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vendredi, 07 mars 2014

Intervista ad ALESSANDRA COLLA

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Intervista ad ALESSANDRA COLLA

Ex: http://eritcamente.net
 
Alessandra Colla è nata a Milano nel 1958; sposata, ha un figlio.
 
Laureata (cum laude) all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, giornalista pubblicista, si occupa da sempre di scienze umane.
È stata fra gli animatori delle Edizioni Barbarossa (1980, poi Società Editrice Barbarossa dal 1989) e del mensile "Orion", che ha contribuito a fondare (1984). Da qualche anno collabora con le riviste "Eurasia" e "Terra insubre"; dal 2004 ha aperto diversi blog (quello attuale è alessandracolla.net).

Nella sua produzione trentennale (articoli, saggi, conferenze, traduzioni) si segnalano «Quella femmina... fatta a pezzi» (“Risguardo IV”, Ar, Brindisi 1985); L'uomo (eco)illogico (Società Editrice Barbarossa, Milano 1994); «Donne, streghe, ribelli: il caso o la necessità?», in: AA.VV., Rivolte e guerre contadine (Società Editrice Barbarossa, Milano 1994); traduzione e cura del saggio di Roger Stéphane Ritratto dell'avventuriero (Società Editrice Barbarossa, Milano 1994).
 
Intervista a cura di Steno Lamonica
 
1)      Una donna, colta ed affascinante, di destra. Uso tale termine solo per comodita’, lei non ama etichette. Raro una donna con noi, unici ribelli…
 
Se, come dice Umberto Eco, «la persona colta non è quella che sa quando è nato Napoleone, ma quella che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui le serve e in due minuti», allora probabilmente è vero, sono colta. Affascinante non so, lascio il giudizio a chi mi conosce.
La prego con tutto il cuore di risparmiarmi il “di destra”. La dicotomia destra/sinistra ha fatto più danni e più morti dell’ira di Achille… È verissimo che non amo le etichette: la definizione è sempre un limite, e uccide la complessità.
Oggi come oggi, poi, per un movimento la rarità mi sembra consistere non tanto nell’annoverare tra le proprie file delle donne, quanto piuttosto delle persone veramente libere.
 
 
 2)      L’impero USA, una catastrofe per l’umanita’. Chi lo vincera’? 
 
Per certi versi è intrigante attribuire agli Stati Uniti la qualifica di “impero”: è come se ci si trovasse ancora in un tempo grandioso e squassato da scontri titanici. In realtà quello americano, a mio avviso, è un brutale imperialismo aggravato da delirio paranoico. E poiché certe patologie si risolvono soltanto con la morte del paziente, suppongo che occorrerà aspettare la fine degli Usa così come li conosciamo noi adesso. Non mi sento di fare previsioni: credo sia impossibile, oltre che inutile. Poiché siamo in piena globalizzazione, e poiché tutto ciò che (almeno a livello macroscopico) accade in una parte del pianeta si ripercuote altrove, non mi sento di escludere che i molti imprevisti che si verificano giornalmente dovunque nel globo rappresentino di fatto altrettanti contraccolpi sul sistema Usa, che già mostra la corda — anche se qui da noi resiste l’immagine del sogno americano. Naturalmente, se davvero si riuscisse a costituire un fronte comune eurasiatico in grado di contrastare l’unipolarismo statunitense sia a livello economico che a livello culturale si aprirebbero nuovi scenari ancora parzialmente da descrivere: ma ho la sensazione che la fine della potenza americana potrebbe arrivare prima di quanto si pensi, e forse non nei modi che molti, poco caritatevolmente, si aspettano.
 
 
 3)      Nietzsche e la politica. L’ellenico “farmaco” per l’orribile presente?
 
Credo che Nietzsche abbia a che fare col Politico più che con la politica. Così sui due piedi, di ellenico mi viene in mente soltanto un termine: e precisamente l’apolitìa di cui diceva Evola. Aggiungo, parafrasando proprio Evola, che il senso del Politico (come la religione) è un’equazione personale.
 
 
 4)      Sono irrispettoso se le rubo del tempo chiedendole un parere su…Gianfranco Fini? Quali forze dietro di lui?
 
Non irrispettoso: sfortunato. Perché non ho niente da dire su Fini. Personalmente non credo che sia manovrato o agito da forze occulte: sono più propensa a credere che da tempo porti avanti un percorso personale volto al raggiungimento di un obiettivo ben preciso. Adesso come adesso, sembra che il suo progetto abbia subito una battuta d’arresto: lui stesso, se non ricordo male, ha dichiarato di aver perso una battaglia ma non la guerra.
 
5)      Le “ministre con i tacchi a spillo”. Aspetto della cachistocrazia o ginecocrazia?
 
Cachistocrazia con la “c” maiuscola, direi. E un pessimo servigio reso alle donne.
 
 
 6)      Alessandra Colla, Pierangelo Buttafuoco, Massimo Fini; silenzio televisivo su di voi. Vendetta rancorosa della plutocrazia?
 
Troppo onore… La ringrazio del lusinghiero accostamento. Ma devo dire che non mi pesa l’indifferenza mediatica: la televisione ovvero la visibilità di cui essa è mezzo è un’arma a doppio taglio. Diciamo che preferisco poche persone che leggono quello che scrivo, meditando le mie parole e dedicando un po’ del loro tempo soltanto al mio pensiero, a una folla di spettatori che fanno altro mentre parlo, sono distratte da quello che vedono ed equivocano su quello che dico. L’ideale sarebbe una via di mezzo fra lo stile pitagorico e la radio, insomma.
 
 
 7)      I giovani, bevono molto, si abbronzano alquanto, fumano tanto, consumano troppo, leggono poco. “Fiamma Futura” pone la cultura in primissimo piano. Ha dei suggerimenti?
 
Credo che spesso, quando si parla di cultura, ci si dimentichi della sua etimologia, che rimanda al coltivare. E coltivare è un’attività sicuramente capace di dare grandi soddisfazioni, ma altrettanto sicuramente faticosa e dall’esito incerto, a causa delle molte variabili in gioco. Allo stesso modo, fare cultura è un’impresa grandiosa, ma non necessariamente destinata al successo: in buona  sostanza si investe sul futuro, e le gratificazioni immediate sono rare e difficili da conseguire. Così, risulta infinitamente più semplice e comodo lasciare che il germoglio cresca per suo conto, assecondandone l’inclinazione anziché cercare di orientarlo correttamente. La tendenza, negli ultimi decenni, è stata esattamente questa, e mi sembra un segno dei tempi: nel senso che non è una peculiarità di questo Stato il quale, non essendo più sovrano, non ha più autentici valori da trasmettere; bensì è un atteggiamento riscontrabile praticamente dovunque vi siano delle realtà giovanili in aggregazione — si preferisce catturare, non importa come, il consenso immediato delle giovani generazioni piuttosto che impegnarsi sul lungo periodo in un’opera di sincera educazione: nel senso stretto di e-ducere, cioè condurre la persona fuori dalla condizione di primitiva ignoranza per aiutarla a conseguire l’integralità e la pienezza della dimensione umana nella sua accezione più alta.
Comprendo benissimo che invertire la tendenza è, se non impossibile, sicuramente arduo: tuttavia credo che sia un preciso dovere, per chi ancora riconosce certi valori, applicarsi a mantenerne la vitalità e a trasmetterne il messaggio alle generazioni che verranno. Evangelicamente, di tanti semi ne andrà qualcuno a buon fine…
 
 
 8)      Nel suo sito (www.alessandracolla.net ) tra le cose che ama cita gli animali e tra quelle che detesta lo “stato pontificio”. Ci spieghi.
 
A voler essere pignola, dico precisamente che mi piacciono i primi e non mi piace il secondo: ma il senso, ne convengo, è lo stesso. La spiegazione potrebbe andare molto per le lunghe, ma cercherò di compendiare.
Gli animali, o come preferisco dire i senzienti non umani, giocano un ruolo fondamentale nella storia dell’umanità: tutte le civiltà precristiane tributavano agli animali un riconoscimento ontologico e metafisico che i monoteismi hanno, nella migliore delle ipotesi, ignorato; per converso, nessuna civiltà precristiana ha mai investito l’essere umano di quel diritto d’arbitrio sul pianeta che costituisce, invece, la cifra del monoteismo giudaico-cristiano. Ho cominciato ad occuparmi di questioni inerenti al cosiddetto animalismo (uso il termine per pura comodità, La prego di accettare la convenzione) quando ero una ragazzina — parliamo di trentacinque anni fa — prima in modo “viscerale”, e poi spostandomi su di un piano più strettamente filosofico: il che ha comportato il necessario ripensamento della posizione dell’uomo sul pianeta e in relazione agli altri viventi. Poiché ho studiato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ho avuto modo di approfondire il pensiero cattolico (quindi giudaico-cristiano) in relazione non solo a questo argomento, bensì anche alla costruzione dell’edificio ideologico che ha permesso alla Chiesa di Roma di colonizzare, devastandoli, terre e spiriti nel corso di duemila anni: e sono approdata alla convinzione che nel mio personalissimo orizzonte metafisico nulla di ciò che attiene al cattolicesimo può trovare posto. È una questione di etica, direi; ma soprattutto di Weltanschauungen assolutamente irriducibili.
 
 
 9)      Lei ha il merito di essere stata tra le prime persone in Italia ad interessarsi di Ipazia. Avremo il piacere di un suo libro su questa affascinante filosofa trucidata dall’intolleranza?
 
La figura di Ipazia non è soltanto affascinante, come dice bene Lei, ma incute rispetto: il momento storico in cui si svolge la sua vicenda, la sua storia e la sua terribile fine meritano più di una pellicola non particolarmente riuscita e di qualche narrazione troppo romanzata. Continuo a raccogliere materiale e a studiare: può darsi che prima o poi, se e quando riterrò di esserne all’altezza, mi provi a cimentarmi nell’impresa…
 
 
 10)  113 basi NATO in Italia,alcune in odore di atomica. Noi chiediamo la fine dell’occupazione militare straniera. La sua opinione?
 
Credo che si potrebbe ripescare un vecchio slogan: “via l’Italia dalla Nato, via la Nato dall’Italia”. Di fatto, la posizione di sudditanza della nostra nazione rende al momento impossibile non dico progettare un futuro, ma anche soltanto riappropriarsi di un presente assai critico. Naturalmente, sui motivi che hanno portato l’Italia a diventare una colonia statunitense ci sarebbe da dire parecchio: mi limito a ricordare che Mussolini, profeticamente, aveva definito l’Italia “una portaerei nel Mediterraneo”: gli americani hanno capito tanto bene la lezione da metterla in pratica con estrema concretezza. Sulla fattibilità di una liberazione dall’occupazione militare sono un po’ scettica: non vedo, per il momento, un popolo italiano in grado di lottare compatto per questo obiettivo; e, come diceva l’amico e maestro Carlo Terracciano, “guai a chi non sa portare le sue armi, perché dovrà portare quelle degli altri”.
 
 
 11)   Lei onora l’Ellade e la Magna Grecia. In un “Manifesto Politico Nazionale” potrebbe comparire questo asse culturale per rinsanguare le radici nazionali e paneuropee mentre assistiamo allo scempio dell’invasione clandestina planetaria?
 
In tutta sincerità, credo che l’immigrazione (clandestina o no) sia un effetto più che una causa. E temo di più l’omologazione culturale ai modelli d’oltreoceano che la perdita d’identità per colpa degli extracomunitari. Visto che in questa chiacchierata aleggiano spiriti antichi, vorrei ricordare che ogni Impero, a partire da quello romano, è per sua natura multiculturale. Ora, è chiaro che non ci troviamo per nulla al cospetto di un impero: ma la multiculturalità è un dato di fatto. L’importante, invece, è mantenere le singole specificità: e se le radici sono profonde, non c’è commistione o contiguità che possano cancellare una memoria salda e consapevole. Il problema vero, a mio avviso, è: abbiamo noi questa memoria? La possediamo al punto di poterla trasmettere, vivificata, a quelli che verranno? Solo dalla risposta a questa domanda, credo, dipenderà una scelta di destino.

 

La Russie, l’Occident, le fondamentalisme islamiste et l’Ukraine

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La Russie, l’Occident, le fondamentalisme islamiste et l’Ukraine

Entretien avec Peter Scholl-Latour

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz

Q.: Monsieur Scholl-Latour, en 2006 vous avez écrit un livre où vous dites que la Russie se trouve prise en tenaille entre l’OTAN, la Chine et l’Islam. Depuis la rédaction de cet ouvrage, la pression sur la Russie a-t-elle, oui ou non, augmentée?

PSL: Pour le moment je ne vois aucun conflit poindre à l’horizon entre la Chine et la Russie parce que ces deux grandes puissances sont suffisamment intelligentes pour remiser les conflits potentiels qui pourraient les opposer et qui les opposeront un jour, notamment celui qui aura pour cause la démographie chinoise en Extrême-Orient sibérien. Tant les Russes que les Chinois n’ont aucun intérêt à s’engager dans des conflits sur deux fronts avec l’Occident.

Q.: L’Occident en revanche attise les conflits; en effet, l’actualité nous montre que sa volonté de frapper Moscou a le vent en poupe...

PSL: Il est très étonnant que l’Occident adopte une attitude si hostile à la Russie actuellement. Cette hostilité vient de la personnalité de Poutine, que l’on critique sur un mode extrême. Ce ton, adopté par l’ensemble de l’Occident, relève de la pure sottise, car cet Occident se comporte comme si la Guerre Froide n’était pas terminée. Que Poutine en Russie soit un autocrate ou ne le soit pas, cela ne nous regarde pas. Sous Gorbatchev, la Russie avait fait l’expérience de la démocratie occidentale, ce qui avait été très avantageux pour l’Occident —la réunification allemande a été rendue possible à cette époque— mais absolument catastrophique pour la Russie. A cette époque-là, la démocratie et le capitalisme avaient précipité la Russie dans une misère et une incertitude jamais vues auparavant. C’est la raison pour laquelle toutes les spéculations occidentales sur une éventuelle insurrection du peuple russe contre Poutine sont pures chimères.

Q.: Comment jugez-vous les événements qui agitent actuellement l’Ukraine, voisine de l’UE?

PSL: Ce qui se passe actuellement en Ukraine est également une grosse sottise commise par l’Occident. Il est certes juste de dire que les Ukrainiens ont le droit de décider de leur propre destin, mais nous n’avons pas à nous en mêler, à déterminer le mode de cette auto-détermination. L’Occident, y compris les Européens, s’est malheureusement habitué à intervenir en tout. Et voilà que l’on soutient maintenant les diverses oppositions au Président Yanoukovitch qui, ne l’oublions pas, a tout de même été élu démocratiquement. Nous ne devons pas oublier non plus que l’Ukraine est en soi un pays déjà divisé. Nous devons plutôt espérer que les tensions qui agitent l’Ukraine ne débouchent pas sur une guerre civile.

Q.: Au début des années 1990, l’effondrement de l’Union Soviétique semblait annoncer aussi la désagrégation de la Russie. Ce danger est-il désormais conjuré?

PSL: Cette désagrégation de la Russie a commencé avec la dissolution de l’Union Soviétique car les régions, devenues indépendantes sous Gorbatchev, avaient fait partie de l’Empire des Tsars. L’Ouzbékistan actuel n’était pas, à l’époque, une conquête soviétique mais appartenait déjà à la Russie impériale. Lénine avait renoncé à d’énormes portions de territoires à l’Ouest parce qu’il croyait qu’une révolution mondiale était imminente et réunirait bien vite le tout sous la bannière rouge.

Q.: Quelle intensité la menace de l’islamisme fondamentaliste peut-elle faire peser sur la Russie, si l’on tient compte de la situation dans le Caucase du Nord?

russland-im-zangengriff-cover.jpgPSL: Les Américains commencent, petit à petit, à reconnaître le danger que représente l’islamisme, sujet principal de la politique américaine, en dépit de la montée en puissance de la Chine. Ils savent aussi que l’islamisme est bien présent en Russie aussi. Les observateurs internationaux sont conscients de cette menace parce que les peuples musulmans du Caucase ont constitué récemment des facteurs de turbulences voire des facteurs nettement belligènes. Je ne pense pas tant à la Tchétchénie aujourd’hui mais plutôt au Daghestan. Les Russes se sentent très menacés par le fondamentalisme islamique, facteur qui n’existait pas auparavant. Lorsque je visitais l’Asie centrale en 1958, le fondamentalisme n’était pas un sujet de discussion mais, entretemps, les choses ont changé par l’attitude prise par les dirigeants locaux, tous jadis hauts fonctionnaires du PCUS comme Nazarbaïev au Kazakstan. En un tourne-main, tous ces dirigeants communistes se sont mués en despotes orientaux mais ils doivent agir sous la pression de forces radicales islamistes, surtout en Ouzbékistan.

Q.: La crainte de l’islamisme ne constitue-t-elle pas le motif majeur de l’appui qu’apporte la Russie au président syrien Al-Assad?

PSL: Le soutien apporté à la Syrie repose sur plusieurs motifs: la Syrie a toujours été un allié de l’ex-Union Soviétique et les Russes n’ont aucun intérêt à ce que la Syrie tombe aux mains des extrémistes musulmans qui combattent aux côtés de l’opposition ni aux mains d’Al Qaeda qui entend créer un “Etat islamique d’Irak et de Syrie”. Obama semble lui aussi reconnaître, mais un peu tard, dans quelle mélasse il est allé patauger. Nous ne devons pas oublier que la Fédération de Russie elle-même —c’est-à-dire ce qui reste de la Russie après la désagrégation de l’Union Soviétique— abrite au moins 25 millions de musulmans. Ceux-ci n’habitent pas seulement dans les régions au Nord du Caucase mais aussi dans le centre même de la Russie, le long de la Volga. A Kazan, où les aspirations à un nationalisme tatar ne se sont pas encore faites valoir, on a édifié une gigantesque mosquée qui, en dimensions, est bien plus vaste que le Kremlin construit par Ivan le Terrible. J’ai appris qu’y oeuvraient des extrémistes musulmans. Comme d’habitude, ces derniers reçoivent le soutien de prédicateurs haineux venus d’Arabie saoudite.

Q.: Dans quelle mesure peut-on évaluer la méfiance que cultivent Poutine et bon nombre de dirigeants russes à l’endroit de l’Occident, surtout si l’on tient compte de l’élargissement de l’OTAN à l’Est?

PSL: Ils ont raison de se méfier! Comme je l’ai déjà dit, on a l’impression que la Guerre Froide n’est pas terminée. Si, à la rigueur, on peut comprendre qu’une grosse portion de l’Ukraine veut demeurer purement ukrainienne et ne pas être occupée par la Russie, directement ou indirectement, on ne doit pas oublier non plus que la Russie est née à Kiev, lorsque les autres princes russes croupissaient encore sous le joug tatar. C’est à Kiev que la Russie s’est convertie à la chrétienté orthodoxe byzantine.

Q.: Par conséquent, estimez-vous que l’UE, face à la question ukrainienne, et face à la Russie, devrait adopter une position plus souple, plus pondérée?

PSL: L’Europe ferait bien mieux de s’occuper de ses propres problèmes au lieu de chercher encore et toujours à s’étendre. On tente en Allemagne d’étendre sans cesse l’Europe alors que ce fut une bêtise gigantesque d’accepter la Roumanie et la Bulgarie dans l’UE. Et voilà que maintenant on veut aborber l’Ukraine quand l’Europe souffre déjà de son hypertrophie. Si les insurgés ukrainiens s’imposent sur la scène politique, l’Ukraine se dégagera de son partenariat étroit avec la Russie et s’orientera vers l’Europe qui, alors, s’étendra presque jusqu’à l’ancienne Stalingrad! Mais ce n’est pas là le but de la manoeuvre!

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°6-7/2014, http://www.zurzeit.at ).

jeudi, 06 mars 2014

G. Adinolfi: l'Imperium contre l'Empire

L'Imperium contre l'Empire

Entretien avec Gabriele Adinolfi

mercredi, 05 mars 2014

Méridien Zéro : médias alternatifs et métapolitique engagée

Méridien Zéro : médias alternatifs et métapolitique engagée

 

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Das heimtückische Spiel der EU mit der Ukraine

Ewald Stadler

Das heimtückische Spiel der EU mit der Ukraine

samedi, 01 mars 2014

Der Bürgerkrieg kommt

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Der Bürgerkrieg kommt

von Johannes Schüller

Ex: http://www.blauenarzisse.de

BN-​Gespräch. Richard Millet gehört zu den bekanntesten Schriftstellern Frankreichs. Jetzt ist seine rechte Schrift, Verlorene Posten, auf Deutsch erschienen. Ein Interview zu Europas Zukunft.

In Ihrem Essay Literarischer Gesang auf Anders Breivik, der Sie ins literarische Abseits brachte, bezeichnen Sie den Massenmörder Breivik als „Henker und Opfer, Symptom und unmögliche Kur” der multikulturellen Gesellschaft. Welche tragischen Figuren und Massaker wird es zukünftig geben?

Die Breiviks und Mohammed Merahs (islamistischer Attentäter von Toulouse, J. S.) werden zunehmen, sofern man nicht einsehen will, dass Europa nicht Amerika ist. Multikulturalismus verkörpert das Scheitern der Nationen, die sich jeweils auf einem einzigen Volk gründen. Ein latenter Bürgerkrieg ist im Kommen.

Ist dieser latente Bürgerkrieg in Frankreich nicht schon längst im Gange? Was bleibt den Franzosen noch, um ihre Heimat zu schützen?

Der Bürgerkrieg findet auf eine gewisse Art und Weise bereits seit 1789 statt. Aber jetzt ist es ein Krieg ohne Namen, in dem das französische Volk gar nicht mehr als solches besteht.

Welche Rolle wird dabei die islamische Kultur spielen?

Es gibt keine islamische Kultur in Europa, sondern einen politischen Angriff. Er wird durch Länder geführt, von denen man sehen wird, dass sie Feinde sind, nämlich Katar, Saudi-Arabien, Kuwait, Pakistan, Algerien. Sie finanzieren den islamischen Terrorismus und den Krieg der Bäuche in Europa. Dieser Krieg findet in Frankreich auch auf Rechtsebene statt, insbesondere in den Einrichtungen öffentlicher Bildung. All das, was der Islam in Europa darstellt, ist weitgehend negativ.

Sie nennen die Literatur und den tradierten Sprachbestand als einen der letzten Rückzugsräume eines europäischen, christlichen Erbes. Lässt sich die große Krise unseres Kontinents politisch nicht mehr lösen?

Es gibt keinen politischen Willen, diese Krise zu lösen. Europa wird geteilt und seine Intellektuellen unterhalten sich nicht mehr miteinander. Es gibt sogar einen Willen, nicht mehr man selbst zu sein, also eine Ablehnung des christlichen und humanistischen Erbes, die eine neue Art des Totalitarismus darstellt. Jeder wünscht sich, amerikanisch zu sein: also ohne Gedächtnis.

Viele Politiker und Parteien kämpfen gegen die ethnische Krise. Vor der Europawahl befürworten zum Beispiel laut aktueller Umfrage circa 34 Prozent der Franzosen die Positionen des Front National. Ist das alles nichts wert?

Der Front National stellt kulturell nichts dar. Nun ist der jetzige Krieg allerdings besonders kulturell: Und zwar in dem Sinne, nach dem Antonio Gramsci die kulturelle Macht als Beherrschungsinstrument definierte. Die Allianz aus Sozialisten und Rechten (gemeint ist hier die bürgerlich-​konservative UMP in Frankreich, J. S.) besitzt diese Macht, folglich ist alles verloren.

Wie stehen Sie zum Freitod Dominique Venners in der Pariser Kathedrale Notre-​Dame? Handelte es sich um einen Akt der Verzweiflung oder ein souveränes Symbol gegen den Untergang Frankreichs?verloreneposten

Der Katholik in mir kann in diesem Selbstmord nur eine Verzweiflungstat sehen und politisch ist es sinnlos. Auch Notre-Dame zu wählen, um zu sterben, ist ein Fehler. Da hätten sich das Pariser Rathaus oder der Eiffelturm besser geeignet.

Eine der Ursachen des Niedergangs ist das, was Sie als „Horizontalisierung” bzw. „Gleichmacherei” erkennen . Hat diese Idee nicht in unserer Kultur ihre Wurzeln? Haben wir uns damit selbst den Tod vorbereitet?

Das Gleichheitsverlangen darf nicht mit dem ideologischen Egalitarismus verwechselt werden und zwar auf dieselbe Art und Weise wie das demokratische Ideal nicht jene „Tyrannei der Mehrheit bedeuten kann, vor der sich schon Tocqueville ängstigte. Der ideologische Egalitarismus ist derzeit in den Ländern am Werk, die man westliche Demokratien nennt, die in Wirklichkeit aber durch die Finanzmärkte regiert werden.

Auch der Niedergang der französischen Sprache erscheint aus der Sicht Ihres Verlorenen Posten unausweichlich. Warum schreiben Sie noch?

Ich schreibe, um zu vollenden, was ich begonnen habe: für die Ehre und dafür, dem Feind nicht das Feld zu überlassen. Und ich schreibe, um einen gewissen, bald verlorenen Stand der französischen Sprache noch ein wenig erklingen zu lassen.

Das literarische Erbe Frankreichs und Deutschland gehört zu unseren letzten sicheren Beständen. Welche Schriftsteller können Sie also jungen, deutschen Lesern empfehlen?

Alle wahrhaften Zeitgenossen, von Homer bis Peter Handke, von Dante bis Marcel Proust, von Shakespeare bis W. G. Sebald, von Blaise Pascal bis Friedrich Nietzsche, von Honoré de Balzacbis Paul Celan.

Monsieur Millet, merci beaucoup!

Anm. d. Red.: Verlorene Posten, die aktuelle deutsche Übersetzung der wichtigsten politischen Essays von Millet, gibt es hier.

jeudi, 20 février 2014

Oliganarchy : entretien d'actualité avec Lucien Cerise

Oliganarchy : entretien d'actualité avec Lucien Cerise

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mardi, 18 février 2014

En Islande, les ressources naturelles sont maintenant « détenues par le peuple »

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En Islande, les ressources naturelles sont maintenant «détenues par le peuple»
Ex: http://www.localisme.fr
 
Interview - La nouvelle Constitution islandaise, choisie par référendum, prévoit que les ressources naturelles soient « détenues par le peuple islandais ».

Entretien avec Victor David, juriste de l’environnement à l’Institut de recherche pour le développement (IRD).

Le projet de nouvelle Constitution islandaise prévoit que les ressources naturelles soient « détenues par le peuple islandais ». Quelle serait la portée de ce texte s’il était adopté ?

Victor David : Cette formulation est une façon politiquement correcte de parler de nationalisation des ressources naturelles. En Islande, un des grands enjeux concerne les produits de la mer. Quelques grosses entreprises concentrent presque l’ensemble des quotas de pêche. Cette nationalisation permettrait de renégocier les quotas vers une redistribution plus favorable à l’ensemble de la population. Les perspectives de trouver du pétrole dans les eaux territoriales islandaises en mer du Nord ne sont probablement pas non plus étrangères à cette proposition. Plus largement, la nationalisation est motivée par la crainte de voir des multinationales, voire des Etats étrangers via des entreprises publiques, accaparer les ressources. La Chine a par exemple essayé d’acquérir des terrains en Islande. Il faut cependant relativiser la portée du texte islandais qui ne fait référence qu’aux ressources non déjà privatisées. Il ne s’agit donc pas pour le gouvernement de faire une chasse aux compagnies privées.

Les changements sont donc assez marginaux ?

Non, car il existe encore beaucoup de ressources naturelles non encore transférées au secteur privé, en matière de pêche mais aussi les réserves pétrolières offshore qui n’en sont qu’au stade… de potentiel !

La référence au « peuple » ne donne-t-elle pas plus de prise aux citoyens sur leurs ressources que la seule nationalisation ?

Pas vraiment, dans la mesure où l’Islande est une démocratie représentative. Il faudrait la mise en place de mécanismes de participation pour que la population soit associée à la gestion des ressources. Par le biais de référendums locaux notamment. Alors, la propriété des peuples aurait plus de sens. Cela dit, il est vrai que le projet de constitution islandaise prévoit des référendums d’initiative citoyenne. 10% de la population pourrait provoquer un référendum, pourquoi pas, sur les ressources naturelles en cas de litige avec l’Etat.

Est-ce que ce projet laisse envisager une meilleure protection des ressources naturelles ?

L’environnement n’a pas forcément grand chose à y gagner. Derrière le vocable « ressources naturelles », on parle en effet moins de la flore, de la faune ou des paysages, que de tout ce qui peut s’avérer être une « richesse naturelle », comme le pétrole, les minerais ou les produits de la pêche. On soustrait aux appétits individuels les ressources naturelles qui ne sont pas déjà privatisées pour les donner au peuple. En réalité, c’est l’Etat qui les gère sous forme d’actionnariat majoritaire, sans nécessairement protéger la nature. Un vrai progrès ces dernières années en matière de protection des ressources naturelles vient de la constitution équatorienne de 2008 qui a décidé d’accorder des « droits fondamentaux » à la nature elle-même. Cela facilite en particulier la défense de l’environnement car ces droits permettent à toute personne de se faire le porte-parole de la nature devant la justice et de porter plainte sans avoir à justifier de préjudice personnel. Et les atteintes à l’environnement sont imprescriptibles.

Cette proposition de l’Islande s’inscrit-elle dans une tendance plus large ?

Oui, la nationalisation des ressources naturelles revient sur le devant de la scène. En toute légalité d’ailleurs puisque, depuis 1962, les Nations unies affirment la souveraineté des Etats sur les ressources naturelles. Ces dernières décennies, les Etats avaient pourtant utilisé ces droits pour privatiser les ressources, sous la pression du FMI et de la Banque mondiale. Depuis le début des années 2000, le Venezuela, la Bolivie et l’Equateur ont entamé ou renforcé la nationalisation de leurs ressources naturelles, notamment du pétrole mais pas seulement. En Bolivie, la nationalisation de l’eau a permis à l’Etat de reprendre la main sur ce secteur contre Suez. A Québec, les partis politiques nationalistes réclament régulièrement la souveraineté sur les ressources naturelles. Mais un effet pervers de ce genre de nationalisation est le risque de corruption, car les gouvernants deviennent les gestionnaires exclusifs de ces richesses. Il faut donc impérativement accroître la participation du public dans la prise de décision en matière de gestion des ressources naturelles et renforcer les garanties de transparence de l’action publique.

 

Cet article de Magali Reinert a initialement été publié, le 8 janvier, par Novethic, le média expert du développement durable.

lundi, 17 février 2014

Entretien avec Jared Diamond : Trois leçons de Papouasie

Entretien avec Jared Diamond: Trois leçons de Papouasie

jared-diamond.jpgJared Diamond, biologiste et géographe à l’université de Californie, c’est d’abord l’auteur de deux gros livres, aussi encensés que critiqués. De l’inégalité parmi les sociétés, traduit en 2000 (Gallimard), prétendait tout simplement expliquer le pourquoi de la success story eurasienne. En d’autres mots, il décrivait comment ce continent européen et asiatique, favorisé par son climat et les nombreuses espèces domesticables qu’il abritait, avait au cours de l’histoire longue pris de l’avance sur les autres, et opéré une sortie considérable hors de son aire natale. Les armes, les métaux, mais par-dessus tout les épidémies, apportées par les Occidentaux, avaient assuré le succès de cette expansion mondiale.

Effondrement, traduit en 2006 (Gallimard), c’était le contraire : on y apprenait comment les Mayas, les habitants de l’île de Pâques, les Indiens pueblos du Nouveau-Mexique, les Vikings du Groenland, avaient méthodiquement scié la branche de leur propre civilisation en faisant de mauvais choix agricoles, alimentaires ou autres. C’était l’histoire d’autant d’échecs, contenant en germe la menace d’une plus grande catastrophe, mondiale et encore à venir, liée à l’indécrottable propension de l’espèce humaine à détruire son environnement.

jared.jpgLe public a largement plébiscité ces deux ouvrages, comme en témoigne le grand nombre de langues dans lesquelles ils ont été rapidement traduits.

Les spécialistes n’ont pas toujours aimé l’assurance avec laquelle J. Diamond développe ses thèses, voire ont trouvé qu’elles étaient porteuses d’un message justifiant la colonisation européenne du monde : aux autres revenait la responsabilité de leurs échecs, à nous, le succès historique et la prise de conscience de la réalité des risques à venir. Effondrement, en particulier, eut à essuyer les critiques acerbes d’historiens et d’archéologues de l’île de Pâques. D’après eux, en reprenant la thèse de la déforestation volontaire de l’île par ses habitants autochtones, J. Diamond ne faisait que répandre une vulgate insultante pour les Pascuans, qui, selon eux, avaient surtout été victimes d’épidémies et d’une déportation massive vers le Pérou dans les années 1860. Depuis, la discussion reste ouverte, chacun des cas invoqués par J. Diamond ayant ses spécialistes attitrés : tel est le risque auquel s’exposent ceux qui aiment jouer dans la cour du voisin, un goût que, de toute évidence, J. Diamond possède au plus haut point.

Revoyons son parcours : docteur en physiologie en 1961, il est professeur de ladite matière dès 1966, mais s’intéresse surtout à l’avifaune de la Nouvelle-Guinée, sur laquelle il publie des articles et un livre. À la fin des années 1980, il s’intéresse à l’évolution humaine dans ses rapports avec l’environnement : ce sera pour lui l’occasion de publier un premier gros livre, Le Troisième Chimpanzé (1992), et de se transformer en professeur de géographie, poste qu’il occupe encore actuellement. Ses principaux ouvrages viendront un peu plus tard, mais dans l’intervalle, il travaille sur un thème qui passionne les évolutionnistes, la sélection sexuelle. Cela donne un autre petit livre (Pourquoi l’amour est un plaisir, 1997).

On le voit, les intérêts de J. Diamond sont multiples et changeants, quoique, en réalité, toujours guidés par la même curiosité pour les causes profondes et invisibles, biologiques et physiques, qui font le succès ou le déclin d’une espèce, d’une société ou d’une civilisation. Rassembler des exemples, les comparer, induire une cause probable : telle est la méthode un peu aventureuse qu’en toutes matières, J. Diamond applique, jusqu’à ce nouvel ouvrage, aussitôt traduit. Son titre énigmatique, Le Monde jusqu’à hier, son sous-titre on ne peut plus clair, « Ce que nous apprennent les sociétés traditionnelles », se complètent et déjà suffisent à faire comprendre que J. Diamond, une fois de plus, enfile un autre costume : peu d’évolution, peu de biologie, mais beaucoup d’observation humaine dans ce livre, où l’auteur, plus voyageur qu’anthropologue, compare les mérites respectifs de deux façons d’habiter le monde : l’une moderne, l’autre traditionnelle.

Le Monde jusqu’à hier commence par un souvenir : le spectacle offert par le hall de l’aéroport de Port Moresby, capitale de la Nouvelle-Guinée, il y a quelques années. Qu’y avait-il de si intéressant dans cette scène ?

L’évidence d’une transformation rapide. C’était en 2006, il y avait des écrans sur tous les bureaux, des hôtesses en uniforme et rien ne distinguait cet aéroport d’un autre dans le monde. Lors de mon premier voyage, en 1964, la Nouvelle-Guinée était encore sous mandat australien, le terminal était un hangar en bois, et à Port Moresby, capitale du pays, il n’y avait qu’un seul feu rouge, à l’intersection des deux rues principales et une inscription en pidgin qui contenait un avertissement. C’est ce contraste qui m’a frappé et dont j’ai voulu rendre compte : tant de changements en si peu de temps, c’est sans doute unique dans l’histoire. Ça a été le déclencheur de ce livre.

Pourquoi êtes-vous allé en Nouvelle-Guinée 
si souvent ?

Au début, par pur goût de l’aventure. J’avais un camarade d’études qui, comme moi, rêvait de connaître les tropiques, et nous étions tous deux amateurs d’oiseaux. Alors, après mon diplôme de physiologie, nous avons arrangé un voyage au Pérou, où nous avons fait de l’alpinisme, puis en Amazonie, et là nous n’avions rien d’autre à faire que de nous promener et d’observer la nature. Nous avons publié deux articles sur les oiseaux, et nous nous sommes demandé quel était l’endroit le plus sauvage du monde : c’était la Nouvelle-Guinée. Nous avons monté une expédition ornithologique, nous y sommes allés, et j’ai adoré ce pays. Depuis, j’y suis retourné chaque fois que possible pour y observer les oiseaux, mais aussi tout le reste, parce que c’est un pays fascinant et qu’une fois que vous y êtes allé, vous trouvez le reste du monde très ennuyeux. Et puis les gens de Nouvelle-Guinée, c’était l’humanité en direct : pas de téléphone, pas de fax. Si vous aviez quelque chose à dire, il fallait le dire en face…

Dans vos précédents livres, il y avait chaque fois une grande question sur les sociétés humaines : pourquoi elles réussissent, pourquoi elles déclinent, de quoi elles dépendent. Ce n’est plus le cas dans celui-ci ?

En fait, j’avais surtout envie de raconter mes voyages, mais mon éditeur m’a mis en garde. Il m’a dit : « Jared, les gens attendent de toi quelque chose de plus ambitieux, de plus universel ». Alors le livre a évolué vers une comparaison des sociétés modernes et des sociétés traditionnelles, avec l’aide d’une quarantaine d’exemples pris dans le monde entier et de références à de grands auteurs de la littérature ethnographique. Les questions de départ sont celles que je me suis posées en Nouvelle-Guinée, mais les réponses sont données de manière plus générale. Cela dit, c’est quand même le plus personnel des récits que j’ai donné de mes expériences, et aussi celui où je me risque le plus à faire des recommandations.

Cette réflexion vous mène à opposer certains traits fondamentaux des sociétés modernes, développées, industrielles à ceux des sociétés traditionnelles. Mais de quelles sociétés s’agit-il ?

Dans le prologue, j’explique qu’il s’agit de sociétés transitionnelles plutôt que traditionnelles, qui peuvent être subordonnées d’assez loin à un État, mais qui conservent encore beaucoup de pratiques du temps de leur autonomie : la façon d’élever les enfants, de traiter les anciens, d’entrer en relation avec autrui. Donc, les villages de Papouasie ou d’Amazonie ne sont pas des images exactes de ce qui a existé dans le passé, mais elles restent suffisamment différentes du mode de vie moderne pour avoir quelque chose à nous apprendre.

Quelle serait la première leçon ?

Je dirai le rapport aux inconnus, aux étrangers. Dans les sociétés traditionnelles, quelle que soit la perméabilité des groupes, vous devez toujours obtenir la permission des gens pour traverser leur territoire. Les gens ne voyagent pas très loin et non sans raison. Même s’ils se marient en dehors de leur village, ils ne passent pas certaines limites dans lesquelles tout le monde sait qui est qui. Ils ne fréquentent pratiquement pas d’inconnus, ou bien, si cela arrive, c’est toujours risqué. Si des étrangers arrivent chez vous, c’est rarement avec de bonnes intentions, et on s’en méfie beaucoup.

Dans le mode de vie moderne, dans les villes, nous croisons des tas d’inconnus chaque jour et parlons à des gens que nous ne connaissions pas cinq minutes avant. C’est tout à fait courant, et normalement sans danger particulier. Les inconnus ne sont pas considérés a priori comme menaçants, mais éventuellement comme des occasions de faire connaissance. Ça fait une certaine différence.

L’homme moderne voyage par goût et trouve normal de se retrouver à des milliers de kilomètres de chez lui. À 12 ans, j’avais déjà été dans différentes régions de États-Unis et du Canada, en France, dans les îles britanniques, en Suède et en Suisse. Mes propres enfants, au même âge, avaient voyagé en Afrique, en Australie et en Europe… Dans les sociétés traditionnelles, il était rare que les gens sortent d’un périmètre très restreint.

Quelle autre différence avez-vous remarquée 
et soulignée ?

Il y en a une grande dans tout ce qui touche au traitement des conflits et l’administration de la justice. Dans les sociétés étatiques, il y a un monopole de la force. Si vous provoquez un accident par imprudence, l’État vous poursuivra pour avoir enfreint la loi. Son but est de punir pour dissuader. Par ailleurs, il ne s’occupe pas forcément de réparer les torts qui ont pu être commis contre des victimes et leurs proches.

Dans les sociétés sans pouvoir central, cela se passe d’une autre manière. Les différents et les agressions interviennent entre gens qui se connaissent. L’important n’est donc pas tant de faire respecter des lois que de s’assurer que les gens pourront continuer de cohabiter. On se soucie donc de réconciliation, d’apaisement, et pas particulièrement d’être juste. Ou bien, c’est la vengeance qui l’emporte, et dans ce cas rien n’est résolu.

Aux États-Unis ou en France, en cas de divorce ou de dispute familiale autour d’un héritage, la justice intervient pour dire ce qui est légal de faire : elle ne s’occupe pas de savoir si sa décision permettra aux gens de se réconcilier un jour. Ce n’est pas son problème. De manière courante, le système judiciaire moderne contribue à entretenir l’hostilité des gens qui s’adresse à lui. Le mouvement en faveur d’une justice restaurative, très actif au Canada, en Nouvelle-Zélande et au Royaume-Uni, illustre un aspect de ce que nous pourrions apprendre des sociétés traditionnelles. Ce sont des choses que nous pouvons réaliser individuellement, mais qui mériteraient aussi que l’État s’y intéresse. Ça ne remplace pas la justice pénale, mais ça peut intervenir après, comme une aide à la réconciliation et à la réinsertion des gens.

Ces sociétés ne pratiquaient-elles pas, à l’adolescence, des rites d’initiation très humiliants, parfois même très cruels ?

Cela montre seulement que nous n’avons pas à imiter ni admirer tout ce qu’ils font. Certaines choses sont incompatibles avec notre conception du bien et du mal. D’autres choses sont très bonnes, comme le fait d’allaiter les bébés au sein, ou de les porter avec soi, contre son corps. Ce n’est pas toujours très compatible avec les activités professionnelles modernes, mais c’est bon pour les enfants. D’ailleurs, je ne suis pas un utopiste qui dirait que tout ce que l’on observe dans les sociétés traditionnelles est meilleur que ce que nous faisons. Loin de là : il y a des aspects insupportables, dans les mœurs des Papous, comme de liquider les enfants malingres à la naissance, les vieillards impotents, ou encore pour les femmes, de suivre leur mari dans la mort.

Il y a un aspect de la prudence des Papous qui vous a beaucoup plu. Pouvez-vous nous donner une petite leçon de « paranoïa constructive » ?

Ma femme est psychologue clinicienne, et je sais que ce qu’elle appelle « paranoïa » est une véritable maladie mentale. Le terme est assez péjoratif, mais moi je l’emploie dans un autre sens. Un jour que j’installais un campement en Nouvelle-Guinée, je montai la tente sous un arbre qui avait l’air d’être mort. Les Papous qui m’accompagnaient ont refusé tout net de dormir là : ils ont dit que l’arbre pouvait tomber dans la nuit et les écraser. J’avais beau leur expliquer que cet arbre en avait pour des années avant de tomber, ils ont tenu bon. Alors j’ai commencé à réfléchir que, chaque nuit, on entendait des arbres tomber dans la jungle. Même s’il n’y avait probablement pas plus d’une chance sur mille de se trouver en dessous, si je dormais dehors pendant trois ans, le risque était réel.

J’ai été influencé par ce point de vue et l’ai nommé « paranoïa constructive ». Cela correspond à une différence culturelle, liée au mode de vie beaucoup plus incertain de ces gens : pour eux, une chute, une fracture, une blessure peuvent être fatales, car ils n’ont ni médecins ni hôpitaux à portée de main. Ils sont donc beaucoup plus réfléchis que nous le sommes avant d’agir, car ils subissent les conséquences de leurs imprudences. Nous, modernes, n’évaluons pas correctement les risques que nous prenons. Si l’on demande à un Nord-Américain de définir les dangers qu’il pense les plus graves, il parlera de terrorisme, d’accident d’avion, de typhon, de tremblement de terre… Mais l’un des accidents les plus fréquents, c’est de glisser dans sa salle de bain et de se briser un membre, voire le crâne. Les Papous m’ont appris à voir cela. Ils prennent des risques calculés, et seulement lorsque c’est indispensable. Ils font des choses très dangereuses, telles que chasser la nuit ou pêcher dans des rivières infestées de crocodiles, mais ça leur est indispensable et ils font tout pour minimiser les risques.

Êtes-vous inquiet de la manière dont ces sociétés autochtones se transforment sous l’effet de la modernité ?

À certains égards, oui. Dans les conditions d’autrefois, les gens mouraient majoritairement de maladies infectieuses et contagieuses, d’accidents ou de mort violente. Ce n’est plus le cas des habitants des pays développés qui sont protégés par la médecine et meurent de maladies métaboliques et dégénératives : cancers, affections cardiovasculaires, diabètes, etc. Lorsque des populations autrefois isolées ont accès aux soins et changent de mode de vie et d’alimentation, ils sont souvent touchés de plein fouet par ces affections auxquelles ils n’étaient pas exposés avant : en Polynésie et chez les Inuits, l’obésité fait des ravages, à cause du sel, du sucre et des matières grasses, auxquels ces gens n’étaient pas habitués. Un tiers des Papous qui vivent autour de Port Moresby sont diabétiques, et, à une autre échelle, Chinois et Indiens sont aussi en train de devenir diabétiques. En Europe, aux États-Unis, ce sont les plus pauvres qui souffrent le plus de ces maladies métaboliques. Mais dans les pays émergents, ce sont les classes riches qui connaissent l’obésité et le diabète. C’est vraiment déplorable.

______________________________________

Notes :

Jared Diamond, biologiste et géographe, est l’auteur de deux best-sellers au moins, De l’inégalité parmi les sociétés (1998) et Effondrement (2005). Il y examinait par le menu les raisons du succès ou de l’échec des civilisations du passé. Il s’est fait connaître comme lanceur d’alerte environnementale et promoteur d’une démarche expérimentale en histoire. Toutes choses fortement documentées et scientifiquement traitées. Mais c’est aussi un ornithologue voyageur, très amoureux de la Nouvelle-Guinée et de ceux qui l’habitent, encore à l’écart des manières modernes. Son dernier livre tient à la fois du récit, du plaidoyer pour les bons côtés de la vie des peuples autochtones et de la comparaison révélatrice de ce que la modernité a fait aux sociétés humaines.

SCIENCES HUMAINES

Entretien avec Lucien Cerise, auteur de « Gouverner par le chaos »

Entretien avec Lucien Cerise, auteur de

«Gouverner par le chaos»

lundi, 03 février 2014

A. Chauprade: sur l'Ukraine


Ayméric Chauprade:

L'Ukraine, nouvelle étape dans la stratégie de domination américaine

par realpolitiktv

vendredi, 31 janvier 2014

1914: Allemagne, culpabilité partagée

Christopher_Clark_Frankfurter_Buchmesse_2013_1.JPG1914: Allemagne, culpabilité partagée

 

Entretien avec le Prof. Christopher Clark sur ses thèses quant au déclenchement de la première guerre mondiale. Toutes les puissances sont coupables et pas seulement le Reich de Guillaume II!

Le Professeur Dr. Christopher Clark enseigne l’histoire contemporaine à l’Université de Cambridge et a sorti récemment un livre de près de 700 pages qui suscite une formidable controverse, “The Sleepwalkers – How Europe Went to War in 1914” (2012, éd. de poche chez Penguin, 2013).

Q.: Professeur Clark, le “Spiegel” a rendu votre oeuvre “suspecte”, “parce que vos possitions rappellent celles des historiens allemands classés dans le camp ‘national-conservateur’”. Seriez-vous par hasard germanophile?

CC: L’Allemagne est certes un pays pour lequel j’éprouve de la sympathie. Je parle l’allemand, mes séjours en Allemagne me sont agréables, je visite volontiers le pays. Mais je ne suis certainement pas germanophile au sens où cette germanophilie serait une position de doctrinaire...

Q.: Dans quelle mesure mettez-vous alors en doute la culpabilité exclusive de l’Allemagne dans le déclenchement de la première guerre mondiale?

CC: Plus personne ne parle vraiment de “culpabilité exclusive” aujourd’hui, même plus les adeptes les plus sourcilleux de l’école de Fritz Fischer, qui avait voulu bétonner l’idée d’une culpabilité exclusive.

Q.: L’historien allemand Fritz Fischer avait déclenché un débat dans les années 60 à propos de la culpabilité dans le déclenchement de la guerre de 14, débat qui avait vite porté le nom de “controverse Fischer”. Pour citer une nouvelle fois le “Spiegel”: “Dans cette controverse, Fischer posait la thèse de la culpabilité exclusive de l’Allemagne”...

CC: C’est un fait: la thèse de Fischer a fini par devenir une sorte d’orthodoxie, non pas sous les oripeaux du radicalisme, mais en version “light”. Chez mes collègues anglophones, on a traduit la thèse de Fischer de la manière suivante: les Russes, les Français et les Anglais ont certes commis des bêtises mais seuls les Allemands voulaient la guerre et l’ont provoquée.

Q.: En Allemagne c’est plutôt la version “radicale” qui a triomphé: une rédactrice de la chaîne ZDF vous a reproché “de prendre trop l’Allemagne sous votre aile protectrice”...

CC: Pas du tout! Je dis de façon claire et nette que l’Allemagne est co-responsable. Mais c’est bizarre: il n’y a qu’en Allemagne que l’on vous reprochera d’être trop “amical” à l’égard du pays. Ce n’est qu’en Allemagne qu’une bienveillance objective en arrive à être “suspecte”.

Q.: Dans quelle mesure?

CC: Je me souviens d’un débat à Berlin sur le thème de la Prusse. Quand il s’est terminé, une dame assez âgée, toute gentille, cultivée, m’a adressé la parole: “Monsieur Clark, vous semblez nous aimer, nous, les Allemands”. “Ben, oui”, ai-je répondu, “pourquoi donc ne vous aimerais-je pas?”. Et elle me rétorqua: “Parce que nous sommes si terribles!”. Je pense qu’un dialogue pareil serait tout bonnement impensable dans un autre pays.

9780062199225.340x340-75.jpgQ.: Votre livre est un formidable best-seller en Allemagne. Est-ce parce qu’il est en porte-à-faux par rapport à tous les autres, qui adoptent les thèses dominantes, qu’il est perçu comme “provocateur”...

CC: C’est possible. En Angleterre aussi, il a suscité des critiques acerbes. On disait: “Nous savons qui est le coupable dans le déclenchement de la première guerre mondiale! Que vient nous raconter ce Clark?”. Moi-même, j’ai encore appris à l’école que les grandes puissances s’étaient solidarisées entre elles pour faire face à l’Allemagne qui avait provoqué la guerre.

Q.: Et ce n’est pas vrai...?

CC: Les choses sont beaucoup plus compliquées. La Russie s’est alliée à la France justement parce qu’elle pensait que Londres pouvait s’allier à Berlin. Et Londres n’a pas cherché à se rapprocher de Saint-Pétersbourg pour intimider l’Allemagne, mais pour protéger l’Inde et la Perse contre les ambitions prêtées à la Russie.

Q.: La conclusion de votre livre: le Reich de Guillaume II n’est pas l’Etat-voyou que l’on a décrit depuis les événements...

CC: Non. L’Allemagne a contribué à créer la situation générale qui a débouché sur la première guerre mondiale et en est donc co-resposable, mais sans plus. Il n’y a pas eu de conspiration allemande pour aboutir à la guerre. L’Allemagne voulait être une grande puissance et c’est pourquoi elle s’est comportée comme une grande puissance. La politique allemande d’avant 1914 correspond entièrement au cadre mental de l’époque.

Q.: Donc, pour vous, l’Allemagne ne cherchait pas à devenir une puissance mondiale...?

CC: Il est plus exact de dire que l’Allemagne proclamait qu’elle voulait mener une “Weltpolitik”. Le résultat de cette aspiration a été l’acquisition de quelques colonies dans le Pacifique et en Afrique. Dans l’ensemble, le butin était finalement bien chiche. Aucune comparaison possible avec les grandes puissances bien établies de l’époque. Il y a une question que j’aime poser à mes étudiants: quelle était la différence entre la flotte britannique de l’époque et la flotte allemande? La flotte britannique était toujours en action. La flotte allemande ne l’était pratiquement pas. La même conclusion s’impose quand on compare les armées britannique et allemande de l’époque.

Q.: Pourtant, lors de la crise de juillet 1914, Berlin a couvert Vienne et a encouragé les Austro-Hongrois à faire la guerre parce qu’en fait, les Allemands la voulaient aussi: c’est ainsi que les théoriciens de la culpabilité exclusive ou principale de l’Allemagne justifient leurs positions...

CC: Il est exact que l’Autriche comme l’Allemagne voulaient une guerre locale contre la Serbie. Cependant la France et la Russie avaient imaginé qu’une poussée des puissances centrales en direction de la Serbie contituerait un casus belli et avaient ainsi fait de la Serbie une sorte d’avant-poste de leur dispositif. La Serbie était posée comme une entité à laquelle il ne fallait pas toucher faute de quoi on déclencherait la guerre. Cela prouve que Français et Russes étaient prêts à courir le risque. Je ne veux pas dire par là que la guerre a été le résultat d’une “conspiration franco-russe”. Berlin partait à l’époque du principe que les Russes n’interviendraient pas. La direction allemande était dès lors prête à risquer une guerre continentale. Le Chancelier Bethmann pensait que, si les Russes, contre toute attente, attaqueraient quand même, ce serait la preuve qu’ils avaient voulu la guerre. Bethmann pensait alors que si les choses pouvaient se passer comme cela, l’Allemagne ne devait pas chercher à éviter la guerre.

Q.: Vous absolvez également le deuxième “grand félon”, c’est-à-dire l’Autriche-Hongrie...

CC: Je n’absous nullement l’Autriche-Hongrie, mais elle n’est pas davantage que l’Allemagne le “grand félon”, seul responsable de la catastrophe. En fait, Vienne se trouvait dans une situation très précaire. Selon la logique qu’adopte toute grande puissance, en tous temps, elle devait réagir, d’une manière ou d’une autre, à l’assassinat de son prince héritier à Sarajevo par des nationalistes serbes.

Q.: Pourquoi?

CC: A votre avis, comment réagiraient les Etats-Unis si un commando, entraîné à Téhéran, par exemple, assassinait le président des Etats-Unis et son épouse en pleine rue? Je ne crois pas que les Américains resteraient sans réagir.

Q.: Vous dites que l’assassinat de l’héritier du trône a été pour l’Autriche-Hongrie une sorte de “11 septembre 2001”...

CC: Oui. Cet attentat a bouleversé de fond en comble l’alchimie politique de l’époque. C’est une légende de dire que les Autrichiens n’ont pas été touchés par la mort du prince héritier et qu’ils n’ont considéré cette mort que comme un prétexte pour pouvoir faire la guerre contre la Serbie. Non, les Autrichiens ont été profondément bouleversés. La mort de l’archiduc a été un véritable choc pour l’Empire austro-hongrois.

Q.: Qui alors est le véritable coupable dans le déclenchement de la première guerre mondiale?

CC: Je pense que la notion de “culpabilité” n’explique absolument rien. De plus, l’idée d’une “culpabilité” implique simultanément celle d’une “non-culpabilité”: voilà pourquoi cette notion nous conduit à avoir une représentation faussée de la crise de juillet 1914. La guerre a jailli d’une certaine culture politique européenne. L’Europe, à l’époque, était un continent explosif.

Q.: Vos propos ressemblent à ceux de Lloyd George, premier ministre britannique, qui avait dit “que nous nous étions tous laissés aller vers la guerre”... Votre thèse des “somnambules” est-elle quelque peu différente?

CC: Quand on dit “se laisser aller à la guerre”, cela signifie que les responsables n’ont pas de culpabilité. Ce n’est pas exact. Il faut dire plutôt que tous, comme des somnambules, ont laissé faire les choses, les yeux ouverts, sans vouloir rien empêcher: ils ont tous accepté le déclenchement d’une guerre de formidable ampleur, en entrevoyant parfaitement ce qui se passait. Personne n’a voulu commencer la guerre mais tous étaient prêts à l’accepter en toute bonne conscience, pour autant qu’un autre la rendait possible par son comportement. Et quand je dis “rendre possible”, je ne dis pas “la forcer”: il n’était même pas nécessaire d’exercer une telle pression...

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°3/2014, http://www.zurzeit.at ).

jeudi, 30 janvier 2014

"United by Hatred"

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"United by Hatred"

Interview with Alexander Dugin

by Manuel Ochsenreiter

Ex: http://manuelochsenreiter.com

Prof. Dugin, the Western mainstream media and established politicians describe the recent situation in Ukraine as a conflict between pro-European, democratic and liberal oppositional alliance on the one side and an authoritarian regime with a dictator as president on the other side. Do you agree?

Dugin: I know those stories and I consider this type of analysis totally wrong. We cannot divide the world today in the Cold War style. There is no “democratic world” which stands against an “antidemocratic world”, as many Western media report.

Your country, Russia, is one of the cores of this so called “antidemocratic world” when we believe our mainstream media. And Russia with president Vladimir Putin tries to intervene in Ukrainian domestic politics, we read...

Dugin: That´s completely wrong. Russia is a liberal democracy. Take a look at the Russian constitution: We have a democratic electoral system, a functioning parliament, a free market system. The constitution is based on Western pattern. Our president Vladimir Putin rules the country in a democratic way. We are a not a monarchy, we are not a dictatorship, we are not a soviet communist regime.

Our politicians in Germany call Putin a “dictator”!

Dugin: (laughs) On what basis?

Because of his LGBT-laws, his support for Syria, the law suits against Michail Chodorchowski and “Pussy Riot”...

Dugin: So they call him “dictator” because they don´t like the Russian mentality. Every point you mentioned is completely democratically legitimate. There is not just one single “authoritarian” element. So we shouldn´t mix that: Even if you don´t like Russia´s politics you can´t deny that Russia is a liberal democracy. President Vladimir Putin accepts the democratic rules of our system and respects them. He never violated one single law. So Russia is part of the liberal democratic camp and the Cold War pattern doesn´t work to explain the Ukrainian crisis.

Violent protesters in Kiev

So how can we describe this violent and bloody conflict?

Dugin: We need a very clear geopolitical and civilizational analysis. And we have to accept historical facts, even if they are in these days not en vogue!

What do you mean?

Dugin: Todays Ukraine is a state which never existed in history. It is a newly created entity. This entity has at least two completely different parts. These two parts have a different identity and culture. There is Western Ukraine which is united in its Eastern European identity. The vast majority of the people living in Western Ukraine consider themselves as Eastern Europeans. And this identity is based on the complete rejection of any pan-Slavic idea together with Russia. Russians are regarded as existential enemies. We can say it like that: They hate Russians, Russian culture and of course Russian politics. This makes an important part of their identity.

You are not upset about this as a Russian?

Dugin: (laughs) Not at all! It is a part of identity. It doesn´t necessarily mean they want to go on war against us, but they don´t like us. We should respect this. Look, the Americans are hated by much more people and they accept it also. So when the Western Ukrainians hate us, it is neither bad nor good – it is a fact. Let´s simply accept this. Not everybody has to love us!

But the Eastern Ukrainians like you Russians more!

Dugin: Not so fast! The majority of people living in the Eastern part of Ukraine share a common identity with Russian people – historical, civilizational, and geopolitical. Eastern Ukraine is an absolute Russian and Eurasian country. So there are two Ukraines. We see this very clear at the elections. The population is split in any important political question. And especially when it comes to the relations with Russia, we witness how dramatic this problem becomes: One part is absolute anti-Russian, the other Part absolute pro-Russian. Two different societies, two different countries and two different national, historical identities live in one entity.

So the question is which society dominates the other?

Dugin: That´s an important part of Ukrainian politics. We have the two parts and we have the capital Kiev. But in Kiev we have both identities. It is neither the capital of Western Ukraine nor Eastern Ukraine. The capital of the Western part is Lviv, the capital of the Eastern part is Kharkiv. Kiev is the capital of an artificial entity. These are all important facts to understand this conflict.

Western Media as well as Ukrainian “nationalists” would strongly disagree with the term “artificial” for the Ukrainian state.

Dugin: The facts are clear. The creation of the state of Ukraine within the borders of today wasn´t the result of a historical development. It was a bureaucratic and administrative decision by the Soviet Union. The Ukrainian Soviet Socialist Republic was one of the 15 constituent republics of the Soviet Union from its inception in 1922 to its end in 1991. Throughout this 72-year history, the republic's borders changed many times, with a significant part of what is now Western Ukraine being annexed by the Red Army in 1939 and the addition of formerly Russian Crimea in 1954.

Some politicians and analysts say that the easiest solution would be the partition of Ukraine to an Eastern and a Western state.

Dugin: It is not as easy as it might sound because we would get problems with national minorities. In the Western part of Ukraine many people who consider themselves as Russians live today. In the Eastern part lives a part of the population that considers itself as Western Ukrainian. You see: A simple partition of the state wouldn´t really solve the problem but even create a new one. We can imagine the Crimean separation, because that part of Ukraine is purely Russian populated territory.

Why does it seem that the European Union is so much interested in “importing” all those problems to its sphere?

Dugin: It is not in the interest of any European alliance, it is in the interest of USA. It is a political campaign which is led against Russia. The invitation of Brussels to Ukraine to join the West brought immediately the conflict with Moscow and the inner conflict of Ukraine. This is not surprising at all of anybody who knows about the Ukrainian society and history.

Some German politicians said that they were surprised by the civil war scenes in Kiev...

Dugin: This says more about the standards of political and historical education of your politicians than about the crisis in Ukraine...

But the Ukrainian president Viktor Yanukovych refused the invitation of the West.

Dugin: Of course he did. He was elected by the pro-Russian East and not by the West. Yanukovych can´t act against the interest and the will of his personal electoral base. If he would accept the Western-EU-invitation he would be immediately a traitor in the eyes of his voters. Yanukovych´s supporters want integration with Russia. To say it clearly: Yanukovych simply did what was very logical for him to do. No surprise, no miracle. Simply logical politics.

 

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There is now a very pluralistic and political colorful oppositional alliance against Yanukovych: This alliance includes typical liberals, anarchists, communists, gay right groups and also nationalist and even neo-Nazi groups and hooligans. What keeps these different groups and ideologies together?

Dugin: They are united by their pure hatred against Russia. Yanukovych is in their eyes the proxy of Russia, the friend of Putin, the man of the East. They hate everything what has to do with Russia. This hate keeps them together; this is a block of hatred. To say it clearly: Hate is their political ideology. They don´t love the EU or Brussels.

What are the main groups? Who is dominating the oppositional actions?

Dugin: These are clearly the most violent neo-Nazi groups on the so called Euro-Maidan. They push for violence and provoke a civil war situation in Kiev.

Western Mainstream media claims that the role of those extremist groups is dramatized by the pro-Russian media to defame the whole oppositional alliance.

Dugin: Of course they do. How do they want to justify that the EU and the European governments support extremist, racist, neo-Nazis outside the EU-borders while they do inside the EU melodramatic and expensive actions even against the most moderate right wing groups?

But how can for example the gay right groups and the left wing liberal groups fight alongside the neo-Nazis who are well known to be not really very gay friendly?

Dugin: First of all, all these groups hate Russia and the Russian president. This hate makes them comrades. And the left wing liberal groups are not less extremist than the neo-Nazi groups. We tend to think that they are liberal, but this is horribly wrong. We find especially in Eastern Europe and Russia very often that the Homosexual-Lobby and the ultranationalist and neo-Nazi groups are allies. Also the Homosexual lobby has very extremist ideas about how to deform, re-educate and influence the society. We shouldn´t forget this. The gay and lesbian lobby is not less dangerous for any society than neo-Nazis.

We know such an alliance also from Moscow. The liberal blogger and candidate for the mayoral position in Moscow Alexej Nawalny was supported by such an alliance of gay rights organizations and neo-Nazi groups.

Dugin: Exactly. And this Nawalny-coalition was also supported by the West. The point is, it is not at all about the ideological content of those groups. This is not interesting for the West.

What do you mean?

Dugin: What would happen if a neo-Nazi organization supported Putin in Russia or Yanukovych in Ukraine?

The EU would start a political campaign; all huge western mainstream media would cover this and scandalize that.

Dugin: Exactly that´s the case. So it is only about on which side such a group stands. If the group is against Putin, against Yanukovych, against Russia, the ideology of that group is not a problem. If that group supports Putin, Russia or Yanukovych, the ideology immediately becomes a huge problem. It is all about the geopolitical side the group takes. It is nothing but geopolitics. It is a very good lesson what is going on in Ukraine. The lesson tells us: Geopolitics is dominating those conflicts and nothing else. We witness this also with other conflicts for example in Syria, Libya, Egypt, in Caucasian region, Iraq, Iran...

Any group taking side in favor of the West is a “good” group with no respect if it is extremist?

Dugin: Yes and any group taking side against the West – even if this group is secular and moderate – will be called “extremist” by the Western propaganda. This approach exactly dominates the geopolitical battlefields today. You can be the most radical and brutal Salafi fighter, you can hate Jews and eat human organs in front of a camera, as long as you fight for the Western interest against the Syrian government you are a respected and supported ally of the West. When you defend a multi-religious, secular and moderate society, all ideals of the West by the way, but you take position against the Western interest like the Syrian government, you are the enemy. Nobody is interested in what you believe in, it is only about the geopolitical side you chose if you are right or wrong in the eyes of the Western hegemon.

Prof. Dugin, especially Ukrainian opposition groups calling themselves “nationalists” would strongly disagree with you. They claim: “We are against Russia and against the EU, we take a third position!” The same thing ironically also the salafi fighter in Syria would say: “We hate Americans as much as the Syrian government!” Is there something like a possible third position in this geopolitical war of today?

Dugin: The idea to take a third and independent position between the two dominating blocks is very common. I had some interesting interviews and talks with a leading figure of the Chechen separatist guerilla. He confessed to me that he really believed in the possibility of an independent and free Islamic Chechnya. But later he understood that there is no “third position”, no possibility of that. He understood that he fights against Russia on the side of the West. He was a geopolitical instrument of the West, a NATO proxy on the Caucasian battlefield. The same ugly truth hits the Ukrainian “nationalist” and the Arab salafi fighter: They are Western proxies. It is hard to accept for them because nobody likes the idea to be the useful idiot of Washington.

To say it clearly: The “third position” is absolutely impossible?

Dugin: No way for that today. There is land power and sea power in geopolitics. Land power is represented today by Russia, sea power by Washington. During World War II Germany tried to impose a third position. This attempt was based precisely on those political errors we talk about right now. Germany went on war against the sea power represented by the British Empire, and against the land power represented by Russia. Berlin fought against the main global forces and lost that war. The end was the complete destruction of Germany. So when even the strong and powerful Germany of that time wasn´t strong enough to impose the third position how the much smaller and weaker groups want to do this today? It is impossible, it is a ridiculous illusion.

Anybody who claims today to fight for an independent “third position” is in reality a proxy of the West?

Dugin: In most of the cases, yes.

Former German foreign minister Guido Westerwelle shows solidarity with the "Euro-Maidan"

Moscow seems to be very passive. Russia doesn´t support any proxies for example in the EU countries. Why?

Dugin: Russia doesn´t have an imperialist agenda. Moscow respects sovereignty and wouldn´t interfere in the domestic politics of any other country. And it is an honest and good politics. We witness this even in Ukraine. We see much more EU-politicians and even US-politicians and diplomats travelling to Kiev to support the opposition than we see Russian politicians supporting Yanukovych in Ukraine. We shouldn´t forget that Russia doesn´t have any hegemonial interests in Europe, but the Americans have. Frankly speaking, the European Union is not a genuine European entity – it is an imperialist transatlantic project. It doesn´t serve the interests of the Europeans but the interests of the Washington administration. The “European Union” is in reality anti-European. And the “Euro-Maidan” is in reality “anti-Euro-Maidan”. The violent neo-Nazis in Ukraine are neither “nationalist” nor “patriotic” nor “European” - they are purely American proxies. The same for the homosexual rights groups and organizations like FEMEN or left wing liberal protest groups.

mercredi, 29 janvier 2014

Crise ukrainienne : entretien avec Xavier Moreau

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Crise ukrainienne : entretien avec Xavier Moreau

 
KIEV (NOVOpress) – Éditorialiste du site d’analyses de géopolitique www.realpolitik.tv, russophone, Saint-Cyrien et officier parachutiste, titulaire d’un DEA de relations internationales à Paris IV Sorbonne, Xavier Moreau vit et travaille à Moscou. A ce titre, il bénéficie d’un accès à des informations directes en provenance d’Ukraine, non déformées par le prisme des médias occidentaux. Il a bien voulu répondre aux questions de Novopress sur la crise que traverse l’Ukraine depuis de nombreuses semaines.
 
Quelles sont les origines de la crise que traverse aujourd’hui l’Ukraine ?
 
 
Les origines sont diverses. Du point de vue de l’Histoire européenne, le contrôle de l’Ukraine est un enjeu stratégique pour la Russie, la Pologne et l’Allemagne. Il est devenu, par la suite, un enjeu pour les États-Unis, dont l’idéologie géopolitique affirme la nécessité de contrôler la plaine ukrainienne, afin d’empêcher la puissance eurasiatique russe d’être européenne. A l’heure où les Américains se retirent d’Europe, chasser les Russes d’Ukraine éviterait une remise en cause trop rapide de l’hégémonie atlantiste. Ces différentes forces s’appuient sur les différentes composantes de l’Ukraine moderne, issues de la deuxième guerre mondiale.
 
Les diplomaties américaine et allemande sont passées maîtresses dans l’art d’utiliser ces groupuscules (…)
 
La non-signature de l’accord de coopération, qui n’apportait absolument rien à l’Ukraine, n’est bien sûr qu’un prétexte.
 
Ces manifestations d’une opposition pro-européenne sont-elles à classer dans la série des révolutions de couleur qui ont secoué l’Europe centrale et orientale depuis le début des années 2000 ?
 
Elles se rapprochent davantage des crises yougoslave ou syrienne. Les révolutions colorées sont arrivées à l’issu d’un processus électoral litigieux et avaient donc une légitimité, sans doute contestable, mais réelle. Dans le cas de l’Ukraine, il s’agit de déstabiliser un pouvoir légitime et démocratiquement élu aux moyens de bandes armées extrémistes. En Bosnie, au Kosovo et en Syrie, elles étaient composées d’islamistes, en Croatie et en Ukraine de fascistes. Les diplomaties américaine et allemande sont passées maîtresses dans l’art d’utiliser ces groupuscules, qui étaient d’ailleurs déjà présents en 2004 à Kiev. C’est à ce moment que nous avons commencé à parler de l’alliance orange/brune.
 
Quelles sont les forces en présence ?
 
Du côté du gouvernement légal et légitime, on trouve le Parti des Régions, qui s’appuie sur l’Ukraine de l’Est, fortement industrialisée et russophone, ainsi que sur la Crimée, qui est en fait une terre russe, donnée en cadeau à la République Socialiste Soviétique d’Ukraine en 1954 par Nikita Khrouchtchev. Le Parti des Régions est actuellement tiraillé entre les personnages qui composent son élite, et dont les intérêts divergent. C’est ce qui explique le marasme politique actuel.
 
Du côté de l’opposition, nous trouvons le parti UDAR de Vitali Klitschko qui est une construction germano-américaine. Vitali Klitschko semble plein de bonne volonté, mais s’est révélé être un parfait imbécile. Son absence totale de sens politique lui fait exécuter sans nuance les consignes du département d’État américain. Il portera une grave responsabilité si le pays bascule dans la guerre civile.
 
Nous trouvons également Arseni Iatseniouk, qui appartient à l’équipe de Yulia Timoshenko. Il est de ce fait bien moins légitime que Vitali Klitschko, dont l’honnêteté ne peut être remise en cause. Il est important de souligner, qu’aucun de ces deux membres de l’opposition ne sont véritablement reconnus par les manifestants. Vitali Klitschko s’est d’ailleurs adressé aux extrémistes ukrainiens dans sa langue natale qui est le russe. Vous pouvez imaginer leur réaction…
 
Le troisième mouvement d’opposition est le parti fasciste « Svoboda », ancien parti social-national d’Ukraine, qui affiche un rejet radical de tout ce qui est russe ou russophone. Il est influent principalement dans l’extrême ouest de l’Ukraine autour de la Galicie. Dans son giron, s’affolent une galaxie de mouvements encore plus radicaux et sectaires, difficilement contrôlables, mais qui bénéficient, malgré leur antisémitisme affiché, du soutien des occidentaux (États-Unis, Union Européenne, Allemagne, Pologne…). Sans eux, le mouvement d’Euromaïdan aurait pris fin sans violence, dès le mois de décembre.
 
 
Viktor Ianoukovytch a-t-il fait une erreur en proposant à l’opposition d’intégrer le gouvernement ukrainien ?
 
 
Il essaie de jouer au plus fin, et veut vraisemblablement mettre en évidence l’inaptitude à gouverner de l’opposition et son incapacité à sortir l’Ukraine de cette crise. La véritable question est de savoir pourquoi Viktor Ianoukovytch laisse 2000 fascistes à Kiev – et quelques centaines en région – déstabiliser gravement l’Ukraine, alors que la légitimité et la légalité sont de son côté.
 
Je pense qu’il y a deux raisons principales. La première est liée au caractère de Viktor Ianoukovytch, qui pour être franc, n’est pas quelqu’un de très courageux. Le politologue russe, Gleb Pavlovski, proche de Vladimir Poutine, avait d’ailleurs signalé la lâcheté du Président ukrainien en 2004. Bien qu’assuré du soutien russe, il avait préféré abandonné le pouvoir à Viktor Iouchtchenko‎, dont la victoire n’était pas plus certaine que la sienne.
 
La deuxième raison n’est pas plus glorieuse. Viktor Ianoukovytch, aidé de ses fils, aurait passé les trois premières années de son quinquennat à rançonner les oligarques ukrainiens, y compris ceux qui l’ont aidé à être élu. Il se serait ainsi mis à dos nombre d’entre eux. La fortune colossale, ainsi accumulée par sa famille, pourrait être saisie dans le cadre de sanctions américaines ou européennes.
 
Ce sont ces deux raisons qui expliquent le mieux, l’inaction du Président ukrainien. Quelle que soit l’issue de cette crise, le Parti des Régions doit changer de leader.
 
Quelle issue voyez-vous à la crise ukrainienne ?
 
C’est difficile à dire. L’enchainement des événements est révolutionnaire dans le sens où des groupes peu nombreux mais hyper violents affrontent un pouvoir faible. En revanche, tant que la police ou l’armée n’ont pas été retournées, le pouvoir en place peut reprendre la main en quelques jours face aux extrémistes de l’ouest. Cela ne se fera pas sans violence, ni-même sans morts, mais n’importe quel État d’Europe de l’Ouest n’aurait jamais permis l’envahissement de bâtiments ministériels, quitte à tirer sur des manifestants armés.
 
Pourquoi la communauté européenne soutient-elle des manifestants pourtant ultra-violents ?
 
Tout d’abord, il faut rappeler qu’en matière de politique étrangère, l’Union européenne est une chambre d’enregistrement des décisions prises par Washington et Berlin. Ce soutien aux groupuscules fascistes et antisémites n’est cependant pas étonnant. Le département d’État américain sait parfaitement bien que les leviers sur lesquelles il s’appuie habituellement (médias, partis libéraux ou sociaux-démocrates, minorités sexuelles…) ne sont pas suffisamment contrôlés ou influents pour faire basculer politiquement l’Ukraine. La solution est donc de lancer une campagne de déstabilisation de type révolutionnaire, et cela ne peut se faire qu’au moyen de l’un des quatre piliers traditionnels de l’influence américaine (trotskisme, fascisme, islamisme ou crime organisé). L’issue la plus favorable pour les révolutionnaires serait la mise en place d’un « gouvernement fasciste de transition », sur le modèle de ce qui s’est fait en Croatie, où un gouvernement social-démocrate a succédé à celui de Franco Tudjman et a fait rentrer le pays dans l’UE et dans l’OTAN.
 
Dans le pire des cas, même s’il échoue, le gouvernement américain aura transformé l’Ukraine en champ de ruine, culpabilisant les Européens de ne pouvoir régler un conflit en Europe sans l’OTAN. C’est peut-être là que l’Allemagne et la Pologne hésiteront à suivre le jusqu’auboutisme américain, d’autant plus que contrairement aux années 90, la Russie soutiendra loyalement la partie russe et russophone. L’autre élément pourrait jouer en faveur du pouvoir légal est la multiplication des actes antisémites par les groupuscules fascistes. L’ambassade israélienne à Kiev a d’ailleurs lancé un appel au gouvernement ukrainien.
 
Xavier Moreau, merci.
 
Propos recueillis par Guy Montag pour Novopress

lundi, 27 janvier 2014

Deutsche Russen in Sibirien

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Deutsche Russen in Sibirien

Ex: http://www.blauenarzisse.de

BN-​Gespräch. Alexander Geier ist Vorsitzender des Deutsch-​Russischen Hauses (DRH) im sibirischen Tomsk. Frank Marten sprach mit ihm über Geschichte, Gegenwart und Identität der Russlanddeutschen.

Blaue​Narzisse​.de: Herr Geier, spielen die deutschen Wurzeln bei den Russlanddeutschen heute überhaupt noch eine Rolle?

Diese Frage kann ich nicht eindeutig beantworten. Es gibt auf jeden Fall starke regionale Abweichungen. So hat sich die deutsche Sprache bei den Russlanddeutschen in Kasachstan wesentlich besser erhalten als bei den Russlanddeutschen in Sibirien. Die Gründe für diese Entwicklung kann ich jedoch selber nicht nennen. Ein positives Beispiel für Sibirien ist die Situation der Russlanddeutschen in Omsk. Denn bereits 1911 sind unter dem damaligen russischen Ministerpräsidenten Pjotr Stolypin (er stammte aus Dresden, Red.) zahlreiche Russlanddeutsche aus dem Wolgagebiet ausgewandert. Aus ökonomischen Gründen kamen sie in die Gegend um das sibirische Omsk.

Als was sehen sie sich? Als Russe, Deutscher oder als Synthese?

Diesbezüglich bin ich hin und hergerissen. Aufgrund meiner Erziehung und meiner Kindheit würde ich mich als Deutscher sehen. Obwohl meine Eltern in Russland lebten, genoss ich eine deutsche Erziehung. So las mir meine Großmutter stets deutsche Gedichte und Märchen vor.

Aber aufgrund meines Lebensschwerpunktes in Russland mit meinen vielen russischen Freunden bin ich auch Russe. Deshalb sind mir viele Deutsche bei meinen Besuchen in Deutschland fremd. Die Russlanddeutschen in Russland jedoch sehe ich als meine Landsmänner. Zusammenfassend kann ich sagen, dass ich mich als Deutscher, der in Russland lebt, fühle.

Was macht für sie eine spezifisch deutschrussische Kultur aus? Was unterscheidet sie von deutscher Kultur?

Die Basis für die Russlanddeutsche wurde vor mehr als 200 Jahren mit dem Erlass Katharina der Großen gelegt. So benutzen wir Russlanddeutsche Ausdrücke und Redewendungen, die heutzutage in Deutschland niemand mehr verwendet. Beispielsweise begrüßen sich einzelne Russlanddeutsche mit der Redewendung „Zeit bieten“. Wenn man in Deutschland sagt, „Das Leben geht vorbei“, sagen die Russlanddeutschen: „Nur der Buchel bleibt hinten“. Aufgrund dieser traditionellen Sprachweise sind auch die Handlungsweisen der Russlanddeutschen von traditionellen Intentionen geprägt.

Gibt es eine besondere „deutschrussische Mentalität”? Wie würden sie diese beschreiben?

Wie bereits erwähnt, sind die Russlanddeutschen traditioneller als die Deutschen in Deutschland. Der Vater wird stets als Patriarch der Familie wahrgenommen. Ich beispielsweise sieze meinen Vater, der nun mit meiner Mutter in Deutschland lebt. Die traditionelle Rollenverteilung innerhalb der Familie genießt bei den Russlanddeutschen immer noch einen hohen Stellenwert.

Ich kenne einen Mann, der russlanddeutsche Wurzeln hat, sich selbst jedoch als Angehöriger der russischen Ethnie sieht. Dieser zeichnet allerdings seit knapp 30 Jahren dreimal am Tag das Wetter auf und konnte den Projektteilnehmern die Wetterlage an einem bestimmten Tag vor sechs Jahren schildern. Dieses Beispiel zeigt, dass die meisten Russlanddeutschen aufgrund ihrer Liebe zur Ordnung und zur Sorgfalt im Herzen immer Deutsche geblieben sind.

Woher stammt Ihre Familie? Wie und wann kam diese nach Russland?

Meine Familie entstammt dem Dialekt nach aus dem Dreiländereck der heutigen Bundesländer Hessen, Rheinland-​Pfalz und Baden-​Württemberg. In das damalige Zarenreich ist die Familie nach dem Erlass Katharina der Großen ab 1763 übergesiedelt. Jedoch habe ich keine Angaben über den genauen Zeitpunkt.

Wie kamen Sie in das sibirische Tomsk?

Ich wuchs in Kasachstan auf und lebte dort bis zu meinem zwanzigsten Lebensjahr. Nach Sibirien ging ich in erster Linie aufgrund meines Studiums in Novosibirsk. Im Alter von 27 Jahren zog ich 1986 nach Tomsk. Sie war damals eine für Ausländer geschlossene Stadt.

Was machen Sie heute im DRH? Welche Aufgaben hat es?

Das DRH in Tomsk wurde 1993 gegründet und ist eine staatliche Institution. Wie der Name erahnen lässt, stehen bei uns die Russlanddeutschen im Fokus unserer Arbeit. Unser primäres Ziel ist die Erhaltung der russlanddeutschen Kultur und Sprache. In diesem Sinne führen wir viele Projekte durch, organisieren Sprachcamps und Austausche mit deutschen Schulen oder Institutionen. Im Mai 2013 tagte ein Deutsch-​Russisches Managertreffen bei uns in Tomsk. Daneben bieten wir selbstverständlich Sprachkurse in Deutsch an und haben sogar eine Tanzgruppe.

Wie werden die Russlanddeutschen von der Mehrheit der Russen wahrgenommen? Gibt es Probleme?

Im modernen Russland gibt es glücklicherweise keine Probleme oder Vorurteile gegenüber uns Russlanddeutschen. Dies war zur Zeit der Sowjetunion anders. Ich durfte beispielsweise niemals in die DDR reisen. Für die Mehrheit der Russlanddeutschen wurden die Hürden für einen Auslandsaufenthalt erheblich erhöht.

Funktioniert heute die Zusammenarbeit mit staatlichen Agenturen und Behörden?

Da das DRH eine staatliche Institution ist, pflegen wir natürlich Kontakte und Beziehungen zu anderen Agenturen und Behörden. Aufgrund dessen ist das DRH dem Kulturdepartement von Novosibirsk unterstellt. Wir finanzieren uns aus dem Regionalfond des Oblast (Einheit für einen größeren Verwaltungsbezirk, Red.) Tomsk.

Gibt es eine Zusammenarbeit mit deutschen Behörden, Organisationen bzw. Verbänden der Russlanddeutschen?

Natürlich existiert eine Zusammenarbeit. Allein aufgrund der Vielzahl von Russlanddeutschen in Deutschland pflegen wir zahlreiche Kontakte zu den verschiedenen Verbänden der Russlanddeutschen. Des weiteren gibt es Kontakte zum Deutschen Akademischen Austauschdienst e. V. (DAAD), dem Goethe-​Institut, der Robert-​Bosch Stiftung und dem Deutschen Generalkonsulat in Novosibirsk.

Herr Geier, vielen Dank für das Gespräch!

Anm. der Red.: Mit der Geschichte der Russlanddeutschen hat sich Fabian Flecken hier beschäftigt.

jeudi, 23 janvier 2014

Les Argonautes sont un exemple pour le monde d'aujourd'hui

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«Les Argonautes
sont un exemple pour le monde d’aujourd’hui,

perdu dans ses calculs mesquins»

Qui n’a entendu parler des 50 héros, menés par Jason, partis pour retrouver la Toison d’or ? Ils sont passés à la postérité sous le nom d’Argonautes (du nom de leur navire L’Argo)…

Entretien avec Dimitris Michalopoulos auteur deLes Argonautes

 

(Propos recueillis par Fabrice Dutilleul)

Pourquoi les Argonautes fascinent-ils toujours autant ?

Ils nous éblouissent même aujourd’hui, car ils étaient des héros au sens vrai du terme. Ils ont fait l’impossible : ils arrivèrent, en effet, au bout de la Mer noire, enlevèrent la Toison d’or en dépit des monstres qui y veillaient, échappèrent à leurs ennemis farouches, firent le périple de l’Europe et regagnèrent la Grèce via l’océan Atlantique. Autrement dit, ils sont un exemple pour le monde d’aujourd’hui, perdu dans ses calculs mesquins.

Comment êtes-vous parvenus à séparer ce qui appartient à la légende et ce qui appartient à l'histoire ?

En fouillant les sources grecques et latines ainsi que presque l’ensemble de la littérature contemporaine. À mon avis, il suffit de lire attentivement les textes anciens, pour comprendre très bien ce qu’il était vraiment passé pendant le voyage, voire la campagne, des Argonautes. 

Pensez-vous avoir fait un livre exhaustif ou y a-t-il encore, d'après vous, des choses à découvrir pour d'autres chercheurs ?

En ce qui concerne les Argonautes, non ! Je ne crois pas qu’il y a des choses à découvrir. En ce qui concerne toutefois les voyages des Anciens dans les océans et leurs campagnes en Amérique, oui… il y a toute une épopée à étudier et à écrire.

Y a-t-il encore un impact du voyage des Argonautes sur la Grèce actuelle… ou sur d'autres pays ?

Impact du voyage des Argonautes sur la Grèce actuelle ? Non, pas du tout (à l’exception, bien sûr, de quelques rares amateurs de l’Antiquité). À vrai dire, la Grèce d’aujourd’hui est plutôt hostile aux sciences de l’Homme, parmi lesquelles l’Histoire est toujours la prima inter pares. Or, c’est différent dans d’autres pays, oui ! En France et en Espagne, mais aussi dans des pays du Caucase, on m’a souvent posé la question : « Pourquoi a-t-on oublié les Argonautes, qui avaient parcouru l’Europe de l’est et laissé des traces presque  partout sur les côtes de notre continent ? » Je ne savais quoi répondre, car il me fallait faire toute une conférence sur la situation actuelle de la Grèce, ses liens brisés avec les Hellènes et les Pélasges  de l’antiquité etc. Voilà donc pourquoi je me suis mis au travail… et j’ai écrit mon livre sur les Argonautes et leur voyage.

Les Argonautes, Dimitris Michalopoulos, préface de Christian Bouchet, Éditions Dualpha, collection « Vérités pour l’Histoire », dirigée par Philippe Randa, 194 pages, 21 euros. 

BON DE COMMANDE

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… ex. de Les Argonautes (21 euros)

mercredi, 22 janvier 2014

« On ne va pas aller mourir pour du pétrole »

«On ne va pas aller mourir pour du pétrole»

Entretien avec Aymeric Chauprade


chaupraderj9.jpgAymeric Chauprade, docteur en sciences politiques, savant de renommée internationale, l’un des spécialistes de pointe de la géopolitique en France, assigne à la Russie un rôle de première importance dans la mise en place du monde moderne. En quoi la croissance de l’influence russe est-elle liée à la renaissance de l’Orthodoxie ? Comment notre pays peut-il aider les chrétiens persécutés du Moyen-Orient ? Comment son rôle particulier est-il lié aux protestations récentes de millions de Français contre le mariage homosexuel ?

 

C’est là le sujet de notre discussion avec Aymeric Chauprade.

 

La foi et l’argent

 

Thomas : qu’est-ce qui attire particulièrement votre attention dans la Russie d’aujourd’hui ?

 

Aymeric Chauprade : Je comprends pourquoi, pour les Français de ma génération ou même plus jeunes, la Russie est si attirante aujourd’hui, et pourquoi les gens apprennent le russe et déménagent ici pour y fonder leur propre affaire. Ce n’est pas une sorte de phénomène marginal, le flot de ces gens est de plus en plus significatif. Ils ne sont pas, bien sûr, des dizaines de milliers, mais ils sont nombreux. Et ce phénomène est nouveau. Avant, les jeunes gens partaient aux U.S.A., brûlaient du « rêve américain ». Et maintenant, vient le remplacer le « rêve russe ». Et il est lié, à la différence du rêve américain, non aux aspects matériels et financiers, mais ce qui est plus important, à la recherche de soi, en tant qu’homme, à un retour aux sources chrétiennes. Pour la plupart des Européens, qui se réfèrent à leur culture chrétienne, la Russie incarne de plus en plus une sorte de contre modèle de l’Europe, en ce qui concerne les valeurs familiales et spirituelles.

 

Thomas : C’est étonnant, vous avez, pour un étranger, une idée si flatteuse des Russes…

 

A.C. : Bien sûr, les Russes participent à la société de consommation comme tous les autres dans le monde entier. Mais tout de même, ici, en Russie, on rencontre chez les gens quelque chose de profond, (peut-être la « mystérieuse âme russe » ?), la conviction que l’argent n’est pas dans la vie la valeur suprême. Et cela est vraiment attirant pour les jeunes Français, ceux du moins qui se trouvent en quête de plus profond que l’élargissement de leurs possibilités matérielles. C’est paradoxal, mais c’est un fait. Je vois d’un côté, en Russie, quelque chose de très proche de la culture américaine : le besoin d’amasser, le désir de déballer son niveau de réussite. Mais d’un autre côté, il y a là quelque chose qu’on ne trouve pas dans la culture américaine : si l’on fait connaissance avec un Russe d’une façon moins superficielle, on s’aperçoit que mise à part la soif de réussite, il y a en lui le désir de se trouver lui-même : « Qui suis-je et pourquoi est-ce que je vis » ? Et à mon avis, cela est directement lié en premier lieu au retour des Russes vers la religion, en partie à l’Orthodoxie. C’est une renaissance religieuse, le besoin de restaurer le lien du présent avec toute l’histoire russe. Je n’idéalise pas, cela plane dans l’air et se sent clairement.  C’est seulement une réalité qu’on peut constater.

 

Thomas : Et que s’est-il donc passé pour que la Russie soit brusquement devenue attirante aux yeux des étrangers sur le plan des affaires ? Qu’est-ce qui a changé ?

 

A.C. : La façon de considérer la Russie a changé. Quand on disait « la Russie » dans les années 90, on comprenait la mafia. Et cela faisait peur de venir travailler ici et y investir de l’argent, on pouvait tout perdre d’un coup. Mais de telles associations n’existent plus. Les gens ont senti que sur le plan économique, ici, c’était maintenant sans danger. Il existe une différence colossale entre le tableau que tracent de la Russie les médias pro-américains et ce que connaissent de la Russie les analystes économiques. Les premiers considèrent tout ce qui est lié à la Russie d’une façon strictement critique.

 

Les seconds regardent les choses d’une façon lucide et réaliste et savent qu’en Russie, toutes les conditions sont rassemblées pour y conduire des affaires. J’ai personnellement entendu dire lors d’une conférence au directeur d’une compagnie française très importante : « Avant, nos entrepreneurs allaient en Chine, mais en réalité, personne n’a rien pu y gagner, à part les marques de luxe. Aujourd’hui, les compagnies françaises importantes gagnent beaucoup d’argent en Russie. Celui qui investit ici fait de bonnes affaires ».

 

La comparaison avec la Chine est vraiment intéressante. Il y eut en effet la période du boum chinois, les Européens ont pris pied dans le marché chinois, et au début, semblait-il, les bénéfices croissaient à des rythmes extraordinaires. Mais la différence entre les cultures est telle que les gens tombaient dans une véritable frustration et sortaient de ce marché : ils ne parvenaient pas à être « chez eux » dans cette civilisation, ils restaient de toute façon « étrangers » en Chine. Alors que les Russes et les Français, malgré toutes les différences sont en fin de compte très proches.

 

Thomas : En quoi la renaissance  économique du pays est-elle liée au retour des Russes vers la religion ?

 

A.C. : J’ai rencontré des Russes qui sont matérialistes à 100 %. Mais j’ai aussi rencontré personnellement ceux qui gagnent beaucoup d’argent mais se souviennent qu’il y a quelque chose de plus grand que l’argent, par exemple le salut de l’âme. Ces entrepreneurs qui sont loin d’être pauvres décident à un certain moment de dépenser une partie (parfois importante) de l’argent gagné pour financer des projets liés à l’Église, à l’éducation, à l’illumination, afin que les gens viennent à la foi en Dieu. C’est à mes yeux très important. À ce propos, cela existe aux U.S.A., dans les milieux protestants.  En France, justement, cela nous manque beaucoup, peu de gens qui, ayant gagné beaucoup d’argent voudraient l’affecter à la cause de la renaissance de la religion et des valeurs spirituelles. De mon point de vue, c’est la maladie gravissime de l’Europe Occidentale contemporaine.

 

Rattraper et dépasser l’Occident ?

 

Thomas : Quelles sont vos impressions personnelles de votre participation au club de discussion « Valdaï » en septembre 2013 ?

 

A.C. : Honnêtement, j’en garde des sentiments mitigés. D’un côté, j’ai été impressionné par le niveau du déroulement de l’évènement lui-même, la diversité des experts très intéressants et l’organisation intelligente des discussions. Mais ce qui me troublait d’un autre côté, c’est que la philosophie générale  de « Valdaï » est pénétrée de part en part par la vision du monde occidentale et libérale. J’avais l’impression que toute une classe de politiques russes, rassemblés à Valdaï, pas tous mais la majorité, essaie de dépasser l’Occident sur le plan des valeurs libérales. Et ils essaient de le faire de telle manière que la Russie reçoit ces valeurs comme la norme. D’après moi, c’est étrange. La Russie sur le plan spirituel et culturel a toujours suivi son propre chemin historique, et elle a aujourd’hui la possibilité de créer son propre modèle de civilisation sans copier l’Occident. Cela sonnera peut-être comme une provocation, mais quand à Valdaï j’ai entendu certains politiques, j’ai eu l’impression qu’ils se sentaient comme des représentants d’un pays du tiers-monde, et tentaient de toutes leurs forces de se montrer à leur avantage devant l’Occident « civilisé », comme pour dire : « Nous aussi, nous avons le progrès, regardez comme nous sommes libéraux. » Comme s’ils étaient des élèves, et que de l’Occident étaient venus des professeurs qui leur disaient avec condescendance : « Eh bien que voulez-vous, il vous faut encore, bien sûr, travailler à la lutte contre la corruption, à la défense des droits des minorités. Vous avez bien sûr fait des progrès particuliers, mais ce n’est quand même pas suffisant. » Et les savants russes, s’excusant, répondent : « Oui, oui, oui, nous allons essayer, nous allons grandir. » Je considère que la Russie mérite mieux.

 

Thomas : Mais il y vraiment en Russie de grands problèmes de corruption, tout le monde le sait…

 

A.C. : Je ne veux pas dire qu’en Russie tout soit rose. Je dis que dans les questions de civilisation et de culture, la Russie a ses réalités historiques, et il n’y a pas de nécessité à l’évaluer toujours sur le fond des pays occidentaux. Il va sans dire qu’en Russie, comme dans tout autre pays, il y a des problèmes. Il faut lutter impitoyablement contre la corruption, Mais soit-dit en passant, elle existe aussi de la corruption en Occident.

 

Thomas : Est-ce possible ?

 

A.C. : Le fait est que les critères pour déterminer le niveau de corruption de tel ou tel pays sont établis et installés par des agences occidentales et que d’après leurs estimations, en France, en Allemagne ou aux U.S.A. la corruption, cela va sans dire, ne peut exister. C’est pourquoi je ne prendrais pour preuves leurs estimations qu’en Russie tout va mal qu’avec prudence. J’affirme qu’en Europe, la corruption existe aussi. Peut-être n’est-elle pas aussi voyante, aussi criante, mais elle existe. Elle est seulement cachée, masquée, exprimée d’une autre manière que « Je te donne l’argent, tu me fais le contrat ». Dans le cas de l’Occident, il est plutôt question d’une corruption de l’esprit, du caractère des gens eux-mêmes. C’est une sorte de profonde corruption morale, exprimée en cela qu’on a complètement exclu Dieu de notre vie. Mais personne n’a parlé à Valdaï de cette corruption fondamentale du monde occidental.

 

Il faut défendre les chrétiens

 

Thomas : Pourquoi les persécutions de chrétiens au Moyen-Orient sont-elles devenues si cruelles ces derniers temps ?

 

A.C. : En fait, les chrétiens du Moyen-Orient se trouvent depuis longtemps dans une situation de continuelle pression. La Turquie en est l’éclatant exemple. Au début du XXe siècle, huit pour cent de la population turque était chrétienne, et il est aujourd’hui question de quelques centièmes d’un pour cent. Il n’y a pourtant pas, en Turquie, de persécution physique des chrétiens. En revanche, on interdit l’enregistrement de nouvelles paroisses, et les gens sont obligés de quitter le pays d’eux-mêmes. En un mot, on essaie doucement et en silence d’étouffer le christianisme. Et c’est la situation générale des pays du Moyen-Orient.

 

Mais il y a une autre tendance, une relation ouvertement grossière et cruelle aux chrétiens. Cette tendance s’est activée particulièrement après la guerre d’Irak. Il faut malheureusement reconnaître que les guerres des U.S.A. dans cette région ont facilité à leur manière l’émergence du fondamentalisme islamique, en particulier sunnite. Que ce soit il y a quelques années en Irak ou aujourd’hui en Syrie, ce sont les mêmes extrémistes sunnites. Ils détruisent les églises, scient les croix, profanent les icônes et, bien sûr, éliminent physiquement les chrétiens, parmi lesquels apparaissent à nouveau de véritables martyrs. C’est pourquoi si le régime du président de la Syrie Bachar el Assad s’effondre, il est tout à fait évident que les persécutions ne feront que s’intensifier. En un mot, ces jeux politiques, cette union entre les U.S.A., la Grande-Bretagne et, à mon grand regret, la France, font les affaires des islamistes fondamentalistes dans leur lutte contre les chrétiens. Je souligne que je ne parle pas de l’islam dans son ensemble en tant que religion mais bien des fondamentalistes, c’est-à-dire d’un groupe particulier de gens aux dispositions guerrières à l’intérieur du monde musulman.

 

 

La Russie, dans la situation de la persécution des chrétiens au Moyen-Orient peut jouer un rôle vraiment historique, tout à fait dans le courant de toute l’histoire russe. Car au cours de nombreux siècles, jusqu’à la révolution de 1917, la Russie a été le défenseur assidu des chrétiens d’Orient. Et il est indispensable aujourd’hui, à mon avis, qu’elle redevienne ce défenseur. Il faut que la Russie qui se retrouve grâce au renouveau de l’Orthodoxie, envoie au monde le signal : « Nous sommes un État chrétien et les défenseurs des chrétiens. En dehors des chrétiens d’Orient, nous soutiendrons tous les chrétiens qui s’opposent à l’imposition des principes d’individualisme, au Diktat des minorités, à la légalisation du mariage homosexuel et ainsi de suite. Nous les soutiendrons pour défendre les valeurs traditionnelles ». De la sorte, ce sont précisément les valeurs traditionnelles qui deviendront la principale ressource russe, son principal outil, et feront de la Russie un acteur important de la politique mondiale. J’y crois et m’efforce de promouvoir cette idée de toutes les manières. Et je sais qu’en Russie, beaucoup considèrent que c’est justement dans cette direction qu’il faut avancer : s’engager dans l’éducation, expliquer le christianisme aux gens, pour devenir un État qu’on puisse appeler chrétien de plein droit.

 

Thomas : Le thème de la persécution des chrétiens est-il évoqué par les médias occidentaux ?

 

A.C. : Ça dépend. Dans l’ensemble, on peut dire que la tendance est de le minimiser. Mais la situation s’arrange petit à petit, car Internet apparaît comme une puissante source d’information alternative. Les ressources d’Internet rappellent aux principaux média traditionnels, par exemple, à des journaux français tels que Le Figaro ou Libération, l’état réel des affaires. Et quand de pareils médias ne disent rien d’un événement comme l’exécution de chrétiens à Maaloula, ces choses surgissent sur Internet, et les médias ne peuvent faire autrement que de les mettre en lumière. C’est pourquoi la situation évolue. Et de plus en plus de chrétiens en France se rendent compte que les chrétiens au Moyen Orient, par exemple les coptes en Égypte, sont réellement en danger.

 

La France se réveille

 

Thomas : En avril 2013, la loi sur le mariage homosexuel est entrée en vigueur en France, ce qui a suscité de massives actions de protestations de la part des défenseurs des valeurs traditionnelles. Qu’en pensez-vous ?

 

A.C. : Il s’est produit en France un événement d’une importance colossale. Bien sûr, auparavant, s’est produit un regrettable événement : la loi sur la légalisation du mariage homosexuel a été adoptée. La plupart des ministres, les socialistes et les « Verts », ont soutenu et soutiennent le mouvement en ce sens. Chaque jour que Dieu fait, pas à pas, ils s’efforcent avec persévérance de détruire l’aspect chrétien de la France contemporaine. Un exemple tout récent : ils ont promu la proposition de supprimer du calendrier français les fêtes chrétiennes pour les remplacer par des fêtes juives et musulmanes. Mais la société réagit quand même. Trois millions de personnes étaient dans la rue pour protester contre la légalisation du mariage homosexuel. Des gens d’âges divers, de bonnes familles, étaient prêts à manifester avec le risque d’être arrêtés, pour dire non à cette loi et défendre la seule conception normale de la famille. Sur ce point, il s’est produit quelque chose de très important. Bien qu’aujourd’hui la vague de protestation ait reflué, elle a enclenché tout un processus, ouvert la voie à tout un mouvement de résistance, comme si un ressort sur la porte s’était tendu sous la pression, la serrure avait été arrachée, et la porte s’était ouverte toute grande. Les gens savent maintenant qu’ils ont une plateforme où ils peuvent se rassembler pour défendre les valeurs familiales traditionnelles. En outre, il y a aussi d’autres directions de « combat » : la question de l’immigration, la question de l’islamisation etc. Je suis persuadé que nous assistons à un processus très important : le réveil des Français. Bien que pour parler d’une façon imagée, les forces du mal soient de toute façon très puissantes.

 

Thomas : Beaucoup sont persuadés que le mouvement pour la défense des valeurs traditionnelles doit prendre une dimension internationale. Que pensez-vous, sur ce point, d’une collaboration entre le France et la Russie ?

 

A.C. : C’est justement là-dessus que je m’efforce de travailler. C’est le thème qui m’occupe en permanence. Je suis persuadé que personne ne gagnera dans la solitude. C’est comme la lutte avec le nazisme; la menace était si forte qu’on ne pouvait la contrer qu’en s’unissant, et ce n’est pas par hasard que la Russie a trouvé un allié dans la Résistance française. Nous avons aujourd’hui devant nous une nouvelle forme de totalitarisme. Il n’est extérieurement pas aussi évident, il est masqué, il ne porte pas de casque militaire, mais c’est bien un totalitarisme, quoique rampant, on impose aux gens les valeurs libérales, on met en doute les concepts traditionnels de dignité de la personne, on pousse l’homme à se révolter contre Dieu, et en ce sens, le nouveau totalitarisme revêt des traits vraiment sataniques. Il faut opposer à ce totalitarisme une puissante résistance. Et si la Russie se déclare un État chrétien, et le défenseur des valeurs chrétiennes, cela deviendra justement une réponse, et la création d’un contre-modèle à ce que l’on impose aux gens en Occident. On le leur impose précisément. Je ne considère pas, par exemple, que la légalisation du mariage homosexuel réponde à une position sincèrement motivée des gens ordinaires dans les pays d’Europe. Non, c’est celle de la minorité au pouvoir qui cherche à imposer ses critères au peuple : ils ont fabriqué la théorie du genre qui « fonde » la légalisation des mariages homosexuels. Je suis sûr que les Européens de base eux-mêmes, comme d’ailleurs les Américains, n’en veulent pas. Et si on leur propose un contre modèle, ils l’adopteront. La Russie, en collaboration avec d’autres pays et organisations sociales qui soutiennent la famille traditionnelle peut le réaliser.

 

Thomas : Mais pourtant, comme les informations nous l’ont appris, bien que trois millions de Français soient sortis dans la rue, pas moins de 60 % de la population française, c’est-à-dire la majorité, soutenaient cette légalisation du mariage homosexuel. Et vous nous dites que ce n’est pas l’avis du peuple…

 

A.C. : Il faut parler ici de la logique de l’histoire de l’humanité en tant que telle. La majorité des gens, dans n’importe quel pays à n’importe quelle époque est malheureusement passive. C’est seulement un fait historique. Cela concerne n’importe quel peuple. Cela signifie que si un gouvernant inculque le mal, le peuple le reçoit et suit le mal. Si le gouvernant fait le bien, le peuple l’accepte et suit le bien. Cela ne signifie pas que la société est stupide, pas du tout. Simplement la plupart des gens vit au quotidien, s’occupe de ses affaires au jour le jour. Ce n’est pas mal, ce sont de bonnes gens qui éveillent en moi personnellement une vive sympathie. Mais on ne peut pas les appeler des citoyens conscients, on ne peut pas dire qu’ils réfléchissent à ce qui se passe dans leur État. C’est toujours une minorité qui est consciente, dans la société, et qui se bat et s’oppose. Elle va se battre, par exemple, pour la liberté de l’homme, ce qui, en fin de compte, veut dire la lutte pour le triomphe d’une vérité chrétienne. Ce schéma est valable pour toutes les sociétés. Rappelez-vous la Résistance française, dont les participants étaient bien sûr en minorité. Et même en U.R.S.S., il y eut de la même manière le mouvement des dissidents qui résistaient au régime soviétique, et pourtant les Soviétiques en majorité n’étaient pas des partisans du régime déterminés, la majorité simplement se taisait, nageait dans le sens du courant. Je le répète, telle est la philosophie de l’histoire.  C’est la minorité active qui fait l’histoire, et la question est seulement de savoir quel choix elle va faire, dans le sens du bien ou dans celui du mal.

 

Thomas : N’êtes-vous pas seul de cet avis parmi vos collègues en France ? Le fait est que beaucoup généralisent, affirmant : « On considère en Occident… » Comme si l’Occident était quelque chose d’homogène, où l’avis des gens est unifié, et où les experts isolés, par exemple vous-même, vous êtes plutôt l’exception à la règle, le vecteur d’un avis marginal sur les choses. En quoi cela correspond-il à la réalité ?

 

A.C. : Je trouve important de le dire en Russie, dans une interview pour une publication russe. La réalité objective est la suivante : la majorité des gens en Occident ne réfléchit pas aux questions dont nous parlons maintenant. Et la minorité qui vit et travaille tous les jours avec ces questions se partage en deux groupes : le premier, ce sont ceux qui considèrent l’individualisme général comme la norme, et le deuxième, ce sont ceux qui  trouvent indispensable de revenir aux racines chrétiennes. C’est là, je le répète, le tableau objectif. Ce sont ces deux minorités qui créent les partis et les organisations politiques. Ensuite, c’est la question du libre choix des citoyens aux élections. Pour parler de la France, il existe aujourd’hui un parti qui, d’après les analystes, dans un proche avenir deviendra le premier de France par sa popularité, c’est le Front national. Un parti qui se dresse contre le système existant. Ses partisans ne sont pas une minorité, c’est une partie notable des Français qui affirment l’importance des valeurs chrétiennes, la dignité de la personne, le danger de l’islamisation de la France, le refus de participer aux guerres des U.S.A., etc. Il ne convient donc pas de me considérer comme un bien grand original. Non, une grande quantité de gens, en France, raisonnent selon la même logique. Parmi les économistes, parmi les militaires. Si vous pratiquez un sondage chez les officiers, vous verrez que 30 ou 40 % d’entre eux sont disposés envers la Russie de façon très, très positive; beaucoup plus positive qu’envers les U.S.A. J’ai enseigné dix ans à des officiers, j’avais presque trois mille étudiants, je sais de quoi ils parlent et ce qu’ils pensent. Sans conteste, il est parmi eux des « atlantistes » des gens qui sont à cent pour cent pour l’O.T.A.N., qui raisonnent jusqu’à maintenant en termes de guerre froide; soi-disant, « les Russes sont d’affreux communistes ». Mais il y a une part significative d’officiers, particulièrement chez les jeunes, qui raisonnent d’une façon radicalement différente.

 

Thomas : Vous avez évoqué le parti « le Front national ».  En Russie, la tendance est de craindre comme le feu les mots « national », « nationalité » etc. On confond le mot « nationalisme » avec le mot « nazisme ». Et tout ce qui est « national » entraîne une association directe avec fascisme, agression, génocide, camps de concentration, extermination physique des immigrés… Existe-t-il, d’après vous, un nationalisme pacifique et à quoi ressemble-t-il en pratique ?

 

A.C. : Il existe. L’exemple en est justement le Front national qui s’est déclaré dès le début comme un parti patriotique. Ce n’est pas un parti de nationalistes, si l’on comprend le nationalisme comme un synonyme d’agression. Le parti patriotique s’efforce de conserver le visage historique de la France, défend sa civilisation et sa culture contre les changements du système qui se produisent sous l’influence des étrangers. Il n’a jamais été question de chasser immédiatement du pays tous les immigrés. La question, c’est que le multiculturalisme nuit à la France dans un sens purement démographique, les gens qui sont arrivés des pays arabes et leurs enfants occupent de plus en plus la France et de ce fait, provoquent la guerre civile. Ce que nous voulons, c’est que les étrangers s’assimilent, c’est-à-dire deviennent proprement des Français. Cela peut naturellement être lié à l’adoption du christianisme. Mais pas forcément : celui qui trouve important pour lui de rester dans l’islam doit simplement connaître et accepter la culture française, ne pas obliger sa femme à porter le voile intégral, etc. C’est là le programme du Front national. On n’y trouve pas un mot sur le recours à la force contre les immigrés. En outre, parmi les députés élus à l’assemblée nationale il y a des Arabes, ce que peu de gens savent. Nous pensons simplement qu’une immigration trop abondante nuit à la France. Comme elle nuit à ces mêmes étrangers qui viennent en France

 

Je suis moi-même partisan du dialogue entre les civilisations. J’ai beaucoup travaillé et enseigné, par exemple au Maroc. J’ai pris parole à l’O.N.U. comme expert  du Maroc. J’ai des dizaines d’amis et de collègues parmi les musulmans, je crois en une politique arabe de la France. Les pays arabes sont nos voisins par la Méditerranée. Nous avons d’excellentes relations avec eux. La seule chose que nous devions faire, c’est contrôler les flux migratoires. Car aujourd’hui, cela ne peut pas continuer ainsi. Autrement la société française va tout simplement exploser, parce que la prospérité du gouvernement va s’écrouler, beaucoup de jeunes étrangers viennent en France dans l’espoir de vivre des allocations.

 

Être ou avoir

 

Thomas : Vous parlez beaucoup de religion. Dans quelle mesure la religion, en tant que domaine fondamentalement non matériel, peut-être un facteur géopolitique ?

 

A.C. : La géopolitique comprend au minimum trois choses fondamentales : La première c’est la géographie physique, c’est-à-dire où et comment le pays se situe, qui sont ses voisins, son ouverture sur la mer, etc. La deuxième, c’est la géographie des ressources, le pétrole, le gaz naturel, etc. Et la troisième, c’est la géographie identitaire, comment les gens se voient, quelle est leur identité. C’est relié directement aux conflits ethniques et religieux, car l’identité religieuse est l’une des plus importantes pour l’homme. En ce sens, on peut réduire de façon imagée la problématique de la géopolitique à deux verbes principaux, qui, dans la langue française sont également des auxiliaires qui servent à constituer les temps, le verbe avoir et le verbe être. À travers le verbe être, l’homme définit justement son identité, c’est-à-dire qu’il répond à la question : « que suis-je en cette vie ? » Cela concerne les questions de religion : « je suis chrétien », « je suis musulman », « je suis juif ».

 

 

L’identité religieuse a une énorme signification, car elle définit le système de valeurs de cette personne concrète, la façon dont il va percevoir le monde alentour. Et au moment où il se définit et commence à voir le monde précisément comme cela et pas autrement, cela devient un facteur de géopolitique. Car l’homme ne vit pas seul au monde mais en relation avec les autres. En un mot, la religion du point de vue géopolitique n’est pas pour les gens une question de connaissance théologique, ni de vie spirituelle intérieure, mais de recherche de sa propre identité, la tentative de décider « qui je suis » et d’agir en conséquence.

 

Beaucoup considèrent qu’en géopolitique domine tout ce qui est lié au verbe « avoir » : qui a quelles armes, les ressources naturelles, les technologies etc. C’est bien sûr important, mais ce n’est pas le plus important. Car on ne va pas aller mourir pour du pétrole. En ce sens, c’est le verbe « être » qui occupe la première place : les gens sont prêts à faire la guerre s’ils défendent leur identité, leur vision du monde, ce qui leur est cher.

 

 

L’identité religieuse, je le répète, est pour l’homme en un sens la principale, parce que la façon dont voit ses relations avec Dieu, avec l’Absolu, avec les valeurs supérieures, détermine celle dont il va construire ses relations avec tout le reste du monde terrestre.

 

Thomas : Et quel rôle jouent la religion et la foi dans votre vie ?

 

A.C. : Je m’intéresse beaucoup à tout ce qui est lié au catholicisme dans le monde contemporain. Mais l’Orthodoxie me fascine, je sens en elle quelque chose d’originel, un christianisme pur qui n’a pas été obscurci, le reflet de la foi des premiers chrétiens. En Occident, nous le savons, ces notions se sont en partie perdues.

 

Je suis marié, j’ai quatre enfants. Et la religion est pour moi une chose centrale et vitale. Ce qui ne change rien au fait que je suis pécheur, que la force et la profondeur de ma foi sont moindres que je le juge nécessaire. La religion, c’est ce qui permet de rendre plus digne notre façon de vivre et de s’opposer aux séductions du monde, comme par exemple, l’argent et les belles filles, qui sont d’ailleurs très nombreuses en Russie. On ne tient que grâce à la foi, la foi en Celui qui est plus grand que tout cela.

 

• Propos recueillis par Thomas et mis en ligne sur L’Esprit européen, le 15 décembre 2013.

 


 

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dimanche, 12 janvier 2014

Christophe Poitou : « Le totalitarisme économique, manipulations mondiales et répression financière »

Christophe Poitou : « Le totalitarisme économique, manipulations mondiales et répression financière »

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Loligarchie est mauvaise perdante. Elle ne laissera pas ce qu’on appel le système, qui est un « tout subtil et maléfique », se faire balayer par une crise économique, ce qui pourtant serait logique. Elle s’est laissé surprendre en 2008 par Lehman, mais ne se fera probablement pas avoir ainsi deux fois, elle prendra toutes les mesures nécessaires. À commencer par le refinancement ad libitum des agents financiers en difficulté présentant un risque systémique.

« Dernière combine en date (avril 2013) évoquée pour refinancer les agents en difficulté sans toucher à la dette publique centrale : la mise à contribution forcée de l’assurance vie des particuliers pour soutenir les entreprises en difficulté. On parle là d’un détournement de près de 100 milliards »

Il s’agit d’éviter une crise trop monstrueuse qui se transformerait en crise politique majeure avec éventuellement l’arrivée au pouvoir de partis de sensibilité nationale ou l’avènement de telle ou telle situation qui la dérangerait trop. En fait, si on prend les choses avec du recul on peut dire que d’une certaine manière l’oligarchie se refinance elle-même dès qu’elle est en difficulté. Dans les faits, ce à quoi nous assistons depuis quelques temps.

Elle ne peut donc en quelques sorte jamais être en difficulté ni être en passe être renversée ?

Un krach obligataire dantesque aurait déjà du éclater en 2009/2010. Cela n’a pas été le cas. Certes, Sarkozy, Papandréou, Berlusconi ou Monti ont sauté, mais ça ne change pas grand-chose. Le système lui-même, lui, est toujours là. L’oligarchie a pris les mesures nécessaires sans la moindre légitimité ou consultation démocratique pour se maintenir et empêcher toute crise grave.

Quelles sont ces mesures ?

Ce sont ces mesures – en fait, ces sales méthodes – que j’examine une par une dans mon livre : la création monétaire dans ces diverses variantes, l’allongement de la maturité des titres, le partage forcé de la valeur ajoutée, l’extorsion fiscale, l’exportation de l’inflation, les manipulations des taux de change, ainsi que la manipulation à mon avis la plus satanique de toutes: les taux d’intérêt inversés ou négatifs.

J’examine aussi les diverses formes de répression financière dont le cas de Chypre fournit actuellement un exemple incroyable. La méga-gaffe récente du commissaire européen Jeroen Dijsselbloem sur le fait que la répression financière à Chypre pourrait être éventuellement transposé chez nous fait froid dans le dos !

Le masque tombe…

À vrai dire, c’est déjà en partie le cas. On s’apprête en France à puiser de force dans l’épargne de M. et Mme Dupont pour financer les HLM faute de pouvoir faire de la création monétaire et de la dette comme avant !

Une crise majeure n’est donc pas envisageable ?

Si, peut-être qu’en dépit de toutes ces mesures oligarchiques, une crise éclatera quand même… Ça ne me dérangerait pas d’ailleurs. Je dirais même que j’espère me tromper ! Vivement un monstrueux ouragan obligataire qui fasse valdinguer les puissants et emporte tout sur son passage de son souffle puissant et vengeur. Mais je n’y crois pas trop, hélas…

Le rôle des apatrides cosmopolites est d’ailleurs significatif dans cette stabilisation totalitaire que nous voyons actuellement : ils sont massivement pour la création monétaire en occident car elle préserve le système tel qu’il est et dans lequel ils ont de bonnes places…

Ils ne vont donc pas se tirer une balle dans le pied et se limoger eux-mêmes ?

Évidemment… En revanche, lorsque qu’ils n’ont pas de places assez bonnes à leur goût ou n’arrivent pas à se saisir d’actif réels, c’est l’inverse, ils essaient de renverser le système et non de le maintenir.

Logique ! Ils utilisent alors la déflation et non la création monétaire, à savoir la fuite des capitaux ou alors des phénomènes déstabilisants : sortie de capitaux, par exemple… Ils font régulièrement le coup en Russie… C’était le cas avant 1917 et c’est le cas actuellement sous Poutine… Chez nous, c’est le contraire, ils essaient de stabiliser de force le système.

Qu’en concluez-vous ?

Certes, techniquement nous pouvons vivre sur l’héritage de nos ancêtres encore un peu. L’économie peut continuer quelques temps toute seule comme un poulet sans tête, sans son noyau spirituel, car elle est très mécanisée et rodée dans ces process. Hop ! vous appuyez sur le bouton d’une machine à laver et ça marche tout seul pendant une heure… Mais l’économie ne survivra pas éternellement à l’affaiblissement de sa cause, c’est-à-dire à l’affaiblissement de la population française de souche qui l’a créée.

Bonne question, ça : qui a créé l’économie française ?

Les banquiers qui sont souvent des gros mégalomanes vous diront parfois qu’ils ont à eux tous seuls financé et créé la sidérurgie ou les chemins de fer. La vérité, c’est plutôt que c’est le dur labeur des paysans au cours des siècles qui a fondamentalement accru les rendements et dégagé une main-d’œuvre qui a permis l’essor de l’industrie.

Voyez aussi ce qui se passe en Afrique du Sud. En dépit des taux de croissance nominaux flatteurs qui ne veulent pas dire grand-chose, le pays entre dans une phase de délabrement grave car les Sud-Africains d’origine européenne qui ont créé cette économie s’en vont. Un article est paru d’ailleurs sur ce thème dans le pourtant très politiquement correct The Economist : South Africa cry the beloved country.

Le totalitarisme économique de Christophe Poitou, éditions de L’Æncre, collection « À nouveau siècle, nouveaux enjeux », dirigée par Philippe Randa, 250 pages, 25 euros.

Francephi

samedi, 11 janvier 2014

Douguine : «Les Etats-Unis sont derrière les attentats de Volgograd»

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Alexandre Douguine : «Les Etats-Unis sont derrière les attentats de Volgograd»

Auteur : Algérie Patriotique
Ex: http://www.zejournal.mobi

Algeriepatriotique : Quelle analyse faites-vous de la dégradation de la situation sécuritaire en Russie après les deux actes terroristes perpétrés à Volgograd ?

Alexandre Douguine : Je ne crois pas qu'il s’agisse de dégradation de la situation sécuritaire en Russie. Certains actes terroristes sont presque incontrôlables quand il est question des régions ayant des populations plus ou moins homogènes qui soutiennent, dans une certaine mesure, des groupes terroristes comme c'est le cas au Caucase du Nord, en Russie. Le fait que l'activité des terroristes s’accentue ces derniers temps montre que les forces qui veulent déstabiliser la Russie se focalisent sur les Jeux olympiques de Sotchi. Les Etats-Unis et les pays de l'Otan veulent montrer Poutine, qui s’oppose radicalement au libéralisme et à l’hégémonie américaine, comme un «dictateur» en comparant Sotchi à Munich à l'époque d’Hitler. C'est la guerre médiatique. Dans cette situation, les forces qui soutiennent la politique hégémonique américaine, avant tout les réseaux sub-impérialistes locaux – comme les wahhabites soutenus par l’Arabie Saoudite –, cherchent à confirmer cette image en faisant de la Russie un pays où il n’y a pas le minimum de sécurité et qui est prêt à installer la dictature en réponse aux actes terroristes qui visent essentiellement les Jeux olympiques de Sotchi chers à Poutine. On sait que le chef des renseignements saoudiens, Bandar Bin Sultan, a proposé à Poutine de garantir la sécurité en Russie en échange de l'arrêt de l'appui russe à Damas. Poutine a piqué une colère et refusé cela d'une manière explicite, en accusant les Saoudiens d'être des terroristes, ce qu'ils sont en vérité, pire que ceux qui servent les intérêts des Etats-Unis. Donc, les groupes wahhabites qui activent en Russie, téléguidés par les Saoudiens et à travers eux par leurs maîtres de Washington, ont accompli la menace de Bandar Bin Sultan. En fin de compte, ce sont les Etats-Unis qui attaquent la Russie de Poutine, afin de le châtier pour sa politique indépendante et insoumise à la dictature hégémonique américaine et libérale.

Qui en est à l'origine ?
Je crois que je l'ai expliqué dans ma réponse à la question précédente. Quant aux organisateurs concrets de cet acte terroriste, je n'en sais pas plus que les autres. Il semble que ce sont des réseaux wahhabites du Caucase du Nord et les femmes de terroristes liquidés par les services spéciaux russes. Je crois qu’elles sont ignoblement utilisées par les chefs cyniques, consciemment ou inconsciemment, qui travaillent pour les intérêts des Américains.

D'aucuns estiment que ces attentats terroristes sont la conséquence du soutien indéfectible de la Russie à la Syrie et à l'Ukraine. Etes-vous du même avis ?
C'est absolument correct. Il s'agit du «châtiment américain» accompli par les complices des Américains par le biais des Saoudiens.

Quelles vont être les mesures que prendra le Kremlin pour parer à une escalade de la violence dans le pays ?
Je crois que la montée de la violence durant la période des Jeux olympiques de Sotchi est inévitable. J'espère qu’à Sotchi on réussira quand même à contrôler la situation, mais c'est théoriquement impossible de le faire dans les régions qui l'entourent et qui sont organiquement liées à certains groupes de population du Caucase du Nord où se trouvent les bases principales des terroristes. Cette fois, ce n'est pas la Tchétchénie qui est au centre du dispositif du terrorisme, mais plutôt le Daguestan et la République de Kabardino-Balkarie. On essayera de faire pour le mieux, mais il ne faut pas oublier qu’on a affaire à une grande puissance mondiale, celle des Etats-Unis, qui nous attaque. C'est un défi sérieux qui demande une réponse symétrique. Donc, on verra...

vendredi, 10 janvier 2014

Entrevista a José Luís Ontiveros, escritor mexicano

Por Juan Carlos Vergara y Gonzalo Geraldo Peláez

Bestia inclasificable, escritor heterodoxo y sumamente molesto, a contracorriente de las bagatelas y mercachifles a la orden del dólar en nuestra literatura más reciente. Lobo estepario, vive solitario en una isla de Aztlán donde espera pacientemente los signos de lo Alto que le anuncien su último viaje, el viaje a la Ciudad de Los Césares. Mítica ciudad donde se encontrará con los más fieles: el maestro del estilo, Ernesto Giménez Caballero; el profeta de la Tercera Roma, Fédor Dostoievski; el escritor anarco-fascista mexicano Rubén Sálazar Mallén; el emboscado Ernst Jünger; el abominable Louis-Ferdinad Céline; el mártir y trovador Ezra Pound y el último guerrero de Oriente, Yukio Mishima.

1. ¿Cuál es el papel de México en el contexto del desarrollo de un “nacionalismo continental” y quiénes son sus representantes?

Creo que la idea de una Federación de Naciones Hispánicas está contenida en el origen mismo del ser imperial de México con el emperador Iturbide. Don Agustín de Iturbide –que es el realizador y no sólo el consumador de la Independencia, como a su vez el creador de la Bandera Nacional Trigarante, la de las tres garantías: “religión, unión e independencia”– se pone de acuerdo con el Libertador Simón Bolívar para convocar, en lo que hoy es el territorio de Panamá segregado por los gringos de Colombia, a las naciones iberoamericanas para crear una Federación de Pueblos Hispánicos en una Junta Anfictiónica. Puede decirse entonces que desde su nacimiento a la independencia política bajo la forma imperial, México está marcado por un principio geopolítico y meta-político a la vez, en que lo importante es la vertebración de los pueblos iberoamericanos en una Gran Nación para poder enfrentar tanto a los anglosajones como a las potencias europeas.

Durante el siglo XIX, México sufrirá la guerra de agresión estadounidense, que ya estaba en el destino manifiesto de aquel país y que no es más que la transposición secular del mesianismo del pueblo elegido: la “judeocracia” como raíz de los Estados Unidos –por eso decía von Salomon, aquel nacional-bolchevique tan extraordinario y de una altura escritural semejante a la de Jünger, en su libro El Cuestionario, que le parecía obsceno que la gente tuviera que jurar bajo la Biblia, como si ella no contuviera muchos pasajes genocidas y otros de aberraciones morales-. Pero volviendo al tema de México, en el siglo XIX, cuando los yanquis cumplen con esa parte de su destino manifiesto que es la conquista de la Tierra Prometida y se apoderan de más de la mitad del territorio nacional, de la parte más rica de México, ello provoca que los conservadores, con sus limitaciones reaccionarias y güelfas, decidan en un momento determinado buscar en un país europeo un contrapeso a la expansión yanqui; es el caso de Francia, con Napoleón III que aprovechará la Guerra de Secesión en EE.UU. para intentar crear un Imperio Latino (de allí el término Latinoamérica acuñado por los franceses). Cuál es la idea entonces, ver en la figura de un príncipe europeo el restablecimiento del Imperio Mexicano, y eso se hace con el emperador Maximiliano de Habsburgo, quien tiene un fin trágico porque nunca los franceses quisieron en realidad un ejército imperial mexicano, independiente y poderoso. Los generales conservadores con mayor perspectiva, como era Miramón, que defendió el alcázar del castillo de Chapultepec con los cadetes del Colegio Militar en el último bastión de resistencia a la invasión gringa, y que es mandado al exterior, lo mismo que el general Mejías, son parte de aquel fin trágico consumado en manos del traidor Benito Juárez, quien firma el tratado McLane-Ocampo: un oprobio, algo indefendible, que los mismos liberales condenan en su obra magna México a través de los siglos. Es la venta de Baja California, el otorgamiento libre a las campañas punitivas yanquis en el norte y el paso a perpetuidad por el istmo de Tehuantepec. Prácticamente una entrega completa de México a los EE. UU. encabezada por el traidor Benito Juárez, quien con el apoyo yanqui arrastra a la derrota del ejército imperial y fusila al emperador Maximiliano, al general Miramón y al general Mejías en el Cerro de las Campanas.

De ahí se pasa a otra etapa del país, pero siempre está latente en el mexicano el propósito de una revancha contra los gringos, lo que ocurrirá en la Primera Guerra Mundial cuando la Alemania del Káiser manda un telegrama a Venustiano Carranza, primer jefe del Ejército Constitucionalista, y quien honra la memoria de Iturbide, primer jefe de las tropas insurgentes. Este telegrama es el telegrama Zimmermann, donde Alemania ofrece a México que si se une a la guerra en un nuevo frente contra los EE. UU. le serán devueltos en recompensa los territorios perdidos en 1847. México está desangrado por la revolución, no tiene capacidad operativa, pero de cualquier forma esto marca también otro hito muy claro de su trayectoria política más pura.

Pero ya llegando al terreno de las ideas, será, en principio, José Vasconcelos quien perfila la noción metafísica del águila y el cóndor en los motivos de la Universidad Nacional, de la que será rector y cuyo lema es “Por mi raza hablará el Espíritu”. Precisamente el lugar del águila bicéfala del imperio español, el cóndor y el águila, por una parte, y los motivos del escudo, por otra, como símbolos  de la Unidad Continental de los Pueblos de América. Esto se encuentra también en la invitación que Vasconcelos hace a Gabriela Mistral a México, en donde desarrolla una gran labor que provoca la envidia de los pigmeos, fomentada por los mediocres que nunca faltan en ningún país nuestro y que son una mayoría. Entonces, Mistral regresa a Chile, pero la “idea iberoamericana” que forma parte de la Revolución Mexicana alienta al APRA peruano (Víctor Haya de la Torre) como al joven Sandino y, luego, al Peronismo.

A propósito del Peronismo, la Revolución Mexicana tiene una confluencia natural con éste. Hay una visita de una comisión mexicana en la etapa peronista recibida por Eva Duarte de Perón en la que figuran dos diputados que serán futuros presidentes mexicanos, Adolfo López Mateos y Gustavo Díaz Ordaz. Se puede decir que la misión vinculatoria de México en Latinoamérica, en la América Románica, en Iberoamérica, en Indo-América o como se le quiera designar, se mantiene hasta que se firma el Tratado de Libre Comercio en la época de la entropía de la Revolución Mexicana bajo el dominio tecnocrático de Carlos Salinas de Gortari. Se establece entonces el Tratado que da lugar al alejamiento de México de su “misión iberoamericana”.

Finalmente, hay que considerar que la Revolución Cubana es una forma en que México proyecta su Independencia. En México tuvo lugar el primer viaje que hacen los revolucionarios cubanos a bordo del Granma y que da inicio a la Revolución Cubana, donde juega un papel muy importante don Fernando Gutiérrez Barrios, de quien fui asesor y allegado y que fungía como agente especial de la Dirección Federal de Seguridad de los órganos de inteligencia mexicanos, bajo la dirección del presidente López Mateos. En esa ocasión dimos un golpe muy sensible a los gringos: cuando en la OEA todos los países latinoamericanos se inclinan ante el poder yanqui y piden que sea expulsada Cuba, el único país que defiende a Cuba es México.

Pero de toda esa trayectoria histórica y doctrinaria, se pasa a un estado de neocolonialismo cada vez más grave y abyecto.

2. ¿Cuáles serían las lecciones históricas de la Revolución Mexicana en cuanto origen de una tradición de pensamiento continental y revolucionario?

La Revolución Mexicana como todo nacionalismo tiene su raíz en la Revolución Francesa; por eso no debemos mitificar al nacionalismo en la medida que es una creación de la Ilustración. La fragmentación entre naciones también nos ha conducido a guerras fratricidas, especialmente en Sudamérica, como esa infame alianza entre Argentina, Brasil y Uruguay contra Paraguay, una verdadera abyección. También Chile, en ese sentido, tiene que revisar su papel respecto a Perú y Bolivia. Debemos estar conscientes por lo mismo que si no superamos el nacionalismo como cantonalidad de “pensamiento aldeano” y no pensamos en una “unidad superior política” como es el Imperio Iberoamericano, los latinoamericanos –donde quepan los brasileños pero no como poder suprematista sino en una relación de equidad– estaremos perdidos.

La Revolución Mexicana expresa el “ethos” más profundo de la nación mexicana, genera un movimiento literario, la “novela de la Revolución”, un movimiento pictórico como  el muralismo, igualmente una importante corriente musical donde está el Huapango de Moncayo por ejemplo, con lo cual el mexicano vuelve a sentirse orgulloso de su ser mexicano. Esto es muy importante: tenemos que tener orgullo cada uno de nuestra particularidad  pero sin que ello nos lleve a confrontarnos o a decir que nuestro particularismo es mejor que el otro.

En México, actualmente la Revolución Mexicana ha sido desmantelada por el partido que se dice heredero de la misma, el P.R.I. que también tiene etapas diversas desde su origen, con el gran geoestratega, el General Calles, creador del Partido Nacional Revolucionario, el partido de la Revolución Mexicana y fundamento del P.R.I., que ha retornado al poder tras el fracaso estruendoso de la derechona pro-yanqui y pro-sionista. Sin embargo, en estos momentos México atraviesa una crisis interna provocada por el desbordamiento de la violencia de los carteles del narcotráfico. Esto habría que revisarlo en otro punto: la cuestión de las drogas, su uso tradicional y mistérico  como iniciación. También, como dijo el Che que había que llenar Latinoamérica de Vietnams, hay que llenar a los gringos de droga porque no pueden vivir sin ella, eso es evidente y es una verdad tan contundente como aromática es la marihuana.

3. ¿Qué examen realizas actualmente respecto al rechazo y el desprecio de la Cultura, y sus efectos de creciente despolitización?

Todo esto se explica en referencia a los ciclos cósmicos, por lo que no podemos para nada olvidar que estamos en el cierre de un ciclo, como dice Julius Evola, y como también explica don Miguel Serrano mencionando el Kaliyuga. Uno de los rasgos de la Edad Sombría, de la Edad de Hierro que mencionara Hesíodo, es el rechazo a toda vida comunitaria, a una axiología superior, a las raíces identitarias, a la personalidad histórica y a la definición del hombre por la palabra y el lenguaje. Es entonces una época de negacionismo, de nihilismo colectivo, en que los pueblos pierden su personalidad, es decir, su identidad y se vuelven consumidores, de ahí que estemos grupos como la revista chilena Ciudad de los Césares, el revisionismo histórico que representa Héctor Buela en Argentina desde la Video Editora El Walhalla. Distintas manifestaciones, algunas no organizadas en corrientes de opinión, pero sí en escritores simbólicos que las encarnan para volver a revitalizar el alma de los pueblos: “esa es la gran labor y el desafío cultural y político”. Y no hay que olvidar nunca la enseña poética de José Antonio Primo de Rivera: “A los pueblos no los han movido nunca más que los poetas”.

El hombre de la América Románica o de Indo-América, en particular, tiene el desafío de pensar un bloque geoestratégico Iberoamericano: “Iberoamérica como una unidad de destino en lo Universal”, como una exigencia de confrontación con la civilización gangrenada y occidentafílica, dominada por la “usurocracia judía”. Creo entonces que bajo la ecuación “amigo/enemigo” de Carl Schmitt tenemos muy claramente definidos a los enemigos: el lobby judío internacional, el Sanedrín, lo que llamaba ya San Pablo muy poéticamente “la sinagoga de Satanás”, y por otra parte sus siervos, los gringos, y sus aliados európidos otanescos. Ellos son el enemigo, que busca nuestro subyugamiento y la pérdida de nuestra lengua, nuestras creencias y nuestra manera de ser. Tenemos por tanto que afinar todos los medios estratégicos para vertebrar una resistencia iberoamericana que nos conduzca a una genuina “Segunda Guerra de Independencia”.

4. ¿Cuáles serían los modos de movilizar las fuerzas metafísicas o espirituales del bloque continental iberoamericano?

Ciertamente son los escritores y los poetas los que determinarán un nuevo ciclo para Iberoamérica. Como han citado a Jünger muy acertadamente, se trata de la <<movilización total>> de los “poderes metafísicos” del alma indestructible de nuestra estirpe: “mientras tengamos palabra y alma no podremos ser vencidos”. En sí considero, en ese sentido, que el fascismo como doctrina y revelación a los pueblos no fue vencido en la Segunda Guerra Mundial, y la prueba es que estamos aquí reunidos nosotros bajo un haz de flecha y bajo la bendición de la palabra y el Poder de lo Alto. Yo creo indudablemente que debemos buscar fórmulas políticas novedosas que no contengan en sí el uso de términos que muchas veces han sido satanizados, demonizados por la industria de Hollywood y el aparato de propaganda mundialista; de tal modo que estamos en desventaja táctica ante esos poderes que dominan el mundo, pero mientras mantengamos una relación y una comunión con el Poder de lo Alto y con los “magmas secretos que mueven la historia” podemos decir que un escritor en su buhardilla decide la historia del mundo.

5. ¿A quiénes consideras como los más caros representantes de la tradición político-cultural iberoamericana?

Cada uno de nuestros pueblos tiene una tradición literaria, tanto en historiografía como en teoría del Estado, suficiente como referencia para trazar un destino. Debemos, sin embargo, ver más allá de nosotros mismos, no para seguir de manera epigonal, servil, o como caricatura a pensadores de otras latitudes, sino para no perdernos en una visión de autosuficiencia y aislacionismo.

Así, yo diría que los puntos de referencia, más que en los pensadores políticos, está en los grandes escritores. Dostoievski es la referencia máxima que podemos encontrar respecto a la Santa Rusia, la Tercera Roma; Jünger es el que nos proporciona el medio más eficaz para actuar con  inteligencia en las actuales condiciones de adversidad, en su obra La Emboscadura. Giménez Caballero (“Gecé”), en España, nos marca la necesidad de la imaginación y de la renovación del estilo como una forma de permanecer fieles y adelantarnos a los tiempos, porque creo que nuestra misión es “unir la Tradición con la Modernidad”. En términos posmodernos, es crear un sistema cultural autónomo pero flexible; no hablo necesariamente de sincretismo o eclecticismo, pero sí de cierta porosidad que permita animar a los nuevos bárbaros, y me refiero a mi libro Apología de la Barbarie, que se reeditará en España y Argentina en su edición definitiva, y cuyo sentido es ese retorno a los valores bárbaros, en los términos de Nietzsche, como generadores de nuevos significados. Necesitamos arrollar y terminar con la civilización senecta y gangrenada, insustentable, del neo-capitalismo usurocrático y reconstituir el “arte en la vida”, el arte de la guerra, el valor del guerrero, el valor del poeta. Creo que esto es lo fundamental. Cada uno de nuestros pueblos tiene en sus simientes la marca misma de la genialidad, de la originalidad y de un sentido propio, lo que no nos puede llevar a perder de vista la universalidad.

6. ¿Qué vínculos secretos o profundos se pueden establecer entre México, Japón y la Europa fascista?

Hay tradiciones fundamentales que, pese a que no han tenido, como en Japón, el cuidado de una descendencia dinástica –la de la Casa del Sol, el Imperio del Sol Naciente y el Emperador como hijo de la diosa Amaterasu–, mantienen un vínculo trascendente. Los símbolos imperiales de la tradición pre-hispánica son un ejemplo. Está como afinidad fundamental la doctrina azteca de “lucha y victoria” que se manifiesta en los caballeros águilas y tigres, y que estudian en el Calmécac no solamente el arte de la guerra sino el sentido sacro de su misión guerrera. Esto es similar a la imagen del samurái, que si bien con la dinastía Meiji y la modernización del Japón se ha visto humillado, despojándosele de la katana, alma del guerrero, en la Segunda Guerra la ha recuperado como símbolo del honor. Creo, a propósito del Japón, que no hubo ejército más decidido y fanático como “habitantes del templo” –su sentido etimológico– que ese, y que hay necesidad del fanatismo, no como obcecación y exclusión automática del otro, ni como satanización de enemigos cuya perversidad es intrínseca de una Iglesia Católica, sino como un aliento inclaudicable como el que tuvieron los japoneses en su combate, incluso superior, me atrevería a decir –con lo que les admiro–, a la Wehrmacht y las SS.

Pero digamos, para finalizar, lo siguiente: podemos constituir un “eje Aztlán-Austral-Yamato”, un nuevo eje Metafísico, un nuevo Poder Geopolítico Mundial. Mientras nuestros pueblos Iberoamericanos sigamos perdidos en nuestras insignificancias, en nuestros problemas locales, en las pequeñas cosas de la vida cotidiana, no podremos alzar al cielo nuestra palabra.

7. ¿Es el escritor e intelectual Octavio Paz el padre de la literatura mexicana moderna?

Es indudable que el príncipe Paz tuvo su corte, y que frente a las actuales pequeñas bestias y bestezuelas letradas, él fue de otra categoría, tanto por su estilo como por su obra ensayística y poética. El problema fundamental de Paz, sin embargo, es que no quería tener amigos ni seguidores sino lacayos, como todos los monarcas. México había sido regido antes de Paz por Alfonso Reyes, que se llevó muy bien con Borges; ha sido, en ese sentido, tierra pródiga en asilos y en la protección de los escritores iberoamericanos bajo persecución  en épocas de gobiernos sin respeto a las letras ni a la diversidad espiritual. Entre todos los pueblos iberoamericanos, pocos pueden hablar de una historia de asilo y protección como la ha tenido México en muy diversas etapas de su historia, tanto a los españoles republicanos como al exilio chileno que produjo el Golpe militar.

Ahora bien, Paz es una referencia indudable en la vida literaria mexicana, y yo diría más, en la vida cultural e incluso política. Sin embargo, hay que ver también sus etapas. Está el joven Paz, que va a luchar junto a la Liga de Artistas y Escritores Revolucionarios (que era un engendro stalinista) en la Guerra Civil Española, donde naturalmente no disparó ni un solo tiro –quizá alguna flatulencia. Luego, el Paz que se vuelve “demócrata profesional” pero al mismo tiempo goza de todos los privilegios que da el P.R.I. en el poder, y que en 1968, hace el gesto, aunque más bien mueca, de renunciar a la embajada en India por la pretendida masacre de los estudiantes –que no pasarían de 500 y que fue una decisión patriótica y obligada de un gran presidente mexicano como fue don Gustavo Díaz Ordaz–. Renunciando puramente al título de embajador sigue cobrando la nómina. Es decir, Paz, como ejemplo de coraje, de la consistencia y del arrojo, no lo es. No es ningún tipo de Ezra Pound, ni nada semejante. Aunque sí tuvo la virtud de enfrentarse al mandarinato de la dictadura infrarroja en el pensamiento y logró de alguna forma abrir cauces a la expresión de otras tendencias políticas, pese a que actualmente su herencia sea usufructuada por el perverso judío Enrique Krauze, quien dirige la revista Letras Libres, que yo llamo “letras vencidas” o “letras en venta”. No hay ninguna similitud entre el gran escritor Paz y el amanuense Krauze, por lo que de alguna manera aquí no pasó como con Zeus y Kronos porque no hay que confiar nunca en un judío –aunque yo, como el Führer, admiro a un gran judío: León Bloy–.

8. ¿Qué nos puedes comentar de la experiencia de la “diáspora” o del “exilio” de los escritores o intelectuales vinculados a un pensamiento disidente, a una tercera vía de pensamiento?

Por principio no utilicemos el término diáspora, que eso es del pueblo judío errante; de lo que sí hablaría es del “exilio interior” y en esa perspectiva creo que sí es muy claro que somos como Robinsones. Lo de Robinsón Literario, dicho sea de paso, proviene de Ernesto Giménez Caballero (“Gecé”), que publicó el Robinsón Literario antes de la Guerra Civil Española como una proclama de que él vivía en su ínsula y que no quería entrar en una contienda fratricida; aunque al final, cuando se dieron las cosas, Giménez Caballero fue de alguna manera el Goebbels español, en las proporciones debidas.

Volviendo a lo nuestro, estamos los Robinsones, los que somos forajidos de la opinión, disidentes del espíritu, francotiradores, trotabosques, andariegos, vagabundos, transterrados: no tenemos el arraigo a una tierra que nos proteja porque le reprochamos a aquella donde hemos nacido su tendencia a la abyección, a la falta de creatividad, al aletargamiento del ser; somos profundamente antipáticos e incluso abominables, de alguna manera somos espectros de bestias negras, porque de un bestiario se trata, desde el Yeti, abominable hombre que vive en Aztlán, hasta Erwin Robertson y la gente que reafirma el ser más profundo de su pueblo, todos ellos abominables. Es lo que debemos considerar como la cuota obligada a cumplir, no tendremos reconocimiento nunca: nadie valorará nuestra obra, estamos solos, pero con nosotros está el Espíritu Santo.

9. ¿Cuáles serían los lazos profundos, esotéricos entre Iberoamérica y el mundo del Islam?

Un principio fundamental para reconocernos como Imperio Indo-americano, Iberoamericano o de la América Románica, es tener presente aquel factor fundamental en la constitución de nuestra “psique” como es el Islam. No solamente por su aportación a la actual lengua española, donde hablamos más de cuatro mil palabras de origen árabe –sin olvidar que el Profeta Muhammad, que bendito y protegido sea por Allah, surge de la tribu de los Qurays, que practicaba torneos de oratoria, perfeccionando y dando forma lingüística al árabe– no sólo por ello. También porque los ochos siglos que los árabes, el Islam, estuvo en España, son los siglos imborrables del gran califato de Córdoba, en donde se vivió la mayor riqueza espiritual de España, pese a la islamofobia actual provocada por el Sionismo.

Quien desarrolla la medicina, la arquitectura, la alquimia, es el Islam. En el Islam guardamos mucho del sentido patriarcal Iberoamericano: nuestra forma de considerar a la mujer es islámica, nuestra forma de combatir y hacer la guerra es islámica y proviene de la Yihâd, es decir de la “Guerra Santa”, nuestra forma de ser católicos es islámica… ¿qué no es islámico?...bueno, el vino, que es mediterráneo, griego.  Pero todo lo demás está permeado del Islam, nuestra hospitalidad, nuestra forma de la cortesía, de la amabilidad, del tratamiento con las personas, del respeto, es Islámica y también nuestra concepción de la autoridad hierática es Islámica: somos tributarios de una profunda herencia islámica. Y yo diría que en estos momentos Siria, con su Islam profundo y tolerante, arraigado en el pueblo y no vuelto una herramienta de dominio, se convierte en el símbolo de los derechos de los pueblos. No hay ningún país más asediado, no hay ningún país más ultrajado, no hay ninguno que sufra más en carne propia esa agresión artera que proviene de todas las corrientes del Imperialismo Yanqui, del Sionismo y de los traidores al Islam bajo la careta de una falsa posición de purismo como es el Wahabbismo. Entonces, Siria es Chile, Siria es México, Siria es Argentina: “Siria es Iberoamérica”.

Qui possède le monde?

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Qui possède le monde?

Auteur : Noam Chomsky 
Ex: http://www.zejournal.mobi

Extrait du livre «Power system» ( Metropolitan Books) d’entretiens entre Noam Chomsky et David Barsamian, directeur d’Alternative Radio (www.alternativeradio.org) sorti le 06/02/2013 sur truth-out.org

David Barsamian: Le nouvel impérialisme Américain semble être substantiellement différent de l’ancienne version car les USA ont un pouvoir économique sur le déclin et voient leur pouvoir politique et leur influence s’affaiblir.

Noam Chomsky: Je pense que le discours sur le déclin américain doit être pris avec un peu de recul.
Les USA sont vraiment devenus une puissance globale au cours de la seconde guerre mondiale. Ce pays était la plus grosse puissance économique bien avant la guerre mais c’était un pouvoir qu’on pourrait qualifier de régional. Ils contrôlaient la sphère occidentale et avaient effectué quelques incursions dans le Pacifique mais l’Angleterre restait la première puissance mondiale. La seconde guerre mondiale a tout changé : les USA sont devenus la puissance dominant le monde, possédant la moitié de la richesse mondiale alors que les autres nations industrielles étaient affaiblies ou détruites. Cette nation était dans une position incroyablement  forte par le contrôle de leur hémisphère ainsi que l’Atlantique et le Pacifique avec une puissance militaire énorme. Bien sûr cela évolua : l’Europe et le Japon se sont relevés et la décolonisation changea la donne. En 1970 les USA étaient redescendus à 25% de la richesse mondiale ce qui est comparable à leur situation des années 20. Ils avaient encore leur pouvoir global écrasant mais étaient loin de la situation de 1950. Depuis 1970 cette situation s’est maintenue malgré quelques changements.

Durant cette dernière décennie et pour la première fois en 500 ans depuis la conquête espagnole et portugaise, l’Amérique latine a commencé à prendre en main ses problèmes. L’Amérique du sud a commencé a s’organiser alors qu’auparavant chaque pays était isolé et tourné vers l’ouest : d’abord vers l’Europe puis vers les USA. L’organisation est importante car elle signifie qu’il n’est plus aussi facile de cueillir les pays un par un. Les pays d’Amérique latine peuvent s’unir pour se défendre contre une puissance extérieure. L’autre évolution qui a plus d’importance et est plus complexe est que les pays d’Amérique latine commencent individuellement a faire face a leurs lourds problèmes internes. Avec ses ressources l’Amérique latine devrait être un continent riche ; particulièrement l’Amérique du sud. L’Amérique latine a beaucoup de richesses, aux mains d’une élite minoritaire et souvent occidentalisée qui côtoie une pauvreté massive. Il existe des tentatives de lutter contre cela et l’Amérique latine est en train de s’éloigner de la mainmise américaine ce qui est une autre forme d’organisation.

On parle beaucoup d’un changement global de pouvoir : l’Inde et la Chine vont devenir les nouvelles super-puissances, les pays riches. Il est nécessaire de prendre du recul par rapport a cela. Par exemple, de nombreux observateurs évoquent la dette américaine et le fait que la Chine en possède une grande partie. Il y a quelques années c’était le Japon qui en détenait la plus grande part mais maintenant la Chine l’a dépassé.

La généralisation du discours sur le déclin de USA est trompeur: on nous a appris à parler d’un ensemble d’Etats envisagé comme des entités unifiées et cohérentes. Dans l’étude de la théorie des relations internationales, il existe une école appelée l’école réaliste qui considère qu’il y a un monde anarchique d’Etats, chacun poursuivant ses propres «intérêts nationaux». En grande partie, c’est un mythe. Il existe quelques intérêts communs comme par exemple la survie, mais en général, les individus d’une même nation ont des intérêts divergents. Les intérêts du P-DG de General Electric et du concierge qui nettoie son sol ne sont pas les mêmes.

Une partie du système doctrinal aux Etats-Unis fait croire que nous sommes tous une famille heureuse, sans division de classes, et que tout le monde travaille ensemble en harmonie parfaite. C’est totalement faux. Au 18° siècle, Adam Smith a dit que ce sont les gens qui possèdent la société qui font la politique : les marchands et les fabricants. Aujourd’hui le pouvoir est aux mains des institutions financières et des multinationales. Ces institutions ont un intérêt au développement chinois. Donc par exemple pour le P-DG de Walmart ou Dell ou Hewlett-Packard, il est parfaitement satisfaisant d’avoir de la main d’œuvre très bon marché en Chine, travaillant dans des conditions affreuses et avec très peu de contraintes environnementales. Aussi longtemps que la Chine a ce qu’on appelle la croissance économique, c’est parfait.

Actuellement, la croissance économique de la Chine est un peu un mythe. La Chine est principalement une usine d’assemblage. La Chine est un exportateur majeur mais alors que le déficit de la balance commerciale des USA avec la Chine a augmenté, le déficit avec le Japon, Taïwan et la Corée a diminué. La raison en est que le système de production régional se développe. Les pays les plus développés de la région (le Japon, Singapour, la Corée du sud et Taïwan) envoient des composants et pièces détachées de haute technologie en Chine, qui use de sa force de travail bon marché pour assembler des marchandises et les envoyer hors de la région. Les sociétés américaines font la même chose : elles envoient des composants et pièces détachées en Chine où la population assemble et exporte les produits finis. Ces produits sont comptabilisés comme exportations chinoises mais ce sont bien souvent des exportations régionales et parfois des exportations américaines vers les USA.

A partir du moment où nous cassons cette vision d’états-nations comme entités unifiées sans divisions internes, nous pouvons voir qu’il y a bien un déplacement global du pouvoir, mais c’est de la force de travail mondiale vers les propriétaires du monde : le capital transnational et les institutions financières globales.


- Source : Noam Chomsky

dimanche, 05 janvier 2014

R. Steuckers : Identité(s) Européenne(s) et actualité internationale

 

Entretien accordé au "Cercle des Volontaires"

Robert Steuckers :

Identité(s) Européenne(s) et actualité internationale

 

Le Cercle des Volontaires est allé à la rencontre de Robert Steuckers, grande figure de ce qu’on appelle la « Nouvelle Droite », ancien membre du mouvement GRECE et fondateur du mouvement « Synergies européennes ».

 

Voici les sujets qui ont été traités par Robert Steuckers :
- L’identité européenne
- L’identité européenne influencée à travers les relations avec les autres peuples
- Une ou des identités européennes ?
- Une identité menacée ?
- Puritanisme américain et néoconservatisme
- Ukraine/UE et l’Axe Paris-Berlin-Moscou
- Nucléaire iranien et bouclier anti-missiles de l’OTAN

 

Nous vous signalons que nous publierons dans les prochains jours une version écrite de cet entretien et qui sera illustrée par énormément de documentation afin d’aller plus en profondeur dans l’analyse des sujets traités.

Anass

mercredi, 01 janvier 2014

Entrevista a Ernesto Milà

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Entrevista a Ernesto Milà

Ex: http://infokrisis.blogia.com

Entrevista realizada hace algunos meses con cuestionario realizado por Ediciones Camzo para incluir en un texto de su fondo editorial.

¿Podría resumirnos cuál es el núcleo de su idea sobre la renovación de España?

Es muy simple y se puede resumir en unos cuantos puntos muy esquemáticos:

1) Desde la Generación del 98 no se ha realizado una actualización de los principios del patriotismo español ni se ha realizado una revisión en profundidad de la idea de España. Esto ha generado que esa idea haya quedado envejecida, que sea inadecuada para el tiempo presente y que resulte urgente replantearla.

2) Se suele aceptar que el Imperio de los Austrias es el momento culminante de la historia de España, pero se olvida la falta de sentido geopolítico de Carlos I y en especial de Felipe II que obligaron a España a combatir en dos frentes incompatibles entre sí: en Europa y en la colonización de América.

3) Si apareció este problema fue precisamente por la indefinición histórica de España como potencia marítima (lo que hubiera supuesto priorizar la colonización americana) o como potencia terrestre (lo que hubiera impuesto priorizar y concentrar nuestra presencia en la escena europea.

4) Esta es la primera cuestión que se debe dirimir: ¿qué somos? ¿potencia terrestre u oceánica? Es decir: ¿hacía donde tenemos que apuntar nuestra “misión” y nuestro “destino”? ¿Hacia Europa o hacia América?

5) El patriotismo español estuvo siempre vinculado a la Iglesia Católica y fue de inspiración cristiana. Pero, a partir de los años 60 el catolicismo entró en crisis y el impacto de la fe católica fue descendiendo hasta el punto de que hoy ya es imposible vincular a España a la “defensa de la fe” como pretendía el patriotismo decimonónico.

6) España “fue” antes de la conversión de Recaredo (desde la más remota antigüedad la península fue considerada como un territorio homogéneo y único por todos los pueblos, las Hespérides) y seguirá siendo después de que el catolicismo haya dejado de ser hegemónico en la sociedad española, contrariamente a lo que opina la historiografía patriótica y católica.

7) Una “Nación” según la definición de Ortega y Gasset, recuperada por Primo de Rivera es una “misión” y un “destino”: falta definir con realismo cuál es la “misión” y el “destino” de España en el siglo XXI, pregunta que ha quedado en suspenso desde los años de la postguerra y a la que Ramiro Ledesma apenas aportó un intento de definición en 1935.

8) Es imprescindible no confundir “patriotismo” (impulso de amor e identidad hacia la “tierra de los padres”) con “nacionalismo” (fenómeno esencialmente moderno y decimonónico de matriz liberal). Quien dice “nacionalismo” alude una sociedad liberal, con la burguesía como clase hegemónica, el libremercado como modelo económico y la democracia parlamentaria como forma política. Quien dice “patriotismo” dice identidad, arraigo, tradición. Ser patriota es ser, necesariamente, antiliberal; ser nacionalista, en cambio, implica un cierto grado de ambigüedad.

9) España está hoy sometida a una triple presión: 1) por parte de la Unión Europea, consorcio cerrado franco–alemán generado para garantizar los buenos negocios al capital de ambos países, 2) por la globalización, producto del “empequeñecimiento del mundo” operado tras la II Guerra Mundial y por la concentración de capital y 3) por los micronacionalismos regionalistas. La presión se puede aliviar mediante una reforma constitucional que ponga coto a los nacionalistas periféricos, mediante una renegociación del acuerdo de adhesión a la UE y mediante el rechazo rotundo a la globalización, a lo que representa de pérdidas de identidades nacionales y a lo que acarrea de entrega de los pueblos a la plutocracia y a los “señores del dinero”.

10) Las naciones hoy no pueden ser “cerradas”, deben abrirse “por arriba” a niveles de cooperación internacional y también deben descentralizarse “hacia abajo”. En el primer caso debe prevalecer el “interés nacional” y en el segundo “la unidad del Estado”. Las identidades regionales deben de elegir entre la lealtad al Estado y cooperar en la gobernabilidad del Estado o bien enfrentarse al Estado y arriesgarse a desaparecer.

11) El Estado es la encarnación jurídica de la nación y la estructura de gestión política de un pueblo en el cumplimiento de su “misión” y de su destino histórico. Por eso el Estado debe ser fuerte, sus centros de poder deben ser visibles y sus atribuciones evidentes e indubitadas, y por ello mismo, el delito contra el Estado debe ser considerado como el peor delito. Y por eso, por encima de los partidos debe de existir una vocación y un proyecto nacional que prolongue su vigencia a través de los siglos y al cual los partidos políticos deban de atenerse.

12) En la actualidad España sufre las consecuencias de una transición mal concluida: crisis económica, corrupción generalizada, inmigración masiva, inadecuación de al clase política, ruptura entre la “España real” y la “España oficial”, partidocracia y centrifugación nacionalista, fin del Estado del Bienestar sacrificado en el altar del Estado de las Autonomías. Ninguno de estos problemas puede resolverse en el actual marco constitucional: así pues, es preciso una nueva constitución.

13) La crisis económica, inicialmente un crisis inmobiliaria, se transformó pronto –dada la peculiar estructura económica de España– en una crisis del empleo, luego desembocó en una crisis social, posteriormente en una crisis de deuda pública, cuando ya se había transformado en una crisis política generalizada. No es una simple reforma económica lo que se precisa sino una reforma en profundidad del paradigma organizativo del Estado y de sus mismas estructuras. El parlamentarismo, la partidocracia y el liberalismo económico han fracasado y deben ser relegados definitivamente al baúl de los malos recuerdos

14) La regeneración de España es, ante todo y sobre todo un problema de reforma social: es cierto que el Estado debe proteger y tutelar a la sociedad especialmente de los depredadores (lo que implica enunciar una línea de política social), pero también es cierto que nuestra sociedad tiene una tara congénita que Machado llamó “el macizo de la raza”, es decir, su núcleo central y que hace que nuestro pueblo sea apático, individualista, con muy escaso sentido comunitario, alejado de la tarea del gobierno, despreocupado por ello. Nuestra actual postración no puede achacarse solamente a causas externas: el problema del “macizo de la raza” se remonta precisamente al período de los Austrias y a partir de ahí se prolongó hasta nuestros días agravándose constantemente. La identidad reconquista antes de 1492 se perdió.

15)  Pero no siempre fue así: hubo una España tradicional (lo que llamo “la Vieja España”) en la que nuestro país tenía rasgos de identidad bien definidos que se prolongaron hasta inicios de la Edad Moderna (siglo XVI). Por eso vale la pena estudiar las antiguas tradiciones y la antropología de nuestro pueblo: nos lleva a redefinir una identidad. Y en ella es visible la reaparición del sentido comunitario y tradicional. Así pues, se trata de reconquistar una forma de ser para un tiempo nuevo. Faye llamó a esto “Arqueofuturismo”. Es preciso una tarea educativa sin precedentes para rectificar ese “macizo de la raza”.

He tratado toda esta temática –muy amplia rica y que apenas ha registrado incursiones en nuestro pensamiento político– en tres libros: Identidad, patriotismo y arraigo en el siglo XXI, Reflexiones sobre la crisis de España (por un patriotismo revolucionario) y Teoría y práctica de la familia en España que pueden adquirirse en EMInves o en Amazon.

¿Cree posible avanzar hacia la unidad de lo que se llama en España “el área”, o se está más lejos que antes de intentarlo?

¿Unidad para qué? He defendido desde hace diez años que no existe “el área” sino tres sectores diferenciados en la extrema–derecha: el sector histórico (grupos falangistas, carlistas y distintos círculos neonazis), el sector anti–inmigración (hoy fundamentalmente constituido por PxC y E2000)  y el sector católico (con AES, FyV, MCE, etc.). Y luego una serie de siglas que pueden ser calificadas como restos de serie que carecen de concejales, de votos, de puntos “fuertes” y se limitan a publicar webs, estar presentes en redes sociales sin esperanzas de poder salir de ese nivel.

¿Avanzar a la unidad? Si aceptamos el anterior esquema, aceptaremos también que solamente se puede llegar a la unidad por “sectores”. De estos sectores, el único que me puede interesar es el del sector anti–inmigración e identitario. Y afecta, sobre todo a E2000 y a PxC. Y ahí dejo el asunto porque no me corresponde a mí lanzar puentes ni realizar sondeos. Se trata de los únicos grupos, con mucho, que han obtenido algunos resultados parciales apreciables y cargos electos en algunas ciudades y pueblos.

Si las direcciones de estos dos grupos son lo suficientemente lúcidas como para plantear una coalición de cara a las próximas elecciones europeas, habrán demostrado madurez y entender la situación. De lo contrario, demostrarán ser presas de un afán insensato de llegar en solitario y en primera posición al final de la carrera o de un dogmatismo excluyente que tiene mucho más de ridículo que de otra cosa. Juntos pueden lograr algo, por separado les va a resultar mucho más difícil.

En cuanto al sector histórico y a los católicos, francamente, creo que deberían de pensar con apertura de miras. Pero esa es otra historia que a mí, personalmente, no me corresponde juzgar en absoluto. 

Usted pone énfasis en la formación espiritual del militante y del guerrero, tema que muchos ignoran o desprecian. Hay en ese sentido mucha confusión. ¿Qué le aconsejaría a un joven militante con voluntad de comenzar esa formación seriamente?

El militante debe ser alguien dispuesto a hacerlo todo contando con nada, a entregarse y sacrificar su ego por una empresa que le trasciende y estar dispuesto a seguir su destino. Es, naturalmente, una opción “espiritual” si quieres utilizar esta palabra, aunque yo en realidad prefiero aludir a una identificación “doctrinal” entre el militante y su causa. El militante debería ser un “guerrero político”, pero, no nos engañemos, en la modernidad este concepto suena a pura retórica (y frecuentemente lo es). Con decir que el militante debe ser alguien que ligue su destino personal al de su causa habría suficiente.

Y esto, automáticamente, sirve para enunciar un orden de prioridades: en primer lugar el militante debe saber cuál es “su causa”. No siempre está claro este punto. No siempre el militante es consciente de si lo que pretende es un simple cambio de gobierno, llegar al poder o cambiar el sistema. Y, aun aceptando que lo que pretende es un cambio de sistema, hará falta enunciar cuáles serán las características de ese sistema que sustituirá al actual.

Todo esto precisa formación, formación y formación. Pero no me gustaría ser confundido con un “vendedor de cultura”, como aquellos “gramscistas de derechas” de finales de los 70 y principios de los 80, que eran como un entrenador que decía a su equipo: “para jugar un partido hay que entrenarse”. Y, nosotros, todos, nos entrenábamos, esperando que llegara un día en el que “jugaríamos el partido”; pero los dirigentes de la “lucha cultural” nunca consideraban que había llegado el momento de jugar el partido. Y en eso siguen, mientras Marine Le Pen se está convirtiendo en primera fuerza política… sin que en ese ascenso la “lucha cultural” haya tenido absolutamente nada que ver. Por eso no me gusta considerar la lucha cultural como aislada de las luchas en otros terrenos. Y nunca la recomendaría.

Es más, puede ser incluso perjudicial para el militante: el absorber conocimientos y matices culturales, adquiriendo –en el mejor de los casos– una amplia cultura puede generar un desarrollo hipertrófico de su ego y derivarlo hacia la “intelectualidad”. Drieu decía que intelectual “no es aquel que piensa, sino el que hace del pensar una profesión”. Muchos amigos entrarían dentro de esta definición. No es lo que busco, ni lo que me interesa, ni lo que voy a recomendar a otros.

Lo primero que le recomendaría al militante es que se informara de en qué consiste su opción, que la fuera perfilando, que cada día leyera la prensa diaria (en Internet es fácil hacerlo), y que profundizara en lo que quiere (doctrina), en cómo lo quiere obtener (estrategia y organización) y en comprender cómo es el mundo de su tiempo (mediante el análisis político y la comprensión de cuáles son las líneas maestras de la modernidad) y porqué se producen los fenómenos económicos, políticos y sociales que son el pan de cada día.

Ser militante y ser dirigente son dos conjuntos complementarios: el dirigente debe ser militante, pero el militante no debe ser forzosamente dirigente. Hoy lo que necesita nuestro ambiente político son dirigentes mucho más que militantes. Hay una docena de siglas para militar, forjar las primeras armas y asimilar lo que es la militancia. Pero quede claro que ninguna de estas siglas es perfecta, ni yo voy a recomendar participar en ellas (a pesar de que estoy afiliado de base a España 2000 y veo con buenos ojos la actividad que desarrollan los concejales de PxC en el cinturón industrial de Cataluña), de la misma forma que desaconsejo la participación en grupos residuales que llevan 15 años con dificultades para pasar de 100 a 200 afiliados… en efecto, en ocasiones el “minimalismo” político no es síntoma de calidad, sino muestra de la levedad e irrelevancia de sus dirigentes, de la inadecuación de la doctrina o de sobredosis de despiste ingenuo e infantil puro y simple.   

Usted produce una cantidad admirable de textos. ¿Cree que en España la militancia lee y comprende suficientemente ese tipo de textos?

Habitualmente escribo para aclarar mis propias ideas. El proceso de elaboración de un artículo es importante para buscar información sobre un tema concreto, valorar las distintas posiciones y establecer la que más conviene a la propia concepción del mundo.

Parto de la base también de que en este momento apenas existe militancia política. Y dudo, incluso, de que la poca que hay actualmente movilizada, sea la que conviene e incluso la que se necesita para alumbrar un movimiento político. Para esto hacen falta dirigentes, gente lúcida con capacidad de análisis, voluntad y decisión. No es esto, precisamente, lo que abunda hoy.

Uno de los elementos que más me interesan en este momento es precisamente la experiencia histórica del fascismo. De ahí que mensualmente publique la Revista de Historia del Fascismo que va ya por el número XXIV. Y me interesa, porque el fenómeno fascista ha sido mal comprendido por propios y extraños, especialmente en nuestro país. La pregunta es: ¿cómo diablos en apenas 20 años aparecieron en toda Europa líderes, clases políticas dirigentes y millones de militantes, muchos de ellos de mucha calidad humana y personal, capaces de detener y revertir los procesos de decadencia entonces en curso? La respuesta es: porque existía una élite intelectual que había entendido cuáles eran los mecanismos de la decadencia y sobre esa base un grupo de líderes políticos decidieron reaccionar contra ella.

El que esta élite existiera se debió, sin duda, a fenómenos muy diversos: la experiencia bélica de la primera guerra mundial, que aportó a sus protagonistas la realidad de otro modelo de sociedad, la sociedad guerrera, frente a la sociedad de los mercaderes. Menos influencia tuvieron las crisis económicas. La reacción contra el bolchevismo agresivo fue otro elemento fundamental, así como la afirmación de un clima cultural previo en donde se fueron agregando pequeños elementos (sindicalismo, nacionalismo revolucionario, futurismo, jóvenes conservadores, antisemitismo de matriz social, etc.) que fundidos todos dieron como resultante el fascismo.

Ninguno de estos fenómenos está hoy presente, por tanto es difícil que aparezca un fenómeno como el fascismo histórico. Si a eso unimos cierta ceguera y no pocas dosis de mediocridad entre los dirigentes de los movimientos “neofascistas” españoles, es evidente que, mientras persista la situación, ninguno de ellos va a poder destacar ni mucho menos convertirse en opción de poder.

A la pregunta de si la militancia comprende lo que escribo, cabe recordar lo ya dicho: apenas hay militancia y si escribiera para una militancia inexistente poco o nada estaría haciendo. He trabajado y escrito para grandes editoriales y durante mucho tiempo he logrado vivir de mi producción para estas empresas. Hasta que llegó un momento en el que me sentí cansado y harto de escribir lo que me pedían y que en buena medida no me interesaba en absoluto. Hoy escribo sobre lo que me interesa y en el orden que me interesa, haciendo abstracción de quien me lee.

Al viejo infokrisis (http://infokrisis.blogia.com) que llevo publicando desde hace 10 años y que cuenta con dos mil artículos y una media de 3.000 entradas diarias (reforzado con mi presencia en otros blogs y en varias redes sociales (en este enlace están todos los enlaces que engloban mi trabajo en la red: http://info–krisis.blogspot.com.es/2013/03/mis–otros–blogs.html), acuden una mayor parte de gente que no pertenece a “nuestro ambiente” político y que demuestra que se puede penetrar en otros ambientes a poco que uno sea consciente de lo que hay de eterno y permanente en su concepción del mundo y de aquello otro que está superado, que fue y que no volverá a ser.

En países como Italia existe también la fragmentación y enfrentamientos entre grupos afines, sin embargo existe también una vitalidad que parece no existir en España ¿Se debe esto al carácter español, a la historia reciente, a alguna otra causa que Ud. pueda mencionar?

Se debe a que durante los 40 años del franquismo se produjo un empobrecimiento entre la militancia. El “fascismo español” fue siempre débil precisamente por el excesivo papel que ocupaba la Iglesia Católica durante los años 30–60 y que hizo imposible la existencia de un movimiento político que escapara de su órbita y control como son, en definitiva, todos los fascismos.

He dicho en muchas ocasiones que el franquismo fue un fenómeno polimórfico: fascista imperial entre 1939 y 1942, nacional–católico entre 1943 y 1959 y tecnocrático–desarrollista entre 1960 y 1975. En cada fase hubo una fuerza política preeminente: los falangistas primero, los propagandistas de Acción Católica luego y finalmente el Opus Dei. Cuando murió Franco, había miles de falangistas divididos en media docena de grupos, estaba Fuerza Nueva, estaba CEDADE y había cientos de militantes no organizados. Todos nos vimos superados por la velocidad a la que se desarrollaron los tiempos de la transición y la mayoría se sintió respaldada por los miles y miles de militantes y simpatizantes que acudieron a los actos del 20–N en la transición entre 1976 y 1981. Además, éramos muy jóvenes y sin experiencia para poder controlar el proceso e incluso las organizaciones en las que militábamos.

Creo que fui de los pocos que advertí en 1977 a Blas Piñar sobre el hecho de que diez años después el acto del 20–N terminaría celebrándose en un teatrito. En efecto, hacia 1987 la asistencia había disminuido extraordinariamente y empezó a ser residual e irrelevante. Pero, dado que ni la militancia, ni las direcciones políticas de los grupos existentes, tenían la más remota idea de en qué consistía la práctica política, creyeron que el dogmatismo, la pretendida fidelidad a los ideales, habitualmente máscaras del egocentrismo y de la cortedad de miras, el ambiente, no sólo se estancó, sino que entró en pérdida a partir de 1979 y en franca crisis a partir del 23–F de 1981. Al convocarse las elecciones de 1983 era evidente que el ambiente había entrado en una atomización que todavía dura hoy. Por eso siempre he sido partidario de no repetir los errores: aquella extrema-derecha de la transición fracasó y murió con la transición. Intentar resucitarla supone perder el tiempo y atenerse a un modelo que ni siquiera en su tiempo funcionó.

Todo este lamentable proceso fue el resultado de dirigentes que se habían criado al calor del franquismo y que no ascendían ni por lucidez ni por méritos, sino por fidelidad al mando… un mando que cuando murió el 20–N dejó a muchos incapaces al frente de diarios y grupos que de otra manera jamás habrían ostentado. Ante el caos de Falange Española y de Fuerza Nueva durante la transición es evidente que, poco a poco, se fueron retirando los mejores y los cuadros más capaces y se produjo una selección a la inversa que restó más y más dirigentes y atrajo solamente a militantes jóvenes, inmaduros, sin posibilidades de formarse que en el mejor de los casos difícilmente superaban los dos años en activo. En los dos volúmenes de mis Ultramemorias he intentado aproximarme a las causas del fracaso de la extrema–derecha y ahí remito a los lectores que les interese profundizar en esa dirección.

Teniendo en cuenta el carácter mercenario de las instituciones militares modernas, ¿hasta qué punto podría considerarse lícito el concepto de la "defensa de la Nación" actualmente? ¿Podría comparar a grandes rasgos el carácter militar desde las opuestas perspectivas: Tradicional y Moderna?

Me interesan los temas sobre la tradición guerrera y mucho menos los temas propios de la defensa nacional; explicaré el porqué. Existe una diferencia sustancial entre el “soldado” y el “guerrero”. El primero es aquel que hace del “sueldo” (de la soldada) el eje de su vida. El segundo es aquel que experimenta que en su carácter hay un elemento preponderante que le llama a la acción y que pone al servicio de su comunidad. En ambos casos subyace una característica propia de la naturaleza humana (que tiene mucho de animal… en el mejor sentido de la palabra). Somos biología (pero no solo biología, naturalmente) y esa biología es lo que hace que estén presentes en nosotros los mismos instintos que en las especies superiores: instinto de supervivencia, instinto de agresividad, instinto territorial, etc. En las culturas superiores estos instintos están “modulados”: el instinto territorial se convierte en patriotismo, el instinto de supervivencia en natalidad y eugenesia, el instinto de agresividad en concepción guerrera de la vida que informa a la casta guerrera en las sociedades trifuncionales indo–europeas.

La imagen del “soldado” apareció fugazmente en la Edad Media y muy especialmente se difundió en el Renacimiento italiano junto a los “condottieros”. La Revolución Francesa concedió el “deber” de defender a la patria con las armas en la mano, estableciendo el servicio militar obligatorio. Antes, en las sociedades tradicionales, no hablábamos de un “deber” de empuñar las armas, sino del “derecho” de la aristocracia guerrera a llevar armas y defender a la comunidad. Era la “función guerrera” que completaba el marco social junto a la “función productiva” (el artesanado y el campesinado) y la “función sacerdotal” (la casta religiosa). Sacerdotes, guerreros y artesanos formaban una sociedad orgánica, especializada por una parte y comunitaria por otro.

Las naciones solamente aparecieron a finales del siglo XVIII. Antes existían los “reinos”. No existía nacionalismo, existía un patriotismo (arraigo a la tierra natal) y una fidelidad al monarca considerado como encarnación de la nación). El rey era el primus inter pares entre los aristócratas y, anteriormente, su figura era una síntesis del guerrero y del sacerdote.

Mientras las aristocracias ganaron sus blasones armas en mano, pudo decirse que en esa casta figuraban los “guerreros” dignos de tal nombre. Luego, cuando la nobleza pasó a ser hereditaria y se fueron olvidando sus obligaciones, más no así sus derechos, empezó la decadencia de la función guerrera que quedó sepultada con la Revolución Americana y con la Revolución Francesa en apenas 20 años. Es en este proceso en el que se afirma el concepto de Nación como sustituto del Reino. Antes existían las “nacionalidades” o partes con identidad propia en las que estaban divididos los reinos o los imperios. Las naciones modernas y democráticas se formaron sobre la nivelación de las “nacionalidades”, “patrias carnales” o “patrias chicas”. Apareció así el jacobinismo que uniformizó las naciones y abolió las identidades regionales pre–existentes. Se trató de un fenómeno propio del siglo XIX.

A partir de entonces apareció con Clausewitz el concepto de “defensa nacional”. Para situarlo podemos decir que era un concepto superior al internacionalismo y al pacifismo, pero inferior a lo preexistente: la defensa del Reino y de sus nacionalidades, la lealtad hacia el monarca y la obligación de la casta guerrera. La “defensa nacional” se “democratizó  pasó a ser “cosa de todos”, incluso de aquellos cuyo carácter era más propio del sacerdote o del productor, pero en absoluto del guerrero.

Esto por lo que respecta a la génesis de la modernidad y a la liquidación del concepto tradicional de orden social (un orden trifuncional).

En ese contexto vale la pena realizar una especificación importante. Cuando la “defensa nacional” se democratizó, la mayoría de los valores de las antiguas aristocracias guerreras pasaron a enseñarse en las academias militares y se recluyeron allí. Se les agregó un acompañamiento emotivo y sentimental para que “hicieran juego” con el Estado que las financiaba y que requería su concurso: se insiste, por ejemplo, en que las fuerzas armadas están creadas para respetar el orden constitucional, que su misión es la defensa de la democracia, etc. Pero, a fin de cuentas, la forma de entrenamiento militar (que consiste básicamente en neutralizar el ego para que afluya, mediante la disciplina, un valor mas elevado, el “esprit de corps” y la posibilidad de desafiar a la muerte) es irreductible a la democracia.

Y esto es lo que ha hecho que en la milicia, las virtudes militares estén mucho más acusadas y vivas hoy que en cualquier otro cuerpo social. Tal es la tesis que hemos expuesto en nuestra obra Militia, introducción a la tradición guerra (que hoy puede ser adquirida en Amazon.com y en cuya segunda parte estamos trabajando actualmente), a saber, que para superar la pendiente de la decadencia, es necesario dotarse de valores tradicionales; estos valores están hoy vivos y, como he dicho, se transmiten en las academia militares.

Por tanto, el tránsito de una sociedad masificada y burguesa a una sociedad nuevamente enderezada, solamente puede realizarse mediante la recuperación de unos valores que no sean meramente teóricos, sino que estén vivos y activos, al menos en un sector de la sociedad. Los valores del sacerdocio están lamentablemente lastrados por el concepto que el cristianismo tiene de esta casta, sin embargo, los valores militares sí son susceptibles de ser enseñados en las escuelas y de contribuir a un enderezamiento de la sociedad.

¿Hasta qué punto podríamos considerar ajeno al espíritu popular el concepto artístico institucionalizado con miras a representar la esencia moderna? ¿Podríamos considerar también una intromisión por parte de un elemento étnico exótico en este aspecto?

Se trata de un problema complejo que vamos a intentar resumir. Hasta ahora las aportaciones culturales que nos han llegado de la inmigración están próximas al cero absoluto. En realidad, resulta muy difícil traspasar una concepción cultural de un país a otro. Como máximo se pueden trasladar algunos elementos aislados y adaptados (el jazz, por ejemplo). Todo lo que procede del Tercer Mundo está lastrado por un concepto que desapareció en Europa entre los siglos II y VII: el concepto de tribu. En África y en zonas del mundo árabe, sigue vivo. No, desde luego, entre nosotros.

Si han penetrado en el Primer Mundo formas culturales procedentes del Tercer Mundo, no se debe a la tarea de difusión cultural de los exponentes de este último, como a la búsqueda de originalidad y de “productos nuevos” de los marchantes y “agitadores culturales” del Primer Mundo. ¿Por qué ha ocurrido este proceso? ¿Por qué un cretino aporreando un tambor puede ser considerado como “música”? Simplemente porque la creatividad se ha agotado en Occidente. Ha entrado en crisis. Era normal que así ocurriera.

La intelectualización del arte (es decir, el interpretar una determinada creación artística en función de conceptos ideológicos que nada tienen que ver con ese arte en sí) generó el fenómeno de las “vanguardias artísticas” desde el último tercio del siglo XIX.

Julius Evola, que vivió intensamente el dadaísmo explica que en éste existía todavía un impulso hacia la trascendencia y, por tanto, consideraba el mundo como algo más allá que lo perceptible por los sentidos. Sin embargo, en la vanguardia que lo sustituyó, el surrealismo, esta tendencia ya estaba completamente ausente y, en el mejor de los casos, había sido sustituida por la superstición pura y simple: lo “inmaterial” había sido sustituido por el interés en la interpretación de los sueños en la línea de Sigmund Freud y en la escritura automática propia de los ocultistas de los 30 años anteriores. Ulteriores vanguardias contribuyeron cada vez más a rebajar el listón de calidad.

El arte, para ser tal, debe ser anónimo. No está destinado para engordar el ego del artista, ni aumentar su fama, su popularidad o sus ingresos, sino que debe “sintonizar” con lo absoluto y ofrecer a la sociedad la posibilidad de que, contemplándolo, entre en contacto con la trascendencia. Esa presencia de “lo absoluto” en una creación artística es lo que se llama “inspiración”. Los fines utilitaristas, crematísticos o egóticos hacen que una pretendida “creación artística” no pase de ser la obra puramente contingente de un artista que mira a la materia y que, en tanto que todo lo material puede ser reproducido hasta el infinito, topa con la competencia que otros miles de artistas intentan en el mismo plano. Vence aquel que domina mejor las relaciones públicas, no aquel que está “inspirado”. Cuando a la “inspiración” se une el dominio de la técnica estamos ante la genialidad. Algo que ya queda muy lejos de nuestro tiempo.

El arte se vuelve así masificado, irrelevante y “original”, cuando en realidad debería de ser inspirado, trascendente y “originario”.

En esa búsqueda de la “originalidad” es donde los “artistas” que predican el “mestizaje” y la “fusión cultural”, han intentado penetrar e introducir sus productos averiados. Pero es imposible fusionar la música de Bach con el tam–tam sin obtener un resultado ridículo. Y si alguien cree que es posible, solamente esa misma creencia basta para desacreditarlo como artista y tenerlo por traidor (consciente o inconsciente, simplemente por estupidez) a su propia identidad.

Respecto al fenómeno de las migraciones masivas, ¿hasta qué punto podría resultar alterado el orden geográfico de las distintas culturas actuales capaces de sobrevivir? ¿Podría esta consecuencia dar paso a una futura valoración étnica como primera base cultural?

En los últimos 30 años, Europa ha sufrido migraciones prácticamente ilimitadas procedentes del Tercer Mundo. En España este fenómeno se inició posteriormente, en 1997, pero en apenas 15 años nos hemos colocado a la cabeza de Europa en este terreno. Los problemas que genera la inmigración son claros y se pueden enumerar sistemáticamente: 

1) Hemos asistido al mayor movimiento migratorio de la historia, sin precedentes en ningún otro momento del pasado.

2) Esto ha generado el cambio del sustrato étnico y antropológico de Europa en apenas una generación.

3) Las tasas de natalidad europeas no superan la tasa de reposición, mientras que las de la inmigración las superan entre dos y cuatro veces.

4) Contra más primitivo es el país de origen de los inmigrantes, estos disponen de una mayor tasa de reposición.

5) Esto hará que en un plazo de entre 20 y 50 años, la población de origen inmigrante supondrá entre un 30 y un 50% de la población de algunos países europeos.

6) Contrariamente a lo que opinan los “humanistas–universalistas” no se producirá mestizaje étnico (éste es muy minoritario en la actualidad) sino creación de una cultura mestiza de baja o bajísima calidad en la que los europeos cederemos ante poblaciones cuyo primitivismo tribal es lacerante.

7) Los que hablan de “España país de las tres culturas” y de “fusión cultural”, ignoran que los inmigrantes no se refieren en absoluto a estos conceptos.

8) Los inmigrantes y los gobiernos ofrecen “integración”: respetar las identidades originarias de los inmigrantes procurando que no entren en conflicto con la identidad nacional del país de acogida.

9) La postura correcta sería “asimilación”: el inmigrante que quiera permanecer en Europa debe de asumir los rasgos de la cultura europea, renunciando a los suyos propios.

10)  El mestizaje étnico y/o cultural no crea “riqueza” en ninguno de estos terrenos sino que acarrea inestabilidad social tal como demuestra la experiencia histórica.

Por lo demás, en relación a la pregunta que formulas, en la actualidad la inmigración ha destrozado cualquier idea de “orden” geográfico, étnico, geopolítico, social, etc. Sus promotores han sido los poderes globalizadores (siempre hemos dicho que la globalización es una autopista de doble dirección: este a oeste y de sur a norte, inmigración; y de oeste a este y de norte a sur, deslocalización industrial) con el único objetivo de aumentar los beneficios del capital.

Este proceso ha sido facilitado por el humanismo–universalista que hemos denunciado en muchas ocasiones, una de cuyas alucinaciones más insensatas es un mundo con un gobierno mundial (ONU), una religión mundial (new age) y… una sola raza mundial (… la humanidad mestiza). Por increíble que parezca, hay ideólogos del universalismo que piensan y actúan en función de esta hipótesis.

Si nos oponemos a la inmigración masiva (y, por tanto, a la globalización, es imposible aceptar la primera y rechazar la segunda como hace la nueva izquierda, “indignada”) lo que estamos haciendo es defender nuestra identidad. Y esta noción es fundamental: un pueblo con identidad es un pueblo consciente de sí mismo, de sus rasgos, de sus características, de su existencia, de su misión y de su destino. No es raro que los promotores de la globalización se hayan cuidado de destruir, como paso previo a la realización de su proyecto, a las identidades nacionales. 

Usted entre muchas de sus obras escritas ha publicado ‘Marruecos: el enemigo del Sur’ y ‘El Libro Negro de la Inmigración’ ¿En qué punto de inflexión se encuentra España frente al ‘enemigo del Sur’ en particular y al mundo árabe en general? ¿Y Europa? 

Estos libros se escribieron hace diez años, tuvieron tiradas de 2.000 y 4.000 ejemplares y hoy se encuentran completamente agotados, pero pueden leerse bajo forma de e–books en Amazon.com. Las tesis que mantenía hace diez años se han confirmado: 

1) Las “revoluciones árabes” han confirmado lo que ya decía: que la única fuerzas política y social del Magreb es el Islam y que Europa está obligada a entenderse con el Islam antes que apuntalar a los regímenes corruptos del norte de África o a ejercer la vocación mesiánica de implantar regímenes “amigos”.

2) La monarquía marroquí es el único régimen magrebí que ha sobrevivido en estos últimos diez años y esto a costa de adaptarse: primero realizando operaciones en las “alcantarillas” para limitar el crecimiento de los islamistas (2003, atentados de Casablanca), luego creación de un partido seudo–islamista domesticado por la casa real, finalmente intentando cohabitar con los islamistas radicales del Partido de la Justicia y el Desarrollo y de la organización islamista Justicia y Caridad. La monarquía alauita está cada vez más desprestigiada.

3) La Unión Europea intenta apuntalar al régimen marroquí ofreciendo un “acuerdo preferencial” que sentencia a muerte a la agricultura española, sin que nuestro gobierno haya pronunciado ni una sola palabra en Bruselas en defensa de nuestro agricultores.

4) Durante esta última década, Marruecos ha proseguido con la línea iniciada a finales de los noventa: inundar España con haschisch procedente del Valle del Rif, permitir el paso de millones de inmigrantes, proseguir con la guerra económica, no rebajar ni uno solo de los objetivos incluidos en su ficción geopolítica del “Gran Marruecos” (con Ceuta y Melilla como primer objetivo y Canarias como segundo) y rearmarse, configurándose como primer aliado de EEUU en el Magreb.

Podríamos añadir: “tal como lo preveíamos”, si no pareciera excesivamente petulante. Pero así ha sido. Las tesis que anunciamos en Marruecos, el enemigo del sur, Marruecos, la amenaza y el Libro Negro de la Inmigración (los tres a la venta en Amazon-Kindle), se han cumplido al pie de la letra… tal como podía prever un observador objetivo y tal como podía prever nuestro gobierno si hubiera evaluado la situación con rigor.

Nuestra tesis final y de síntesis era: el Islam es un elemento de la cultura del desierto, de otros horizontes geográficos. Sigue siendo la única fuerza política y social real en las zonas de mayoría islámica en donde los partidos políticos “a la europea” no existen. Y, por tanto, en el contexto de una política europea en relación a África, el islam debe ser el principal interlocutor válido. Ahora bien, esto no implica ni aceptación del islam en Europa, ni siquiera considerar al islam como algo más que una superstición propia de las tribus primitivas anárquicas con las que Mahoma tuvo que lidiar… Insisto mucho en esta idea: el islam es “cosa del desierto”… y en Europa los bosques son dominantes. Dicho de otra manera: el islam es el interlocutor válido en el Magreb y en Oriente Medio, pero es islam no tiene lugar en la sagrada tierra de Europa. Así pues, la idea que hemos lanzado es: alianza con el islam en el Magreb y en Oriente Medio, pero a condición de que no se aporte ni un petrodólar para la expansión del islam en Europa. Cualquier otro planteamiento, me temo que será el preludio a un inmenso caos: porque ni el Magreb ni Oriente Medio son zonas en las que pueda instalarse una democracia a la europea, ni Europa es, culturalmente, una tierra de promisión del islam. Así que hace falta ser claros y establecer políticas en función de esa claridad y de esa racionalidad.

Usted comentaba en el periódico IdentidaD en el año 2008 que el proyecto político concreto del gobierno de Zapatero era el ‘Universalismo Humanista’. Estamos viendo desde que el Sr. Rajoy empezó a gobernar que las medidas que está tomando son la continuación, en cierta medida, de las del Sr. Zapatero ¿Qué proyecto político concreto está siguiendo el gobierno de Rajoy? ¿Qué desarrollo ideológico está llevando a cabo la política del PP en la actualidad?

IdentidaD pudo aparecer con una tirada inicial de 15.000 ejemplares y final de 10.000 durante 34 números, si no recuerdo mal, desde 2008 hasta 2011. A pesar de venderse en kioscos, la revista fue completamente irrelevante y nunca tuvo una política de promoción y marketing, así que pasó casi completamente desapercibida en nuestro ambiente político. Yo aportaba contenidos (prácticamente el 75% de los artículos publicados). Fue una pena que no llegáramos a tiempo para someter a juicio la gestión del PP en el poder. Era fácil atacar al zapaterismo porque, no solamente en su doctrina, sino en sus gentes, en sus gestos, en sus actitudes y en su gestión, era una banda sencillamente de incapaces, culpables junto a la corrupción del “felipismo”, de haber literalmente vaciado al PSOE de elementos de valía personal y de capacidad técnica. Si pensamos que hoy Rubalcaba es lo mejor que le queda al PSOE podemos entender el estado de putrefacción de ese partido.

En realidad, las raíces de los problemas de hoy hay que buscarlas en el tardo- franquismo: allí empezó la crisis de la enseñanza, el modelo económico basado en el “ladrillo” y en el turismo, la desintegración social, que luego se han ido agravando sin parar.

Es indudable que Felipe González realizó una muy mala negociación para nuestro ingreso en la Unión Europea que costó el desmantelamiento de sectores amplios de nuestra economía (industria pesada, siderurgia, astilleros, minería), luego Aznar creó un modelo económico insensato basado en “ladrillo”, salarios bajos, inmigración masiva y acceso fácil al crédito, que generó la burbuja inmobiliaria. Las bombas del 11–M generaron el que un incapaz, rodeado de una banda de gente más incapaz todavía, llegara al poder, no hiciera nada para detener la burbuja inmobiliaria, abriera las puertas de par en par a la inmigración e intentara realizar una tarea de “ingeniería social” según las orientaciones de la UNESCO, para luego, cuando estalló la crisis, negarla primero y afrontarla después de manera errónea transformando la crisis inmobiliaria en crisis de endeudamiento público.

Y en eso llega Rajoy: un hombre que durante la campaña electoral prometió que la economía con él volvería a ir bien ¡por que estimularía el sector de la construcción!, palabras propias, sino de un ignorante, sí de al menos de alguien que se ha preocupado mucho de triunfar en guerra intestinas dentro del PP, pero muy poco por leer la prensa diaria.

¿Qué está haciendo Mariano Rajoy? Básicamente lo mismo que hizo Zapatero. De ahí que cuando en Twitter se alude al “PPSOE” y yo mismo, cuando durante los 34 números de IdentidaD decía que las políticas del PP y del PSOE eran las dos caras de una misma moneda, tengamos razón. ¿Cuáles son los en los que Rajoy insiste?

1) Hay que afrontar los compromisos adquiridos con Europa: especialmente con entidades de crédito francesas y alemanas, así pues hay que devolver los préstamos que la banca española recibió y precisamente por eso, con entidades de esos países a la vista de que nuestra banca habría quedado colapsada si no hubiera recibido 250.000 millones de ayudas públicas. El PSOE dio esas primeras ayudas, el PP las ha seguido dando.

2) Hay que mantener a 7.000.000 de inmigrantes de los que 1.500.000 ya tiene nacionalidad española… pero no trabajo. 500.000 son jubilados europeos que viven de maravilla o son estudiantes Erasmus, 1.250.000 trabajan y cotizan por las franjas salariales más bajas y el resto viven de la caridad pública. Así pues, tenemos un excedente de inmigración de 5.000.000 de personas que no se van ni se piensan ir por dura que sea la crisis (y los que se van a su país siguen empadronados aquí con la intención de que al cabo de 10 años de llegar obtengan la doble nacionalidad que les permita buscar trabajo y vivir en su país de origen o en la UE). El PP inicio el fenómeno migratorio con Aznar, Zapatero abrió las puertas de par en par y Rajoy no ha tomado ni una sola medida para cerrarlas.

3) Tanto el PSOE desde el “felipismo” como el PP en el período de Aznar y hoy con Rajoy, llevan adelante una política fiscal basada en penalizar a las rentas procedentes del trabajo y reducir la presión fiscal sobre las rentas procedentes del capital. No es privativo de España, ciertamente, porque es la política dictada por los “señores del dinero” en todo el mundo. Lo que significa que tanto PP como PSOE tienen en los temas importantes la misma hoja de ruta impuesta por otros a los que no votamos, ni que nos presentan sus programas.

4) Rajoy es un liberal moderado que coexiste con liberales radicales en su propio partido (empezando por Esperanza Aguirre y terminando por el mini grupo mediático de Intereconomía) cuya política no es muy diferente de la de un Zapatero que aceptaba las privatizaciones, “mientras no afectaran a los servicios sociales básicos”.

5) Rajoy, como Zapatero, son partidarios del soft–power, el poder blando, diversificando los centros de poder, transfiriendo competencias a Europa “por arriba” y a las comunidades autónomas “por abajo”. Por eso no hay reformas en la administración, ni se alude a renegociar el acuerdo de adhesión con la UE, ni a realizar modificación alguna en el texto constitucional. Las únicas reformas que se han planteado en el mercado laboral son continuación de las que ya realizó Zapatero: aumentar la competitividad rebajando indemnización por despido, disminuyendo coberturas sociales y limitando los salarios: pero será difícil alcanzar las condiciones laborales de China o de Vietnam, las únicas que podrían devolvernos competitividad en un mundo globalizado.

6) ¿Cuál es, pues, la política que sigue Rajoy? Neocapitalismo globalizador. Sólo eso y nada más que eso: tendencia progresiva a las privatizaciones para aumentar la concentración de capital, aceptación acrítica del fenómeno globalizador y aceptación del fatum iniciado con Felipe González: lo ya firmado, es innegociable y hay que esperar a que conduzca a sus últimas consecuencias, por dramáticas que sean. Todo el problema consiste en preparar a la sociedad.

Cambiando de tema y para finalizar, desearía preguntarle sobre la masonería. Como experto en Masonería y Sociedades Secretas ¿qué diferencias básicas existen entre la Masonería de finales del siglo XIX, en la cual estaban grandes literatos y filósofos, y la masonería actual?

Se tiene tendencia a pensar que la masonería es una sociedad unitaria en su estructura y en su doctrina. No es así. Dentro de la masonería hay múltiples Obediencias (redes de logias que aceptan una autoridad común) e innumerables Ritos (distintas liturgias rituales practicadas en cada logia, que varían extraordinariamente) en cada país. Y, por lo mismo, incluso en los momentos en los que masonería ha sido más preeminente respecto a la sociedad de su tiempo (de mediados del siglo XVIII al primer tercio del siglo XX) las opiniones políticas, los criterios doctrinales y las inspiraciones ideológicos han sido múltiples y muy diversificadas. Encontramos junto al tradicionalista Josep de Maistre, a ultra revolucionario como un Danton, sin ir más lejos. Es decir, junto a ideas tradicionalistas, se difundían ideas liberales avanzadas.

Siempre la masonería ha sido un “pastiche” ideológico (hoy mismo, en España, hay presencia de todos los partidos políticos (PP, PSOE, IU, CiU, ERC, PNV, etc, con una “leve” preeminencia de miembros del PSOE) en el que lo mejor se ha juntado con lo peor… Pero si hay que encontrar una línea preponderante en la masonería histórica es, sin duda, el ser el motor de las revoluciones liberales, desde 1789 a la II República y desde Kemal Ataturk hasta Sandino. Allí donde se ha instaurado una logia masónica, antes o después, desde la independencia de las colonias de Nueva Inglaterra, lo que se ha generado es una revolución liberal.

Vale la pena repasar lo que dice Evola en la segunda parte de Los Hombres y las Ruinas sobre el papel histórico de la masonería: no sirvió para otra cosa que para generar un modelo político en el que la burguesía mercantil sustituyó a la aristocracia de la sangre que había ostentado la hegemonía en el ciclo histórico anterior.

Pero la masonería no ha cambiado mucho en estos últimos 300 años: tanto al principio como ahora, allí fueron a parar arribistas en busca de “buenos negocios”, “contactos” y para codearse con el “stablishment”. La única diferencia entre otro tiempo y el nuestro es que en la actualidad, prácticamente, no queda gente de relevancia cultural y social en la masonería y en otro tiempo sí los hubo.

Esto tiene mucho que ver con el empobrecimiento general de nivel cultural que se produce en todo el mundo y especialmente en los países occidentales, con el repliegue hacia lo personal que hacen incluso los intelectuales más exhibicionistas y que les inhabilita para participar en todo tipo de asociaciones, pero también, con una bajada del listón en las condiciones de admisión en la masonería: hoy, allí, entra todo el mundo. Harina de otro costal es que permanezcan durante mucho tiempo (la mayoría apenas supera el grado de “aprendiz” y menos de un 30% de los recién llegados llegan a “maestros”…) y que su permanencia allí aporte algo a la masonería. 

¿Cuál es la realidad actual de la Masonería en nuestro país? ¿Qué planes tiene y qué objetivos se está marcando respecto a la crisis que todo Occidente está sufriendo, así como dentro de lo que es la estructuración que las sociedades están sufriendo para adaptarse al impuesto Nuevo Orden Mundial? 

La masonería en España está compuesta por unas 4.000 personas, de las que la mitad son extranjeros –habitualmente ingleses, holandeses y alemanes– que se han jubilado y residen en Alicante, Baleares, Canarias y Málaga, y han constituido logias propias que, a pesar de estar adscritas a la Gran Logia de España, tienen una total autonomía, suelen “trabajar” el Rito de York en su lengua vernácula. En cuanto a los masones específicamente españoles, no solamente son pocos, sino que la mayoría no ostentan cargos de responsabilidad en ningún terreno. Y, por si eso fuera poco, están divididos en algo más de media docena de Obediencias rivales que andan, frecuentemente, a la greña desdiciendo el mito de la “fraternidad masónica”.

Contrariamente a lo que se tiene tendencia a pensar en los medios de extrema–derecha, la masonería en España es completamente irrelevante. Aquí su momento álgido fue a mediados de los años 80, cuando Mario Conde con su equipo de la Logia Concordia nº 2 de Madrid “asalto” el Banco Español de Crédito y durante unos años hizo y deshizo a su antojo. Conde subvencionaba a la Logia Duque de Wharton, logia de investigación, y no hay que olvidar que la parte del león de su patrimonio personal lo acumuló en la operación de compra venta de Antibióticos SA, a la Montedison italiana, operación preparada y facilitada por Di Bernardo, Gran Maestre de la masonería italiana.

Pero, una vez Conde fue procesado y encarcelado, todo aquello terminó. La masonería se convirtió en algo que había sido siempre, pero que ahora quedó casi como único elemento dominante: el ser un receptáculo de arribistas en busca de alguien que pudiera ofrecerles un trabajo, un buen contacto o simplemente alguna personalidad con la que codearse… Una sociedad en la que todos van en busca de algo pero ninguno tiene nada que ofrecer es inviable a corto plazo. Y eso es lo que ha pasado.

Es falso que Zapatero fuera masón. Su inspiración no era masónica y, es más, en su ignorancia supina, probablemente ni siquiera tiene claro lo que es la masonería. Procede de León, pequeña ciudad en la que ni siquiera antes de la guerra civil existió un número significativo de masones y en la que en la actualidad tampoco hay logia. Si a alguien le interesan las “fuentes” ideológicas del zapaterismo puede recurrir a mi libro El pensamiento excéntrico (La ideología de Zapatero y su tortuoso origen) que puede adquirir como ebook en Amazon.

La crisis de la masonería española no es diferente a la crisis de la masonería mundial. Solamente en el Reino Unido (especialmente en Scotland Yard) y en EEUU (especialmente en el Pentágono), siguen teniendo la iniciativa. En las sociedades del resto de Europa, la masonería hoy es irrelevante más allá de un grupo de presión más, especialmente en Italia y en Francia y cuya influencia es cada vez más limitada.

¿Por qué se ha producido esta caída en picado de la masonería? Por tres factores:

1) La masonería fue el motor de las revoluciones liberales, la expresión organizada de la burguesía pujante que quería construir un marco político en el que fuera la casta preeminente. Una vez conseguido este objetivo (hacia el último tercio del siglo XX) la masonería dejó de producir ideas y a partir de ese momento se evidenció su mero papel de sociedad de “ayuda mutua” en el que la “fraternidad” se suele confundir con la “complicidad”.

2) Porque en estos momentos la casta hegemónica ya no es la burguesía, sino la aristocracia económica y esta se organiza mucho mejor en estructuras más elitistas: Club Bildelberg, Comisión Trilateral, etc. Desde esos centros de poder mundial se planifica cómo será el mundo del mañana, tanto en lo económico como en lo político y cultural. Hoy las logias masónicas tienen una capacidad de influir limitadísima, incluso en el mundo de la cultura. Sin embargo, Bildelberg es quien dicta cómo será el “entertaintment” de mañana, como serán los futuros equilibrios geopolíticos, dónde se destinarán las plantas de producción, cuáles serán las reglas del juego económico, etc. Esta es la competencia (insuperable) que la masonería tiene “por arriba”.

3) En su aspecto de “organización caritativa” (que es como gusta presentarse la masonería actualmente), no ha podido soportar la competencia de las ONGs (parte de las cuales, como el tronco esencial de SOS Racismo en Francia, han sido generadas en medios masónicos). Es lo que podríamos llamar la competencia de la masonería “por abajo”. Sé de logias masónicas que en la actualidad no tienen ni medios económicos para ayudar a sus “hermanos” en paro, ni siquiera para encontrarle un trabajo. Eso da una imagen de la “influencia” de la masonería en España.

En mi opinión, la masonería es una más de entre las muchas estructuras de la sociedad burguesa que han entrado en crisis. Parece cierto que, especialmente a través de EEUU y del Reino Unido, existen nexos entre Bildelberg y la masonería, pero no hay que olvidar que, contrariamente a lo que se tiene tendencia a pensar, en la actualidad no existe ninguna estructura internacional de mando que se superpongan a las lógicas nacionales, las oriente y las dirija de manera efectiva. De hecho, nunca ha existido una estructura de este tipo. La Asociación Masónica Internacional que existió en los años 30, hace décadas que se disolvió. Así pues, a la pregunta de cómo influye la masonería en el nuevo orden mundial hay que responder que poco o nada. Y, desde luego, carece de iniciativa y le resulta muy difícil superar su crisis.

Cabe preguntar sobre las fuentes de que dispongo: en primer lugar contacto directo con medios masónicos a los que conozco desde hace muchos años. En muchos países, antiguos militantes de extrema–derecha, habitualmente lectores de René Guénon, tras dar por concluida su militancia política ingresaron en logias. He seguido manteniendo contacto con muchos de ellos. Sin olvidar que es posible seguir a través de Internet la evolución y situación de las distintas Obediencias Masónicas y en Barcelona existe incluso la Biblioteca Pública Arús que es un tesoro de documentación sobre la masonería y en donde es fácil conocer y relacionarse con esos medios.

Dado que mi opinión sobre la masonería la he mantenido incluso en medios masónicos, y que hablo con conocimiento de causa, esos medios, como mínimo, me tienen respeto. Por lo demás, quien desee conocer mis opiniones y evaluación sobre la masonería puede recurrir a mi libro Estudio sobre la masonería, publicado por PNL Books y que me puede solicitar directamente.

¿Qué nos espera?

Parafraseando el lenguaje utilizado en la película Gladiador, podemos resumir lo que tenemos ante la vista como “tinieblas y cenizas”. No creo que se pueda ser optimista ante la situación actual: en 1945 se produjo el cambio de paradigma que ya se venía anunciando desde los Enciclopedistas: el “humanismo universalista” (mucho más que la democracia o el comunismo) venció. Su victoria consistió en apalancarse en las atalayas de la UNESCO y de la ONU y alumbrar un ciclo de civilización que allanó el camino para la mundialización y, en economía, para la aceptación de la globalización. Mientras sigan siendo aceptados como “normales” el humanismo–universalista, mientras la mundialización sea aceptable para la mayoría la globalización, el destino final de Europa será el relativismo y la destrucción de las identidades nacionales y culturales.

A la vista de que los núcleos que reaccionan contra este sistema de valores impuesto tras 1945 son extremadamente débiles no puede esperarse que de ellos parta una recuperación o un enderezamiento. De ahí que a esta pregunta solamente pueda responderse solamente con “tinieblas y cenizas”. Evola dijo que nuestra civilización vive de todo lo que las anteriores rechazaron. Otra imagen sugestiva es la de un mundo en el que se ha retirado la luz del Sol. Tras el espejismo de la modernidad y su falso relumbrón, lo que subyace es la tristeza y decrepitud de un mundo en el que los valores que en otro tiempo se han extinguido casi completamente, la noche oscura en donde la luz del Sol ha sido sustituida por el brillo de la Luna, siempre cambiante (oscilaciones de las modas), carente de luz propia y reflejo de otro (tiempos de look, de imagen y marketing) y que incluso en ciertas noches desaparece.

André Malraux en sus conversaciones de pre–guerra con Drieu La Rochelle decía que “un fascista es un pesimista activo” y tenía razón. Creo que hoy muchos que se esfuerzan por conocer los caracteres de su tiempo no pueden ser, a pesar suyo, sino fascistas, si no se resignan a vivir al paso con la decadencia y aspiran a resistir a las “tinieblas y cenizas” del tiempo que nos ha tocado vivir.

Agradeceríamos unas palabras para el lector.

Soy yo el que debo agradecer a Manuel y Alberto el haberme dejado expresar en estas páginas que me han servido incluso para poner algo más en orden las ideas. Y al lector que me haya seguido hasta aquí, gracias también por su paciencia.

(c) Ediciones Camzo

(c) Ernesto Milá - infokrisis - ernesto.mila.rodri@gmail.com 

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dimanche, 29 décembre 2013

L’Union européenne, meilleure alliée de l’islamisation de l’Europe ?...

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L’Union européenne, meilleure alliée de l’islamisation de l’Europe ?...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par Aymeric Chauprade à Boulevard Voltaire et consacré à la question du choc des civilisations... 

Le choc des civilisations, il y a ceux qui en font un fonds de commerce, ceux qui le redoutent, sans oublier ceux qui le suscitent. Où vous situez-vous dans cette béchamel ?

Dans aucun de ces camps. Je suis un réaliste. La réalité historique s’impose à moi, c’est tout et je n’ai pas à la refaire à mon goût. Et l’histoire dans la longue durée, c’est le choc des civilisations et des peuples. Comment nier d’ailleurs le choc multiséculaire entre l’Occident et l’islam ? Bien évidemment, ce choc est à nuancer par le jeu des nations, lesquelles ont pu faire des choix contradictoires. Je sais très bien que la France de François Ier était alliée à l’Empire ottoman et que nous n’étions pas du côté de la civilisation chrétienne à Lépante. L’histoire est complexe, nuancée. Mais, dans la longue durée, la civilisation est ce qui compte par-dessus tout. C’est ce qui reste quand tout ou presque a changé, a pu dire un historien. En tant qu’historien, je constate le choc ; en tant que politique, je soutiens le dialogue (des civilisations) mais j’ai le devoir de ne pas être angélique face à l’islamisation.

Aujourd’hui, deux constats s’imposent à nous. Le premier tient au fait que dans le monde musulman, alors que les tentatives nationalistes laïcisantes (Nasser, Saddam Hussein, Bourguiba, Kadhafi…) sont désormais derrière nous, l’islam comme projet politique (mais l’islam n’est-il pas, par essence, un projet politique ?) revient en force partout. Et ce retour ramène la femme à une place d’infériorité évidente, comme il ramène les minorités non sunnites (chiites ou chrétiennes) à un statut d’infériorité. Cette révolte du monde musulman contre le glissement qui s’était produit vers des standards occidentaux, cette révolte contre une « mondialisation-occidentalisation », qui peut la nier ? Les prétendus printemps arabes ne se sont pas faits pour installer la démocratie occidentale. Ils sont l’expression de la réislamisation du monde arabe. Cette révolte va des Frères musulmans à Al-Qaïda, de l’expression politique à l’expression terroriste. Or, nous serons obligés d’en tenir compte, dans les années à venir, d’autant plus que la démographie sera largement à l’avantage de la rive sud de la Méditerranée. Malheureusement, parce que l’Européen est un oublieux de l’histoire, il laisse progressivement l’islam se rapprocher de lui en matière de capacités militaires.

Le deuxième constat est que ce réveil de l’islam se combine, en Europe de l’Ouest (mais de plus en plus, aussi, en Europe centrale, je le vois en Autriche), avec une immigration de masse en majorité musulmane, ce qui produit l’islamisation de l’Europe. En imposant le modèle du multiculturalisme au détriment de l’assimilation, l’Union européenne se révèle être la meilleure alliée de l’islamisation. C’est la raison pour laquelle il est impossible de combattre l’islamisation de l’Europe si l’on ne libère pas celle-ci de l’Union européenne.

À regarder plus loin en arrière, les guerres intra-européennes, n’auraient-elles pas été plus meurtrières que les conflits ayant opposé Orient et Occident ?

D’abord, il est dangereux de comparer les époques en matière de bilans humains. Ce sont les seuils technologiques qui expliquent avant tout ces bilans terribles. Il est évident que les guerres intra-européennes modernes ont tué des millions d’Européens du fait même de la puissance de feu au XXe siècle qui n’a rien à voir avec celle des XVIe et XVIIe siècle au moment où l’Europe affrontait l’Empire ottoman. Donc, je ne crois pas que la comparaison soit pertinente sur le plan quantitatif.

Et d’ailleurs, l’affrontement entre ces nations européennes, logées sur de petits territoires avec des démographies limitées, s’avère être l’un des facteurs les plus essentiels du progrès technologique européen – progrès qui a contribué à sa supériorité sur les autres civilisations à partir du XVIe siècle. Ce que je veux dire, c’est que jusqu’au XIXe siècle, on peut considérer que les guerres intra-européennes ont davantage été un moteur de puissance pour les Européens qu’un frein. Le XXe siècle, en revanche, a été un véritable suicide européen qui a conduit à son déclassement au profit des États-Unis.

La question des guerres entre Orient et Occident est très différente. L’islam a pu donner l’illusion d’une supériorité sur les autres civilisations durant les trois premiers siècles parce qu’il s’est étendu très vite. En réalité, il a recouvert, avec une facilité déconcertante, les vides démographiques ; mais a buté sur les civilisations denses, l’Europe féodale, l’Inde, la Chine, la Russie. Les croisades, première contre-offensive européenne à l’islam, puis l’ouverture des routes maritimes au XVIe siècle, ont donné aux Européens l’avantage grâce au contournement de l’islam pour gagner l’Asie.

Ce qui est certain, c’est que, dans l’imaginaire musulman, il y a cette idée que la marche normale du monde aurait dû être la continuation de l’expansion des premiers siècles jusqu’à l’unité islamique mondiale. Si vous étudiez les idéologies du monde arabe, qu’elles soient nationalistes ou islamistes (les deux seuls modèles importants en réalité), vous constatez qu’elles sont toutes mues par l’objectif de la revanche sur l’Occident chrétien.

C’est donc terrible à dire, mais je pense que si le monde musulman rattrapait l’Occident en puissance, nous connaîtrions un enfer bien pire que celui que nos expéditions guerrières font subir épisodiquement aux peuples musulmans. Ce serait une terrible revanche de l’histoire. Je ne le souhaite pas, mais ce n’est pas pour autant que je soutiens des guerres inutiles dans le monde musulman. Je ne vois pas en quoi massacrer régulièrement une famille de dix personnes en Afghanistan, à coups de « jeu vidéo-drone », pour tuer un hypothétique taliban, peut contribuer à la sécurité des Américains ou des Européens. Ce sont des crimes injustes qui renforcent la haine des musulmans à l’encontre de l’Occident. Imaginez un enfant qui voit un missile venu de nulle part (commandé par un type derrière une console à des milliers de km) découper en morceaux ses parents, ses frères et soeurs. Il y a l’horreur doublée de l’humiliation. Croyez-vous qu’il puisse entendre quelque chose à la théorie de l’exportation de la démocratie par l’Occident ?

L’ancestrale opposition entre thalassocratie et tellurocratie, soit le Vieux et le Nouveau Monde, vous paraît-elle être une ligne de fracture toujours pertinente ?

Oui, je le pense. Je pense que deux modèles géopolitiques possibles s’opposent pour les Européens : le bloc transatlantique, dominé par les Américains – ce que nous avons aujourd’hui, au fond, et qui fait de l’Union européenne un ventre mou de l’Amérique – et le modèle continental, qui serait Paris-Berlin-Moscou, et qui changerait complètement les données géopolitiques mondiales. Je pense que toute la géopolitique américaine continue de reposer sur la pensée de Mackinder, qui réfléchissait à la manière de conserver aux puissances maritimes (Angleterre, puis États-Unis) l’avantage sur les éventuelles unités continentales. La meilleure manière de sauver les équilibres planétaires et repousser la perspective d’une guerre mondiale entre un bloc atlantique et la Chine (et où serait alors la Russie ?), c’est d’avoir une Europe-puissance et un monde multipolaire. La construction de l’Europe-puissance passe par la destruction de l’édifice bruxellois, qui aliène les Européens à l’Amérique, pour le remplacer par une Europe confédérale, fondée sur les synergies de puissance.

Aymeric Chauprade, propos recueillis par Nicolas Gauthier (Boulevard Voltaire, 16 décembre 2013)

samedi, 28 décembre 2013

Laurent Brayard: « La grande majorité des médias français sont contrôlés »

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Laurent Brayard: « La grande majorité des médias français sont contrôlés »

Auteur : Médias-Presse-Info
 

 

 

Laurent Brayard,Français habitant en Russie et rédacteur pendant un moment à la Voix la Russie, raconte sur son blog une histoire assez étonnante qui lui est arrivée avec un journaliste français. Intrigué, nous avons voulu en savoir plus et il a bien voulu répondre à nos questions tout en nous offrant un panorama de la presse russe par la même occasion.

1) Laurent Brayard, pourriez-vous d’abord brièvement vous présenter aux lecteurs ?

Bonjour à vous, je suis un journaliste indépendant mais aussi un historien et un écrivain. Je vis en Russie, à Moscou depuis quatre ans, j’ai 41 ans. J’ai longtemps vécu en Bourgogne, ma terre de cœur mais les hasards de la vie et une grande histoire d’amour m’ont conduit vers la Russie.

2)  Sur votre blog, vous racontez une histoire vraiment étonnante. Un journaliste français, que vous connaissiez depuis longtemps, vous a avoué récemment vous avoir retiré de ses contacts twitter parce que ce que vous écriviez n’était pas dans ligne des rédactions françaises et que son rédacteur en chef lui avait fait le reproche d’être en contact avec vous. Pourriez-vous nous en dire plus ?

Je suis en France depuis quelques semaines, à cause d’un grave accident qui a manqué de me coûter la vie. Ce séjour forcé m’a fait penser un moment que je pourrais vivre à nouveau en France avec ma compagne. J’ai donc cherché du travail et j’ai écumé tous les médias nationaux et les régionaux proches de ma région. Ayant travaillé pour La Voix de la Russie, média public russe, je savais déjà que je porterais à vie une sorte d’étiquette du genre « Kremlin » sur le front ! Mais j’ai vite compris que cela serait pire encore que ce que j’imaginais. Je n’ai pas qu’un ami qui travaille dans le journalisme. J’ai été surpris de l’absence de solidarité, par les silences ennuyés à la fois de mes amis et des rédactions. L’ami dont je parle, est un ami d’enfance, il travaille pour un très grand journal régional, l’un des plus importants de notre pays. Je ne peux pas, sans lui créer des ennuis, le citer, au moins par fidélité à notre amitié et par principe, je peux seulement ajouter que le journal en question est Sud-Ouest… une très grosse boutique, le 2e quotidien régional français. La conversation que j’évoque a eu lieu dans un cadre privé, des retrouvailles entre vieux amis. Ma surprise fut grande d’entendre mon camarade pendant la moitié de notre rencontre, me marteler que je devais, supprimer mes réseaux sociaux, disparaître de la toile si je voulais un jour travailler dans le journalisme en France et vendre des livres… L’histoire que je raconte est vraie, il a été sermonné par sa rédaction pour m’avoir dans ses contacts Twitter et a dû rendre des comptes. Pendant les quelques heures de notre conversation, il a vainement tenté de m’expliquer qu’il fallait absolument que je reste dans la rédaction d’articles dans une ligne modérée centriste, le plus neutre possible et en évitant d’écrire contre la gauche et en particulier ce qui pourrait froisser les milieux gays, de gauche ou des pouvoirs en place.

3)  Mieux encore, ce journaliste explique que pour garder son poste et ne pas être mis au placard, il vaut mieux écrire dans l’air du temps. Quel regard, cela vous donne-t-il de la presse française ?

Oui c’est tout à fait ce qu’il m’a dit et redit, à savoir que je devais pour être sûr de travailler, n’écrire que dans les sillons tracés par les rédactions. Pour avoir travaillé un peu dans le journalisme et avoir écouté des amis, comme Olivier Renault, un grand journaliste ayant une vaste expérience, je savais déjà que le système était verrouillé. Il est évident que les rédactions françaises sont sous contrôle, Serge Halimi en parlait déjà depuis longtemps dans son ouvrage, Les Nouveaux chiens de garde. Depuis cette époque, le système s’est durci, je rappelle aussi que Coluche avait également démontré la concussion et la mise sous contrôle des médias dans une émission restée célèbre : http://www.youtube.com/watch?v=7JNL2OSiEZ0 . Ma vision de la presse française est donc négative, la liberté d’expression n’existe que de façade et la grande majorité des médias français sont contrôlés, rappelons que l’Etat français est propriétaire de plusieurs chaînes de télévision et subventionne de nombreuses officines médiatiques. Les autres petit à petit ont été maîtrisés, nous pourrions même dire infiltrés !

4)  Peut-on parler d’un cas isolé pour ce journaliste français, qui après tout pourrait fantasmer, ou alors est-ce bien le cas de la presse française en général ?

 Je ne pense pas qu’il s’agisse d’un cas isolé, je pense que mon ami m’a tenu ce discours eu égard à notre longue amitié, mais qu’il ne se rendait pas compte lui-même de ce que cela signifiait. Avec d’autres camarades journalistes nous avions lancé un projet, le projet Camille Desmoulins qui surveillait la presse française sur le thème de la Russie. Nous avons rentré dans des fichiers des centaines d’articles de journaux nationaux et régionaux en rentrant également les auteurs, la signature ou non de l’AFP, une notation selon une échelle de russophobie. Le travail hélas colossal ne nous a pas permis faute de financement de tenir plus de six mois, mais les résultats ont été effarants. Nous avons constaté que plus le journal avait de tirage, plus les articles publiés étaient des copier/coller de l’agence AFP. Certains journaux comme Le Parisien atteignait les 86 % d’articles de l’AFP, des régionaux un peu moins, le bon élève était Le Bien Public avec un total de 50 %. Ce simple fait démontre bien, qu’il n’y a plus de journalistes qui écrivent, seulement quelques « autorisés » signant dans de grandes vitrines médiatiques tels Le Monde ou Le Figaro. Il nous a été impossible de déterminer qui écrit dans l’agence AFP et qui contrôle l’agence mais les pistes sont limpides. Dans ce projet nous notions aussi les propriétaires des médias, nous avons été surpris du nombre de banques… En discutant avec quelques collègues ostracisés comme moi, nous arrivions tous à la même conclusion, le système formate des journalistes dans les grandes écoles, ils sont formés pour évoluer dans le cadre donné mais rares sont ceux qui font aujourd’hui du journalisme. Il faut chercher dans les médias alternatifs ou francophones étrangers pour aujourd’hui trouver de la vraie information, une information traitée sans pression et librement. Toutefois à l’heure actuelle le Sénat et Hollande récemment durant son voyage en Israël ont parlé de « nettoyer » internet, c’est dire où nous en sommes, si cela devait arriver, nous serions clairement dans une dictature démocratique, la première de l’histoire.

5)  Alors que les médias français ne cessent de montrer Poutine comme un dictateur au service duquel est la presse russe. N’est-ce pas risible ?

Oui et je peux en parler, je me suis trouvé en février 2013 dans un press-tour dans la ville d’Ekaterinbourg pour la candidature à l’EXPO 2020 avec de nombreux journalistes russes et étrangers. J’ai demandé à ceux de l’opposition, notamment communiste, s’ils pouvaient travailler librement, ils m’ont tous répondu que oui. Ceux de Komsomolskya Pravda, héritier de la Pravda étaient même chagrinés de voir comment la presse occidentale est en déliquescence, écrit sans cesse des absurdités, des inventions et des délires caricaturaux sur l’état de la presse russe. Moi-même j’ai écrit un article sans concession sur le président Poutine, dénommé Le syndrome de Borodino et j’ai boycotté les cérémonies de septembre 2012 pour le bicentenaire de 1812. Non seulement ma rédaction a publié mon article très sévère pour Poutine et le pouvoir en place, mais je n’ai pas été inquiété, loin de là. J’ajoute que le président Poutine se prête à un exercice de communication avec le peuple russe, chaque année, cela s’appelle La ligne. A l’avance les citoyens russes peuvent poster des questions, le jour même Poutine répond pendant des heures, son record étant 9 heures de suite, à des dizaines de questions, internet, téléphoniques, courriers… et qu’il répond à des questions vraiment sensibles de gens qui ne sont pas de son parti. Les questions ne sont pas choisies, le président doit subir cette épreuve, être convaincant, s’avancer sur des sujets épineux et il répond ! Toute la presse est invitée et participe, nous n’avons pas cela en France… nos journalistes et politiciens manquent de courage !

6)  Aujourd’hui, entre la Russie et la France, dans quel pays vous vous sentiriez le plus libre pour vous exprimer ?

Sans hésitation, la Russie, la liberté a changé de camp, c’est un pays qui est dans une situation économique similaire à nos trente glorieuses, c’est un pays dynamique mais qui reste ferme sur la défense de son identité et de son indépendance. Cette indépendance, la France assujettie à l’Europe et à l’OTAN ne la possède plus. Un journaliste en France doit servir le pouvoir, s’il ne le fait pas il est condamné à végéter ad vitam aeternam, voir à changer de métier. La démocratie française n’est déjà plus que l’ombre d’elle-même, n’oublions pas non plus que nous sommes dans un régime présidentiel… vendu comme démocratique. Monsieur Valls a parlé plusieurs fois d’ennemis de la République… cela démontre bien que si ces gens considèrent qu’il y a des ennemis dans notre pays… des ennemis du Peuple, c’est que la Nation est divisée. On commence par parler d’ennemis, on transgresse les lois ou on les façonne en conséquence et on termine par des persécutions et des emprisonnements. Cela ne vous rappelle rien ?


- Source : Médias-Presse-Info