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samedi, 16 mars 2013

Chi, e perchè, vuole la caduta di Assad?

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Chi, e perchè, vuole la caduta di Assad?

Obiettivo Siria tra disinformazione mediatica e mistificazione

Federico Dal Cortivo

Ex: http://www.rinascita.eu/

La Siria è sotto tiro da mesi oramai e dopo la liquidazione della Libia di Gheddafi , l’apparato bellico e mediatico degli Stati Uniti e dei suoi fidi alleati, ha iniziato a muoversi contro il legittimo presidente siriano Bashar al Assad. Una guerra al momento fatta d’ intelligence, gruppi ben armati di mercenari, operazioni sotto copertura, provocazioni, che hanno già causato migliaia di vittime tra la popolazione civile e tra le forze di sicurezza governative. I fatti riportati dai media embedded tutti allineati al mainstream imposto da Washington , ogni giorno ci dipingono una Siria nel caos, un presidente delegittimato,una forza di opposizione che gode del pieno consenso dei siriani e una popolazione in attesa di essere “ liberata” . Ne abbiamo parlato con il dott. Giannantonio Valli che è stato di recente in visita a Damasco.
 
Dott.Valli innanzitutto una premessa, lei in una recente conferenza ha esordito parlando della totale disinformazione che c’è sull’argomento Siria. Giornali, riviste, canali televisivi tutti salvo rare e lodevoli eccezioni ci propinano ripetitivamente la solita immagine degli insorti liberatori e dei governativi oppressori, come giudica la libertà di stampa in Italia oggi e in Europa in generale?


Il paradigma storico-politico dal quale l’umanità viene conformata dal secondo conflitto mondiale o per dirla più semplicemente la cornice che inquadra la ricezione delle informazioni da parte dell’uomo comune, è stato forgiato da precise centrali di guerra psicologica. Tali centrali altro non sono che le dirette eredi della Psychological Warfare Branch angloamericana. La creazione dei più diversi immaginarii è quindi, da un lato, il risultato pressoché inconscio della conformazione dei cervelli dell’uomo democratico, dall’altro dell’incessante opera dei mezzi di comunicazione di massa. Questi ultimi rispondono, in ogni Paese dell’Occidente, per il 99 per cento ai potentati finanziari, padroni pure della quasi totalità delle forze politiche maggiori. La residua libertà, di stampa e più latamente di informazione, è dovuta a voci assolutamente coraggiose, che mettono in discussione non tanto questo e quel singolo fatto, ma le radici stesse, ideologiche e storiche, del mondo attuale. Tra queste mi piace ricordare, per la loro serietà, coerenza e irriducibilità al Sistema, il quotidiano Rinascita e la rivista l’Uomo libero, come pure i siti internetici olodogma e syrian free press network. Quest’ultimo è la maggiore e più obiettiva fonte di informazione sugli eventi siriani. Come ho detto in una recente intervista radiofonica al periodico online La voce del ribelle, tale sito, oltre ad un’infinità di notizie, smentite e rettifiche, diffonde sia filmati girati dai cosiddetti ribelli «siriani», sia filmati di provenienza governativa. Tra questi, anche i telegiornali siriani, la cui diffusione viene impedita da mesi, alla faccia del pluralismo vantato dalla cosiddetta Libera Stampa, dai canali satellitari non solo occidentali, ma in primo luogo delle petromonarchie saudita, emiratica e qatariota. Li si guardi. Ognuno giudichi poi da sé, con la propria testa, la propria sensibilità, la propria coscienza. Quanto alle mie convinzioni sugli eventi siriani, oltre che sulle citate testate, mi sono basato sull’analisi degli eventi dell’ultimo trentennio, su una quindicina di volumi, reperibili con qualche impegno per ogni volonteroso che non voglia farsi accecare dalla propaganda degli aggressori, ed infine sulle impressioni ricavate dal mio viaggio in Siria nel maggio 2012. Una settimana non permette certo di conoscere la realtà di un Paese nella sua complessità. Ma io, a differenza della quasi totalità dei giornalisti di regime, ci sono stato. A mie spese. Il mio cervello non lo paga nessuno.
 
Veniamo alla Siria, che da tempo faceva parte di quella lista di “Stati canaglia” stilata dal Dipartimento di Stato statunitense e quindi prima o poi sarebbe finita sotto il mirino di Washington, quali sono state a suo avviso le ragioni principali di quest’ offensiva a tutto campo contro Damasco?


La Sua domanda mi permette di proseguire il discorso in tutta naturalezza. In effetti, come ho detto alla televisione siriana, non si può capire il problema Siria se non lo si inquadra in una più ampia visione ideologica e in una strategia economico-geopolitica. Ideologia e strategia non solo americane, ma più ampiamente mondialiste, vale a dire giudaiche. Avere bollato da decenni la Siria come «Stato canaglia» ha significato, per gli Occidentali (mi riferisco agli Stati Uniti, all’Inghilterra, alla Francia e ad Israele, eterno nemico con il quale mai Damasco ha sottoscritto un trattato di pace) tenere sotto scacco quel Paese fin dagli ultimi anni Settanta. In questa ottica, è comprensibile che la diffamazione di ogni atto del governo siriano sia stata e venga condotta col massimo della tenacia e della «buona coscienza» democratica. «Buona coscienza» che io riconosco non solo ai giornalisti della cosiddetta Libera Stampa, ma persino ai loro direttori e ai più «autorevoli» commentatori. Tra questi ultimi cito, persona tra le più velenose, l’ex ambasciatore Sergio Romano. Gran penna del Corriere della Sera, costui non perde occasione per pedissequare, con supponenza, la versione degli eventi siriani data dal foglio che lo nutre. Invero, oggi, la battaglia non la si vince tanto sul campo con le armi, quanto con la conquista dei cervelli dei sudditi democratici. Al contrario del nostro Solone, io ho potuto fare esperienza diretta, vedere coi miei occhi, toccare con le mie mani, come sia possibile manipolare le coscienze. Quella in atto è in primo luogo una guerra mediatica. Prima che sul campo, la guerra oggi si vince, ripeto, invadendo la mente degli individui. Sono quindi lieto – tristemente lieto – per avere assistito di persona alla creazione di realtà fittizie con immagini manipolate e le menzogne più sordide. In particolare, mi riferisco ai massacri compiuti nell’ultimo ventennio da Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Israele col massimo di buona coscienza e avallati dalla complicità, dalla viltà dei popoli del Libero Occidente. Prima però di trattare dell’aggressione alla Siria, mi permetta di rammentare sette altri casi di menzogna, altrettanto atroci.


1. Per l’Iraq di Saddam Hussein ricordo, del 1990, la farsa delle incubatrici svuotate negli ospedali del Quwait, coi neonati scagliati a terra dai soldati iracheni. E l’anno dopo le strisce verdi della contraerea nel cielo notturno, con le quali l’emittente al-Jazeera, da poco fondata dal Qatar con supervisione ebraico-americana, ci ha suggestionato, facendoci credere di assistere ad una «guerra in diretta». Ricordo, del 2003, la bufala delle «bombe intelligenti» e delle «fiale di antrace» – rammenta Powell, il Segretario di Stato, sventolante la mitica provetta di liquido giallo? Ricordo il cormorano nero dagli occhi rossi coperto di petrolio a «provare» l’«infamia ecologica» di Saddam. Mi permetta di sottolineare l’importanza anche dei colori nella creazione degli immaginari fissati nei cervelli delle masse, mille volte più forti di tante parole: verde, giallo, nero, rosso... E poi le fantomatiche «armi di distruzione di massa», pretesto per il nuovo massacro dopo il decennale stillicidio di bombe clintoniano. Prova generale per i successivi in Afghanistan, Libia e Siria.


2. Svaniti da ogni memoria sono i 200.000 – sottolineo, duecentomila – morti del golpe algerino compiuto nel 1992 dai militari massonici dopo la vittoria elettorale del Fronte Islamico di Salvezza. Duecentomila persone, per la quasi totalità stragizzate in un decennio. Vittime non solo i protestatari cui sarebbe andata la legittima vittoria – e della cui radicalizzazione successiva, e ribadisco: successiva, non dovremmo quindi stupirci – ma anche migliaia di semplici cittadini tacciati di connivenza. A carte ribaltate rispetto agli eventi siriani, è conferma di quanto dico l’ammissione del supergiornalista Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera del 19 gennaio. Le cito: «Si affinò la tecnica dei massacri di civili imputandoli poi agli islamici per ingraziarsi la popolazione. Mohammed Samraoui, ex numero due dell’antiterrorismo, in un libro del 2003 [...] citava una frase che usava ripetere il suo capo diretto, Smail Lamari: “Sono pronto ad eliminare tre milioni di algerini pur di mantenere la legge e l’ordine”».


3. E il massacro del popolo serbo operato dalla NATO seminando il paese di uranio. Uranio per il quale sono morti e muoiono tuttora di cancro centinaia di nostri soldati inviati in quella missione «di pace». Massacri compiuti non solo dai delinquenti albanesi , addestrati, armati e guidati dagli americani, ma anche dai bombardieri partiti dall’Italia. Dalle basi concesse al Grande Fratello Capitalista dal comunista Massimo D’Alema, promosso capo del governo alla bisogna. E quindi sbrigativamente scaricato. E qui apro una parentesi, e non parlo dei famigerati «danni collaterali», espressione da allora entrata nell’immaginario collettivo. «Collaterali», anche se furono scientemente voluti per logorare e demoralizzare i serbi. Sottolineo come obiettivo primario degli Occidentali fu, allora come oggi, silenziare i mezzi di comunicazione non conformi. E tanto più quelli nemici, in particolare le televisioni.
Allora quella serba, bombardata con qualche «distrazione» a monito contro la Cina... nell’attacco, ricorderà, morirono, istruttivamente, cittadini cinesi. E nel 2011 la televisione libica, colpita perché, dissero i virtuosi delle democrazie, «era di parte» e «mentiva». E l’anno dopo, ed oggi la televisione siriana per mano di ben istruiti terroristi, con l’uccisione di decine di giornalisti. E tutto senza alcuna protesta dei loro «colleghi» occidentali. Ultima ma non ultima riprova dell’idea occidentale di libertà di informazione: all’inizio di settembre 2012 sono stati oscurati i canali televisivi al-Ikhbariya e al-Dunya. Dopo il successo di Damasco nell’affrontare il feroce attacco occidentale, armato e mediatico, gli amministratori del satellite NileSat, hanno non solo violato i termini del contratto, ma anche brutalmente violato le regole deontologiche dell’informazione.


4. Ricordo poi due eventi gemelli: la cacciata dei giornalisti dalla città ribelle di Falluja in Iraq nell’aprile 2004, per settimane stragizzata all’uranio e al fosforo bianco dagli USA, e la cacciata dei giornalisti da Gaza nel dicembre 2008, città e terra stragizzate all’uranio e al fosforo bianco da Tel Aviv con l’Operazione Piombo Fuso. Da quell’Israele, che avrebbe aggredito l’Iran già nel 2006 se non fosse stato fermato sui confini dagli Hizbollah. Schiumando rabbia, Israele distrusse allora dall’aria, strategia dei vigliacchi, le infrastrutture civili. Ponti, strade, scuole, ospedali, abitazioni, acquedotti, elettrodotti, e quant’altro. Tutto distrutto, contro ogni norma di diritto bellico. Nessuna reazione dall’ONU, silenzio dal Tribunale dell’Aja, guaiti dal Vaticano. Al contrario, le falsità create da al-Jazeera e da al-Arabiyya, come pure i filmati girati dai terroristi, vengono ripresi da ogni televisione e giornalone occidentale. E riproposti a distanza, anche se da tempo smascherati come falsi.


5. Solleticando il buon cuore dei sudditi democratici, dei minimalisti di buona famiglia, di quelli che vedono l’albero e non si accorgono che fa parte di una foresta, l’Afghanistan è stato devastato all’insegna di «liberare le donne dal burqa». Che, infatti, è rimasto lì come prima.
In compenso, oltre ad avere impiantato enormi basi militari, fatto affari con la ricostruzione di quanto avevano distrutto, portato alle stelle la produzione di oppio, gli americani continuano a seminare stragi anche da decine di migliaia di chilometri di distanza attraverso i droni. In particolare, stragizzando qualunque assembramento «sospetto», come quelli durante le feste di nozze.


6. Quanto alla cosiddetta «primavera araba», spacciata per moti di libertà in particolare dalle sinistre di ogni sfumatura, ci accorgiamo solo ora che il vero obiettivo della messa in scena era propiziare un «inverno libico» e, Dio non voglia, siriano. Aggredita a occidente a partire da una Tunisia destabilizzata, ad oriente da un Egitto destabilizzato, bombardata dal mare e dall’aria sempre contro ogni norma di diritto bellico, la Libia ha finora visto il massacro di 120.000 suoi cittadini. Con bombe a sottrazione di ossigeno, bruciato da ogni bomba su un’area di ventimila metri quadri, tre campi di calcio. Con bombe a frammentazione. Con una pioggia di fosforo, proiettili all’uranio, missili a gas nervini. Con crani esplosi a colpi di mitra e persone sgozzate. Massacro operato dai tagliagole armati dall’Occidente, così come dai bombardamenti «umanitari» franco-anglo-americani. Ai quali si è accodato, violando la Costituzione e su istigazione del quirinalizio comunista Napolitano, lo sciacallo italiano. Nella fattispecie, il governo berlusconico, quintocolonnato dal ministro degli Esteri Frank Frattini. Ma poi, dov’erano quelli che nel 2003 appendevano gli stracci arcobaleno della «pace» contro Bush? E così la Libia è stata riportata all’ovile occidentale dopo quarant’anni di indipendenza e un’eroica resistenza durata di sette mesi fino all’assassinio del colonnello Gheddafi. Una resistenza tuttora in atto, nel silenzio della Disinformazione Corretta. E questo, aggiungo, senza contare la popolazione angariata e le decine di migliaia di lealisti tuttora incarcerati, torturati e massacrati per essere rimasti fedeli ad un legittimo governo. Ma, talora, chi semina vento raccoglie tempesta. L’11 settembre – un altro 11 settembre, ricorrenza mitopoietica dell’operazione Torri Gemelle – sono stati linciati tre marines e l’ambasciatore americano a Bengasi... ci dicono ad opera della «furia fondamentalista». La causa: una «imperdonabile» offesa inferta a Maometto dal cinema hollywoodiano. Con tutta evidenza, contro gli Apprendisti Stregoni del «laico» Occidente si sta rivoltando un mostro da loro scatenato contro Gheddafi. Nessuna pietà, me lo lasci dire, ho provato per l’ambasciatore, uno degli organizzatori dei massacri di Libia. Ne potrei provare un pizzico, per carità solo un pizzico, se l’Abbronzato di Washington si cospargesse di cenere per la morte inferta «per sbaglio», dai suoi, all’ultimo cammelliere dell’ultima oasi libica. O all’ultimo spazzino dell’ultima cittadina libica, massacrato perché pubblico dipendente.


7. Nessuno ha poi parlato, se non per un giorno, del Bahrein, ove la repressione dei moti di libertà da parte sciita, quelli sì veri, ha visto il mitragliamento della popolazione da parte degli elicotteri americani e l’invasione delle truppe saudite, chiamate dall’emiro. Inoltre, la polizia ha imprigionato e torturato decine – sottolineo, decine, il che rende l’’ampiezza della repressione – di medici, accusandoli di complicità coi dimostranti per avere curato i feriti. All’inizio dello scorso settembre, dopo un anno e mezzo dai moti, decine di manifestanti – ovviamente, i sopravvissuti – sono stati condannati a pene che giungono all’ergastolo. E questo, nel più completo silenzio della stampa e di ogni organizzazione umanitaria. E le rivolte, queste sì vere e legittime, e la repressione continuano tuttora, nel più laido silenzio della Grande Stampa Democratica.


E mi fermo, ricordando l’imbonimento mediatico, quanto alla Siria, compiuto per le stragi, veramente istruttive, di Houla, Daraya, Deir al-Safir (colpi di mortaio su un asilo, spacciati per bombardamento aereo governativo), Halfaya (scoppio di esplosivi in un covo terroristico, spacciato per bombardamento aereo governativo di una panetteria con la gente in coda... morti duecento, poi cento, poi trenta, poi venti, poi boh!), Aleppo (missili o colpi di mortaio sull’università e gli studenti in esame, sempre attribuiti al governo) ed ancora Aleppo (un’ottantina di corpi nel canale, cittadini assassinati con le mani legate dietro la schiena). Nessun problema poi, ottenuto il risultato con titoloni, ad ammettere nelle pagine interne, dopo qualche settimana, la responsabilità dei tagliagole e non del governo siriano. Tanto, cosa ricorda il suddito democratico, tra migliaia di altre notizie e in mezzo a tutti i suoi problemi? Altro che la «verità» di chi spaccia filmati girati su regia occidentale! Vedi i 40 bambini di Houla, il 25 maggio. Cadaveri veri, bambini e familiari colpiti da breve distanza o con le gole tagliate, fatti passare per vittime dell’esercito, quando tutti erano di famiglie filogovernative. Verità ammessa tre mesi dopo, ad esempio, dalla Frankfurter Allgemeine, ma ignorata da ogni altro giornalone. Cento innocenti massacrati, foto truccate, immagini scattate anni prima in Iraq e a Gaza. Di bambini vittime del fuoco americano e israeliano. Egualmente massacrati dai terroristi nelle case e per le strade sono stati, il 25 agosto, i 245 civili di Daraya presso Damasco. E sempre la strage è stata attribuita, prima di svanire d’un botto dai giornali, all’esercito.
 
L’attacco era stato preparato da qualche tempo, basta scorrere le pagine internet del Brooking Institute e del Saba Center, noti think thank della potente lobby sionista statunitense, oppure dare uno sguardo alla rivista Foreingn Policy che a novembre 2011 ospitava un intervento di Hillary Clinton dall’eloquente titolo “Il secolo pacifico dell’America” vera e propria dichiarazione bellica contro il Vicino Oriente.


Quindi stiamo solo assistendo all’applicazione della geopolitica statunitense, che andando a ritroso s’ispira a Zbigniew Brzezinski il quale nel celebre libro “La grande scacchiera” aveva tracciato le linee guida per il controllo dell’Eurasia. Lei dott. Valli che ne pensa?


In un’intervista televisiva a Damasco mi è stato chiesto: perché la Siria? Ho risposto che non è solo questione di geopolitica o di economia, ma anche di ideologia. I piani degli aggressori datano da decenni, sono piani a lunga scadenza. L’obiettivo finale, il messianico obiettivo finale, è la distruzione delle nazioni e l’instaurazione di un unico governo mondiale. A guida, ovviamente, americana. A guida, ovviamente, dell’Alta Finanza. A guida, ovviamente, giudaica. Un governo che, delira il profeta Isaia, tramuterà le spade in falci e le lance in vomeri d’aratro. E dove il leone si pascerà di fieno a fianco dell’agnello, senza mangiare l’agnello. Potenza dell’ingegneria genetica! Sappiamo che non è un complotto, un tenebroso complotto. Un complotto, quando gli scopi sono stati dichiarati a tutte lettere – ripeto: a tutte lettere – dagli stessi autori in decine di pubblicazioni? Cerchiamo di essere seri. Non prendiamoci in giro.


È una strategia pensata in ogni aspetto, non un complotto. Chi parla di complotto è un mistificatore. Uno che nuota nel torbido. O, altrimenti, un perfetto ignorante.
Di queste pubblicazioni, progenie di precedenti progetti, cito solo tre esempi.


(A) Nel 1997 Brzezinski, l’ebreo polacco da Lei citato, consigliere di sei presidenti da Carter ad Obama, democratici come repubblicani, pubblicò The Great Chessboard, “La Grande Scacchiera - Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana”. Suggerendo di adoperarsi per fare scoppiare conflitti interetnici nei più diversi paesi, Brzezinski ammonisce che in futuro «la capacità degli Stati Uniti di [continuare ad] esercitare un’effettiva supremazia mondiale dipenderà dal modo in cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forze nell’Eurasia, scongiurando soprattutto l’emergere di una potenza predominante e antagonista in questa regione».


(B) Nello stesso 1997 una trentina di neoconservatori, ventotto almeno dei quali ebrei e anime nere bushiane, lanciò il Project for the New American Century, “Progetto per il Nuovo Secolo Americano”, che rilanciava le tesi di Brzezinski, suggerendo i necessari comportamenti applicativi.


(C) Similmente, un gruppo di intellettuali israeliani capeggiati dall’influente politologo Oded Yinon aveva codificato, fin dal 1982, quindi ben quindici anni prima dei confratelli di oltreoceano, la preventiva distruzione di ogni Stato considerato nemico.


Cinque sono state le fasi di tale strategia. La prima: scagliare in una guerra contro l’Iran khomeinista un Iraq stupidamente caduto nella trappola e quindi, dopo averlo indebolito, spiazzarlo economicamente. La seconda: occupare l’Iraq e impadronirsi delle sue risorse energetiche, eliminando al contempo uno dei più tenaci nemici di Israele e interrompendo la continuità territoriale tra Siria ed Iran. La terza: occupare l’Afghanistan e impiantare basi nell’ex Asia sovietica, condizionando a nord la Russia e accerchiando da oriente l’Iran, già possedendo a sud il controllo del Golfo.


La quarta: assicurarsi, in vista di una guerra con l’Iran, le ingenti risorse energetiche libiche, spegnendo al contempo le velleità panafricaniste di Gheddafi e testando le reazioni del duo Russia-Cina. La quinta: eliminare il baluardo geografico e militare siriano, premessa per l’aggressione all’Iran.
Sull’onda delle secolari teorizzazioni massoniche dell’«Ordo ab chao, Ordine dal caos», sull’onda di quel «caos creativo» cantato nel 2006 dal Segretario di Stato bushiano Condoleezza Rice, possiamo definire tale strategia «geopolitica del caos», espressione coniata dallo storico Paolo Sensini. I Signori del Caos vogliono frantumare gli Stati laici e modernizzatori – Iraq, Libia, Siria e, anche se non è propriamente laico, l’Iran sciita di Ahmadinejad – in miniregioni in lotta una contro l’altra per motivi etnici e religiosi. Un federalismo in salsa orientale. Uno Stato dopo l’altro, la «politica del carciofo». Eliminare una foglia dopo l’altra, fino a giungere al cuore. L’ultima foglia è l’Iran. Il cuore, il nemico strategico dell’Alta Finanza, sono la Russia e la Cina. In particolare, per l’estensione del suo territorio e la ricchezza in materie prime di ogni genere, la Russia. Ma i giochi non sempre riescono, e l’ultimo osso sarà troppo duro per questa banda di assassini. Anche la distruzione economica dell’Europa, in quanto potenza alternativa agli USA, rientra nei loro piani. Quanto alle modalità dell’applicazione di tale strategia, invito ad informarsi sul rivelatore volume dell’ebreo Gene Sharp, attivo fin dal 2004, «Come abbattere un regime», edito in Italia da Chiarelettere nel 2011.
 
Quale è a suo avviso il ruolo che stanno ricoprendo la Russia,la Cina e l’Iran in questa fase?


Proprio di recente la Repubblica Islamica dell’Iran ha presentato una sua proposta di pace in sei punti per uscire dalla crisi ribadendo ancora una volta la posizione pacifica di Teheran.
Dopo avere abbandonato al suo destino la Libia, Russia e Cina hanno preso una netta posizione all’ONU ponendo il veto sulla terza «zona di non volo» pretesa (dopo la prima in Iraq e la seconda appunto in Libia) dagli aggressori mondialisti. Date le loro dimensioni, le loro economie ed i loro armamenti, Russia e Cina sono potenze globali, per cui, consapevoli della sostanziale ostilità americana nei confronti di entrambi, devono giocare su diversi scacchieri. Come che sia, all’errore storico di valutazione compiuto nel caso libico potranno rimediare con grande difficoltà. Resta la bruciante lezione, che certo non dimenticheranno. L’ipocrisia, il cinismo, l’arroganza e la violenza adoperati dagli Occidentali – l’ignobile mosca cocchiera fu la Francia – saranno una lezione perenne per chiunque voglia ancora prestare fede alle Grandi Carte, dell’ONU come delle Democrazie. Dopo l’«ingenuità» di allora, quali furono gli altri motivi dell’indecisionismo russo-cinese? Certamente la freddezza, o se vogliamo l’«equidistanza», mostrata da sempre da Gheddafi nei loro confronti. Di un Gheddafi non solo illuso dal «patto di amicizia» stipulato con l’Italia (che avrebbe dovuto tutelarlo non mettendo a disposizione dei suoi nemici le basi per un’aggressione aerea), ma anche, tutto sommato, illuso dalle «garanzie» cartacee dello statuto dell’ONU. Quanto alla politica di Russia e Cina nei confronti della Siria, devo dire che, a differenza della Russia putiniana, della Cina io non mi fido affatto. La Russia ha concreti, essenziali interessi geopolitici alla sua periferia. Se cadesse la Siria non avrebbe più sbocco navale sul Mediterraneo, ma, cosa ancora più importante, i suoi nemici occidentali avrebbero mano totalmente libera sui suoi confini meridionali. Pensiamo al caso Georgia, a ragione bacchettata duramente nel 2008. Per la Cina conta, invece, in primo luogo l’Iran, uno tra i suoi primi fornitori energetici.
L’Iran sciita sa benissimo di essere nel mirino da un lato delle petromonarchie sunnite infeudate agli americani, dall’altro degli Occidentali e di Israele. Se non vuole crollare come Stato e infeudarsi a Washington e Tel Aviv, non può assolutamente permettersi di perdere la Siria. Non solo per le affinità ideologico-religiose, ma per concreti interessi strategici geopolitici. Quanto alla proposta di pace cui Lei accenna, da un lato confesso di non averne preso documentata visione, dall’altro mi permetto di ritenerla un passo che, seppur doveroso nell’ambito della politica internazionale e mediatica, sarà del tutto infruttuoso, data la determinazione degli aggressori occidentali. Questi delinquenti politici, che in tempi più fausti sarebbero stati pubblicamente impiccati per i loro crimini – parlo di supercriminali come Sarkozy, Hollande, Obama, Erdogan, Netanyahu, i sauditi e i qatarioti, come pure dei loro portaborse italiani – si sono spinti ormai troppo avanti. Ritengo difficile, per non dire impossibile, non solo che questa banda ripieghi rientrando nei ranghi del diritto internazionale, ma anche che si arresti in una sorta di nuova guerra fredda.


Chi sono invece i nemici principali della Siria?


Ogni aggressore della Siria ha i propri obiettivi. In prima fila – per quanto silenzioso, dato che per lui agisce l’intero Occidente – resta sempre Israele, per il quale Damasco è non solo il nemico tradizionale, ma l’ultimo ostacolo per l’aggressione all’Iran, pianificata da anni.
A ruota segue il suo grande satellite a stelle e strisce. La distruzione di un altro anello dell’Asse del Male risale non ai repubblicani Bush padre né a Reagan, ma al democratico Carter.
Al Nobel per la pace Carter, al buono e mite democratico, che trentatré anni fa avviò la destabilizzazione della Siria.


Vale a dire, tre anni prima che Hafez al-Assad, il padre dell’attuale presidente, reprimesse il terrorismo dei Fratelli Musulmani, mobilitati fin dal 1971 contro il «testo ateo» della Costituzione. Sulla stessa linea si è messo, con più concreti ordini operativi, nel marzo 2005 Bush figlio.
La scoperta, in questi ultimi anni, di enormi depositi di gas e petrolio al largo delle coste siriane è un’altra motivazione per l’intervento dei predatori occidentali.


Quanto a Londra e Parigi, i due compari ricalcano un colonialismo nato nel maggio 1916 e proseguito coi Mandati loro assegnati dopo la prima guerra mondiale dalla Società delle Nazioni. Cioè, da loro stessi. Violando ogni norma, Parigi non solo staccò dalla Siria nel 1923 il territorio libanese, da sempre provincia di Damasco, ma nel giugno 1939, per ingraziarsi la Turchia in vista della nuova, programmata guerra mondiale, le cedette l’intera provincia di Alessandretta con Antiochia. Infine, un punto ancor più significativo, almeno sotto l’aspetto simbolico, è che le bande terroristiche del cosiddetto «Libero Esercito Siriano» sventolano oggi, senz’alcuna vergogna, la bandiera con la striscia verde e le tre stelle rosse. Quella dei servi, della Siria coloniale francese.


Secolare è poi l’ostilità tra Istanbul e Damasco, cui si aggiunge l’odio religioso tra la Turchia sunnita e l’Iran sciita. Nonché, con più concrete motivazioni, la volontà turca di diventare il principale crocevia, e quindi controllore, energetico dal Medio Oriente e dall’Asia Centrale all’Europa.
I regimi feudali di Arabia e Qatar, stretti agli USA fin dal febbraio 1945 da un ferreo patto in cambio della più totale acquiescenza, aggiungono ai predominanti motivi economici l’odio per il laicismo siriano che difende la convivenza delle più varie fedi ed etnie.


Intrisa di wahabismo – una ideologia messianica fondata da criptoebrei come criptoebrei furono i fondatori del clan dei Saud – l’Arabia è l’unico paese al mondo a trarre il nome non da un popolo né da un credo, ma da una famiglia. Quasi che lo Stato e il popolo siano proprietà personale di qualche migliaio di principotti. Invero, non esiste «il mondo arabo», e neppure «il mondo islamico», intesi come entità omogenee spinte contro l’Europa da un interesse comune o da un’ideologia unificante. Esistono solo paesi arabi, o islamici, in lotta fra loro. Divisi da concreti interessi, da rivalità geopolitiche, da settarismi religiosi. Paesi vassalli degli Stati Uniti, a partire dal Marocco fino agli Emirati Uniti.
Sono del tutto infondate due tesi. La prima, che vede in Siria una rivolta di popolo contro il cosiddetto «clan» alauita del presidente Bashar. La seconda, che vede in atto una guerra civile. Per quanto esistano frange di opposizione antigovernativa più o meno radicali, non è una rivolta, non è una guerra civile, cioè un conflitto fra due componenti sostanziali di una stessa società. È invece una feroce aggressione dall’esterno, voluta dagli Occidentali, dalle petromonarchie e dalla Turchia. I loro strumenti sono bande di fanatici religiosi, di sperimentati mercenari, di sadici criminali.


Contro la splendida realtà siriana di umana convivenza, l’Occidente ha scagliato centomila tagliagole. Qualche decina di migliaia di terroristi autoctoni, pressoché tutti delinquenti comuni e latitanti condannati con pene anche fino all’ergastolo; ben più numerosi e in posizione trainante sono quelli giunti dall’estero. Mercenari sperimentati in Libia, Iraq ed Afghanistan. Pazzoidi religiosi arrivati da Marocco, Algeria, Tunisia, Libano, Giordania, Yemen e Pakistan. Guerriglieri salafiti e wahabiti. intossicati da un credo ottuso, esaltati contro l’«eretico» Bashar che permette a cristiani, drusi e altri non musulmani di convivere a parità di diritti con la maggioranza sunnita.. Bande di terroristi salafiti, wahabiti, alqaedisti messe in piedi dalla CIA. Armati, addestrati, pagati e guidati dall’Occidente «laico e progressista».


Assassini che soprattutto all’inizio, quando la mano delle autorità è stata leggera per mesi, dapprima nelle zone più periferiche poi in quartieri delle grandi città hanno creato repubblichette partigiane ove regnava la violenza più cruda. Dove hanno compiuto attentati con mortai, autobombe, lanciarazzi e, ritiratisi sotto la pressione dell’esercito, con mine a scoppio ritardato. Dove hanno incendiato e distrutto monumenti millenari come il vecchio mercato di Aleppo, patrimonio dell’UNESCO. Dove hanno distrutto centinaia di scuole e ambulatori. Dove hanno sgozzato, decapitato, squartato, mutilato impiegati statali, poliziotti, amministratori, insegnanti, medici, religiosi non allineati. Dove hanno sequestrato e massacrato nei modi più efferati, nella ferrea logica di ogni partigianesimo che deve intimorire i civili con un terrore esemplare, gente di ogni età e di ogni ceto. All’inizio, diffondendo video sulle proprie prodezze, quali i «processi» agli avversari malmenati, umiliati e messi al muro, lo sgozzamento di poliziotti, l’assassinio di civili a colpi di mitra o di machete, il lancio nel vuoto di lealisti dai tetti delle case. In seguito, eliminando in massa civili di ogni età e, resi più accorti delle reazioni negative del delicato Occidente, attribuendo, spudoratamente supportati dalla Grande Stampa e dalle Grandi Televisioni, i massacri alle forze governative. In ogni caso cercando di sfiancare, logorare, demoralizzare, paralizzare il paese dall’interno, di far perdere ai cittadini la fiducia nella protezione del proprio governo. Il tutto, in attesa dell’attacco in supporto dall’esterno, con le bombe e i missili NATO. E di un più vasto bagno di sangue.


Certa è in ogni caso l’intercambiabilità degli aggressori. Il risultato è lo stesso che ad aggredire sia un Bush, bianco massone cattivo e repubblicano, o un Obama, negro massone buono e democratico. Un tizio nobelizzato per la Pace ancor prima di avere detto bah, e per questo legittimato a fare ciò che vuole. Nonché zombizzato dall’odiosa Hillary, quella dei quintali di Viagra – qualcuno lo ricorderà – distribuiti da Gheddafi per incitare i soldati a stuprare le donne dei nemici.
Il risultato è lo stesso vi sia il socialista Blair o il conservatore Cameron, il destrorso Sarkozy o il sinistrorso Hollande, i militari massoni di Istanbul o l’islamico Erdogan. Complici e pagatori pronta cassa, gli sceicchi delle petromonarchie. E a tirare le fila, Israele e l’ebraismo internazionale. Di quest’ultimo mi limito a citare il trio intellettuale rappresentato dagli ex sessantottini miliardari Bernard-Henri Lévy, Alain Finkielkraut e André Glucksmann. Coadiuvati fattivamente dall’ex ministro degli Esteri sarkozyco Bernard Kouchner, già fondatore di Medici senza frontiere, uno dei massimi istigatori al massacro di Serbia, e dal ministro degli esteri hollandico Laurent Fabius. Cinque ebrei. Come ebrei ed ebrei onorari furono e sono lo stesso Sarkozy e lo stesso Hollande. Di Fabius, poiché tutto si tiene, rammento che fu il cervello, l’ideatore eponimo della legge Fabius-Gayssot, approvata nel 1990 per tacitare ogni storico nonconforme alla vulgata sterminazionista, all’Immaginario Olocaustico. Defilatosi in seguito Fabius, tutto il merito della repressione del pensiero, tutto il merito dell’infamia, resta al comunista Gayssot, l’ennesimo utile idiota goyish.
 
Dott.Valli ci parli delle libere elezioni che si sono svolte in Siria nel maggio 2012, sulle quali è calato il silenzio mediatico teso ad avallare l’immagine di una Siria dominata da una feroce dittatura e ci parli della Costituzione siriana.


A differenza della Libia, Paese di sei milioni di abitanti divisi in centocinquanta tribù in eterna discordia tra loro, unificati solo dal carisma di Gheddafi – e tuttavia semplicemente eroico nella resistenza solitaria, per sette mesi, contro nemici perfidi e ultrapotenti – la Siria è un vero Stato. Uno Stato laico nel quale convivono una quindicina di confessioni religiose e una ventina di etnie. La scuola è gratuita. La sanità è anch’essa a carico dello Stato. Se il presidente è di religione musulmana-alauita, i vicepresidenti sono di confessione sunnita. E non solo, uno dei tre vicepresidenti è stata una donna, l’unica donna a rivestire una carica di tale importanza nel Vicino Oriente. In Arabia alle donne è persino vietato guidare la macchina. Inoltre la Siria, per quanto secondo la Costituzione il Presidente non possa essere che musulmano, è l’unico paese arabo dove l’islamismo non è religione di Stato e il credo dei cittadini non è riportato sulle carte d’identità.


Impressionanti, a confronto del deserto stepposo della Giordania, sono i cento chilometri che separano Damasco da Daraa visti dall’aereo, verdeggianti, bonificati, irrigati dalle riforme volute da Hafez al-Assad, «il padre della Siria». Un personaggio di umili origini divenuto generale d’aviazione, un modernizzatore che, appoggiato dagli intellettuali e dai tecnici del partito nazionalista e socialista Baath, «Rinascita», ha spazzato via le tracce del peggiore feudalesimo.


Che un paese assediato abbia usato ed usi un pugno saldo, ed ora un pugno finalmente di ferro, per mantenere la convivenza civile e fronteggiare una spietata aggressione esterna, non fa meraviglia. In ogni caso la Siria di Bashar al-Assad era un paese che stava vivendo una fase di dinamismo politico caratterizzato dal progetto di una nuova Costituzione – stilata da un comitato di giuristi, parlamentari e membri della società civile – e da un multipartitismo sempre più vivace.


E, soprattutto, caratterizzato da quelle libere elezioni del 7 maggio 2012 sulle quali è subito calato il silenzio, il silenzio totale da parte dei massmedia occidentali... arma la più efficace perché una qualunque cosa, come che la si voglia giudicare, neppure più esiste se non se ne parla. Non vale neppure accusare il governo di brogli. Non se parla. In ogni caso le democrazie occidentali, le nostre truffaldine democrazie del nostro beato Occidente, sono proprio le ultime a poter impartire lezioni di correttezza. Inoltre, le elezioni hanno dato una netta maggioranza ai partiti governativi. Alla tornata elettorale ha partecipato il 51,26 % degli aventi diritto, una cifra miracolosa, se pensiamo che in molte zone l’accesso ai seggi è stato impedito dai terroristi, che hanno anche assassinato numerosi candidati. Una tornata che ha visto 7.195 candidati, di cui 710 donne, contendersi i 250 seggi dell’Assemblea Nazionale che avrebbe approvato una nuova Costituzione. Prima delle elezioni il governo era retto da una maggioranza di nove partiti, tra cui il Baath. Oltre a candidati indipendenti, hanno concorso altri nove partiti, facenti parte di un’opposizione più o meno determinata ma non terroristica. Con Paolo Sensini, della genuinità della contesa elettorale sono stato testimone io stesso a Damasco.
Chiudo con qualche cifra. Su ventiquattro milioni di siriani, i nemici radicali del regime sono quattro milioni, pressoché tutti sunniti ed appartenenti alla parte più bassa della popolazione. Trogloditi, mi passi il termine, nemici delle scuole pubbliche, tenuti nel più ignorante fanatismo islamico dai loro capi religiosi, residenti nelle zone di Homs, Hama, Idlib e Daraa. All’epoca del mio viaggio in Siria le vittime, civili come militari, dell’aggressione terroristica imperversante da tredici mesi si aggiravano sulle 4000. A fine giugno erano balzate a 13.000. Terrificante la successiva scalata. A tutt’oggi, febbraio 2013, dopo soli altri otto mesi, possiamo contare, dalla parte del governo e del popolo siriano, assassinati 40.000 civili e caduti 30.000 militari – militari di leva, il «ragazzo della porta accanto», non «milizie di regime» – e 30.000 paramilitari di autodifesa. Di contro, 40.000 sarebbero i terroristi indigeni ed altri 40.000 quelli stranieri terminati dall’esercito.
 
Durante il suo recente viaggio in terra siriana ha potuto certamente raccogliere testimonianze e vedere con i proprio occhi la realtà locale, quella quotidiana fatta di uomini e donne del popolo, ce ne può parlare?


Come ho detto, ho avuto la fortuna di passare in Siria la prima settimana di maggio 2012. Ho interrogato il generale medico, cristiano figlio di contadini, direttore del maggiore ospedale di Damasco. Quotidianamente vi morivano una decina di militari, oggi infiniti di più. La nostra delegazione ha intervistato decine di soldati feriti e mutilati. Ho intervistato il presidente del parlamento. Il ministro dell’Informazione. Il governatore di Daraa, la prima città ad essere infiltrata dai terroristi. Il patriarca greco-cattolico melchita Gregorio III ci ha parlato a nome di tutte le confessioni cristiane, sostenendo il governo. Il massimo studioso vivente dell’Islam, il dottor Mohammad Albouti, lucidissimo novantenne nella moschea sunnita degli Omayyadi, nella funzione del venerdì ci ha detto testualmente: «I cittadini siriani hanno un livello di conoscenza che impedisce loro di cadere nella trappola. È proprio questa conoscenza la nostra difesa contro questa aggressione». Dopo avere citato il proverbio «È un tuo fratello anche se non è stato generato da tua madre», si è rivolto a noi: «Credo nella vostra fratellanza più che in quella dei nostri cugini arabi che falsificano la verità». Per un più dettagliato resoconto rimando al numero 73 de l’Uomo libero.


Mi consenta di citare la testimonianza di Agnès-Mariam de la Croix, suora carmelitana libanese, attiva in Siria da vent’anni, resa nell’ormai lontano 25 luglio 2012 in un convegno a Roma: «Per quanto riguarda il massacro di Homs attribuito all’Esercito governativo, ho constatato con i miei occhi un centinaio di cadaveri all’obitorio. Erano civili sgozzati dai ribelli per distruggere la vita sociale della Siria. Ho contattato e incontrato i loro familiari, che in parte conoscevo, erano cristiani e musulmani baathisti. Ho capito che il fine dei rivoltosi è la distruzione della Siria così come è stata sino ad ora. Per far ciò bisogna prima distruggere la vita sociale, ad esempio si impedisce al medico di curare gli ammalati e se non obbedisce lo si sgozza, al panettiere di sfornare il pane e così via, e poi si giunge alla distruzione della Siria. Tutto è finalizzato a far collassare la Società civile siriana. I cento morti di Homs erano cittadini che hanno osato non obbedire ai ribelli e sono stati sgozzati. Oggi la medesima tattica, impiegata ieri ad Homs, è stata perfezionata in peggio. A Damasco seimila mercenari stranieri hanno invaso la zona residenziale della capitale per seminare il terrore tra i civili; ad Aleppo dodicimila mercenari stranieri e qualche centinaio di siriani stanno seminando il panico nella “capitale economica” della Siria. Ma a Damasco i cittadini in 48 ore hanno evacuato la città ed hanno permesso all’Esercito di reprimere i rivoltosi. Questa è legittima difesa, non “crimine di guerra” come dice la stampa occidentale. Ad Aleppo non vi sono mai state dimostrazioni pacifiche o violente, come invece vi erano state a Damasco per dare l’impressione e la parvenza di una “rivoluzione spontanea primaverile” che chiedesse la libertà. Come mai adesso dodicimila miliziani, che son sbucati fuori dal nulla, marciano verso Aleppo e sono entrati nella città? Chi sono? Chi li manda? [...] Sono turchi, libici, afghani, pachistani, sudanesi, e vogliono portare solo caos e distruzione, non vogliono la libertà dei siriani come dicono i ‘media’. Da Homs a Damasco si contano 13.000 cristiani uccisi dai mercenari islamisti radicali. Cosa avverrà ad Aleppo? I vescovi siriani si sono riuniti oggi per smascherare il complotto che si cela dietro le apparenze di democrazia e libertà e fare in modo che tutti sappiano chi si nasconde dietro la rivolta, ma la stampa occidentale non vuol ascoltare».
 
Alla luce dei recenti fatti che si stanno succedendo nel Vicino Oriente, chi sono oggi i veri “nemici dei Popoli”?


Per rispondere compiutamente alla Sua domanda occorre alzare lo sguardo dalle motivazioni economiche e geopolitiche. Andare al fondo delle cose. Dal punto di vista ideologico le finalità – basate sull’eterno delirio dell’Unico Mondo guidato dagli Unici Eletti – sono quelle vantate, in otto sole parole, da un personaggio buffo ma pericoloso, l’amministratore delegato FIAT Sergio Marchionne. Quello dei maglioncini e della barba incolta. Della delocalizzazione e della miseria nazionale. Dei contributi statali a fondo perduto e degli Elkann. Cito tra virgolette tanta saggezza: «Bisogna superare l’attaccamento emozionale al proprio paese». La stessa concezione anima mister Mario Monti, nel novembre 2011 unto senatore a vita dal quirinalizio comunista e da lui messo a capo del governo. Sei mesi prima, il 28 maggio, alla Bocconi, l’esimio Salvatore delle Banche si era augurato che si estinguesse «il senso di appartenenza dei cittadini ad una collettività nazionale». Si veda su Google il video di tre minuti titolato «Monti le parole di un pazzo».


Ma la disgrazia, per Marchionne, per Monti, per tutti i mondialisti del «volemose bene» intergalattico, è che ci sono popoli, come i siriani, che al loro paese – alla loro gente, alla loro nazione, ai loro padri, ai loro figli, a se stessi – non vogliono rinunciare. Lo si intenda una volta per tutte! Non siamo all’interno di una disputa scolastica, ma di una guerra di civiltà! È una guerra politica, una guerra intellettuale, una guerra morale, una guerra spirituale, è una guerra totale quella che ci coinvolge. La posta in gioco, nel suo senso più profondo, non è il Potere, ma la Memoria e l’esistenza dei popoli, la sopravvivenza dell’Anima stessa dell’uomo.


Come ho detto a Milano il 14 luglio in una manifestazione pro-Siria, non sono mai stato politicamente corretto, non ho paura delle parole. Non è il tempo dei compromessi. È il tempo delle affermazioni assolute e delle negazioni radicali. Non è tempo di neutralità. Non è il tempo degli utili idioti che strillavano «né con Saddam né con Bush, né con Milosevic né con la NATO». Il privilegio dell’ignoranza e il vanto dell’idiozia li lascio a chi sventolò gli stracci arcobaleno con iscritto «pace». A coloro che usano ancora termini ammuffiti come colonialismo e imperialismo. Il nemico dell’uomo, il nemico dei popoli liberi non è oggi l’imperialismo. È il Nuovo Ordine Mondiale. È il mondialismo, l’universalismo. È il cosmopolitismo, la cittadinanza planetaria. Il termine imperialismo proietta le menti in un’atmosfera fuorviante, in un quadro emotivo e relazionale ottocentesco, epoca nella quale ancora vivevano e si mobilitavano le nazioni. Combattendosi l’un l’altra per i propri valori, i propri sogni, i propri deliri, i propri interessi. Legittimi o illegittimi, a noi graditi o meno che fossero. Il quadro è radicalmente mutato. Oggi stanno per scomparire tutte le nazioni, stanno per decomporsi tutti i popoli, per divenire sezioni di un osceno ammasso planetario dominato neanche più da una singola nazione, ma da una mostruosa entità finanziaria. Da una entità globale che ha inventato a suo uso e consumo, ed imposto a tutti i popoli, la farsa dei Diritti Umani. Una entità apolide che se ne serve a scopo del più bieco sfruttamento. Il re oggi è nudo, nudissimo.


L’umanitarismo, il capitalismo finanziario del quale gli Stati Uniti sono l’espressione più compiuta, è il male assoluto, un disastro come il mondo non ha mai conosciuto. Perché comporta l’annientamento di ogni cosa.


Se in passato qualche sistema politico ha distrutto gli individui, fin dalla sua infanzia il Sistema ha decomposto tutte le culture, attaccato i valori che fanno la specificità delle civiltà, privato l’uomo delle sue appartenenze naturali, ridotto le nazioni a folklore. Quando pure, nella sua giovinezza e maturità, non ha distrutto, fisicamente, interi popoli. Dei suoi complici sono parte gruppi come Amnesty International, Human Rights Watch, gli altermondialisti, i neoglobal... altro che no global ! Dei suoi complici è parte il Tribunale Internazionale dell’Aja, responsabile dell’assassinio in carcere di Slobodan Milosevic e del massacro di Libia. Tribunale mobilitato oggi contro il popolo siriano, avallando con la sua «autorità» l’operato dei tagliagole e ponendo le premesse per un’ennesima guerra. Gli «aiuti umanitari» mascherano i più torbidi interessi, quando non dirette forniture di armi. Già disse Proudhon: «Chi dice umanità cerca di ingannarti».


Se non si capisce che l’universalismo è la tara di fondo, che non è mai esistito né mai esisterà un «cosmopolita», cioè un «cittadino del mondo», che la «vera democrazia» esiste solo nella mente di Giove, che la democrazia è solo questa bieca democrazia reale, non si è capito nulla. La differenza non è più tra destra e sinistra, tra rossi e neri, e così via. La differenza è fra mondialisti e difensori del diritto dei popoli ad essere se stessi. Per distruggere le appartenenze al mondo reale – fatto di razze, stirpi, nazioni, popoli e Stati – tre sono le strategie dei Nemici degli uomini liberi.


(A) La prima è la distruzione armata degli Stati che non s’inchinano ai loro voleri: nel Vicino Oriente, in Africa, in America Latina. Ma anche in paesi europei come la Serbia. Le cito al proposito, non si potrebbe essere più chiari, il detto Glucksmann, quello dal caschetto argenteo a paggetto, sul Corrierone del 15 dicembre: «Il nuovo ordine mondiale ora passa anche per Damasco».


(B) La seconda sono le rivoluzioni colorate – arancioni, viola, gialle, rosa, verdi, dei tulipani e chi più ne ha più ne metta – contro l’Iran e i paesi ex comunisti: Serbia, Macedonia, Moldavia, Ucraina, Bielorussia, Russia (vedi le tre efebiche pussy riot, traduzione più cruda: “la rivolta della figa”), Georgia, Kirghizistan. «Rivoluzioni» studiate a tavolino da gruppi come la Fondazione Società Aperta del supermiliardario, guarda caso sempre ebreo, George Soros. L’affondatore della lira nel 1992. Il superspeculatore inventore dell’acronimo PIIGS nel 2010 coi confratelli Steven Cohen e John Paulson. Il compare di Prodi, da Prodi fatto premiare a Bologna con una laurea honoris causa.


(C) La terza è la strategia contro l’Europa. In quattro fasi: rieducazione dei suoi popoli mediante il lavaggio del cervello con le cosiddette «colpe» della guerra mondiale, in particolare la Fantasmatica Olocaustica; invasione migratoria; distruzione dello Stato sociale; riduzione in miseria dei suoi popoli. In particolare, dell’ultima fase sono artefici, attraverso colpi di Stato chiamati governi tecnici, i portaborse dell’Alta Finanza. Sempre quelli della «cittadinanza planetaria», dei predicatori della pace perpetua. Della pace eterna. Di tali golpe, due soli esempi. In Italia mister Monti, in Grecia un altro maggiordomo Goldman Sachs. E su tutto, l’occhio insonne del ciambellano Mario Draghi, già Goldman Sachs. Colpi di Stato coordinati dalle massime cariche istituzionali e avallati dalla quasi totalità dei politici, camerieri dei banchieri, complici consapevoli o semplici idioti.


Intervistato l’11 ottobre dalla TV siriana, l’ex generale libanese, cristiano, Michel Aoun, capo del Blocco per il Cambiamento e le Riforme, ha pronosticato che la Siria non cadrà. I paesi che cospirano non riusciranno a sottometterla: «La fermezza della Siria contro il complotto è molto forte, perché la crisi non ha potuto colpire il settore amministrativo, né quello giudiziario, né quello militare, nonostante tutte le enormi perdite umane ed economiche». RingraziandoLa per l’opportunità offertami, riassumo il senso della questione siriana in due frasi. 1° L’unica possibilità di salvezza per la Siria sta nel suo esercito, nei giovani militari in difesa del loro popolo; l’unica possibilità di non essere inghiottiti dalla cloaca dell’Occidente è Bashar al-Assad. 2° La Siria di Bashar al-Assad, la Siria del popolo siriano, è un esempio unico di fierezza e dignità, un rimprovero perenne per i popoli vili, un baluardo della residua libertà.
 
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NOTE
Gianantonio Valli, nato a Milano nel 1949 da famiglia valtellinese e medico-chirurgo, ha ● pubblicato saggi su l’Uomo libero e Orion; ● curato la Bibliografia della Repubblica Sociale Italiana (19891), i saggi di Silvano Lorenzoni L’abbraccio mortale - Monoteismo ed Europa e La figura mostruosa di Cristo e la convergenza dei monoteismi, i libri di Joachim Nolywaika La Wehrmacht - Nel cuore della storia 1935-1945 (Ritter, 2003), Agostino Marsoner Gesù tra mito e storia - Decostruzione del dio incarnato (Effepi, 2009), Wilhelm Marr, La vittoria del giudaismo sul germanesimo (Effepi, 2011) e Johannes Öhquist, Il Nazionalsocialismo - Origini, lotta, Weltanschauung (Thule Italia, 2012); ● redatto la cartografia e curato l’edizione di L’Occidente contro l’Europa (Edizioni dell’Uomo libero, 19841, 19852) e Prima d’Israele (EUl, 19962) di Piero Sella, Gorizia 1940-1947 (EUl, 1990) e La linea dell’Isonzo - Diario postumo di un soldato della RSI. Battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” (Effepi, 2009) di Teodoro Francesconi; ● tradotto, del nazionalsocialista Gottfried Griesmayr, Il nostro credo - Professione di fede di un giovane tedesco (Effepi, 2011). È autore di: ● Lo specchio infranto - Mito, storia, psicologia della visione del mondo ellenica (EUl, 1989), studio sul percorso e il significato metastorico di quella Weltanschauung; ● Sentimento del fascismo - Ambiguità esistenzialesare Pavese (Società Editrice Barbarossa, 1991), nel quale sulla base del taccuino «ritrovato» evidenzia l’adesione dello scrittore alla visione del mondo fascista; ● Dietro il Sogno Americano - Il ruolo dell’ebraismo nella cinematografia statunitense (SEB, 1991), punto di partenza per un’opera di seimila pagine di formato normale: ● I complici di Dio - Genesi del Mondialismo, edito da Effepi in DVD con volumetto nel gennaio 2009 e, corretto, in quattro volumi per 3030 pagine A4 su due colonne nel giugno 2009; ● Colori e immagini del nazionalsocialismo: i Congressi Nazionali del Partito (SEB, 1996 e 1998), due volumi fotografici sui primi sette Reichsparteitage; ● Holocaustica religio - Fondamenti di un paradigma (Effepi, 2007, reimpostato nelle 704 pagine di Holocaustica religio - Psicosi ebraica, progetto mondialista, Effepi, 2009); ● Il prezzo della disfatta - Massacri e saccheggi nell’Europa “liberata” (Effepi, 2008); ● Schindler’s List: l’immaginazione al potere - Il cinema come strumento di rieducazione (Effepi, 2009); ● Operazione Barbarossa - 22 giugno 1941: una guerra preventiva per la salvezza dell’Europa (Effepi, 2009); ● Difesa della Rivoluzione - La repressione politica nel Ventennio fascista (Effepi, 20091, 20122); ● Il compimento del Regno - La distruzione dell’uomo attraverso la televisione (Effepi, 2009); ● La razza nel nazionalsocialismo - Teoria antropologica, prassi giuridica (in La legislazione razziale del Terzo Reich, Effepi, 2006 e, autonomo, Effepi, 2010); ● Dietro la bandiera rossa - Il comunismo, creatura ebraica (Effepi, 2010, pp. 1280); ● Note sui campi di sterminio - Immagini e statistiche (Effepi, 2010); ● L’ambigua evidenza - L’identità ebraica tra razza e nazione (Effepi, 2010, pp. 736); ● La fine dell’Europa - Il ruolo dell’ebraismo (Effepi, 2010, pp. 1360); ● La rivolta della ragione - Il revisionismo storico, strumento di verità (Effepi, 2010, pp. 680); ● Trafficanti di sogni - Hollywood, creatura ebraica (Effepi, 2011, pp. 1360); ● Invasione - Giudaismo e immigrazione (Effepi, 2011, pp. 336); ● Il volto nascosto della schiavitù - Il ruolo dell’ebraismo (Effepi, 2012); ● L’occhio insonne - Strategie ebraiche di dominio (Effepi, 2012, pp. 604);.Quale complemento di L’occhio insonne ha in preparazione ZOG - Governi di occupazione ebraica, cui seguirà Giudeobolscevismo - Il massacro del popolo russo, aggiornamento e rielaborazione della prima parte di Dietro la bandiera rossa.
Riconoscendosi nel solco del realismo pagano (visione del mondo elleno-romana, machiavellico-vichiana, nietzscheana ed infine compiutamente fascista) è in radicale opposizione ad ogni allucinazione ideo-politica demoliberale e socialcomunista e ad ogni allucinazione filosofico-religiosa giudaica/giudaicodiscesa. Gli sono grati spunti critico-operativi di ascendenza volterriana. Non ha mai fatto parte di gruppi o movimenti politici e continua a ritenere preclusa ai nemici del Sistema la via della politica comunemente intesa. Al contrario, considera l’assoluta urgenza di prese di posizione puntuali, impatteggiabili, sul piano dell’analisi storica e intellettuale.


09 Marzo 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19556

mardi, 05 mars 2013

AMÉRIQUE HISPANIQUE : LA LONGUE MARCHE VERS L’UNITÉ (1833-2013)

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AMÉRIQUE HISPANIQUE : LA LONGUE MARCHE VERS L’UNITÉ (1833-2013)


Une version abrégée de cet entretien avec Alberto Buela a été publiée
dans La NRH, nº 65, mars-avril 2013


Né en 1946, à Buenos Aires, Alberto Buela est un philosophe argentin
qui s’est spécialisé dans l’anthropologie et la géopolitique. Sous la
dictature militaire, en 1981, il a été chargé par la Centrale
syndicale CGT (alors clandestine) d’effectuer une mission de
représentation auprès de l’OIT, à Genève. Il a ensuite vécu à Paris où
il a soutenu une thèse de doctorat à l’université de la Sorbonne sur
Le fondement métaphysique de l’éthique chez Aristote (1983). De retour
en Argentine, il a enseigné la philosophie dans plusieurs Universités
dont l’Université Technologique Nationale de Buenos Aires. Depuis
1990, ses travaux portent avant tout sur la « pensée américaine ». Il
a publié notamment : El sentido de América (1990), Pensadores
Nacionales Iberoamericanos (1992), Ensayos iberoamericanos (1994),
Hispanoamérica contra Occidente (1996), Metapolítica y filosofía
(2002), Teoría del disenso (2004) et, tout récemment, Disyuntivas de
nuestro tiempo (2012). Fondateur et directeur de la revue Disenso, il
est l’auteur d’une vingtaine de livres et de plus de cinq cents
articles.


1. Arnaud Imatz : L’Amérique hispanique a toujours été l’objet de
convoitises de la part des grandes puissances. Un des premiers
exemples d’ingérence de vaste envergure est le siège de Carthagène des
Indes, dans l’actuelle Colombie, en 1740. L’amiral basco-espagnol,
Blas de Lezo, repoussa alors les assauts d’une armada anglo-américaine
de cent quatre vingt navires et de 24 000 hommes, commandée par
l’amiral Edward Vernon, aidé du demi-frère du futur président des
États-Unis, Lawrence Washington. Au XIXe siècle, l’interventionnisme
étranger augmente considérablement. En 1806-1807, le Rio de la Plata
et Buenos Aires subissent une première invasion anglaise. En 1833, les
britanniques occupent les Îles Malouines. Mais les années 1820-1830
sont surtout marquées par le début de l’expansionnisme des États-Unis.
Le Mexique, pour ne citer que lui, se voit obligé de céder plus de 50%
de son territoire entre 1836 et 1848… Confrontés à deux siècles
d’interventions anglo-saxonnes, nombre d’historiens hispano-américains
en sont venus à s’interroger sur les origines des nations
ibéro-américaines et à remettre en cause les analyses conventionnelles
des longues et sanglantes guerres d’indépendance (1810-1825),
engendrées par l’occupation française de l’Espagne et les vagues
révolutionnaires européennes. S’agissait-il avant tout de « guerres de
libération nationale » , comme on le dit habituellement ? Ou voyez
vous en elles, à l’inverse, des résistances créoles et populaires
(avec souvent l’appui d’une majorité de Noirs et d’Indiens et le
soutien marginal de la troupe espagnole venue du vieux continent)
contre la sécession hispano-américaine ? En d’autres termes, ne
furent-elles pas des guerres civiles intra-américaines, financées par
les Anglais, qui aboutirent à la destruction de l’Empire espagnol au
bénéfice de l’Empire britannique et du monde anglo-saxon ?

Alberto Buela : La guerre d’indépendance américaine contre l’Espagne
fut bien en fait une « guerre civile » favorisée par les Anglais pour
détruire l’empire espagnol en Amérique et tirer un profit commercial
de la nouvelle situation. Il en fut ainsi hier et il en est encore
ainsi aujourd’hui. Les Anglais ne sont-ils pas toujours présents dans
les îles Malouines, à Bélize ou en Guyana ? Ne sont-ils pas
représentés par des assesseurs politiques ou des groupes de pression
dans tous nos gouvernements?

J’affirme, avec un bon nombre d’historiens, que ce fut une guerre
civile parce que dans les deux camps il y avait des Espagnols, des
Créoles, des Noirs et des Indiens. Mieux ! La population indigène
était majoritairement dans le camp espagnol.

Penser la guerre d’indépendance hispano-américaine comme une guerre de
libération est une mystification.


2. Arnaud Imatz : Avant de poursuivre cet entretien, il me semble
important d’apporter quelques précisions sémantiques. Pour désigner
l’Amérique centrale et du Sud et leurs habitants, les auteurs
européens ont pour habitude d’utiliser les termes « Amérique latine »
et « Latino-américains », le vocable « Américain » étant réservé aux
Américains des États-Unis. Vous rejetez absolument ces concepts et
vous leur préférez ceux d’Amérique hispanique et d’Hispano-américains,
ou plutôt ceux d’Amérique ibérique et d’Ibéro-américains. Pourquoi?


Alberto Buela : Premièrement, et avant tout, parce qu’au sens strict
les Latins sont les habitants du Latium, contrée ancienne au centre de
l’Italie actuelle. Ensuite, parce que le concept de latinité est une
création idéologique de Michel Chevalier, l’économiste, conseiller de
Napoléon III, qui souhaitait légitimer l’intervention de ce dernier en
Amérique hispanique. Et troisièmement, parce que le concept de latin
ne nous définit pas. Nous ne sommes « ni vraiment espagnols, ni
vraiment indiens », mais hispano-créoles. Nous sommes le produit d’une
culture de synthèse ou de symbiose entre deux cosmovisions qui se sont
imbriquées pour produire l’homme américain actuel.

Notre dette envers l’Europe est énorme (langue, religion,
institutions), mais notre matrice, notre genius loci (climat, sol et
paysage), est l’Amérique. Et nous ne devons pas l’oublier. Nous vivons
en Amérique et pensons depuis l’Amérique.


3. Arnaud Imatz : Dans un article sévère sur « Les interventions
anglo-saxonnes en Amérique hispanique», vous affirmez que depuis le
début du XIXe siècle leur nombre s’élève à 700 majeures et près de
4000 mineures. La doctrine de Monroe (1823), l’idéologie de la
Destinée manifeste (1845), la politique du Big Stick de Théodore
Roosevelt (1901), la politique de bon voisinage de Franklin Roosevelt
(1932), la théorie de la sécurité nationale de Truman (1947), le
projet de zone de libre échange des Amériques (ZLEA) de Bush et plus
généralement toutes les applications historiques des différents
principes énoncés par la diplomatie états-unienne, se résumeraient en
dernière instance, selon vous, par ces quelques mots : « L’Amérique
aux Américains… du Nord ». L’Amérique hispanique n’aurait-t-elle donc
jamais été vraiment indépendante ?

Alberto Buela : En deux-cents ans d’existence « républicaine »,
l’Amérique hispanique n’a jamais été pleinement indépendante. Elle ne
l’a été que de manière très sporadique grâce à quelques gouvernements
et quelques figures politiques. Au XIXe siècle on peut citer : Gabriel
Garcia Moreno (Equateur), Juan Manuel de Rosas (Argentine), José
Manuel Balmaceda (Chili), Porfirio Díaz (Mexique), Francisco Morazán
(République Fédérale d’Amérique Centrale). Et au XXe siècle : Getúlio
Vargas (Brésil), Juan Natalicio González (Paraguay), Luis Alberto de
Herrera (Uruguay), Juan José Arévalo (Guatemala), Juan Domingo Perón
(Argentine), Carlos Ibañez del Campo (Chili), Victor Paz Estenssoro
(Bolivia), Eloy Álfaro (Equateur), Francisco Madero (Mexique), Augusto
César Sandino (Nicaragua) et quelques autres.

Les sources du véritable pouvoir n’ont jamais été dans nos pays mais
toujours à l’étranger. Voilà le problème ! Dans leur immense majorité,
nos gouvernements ont été des « gouvernements vicaires » ou de «
remplacement ». En d’autres termes, comme dans le cas du Pape pour le
Christ, ils ont gouverné pour le compte et au nom d’un autre
souverain.


4. Arnaud Imatz : Les Ibéro-américains dénoncent volontiers les ONG
nord-américaines et les églises  évangéliques comme «  le cheval de
Troie de l’impérialisme yankee ». Qu’en pensez-vous ?

Alberto Buela : Cette intromission des États-Unis dans l’Amérique
ibérique à partir des sectes évangéliques a été dénoncée par une
infinité d’hommes politiques, d’intellectuels et d’agents sociaux,
depuis le linguiste Noam Chomsky jusqu’à l’évêque du Salvador, victime
d’un assassinat, Óscar Romero. Au Brésil, le cas est aujourd’hui
proprement scandaleux. Devant l’inconsistance de la conscience
religieuse brésilienne, ces sectes sont devenues une source de pouvoir
qui détermine l’élection des gouvernements. Elles sont un
extraordinaire groupe de pression.

Mais soyons clair ! Il ne s’agit là que d’un des nombreux mécanismes
de domination crées par les gouvernements nord-américains. Cependant,
une grande partie de la responsabilité incombe à nos gouvernements
autochtones et à l’Église catholique qui est entrée dans une terrible
crise depuis le concile Vatican II et qui a cessé de facto
d’évangéliser. L’Église ibéro-américaine s’est tellement
bureaucratisée qu’elle s’est écartée de la communauté, son lieu
naturel. Elle s’est transformée en un appareil de plus de l’État
libéral-bourgeois, cette forme institutionnelle qui nous gouverne.


5. Arnaud Imatz : Vous rejetez le multiculturalisme - idéologie née en
Amérique du Nord -, et défendez à l’inverse l’interculturalisme.
Qu’entendez-vous par là ?

Alberto Buela : Comme vous l’observez correctement, la théorie du
multiculturalisme est une création des think tanks états-uniens.  Sous
le masque du respect de l’Autre, elle « accorde des droits aux
minorités pour le seul fait de l’être et non pas pour la valeur
intrinsèque qu’elles représentent ».

C’est une fausse théorie. D’une part, elle prétend respecter
l’identité de l’Autre, tout en l’enfermant dans son particularisme,
d’autre part, elle dépolitise le débat politique en refusant de penser
en termes d’État-nation et se limite à des questions sociales,
raciales, économiques et de genre.

Je préfère la théorie de l’interculturalisme. Celle-ci nous enseigne
que dans l’hispano-créole il y a plusieurs cultures, qui conforment un
être symbiotique, porteur de la culture de synthèse dont nous parlions
à l’instant, et qui nous fait ce que nous sommes.


6. Arnaud Imatz : Vous êtes un spécialiste de l’histoire du
nationalisme grand continental ibéro-américain. Quels sont les traits
qui le définissent : la langue, la continuité territoriale, la
religion, l’adversaire commun ? Existe-t-il un « heartland »
sud-américain sans lequel « le grand espace autocentré » ne saurait
être ni pensé, ni construit ?

Alberto Buela : L’écoumène ibéro-américain (partie du monde de culture
ibéro-américaine) est constitué par tous les traits que vous
mentionnez. Il existe une langue commune, l’espagnol, qui est parlé
par plus de 460 millions d’habitants, chiffre auquel il faut ajouter
les 200 millions de lusophones pour lesquels le castillan est une
langue commode et facile à comprendre. C’est une donnée géopolitique
incontournable pour la formation du grand espace ibéro-américain.
L’autre donnée est la continuité territoriale qui permet d’assurer une
communication vitale. Les grands transports se font par terre. Ainsi,
les millions de Boliviens, Péruviens, Chiliens et Paraguayens, qui
vivent en Argentine, ne sont pas arrivés par bateaux ou par avion (ce
qu’ils auraient pu faire), mais par terre. Il en est de même des
milliers d’Argentins qui vivent en Équateur. Et le même phénomène se
produit en Amérique centrale alors qu’en Amérique du Nord, les
États-Unis tentent de faire obstacle à la continuité territoriale par
des kilomètres de murailles ou de barbelés électrifiés.

La religion est le second trait commun de l’Amérique hispanique.  Le
catholicisme y est assumé de façon hétérodoxe, c’est-à-dire en
cultivant le mélange de traditions et de coutumes ancestrales, comme
le culte de la Pachamama ou d’autres du même genre, sans gêner pour
autant le message du Christ.

Il est certain, nous l’avons dit, que la religion chrétienne dans sa
forme évangélique est utilisée politiquement comme élément de
domination et de distanciation par rapport à nous même, mais
l’assemblage profond, produit de cinq siècles d’inculturation du
catholicisme ou d’adaptation de l’Évangile par l’Église, a fini par
transformer un fait religieux en une donnée distinctive
anthropo-culturelle de l’homme ibéro-américain.

Reste enfin, « l’ennemi commun », incarné par « l’Anglais » ou le «
yankee », qui est l’élément donnant la cohésion à cette communauté
ibéro-américaine.

Pour ma part, j’ai soutenu, au nom de la CGT Argentine, lors du Second
Forum social mondial de Porto Alegre (2002), la théorie du « rombo »
(losange) en tant que proposition géostratégique pour la création du
grand espace sud-américain. Cette théorie soutient que le heartland
peut être constitué par l’union des quatre sommets du losange que sont
Buenos Aires, Lima, Caracas et Brasilia. Ce heartland possède 50 000
kilomètres de voies navigables dont les eaux sont profondes, des
réserves gigantesques de minéraux et d’immenses terres labourables et
cultivables. En un mot, il possède tous les éléments nécessaires pour
constituer un « grand espace autocentré » à l’intérieur de la
diversité du monde.


7. Arnaud Imatz : Le Marché commun du Sud (Mercosur), communauté
économique, crée en 1991, regroupant cinq pays du continent
sud-américain (Argentine, Brésil, Paraguay, Uruguay et Venezuela),
peut-il être considéré comme l’embryon d’un grand espace géopolitique,
économiquement, culturellement et politiquement souverain ?

Alberto Buela : Jusqu’à ce jour, et après vingt ans d’existence, le
Mercosur n’est rien d’autre que le marché de la bourgeoisie
commerciale de Buenos Aires et de Sao Paulo. Le reste est du
carton-pâte. Le Paraguay vit des tensions entre le Brésil et
l’Argentine. L’Uruguay vit de l’argent des porteños (les habitants de
Buenos Aires qui passent leurs vacances dans ce pays et qui y versent
leurs économies). Quant au Venezuela, il vient d’être admis cette
année, et il est donc trop tôt pour se prononcer.

De toute façon, il manque beaucoup d’éléments à cet embryon de grand
espace pour se constituer et se développer. Il est vrai que diverses
institutions ont été créées à ses côtés au cours des ans, comme la «
Communauté sud-américaine des nations », la « Banque du sud », «
l’Union des nations sud-américaines (UNASUR), mais le vrai problème
est que nous n’avons pas la volonté profonde et autonome de nous
auto-constituer en grand espace. Et je m’appuie sur deux raisons pour
le dire :

- Le Brésil, ou pour mieux dire Itamaraty, son ministère des Affaires
étrangères, n’a jamais admis d’intromission sur l’Amazone à partir des
Républiques hispaniques. Il ne permet pas l’accès par les voies
navigables à l’Argentine, à l’Uruguay ou au Paraguay via les fleuves
Paraná et Paraguay. Il ne permet pas non plus au Venezuela de
construire un oléoduc trans-amazonique pour alimenter les pays du Cône
Sud,

- Ensuite, et surtout, il n’existe pas d’« arcane » ou de « secret
profond partagé » par nos leaders politiques, qui est la condition
sine qua non de l’existence de tout grand espace.


8. Arnaud Imatz : La restauration de l’unité de l’Amérique hispanique,
sous différents modèles, est le rêve de beaucoup d’intellectuels et de
quelques hommes politiques. Elle était même déjà, et paradoxalement,
au centre des préoccupations des figures historiques de
l’indépendantisme Francisco de Miranda et Simon Bolivar. Pouvez-vous
nous présenter brièvement les principaux penseurs du « grand espace
ibéro-américain » ?

Alberto Buela : Les principaux penseurs de l’unité hispano-américaine
se sont fondés sur l’identité de nos peuples, sur leur passé culturel
commun et sur leurs luttes nationales contre l’ennemi commun :
l’impérialisme anglo-nord-américain. Certains avaient des convictions
socialistes, comme l’argentin Manuel Baldomero Ugarte (1875-1951),
d’autres nationalistes, comme le mexicain José Vasconcelos (1882-1959)
ou le nicaraguayen Julio Ycasa Tigerino (1919-2001), d’autres
démocrates-chrétiens, comme le costaricain José Figueres (1906-1990)
ou encore marxistes, comme le péruvien José Carlos Mariátegui
(1894-1930). Chacun entendait l’unité à partir de ses présupposés
idéologiques.


9. Arnaud Imatz : Les mouvements nationaux continentaux d’Amérique
ibérique ont pour caractéristiques l’anti-impérialisme et
l’anticommunisme. Ils se réclament souvent de la troisième position et
du populisme démocratique dont le principal objectif est pour eux la
restauration de la convivialité ou de la sociabilité partagée. Vous
avez déjà mentionné leurs grands leaders historiques, en particulier
Sandino, Haya de la Torre, Vargas, Ibañez del Campo et Perón. Ces
personnages ont-ils encore un écho dans l’opinion publique
ibéro-américaine ?

Alberto Buela : Sandino, au Nicaragua, n’a plus d’autre existence que
culturelle, car le gouvernement de Daniel Ortega, qui s’en réclame,
n’a plus rien à voir avec lui. Haya au Pérou et Ibañez au Chili ont
pratiquement disparu de la scène politique. Le cas de Vargas au Brésil
est différent parce que le PT (Parti des Travailleurs), qui est au
pouvoir depuis l’époque de Lula, et la CUT (Centrale unique des
travailleurs) se disent ses successeurs.

L’exemple de Perón mérite cependant qu’on s’y attarde. À la différence
des autres, il est toujours d’actualité en Argentine, non pas parce
qu’il aurait été bon ou mauvais au pouvoir, mais parce qu’il a laissé
une institution qui s’est consolidée dans la société civile : le
syndicat. Tant qu’il y aura des syndicats en Argentine le péronisme
vivra. Quant à savoir ce qu’est le péronisme c’est une autre question.
Le sociologue italien antifasciste, Gino Germani, qui avait vécu 15
ans en Argentine, est parti aux États-Unis en disant : « Je m’en vais
parce qu’en tant que sociologue je n’ai pas réussi à comprendre ce
qu’est le péronisme ».


10. Arnaud Imatz : Cela me rappelle une blague fameuse, dont on
attribue souvent la paternité à Juan Perón : «  En Argentine il y a
30% de socialistes, 30% de conservateurs, 30% de libéraux et 10% de
communistes. Et les péronistes alors ? Ah mais non ! tous sont
péronistes ». Que reste-t-il donc aujourd’hui du péronisme ? A-t-il
encore un contenu idéologique ? Est-il seulement une coquille vide, un
appareil politique qui permet d’occuper des postes ?

Alberto Buela : Écoutez, j’ai écrit un long essai intitulé Notes sur
le péronisme, qui a aussi été édité sous le titre de Théorie du
péronisme, je vais essayer de vous le définir en quelques mots. Le
péronisme est un nationalisme de « Grande patrie », de caractère
populaire, qui considère que la majorité a raison. Son contenu
idéologique se résume dans le postulat : justice sociale, indépendance
économique et souveraineté politique. Il privilégie les organisations
communautaires, les organisations libres du peuple, sur les
institutions de l’État. Il affirme être : « un gouvernement
centralisé, un État décentralisé et un peuple librement organisé ».

Pour ce qui est du Parti péroniste ou justicialiste, il est, comme
vous dites, une coquille vide et un instrument politique, qui permet
aux dirigeants d’occuper les postes lucratifs de l’Etat et de
s’enrichir pour une ou deux générations sans travailler.


11. Arnaud Imatz : L’Argentine a connu la pire crise de son histoire
économique en 2001-2002.  Après la fin de la parité peso-dollar, la
déclaration de cessation des paiements aux organismes internationaux
et l’abandon des mesures néolibérales, le pays a connu le renouveau
des politiques de signe national,  l’interventionnisme de l’Etat, la
croissance… mais aussi l’inflation. Depuis 2008, le pays est retombé
dans la récession et l’hyperinflation. C’est, semble-t-il, le retour à
la case départ. Que pensez-vous des  bilans présidentiels de Néstor
Kirchner et de sa femme Cristina Fernández Kirchner ?

Alberto Buela : L’Argentine est sortie de la terrible crise de
2001-2002 grâce à la gestion de son ministre de l’Économie, Roberto
Lavagna, qui a adopté et permis d’adopter aux provinces (n’oubliez pas
que l’Argentine est un État fédéral) des mesures économiques
incompatibles avec les mesures proposées par le Fonds monétaire
international et les organismes internationaux de crédit. Je me
souviens de celle qui eut le plus d’impact sur la vie quotidienne : la
création de pseudo-monnaies, qui permettaient d’acheter mais pas
d’épargner, car elles perdaient chaque jour de la valeur. Le résultat
a été une réactivation explosive de l’économie argentine qui, jusque
là, était  paralysée. La consommation et la demande ont augmenté de
façon exponentielle. Dans un pays ou la capacité économique était de
400 milliards de dollars (en 2001-2002), l’effet fut de multiplier par
100 la richesse nationale.

Le premier gouvernement du couple Kirchner profita de cette
réactivation et de la situation économique mondiale qui privilégiait
alors les marchandises (viandes, graminées et pétrole). Le bilan
global fut plutôt un succès. Mais cette croissance s’est rompue à
partir de 2007. La nouvelle donne est devenue manifeste au cours du
long gouvernement (2007-2012) de Mme Kirchner. L’économie argentine
est aujourd’hui en panne, la croissance est proche de zéro. La
politique que privilégie le gouvernement est celle des subsides au «
non-travail » plutôt qu’à la création d’emplois. L’insécurité et
l’inflation, véritable impôt sur les pauvres, pèsent lourdement sur la
société.


12. Arnaud Imatz : À ce jour, quel est le poids respectif des
différentes idéologies que sont le socialisme-marxiste, la
social-démocratie, le nationalisme et le populisme dans l’ensemble de
l’Amérique ibérique ? Qu’en est-il de l’influence de la théologie de
la libération, si répandue dans les années 1970-1980 ?

Alberto Buela : L’ensemble des pays ibéro-américains constitue une
masse de vingt États-nations où deux formes de gouvernements se
détachent. Il y a, d’une part, la social-démocratie, avec des
gouvernements du type Zapatero, comme hier en Espagne, ou Hollande,
comme aujourd’hui en France. Parmi eux : Roussef (Brésil), Kirchner
(Argentine), Correa (Équateur), Mujica (Uruguay) et les indigénistes
Chávez (Venezuela) et Morales (Bolivia). Je sais que certains
s’étonneront de voir ces deux derniers dans la liste, mais les faits
sont ce qu’ils sont. J’ai d’ailleurs eu l’occasion de parler avec
Morales et plus encore avec Chávez et je juge donc en connaissance de
cause.

Il y a, d’autre part, la forme libérale de gouvernement, comme Rajoy
aujourd’hui en Espagne et Sarkozy hier en France. Parmi eux : Piñera
(Chili), Santos (Colombie), Franco (Paraguay), Peña (Mexique) et
Humala (Pérou). Quant aux pays d’Amérique centrale, ils se divisent à
parts égales entre ces deux formes de gouvernement.

Si nous voulions classer ces gouvernements en utilisant, comme en
Europe, les catégories de populisme, nationalisme, gauche ou droite,
nous ne rendrions pas vraiment compte de la réalité. Tous se déclarent
en effet expressément populistes, nationalistes et de gauche. Cela
dit, la question de la signification de ces trois concepts ne manque
pas de resurgir aussi chez nous.

Ce qui est intéressant de noter, c’est que tous les gouvernements de
type social-démocrate se caractérisent par une dissonance entre ce
qu’ils disent dans leur discours politique et ce qu’ils font. Ainsi en
Argentine, on parle de lutte contre la concentration des groupements
économiques et l’on associe la principale entreprise de l’État, YPF
(Yacimientos petrolíferos fiscales) à la société nord-américaine
Chevron. En Uruguay, le président Mujica nous parle de libération et
prétend créer une entreprise nationale … pour planter et
commercialiser la marijuana.

À côté, les gouvernements de type libéral se caractérisent par une
plus grande efficacité économique dans la gestion administrative du
bien public, mais leur discours politique est d’une pauvreté
idéologique lamentable.

En ce qui concerne la théologie de la libération, elle n’est plus
d’actualité dans notre Amérique. N’oublions pas qu’elle était plus un
programme à réaliser qu’une construction concrète. Et aujourd’hui, les
quelques théologiens qui s’en réclament encore sont des fonctionnaires
des gouvernements sociaux-démocrates.


13. Arnaud Imatz : Et le socialisme-marxiste cubain, si à la mode dans
les années 1960-1970 ?

Alberto Buela : Sur Cuba j’ai une anecdote intéressante. J’ai été
invité par Chávez, en 2005, avec trois membres du comité directeur de
la CGT argentine. Chávez souhaitait alors fonder la « CGT bolivarienne
» et je me suis retrouvé, à Caracas, au milieu de 2500 délégués
hispano-américains arborant tous la chemisette rouge. Il y avait là
des membres du Front Farabundo Marti de Libération nationale du
Salvador, des Colombiens, des Brésiliens de la CUT (tous communistes)
et bien sûr les principaux représentants de la CGT de Cuba. Au nom de
la CGT argentine, j’ai fait la brève déclaration suivante : « Sans
vouloir se quereller avec Castro, ni avec le « petit » Correa
(dirigeant de la CGT de Cuba), nous disons qu’en 40 ans le mouvement
ouvrier institutionnel de Cuba n’a jamais négocié une seule convention
collective du travail et que par conséquent il n’a aucune légitimité
pour représenter les travailleurs cubains. Si Chávez adopte un
semblable modèle syndical, l’effet sera aussi étouffant que celui  de
« l’accolade de l’ours ». Et j’ai ajouté : Géopolitiquement, Cuba ne
signifie rien ni pour l’Amérique hispanique, ni pour Yankeeland, alors
que le Venezuela a beaucoup d’importance en raison de son pétrole ».
Je voulais dire par là que la ligne politique de Cuba n’affecte en
rien la politique et la géopolitique de l’Amérique hispanique. Ce que
d’ailleurs Castro lui même n’ignorait pas. Lorsqu’il se rendit en
Argentine, en 2007, après avoir pris connaissance de la « la théorie
du losange », il déclara sans détours (et la presse de l’époque en
témoigne) qu’il était tout-à-fait d’accord avec elle, qu’il n’avait
jamais rien entendu de plus anti-impérialiste, mais qu’il fallait
exclure Cuba pour ne pas compliquer davantage la réalisation du
projet.


14. Arnaud Imatz : 50 millions d’hispanophones vivent aujourd’hui aux
États-Unis. Ils dépasseront les 25% de la population en 2050. Dans un
article retentissant, écrit peu de temps avant sa mort (« Le défi
hispanique », Foreign Policy, 1er mars 2004), Samuel Huntington
s’inquiétait de cette situation. Il jugeait l’immigration « hispanique
», en particulier mexicaine, trop massive. Concentrée dans certains
États, elle n’aurait plus rien à voir, selon lui, avec l’immigration
traditionnelle aux sources et destinations beaucoup plus dispersées.
La division culturelle serait en passe de remplacer la division
raciale entre Noirs et Blancs. La reconquête du sud des États-Unis par
les mexicains immigrants serait en marche. Il serait désormais
tout-à-fait envisageable que ces États du sud se joignent à ceux du
nord du Mexique pour constituer une nouvelle République du nord :
MexAmérica. Ces inquiétudes de Huntington vous semblent-elles fondées
?

Alberto Buela : Le travail d’Huntington, que j’ai étudié avec
attention, est une forte invitation à la réflexion sur les
conséquences d’une immigration hispanique massive aux États-Unis.
Cependant, son analyse exclusivement politologique laisse de côté un
important aspect économique. Il ne tient pas compte de la force
économique du marché nord-américain, qui est le plus puissant du
monde, et qui a tous les jours davantage besoin de travailleurs
bilingues.

Dans les années 1940-1950, les Hispano-américains, qui allaient aux
États-Unis, voulaient que leurs enfants parlent l’anglais. Comme ils
subissaient une sorte de capitis deminutio (diminution de leurs
droits), ils souhaitaient que leur progéniture s’incorpore rapidement
à la société nord-américaine. Aujourd’hui, la situation s’est
inversée. Les immigrants parlant deux langues sont avantagés sur le
marché du travail. Cette nouvelle donne affecte plus particulièrement
les Noirs qui, parce qu’ils sont monolingues, perdent des postes de
travail.

Je ne crois pas qu’il y ait un risque d’occupation hispanique des
États-Unis, et cela d’autant moins qu’il n’y pas de plan établi en ce
sens. En revanche, ce qui existe aux États-Unis c’est une tendance
vers la société bilingue qui va permettre aux « yankees »,
contrairement à ce que pensait Huntington, une meilleure implantation
dans le monde.

Les nord-américains sont en train de réaliser, peut-être sans le
vouloir expressément, ce que les français ne font pas : profiter du
développement exponentiel de l’espagnol au niveau mondial pour
améliorer leur positionnement international.

Il faut en outre souligner  que tout le progrès technologique
(Internet, Web 2.0, tablettes, etc.) renforce le contact et le lien
des immigrés avec leurs racines. Le déracinement ne se vit plus
aujourd’hui comme il y a cinquante ans et le maintien des usages et
coutumes est devenu plus solide. La preuve : la plus grande fête du «
jour de la race » ou de l’hispanité, le 12 octobre, est célébrée à New
York et à Miami et non pas à Madrid.


15. Arnaud Imatz : Vous avez déclaré récemment dans un journal
madrilène : « Si le Premier ministre espagnol échoue dans sa politique
de redressement économique, il entrainera avec lui l’Espagne et au
passage vingt nations d’Amérique ». Pourquoi ? Quelle pourrait être,
selon vous, une bonne politique étrangère de l’Espagne et plus
généralement de l’UE en Amérique centrale et du Sud ?

Alberto Buela : Les gouvernements espagnols postfranquistes se sont
trompés d’option stratégique en se prononçant pour l’Union européenne
au lieu de choisir l’option américaine. Ces gouvernements
sociaux-démocrates ou libéraux sont des produits du complexe espagnol
de « L’Europe se termine aux Pyrénées ». Aucun d’entre eux n’a pris le
taureau par les cornes pour dire : « L’Espagne n’a pas a démontré ce
qui est un fait. L’Espagne doit assumer sa vocation américaine ».
C’est en Amérique que l’Espagne a acquis son sens dans l’histoire du
monde et non pas en Europe, même si elle en est un pays fondateur
depuis l’Hispanie romaine.

L’Espagnol, disciple des Lumières, est un homme très complexé face à
la France et ce qui est français. Ce complexe ou cette dévalorisation
de soi est ce qui a conduit à la grave erreur de préférer l’Europe à
l’Amérique hispanique, alors que celle-ci ouvre à l’Espagne des
potentialités illimitées sur le plan économique et culturel.

Tous les gouvernements postfranquistes ont renoncé expressément à
prendre la tête de cette communauté à laquelle ils appartiennent et
qui leur appartient de plein droit, au nom d’un européisme vide qui
les a finalement transformés en mendiants de l’Union européenne.

Quant à l’Union européenne, à mon avis celle-ci se limite avant tout à
l’entente Allemagne-France. L’Allemagne n’a que trois options
possibles: 1) le lien avec la Russie, 2) l’union avec les États-Unis
ou 3) l’entente avec la France (situation actuelle). Mais il n’y a pas
d’option ibéro-américaine pour elle. La communauté ibéro-américaine
n’est pas une priorité pour l’Allemagne. Le seul lien sérieux et
plausible de l’UE avec l’Amérique ibérique ne peut passer que par
l’Hexagone. La France, bernée et déçue d’investir en Afrique sans
aucun résultat positif, pourrait inviter ses partenaires européens à
se tourner vers notre Amérique.


dimanche, 03 mars 2013

Entretien avec Laurent Obertone

multiethnique(1).jpg

Laurent Obertone :

« Tous les pays hétérogènes ont une criminalité très forte »

Tout d’abord, avez-vous subit des pressions, avant ou après la publication de votre livre ? 
Essentiellement après. Mais elles sont sans importance : les réactions des lecteurs, en particulier des victimes, des policiers et des premiers témoins de l’insécurité, sont très favorables. Mon but est de dire la vérité, pas de ménager ceux qui ont intérêt à la dissimuler. Le terrorisme intellectuel ne gagnera pas. 
 
Comment appréhendez-vous le fait que, dans une vidéo officielle récente, Marine Le Pen fasse l’éloge de votre livre ? 
Ce qui m’importe est qu’on parle de mon livre. Je me demande plutôt pourquoi la plupart des médias et des politiciens refusent d’en parler. L’insécurité n’a pourtant rien de politique… Assurer la sécurité des honnêtes gens est un des devoirs essentiels de la société. Non seulement ce devoir n’est plus assuré, mais il devient périlleux de le faire remarquer. 
 
Avez-vous envisagé la récupération politique et comment comptez-vous la gérer ? 
J’espère que le sujet sera « récupéré » par tous ceux que la réalité criminelle intéresse. Pour l’instant, beaucoup de citoyens… très peu de médias et de politiciens. 
 
À présent, parlons du contenu de votre livre. Vous vous référez fréquemment à des anthropologues pour appuyer vos propos. Votre grille de lecture de l’insécurité diffère nettement de l’idéologie officielle dont vous refusez le misérabilisme. Pourriez-vous résumer votre analyse sociologique de ce phénomène ? 
Pour synthétiser, la violence est normale, c’est une règle évolutive, et nous sommes le produit d’une longue lutte pour la survie des plus adaptés. L’ultraviolence qui secoue notre société est le choc entre une société moraliste (la nôtre), qui a renoncé à sa violence normale, et la tribalisation de groupes – souvent issus de l’immigration – dont la violence (encouragée) envers les autres groupes est un moteur identitaire. 
 
Quels sociologues, anthropologues, ethnologues sont, selon vous, les plus aptes à nous faire analyser la situation actuelle ? 
Paradoxalement, ce sont des éthologues qui expliquent le mieux la situation. Nous ne devons pas oublier que des règles biologiques nous animent. En France, les « experts » médiatisés ont souvent un siècle de retard : pour eux le social détermine tout. Ils s’interdisent même de considérer l’éventualité de différences culturelles entre groupes d’individus, par peur d’être lynchés médiatiquement. La plupart des sociologues médiatiques sont là pour psychanalyser la violence et lui inventer des causes dénuées de toute réalité, comme je le montre dans mon livre. 
 
Comment expliquez-vous la lâcheté et l’inaction des journalistes et des pouvoirs en place ? 
Dans notre pays s’est développée une sorte de compétition morale, qui consiste à aller toujours plus loin dans l’excuse du criminel et l’oubli des victimes, et donc dans l’encouragement de la barbarie et dans la négation de la réalité. Cette morale hors-sol, devenue incontournable (il faut suivre le groupe pour ne pas en être exclu), offre un bon statut (du pouvoir), à peu de frais, car il est facile d’en assimiler les contours : il suffit de tenir un discours égalitaire et progressiste. Qu’on soit artiste, journaliste, universitaire, souvent magistrat, cette morale est quasi-indispensable pour réussir une carrière. Tant que cette morale si facile à adopter sera concrètement bénéfique, il n’y a pas de raison pour que ces gens y renoncent. Problème : cette morale hors-sol ne peut survivre qu’à condition de nier la réalité de plus en plus violemment. 
 
Qu’est-ce qui fait que la presse locale relate plus les nuisances des criminels et des délinquants que la presse nationale ? 
La presse locale a une obligation de vérité. Si elle ne relate pas les faits que les gens constatent, ils cesseront de la lire. La presse nationale en revanche peut se permettre de ne plus vivre de ses lecteurs, tant elle est subventionnée (et déficitaire), par quantité de manières, pour occuper l’espace informatif, donner l’illusion que la presse plurielle existe encore et que notre démocratie se porte bien. Ces journalistes sont des fonctionnaires. Ils peuvent donc continuer à nier la réalité, c’est même leur rôle essentiel. 
 
Pensez-vous, comme Xavier Bébin, que la construction de nouvelles prisons serait salutaire d’un point de vue judiciaire et économique, les condamnations permettant de juguler le coup de la délinquance ? 
Cela permettrait d’avoir un effet immédiat, en se donnant simplement les moyens d’appliquer la loi. Mais il faut également s’interroger sur la pertinence de vouloir à tout prix, plus tôt que plus tard, une société ethniquement hétérogène, ce que la France et les pays européens n’ont jamais été. Je montre dans mon livre que tous les pays hétérogènes ont une criminalité très forte (entre autres désagréments), contrairement aux pays homogènes. 
 
Quelles solutions préconisez-vous ? 
Mon analyse n’étant pas politique, je m’en tiens à mes constats. Pas assez de prisons, échec du laxisme, faillite morale, État incapable d’assurer la sécurité de nos concitoyens, dégâts de l’hétérogénéité… Résoudre ces problèmes est une autre étape, qui ne peut pas être abordée sans prise de conscience populaire. Mon livre est là pour ça. 
 
Pour finir, quelle est votre position sur la peine de mort. Aurait-elle selon vous un effet dissuasif en entraînant une baisse de la criminalité ? 
L’objectif premier de la justice n’est pas tant la dissuasion que le fait de faire payer au condamné le prix de son crime. Aujourd’hui, un prisonnier joue toute la journée à la Playstation, coûte très cher à la société… et est relâché souvent rapidement, même pour des crimes très graves. Plus les peines sont courtes, plus le taux de récidive réelle est élevé… La peine de mort existe bel et bien : notre société, parce qu’elle refuse de condamner des coupables, condamne des innocents à croiser leur route. 

Laurent Obertone est journaliste diplômé de l’École de Lille. Après avoir travaillé pour un hebdomadaire français, il s’est consacré à l’écriture d’un livre sur l’explosion de la violence et l’ensauvagement de la société : « La France orange mécanique » (Éditions RING, 2013)

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vendredi, 01 mars 2013

Catherine Rouvier : « Pour obtenir un résultat politique, il faut une action politique. »

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Catherine Rouvier :

« Pour obtenir un résultat politique, il faut une action politique. »

Ex: http://www.lerougeetlenoir.org/

 

Catherine Rouvier est docteur d’Etat en Droit public et en Sciences politiques de l’Université Paris II (Panthéon-Assas), ancienne élève de Sciences Po Paris et professeur à l’université de Paris XI (Orsay). Sa thèse d’histoire des idées politiques sur Gustave Le Bon, parue initialement en 1986 aux PUF avec une préface d’Edgar Faure et qui a reçu le prix Fabien de morale et de sociologie de l’Académie française, a permis de redécouvrir cet auteur qui fut le père de la psychologie collective et dont l’ouvrage Psychologie des foules, paru en 1895, connut un grand succès. Son ouvrage a été augmenté, enrichi et réédité en 2012 (avec une préface de Paul-Marie Coûteaux).

Bago : Bonjour Madame, qu’a pensé la spécialiste de la psychologie des foules que vous êtes des manifestations contre le « mariage pour tous » ?

Catherine Rouvier : Le déroulement de la manifestation ; la nature même des mots d’ordre et des chants ; la couleur rose apaisante et inoffensive des panneaux, des tee-shirts, des écharpes ; la scission des cortèges, venus de trois endroits différents, ce qui diluait l’effet de masse ; le caractère très lent de la marche, souvent stoppée par de longues minutes passées dans le froid, ce qui minimisait l’échauffement des corps mais aussi des esprits ; tout était fait pour que ne se produise pas de phénomène de foule, c’est-à-dire la fusion des individualités en un « moi collectif » animé d’une pensée commune, et parcouru de sentiments contagieux comme la colère ou l’enthousiasme. Or, seule la puissance invincible d’une véritable "foule" au sens psychosociologique du terme peut faire peur à un gouvernement jusqu’à le faire plier, comme ce fut le cas en 1984.

Nous sommes gentils !

Bago  : Que faudrait-il, le 24 mars, pour que les gentils manifestants se changent en foule ?

Catherine Rouvier : En priorité, il faut deux choses : des mots d’ordres et un chef.

Bago  : Les mots d’ordres ne convenaient-ils pas ? [1]

Catherine Rouvier : Le message, pour générer l’action, doit être simple, clair, univoque. On ne peut pas faire dire à une foule qu’on souhaite mobiliser vraiment deux choses à la fois, surtout si elles sont presque exclusives l’une de l’autre. Sinon le message est brouillé, donc inefficace. Ainsi, en l’espèce, on ne pouvait pas, d’un côté, refuser d’appeler « mariage » la légalisation de la vie commune de deux hommes ou de deux femmes et refuser que cette union ait les mêmes conséquences que celle d’un homme et d’une femme ; et, d’un autre coté, reprendre à son compte le terme même qui justifie ces revendications : la lutte contre l’homophobie. Donc mettre sur les tracts appelant à manifester, sous le mot d’ordre principal, « manif’ pour tous » (qui était déjà un clin d’œil amical à l’appellation fallacieuse de « mariage pour tous » des adversaires - ce qui n’est pas très bon), un second mot d’ordre : « lutter contre l’homophobie », lequel brouillait le message.

Bago  : Qu’en est-il du chef ?

Catherine Rouvier : Virginie Telenne, alias Frigide Barjot, s’est attirée à juste titre la sympathie et la reconnaissance des catholiques en soutenant le pape Benoît XVI dans les médias à une époque où ceux-ci ne faisaient que relayer les critiques de toutes sortes et les attaques les plus violentes contre le « pape allemand ». Mais elle l’a fait en utilisant le personnage de parodiste, forgé pour elle par son mari Basile de Koch alias Bruno Telenne (qui, lui, reste dans la dérision dans sa manifestation « le mariage pour personne » en marge de la manifestation officielle). Or, ce surnom a une connotation positive, puisqu’il évoque Brigitte Bardot, gloire nationale, très belle actrice, femme attachante, passionnée de la cause animale. Mais dans le même temps, il a la connotation péjorative à cause de deux adjectifs peu valorisants : « frigide » et « barjot ». Or le sujet est grave et comme le notait déjà La Bruyère : « Le caractère des Français demande du sérieux dans le souverain ». Un chef doit être « auréolé de prestige » , ce que la dérision exclut de facto. Il n’est pas là pour plaire, et il ne doit pas craindre d’être accusé de ne pas être « gentil ».

Un débardeur grave et solennel ?

Bago  : Pensez-vous à quelqu’un en particulier ?

Catherine Rouvier : Le chef peut être ressenti comme prestigieux à cause d’un titre, d’une fonction, ou d’un exploit passé qui l’a fait connaître et admirer. Mais aussi parce qu’il se sera déjà exprimé fermement sur le sujet. Par exemple, le Rabbin Berheim, ou un évêque, comme ceux de Toulon, de Bayonne, ou de Vannes. Cela pourrait aussi être Marine Le Pen. Elle a refusé de se prêter au « jeu » des précédentes manifestations, comprenant l’intérêt d’être dans le registre sérieux qui la caractérise, mais s’est exprimée fermement, aussi bien contre la récente exhibition des Femen à Notre Dame que contre le « mariage homo », déclarant clairement qu’elle abrogerait le texte sitôt arrivée au pouvoir. Dans les rangs du l’UMP, on nuance, on finasse. Jean-François Copé a manifesté, mais interviewé par les journalistes pendant la manifestation, il a dit que ce qui le gênait surtout, c’était la GPA et la PMA, plus que le texte lui-même : message non clair, là encore. Monsieur Guaino a fait un beau témoignage, émouvant, sur sa propre difficulté à avoir vécu une enfance sans père. Mais il a atténué considérablement l’effet produit en protestant lui aussi longuement contre l’« homophobie » comme s’il était accusé et non accusant. François Fillon a été le plus clair, parlant lui aussi d’abrogation, mais brièvement, dans une intervention liminaire au vote à l’Assemblée, non médiatisée. Quand aux centristes, entre ceux qui « se sont trompés de bouton » et « ceux qui étaient sortis au moment du vote » (zut, pas de chance, c’est déjà voté !), on ne les voit pas en leaders sur ce sujet !

Bago  : Quelles sont les autres conditions du succès ?

Catherine Rouvier : Changer de style. Le souci de satisfaire une mode « festive » et son métier, le spectacle, ont conduit Frigide à organiser une sorte de parodie de gay pride avec chars, chants, musique disco et techno, « tubes » de l’été… La scène dressée sur le Champ-de-Mars évoquait un theâtre, une émission de télé-divertissement, pas un meeting politique. Seul le jeune Xavier Bongibault a eu un mot politique. Il a comparé Hollande à Hitler parce qu’il veut « enfermer les homos dans une définition dictée par leurs choix sexuels ». Mais pour cette remarque, à l’efficacité médiatique immédiate, il s’est fait tancer par Frigide, et s’est tout de suite excusé. Ce choix du festif et du non-politique n’est pas mobilisateur, car il maintient les manifestants dans le bien-être des retrouvailles de ceux-qui-pensent-comme-eux, et les bercent de la certitude fallacieuse d’une opinion largement répandue. Se réunir devient alors le but de la réunion. Par ailleurs, à cette foule qui attendait des mots d’ordre parce qu’elle avait reçu un choc - celui d’un projet de loi ouvrant le mariage à deux hommes entre eux ou à deux femmes entre elles - la réponse apportée par Frigide Barjot a été de dire que c’était pas vrai, qu’à un enfant il faut un papa et une maman, que les enfants naissent d’un homme et d’une femme. Et la foule a récité ou chanté cela un peu comme une litanie ou une comptine apaisante et auto-convaincante. Mais on ne lui a pas demandé (et on le lui a même interdit - les mots d’ordre et chants étant limités et imposés) de dire que ce n’est pas bien. Pour obtenir un résultat politique, il faut mener la foule vers une action politique.

Bago  : Pensez-vous qu’il serait alors possible de transformer l’essai ?

Catherine Rouvier : Oui, mais à certaines conditions. La foule est « expectante », dit le Bon. Son attente dure-t-elle après cette marche impuissante à modifier le cours des choses ? Là est la vraie question. Le vote mardi dernier [12 février 2013, ndlr] de l’article 1 disposant : « le mariage est ouvert aux personnes de même sexe » a sans doute été un deuxième choc, d’autant plus que l’annonce en a été faite alors que des manifestations avaient lieu en même temps en province devant les préfectures. Alors oui, on peut en effet imaginer qu’une foule immense réunie à nouveau le 24 Mars, sans flons flons, en un immense ruban compact comme en 1984 - et non divisée en trois cortèges, avec des slogans, banderoles et chants non pas imposés par le rose bonbon mais décidés par des chefs d’établissements scolaires, des religieux, des paroissiens, des chefs de syndicats et de partis, qui défileront suivis de leurs adhérents ou ouailles, dans une gravité et une colère véritable contre la dénaturation de notre modèle sociétal. Ceux qui l’imposent pourraient faire changer le cours des choses.

Mais la « réactivation mémorielle » étant une condition de la mobilisation des foules, il faudra que les organisateurs produisent des témoignages, non comme ils l’ont fait jusqu’ici d’enfants heureux d’avoir été adoptés par des parents de sexe opposé (encore une fois là, on n’attaque pas, on oppose une affirmation à une autre) mais des témoignages poignants, révoltants, ceux de ces enfants malheureux parce qu’ignorant leurs origines après PMA et qui ont écrit leur douleur dans des livres, ceux de ces adultes élevés par deux femmes ou deux hommes et qui ont été dans l’incapacité de construire une vie affective et l’ont avoué récemment dans la presse, celui de l’effarant procès de cette femme aux Pays-Bas ayant vendu à trois couples l’enfant qu’elle portait, et des conséquences terribles pour le bébé « ballotté » d’un foyer à l’autre au rythme des décisions de justice. L’empathie est l’autre source du phénomène de foule.

Autre modification nécessaire : il ne faudra pas isoler par un « cordon sanitaire » les manifestants du reste de la rue comme çela a été fait le 13 janvier. Pour que la foule agisse, qu’elle remporte le combat qu’elle livre, il faut que la rue puisse la rejoindre, la suivre, s’y agréger, il faut que la rue réagisse. Pour et contre, pourquoi pas ? La manifestation de Civitas du 18 novembre a été portée à la connaissance du monde entier en moins de 2 heures par les médias à cause de l’attaque des Femen. Il ne s’agit pas de provoquer les incidents, mais il faut laisser les adversaires montrer ce qu’ils sont et ce qu’ils veulent. La présence de la police doit suffire à éviter les débordements.

Enfin, la présence à cette manifestation du plus grand nombre d’étrangers présents en France, de croyants français non chrétiens - musulmans, voire confucéens - ainsi que des Français d’outre-mer résidant en métropole qui, comme Bruno Nestor Azerot, sont scandalisés par cette loi, est indispensable au succès de ce combat. Comme une majorité écrasante d’entre eux ont voté socialiste et que certains d’entre eux, les étrangers, seront appelés à voter très bientôt par le pouvoir en place, leur présence dans la manifestation interpellera plus sûrement les dirigeants que les gentilles mères de famille versaillaises qui - ils le savent bien - n’ont jamais voté et ne voteront jamais pour eux. Les contrarier, en effet, ne change rien à leurs chances de réélection !

Bago  : Quel résultat peut-on attendre ?

Catherine Rouvier : Dans l’Histoire, les foules ont fait des révolutions, des coups d’Etat, mais aussi des obstructions au bon fonctionnement des institutions. Dans le cas présent, des milliers d’officiers municipaux sont opposés à ce projet. Devront-ils se démettre de leurs fonctions, renoncer à leur mandat parce qu’ils se seront mis en infraction en refusant d’appliquer cette loi et donc de « marier » des hommes entre eux ou des femmes entre elles ? Un joli but politique serait alors atteint pour l’actuelle majorité : démission garantie de tous les maires catholiques de droite, et des élus « réfractaires » de gauche ! Ne vaudrait-il pas mieux prendre les devants, et que les maires disent comme Mirabeau qu’ils sont dans leur mairie « par la volonté du peuple et qu’ils n’en sortiront que par la force des baïonnettes », mais qu’on ne les forcera pas à faire cet acte contraire à leur conscience ? Ce sont les communes, ne l’oublions pas, qui se sont insurgées contre le pouvoir excessif du roi et ont obtenu une « chambre » à elles en Angleterre dès le XIIIe siècle. De même, les associations familiales catholiques devront-elles changer de nom et d’objet social parce que la « famille », après le vote de la loi, devra obligatoirement comprendre les unions d’homosexuels et leurs désirs d’enfants ?

Des milliers de prêtres et de religieuses devront-ils tomber sous le coup de la loi, astreints à des amendes conséquentes pour avoir simplement dit ce que la religion qui est leur vocation et leur vie leur enjoint de dire sur ce sujet ? L’Eglise va-t-elle demain être mise hors-la-loi ? Aujourd’hui, elle n’a plus de chef, mais c’est justement cette situation - qui va attirer sur elle tous les projecteurs d’ici à fin mars - qui rendra d’autant plus visibles et d’autant plus efficaces les prises de positions et les actes posés par les évêques résolument opposés a ce projet.

 

Notes

[1] A ce sujet, nous ne saurions que trop vous conseiller cet article : http://www.lerougeetlenoir.org/les-controverses/que-fera-t-on-de-nos-pieds

jeudi, 28 février 2013

Mezri Haddad: « la révolution du jasmin était une manipulation du Qatar et des Etats-Unis »

Mezri Haddad: « la révolution du jasmin était une manipulation du Qatar et des Etats-Unis »

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Interviewé par le quotidien algérien La Nouvelle République, Mezri Haddad revient sur les causes de la révolution du jasmin et dévoile les objectifs stratégiques et géopolitiques du printemps arabe. Pour le philosophe tunisien, ce printemps n’est que la mise en oeuvre du « Grand Moyen-Orient » conçu par les néoconservateurs pour domestiquer l’islamisme en vue de perpétuer l’hégémonie américaine. « Le triomphe de l’islamisme en tant qu’idéologie provoquera la déchéance de l’Islam en tant que religion », prévient M.Haddad. Voici la reproduction de cette interview réalisée par Chérif Abdedaïm et publiée à la Une de la Nouvelle République du 12 février 2013.

Vous êtes de ceux qui considèrent que la « révolution tunisienne » n’est en fait qu’une  imposture qui ne relève pas seulement du ressort des islamistes. Quels sont d’après-vous les responsables de cette déstabilisation de la Tunisie et pourquoi ?

Les responsables de cette déstabilisation c’est d’abord un régime qui n’a pas été capable d’amorcer, en temps opportun, un véritable processus démocratique et qui a laissé se propager le clientélisme et la corruption. C’est aussi une opposition qui a manqué de patriotisme en se mettant au service d’agendas étrangers. Oui, j’ai considéré dès le départ que la « révolution du jasmin » était un conte de fées pour adolescents. Il s’agissait plutôt d’une révolte sociale que des traitres locaux et des services étrangers ont déguisé en révolution politique. Cette révolte sociale est semblable à celle de janvier 1978, à celle de janvier 1984 et à celle d’octobre 1988 en Algérie. Elles exprimaient toutes des revendications sociales et salariales parfaitement légitimes. Ce qui s’est passé en janvier 2011 est donc une colère sociale qu’une poignée de cyber-collabos ont transformé en soulèvement politique, selon un plan que les services américains ont mis en œuvre dès 2007. Volontairement ou inconsciemment, plusieurs jeunes tunisiens et arabes d’ailleurs ont été embrigadé par l’organisation OTPOR, par l’Open Society Institute du vénérable George Soros, et par la Freedom House, qui a été dirigé par l’ancien directeur de la CIA, James Woolsey, et qui compte parmi ses membres le théoricien du choc des civilisations, Samuel Huntington, ainsi que Donald Rumsfeld et Paul Wolfowitz, qui ont commis des crimes contre l’Humanité en Irak. C’est par la magie du Web, d’internet et de facebook qu’un simple fait divers –l’immolation par le feu d’un jeune alcoolique- s’est mu en « révolution du jasmin » pour se transmuer en « printemps arabe ».

 

Au même titre que dans beaucoup de pays arabes et même européens, la Tunisie a connu son malaise social, mal vie, chômage, etc, qui sembleraient être à l’origine du soulèvement du peuple tunisien. Toutefois, quand on  constate qu’avec la nouvelle configuration du paysage politique tunisien  cette situation sociale s’est au contraire aggravée ; qu’aurait-il fallu faire pour redresser cette situation ?

Le malaise social était bien réel mais on en a exagéré l’ampleur. Contrairement à tout ce qui a été dit par propagande, par ignorance ou par suivisme, ce n’était pas du tout une révolte de la pauvreté et de la misère économique mais de la prospérité et de la croissance mal répartie entre les strates sociales et les régions géographiques. L’économie de la Tunisie se portait nettement mieux que les économies dopées de l’Espagne, de l’Italie, du Portugal et de la Grèce, un Etat en faillite malgré trois plans de sauvetage à coup de millions d’euros. L’Etat tunisien n’était pas en faillite, bien au contraire. C’est maintenant qu’il est en faillite, avec un endettement qui s’est multiplié par sept, une croissance en berne et plus d’un million de chômeurs, alors qu’il était à 400000 en janvier 2011. En moins de deux ans, la Tunisie a perdu les acquis de 50 ans de dur labeur.

Si vous aviez à comparer l’époque Bourguiba, celle de Ben Ali, et la gouvernance actuelle,  quelle serait  d’après-vous celle qui répond le mieux aux aspirations du peuple tunisien ?

Celle de Bourguiba, incontestablement. C’était l’époque où le géni d’un homme se confondait avec l’esprit d’une nation. Je préfère employer ce concept de nation plutôt que le mot peuple dont tout le monde se gargarise depuis janvier 2011. Bourguiba, qui reste pour moi un exemple inégalable, n’était pas un démocrate mais un despote éclairé. Sa priorité n’était pas la démocratie, mais la construction d’un Etat moderne, le raffermissement d’une nation, l’affranchissement des esprits par l’éducation et l’émancipation de la femme par jacobinisme. Ben Ali n’a ni la dimension charismatique de Bourguiba, ni sa puissance intellectuelle. C’est un président pragmatique que le hasard et la nécessité ont placé à la tête de la Tunisie. Il avait deux priorités : le redressement économique du pays et la neutralisation des islamistes. Quoique l’on dise aujourd’hui, dans ces deux objectifs, il a remarquablement réussi. Sa faute majeure dont la Tunisie n’a pas fini de payer le prix, c’est qu’il n’a pas profité de ses deux atouts pour instaurer une véritable démocratie. Enivré par le pouvoir, mal conseillé, se sentant invulnérable, il n’a pas su répondre aux aspirations démocratiques d’une société à plus de 60% jeune et éduquée. Quant à la gouvernance actuelle, elle cumule l’incompétence et la suffisance. Mais plus grave encore que l’incompétence, ce gouvernement dit de la troïka n’a aucun sens du patriotisme, puisque les uns subissent les injonctions de Washington, les autres sont sous l’influence de l’ancienne puissance coloniale, et les troisièmes sont aux ordres du Qatar.

On accuse justement le Qatar de jouer un rôle déstabilisateur dans les pays arabes ; êtes-vous de cet avis ? Si oui, dans quel intérêt cet émirat joue-t-il ce rôle ?

Non seulement je suis de cet avis, mais j’ai été l’un des rares, sinon le premier à dénoncer le rôle moteur que cet émirat féodal et esclavagiste a joué dans ce fameux « printemps arabe ». Je l’avais analytiquement démontré dans mon livre « La face cachée de la révolution tunisienne », dès 2011. Le rôle de cette oligarchie mafieuse a été, en effet, déterminant. Par la propagande et l’intoxication d’Al-Jazeera, par l’activisme diplomatique, par la corruption financière des instances décisionnelles occidentales, et par le recrutement de mercenaires chargés de semer la panique et la terreur au sein de la société. Il existe des preuves matérielles selon lesquelles les premières victimes dans les rangs des manifestants ont été abattues par des snippers d’Europe de l’Est payés par les services qataris. Ce fut le cas en Tunisie mais aussi en Egypte. Dans quel intérêt le Qatar a-t-il joué ce rôle ? Primo par sous-traitance de la géopolitique israélo-américaine. Secundo par ambition énergétique. Tertio par messianisme islamo-wahhabite.

La France et les Etats-Unis, semblent également impliqués dans la déstabilisation de la Tunisie, à l’instar de l’Egypte, la Libye et maintenant la Syrie et bientôt le Sahel. Dans ces différents cas, ils semblent  se « réconcilier » avec les mouvements islamistes qu’ils combattaient depuis le 9/11 au nom de la lutte anti-terroriste. Comment peut-on interpréter cette nouvelle  « alliance »?

Pour ce qui est des anglo-saxons, cette alliance n’est pas nouvelle mais très ancienne. Elle remonte à la fameuse grande révolte arabe sous le commandement de Lawrence d’Arabie, puis à la naissance des Frères musulmans en 1928, une secte qui est le produit du géni politique anglais pour marginaliser le nationalisme arabe en guerre contre le colonialisme. L’âge d’or de l’alliance islamo-impérialiste a été en Afghanistan et contre l’URSS. Les événements du 11 septembre 2001 ont sans doute marqué un tournant. L’esclave s’est retourné contre son maître. L’administration Bush a trouvé dans cet événement l’occasion d’envahir l’Irak et croyait pouvoir éradiquer rapidement le terrorisme islamiste en Afghanistan. Mais parallèlement, dans le cadre du « Grand Moyen-Orient », les néoconservateurs renouaient avec tous les mouvements islamistes qui ont fait allégeance au gendarme du monde. Le nouveau deal : on lâche les dictatures qui vous ont persécuté, on vous aide même à prendre le pouvoir, mais en échange, vous gardez bien nos intérêts, vous ne franchissez pas la ligne rouge par rapport à Israël et vous contribuez au maintien de l’omnipuissance américaine contre la Russie, la Chine, l’Inde et les autres puissances émergentes. Comme je l’avais dit dans une interview il y a plus d’une année, « A vous la charia, à nous le pétrole. Chacun sa religion ! ». C’est ainsi que je résume le sens ultime du « printemps arabe ».  

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Vous dites également, dans l’un de vos articles que « C’est l’impatience et l’insolence d’un Rached Ghannouchi  galvanisé par le soutien américain, la crise algérienne et le bras de fer entre le FLN et le FIS qui ont changé la donne en Tunisie. » Pouvez-vous  nous éclairer à ce sujet?

Il me semble que je parlais des rapports entre Ben Ali et Ennahda entre 1987 et 1991. Il faut d’abord rappeler que deux Etats ont joué un rôle important dans l’arrivée au pouvoir de Ben Ali : l’Italie et l’Algérie. La France avait un autre successeur à Bourguiba et les Américains jouaient déjà la carte islamiste. Ben Ali a été reconnu par les Etats-Unis à la seule condition qu’il partage le pouvoir avec leurs protégés islamistes. C’est ainsi qu’il les a libéré de prison, qu’il a reçu à Carthage Ghannouchi, que les islamistes ont été autorisé à participer aux élections de 1989 avec des listes indépendantes, qu’ils ont signé le Pacte national…Le point de discorde a été la légalisation d’Ennahda. Bien installé au pouvoir, Ben Ali voulait gagner encore du temps avant de faire cette dernière concession. Excédés, confortés par l’allié anglo-américain, les islamistes ont retrouvé leurs vieux reflexes : manifestations, agitations à l’université, complots contre la sécurité de l’Etat et tentatives d’assassiner Ben Ali. Celui-ci a trouvé dans le début de la crise algérienne l’occasion de mettre hors d’état de nuire les islamistes.

En extrapolant l’impact de ces « révolutions » déstabilisatrices, on constate également, qu’un autre bras de fer se déroule en catimini entre les Etats-Unis ( y compris leur alliés Occidentaux) et les pays du BRICS. D’après-vous, quelles pourraient être  les conséquences de cette nouvelle donne ?

Ce n’est pas une extrapolation mais une expression essentielle du « printemps arabe ». Je dirai même que le premier sens géopolitique et géostratégique de ce « printemps arabe » est de saborder par anticipation tout rapprochement entre le monde arabo-islamique et les puissances du BRICS, principalement la Russie et la Chine. Il faut relire Bernard Lewis et Samuel Huntington pour une meilleure intelligibilité du « printemps arabe », à l’aune du projet de Grand Moyen-Orient. Dans le « Choc des civilisations », Huntington –qui a d’ailleurs commencé sa carrière universitaire en tant que spécialiste de la Tunisie !- parle clairement de « l’alliance islamo-confucéenne » qu’il faut empêcher par tous les moyens. La carte islamiste, comme la carte du bouddhisme tibétain, pourrait d’ailleurs tout à fait servir à l’implosion de la Chine, qui compte une trentaine de millions de musulmans. Idem pour l’Inde, autre puissance émergente, qui compte 130 millions de musulmans et que les Anglais avaient déjà affaibli par la création artificielle et sur une base confessionnelle du Pakistan en 1947, au grand désespoir de Gandhi. En termes géopolitiques, les Américains cherchent à constituer en Méditerranée un Arc sunnite, la fameuse « ceinture verte », qui partirait du Maroc jusqu’en Turquie, en passant par l’Algérie, la Tunisie, la Libye, l’Egypte, le Liban, la Syrie et le futur Etat jordano-palestinen ! Avec le Pakistan, l’Afghanistan, l’Arabie Saoudite et les pétromonarchies, l’Iran chiite sera isolé, le pétrole sera bien gardé et a foi des musulmans, bien conservée ! Mais il y a aussi un Arc chiite en prévision. C’est que les Etats-Unis ne cherchent pas tant à détruire l’Iran qu’à aseptiser son chiisme, le désamianter plus exactement. Le chiisme aura forcément un rôle à jouer, ne serait-ce que pour que la puissance de l’islamisme sunnite ne dépasse jamais le seuil de tolérance américaine.

On accuse également les instigateurs de cette déstabilisation du monde arabe de convoiter les ressources naturelles de ces pays au moment où la crise économique bat son plein en Europe et aux Etats-Unis. Dans ce cas, pourquoi alors s’être attaqué à la Tunisie qui ne dispose pas de pétrole ou d’autres ressources minières importantes ?

C’est le principal argument que les idiots utiles de la pseudo-révolution tunisienne ont utilisé pour répondre à ceux qui ont analysé cette « révolution » dans ses implications géopolitiques, en accusant d’ailleurs ces analyses de théories du complot. La Tunisie n’a pas été visée parce qu’elle regorge de pétrole mais parce qu’elle répondait au critère du parfait laboratoire. Elle devait servir de mèche à la poudrière arabe. C’était le pays socialement, économiquement et politiquement le mieux prédisposé à une telle crise. Pendant des années, on avait présenté le régime tunisien comme la plus grande dictature policière du monde arabe. Les événements de janvier 2011 ont démontré qu’il était le régime le plus vulnérable et même le plus libéral. Quant à l’appropriation des ressources naturelles par les colonialistes new look, cela ne fait pas le moindre doute. La Libye n’est plus maitresse de son gaz, de son pétrole et même de ses nappes phréatiques. Exactement comme l’Irak, depuis 2003.

Récemment les islamistes viennent de passer à une nouvelle étape  celle des assassinats ; celui du militant Chokri Belaïd, après ceux de Lotfi Nakhd, de Nidaa Tounès, il y a quelques mois ; de quoi  cela pourrait-il présager ?

C’est le présage d’une série d’attentats ciblant les politiques, les intellectuels, les journalistes, mais aussi d’un cycle de violence que la Tunisie n’a jamais connu auparavant. C’est la conséquence de deux ans de laxisme et de décisions irresponsables. Dès le 14 janvier 2011, au nom de la « révolution du jasmin », des terroristes ont été libéré, d’autres sont revenus des quatre coins du monde, des centaines de criminels qui n’ont rien à voir avec la politique ou l’islamisme ont été amnistiés par le président provisoire. Tous ces individus dangereux se promènent librement dans le pays. Il y a aussi les criminels qui sont partis faire le jihad en Syrie et qui vont revenir chez eux. Le rétablissement de l’ordre et de la paix civile vont être la tâche la plus difficile.

Enfin, à quelles conséquences pourrait-on s’attendre avec cette montée de l’islamisme radical ? Et qui en serait (ent)  le(s) véritable(s) bénéficiaire(s) ?

Première conséquence, la banalisation du choc des civilisations et la fracture entre Orient et Occident. Avec ce « désordre créatif » comme disent les architectes du « printemps arabe », les pays déstabilisés ne se relèveront pas avant une quinzaine d’années. Ils vont connaître l’anarchie, l’insécurité, l’instabilité politique et le marasme économique. Mais le plus grave à mon avis, c’est la régression sociale, éducative et culturelle que connaissent déjà ces pays et qui va connaitre une amplification dans les années qui viennent. C’est l’ère de la sacralisation du bigotisme et de l’ignorance, l’époque du repli identitaire. Mon combat contre l’idéologie islamiste n’a jamais été celui d’un marxiste, d’un freudien ou d’un laïciste. C’est parce que je me sens profondément musulman que je suis radicalement anti-islamiste. Le pire ennemi de l’islam, c’est l’islamisme. Faire de la religion de Mouhammad un enjeu politique et géopolitique entre les mains des puissances occidentales, c’est un crime impardonnable. Réduire le Coran à un manuel politique, c’est trahir l’esprit de l’islam et poignarder la transcendance de Dieu. Dès 1937, Abbas Mahmoud Al-Akkâd disait que « les groupes religieux qui recourent à la religion pour atteindre des objectifs politiques sont des agents payés qui se cachent derrière l’islam pour abattre cette religion, car la réussite de leur cause finit par la perte de l’islam ». Je considère, en effet, que le triomphe de l’islamisme en tant qu’idéologie provoquera la déchéance de l’Islam en tant que religion. En faisant du saint Coran un manuel de subversion, en réduisant la Sunna aux miasmes de la scolastique médiévale qui offense la haute spiritualité de l’Islam et la supériorité de la philosophie islamique, en faisant de l’islam un enjeu de politique internationale, en transformant cette religion en instrument de chantage , de pression ou de négociation entre les mains des « mécréants » occidentaux comme ils disent, en l‘impliquant dans des actions terroristes aussi abjectes qu’étrangères à ses valeurs intrinsèquement humanistes, ces marchands de l’islam, ces imposteurs de Dieu, ont déjà beaucoup porté atteinte à l’Islam. Vous pourriez donc facilement deviner à qui profite cette subversion de l’Islam et cette image si injuste que l’on donne des musulmans.
Tunisie-Secret.com

Interviewé par Chérif Abdedaïm
La Nouvelle République

mardi, 26 février 2013

B. Lugan: la crise du Mali

Bernard LUGAN

La crise du Mali

Entretien avec Yves-Marie Laulan

« Nicolas Sarkozy veut furieusement prendre sa revanche
sur le destin
qui l’a privé d’un second mandat
où son “immense” talent
aurait pu s’épanouir à loisir…
sur les Français, ingrats, qui ne l’ont pas réélu…

et surtout sur ses “amis de l’UMP” qui ne l’ont pas assez soutenu. »

 

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Entretien avec Yves-Marie Laulan,

auteur du livre Les Années Sarkozy (Éditions de l’Æncre, 340 pages, 31 euros)

(propos recueillis par Fabrice Dutilleul)

Votre livre est un véritable réquisitoire contre Nicolas Sarkozy…

Il a fait croire aux Français qu’il allait redresser notre pays alors qu’il l’enfonçait encore davantage. Il n’a vécu que par et pour l’image, les « coups » médiatiques et les sondages. Il a été un magicien de l’illusion médiatique, vivant dans l’instant, sans vision d’ensemble ni projet de long terme. Était-il vraiment fait pour être président de la République ? Il incarne malheureusement à la perfection tous les travers de l’homme politique de notre temps.

Vous dressez un constat radical des « années Sarkozy »… N’y a-t-il rien eu de positif durant celles-ci ?

Tout a été en trompe-l’œil : la réforme de l’université ? « À côté de la plaque » : le vrai problème est celui de leur gestion beaucoup plus que le « faux nez » de leur indépendance… La sécurité ? L’affaire Neyret, les ripoux de la police marseillaise, le serial-killer Mérah ou encore l’islamisme radical ont mûri sous le mandat Sarkozy… La réforme de la justice ? Parfaitement inutile au point d’en être dérisoire, tout en laissant de côté les vrais problèmes de la justice en France, injuste et partiale, comme jamais au cours de notre histoire… La réforme de l’école ? Toujours en chantier, avec inchangés le collège unique et la méthode globale, d’où en grande partie l’échec scolaire… Les 35 heures ? Malgré un replâtrage, fiscalement coûteux, elles ont été pieusement conserves… La pénible réforme des retraites laissée en jachère ? Il va falloir la reprendre très bientôt sous peine de faillite… Celle de la Sécurité Sociale ? À peine effleurée… Et ne parlons pas, cerise sur le gâteau, de l’immigration clandestine qui déferle toujours…

Le chantier des réformes Sarkozy ressemble à s’y méprendre à ces friches industrielles du régime soviétique : jonchées d’équipements laissés à l’abandon sous le soleil et la pluie. Oui, Nicolas Sarkozy aura été le champion toutes catégories des innombrables réformes en trompe-l’œil, toujours entreprises, jamais achevées, mais médiatiquement présentées devant l’opinion comme de grandes victoires de l’ex-président. En d’autres termes, il nous a fait prendre des vessies pour des lanternes. J’en apporte la démonstration, preuves à l’appui.

Aura-t-il été pire que ses prédécesseurs… et que son successeur François Hollande ?

Oui, pire ! Parce qu’il nous a fait perdre 5 années qui ne se rattraperont pas… Dans peu d’années, l’immigration massive et intense – au rythme infernal de 250 000 entrées par an –remettra en cause, et pour toujours, la survie de la France, de son histoire, dont elle va être dépouillée, de son identité, de ses traditions et de ses valeurs… C’est un crime majeur, impardonnable ! Car un pays peut se relever d’une guerre perdue, on l’a fait ; d’une crise économique, on l’a vu. Il ne se relève jamais d’une guerre démographique perdue. Et nous sommes en train de la perdre, largement en raison de l’ineptie, et des mensonges de Nicolas Sarkozy, lequel passera devant l’histoire comme un des principaux fossoyeurs de notre patrie.

Un retour de Nicolas Sarkozy vous semble-t-il envisageable ?

Par lui-même, certainement. Il ne va vivre que pour cela. Et ceux qui soutiennent le contraire n’ont rigoureusement rien compris au personnage. Il voudra furieusement prendre sa revanche sur le destin qui l’a privé d’un second mandat où son immense talent aurait pu s’épanouir à loisir… sur les Français, ingrats, qui ne l’ont pas réélu… et surtout sur ses « amis de l’UMP » qui ne l’ont pas assez soutenu…

Une des pierres d’achoppement pourrait provenir de l’UMP elle-même qui se cabrerait contre le chef déchu dans lequel elle ne croierait plus et déciderait que « cela suffit comme cela » pour regarder ailleurs. C’est ce qui est arrivé à Valéry Giscard d’Estaing… À moins que l’UMP n’existe bientôt plus

Yves-Marie Laulan a été successivement au cabinet de Michel Debré, secrétaire national du RPR, président du Comité économique de l’OTAN et professeur à Sciences Po, à l’ENA et à Paris II. Il préside aujourd’hui l’Institut de Géopolitique des Populations. Mais, couronnement de sa vie, sa chronique à « Radio Courtoisie » est venue là pour le consoler de ses malheurs.

dimanche, 17 février 2013

Interview of Dari Dugina

Interview of Dari Dugina :

“We Live In The Era Of The End”

 

Open Revolt is very happy to present a conversation between the Eurasian Youth Union’s Dari Dougina and our own James Porrazzo.

Dari, the daugher of Alexander Dugin, in addition to her work in the Eurasian Youth Union is also the director of the project Alternative Europe for the Global Revolutionary Alliance.

Dari you are a second generation Eurasianist, daughter of our most important thinker and leader Alexander Dugin. Do you care to share with us your thoughts on being a young militant this deep into the Kali Yuga?

We live in the era of the end – that’s the end of culture, philosophy, politics, ideology. That’s the time without real movement; the Fukuyama’s gloomy prophecy of the ”end of history” turns to be a kind of reality. That’s the essence of Modernity, of Kali Yuga. We are living in the momentum of Finis Mundi. The arrival of Antichrist is in the agenda. This deep and exhausting night is the reign of quantity, masked by the tempting concepts such as Rhizome of Gilles Deleuze: the pieces of the modern Subject changes into the ”chair-woman” from the “Tokyo Gore Police” (post-modern Japanese film) – the individual of the modern paradigm turns into the pieces of dividuum. ”God is dead” and his place is occupied by the fragments of individual. But if we make a political analysis we will find out that this new state of the world is the project of liberalism. The extravagant ideas of Foucault seemingly revolutionary in their pathos after more scruple analyze show their conformist and (secretly) liberal bottom, that goes against the traditional hierarchy of values, establishing pervert “new order” where the summit is occupied by the self-adoring individual, atomistic decay. 
That’s hard to fight against the modernity, but sure – it’s unbearable to live in it – to agree with this state of the things – where all the systems are changed and the traditional values became a parody – being purged and mocked in all spheres of controls of modern paradigms. That’s the reign of the cultural hegemony.
 And this state of the world bothers us. We fight against it – for the divine order – for the ideal hierarchy. The cast-system in modern world is completely forgotten and transformed into a parody. But it has a fundamental point. In Plato’s republic – there is very interesting and important thought: casts and vertical hierarchy in politics are nothing but the reflection of the world of ideas and higher good. This model in politics manifests the basic metaphysical principles of the normal (spiritual) world. Destroying the primordial cast system it in the society – we negate the dignity of the divine being and his Order. Resigning from the casts system and traditional order, brilliantly described by Dumezil, we damage the hierarchy of our soul. Our soul is nothing but the system of casts with a wide harmony of justice which unites 3 parts of the soul (the philosophical – the intellect, the guardian – the will, and the merchants – the lust). 
Fighting for the tradition we are fighting for our deep nature as the human creature. Man is not something granted – it s the aim. And we are fighting for the truth of human nature (to be human is to strive to the superhumanity). That can be called a holly war.

What does the Fourth Political Theory mean to you?

That’s the light of the truth, of something rarely authentic in the post-modern times. That’s the right accent on the degrees of existence – the natural chords of the world laws. That’s something which grows up on the ruins of the human experience. There is no success without the first attempts – all of the past ideologies contained in them something what caused their failure.

The Fourth Political Theory – that’s the project of the best sides of divine order that can be manifested in our world – from liberalism we take the idea of the democracy (but not in it’s modern meaning) and  liberty in the Evolian sense; from communism we accept the idea of solidarity, anti-capitalism, anti-individualism and the idea of collectivism; from fascism we take the concept of vertical hierarchy and the will to power – the heroic codex of the Indo-European warrior.

All these past ideologies suffered from grave shortcomings – democracy with the addition of liberalism became  tyranny (the worst state-regime by Plato), communism defended the technocentric world with no traditions and origins, fascism followed the wrong geopolitical orientation, its racism was Western, Modern, liberal and anti-traditional.

The Fourth Political Theory is the global transgression of this defects – the final design of the future (open) history. It’s the only way to defend the truth.

For us – truth is the multipolar world, the blossoming variety of different cultures and traditions.

We are against racism, against the cultural and strategic racism of the USA’s Western modern civilization, which is perfectly described by professor John M. Hobson in ”The Europocentric conception of world politics”. The structural (open or subliminal) racism destroys charming complexity of the human societies – primitive or complex.

Do you find any special challenges as both a young woman and a activist in this age?

This spiritual war against (post)Modern world gives me the force to live.

I know, that I’m fighting against the hegemony of evil for the truth of the eternal Tradition. It is obscured now, not completely lost. Without it nothing could exist.

I think that any gender and age has its forms to access  the Tradition and its ways to challenge  Modernity.

My existential practice is to abdicate most values of the globalist youth. I think we need to be different from this thrash. I don’t believe in anything modern. Modernity is always wrong.

I consider love to be a form of initiation and spiritual realization. And the family should be the union of  spiritually similar persons.

Beyond your father, obviously, who else would you suggest young militants wishing to learn our ideas study?

I recommend to make acquaintance with the books of Rene Guenon, Julius Evola, Jean Parvulesco, Henri Corbin, Claudio Mutti, Sheikh Imran Nazar Hosein (traditionalism); Plato, Proclus, Schelling, Nietzsche, Martin Heidegger, E. Cioran (philosophy); Carl Schmitt, Alain de Benoist, Alain Soral (politics); John M. Hobson, Fabio Petito (IR); Gilbert Durand, G. Dumezil (sociology). The base kit of reading for our intellectual and political revolution.

You’ve now spent some time living in Western Europe. How would you compare the state of the West to the East, after first hand experience?

In fact, before my arrival to Europe I thought that this civilization is absolutely dead and no revolt could be possible there. I was comparing the modern liberal Europe to bog, with no possibility to protest against the hegemony of  liberalism.

Reading the foreign European press, seeing the articles with titles as ”Putin – the satan of Russia” / ” the luxury life of poor president Putin” / ” pussy riot – the great martyrs of the rotten Russia” – this idea was almost confirmed. But after a while I’ve found some political anti-globalist groups and movements of France – like Egalite&Reconcilation,  Engarda, Fils de France etc – and everything changed.

The swamps of Europe have transformed into something else – with the hidden possibility of revolt. I’ve found the ”other Europe”, the ”alternative” hidden empire, the secret geopolitical pole.

The real secret Europe should be awakened to fight and destroy its liberal double.

Now I’m absolutely sure, that there are 2 Europes; absolutely different – liberal decadent Atlanticist Europe and alternative Europe ( anti-globalist, anti-liberal, Eurasia-orientated).

Guenon wrote in the ”Crisis of the modern world” that we must divide the state of being anti-modern and anti-Western. To be against the modernity – is to help Occident in its fight against  Modernity, which is constructed on liberal codes. Europe has it’s own fundamental culture (I recommend the book of Alain de Benoist – “The traditions of Europe”). So I found this alternative, secret, powerful, Traditionalist other Europe and I put my hopes on its secret guardians.

We’ve organized with Egalite&Reconcilation a conference in Bordeaux in October with Alexander Dugin and Christian Bouchet in a huge hall but there was no place for all the volunteers who wanted to see this conference.

It shows that something begins to move…

Concerning my views on Russia – I’ve remarked that the bigger part of European people don’t trust the media information – and the interest to Russia grows up – it’s seen in the mode of learning Russian, of watching soviet films and many European people understand that the media of Europe are totally influenced by the hegemonic Leviathan, liberal globalist machine of lies.

So the seeds of protest are in the soil, with  time they’ll grow up, destroying the ”society of spectacle”.

Your whole family is a great inspiration to us here at Open Revolt and New Resistance. Do you have a message for your friends and comrades in North America?

I really can’t help admiring your intensive revolutionary work! The way you are working – in the media – is the way of killing the enemy ”with it’s own poison”, using the network warfare strategy. Evola spoke about that in his excellent book ”Ride the tiger”.

Uomo differenzziato is someone who stays in the center of modern civilization but don’t accept it in his inner empire of his heroic soul. He can use the means and arms of modernity to cause a mortal wound to the reign of quantity and its golems.

I can understand that the situation in USA now is difficult to stand. It’s the center of hell, but Holderlin wrote that the hero must throw himself into abyss, into the heart of the night and thus conquer the darkness.

Any closing thoughts you’d like to share?

Studying in the faculthttp://openrevolt.info/2013/01/23/we-live-in-the-era-of-the-end-a-interview-with-dari-dougina/y of philosophy and working on Plato and neo-platonism, I can remark, that politics is nothing but the manifestation of the basic metaphysical principles which lays in the fundament of being.

Making political war for the Fourth Political Theory we are also establishing the metaphysical order – manifesting it in the material world.

Our struggle is not only for the ideal human state – it is also the holy war for reestablishing the right ontology.

http://openrevolt.info/2013/01/23/we-live-in-the-era-of-the-end-a-interview-with-dari-dougina/

lundi, 04 février 2013

Günter Maschke - Das Geburtstagsgespräch

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Günter Maschke

Das Geburtstagsgespräch

Ex: http://www.sezession.de/

SEZESSION: Herr Maschke, Sie waren auf einem viertägigen Carl-Schmitt-Kongreß in Brasilien. Warum waren Sie der einzige Deutsche, wenn es doch um einen Deutschen ging, an dem sich hierzulande die Geister scheiden und über den Jahr für Jahr ein halber Meter Literatur erscheint?

MASCHKE: Unter den deutschen Interpreten Schmitts bin ich wohl der einzige, der mehrere Jahre in Lateinamerika (Cuba und Peru) gelebt hat und der sowohl dort als auch in Spanien und Portugal Dutzende von Vorträgen, Seminaren und ähnliches über Schmitt gehalten hat. Es finden sich dort auch ziemlich viele Veröffentlichungen von mir, zum Teil direkt auf Spanisch verfaßt und in Deutschland unbekannt. Ich kenne eine Reihe jüngerer Autoren, die sich mit Schmitt beschäftigen und ich war befreundet mit inzwischen leider verstorbenen Freunden Schmitts, etwa mit Álvaro d´Ors, José Caamáno Martinez, Jesús Feuyo oder Gonzalo Fernández de la Mora. Seit mehreren Jahren pflege ich auch Kontakte zu einigen Portugiesen.

SEZESSION: Mit anderen Worten – Carl Schmitt im spanisch-portugisischen Ausland ist fest in Maschkes Hand!

MASCHKE: Es waren Spanier und Portugiesen, die meine Teilnahme am Kongreß in Uberlándia anregten. Weshalb nur ich aus Deutschland eingeladen wurde, weiß ich nicht, aber vermutlich haben Sie recht mit Ihrer Aussage – obwohl ich nie eine Werk- oder Denkschulstrategie verfolgt habe.

gm85418080.jpgSEZESSION: Erzählen Sie etwas über den Ertrag dieser Tagung, über die Atmosphäre. Wofür interessierte man sich? Für den Schmitt von 1932 oder auch für etwas anderes?

MASCHKE: Der Kongreß war etwas allzu angestrengt und anstrengend – einundzwanzig Vorträge in vier Tagen, dazu in unterschiedlichen Sprachen. Die Atmosphäre war jedoch angenehmer als bei ähnlichen Unternehmen hierzulande, dies auch deshalb, weil es so gut wie nicht um die Frage ging, ob Schmitt sich 1933 falsch oder verantwortungslos oder gar verbrecherisch verhalten hat. Diese bestenfalls drittrangige Frage interessiert Ausländer nur sehr selten. Was sie interessiert sind die Probleme und Ideen in Schmitts Werk und welche Aktualität dieses Werk heute in der bedrohlich nahenden Zukunft besitzt. Das kam besonders in den Referaten von Joseph Bendersky (USA) – „Schmitt und der ‚Kampf der Kulturen’ bei Samuel Huntigton“ – und von Alain de Benoist (Frankreich) – „Der gerechte Krieg von heute und Carl Schmitt“ – zur Sprache. Aber es mangelte auch nicht an Vorträgen, die man der „Einflußliteratur“ (Friedrich Balke) zuzählen mag: Schmitts Verhältnis zu Kelsen, zu Machiavelli, zu Donoso Cortés, zu Blumenberg undsofort.

Man darf sagen, daß „für jeden etwas dabei war“. Das ist aber keine Kritik meinerseits. Ein erster, dazu auch noch internationaler Kongreß hat wohl immer eine derartig großzügige „Streuung“. Man vermißte einige Schmitt-Forscher aus Argentinien und aus Kolumbien, aber der bedeutendste Ertrag des Kongresses war wohl die Gründung eines „Internationalen Netzes für Schmitt-Studien“ (RIES – Rede Internacional de Estudos Schmittianos). Es spricht viel dafür, daß hier viele Impulse aus Brasilien kommen werden, – nicht zuletzt aufgrund der erstaunlichen Energie des Initiators des Kongresses, des Philosophen Roberto Bueno.

SEZESSION: Sie haben bei Karolinger jüngst eine überarbeitete Fassung Ihres Buchs Der Tod des Carl Schmitt veröffentlicht. Das Buch war damals, nach dem Tode Schmitts im Jahre 1985, eine Abrechnung mit der Nekrologie und der Dominanz der Habermas-Schule. Wie ist die Lage heute?

MASCHKE: Die Lage hat sich etwas gebessert, weil eben die Frage nach Schmitts Engagement 1933 selbst bei uns weniger interessiert als früher. Doch vielen politischen Themen geht man immer noch etwas aus dem Wege, – dem gerechten Krieg von heute, dem so menschenfreundlich daherkommenden Humanitarismus und seinen ´Abgründen´, dem Betrug der parlamentarischen Demokratie, auch der wundersamen Vermehrung des ´eindimensionalen Menschen´, um einmal Herbert Marcusus Buchtitel zu benutzen. Was allzu heftig gedeiht ist wohl die schon erwähnte „Einflußliteratur“, die „Schmitt und … “ – Literatur. Schmitt und Agamben, und Benjamin, und Cioran, und Eschweiler, und Foucault, und Gütersloh usw. usf. Unstreitig ist ein Teil dieser Literatur nützlich und sogar notwendig, – doch der weitaus größere Teil scheint mir nur Permutations-Zirkus und feuilletonistische oder universitäre Anknüpfungsbetriebsamkeit. Die modernen geisteswissenschaftlichen Fakultären sind heute Fabriken, in denen erbarmungslos produziert werden muß – die Qualität und der Gebrauchswert der Erzeugnisse spielen da eine immer geringer werdende Rolle. Wenn schon „Schmitt und …“ –Studien, dann sollten sie auch Leuten gelten, die engere intellektuelle Beziehungen zu Schmitt unterhielten und deren Themen und Argumente sich oft mit denen Schmitt deckten, man denke etwa an Paul Barandon, Carl Bilfinger, Axel Freiherr v. Freytagh-Löringhoven, Asche Graf Mandelsloh, Heinrich Rogge, Gustav Adolf Walz, Giselher Wirsing, Ernst Wolgast. Aber ausgerechnet hier finden sich keine „Schmitt und …! –Aufsätze und das liegt zu einem beträchtlichen Teil an skandalöser Unkenntnis. Doch ich bleibe höflich und schweigsam!

gm7a792d7f1dc3346d56d6179f74a10061.jpgSEZESSION: Aus einem Gespräch mit Ihnen habe ich die Bemerkung in Erinnerung, daß Sie Schmitt desto weniger begriffen, je länger Sie sich mit ihm beschäftigten. Kokettieren Sie oder ist Schmitt wirklich ein Labyrinth?

MASCHKE: Schmitt ist eben wie jeder wirkliche Klassiker: vieldeutig und unerschöpflich. „Er zieht an, stößt ab, interessiert und ärgert, und so kann man ihn nicht los werden“ sagte Goethe 1818 über Stendhal und so geht es mir und vielen anderen mit Schmitt. Es ist oft das nur Skizzenhafte der Text Schmitts, das so stark anregt und zur wiederholten Lektüre zwingt, – auch beim x-ten Mal entdeckt man etwas bis dahin Übersehenes. Schmitts Werk ist eine Samenkapsel! – Meine Bemerkung Ihnen gegenüber war vielleicht allzu kokett. Schmitt sagte mir einmal: „Unterschätzen Sie nicht den systematischen Charakter meines Werkes!“ Doch ich gestehe, daß ich diesen „systematischen Charakter“ bisher nicht gefunden habe. Ich halte es mehr mit einer Feststellung von José Caamano Martinez: Schmitts Werke zeichneten sich aus durch Mangel an Solidheit, aber auch durch große Finesse („falta de solidez, pero de gran finura“). Nichts gegen die Solidheit, – aber die Finesse kommt aus höheren Regionen.

dimanche, 03 février 2013

Opérations extérieures et opérations d'influence...

Opérations extérieures et opérations d'influence...

Ex: http://metapoinfos.hautetfot.com/

"Nous autres idéalistes, enfants des lumières et de la civilisation, pensons régulièrement que la guerre est morte. Las, cet espoir est aussi consubstantiel à l'homme que la guerre elle-même. Depuis que l'homme est homme, la guerre et lui forment un couple indissociable parce que les hommes sont volontés – volonté de vie et volonté de domination – et que la confrontation est dans la nature même de leurs rencontres." Général Vincent Desportes, La guerre probable (Economica, 2008)

Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par le général Vincent Desportes à Bruno Racouchot pour l'excellente revue Communication & Influence, éditée par le cabinet COMES. Le général Desportes est l'auteur de nombreux essais consacrés à la stratégie comme Comprendre la guerre (Economica, 2000) ou La guerre probable (Economica, 2008). 

 

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Opérations extérieures et opérations d'influence: le décryptage du Général Vincent Desportes

Somalie, Centrafrique, Mali… à des titres divers, l'armée française intervient sur bien des fronts. Il ne s'agit plus seulement de frapper l'ennemi, il faut aussi gérer les conflits informationnels et anticiper les réactions, le tout en intégrant de multiples paramètres. Comment percevez-vous cette imbrication des hard et soft powers ?

Nous assistons indéniablement à un affrontement des perceptions du monde. Les terroristes cherchent à faire parler d'eux, à faire émerger leur perception du monde à travers des actions militaires frappant l'opinion, actions dont la finalité est d'abord d'ordre idéologique. Ils inscrivent leurs actions de terrain dans le champ de la guerre informationnelle. Ils font du hard power pour le transformer en soft power. Les opérations militaires qu'ils conduisent le sont en vue de buts d'ordre idéologique. Ils ne recherchent pas l'effet militaire immédiat. Ils agissent plutôt en termes d'influence, à mesurer ultérieurement. Dans cette configuration, il y a une interaction permanente entre le militaire stricto sensu et le jeu des idées qui va exercer une influence sur les opinions publiques. La guerre est alors vue comme un moyen de communication, qui a pour but de faire changer la perception que le monde extérieur peut avoir de celui qui intervient.

Notons que cela ne joue pas que pour les terroristes. La France intervient au Mali et elle a raison de le faire. En agissant ainsi, de manière claire et efficace, elle modifie la perception que le monde pouvait avoir d'elle, à savoir l'image d'une nation plutôt suiveuse des États-Unis, comme ce fut le cas en Afghanistan. En intervenant dans des délais très brefs et avec succès loin de ses bases, en bloquant les colonnes terroristes, en regagnant le terrain perdu par les soldats maliens, et surtout en ayant agi seule, elle ressurgit d'un coup sur la scène médiatico-politique comme un leader du monde occidental. Était-ce voulu au départ ? Je ne sais pas. Mais le résultat est là. La France retrouve sa place dans le jeu complexe des relations internationales à partir d'une action militaire somme toute assez limitée. En conséquence, si l'on veut avoir une influence sérieuse dans le monde, nous devons conserver suffisamment de forces militaires classiques relevant du hard power, pour pouvoir engager des actions de soft power. L'un ne va pas sans l'autre. Le pouvoir politique doit bien en prendre conscience.

 

Justement, à l'heure où s'achève la réflexion sur le futur Livre blanc, quid des armes du soft power dans le cadre de la Défense ? La France n'est-elle pas en retard dans ce domaine ? N'est-il pas grand temps, comme vous le suggériez dans La guerre probable, de commencer enfin à "penser autrement" ?

"Toute victoire, disait le général Beaufre, est d'abord d'ordre psychologique." Il ne faut jamais perdre de vue que la guerre, c'est avant tout l'opposition de deux volontés. En ce sens, l'influence s'impose bel et bien comme une arme. Une arme soft en apparence, mais redoutablement efficace, qui vise à modifier non seulement la perception, mais encore le paradigme de pensée de l'adversaire ou du moins de celui que l'on veut convaincre ou dissuader. Dans la palette qui lui est offerte, l'homme politique va ainsi utiliser des moyens plus ou moins durs (relevant donc de la sphère du hard power) ou au contraire plus ou moins "doux" (sphère du soft power) en fonction de la configuration au sein de laquelle il évolue et des défis auxquels il se trouve confronté.

Le problème de la pensée stratégique française est justement qu'elle éprouve des difficultés à être authentiquement stratégique et donc à avoir une vision globale des choses. Notre pays a du mal à construire son action en employant et en combinant différentes lignes d'opérations. L'une des failles de la pensée stratégique française est de n'être pas en continuité comme le percevait Clausewitz, mais une pensée en rupture. C'est-à-dire qu'au lieu de combiner simultanément les différents moyens qui s'offrent à nous, nous allons les employer successivement dans le temps, au cours de phases en rupture les unes avec les autres. On fait de la diplomatie, puis on a recours aux armes du hard power, puis on revient à nouveau au soft power. Cette succession de phases qui répondent chacune à des logiques propres n'est pas forcément le moyen idoine de répondre aux problèmes qui se posent à nous. Utiliser en même temps ces armes, en les combinant intelligemment, me paraîtrait souhaitable et plus efficace. Notre pays a malheureusement tendance à utiliser plus facilement la puissance matérielle que la volonté d'agir en douceur pour modifier ou faire évoluer la pensée – et donc le positionnement – de celui qui lui fait face.

Notre tradition historique explique sans doute pour une bonne part cette réticence à utiliser ces armes du soft power. Pour le dire plus crûment, nous nous méfions des manœuvres qui ne sont pas parfaitement visibles. L'héritage de l'esprit chevaleresque nous incite plutôt à vouloir aller droit au but. Nous sommes des praticiens de l'art direct et avons beaucoup de mal à nous retrouver à agir dans l'indirect, le transverse. À rebours par exemple des Britanniques, lesquels pratiquent à merveille ces stratégies indirectes, préférant commencer par influencer avant d'agir eux-mêmes. Prenons l'exemple de leur attitude face à Napoléon. Le plus souvent, au lieu de chercher l'affrontement direct, ils ont joué de toutes les gammes des ressources du soft power et engagé des stratégies indirectes. Ils ont cherché à fomenter des alliances, à faire en sorte que leurs alliés du moment, les Russes, les Prussiens, les Autrichiens, s'engagent directement contre les armées françaises. Ils ont su susciter des révoltes et des révolutions parmi les populations qui étaient confrontées à la présence ou à la menace française, comme ce fut le cas en Espagne. Le but étant à chaque fois de ne pas s'engager directement mais de faire intervenir les autres par de subtils jeux d'influence.

 

Cette logique demeure toujours d'actualité ?

Indéniablement. Même sur le plan strictement opérationnel, cette même logique perdure sur le terrain. Les travaux de l'historien militaire Sir Basil Henry Liddle Hart dans l'entre-deux guerres mondiales en matière de promotion des stratégies indirectes sont particulièrement édifiants. Liddle Hart prône le harcèlement des réseaux logistiques de l'adversaire, des frappes sur ses réseaux de ravitaillement, et dans le même temps recommande de contourner ses bastions plutôt que de l'attaquer de front.

En ce sens, nous avons un retard à combler. Comme les Américains, au plan militaire, nous préférons l'action directe. Nous avons la perpétuelle tentation de l'efficacité immédiate qui passe par le choc direct. Pour preuve nos combats héroïques mais difficiles d'août 1914. On fait fi du renseignement, on croit que l'on va créer la surprise, on préfère agir en fondant sur l'adversaire, en croyant benoîtement que la furia francese suffira à l'emporter. On sait ce qu'il advint… Le fait est que nous préférons le choc frontal aux jeux d'influence. Nous comprenons d'ailleurs mal les logiques et rouages des stratégies indirectes. Nous cherchons à attaquer la force plutôt que la faiblesse, ce qui est à l'exact opposé de ce que prône Sun Tzu. Comme on le sait, pour ce dernier, l'art de la guerre est de gagner en amenant l'ennemi à abandonner l'épreuve engagée, parfois même sans combat, en utilisant toutes les ressources du soft power, en jouant de la ruse, de l'influence, de l'espionnage, en étant agile, sur le terrain comme dans les têtes. En ce sens, on peut triompher en ayant recours subtilement aux armes de l'esprit, en optimisant les ressources liées à l'emploi du renseignement, en utilisant de façon pertinente les jeux d'influence sur les ressorts psychologiques de l'ennemi.

 

Jusqu'à ces dernières années, on hésitait à parler d'influence au sein des armées, principalement à cause des séquelles du conflit algérien. Les blocages mentaux sont encore très forts. Cependant, les interventions conduites par les Anglosaxons en Irak et en Afghanistan ont contribué à tourner la page. Nos armées doivent-elles, selon vous, se réapproprier ce concept et les outils qui en découlent ?

Dans les guerres de contre-insurrection que nous avons eues à conduire, nous avons compris que l'important était moins de détruire l'ennemi que de convaincre la population du bienfait de notre présence et de notre intervention. Ce sont effectivement les Américains, qui ont redécouvert la pensée française de la colonisation, de Lyautey et de Gallieni, qui privilégiaient la démarche d'influence à la démarche militaire stricto sensu. Notre problème dans les temps récents est effectivement lié aux douloureuses séquelles du conflit algérien, où nous avions cependant bien compris qu'il fallait retourner la majorité de la population pour stabiliser le pays et faire accepter la force française. Ce qui, dans les faits, fut réussi. Le discrédit jeté sur les armées et certaines méthodes ayant donné lieu à des excès, ont eu pour conséquence l'effacement des enjeux de la guerre psychologique et des démarches d'influence.

Avec l'Afghanistan, les choses ont évolué. Au début, nous considérions que l'aide aux populations civiles avait d'abord pour but de faire accepter la force. Ce fut peut-être un positionnement biaisé. Nous n'avions sans doute pas suffisamment intégré le fait que les opérations d'aide aux populations étaient primordiales, puisqu'il s'agissait d'opérations destinées à inciter les populations à adhérer à notre projet. Les Américains ont compris avant nous que les opérations d'influence étaient faites pour faire évoluer positivement la perception de leur action, en gagnant comme ils aimaient à le dire, les cœurs et les esprits de ces populations.

 

Dans Le piège américain, vous vous interrogez sur les raisons qui peuvent amener les États-Unis à perdre des guerres. Accorde-t-on une juste place aux opérations d'influence ? Comment voyez-vous chez nous l'évolution du smart power ?

Premier constat, la force est un argument de moins en moins utilisable, car de moins en moins recevable dans les opinions publiques. Si nous voulons faire triompher notre point de vue et imposer notre volonté, il faut s'y prendre différemment et utiliser d'autres moyens. Et d'abord s'efforcer de trouver le meilleur équilibre entre les outils qu'offre le soft power, avec une juste articulation entre les moyens diplomatiques ou d'influence, et les outils militaires. Ces derniers ne peuvent plus être employés comme ils l'étaient avant, l'avantage comparatif initial des armées relevant de l'ordre de la destruction.

Ce bouleversement amène naturellement les appareils d'État à explorer les voies plus douces présentées par les opérations d'influence, lesquelles sont bien sûr davantage recevables par les opinions publiques. Or, pour en revenir à votre question, la puissance militaire déployée par les Américains est par nature une puissance de destruction, donc de moins en moins utilisable dans le cadre évoqué ici. Sinon, comment expliquer que la première puissance mondiale, qui rassemble plus de la moitié des ressources militaires de la planète, n'ait pu venir à bout des Talibans ?

C'est bien la preuve que le seul recours à la force brute ne fonctionne pas. Les États doivent donc chercher dans d'autres voies que celle de la pure destruction, les moyens d'assurer la poursuite de leurs objectifs politiques. Même si nous devons garder à l'esprit que ce moyen militaire stricto sensu reste essentiel dans certaines configurations bien définies. Il ne s'agit pas de se priver de l'outil militaire, qui peut demeurer déterminant sous certaines conditions, mais qui n'est plus à même cependant de résoudre à lui seul l'ensemble des cas auxquels les États se trouvent confrontés.

 

Vous qui avez présidé aux destinées de l'École de guerre, quelle vision avez-vous de l'influence, des stratégies et des opérations d'influence ?

L'enseignement à l'École de guerre évolue. Même si nous nous efforçons de penser avant tout sur un mode stratégique, néanmoins, nous travaillons toujours sur les opérations relevant prioritairement du hard power.

Nous intégrons bien sûr les opérations relevant du soft power, mais elles ne sont pas prioritaires. L'élève à l'École de Guerre doit avant tout savoir planifier - ou du moins participer à des équipes de planification - dans le cadre de forces et d'opérations d'envergure. Il y a un certain nombre de savoir-faire techniques à acquérir, lesquels reposent davantage sur l'usage de la force que sur celui de l'influence. Pour les élèves, c'est là un métier nouveau à acquérir, complexe, très différent de ce qu'ils ont connu jusqu'alors, qui se trouve concentré sur l'emploi de la force militaire à l'état brut. Cependant, dans tous les exercices qui sont conduits, il y a une place pour les opérations d'influence. La difficulté est que l'on ne se situe pas là dans le concret, et que c'est délicat à représenter. Les résultats sont difficiles à évaluer, ils ne sont pas forcément quantifiables, ils peuvent aussi être subjectifs. Alors, peut-être d'ailleurs par facilité, on continue à faire ce que l'on sait bien faire, plutôt que de s'aventurer à faire ce qu'il faudrait réellement faire.

L'Armée de Terre n'a pas à définir une stratégie d'ensemble. Elle doit simplement donner une capacité opérationnelle, maximale à ses forces. Une Armée se situe au niveau technique et opérationnel. Le niveau stratégique se situe au niveau interarmées. Et c'est là que doit s'engager la réflexion à conduire en matière de soft power. Ces précisions étant apportées, il n'en demeure pas moins que – tout particulièrement au sein de l'Armée de Terre – il est nécessaire d'avoir recours à la doctrine qui porte sur les actions à conduire en direction des populations, puisque l'on veut influer sur la perception qu'elles ont de notre action. Reconnaissons pourtant que nous sommes moins avancés que les Américains en ce domaine. Un exemple: un général américain qui commandait la première division de cavalerie en Irak, m'a raconté comment, avant de partir, il avait envoyé tous ses officiers d'état-major à la mairie de Houston pour voir comment fonctionnait une ville. Car il savait bien qu'il allait acquérir le soutien de la population irakienne non pas en détruisant les infrastructures, mais au contraire en rétablissant au plus vite les circuits permettant d'assurer les besoins vitaux, comme les réseaux d'eau ou d'électricité. Il a donc travaillé en amont sur une opération d'influence, qu'il a su parfaitement intégrer à sa manœuvre globale. De la sorte, la manœuvre d'ordre strictement militaire ne venait qu'en appui de la démarche d'influence.

 

A-t-on agi de même en Afghanistan?

En Afghanistan, on a travaillé sur trois lignes d'opérations: sécurité, gouvernance, développement. On a compris que l'on ne pouvait pas travailler de manière séquentielle, (d'abord sécurité, puis gouvernance, puis développement), mais que l'on devait travailler en parallèle sur les trois registres, avec une interaction permanente permettant d'aboutir harmonieusement au résultat final. Si les lignes gouvernance et développement relèvent peu ou prou de la sphère de l'influence, il faut cependant reconnaître que le poids budgétaire de la ligne sécurité est de loin le plus important.

 

Pourquoi ?

Au niveau des exécutifs gouvernementaux, on considère que les opérations militaires sont du ressort du hard power. Or, l'action sur les autres lignes d'opération est au moins aussi importante que sur la ligne d'opération sécurité. De fait, au moins dans un premier temps, les militaires sont d'autant plus à même de conduire les opérations d'influence qu'ils sont les seuls à pouvoir agir dans le cadre extrêmement dangereux où ils sont projetés. Mais ils ont effectivement une propension à penser prioritairement les choses selon des critères sécuritaires. Autre point à prendre en considération, les États ont des budgets limités pour leurs opérations. Les opérations militaires coûtent cher. La tendance naturelle va donc être de rogner sur les autres lignes qui n'apparaissent pas – à tort sans doute – comme prioritaires. Concrètement, influence, développement, gouvernance se retrouvent ainsi être les parents pauvres des opérations extérieures.

 

N'y-a-t-il pas également un problème de formation?

Dans les armées, on est formé comme lieutenant, capitaine, commandant pour parvenir d'abord à l'efficacité technique immédiate. On est ainsi littéralement obsédé par cet aspect des choses et son corollaire, à savoir le très rapide retour sur investissement. On concentre ainsi nos ressources intellectuelles sur le meilleur rendement opérationnel des forces, en privilégiant le budget que l'on consent à une opération. N'oublions pas que nous évoluons aujourd'hui au sein de sociétés marchandes qui veulent des retours sur investissement quasiment immédiats. Nous sommes ainsi immergés dans le temps court, à la différence par exemple des sociétés asiatiques qui, elles, ont une perception radicalement différente du facteur temps. Elles savent qu'à long terme, il est infiniment moins onéreux de laisser le temps au temps, de laisser les transformations se faire progressivement, d'accompagner par l'influence ces transformations. La Chine se vit et se pense sur des millénaires, elle connaît la force des transformations silencieuses qui atteignent leur objectif par le biais de savantes et patientes manœuvres d'influence. Nous cherchons le rendement immédiat à coût fort. Ils visent le rendement à long terme et à faible coût.

 

En guise de conclusion, peut-il y avoir une communication d'influence militaire ?

C'est un peu la vocation du Centre interarmées des actions sur l'environnement, créé en juillet dernier de la fusion du Groupement interarmées actions civilo-militaires (GIACM) et du Groupement interarmées des opérations militaires d’influence (GI-OMI). Sur les théâtres où nous opérons, nous mettons naturellement en place des vecteurs destinés aux populations locales, visant à mieux faire comprendre notre action, à faire percevoir en douceur les raisons pour lesquelles nous agissons. En un mot, nous nous efforçons de jouer sur les perceptions et sur l'image. Mais ce jeu assez fin sur l'influence reste le parent pauvre de l'action militaire.

L'influence est tout en subtilité. On ne la perçoit pas comme on peut percevoir un tir d'artillerie ou une frappe aérienne. Même si nous sommes persuadés du bienfondé des opérations d'influence, nous ne parvenons pas à faire d'elles des priorités, donc à dégager suffisamment de budgets et de personnels à leur profit. En outre, les configurations actuelles privilégient plutôt les projections de puissance pour faire plier l'adversaire. Or, dans l'histoire et en prenant les choses sur le long terme, on constate que l'utilisation de la seule force pure ne marche pas dès lors qu'on examine les choses dans la durée. La projection de puissance ou l'action brutale sont capables de faire plier momentanément l'adversaire. Mais tant que l'on n'a pas changé les esprits, l'adversaire va revenir à la charge, quitte à contourner les obstacles. D'où l'importance capitale des opérations d'influence quand on embrasse une question dans son ensemble. Sur ces questions, je renvoie volontiers au remarquable ouvrage du général Sir Rupert Smith, L'utilité de la force, l'art de la guerre aujourd'hui (Economica, 2007). Pour lui, désormais, les opérations militaires doivent être considérées moins pour ce qu'elles produisent comme effets techniques que pour ce qu'elles produisent sur l'esprit de l'autre. C'est là une préoccupation relativement récente. Ainsi, les dommages collatéraux se révèlent contre-productifs et viennent miner le résultat militaire que l'on vise. Il nous faut bien plutôt réfléchir en termes d'effets à obtenir sur l'esprit de l'autre. C'est là que l'influence s'impose comme une démarche capitale, qu'il nous faut apprendre à maîtriser. Si l'on fait l'effort de mettre les choses en perspective, sur le long terme, on voit bien que toute action militaire, au fond, doit intégrer pleinement la dimension influence, jusqu'à être elle-même une action d'influence.     

Général Vincent Desportes, propos recueillis par Bruno Racouchot (Communication & Influence, janvier 2013)

An interview with Manuel Ochsenreiter

The Fourth Political Theory

An interview with Manuel Ochsenreiter

 

Natella Speranskaya: How did you discover the Fourth Political Theory? And how would you evaluate its chances of becoming a major ideology of the 21st century?
 
 
Manuel Ochsenreiter: Since a certain time I try to follow the developments in Russia, especially Prof. Alexandr Dugin. So it is not a coincidence to get in touch with the Fourth Political Theory. You are asking about the chances. Let me say it like this: The west is actually trapped in its own liberalism. It seems right now that there is no way out because the liberal mainstream political opinion doesn´t accept any alternative ideas. It is like digesting yourself with the same acid over and over again. In my opinion, the Fourth Political Theory could be a medical cure for that sick intellectual situation. It can be a way out of the liberal hamster wheel. And more and more people are looking for such an exit.
 
 
Natella Speranskaya: Leo Strauss when commenting on the fundamental work of Carl Schmitt The Concept of the Political notes that despite all radical critique of liberalism incorporated in it Schmitt does not follow it through since his critique remains within the scope of liberalism”. “His anti-Liberal tendencies, – claims Strauss, - remain constrained by “systematics of liberal thought” that has not been overcome so far, which – as Schmitt himself admits – “despite all failures cannot be substituted by any other system in today’s Europe. What would you identify as a solution to the problem of overcoming the liberal discourse? Could you consider the Fourth Political Theory by Alexander Dugin to be such a solution? The theory that is beyond the three major ideologies of the 20th century – Liberalism, Communism and Fascism, and that is against the Liberal doctrine.
 
 
Manuel Ochsenreiter: First of all, the liberal doctrine is a totalitarian doctrine. Convinced liberals hate to hear that. They even would deny that it is a “doctrine”. But the reality is: The world wide liberalism and the postmodernism of “values” seem to be more totalitarian than communism, fascism or any –isms before. Liberalism doesn´t accept alternative ideas coexisting beside it. It shows its ugly totalitarian face every day all over the world and its sharpest sword is hypocrisy. The liberal “tolerance”, one of the most mentioned and beloved liberal values just enjoy other liberals. There is no tolerance towards non-liberals. The west showed a couple of times in the past towards some countries who didn’t adjust to this liberal world order, what that can mean at the end: If other societies, people, and countries are not convinced by NGOs, “civil society” and other forms of “western help”, they will be convinced by drones and Cruise missiles. The liberal west tells the beloved stories about “human rights” violations to convince the western societies about the necessity of such military operations. Liberals liberate with money or bombs. The choice is upto the “backwarded” aim. But at the end, everybody knows the “open society” (Karl Popper) means in reality “open market”, “free speech” means “liberal speech” and “freedom of choice” means “McDonalds or Burger King”. There is even a liberal “new speech” for these things: Military ground offensives are now “humanitarian zones”, air raids are “installing a no-flight zone” and ugly primitive Russian girls urge the west to shout “Free Pussy riot!”.
 
 
dugin_-_the_fourth_political_theory_little.jpgEvery established intellectual, politician or media company moves inside this totalitarian liberal system. For example you will not find any established political party in the German parliament that doesn´t claim to be “also liberal”. Our universities “research” about “identities”, “gender”, and “culture” to change this or that. The new liberal types of human being don´t have a heritage, homeland or cultural identity. Even the gender can be changed. We could consider that as a type of slapstick comedy if it wouldn´t be so serious, because it means a type of destruction of basics and values, which might be hard to repair.
 
 
So Prof. Dugin’s theory shows an emergency exit out of this totalitarian system. It is like opening a window to let some fresh air into the western paralyzed intellectual environment. But the liberalism is not a weak ideology which would wait for its defeat.
 
 
Natella Speranskaya: Do you agree that today there are “two Europes”: the one – the liberal one (incorporating the idea of “open society”, human rights, registration of same-sex marriages, etc.) and the other Europe (“a different Europe”) – politically engaged, thinker, intellectual, spiritual, the one that considers the status quo and domination of liberal discourse as a real disaster and the betrayal of the European tradition. How would you evaluate chances of victory of a “different Europe” over the ”first” one?
 
 
Manuel Ochsenreiter: This reminds me to the “old Europe” and the “new Europe” Donald Rumsfeld was talking about in 2003. The “old Europe” was the one that refused to support the US in the Iraq war, especially Germany and France, and the “new Europe” joined the „coalition of the willing“. But of course you mean something else with your question. There is certainly a “different Europe”. We wouldn´t be talking if it didn´t exist. In all the European countries you see certain types of intellectual resistance against the liberal totalitarian system. I would even call this type of Europe the “real” one. Because the official “Europe” is just a weird construction that denies traditions and differences, everything what makes the rich nature of Europe and the Europeans.
 
 
The “real Europe” is everywhere, where intellectuals, journalists, and politicians turn their back to Brussels and the liberal system. You find it in a huge amount of magazines, newspapers, internet forums, and political organizations all over the continent. They do it without any powerful support from other countries, just with their idealism. There are no NGOs or other institutions that fund that important work. But this shows exactly that type of these new political grassroots.  
 
 
Natella Speranskaya: “There is nothing more tragic than a failure to understand the historical moment we are currently going through; - notes Alain de Benoist – this is the moment of postmodern globalization”. The French philosopher emphasizes the significance of the issue of a new Nomos of the Earth or a way of establishing international relations. What do you think the fourth Nomos will be like? Would you agree that the new Nomos is going to be Eurasian and multipolar (transition from universum to pluriversum)?
 
 
Manuel Ochsenreiter: Western liberal propaganda always claims: “Even if we wanted, we couldn´t do something else because it would result in violence and war!” They spread panic and fear among the people. You have to imagine, our German politicians tell us that even if we Europeans would abolish the Euro currency, we might end up in a war. The postmodern globalization is presented as the only single way for the future. I spoke about liberal hypocrisy before. The truth is that the way of globalization is a painful and bloody one as we can see in many countries with western “liberation” attempts. It is a hamster wheel of wars and more wars. The longer it goes the more blood is spilt. This logic is as simple as cruel.
 
 
Why is it like this? After the downfall of the Soviet Union and the communist eastern block, western political scientists (Charles Krauthammer, Francis Fukuyama and many others) welcomed more or less the “unipolar moment”; one world with one pole which was the west. This idea was like a western “idyll”. With “Western democracy” and “western freedom” spreading all over the world also to the last little corner, mankind will face a long-term, a “final” period of peace and prosperity. Although we see every day in the news the evidence of failure of this ideology, the west still works on it. As I already said, since the end of the Cold war and the geopolitical attempts of the west to install this unipolar idea, we witness the chaotic and violent results of this sort of geopolitics.
 
 
A multipolar international order is not just the answer. It is a logical result. The question is how will this multipolar order be organized? A well-organized multipolar world would not just bring stability, but would also be a great intellectual chance of cultural exchange on a really high level. It recognizes the value of “difference” while the west today propagandizes worldwide equality and unity. The local and regional cultures would have the chance of free development, tradition, and cultural identity (both is denied by the western ideology) that could prosper. The actual western hegemony with the means of NGOs and media tries to push down these things, but not forever. And of course Eurasia will play an important role.
 
 
Natella Speranskaya: Do you agree that the era of the white European human race has ended, and the future will be predetermined by Asian cultures and societies?
 
 
Manuel Ochsenreiter: Today’s Europe is losing its human substance. It shows once more that the liberal ideology is a suicidal idea. On the one hand it fights against families and promotes for example abortion; on the other hand it campaigns extremely for mass immigration. The consequence is extinction of the Europeans. How long it takes is pure mathematics. How much the face of Europe already has changed you can witness in any European capital between Lisbon and Athens. We cannot say that the quality of the human resources really become better by immigration even if we would consider that as a neutral or even “positive” development as the liberals do. In contradiction, we face a lot of problems with immigrant communities. The liberal ideology refuses to see the reasons where they are: in ethnic backgrounds. They just speak about an alleged “discrimination” of the migrant communities and about the alleged social injustice the migrants are facing. Politics denying ethnic differences deny the reality.
 
 
Of course this development weakens Europe. We are busier more and more with “integration”, what means with ourselves. You have really to be an anti-realist to see a benefit in that suicidal development. But this exactly is told by the liberal dogma. This means automatically that other entities and cultures who don´t suffer under such development will have an advantage against a weak Europe.
 
 
Natella Speranskaya: Do you consider Russia to be a part of Europe or do you accept the view that Russia and Europe represent two different civilizations?
 
 
Manuel Ochsenreiter: I don´t see a contradiction. I personally consider Russia as a European country, of course with diverse ethnic groups. And of course it has its own culture, traditions, and identity. But every European country has its own culture and traditions. The only difference is, we Europeans are told nonstop by the Brussels propaganda that we are all somehow “the same”. The Russians have the benefit not being bombarded by that ridiculous nonsense. For me as a German, Russia should be our close friend and ally. We share a lot of interests, we share a common history of course with ups and downs – at least Moscow is closer to us than Washington. A close relationship to Russia would be in the national interest of Berlin and Moscow.
 
 
Natella Speranskaya: Contemporary ideologies are based on the principle of secularity. Would you predict the return of religion, the return of sacrality? If so, in what form? Do you consider it to be Islam, Christianity, Paganism or any other forms of religion?
 
 
Manuel Ochsenreiter: When people start worshipping their bank accounts, the horoscopes in the yellow press magazines or their luxury cars what does that tell us about the alleged absence of religion? When it is forbidden to deny liberalism as it used to be forbidden to deny the existence of god in the Middle Ages? The “secularity” in today’s Europe just refers to the power of the organized religion, but obviously not to the needs of the people. When the religion disappears they find something else. In Berlin housewives are running into Buddhist temples because they adore the eternal smile of the Dalai Lama or the haircut of Richard Gere. Of course they don´t understand anything about the spirituality of Buddhism. Trendy Businessmen do some yoga exercises. Others start doing esoteric things. But this is also an element of liberalism: superficiality. While this is happening, the organized churches are more and more weakened themselves by the liberal virus. Sometimes it is really hard to see the difference between a protestant bishop and a liberal teacher. It is somehow ironic that God comes back to Europe in these days as a Muslim migrant. All of a sudden people go on the streets to protest against blasphemy. And this takes place at the same time when “Christian” clerics in Germany seriously support the blasphemy group “Pussy riot”.
 
 
So we see on the one side the spiritual needs of the people, but on the other side also today’s Christian churches’ refusal to serve those needs. Of course there are also some exceptions. But the general situation especially in Germany and other central and western European countries is like that.
 
 
I personally don´t believe that a new type of paganism might be a dominant religious power in Europe. Why? Because it would be a pure artificial concept for the people. The strength of the churches in the past was their ties to the traditional daily life of the people. Especially Catholicism perfected to adopt and integrate old pagan traditions in its system. If Europe recovers, I am sure that maybe a new type of European Christianity would also recover. It would be a logic thing. When liberalism starts to disappear, it´s totalitarian system will also disappear. Even the Bishops of liberalism like George Soros would lose their power. But if Europe falls, the last of the “three Romes” will be Moscow – and the only resistance against the liberalist doctrine in Europe will be done by the Muslim communities while the organized Christians celebrate their own downfall. 

vendredi, 25 janvier 2013

Xavier Faure: "Pourquoi je souhaite devenir russe!"

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Xavier Faure: "Pourquoi je souhaite devenir russe!"

Propos recueillis par Alexandre Latsa

Ex: http://fr.rian.ru/

Sur le même sujet: Un pilote de montgolfière français souhaite devenir Russe comme Depardieu

 
Alors que l’affaire Depardieu n’en finit pas de faire des remous médiatiques, on peut cependant déjà tirer une conclusion de ce Buzz planétaire: la Russie pour des centaines de millions de gens apparaît comme un pays dans lequel on peut désormais envisager de s’installer.

 

On peut même imaginer que l’affaire Depardieu a fait plus pour l’image de la Russie que la plupart des grands cabinets de PR qui travaillent pour l’Etat! Depardieu n’est cependant pas le seul à vouloir devenir russe. Les lecteurs de RIA Novosti ont pu lire une nouvelle surprenante vendredi dernier affirmant qu’un pilote de Montgolfière français, du nom de Xavier Faure, souhaitait lui aussi devenir Russe!

 

J’ai donc voulu en savoir plus sur ses motivations à "souhaiter devenir russe".

 

Xavier Faure bonjour et merci de bien vouloir rependre a mes questions, tout d’abord, pourriez vous vous présenter?

 

J'ai 37 ans, célibataire, né à Reims en Champagne. J'ai étudié le Russe comme première langue étrangère au collège. Je n'étais pas un très bon élève mais j'ai toujours porté ce pays dans mon cœur. J'ai ensuite étudié dans le domaine technique et obtenu un brevet de technicien en électrochimie, avant de travailler dans diverses usines, de simple operateur jusqu'à chef d'équipe. J'ai ensuite travaillé comme équipier de montgolfière, un métier au contact du public et de la nature. Puis j'ai passé mon brevet en contrat de qualification. En 2006, je suis devenu pilote professionnel après 150 heures de vols et avoir piloté des montgolfières de gros volumes dans différentes grosses sociétés en France et à l'étranger. Du fait de la précarité et de la saisonnalité de cette activité, j'ai essayé en parallèle de trouver une activité stable qui me correspondrait.

 

J'ai donc passé un examen professionnel en sérigraphie en 2001, puis un BTS en agriculture Biologique en 2007 mais les belle promesses sur le Bio ne sont pas suivis de financement. Parallèlement donc j’ai travaillé sur d'autres sujets: l'eau sous tous ces aspects, des traitements naturels a la potabilisation, les médecines alternatives et quantiques et aussi sur les systèmes énergétiques innovants. Je suis en relation avec des chercheurs et expérimentateurs dans ces domaines et j'écris quelques articles dans des revues spécialisés. En gros je fais de la veille technologique.

 

Si j’ai bien compris vous résidez actuellement à Koungur, une petite ville dans l’Oblast (région) de Perm. Pourriez-vous nous présenter la ville, et ce que vous y faites? Comment y est la vie?

 

C'est une très petite ville de province, source de quelques moqueries de la part des habitants des grandes villes, mais c'est surtout une étape sur la voie du transsibérien. Elle est traversée par trois rivières. Le Héros Ermak y serait arrivé en Bateau et aurais fait étape avant de conquérir les territoires sibériens et battre les tatares. Les Armes de la ville sont la corne de l'abondance et les cristaux de l’Oural, ainsi que le bateau d’Ermak.

 

Koungur possède de nombreuses et magnifiques églises et il est possible de se baigner dans les rivières en été comme en hiver, c'est même le sport local préféré, me semble-t-il. Il y a une grotte très rare ou il y de la glace toute l'année, plusieurs usines et de la place tout autour pour se poser en montgolfière. Comme partout en Russie les femmes y sont très belles.

 

La nature est très riche avec les paysages typiques des contreforts de l’Oural, plats avec de la forêt trouée par de grandes étendues de champs peu cultivés et des vallées fluviale plus prononcés mais parfois encaissées. En France, cela pourrais ressembler à un mélange de régions entre Colmar au pied des Vosges et les Ardennes entre Charleville-Mézières et Gisors.

 

Il y a quelques usines comme "Маштаб" qui fabrique des camions et emploie entre 3.000 et 4.000 personnes, deux usines de transformation de viande dont la célèbre "Телец", deux usines de limonade "Пикон", le "Молокобинат" pour le lait, deux scieries et d'autres que je ne connais pas encore.

 

La vie y est dure et douce en même temps. Dure économiquement car il me semble qu’il faille au moins deux activités pour vivre correctement. Il y beaucoup de "débrouille" mais tous le monde se connaît et il y a une forte entraide et une importante solidarité que je ne connais pas chez nous en France, en tout cas pas à cette échelle. J'entends malgré tout, souvent, que c'est moins fort qu'il y a 10-15 ans en arrière. L'esprit de la surconsommation effrénée et l’hyper matérialisme me semble porter atteinte à l'âme des gens et ici comme ailleurs les mêmes causes produisent les mêmes effets. Mais il y encore de la marge avant d'arriver à la même situation qu'en France. Les habitants sont patriotes, ils aiment leur pays et l'affichent. La ferveur religieuse est aussi très présente et importante.

 

Les institutions locales et fédérales sont socialement très présentes surtout après des enfants, écoles, bibliothèques, maison des activités de l'enfance pour les petits, maison des jeunes et du tourisme, parcs pour les enfants et installations de jeux enfantins, le sport et les installations sportive, stades, piscine, salles d’entraînement etc. Il y a aussi des musées dont celui de la conquête spatial et enfin le collège des Artistes et son foyer ou j'habite et dont les conditions matérielles pourraient paraître spartiates pour un Européen normal. Il y partout de grands quartiers d'isbas traditionnelles et parfois un ensemble d'immeubles au milieu. On trouve des petits magasins partout et quelques hypermarchés de types super U, et il y a aussi un club très actif d'école de pilotes de montgolfière, dirigé par Andreï Vertiproxov, ancien pilote de Mig.

 

Mes occupations sont diverses. J'ai fait quelques interventions dans une école locale ou on y enseigne le Français en deuxième langue. L'administration issue de l'époque Eltsine pousse pour l'anglais en première langue et le français ainsi que l'allemand font de la résistance. Je suis sinon fort occupé par mes démarches administratives (pour obtenir un passeport Russe) et les nombreuses interviews que j’ai commencé à donner a ma grande surprise. Enfin et surtout j’apprends le russe.

 

Pourquoi avoir choisi une aussi petite ville, alors que généralement les étrangers s’installent plus généralement dans des grandes villes russes?

 

J'aime les petites villes car la nature est à porté de la main, c'est très important pour moi. Je ne supporte plus, en France comme ailleurs, l'absurdité de la vie dans les grandes villes. Passer sa précieuse vie dans les embouteillages à dépenser une énergie de plus en plus rare, tout ça pour un travail qui ne sert qu’à perpétuer un système moribond, me parait complètement aberrant.

 

Mais surtout, j'ai trouvé un endroit ou je me sens à ma place.

 

Grâce à Daria Gissot de l'association So!art qui représente la ville de Perm à Bruxelles,  j'ai cet été participé à "небесная ярмака", le festival de montgolfière annuelle de Koungur. Elle m'avait souvent parlé de sa Région natale et c'est un projet que nous avions depuis longtemps.

 

J'ai rencontré ici de nombreuses personnes avec qui je me suis profondément lié d'amitié, une équipe municipale dynamique et volontaire, ainsi qu'une population chaleureuse. Une sorte de liberté et de joie de vivre malgré les soucis quotidiens, règne ici. Une ville, belle, historique avec un potentiel de développement important. Bref, un petit morceau de paradis, comme il en existe beaucoup en Russie.

 

Comment arrive-t-on de France (Lille?) à Koungur? Je veux dire physiquement bien sûr mais aussi mentalement? Quelles sont les raisons ou motivations qui vous ont poussé à quitter la France?

 

Et bien en voiture déjà, car je suis parti avec ce qui me semblais essentiel à emporter et j'ai traversé toute l'Europe et le pays baltes. Après, moralement, je ne sais pas expliquer comment, c'est à l'intérieur que cela se joue et je n'ai pas les mots pour le dire, il faut le vivre. Comme ont dit en Russe "просто так" simplement comme ça! Quelques habits chauds, une volonté de fer de rester et d'y vivre et un forte envie de pleurer de joie tout les jours quand je me lève et que je regarde par la fenêtre et ce malgré les difficultés.

 

Les raisons sont diverses et nombreuses. D’abord je crois que fondamentalement j'ai toujours voulu habiter en Russie, donc c'est un rêve d'enfant que je devais réaliser avant d'être trop âgé.  Ensuite la situation en France est devenue intenable sur beaucoup de plan. La vie est excessivement chère, cela se dégrade chaque jours et ne va pas s'arranger de si tôt, je pense même que cela va fortement se dégrader cette année. La situation économique et sociale est exécrable. Je n'y ai plus de perspectives d'emploi. Les projets et idées que j'ai eues n'ont rencontré aucun écho. Je trouve que beaucoup de gens sont fermé d'esprit ne s'intéressent qu'a eux et sont vieux dans leur tête. Les politiques n'en ont que faire du peuple et ne vivent que pour eux et leurs petites magouilles personnelles. Il n'est pas possible ne montrer qu'on aime son pays, comme en Russie. Je ne me sentais plus de rester en France. C'est mon pays que j'aime, j’aime son histoire qui me rend fier, j’aime sa culture et sa cuisine, il a été grand, mais je n'arrive plus à m'y projeter dans le futur.

 

Aujourd'hui, la France est un pays en faillite qui ne peut plus payer ses militaires en opération depuis 8 mois et qui fait enlever les culasses des armes quand le président visite une caserne!

 

J'ai vécu une expérience intéressante l'hiver dernier qui m'a décidé à partir. En revenant d'Afrique, j'ai remarqué qu'en nous posant à Orly les même gens qui était joyeux dans l'avion devenait soudain apathique comme si un couvercle leur était tombé dessus. C'est là que j'ai réalisé qu'il y avait une atmosphère particulière qui planait sur la France. J'ai eu la confirmation de ce phénomène par beaucoup de personnes qui ont voyagé ainsi que sur le blog de Pierre Jovanovic : nombreux sont ceux qui ont ressentis la même chose. Personnellement, je suis de nature joyeuse mais c'était un effort de tous les instants de ne pas être contaminé par cet apathie générale et c'était très énergivore et fatiguant.

 

En Russie il y a beaucoup de problèmes à régler mais ma vie c'est transformé d'un mauvais film de série B en aventure de tous les instant. Il m'arrive ici des choses qui n’auraient pas été possible en France!

 

L’image de la Russie est mauvaise, tout le monde le sait. Vous habitez dans ce pays depuis quelques mois et dans des conditions normales (pas en tant qu’expatrié), quelle est votre opinion sur l’image de la Russie par rapport à ce qu’est la Russie en réalité? Ou du moins telle que vous la vivez?

 

La vision médiatique est complètement fausse et n'a pas grand chose à voir avec la réalité. Il règne ici une forme d’insouciance, un joyeux bazar organisé, (les russes disent всё нормално!) à tout bout de champs pour les choses un peu curieuse et il y a une envie de vivre que j'ai aussi rencontré en Afrique noire et qui à a mon avis disparu depuis longtemps de chez nous dans nos pays Européens.

 

Sinon c'est une démocratie représentative comme les autres, ni plus ni moins avec ses particularités propres, qui sont une administration parfois lente et lourde et des différences sociales très marqués, résultat sans doute de l'hyper-libéralisation de l'économie des années 90. Les Russes sont comme les autres humains, ils y en a des bons, des très bons, des mauvais et des très mauvais, mais heureusement ceux que je connais ont un cœur "grand comme ça".

 

Surtout, je m'y sens plus libre que ces dernières années en France. Il y plein de choses, aussi simple que de se baigner librement en rivière par exemple, qui ne sont plus possible en France. Gérard Depardieu à dit que: "La Russie est une grande démocratie". La Russie est une démocratie comme la France (qui d’ailleurs à été un modèle dans la rédaction de la constitution russe) et c'est un pays à l'échelle d'un continent donc oui, techniquement "c'est une grande démocratie".

 

Comparativement à la France et dans le cadre du quotidien vécu: quel est le plus grand atout de la Russie et aussi ce qu'il faut améliorer en priorité?

 

Le plus grand atout, c'est la solidarité. Les Russes sont tous différents mais se sentent tous Russes dans l'âme et sont prêt à vivre ensemble et à construire une grande Russie. L'immense espace territorial est aussi un grand atout car il recèle de nombreuses ressources naturelles qui assurent à la Russie son indépendance. Il y a ici de la place pour tous et pour tout faire.

 

J'entends très souvent autour de moi des plaintes envers l'état des routes et la précarité des rémunérations et du système des retraites. Une autre inquiétude est la dépendance économique basé principalement sur la ventes des ressources énergétiques, qui si celles-ci devaient se tarir, laisseraient la Russie exsangue. Je pense que la Russie devrait massivement investir dans les économies d'énergies et les ressources locales de productions énergétiques et alimentaires. Parallèlement développer un système de sécurité sociale fort sur le modèle Français, modèle envié dans le monde entier et qui a été un gage de prospérité économique pendant 40 ans, jusqu'aux attaques gouvernementales de ses dernières années.

 

Beaucoup de Français, depuis l’affaire Depardieu, affirment à haute voix vouloir un jour devenir russe, notamment sur ma page Facebook j’ai pu le constater. Tous ne connaissent pas la Russie, mais ce pays pour eux représente quelque chose, comme une sorte de forteresse? Etes-vous d’accord avec cela?

 

Oui en partie. Pour l'instant c'est un pays qui semble être sur une position non-aligné par rapport à l'axe du bien censé être le monde des démocraties occidentales. En tout cas, elle participe à l'élaboration d'un monde multipolaire favorisant l'entente des peuples et est donc gage de stabilité mondiale et de prospérité économique. Les valeurs qui ont permis aux humains de vivre ensemble y sont encore défendues.

 

Le même phénomène a eu lieu envers la France quand le Président Chirac avait refusé de participer à la deuxième guerre en Irak. La France s'était levé contre une injustice majeure et avait suscité l'intérêt et l'admiration à travers le monde. Partout les Alliances Françaises avaient été envahies par des personnes qui voulaient apprendre le français.

 

La Russie représente aujourd'hui un phare guidant les gens qui refusent la vision simpliste, marchande et unipolaire du monde, et qui recherchent un peu d'enthousiasme et de chaleur humaine. Elle retrouve un peu le statu qu'avait l'URSS face au modèle tout capitalisme libéral américain, mais dans un monde qui a évolué et où les repères et valeurs sont différents.

 

Vous avez parlé de prendre la nationalité russe? Vous êtes donc prêt à abandonner votre nationalité française comme le prévoit la loi russe?

 

Et bien, je ne suis pas un expert en droit international, mais je ne vois pas d'inconvénient à abandonner la nationalité française! Mes meilleurs amis en France sont Belges, Polonais, Russes, Géorgiens. La France est aujourd’hui vendue à l'idée européenne qui ne reconnaît pas les nations en tant qu'entités souveraines. 90% des lois françaises qui sont votées par le parlement sont des lois européennes transcrites en droit français. La Commission Européenne décide du budget de la France. Le drapeau français a disparu du site de l’Élysée et nos gouvernements privatisent le système des retraites et la sécurité sociale, soit le meilleur système de protection sociale que tout le monde nous envie.

 

La France en tant que tel pour moi n'existe plus donc quid? Où est le problème?

 

Vous sentez-vous proche de la mentalité russe, et si oui comment la définiriez vous ? En quoi diffère-t-elle de la mentalité française?

 

Oui, je me sens assez proche de la mentalité russe, qui est une forme de résignation joyeuse, "вот как мы живем" disent souvent mes amis. Voilà comment nous vivons, traduction. "C'est dur mais on est chez nous avec nos amis et cela nous plaît, que peut-on faire d'autre?". C'est un mélange de survie au jour le jour et de vie intense de chaque bon moment de la vie sans trop se poser de question sur l'avenir.  En tout cas en province c'est comme cela que je le ressens.

 

En France tous est contrôlé, aseptisé, propre, rangé, légiféré, organisé, fini! Il est difficile de trouver de l'aventure comme c'était possible jusque dans les années 1950. Il n'y a plus de grandes causes dans lesquelles s'identifier sinon celles proposées par le monde anglo-saxon. C'est d'ailleurs pourquoi beaucoup partent en vacances loin, dans des destinations exotiques et aventureuses. Moi qui est vécu une grande partie de ma vie à Reims puis suis parti pour mon travail aux 4 coins de la France: Angers, Saumur, Toulouse, Lille, j'ai ressenti partout le même malaise d'être jeune avec peu de débouché et de faire face a cette situation nouvelle en France: l'ennui dans des grandes villes désertées à partir de 20h00, les tensions avec les banlieues, l'incompréhension réciproque, etc.

 

Quels sont vos plans et objectifs aujourd’hui en Russie? Que pensez- vous que la Russie peut vous apporter?

 

Dans un premier temps, je vais travailler avec les élèves de l'école de français de Perm, le temps de mieux maîtriser le russe et d'étudier le fonctionnement des structures locales. Mon expérience dans l'émission d'Andreï Makarov sur la Première chaîne m'a donné envie de participer à des émissions où il est possible de débattre calmement des questions économiques et sociales et d'apporter mon expertise, car j'ai aussi étudié l'économie politique dans un parti politique pendant cinq ans. J'écris parallèlement des articles sur la vie en Russie et aussi sur les autres sujets auxquels je m’intéresse à destination de la France.

 

Par la suite, je souhaiterais partager l'expérience de mes divers domaines de compétences, montgolfières, tourisme et agriculture biologique avec la Russie et principalement à Koungur. J'aimerai aider Koungur à devenir une ville modèle dans le domaine des questions d'environnement et monter une association de promotion des techniques liées à la protection de l'environnement en Oural, voire créer une maison de l'environnement et du tourisme environnemental, comme il en existe en France, associant une découverte du terroir en Montgolfière. Un tel centre serait je crois un pôle d'excellence et d'attraction pour Koungur.

 

Il y a ici de nombreuses possibilités. Le président Poutine et le premier ministre Medvedev ont déclaré: "2013 année de l'environnement et de l'agriculture biologique en Russie", l'occasion d'agir dans ce sens est une chance dont Koungur pourrait se saisir. La ville est idéalement située dans ce cadre, au croisement de deux axes routiers importants, un axe Nord/Sud et l'autre faisant le lien entre la Russie européenne et asiatique. La ville est proche d'un aéroport et desservie par une ligne ferroviaire. De plus, son cadre naturel et historique la chaleur de sa population, sont tout autant d'atouts qui en font une ville attractive.

 

J'aimerai que la Russie m'apporte, que la France ne permet que difficilement d’obtenir, un travail, de la reconnaissance et un terrain pour construire une maison et une famille. Mais j'aimerai surtout que ma présence ici permette à la Russie ainsi qu'à la France, deux grand pays avec des histoires communes sur de nombreux points, de mieux se comprendre et de travailler ensemble en dépassant les conflits politiques.

 

Merci Xavier Faure pour vos réponses, les lecteurs souhaitant en savoir plus peuvent consulter votre blog, qui relate votre nouvelle vie en Russie.

 

L’opinion exprimée dans cet article ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction, l'auteur étant extérieur à RIA Novosti.

 

Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie".

lundi, 21 janvier 2013

The Fourth Political Theory

 

 

 

 
Natella Speranskaya:  How did you discover the Fourth Political Theory? And how would you evaluate its chances of becoming a major ideology of the 21st century?
 
Felix H. Widerstand:  I discovered the Fourth Political Theory after making some research and looking for alternative political ways of organization. I understood that the concepts “left” and “right” are tricky and deceptive ways to mislead the people in order to divide them; and that there must be a real way to combat against globalism and resist the “new world order” that is being implemented by Zionist controlled West (USrael and it´s colony “EU”).
 
So, I discovered Third-positionism, and became a supporter of national-revolutionary movements in a multipolar geopolitical order (In the Arab countries they have Baathism, Nasserism; in Latinamerica they have Peronism, Bolivarianism; and in our countries we have Eurasianism). This is also known as "international nationalism"; against chauvinism and racism but for the preservation of all identities and of all cultures. I see Eurasianism, or the Fourth Political Theory, as a contemporary way of resistance  for those of us who live “from the Canary Islands to Vladivostok”. For resistance against the plutocratic, materialistic, economicist sytem disguised as "democracy", and against american cultural imperialism.
 
The chances to become a major ideological force are now still low in my opinion (at least for westerners), because of the constant brainwashing that our society is exposed to. Consumerism, individualism, mammonism, and all kind of filth is being pumped in the brains of our people by the media on a daily basis. But the first step should be to spread the idea, to open the eyes of the people, letting them know that other ways of social organization are possible. Then, we need good leaders able to organize the people and who can stand strong and defiantly against the NWO, always defending national soveraignity, at all costs. 
 
The best way of political organization is, in my opinion, a traditional one, were spiritual values are respected, were a collective pride is encorauged, and were social justice is implemented; against usury, exploitation and capitalism.
 
But this ideas are viewed as “extremist” “fascist” and “anti-democratic” by the politically correct left and by the politically correct right.
 
Natella Speranskaya:  Leo Strauss when commenting on the fundamental work of Carl Schmitt The Concept of the Political notes that despite all radical critique of liberalism incorporated in it Schmitt does not follow it through since his critique remains within the scope of liberalism”. “His anti-Liberal tendencies, – claims Strauss, - remain constrained by “systematics of liberal thought” that has not been overcome so far, which – as Schmitt himself admits – “despite all failures cannot be substituted by any other system in today’s Europe. What would you identify as a solution to the problem of overcoming the liberal discourse? Could you consider the Fourth Political Theory by Alexander Dugin to be such a solution? The theory that is beyond the three major ideologies of the 20th century – Liberalism, Communism and Fascism, and that is against the Liberal doctrine.
 
Felix H. Widerstand:  Indeed, the Liberal doctrine (plutocracy, usury and wild capitalism) is the parasitic economic system used by US-imperialists (Zionists, because Zionists are not only in “Israel”, they are in Washington and New York as well) to control the world and destroy the economic and national soveraignity of all countries that still follow independent policies and don´t bow to globalism. We have seen this very recently in Libya, we saw this in Iraq, in Yugoslavia, and are witnessing the same again with the events going on in Syria. What a coincidence that all countries that are being destroyed by the warmongers had an independent banking system and were not followers of the Liberal doctrine!!
 
Leo Strauss was the main perpetrator of the “neocon” ideology, he was a Zionist supremacist like all his powerful and now active followers (Elliott Abrams, Paul Wolfowitz, Charles Krauthammer, Richard Perle, Douglas Feith, and so on and so forth – all this filthy disgusting criminals have a very evil agenda)
 
The solution to liberalism would be to restore the national and economic soveraignity of all countries, in a geopolitically multipolar world. We must go out of the “European Union”, go out of the World Bank, Greece (for instance) should stop paying interests to the banksters of Goldmann Sachs; all countries wanting national soveraignity back should go out of all this international globalist organizations that, in an Orwellian way, are enslaving countries in the name of “freedom and democracy”.
 
I see Prof. Dugin´s organization and activism as a very good alternative to fight against this system.
 
Natella Speranskaya:  Do you agree that today there are “two Europes”: the one – the liberal one (incorporating the idea of “open society”, human rights, registration of same-sex marriages, etc.) and the other Europe (“a different Europe”) – politically engaged, thinker, intellectual, spiritual, the one that considers the status quo and domination of liberal discourse as a real disaster and the betrayal of the European tradition. How would you evaluate chances of victory of a “different Europe” over the ”first” one?
 
Felix H. Widerstand:  Of course, there are this two Europes; the first one is being imposed upon us by the Masonic architects of the liberal agenda – see the “Kalergi plan” – particularly since the so-called “Frankfurt School” (Horkheimer, Adorno, Marcuse…) started to spread all kind of filth and poison to overthrow the traditional European values and society with their “cultural Marxism” and “political correctness”; they (by the way) directly influenced the May ´68 protests in France (a CIA operation, the first “colour revolution”, long time before Ukraine´s) with agitators like Cohn-Bendit, to overthrow President De Gaulle, who did not bow to NATO as requested.
 
This “liberal Europe”, slowly suffocating us, is sadly the majoritary tendency; particularly in the West. The “other” Europe, the “different” one, is the one resisting to this psychological warfare and dominium strategy. We are the minority. But this spiritual, traditional Europe, proud and conscious of its roots and willing to preserve its soveraignity and its identity is geographically much better represented in the East: I see Russia as a big hope for all Europeans.
 
Natella Speranskaya:  “There is nothing more tragic than a failure to understand the historical moment we are currently going through; - notes Alain de Benoist – this is the moment of postmodern globalization”. The French philosopher emphasizes the significance of the issue of a new Nomos of the Earth or a way of establishing international relations. What do you think the fourth Nomos will be like? Would you agree that the new Nomos is going to be Eurasian and multipolar (transition from universum to pluriversum)?
 
Felix H. Widerstand:  Yes, we must rediscover our past, to better understand our present, because only if we understand our present we will be able to construct our future. A Multipolar worldview, like the one proposed by the Eurasian movement, is the only alternative against the planetary hegemony on the “one-World” imperialists.
 
Natella Speranskaya:  Do you agree that the era of the white European human race has ended, and the future will be predetermined by Asian cultures and societies?
 
Felix H. Widerstand:  I would rather say that the white European human race has being forced to an end in Europe, due to bio-social engineering, and a very careful and well prepared long-term programm (remember the Kalergi-plan).
 
Indeed, the Asian (particularly the Chinese and Indian masses) outnumber the Europeans extremely, and the Africans as well… They are very numerous, while the whites are always becoming less and less.
 
In this context of the Asian cultures, it is sad to point out that the great Japanese nation, with a heroic history and tradition, has been americanized in the last decades becoming also a corrupted capitalistic-mercantilistic society, almost as bad as the modern western civilization.
 
Natella Speranskaya:  Do you consider Russia to be a part of Europe or do you accept the view that Russia and Europe represent two different civilizations?
 
Felix H. Widerstand: I consider Russia a particular, an own civilization, but with European roots. Nowadays there is a very huge difference in the average mentality of the ordinary westerner and the Russians (and other Eastern Europeans); because Russians and Easterners are still not that corrupted by western poison, and they are still able to preserve their heritage and identity.
 
Natella Speranskaya: Contemporary ideologies are based on the principle of secularity. Would you predict the return of religion, the return of sacrality? If so, in what form? Do you consider it to be Islam, Christianity, Paganism or any other forms of religion?
 
Felix H. Widerstand: The contemporary ideologies that proliferate in the West after the French Revolution and were reaffirmed during the XX century by freudo-marxist currents are indeed propagating secularism and atheism. The Masonic-talmudic architects behind these modern ideologies know perfectly well that this is the best method to weaken a society: by spreading individualism and condemning communitarism and spirituality: “Divide and conquer!”
 
Christianity has been infiltrated and destroyed from within in the western world, and almost all (organized churches) what remains is corrupt (the Vatican, the Protestant sects, etc). Only in the East, like in Russia, the Orthodox faith represents still a spiritual alternative. Islam, on the other side, has proved to be a good way of resistance for the Muslim countries. Particularly the Shia-current, practiced mostly in Iran, and that preserves also some ancient Persian Zoroastrian heritage. But also within Islam there is a tendency trying to destroy this religion from within, like a Trojan horse: It´s Saudi wahhabism, the “Calvinist” kind of Islam. This wahhabi (or salafi) fanatics are being supported by the West, this is the main ideology behind “Al-Qaeda” and all this terrorist groups which took over Libya and are trying to destroy Syria. Also, this is the ideology of the Chechen terrorists, and of the Bosnian ones in the Yugoslavian wars of the ´90. This demonic perversion, which has nothing to do with real Islam (like scholar Imran Hosein and many other real Muslims pointed out), is being used by the West as proxy, as mercenaries, as "useful idiots".
 
Zionist imperialism is trying to put Christianity and Islam against each other (“Clash of civilizations”), to destroy both of them more easily. And the sad thing is that they are being succesfull! We must awake and realize who the real enemy is.
 
While I sympathize with ancient Paganism, I think that we have to be very careful with the modern “neo-pagan” tendencies that are being spread in the West since the “hippy” times; all this “New Age” fake spirituality is also a part of this plan to overthrow culture and society.
 
In my opinion, every nation, every culture, should be attached to its own spiritual tradition; be proud of it and stay strong. We see this with sovereign national leaders like President Chávez from Venezuela, who is a fervent Catholic; or with President Lukashenko from Belarus who is a devout Orthodox Christian. Also the martyr Gaddafi, was a strong believer in Islam (he encouraged Sufism and Islamic studies in Libya). He condemned the Wahhabi terrorism and rightly pointed out that this disgusting Saudi ideology is nothing more than an infiltration of the Zionist West in the Arab-Muslim world.

dimanche, 13 janvier 2013

Entretien avec Jean-Michel Vernochet

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Entretien avec Jean-Michel Vernochet à propos de son livre «Iran, la destruction nécessaire»

Propos recueillis par Francis Ros

Ex: http://www.mecanopolis.org/

L’Iran doit être « détruit » : en tant que théocratie nationalitaire il est voué à être « normalisé »… En tête des agendas politiques, l’inscription volontariste de l’Iran au rang des démocraties libérales est donc à l’ordre du jour… Car l’Iran est appelé, volen nolens, à se fondre dans le grand chaudron des sociétés éclatées dans lesquelles la segmentation du marchés atteint son paroxysme (minorités ethniques, confessionnelles, sectaires et sexuelles, femmes, jeunes, enfants, la publicité s’adressant à ces derniers dès l’âge de deux ans, l’âge de leur scolarisation précoce…) afin de pouvoir pleinement être intégré au marché unique, autrement dit le « système-monde ».

Francis Ros – L’armée hébreu vient de mettre fin précipitamment à ses bombardements de la bande de Gaza, quant au ministre de la Défense, Ehoud Barak, celui-ci vient de faire valoir ses droits à la retraite. N’est-ce pas le signe d’un net reflux des ambitions expansionnistes d’Israël et donc d’un renoncement implicite à toute agression contre l’Iran ?

JMV. Regardons les choses en face. Gaza a été pilonnée, l’aviation et les drones israéliens ont y semé la mort et la désolation. Certes, l’escalade s’est arrêtée assez vite, mais qui est nommément désigné comme le premier responsable de ces tragiques événements ? Téhéran ! M. Fabius, ci-devant ministre des Affaires étrangères ne s’est pas gêné pour accuser l’Iran, « ce pelé, ce galeux d’où nous vient tout le mal » [Les Animaux malades de la peste] de « porter une lourde responsabilité dans l’affaire de la bande de Gaza », ceci en ayant notamment fourni des « armes à longue portée au Hamas ». M. Fabius étant particulièrement déconnecté, comme la plupart des énarques, ne connaît apparemment pas le sens du couple de mots « longue portée »… mais l’expression fait « riche ». Ainsi s’est-il répandu le 22 novembre sur Radio Monte-Carlo et BFMTV où il a désigné la cible ultime : « L’Iran est indirectement impliqué dans plusieurs conflits graves dans cette région… les missiles à longue portée de 950 kg qui peuvent atteindre le centre d’Israël et les villes du sud du pays sont fournis par l’Iran ». Des missiles qui n’ont causé au demeurant aucune victime dans le centre d’Eretz Israël malgré leur supposée formidable létalité ! A contrario nombreux ont été à Gaza les morts et les blessés dus à des bombes réputées « intelligentes » ! Bref, l’arrêt de l’offensive sur Gaza, la démission (ou l’éviction) d’Ehoud Barak ne changent rien sur le fond. Certains vont même jusqu’à se demander si les « rats » ne se mettraient pas à quitter le navire, surpris qu’ils sont par une annonce intervenant cinq jours après la fin de l’opération « Colonne de nuées » autrement nommée en français « Pilier de Défense ». Certes l’actuel ministre israélien de la Défense, ancien premier ministre de 1999 à 2001, militaire le plus décoré du pays qui en janvier 2011 a tourné le dos au Parti travailliste pour rallier le cabinet de Benyamin Netanyahou, était considéré jusqu’à ce lundi 26 novembre comme le numéro 2 du gouvernement… âgé de soixante-dix ans il ne quittera cependant pas ses fonctions d’ici les élections législatives du 22 janvier 2013. Mais il est encore trop tôt pour savoir ce que cache ou dissimule ce départ impromptu… de graves désaccords au sommet de l’État hébreu à n’en pas douter et des révisions politiques – forcément « déchirantes » imposées de l’extérieur ou par l’effet d’un simple « retour au réel » ? La question se pose : Israël a-t-il trop présumé de ses forces ? Ses méfaits et son hybris ne sont-ils pas en train de le rattraper ? Désormais la coupe est-elle pleine ? Reste que nous pouvons compter sur le Likoud, génétiquement parlant, et sur ses épigones néoconservateurs de Washington, pour ne pas savoir ni ne vouloir s’arrêter à temps.

Au cours de cette dernière crise, MM. Obama et Fabius n’ont au demeurant ni lâché ni désavoué Israël et son gouvernement, le Likoud. J’en déduis que cet arrêt du pilonnage aérien de Gaza, n’est en réalité qu’une sorte de « repli tactique » et que cela ne change en rien – au moins pour l’instant – quant à l’agenda occidentaliste visant à un remodelage en profondeur du Proche-Orient, Syrie, Liban, Iran… Même si nous nous plaçons dans la perspective encore lointaine d’une autosuffisance énergétique de l’Amérique du Nord grâce au gaz de schiste. Les enjeux énergétiques liés à la bataille de Syrie ou au littoral gazaoui – lequel jouxte la partie méridionale du « Léviathan », poche de gaz super géante dont Israël entend bien s’approprier la totalité – ne sont qu’une dimension du projet occidentaliste de reconfiguration de l’aire islamique. Un projet auquel l’Administration américaine n’est pas prête à renoncer, qu’elle soit « démocrate » ou « républicaine ». Trop d’efforts et de moyens ont été déjà consentis en ce sens, la guerre de Syrie est coûteuse en termes diplomatiques, le mouvement est amorcé, la coalition euratlantiste ne reviendra plus en arrière. Même si M. Obama, en raison de restrictions budgétaires, réduit la voilure le cap sera maintenu contre vents et marées.

Syrie, Liban, Iran, ces trois pays constitutifs de l’arc chiite – l’Irak peinant durement à se reconstruire – doivent être et seront brisés sauf circonstances exceptionnelles. Ce qui ne veut pas dire qu’il n’existe aucune dissension au sein des états-majors politiques et militaires à Washington et Tel-Aviv. Paris comptant pour du beurre, les états d’âme des exécutants n’entrant en effet pas en ligne de compte ! Désaccords, non pas sur les objectifs à atteindre – la nécessaire destruction d’un Iran souverain fait l’unanimité – mais sur les moyens d’y parvenir et le calendrier : la force brutale préconisée par le Likoud et les Néoconservateurs, ou encore l’usure et la ruse, les manœuvres indirectes, la guerre subversive ou les révolutions internes !

Depuis des années, surtout ces derniers mois nous voyons les nuées monter sur l’horizon. Les orages ont rarement pour habitude de faire demi-tour… de même les machines infernales, une fois le mécanisme enclenché. L’Iran est voué à la destruction… sauf capitulation en rase campagne de ses élites dirigeantes. À ce titre il est vrai que des élections présidentielles auront lieu en Iran en juin 2013. Rien n’indique cependant que les nouveaux dirigeants pourraient réorienter – du tout au tout – l’actuelle politique de la République islamique, ni, que de l’autre côté M. Obama veuille se déjuger en acceptant de négocier directement avec la théocratie parlementaire iranienne.

FR – Mais pourquoi au final l’Occident est-il si acharné contre l’Iran ? Le nucléaire est-il la seule ou la vraie raison ?

JMV – Le nucléaire n’est de tout évidence qu’un prétexte. Une grosse ficelle du même genre que les « armes de destruction massive » qui ont servi à tétaniser les opinions publiques occidentales et à lancer la croisade pour la démocratie en et contre l’Irak. Le 14 novembre dernier « Le Parisien » nous expliquait doctement que « selon les experts internationaux, le programme iranien se poursuit lentement mais sûrement malgré les sanctions économiques qui étranglent le pays. C’est une question de mois pour que Téhéran parvienne à ses fins », analyse un diplomate français. « Chaque jour qui passe nous rapproche peut-être d’une issue dramatique ». Observons que nul ne sait précisément qui sont « les experts internationaux » ni qui est le « diplomate français » ici mentionné. Tout cela n’est pas sérieux, mais c’est à l’image de ce que nous serinent quotidiennement grands et petits médias : une menace croît à l’Est qui est en passe de se muer en danger imminent. Conclusion : l’intervention est inéluctable. Répété mois après moi, semaines après semaines, années après années ce type de discours apparaît comme une fatalité et plus encore, comme une nécessité. La raison désarme devant tant de constance et d’énergie dans le prêche du malheur… et parce que dans nos magnifiques démocraties le peuple – de toutes façons désinformé à mort – n’est jamais consulté pour ce qui engage son avenir, l’opinion subit et accepte, toujours et encore. Et que pourrait-elle faire d’autre puisqu’elle ne dispose d’aucun choix alternatif possible ? Chacun sait pourtant que la possession d’une ou plusieurs têtes nucléaires ne feraient pas de l’Iran un adversaire redoutable face aux deux ou trois cents vecteurs de mort atomique que déploie Israël. Au fond, tout cela serait risible si ce n’était atrocement tragique. N’est-ce pas M. Rocard, l’ancien Premier ministre, qui, transverbéré par un trait de lucidité – mais à moitié goguenard et satisfait de lui-même comme seuls savent l’être les « égrotants » – s’exprimait ce dernier printemps en ces termes [[Libération 2 mars 2012] : « Nous avons une stratégie américano-anglaise… de torpiller toute possibilité de discuter sérieusement avec les Iraniens. Et même de faire un peu de provoc de temps en temps. Comme s’il s’agissait de préparer une situation de tolérance rendant acceptable une frappe israélienne. Dans cette hypothèse, la guerre devient une guerre irano-syrienne soutenue par la Chine et la Russie, comme on le voit à l’Onu, contre en gros l’Occident et ses clients. Et l’Europe se tait. C’est une affaire à millions de morts, l’hypothèse étant que ça commence nucléaire. Je connais bien ces dossiers et je n’ai jamais eu aussi peur. Nos diplomates ont perdu l’habitude de traiter des situations de cette ampleur et tous nos politiques jouent à se faire plaisir avec des satisfactions de campagne électorale. Ce qui est nouveau, c’est l’intensité des dangers par rapport à un état d’esprit futile. Autre nouveauté, ces dangers sont extérieurs, résolument mondiaux. Il n’y a que l’Amérique latine et l’Australie pour avoir une chance d’y échapper. Aucun grand pays, même la Chine ou les États-Unis, n’y peut quelque chose à lui tout seul. Il n’y a de réponse que dans une consultation mondiale attentive dont tout le monde se moque… Ça me rend malade ». L’agneau de la fable – innocent ou pas, là n’est pas la question – face au loup dominateur et sûr de lui, est forcément perdant : le premier démuni pollue l’eau du maître des lieux, l’autre manie la rhétorique sans appel du dominant. Iran/État-Unis, toutes proportions gardées, le schéma est à l’identique avec à l’arrivée, sans doute, le même résultat.

FR – Mais quels intérêts l’Iran menace-t-il concrètement ?

JMV – L’Iran ne menace personne mais barre le passage à une foultitude d’intérêts. Comme déjà dit, il ne faut pas réduire comme cela a été fait pour l’Irak, la question à sa seule dimension géoénergétique. Pour faire court disons qu’un processus d’unification global du Marché est en court et que l’Iran y fait obstacle. Après tout, il s’agit d’un pays où les prêts financiers taux usuraires sont interdits cela seul constitue un casus belli pour les potentats de la Finance mais pour tout le système. Où l’Iran se soumet, accepte sa conversion aux dogmes du Monothéisme du Marché, ou bien doit se résoudre à se voir effacé de la Carte du Temps. À prendre ou à laisser. Sauf miracle, révolutions, effondrement des nations occidentales sous l’effet de la crise systémique…

FR – Quelles sont, à votre avis, les issues possibles ? La guerre est-elle inéluctable ou encore évitable?

JMV – Obama veut ou voudrait temporiser. Sa préférence va aux stratégies indirectes, entre autres la subversion, l’étranglement par les sanctions, les révoltes populaires encouragées et soutenues de l’extérieur. Et cela marche. Les sanctions commencent à mettre l’Iran à genoux. Le peuple souffre. Les gens du Département d’État et les adeptes du smart power – le gros bâton subtil – comptent à ce titre sur un soulèvement de la population. De ce point de vue, pour le Département d’État, le président Ahmadinejad est devenu un personnage « contingent ». Il n’est plus le paramètre central. Les prochaines élections présidentielles pourraient en effet conduire à la tête des personnalités plus dures voire plus intransigeantes que l’actuel président. En tout cas, les stratèges de la terreur veulent d’abord priver l’Iran de ses bases avancées : celles du Liban, c’est-à-dire le Hezbollah ; de Syrie contre laquelle les coups de boutoirs se multiplient. En un mot, il s’agirait de ne pas aller trop vite en besogne, d’assurer les arrières, de déblayer le terrain et de faire le ménage avant de s’attaquer au sanctuaire iranien. Les autres, les faucons, veulent fondre sur la proie sûrs qu’ils sont de l’écraser sous leurs bombes en raison de leur infernale supériorité ; à savoir une maîtrise absolu des mers, de l’air et de l’espace… des espaces devrait-on dire puisqu’outre l’espace extra atmosphérique il est désormais question de guerre à outrance dans le cyberespace. Or les Occidentalistes sont déjà allés top loin. Ils n’ont d’ailleurs pas pour habitude de reculer. La Syrie mise à feu et à sang est un bon exemple de la détermination du camp israélo-américain, de leurs alliés, commensaux et satellites. Ils iront donc jusqu’au bout. Sauf que nul n’est vraiment assuré du résultat. Une victoire militaire coûtera de toutes façons cher, même si ce n’est pas à court terme. Car nul ne peut impunément et indéfiniment défier voire mépriser une communauté internationale en pleine mutation… Communauté des nations à présent traversée par les courants invisibles d’une information non filtrée véhiculée par la Toile. Dans l’actuel contexte de crise systémique, personne ne peut exclure non plus des révoltes en Europe et aux États-Unis. Une hypothèse qui devient chaque jour de moins en moins absurde pour ne pas dire de moins en moins « improbable ». L’hybris des maîtres du monde est telle qu’ils croient encore pouvoir contenir ou canaliser des mouvements populaires de grande ampleur. L’histoire certes se répète souvent, mais c’est refuser de tenir un compte exact des transformations sociétales en cours ou déjà accomplies. L’intelligence et la culture des dirigeants occidentaux promus par le cirque médiatique et le bastingue démocratique, ne sont plus à la hauteur des défis actuels. Sur ce point nous sommes entièrement d’accord avec Michel Rocard. Mais pas pour les mêmes raisons. En vérité, sauf miracle, nous irons à l’abîme parce que ces gens veulent y aller et ont décidé de nous y emmener avec eux, assurés qu’ils sont de n’avoir pas à payer le prix du sang versé. Le sang des autres, bien entendu.

Entretien conduit pour Geopolintel par Francis Ros

« Iran, la destruction nécessaire » peut-être directement commandé chez l’éditeur Xénia

vendredi, 11 janvier 2013

Dutschkes deutscher Weg zum Sozialismus

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Dutschkes deutscher Weg zum Sozialismus

Gespräch mit Professor Dr. Bernd Rabehl, einst engster Vertrauter des Studentenführers

(Oktober 2004)

Ex: http://sachedesvolkes.wordpress.com/

Ein Interview mit Bernd Rabel aus dem Jahr 2004. Veröffentlicht in der Nationalzeitung.

Im Dezember 2004 jährt sich der Todestag Rudi Dutschkes zum 25. Mal. Zum 20. Jahrestag seines Todes hatten Grüne, SPD und PDS im Berliner Abgeordnetenhaus beschlossen, Dutschkes Grab auf dem Zehlendorfer St. Annen-Friedhof zum Ehrengrab zu erklären. Alle drei Parteien würden Dutschke gerne ihrer Ahnengalerie hinzufügen. Das dürfte kaum mehr möglich sein, seit Professor Dr. Bernd Rabehl, ehemals engster Vertrauter des Studentenführers, in seiner 2002 erschienenen Dutschke-Biografie „Rudi Dutschke – Revolutionär im geteilten Deutschland“ dargestellt hat, wie Dutschke dachte und fühlte. Rechtsanwalt Gerhard Frey hat mit Professor Rabehl gesprochen.

„Man würde ihn gerne vereinnahmen“

Herr Professor Rabehl, wie wird das bundesdeutsche Establishment mit dem 25. Todestag Rudi Dutschkes umgehen, nachdem Sie mit Ihrer Dutschke-Biografie klarstellten, dass sein Hauptinteresse nicht dem Internationalismus, sondern der deutschen Frage galt?

Rabehl: Man würde ihn ja gerne vereinnahmen und aus Dutschke einen Helden der Sozialdemokratie oder einen Legendenmann der Grünen machen. Aber das wird nicht gelingen. Deshalb habe ich die Biografie geschrieben – damit er nicht vereinnahmbar ist für eine Partei ohne Tradition und ohne Persönlichkeiten.

Wurde in den anderen Werken über Dutschke dessen nationale Einstellung aus Ihrer Sicht bewusst unterschlagen?

Rabehl: Es war den Autoren einfach peinlich. Wobei Michaela Karl in ihrer Dissertation „Rudi Dutschke – Revolutionär ohne Revolution“ schon darauf hinweist. Die anderen wollten das nicht. Das war ein Thema, das ihnen nicht passte.

Die „taz“ sieht in Ihnen, Herr Professor Rabehl, einen deutlichen Beleg für die „dunkle Seite der deutschen 68er“. Was sagen Sie zu dem Vorwurf?

Rabehl: Ich bin darüber erstaunt. Wieso dunkle Seite? Das ist eigentlich die typische Seite.

Das ist manichäistisch gedacht: Hie die Guten, da die Bösen – und Sie gehören zu den Bösen.

Rabehl: Klar. Aber das ist Quatsch.

Sie waren am Tag des Attentats auf Dutschke, dem 11. April 1968, an dem Marsch auf den Springer-Konzern in Berlin maßgeblich beteiligt. Ein Agent provocateur des Verfassungsschutzes, Peter Urbach, verteilte damals Molotowcocktails, mit denen dann Fahrzeuge angezündet wurden. Hat die Kriminalisierung der Revolte das Genick gebrochen?

Rabehl: Urbach hat eine Tendenz unterstützt, die schon da war. Es war eine Gewalttätigkeit da, auch eine Verzweiflung. Man wollte aus dem legalen Rahmen ausbrechen. Und ich glaube, diese Tendenz, die man sicherlich im Verfassungsschutz diskutiert hat, hat der Urbach provokativ eingesetzt, um die APO in diese Richtung zu drängen – was auch gelungen ist.

Meinen Sie, dass Urbachs Chef, der Berliner Innensenator, der damals auf dem Dach des Springer-Hochhauses stand, über die Aktion, die unten ablief, informiert war.

Rabehl: Ich vermute, ja.

„Der KGB trachtete ihm nach dem Leben“

Rudi Dutschke war davon überzeugt, dass der sowjetische oder der DDR-Geheimdienst hinter dem Attentat auf ihn stand. Teilen Sie diese Auffassung?

Rabehl: Ja, ich teile diese Auffassung. Ich habe in den Akten eine entsprechende Anfrage eines Verfassungsschutzmitarbeiters gefunden. In der Stellungnahme eines Stasi-Offiziers heißt es dazu: Nach unseren Kenntnissen sind wir mit dieser Sache nicht befasst. Man vermutete dahinter offenbar die Sowjetunion, den KGB. Dutschke muss einen Hinweis darauf gehabt haben, dass der sowjetische Geheimdienst dahinter steckte. Man trachtete ihm nach dem Leben, weil sich bei ihm der Zorn gegen den Despotismus entwickelte.

„Er hat sich mit Thomas Müntzer identifiziert“

Rudi Dutschke hat geschrieben, er sehe keinen Gegensatz zwischen Christentum und Sozialismus. Er war auch christlich geprägt. Wie stand er zur Gewalt? Hat er sich wirklich immer von terroristischen Aktionen klar abgegrenzt?

Rabehl: Er hat sich mit Thomas Müntzer identifiziert, dem Anführer im Bauernkrieg, Gegenpol Martin Luthers. Da hat Dutschke schon mit der Gewalt geliebäugelt. Aber die APO sollte nach seiner Ansicht darauf achten, die Legalität zu wahren, denn sie konnte sich mit dem Staatsapparat nicht anlegen. Sozusagen an der Grenze der Legalität, aber in deren Rahmen. Das war diese komplizierte Dialektik von Legalität und Illegalität. Dutschke hat dann auch die Unterscheidung entwickelt: Gewalt gegen Sachen ja, aber nicht gegen Personen. Das war natürlich reine Scholastik. Aber man merkt: Er wollte eigentlich diesen Schritt nicht machen.

Was war denn aus Ihrer Sicht das Besondere an Dutschkes deutschem Weg zum Sozialismus?

Rabehl: Einmal sein radikaler Antisowjetismus, der sich entwickelte und nach dem Attentat besonders stark wurde. Dann sein Bezug auf die Bibel – er war Christ unter Atheisten – und der Versuch, aus der deutschen Geschichte, auch gerade aus der Thomas-Müntzer-Geschichte, Gemeinschaften anzudenken, die in Deutschland als Alternative entstehen sollten.

Rudi Dutschke und Sie waren an der Konzipierung einer grünen Partei beteiligt. Was würde Dutschke Ihrer Meinung nach zu den heutigen Grünen sagen?

Rabehl: Die heutigen Grünen sind eine Art FDP, Liberale. Sie repräsentieren die Staatsanwälte, Richter, Advokaten, Architekten, die aus ’68 hervorgegangen sind und einen hohen Lebensstandard genießen. Außerdem sind sie eine proimperialistische Partei geworden, die sich für Israel und vor allem die USA einsetzt und die nicht Rechenschaft darüber gibt, warum ihr Antiimperialismus plötzlich in Proimperialismus umgeschlagen ist. Auch ist zu vermuten, dass einige der Akteure schlicht gekauft wurden.

Aber dagegen, dass die Grünen Liberale seien, spricht, dass sie die Bannerträger der zunehmenden Tabuisierung sind, die Sie beklagen.

Rabehl: Das hat ja nichts mehr mit dem ursprünglichen Liberalismus zu tun. Die Grünen sind liberal im FDP-Sinn: eine Position zu besetzen, die einen bestimmten akademisch-intellektuellen Mittelstand repräsentiert. Die Grünen wollen die Rolle der FDP übernehmen, sowohl als Zünglein an der Waage als auch hinsichtlich der Klientel.

„Katastrophal, wie man mit Hohmann umgegangen ist“

In jüngster Zeit haben Sie den Bundestagsabgeordneten Martin Hohmann verteidigt. Was hat Sie bewogen, für ihn einzutreten?

Rabehl: Dass er einer Hetze ausgesetzt war. Er hat die Frage jüdischer Täter in der Tscheka und im KGB und die Rolle von Juden in der bolschewistischen Revolution diskutiert, wie darüber ja auch in Russland selbst diskutiert wird, von Solschenizyn besonders. Und ich fand die Art und Weise, wie man mit Hohmann umgegangen ist, katastrophal.

Rudi Dutschke ging nach dem Motto vor: “Ohne Provokation werden wir überhaupt nicht wahrgenommen.“ Ist Provokation in der gegenwärtigen Zeit fortschreitender Tabuisierung nicht ein besonders naheliegendes und reizvolles Mittel? Oder sind die Strafen zu drastisch, die dann ausgeteilt werden?

Rabehl: Man muss provozieren, weil alles so zugedeckt ist, dass bestimmte Sachen gar nicht mehr reflektiert werden können. Es sind so viele Tabus aufgebaut worden, dass man über einige Themen gar nicht mehr nachdenken kann. Man muss diese Tabus brechen, um überhaupt einen Raum zu finden, darüber zu sprechen. Gleichzeitig ist die Bestrafung besonders einschneidend: Gerüchte entstehen, Denunziationen werden veranstaltet, die einen kaputtmachen sollen.

Also eine schwierige Gratwanderung. Aber die Maxime “Ohne Provokation werden wir überhaupt nicht wahrgenommen“ ist nach wie vor zutreffend?

Rabehl: Ja, genau.

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samedi, 24 novembre 2012

L'Europe ne sera sauvée que par une remise en cause du dogme libre-échangiste!

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L'Europe ne sera sauvée que par une remise en cause du dogme libre-échangiste!

Ex: http://infonatio.unblog.fr/

Jean-Luc Gréau n’est pas vraiment un agité altermondialiste. Cadre au CNPF, puis au MEDEF pendant trente-cinq ans, c’est un économiste iconoclaste qui nourrit sa réflexion aux meilleures sources : Smith, Schumpeter et Keynes. À la différence de bon nombre de ses pairs, il a vu venir la crise, comme il la voit aujourd’hui se poursuivre. Un économiste avisé. L’espèce est rare.

Le Choc du mois : Quelles sont selon vous les nouveautés radicales qui caractérisent la globalisation économique mise en place dans les années 1980-1990, et dont vous dites qu’elles ont changé la nature même du libéralisme économique ? 
Jean-Luc   Gréau : Nous percevons maintenant avec netteté les deux orientations cruciales qui ont ouvert la voie à la transformation économique et financière de ces trente dernières années. Une première orientation est donnée par la subordination de l’entreprise aux volontés expresses de ces actionnaires puissants que sont les fonds de placement. La personne morale « entreprise » a été instrumentalisée et abaissée au rang de machine à faire du profit (money maker). Le phénomène est manifeste pour les sociétés cotées qui ne sont pas protégées par un capital familial ou par des actionnaires de référence, mais il affecte aussi beaucoup de sociétés non cotées, contrôlées par des fonds dits de « private equity » qui ont les mêmes exigences que les actionnaires boursiers.
Une deuxième orientation est représentée par le libre-échange mondial qui concerne surtout l’Europe, espace le plus ouvert au monde, et à un moindre degré, les États-Unis. Cette ouverture des marchés des pays riches revêt une importance cruciale du fait que, contrairement au double postulat de suprématie technique et managériale des Occidentaux d’une part, et de spécialisation internationale du travail d’autre part, les pays émergents ont démontré leur capacité à rattraper nos économies et à s’emparer de parts de marché croissantes, y compris dans les secteurs à fort contenu technologique. Sait-on que les États-Unis subissent, depuis 2003, un déficit croissant de leurs échanges dans ces secteurs ?
La grande transformation s’est produite quand ces deux orientations ont conjugué leurs effets pour entraîner les économies développées dans une spirale de déflation rampante des salaires qui a été longtemps masquée par l’endettement des particuliers. C’est cela que signifie au premier chef la crise des marchés du crédit déclenchée en 2007 : l’incapacité pour de nombreux ménages occidentaux de rembourser une dette disproportionnée.

Estimez-vous que nous allons vers une sortie de crise comme le prétendent les chefs d’État du G20 ?
Non, la crise du crédit privé n’est pas résorbée, en dépit de ce qu’affirme la communication tendancieuse de la corporation bancaire: elle couve discrètement dans les comptes de nombreux organismes. Aujourd’hui, nous devons faire face de surcroît à une montée des périls sur la dette publique de la plupart des pays occidentaux, pour ne pas dire tous. L’affaissement des recettes fiscales, le subventionne-ment des banques en faillite et les mesures de relance ont sapé les fondements de l’équilibre des comptes publics. Pour conjurer les nouveaux périls, il faudrait que se manifeste une providentielle reprise économique forte et durable redonnant aux Etats les moyens de faire face à leurs obligations financières. Mais les orientations qui ont conduit au séisme sont toujours à l’œuvre et l’on peut craindre au contraire leur renforcement.

Comment interprétez-vous la crise suscitée par l’explosion de la dette publique grecque ?
La faillite virtuelle de la Grèce, qui devrait précéder de peu celle d’autres pays européens, nous enseigne deux choses. La première est que le choix d’une monnaie unique impliquait le choix corrélatif d’une union douanière. Or, nous avons fait, immédiatement après Maastricht, le choix inverse de l’expérience, en forme d’aventure, du libre-échange mondial et de la localisation opportuniste d’activités et d’emplois dans les sites les moins chers. Ce choix a fragilisé par étapes les économies les moins compétitives, de la périphérie européenne, mais aussi des économies dignes de considération comme la française et l’italienne. Il a en outre conduit l’Allemagne, puissance centrale, à réduire ses coûts du travail, pour se maintenir à flot grâce à un courant d’exportation croissant, mais au prix d’une consommation chronique-ment en berne, qui pèse sur les exportations des partenaires européens vers le marché allemand. L’Europe, s’il n’est pas trop tard, ne sera sauvée que par une remise en cause du dogme libre-échangiste.
La deuxième est probablement que la monnaie unique a joué, à l’inverse de ce qu’imaginaient ses concepteurs, un rôle d’inhibiteur des faiblesses et des déséquilibres. Avant la crise, tous les pays de la zone euro bénéficiaient de conditions d’emprunt favorables. Les écarts de taux entre l’Allemagne et les pays aujourd’hui directement menacés étaient tout à fait négligeables. C’était là la grande réussite apparente de l’euro. Mais ce faisant, et avec l’apport complémentaire des fonds dits de cohésion structurels, les pays membres de la zone euro n’ont, en dehors de l’Allemagne et des Pays-Bas, pas pensé leur modèle économique. Des déficits extérieurs structurels sont apparus partout où l’on n’avait pas les moyens de relever le double défi du libre-échange et de la monnaie forte. Ces déficits structurels n’ont aucune chance de se résorber, sauf dans deux hypothèses : la sortie de l’euro par les pays concernés ou l’entrée en violente dépression de la demande interne. On conviendra que chacune de ces hypothèses renferme la probabilité de la fin de l’Europe, telle que nous l’avons vu vivre depuis les commencements du projet.

Le dollar pourra-t-il rester selon vous l’étalon monétaire universel dans les années qui viennent ?
Il existe un malentendu ancien et majeur au sujet du rôle international du dollar. La devise américaine a cessé de constituer, une fois pour toutes, un étalon pour les autres monnaies, à partir de son flottement décidé au printemps 1973. Depuis lors, il fluctue, comme la plupart des autres monnaies importantes, en suivant de fortes variations dans le temps. Or, une monnaie étalon joue par définition le rôle d’un môle d’amarrage pour les autres monnaies. Au surplus, le rôle du dollar en tant que monnaie étalon ne figure plus dans aucun texte en vigueur. Il demeure prédominant en tant que moyen international de facturation et de règlement des transactions commerciales et financières. Cette prédominance découle de la puissance intrinsèque de l’économie américaine, mais aussi de la facilité d’acheter des biens internationaux comme les matières premières avec une seule monnaie. De surcroît, les partenaires asiatiques des États-Unis s’en sont toujours accommodés dans la mesure où ils étaient d’un côté importateurs de matières premières, et, d’un autre côté, exportateurs vers les États-Unis. L’entrée en scène de l’euro n’a pas modifié cet état de choses, sinon à la marge. Les Airbus sont toujours facturés en dollars, comme les Boeing.
On peut penser cependant que la situation pourrait évoluer du fait du déclin relatif de l’emprise économique et financière des États-Unis. La puissance américaine a trouvé un interlocuteur en la personne de la nouvelle puissance chinoise. C’est entre ces deux pays qu’a commencé, semble-t-il, le régime de partage de la domination, ce qui crée une situation dangereuse pour les autres parties du commerce mondial, mais aussi à terme, pour les États-Unis eux-mêmes, qui ne peuvent escompter autre chose qu’une poursuite de leur déclin relatif. La Chine deviendra maîtresse du jeu, sauf si les Occidentaux font obstacle à son impérialisme économique ou si ce pays devait connaître à son tour une crise due à la surchauffe qui se manifeste depuis quelques mois.

D’après vous, la crise économique que doit affronter le monde depuis trois ans a-t-elle ébranlé la solidité des dogmes libre-échangistes ?
Hélas, à l’instant présent, les dogmes, les tabous et les interdits qui définissent l’expérience néo-libérale restent en place. On se réjouit officiellement de ce que le libre-échange ait survécu malgré la gravité de la crise dont il constitue pourtant une cause majeure. On exhorte maintenant les pays sinistrés ou en difficulté à de nouveaux sacrifices sans prendre en considération le risque de retour en force de la crise de la demande et de rechute consécutive de l’ensemble des marchés financiers. L’aveuglement persiste et s’aggrave, en dehors de petits cercles de personnes placées en prise directe avec les entreprises ou les territoires sinistrés. Une chape de plomb s’est à nouveau refermée sur les consciences sincèrement ouvertes au débat. Mais le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps. Patience !

Propos recueillis par Pierre-Paul Bartoli

LECHOCDUMOIS mai 2010

À lire : Jean-Luc Gréau, La Trahison des économistes, « Le Débat », Gallimard, 250 p., 15,50 €

jeudi, 22 novembre 2012

La Russie, l’Occident et l’Allemagne

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La Russie, l’Occident et l’Allemagne

 

Extrait d’un entretien accordé par Alexandre Douguine au magazine allemand “Zuerst”

 

Q.: Monsieur Douguine, l’Occident ne se trouve-t-il pas dans une mauvaise situation?

 

AD: Absolument. Mais la situation dans laquelle se débat l’Occident est différente de celle en laquelle se débat la Russie. Regardez l’Europe: l’UE se trouve dans un état de crise profonde; la rue en Grèce se rebelle ouvertement, l’Europe centrale et septentrionale croupit sous les charges sociales, politiques et économiques apportée par l’immigration de masse depuis ces dernières décennies. Même les Etats-Unis sont plongés dans une crise profonde. Mais, pourtant, c’est cette crise qui va faire se corser la situation. Car dans de telles situations d’instabilité et de précarité, ce sont toujours les partisans de lignes dures qui finissent par avoir le dessus. Aux Etats-Unis, actuellement, on évoque ouvertement une guerre contre l’Iran, même si à New York un bon paquet de citoyens américains manifestent contre Wall Street. On ne discute plus que du moment idéal pour commencer la prochaine guerre. Lénine disait en son temps: hier, c’était trop tôt, demain ce sera trop tard.

 

Q.: Vous defendez l’idée d’une alliance eurasiatique. Cette idée n’implique-t-elle pas que les Etats européens se détachent progressivement de l’UE bruxelloise, un processus à prévoir pour le moyen voire le long terme, et se donnent de nouvelles orientations. Est-ce là une hypothèse réaliste?

 

AD: La Russie est l’allié naturel d’une Europe libre et indépendante. Il n’y a donc pas d’autres options. Bien sûr, l’Europe actuelle n’envisage pas cette option, car elle est systématiquement refoulée par le fan-club transatlantique des égéries des “Pussy riots”. Mais cela pourrait bien vite changer. Qui imaginait, au début de l’été 1989, que le Mur de Berlin allait tomber en automne? Une poignée d’esprits lucides que l’établissement considérait comme fous ou dangereux.

 

Q.: Comment voyez-vous l’avenir des relations germano-russes, tout en sachant que celles-ci ont été jadis bien meilleures?

 

AD: Il y a beaucoup de liens entre l’Allemagne et la Russie. Nous avons une longue histoire commune. On aime à l’oublier aujourd’hui, surtout dans le vaste Occident. Lors de la signature de la convention de Tauroggen en 1812, le Lieutenant-Général prussien Johann David von Yorck a négocié de son propre chef un armistice entre le corps prussien, contraint par Napoléon de participer à la campagne de Russie, et l’armée du Tsar Alexandre. La Russie a soutenu la révolte prussienne contre les Français, ce qui a permis de lancer la guerre de libération des peuples contre Napoléon. La diplomatie russe a permis aussi en 1871 que le Reich allemand de Bismarck puisse devenir réalité  sur l’échiquier européen. La Russie a toujours soutenu le principe d’une Allemagne forte sur le continent européen. Otto von Bismarck recevait souvent l’appui de Saint-Pétersbourg. Ce ne sont là que deux exemples: la liste des coopérations germano-russes est longue et, à chaque fois, les deux protagonistes en ont bénéficié. Sur le plan culturel, les relations sont tout aussi étroites: philosophes russes et allemands s’appréciaient, se sentaient sur la même longueur d’onde. Mais nous nous sommes également opposés dans des guerres sanglantes mais, Dieu merci, cette époque est désormais révolue.

 

Q.: Et aujourd’hui?

 

L’Allemagne est le pilier porteur de l’économie européenne. L’économie européenne, c’est en réalité l’économie allemande. L’idée sous-jacente de l’économie allemande diffère considérablement de l’idée qui sous-tend la praxis économique du capitalisme occidental et britannique. En Allemagne, on mise sur l’industrie, de même que sur une création de valeurs réelles par le biais de la production de biens et non pas sur le capitalisme financier et bancaire qui, lui, ne repose sur rien de matériel. Aujourd’hui l’Allemagne est contrôlée par une élite exclusivement imprégnée d’idéologie “transatlantique”, qui empêche tout rapprochement avec la Russie. En Russie, on a aujourd’hui des sentiments pro-allemands. Poutine, on le sait, passe pour un grand ami de l’Allemagne. Mais malgré cela, le gouvernement de Berlin, et aussi l’opposition à ce gouvernement, essaie d’intégrer encore davantage l’Allemagne dans une UE en mauvaise posture, tout en renonçant à de larges pans de la souveraineté allemande. Pour l’Allemagne, une telle situation est dramatique!

 

Q.: Dans quelle mesure?

 

AD: L’Allemagne est aujourd’hui un pays occupé, déterminé par l’étranger. Les Américains contrôlent tout. L’élite politique allemande n’est pas libre. Conséquence? Berlin ne peut pas agir pour le bien du pays comme il le faudrait, vu la situation. Pour le moment, l’Allemagne est gouvernée par une élite qui travaille contre ses propres intérêts. Nous, les Russes, pouvons aider l’Allemagne parce que nous comprenons mieux la situation de votre pays, en état de servilité, et parce que nous travaillons à créer des réseaux germano-russes en divers domaines. Nous pourrions travailler avec divers groupes au sein de la République Fédérale, nous pourrions améliorer nos relations culturelles. Je crois fermement qu’un jour se recomposera une Allemagne libre, forte et autonome en Europe, qui lui permettra de jouer un rôle d’intermédiaire entre l’Est et l’Ouest du sous-continent. Le rôle que jouent actuellement les vassaux de l’eurocratie bruxelloise et de Washington ne permet pas de forger un vrai destin pour l’Allemagne.

 

Q.: Monsieur Douguine, nous vous remercions de nous avoir accordé cet entretien.

 

Entretien paru dans le magazine “Zuerst!”, Oktober 2012, http://www.zuerst.de/ ).

mercredi, 21 novembre 2012

Een interview met Alexander Doegin

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Een interview met Alexander Doegin

Inleiding

In februari 2012 reisde professor Alexander Doegin naar New Delhi, India, om er deel te nemen aan het 40ste Wereldcongres van het International Institute of Sociology, waarvan het thema dit jaar in volgend teken stond: “After Western Hegemony: Social Science and its Publics.”

Professor Doegin was zo vriendelijk om wat tijd vrij te maken voor enkele vragen vanwege medewerkers van Arktos die eveneens op het congres aanwezig waren. 

We hebben in dit interview gepoogd om professor Doegin enkele van zijn basisconcepten te laten verduidelijken om zodoende de verwarring en de desinformatie weg te nemen die rond hem en zijn beweging, de Eurazische Beweging, en haar zijtak in de Engelstalige wereld, de Global Revolutionary Alliance, hangen. Het interview werd afgenomen door Daniel Friberg, CEO, en John B. Morgan, hoofdredacteur van Arktos.

Dit interview werd gepubliceerd op het moment dat professor Doegin als spreker aanwezig was op Identitarian Ideas 2012, georganiseerd door de Zweedse organisatie Motpol in Stockholm op 28 juli 2012, en verliep tegelijk met de publicatie, door Arktos, van professor Doegins boek The Fourth Political Theory (http://www.arktos.com/alexander-dugin-the-fourth-political-theory.html [5]). Dit is het eerste boek van de hand van professor Doegin in het Engels.

In het Westen leeft de perceptie dat u een Russische nationalist bent. Voelt u zich hierdoor aangesproken?

Het concept van de natie is een kapitalistisch, westers concept. Daartegenover staat het Eurazisme, dat zich richt op culturele en etnische verschillen, en niet op éénmaking op basis van het individu, zoals het nationalisme vooropstelt. Wij verschillen van het nationalisme, doordat we een pluraliteit van waarden verdedigen. Wij verdedigen ideeën, niet onze gemeenschap; ideeën, niet onze maatschappij. Wij dagen de postmoderniteit uit, maar niet enkel namens de Russische natie. De postmoderniteit is een gapende leegte. Rusland vormt slechts een deel van de globale strijd. Het is zeker en vast een belangrijk deel, maar het vormt niet het uiteindelijke doel. Voor onze medestanders in Rusland kunnen we Rusland niet redden, zonder tegelijkertijd de wereld te redden. Net zoals we de wereld niet kunnen redden, zonder Rusland te redden.

Het gaat niet enkel om een strijd tegen het westerse universalisme. Het gaat om een strijd tegen alle, ook islamitische vormen van universalisme. We aanvaarden geen enkele politiek die universalisme wil opdringen aan anderen – westers, noch islamitisch, noch socialistisch, noch liberaal, noch Russisch. Wij zijn niet de verdedigers van het Russische imperialisme of revanchisme, maar wel van een globale visie en multipolariteit die gebaseerd zijn op de dialectiek van de beschaving. Onze tegenstanders beweren dat de veelheid aan beschavingen noodzakelijkerwijs leidt tot een clash. Deze bewering is fout. De globalisering en de Amerikaanse hegemonie leiden zonder uitzondering tot bloedige inmenging en geweld tussen beschavingen, waar er vrede, dialoog, of conflict zouden kunnen zijn, afhankelijk van de historische omstandigheden. Maar het opleggen van een heimelijke hegemonie leidt tot conflicten en, onvermijdelijk, erger in de toekomst. Ze hebben het dus over vrede, maar voeren oorlog. Wij verdedigen de gerechtigheid – niet oorlog of vrede, maar gerechtigheid en dialoog en het naturlijk recht van elke cultuur om haar identiteit te bewaren en te streven naar wat ze wil zijn. Niet enkel historisch, zoals in het multiculturalisme, maar ook in de toekomst. We moeten onszelf bevrijden van die zogezegde universalismen.

Welke rol dicht u Rusland toe bij het organiseren van de antimoderne krachten?

Het opzetten van antiglobalistische, of eerder antiwesterse, bewegingen en stromingen in heel de wereld bestaat uit verschillende stappen. Het gaat er fundamenteel om mensen te verenigen in hun strijd tegen het status quo. Dus, wat bedoel ik precies met status quo? Het gaat hier om een reeks met elkaar verbonden fenomenen die een belangrijke shift van moderniteit naar postmoderniteit met zich meebrengen. Het wordt vormgegeven door een shift van de unipolaire wereld, op de eerste plaats in de vorm van de invloed van de Verenigde Staten en West-Europa, naar een zogenaamde niet-polariteit, zoals ze zichtbaar wordt in de huidige impliciete hegemonie en in de revoluties die erdoor worden georchestreerd via handlangers, zoals bijvoorbeeld de oranje revoluties. Het hoofddoel van het Westen achter deze strategie is de definitieve controle over de planeet, niet enkel door middel van directe interventie, maar ook via een universalisering van zijn waarden, normen en ethiek.

Het status quo van de liberale hegemonie van het Westen is wereldomvattend geworden. Het gaat om de verwestersing van de hele mensheid. Dat betekent dat zijn normen, zoals de vrije markt, vrijhandel, liberalisme, parlementaire democratie, mensenrechten, en absoluut individualisme universeel zijn geworden. Deze normenset wordt verschillend geïnterpreteerd in verschillende regio’s van de wereld, maar het Westen beschouwt zijn specifieke interpretatie als vanzelfsprekend en de verspreiding ervan als onvermijdelijk. Dit is niets meer of minder dan een kolonisering van de geest. Het gaat hier om een nieuwe vorm van kolonialisme, een nieuwe vorm van macht, en een nieuwe vorm van controle, die in de praktijk wordt gebracht door middel van een netwerk. Iedereen die aangesloten is op het globale netwerk wordt onderworpen aan zijn code. Dit maakt deel uit van het postmoderne Westen, en wordt in snel tempo globaal doorgevoerd. De prijs die door een natie moet worden betaald om deel te kunnen uitmaken van het globale netwerk van het Westen is het aanvaarden van deze normen. Dit is de nieuwe hegemonie van het Westen. Het is een opschuiven van de open hegemonie van het Westen, zoals het kolonialisme en het openlijke imperialisme van het verleden, naar een meer impliciete, subtielere versie.

Om deze globale bedreiging van de mensheid te bestrijden is het belangrijk om alle verschillende krachten te verenigen, die zichzelf vroeger als anti-imperialistisch zouden hebben omschreven. Vandaag de dag moeten we onze vijand beter begrijpen. De vijand van vandaag leeft in het verborgene. Hij handelt door gebruik te maken van de normen en waarden van het westerse ontwikkelingspad en door de pluraliteit van andere culturen en beschavingen te negeren. Vandaag roepen we iedereen op die de geldigheid erkent van de specifieke waarden van niet-Westerse beschavingen, en waar er andere vormen van waarden bestaan, om op te staan tegen deze poging tot globale universalisering en verborgen hegemonie.

We kunnen in dezen spreken van een culturele, filosofische, ontologische en eschatologische strijd, omdat we in het status quo de essentie van het Donkere Tijdperk, of het grote paradigma terugvinden. Maar we moeten ook evolueren van een zuiver theoretische benadering naar een praktisch, geopolitiek niveau. En op dit geopolitiek niveau behoudt Rusland het potentieel, de middelen en de wil om deze uitdaging aan te gaan, omdat de Russische geschiedenis van oudsher instinctief gericht was tegen dezelfe horizon. Rusland is een grote macht, bij wie er een acuut bewustzijn heerst van wat er gaande is in de wereld, en bij wie men zich terdege bewust is van de eigen eschatologische missie. Het is daarom evident dat Rusland een centrale rol zou spelen in deze anti-status quo-coalitie. Rusland heeft zijn identiteit verdedigd tegen het katholicisme, het protestantisme en het moderne Westen tijdens de tsaristische periode, en tegen het liberale kapitalisme tijdens de Sovjettijd. Nu zien we een derde golf van deze strijd – de strijd tegen de postmoderniteit, het ultraliberalisme, en de globalisering. Maar dit keer is Rusland niet meer in staat om enkel en alleen te teren op zijn eigen mogelijkheden. Het kan niet langer alleen maar vechten onder het banier van het Orthodoxe Christendom. Het opnieuw invoeren van of het vertrouwen op de marxistische doctrine is evenmin een optie, aangezien het marxisme zelf één van de hoofdwortels van de destructieve ideeën van de postmoderniteit vormt.

Rusland is vandaag slechts één van de vele deelnemers aan deze globale strijd, en het kan deze strijd niet alleeen aan. We moeten alle krachten die zich tegen de westerse normen en het daarmee verbonden economische systeem verzetten, verenigen. We moeten derhalve allianties smeden met alle linkse sociale en politieke bewegingen die het status quo van het liberale kapitalisme in vraag stellen. We moeten tevens allianties smeden met alle identitaire krachten in eender welke cultuur die de globalisering om culturele redenen verwerpen. Vanuit dit standpunt moeten islamitische bewegingen, hindoebewegingen, of nationalistische bewegingen uit de hele wereld als bondgenoten aanzien worden. Hindoes, boeddhisten, christenen, en heidense identitairen in Europa, Amerika of Latijns-Amerika, of andere cultuurtypes, moeten samen één front vormen. De idee hierachter is dat ze allemaal aan één zeel moeten trekken tégen de ene vijand en het ene kwaad, en vóór een veelheid van concepten van wat goed is.

Waar we tegen zijn, zal ons verenigen, en waar we voor zijn, verdeelt ons. Daarom moeten we de nadruk leggen op wat we bestrijden. De gezamenlijke vijand verenigt ons, terwijl de positieve waarden, die elk van ons verdedigt, ons verdelen.  Daarom moeten we strategische allianties aangaan om de huidige wereldorde omver te werpen, wier kern kan omschreven worden als een mix van mensenrechten, anti-hiërarchisch sentiment, en politieke correctheid – alles wat het gezicht van het Beest, de anti-Christ of, in een andere context, de Kali-Yuga uitmaakt.

Hoe past traditionalistische spiritualiteit in de Eurazische agenda?

Er bestaan geseculariseerde culturen, maar in hun kern blijft de geest van de Traditie, religieus of anderssoortig, bestaan. Door de veelheid, de pluraliteit, en het polycentrisme van culturen te verdedigen, doen we een beroep op de principes van hun essentie, die we enkel in de spirituele tradities kunnen vinden. Maar wij proberen deze houding te koppelen aan de nood aan sociale gerechtigheid en aan de vrijheid om maatschappijen van elkaar te laten verschillen in de hoop op betere politieke regimes. De idee hierachter is het koppelen van de geest van de Traditie aan de eis van sociale gerechtigheid. En wij willen ons niet tegen deze sociale krachten keren, omdat dát precies de strategie van de hegemoniale macht is: links en rechts verdelen, culturen verdelen, etnische groepen verdelen, Oost en West, moslims en christenen verdelen. We roepen rechts en links op zich te verenigen, en zich niet af te zetten tegen traditionalisme en spiritualiteit, tegen sociale gerechtigheid en tegen sociaal dynamisme. We staan dus rechts noch links. Wij zijn tegen de liberale postmoderniteit. Het is onze bedoeling om alle fronten te verenigen en onze tegenstanders niet toe te laten ons te verdelen. Blijven we verdeeld, dan kunnen ze ons makkelijk beheersen. Verenigen we ons, dan is hun rijk onmiddellijk uit. Dat is onze globale strategie. En wanneer we de spirituele traditie met sociale gerechtigheid verbinden, dan slaat de paniek de liberalen onmiddellijk om het hart. Daar zijn ze onnoemelijk bang voor.

Welke spirituele traditie zou iemand die zich wenst in te zetten voor de Eurazische strijd moeten volgen, en vormt dit een essentieel element?

Men moet ernaar streven om een levend onderdeel van de maatschappij te worden waarin men leeft, en de traditie volgen die daar toonaangevend is. Ikzelf ben bijvoorbeeld Russisch-Orthodox. Dat is mijn traditie. In andere omstandigheden kunnen sommige individuen evenwel een ander spiritueel pad kiezen. Wat belangrijk is, is dat men wortels heeft. Er bestaat geen universeel antwoord. Indien iemand deze spirituele basis verwaarloost, maar zich toch wil inschakelen in de strijd, is het goed mogelijk dat hij of zij gaandeweg een diepere betekenis vindt. Het is onze overtuiging dat onze vijand dieper wortelt dan in het zuiver menselijke. Het Kwaad ligt dieper dan de mensheid, hebzucht of uitbuiting. Zij die aan de zijde van het Kwaad vechten, zijn zij die geen spirituele basis hebben. Zij die zich tegen die basis verzetten, kunnen haar in de strijd tegenkomen. Of misschien niet. Het blijft een open vraag – er bestaat geen verplichting. Het valt aan te raden, maar het is geen noodzakelijke voorwaarde.

Wat vindt u van Europees Nieuw-Rechts en Julius Evola? En, meer bepaald, van hun beider afkeer van het Christendom?

Het is aan de Europeanen om te beslissen welke soort spiritualiteit zij willen doen herleven. Voor ons, Russen, is dat het Orthodoxe Christendom. Wij beschouwen onze traditie als authentiek.  Wij beschouwen onze traditie als een voortzetting van de vroegere, voorchristelijke tradities van Rusland, zoals die tot uiting komen in onze verering van heiligen en iconen, naast andere aspecten. Daarom is er geen tegenstelling tussen onze eerdere en latere tradities. Evola keert zich af van de christelijke traditie van het Westen. Wat interessant is, is zijn kritiek op de desacralisering van het westerse christendom. Dit strookt precies met de orthodoxe kritiek op het westerse christendom. Het is duidelijk dat de secularizering van het westerse christendom de mensheid liberalisme oplevert. De secularizering van de orthodoxe religie geeft ons communisme. Individualisme staat tegenover collectivisme. Voor ons ligt het probleem niet aan het christendom zelf, zoals in het Westen. Evola ondernam een poging om de Traditie te herstellen. Nieuw-Rechts tracht eveneens de westerse traditie te herstellen, wat heel goed is. Maar als Russisch-Orthodoxe kan ik niet beslissen welk pad Europa moet volgen, aangezien we verschillende waardensystemen hebben. Wij willen de Europeanen niet vertellen wat ze moeten doen, en we willen niet dat de Europeanen dat met ons doen. Als Eurazisten aanvaarden we elke oplossing. Aangezien Evola Europeaan was, kon hij discussiëren en voorstellen doen over de juiste oplossing voor Europa. Éénieder van ons kan slechts zijn of haar persoonlijke mening formuleren. Maar ik ben wel tot de conclusie gekomen dat we meer gemeen hebben met Nieuw-Rechts dan met de katholieken. Ik deel veel visies van Alain de Benoist. Ik beschouw hem als de grootste intellectueel in het Europa van vandaag. Dat is niet het geval voor de moderne katholieken. Zij willen Rusland bekeren, en dat botst met onze plannen. Nieuw-Rechts wil het Europese heidendom niet opleggen aan anderen. Ik beschouw Evola ook als een meester en als een symbolische figuur van de eindrevolte en de grootse wederopleving, net zoals Guénon. In mijn ogen zijn deze beide heren de essentie van de Westerse traditie in deze donkere tijd.

Eerder zei u dat Eurazisten zouden moeten samenwerken met bepaalde jihadistische groepen. Maar deze hebben de neiging om universalistisch te zijn, en hun doel is het opleggen van de islamitische wet aan de hele wereld. Wat zijn de toekomstkansen van een dergelijke coalitie?

Jihadi’s zijn universalisten, net zoals seculiere westerlingen die globalizering nastreven. Maar zij zijn niet identiek, want het westerse project probeert alle anderen te domineren en zijn hegemonie overal op te leggen. Het valt ons elke dag direct aan via de globale media, via modeverschijnselen, door voorbeelden te stellen voor de jeugd, enzovoort. We worden ondergedompeld in deze globale culturele hegemonie. Het salafistisch universalisme is een soort marginaal alternatief. Men mag hen niet over dezelfde kam scheren als zij die streven naar globalisering. Zij vechten ook tegen onze vijand. Wij willen van geen enkele universalistische stroming weten, maar er zijn universalisten die ons vandaag aanvallen en winnen, en er zijn ook nonconformistische universalisten die de hegemonie van het Westen, de liberale universalisten, bevechten, en derhalve hic et nunc tactische bondgenoten zijn.  Vooraleer hun project van een wereldomvattende islamitische staat kan worden gerealiseerd, zullen we nog vele veldslagen en conflicten uitvechten. En de globale liberale dominantie is een feit. Daarom roepen we iedereen op om samen met ons te strijden tegen deze hegemonie, dit status quo. Ik heb het liever over de realiteit van vandaag, dan over wat de toekomst zou kunnen brengen. Iedereen die zich kant tegen liberale hegemonie is nu onze medestander. Dat heeft niets vandoen met moraliteit, wel met strategie. Carl Schmitt zei ooit dat politiek begint met het onderscheid tussen vrienden en vijanden. Er bestaan geen eeuwige vrienden en geen eeuwige vijanden. Wij vechten tegen de bestaande universele hegemonie. Iedereen vecht daartegen voor zijn of haar eigen waardensysteem.

Om de samenhang te bewaren moeten we ook werk maken van een verlenging, verbreding, en van een bredere alliantie. Ik loop niet hoog op met de salafisten. Het zou veel beter zijn om samen te werken met traditionele Sufi’s, bijvoorbeeld. Maar ik werk liever samen met de salafisten tegen een gemeenschappelijke vijand dan energie te verspillen door hen te bevechten en de grotere berdreiging te negeren.

Wie voor de globale liberale hegemonie is, is de vijand. Wie ertegen is, is een vriend. De eerste is geneigd om deze hegemonie te aanvaarden; de andere revolteert.

Wat is, in het licht van de recente gebeurtenissen in Libië, uw persoonlijke opvatting over Khaddafi?

President Medvedev beging een ware misdaad tegen Khaddafi en hielp mee met het in de stijgers zetten van een hele reeks interventies in de Arabische wereld. Dit was een echte misdaad, begaan door onze President. Aan zijn handen kleeft bloed. Hij is een collaborateur van het Westen. De verantwoordelijkheid voor de misdaad - die de moord op Khaddafi effectief was - ligt gedeeltelijk bij hem. Wij Eurazisten verdedigden Khaddafi, niet omdat we fans of supporters van hem of zijn Groene Boekje waren, maar om principiële redenen. Achter de opstand in Libië ging westerse hegemonie schuil, en die legde een bloedige chaos op. Toen Khaddafi viel, werd de westerse hegemonie sterker. Dat was onze nederlaag. Maar niet de eindnederlaag. Deze oorlog kent vele fasen. We verloren een veldslag, maar niet de oorlog. En misschien ontstaat er wel iets nieuws in Libië, want de situatie is momenteel heel onstabiel. Zo versterkte de Irakoorlog bijvoorbeeld de invloed van Iran in de regio, in tegenstelling tot wat de westerse hegemonisten oorspronkelijk hadden uitgestippeld.

Gezien de situatie in Syrië momenteel, herhaalt het scenario zichzelf. Al is het wel zo dat, met Poetin terug aan de macht, de situatie er veel beter voor staat. Hij is op zijn minst consequent in zijn steun aan President al-Assad. Mogelijk is dit niet voldoende om een westerse interventie in Syrië af te houden. Ik pleit ervoor dat Rusland zijn bondgenoot daadkrachtiger zou steunen met wapens, financiële middelen, enzovoort. De val van Libië was een nederlaag voor Rusland. De val van Syrië zou opnieuw een mislukking zijn.

Wat denkt u van Vladimir Poetin, en hoe is uw verstandhouding met hem?

Hij was veel beter dan Jeltsin. Hij redde Rusland in de jaren ’90 van de volledige ineenstorting. Rusland stond op de rand van de catastrofe. Vóór de komst van Poetin hadden liberalen westerse stijl het voor het zeggen in de Russische politiek. Poetin herstelde de soevereiniteit van de Russische staat. Daarom werd ik een aanhanger van hem. Maar na 2003 zette Poetin zijn patriotische, Eurazische hervormingen stop, schoof hij de ontwikkeling van een echte nationale strategie opzij, en begon met het accomoderen van de economische liberalen die van Rusland een deel van het globaliseringsproject wilden maken. Daardoor verloor hij aan legitimiteit, en werd ik steeds kritischer ten opzichte van hem. In bepaalde gevallen werkte ik samen met mensen uit zijn entourage om hem te steunen in bepaalde beleidsdomeinen, en in andere domeinen stond ik lijnrecht tegenover hem. Toen Medvedev werd uitverkoren als zijn opvolger was dat een catastrofe, omdat de mensen rond hem allemaal liberalen waren. Ik was tegen Medvedev. Ik kantte me tegen hem, deels vanuit een Eurazistisch standpunt. Nu komt Poetin terug. Alle liberalen zijn tegen hem, en alle prowesterse krachten zijn tegen hem. Maar hijzelf heeft zijn houding tegenover hen nog niet verduidelijkt. Maar hij moet absoluut de steun van het Russische volk opnieuw verwerven. Anders kan hij onmogelijk verder doen. Hij bevindt zich in een kritische situatie, al lijkt hij dat niet te vatten. Hij twijfelt nog om de patriotische kant te kiezen. Hij denkt nog steun te kunnen vinden bij de liberalen, wat volkomen verkeerd is. Ik sta tegenwoordig minder kritisch tegenover hem dan vroeger, maar ik denk dat hij zich in een lastig parket bevindt. Indien hij verder aarzelt, zal hij mislukken. Ik heb recent een boek gepubliceerd, Putin Versus Putin, want zijn grootste vijand is hijzelf. Omdat hij twijfelt, verliest hij steeds meer de steun van het volk. Het Russische volk voelt zich bedrogen door hem. Hij is zoiets als een autoritaire leider zonder autoritair charisma. Ik heb in bepaalde gevallen met hem samengewerkt, maar heb mij ook tegen hem gekant in andere gevallen. Ik heb contact met hem. Maar er cirkelen zovele krachten rond hem. De liberalen en de Russische patrioten rondom hem zijn niet bepaald briljant te noemen, op intellectueel vlak. Daarom kan hij enkel vertrouwen op zichzef en zijn intuïtie. Maar intuïtie mag niet de enige bron van politieke beleidskeuzes en strategie zijn. Indien hij terug aan de macht komt zal hij gedwongen worden om terug te keren naar zijn vroeger antiwesters beleid, omdat onze maatschappij van nature antiwesters is. Rusland heeft een lange traditie van opstand tegen vreemde indringers en van hulp aan anderen die tegen onrechtvaardigheid strijden, en het Russische volk ziet de wereld door deze lens. Het zal geen genoegen nemen met een leider die bestuurt zonder rekening te houden met deze traditie.

Bron: http://www.counter-currents.com/2012/07/interview-with-alexander-dugin/.

 

dimanche, 18 novembre 2012

La face cachée des révolutions arabes

Les «printemps arabes» ont inventé la guerre «low cost» : la face cachée des Révolutions Arabes

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Entretien avec Ahmed Bensaada

arabrevolution
 

Les bouleversements qui caractérisent depuis plus de deux ans de nombreux pays du monde arabe sont diversement analysés. Pour certains, ces «révolutions» ne sont ni plus ni moins que le produit de laboratoires spécialisés dans la déstabilisation d’États de la région dont les politiques gênent les intérêts des puissances occidentales et des États-Unis en particulier. Pour d’autres, elles sont la conséquence de régimes dictatoriaux à bout de souffle. Ahmed Bensaada, chercheur au Canada, plaide en faveur d’une lecture qui ferait la synthèse entre les deux thèses.

  • Un livre va sortir bientôt sur la question des printemps arabes. De quoi s’agit-il ?

Le livre dont il est question s’intitule « La face cachée des révolutions arabes ». Publié par les éditions Ellipses, il sortira à Paris le 4 décembre 2012. Cet ouvrage, auquel j’ai contribué, est un livre collectif dirigé par M. Éric Denécé, directeur du Centre Français de Recherche sur le Renseignement (CF2R). Pas moins de 24 auteurs de différents horizons y ont participé, ce qui en fait un ouvrage très riche et très bien documenté qui contribuera très certainement à la compréhension de ce qui est communément appelé le « printemps arabe ». Ainsi, on pourra y lire des textes écrits par aussi bien des chercheurs que des journalistes, des philosophes ou des politiques.

Le livre est structuré en 3 parties : a) Analyse et déconstruction des révolutions nationales, b) Le rôle majeur des acteurs étrangers et c) Les conséquences internationales du printemps arabe.  Cela en fait un des premiers ouvrages avec une vue d’ensemble sur les différentes facettes des révoltes qui ont secoué les rues arabes depuis près de deux ans.

 

Vous pouvez consulter des extraits du livre « La face cachée des révolutions arabes » en cliquant sur le lien ci-dessous

 

  • Vous y contribuez: quelle thèse défendez-vous ?

La thèse que je défends est celle de l’implication des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe par l’intermédiaire d’un réseau d’organismes américains spécialisés dans l’ « exportation » de la démocratie. À ce titre, on peut citer l’United States Agency for International Development (USAID), la National Endowment for Democracy (NED), l’International Republican Institute (IRI), le National Democratic Institute for International Affairs (NDI), Freedom House (FH) ou l’Open Society Institute (OSI). Ce sont d’ailleurs ces mêmes organismes qui ont contribué à la réussite des révolutions colorées qui se sont déroulées dans certains pays de l’Est ou des ex-Républiques soviétiques : Serbie (2000), Géorgie (2003), Ukraine (2004) et Kirghizstan (2005).

L’implication américaine peut se diviser en deux volets distincts mais complémentaires : un concernant le cyberespace et l’autre l’espace réel. Le premier consiste en la formation de cyberactivistes arabes (faisant partie de ce qui est communément appelé la « Ligue arabe du Net ») à la maîtrise du cyberespace. La seconde est relative à la maîtrise des techniques de lutte non-violente théorisées par le philosophe américain Gene Sharp et mise en pratique par le « Center for Applied Non Violent Action and Strategies » (CANVAS), dirigé par d’anciens dissidents serbes qui ont participé aux révolutions colorées.

Les arguments ainsi que des dizaines de références sont présentés aussi bien dans mon livre « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe » (Éditions Michel Brûlé, Montréal, 2011; Éditions Synergie, Alger, 2012) que dans un chapitre intitulé « Le rôle des États-Unis dans le printemps arabe » du nouveau livre à paraître : « La face cachée des révolutions arabes ». À noter que dans ce second ouvrage, certaines informations ont été mises à jour alors que d’autres concernant la Libye et la Syrie ont été ajoutées. En effet, à la sortie du premier livre, les révoltes dans ces deux pays n’en étaient qu’à leurs débuts.

  • Qu’est-ce qui fait dire aujourd’hui que les « printemps arabes » ont été conçus dans des laboratoires en dehors de toute volonté des peuples alors qu’il y a dans les pays de la région un véritable problème de gouvernance et de déficit démocratiques?

Certes, ce ne sont pas les États-Unis qui ont provoqué le « printemps » arabe. Les révoltes qui ont balayé la rue arabe sont une conséquence de l’absence de démocratie, de justice sociale et de confiance entre les dirigeants et leur peuple. Tout ceci constitue un « terreau fertile » à la déstabilisation. Ce terreau est constitué de femmes et d’hommes qui ont perdu confiance en leurs dirigeants dont la pérennité maladive ne laisse entrevoir aucune lueur d’espoir. Pour eux, la fin justifie les moyens.

Cependant, l’implication américaine dans ce processus n’est pas anodine, loin de là. Les sommes investies, les formations offertes, l’engagement militaire et les gesticulations diplomatiques de haut niveau le confirment. D’ailleurs, cette implication n’a pas commencé avec les soulèvements de la rue arabe, mais bien avant. Par exemple, on estime qu’entre 2005 et 2010, pas moins de 10 000 Égyptiens ont été formés par les organismes cités précédemment. Ces organismes ont déboursé près de 20 millions de dollars par an en Égypte, montant qui a doublé en 2011. C’est d’ailleurs pour cette raison qu’en 2012, certains de ces organismes ont été poursuivis par la justice égyptienne qui les a accusés de « financement illicite ». Rappelons à ce sujet que 19 américains ont été impliqués dans cette affaire dont Sam LaHood, le directeur Égypte de l’IRI et fils du secrétaire américain aux Transports Ray LaHood.

  • Qu’est-ce qui fait qu’on « emballe » dans le même sac des « printemps » qui ne s’expriment pas de la même façon selon que l’on soit en Égypte où le processus qui a mis à terre Moubarak et son régime a bien fonctionné ou en Syrie, un pays qui risque aujourd’hui le morcellement ?

Il est vrai que les révoltes ont chacune leur propre dynamique. Celles qui ont touché la Tunisie et l’Égypte sont assez similaires. Par contre, bien qu’ayant débuté de manière semblable aux deux premières, les révoltes libyennes et syriennes se sont rapidement transformées en guerres civiles « classiques » avec une ingérence étrangère ostensible. Il faut néanmoins souligner que les États-Unis ont joué un rôle central dans tous ces cas, même si dans les deux derniers la collaboration de certains pays de l’OTAN (France, Grande-Bretagne, Turquie) et arabes (Qatar et Arabie Saoudite) a été importante.

De l’analyse des révoltes du « printemps » arabe, deux leçons peuvent être tirées. La première est que les pays occidentaux (aidés par des pays arabes collaborateurs) peuvent contribuer à changer les régimes et les gouvernements arabes avec un risque quasi-nul de pertes humaines et un investissement très rentable. En Libye, par exemple, des dizaines de milliers de personnes ont été tuées alors que les pertes occidentales sont nulles malgré les dizaines de milliers de frappes aériennes des forces de l’OTAN. D’autre part, le ministre de la défense français avait mentionné que le coût total de l’opération en Libye pour la France pourrait être estimé à 320 millions d’euros au 30 septembre 2011. Des broutilles si on compare ces chiffres avec, par exemple, le coût de l’intervention occidentale en Irak et en Afghanistan où les pertes en vies humaines des coalisés et leurs investissements ont été beaucoup plus conséquents. Avec le « printemps arabe », le concept de guerre « low cost » vient d’être inventé. Évidemment, le faible coût est pour les Occidentaux et non pour les Arabes.

La seconde leçon à méditer est que les pays occidentaux peuvent passer, sans états d’âme, d’une approche non-violente à la Gene Sharp à une guerre ouverte (sous l’égide de l’ONU ou non) avec les moyens militaires de l’OTAN, tout en brandissant, de temps à autres, l’épouvantail de la Cour pénale internationale (CPI).

  • Ne sommes-nous pas dans la thèse du « complot ourdi par l’Occident »?

Le développement d’une thèse sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes est triplement problématique pour un auteur. Primo, cela peut lui faire porter l’étiquette d’un anti-Américain paranoïaque hanté par des visions conspirationnistes. Secundo, cela risque de le faire passer pour un protecteur, voire un admirateur d’autocrates tyranniques et de dirigeants mégalomanes qui n’ont que trop longtemps usurpé le pouvoir. Tertio, il n’est pas impossible qu’il se fasse taxer d’ennemi de la « noble et grandiose révolution du peuple ».

En fait, dès que le discours d’un intellectuel est différent de celui des médias majeurs, on l’accuse automatiquement de « flirter avec la théorie du complot ». Dans le cas précis des révoltes arabes, le complot vient plutôt de ces médias « mainstream » qui veulent nous faire croire à la spontanéité des révoltes arabes. Je vous rappelle la citation de F.D. Roosevelt : « En politique, rien n’arrive par hasard. Si quelque chose se produit, vous pouvez parier que cela a été planifié ainsi ». Les informations contenues dans les deux livres sont basées sur des faits dont toutes les références sont vérifiables. Je vous rappelle aussi que les médias majeurs qui créent et diffusent l’information proviennent des pays impliqués dans la « printanisation » des Arabes. Ils donnent tous le même son de cloche en hissant un des belligérants (celui qui est contre le gouvernement en place) au rang de héros et en affublant l’autre du rôle du bourreau. La vérité est beaucoup plus complexe et ne se résume pas à un portrait dichromatique en noir et blanc. Un travail journalistique intègre et honnête s’évertuerait plutôt à analyser les différents tons de gris.

L’autre galéjade véhiculée par ces médias veut que ce qui intéresse les Occidentaux, c’est apporter la bonne parole dans ces pays sous forme de démocratie. Dans ce cas, pourquoi ces mêmes Occidentaux n’aident-ils pas les citoyens du Bahreïn à jouir, eux aussi, de la démocratie alors que cela fait des mois que la révolte secoue ce royaume? Et ces pays comme le Qatar et l’Arabie Saoudite qui veulent instaurer la démocratie dans les pays arabes, ne devrait-ils pas commencer par eux-mêmes?

Ainsi, tant que les journalistes de ces médias ne feront pas leur travail correctement, c’est à des personnes comme nous, sans affinité quelconque avec les belligérants, que revient la tâche de démêler l’écheveau de la vérité.

 

Ahmed Bensaada,  Entretien réalisé par Nordine Azzouz (Journal « Reporters »)

Auteur : « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe ». Éditions Michel Brûlé, Montréal, 2011; Éditions Synergie, Alger, 2012.

Coauteur : « La face cachée des révolutions arabes ». Éditions Ellipses, Paris. Date de sortie : le 4 décembre 2012.

mardi, 06 novembre 2012

Entretien avec Gilbert Sincyr

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« Le Paganisme est une Vue du monde basée sur un sens du sacré, qui rejette le fatalisme. Il est fondé sur le sens de l’honneur et de la responsabilité de l’Homme, face aux évènements de la vie »

Entretien avec Gilbert Sincyr, auteur du livre Le Paganisme. Recours spirituel et identitaire de l’Europe

par Fabrice Dutilleul

Votre livre Le Paganisme. Recours spirituel et identitaire de l’Europe est un succès. Pourtant ce thème peut paraître quelque peu « décalé » à notre époque.

Bien au contraire : si les églises se vident, ce n’est pas parce que l’homme a perdu le sens du sacré, c’est parce que l’Européen se sent mal à l’aise vis-à-vis d’une religion qui ne répond pas à sa sensibilité. L’Européen est un être qui aspire à la liberté et à la responsabilité. Or, lui répéter que son destin dépend du bon vouloir d’un Dieu étranger, que dès sa naissance il est marqué par le péché, et qu’il devra passer sa vie à demander le pardon de ses soi-disant fautes, n’est pas ce que l’on peut appeler être un adulte maître de son destin. Plus les populations sont évoluées, plus on constate leur rejet de l’approche monothéiste avec un Dieu responsable de tout ce qui est bon, mais jamais du mal ou de la souffrance, et devant qui il convient de se prosterner. Maintenant que l’Église n’a plus son pouvoir dominateur sur le peuple, on constate une évolution vers une aspiration à la liberté de l’esprit. C’est un chemin à rebours de la condamnation évangélique, originelle et perpétuelle.

 

Alors, qu’est-ce que le Paganisme ?

C’est d’abord un qualificatif choisi par l’Église pour désigner d’un mot l’ensemble des religions européennes, puisqu’à l’évidence elles reposaient sur des valeurs communes. C’est donc le terme qui englobe l’héritage spirituel et culturel des Indo-européens. Le Paganisme est une Vue du monde basée sur un sens du sacré, qui rejette le fatalisme. Il est fondé sur le sens de l’honneur et de la responsabilité de l’Homme, face aux évènements de la vie. Ce mental de combat s’est élaboré depuis le néolithique au fil de milliers d’années nous donnant une façon de penser, une attitude face au monde. Il est à l’opposé de l’assujettissement traditionnel moyen-oriental devant une force extérieure, la volonté divine, qui contrôle le destin de chacun. Ainsi donc, le Paganisme contient et exprime l’identité que se sont forgés les Européens, du néolithique à la révolution chrétienne.

 

Vous voulez donc remplacer un Dieu par plusieurs ?

Pas du tout. Les temps ne sont plus à l’adoration. Les Hommes ont acquit des connaissances qui les éloignent des peurs ancestrales. Personne n’a encore apporté la preuve incontestable qu’il existe, ou qu’il n’existe pas, une force « spirituelle » universelle. Des hommes à l’intelligence exceptionnelle, continuent à s’affronter sur ce sujet, et je crois que personne ne mettrait sa tête à couper, pour l’un ou l’autre de ces choix. Ce n’est donc pas ainsi que nous posons le problème.

Le Paganisme, qui est l’expression européenne d’une vue unitaire du monde, à l’opposé de la conception dualiste des monothéismes, est la réponse spécifique d’autres peuples aux mêmes questionnements. D’où les différences entre civilisations.

Quand il y a invasion et submersion d’une civilisation par une autre, on appelle cela une colonisation. C’est ce qui s’est passé en Europe, contrainte souvent par la terreur, à changer de religion (souvenons-nous de la chasse aux idoles et aux sorcières, des destructions des temples anciens, des tortures et bûchers, tout cela bien sûr au nom de l’amour). Quand il y a rejet de cette colonisation, dans un but de recherche identitaire, on appelle cela une libération, ou une « Reconquista », comme on l’a dit de l’Espagne lors du reflux des Arabes. Et nous en sommes là, sauf qu’il ne s’agit pas de reflux, mais d’abandon de valeurs étrangères au profit d’un retour de notre identité spirituelle.

Convertis par la force, les Européens se libèrent. « Chassez le naturel et il revient au galop », dit-on, et voilà que notre identité refoulée nous revient à nouveau. Non pas par un retour des anciens Dieux, forme d’expression d’une époque lointaine, mais comme un recours aux valeurs de liberté et de responsabilité qui étaient les nôtres, et que le Paganisme contient et exprime.

Débarrassés des miasmes du monothéisme totalitaire, les Européens retrouvent leur contact privilégié avec la nature. On reparle d’altérité plutôt que d’égalité, d’honneur plutôt que d’humilité, de responsabilité, de volonté, de défi, de diversité, d’identité, enfin de ce qui constitue notre héritage culturel, pourchassé, rejeté et condamné depuis deux mille ans.

 

S’agit-il alors d’une nouvelle guerre de religion ?

Pas du tout, évidemment. Les Européens doivent dépasser ce qui leur a été imposé et qui leur est étranger. Nous devons réunifier sacré et profane, c’est-à-dire réaffirmer que l’homme est un tout, que, de ce fait, il est le maître de son destin car il n’y a pas dichotomie entre corps et esprit. Les Européens ne doivent plus s’agenouiller pour implorer le pardon de fautes définies par une idéologie dictatoriale moyen-orientale. Ce n’est pas vers un retour du passé qu’il nous faut nous tourner, gardons-nous surtout d’une attitude passéiste, elle ne serait que folklore et compromission. Au contraire des religions monothéistes, sclérosées dans leurs livres intouchables, le Paganisme, comme une source jaillissante, doit se trouver de nouveaux chemins, de nouvelles expressions. À l’inverse des religions du livre, bloquées, incapables d’évoluer, dépassées et vieillissantes, le Paganisme est l’expression de la liberté de l’homme européen, dans son environnement naturel qu’il respecte. C’est une source de vie qui jaillit de nouveau en Europe, affirmant notre identité, et notre sens du sacré, pour un avenir de fierté, de liberté et de volonté, dans la modernité.

 

Le Paganisme. Recours spirituel et identitaire de l’Europe de Gilbert Sincyr, éditions de L’Æncre, collection « Patrimoine des Religions », dirigée par Philippe Randa, 232 pages, 25 euros.

 

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vendredi, 26 octobre 2012

La France est en guerre et personne ne veut le dire

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La France est en guerre et personne ne veut le dire

Entretien avec Renaud Camus

Ex: http://www.polemia.com/

L'écrivain engagé Renaud Camus dit clairement que la France est en guerre et que ce que les médias appellent actes de violences ou incivilités sont en fait des actes de guerre menés contre la France et sa civilisation.

Où voyez-vous des actes de guerre en France qui rappellent le début de la guerre d'Algérie ?

Ce qui rappelle le début de la guerre d’Algérie c'est l’extrême euphémisation du discours imposé par le complexe médiatico-politique. On disait « les évènements », on dit « les affrontements ». Le caractère de conflit territorial est totalement nié.

Pourquoi êtes-vous en colère contre les médias?

Parce qu’ils imposent (presque) unanimement un système de lecture du monde qui est une formidable machine à ne pas voir, à ne pas dire, à ne pas comprendre. L’antiracisme, car c’est de lui qu’il s'agit, depuis qu’il a cessé d’être une morale pour se transformer en idéologie, en endoctrinement, en instrument de pouvoir et de répression, est devenu ce que j’ai appelé, empruntant l’expression à Alain Finkielkraut, Le Communisme du XXIe siècle (éditions Xénia). Il sert, menaces à l’appui, à dissimuler ce qui survient : à savoir le changement de peuple, le Grand Remplacement, la contre-colonisation.

Pourquoi avoir fondé un parti politique ?

Parce qu’il n’en existait aucun qui répondît à l’urgence de la situation et nommât ce qui arrive, la conquête du territoire. Il y avait bien le Front national, qui au moins paraissait conscient de la réalité des choses, mais la présence à sa tête de Jean-Marie Le Pen, à l’époque, empêchait de s'en rapprocher, a fortiori d’y adhérer.

Pourquoi vos maisons d'édition ont arrêté votre contrat?

Ça, c’est plutôt à elles qu’il faut le demander…

Est-ce que la France est une terre d'immigration depuis des siècles?

Absolument pas. C’est l'une des plus cyniques inventions de l’historiographie collaborationniste, au service du parti dévot. Entre le VIe et le XXe siècle, la France a eu une population aux composantes stables. Une première vague d'immigration se manifeste à partir de la fin du XIXe siècle, mais c’est encore une immigration d'individus, et facilement assimilables en une ou deux générations parce que de même civilisation, chrétienne et européenne : Belges, Italiens, Polonais. L’immigration de masse ne commence qu’avec le dernier tiers du XXe siècle et très vite il n’est plus question d’intégration car si la France a toujours su et pu intégrer des individus, elle ne peut pas intégrer des peuples, surtout s’ils appartiennent à des civilisations totalement étrangères à la nôtre et souvent hostiles. Faut-il créer comme sous le modèle de De Gaulle un gouvernement des Forces françaises libres? Nous n’en sommes pas là. De vastes parties du territoire sont encore sous le contrôle du gouvernement national. Le problème est qu’il est lui-même largement entre les mains d'inconscients ou de cyniques, qui s’accommodent très bien de la colonisation en cours ou qui la favorisent.

Assistons-nous à la réécriture de l'Histoire de France ?

Ah ça, totalement. Elle est grandement favorisée par la Grande Déculturation, l’effondrement du système d'éducation, l’enseignement de l’oubli, l’industrie de l’hébétude.

Pourquoi les populations maghrébines veulent à tout prix venir en France alors qu'elles ont chassé la France de leurs pays ?

Quand les Russes ont chassé les Français de Russie, en 1812, ils les ont poursuivis jusqu’à Paris. Mais ils ne sont restés que deux ou trois ans. Et ils n’étaient qu’une armée, pas un peuple.

Est-ce que la France est comme le Kosovo avec des zones musulmanes, africaines et chrétiennes ?

La France moderne s’ingénie à devenir ce que la France classique s’est évertuée des siècles durant à ne pas être, une ex-Yougoslavie, des Balkans, un autre Liban, un panier de crabes.

Puisque nous parlons de populations différentes. Parlez-nous du traitement des statistiques sur la démographie!

Statistiques et sociologie sont au parti dévot ce que la biologie de Lyssenko était au stalinisme.

Avez-vous lu « Les Yeux grands fermés » de Michèle Tribalat? Votre avis ?

Une des rares voix clamant dans le désert, comme celle de Richard Millet en littérature.

Les immigrés disent être plus français que les Français et nomment les Français «souchiens ou sous-chiens». Cela vous choque?

C’est peut-être vrai de quelques milliers d’entre eux, qui aiment plus la France que ne l’aiment ses indigènes déculturés. De la part des autres, ce n'est qu'une revendication territoriale — cela ne fait que me confirmer dans ce que je pense : qu'une conquête est en cours, par colonisation de peuplement.

Que pensez-vous du rôle des organisations humanitaires qui comme le Mrap interdisent de parler des faits?

Qu’elles sont les auxiliaires intéressées du Grand Remplacement.

Le fait que Poutine interdise de telles organisations en Russie est donc une bonne idée ?

Il n’est pas nécessaire de les interdire. Il suffit de ne pas les subventionner.

Renaud Camus
La voix de la Russie
Propos recueillis par Olivier Renault
20/08/2012

samedi, 20 octobre 2012

VRAAGGESPREK MET YVES PERNET

VRAAGGESPREK MET YVES PERNET OVER ZIJN VISIE OP EEN AANTAL ECONOMISCHE VRAAGSTUKKEN

http://vrijdietschland.blogspot.be/

Een tijdje geleden mocht ik enkele vragen stellen aan Yves Pernet (onafhankelijk politiek en economisch analist en overtuigd solidarist) over zijn visie op een aantal economische vraagstukken. Vragen én antwoorden vindt u hieronder.

- Madoc van Waas: Yves, hoe een autarkie (een 'gesloten' economisch systeem) tot stand brengen in een wereld waar de globalistische en kapitalistische logica alles domineert en de NAVO en andere supermachten (voornl. de VSA) (met kernwapens) klaar staan om ieder niet-kapitalistisch land te bedreigen en aan te vallen manu militari?

Yves Pernet: Wanneer men spreekt over een autarkie is het nodig om met bepaalde zaken rekening te houden. In de eerste plaats moet je bepalen over welk gebied je een autarkie wilt installeren. Bij mijn weten is er maar één land ter wereld dat ik in staat zie om een autarkie in te voeren en dat is Rusland. Zelfs wanneer men Europa als een geheel neemt, is de autarkie niet mogelijk vanwege de noodzaak aan fossiele brandstoffen. Discussiëren over de wenselijkheid en mogelijkheid van autarkie zijn mijn inziens leuke denkspelletjes, maar niet relevant in de wereld van vandaag de dag.

- MvW: En hoe zelfvoorziening tot stand brengen?

YP: Dat hangt er van af wat je onder zelfvoorziening verstaat. Bedoel je de autarkie, zoals hierboven reeds besproken, dan is het zo goed als onmogelijk. Wanneer je echter spreekt over de zelfvoorziening in basisbenodigdheden, dan is het een andere zaak. Door een herwaardering van de boerenarbeid in de eigen gemeenschap, door bijvoorbeeld het zoveel mogelijk afsluiten van voedselimport en de subsidiëring van de eigen landbouwproducten, kan men reeds in bepaalde mate zelfvoorzienend worden. Men mag echter ook de demografische realiteit niet vergeten en het historisch perspectief. Onze bevolkingsaantallen eisen nu eenmaal grote hoeveelheden voedselimport, een fenomeen dat reeds in onze streken gekend is sinds de late middeleeuwen. Reeds in de 15de eeuw was bijvoorbeeld het hertogdom Brabant voor meer dan 20% van zijn voedsel afhankelijk van import (toen vooral uit de Baltische staten).

- MvWHoe kunnen we de globalisering zo snel mogelijk een halt toeroepen?

YP: Twee woorden: koop lokaal. Zo simpel is het werkelijk. Negeer de grote multinationals zoveel je kan en ga inkopen doen in buurtwinkels. Dat is niet gemakkelijk, de kostprijs is vaak hoger en door de inflatie voel je dat veel sneller, maar dat is het snelste alternatief voor het globalisme. Voor de rest zal het globalisme zichzelf een halt toeroepen door gewoon in te storten. Het overleeft nu al door gigantische kapitaalinjecties in de economie.

- MvWHoe kunnen we de delokalisatie (wegtrekken van voornamelijk grote multinationale en industriële bedrijven) verhinderen en hoe kunnen we verankering tot stand brengen?

YP: Stoppen met het voortrekken van de grote multinationals en een ronduit vijandig beleid tegenover hen voeren. Daaraan een campagne koppelen om de eigen keuken te promoten en voor te trekken. Laat de vettaks maar komen en belast fastfood met een belastingsniveau van minstens 40%, terwijl je vitaminenrijk voedsel van eigen bodem een belastingsniveau van maximaal 5% toekent. De BTW-tarieven zijn een machtig wapen in het bepalen van consumptiegedrag. Dit zal in de eerste plaats zorgen voor banenverlies in de sectoren waar de multinationals aanwezig waren, maar men moet dit koppelen aan lagere kosten voor startende bedrijven (en lagere kosten voor kleine en middelgrote bedrijven tout court) om zo familiebedrijven en KMO's te ondersteunen om die gaten in de markt te vullen.

 
- Wat met ons monetair systeem (specifiek Europees maar ook globaal en internationaal)? Wat met de goudstandaard en hoe deze herinvoeren?

De  goudstandaard morgen hier invoeren heeft één gigantisch voordeel en één gigantisch nadeel. Het voordeel is dat we een gigantische toename aan rijkdom gaan kennen doordat miljarden en miljarden aan geld naar ons gaat vloeien. Het nadeel is dat andere staten met zoiets niet kunnen lachen, de kapitaalsvlucht zou hen fataal worden, en dat zij niet zullen aarzelen om manu militair dat beleid ongedaan te maken.

- Klassenstrijd of klassenverzoening?

Klassenverzoening, in de mate dat we binnenkort nog gaan kunnen spreken van de traditionele klassen.

- Leidt arbeid volgens jou tot zelfverwezenlijking? (En zo ja, maak je je dan niet schuldig aan dezelfde punten waar het liberalisme en het marxisme zich schuldig aan maken?)

Uiteraard leidt arbeid tot zelfverwezenlijking, dat is net wat de Derde Weg onderscheidt van de Verlichtingsideologieën. Marxisme ziet arbeid als een proces waarin de arbeider grondstoffen omvormt tot een product met meerwaarde, een liberaal ziet arbeid als een gegeven binnenin een groot productieproces dat moet leiden tot winst. Voor de Derde Weg is arbeid bijna een doel op zich, aangezien het net de mens aanzet tot zelfontplooiing. Uiteraard mag je arbeid niet verengen tot de dagelijkse beroepsbezigheden, maar moet je dit doortrekken naar alle vormen van menselijke activiteit waarbij men het ene goed omzet naar een ander, liefst met als doel een verrijking.

- Wat zijn je punten van kritiek op het marxisme?

Daar kan ik een halve bibliotheek over volschrijven. Mijn inziens is de kern van de marxistische filosofie, dan ben ik nog niet bezig over de praktische uitwerking, al ronduit ketters, wegens gebrek aan een ander woord. Het is een ketterij op het vlak van religieuze beleving, marxisme verkondigt immers een ronduit messianistisch beeld waarbij het Paradijs hier op Aarde gebouwd kan worden zolang we ons maar onderwerpen aan de marxistische dogmatische richtlijnen. Marxisten zullen verkondigen dat zij, in tegenstelling tot religie, zich niet onderwerpen aan dogma's, maar dat is niet waar. Zij zien het inderdaad niet als dogma's, maar als een onbediscussieerbare waarheid. Tenslotte komt het altijd op enkele dingen neer; de mens is alleen (geen God), de mens dient vrij te zijn van dogma's of religieuze axioma's, alle menselijke historische feiten zijn terug te brengen tot socio-economische factoren en de mens wordt momenteel onderdrukt doordat hij de vruchten van zijn arbeid niet krijgt. Ook is de mens een onbeschreven blad dat enkel slecht wordt door negatieve impulsen die hij krijgt door de conformering aan maatschappelijk gezag (normen, waarden en tradities). Een compleet fout mensbeeld, zo uit de waanbeelden van Rousseau geplukt. Niet dat ik dit metafysisch verwerp, aangezien de realiteit me gelijk geeft. Het voorste deel van onze hersenen bevatten onze remmingen. Zelfs extreme schade daaraan kunnen wij overleven, maar dan wordt de mens teruggebracht naar zijn primitieve gedragingsfase, namelijk zonder sociale conventies en normen en waarden. Resultaat? Een egoïstisch wezen dat enkel aan zijn eigen direct belang denkt. Biologie 1 – 0 marxisme dus. Het marxisme gelooft ook in de blinde Terreur in naam van de waarheid (cfr. Rousseau met de volonté générale, uitgevoerd door Robbespierre en de jacobijnen en vandaag de dag nog altijd verdedigd door mensen als Zizek).

Maar het marxisme trekt ook de mens los uit zijn historische, organische context en probeert de mens te ontdoen van zijn mythisch tijdsbesef en van de historische context. Mythisch tijdsbesef houdt in dat de mens zijn afkomst niet enkel historisch factueel ervaart (ik ben het kind van mijn ouders die kinderen waren van hun ouders die kinderen waren van hun ouders etc...), maar ook zich zal identificiëren met de mythische geschiedenis van zijn afkomst (ik ben deel van religieuze gemeenschap X, gesticht door religieus figuur X die mirakels Y en Z deed). Tevens rukt het de mens los uit z'n historische context doordat het de geschiedenis terugbrengt naar een optelsom van egoïstische daden of het smoren van vrijheid. Die twee dingen zijn uiteraard in grote mate aanwezig in de geschiedenis, maar zijn niet altijd de bepalende factor geweest.

Voor mijn kritiek op de praktische uitwerking van het marxisme moet ik enkel maar verwijzen naar succesverhalen van het marxisme. Voorbeelden zijn legio: Noord-Korea, Cambodja, de Sovjetunie, het Oostblok. Voor een regime als dat van Castro, en zelfs dat van Vietnam, kan ik nog wat sympathie opbrengen (veel meer voor eerstgenoemde dan voor laatstgenoemde), maar die regimes verschillen ook in de mate dat zij een nationalistische opstand waren waarbij de nationale en sociale breuklijnen gelijkvielen.

- Klopt de stelling van Marx dat er een wisselwerking is tussen economie en cultuur en is economie echt wel de onderbouw van de samenleving?

Kort gezegd: ja. Maar dat is niet enkel de visie van Marx, maar de visie van zowat elke serieuze persoon en organisatie die zich bezig houdt met politiek of economie. Ook de Kerk bijvoorbeeld erkent dat economie direct verbonden is aan maatschappelijke tendensen en heeft, onder andere, daarom een duidelijke sociaal-economische leer afgebakend. Het is echter niet allesbepalend.

- Ben jij een aanhanger van de vooruitgangsideologie?

Nee. Wanneer het aankomt op de strijd tussen “vooruitgang”, zoals geponeerd door de Verlichtingsdenkers, ben ik te plaatsen tussen de conservatieven en reactionairen.

- ...En moeten we niet naar een versobering (om gelukkiger te worden; dit is taboe en komt moeilijk aan de man, maar is het geen waardevolle gedachte)?

Dat klopt. Maar vertel tegen de gemiddelde man dat ons systeem er voor zorgt dat zijn brood en pint goedkoper wordt, dan zal die al snel bijdraaien.

- Distributisme is het verdelen van de productiemiddelen (arbeid, kapitaal, enz.) over de bevolking. Hoe werkt dit in de praktijk?

Dit boek http://www.amazon.co.uk/Toward-Truly-Free-Market-Distributist/dp/161017027X/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1327548333&sr=8-1 legt het veel beter uit dan dat ik ooit zou kunnen. Warm aanbevolen!

- Zijn investeringen van het grootkapitaal niet noodzakelijk om een economie draaiende te houden? 

Uiteraard. Maar men moet het grootkapitaal ook niet als een groot monoliet blok zien. Het grootkapitaal valt uiteen in grofweg twee sectoren. Enerzijds heb je de financiële sector die de grote geldstromen beheerst (niet zoals in een planeconomie, maar eerder zoals men met rivierdammen en sluizen een rivier probeert te beheersen) en zorgt voor het kapitaal van de tweede sector: de harde industriële sector die producten produceert en verspreidt. Investeringen zijn uiteraard nodig, maar de grote geldstromen en opbrengsten zijn heus niet gericht op de KMO's: die mogen de kruimels oprapen van de grote bedrijven. Het is fout om te spreken van de terreur  van vrije markt, aangezien we die niet hebben momenteel. Correcter is om te spreken van een globale oligarchie waarbij de kleintjes tevreden waren omdat de kruimels die groten lieten vallen groot genoeg waren. Helaas voor hen is de taart veel kleiner en valt er véél minder van tafel.

- KMO's zijn van enorm groot belang, maar kan je echt een hele economie draaiende houden met enkel KMO's? 

Het globalisme, zoals we dat vandaag de dag kennen, kan je daar niet mee draaiende houden. Je kan daar echter wel een mooi niveau van welvaart mee verzekeren en vooral inflatie mee onder controle houden (de geldcreatie en -stromen zullen afnemen). Vergeet trouwens niet dat het merendeel van de grote wereldrijken voor de opkomst van het kapitalisme gewone landbouwsamenlevingen waren.

- Hoe armoede het best bestrijden? 

Om te beginnen: activering van werklozen en achter de veren zitten. Een tijd ben ik meegestapt in het verhaal van “armen willen de werkloosheid heus niet”. Dat is een feit voor het merendeel van de armen, laat daar geen twijfel over bestaan. Maar ik weet ondertussen ook uit ervaring dat er effectief zijn die ronduit parasiteren op het systeem en niet de minste moeite doen. Liever de aandacht trekken met arm zijn dan er effectief iets aan te doen. Hoe cliché het mag klinken: de eerste stap uit de armoede is werk.

Maar vervolgens moet je die mensen ook opvolgen dat zij hun geld niet op gaan zuipen op café. Als er subsidies moeten zijn, laat die dan naar het middenveld gaan die, om het cru te zeggen, die mensen bezig houdt. Laat ze voor een goed doel werken, alles is beter dan niets doen en dan maar uit verveling zichzelf lam gaan zuipen.

- Wat met ontwikkelingshulp

In beperkte mate en doelsgericht kan dit van nut zijn. Nu dient het enkel om bestaande armoede te laten bestaan en in vele gevallen zelfs te vergroten. Het versmacht de lokale markten en verhindert elke opbouw van een eigen economie (door producten zoals voedsel in enorme massa's te dumpen en zo geen productiefactoren op te bouwen).

- Madoc van WaasWat vind je van de begroting 2012 van de regering-Di Rupo I ? En wat moet - conform het solidarisme - de verhouding belastingen/besparingen zijn in een begroting? 

Yves Pernet: Momenteel moet er voor 100% naar besparingen gekeken worden. Meer belastingen in tijden van crisis is verdedigbaar als je niet reeds onder zo'n gigantische belastingsdruk leeft als in België. Stroomlijn de administratie van de ambtenarij maar eens. Een voorbeeld: in de Knack van deze week staat een interview met iemand van Straten Generaal die vertelde hoe hij een e-post kreeg van een Vlaams minister met de vraag om een kopie van een document dat Straten Generaal een tijd daarvoor had opgevraagd. Waarom? Omdat Straten Generaal zo'n documenten sneller kon bovenhalen dan de Vlaamse administratie zelf. Veelzeggend. Maar ook in de cultuursector mag het grote mes. Cultuur is voor het overgrote merendeel altijd een private gelegenheid geweest m.b.t. financiëring. Openbare financiëring van kunst was in uitzonderlijke gevallen: bijvoorbeeld de financiëring van een standbeeld om iets te herdenken.

- Madoc van Waas: Bedankt voor dit vraaggesprek, Yves!

00:05 Publié dans Economie, Entretiens | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : économie, belgique, flandre, entretiens, yves pernet | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 18 octobre 2012

Tom Sunic Interviewed by Richard Edmonds

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mercredi, 17 octobre 2012

The Life of Ananda K. Coomaraswamy

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Rama P. Coomaraswamy (His Son)

dimanche, 14 octobre 2012

Derek Turner Interviewed by Craig Bodeker

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