il croit défendre : en suivant le raisonnement, ils ne feraient pas le poids dans la compétition culturelle.

On finit par en arriver à une aberration, importée des États-Unis (mais en voie d’abandon là-bas, me dit-on) : la discrimination positive. L’expérience montre qu’elle n’est pas bonne, ni pour les discriminés positifs, que l’on dispense d’efforts, ni pour l’ensemble de la société qui voit s’abaisser le niveau de ses élites.

Lorsque l’idéologie s’empare du racisme, en retour elle nourrit le racisme. Il n’y a pas de discrimination positive, il y a la discrimination tout court, et cela doit être interrogé sociologiquement et éthiquement. Mais pour demeurer dans le domaine de ce qu’on appelle ordinairement « la culture », on remarquera que de nombreux auteurs des siècles passés, encore révérés de mon temps, sont mis à l’index par les illuminés de la « bien-pensance » pour être Blancs, Européens, Mâles, Sexistes. Tout y passe : Villon, Rabelais, Montaigne, Corneille, l’Abbé Prévost, Stendhal, Flaubert et ainsi de suite. Une vraie dévastation culturelle ne livrant plus que des textes expurgés et réécrits aux lycéens d’aujourd’hui. La machine à décerveler du Père Ubu.

C’est que, du racisme au sexisme, il n’y a qu’un pas stupidement franchi par les illuminé(e)s, je reviendrai sur ce point prochainement. Il y en a d’autres, par exemple le pas qui mène à confondre racisme et homophobie etc… Allons plus loin. Il existe un anti-christianisme très fort, qui se manifeste par des caricatures, déprédations, voire des massacres ; personne, chez les Guides et illuminés, n’ira hurler au racisme anti-chrétien. Le fait est qu’une religion n’est pas une race, il n’y a pas de critères phénotypiques, seulement des critères sociologiques internes de différenciation, étant donné que chaque peuple fait sa cuisine particulière de la religion. Il est cependant extrêmement curieux que dès qu’il s’agit de critiquer l’islam, de caricaturer son prophète, de crépir une mosquée avec des lardons, on trouve de nombreux bien-pensants pour hurler au racisme. Or l’islam, pas plus que le catholicisme, ne constitue une race, c’est une évidence qu’il faut rappeler.

Derrière ces attitudes, il y a toujours un projet politique d’uniformisation de l’humanité en transformant les hommes par la contrainte violente. L’antiracisme est à la fois un fonds de commerce et un racisme réel.

Pour finir, différencier de l’humain en races (ou en « cultures ») autorise-t-il à établir une échelle d’humanité ? En fait, on constate des réalisations pratiques extrêmement variées à travers le monde. Pour prendre deux extrêmes : il y a encore aujourd’hui des chasseurs-cueilleurs et ailleurs des astrophysiciens vivant dans des stations spatiales. Il n’y a par ailleurs probablement pas de gènes déterminant le port du pantalon plutôt que du boubou, l’organisation tribale plutôt que la république une et indivisible. Mais toutes ces différences constatées révèlent tout de même à travers la diversité des langues une même faculté de langage, à travers l’hétérogénéité des outils une même faculté technique, à travers les variétés de groupes une même faculté à faire du social, à travers le fatras des morales une même capacité d’éthique. Mais toutes leurs manifestations ethniques se valent-elles ? Je demeure sceptique et suspends (hypocritement) mon jugement (ἐποχή).

Vautrin

(Nom connu de la rédaction)

[1] Ce qui veut dire : un groupe se constitue davantage par exclusion que par intégration.

[2] Le pôle politique anallactique consiste à demander à l’étranger de s’assimiler sans concession ; le pôle synallactique consiste à modifier les lois du groupe pour « s’ouvrir » à l’étranger. C’est à ce pôle que nous en sommes !

 

jeudi, 12 novembre 2015

LOUIS DUMONT, O QUANDO L’INDUISMO INCONTRA L’OCCIDENTE (E VINCE)

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LOUIS DUMONT, O QUANDO L’INDUISMO INCONTRA L’OCCIDENTE (E VINCE)

Quando un indù aggredisce un unno, non vale perché è indù contro unno

Nel pantheon degli autori di riferimento del panorama comunitarista, spicca certamente il sociologo ed antropologo Louis Dumont (1911-1998): studioso al confine tra l’interesse per le scienze sociali e gli studi legati alla Tradizione, in particolare nel contesto induista ed in parte buddhista.

Perché Il Talebano ha deciso di interessarsi a questo intellettuale? Anzitutto perché il pensiero di Dumont mette in discussione l’intero impianto culturale della postmodernità, attaccando in particolare la visione progressista che vorrebbe interpretare la storia come un lungo cammino di affinamento delle possibilità umane: al contrario, la contemporaneità viene vista come solo una fra le diverse possibilità della società e, anzi, per molti versi rappresenta un’eccezione assoluta rispetto alle civiltà tradizionali. In secondo luogo la conoscenza approfondita dello spirito indiano da parte di Dumont ci consente di dare uno sguardo lontano dagli stereotipi occidentali sulla società indù, una realtà ricca di contraddizioni che però rappresenta ancora oggi uno dei pochi esempi rimasti di civiltà in cui ancora vivono le vestigia della tradizione indoeuropea.

Louis-Dumont_7567.jpegDumont, nato a Salonicco nel 1911, si trasfersce successivamente in Francia, dove negli anni giovanili militerà nel Partito Comunista Francese, occupandosi delle varie sollecitazioni innovatrici della vivace realtà politica parigina. Presto si interessa di etnologia al punto di frequentare i corsi di Marcel Mauss al College de France, contro la volontà dei suoi genitori che lo avrebbero voluto ingegnere. Arruolato nell’esercito francese durante il secondo conflitto mondiale e finito prigioniero in un campo di detenzione tedesco, Dumont nel dopoguerra continua ad approfondire i suoi studi. Nel 1949 fa il suo primo viaggio in India, dove tornerà periodicamente per tutto il corso della sua vita. A partire dal confronto con l’India, comincia a sviluppare la dicotomia fondamentale tra l’Homo Aequalis, tipico dell’Occidente moderno, e l’Homo Hierarchicus. Proprio attorno a questa tematica, Dumont struttura alcuni dei suoi saggi più importanti e riconosciuti (si segnalano in particolare “La civiltà indiana e noi” del 1964 e “Homo Hierarchicus, saggio sul sistema delle caste” del 1966). Svincolando la sua analisi dal pregiudizio secondo il quale la società individualistica rappresenterebbe l’apice di un progresso (da leggere in contrapposizione alla barbarie di un sistema arcaico come quello delle caste), Dumont concentra la sua attenzione su uno dei testi più importanti della tradizione induista: il Sanathana Dharma.

Sarebbe veramente impossibile descrivere in un articolo la potenza del concetto di Dharma, ma approssimando in poche righe per darne un’idea al profano, qui basti sapere che con Dharma si intende l’equilibrio cosmico ispirato alle verità contenute nei Veda, un ordine trascendente che, se rispettato, è garante del Bene. La civiltà indiana ha alimentato per secoli la sua spiritualità di questa sacra legge universale, stratificando attorno ad essa una comunità organica fatta di ruoli e responsabilità, dal cui rispetto è sempre dipeso l’equilibrio della società. In questa totalità ognuno trova un posto correlato alla sua natura: il vertice della gerarchia è rappresentato dai Brahamini, una tipologia umana che vuole dedicare la sua esistenza alla ricerca del vero e del divino, viene poi la casta dei guerrieri (a cui apparteneva lo stesso Gautama Buddha) ovvero i guardiani della comunità, infine troviamo i commercianti. All’interno di questa piramide sociale che a noi occidentali ricorda così da vicino – non casualmente – la Repubblica platonica, è importante sottolineare come ad ogni ruolo corrisponda un determinato carico di responsabilità/doveri: se è vero che il brahamino riveste una posizione di grande prestigio e rispetto da parte delle altre caste, è anche vero che egli sottopone la sua intera esistenza al rispetto di una disciplina rigidissima che governa con codici di comportamento ogni aspetto della sua vita. Al contrario alla base della piramide incontriamo ruoli sicuramente più umili, ma – al di là del rispetto dello spirito comunitario – maggiore libertà di azione individuale.

A questo Homo Hierarchicus Dumont contrappone l’Homo Aequalis, punto di arrivo di un percorso le cui radici affondano forse nella rottura del cristianesimo col mondo antico; uno strappo che si rinsaldò almeno parzialmente col medioevo, ma da cui successivamente si sviluppò l’eresia protestante e tutto ciò che ne è derivato. Facendo riferimento agli studi di Karl Polany, Dumont analizza il percorso di progressivo svincolamento della sfera economica da quella comunitaria, fino alla trasformazione in realtà autoreferenziale ed autonoma tipica della modernità. In questo senso il pensiero espresso da Adam Smith nel suo saggio sulla “Ricerca sulla natura e cause della ricchezza delle nazioni” è forse l’esempio più sintetico della visione propria alla nascente scienza economica: questa nuova scienza si traduce nell’esaltazione del comportamento egoistico dell’individuo, un agire cieco nei riguardi del prossimo e senza riguardi per le ripercussioni sociali, ma che – nel sistema di Smith – è garante di un equilibrio provvidenziale in cui i vizi privati diventano sostanzialmente benefici pubblici.

homo70286492FS.gifSi comprende bene come un tale individualismo si ponga agli antipodi con la concezione olistica/tradizionale: questo non vuol banalmente significare che in passato la totalità delle persone fosse altruista, ma che la comunità viveva coesa attorno a dei valori universalmente riconosciuti. Nell’induismo, per esempio, non esiste l’idea che per essere felici bisogna gratificare il proprio ego, ma vige, piuttosto, il pensiero per cui ognuno debba scoprire il ruolo assegnatogli dal destino e vivere in armonia con esso e ciò che si ha intorno: ciò che gratifica veramente l’esistenza della persona è insomma trovare il proprio posto all’interno della comunità, non emanciparsi da essa. L’individuo induista si concepisce infatti come parte del cosmo e non come un atomo portatore di valori naturali, privo di interdipendenza. Lo stesso asceta che si allontana dalla società non lo fa in nome di un ripiegamento individualista: si tratta piuttosto dell’aspirazione ad una realizzazione metafisico-cosmica superiore a quella basata su una vita comunitaria, ma in cui trionfa sempre lo stesso spirito olistico (non si mette in discussione il valore della comunità in quanto tale), distinto sia dall’individualismo extramondano sia da quello mondano.

Louis Dumont è stato un grande studioso, capace di mostrare come l’Occidente contemporaneo non sia il culmine dell’evoluzione umana, quanto, invece, un’anomalia rispetto alle altre società. Per quanto esso voglia porsi come civiltà universale, in realtà, il suo sapere è “provinciale” ed incapace di comprendere altri orizzonti. Nel rapporto con l’India vediamo, per esempio, due tipi di reazione: da un lato c’è chi è vittima di un complesso di superiorità e non perde occasione di far notare quanta strada la barbara società indiana debba ancora fare sulla grande scala del progresso, di cui noi naturalmente rappresentiamo l’apice; dall’altro osserviamo improbabili fascinazioni new age in cui la grande sapienza indiana si svilisce in una serie di letture maldigerite e pallide imitazioni rituali. La tradizione indù invece, seppur sbiadita, rappresenta di fatto ancora oggi un sistema alternativo in cui si possono udire gli echi di un passato che infondo appartiene a tutte le civiltà indoeuropee, compresa la nostra.

Daniele Frisio

samedi, 13 juin 2015

Modernity and Muslims Encroach on Unique Tribe in Pakistan

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Modernity and Muslims Encroach on Unique Tribe in Pakistan

Kalash people’s free mixing of the sexes and use of alcohol are anathema to many of its neighbors

The pagan Kalash people live in Chitral, a remote area in the far northwest of Pakistan.
 

CHITRAL, Pakistan—The Kalash tribe’s annual celebration of Joshi, a unique festival that marks spring’s arrival in their remote corner of the Hindu Kush mountains, is no longer the carefree affair it once was.

The festival is still a riot of color and rhythm, as it has been for centuries: Kalash women hold each other by the shoulder and swirl around in their customary dance, singing and whistling to a hypnotic drumbeat played by the men as they walk from village to village before all converge at special hilltop sites for their carnival.

But this year’s festival, held in May, took place under heavy security. Less than 5,000 Kalash survive and maintain their mystical beliefs. The tribe’s ancient religion, free mixing of the sexes and wine drinking put them at odds with some of their Muslim neighbors who consider such practices sacrilegious.

“If this celebration ends, our culture will end,” said Mutaram Shah, 80, a Kalash elder who wore a shimmering golden coat for the festival in the Bumburet valley, where he and other male elders engaged in mock fights with sticks amid the dancing.

The Kalash are under pressure from modernization and the cultural and physical encroachment of their Muslim neighbors. Photo: SAEED SHAH FOR THE WALL STREET JOURNAL

Members of this community say they are battling to preserve their traditions against two powerful forces: the encroachment of modernity and pressure to conform with the surrounding Muslim population.

At this year’s festival, the women wore their traditional long black dresses embellished with bright patterns, heaps of colorful necklaces and headdresses adorned with beads and seashells. But some of the younger women covered their faces for the dance with scarves, in a recent adoption of conservative Muslim norms.

Kalash children now go to school, where the girls come under pressure to adopt the chador, a wraparound cloth to hide their hair and faces, like the Muslim girls of Chitral, members of the tribe say.

The threat of attack was also visible: Around 400 police officers were deployed at this year’s festival, along with a contingent of army in both uniform and plainclothes, partly in response to a long video the Pakistani Taliban distributed last year that warned the Kalash to convert to Islam, security officials said.

Community members, however, say the steady erosion of their culture is the greatest threat to the Kalash.

“Since I came here, people have been saying that the Kalash will disappear,” said Akiko Wada, a Japanese woman who moved here in 1987 and married a Kalash man. “I can see the culture is adapting to the nearby culture, the lifestyle is changing. It is worrying.”

Chitral_map.pngThe historic realm of the Kalash people, now greatly reduced.

Many Kalash consider themselves descendants of Alexander the Great, the Macedonian conqueror who led his army into what is now Pakistan in 326 B.C. Anthropologists believe the Kalash are more likely the marooned remnants of an ancient migration from Central Asia to South Asia and Europe.

The Kalash’s realm once straddled Pakistan’s far northwestern Chitral area and the adjacent Afghan province of Nuristan, a region dubbed Kafiristan, or “Land of the Infidels.” Muslims started to conquer Chitral in the 14th century, driving the Kalash into ever-smaller pockets. In Afghanistan, King Abdur Rahman forcibly converted Kalash in the 1890s to Islam, wiping out their culture there. The number of Kalash in previous centuries is unclear.

The tribespeople now inhabit three narrow valleys in Chitral, where they grow crops and raise long-haired goats. Their valleys are accessible only by a narrow track carved into the mountainside. The Kalash language and religion are distinct, as are their pacifistic ways in a region known for violence and internecine feuding.

“We’re a peaceful people,” said Muhammad Iqbal Kalash, sitting outside his traditional stone-and-wood house on the banks of a mountain river in the Rumbur valley. “Without the security now provided, we would no longer go to our dancing places.”

Even in their remaining three valleys, the Kalash are now outnumbered by Muslims. While the native Chitralis are known for their tolerance, many Muslim settlers from outside the region have brought a harsh brand of Islam with them.

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Women are in many ways the anchor of Kalash culture. Confidently mixing with men and enjoying home-made wine and liquor fermented from mulberries or apricots at festivals, women usually choose their husbands—unlike most of Pakistan, where marriages are arranged by family elders. A Kalash wife can leave her husband for another man as long as the first one is financially compensated.

“Kalash religion and culture has survived because of the women,” said Sayed Gul Kalash, a woman taking a break from dancing at the festival. “Conversion is a silent killer. When someone leaves their religion, they leave their language and culture too.”

Kalash men have adopted the shalwar kameez, the baggy shirt-and-trousers combination worn by men throughout the rest of Pakistan. The men say they are encouraged by Muslims neighbors to shave, so they are not mistaken for Muslims.

The Kalash have adopted Muslim names, while the now-educated young men are reluctant to tend goats, an animal considered pure by the Kalash and an important part of their religion.

With no written tradition and no sacred book, many Kalash find their religion, a faith of shamans and animal sacrifice, hard to explain. They believe in one supreme God, but other deities function as intermediaries.

Cellphone service, another intrusion of the modern world, arrived in some Kalash areas only this year. But while modernization has taken some Kalash away from their home valleys and beliefs, it has also made many of them prouder of their unique heritage.

“There is now awareness of our culture,” said Meeta Gul, a mother of two in Rumbur. “Educated Kalash don’t convert.”

Write to Saeed Shah at saeed.shah@wsj.com

dimanche, 17 mai 2015

L’ADN des Britanniques est moins saxon, moins viking et moins celte qu’on ne croit

L’ADN des Britanniques est moins saxon, moins viking et moins celte qu’on ne croit

Ex: http://www.breizh-info.com

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Des groupes génétiques bien identifiés et différenciés

Édimbourg (Breizh-info.com)

La prestigieuse revue Nature a publié récemment une étude passionnante sur les origines génétiques de la population britannique, The fine-scale genetic structure of the British population. Œuvre d’une solide équipe de chercheurs(1) de l’University of Oxford, de l’University College London et du Murdoch Childrens Research Institute (Australie) emmenée par le statisticien Stephen Leslie, elle repose sur une analyse détaillée de l’ADN de 2 039 britanniques « de souche ». Des comparaisons avec des prélèvements provenant de 6 209 personnes de dix pays voisins ont permis de mettre en évidence leurs liens avec d’autres populations européennes.

L’étude a montré une relative homogénéité de la population du sud et du centre de l’Angleterre. Cependant, les Saxons représentent moins de la moitié de l’ascendance de cette population – plus probablement entre 10 et 40 %, soit moins qu’on ne le pensait jusque-là compte tenu des bouleversement apportés dans la langue, les noms de lieux et l’agriculture par les invasions saxonnes. Malgré leur longue présence attestée, les Vikings auraient laissé très peu de traces génétiques, sauf dans les Orcades, qui ont fait partie de la Norvège de 875 à 1472 ; et même là, leur place dans le « profil ancestral » des habitants actuels ne dépasse pas 25 %.

En revanche, trois groupes de populations européennes ont apporté une contribution spécialement importante au peuplement actuel ; ils se situent en Allemagne de l’ouest, en Flandres et dans le nord-ouest de la France. Ce dernier groupe est spécialement apparenté aux populations du Pays de Galles, d’Irlande du Nord et d’Écosse de l’ouest.

Faut-il y voir la trace d’un unique peuplement celtique des deux côtés de la Manche ? Sur ce point, les auteurs de l’étude sont clairs : « nous n’avons constaté aucune évidence d’une population ‘celtique’ générale dans les parties non saxonnes du Royaume-Uni ». De nombreux groupes génétiques distincts voisinent en Irlande du Nord, en Écosse et au Pays de Galles. Les populations galloises apparaissent comme les plus proches des premiers occupants de la Grande-Bretagne installés au Royaume-Uni après la dernière ère glaciaire. Le profil ancestral de la Cornouaille est très différent de ceux du Pays de Galles mais proche de celui du Devon.

On espère qu’une étude du même genre viendra éclairer la génétique de la population bretonne avant que les migrations et l’immigration contemporaines ne l’aient rendue illisible.

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(1) Stephen Leslie, Bruce Winney, Garrett Hellenthal, Dan Davison, Abdelhamid Boumertit, Tammy Day, Katarzyna Hutnik, Ellen C. Royrvik, Barry Cunliffe, Wellcome Trust Case Control Consortium, International Multiple Sclerosis Genetics Consortium, Daniel J. Lawson, Daniel Falush, Colin Freeman, Matti Pirinen, Simon Myers, Mark Robinson, Peter Donnelly, Walter Bodmer

Illustration : extrait partiel d’une figure de l’étude Fortune
[cc] Breizh-info.com, 2015, dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine.

dimanche, 10 mai 2015

Les juifs éthiopiens ne veulent plus être les «nègres» d’Israël

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LES FALACHAS ET LE RACISME A L’ISRAÉLIENNE

Les juifs éthiopiens ne veulent plus être les «nègres» d’Israël

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
Israël s’est retrouvé aux prises avec une «  intifada «  noire. Tout a commencé il y a une dizaine de jours, lorsqu’une chaîne de télévision israélienne a diffusé une vidéo montrant deux policiers passant à tabac, sans raison, un soldat de peau noire. Le lendemain, un autre Israélien d’origine éthiopienne a également été battu dans la rue, mais par trois inspecteurs municipaux cette fois.
 
Ce qui s’est passé a déclenché un mouvement de protestation contre les violences policières vis à vis des noirs, similaire à celui des USA.

Arrivés massivement en Israël dans le courant des années 1980, les juifs d’Ethiopie représentent aujourd’hui 2% de la population de l’Etat hébreu mais 30% de sa population carcérale et 40% de sa jeunesse délinquante.

Sans doute parce qu’ils étaient pauvres et illettrés, les olim (nouveaux immigrants) ont immédiatement souffert du racisme. Depuis lors et contrairement aux autres communautés de la diaspora, les ex-Ethiopiens sont les seuls juifs à ne pas pouvoir émigrer comme ils le veulent en Israël. Ils sont soumis à un quota et lorsqu’ils veulent acquérir un logement, l’Etat ne leur accordera une aide que s’ils installent dans des zones excentrées bien définies où les infrastructures sociales sont aussi défaillantes que le système scolaire.

Les manifestations violentes en Israël de juifs éthiopiens rappellent étrangement les manifestations des originaires d’Afrique du Nord dans les années 1970. Les mêmes causes produisent les mêmes effets. La cohabitation de communautés de différentes contrées ne se fait pas sans heurts, même si elles ont en commun la même religion. Hier, les juifs d’Afrique du Nord souffraient de discrimination et aujourd’hui c’est au tour des juifs éthiopiens, victimes en plus de racisme.

En Israël, dans les années 1970, les Blacks Panthers, par similitude avec les Afro-Américains, conduits par le leader marocain Charlie Biton, avaient créé un mouvement de protestation et de soutien des immigrants d’origine marocaine. En communauté de destin avec les Arabes israéliens, ils avaient constitué la première organisation qui s’était donnée pour mission d’œuvrer pour la justice sociale et pour la défense des défavorisés orientaux, victimes de discrimination dans le pays.

En mars 1971, les Blacks Panthers avaient manifesté pour protester contre la pauvreté de leur communauté, contre l’écart entre riches et pauvres et contre les tensions ethniques dans la société juive. Le 18 mai 1971, entre 5.000 et 7.000 manifestants s’étaient réunis à la place Sion à Jérusalem alors que la manifestation avait été interdite par la police. Les forces de l’ordre s’étaient violemment opposées à une foule en colère faisant une vingtaine de blessés hospitalisés et 74 arrestations. Le Premier ministre de l’époque, Golda Meir, avait refusé de reconnaître ce mouvement social. Mais la manifestation du 18 mai avait contraint le gouvernement israélien à prendre en compte les revendications des Orientaux en créant une commission dont les conclusions avaient confirmé que la discrimination existait à de nombreux niveaux de la société.

Les Falachas ou Falashas étaient des habitants de l'Éthiopie, maintenant qualifiés en Israël de « juifs éthiopiens ». Le terme Falasha est rarement utilisé par les juifs éthiopiens qui emploient plutôt Beta Israël (la « maison d’Israël », au sens de la « famille d’Israël »). Il signifie en amharique « exilé » ou « immigrés » et est généralement considéré comme péjoratif. Les Beta Israël ont une origine mal définie. Ils ont vécu pendant des siècles dans le Nord de l’Éthiopie, en particulier les provinces du Gondar et du Tigré. Après avoir bénéficié de petits États indépendants jusqu’au XVIIe siècle, ils ont été conquis par l'empire d'Éthiopie, et sont devenus une minorité marginalisée, à laquelle il était interdit de posséder des terres et qui était accusée d’avoir le « mauvais œil ».
 

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Ils rentrent en contact avec le judaïsme occidental à la fin du XIXe siècle. À compter du début du XXe siècle, une redéfinition en profondeur de l'identité de la communauté se fait jour et l'amène à se considérer désormais comme juive, et plus seulement comme Beta Israël. Cette évolution réduit progressivement les forts particularismes religieux originels et rapproche la religion des Beta Israël du judaïsme orthodoxe.

En 1975, le gouvernement israélien reconnaît la judaïté des Beta Israël. Ceux-ci vont alors mener une difficile émigration vers Israël dans les années 1980 et 1990. En 2009, ils sont environ 110 0002 en Israël.

Les Beta Israël eux-mêmes ont deux principaux récits concernant leurs origines. Selon le premier, « la plus répandue dans la tradition orale », les Beta Israël descendraient des Israélites ayant accompagné le prince Ménélik, fils du roi Salomon et de la reine de Saba lorsqu’il apporta l’arche d’alliance en Éthiopie, au Xe siècle av. J.-C. On peut noter que ce récit est étroitement connecté à la légende des chrétiens d’Éthiopie concernant l’Arche d’alliance. Elle en est peut-être une adaptation.

racisme,israël,anthropologie,ethnologie,éthiopie,afrique,affaires africaines,falachasLe second récit présente les Beta Israël comme les descendants de la tribu de Dan, une des « Dix tribus perdues » (déportées par les Assyriens en 722 avant Jésus-Christ). En Israël, ce récit tend à devenir dominant, sans doute car il est officiellement accepté par le grand rabbinat israélien en 1973.

On trouve aussi des récits moins répandus et qui tendent à disparaître de la tradition orale Beta Israël :
  • les Falashas descendraient d’un groupe d’Hébreux ayant refusé de suivre Moïse lors de la sortie d’Égypte.
  • selon un récit du XIXe siècle, qui semble aujourd’hui disparu, les Falashas seraient des Éthiopiens convertis par Moïse lors d’une ancienne visite dans le pays.
  • les Falashas seraient venus en Éthiopie à la suite de la fuite d’Israélites après la prise de Jérusalem en 587 avant Jésus-Christ par les Babyloniens.
  • les Beta Israël se considèrent comme les descendants des Hébreux .

Les Falashas n’ont pas une perception claire et unique du lien entre eux-mêmes et leurs ancêtres supposés. Mais la réciproque est encore plus vraie.
 

vendredi, 23 janvier 2015

Les Koriaks et les Itelmènes

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LES COUTUMES DES PEUPLES DE LA RUSSIE

Les Koriaks et les Itelmènes

La voix de la Russie
& http://metamag.fr
 
La péninsule du Kamtchatka est habitée de nos jours par plusieurs populations – Koriaks, Itelmènes, Evènes, Aléoutes, Tchouktches, Aïnous et d’autres encore. Dans le cadre de cet article il sera question des Koriaks et des Itelmènes, qui peuplaient la péninsule bien avant l’arrivée des Russes et continuent de vivre ici.

On ignore la date précise de l’exploration du Kamtchatka par les Russes, mais dans l’un de ses ouvrages Georg Steller mentionne que déjà au 17e siècle certains Russes atteignaient le Kamtchatka et y vivaient dans des communautés locales. Steller a participé à la deuxième expédition de Vitus Béring, organisée sur l’oukase de Pierre 1er en 1737. Depuis nous avons appris l’existence des ethnies peuplant les territoires éloignés de l’actuelle Russie.


Selon un récent recensement, les Koriaks du Kamtchatka représentent 7200 personnes et habitent le Nord et le Centre de la péninsule. Le nom du peuple provient de l’appellation locale du renne. Mais les Koriaks s’appellent autrement. Les Koriaks établis dans des villages le long des côtes sont surnommés les Nemylans (sédentaires). Les Koriaks nomades sont surnommés les Tchavtchouvènes, ce qui signifie « éleveurs de rennes », et vivent dans la toundra. L’élevage des rennes était une occupation principale, mais pas unique des Tchavtchouvènes. Le renne leur fournit tout ce dont ils ont besoin pour vivre : ils consomment sa viande, sa peau est utilisée pour la confection de vêtements, ses os rentrent dans la fabrication d’outils, d’articles ménagers divers et sa graisse sert de source d’éclairage. De plus, le renne, qui leur sert de moyen de locomotion, rentre également comme élément de construction de leur habitation mobile : la yaranga. De nos jours, les Koriaks élèvent toujours des rennes, pêchent, chassent et travaillent toujours la fourrure, pratiquent divers artisanats.


Les Nemylans riverains vivaient principalement de la pêche côtière. Le poisson était attrapé à l’aide de filets tissés avec des tiges d’orties. Leur conception nécessitait un travail laborieux qui pouvait prendre deux années pour un piètre résultat : la solidité n’était pas au rendez-vous et la plupart ne duraient qu’une année. La chasse aux mammifères marins occupait la seconde place dans l’économie des Koriaks sédentaires. Ils sortaient en mer sur des canots faits en peau d’animaux marins et se servaient de harpons propulsés par des arcs, ainsi que de lances. La peau des animaux servait aussi bien pour garnir leurs skis, confectionner des chaussures, sacs, ceintures… Les Nemylans ont également beaucoup développé d’activités domestiques telles que la sculpture sur bois et sur os, le travail des métaux, la conception de vêtements et de tapis. En été, ils sortaient en mer à bord de grand canots dans la baie de la Penjina pour la chasse à la baleine. Les Koriaks sédentaires avaient une habitation pour l’hiver, une pour l’été.

Itelmen.jpgLes Itelmènes (ce qui signifie «habitant du lieu» en langue itelmène) seraient la population la plus ancienne du Kamtchatka. Elle compte actuellement 1500 locuteurs et occupe traditionnellement le Sud-ouest du territoire. Leurs premiers contacts avec les Russes remontent à 1697, ceux-ci les nommaient les Kamtchadals. Les Itelmènes étaient alors au stade de la désintégration des communautés primitives. Les Itelmènes construisaient leurs villages au bord des rivières, la pêche leur apportant leur principal moyen de subsistance. Dès la débâcle (fonte des glaces) toute l’activité des Itelmènes se trouvait concentrée sur et au bord de l’eau. D’avril à décembre, ils naviguaient à bord de bateaux plats entièrement sculptés et creusés dans du bois de peupliers. S’ils possédaient des filets semblables à ceux des Koriaks, ils établissaient également des barrages pour capturer les poissons, essentiellement des salmonidés. Ils les préparaient de diverses manières : ils en séchaient une partie, l’autre stockée dans des fosses spéciales afin d’être fermentée. Ils ne pouvaient pas conserver une grosse quantité de poissons car ne possédaient pas de sel. Hormis, la pêche, ils se livraient à la cueillette de plantes médicinales, affaire de femmes, et la chasse (renard, zibeline, ours, mouflon des neiges, otarie de Steller, phoque, loutre de mer), affaire d’hommes. Et comme remèdes contre le scorbut ils utilisaient les graines de cônes du pin de Sibérie et les œufs de salmonidés, ainsi que la graisse de phoque, dont se nourrissent volontiers tous les peuples du nord. Les vêtements des Itelmènes, s’ils ne différaient guère de ceux des Koriaks ou des Tchouktches par leurs lignes, se démarquaient de part leur élégance. La zibeline, le mouflon des neiges, le renard et même du chien étaient utilisés pour la confection de ces vêtements élaborés principalement par les femmes. Ces dernières avaient coutume de porter des perruques qui, par leur solidité et massivité, leur apportaient respect.

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Les Koriaks et les Itelmènes entament leur conversion au christianisme au milieu du 17e siècle. Avant, leurs croyances traditionnelles étaient liées à l’adoration des esprits, au paganisme. Ils vouaient leur culte aux monts, pierres, mer, étoiles qu’ils dotaient de propriétés d’êtres pensants. Certains personnifiaient le bien, d’autres - le mal, contre lequel il fallait se protéger avec des amulettes. Celles-ci étaient attachées aux vêtements des enfants pour les préserver des maladies, dangers, maléfices, mauvais esprits qui attaquaient, selon les aborigènes, pendant le sommeil. L’idée d’un dieu unique était loin des Itelmènes. Ils vénéraient toutefois le Corbeau (Koukht) comme créateur de l’Univers. Actuellement les figurines du Corbeau sont vendues en tant que souvenirs dans des boutiques locales.


En 2009 tous les territoires du Kamtchatka sont portés par le gouvernement de Russie sur l’inventaire des lieux d’habitation et des activités traditionnelles des populations de souche peu nombreuses du pays. La loi établit la liste des occupations ancestrales, dont l’élevage des rennes par transhumance, la chasse, l’extraction des minerais pour leurs propres besoins. Cela doit permettre aux petits peuples de sauvegarder leur originalité, folklore, coutumes et traditions anciennes.


Des groupes folkloriques du Kamtchatka représentent dignement leur art en Russie et à l’étranger, font des tournées dans les villes d’Extrême-Orient et dans plus de trente pays. Le groupe « Mengo », qui a fêté ses 45 ans en 2010, a dans son répertoire des compositions de danse, ballet, chant guttural. D’autres groupes connaissent un succès non moindre.


Le Kamtchatka est l’un des lieux rares à la nature vierge, un pays des volcans en activité, des geysers, des gens au grand moral. Ici on ne peut survivre qu’ensemble, c’est ce que comprennent les habitants de ce pays aux conditions climatiques rigoureuses qu’ils ne veulent quitter pour rien au monde.
Illustration en tête d'article : jeune fille itelmen

samedi, 20 septembre 2014

Völkerpsychologie

Völkerpsychologie

von Ernst Hofer

Ex: http://www.blauenarzisse.de

 
Völkerpsychologie
Völker unterscheiden sich. Nicht nur in der Kultur, jedes Volk hat auch ein bestimmtes psychologisches und genetisches Profil. Das auszusprechen kann heute viel Ärger bedeuten.

Besonders die politische Linke sieht sich durch jeden derartigen Hinweis herausgefordert. Zu sehr rütteln diese wissenschaftlichen Erkenntnisse an der Utopie der Gleichheit aller Menschen.

Andreas Vonderach hat in seinem 2014 erschienen Buch Völkerpsychologie. Was uns unterscheidet Belege aus den verschiedenen wissenschaftlichen Fächern zusammengetragen. Diese umfassen vor allem die sogenannte Völkercharakterologie und die kulturvergleichende Psychologie, aber auch Hinweise aus dem Bereich der Linguistik, Soziobiologie und der Verhaltensgenetik.

Jedes Volk hat seinen Charakter

Zu den besten Büchern, die sich mit der Völkercharaktereologie beschäftigen, gehört Die Seelen der Völker. Ihre Eigenarten und Bedeutung im Völkerleben (1920) des deutsch-​jüdischen Soziologen Elias Hurwicz. Aber auch die Werke von Willy Hellpach oder Friedrich Keiter sind von großer Bedeutung für die differentielle Völkercharakterologie im deutschsprachigen Raum. Nach dem Zweiten Weltkrieg verlor diese Fachrichtung allmählich an Bedeutung.

Bei allen völkercharakterologischen Ergebnissen kann es sich natürlich nur um Häufigkeits– und Mittelwerte des ganzen Volkes handeln, die nicht immer für Rückschlüsse auf das Individuum geeignet sind. Besonders deutlich erscheint nach der Analyse der Unterschied zwischen Nord– und Südeuropa. Temperament und Erregbarkeit, Kontakt– und Geselligkeitsbedürfnis sind im Mittelmeerraum am stärksten ausgeprägt und nehmen nach Norden hin ab. Die Nordeuropäer sind nach diesem Paradigma introvertierter, die Südeuropäer extrovertierter. Auch innerhalb der großen Völker gibt es einen starken Unterschied zwischen den Bewohnern des nördlichen und des südlichen Landesteils.

Nordisches Temperament in Mitteleuropa

Daneben existiert ein West-​Ost-​Gefälle innerhalb Europas. Während der Westen nüchterner und rationalistischer ist, besteht eine stärkere Emotionalität im Osten Europas. Die Deutschen nehmen innerhalb Europas eine Mittelstellung ein. Deutschland stellt – wie auch in anthropologischer Hinsicht – in Temperamentsfragen eine Ausbuchtung des nördlichen Temperaments nach Süden dar. Der Nordwesten Deutschlands steht in Sachlichkeit und Ernsthaftigkeit den germanischen Ländern Skandinaviens in nichts nach.

Süd– und Mitteldeutschland sind laut dieser Studien beweglicher und kommunikativer als die Norddeutschen, während in Österreich bereits viel von südlicher Impulsivität vorhanden ist. Auch auf der West-​Ost-​Achse nehmen die Deutschen eine Mittelstellung ein. Während die Deutschen den Franzosen als zu oberflächlich erscheinen, gelten sie besonders bei den Russen als „gefühlslose Macher“.

Die kulturvergleichende Psychologie

In den 50er– und 60er-​Jahren entstand in der Psychologie die Forschungsrichtung der kulturvergleichenden Psychologie. Geleitet wurde sie von der Frage, ob Verhaltensweisen, die durch psychologische Tests ermitteln wurden, auch außerhalb der westlichen Welt beobachtet werden können. Dabei blieb die kulturvergleichende Psychologie stark der Milieutheorie des amerikanisch-​jüdischen Ethnologen und Sprachwissenschaftler Franz Boas verwurzelt, die jeden Unterschied im Verhalten von Menschen auf soziale und kulturelle Faktoren (Umwelteinflüsse) zurückführt und nicht auf eine genetische Grundlage stellt.

Ein Ansatz war die Überprüfung von Lebensweise und Kindererziehung. Nach Herbert Barry und Irvin Child gibt es einen solchen Zusammenhang tatsächlich. In bäuerlichen Gesellschaften wird tendenziell mehr auf soziale Harmonie, Kooperation und Verantwortung geachtet als in Jäger-​und-​Sammler-​Gesellschaften. Die dazu verwendeten Daten sind heute in Form des Human Relation Area Files in digitaler Form verfügbar. Dadurch wird ersichtlich, dass Unterschieden zwischen den Völkern doch ein gewisser Wert beigemessen wird.

Spätfolgen des Krieges bis heute

Etwas später wurde versucht, die in der Persönlichkeitsforschung ermittelten Ergebnisse auf ganze Völker anzuwenden. Bei der verwendeten Methode der Faktorenanalyse werden mehrere Antworten in Persönlichkeitsfragebögen aufgrund von Korrelation untereinander zusammengefasst.

Die Extrempole nehmen Nigeria (als sehr schwach) und China (als sehr stark) ein. Angehörige westlicher Kulturen ordnen sind etwa im Mittelfeld dazwischen ein. Demnach sind Südeuropäer nicht extrovertierter als Nordeuropäer aber neurotischer. Besonders hoch sind die Werte bei Neurosen in Ländern, die den Zweiten Weltkrieg verloren haben oder im Krieg besetzt waren. Die Werte sinken mit der Zeit, sind aber bei den Verlierern heute noch immer höher als bei den Siegerstaaten.

Besonders bei außereuropäischen Völkern gibt es erhebliche methodische Problemen. Die Persönlichkeitsfragebögen lassen sich nur schwer wortgetreu in die jeweiligen Landessprachen übersetzen und auch die Stichproben sind oft nicht repräsentativ für die Bevölkerung. In Dritte-​Welt-​Ländern wurden besonders häufig Studenten als Testpersonen gewählt. Diese sind meistens sehr westlich geprägt, zudem besteht nur noch ein schwacher Bezug zur Kultur des Landes, was die Ergebnisse entsprechend verfälscht.

Das „Krieger-​Gen“

Durch die zunehmende Entschlüsselung des menschlichen Genoms im Zuge des Human Genome Project haben Wissenschaftler Genabschnitte gefunden, die besonders stark mit einem bestimmten Verhalten korrelieren. Interessant ist die genetische Entwicklung: Allein in den letzten 10.000 Jahren, also der Zeit nach der letzten Eiszeit, haben sich etwa sieben Prozent des Genoms verändert, besonders bei Europäern und Asiaten.

Ein Gen, das von großem Interesse ist, ist das MAOO-​Gen. Seit den 90er-​Jahren hat man starke Zusammenhänge zwischen dem Gen und aggressivem Verhalten gefunden. In der Folgezeit wurde es auch als „Krieger-​Gen“ bekannt. Besonders häufig tritt es bei außereuropäischen Völkern auf.

Ernsthafte Wissenschaft im Zeitalter des Konstruktivismus

Genetik und Kultur stehen sich nur scheinbar gegenüber. Je stärker das genetisch bestimmte Verhaltensmuster eines Menschen dem Ideal seiner Kultur entspricht, desto höher ist auch der individuelle Fortpflanzungserfolg. Das Individuum gibt so seine besser angepassten Gene an seine Kinder weiter. Kulturen züchten sich über längere Zeiträume so auf ein bestimmtes Verhalten hin.

Der Linken all diese Argumente vorzulegen, die für starke Unterschiede zwischen Völkern sprechen, scheint aussichtslos, worauf Andreas Vonderach hinweist. Die Theorie des Konstruktivismus wertet jedes noch so methodisch einwandfrei gewonnene Ergebnis als Mittel zur Herrschaftslegitimation. Nahezu jedes Ergebnis lässt sich auf diese Weise „dekonstruieren“. Letztendlich wird Wissenschaft auf diese Weise politisch.

Vonderachs Buch bietet eine Fülle von Studien, die auf Unterschiede zwischen den einzelnen Völkern hinweisen. Wie auch schon in seinem Buch Sozialbiologie merkt man, dass Vonderach in seinem Themenbereich ein großes Wissen besitzt. Unter dieser Fülle an zusammengetragen Studien leidet allein die Übersichtlichkeit des Buches. Aufgrund einer reichhaltigen kommentierten Bibliographie zu den einzelnen Themen, ist es jedem selbst überlassen, sich in die ihn interessierenden Bereiche weiter hineinzuarbeiten.

Andreas Vonderach: Völkerpsychologie. Was uns unterscheidet. 448 Seiten, Verlag Antaios 2014. 29,00 Euro.

vendredi, 25 avril 2014

Des Amérindiens aux origines en partie européennes

Des Amérindiens aux origines en partie européennes

Radio Canada 
Ex: http://metamag.fr 

Les Amérindiens ne sont pas exclusivement d'origine asiatique, montre le séquençage complet du plus vieux génome humain connu à ce jour. Les analyses montrent qu'ils partagent aussi des gènes avec les Européens. En effet, ce génome montre des similitudes avec ceux des populations autochtones des Amériques de même que ceux des populations vivant aujourd'hui en Eurasie occidentale, mais pas en Asie orientale.


L'analyse a été effectuée à partir de l'os d'un enfant mort il y a 24 000 ans près du lac Baïkal, dans le site paléolithique russe de Mal'ta, en Sibérie. L'équipe internationale dirigée par Eske Willerslev, généticien au Muséum d'histoire naturelle du Danemark, a prélevé un minuscule échantillon (0,15 gramme) du squelette de l'enfant dont les restes ont été retrouvés en 1920 sur le site paléolithique de Mal'ta. Elle est ainsi parvenue à en extraire de l'ADN pour analyser son génome, « le plus ancien jamais décrypté à ce jour pour un homme anatomiquement moderne », conclut-elle dans son étude publiée dans la revue Nature. Le groupe de chercheurs a ensuite comparé l'ADN au génome des humains actuels, en particulier des populations amérindiennes, dont la généalogie reste mystérieuse.

La théorie dominante depuis près de 100 ans laisse à penser que les premiers humains à avoir occupé l'Amérique sont des tribus asiatiques qui auraient franchi le Pacifique en passant par le détroit de Béring, lors d'une glaciation qui avait fait baisser le niveau de la mer entre les côtes sibériennes et l'Alaska.

Les récentes données montrent maintenant que les Amérindiens semblent en effet être génétiquement proches des populations d'Asie orientale, mais ouvrent également d'autres perspectives. Notamment, des crânes présentant des caractéristiques incompatibles avec une morphologie asiatique et appartenant à des hommes vivant bien avant l'arrivée des Européens suivant la découverte du Nouveau Monde par Christophe Colomb.

 
En outre, l'ADN mitochondrial de l'enfant sibérien, transmis exclusivement par la lignée maternelle, a pratiquement disparu aujourd'hui, mais il était fréquent (plus de 80 %) chez les chasseurs-cueilleurs européens de la fin du paléolithique et du mésolithique. Pour ce qui est de son ADN nucléaire, transmis par le père via le chromosome Y, il précède celui des populations occidentales actuelles et est à la base de la plupart des lignées amérindiennes, sans ressemblance forte avec les populations asiatiques. Eske Willerslev affirme : « Nous estimons que 14 % à 38 % des ancêtres des Amérindiens peuvent avoir pour origine génétique cette population sibérienne du paléolithique. »

Ces nouvelles informations laissent à penser que les ancêtres des Amérindiens avaient déjà probablement divergé de ceux des Asiatiques lorsque ce croisement avec les chasseurs-cueilleurs sibériens est survenu. De plus, cette filiation précède le moment où les populations amérindiennes se sont diversifiées dans le Nouveau Monde. Ainsi, selon les auteurs de l'étude parue dans Nature, « la signature génétique occidentale présente chez les Amérindiens actuels ne provient pas seulement de croisements survenus après la découverte de l'Amérique par Christophe Colomb, comme on le pense souvent, mais aussi de l'héritage même des premiers Américains. » L'analyse d'un second échantillon d'ADN, prélevé sur un autre individu sibérien vieux de 17 000 ans, a confirmé leurs résultats en aboutissant à une signature génétique similaire.

NDLR : Le célèbre archéologue russe, Mikhail Gerasimov a déjà établi que les oeuvres d'art préhistorique de la région de Mal'ta présentent de fortes ressemblances avec des figurines féminines d'Europe datant du paléolithique supérieur. Des similitudes semblables concernent les outils et les structures d'habitation.
 

mardi, 22 avril 2014

A skull that rewrites the history of man

A skull that rewrites the history of man

 
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One of the skulls discovered in Georgia, which are believed to date back 1.8 million years
 
 
 
 
 
 

 

It has long been agreed that Africa was the sole cradle of human evolution. Then these bones were found in Georgia...

The conventional view of human evolution and how early man colonised the world has been thrown into doubt by a series of stunning palaeontological discoveries suggesting that Africa was not the sole cradle of humankind. Scientists have found a handful of ancient human skulls at an archaeological site two hours from the Georgian capital, Tbilisi, that suggest a Eurasian chapter in the long evolutionary story of man.

The skulls, jawbones and fragments of limb bones suggest that our ancient human ancestors migrated out of Africa far earlier than previously thought and spent a long evolutionary interlude in Eurasia – before moving back into Africa to complete the story of man.

Experts believe fossilised bones unearthed at the medieval village of Dmanisi in the foothills of the Caucuses, and dated to about 1.8 million years ago, are the oldest indisputable remains of humans discovered outside of Africa.

But what has really excited the researchers is the discovery that these early humans (or "hominins") are far more primitive-looking than the Homo erectus humans that were, until now, believed to be the first people to migrate out of Africa about 1 million years ago.

The Dmanisi people had brains that were about 40 per cent smaller than those of Homo erectus and they were much shorter in stature than classical H. erectus skeletons, according to Professor David Lordkipanidze, general director of the Georgia National Museum. "Before our findings, the prevailing view was that humans came out of Africa almost 1 million years ago, that they already had sophisticated stone tools, and that their body anatomy was quite advanced in terms of brain capacity and limb proportions. But what we are finding is quite different," Professor Lordkipanidze said.

"The Dmanisi hominins are the earliest representatives of our own genus – Homo – outside Africa, and they represent the most primitive population of the species Homo erectus to date. They might be ancestral to all later Homo erectus populations, which would suggest a Eurasian origin of Homo erectus."

Speaking at the British Science Festival in Guildford, where he gave the British Council lecture, Professor Lordkipanidze raised the prospect that Homo erectus may have evolved in Eurasia from the more primitive-looking Dmanisi population and then migrated back to Africa to eventually give rise to our own species, Homo sapiens – modern man.

"The question is whether Homo erectus originated in Africa or Eurasia, and if in Eurasia, did we have vice-versa migration? This idea looked very stupid a few years ago, but today it seems not so stupid," he told the festival.

The scientists have discovered a total of five skulls and a solitary jawbone. It is clear that they had relatively small brains, almost a third of the size of modern humans. "They are quite small. Their lower limbs are very human and their upper limbs are still quite archaic and they had very primitive stone tools," Professor Lordkipanidze said. "Their brain capacity is about 600 cubic centimetres. The prevailing view before this discovery was that the humans who first left Africa had a brain size of about 1,000 cubic centimetres."

The only human fossil to predate the Dmanisi specimens are of an archaic species Homo habilis, or "handy man", found only in Africa, which used simple stone tools and lived between about 2.5 million and 1.6 million years ago.

"I'd have to say, if we'd found the Dmanisi fossils 40 years ago, they would have been classified as Homo habilis because of the small brain size. Their brow ridges are not as thick as classical Homo erectus, but their teeth are more H. erectus like," Professor Lordkipanidze said. "All these finds show that the ancestors of these people were much more primitive than we thought. I don't think that we were so lucky as to have found the first travellers out of Africa. Georgia is the cradle of the first Europeans, I would say," he told the meeting.

"What we learnt from the Dmanisi fossils is that they are quite small – between 1.44 metres to 1.5 metres tall. What is interesting is that their lower limbs, their tibia bones, are very human-like so it seems they were very good runners," he said.

He added: "In regards to the question of which came first, enlarged brain size or bipedalism, maybe indirectly this information calls us to think that body anatomy was more important than brain size. While the Dmanisi people were almost modern in their body proportions, and were highly efficient walkers and runners, their arms moved in a different way, and their brains were tiny compared to ours.

"Nevertheless, they were sophisticated tool makers with high social and cognitive skills," he told the science festival, which is run by the British Science Association.

One of the five skulls is of a person who lost all his or her teeth during their lifetime but had still survived for many years despite being completely toothless. This suggests some kind of social organisation based on mutual care, Professor Lordkipanidze said.

lundi, 17 février 2014

Entretien avec Jared Diamond : Trois leçons de Papouasie

Entretien avec Jared Diamond: Trois leçons de Papouasie

jared-diamond.jpgJared Diamond, biologiste et géographe à l’université de Californie, c’est d’abord l’auteur de deux gros livres, aussi encensés que critiqués. De l’inégalité parmi les sociétés, traduit en 2000 (Gallimard), prétendait tout simplement expliquer le pourquoi de la success story eurasienne. En d’autres mots, il décrivait comment ce continent européen et asiatique, favorisé par son climat et les nombreuses espèces domesticables qu’il abritait, avait au cours de l’histoire longue pris de l’avance sur les autres, et opéré une sortie considérable hors de son aire natale. Les armes, les métaux, mais par-dessus tout les épidémies, apportées par les Occidentaux, avaient assuré le succès de cette expansion mondiale.

Effondrement, traduit en 2006 (Gallimard), c’était le contraire : on y apprenait comment les Mayas, les habitants de l’île de Pâques, les Indiens pueblos du Nouveau-Mexique, les Vikings du Groenland, avaient méthodiquement scié la branche de leur propre civilisation en faisant de mauvais choix agricoles, alimentaires ou autres. C’était l’histoire d’autant d’échecs, contenant en germe la menace d’une plus grande catastrophe, mondiale et encore à venir, liée à l’indécrottable propension de l’espèce humaine à détruire son environnement.

jared.jpgLe public a largement plébiscité ces deux ouvrages, comme en témoigne le grand nombre de langues dans lesquelles ils ont été rapidement traduits.

Les spécialistes n’ont pas toujours aimé l’assurance avec laquelle J. Diamond développe ses thèses, voire ont trouvé qu’elles étaient porteuses d’un message justifiant la colonisation européenne du monde : aux autres revenait la responsabilité de leurs échecs, à nous, le succès historique et la prise de conscience de la réalité des risques à venir. Effondrement, en particulier, eut à essuyer les critiques acerbes d’historiens et d’archéologues de l’île de Pâques. D’après eux, en reprenant la thèse de la déforestation volontaire de l’île par ses habitants autochtones, J. Diamond ne faisait que répandre une vulgate insultante pour les Pascuans, qui, selon eux, avaient surtout été victimes d’épidémies et d’une déportation massive vers le Pérou dans les années 1860. Depuis, la discussion reste ouverte, chacun des cas invoqués par J. Diamond ayant ses spécialistes attitrés : tel est le risque auquel s’exposent ceux qui aiment jouer dans la cour du voisin, un goût que, de toute évidence, J. Diamond possède au plus haut point.

Revoyons son parcours : docteur en physiologie en 1961, il est professeur de ladite matière dès 1966, mais s’intéresse surtout à l’avifaune de la Nouvelle-Guinée, sur laquelle il publie des articles et un livre. À la fin des années 1980, il s’intéresse à l’évolution humaine dans ses rapports avec l’environnement : ce sera pour lui l’occasion de publier un premier gros livre, Le Troisième Chimpanzé (1992), et de se transformer en professeur de géographie, poste qu’il occupe encore actuellement. Ses principaux ouvrages viendront un peu plus tard, mais dans l’intervalle, il travaille sur un thème qui passionne les évolutionnistes, la sélection sexuelle. Cela donne un autre petit livre (Pourquoi l’amour est un plaisir, 1997).

On le voit, les intérêts de J. Diamond sont multiples et changeants, quoique, en réalité, toujours guidés par la même curiosité pour les causes profondes et invisibles, biologiques et physiques, qui font le succès ou le déclin d’une espèce, d’une société ou d’une civilisation. Rassembler des exemples, les comparer, induire une cause probable : telle est la méthode un peu aventureuse qu’en toutes matières, J. Diamond applique, jusqu’à ce nouvel ouvrage, aussitôt traduit. Son titre énigmatique, Le Monde jusqu’à hier, son sous-titre on ne peut plus clair, « Ce que nous apprennent les sociétés traditionnelles », se complètent et déjà suffisent à faire comprendre que J. Diamond, une fois de plus, enfile un autre costume : peu d’évolution, peu de biologie, mais beaucoup d’observation humaine dans ce livre, où l’auteur, plus voyageur qu’anthropologue, compare les mérites respectifs de deux façons d’habiter le monde : l’une moderne, l’autre traditionnelle.

Le Monde jusqu’à hier commence par un souvenir : le spectacle offert par le hall de l’aéroport de Port Moresby, capitale de la Nouvelle-Guinée, il y a quelques années. Qu’y avait-il de si intéressant dans cette scène ?

L’évidence d’une transformation rapide. C’était en 2006, il y avait des écrans sur tous les bureaux, des hôtesses en uniforme et rien ne distinguait cet aéroport d’un autre dans le monde. Lors de mon premier voyage, en 1964, la Nouvelle-Guinée était encore sous mandat australien, le terminal était un hangar en bois, et à Port Moresby, capitale du pays, il n’y avait qu’un seul feu rouge, à l’intersection des deux rues principales et une inscription en pidgin qui contenait un avertissement. C’est ce contraste qui m’a frappé et dont j’ai voulu rendre compte : tant de changements en si peu de temps, c’est sans doute unique dans l’histoire. Ça a été le déclencheur de ce livre.

Pourquoi êtes-vous allé en Nouvelle-Guinée 
si souvent ?

Au début, par pur goût de l’aventure. J’avais un camarade d’études qui, comme moi, rêvait de connaître les tropiques, et nous étions tous deux amateurs d’oiseaux. Alors, après mon diplôme de physiologie, nous avons arrangé un voyage au Pérou, où nous avons fait de l’alpinisme, puis en Amazonie, et là nous n’avions rien d’autre à faire que de nous promener et d’observer la nature. Nous avons publié deux articles sur les oiseaux, et nous nous sommes demandé quel était l’endroit le plus sauvage du monde : c’était la Nouvelle-Guinée. Nous avons monté une expédition ornithologique, nous y sommes allés, et j’ai adoré ce pays. Depuis, j’y suis retourné chaque fois que possible pour y observer les oiseaux, mais aussi tout le reste, parce que c’est un pays fascinant et qu’une fois que vous y êtes allé, vous trouvez le reste du monde très ennuyeux. Et puis les gens de Nouvelle-Guinée, c’était l’humanité en direct : pas de téléphone, pas de fax. Si vous aviez quelque chose à dire, il fallait le dire en face…

Dans vos précédents livres, il y avait chaque fois une grande question sur les sociétés humaines : pourquoi elles réussissent, pourquoi elles déclinent, de quoi elles dépendent. Ce n’est plus le cas dans celui-ci ?

En fait, j’avais surtout envie de raconter mes voyages, mais mon éditeur m’a mis en garde. Il m’a dit : « Jared, les gens attendent de toi quelque chose de plus ambitieux, de plus universel ». Alors le livre a évolué vers une comparaison des sociétés modernes et des sociétés traditionnelles, avec l’aide d’une quarantaine d’exemples pris dans le monde entier et de références à de grands auteurs de la littérature ethnographique. Les questions de départ sont celles que je me suis posées en Nouvelle-Guinée, mais les réponses sont données de manière plus générale. Cela dit, c’est quand même le plus personnel des récits que j’ai donné de mes expériences, et aussi celui où je me risque le plus à faire des recommandations.

Cette réflexion vous mène à opposer certains traits fondamentaux des sociétés modernes, développées, industrielles à ceux des sociétés traditionnelles. Mais de quelles sociétés s’agit-il ?

Dans le prologue, j’explique qu’il s’agit de sociétés transitionnelles plutôt que traditionnelles, qui peuvent être subordonnées d’assez loin à un État, mais qui conservent encore beaucoup de pratiques du temps de leur autonomie : la façon d’élever les enfants, de traiter les anciens, d’entrer en relation avec autrui. Donc, les villages de Papouasie ou d’Amazonie ne sont pas des images exactes de ce qui a existé dans le passé, mais elles restent suffisamment différentes du mode de vie moderne pour avoir quelque chose à nous apprendre.

Quelle serait la première leçon ?

Je dirai le rapport aux inconnus, aux étrangers. Dans les sociétés traditionnelles, quelle que soit la perméabilité des groupes, vous devez toujours obtenir la permission des gens pour traverser leur territoire. Les gens ne voyagent pas très loin et non sans raison. Même s’ils se marient en dehors de leur village, ils ne passent pas certaines limites dans lesquelles tout le monde sait qui est qui. Ils ne fréquentent pratiquement pas d’inconnus, ou bien, si cela arrive, c’est toujours risqué. Si des étrangers arrivent chez vous, c’est rarement avec de bonnes intentions, et on s’en méfie beaucoup.

Dans le mode de vie moderne, dans les villes, nous croisons des tas d’inconnus chaque jour et parlons à des gens que nous ne connaissions pas cinq minutes avant. C’est tout à fait courant, et normalement sans danger particulier. Les inconnus ne sont pas considérés a priori comme menaçants, mais éventuellement comme des occasions de faire connaissance. Ça fait une certaine différence.

L’homme moderne voyage par goût et trouve normal de se retrouver à des milliers de kilomètres de chez lui. À 12 ans, j’avais déjà été dans différentes régions de États-Unis et du Canada, en France, dans les îles britanniques, en Suède et en Suisse. Mes propres enfants, au même âge, avaient voyagé en Afrique, en Australie et en Europe… Dans les sociétés traditionnelles, il était rare que les gens sortent d’un périmètre très restreint.

Quelle autre différence avez-vous remarquée 
et soulignée ?

Il y en a une grande dans tout ce qui touche au traitement des conflits et l’administration de la justice. Dans les sociétés étatiques, il y a un monopole de la force. Si vous provoquez un accident par imprudence, l’État vous poursuivra pour avoir enfreint la loi. Son but est de punir pour dissuader. Par ailleurs, il ne s’occupe pas forcément de réparer les torts qui ont pu être commis contre des victimes et leurs proches.

Dans les sociétés sans pouvoir central, cela se passe d’une autre manière. Les différents et les agressions interviennent entre gens qui se connaissent. L’important n’est donc pas tant de faire respecter des lois que de s’assurer que les gens pourront continuer de cohabiter. On se soucie donc de réconciliation, d’apaisement, et pas particulièrement d’être juste. Ou bien, c’est la vengeance qui l’emporte, et dans ce cas rien n’est résolu.

Aux États-Unis ou en France, en cas de divorce ou de dispute familiale autour d’un héritage, la justice intervient pour dire ce qui est légal de faire : elle ne s’occupe pas de savoir si sa décision permettra aux gens de se réconcilier un jour. Ce n’est pas son problème. De manière courante, le système judiciaire moderne contribue à entretenir l’hostilité des gens qui s’adresse à lui. Le mouvement en faveur d’une justice restaurative, très actif au Canada, en Nouvelle-Zélande et au Royaume-Uni, illustre un aspect de ce que nous pourrions apprendre des sociétés traditionnelles. Ce sont des choses que nous pouvons réaliser individuellement, mais qui mériteraient aussi que l’État s’y intéresse. Ça ne remplace pas la justice pénale, mais ça peut intervenir après, comme une aide à la réconciliation et à la réinsertion des gens.

Ces sociétés ne pratiquaient-elles pas, à l’adolescence, des rites d’initiation très humiliants, parfois même très cruels ?

Cela montre seulement que nous n’avons pas à imiter ni admirer tout ce qu’ils font. Certaines choses sont incompatibles avec notre conception du bien et du mal. D’autres choses sont très bonnes, comme le fait d’allaiter les bébés au sein, ou de les porter avec soi, contre son corps. Ce n’est pas toujours très compatible avec les activités professionnelles modernes, mais c’est bon pour les enfants. D’ailleurs, je ne suis pas un utopiste qui dirait que tout ce que l’on observe dans les sociétés traditionnelles est meilleur que ce que nous faisons. Loin de là : il y a des aspects insupportables, dans les mœurs des Papous, comme de liquider les enfants malingres à la naissance, les vieillards impotents, ou encore pour les femmes, de suivre leur mari dans la mort.

Il y a un aspect de la prudence des Papous qui vous a beaucoup plu. Pouvez-vous nous donner une petite leçon de « paranoïa constructive » ?

Ma femme est psychologue clinicienne, et je sais que ce qu’elle appelle « paranoïa » est une véritable maladie mentale. Le terme est assez péjoratif, mais moi je l’emploie dans un autre sens. Un jour que j’installais un campement en Nouvelle-Guinée, je montai la tente sous un arbre qui avait l’air d’être mort. Les Papous qui m’accompagnaient ont refusé tout net de dormir là : ils ont dit que l’arbre pouvait tomber dans la nuit et les écraser. J’avais beau leur expliquer que cet arbre en avait pour des années avant de tomber, ils ont tenu bon. Alors j’ai commencé à réfléchir que, chaque nuit, on entendait des arbres tomber dans la jungle. Même s’il n’y avait probablement pas plus d’une chance sur mille de se trouver en dessous, si je dormais dehors pendant trois ans, le risque était réel.

J’ai été influencé par ce point de vue et l’ai nommé « paranoïa constructive ». Cela correspond à une différence culturelle, liée au mode de vie beaucoup plus incertain de ces gens : pour eux, une chute, une fracture, une blessure peuvent être fatales, car ils n’ont ni médecins ni hôpitaux à portée de main. Ils sont donc beaucoup plus réfléchis que nous le sommes avant d’agir, car ils subissent les conséquences de leurs imprudences. Nous, modernes, n’évaluons pas correctement les risques que nous prenons. Si l’on demande à un Nord-Américain de définir les dangers qu’il pense les plus graves, il parlera de terrorisme, d’accident d’avion, de typhon, de tremblement de terre… Mais l’un des accidents les plus fréquents, c’est de glisser dans sa salle de bain et de se briser un membre, voire le crâne. Les Papous m’ont appris à voir cela. Ils prennent des risques calculés, et seulement lorsque c’est indispensable. Ils font des choses très dangereuses, telles que chasser la nuit ou pêcher dans des rivières infestées de crocodiles, mais ça leur est indispensable et ils font tout pour minimiser les risques.

Êtes-vous inquiet de la manière dont ces sociétés autochtones se transforment sous l’effet de la modernité ?

À certains égards, oui. Dans les conditions d’autrefois, les gens mouraient majoritairement de maladies infectieuses et contagieuses, d’accidents ou de mort violente. Ce n’est plus le cas des habitants des pays développés qui sont protégés par la médecine et meurent de maladies métaboliques et dégénératives : cancers, affections cardiovasculaires, diabètes, etc. Lorsque des populations autrefois isolées ont accès aux soins et changent de mode de vie et d’alimentation, ils sont souvent touchés de plein fouet par ces affections auxquelles ils n’étaient pas exposés avant : en Polynésie et chez les Inuits, l’obésité fait des ravages, à cause du sel, du sucre et des matières grasses, auxquels ces gens n’étaient pas habitués. Un tiers des Papous qui vivent autour de Port Moresby sont diabétiques, et, à une autre échelle, Chinois et Indiens sont aussi en train de devenir diabétiques. En Europe, aux États-Unis, ce sont les plus pauvres qui souffrent le plus de ces maladies métaboliques. Mais dans les pays émergents, ce sont les classes riches qui connaissent l’obésité et le diabète. C’est vraiment déplorable.

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Notes :

Jared Diamond, biologiste et géographe, est l’auteur de deux best-sellers au moins, De l’inégalité parmi les sociétés (1998) et Effondrement (2005). Il y examinait par le menu les raisons du succès ou de l’échec des civilisations du passé. Il s’est fait connaître comme lanceur d’alerte environnementale et promoteur d’une démarche expérimentale en histoire. Toutes choses fortement documentées et scientifiquement traitées. Mais c’est aussi un ornithologue voyageur, très amoureux de la Nouvelle-Guinée et de ceux qui l’habitent, encore à l’écart des manières modernes. Son dernier livre tient à la fois du récit, du plaidoyer pour les bons côtés de la vie des peuples autochtones et de la comparaison révélatrice de ce que la modernité a fait aux sociétés humaines.

SCIENCES HUMAINES

vendredi, 14 février 2014

Des communautés européennes en voie de disparition...

Des communautés européennes en voie de disparition...

 

par Robert Steuckers

 

Recension: Karl-Markus GAUSS, Die sterbenden Europäer, Unterwegs zu den Sepharden von Sarajevo, Gottscheer Deutschen, Arbëreshe, Sorben und Aromunen, Mit Photographien von Kurt Kaindl, DTV, München, Nr.30.854, 2011 (5. Ausgabe), ISBN 978-3-423-30854-0.

 

die_sterbenden_europaeer-9783423308540.jpgDans l’ABC politique qui nous est cher, déplorer avec anxiété la disparition des faits communautaires, des communautés humaines réelles, de chair et de sang, est une constante, couplée à une anthropologie pessimiste qui ne voit pas de “progrès” dans leur disparition mais qui constate, amèrement, que ce que l’on baptise “progrès” est en réalité une terrible “régression” dans la diversité humaine. Bon nombre d’ethnologues, d’écologistes, d’anthropologues déplorent, à très juste titre, la disparition de langues et de petites communautés ethniques dans la jungle d’Amazonie ou dans les coins les plus reculés de Bornéo ou de la Nouvelle-Guinée. Mais ce triste phénomène se passe en Europe aussi, sous l’oeil indifférent de toutes les canailles qui donnent le ton, qui détiennent les clefs du pouvoir politique et économique, qui n’ont aucune empathie pour les éléments humains constitutifs d’une réalité charnelle irremplaçable si elle venait à disparaître. Pour se rappeler que le phénomène de la “mort ethnique” n’est pas seulement d’Amazonie ou d’Insulinde, il suffit de mentionner la disparition des Kachoubes, des Polaques de l’Eau ou des derniers locuteurs de la vieille langue prussienne (du groupe des langues baltiques), suite à la seconde guerre mondiale.

 

Karl-Markus Gauss, né en 1954 à Salzbourg, est aujourd’hui le directeur de la revue “Literatur und Kritik”. Ses livres sont traduits en de nombreuses langues et obtiennent souvent des prix très prestigieux. “Die sterbenden Europäer” part d’un axiome philosophique fondamental: l’Europe doit sa dimension plurielle, sa qualité culturelle intrinsèque, à l’existence de ces communautés battues en brèche, laminées sous les effets délétères de la pan-médiatisation —qui, comme l’avait prévu Heidegger, allait induire les hommes à oublier ce qu’ils sont vraiment, à ne plus river leurs regards sur les chemins de leur lieu natal— du “tout-économique”, des idéologies réductrices et universalistes, et, enfin, des avatars du jacobinisme étatique et éradicateur qui ne cesse de sévir.

 

La communauté sépharade de Sarajevo

 

Gauss commence par évoquer la communauté sépharade de Sarajevo, issue de la diaspora venue de l’ancienne Espagne musulmane, après la chute de Grenade en 1492 et les autres expulsions qui se sont succédé jusqu’aux premières années du 17ème siècle. La langue espagnole, castillane, s’est perpétuée à Sarajevo jusqu’en 1878, où une autre communauté juive, celle des Achkenazim germanophones, va donner le ton et administrer la Bosnie auparavant ottomane. Les Sépharades de Sarajevo tombaient de haut, en voyant arriver de drôles de coreligionnaires non hispanophones, et n’ont guère montré d’enthousiasme quand il s’est agi, pour eux, de céder la place à ces nouveaux venus qu’ils ne considéraient pas vraiment comme étant des leurs. La guerre de Bosnie commence le 5 avril 1992 précisément par le coup de feu d’un “sniper” embusqué dans le vieux cimetière juif de la ville, aux innombrables tombes portant des poèmes en “spaniole” et aux quelques tombes achkenazes, évoquant des noms hongrois, autrichiens ou bohémiens. Plus tard, l’artillerie des assiégeants s’y arcboutera pour pilonner la ville. Pour empêcher tout assaut contre les pièces, le cimetière a été miné. Il a fallu six mois à une association norvégienne pour enlever les mines. La guerre de Bosnie, et la guerre de 1999 contre la Serbie, qui s’ensuivit, ont donc éradiqué une communauté ancienne, détentrice d’une certaine mémoire d’Espagne transplantée en terres balkaniques. Des 1500 juifs de Sarajevo, 750, les plus jeunes, ont quitté définitivement la ville. Un témoin issu de cette communauté judéo-spaniole, officier instructeur de l’aviation militaire yougoslave, ingénieur et concepteur de drônes avant la lettre, témoigne du départ de tous les jeunes et dit de lui: “Je ne suis pas Israélien, pourquoi donc irais-je en Israël? Je ne suis pas Américain, pourquoi irais-je maintenant en Amérique ... pour y mourir?”.

 

Gauss tire la conclusion: toutes les factions belligérantes s’étaient mises d’accord pour évacuer les Juifs de Sarajevo sous la protection de l’ONU. Ce ne fut donc pas une nouvelle forme d’antisémitisme mais bien un mode nouveau de “philosémitisme” qui porta la responsabilité de cette éradication ethno-communautaire. Le témoin, Moshe Albahari, est clair: il n’y avait pas d’antisémitisme en Yougoslavie ni au sein des factions qui s’entretuaient dans la guerre inter-yougoslave des années 90. Toutes ses factions entendaient protéger la communauté sépharade: elles se haïssaient tellement, qu’il n’y avait plus de place pour d’autres haines en leurs coeurs, précise Albahari. Mais la Bosnie indépendante et divisée, née des conflagrations inter-yougoslaves, est une “entité à drapeaux”, des drapeaux particularistes, à laquelle Albahari, sépharade, ottoman et yougoslavo-titiste, ne peut s’intéresser. Question: ces “drapeaux particularistes” n’ont-ils pas été, paradoxalement, voulu par les théoriciens de l’universalisme pour installer à terme —car tel était le but véritable de la manoeuvre— l’armée américaine dans les Balkans, plus précisément au Kosovo, autre entité étatique nouvelle à idéologie “particulariste” (islamo-albanaise)? Par voie de conséquence, ces idéologies universalistes, tant prisées par les intellocrates et les médiacrates de la place de Paris, y compris les intellocrates sionistes ou judéophiles, ne sont-elles pas les premières responsables, avec leurs commanditaires de Washington, de la disparition de la vieille communauté sépharade de Sarajevo, en dépit du fait que ces intellocrates chantaient les louanges du modèle unificateur et polyethnique de la ville? Une ville qui deviendra essentiellement musulmane, non pas selon un islam ottoman (et tolérant), au sens ancien du terme, mais, comme le souligne Gauss (p. 42), sur un mode néo-islamiste, djihadiste, financé par les Wahhabites saoudiens qui n’ont pas la moindre affinité avec l’islam “spaniole” en exil. Nous touchons là à l’un des paradoxes les plus tragiques de la dernière décennie du 20ème siècle.

 

Les Allemands du Gottschee

 

Pendant 600 ans, une communauté allemande a défriché la forêt du “petit pays”, le Gottschee, 850 km2, et l’a transformé en terres arables et fertiles. Il n’a pas fallu cinquante ans pour que la forêt reprenne tous ses droits et que les villages, jadis florissants, soient devenus inaccessibles derrière un écran touffu d’arbres et de sous-bois. Le Gottschee n’est pourtant pas loin: il se trouve en Slovénie dans le district administratif de Kocevje, à une heure de route de la capitale Ljubljana (Laibach). Le village de Verdreng, comme beaucoup d’autres, a aujourd’hui disparu, à une ou deux maisons près, où vivent encore une poignée d’Allemands, vestiges humains d’un passé totalement révolu.

 

Gotschee.jpg

 

Leur communauté, réduite aujourd’hui au minimum du minimum, s’était constituée au 14ème siècle et, à force de défricher une forêt particulièrement dense, avait fini par bâtir 171 villages agricoles où la culture des céréales et des fruits ainsi que l’élevage du bétail étaient pratiqués. Ces paysans venaient de Carinthie ou du Tyrol oriental; il étaient surtout des cadets de famille, condamnés, en d’autres circonstances, à la domesticité ou au mercenariat: s’ils cultivaient leurs terres pendant neuf ans et un jour, elles leur appartenaient définitivement. Une aubaine dont tous voulaient profiter. Après la grande peste de 1348, qui décime la moitié de la population, le recrutement de nouveaux venus s’effectue en des régions germaniques plus lointaines: le reste du Tyrol, la Franconie et même la Thuringe. En 1492, l’Empereur Frédéric III leur accorde le privilège de devenir marchands itinérants dans la zone alpine, ce qu’ils sont restés jusqu’au lendemain de la seconde guerre mondiale, participant ainsi au désenclavement de leur communauté et en lui apprenant les choses du vaste monde, en modernisant leur allemand médiéval. Leur manière de commercer est demeurée la même au cours de ces cinq siècles: elle était basée sur la seule force physique du colporteur, qui avait sur le dos un “kraxn”, dispositif de bois permettant de porter une charge, un peu comme celui des Franc-Comtois qui transportaient loin vers la Bourgogne, la Champagne ou le Lyonnais des pendules fabriquées à Morteau ou dans les villages du “Pays horloger”. Les natifs du pays de “Gottschee” partaient peut-être au loin mais ils restaient fidèles à leur site d’origine, au “là” de leur Dasein, pour parler comme le Souabe Heidegger.

 

Cette communauté de Gottschee, théoriquement libre, souffrira considérablement du pouvoir des familles qui prendront misérablement le relais des Ortenburg, qui les avaient fait venir en Slovénie, dans l’arrière pays du diocèse d’Apulée, et leur avaient accordé le droit de devenir pleinement libres au bout de quelques années de labeur à peine. Pire: quand les armées ottomanes ravageaient la région, elles pillaient les réserves et emmenaient les paysans allemands en esclavage pour les faire trimer en Anatolie et les y dissoudre dans une population hétéroclite et bigarrée qui n’avait qu’un seul dénominateur commun: l’esclavage. En 1640, les Comtes d’Auersperg héritent du pays et décident de le développer: l’âge d’or du pays de Gottschee vient alors de commencer pour se terminer au lendemain de la Grande Guerre. Au 18ème siècle, les idées éclairées de l’Impératrice Marie-Thérèse et de l’Empereur Joseph II contribuent au développement de ces Allemands de souche exclavés, vivant de leur agriculture traditionnelle et autarcique et de leur commerce réduit à l’aire alpine et véhiculé à dos d’homme. Au 19ème siècle, cette communauté isolée envoie tant de ses enfants en Amérique qu’il y aura plus de “Gottscheer” au-delà de l’Atlantique en 1920 que dans le pays lui-même. Le premier Etat yougoslave commence une politique de “slovénisation” et de “dégermanisation” forcée, tant et si bien que lorsque les autorités nationales-socialistes rassemblent la population pour la déplacer à l’intérieur des frontières du Reich, les jeunes gens du pays ne parlent quasiment plus l’allemand: leur langue natale est si mâtinée de slovène que leurs voisins autrichiens ne les comprennent plus.

 

Pendant l’hiver 1941/1942, Hitler —qui, ici, ne se fait pas le défenseur des communautés allemandes excentrées— donne en effet l’ordre de déplacer la population locale allemande (13.000 habitants) pour offrir le terrain aux Italiens, en passe d’annexer cette partie de la Slovénie; simultanément, les partisans communistes slovènes s’emparent de la région et commencent l’épuration ethnique contre le millier de germanophones qui avaient décidé de rester, en dépit des ordres de Berlin. Quand les Italiens s’emparent d’un village tenu par les partisans, ils le rasent. Quand les partisans chassent les Italiens, ils font sauter toutes les maisons, désormais vides. On estime à 650 le nombre de “Gottscheer Deutsche” qui demeureront en Slovénie au lendemain de la seconde guerre mondiale. Tous contacts avec les “Gottscheer Deutsche” émigrés (de force) vers l’Allemagne ou l’Autriche sera formellement interdit par les autorités titistes jusqu’en 1972.

 

Ni les Allemands ni les Italiens ni les Slovènes ne tireront bénéfice de ces confrontations fratricides entre Européens: 80% de la région sont redevenus forêt. Cette régression est due aussi, explique Gauss (p. 58), à l’idéologie communiste: aucune famille paysanne, d’aucune nationalité que ce soit, n’était prête à se retrousser les manches pour redonner vie au pays, s’il fallait bosser selon les directives d’apparatchiks ignorants. Pire, le gouvernement titiste-communiste ordonne que la moitié de la région, désormais désertée, devienne une zone militaire, d’où les derniers Slovènes sont à leur tour expulsés en 1950. La “vox populi” chuchote que la nomenklatura avait décrété la militarisation de cette micro-région, non pas pour des motifs de défense nationale, mais pour qu’elle soit une réserve de chasse et de pêche exclusive, au bénéfice des apparatchiks, ou une zone de ramassage des meilleurs champignons, fins des fins de la gastronomie slovène et carinthienne.

 

L’ère titiste est désormais définitivement close. Le projet du nouvel Etat slovène et des financiers eurocratiques est de transformer la micro-région, auparavant germanophone, en une zone vouée au tourisme écologique, aux citadins randonneurs et aisés, aux chasseurs d’ours, aux amateurs de kayak sur petites rivières à débit rapide. La région ne retrouvera donc pas son charme d’antan. Après l’effondrement de la Yougoslavie dans les années 90 du 20ème siècle, la Slovénie post-communiste organise un sondage qui demande aux habitants du nouvel Etat à quelle nationalité ils s’identifient: 191 Slovènes se déclareront de nationalité autrichienne, 546 de nationalité allemande et 1543 se définiront comme “germanophones”. Ces quelques deux mille Slovènes germanophones ne sont toutefois pas tous des “Gottscheer Deutsche”, car la Slovénie abritait d’autres minorités allemandes. La répartition des “nationalités” effectives —que l’on distinguera du ridicule concept franco-jacobin de “citoyenneté” (où le citoyen est alors un être totalement désincarné et sans substance, un être fantômatique et zombifié, que tous peuvent devenir par simple déclaration, fussent-ils originaires des antipodes)— est extrêmement complexe dans la région, explique Gauss: Maribor/Marburg, aujourd’hui en Slovénie, comptait 80% d’habitants germanophones en 1910, alors que Klagenfurt/Celovec, aujourd’hui ville autrichienne de Carinthie, comptait bien plus que 20% de slovénophones à la même époque. En 1991, année du sondage slovène sur les nationalités effectives du pays, deux associations regroupant les germanophones de la micro-région de Gottschee se créent pour encadrer vaille que vaille le reste bien chiche d’une population qui avait compté environ 70.000 Allemands. Pourtant, la modestie de cette communauté germanophone résiduaire a fait paniquer les Slovènes qui entrevoyaient tout à coup le retour offensif des Autrichiens et des Allemands, après le départ des Fédéraux yougoslaves et des Serbes. Entretemps, 60.000 citoyens des Etats-Unis se déclarent originaires du “Ländchen” de Gottschee, plus qu’il n’en vivait là-bas, en Slovénie, à l’âge d’or de cette communauté.

 

Les Arbëreshe de Calabre

 

Nous sommes à 250 km de Naples dans le village de Civita, 1200 habitants, pour la plupart de souche albanaise. On les appelle les “Arbëreshe” parce qu’ils ont quitté la région d’Arbënor dans le sud de l’Albanie, il y a 500 ans. Le village semble peuplé de vieux hommes, revenus au pays après avoir bossé partout dans le monde, où leur descendance est dispersée. La Calabre compte une trentaine de villages albanophones, dont les habitants sont allés travailler en Italie du Nord, en Allemagne, en Suisse, en Belgique ou en Scandinavie. Au soir de leur vie, ils reviennent au pays de leurs ancêtres. Ceux-ci sont arrivés en Italie du Sud en 1468, par bateaux entiers, l’année où leur héros national, Gjergj Kastriota, alias Skanderbeg, meurt au combat, invaincu, face aux armées ottomanes. Les réfugiés qui arrivent au 15ème siècle en Italie sont ceux qui refusent l’ottomanisation et l’islamisation. Ils repeupleront les villages de Calabre, ravagés par la peste, la guerre, les séismes. Leur religion est marquée par les formes byzantines que l’Eglise catholique italienne accepte bon gré mal gré d’abord, sans réticence ensuite: même un Paul VI, qui a voulu balancer aux orties toutes les formes traditionnelles, finit par accepter les dérogations cultuelles accordées aux catholiques albanais de rites byzantins. Les prêtres catholiques des “Arbëreshe” sont mariés (mais non leurs évêques); ils donnent du pain et non des hosties à la communion; seule différence: ils reconnaissent tout simplement l’autorité du Pape romain, qui protègeait jadis leur nouvelle patrie contre toute offensive ottomane.

 

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Le Roi espagnol des Deux-Siciles leur accorde des privilèges en Sicile, en Calabre, en Apulie et dans le Basilicat où leur mission est de refertiliser des terres laissées en friche. Sept vagues successives, en deux cents ans, amèneront un demi million d’Albanais en Italie. Ils sont venus en même temps que des Grecs, qui, eux aussi, ont gardé leurs rites orthodoxes, de “Schiavoni” slaves et d’“Epiroti” (d’Epire). L’ancien royaume des Deux-Siciles était certes majoritairement italien mais il comptait aussi de fortes minorités italo-albanaises et italo-grecques, parfaitement intégrées tout en demeurant fidèles à leurs racines et à leur langue. Dans les troupes de Garibaldi, de nombreux Italo-Albanais ont combattu vaillament, au point que le nouvel Etat leur a d’emblée autorisé à créer des écoles où l’on enseignait les deux langues, l’italien et l’albanais. Les Arbëreshe sont donc des “doubles patriotes”, écrit Gauss (p. 106): ils sont albanais par la langue, qu’ils refusent d’oublier, et italiens par patriotisme envers la terre qui les a accueillis jadis. Dans les armées de Garibaldi et dans celles de Mussolini, les Albanais de l’ex-royaume des Deux-Siciles ont répondu “présents”!

 

Gauss a rencontré un certain Emanuele Pisarra qui lui a déclaré: “Nous ne sommes pas les meilleurs des Albanais, nous sommes les vrais Albanais!” Pourquoi? Parce que le stalinisme d’un Enver Hoxha a malheureusement transformé les fiers “Shkipetars” d’Albanie en égoïstes indignes, oublieux de leurs véritables traditions, uniquement soucieux de posséder une belle auto et une télévision, quitte à s’affilier à un réseau mafieux. Le stalinisme, pour Pisarra, avait pris le relais d’un islam ottoman, déjà annihilateur de véritable “albanitude”, de fierté nationale et d’esprit de liberté. En 1991, quand l’Albanie se dégage de la cangue communiste et que des bateaux bourrés de réfugiés abordent les côtes italiennes, Pisarra fut un des premiers à tendre la main à ces compatriotes d’au-delà de l’Adriatique, à proposer des cours, à chercher à favoriser leur intégration: il a vite déchanté. Les réfugiés islamisés et stalinisés ne veulent recevoir aucune formation, n’ont aucune empathie pour l’histoire de leurs frères albanais d’Italie méridionale. Ils veulent devenir vite riches dans le paradis capitaliste. Pire, déplore Pisarra, ils ne parlent plus la belle langue albanaise que les Arbëreshe ont cultivée pendant cinq siècles en dehors du pays d’origine: la langue s’est appauvrie et abâtardie. “Ils ont désormais une autre religion, une autre langue, d’autres valeurs, ils sont différents”, déplore Pisarra. Ils ne partagent pas la vraie culture albanaise. A l’exception, sans doute, des “Arvénites” albanophones de Grèce, qui n’avaient pas traversé la mer au 15ème siècle mais s’étaient dirigés vers le Sud grec-orthodoxe. Les “Arvénites” orthodoxes de Grèce, tout comme les “Arbëreshe” catholiques d’Italie, sont atterrés par le comportement matérialiste de ceux qui quittent l’Albanie ex-communiste ou le Kosovo pro-atlantiste pour venir embrasser de façon si obscène la “civilisation du Coca-Cola et du frigidaire de Tokyo à San Francisco”.

 

La culture albanaise (la vraie!) connaît cependant une réelle renaissance en Italie depuis quelques années. D’abord parce que l’Italie accepte ses propres minorités et promeut le bilinguisme partout où il s’avère de mise. Pour Gauss, le bilinguisme des minorités constitue, au sein de la nouvelle culture italienne, une sorte d’avant-garde capable d’être pleinement et naturellement “diversifiée” et “diversificatrice”, au sens de ce pluralisme ethnique non politisé qui a toujours fait le charme de l’Europe, avec des minorités qui passent avec une aisance stupéfiante d’une langue à l’autre dans les conversations de tous les jours. Le train de lois votées en Italie en 1999 reconnaît aux Albanais le statut de minorité, le droit d’enseigner la langue dans les écoles et d’être servis en “Arbëreshe” dans les services publics. Le temps des jacobinismes est bel et bien terminé en Italie. Un exemple pour d’autres!

 

Les Sorabes d’Allemagne

 

La région s’appelle la Lusace. Elle est longue d’une centaine de kilomètres, à cheval sur les “Länder” du Brandebourg et de la Saxe, à proximité des frontières polonaise et tchèque. Elle englobe les villes de Cottbus, Hoyerswerda et Bautzen, et de nombreux villages pittoresques. Elle est peuplée d’une ethnie slavophone: les Sorabes, dont le parler est proche du tchèque voire du polonais. Les Sorabes résiduaires, les plus ancrés dans leurs traditions, sont catholiques dans un environnement germano-sorabe majoritairement protestant; ils sont fidèle au culte marial, notamment lors des pèlerinages de Rosenthal. Tous les Sorabes portent deux noms: un nom allemand (pour l’état civil), un nom slave (pour la vie quotidienne). Exemples: Lenka Rjelcec est Elisabeth Rönschke, Jan Mlynk est Hans Müller. C’est comme ça. Depuis quelques siècles. Et personne ne s’en formalise.

 

sprachgebiet.jpgEn 805, les armées de Charlemagne s’ébranlent pour convertir les païens saxons et slaves (les “Wenden”), les inclure dans l’Empire franc afin qu’ils paient tribut. Seuls les Sorabes résistent et tiennent bon: de Magdebourg à Ratisbonne (Regensburg), l’Empereur est contraint d’élever le “limes sorbicus”. Assez rapidement toutefois, la tribu est absorbée par le puissant voisin et connaît des fortunes diverses pendant 1200 ans, sans perdre son identité, en dépit des progressistes libéraux du “Kulturkampf”, qui entendaient éradiquer la “culture réactionnaire” et des nationaux-socialistes qui suppriment en 1937 tout enseignement en sorabe et envisagent le déplacement à l’Est, en territoires exclusivement slaves, de cette “population wende résiduaire” (“Reste des Wendentums”).

 

Gauss constate que les éléments sont nombreux qui ont permis à cette identité sorabe de subsister: la langue, bien sûr, mais aussi les coutumes, les pèlerinages et les processions (équestres, mariales et pascales), les costumes traditionnels. Le plus spectaculaire de ces éléments demeure indubitablement la procession équestre de Pâques, à laquelle des milliers de Sorabes prennent part. La RDA communiste, slavophile par inféodation à Moscou, au Comecon et au Pacte de Varsovie, n’a pas interdit ce folklore et cette “chevauchée pascale” (“Osterritt”), au nom du matérialisme dialectique et de l’athéisme officiel, mais les chevaux disponibles s’étaient considérablement raréfiés, vu la collectivisation du monde agricole. Peu de Sorabes possédaient encore un cheval personnel. Des coutumes païennes immémoriales ont survécu en Haute-Lusace, comme celle du “mariage des oiseaux” (“Vogelhochzeit”), où l’on sacrifie des animaux aux ancêtres avant de les consommmer collectivement, ou celle de la “décapitation des coqs” (“Hahnrupfen”), où les garçons doivent décapiter un gallinacé avant de pouvoir danser avec l’élue de leur coeur sur la place du village. Comme dans les Alpes et à Bruxelles, les Sorabes plantent aussi l’“Arbre de Mai”. Ce folklore, marque indélébile de la “culture réactionnaire” des “Wendes résiduaires”, attire cependant de plus en plus d’Allemands, lassés des religions officielles anémiées et “modernisées”. Tous, même s’ils n’allaient plus à l’église ou au temple, y redécouvrent la vraie religion populaire. La messe ou l’office dominical(e) n’épuise pas la religion: celle-ci vit bien davantage dans les pèlerinages ou les processions, expression de la religion vraie et fondamentale, en dépit du vernis chrétien.

 

Les Sorabes ont donc résisté au progressisme du 19ème siècle, au national-socialisme et à sa politique de germanisation totale, au communisme de la RDA. La Lusace est le pays de la lignite, matière première nécessaire à la construction de “la première république allemande des ouvriers et des paysans”. L’industrialisation forcée, tablant en partie sur l’exploitation de ces gisements de lignite, devait englober tout le pays, jusqu’à ses coins les plus reculés. La collectivisation communiste de la Haute-Lusace s’accompagne de drames, d’une vague de suicides sans précédent. Les propriétaires de petites fermes modestes, transmises de père en fils depuis des siècles, se pendent quand les milices communistes viennent saisir leurs patrimoines immobiliers pour les inclure dans le système néo-kolkhozien. Ou quand les camions viennent chercher leurs avoirs pour transplanter leurs familles dans les clapiers des nouvelles banlieues: le parti a veillé à tout, ils ont désormais un centre culturel, une salle de sport et des jardins d’enfants. Mais, ils n’ont plus de terroir, de glèbe. La RDA a certes donné l’autonomie culturelle à ses citoyens sorabes mais l’exode forcé hors des villages vers les clapiers d’Hoyerswerda a contribué à les germaniser avec plus d’efficacité que la politique répressive des nationaux-socialistes. Quant à la RFA, après la réunification, elle a reproché aux Sorabes germanisés par les communistes de s’être insurgés contre le parcage dans leurs villes de vrais ou faux réfugiés politiques venus d’on ne sait où, pour bénéficier des avantages du système social allemand. Ces cibles du national-socialisme, soucieux de se débarrasser enfin des “résidus du ‘Wendentum’”, sont du coup devenus de la graine de néo-nazis, que l’on fustigeait à qui mieux mieux avec le zèle hystérique de la prêtraille médiatique!

 

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Résultat: s’il y avait 200.000 Sorabes recensés au 15ème siècle, et 300 villages bas-sorabes au 18ème, il n’y a plus aujourd’hui que quelques communes sorabes autour de Cottbus; elles sont principalement catholiques, les protestants, majoritaires et moins enclins à pratiquer les rituels ruraux qui donnent aux traditions sorabes tout leur lustre, ayant été rapidement germanisés par les pasteurs, qui, souvent, n’acceptaient que des enfants germanophones pour les préparer à la confirmation.

 

Les Aroumains de Macédoine

 

Les Aroumains sont une ethnie sans terres compactes, dispersée dans une quantité impressionnnante d’isolats semi-urbains ou ruraux ou dans les grandes villes des Balkans méridionaux, essentiellement dans l’actuelle République post-yougoslave de Macédoine. Au départ, ces locuteurs d’une langue romane proche du roumain avaient pour fonction, dans le Sud de la péninsule balkanique, d’escorter les caravanes qui pèrégrinaient entre Venise et Byzance. On évalue leur nombre à un demi-million d’âmes. Seule la Macédoine les reconnaît comme minorité. Au moyen âge, ce peuple de marchands et d’intermédiaires était réputé, hautement apprécié: on le connaissait en Europe du Nord, où ses ressortissants venaient acheter des marchandises, et son centre névralgique était Moschopolis, une ville aujourd’hui en ruine, totalement abandonnée, située en Albanie. Ce peuple porte aussi d’autres noms: le terme français “aroumain” dérive en droite ligne de l’appelation qu’ils se donnent eux-mêmes, les “armâni”; les Albanais les nomment “Remeri”, les Grecs, les “Vlaques”, les Serbes, les “Vlassi”. D’autres noms circulent pour les désigner, comme les Çobanë, la Macedoneni, les Kutzowlachen ou les “Zinzars” (Tsintsars). Les communautés aroumaines ne vivent pas en vase clos, rappelle Gauss, car ils ont participé à tous les mouvements d’émancipation nationaux-populaires dans les Balkans, depuis les temps héroïques de la révolte grecque chantée par Lord Byron, qui rencontrera d’ailleurs bon nombre de “philhellènes” qui étaient en réalité des Vlaques aroumains. Ne désirant pas perdre tout crédit au sein de cette population jugée intéressante, le Sultan turc Abdoul Hamid reconnaît leur nationalité dans un firman de 1905. Cependant, la phase finale des guerres de libération balkaniques s’achève en 1913, quand la Sublime Porte doit abandonner toutes ses possessions européennes, sauf la Thrace entre Andrinople/Edirne et Istanbul. Du coup, les Aroumains sont répartis sur quatre Etats nouveaux qui veulent absolument faire coïncider ethnicité et citoyenneté, ce qui n’est possible que par un alignement inconditionnel et assimilateur sur l’ethnie majoritaire. Les Bulgares et surtout les Grecs seront les plus sévères à l’égard des Aroumains: ces locuteurs d’un parler roman qui sont orthodoxes comme les Roumains auront été finalement mieux reconnus par les Ottomans d’Abdoul Hamid que par leurs frères orthodoxes, aux côtés desquels ils avaient combattu les Turcs!

 

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Leurs revendications actuelles, finalement fort modestes, correspondent tout simplement à ce qu’Abdoul Hamid était prêt à leur accorder le 20 mai 1905: cette date du 20 mai est devenue celle de la fête nationale de tous les Aroumains. La déréliction que vivent les Aroumains, sauf en Macédoine, a fait naître auprès de leurs conteurs une mythologie nationale grandiose: ils seraient les descendants directs des Pélasges préhelléniques et Alexandre le Grand aurait été un des leurs. De ce fait la langue “macédono-aroumaine” n’est pas une forme de néo-latin, née après la romanisation d’une partie des Balkans et surtout de la Dacie: elle est bel et bien la langue originelle de la région, à peine mâtinée de latin d’Italie.

 

Sur le plan politique, les Aroumains regrettent l’ère titiste en Yougoslavie, car le régime les avait autorisés à avoir des associations culturelles propres. Ils reprochent toutefois à Tito d’avoir été un communiste car cette idéologie ne leur permettait plus d’exercer leur fonction traditionnelle de négoce. Aujourd’hui, ils se félicitent des dispositions bienveillantes que leur accordent les autorités macédoniennes mais se méfient de l’albanisation croissante de cette république ex-yougoslave car en Albanie, où les Aroumains sont la minorité la plus importante, ils ne sont nullement reconnus. Au Kosovo, nouvel Etat né par la grâce de l’idéologie américaine et “droit-de-l’hommarde”, les Aroumains sont persécutés par les bandes de l’UÇK, au même titre que les Serbes ou les Roms. En Macédoine, ils peuvent à nouveau “aroumainiser” leurs patronymes. Le peintre aroumain Martin s’est en effet appelé Martinovic en Serbie et Martinov en Bulgarie, avant de devenir Martinovski en Macédoine. Les Aroumains ont certes été respectés pour leur savoir-faire et pour leur niveau culturel élevé mais, dans les Etats ethno-nationaux des Balkans, ils ont toujours été considérés comme “suspects”: les Albanais les prennent pour des “Grecs déguisés” cherchant à arracher le Sud de l’Albanie pour la livrer aux Hellènes. Les Grecs, eux, les considérent comme un reliquat pré-hellénique au niveau de civilisation fort bas ou comme des “agents macédoniens”. Les Bulgares les accusent d’être des “Macédoniens yougoslavistes” refusant de participer à la création d’un “saint royaume bulgaro-macédonien” englobant une bonne part de l’actuelle République de Macédoine. Dans le contexte européen actuel, ces suspicions ne sont évidemment plus de mise.

 

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En Grèce, la plupart des Aroumains/Vlaques vivent dans un isolat de la région des Monts Pindos mais sont soumis à une politique d’assimilation forcenée: le terme qui les désigne, “Vlaque”, est devenu synonyme, en grec, de “primitif”, d’”homme des bois”, d’”inculte”, d’”idiot”. Cette propagande négative incessante fait que bon nombre de Vlaques, aussi pour éviter la déportation vers d’autres régions ou vers des îles arides de l’Egée, abandonnent leur identité romane, ne la transmettent plus à leurs enfants, phénomène navrant que l’on a vu se produire ailleurs en Europe aussi, le jacobinisme français n’ayant pas fait de cadeaux aux Bretons celtophones, jugés “arriérés” comme Bécassine, le britannisme anglais ayant également traité les sujets irlandais de leurs rois et reines de “primitifs” et le système belge ayant considéré parfois sa majorité (!) flamande de la même manière, au nom d’on ne sait trop quelle “excellence”. L’ingénieur “grec” Vasile Barba, de souche aroumaine, lutte pour la survie de son peuple en Allemagne, où il anime un “Zentrum für aromunische Studien” à Fribourg-en-Brisgau. Il est une voix très écoutée et très respectée dans les communautés aroumaines éparses de Grèce, de Bulgarie et de Macédoine.

 

Le sort des minorités aroumaines nous permet de formuler quelques suggestions: 1) la mémoire balkanique ne peut se passer de la mémoire “aroumaine”, d’autant plus qu’elle est romane au beau milieu d’un monde slave, hellénique et illyrien-balkanique; cette spécificité doit donc être protégée; 2) on s’aperçoit que l’immixtion américaine au Kosovo a déjà fortement ébranlé le patrimoine serbe-orthodoxe, suite aux vandalisations des monastères et des bibliothèques par les milices atlanto-wahhabites stipendiées par Washington; le travail de Gauss nous apprend que les communautés aroumaines, parce qu’orthodoxes, subissent là-bas le même sort au nom de l’idéologie des droits de l’homme et du fondamentalisme saoudien. Il est temps, pour les esprits lucides, de dénoncer, au nom du droit concret des minorités et au nom de la défense du patrimoine mondial, cette collusion malsaine que les médias véreux camouflent soigneusement car il est bien entendu que l’Oncle Sam a, pour ces mercenaires, le droit inaliénable de s’allier avec n’importe qui, avec n’importe quel ramassis d’iconoclastes, pour pouvoir à terme disposer de sa grande base au beau milieu de la province serbe du Kosovo afin de contrôler étroitement l’espace pontique, la péninsule balkanique, l’Anatolie et le bassin oriental de la Méditerranée (avec le Canal de Suez).

 

Robert Steuckers.

(février 2014).

The Importance of Population Structure & Dynamics

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The Importance of Population Structure & Dynamics

By Andrew Hamilton 

Ex: http://www.counter-currents.com

In trying to conceptualize what a current, or indeed ongoing, global head count of whites would look like (no such reliable enumeration exists [2]), it is imperative to keep in mind the age structure and reproductive profile of whatever population exists, as well as the dynamics of rapid change along key vectors. Nothing is stationary or mirrors the past. Habitual patterns of thought quickly become outmoded without anyone being aware of it.

Contemporary demographic statistics conceal racial information. Elites are obsessed by race, and particularly with accelerating in any way possible the decline and disappearance of the white race. But meaningful data on ethnicity do not exist. It is the only major variable not regularly measured or recorded by demographers. If such figures were available, they might jeopardize indefensible policies.

Given replacement migration, exceptionally high non-white birth rates, sub-replacement fertility among whites, and widespread culturally-encouraged hybridization with non-whites in all formerly white homelands around the world, the opposite ends of the national age spectrum everywhere now feature a predominantly white elderly population and an increasingly non-white youth population.

As a consequence, former First World nations are composed more and more of non-whites and hybrids. The process is taking place with lightning speed. Thanks to an indispensable assist from dishonest media, academia, and governments, plus draconian and repressive laws, even white racialists, never mind the public, fail to grasp the urgency of the situation.

The aging and death of baby boomers born between 1946 and 1964, currently in progress, will in short order eradicate a numerically large proportion of the remaining white populace. Despite the lack of precise data, we nevertheless know the overall trends, so revolutionary and sweeping are the top-down social changes that have been imposed.

To better understand the crisis, it is helpful to employ a demographic tool known as the population pyramid. A population pyramid is a graphical representation of the distribution of age groups, usually by country or region, shaped like a pyramid when populations are young and growing.

There are three basic shapes.

The classic pyramid: A young, rapidly growing population with a high birth rate. This is characteristic of many non-white races today, and of vibrant subpopulations such as Orthodox Jews.

The box: A stable, replacement-level population characterized by low infant mortality, little or no demographic growth, and long life expectancy.

The inverted, or upside-down, pyramid: Low birth rate, collapsing population, long life expectancy. This is characteristic of the white race.

Pyramid graphs consist of two back-to-back bar graphs, with population plotted on the X-axis and age on the Y-axis, one showing the number of males and the other females in five-year age cohorts. Males are conventionally shown on the left and females on the right, measured either by raw numbers or as a percentage of the total population. Typically there are more women than men in older age categories due to females’ longer life spans. On the other hand, women have shorter reproductive periods than men, a fact useful in interpreting the graphs though not incorporated directly into them.

Although population pyramids by race cannot be constructed due to lack of relevant statistics, the device is nevertheless useful to illustrate general trends that everyone knows are occurring. Broadly speaking, rapidly expanding nonwhite races both outside and inside the First World are characterized by age structures indicative of growing populations: a “population explosion” with many young and few old, many births and few deaths. The shape of the population pyramid for Angola (an African country) may be taken as representative of nonwhite birthrates, inside and outside the “West,” be they Mestizo, Muslim, or anything else. (There are some notable exceptions.)

Representative Age Pyramid for an Expanding Nonwhite Race (Angolan age pyramid, 2005) [3]

Representative Age Pyramid for an Expanding Nonwhite Race (Angolan age pyramid, 2005)

This is how the white population looked in the 19th and early 20th centuries. But one must go beyond the static snapshot to the underlying dynamics. A race such as this has built-in momentum for future growth because so many young people will reproduce at high rates in the future even if total fertility gradually falls.

Contrast this with the rapidly aging and collapsing white populations of today, characterized by many old and few young, many deaths and few births. A contemporary population pyramid for our people would resemble the following hypothetical construct (not a representation of any actual white population, the data for which is unavailable):

Hypothetical Inverted Age Pyramid of the White Race (demographic collapse) [4]

Hypothetical Inverted Age Pyramid of the White Race (demographic collapse)

A simple head count (census) of living whites, though indispensable, does not convey an accurate picture of what is really happening. Older cohorts constituting the largest chunk of an upside-down pyramid, though still alive, do not directly contribute children to future generations because they are beyond the close of their reproductive period.

Female fertility peaks between ages 18 and the mid-20s. As a woman approaches 30 her hormone levels start to decline and her fertility also begins to slowly decline. After age 35 the decline accelerates.

A Mayo Clinic guide states that female fertility rates “remain relatively stable until the early 30s, and then they decrease to very low levels by the early 40s.” Broken down further by the same source (Robert V. Johnson, M.D., Editor-in-Chief, Mayo Clinic Complete Book of Pregnancy & Baby’s First Year, New York: William Morrow, 1994, p. 5):

  • Ages 18-24: peak female fertility
  • Ages 30-35: fertility is 15%-20% less than maximum
  • Ages 35-39: fertility is 25%-50% below maximum
  • Ages 40-45: fertility falls to 95% below maximum

“Ultimately, age is still the most important factor when it comes to fertility prediction,” Dr. Mark Perloe, an Atlanta fertility specialist says. “If you’re in your early 40s, the odds are against getting pregnant without help, no matter what the tests say. The odds are much better in your late 30s or younger.”

The risk of miscarriage also increases after age 35, and even more after 40, as do numerous other risk factors, including having a child with chromosome abnormalities such as Down syndrome (mental retardation).

Menopause, which occurs in the late 40s or early 50s in most women, marks the end of the natural ability to bear children. However, as the preceding discussion demonstrates, it is necessary to differentiate between fertility and menopause. It is not as clear-cut as “I can have children until I reach menopause.”

Curiously, in other primate species females continue to reproduce until decrepitude or death overtake them. But among humans a woman loses her capacity to reproduce while still in vigorous middle age.

“‘Certain ethnic groups may have menopause at slightly different ages. Hispanic and African-American women reach menopause a little earlier, and Chinese and Japanese women a little later, than the average Caucasian woman, who reaches menopause at about age 51.5.’ Those are averages; every woman is different.” (Source [5].)

Widespread Ignorance About the Biological Clock

Surprisingly, many contemporary women have little idea how rapidly fertility declines with age. By the time a woman hits 44, it is almost nonexistent. Pregnancy beyond 47 is extremely rare, although it has been medically documented as late as 61.

Fertility treatments may extend the reproductive window slightly, but are extremely expensive and subject to age cut-offs. In Canada, fertility specialists generally will not accept women past their mid-40s. At age 40, even with in vitro fertilization (IVF), the success rate is only about 40%.

According to Dr. Roger Pierson, a Canadian fertility specialist, “Everybody in the reproductive world is shocked at how much ignorance there is. Women get their information from the rather dubious magazines that tend to lurk around the checkout counters of grocery stores.”

In 2009, Britain’s Royal College of Obstetricians and Gynaecologists (RCOG) went so far as to issue a public warning [6] that women should become mothers by the age of 35 or risk infertility, miscarriage, or other health problems:

Our statement has been prompted by concern among obstetricians and gynaecologists because we are seeing more and more [older] women who are confronting the heartbreak of infertility and miscarriage. Every week in my clinic I see women who say ‘if only I had known this, I could have planned for this. I wouldn’t have postponed my plans for pregnancy’.” The college fears too many women still do not understand that their fertility declines after 35.

A University of Calgary professor added: “Women have been given the impression that biology doesn’t matter and they can do whatever they like.”

Male fertility (as distinct from related problems, including erectile dysfunction) likewise declines with age, though far less radically. Some men are biologically capable of having children well into old age. However, as a practical matter this does not happen very often. Therefore, most men by their 50s can probably be considered reproductively irrelevant.

Such information suggests roughly where you should draw an imaginary line through the upside-down pyramid to indicate the age level below which, as a practical matter, the population remains potentially reproductive. Whether it actually reproduces white (non-hybrid) children within stable, nurturing family structures is another matter entirely. Sub-replacement fertility even after large-scale nonwhite and hybrid birthrates are misleadingly factored in strongly suggests that it does not.

In racial terms, selection occurs whenever one ethnic group successfully propagates its genes relative to other groups. “Differential fecundity,” Ukrainian-American geneticist Theodosius Dobzhansky observed, “is, in principle, as powerful a selective agent as differential survival or mortality” (Genetics of the Evolutionary Process, 1970, p. 97).

Human races can expand and contract quickly, both in absolute terms and relative to other races. They grow, shrink, collapse, and become extinct. William Pierce, a physicist steeped in mathematical knowledge, noted that “wherever two racial groups occupying the same territory have different growth rates, the faster-growing group will always overwhelm the slower-growing group numerically, given sufficient time, no matter how much larger the latter may be in the beginning.” (“World’s Deadliest Threat: The Race Bomb,” National Vanguard newspaper, Issue No. 82, 1981; reprinted in Kevin Alfred Strom, ed., The Best of Attack! and National Vanguard Tabloid, 1970–1982 [1984], p. 207)

Italian demographer Massimo Livi-Bacci summed up the dynamics of the present crisis:

We are able to recognize the exceptional nature of the current situation if we keep in mind that a population growing at an annual rate of 4 percent will double in about 18 years, while another declining by 1 percent per year will halve in 70. Two populations of equal size [emphasis added] experiencing these different growth rates will find themselves after 28 years (barely a generation) in a numerical ratio of four-to-one! (A Concise History of World Population, 4th ed., Blackwell Publishing, 2007, p. 20)

The widespread obliviousness to race, or even preference for non-whites (including but not limited to blacks), now observable everywhere, has been culturally-inculcated into the minds (and resultant sexual behavior) of a greatly diminished youth population. Some unspecifiable (but easily seen) proportion of reproduction occurring outside or inside marriage (the term “intermarriage” should be jettisoned as obsolete) is between whites and non-whites. The hybrid offspring of such unions should not be counted as white, and must be rigorously excluded from both the social circle and the gene pool.

In former times, when the white population was large and growing, more introgression of non-white genes could be tolerated (though not on a widespread scale) than is the case when the population is swiftly collapsing.

The connection between demographic strength and political power has long been recognized. As the white population contracted, nations became markedly more tyrannical in the Communist sense—characterized by closed, untouchable, uncriticizable elites not unlike an imperial god cult, universal surveillance, and the criminalization and rigid suppression of thought, speech, association, and authentic political activity.

So overwhelming now is alien control of the culture that even the psychological mores and institutional structures essential to biological and cultural survival have been systematically and efficiently expunged. Diminished numbers, lack of political influence, and the rapid growth of totalitarian-racist institutions have occurred hand in hand. It is a vicious, ever-accelerating cycle that becomes harder and harder to break the more time that passes.

Supplemental Section

As noted, government officials and demographers do not conduct reliable racial head counts. The crucial demographic variable of race is concealed (through non-counting) for ideological reasons. Nevertheless, population pyramids could be constructed from racial data rather than heterogeneous geographical or political units. Such graphical representations would be most enlightening—better than the population projections typically available.

Following are a few illustrative examples of unusual local population pyramids. Keep in mind that the US Census Bureau employs overly-broad definitions of “white [7],” including in this and related categories Jews, Middle Easterners, North Africans, Lebanese, Arabs, Moroccans, etc.

To add to the confusion, large proportions of America’s massive Mestizo population are evidently also classified as “white.” According to the Population Reference Bureau in Washington, D.C. [8], “Since Hispanics or Latinos are considered an ethnic and not a racial group, they are asked on census questionnaires to select a racial category. In the 2000 Census, almost half (48 percent) of Latinos classified themselves racially as ‘white’ while more than two-fifths (43 percent) identified themselves racially as ‘Other.’”

The Census Bureau proceeded to fiddle with the categories:

Changes in the census questionnaire [since then] appear to have changed the way Latinos identify themselves racially. For example, the percentage of Latinos selecting the white racial category increased from 48 percent in the 2000 Census to 63 percent in the 2009 ACS [American Community Survey]. In contrast, the percentage of Latinos preferring the “Other” racial category dropped from 43 percent to 29 percent. This trend is consistent across Latino subgroups.

Clearly, the size of the official “white” population is artificially inflated. It is smaller than census figures indicate.

Ann Arbor, Michigan [9]

Ann Arbor, Michigan, a small city of 116,000 that is home to the University of Michigan. Even the 2010 census could identify only a 70% “white” population in the small Midwestern city. It is obviously less if illegitimate groups are excluded. The bulge caused by students attending the University of Michigan is easily identifiable.

Fort Bragg, North Carolina [10]

The US Army post at Fort Bragg, North Carolina, named for Confederate General Braxton Bragg and home to the US Army airborne forces and Special Forces, the U.S. Army Forces Command and U.S. Army Reserve Command. It had a population of 39,500 in 2010.  In 2000, it was 58 percent “Caucasian,” the rest non-white. Only 1.2% of the population is over 45, the median age is 22, and males significantly outnumber females.

Punta Gorda, Florida [11]

Punta Gorda, a retirement community of 17,000 on Florida’s Gulf coast. In 2000 it was 94% “white,” the rest black, Mestizo, Amerindian, Asian, Pacific Islander, hybrids, and “other.” However, the community has two synagogues, one Chabad [12], the other Reconstructionist, and nearby are 10 more, so some unknown part of the 94% is Jewish. Note the lopsided age structure accounted for by the elderly. In exaggerated form its shape is illustrative of the age structure of the white race as a whole worldwide.

Buffalo Co., SD (Crow Creek Indian Reservation-Sioux) [13]

Buffalo County, South Dakota, home of the Crow Creek Sioux Tribe (Crow Creek Indian Reservation). The 2010 population was 1,900. According to the 2000 census, 82% of county residents were Amerindian, 16% “white,” and 3% other, mostly hybrids and Mestizos. Unemployment is 57%; many homes lack kitchens and/or indoor plumbing. Per capita income was $5,213, the lowest in the nation, with more than half of residents living below the poverty line. Note the classically-shaped pyramid, indicative of a youthful if numerically small population.

Sources (supplemental section only): Lina Trullinger, Bryan Station High School teacher (now evidently a Database Analyst at Mississippi State University), “Understanding Population Pyramids” [14] (2009); Wikipedia.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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samedi, 01 février 2014

Les Ainu et la politique des minorités ethniques au Japon

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Les Ainu et la politique des minorités ethniques au Japon

par Rémy VALAT

« Le Japon est un peuple ethniquement et culturellement homogène », telle est l’idée dominante, héritée de la mythologie et de l’idéologie politiques modernes – qui a longtemps prévalu dans ce pays. À ce titre, pendant la période d’expansion coloniale en Asie (1895 – 1945), les populations ethniquement non japonaises ont été assimilées par la force (les habitants des îles Ryûkyû – l’actuelle préfecture d’Okinawa – et les Ainu) ou réduites au travail forcé (Coréens). D’autres minorités sont le résultat des migrations internationales contemporaines et de divisions culturelles au sein même de la société japonaise.

 

Survol sur les minorités au Japon

 

Le Japon est le « pays des dieux », un pays unique peuplé par une race homogène : une interprétation courante des groupes ethniques et des nations souhaitant se singulariser par rapport aux autres. Cette vision est défendue par les politiques et longtemps soutenue par la communauté scientifique qui défendait la thèse d’une « japonéité » se fondant sur une explication biologique, servant de prétexte à une appartenance communautaire reposant sur le « droit du sang ».

 

Toutefois, il existe des disparités au sein même de la population de même sang, une « caste » a pendant longtemps été reléguée : les Burakumin (ou « gens des hameaux » – sous-entendu « spéciaux »). Les personnes (et leurs collatéraux) exerçant des métiers « impurs » d’un point de vue religieux, parce qu’en relation avec la chair morte ou la mort, voire pour le caractère itinérant de leur profession (forains), ont été mises au ban de la société (comme les comédiens ou les bourreaux de la société française d’Ancien Régime). La discrimination à l’encontre de ces individus est en voie de disparition. D’autres Japonais, les victimes des bombes atomiques américaines, ont aussi été considérées avec un certain mépris, comme l’attesterait des enquêtes menées sur les demandes en mariage ou les demandes d’aides sociales (travail, assurance maladie), peut-être en raison de la visibilité de leurs blessures, qui serait une sorte de rappel d’un passé que l’on souhaiterait oublier.

 

La logique des vertus de l’homogénéité ethnique a été mise à mal par l’expérience d’un retour au pays de descendants d’émigrants japonais, les « personnes de lignée japonaise » (Nikkeijin). Ces derniers ont bénéficié – pendant la phase de reconstruction et d’essor économique de l’après-guerre – d’une politique favorable d’immigration, en réalité une politique officieuse d’immigration choisie. Ils seraient, à l’heure actuelle, environ 700 000 résidents permanents. Beaucoup sont revenus d’Amérique latine (principalement du Brésil), où ils ont servi de main-d’œuvre dans les plantations de café, des États-Unis, où ils ont été victimes de sévères lois sur l’immigration et – après la déclaration de guerre avec le Japon – de persécutions et d’internement dans des camps, et des Philippines. Ces « Japonais de sang » ont également été soumis, à leur arrivée, à un statut particulier (titre de résident temporaire, logement dans des quartiers réservés) et connaissent de nos jours une crise d’identité, mais aussi des difficultés d’insertion, notamment du fait de leur acculturation et, parfois d’une maîtrise insuffisante de la langue.

 

Ainu-People-2.jpgAvec les Ainu, objet de cet article, les 1,4 million d’habitants des îles Ryûkyû (actuelle préfecture d’Okinawa, annexée en 1879, puis occupée par l’armée étatsunienne entre 1945 et 1972) ont aussi bénéficié d’un statut particulier, parce que peuple autochtone. Engagés dans la lutte pour la rétrocession de l’île au Japon, les habitants d’Okinawa ont vu leur niveau de vie nettement amélioré, bien qu’encore inférieur à celui des autres préfectures japonaises.

 

La principale minorité issue de l’immigration est d’origine coréenne (700 000 personnes en 2005), qualifiés de « Ceux qui sont au Japon » (Zainichi). Cette communauté est venue sur le sol national japonais, lors de l’annexion de leur pays (1910 – 1945). Traités avec mépris, ces travailleurs – d’abord volontaires – puis soumis au travail obligatoire vivaient dans des espaces réservés (buraku) et ont mêmes été victimes de massacres collectifs : en 1923, dans les circonstances difficiles du tremblement de terre, bon nombre ont été tués par les Tôkyôites qui les ont accusés d’avoir empoisonné l’eau de consommation courante. Pendant la Seconde Guerre mondiale, ils seront enrôlés de force, selon un système proche du Service du travail obligatoire allemand (S.T.O.). En 1945, plus de 2 millions de Coréens retourneront dans la péninsule, 600 000 resteront au Japon, mais privés de nationalité jusqu’en 1965 (ils deviendront « Sud-Coréens » en 1965). Le Japon compte aussi une minorité chinoise, d’immigrants venus des pays littoraux ou insulaires de l’Océan Indien et du Pacifique et un faible nombre de ressortissants des pays occidentaux, principalement nord-américains.

 

Ce tableau mérite cependant d’être nettement tempéré, car depuis l’ouverture du Japon sur le monde et la pacification de ces mœurs politiques en Asie, ce pays, doté d’une Constitution réellement démocratique, est progressivement devenu une terre d’accueil pour les étrangers (principalement asiatiques, des Chinois et des Coréens, soit 57 % des résidents étrangers au Japon), en raison du changement des mentalités et du besoin d’immigration, engendré par le vieillissement de la population : les étrangers représentent 2 % de la population totale, et leur nombre a augmenté de 50 % depuis le début du deuxième millénaire. Les nouveaux venus sans qualifications ou ne maîtrisant pas la langue sont, comme dans tous les pays économiquement développés, bien souvent réduits aux tâches les moins valorisantes ou les plus pénibles (ce sont les trois « K » : kitsui, pénible; kitanai, sale; kiken, dangereux), mais de réelles possibilités d’intégration – y compris l’adoption de la nationalité japonaise – existent pour eux. Chaque année, 42 000 nouvelles unions, soit 6 % des mariages annuels au Japon, sont le fait de couples internationaux (dans 80 % des cas, l’époux est Japonais). Dans la réalité, le regard porté par les Japonais sur les minorités asiatiques a changé, en dépit de la persistance de discriminations réelles. Le Japon paraît être en transition et s’adapter avec prudence aux réalités migratoires, corollaire de la troisième mondialisation.

 

La culture ainu : origines et principales caractéristiques

 

L’origine des populations ainu serait Préhistorique : elle remonterait à la période Jômon (voir notre article sur ce sujet), et son origine exacte reste encore incertaine. Certains individus sont parfois morphologiquement différents des hommes de la période Jômon, leurs phénotypes ayant des caractéristiques pouvant les rattacher aux populations caucasiennes. La culture Jômon sera progressivement subjuguée par une nouvelle vague de migrants venue du continent à la période Yayoi (Ve siècle av. J.-C. – IIIe siècle ap. J.-C.), importatrice de technologies (riziculture et métallurgie) et d’une culture nouvelles : leurs descendants sont les Japonais. Les populations constitutives de la culture ainu étaient implantés dans la zone septentrionale insulaire de Hokkaidô, de Tôhoku, des Kouriles, de Sakhaline et du sud de la péninsulaire du Kamtchakta. Les spécialistes penchent désormais pour la cœxistence de plusieurs groupes ethniques différents répartis dans la partie septentrionale du Japon actuel : les Emishi (voir infra) – repoussés par les Japonais – venus du Nord du Tôhoku et du Sud-Ouest de Hokkaidô- se seraient amalgamés avec les populations existantes (Ashihase).

 

Au VIIIe siècle, les ethnies ainu se répartissent sur les îles Kouriles et Sakhaline. Dans les premières annales du Japon (le Kojiki et le Nihongi ou Nihonshoki), ces derniers sont dépeints comme appartenant à une ethnie différente, farouche et sont qualifiés de différents ethnonymes (dont celui d’Emishi) faisant référence à leur pilosité corporelle abondante. Ces populations se qualifient elles-mêmes de Ainu, qui signifie  : « être humain ».

 

La langue ainu est radicalement différente du japonais (qui appartient au groupe des langues altaïques – à l’instar du turc, du mongol, du toungouse et du coréen) aussi bien d’un point de vue syntaxique, phonologique, morphologique que du vocabulaire (comme la langue basque dans le Sud-Ouest de la France et en Espagne). Enfin, la culture ainu est une tradition orale, son système d’écriture repose sur des translittérations empruntées aux langues des civilisations russes (alphabet cyrillique) et japonaises (katakana). Plusieurs dialectes la composent, mais une langue commune, véhiculaire était compréhensible par tous les membres de la communauté, parce que réservée à la transmission culturelle, notamment des mythes. La langue ainu est en voie d’extinction, peut-être une quinzaine de locuteurs l’utiliseraient de nos jours.

 

La culture ainu a hérité de nombreuses pratiques de la période protohistorique, notamment le tatouage, les fondements de la religion, la chasse, mais avec une évolution singulière dans le temps, constitutrice d’une « identité ». La société ainu est restée pendant longtemps traditionnelle et proche de la nature : ce « retard » technologique par rapport à la Russie et au Japon l’a – à terme – marginalisée.

 

Les Ainu face à la colonisation japonaise dans un contexte politique et économique d’expansion impériale (1869 – 1945)

 

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Les Ainu se trouvaient, du point du vue des gouvernements successifs japonais, au-delà du « limes ». Si les clans du Tôhoku (Nord-Est de l’île d’Honshû) ont finalement adopté la culture dominante, les autres groupes ont longtemps offert une âpre résistance au front pionnier japonais. Dès la période de Heian, les marches de l’État japonais étaient administrées par un officier supérieur, chargé de soumettre les Emishi : le shôgun. Au XVe siècle, les Japonais commencent à s’implanter dans le Sud-Ouest de Hokkaidô (Ezochi, appellation ainu) et à repousser les populations locales vers le nord, mais celles-ci parviennent à faire refluer l’invasion, puis à renouer des relations économiques avec le Japon.

 

À l’époque d’Edo (1600 – 1867), la politique de fermeture adoptée par le shôgunat ne s’applique pas aux Ainu : ces derniers commercent abondamment avec les Chinois et les Russes. Mais, la progression russe d’Ouest en Est à travers l’Asie centrale vient se heurter aux intérêts japonais : les enjeux se cristallisent autour du contrôle de l’île Ezo (ancienne appellation de Hokkaidô). Le Bakufu renforce son emprise sur l’île en détruisant la résistance des populations autochtones (bataille de Knashiri-Menashi, 1789) : l’île est économiquement exploitée par le Japon, notamment pour la production d’engrais de harengs.

 

Une rupture s’opère au XVIIIe siècle, l’invasion russe du Nord des îles Kouriles et de Sakhaline (à partir de 1730) pousse le gouvernement japonais à poursuivre une politique d’assimilation des peuples indigènes pour justifier sa revendication territoriale (un traité russo-nippon fixe la frontière entre les deux États, traité de Shimoda, 1854 : la ligne de partage séparant les deux empires se situant entre les îles d’Urup et d’Etorofu, voir notre article sur le sujet).

 

La restauration impériale (1868) et l’essor économique et industriel sont accompagnés d’un accroissement de la population japonaise : bon nombre d’insulaires partent s’installer à l’étranger, notamment en Amérique du Sud. En 1869, l’île de Hokkaidô est annexée à l’Empire et la colonisation favorisée (une commission de colonisation est créée); en 1886, l’île devient une préfecture, avec un statut particulier. Les Ainu sont rapidement soumis à un régime d’exception, leur interdisant toute activité culturelle (tatouages, pratiques funéraires, etc.) et économique traditionnelle (pêche, chasse). La situation connaît une aggravation, lorsqu’un nouveau traité russo-japonais rattache toutes les îles Kouriles au Japon, en échange de l’actuelle Sakhaline (1875). Les Ainu de Sakhaline sont contraints de rejoindre Hokkaidô, où ils sont cantonnés dans des réserves.

 

La politique cœrcitive japonaise vise à transformer la population, paupérisée par l’accaparement des terres par des colons japonais, en agriculteurs. Une politique volontariste d’assimilation, oblige les enfants des familles ainu à se rendre dans des écoles spécifiques où les enseignements sont dispensés en langue japonaise, les mariages mixtes sont encouragés. Par ailleurs, la colonisation a des effets ravageurs sur les autochtones, marqués psychologiquement, d’aucuns sombrent dans l’alcool, d’autres périssent des maladies importées par les immigrants nippons.

 

Les Ainu sont peu à peu soumis à un statut particulier. La commission de Colonisation adopte officiellement le terme de kyudojin, qui signifie « anciens aborigènes » (1878). Plus tard, en 1899, une loi est votée par les représentants japonais pour « protéger » les Ainu, considérés comme une « race primitive sur le déclin ». La politique coloniale japonaise se calque ainsi sur la pensée occidentale, notamment les théories évolutionnistes alors en vogue, et mise au service d’une politique expansionniste. Les Ainu et leurs territoires sont devenus une sorte de musée, de « zoo humain » (déjà vu sous d’autres tropiques), que viennent étudier et photographier les anthropologues occidentaux : des Ainu sont mêmes présentés aux expositions internationales de Chicago (1904) et de Londres (1910)…

 

Les Ainu vivent dans une situation de grande précarité, et ce n’est pas l’exode massif de population de la fin de la Seconde Guerre mondiale (1,5 million de Japonais supplémentaires se rendent sur l’île d’Hokkaidô, poussés par l’avancée soviétique en extrême-Orient et dans les îles Kouriles) qui permit d’apporter une amélioration à leur sort…

 

La politique coloniale japonaise est, nous l’avons dit, une appropriation et une adaptation des politiques coloniales européennes. Les autorités japonaises, nous l’avons vu, se sont octroyés le « pouvoir de nommer » la population cible, afin de l’individualiser et d’en souligner l’altérité, voire de la « dévaloriser » (la référence à la pilosité et le statut d’aborigène, voir supra). Cette qualification (1878) a été une étape déterminante à la création d’un statut singulier (1899) justifiant les pratiques discriminatoires et répressives, processus que l’on retrouve dans toutes les colonisations. Le statut de kyudojin n’est pas sans rappeler celui de l’indigénat dans les colonies françaises d’Afrique ou celui des Indiens d’Amérique du Nord.

 

Ces mesures administratives sont à l’origine d’un mouvement de défense de la part des populations ainu, même si certains, convertis au christianisme, espèrent que l’assimilation leur permettra d’obtenir une égalité de droit avec les Japonais. En 1930, un mouvement associatif voit le jour et réclame la révision de la « loi discriminatoire » de 1899. En outre, le processus de démocratisation enclenché après la défaite du Japon (1945) créé un climat plus favorable pour le mouvement revendicatif, qui peut notamment faire référence à l’article 13 de la Constitution qui rendent illégales la discrimination et l’assimilation du peuple ainu.

 

Les nouvelles représentations du peuple ainu : l’acquisition d’une reconnaissance officielle sous regard international

(1945 à nos jours)

 

Les années 1960 marquent un tournant. Pendant cette période encore, l’image des Ainu est instrumentalisée : les guides touristiques, notamment francophone, décrivent les populations locales comme « une race frappée d’impuissance » (guide Nagel, 1964); des scientifiques japonais vont même jusqu’à leur nier toute aptitude technique propre (ce qu’invalide les découvertes archéologiques actuelles). À la fin de la décennie, en pleine phase contestataire au Japon (mouvements des habitants et mouvements contre les discriminations) et dans le monde (Mai 1968), les associations de défense de la communauté ainu donnent de la voix par des actions symboliques (protestations contre la commémoration du centenaire de la colonisation de Hokkaidô, notamment).

 

ainu-5.jpgEn 1968, le gouvernement japonais fait un pas en faveur de la communauté en révisant partiellement la loi de 1899 (sans en modifier le caractère discriminatoire) et en proposant des aides sociales.  S’inspirant des mouvements de revendications des peuples autochtones de par le monde et des mouvements anti-colonialistes de libération nationale, le mouvement revendicatif ainu adopte une stratégie internationale, se fondant sur la charte internationale des droits de l’Homme.

 

L’association des revendications à ces valeurs universelles oblige le gouvernement japonais, en pleine expansion économique bâtie sur une représentation pacifique du pays, à signer la Convention internationale sur l’élimination de toutes les formes de discrimination raciale (1978) et le Pacte international sur les droits civils et politiques (1979) et à reconnaître les droits des minorités. Mais l’existence de ces dernières est niée, le Premier ministre Nakasone Yasuhiro ayant officiellement rappelé le caractère mono-ethnique du pays (1986). En 1987, des représentants de la communauté ainu sont admis au groupe de travail des Nations unies, ayant entamé une réflexion sur le sort des peuples autochtones : il en résulte, en 1989, que le gouvernement japonais établit un comité en charge d’examiner les différents points d’une future loi concernant le peuple ainu.

 

Placé sous les projecteurs de la communauté internationale, Tôkyô finit par attribuer le statut de minorité ethnique aux Ainu et l’image de ces derniers commence à évoluer favorablement au yeux de l’opinion japonaise : en 1994, Kayano Shigeru (1926 – 2006), un des responsables du mouvement de revendication entre au Sénat; en 1997, le gouvernement japonais abolit l’appellation de kyudojin et adopte une loi de valorisation de la culture ainu (loi sur le développement de la culture ainu et la diffusion et l’instruction de la connaissance concernant la tradition ainu). Cette loi fait suite à un contentieux administratif autour du projet de construction d’un barrage sur un site sacré ainu : le rendu de la cour de justice de Sapporo ayant reconnu le caractère sacré du lieu et rappelé les carences du gouvernement japonais en matière de protection de l’héritage culturel des Ainu, cette décision a pesé sur l’adoption de la loi de 1997. C’est le premier texte reconnaissant une minorité ethnique au Japon. La législation offre désormais la possibilité aux multiples manifestations culturelles d’être subventionnées, mais ne prend spécifiquement en charge les problèmes socio-économiques de la population cible et aucune autonomie politique n’est accordée (elle n’est d’ailleurs pas recherchée par les intéressés). Le gouvernement revendique toujours sa totale légitimité sur l’île d’Hokkaidô : le centre de promotion de la culture ainu, qui a ouvert ses portes à Sapporo en 2003 est administré par des fonctionnaires japonais et lors du classement de la péninsule de Shiretoko à l’inventaire du patrimoine naturel mondial, aucune référence n’a été faite à la culture ainu, à laquelle cette langue de terre doit le nom. Enfin, le 6 juin 2008, une résolution, approuvée par la Diète, invite le gouvernement à reconnaître le peuple ainu, comme indigènes du Japon et à hâter la fin des discriminations, la résolution reconnaît le peuple ainu comme un « peuple indigène, avec un langage, une religion et une culture différente et abroge la loi de 1899.

 

D’après des enquêtes menées par l’association de défense de la culture ainu (Tari), les Ainu seraient encore victimes de discriminations scolaires (présence moindre sur les bancs universitaires) ou sociales (mariage). Cependant les mentalités et le regard porté sur les Ainu continuent de changer, notamment par le truchement des découvertes archéologiques, qui mettent en avant les peuples de la période Jômon, replacés dans une perspective et un environnement asiatiques (voir notre article sur le sujet). Des expositions internationales, un projet de parc culturel et même des artistes d’origine ainu (l’acteur Ukaji Takashi, le musicien Kano Oki) défendent et cherchent à valoriser leur culture. Des citoyens, issus de la génération d’enfants nés de couples mixtes, essayent de découvrir (pour ceux qui le découvrent) leurs origines, occultées par les parents. Cependant,  le film d’animation Princesse Mononoké (1997), réalisé par Hayao Miyazaki, fait implicitement référence aux traditions ainu, mais sans les manifester ouvertement. Mais, depuis peu (30 octobre 2011), un mouvement de militants ainu se lance dans la vie politique institutionnelle avec à sa tête, Kayano Shiro, le fils de l’ancien responsable ainu, Kayano Shigeru, et pour objectif l’instauration d’une société multiculturelle et multi-ethnique au Japon.

 

Conclusions

 

L’idée japonaise d’une société ethniquement homogène est battue en brèche, parce que pure construction politique et idéologique. Avant la Seconde Guerre mondiale, le rapport aux minorités reposait sur le rapport de force, la création d’un statut, l’assimilation et l’exploitation économique forcée. Hanté par la crainte de la dégénérescence raciale et aveuglé par le succès de l’expansion coloniale qu’ils attribuent à la supériorité de leur « race» en Asie, le Japon s’est enfermé dans une idéologie et une politique impérialiste, qui a conduit le pays à la défaite. Il est flagrant de relever qu’après un conflit multiséculaire contre les Emishi et les Ainu, c’est précisément au XIXe siècle – alors que le Japon s’ouvre aux technologies, aux économies et aux cultures de l’Occident – que ce pays en s’en appropriant certaines de ses valeurs, s’est donné les moyens d’une politique impériale à destination de l’Asie et des territoires proches revendiqués par lui (Hokkaidô, îles Ryukyu et péninsule coréenne).

 

L’objectif était ouvertement – pour les populations des îles périphériques – l’assimilation, car d’un point de vue juridique, le Japon ne reconnaissait, jusqu’à la résistance civique des Ainu, qu’une seule ethnie. Les difficultés rencontrées par les Nikkeijin dans leur intégration, a démontré que l’appartenance à un groupe sur le seul critère biologique (l’innée), est une interprétation erronée minimisant l’importance des facteurs culturels (l’acquis).

 

Même si à l’heure actuelle, les minorités ne sont toujours pas juridiquement considérées comme faisant partie intégrante de la société, car ne possédant pas les attributs de la japonité, la société japonaise change : les signes d’acceptation des minorités (officieuses et de la minorité officielle ainu) sont visibles dans les média et au quotidien. En outre, les conditions d’accès à la citoyenneté japonaise prennent les formes intelligentes, pragmatiques et prudentes d’une immigration choisie (comme remède au vieillissement programmé de la population). Enfin, émane du pays une image pacifiée et positive, que l’on retrouve dans les médias occidentaux et sur Internet (le « Cool Japan », politique internationale pacifique, etc.), qui font de ce pays, probablement un des seuls réellement démocratique en Asie, une terre d’accueil pour de nouveaux immigrants, à condition que ceux-ci fassent un effort réel d’intégration (ce qui est au demeurant la moindre des choses…).

 

Rémy Valat

 

Orientations bibliographiques :

 

• Batchelor John, Sympathetic Magic of the Ainu. The Native people of Japan, Folklore History Series, reprint 2010.

 

• Beillevaire Patrick, « Okinawa : disparition et renaissance d’un département », in Le Japon contemporain, Dir. Jean-Marie Bouissou, Fayard, C.E.R.I., 2007.

 

• Dallais Philippe, « Hokkaidô : le peuple Ainu, ou l’ambivalence de la diversité culturelle au Japon », in Le Japon contemporain, Dir. Jean-Marie Bouissou, Fayard, C.E.R.I., 2007.

 

Ethnic groups in Japan, including Ainu people, Ryukyuan people, Emishi, foreign-born Japanese, Dekasegi, Yamato people, Gaijin, Chinese people in Japan, Brazilians in Japan, Aterui, Indians in Japan, Peruvians in Japan, Burmese people in Japan, Hephaestus Books, 2011, (Une impression des sources Wikipédia disponibles sur le sujet).

 

• Kayano Shigeru, The Ainu. A story of Japan’s Original People, Tuttle Publishing, 1989.

 

• Pelletier Philippe, Atlas du Japon. Une société face à la post-modernité, Autrement, 2008.

 

• Poutignat Philippe et Streiff-Fenart Jocelyne, Théories de l’ethnicité, Presses universitaires de France, coll. « Quadrige », avril 2008.

 

• Reischauer Edwin O., Histoire du Japon et des Japonais. Des origines à 1945, Seuil, coll. « Points Histoire », 1988.

 

• Yamamoto Hadjime, Rapport japonais. Les minorités en droit public interne au Japon, en ligne à l’adresse suivante : www.bibliojuridica.org/libros/4/1725/45.pdf

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=3482

dimanche, 22 décembre 2013

The Rites of Manhood: Man’s Need for Ritual

The Rites of Manhood: Man’s Need for Ritual

by Brett & Kate McKay

Ex: http://www.artofmanliness.com

in A Man's Life, On Manhood

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Does modern life ever feel excruciatingly flat to you? A bleak landscape devoid of layers, rhythm, interest, texture?

Are you ever haunted by the question “Is this all there is?”

Have you ever looked at an old photo and felt that the scene held such an inexplicable richness that it seemed you could practically step right into it?

The barren flatness of modern life is rooted in many things, including mindless consumerism, the absence of significant challenges, and the lack of shared values and norms, or even shared taboos to rebel against. But what is the solution?

Many would be quick to say faith, or philosophy, or relationships. All good answers.

But what is it that vivifies beliefs to the extent they can transform your perspective not simply for an hour on Sunday, but also in the mundane moments throughout your week? What can move an understanding of abstract truths from your mind into your very sinews? What can transform superficial ties with others into deep and meaningful bonds?

The answer I would suggest is ritual.

Our modern world is nearly devoid of rituals – at least in the way we traditionally think of them. Those that remain – such as ones that revolve around the holidays – have largely lost their transformative power and are often endured more than enjoyed, participated in as an obligatory going through of the motions. Ritual has today become associated with that which is rote, empty, meaningless.

Yet every culture, in every part of the world, in every era has engaged in rituals, suggesting they are a fundamental part of the human condition. Rituals have even been called our most basic form of technology – they are a mechanism that can change things, solve problems, perform certain functions, and accomplish tangible results. Necessity is the mother of invention, and rituals were born out of the clear-eyed perspective that life is inherently difficult and that unadulterated reality can paradoxically feel incredibly unreal. Rituals have for eons been the tools humans have used to release and express emotion, build their personal identity and the identity of their tribe, bring order to chaos, orient themselves in time and space, effect real transformations, and bring layers of meaning and texture to their lives. When rituals are stripped from our existence, and this fundamental human longing goes unsatisfied, restlessness, apathy, alienation, boredom, rootlessness, and anomie are the result.

The Rites of Manhood

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In the coming year we plan to do in-depth posts on some of the rituals that have been most central to the meaning and making of manhood, such as rites of passage, initiations, and oaths. This week we will be laying the foundation for these posts in two articles; the first will set up a definition of ritual, and the second will explore the many ways rituals are so vital for a full and meaningful life.

Today we’ll provide a little context as to the nature of ritual and why it has largely disappeared from modern societies.

What Is Ritual?

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According to Catherine Bell, professor of ritual studies and author of the preeminent textbook on the subject, ritual has been traditionally defined as an action that lacks a “practical relationship between the means one chooses to achieve certain ends.” For example, shaking hands when you meet someone can be considered a ritual as there is no real reason why grabbing another’s hand and shaking for a second or two should lead to acquaintanceship. It is a culturally-relative gesture; we might very well greet each other with a pat on the shoulder or even no physical contact at all. As another example, washing your hands to clean them is not a ritual since there exists a clear practical relationship between your action and the desired result. But if a priest splashes water on his hands to “purify” them, that’s a ritual, since the water is largely symbolic and not really meant to rid the hands of bacteria.

Bell lists six attributes of rituals:

  • Formalism: This is a quality rooted in contrast and how restrictive or expressive the accepted code of behavior is for a given event/situation. For example a backyard picnic is very casual and will not feel like a ritual because there are few guidelines for how one may express oneself. A very formal dinner, on the other hand, has a more limited range of accepted behaviors and thus can feel quite ritual-like. Bell argues that while we sometimes see formality as stuffy, since it curbs more spontaneous expression, formalized activities are not “necessarily empty or trivial” and “can be aesthetically as well as politically compelling, invoking what one analyst describes as ‘a metaphoric range of considerable power, a simplicity and directness, a vitality and rhythm.’ The restriction of gestures and phrases to a small number that are practiced, perfected, and soon quite evocatively familiar can endow these formalized activities with great beauty and grace.”
  • Traditionalism. Rituals are often framed as activities that carry on values and behaviors that have been in place since an institution’s creation. This link to the past gives the ritual power and authority and provides the participant with a sense of continuity. The ritual may simply harken to those who came before, as when university graduates don the gowns that were once typical everyday classroom wear for scholars, or it may actually seek to recreate a founding event – as in the American celebration of Thanksgiving.
  • Disciplined invariance. Often seen as one of the most defining features of ritual, this attribute involves “a disciplined set of actions marked by precise repetition and physical control.” Think of soldiers marching in drill step or the sit/stand/kneel pattern followed by Catholics during the course of a Mass. Disciplined invariance suppresses “the significance of the personal and particular moment in favor of the timeless authority of the group, its doctrines, or its practices,” and “subordinates the individual and the contingent to a sense of the encompassing and the enduring.”
  • Rule-governance. Rituals are often governed by a set of rules. Both war and athletics are examples of activities that can be quite ritual-like when their rules regulate what is and is not acceptable. Rules can both check and channel certain tensions; for example, the game of football channels masculine aggression into a form of ritualized and controlled violence. On occasion the rules fail to sufficiently check the tension that is always bubbling right at the surface, as when a chaotic brawl breaks out amongst players. That the game reflects a similar submerged tension within society at large is part of why the audience finds the ritual so compelling.
  • Sacral symbolism. Ritual is able to take ordinary or “profane” objects, places, parts of the body, or images, and transform them into something special or sacred. “Their sacrality,” Bell writes, “is the way in which the object is more than the mere sum of its parts and points to something beyond itself, thereby evoking and expressing values and attitudes associated with larger, more abstract, and relatively transcendent ideas.” Thus something like incense can be a mere mixture of plants and oils designed to perfume a room, or, when swung from a censer, can represent the prayer of the faithful ascending into heaven.
  • Performance. Performance is a particular kind of action – one that is done for an audience. A ritual always has an intended audience, even if that audience is God or oneself. Tom F. Driver, a professor of theology, argues that “performance…means both doing and showing.” It is not a matter of “show-and-tell, but do-and-show.” Human are inherently actors, who wish to see themselves as characters in a larger narrative, and desire the kind of drama inherent in every timeless tale. Rituals function as narrative dramas and can satisfy and release this need. In the absence of ritual, people resort to doing their “showing” on social media and creating their own drama – often through toxic relationships or substances.

The more of these attributes a behavior/event/situation invokes, the more different from everyday life and ritual-like it will seem. The fewer of these attributes present, the more casual and ordinary it will feel.

For a more simple definition of ritual, here’s one that works: thought + action. A ritual consists of doing something in your mind (and often feeling something in your heart), while simultaneously connecting it to doing something with your body.

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Rituals fall into a wide variety of categories. Theorist Ronald Grimes lists 16 of them:

  • Rites of passage
  • Marriage rites
  • Funerary rites
  • Festivals
  • Pilgrimage
  • Purification
  • Civil ceremonies
  • Rituals of exchange (as in worshipers making sacrifices to the gods in hope of receiving blessings from the divine)
  • Worship
  • Magic
  • Healing rites
  • Interaction rites
  • Meditation rites
  • Rites of inversion (rituals of reversal, where violating cultural norms is temporarily allowed, as in men dressing like women)
  • Sacrifice
  • Ritual drama

The important thing to understand about rituals is that they are not limited to very big, very formal events. Rituals can in fact be large or small, private or public, personal or social, religious or secular, uniting or dividing, conformist or rebellious. Funerals, weddings, presidential inaugurations, church services, baptisms, fraternal initiations, and tribal rites of passage are all rituals. Handshakes, dates, greetings and goodbyes, tattoos, table manners, your morning jog, and even singing the Happy Birthday song can be rituals as well.

Whither Ritual?

In many traditional societies, almost every aspect of life was ritualized. So why is there such a dearth of rituals in modern culture?

The embrace of ritual in the Western World was first weakened by two things: the Protestant Reformation’s movement against icons and ceremonialism and the Enlightenment’s emphasis on rationalism.

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Historian Peter Burke, argues “the Reformation was, among other things, a great debate, unparalleled in scale and intensity, about the meaning of ritual, its functions and its proper forms.” Many Protestants concluded that the kind of rituals the Catholic Church practiced gave too much emphasis to empty, outward forms, rather than one’s internal state of grace. They rejected the “magical efficacy” of rites to be able to do things like change bread and wine into the literal body and blood of Christ.

The magical efficacy of ritual was attacked from the other side by Enlightenment thinkers. As discussed above, ritual is inherently nonrational since there is no practical relationship between the action and the end result. It is not rational to think that painting one’s body before battle will offer protection, that a rite of passage can turn a boy into a man, or that smoking a peace pipe can seal a treaty. Thus, ritual began to be associated with the superstitions of primitive peoples.

Suspicion of ritual again grew after World War II, in the wake of the way in which ritual ceremonies had been used to solidify loyalty to the Nazi cause.

Cultural embrace of ritual then really began to unravel during the social movements of the 1960s, which emphasized free expression, personal freedom, and individual emotional fulfillment above all. Rituals — which prescribe certain disciplined behaviors in certain situations, and require a person to forfeit some of their individuality in service to the synchrony and identity of the group — constrain spontaneity and the ability to do whatever one pleases. Ritual thus came to be seen as too constraining and not sufficiently “authentic.”

For these reasons, the use of and participation in rituals has been greatly curtailed. Or perhaps as historian Peter Burke argues, we’ve just replaced old rituals with new ones: “If most people in industrial societies no longer go to church regularly or practice elaborate rituals of initiation, this does not mean that ritual has declined. All that has happened is the new types of rituals—political, sporting, musical, medical, academic and so on—have taken the place of the traditional ones.” But the new rituals – watching sports, attending music festivals, checking Facebook, shopping, visiting a strip club on your 18th birthday — are light on nourishment and do not satisfy. Traditional rituals provided a mechanism by which humans could channel and process that which was difficult to grapple with – death, maturation, aggression – allowing the participant to discover new truths about themselves and the world. New rituals, if they can even really be called such, attempt to deny anything ugly in life (lest that lead you to close your wallet) and present a shiny, glossy façade — “confetti culture” – that facilitates passive consumption and turning away from examining given assumptions.

In our next post, we will argue that despite the cultural disdain for ritual, it is a human art form and practice which should be revived. It is true that ritual can be used for good or for ill, yet its benefit is so great that fear of the bad should not lead us to throw out the baby with the bathwater. Even if a man sees no place for ritual in his faith, he can have great use for it in other areas in his life (indeed, if his faith is completely unritualized, he has all the more need for other kinds of rituals). We will argue that even the most rational man might make room in his life for some “magic,” and that while ritual may seem constraining, it can paradoxically be incredibly empowering and even liberating. How that might be so, is where we will turn next time.

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Sources:

Ritual: Perspectives and Dimensions by Catherine Bell

Liberating Rites: Understanding the Transformative Power of Ritual by Tom F. Driver

mercredi, 28 août 2013

Six naïvetés à propos du mot «race»

Six naïvetés à propos du mot «race»

Supprimer le mot ne supprime pas le fait


Nathalie Heinich*
Ex: http://metamag.fr
Le projet de suppression du mot «race» de la Constitution française repose sur plusieurs raisonnements implicites qui constituent autant de naïvetés, doublées d’un chantage sous-jacent à la rectitude morale. Tâchons d’y voir plus clair dans ces bêtises argumentatives.

 
1. S’insurger contre l’idée qu’existeraient des races humaines sous-entend que c’est leur réalité objective qui serait en question. Or, comme toute représentation, les races sont des conceptions de l’esprit humain consistant à agréger d’une certaine façon les faits observés (couleur de peau ou types de chevelures). Elles existent donc bien, mais seulement à titre de modes de catégorisation, exactement comme les «classes» sociales. Vouloir supprimer le mot pour tuer une chose qui n’existe que dans les esprits, c’est partir à la chasse aux fantômes (ou aux moulins à vent). Première naïveté.
 
2. Nier qu’il existerait des catégories «raciales» suppose de considérer que la notion de race renverrait à des regroupements non seulement réels mais aussi clairement différenciés, avec des frontières discontinues, de sorte qu’un être humain appartiendrait ou n’appartiendrait pas à telle ou telle race. C’est oublier qu’en matière de condition humaine les «catégories» sont rarissimes, alors qu’on a beaucoup plus souvent affaire à des «types», c’est-à-dire à des regroupements flous, de l’ordre du «plus ou moins» - de sorte qu’un être humain appartient plus ou moins à tel ou tel type racial (blanc, noir, asiatique, indien...). La notion de catégorie relève plutôt de la logique, alors que celle de type est plus adaptée à la réalité observée. Ceux qui «croient» à l’«existence» réelle de «catégories» raciales regardent aussi peu autour d’eux dans la rue que ceux qui n’y «croient» pas : les uns comme les autres confondent tant le type avec la catégorie que la réalité avec les représentations. Deuxième naïveté.
 
3. Vouloir supprimer le mot race parce qu’il ne renverrait pas à une réalité génétique, donc à un fait de «nature», n’a de sens qu’en vertu du raisonnement implicite selon lequel tout ce qui est «naturel» serait nécessaire et intangible, alors que tout ce qui est «social» serait arbitraire, donc modifiable. Pour pouvoir modifier un phénomène contraire à nos valeurs, il faudrait donc prouver qu’il est «socialement construit» - et donc, par exemple, que la race n’a aucun fondement génétique, ce qui rendrait cette notion arbitraire et le mot inutile. Classique méprise : en matière humaine, le «social», les institutions, les règles de vie commune, le langage etc., sont des réalités autrement plus contraignantes - ou «nécessaires» - que les réalités présumées «naturelles». Vouloir dénier tout fondement naturel à la perception des différences raciales (comme, sur un autre plan, des différences sexuées) n’enlève rien à la réalité, ni aux éventuels effets problématiques de ce phénomène social qu’est la perception des différences d’apparence. Troisième naïveté.
 
4. La dénégation des différences (de race, de sexe ou de catégorie sociale) repose sur un raisonnement implicite : toute différence impliquerait forcément une discrimination. C’est là la classique confusion entre similitude et égalité, qui plombe également une grande part du mouvement féministe actuel, persuadé qu’il faut nier la différence des sexes pour lutter contre les inégalités sexistes. Mais le racisme, contrairement à ce qu’on entend souvent, ne consiste pas à «croire que les hommes sont différents entre eux» : il consiste à croire qu’il existe entre eux des inégalités fondées sur la race. Vouloir remonter de l’inégalité à la différence pour mieux combattre la première est aussi intelligent que d’utiliser un marteau pour venir à bout d’une colonie de mouches dans un magasin de porcelaine. Quatrième naïveté.
 
5. Les opinions racistes ne sont pas fondées sur des arguments scientifiques, mais sur des affects, comme tout ce qui touche à l’amour et à la haine du prochain. Si ces opinions utilisent à l’occasion le langage de la «preuve» et la caution de la «science», ce n’est qu’à titre de rationalisation et d’argument de persuasion d’une opinion déjà constituée. Les spécialistes de psychosociologie des représentations savent bien qu’il ne sert à rien de combattre des croyances, des affects ou des rapports aux valeurs avec des contre-arguments scientifiques : on ne les combat qu’avec d’autres valeurs et, s’il le faut, avec des lois (qui, en matière de lutte contre le racisme, existent déjà). S’imaginer que la science génétique serait à même d’éradiquer le racisme est tout aussi irréaliste que d’imaginer qu’elle serait à même de le conforter. Cinquième naïveté.
 
6. Pour lutter contre une chose, il faut disposer de mots adéquats. Pour lutter contre la réalité du racisme, il faut bien pouvoir se considérer comme «antiraciste», stigmatiser les «racistes», et expliquer que quel que soit le degré d’existence ou de non-existence de différences fondées sur des types «raciaux», le comportement moral exige qu’on ne juge et traite les individus qu’en fonction des caractéristiques dont ils sont personnellement responsables, et non en fonction de propriétés avec lesquelles ils sont nés, telles que l’appartenance à un type racial, à un sexe, à une religion ou à un milieu social. Se priver de ces mots, c’est se priver des instruments pour combattre la chose. Sixième naïveté. 

Arrivés à ce point, la conclusion s’impose : animé des meilleures intentions mais digne des pires régimes totalitaires, ce projet «politiquement correct» de modification autoritaire de la langue est simplement stupide.
 
Auteur du «Bêtisier du sociologue» (éd. Klincksieck, 2009). Dernier ouvrage paru : «Maisons perdues» (éd. Thierry Marchaisse).

* Sociologue au CNRS, article paru dans Libération du 25 juillet 2013 et dansLibération.fr
Les sous-titres et illustrations sont de la rédaction

jeudi, 15 août 2013

Journeys Among the Forgotten

Journeys Among the Forgotten
Riccardo Orizio’s Lost White Tribes

By Andrew Hamilton

Ex: http://www.counter-currents.com

orizio Riccardo Orizio
Lost White Tribes [2]
Trans. Avril Bardoni
London: Secker & Warburg, 2000

The history of the past century is a tale of subversion, retreat, and collapse. Everything continuously shrinks. Subversion at the center was critical to the process from the start, but externally it was observable in the swift crumbling of white geographical power from the periphery inward. 

First came the fierce ideological and political attacks upon “colonialism,” and the ensuing ignominious retreat from empire. This occurred with tremendous speed, an Insider movement involving elite subversion from within and revolutionary subversion from without.

Whites in every imperial capital and every colony from India to southern Africa, from Portugal to French Algeria who fought this juggernaut had the correct political instinct. It does not matter whether colonialism is deemed good or bad, wise or unwise, just or unjust. Racially, anti-colonialism was one phase in a crusade of extermination. Its proponents at home knew it, and its foes, the healthiest members of our race, instinctively sensed it as well.

The next phase was the takeover of Rhodesia (Zimbabwe), South West Africa (Namibia), and South Africa. The destruction of these First World nations—one of which had nuclear weapons—was a prelude to the destruction of all white homelands now in progress. Watching the takeover of South Africa was like watching a slow motion train wreck. (“Slow motion” to the observer; historically it occurred in the blink of an eye.)

Exactly the same process is now unfolding in the last bastions, the white homelands themselves. As in South Africa, the process is impossible not to see. The lack of any meaningful, revolutionary response to yet another massive Third World immigration bill in the US is eloquent proof of the fanaticism, extremism, and hegemony of the anti-white power structure.

Riccardo Orizio’s Lost White Tribes provides a glimpse into the near-future of whites everywhere if revolutionary action is not taken.

Orizio, an Italian Catholic ex-foreign correspondent for the Italian daily newspapers Corriere della Sera and La Repubblica, and for CNN, is the proprietor with his Anglican English wife, pediatrician Pia-Sophie Wool, of an exclusive retreat in Kenya offering safaris to the global rich. As one of their ads put it, “the thrill of a real African adventure lived in harmony with the Masai warriors coupled with high standards of style and comfort. The tents are furnished with colonial antiques, Persian carpets and African art. The atmosphere at the camp is informal but elegant.” Orizio and Wool (who “will work with the Maasai communities on different health projects”) described themselves as “a cosmopolitan, multilingual European couple, a writer and a doctor.”

Orizio, obviously, is a member of the Establishment, not a white nationalist. On his website [3] he prominently displays Polish Communist journalist and secret police informant Ryszard Kapuscinski’s endorsement of Lost White Tribes: “A humanistic book, revolving around tales of dying places and dying communities, around people who live surrounded by old furniture, old verandah, old books . . . The lost white tribes are individuals living a chapter of history that for the rest of the mankind is forever closed. Which is why, despite Riccardo Orizio’s sympathy with these obscure heroes, his is nevertheless an anti-colonial book.”

Lost White Tribes was first published in London in 2000. Dutch, Italian, American and Turkish editions followed. Whereas the subtitle of the English edition was “Journeys Among the Forgotten,” New York’s The Free Press gloatingly subtitled its 2001 American edition “The End of Privilege and the Last Colonials.”

The Dutch Burghers of Ceylon

Michael Ondaatje [4]

Michael Ondaatje

At a small hotel in Sri Lanka (Ceylon), author Orizio is served by a young white waiter. “He’s a Sri Lankan like me,” Orizio’s dark Sinhalese companion states matter-of-factly. “Hear how he speaks the language? He’s only a Dutch Burgher . . . Strange people. Dutch, or something of the sort. Maybe Portuguese. Some of them live in crumbling old houses. Nothing to cook with, roof falling in, but that’s where they like to live. As if this were still the 18th century. Perhaps, though they’re trash, they think they’re better than we are.”

With this grim sketch, proving once again that no matter how much we surrender or have taken from us we’ll always be hated for who we are, Orizio begins his slight but revealing account of six obscure, geographically dispersed “lost white tribes”: the Dutch Burghers of Ceylon, the German slaves of Jamaica, the Confederates of Brazil, the Poles of Haiti, the Basters (or Bastards) of Reheboth, Namibia (South West Africa), and the Blancs Matignon of Guadeloupe, a Leeward Island in the Caribbean Ocean. The people he describes are the remnants—some white, but many hybrid descendants of whites—who stayed behind when colonialism beat a shamefaced retreat before the rising tide of color against white world-supremacy.

The Dutch Burghers of Ceylon are the descendants of the Europeans who first arrived with the Dutch East India Company in the 1600s. They are mostly Dutch, but with an admixture of Portuguese, English, and other European nationalities whose members participated in the settlement and building of colonial Ceylon over the centuries.

In former times, the Dutch Burgher elite of Ceylon regarded the South African Boers, also of Dutch descent, as blood brothers. Contact between the two groups occurred after the English brought Boer POWs to Ceylon during the Boer War. Many Boer POWs married Dutch Burgher women. Burghers also served as combatants in that war, but on the English side because they were British subjects. (Ceylon was a British crown colony from 1798 to 1948.)

In recent years—as is true of all the groups described in the book—there has been a serious breakdown of racial barriers and greatly accelerated admixture between surviving Europeans and dark-skinned natives. For example, Michael Ondaatje, the author of the novel upon which the Academy Award-winning movie The English Patient was based, was born into the Dutch Burgher community, though his racial heritage is predominantly Tamil rather than European according Orizio’s interviewees. His surname “Ondaatje,” though, came from his Dutch ancestors.

In poignant counterpoint to the condescension and contempt displayed toward the impoverished white waiter by the black-skinned Sinhalese at the hotel, an elderly Dutch Burgher woman told Orizio, “We Burghers have become strangers in our own land. We have given so much, created so much. And now that I’m old, it sometimes happens at a reception that someone will ask me where I come from and how long have I lived in their beautiful country. They take me for a tourist, or a missionary. I tell them that my ancestors have probably been here longer than theirs. But the old times are gone forever. My parents and their friends would go horse-racing, then on to dinner, then dance until dawn. Then they would jump in their cars and dash down to the beach for a swim . . .”

The Germans of Jamaica

These people are the descendants of German indentured servants lured to the Caribbean island in the 1830s, probably under false pretenses. In return for working as virtual slaves on plantations for an agreed-upon number of years the newcomers were promised their freedom and a small plot of land.

After the completion of their service, however, they were given poor, agriculturally worthless land in the remote interior of the island around SeafordTown. There they have lived in poverty and isolation for 170 years. Orizio says there are now about 50 real Germans left, while the rest are hybrids.

One interviewee, Tony Wedemeyer, known as the “White Rastafarian,” had light skin and eyes and blond hair worn in dreadlocks; his brother was a Negro. Wedemeyer had had a series of blonde German lovers, young girls who traveled to Jamaica specifically to mate with black Rastafarians.

He told the author: “For centuries, Jamaicans have been a mixture of white, black, Chinese, Arab. Yet class distinctions still exist, and how! All based on the colour of your skin. If you’re Indian or Chinese, your class is defined automatically. We have seventeen different definitions for seventeen different shades of skin, from white white to black black. Each shade has its own name: Quadroon, Quintroon, Octoroon, etc. And the destiny of each is pre-determined.”

The Confederados of Brazil

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The Brazilian Confederates [6] are the descendants of southern veterans of the Civil War who migrated to Brazil between 1865 and 1885 to establish new plantations. (The Sons of Confederate Veterans established a Brazilian auxiliary, SCV Camp 1653, “Os Confederados” in 1994.) Some 10,000-20,000 emigrated, but many eventually returned to the US. Those who remained settled throughout Brazil, but the most stable group exists in and around Santa Barbara d’Oeste, in the country’s interior. There, descendants from all over the nation still gather at the Confederate cemetery (the tombstones are engraved in English) for an annual celebration.

Lost White Tribes features sixteen exceptionally clear color photographs taken by Orizio and Wool (who accompanied her husband on several of his journeys). Four of the photos are of Brazilian Confederates. One depicts a young Confederate girl with dark hair, skin, and eyes and non-white facial features, highlighting the intermarriage that has occurred. In vivid contrast, another photo shows a small Confederate lad wearing a gray uniform with a yellow sash and small gray cap. The boy is as handsomely Nordic in coloration and features as any of his unspoiled white American or European contemporaries. A third photo depicts a young Nordic Confederate couple in striking period costume.

The Basters of Namibia

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Of all the groups described by Orizio, the Basters (or Bastards) of South West Africa (Namibia), a wholly hybrid people, come across as the most likable. They are a cross between Dutch Boers and Hottentots (Khoikhoi), and live scattered across the vast, arid central plateau of South West Africa. Their unofficial capital is Reheboth, and they number between 30,000 and 45,000.

The Basters are descended from unions between Dutch pioneers and Hottentot or Nama women, resulting in a genetic and cultural mix that exists nowhere else in Africa. For three centuries they have been an ethnic entity in the truest sense, a tribe that came into being as a result of historical accident but has since developed a sturdy self-sufficiency and an identity distinct, both psychologically and genetically, from the peoples who founded it.

To English eyes, the Boers were guilty of two unforgivable sins: they used slaves as labourers on their farms, and they procreated children with these same slaves, Hottentot and Bushmen who expressed themselves in a language of clicks and snapping noises.

German physician and anthropologist Eugen Fischer, a prominent scientist in the Third Reich, wrote a famous early account of the Basters, unmentioned by Orizio, Die Rehobother Bastards und das Bastardierungsproblem beim Menschen (1913) (The Rehoboth Bastards and the Problem of Miscegenation Among Humans), a field study of interbreeding between two very different human races in a small population of 3,000 individuals whose family histories were known. Fischer concluded that interbreeding did not result in a new, intermediate race that was reproductively stable, but followed Mendelian laws according to which each generation would produce throw-backs to the original parent races as well as individuals of intermediate type.

The Basters, many of whom have Dutch or German names, are devout Calvinists. Their unofficial leader is designated “the Kaptein.” The charismatic Hans Diergaardt was the Kaptein interviewed by Orizio, though he died in 1999.

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In the Baster aristocracy the most highly regarded and wealthiest families are those who “have the whitest skin and the surnames of the original Trekkers who came from the Cape in their ox-drawn wagons.” The Baster Great Trek from Cape Province across all of South West Africa as far north as Angola occurred in 1866–1870. The Basters overcame many hardships and hazards along the way.

Fierce anti-Communists, the Basters were bitterly opposed to the Namibian government controlled by the Negro Ovambo of SWAPO. In 1991, SWAPO confiscated the Baster farmlands; its long-range goal is the destruction of the Basters as an ethnic group. The Ovambo regard Basters as “racists.”

Although Orizio does not mention it, in March 1990 shocked Western journalists reported: “Hans Diergaardt holds a press conference with members of a white neo-nazi organization from South Africa. Both are opposed to black rule in their respective countries. Diergaardt says the Baster community does not acknowledge Namibia’s new constitution. On 19 March, Diergaardt declares Reheboth autonomous and says the Basters will return to the rule of their forefatherly law of 1872. He will hold a referendum to decide on independence for the region.”

Unfortunately, the separatist effort failed, and the following year black Communists seized the Baster farmlands.

The Blancs Matignon of Guadeloupe

The Blancs Matignon of Guadeloupe [9]

Guadeloupe is a French possession in the Leeward Islands, West Indies, discovered by Christopher Columbus in 1493, abandoned by Spain in 1604, and settled by France in 1635. (The English contested French possession until 1815.)

The Blancs Matignon who live there—“Blancs” (white) from the color of their skin, “Matignon” from the most common surname of the group’s members, the name of the aristocratic French clan from which they claim descent, and the name of their village—today numbering around 400, are the obscure, poverty-stricken descendants of early French settlers who in Napoleon’s time abandoned the coastal areas to seek their fortune in the furthest corner of the island, the region today known as the Grands Fonds.

An online source states [10] that the Grands Fonds region was the refuge of aristocrats who fled the massacres of the French Revolution. Blancs Matignon, the name of their first settlement, still has a small farming community that has survived consanguineously.

Unfortunately, the economy of the back country has remained poor. The Matignon are despised by both the Negroes and the coastal Béké—“the wealthy, respectable whites, the tiny elite that studies, accumulates, and governs, maintaining strong ties with France.”

Due to their extreme geographical isolation, poverty, aloofness, and generations of intermarriage to avoid miscegenation with the surrounding Negroes, the Matignon are described much like the poor Southern whites shown in the movie Deliverance. They bear the brunt of ugly gossip and rumors of incest and deformed children supposedly hidden away from the eyes of the world. And yet, Orizio mentions seeing only one physically deformed person.

Today, Matignon intermarriage with Negroes is increasingly common and more and more children are coffee-colored Creoles or mulattos. Emigration to Canada, Australia, and France has also pushed the group to the verge of extinction.

In Orizio’s commonsense view, the solution is intermarriage with the Santois, a group of 1,500 rugged and fiercely independent fishermen of Norman and Breton descent who live a few miles away on Les Saintes, an archipelago of eight small islands. Unfortunately, the two groups do not get along (!).

Although the Matignon refused to be photographed by Orizio, he did manage to obtain three dazzling color photographs of the Santois (who were even more standoffish and uncooperative than the Matignon), showing two fishermen and a small blond child. These three individuals, all with striking good looks, are the most Nordic-looking of all the subjects whose photographs appear in the book.

Orizio’s ultimate assessment of the Blancs Matignon population is that it is “dying in this corner of the Caribbean in exactly the same way that it had lived, in silence, almost in secret, peering at the rest of the world through a keyhole.”

In view of ongoing anti-white repression and Third World inundation of all European homelands, the question unintentionally posed by the author is: Does the genetic, economic, social, and cultural devolution depicted here foreshadow the collective fate of Western man and the civilization he created? None of the groups studied has retained its racial or cultural integrity; all are in a state of steep decline. Is Lost White Tribes a prophetic journey into our own collective future?

Most of the groups maintained effective barriers for long periods of time—centuries, in some cases. And yet, today interracial sex and marriage are commonplace, and mixed race couples and their offspring frequently live in conditions of squalor, ignorance, and poverty no different from the debased people around them. It appears that this downhill slide accelerated markedly after World War II, and even since the 1960s. Why?

The collapse of colonialism eliminated white privilege, including a sense of pride and apartness. In many cases the non-white majority treated the remaining whites with contempt. Modern transportation and communications destroyed conditions of geographic and social isolation that formerly kept people apart.

While a handful of whites encountered in these pages possess pride and a weak sense of racial identity, the vast majority do not. A remarkable number of them, regardless of their geographic remoteness, know little about their European heritage and care less. Their “beliefs” are trendily anti-white. Some are filled with self-loathing and are hostile toward their own self-kind.

In fact, there is a striking homogeneity of views about this among whites in every corner of the planet. Wherever Orizio traveled he was greeted time and again by the refrain, “We’re not racist.” Only occasionally does the author mention his subjects watching television; but even those living in the most remote and poverty-stricken areas seem to do so.

Not one European nation or homeland—not one—is being spared the fate of these people. Based upon the stories in the book, there is nothing inherent in our nature that will automatically halt the process of racial devolution and genocide.

Instead, it will be necessary to summon the will from within to halt the trend and ruthlessly eliminate the tyrants who are murdering us.

The Poles of Haiti

Haitian Polish girl [11]

Haitian Polish girl

In Lost White Tribes, the Poles of Haiti are the limiting case, exemplifying the logical culmination of current racial trends and forces—namely, the complete eradication of whites physically, culturally, and spiritually.

These sad people derive from Polish soldiers sent to the French colony of Saint-Domingue by Napoleon at the beginning of the 1800s to aid French troops in suppressing the slave rebellion there.

The French were defeated, and in 1804 the bloodthirsty Negro Jean-Jacques Dessalines announced the establishment of the world’s first black republic, initiating a spectacular series of failures on the island. The French residents, together with all other whites save the aforementioned Poles, who had been captured by the Negro rebels, were pitilessly massacred. Dessalines boasted that he would “write this act of independence using the skull of the white man as my inkwell, his blood as my ink and his skin as my blotting paper.”

The captive Poles were not just spared, but warmly praised by the dictator. It is widely believed that Polish soldiers joined the Negro rebels and stood guard over their fellow whites while the latter were penned prior to being massacred.

The hybridized Negro descendants of these Polish soldiers (no pure whites survive) subsist today in the poor, remote village of Casales, where Orizio found only three youngsters, siblings, with slightly lighter complexions than the other children.

The people of Casales now speak Creole, not Polish. Poland

has been but a vague concept for generations. No one can even visualize what the real place may be like. The soldier-ancestors left no books, no documents, and in many cases not even mementos or tales to be passed down through the family. All that remains is a dance they call the polka, and those Slav features.

Casales has no electricity, no phone, no running water, no nurse, no cars, no school, and now no church. Even the graveyard with all Polish names on the headstones is semi-abandoned. We noticed, too, that every one of the few faces around us was as dark as Haitians anywhere else. Eventually a small girl stepped forward to ask the question that was in everyone’s mind. “Have you come from Poland?”

Isolated and forgotten peasants, immersed in the melancholy of their Slav ancestors, the hope lives on that this is all a nightmare, and that one day they will awaken in that magic land called Lapologne. Of this, however, they must not speak too much, or the spirits of the forest could come seeking revenge.

Meanwhile, in the abandoned churchyard beneath the Polish headstones, their white ancestors sleep silently in the shimmering island heat, never to waken again.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/08/journeys-among-the-forgotten-riccardo-orizios-lost-white-tribes/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/orizio.jpg

[2] Lost White Tribes: http://www.amazon.com/gp/product/0743211979/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=0743211979&linkCode=as2&tag=countercurren-20

[3] On his website: http://www.riccardoorizio.com/lostwhitetribes/index.html

[4] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/michael-ondaatje.jpg

[5] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/festa-confederada.jpg

[6] Brazilian Confederates: http://en.wikipedia.org/wiki/Confederados

[7] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/baster.jpg

[8] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/basters.jpg

[9] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/The-Blancs-Matignon-of-Guadeloupe.jpg

[10] An online source states: http://www.guadalupaonline.com/guadeloupe/guadeloupe_island.htm

[11] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/Haitian-Polish-girl.jpg

jeudi, 02 mai 2013

Deutschlands unbekannte Jahrhunderte

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Reinhard Schmoeckel

 

Deutschlands unbekannte Jahrhunderte

 

Geheimnisse aus dem Frühmittelalter

 

524 Seiten, 11 Karten im Text, geb., fester Einband

ISBN 978-3-938176-41-2

Preis: 29,80 Euro

Erscheinungstermin: Mai 2013

Was war in unserem Land - Deutschland - vor etwa 1500 Jahren los ? Das war die Zeit zwischen dem Ende des Römischen Kaiserreichs und den Kaisern eines „heiligen römischen Reichs", die nun plötzlich aus Mitteleuropa stammten ? Gab es da bei uns überhaupt „Geschichte" ? Gab es Ereignisse, die vielleicht bestimmend für die weitere Entwicklung der Menschen und des Landes waren ? Und ob.

Allerdings glauben die Historiker, davon kaum etwas zu wissen, denn niemand hat ja damals in unserem Land schreiben können. Aber Indizien aus den archäologischen Funden, aus der Heraldik, der Namens- und Sprachforschung, aus der Sagenforschung und zahlreichen anderen Wissenschaften ergeben Mosaiksteinchen für ein riesiges Puzzle. Man muss nur bereit sein, sie als zusammengehörig zu erkennen und verständlich zu beschreiben, dann kann man viele Bild-Bruchstücke sichtbar machen, die das Frühmittelalter, „Deutschlands unbekannte Jahrhunderte", gar nicht mehr so dunkel, so unbekannt erscheinen lassen.

Dr. Reinhard Schmoeckel ist es gelungen, aus einer großen Fülle von Detailuntersuchungen vieler Privatforscher, darunter auch seiner eigenen, ein überraschend lebendiges Bild jener Zeit vor anderthalb Jahrtausenden zusammenzustellen, ein Bild, das bisher noch keinen Eingang in die bisher übliche Vorstellungswelt der Geschichtswissenschaft gefunden hat. Dabei lassen sich alle Einzelheiten präzise belegen.

Das Buch zeigt, wie Menschen mehrerer Völker - keineswegs nur Germanen ! - nach Mitteleuropa kamen, zu verschiedenen Zeiten und aus unterschiedlichen Richtungen. Ganz allmählich wuchs der Einfluss des westlichen Nachbarn, des inzwischen entstandenen Königreichs der Franken, und des Christentums. Doch wie fragil war damals noch diese Herrschaft, bevor die Frankenkönige aus dem Haus der Karolinger die Macht in einem Land bekamen, das erst viel später „Deutschland" heißen sollte.

Als populärwissenschaftlicher Schriftsteller mit großer Erfahrung in der Frühgeschichte Europas bringt es der Autor fertig, dem Leser die allmählichen Veränderungen plastisch vor Augen zu stellen, die in jener Zeit mit den Menschen vor sich gingen.

Reinhard Schmoeckel, geb. 1928 in Berlin, journalistische Ausbildung, Dr. jur., langjährige Tätigkeit im Bundespresseamt, Bundskanzleramt, Bundespräsidialamt in Bonn. Autor mehrerer erfolgreicher populärwissenschaftlicher Bücher über deutsche und europäische Vor-und Frühgeschichte und historische Romane, darunter das Buch „Die Indoeuropäer" (Neuauflage 2012 im Lindenbaum Verlag).

Vielen Dank!

Mit freundlichen Grüßen

Siegfried Bublies

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Inhaltsverzeichnis des Buches "Deutschlands unbekannte Jahrhunderte" von Dr. Reinhard Schmoeckel:

 

Vorwort          

Teil I: Hunnen am Horizont  (407 – 454 n. Chr.)

1   Die Nachhut der Völkerwanderung

     „Ein schöner Platz für unser Vieh” (April 407 n. Chr., beim heutigen Mainz-Kastell) – Wer waren die Sarmaten ?Pferdegräber: Indizien für die Einwanderung von Sarmaten

2   Die Burgunder und der Kaiser

     „Vivat Imperator Jovinus !” (Mitte August 411, Mündt, Gem. Titz, Kreis Düren) – Die Burgunder lebten doch in Worms !?

3   Der lange Weg der sarmatischen Reiter von der Donau zur Schelde....

     „Auf Befehl des Kaisers…” (Frühjahr 414 in Castra Vetera / Xanten am Rhein)  – Unbekanntes über die Vorfahren der Merowinger-Könige – Sicambrer und  Sigambrer, ein bemerkenswertes historisches  Zusammentreffen

4   Die Wanderungen der Alt-Sachsen

     Abschied von der uralten Heimat  (Frühjahr 430 an der Wesermündung bei Bremerhaven) – Ein Land verliert seine Menschen – Keine “drei Schiffe”, kein „Hengist und Horsa”

5   Das Ende des „ersten Reichs” der Burgunder

     Des Königs Gundahari und seiner Nibelungen tapferer Tod (Spätherbst 436, in König Attilas Lager in Ungarn) –Geschichtsforschung widerlegt und bestätigt das  Nibelungenlied – Burgunder, ein Volk, das wanderte

6   Kölns Weg aus dem Römerreich in eine neue Zeit

     Ein Heil zu wenig ? (Sommer 442 in Köln)  –  Plausible Indizien gegen „Überzeugungen”

7   Der Anfang vom Ende Attilas

     Hunnen am Rhein (Spätherbst 451 bei Unkel/Rhein) – Wenn  es  keine Heimatforscher gäbe … – Was wollte 

Attila in Gallien ?

Teil II  Zuwanderer in ein menschenarmes Land  (455 – ca. 490 n. Chr.)

8   Mit Mensch und Vieh ins Hunenland

     Auf der Flucht vor den Kriegen der Anderen  (Sommer 455 in Ungarn) – „Man muss sich gegen die Schachmänner wehren !” (Sommer 456 an der oberen Lippe in Westfalen) – Von „Schachmännern” und „Schächern”  – Mustangs  in  Westfalen – Ein Mithras-Heiligtum an den Externsteinen

9   Das römische Köln noch einmal gerettet

     Die Colonia in Bedrängnis (Herbst 460 in Köln) – Fiktive und realistische Geschichtsdarstellung  Plausible Gründe gegen eine „Herrschaft” von Germanen am Rhein – „Bayern” in Köln ?

10 Sarmatische Könige in Thüringen ?

     Die Männer in den blauen Umhängen (Sommer 465 im heutigen Erfurt) – Warum Archäologen nie etwas von den Sarmaten finden konnten – Erstaunliches über die Verbindung von Thüringen zu den Merowingern – Wie aus Mänteln Feldzeichen und aus diesen Wappen wurden

11 Aus Turkerern und Sueben werden Schwaben

     Der Ritt ins Anderland für einen Edlen  (Herbst 480 bei Donzdorf, Baden-Württemberg)   Die unglaubliche und dennoch wahre Geschichte der Turkerer im Schwabenland – Vom toten Babai zum Kaiser Barbarossa ? – Waren die  Sarmaten bereits Christen ?

12 Einwanderung von der Maas an den Rhein

     Der Mutige kann König werden (Sommer 495,  im Maifeld, Rheinland-Pfalz – Die Samson-Geschichte in derThidrekssaga Rätselhafte „Völker” in der “Svava

13 Schachmänner und Hunen in Westfalen

     Das Kastell an der Lippe (Sommer 500 an der Lippe nördlich von Dortmund ) – Indizien aus Sage und Geographie

Teil III  Das Reich der Franken greift über den Rhein (ca. 500 – 560 n. Chr.)

14 König Chlodwig und die Alemannen

     In der neuen Patria Francorum (Spätherbst 506 in Worms/ Rhein)  - Nur aus Indizien zu schließen

15 Endlich König in Köln

     Chlodwig am Ziel seiner Wünsche (Weihnachten  509, Paris) – Das Zeugnis des Bischofs  Gregor von Tours –Chlodwigs umfassendes Konzept

16 Die letzten Römer werden Franken

     „Im Auftrag des Königs der Franken…” (Sommer 515, in Krefeld-Gellep) – Das größte römische Gräberfeldnördlich der Alpen  – Woher will man wissen, dass der Tote eine Sarmate war ?

17 Völkerwanderungen an der Ostsee

     König Granmars trauriges Ende und die Auswanderung der Dänen (Spätsommer 520, an der Warnow in Mecklenburg) –  Ein Geschichtsbild aus Mosaiksteinchen rekonstruiert

18 Ganz unmerklich wächst der Einfluss

     Eine Heirat zwischen Freunden (Sommer 525 in Alt-Paffrath b.Bergisch Gladbach) – Kleine Anfänge der  „Herren von  Berg” – „Tu, felix Francia, nube…”

19 Die Frankenkönige erobern das Thüringerreich ihrer Vettern

     Ein Aufstand kurz vor dem Ausbruch gescheitert (Sommer 534, Großörner bei Eisleben, Sachsen-Anhalt) – Versuch eines  Blicks auf die Politik hinter den Ereignissen

20 Eine Klimakatastrophe und ihre Folgen für das Frankenreich

     Das Heer, das die Sonne suchte (Sommer 536, in Metz, Frankreich, später in Soest/Westfalen) – Als die Sonneerlosch – Der tiefe Eindruck auf die Menschen und ein erster „Kreuzzug” nach Westfalen – Die Ausdehnung des Frankenreichs ins südliche Deutschland

21 Ein Volk auf Wanderschaft

     Neuer Aufbruch für die Langobarden (Spätsommer 548  in Mähren/Tschechien) – Die Nachzügler der Völkerwanderung

Teil IV   Mitteleuropa im Kräftefeld zweier Mächte (562 – 640 n. Chr.)

22 Abwehr an der Elbe

     Ein denkwürdiger Sieg (Sommer 562, an der Elbe bei Dessau) – Informationen über die Awaren – Die Bürger-kriege der Frankenkönige

23 Die Völkerwanderung der Slawen

     Die Sorben am Ziel (Spätherbst 564, beim heutigen Bautzen / Lausitz) – Theorien zur Entstehung slawischerund baltischer Völker im Frühmittelalter –  Die weiteren Schicksale der Sorben  – Andere slawische Einwander ins spätere Deutschland

24 Der Fürst von Beckum

     Ein Grab in der Heimat (Spätherbst 575, in Beckum/ Westfalen) – Der „Fürst von Beckum” war kein Sachse –Das rot-weiße Schachwappen der Grafen von der Mark

25 Der abenteuerliche „Sachsen”-Zug in die Fremde und  wieder in die Heimat

     Die Erinnerungen der edlen Frau Baldegunde (Spätherbst 590 in Dortmund-Asseln) – Ein archäologischer Beleg fürdie Erzählung Gregors von Tours  – Ein Drama an der Bode

26 Die Friesen müssen neue Wohnsitze suchen

     Flucht vor dem „blanken Hans” (Sommer 600 in Butjadingen westlich der Wesermündung) Ein Stamm im  frühen und heutigen Deutschland: die Friesen

27     Das Urteil von Köln

     „Das war eines Königs unwürdig !” (Jahreswende 612, in Soest/Westf.) – Die Grausamkeiten innerhalb der 

Merowinger-Dynastie und deren Folgen im „Land jenseits des Rheins”   

28 In ein freies Land

     Die Burg der Papen (Frühsommer 630 in Papenburg/ Ems) – Die Ausbreitung von Sarmaten in Niedersachsen –Papen: die ersten christlichen „Missionare” in Deutschland – Wie kamen Pferdegräber in die Niederlande und nach Belgien?

29 Franken und Slawen – Der schlechte Beginn einer schwierigen Nachbarschaft

     König Dagoberts schmähliche Flucht (Frühjahr 631, bei Lauterbach/Hessen) – Die historische Lage im Frankenreich und in Osteuropa um das Jahr 630 – Slawen lebten einst bis zum Vogelsberg in Hessen

30 Ein Massenmord im Mittelalter

     Die Nacht des Tötens (Sylvester 631 bei Linz/Donau) – Staatsräson gegen ein uraltes Sittengesetz – Der Bulgarenmord als Vorbild für das Nibelungenlied 

31 Herrschaftswechsel

     Die neuen Knechte des Bischofs (Herbst 639 in Soest/Westf.) – Vermutungen zu einem „schwarzen Loch des Nichtwissens”

Teil V  Ein neuer Glaube breitet sich aus  –  aber nicht überall  (650 – 755 n. Chr.)

 

32 Ein neues Volk wächst zusammen

     Burgenbau mit doppeltem Zweck (Frühsommer 645,  an der Mecklenburg bei Schwerin) – Die Ursprünge der  slawischen Obotriten

33 Christliche Sendboten bei den Alemannen

     Das wundersame Begräbnis des Mönchs Fridolin (März 660 in Säckingen / Hochrhein) –Der heilige Fridolin: Legende und Realität – Die zarten Anfänge christlicher Mission – Wer herrschte über die Alemannen ? –  Spekulationen über den Weg der Habsburger in die Schweiz

34 Der Ursprung des Kölner Karnevals

     Das Fest der Handwerker (21. März 670 in Köln) – Karnevalsbräuche aus Mittelasien ?

35 Die Zeit der Frisia Magna

     König Radbods Goldgruben am Rhein (Sommer 681, in Utrecht/ Niederlande) – Ein Blick in die Geschichte derFriesen – Vorgeschichtlicher Handel an Meeren und Flüssen

36 In den „Landen um den Main”

     Drei Glaubensboten spurlos verschwunden (Winter 691, in Würzburg/Main) – Die iro-schottischen Missionare – Warum Franken Franken heißt  

37 Der Aufstieg eines starken Mannes

     Kraft aus geheimnisvollen Quellen (Oktober 715 in Echternach/Luxemburg) – Von Pippin II. zu Karl Martell – Ein heiliger Bezirk seit tausenden von Jahren – Der vergebliche Versuch einer merowingischen Restauration

38 Bonifatius und seine Kollegen

     „Die Kirche braucht den Schutz der Krieger !” (Herbst 723 in Mainz) – Ein neuer Ansatz zur Heidenmission –Bonifatius, der „Apostel der Deutschen”

39 Aus der Jugend Widukinds

     Letzte Ehre für einen Edlen (Herbst 755 in Drantum, Krs. Cloppenburg) – Ist das Dunkel um das Leben  Widukinds wirklich so dicht ? Von den West-Falen zu den „Sachsen”

Nachwort       

Literatur         

Register:

Völker, Stämme, Herrschergeschlechter

Karten

dimanche, 07 avril 2013

Scientific American über die Realität von Rassen

Scientific American über die Realität von Rassen

By Michael Polignano

Ex: http://www.counter-currents.com/

 Übersetzt von Deep Roots

English original here

[Scientific American, dessen Titelseite oben zu sehen ist, ist übrigens das amerikanische Mutterschiff der deutschen Ausgabe „Spektrum der Wissenschaft“, in der neben deutschen Beiträgen auch Übersetzungen aus Scientific American mit ein bis zwei Monaten Verzögerung erscheinen.]

Anmerkung des Herausgebers [Greg Johnson]:

Dieser Essay stammt aus Michael Polignanos Buch „Taking Our Own Side“, das hier [3] als Hardcover, Paperback und PDF erhältlich ist. [Anm. d. Ü.: Dieses Buch kann ich sehr empfehlen – ich habe es auch.]

Finnische Übersetzung hier [4].

16. Dezember 2003

Das wissenschaftliche Studium der Rassen befindet sich an einem Scheideweg. Durch die Kartierung des menschlichen Genoms wissen die Wissenschaftler mehr über Rasse und Rassenunterschiede als je zuvor. Aber da die Gesellschaft immer mehr in die Lüge von der Rassengleichheit investiert, wird es für Wissenschaftler immer schwerer, diese Wahrheiten auszusprechen. Außerdem haben egalitäre Spin-Doctors in einem verzweifelten Versuch, die schlimmen politischen Konsequenzen der rassischen Wahrheit abzuwenden, eine große Menge Desinformation über die kürzlichen genetischen Entdeckungen verbreitet.

Man sagt uns zum Beispiel, daß die Unterschiede zwischen den Rassen vom genetischen Standpunkt aus vernachlässigbar sind, eine Sache von bloß ein paar Genen. Daher sollen wir schlußfolgern, daß Rassenunterschiede vernachlässigbar sind, Punkt. Rassenunterschiede, sagt man uns, sollten überhaupt keine praktischen Implikationen haben.

Aber das ist genauso absurd, wie wenn man argumentieren würde, daß es – nachdem feste Objekte aus dem Blickwinkel der subatomaren Physik großteils leerer Raum sind – bloß reines Vorurteil ist, daß wir lieber auf einer Straße fahren statt über eine Klippe.

Die Wahrheit ist: aus kleinen genetischen Unterschieden erwachsen große physische, spirituelle, kulturelle und politische Unterschiede. Falls die Genetiker diese Unterschiede nicht sehen können, dann suchen sie vielleicht an der falschen Stelle.

Man sagt uns auch routinemäßig, daß es eine größere genetische Variationsbreite innerhalb der Rassen gibt als zwischen ihnen. Es kann einen Unterschied von 100 IQ-Punkten geben zwischen einer extrem klugen und einer extrem dummen weißen Person. Aber es gibt nur 30 Punkte Unterschied zwischen dem Durchschnitt der Weißen und dem der Schwarzen. Daher, sollen wir schlußfolgern, sollten wir uns nur mit Individuen befassen und die Gruppendurchschnitte ignorieren.

Das Problem bei diesem Argument ist, daß Gesellschaften nicht aus isolierten Individuen bestehen, denn Individuen sind Bestandteile und Produkte von Fortpflanzungspopulationen. Fortpflanzungspopulationen, die über einen langen Zeitraum isoliert und unterschiedlichen Umweltbedingungen ausgesetzt waren, werden zu verschiedenen Rassen.

Und wenn die durchschnittliche Intelligenz – oder irgendeine andere wichtige Eigenschaft – zweier Fortpflanzungspopulationen, die dasselbe geographische Gebiet teilen, sich dramatisch unterscheidet, dann muß es zu Konflikten kommen. Die überlegene Gruppe wird sich unvermeidlicherweise über den hemmenden Effekt der unterlegenen ärgern, und die unterlegenen Gruppen werden die unmöglichen Standards verübeln, die von der überlegenen aufgezwungen werden.

Aber die praktischen Implikationen der rassischen Wahrheit sind schwer zu leugnen, und die Wahrheit sickert durch, manchmal an unwahrscheinlichen Stellen. Ein Beispielsfall ist der Titelartikel der Ausgabe Dezember 2003 von Scientific American, das trotz seines Titels üblicherweise so politkorrekt ist wie jedes Nachrichten- oder Unterhaltungsmagazin. Die Titelseite zeigt sechs weibliche Gesichter, die verschiedenen Rassen anzugehören scheinen, zusammen mit dem Bildtext: „Does Race Exist? Science Has the Answer: Genetic Results May Surprise You.“ [„Gibt es Rassen? Die Wissenschaft hat die Antwort: Genetische Resultate könnten Sie überraschen.“] Im Inhaltsverzeichnis lesen wir: „Gibt es Rassen? Vom rein genetischen Standpunkt, nein. Trotzdem können genetische Informationen über die Abstammung von Individuen manchmal medizinisch relevant sein.“

Das hat meine Aufmerksamkeit geweckt. Wenn Rasse medizinisch relevant ist, warum ist sie dann nicht genauso auch psychologisch relevant, kulturell relevant, moralisch relevant und politisch relevant? Und wenn die Wissenschaft von der Genetik solche drängend relevanten Unterscheidungen als unreal oder winzig betrachtet, ist dann nicht etwas faul an der genetischen Wissenschaft oder an unserer Interpretation und Anwendung ihrer Befunde?

Die Autoren des Artikels, Michael Bamshad und Steve Olson, argumentieren, daß „Menschen unter Verwendung genetischer Daten grob in Gruppen sortiert werden können.“ Diese Gruppen scheinen weiters geographisch getrennt zu sein – zumindest vor den massiven Bevölkerungsverschiebungen der Moderne. Nun ist dies ein riesiges Eingeständnis, denn die Existenz genetisch verschiedener Menschengruppen ist gewiß ein Teil dessen, was mit „Rasse“ gemeint ist, und genau das, was von jenen verleugnet wird, die behaupten, daß Rasse bloß ein „Sozialkonstrukt“ ist.

Die Basis für die Behauptung, daß Rassen „vom rein genetischen Standpunkt aus“ nicht existieren, ist der Konflikt zwischen genetischen Klassifizierungen und traditionellen rassischen Kategorien. Solche Kategorien beruhen nicht auf einer Analyse der Gene (Genotyp), sondern auf dem sichtbaren Ausdruck dieser Gene (Phänotyp). Dies mag stimmen, aber es beweist nicht, daß „Rasse nicht existiert“. Es beweist nur, daß es einen Konflikt zwischen genotypischen und phänotypischen Rassedefinitionen gibt.

Zum Beispiel merken die Autoren an, daß sub-saharische Afrikaner und australische Aborigines ähnlich aussehen und sich ähnlich verhalten, daß aber genetische Marker anzeigen, daß sich ihre Vorfahren vor langer Zeit getrennt haben. Aber der Konflikt zwischen den Klassifikationsschemen ist eher real als scheinbar, denn Australoide und Negroide sehen sich nur für das ungeschulte Auge ähnlich. Jeder, der Mitglieder der beiden Gruppen miteinander vergleicht, wird leicht die Unterschiede sehen, und mit ausreichend Erfahrung ist es buchstäblich unmöglich, sie miteinander zu verwechseln.

Die Autoren merken auch an, daß die sozialen Rassedefinitionen von Region zu Region variieren: „jemand, der in den Vereinigten Staaten als ‚schwarz’ klassifiziert wird… könnte in Brasilien als ‚weiß’ betrachtet werden und als ‚farbig’… in Südafrika.“ Aber dies ist ebenfalls ein Versuch, die Unterscheidung nach Phänotyp zu diskreditieren, indem man nur auf ihre gröbsten Formen verweist. Jedoch können phänotypische Klassifizierungsschemen in Gesellschaften mit einem großen Maß an Rassenvermischung recht komplex sein, um die Komplexitäten der zugrundeliegenden Genotypen wiederzugeben:

Die frühen französischen Kolonisten in Saint-Domingue [heute: Haiti] identifizierten 128 unterschiedliche Rassentypen, die recht präzise nach einer mathematischen Skala definiert wurden, welche durch einfache Berechnungen der Abstammungsanteile bestimmt wurde. Sie reichten vom „wahren“ Mulatten (halb weiß, halb schwarz) durch das Spektrum von marabou, sacatra, quarterón bis hin zum sang-mêlé (Mischblut: 127 Teile weiß und ein Teil schwarz)… Die Soziologin Micheline Labelle hat 22 rassische Hauptkategorien und 98 Unterkategorien gezählt (für variierende Haartypen, Gesichtsstrukturen, Farbe und andere Unterscheidungsfaktoren), die in den 1970ern unter Haitis Mittelklasse in Port-au-Prince verwendet wurden. Innerhalb jeder Kategorie waren die Worte oft genauso einfallsreich, wie sie beschreibend waren: café au lait („Milchkaffe“), bonbon siro („Zuckersirup“), ti canel („ein wenig Zimt“), ravet blanch („weißer Kakerlak“), soley levan („aufgehende Sonne“), banane mûre („reife Banane“), brun pistache („erdnußbraun“), mulâtre dix-huit carats („18karätiger Mulatte“)… [1]

Ein tieferes Problem mit der Betonung des Genotyps durch die Autoren ist, daß, auch wenn unterschiedliche Genotypen zu ähnlichen Phänotypen führen können – die Natur kann verschiedene Mittel einsetzen, um dasselbe Ziel zu erreichen – die Kräfte der Evolution sich keinen Deut um spezifische Genotypen scherten, sie „scherten“ sich nur darum, wie sich jene Genotypen in einem Individuum ausdrückten. Daher ist der Phänotyp vom praktischen Gesichtspunkt aus wichtiger als der Genotyp.

Die Autoren geben jedoch zu, daß phänotypische Rassenkategorien gut funktionieren, um Gruppen nach ihrer Neigung zu gewissen Krankheiten zu unterteilen, wie Sichelzellenanämie (am häufigsten unter Afrikanern) und zystische Fibrose (am häufigsten unter Europäern). Die Allele für Sichelzellenanämie und zystische Fibrose nahmen an Häufigkeit zu, weil ihre Träger (d. h. jene mit einer Kopie vom Vater oder der Mutter; zwei Kopien sind für die Krankheit nötig) gegenüber parasitischen Mikroorganismen resistent waren, die jeweils in Afrika und Europa vorkommen. Ein weiteres Beispiel ist, daß bewiesen wurde, daß derselbe Polymorphismus im CCR5-Gen den Krankheitsverlauf von AIDS bei Weißen bremst, aber bei Schwarzen beschleunigt.

Wegen der zunehmenden genetischen Beweise für die medizinische Relevanz von Rasse hat die US Food and Drug Administration der unvermeidlichen Kontroverse getrotzt und im Januar 2003 empfohlen, daß Forscher bei klinischen Versuchen Rassedaten sammeln.

Daher die extrem vorsichtige Schlußfolgerung der Autoren: „In Fällen, wo die Zugehörigkeit zu einer geographisch oder kulturell definierten Gruppe mit gesundheitsbezogenen genetischen Merkmalen korreliert worden ist, könnte es wichtig sein, etwas über die Gruppenzugehörigkeit eines Individuums zu wissen.“

Dies ist ein weiteres riesiges Eingeständnis. Denn wenn rassische Unterschiede medizinisch relevant sind, warum sind sie dann nicht genauso auch kulturell, sozial und politisch relevant? Zum Beispiel bedeutet die Tatsache, daß Neger im Durchschnitt mehr Testosteron produzieren als andere Rassen, daß schwarze Männer ein höheres Risiko für Prostatakrebs haben. Aber höhere Testosteronproduktion bedeutet auch, daß schwarze Männer mehr zu aggressivem Verhalten neigen. Wenn also Ärzte schwarze Männer rassisch profilieren sollten, warum sollten das dann nicht auch Polizisten tun?

Verglichen mit Weißen, haben Schwarze auch einen niedrigeren IQ und ein niedrigeres Empathieniveau, ein schwächeres Gefühl für persönliche Leistungsfähigkeit und Verantwortung, eine größere Neigung zu Soziopathie und Psychosen, weniger Verhaltenshemmungen, größere Impulsivität, höhere sexuelle Aktivität und geringere elterliche Investition etc. Sicherlich haben diese rassischen Unterschiede ebenfalls wichtige praktische Implikationen.

Wenn man die nervösen Einschränkungen und vorsichtigen Wortklaubereien der Autoren wegschnippelt, dann gibt „Does Race Exist?“ zu, daß es eine genetische Basis für Rassenunterschiede gibt und daß diese Unterschiede praktische Bedeutung haben. Dies ist ein ermutigendes Zeichen im heutigen Klima der ideologischen Rassenverleugnung™. Offen gesagt ist es bemerkenswert, daß es überhaupt in Scientific American veröffentlicht wurde.

Eine Erklärung dafür, daß es veröffentlicht wurde, könnte man im Leitartikel „Racing to Conclusions“ von John Rennie und Ricki Rusting finden. Sie beginnen damit, daß sie das Scheitern von Proposition 54 in Erinnerung rufen, der kürzlichen kalifornischen Wählerinitiative, die der Regierung auf vielen Gebieten verboten hätte, rassische Daten zu sammeln. Obwohl Proposition 54 die Sammlung rassischer Daten für Gesundheitszwecke ausdrücklich erlaubte, behaupteten viele Ärzte und medizinische Gruppen, daß die Maßnahme Bemühungen behindern würde, Krankheiten nachzuverfolgen und zu behandeln, die sich auf verschiedene Rassen unterschiedlich auswirken. Die Redakteure stellen diese düsteren Prophezeiungen in Frage, nicht weil Proposition 54 ihre Besorgnisse zerstreut hätte, sondern weil sie den Artikel von Bamshad/Olson mißverstanden und fälschlicherweise behaupten, daß seine Autoren fest gegen die Verwendung rassischer Klassifizierung in der Medizin seien. Man fragt sich, ob der Artikel in Druck gegangen wäre, wenn die Redakteure ihn verstanden hätten!

Die Redakteure zitieren die Schwierigkeiten rassischer Klassifizierung, besonders der Klassifizierung gemischtrassiger Individuen. Dann beklagen sie, daß „Rasse in der Forschung als Surrogat für genetische Unterschiede“ benutzt wird, als ob die Korrelation zwischen den beiden bedeutungslos wäre. Sie verweisen auf die Empfehlung der FDA und zitieren J. Craig Venters Bemerkung: „Die selbstzugeschriebene Rasse als Surrogat dafür zu verwenden, eine Person direkt auf ein relevantes Merkmal zu testen, ist ähnlich, als würde man das Durchschnittsgewicht einer Gruppe aufzeichnen, statt jedes Individuum zu wiegen.“

Natürlich kann man von Venter erwarten, daß er gegen rassische Klassifizierungen in der Medizin ist. Damit ist er nicht nur politisch korrekt, sondern nimmt auch eine Position ein, von der er beträchtlich profitieren könnte, nachdem seine Firma Celera die erste war, die das menschliche Genom sequenziert hat und wahrscheinlich die erste wäre, die das individuelle Gensquenzieren massenmarktfähig machen würde.

Die Redakteure lassen jede Erwähnung der Vorteile rassischer Klassifizierung in der Medizin weg. Wer den Hauptartikel nicht liest, würde unrichtigerweise schlußfolgern, daß Rasse in der Medizin keine Verwendung hat. Noch ein Beispiel dafür wie die Medien die Wahrheit verdrehen und verzerren. Zum Glück kann jeder, der den Artikel liest, die Verdrehung durchschauen. Wenn solch eine Geschichte jedoch von den Breitenmedien gebracht würde, dann könnten Sie sicher sein, daß die Verdrehung alles ist, was das Publikum bekommen würde.

Das Titelbild riecht ebenfalls nach politisch korrekter Rassenverleugnung™. Die Bilder von sechs attraktiven Frauengesichtern aus scheinbar verschiedenen Rassen wurden von Nancy Burson unter Verwendung eines Morphing-Programms geschaffen, das dazu bestimmt ist, verschiedene Rassenmerkmale zu simulieren. Nur die blonde, blauäugige Frau ist echt. Die anderen Bilder wurden durch Abänderung ihres Bildes geschaffen. Aber man kann sehen, daß die darunterliegende Knochenstruktur, Lippen und Nase der Frau unverändert bleiben, obwohl diese zwischen den Rassen beträchtlich variieren. Nur Hautfarbe, Augenfarbe und Haarfarbe scheinen zu variieren. Die offensichtliche Botschaft des Fotos ist, daß Rasse nur eben bis unter die Haut geht. Die Welt besteht bloß aus Weißen mit unterschiedlichen Farbschattierungen. Was kann das schon schaden?

[5]

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Das erinnert mich an ein Bild in einem Bilderbuch, das ich als Kind gesehen habe, wo Löwen sich an Lämmer kuscheln und Wölfe mit Schafen tanzen, wo allein die äußerliche Erscheinung Tiere unterscheidet, die ansonsten tief drinnen alle gleich sind und daher in der Lage, in Glück und Harmonie zu leben.

Anscheinend hängen manche Erwachsene immer noch solchem Wunschdenken an.

Source: http://fjordman.wordpress.com/2011/06/06/scientific-american-uber-die-realitat-von-rassen/ [6]


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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[2] here: http://www.counter-currents.com/2011/05/scientific-american-on-the-reality-of-race/

[3] hier: http://www.counter-currents.com../2010/12/taking-our-own-side-paperback/

[4] hier: http://www.counter-currents.com../2011/05/scientific-american-rodun-todellisuudesta/

[5] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2011/06/LionAndLamb.png

[6] http://fjordman.wordpress.com/2011/06/06/scientific-american-uber-die-realitat-von-rassen/: http://fjordman.wordpress.com/2011/06/06/scientific-american-uber-die-realitat-von-rassen/

mardi, 12 mars 2013

Nord Mali : qui se soucie des «hommes bleus» ?

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Nord Mali : qui se soucie des «hommes bleus» ?

par Yassine Temlali

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/
 

A en juger par les informations de la presse à grande diffusion, le nord du Mali est exclusivement habité par une ethnie jusque-là inconnue, les djihadistes, qui se réclameraient d’un ancêtre commun, Oussama Ben Laden, et auraient pour blason transnational un scalp d’otage exécuté en direct à la télévision.

Les «soldats de Dieu» auraient ainsi complètement supplanté la population originelle de cet autre «Quart-vide», aujourd’hui empli de bruits de bottes et, faut-il le dire, de cris de suspects exécutés par l’armée malienne qui passe «finir le travail» derrière sa consœur française. Pourtant, les habitants majoritaires de ce territoire — où, dit-on, il y aurait du pétrole et de l’uranium mais où, pour l’instant, il n’y a que du sable, de la pierraille et des acacias rabougris — ne se sont pas évaporés comme par enchantement. Dans l’erg de l’Azawad ou l’Adrar des Ifogas comme dans leur multiple diaspora intérieure et extérieure, ils observent les sanglantes hostilités entre deux forces se disputant ce qui n’appartient qu’à eux.

Leur nom est de moins en moins cité lorsqu’on évoque la guerre dans leur pays. Il n’a pas pour autant disparu. Ils s’appellent les Touareg, autrement nommés les «hommes bleus» par les Français, qui, après les avoir «pacifiés», se sont laissés aller à une exotique fascination pour l’indigo de leur chèche et de leur visage. Et, depuis le début du XXe siècle, aucune adversité n’a eu raison d’eux : ni l’occupation coloniale, ni la politique répressive du régime malien (absurde et tardive vengeance contre leurs aïeux qui semaient la terreur sur les rives du fleuve Niger), ni, enfin, les terribles sécheresses des années 1970 et 1980.

Ces informations élémentaires sur les Touareg maliens sont rarement rappelées dans la presse à grande diffusion. Et quand elles le sont, elles sont enfouies sous les longs comptes-rendus de l’intervention de l’armée française, servis par son état-major à des journalistes ainsi embedded à distance. Résultat : un an après l’éphémère sécession de l’Azawad, ce peuple est le grand oublié d’un conflit qui le concerne au premier chef. On n’en parle presque plus qu’à travers des noms d’organisations militaires : Ansar el-Dine, qu’on qualifie d’islamiste, le Mouvement islamique de l’Azawad, qui en est issu, et leur frère ennemi «laïque», le Mouvement national de libération de l’Azawad (MNLA).

Outre le fait de le réduire à l’image stéréotypée de ses ancêtres dans l’historiographie coloniale, celle d’irascibles et cruels guerriers, ces étiquettes nébuleuses lui dénient implicitement toute unité qui justifierait qu’on écoute ses représentants ou négocie avec eux. Les Touareg maliens sont pourtant mille fois plus nombreux que les membres de ces groupes rebelles et l’écrasante majorité d’entre eux sont trop pauvres pour s’offrir l’équipement standard du combattant saharien moderne, le 4×4 à double réservoir, le fusil AK 47 et le téléphone satellitaire Thuraya. Surtout, par-delà leurs clivages tribaux, sociologiques et économiques, ils sont unis par leur refus de cette sédentarisation forcée que leur propose Bamako pour toute «modernité», même s’ils ne sont pas tous, loin s’en faut, les séparatistes nihilistes que dénonce la presse «patriotique» malienne.

Une ségrégation continue contre les Touareg maliens

L’ampleur de l’infiltration djihadiste dans le Sahel continue de voiler la responsabilité du régime malien dans le tournant violent qu’a pris l’affirmation politique touarègue. Et, avec l’intervention militaire française, l’origine du conflit dans le nord du Mali se perd dans les descriptions circonstanciées des assauts des hélicoptères de combat contre les colonnes de pick-up islamistes dans le désert. Dans le meilleur des cas, on la fait coïncider avec la naissance du Mouvement populaire de libération de l’Azawad (MPLA), en 1990. Or, la vérité est que l’indépendance malienne, en 1960, n’a pas mis fin aux actes de violence politique, économique et symbolique contre les Touareg : de longs siècles durant, ils avaient transhumé dans l’immense espace saharien, les voilà enfermés, au nom de la «sédentarisation», derrière d’étroites frontières «nationales» et néanmoins héritées de la colonisation.

L’occupation française avait sapé les fondements de l’économie traditionnelle touarègue, l’élevage de camelidés, le commerce caravanier et, accessoirement, les «razzias» contre leurs voisins sédentaires ; le nouvel Etat malien l’achevant, réduisant des centaines de milliers d’êtres humains à une hypothétique survie, dans la contrebande, l’émigration ou le mercenariat au sein de la «légion islamique» du colonel El Gueddafi. Qui se souviendrait, dans ce vacarme belliciste sur les villes libérées et les djihadistes abattus, que les rébellions du Mouvement national azawad ont pour cause la ségrégation économique et culturelle à l’endroit des Touareg maliens ?

Et qui rappellerait que si les autorités maliennes ne se soucient pas de «développer» le Nord, c’est aussi par manque de moyens ? Si l’Europe avait délié les cordons de sa bourse de l’«aide internationale», la lutte entre les insurgés touareg et le gouvernement central, qui a fait de ce territoire une île ouverte aux vents intégristes, aurait probablement pris fin par les moyens politiques. Les opérations militaires françaises pour la «sauvegarde de l’unité territoriale du Mali» coûtent 400 000 euros/ jour, selon les plus basses estimations, soit 22 millions d’euros du 11 janvier au 6 mars 2013. L’aide du Fonds européen pour le développement (FED) au Mali ne représente que 100 millions d’euros par an. Les chiffres sont éloquents. Ils parlent d’eux-mêmes.

Vers un plus grand enracinement local du djihadisme ?

On évoque, certes, de temps à autre, le nécessaire «développement économique du Nord Mali», mais on ne demande pas leur avis à ses populations (qu’elles soient touarègues, arabes ou peules) sur les relations qu’elles aimeraient avoir avec le gouvernement central après la fin de cette «guerre de libération» d’un genre nouveau. Il n’est pas insensé de penser que l’intervention française ne vise pas seulement à empêcher l’extension de la subversion intégriste au Niger, riche en uranium, et au Tchad, porte orientale de la «Françafrique», mais aussi, dans la même visée stratégique, à reconquérir ce territoire au bénéfice de Bamako, autrement dit aux dépens des Touareg. Les exactions de l’armée malienne, pour l’instant, ne prennent pour cible que les présumés islamistes et leurs présumés collaborateurs, elles n’épargneront pas à l’avenir les «laïques» du MNLA, car on n’oubliera pas facilement que ce sont eux qui ont proclamé l’«indépendance de l’Azawad» le 6 avril 2012.

Les assurances de Laurent Fabius quant à la volonté des autorités maliennes d’«entamer un dialogue avec toutes les populations, notamment celles du Nord» n’engagent que Laurent Fabius, certainement pas la junte au pouvoir (réel) dans la capitale malienne. Tout se passe comme si, dans le feu de cette bataille antidjihadiste, on préparait les funérailles des revendications azawades, avec la complicité des grandes puissances qui, au Kosovo comme au Kurdistan, mobilisaient leurs armées — et des budgets colossaux — au nom de la protection de peuples opprimés par des Etats centraux répressifs. Si la réoccupation chauvine du Nord du Mali (ponctuée de massacres chirurgicaux dont presque personne ne parle sinon Amnesty International) est menée à son terme, elle pourrait provoquer une plus grande radicalisation de l’affirmation politique targuie.

Elle pourrait même déboucher sur un plus profond enracinement local du «djihad saharien» qui prendrait la forme d’un renforcement des organisations touarègues se réclamant de l’islamisme. Une telle éventualité est d’autant moins à écarter que les groupes islamistes armés ont réussi assez facilement à marginaliser le MNLA pour se poser en seigneurs quasi absolus du territoire azawad. Aussi regrettable que cela puisse être, il n’est pas exclu que pour les Touareg, grands absents des arrangements entre Paris et Bamako, les islamistes autochtones deviennent des… symboles de résistance. Comme en Afghanistan, ces archaïques talibans, qui, douze ans après le début de la «guerre contre la terreur», arrivent encore à frapper au cœur de Kaboul.

 

Yassine Temlali

samedi, 02 février 2013

Qui sont les Touaregs ?

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Entre traditions nomades et réalités du désert, qui sont les Touaregs ?

 

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Les Touaregs ont suscité chez les premiers explorateurs des jugements positifs ou négatifs, mais jamais neutres. Ce sont des hommes de confiance qui ne renient jamais leur parole, dit Henri Duveyrier dans son ouvrage publié en 1864, Les Touaregs du Nord. Pour Félix Dubois, dans Tombouctou la mystérieuse, édité en 1897, ils ne sont au contraire que de lâches pillards qui n’attaquent que quand ils sont sûrs de leur supériorité. On ne peut aujourd’hui évoquer les Touaregs sans que s’interposent les stéréotypes d’« Hommes bleus », de « Chevaliers du désert » qui font apparaître des chameliers voilés sur fond de pics volcaniques ou de dunes ondulant à l’infini. Edmond Bernus  nous présente cette société plurielle dont le modèle donné, le noble-guerrier, ne représente en réalité qu’une petite minorité de la population et qu’une partie du paysage, celui de l’Ahaggar ou du Ténéré.

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Qui sont les Touaregs ?

Le nom de Touareg est d’origine arabe et inconnu de ceux qu’il désigne : de ce fait, c’est un terme devenu français. Les Touaregs se désignent eux-mêmes comme Kel tamasheq,« ceux qui parlent la langue touarègue », montrant ainsi que leur dénominateur commun est une même culture et avant tout un même langage.

Les Touaregs occupent un territoire immense qui joint le Maghreb à l’Afrique noire et qui traverse le Sahara en s’appuyant sur des massifs montagneux où l’altitude corrige les effets de la latitude et permet la vie, grâce à des ressources hydrauliques et végétales absentes des déserts environnants : ce sont le Tassili des Ajjer, l’Ahaggar, l’Aïr et l’Adrar des Ifoghas. Ainsi, les Touaregs sont-ils dispersés dans de nombreux États – Libye, Algérie, Mali, Niger, Burkina Faso – avec quelques petites communautés au Tchad et en Nigeria. Leur poids démographique est surtout important au Niger et au Mali, c’est-à-dire au sud du Sahara.

Société et traditions

Dans les traditions des Touaregs, on trouve presque toujours une référence à une ancêtre femme, à l’origine de la chefferie et fondatrice de la tribu – tawshit.Les plus connues sont Tin-Hinan et sa servante Takana, arrivées dans l’Ahaggar : la première donna naissance aux Kel Ghela, tribu suzeraine, détentrice du pouvoir ; la seconde fut à l’origine de la tribu vassale des Dag Ghali. Ce schéma se retrouve un peu partout et presque toujours les nouveaux arrivants s’allient aux populations déjà en place.

La société touarègue est hiérarchisée ; elle comporte une aristocratie guerrière, des vassaux, des religieux à titre collectif, des artisans et un groupe servile qui comprend plusieurs niveaux selon son statut – esclaves, affranchis… Le chameau, en réalité le dromadaire, est l’animal associé à l’aristocratie, alors que la vache, et plus encore le petit bétail – brebis et chèvres – sont liés aux classes plébéiennes ou serves. Chaque « confédération » est composée de ces différentes strates, avec à sa tête un chef supérieur – amenokal – toujours issu d’une même tribu et dont le pouvoir est matérialisé par un tambour de guerre – ttobol ou ettebel. Les Touaregs sont des berbérophones qui font partie de ce grand ensemble berbère qui va du Maroc à l’Égypte. La langue constitue la pierre angulaire de cette société hiérarchisée, diverse dans ses composantes. Les Touaregs possèdent aussi une écriture dont les caractères tifinagh, gravés sur de nombreux rochers, sont souvent difficiles à déchiffrer, mais cette écriture, toujours vivante, est aujourd’hui utilisée dans des messages écrits sur papier. Elle est enseignée dans les familles avec des procédés mnémotechniques comme une phrase qui contient tous les signes de l’alphabet.

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Le voile de tête – tagelmust – est la pièce maîtresse du vêtement masculin. Selon Charles de Foucauld, « Le voile de front et de bouche et le pantalon sont les vêtements distinctifs de l’homme […] ; ôter son voile de tête et de bouche, jeter son voile […], ôter son pantalon sont des expressions qui signifient être déshonoré. » Il est honteux de se dévoiler en public ; un homme jeune, devant une personne âgée, ne découvre son visage que par une fente où brillent deux yeux et introduit le verre à thé sous le voile sans découvrir sa bouche. Ce voile protège les muqueuses du vent, mais plus encore, soustrait les orifices faciaux aux assauts de génies dangereux.

Les Touaregs sont monogames, ce qui est un trait original dans une société islamisée. Se marier, c’est « fabriquer une tente » que la jeune femme apporte avec tout le mobilier et les ustensiles de la vie domestique. Le marié doit fournir des animaux à sa belle famille dont le nombre et la qualité varient : cette taggalt est constituée de chameaux chez les nobles, de chameaux ou de vaches chez les tributaires, de petit bétail chez les gens de moindre importance, mais ces animaux sont le gage indispensable de l’alliance entre les deux familles qui appartiennent en général à la même catégorie sociale : en théorie, la jeune mariée doit recevoir les mêmes animaux que sa mère. En cas de divorce, la femme part avec sa tente.

Cultures orale et matérielle

Bien que possédant une écriture, qui sert surtout à de courts messages et à des graffitis, les Touaregs possèdent une littérature orale d’une grande richesse. Il faut citer les paroles brèves qui concernent les devinettes et les proverbes, et aussi les contes qui s’inscrivent dans des thèmes universels, en s’incarnant cependant dans le contexte de la vie pastorale. La poésie constitue le point fort de cette littérature avec des pièces lyriques qui évoquent l’amour, la mort, et la nostalgie de l’absence avec l’évocation du campement lointain et de la femme aimée. Il n’existe pas de caste de griots, comme en Afrique soudanienne : les poètes sont des hommes de toute condition, parfois des femmes ; il y a de bons poètes dont les vers sont retenus dans toute la société. Les événements actuels, migrations et révoltes sont les nouveaux thèmes des jeunes générations et les cassettes permettent de les diffuser rapidement.

La culture matérielle est présente dans des objets de la vie domestique et pastorale, dans des armes, ou encore dans des bijoux dont les modèles sont reproduits par des

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artisans, fidèles conservateurs du patrimoine. Les coupes, les louches et les cuillères en bois, les lits et les poteaux sculptés ou les porte-bagages des tentes, constituent des objets superbes, souvent pyrogravés, que les artisans doivent entretenir et réparer. La selle de chameau, qui est une selle de garrot posée devant la bosse, est surtout connue par le modèle à pommeau en croix : c’est un objet sophistiqué où s’allient le bois, le cuir et le métal. Les armes, couteau de bras, lance-javelot, bouclier – aujourd’hui disparu – et surtout l’épée – takuba – qui bat toujours le flanc des hommes, constituent la panoplie de ces guerriers. Les lames de certaines épées, venues d’Europe au XVIe siècle ou d’Égypte, portent des marques qui permettent d’identifier leur origine. Quelques épées, propriétés de grands chefs, possèdent comme Durandal, un nom qui leur est propre ; les lames les plus nombreuses ont cependant été fabriquées par les forgerons locaux avec de l’acier de récupération ; toutes les épées possèdent pourtant une même garde, une même poignée, un même fourreau, et s’identifient dans un même modèle. Les cadenas, les bijoux en argent, dont la croix d’Agadez est aujourd’hui partout connue, ont conquis le marché des touristes et de l’Europe.

Vivre avec ses troupeaux dans un milieu aride, aux repères rares, demande une connaissance intime du milieu, un sens de l’observation qui permet de se situer dans l’espace grâce à des indices imperceptibles. Le nomadisme est une utilisation rationnelle du milieu par un déplacement au fil des saisons. Les Touaregs sahéliens conduisent leurs troupeaux dans les riches prairies au sud du Sahara, sur des terres et des eaux salées, au cours de la brève saison des pluies estivales ; ils regagnent des parcours méridionaux pourvus d’arbres fourragers et de ressources hydrauliques permanentes, au cours de la longue saison sèche.

Des variations qui confirment la règle

Dans une société si diverse, qui rassemble des hommes au teint clair et d’autres à la peau noire, il n’existe pas de modèle touareg. Aussi, être Touareg c’est se comporter

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comme la société le demande, c’est-à-dire en fonction de son âge, de son sexe, de sa catégorie sociale : l’artisan possède la liberté de la parole, l’aristocrate un comportement désinvolte, le religieux une manière retenue. Ne pas se conformer à ces règles, c’est s’exposer à la critique, la dérision et peut-être l’exclusion.

Les dénominateurs communs permettent de reconnaître un Touareg, de Djanet en Algérie, à Madaoua au sud du Niger. Il existe cependant, bien entendu, des différences sur divers plans. Différences linguistiques entre les dialectes du nord et ceux du sud. Différences d’organisation politique entre les chefferies centralisées les plus connues, et souvent analysées à partir des Kel Ahaggar, et celles plus souples de l’Aïr avec, en plus, une chefferie urbaine sédentaire au rôle religieux particulier, représentée par le Sultan d’Agadez. Différences de composition des « confédérations » avec certaines riches en vassaux – imghad – d’autres en religieux – ineslemen. Différences enfin, de la composition de la population touarègue avec une majorité croissante de groupes noirs d’origine servile selon un gradient nord-sud. Différences de types d’habitat avec les tentes à velum en peaux de la partie ouest du pays touareg et les tentes en nattes végétales dans l’Aïr jusqu’aux frontières de Nigeria.

Vivant dans un si vaste espace, les Touaregs ne peuvent vivre de la même manière au Sahara central ou au Sahel, dans les vastes plaines de l’Azawagh ou dans les massifs montagneux, dans les zones pastorales ou les zones agricoles méridionales. Les Touaregs du nord possèdent un élevage composé essentiellement de chameaux et de chèvres, ceux des régions pastorales méridionales, Azawagh, Aïr, Adrar des Ifoghas ont des troupeaux plus diversifiés avec chameaux, vaches, brebis et chèvres ; vers le sud, le nombre des chameaux diminue et celui des vaches augmente. Les Touaregs de l’Aïr cultivent des jardins irrigués dans les vallées méridionales et pratiquent le commerce caravanier entre les marchés du sud et les salines de Fachi et de Bilma qu’ils ravitaillent en produits variés et dont ils rapportent le sel et les dattes. Plus au sud encore, les Touaregs sont des agro-pasteurs pratiquant agriculture pluviale et élevage, ce qui exige un contrôle des troupeaux pour protéger leurs propres récoltes et surtout celles des paysans. La cohabitation avec d’autres éleveurs, Peuls surtout, et avec des agriculteurs, pose souvent de graves problèmes.

Les Touaregs dans les États

Les Touaregs ont résisté de toutes leurs forces à la pénétration des troupes françaises au début du siècle. À partir de 1916 et 1917, ils se révoltèrent contre l’occupation française et mirent en péril les troupes coloniales. L’organisation de l’Afrique française, scindée entre une Afrique coloniale et le Maghreb, mit un terme aux hostilités et les Touaregs durent s’insérer dans un nouveau maillage de l’espace : les « cercles », dirigés par des administrateurs coloniaux en AOF et les « territoires du sud », commandés par des militaires en Algérie. L’indépendance des États sahéliens surprend les Touaregs qui n’ont pas été préparés à cette évolution et qui possèdent un nombre limité d’élites scolarisées, prêtes à assumer des responsabilités administratives ou politiques. La dispersion des Touaregs dans de nombreux États, leur implantation dans chacun d’eux dans la zone la plus désertique, la moins peuplée et la plus éloignée de la capitale et du pouvoir, leur donne l’impression d’être oubliés et abandonnés dans une région moins développée que les autres.

Une première révolte contre l’État malien est durement réprimée en 1963-1964 dans l’Adrar des Iforas, avec des Touaregs munis d’épées et montés sur des chameaux contre des chars. Mais c’est à partir de 1990 qu’une révolte au Mali, puis au Niger, soulève le pays touareg contre les États. Les jeunes Touaregs qui avaient migré en Libye, connaissent alors le maniement de la kalachnikov et la conduite des véhicules tout terrain. La guerre fut dure : arrestations, massacres, émigration en Algérie et en Mauritanie, la paix est revenue sans que les Touaregs aient obtenu totalement satisfaction.

C’est au Niger et au Mali que les Touaregs sont les plus nombreux, constituant 10 % et 6 % de population totale. La langue touarègue fait partie des cinq langues nationales.

Les Touaregs sont conscients de la richesse de leur culture et plusieurs d’entre eux travaillent à recueillir et à publier leurs traditions orales. Il faut cependant reconnaître que les révoltes se sont faites à l’intérieur de chaque État et, qu’à cette occasion, il n’y a pas eu de tentative de construire une nation touarègue. Il y a eu seulement la prise de conscience que les Touaregs font partie d’un vaste ensemble berbère, lui-même éclaté au Maghreb.

Un peuple dans la tourmente

L’opération de reconquête du nord du Mali pourrait fournir l’occasion à l’armée malienne et aux milices communautaires de se venger contre les civils touaregs, assimilés indistinctement aux djihadistes et aux rebelles.

Ils sont aujourd’hui au moins 1,5 million, répartis entre cinq pays: Niger (800 000), Mali (500 000), Libye, Algérie et Burkina-Faso (de 30 000 à 50 000). Les Touaregs, d’origine berbère, sont l’un des derniers peuples sahariens pratiquant l’élevage nomade. Pendant des siècles, ils ont aussi régné, avec les Maures, sur le commerce caravanier transsaharien. Ils opéraient des razzias sur les voyageurs et commerçants traversant leur territoire. Les tribus se regroupaient en un système de confédérations politiques régionales: Kel Ahaggar (ceux du Hoggar, en Algérie), Kel Ajjer, Kel Adar (Mali), Kel Aïr (Niger), etc.

La société touareg traditionnelle, très hiérarchisée, s’est organisée en tribus nobles, tribus vassales (imrad) et lignées religieuses. Ces hommes libres, clairs de peau, possédaient des esclaves, noirs. Cette pratique, indéniable et systématiquement reprochée aux Touareg, a pourtant existé chez quasiment tous les peuples de la région…

Les Tamachek préservent aujourd’hui encore des traditions originales: les femmes, qui ne se voilent pas le visage, bénéficient d’une liberté inégalée dans le monde musulman. La monogamie est de règle et, en milieu nomade, la mariée reste propriétaire de sa tente et de ses chèvres. Mais, à cause des sécheresses récurrentes (1973-1974, 1984-1986, 2010) et de la mort des troupeaux, le nomadisme est devenu minoritaire.

Pourtant, la vie itinérante, au pas du dromadaire, les nuits passées sous la tente ou à la belle étoile, restent un idéal de vie pour les Tamachek. Dès qu’une occasion se présente, on saute dans les 4×4, on enfourche les motos pour passer une journée « en brousse » ou le temps de faire un boeuf à la guitare électrique.

Nomades, « chômeurs » et rebelles

Le monde touareg, profondément ébranlé durant la période coloniale, a été morcelé par les indépendances africaines, dans les années 1960. Divisés par le tracé rectiligne des nouvelles frontières, les nomades sont devenus Nigériens, Maliens, Algériens, Libyens… Ils se retrouvent alors rejetés aux marges désertiques des Etats naissants: des territoires immenses, difficiles à contrôler, très éloignés des capitales.

De plus, les Tamachek font souvent face à des fonctionnaires venus d’autres régions pour installer l’autorité du pouvoir central. « Au nord du Mali, notamment, beaucoup de Touaregs ont eu, à l’époque, le sentiment d’être recolonisés par des gens qu’ils ne connaissaient pas, explique Pierre Boilley, historien spécialiste du Sahara. Pour le régime socialiste de Modibo Keïta, les Touaregs étaient des « féodaux » qu’il fallait mettre au pas. « En 1963, les tribus de l’Adrar des Ifoghas, dans la région de Kidal, se révoltent. La répression de l’armée malienne contre les « peaux rouges » (ou « oreilles rouges ») est terrible: humiliations, empoisonnement des puits, exécutions sommaires…

Cet épisode tragique est resté dans les mémoires. Sur fond de frustration économique et de tensions intercommunautaires, le nord du Mali, ainsi que le nord du Niger, s’est embrasé à plusieurs reprises: 1990-1992, 1994-1996, 2006… janvier 2012. « A chaque sortie de crise, les accords de paix prévoyaient des programmes accrus de développement et une plus grande autonomie régionale, poursuit Pierre Boilley. En fait, cela s’est souvent résumé à une gestion clientéliste: des pouvoirs accordés à quelques obligés de Bamako et de l’argent envoyé pour calmer tel ou tel groupe trop remuant. »

Ces trente dernières années, la société touareg a connu de nombreux bouleversements. Après la perte de leur bétail, beaucoup de nomades se sont sédentarisés dans les villes sahariennes ou ont échoué dans les bidonvilles des métropoles subsahariennes. Des milliers d’autres, désoeuvrés, ont pris le chemin de l’exil, attirés notamment par les salaires de l’industrie pétrolière en Libye.

Durant les années 1980-1990, la génération des Ichoumar -du français « chômeur »- a ravivé le vent de la fronde. Cela d’autant plus que feu le colonel Kadhafi n’a eu de cesse d’instrumentaliser la cause touareg pour déstabiliser ses voisins. C’est ainsi que des contingents de Kel Tamachek, enrôlés dans la Légion islamique, ont appris le métier des armes. Un exemple: Iyad ag Ghali, qui dirige aujourd’hui le groupe islamiste Ansar ed-Dine (« Défenseur de la religion »), a notamment combattu, sous commandement libyen, au Liban, en 1982, et au Tchad.

2012: l’embrasement et l’occupation du nord du Mali

Ces « vétérans » ont joué un rôle crucial dans les événements tragiques au début de 2012. Revenus lourdement armés dans le nord du Mali, après l’effondrement du régime de Kadhafi, des centaines de combattants aguerris ont fait basculer le rapport de force vis à vis de Bamako. De plus, des unités d’élite touareg de l’armée malienne, formées par les Américains et les Français, ont déserté pour rejoindre la rébellion relancée par le Mouvement national de libération de l’Azawad (MNLA), en janvier 2012.

Pour chasser les militaires maliens, ce mouvement séparatiste, « laïc », s’est tout d’abord rapproché de son rival, Ansar ed-Dine, groupe islamiste majoritairement touareg, allié à Al-Qaeda au Maghreb islamique (Aqmi). Le 6 avril 2012, le MNLA proclame unilatéralement l’indépendance de l’Azawad, territoire qui recouvre les deux tiers nord du pays. Une annonce aussitôt rejetée par la communauté internationale. Et, rapidement, le MNLA se fait dépasser, puis chasser des villes de Kidal, Tombouctou et Gao par les groupes islamistes: Ansar ed-Dine, Aqmi et le Mouvement pour l’Unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest (Mujao).

Depuis, ces trois mouvements appliquent la charia et terrorisent les populations locales. Le MNLA, lui, a renoncé à ses ambitions d’indépendance, pour tenter de revenir dans le futur jeu des négociations. Il a même proposé ses services aux forces de l’opération Serval, pour combattre les djihadistes sur leur terrain, dans le grand nord du Mali. En vain, pour le moment. Quant à la frange modérée d’Ansar ed-Ddine, elle vient d’annoncer sa scission avec Iyad ag Ghali, pour créer le Mouvement islamique de l’Azawad (MIA), qui affirme désormais rejeter « toute forme d’extrémisme et de terrorisme » et « s’engage à les combattre ».

Les civils fuient la guerre et craignent des représailles

D’ores et déjà, les combats et les exactions des djihadistes ont fait fuir des centaines de milliers de personnes, toutes communautés confondues. Les ONG dénombrent environ 230 000 déplacés à l’intérieur du pays et près de 150 000 réfugiés dans les pays voisins: Mauritanie, Niger, Burkina… Ces derniers jours, l’ancien maire de Kidal affirmait à L’Express que des milliers de Touareg de la région se réfugient à la frontière algérienne, fermée depuis le 14 janvier dernier. « Ils craignent des bombardements, les réactions incontrôlables des djihadistes, mais aussi les bavures des soldats maliens s’ils reprennent les territoires », explique-t-il.

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Car, pour beaucoup d’observateurs, le déclenchement de l’opération de reconquête du nord du Mali peut fournir l’occasion à l’armée malienne et aux milices communautaires de se venger contre les civils Arabes et Touareg, assimilés indistinctement aux djihadistes et aux rebelles. Des exactions ont d’ores et déjà eu lieu le 19 janvier dernier, à Sévaré, comme l’a révélé, sur place, la correspondante de L’Express.

Rapportée par Le Monde, une déclaration récente du chef du Ganda Koy (« fils de la terre »), principal groupe d’autodéfense de la communauté Songhaï, fait froid dans le dos: « Nous considérons tous les Tamashek comme des MNLA [rebelles]. Il n’y a personne qui ne soit pas complice. » L’Etat-major français, qui encadre les opérations militaire, est conscient de ces risques. Sur le plan des droits de l’homme, mais aussi en ce qui concerne les enjeux politiques régionaux.

Certes, au Niger -qui envoie 500 soldats au Mali pour combattre les djihadistes – la communauté touareg est aujourd’hui bien intégrée. « Mais si les opérations tournaient au massacre de nos frères, nous ne pourrions pas rester les bras croisés, avertit un ancien membre d’un mouvement rebelle nigérien des années 1990. Et cela concernerait tous les Touareg… » Au-delà de l’intervention militaire en cours, une résolution durable de la crise au Sahel ne pourra avoir lieu sans de véritables progrès sur la délicate « question touareg ».

Sources : Tamoudre, L’Express

vendredi, 30 novembre 2012

Prußen - die ersten Preußen

 
Sehr geehrte Damen und Herren,
liebe Kollegen,
 
wir möchten Ihnen eine Neuerscheinung unseres Verlages vorstellen:
 
Beate Szillis-Kappelhoff
Prußen - die ersten Preußen
Geschichte und Kultur eines untergegangenen Volkes
 
395 Seiten, 123 Abbildungen, gebunden, fester Einband
ISBN 978-3-937820-00-2
 
Erscheinungstermin: soeben druckfrisch eingetroffen und ab sofort lieferbar!
 
Preis: 19,80 Euro
 
Beate Szillis-Kappelhoff widmet sich in dieser ersten umfassenden Darstellung der Geschichte und Kultur der Prußen, jenem geheimnisvollen Volk, das dem späteren Staat Preußen seinen Namen gab.

Über viele Jahrhunderte verteidigten die Prußen, die zur baltischen Sprachfamilie gehörten, tapfer und zäh ihr Siedlungsgebiet zwischen der Weichsel und der Minge, also dem späteren West- und Ostpreußen. Schon zu Beginn des 11. Jahrhunderts hatten sich die Prußen stetig zunehmender Übergiffe der Polen zu erwehren, die eine Verbindung zur Ostsee suchten. Als sie zu Beginn des 13. Jahrhunderts aus der reinen Verteidigung zu Vergeltungsschlägen gegen das nordpolnische, masowische Gebiet übergingen, rief der polnische Herzog Konrad von Masowien den Deutschen Orden um Hilfe. Im Laufe des 13. Jahrhunderts gelang es den Rittern des Deutschen Ordens in einem besonders brutal geführten Eroberungskrieg, die Prußen zu besiegen und schließlich zu christianisieren. Aber es dauerte noch Jahrhunderte, bis die Sprache und Kultur der Prußen durch Unterdrückung, Missionierung und Assimilation verloren gingen.

Dieses Buch begibt sich auf die Spurensuche nach der versunkenen Kultur des einst so kämpferischen und stolzen Volkes der Prußen.

Wir möchten Sie bitten, dieses wichtige Werk über eine bedeutende und identitätsprägende Epoche der deutschen Geschichte in Ihr Verkaufssortiment aufzunehmen.

Vielen Dank!

Mit freundlichen Grüßen

Heiderose Weigel

Bublies Verlag - Bergstr. 11 - D-56290 Schnellbach

Tel. 06746 / 730046, Fax: 06746 / 730048

Internet: www.bublies-verlag.de

E-Brief: bublies-verlag@t-online.de

Inhaltsverzeichnis


 

Vorwort /

Geografische Lage /

Die Prußen /

Eigenname, Fehlschreibungen und Aussprache /

Besetzungen durch den Deutschen Orden /

Sonderrolle Memelgebiet /

Unterwerfung /

Freiheitskämpfe /

Lage der ländlichen Bevölkerung /

Fischerei /

Wildnis /

Waldbienenzucht /

Häusliches Leben /

Angebliche Ausrottung /

Schrift der Prußen /

Sprache, Sprachdenkmäler, Namen /

Musik /

Die zwölf Prußenstämme /

Die Sage von Bruteno und  Widewuto und  Brutenos Nachfolger  /            

Barta (Barten) /

Chelmo (Kulmerland) mit Lubawa (Michelauer Land) /

Lubawa (Löbau, Michelauer Land) /

Galindo (Galindien) /

Nadruwa (Nadrauen) /

Notanga (Natangen) /

Pagude (Pogesanien) /

Pamede (Pomesanien) /

Same (Samland) /

Sasna (Sassen) /

Skalwa (Schalauen) /

Suduwa (Sudauen/ Jatwingen) /

Warme (Ermland) /

Religion der Prußen /

Die Naturreligion /

Göttinnen, Schlangen und Kröten /

Götter, Pferde und Ziegenbock /

Romowe /

Geburt und Taufe /

Verlobung /

Hochzeit /

Totenfeier /

Christenzeit /

Die Prußen und ihr nachbarliches Umfeld /

Die Kuren /

Sprachdenkmäler /

Die Karschauer /

Die Žemaiten und die Litauer /

Die Kaschuben, Masovier, Kujavier und Polen /

Prußen heute /

Einige Orts- und Gewässernamen /

Königsberger Stadtteile /

Liste baltischer Götter, Göttinnen und Gottheiten /

Zeittafel /

Literatur /

Weblinks /

lundi, 05 novembre 2012

Horseback Riding and Bronze Age Pastoralism in the Eurasian Steppes

Horseback Riding and Bronze Age Pastoralism in the Eurasian Steppes