vendredi, 13 septembre 2013
Une réflexion sur l’avenir de l’Europe
LE LIEU DU RADICAL EUROPEEN
Michel LHOMME
Ex: http://metamag.fr
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Rassegna Stampa (sett. 2013)
- Barcellona, intellettuale-militante alla ricerca di un nuovo umanesimo
di Felice Giuffrè [09/09/2013]
Fonte: Barbadillo
- Alcune novità mediatiche sulla "crisi siriana"
di Enrico Galoppini [09/09/2013]
Fonte: eurasia [scheda fonte]
- La scomparsa di Pietro Barcellona e la lezione non compresa dai politici italiani
di Umberto Croppi [09/09/2013]
Fonte: huffingtonpost
- Siria, cosa farà la Russia?
di Aleksandr Dugin [09/09/2013]
Fonte: weltanschauung
- Ahmad Shah Massoud. In ricordo di un simbolo della libertà
di Franco Nerozzi [09/09/2013]
Fonte: comunitapopoli
- La morbida transizione criminale da Bush/Cheney a Obama
di Larry Chin [09/09/2013]
Fonte: globalresearch
- Video dalla Siria. La bufala della CNN
di Francesco Santoianni [09/09/2013]
Fonte: francescosantoianni.it
- Decadenza di Berlusconi, tanto rumore per nulla: ci penseranno i giudici
di Massimo Fini [09/09/2013]
Fonte: Massimo Fini [scheda fonte]
- L’art. 66 Cost.: autodichia e divisione dei poteri nel caso Berlusconi
di Marco Della Luna [09/09/2013]
Fonte: marcodellaluna
- Grazie Siria
di Fernando Rossi [09/09/2013]
Fonte: testelibere
- Obama, il pagliaccio criminale vestito da premio nobel per la pace
di Fernando Rossi [09/09/2013]
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
- Un'altra crisi finanziaria se i Paesi ricchi non alleggeriranno la dipendenza dalla liquidità
di Ha-Joon Chang [09/09/2013]
Fonte: polemos-war
- Genitore 1 e 2. La degenerazione in nome dell'evoluzione
di Flaminia Camilletti [09/09/2013]
Fonte: lintellettualedissidente
- Il mondialismo e il ”Club Bilderberg”
di Davide Caluppi [09/09/2013]
Fonte: Rinascita [scheda fonte]
- Sul concetto di tradizione
di Luciano Fuschini [09/09/2013]
Fonte: giornaledelribelle [scheda fonte]
- 8 settembre. Impariamo (ancora) a fare i conti con la storia
di Mario Bozzi Sentieri [09/09/2013]
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
- 8 Settembre. Una disfatta che dura ancora…
di Piero Sansonetti [09/09/2013]
Fonte: Gli Altri online
- Il padre, libertà e dono
di David Taglieri [09/09/2013]
Fonte: Claudio Risè [scheda fonte]
- Petrolio, economie emergenti più assetate dei paesi industrializzati
di Andrea Bertaglio [09/09/2013]
Fonte: La Stampa [scheda fonte]
- Un sistema per salvare il mondo come piace ai banchieri. Ora tocca alla Siria!
di Ellen Brown [09/09/2013]
Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]
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jeudi, 12 septembre 2013
L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura
L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura
Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato
Fabrizio Fiorini
Ex: http://www.rinascita.eu
Il diritto, interno o internazionale, scritto o consuetudinario, derivante che sia da leggi o trattati, ha nella sua stessa natura la possibilità di essere mutato, abrogato, riformulato, dimenticato, addirittura violato. Se non si fossero cancellate norme, soppresse costituzioni, denunciati trattati, se non vi fossero mai stati questi sovrani atti squisitamente politici, la società umana sarebbe rimasta innaturalmente ferma, immobile, prima di quel dinamismo sociale che la sua essenza storica ha materializzato sotto forma di stravolgimenti sociali, passaggi epocali, rivoluzioni.
Oggi, nell’Occidente dell’ipocrisia e del “dirittumanismo” non è più così. Il diritto resta, immutabile, cristallizzato, divinizzato. Protetto da vecchie cariatidi degli ordinamenti tardo-novecenteschi, da un insopportabile moralismo gauchiste, dalla supponenza indotta di aver finalmente conseguito il migliore dei mondi realizzabili, l’eden della politica e delle relazioni internazionali.
Ma il mondo non aspetta il diritto: in meglio o in peggio che sia, cambia. Non solo: la forza del diritto, nei tempi correnti, si indebolisce, contestualmente al tracollo dell’autorità e della forza delle fucine in cui questo era forgiato, gli Stati, a vantaggio di poteri più forti ma sovranazionali, a-statali, apolidi. E allora il diritto, legato a schemi oramai preesistenti, viene semplicemente ignorato, relegato all’oblio.
Gli Stati Uniti, lo stato sionista, la Nato, l’Occidente in genere, in ispecie nel campo dei rapporti internazionali, dettano la linea di questa nuova a-giuridica. Sintetizzare in queste poche righe le violazioni del diritto internazionale da loro commesse nel corso degli ultimi decenni è non solo tecnicamente impossibile ma – considerando la “naturalezza” del loro spregio di norme che ad altri impongono con la forza – sarebbe quantomeno grottesco.
Serva, quale unico esempio, quello della guerra alla Jugoslavia del 1999 in cui la Nato trascurò di rispettare non solo una mezza dozzina di principi sanciti dal diritto internazionale ma addirittura ignorò il suo stesso statuto che all’articolo 5 prevede l’utilizzo della forza militare in caso di attacco a una delle nazioni componenti l’Alleanza; eventualità che, chiaramente, era estranea agli eventi balcanici del 1999.
Appurato che per l’Occidente, e segnatamente per gli Usa, per i sionisti, per la Nato, per la Gran Bretagna (e per la rediviva Francia) non rientra nei bisogni primari il rispetto delle disposizioni di legge (figurarsi della volontà popolare) per la messa in atto di imprese belliche e di operazioni armate in qualunque modo camuffate, risulta altamente indicativa l’inversione di rotta di questi mesi, contestualmente alla crisi siriana.
La Gran Bretagna ha abbandonato l’opzione militare in conseguenza di un voto parlamentare ostile. Negli Stati Uniti, per settimane e fino a l’altro ieri, si è parlato di “decisione del Congresso”. Stessa cosa, pur in tono minore, a Parigi. In tutti gli altri Stati satellite del libero Occidente, dall’Italia a Saint Kitts e Nevis, il coro era unanime: aspettiamo l’Onu, sentiamo cosa dice l’Onu, mai senza l’Onu. Proprio quello stesso Onu che era considerato un inutile carrozzone, era vilipeso e deriso ogniqualvolta avesse preso, fino alla guerra all’Iraq del 2003, una pur timida posizione avversa alla fregola bellica USraeliana.
Cosa si cela dietro questo inaspettato “ritorno al diritto”? Un repentino rinsavimento? Una “primavera americana”? No: la paura. Quella paura tipica di che all’improvviso esce dal suo autoreferenziale stordimento e si rende conto di essere stato messo all’angolo. Barack Obama, solo poche settimane or sono, era ancora spavaldo affermando con convinzione: “in Siria faremo come in Kosovo”. Non pensava, il tapino (forse i suoi consiglieri dell’Aipac lo tenevano all’oscuro), che dal 1999 il mondo è cambiato, e non poco.
La “forza della ragione”, rivelatasi nel corso dei decenni poco efficace per fronteggiare la pervasiva aggressività americana, ha finalmente lasciato il posto alle “ragioni della forza”. Alla sana forza, alla rinascita e al potenziamento di Stati (pensiamo all’Iran, alla Russia, alla stessa Siria ma non solo) capaci di mettere un argine alla nuova “dottrina Monroe” applicata su scala planetaria; che hanno dimostrato che non è la “dottrina della pace” a essere vincente, ma la decisa e forte contrapposizione, l’unica “musica” che entra nelle orecchie di Washington.
Per la prima volta nella storia recente, gli Usa si fermano. Non riescono a celare la loro frustrazione e il loro ridimensionamento neanche alla stampa più allineata, anche gli amici di vecchia data si fanno da parte. Addirittura il ministro Bonino tentenna, il che è tutto dire.
Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato. I popoli della terra potranno tirare un sospiro di sollievo, ma non si facciano troppe illusioni: la bestia ferita è capace di tutto. E Tel Aviv, vedendo i suoi protettori indebolirsi, potrebbe fare di peggio.
11 Settembre 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22363
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lundi, 09 septembre 2013
Mériguet et Van Hemelryck à Radio Courtoisie
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vendredi, 06 septembre 2013
Les nouveaux visages du mondialisme
Les nouveaux visages du mondialisme
par Georges FELTIN-TRACOL
Suite à ma brève étude consacrée à l’U.K.I.P. (Parti de l’Indépendance de la Grande-Bretagne) de Nigel Farage, « Poussée souverainiste outre-Manche » dans le mensuel en ligne Salut public, n° 16 de juin 2013, des lecteurs se sont étonnés que je qualifie ce mouvement souverainiste britannique de « national-mondialiste ». Il est vrai que le qualificatif paraît osé, mais cette provocation voulue entend signaler une tendance nouvelle qui témoigne de la mue du mondialisme afin de contourner et de neutraliser les réactions souvent défensives qu’il suscite.
Le mondialisme « classique » se présente sous deux formes souvent antagonistes tant au sujet des moyens que des finalités dernières. Le premier mondialisme demeure le plus connu puisqu’il regroupe les cénacles de l’hyper-classe oligarchique planétaire et domine les médiats, la finance, la politique et les grands groupes transnationaux. Ces mondialistes-là se retrouvent régulièrement lors des réunions à Davos, de la Commission Bilderberg ou de la Trilatérale, etc. Ces chantres de la mondialisation globale ne revendiquent pas publiquement, sauf exceptions notables, un État mondial. Ils préfèrent soutenir une « communauté internationale » régie par des normes occidentales, libérales et « démocratiques de marché » (en fait ploutocratiques et oligarchiques) qui écrase le politique au profit d’un économicisme. Pour eux, la paix universelle garantit le maximum d’affaires donc de profits. Le second mondialisme, bien plus récent, apparaît à la fin des années 1990. C’est l’« altermondialisme ». Prétextant des préoccupations sociales, environnementales et sociétales, les altermondialistes imaginent une structure politique inter-continentale dans laquelle les citoyens du monde sur-connectés exprimeraient leurs avis à des dirigeants révocables sur le champ grâce à la grande Toile numérique mondiale. Si les altermondialistes mènent souvent des combats sympathiques et nécessaires, leur dessein final d’évacuation définitive du politique et du conflit les dessert, d’où l’amenuisement perceptible depuis cinq – six ans de leur activisme.
Ces deux versions mondialistes ne cachent pas leur objectif ultime, ce qui explique probablement la méfiance immédiate des peuples. Suite à cette défiance véritable, tel un organisme confronté à un problème de survie, l’idéologie mondialiste a commencé une entreprise de diversification morphologique, à un travestissement des idées, voire à une infiltration, avec le secret espoir de favoriser une large confusion. Le phénomène est particulièrement notable avec le régionalisme.
En Bolivie, l’élection en 2006 de l’Amérindien révolutionnaire Evo Morales à la présidence de la République stimula le séparatisme de cinq départements amazoniens du pays. Il fallut toute l’autorité présidentielle d’Evo Morales pour éteindre ces velléités centrifuges. Ces séparatistes, souvent d’origine créole, proche des riches propriétaires des latifundia et financés par les États-Unis, défendaient-ils une culture particulière, une autonomie linguistique ou une spécificité historique ? Nullement ! Leurs motivations premières étaient la défense de leur fortune agrarienne et leur refus d’obéir à un président à la peau cuivrée. Il est intéressant de relever que certains de ces indépendantistes rêvaient que leur hypothétique État adhérât à l’A.L.E.N.A. …
On retrouve cet exemple de « régional-mondialisme » d’une manière moins nette, plus diffuse, en Europe de l’Ouest. probable grand vainqueur aux élections législatives, régionales et communautaires l’année prochaine en Belgique, la Nouvelle Alliance flamande de Bart De Wever doit être désignée comme une formation « nationale-centriste ». Si son seul député européen siège dans le groupe commun des Verts – A.L.E. (Alliance libre européenne – régionaliste), son meneur principal et actuel maire d’Anvers ne cache pas son admiration pour le libéral-conservateur anglais Edmund Burke. Se focalisant sur la question linguistique qui exclut les minorités francophones albo-européennes et qui accepte des populations étrangères non européennes néerlandophones, la N.V.A. soutient un regrettable point de vue assimilationniste et réducteur.
En Catalogne, l’année 2014 risque d’être décisive puisque le gouvernement autonome catalan démocrate-chrétien, encouragé par l’extrême gauche républicaine indépendantiste, prévoit un référendum d’auto-détermination par avance rejeté par le gouvernement conservateur de Madrid. Le chef de la Généralité catalane, Artùr Mas, développe une démagogie intense en faveur de l’indépendance alors que la région très autonome croule sous un endettement public faramineux. Indépendante, la Catalogne deviendrait une proie facile pour les jeunes requins friqués d’Asie et du Moyen-Orient. Comme pour les Flamands d’ailleurs, les indépendantistes catalans rêvent d’adhérer à l’Union européenne et de se maintenir dans l’Alliance Atlantique.
Le phénomène est plus frappante en Écosse. En 2014 se tiendra un référendum sur l’indépendance validé par le Premier ministre conservateur britannique, David Cameron, et son homologue écossais, Alex Salmond, chef du S.N.P. (Parti nationaliste écossais) indépendantiste d’orientation sociale-démocrate. Dans le cas d’une Écosse libérée d e la tutelle londonienne, le nouvel État serait toujours une monarchie parlementaire avec pour reine Elisabeth II et ses successeurs. Quant à la monnaie, ce serait soit l’euro, soit la livre sterling.
Il faut oublier les belles images du film de Mel Gibson Braveheart. Hormis une minorité indépendantiste identitaire réunie au sein d’un Front national écossais (1), les indépendantistes écossais – en tout cas leurs responsables – communient eux aussi dans le « multiculturalisme ». Dans la perspective de la consultation référendaire, le S.N.P. dispose du soutien de la communauté pakistanaise. D’ailleurs, le ministre écossais des Affaires étrangères et du Développement internationale, Humza Yousaf, est un Pakistano-Kényan. Alex Salmond déclare ainsi que « nous avons une identité attrayante, d’autant plus que nous ne mettons pas en avant un caractère exclusif. Les gens ont droit à la diversité et l’écossité en fera partie à coup sûr (2) ».
À quoi bon dès lors une Écosse indépendante si la population n’est plus écossaise à moyen terme ? Un néo-mondialisme investit donc le champ régional sans trop de difficultés d’autant que maints régionalistes récusent toute connotation identitaire.
Ce néo-mondialisme s’invite même chez les souverainistes anti-européens du Vieux Continent. Le cas du Parti pour la liberté (P.V.V.) néerlandais de Geert Wilders reste le plus exemplaire. Ce parti néo-conservateur et libéral défend les droits de la minorité homosexuelle face à l’affirmation d’un islam rigoriste assumé. Dans une logique de confrontation entre l’Occident, perçu comme la patrie universelle des droits de l’homme, et l’Islam, considéré comme une civilisation arriérée, le P.V.V. s’aligne sur des positions atlantistes et sionistes avec la secrète espérance de ne pas être diabolisé par les médiats. Cette démarche similaire se retrouve en Allemagne où règne depuis 1945 une incroyable terreur mémorielle. Des formations d’audience régionale comme Pro Köln (Pour Cologne) ou Pro N.R.W. (Pour la Rhénanie du Nord – Westphalie) tiennent un discours anti-musulman grossier qui confond Al-Qaïda et le Hezbollah libanais. On devine une argumentation néo-conservatrice et atlantiste du choc des civilisations…
En France, le néo-mondialisme ne parie pas encore sur le F.N. dédiabolisé de Marine Le Pen. Outre le Front de Gauche de Jean-Luc Mélenchon, il encourage plutôt l’ancien Young Leader de la French American Foundation, Nicolas Dupont-Aignan de Debout la République. Comme d’ailleurs Mélenchon, le député-maire d’Yerre suggère comme alternative au projet européen une union méditerranéen France – Afrique du Nord ! Remarquons aussi qu’il envisagea de coopérer avec le F.N. à la condition que celui-ci abandonne son positionnement identitaire. Or c’est précisément ce choix fondamental qui permet au part frontiste d’être la troisième force politique de l’Hexagone.
Le néo-mondialisme a enfin pris le visage du populisme en Italie avec Beppe Grillo et son Mouvement Cinq Étoiles. L’extraordinaire succès de cette force « anti-politique » aux législatives anticipées de février 2013 a mis en lumière le rôle de gourou de Gianroberto Casaleggio. Ce riche patron d’une entreprise d’informatique rêve d’un État mondial numérisé d’influence New Age – Gaïa – dans lequel seraient proscrites les religions et les idéologies (3). Par certains égards, on peut considérer que Casaleggio représente le versant populiste d’un néo-mondialisme comme Wilders en incarne le versant néo-conservateur atlantiste. Dernièrement, Nigel Farage a considéré comme « épouvantable » une campagne du ministère britannique de l’Intérieur destinée à dégoûter les immigrés illégaux de venir en Grande-Bretagne (4). Farage précise même qu’il trouve cette opération publicitaire « très “ Big Brother ” […], très Allemagne de l’Est dans les années 1980, une horrible façon de lutter contre l’immigration (5) ».
Il est intéressant de remarquer que ces partis dits « populistes » et « eurosceptiques » mésestiment, minorent ou ignorent délibérément – peut-être pour satisfaire le politiquement correct des gras médiats – la thématique identitaire. L’U.K.I.P. dénonce plus la présence de Polonais ou de Grecs que l’immigration venue du Commonwealth. Quant aux critiques du P.V.V., elles se focalisent sur l’islam et non sur l’immigration (6). Finalement, au jeu des comparaisons, l’Aube dorée grecque et le Jobbik hongrois témoignent d’un sens plus développé de l’identité ancestrale autochtone, ce qui par ces temps troublés n’est pas négligeable.
Georges Feltin-Tracol
Notes
1 : Cette formation est évoquée par l’excellent blogue de Lionel Baland, le 21 juin 2013 : http://lionelbaland.hautetfort.com/
2 : dans The Observer cité par Courrier International du 18 au 24 juillet 2013.
3 : Lire l’excellente analyse de Patrick Parment, « Le présent italien annonce-t-il le futur italien ? », Synthèse nationale, n° 31, mars – avril 2013.
4 : Julien Laurens, « Shocking, la pub anti-clandestins ! », Aujourd’hui en France, 1er août 2013.
5 : dans Le Nouvel Observateur, 29 août 2013.
6 : À la décharge de l’U.K.I.P. et du P.V.V., reconnaissons-leur qu’ils viennent de s’opposer officiellement – et avec raison – à toute intervention militaire occidentale en Syrie. Ils rejoignent de ce fait le B.N.P., l’Aube dorée, le F.N. et les Republikaner allemands.
Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com
URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=3301
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mercredi, 04 septembre 2013
La destruction du monde arabe
La destruction du monde arabe et notre élite hostile
A quoi sert la destruction du monde arabe ?
Le vrai visage du printemps arabe – expression que l’on devait à Benoist-Méchin – m’est apparu ici assez vite : des foules marginales, manipulées et bien filmées par les télévisions du Qatar ont été parées de toutes les vertus ; le départ décrété nécessaire sur Facebook de leurs tyrans, auxquels on substituait les mandataires des oligarchies pro-anglo-saxonnes (on n’a pas beaucoup évolué depuis Lawrence d’Arabie, et peut-être qu’après tout les bédouins de Ryad, La Mecque et Doha sont des MI5 et CIA maquillés et grimés), nommés Frères musulmans ou autres. Ces illusionnistes, bien qu’ayant promis la privatisation du canal de Suez (quel grand clin d’œil !), n’ont pas été capables, par exemple, en Egypte, de faire que le citoyen chahuteur de la rue s’en sorte mieux qu’avant avec ses soixante dollars par mois : pourquoi la Fed n’imprime-t-elle pas plus de billets ? Le chahut a chassé le touriste et les comptes de la nation ont plongé un peu plus – sauf ceux de l’armée, toujours payée et équipée par l’étranger et donc toujours soucieuse de bien faire. Un peu auparavant, un pauvre ambassadeur américain avait d’ailleurs aussi mal terminé que l’ancien dictateur local. Cet ambassadeur, on l’aura compris, ne faisait pas partie des réseaux, des agences et des élites hostiles qui dirigent notre monde : il pouvait donc être étranglé après avoir été sodomisé au nom d’Allah par les hommes de main de qui de droit. Et la presse a pu s’en prendre aux chrétiens intégristes qui aux Etats-Unis auraient suscité l’ire des frères musulmans en mettant sur le réseau de damnables images islamophobes. Quand on accepte d’être informé comme cela, on peut montrer tout de suite sa gorge au bourreau.
Tout est allé bien sûr en empirant, et je crois comme prévu. On a détruit des pays en finançant et en armant des commandos de tueurs itinérants ; on a en fait surtout chassé des dictatures laïques et stables pour les remplacer par des dictatures anarcho-islamistes susceptibles d’exterminer les minorités chrétiennes, notamment les coptes d’Egypte, notamment les maronites, orthodoxes et catholiques syriens. Nos médias goguenards révélèrent après coup que les chrétiens favorisaient les dictateurs et que par conséquent ils devaient s’attendre à être massacrés par des rebelles entretemps devenus les coqueluches de Park Avenue et des salons germanopratins. La Tunisie que j’ai connue laïque et tolérante est devenue un bastion de l’islamisme, c’est-à-dire du bras armé de l’intégrisme démocratique occidental, pour reprendre l’expression de Baudrillard ; car l’islamisme est le bras armé de l’occident et de personne d’autre : voyez le colonel Lawrence.
Le chaos et la misère qui accompagnent la social-démocratie bien appliquée (dette, plans sociaux, baisse du niveau de vie…) et l’islamisme aux commandes vont susciter une vague de plus en plus énorme d’immigration en Europe. Nous l’avons déjà vu en action après le départ de Ben Ali, à Marseille, sur la côte d’Azur et ailleurs. Comme on ne veut surtout pas s’entendre sur la notion de réfugié, ni sur celle d’immigré, on peut s’attendre – je le dis sans hésiter – à quelques dizaines de millions de nouveaux venus à court terme, qu’il va falloir épouiller, nourrir, soigner, loger, équiper, conseiller, protéger juridiquement et défendre médiatiquement (ce ne sera pas difficile, les candidats abondent) contre une opinion populaire trop résistante et intolérante, pas encore assez flexible, pour rendre l’abominable vocable économique. Il est temps de remplacer ce qui reste de notre peuple inflexible par les robots de la banque HSBC, digne héritière hongkongaise des échoppes opiomanes.
Et c’est ici que cela devient intéressant : prenons l’exemple de l’Allemagne, devenue trop pacifiste à cause de son toujours présent passé prussien ou bien nazi. Eh bien, certains allemands, peut-être bien sur ordre, se sont opposés à ce lâcher de réfugiés venus de Syrie : ils se sont aussitôt fait traiter de néo-nazis. Et la presse allemande a naturellement plaint les malheureux réfugiés pris entre le feu des troupes d’Assad et des chrétiens d’orient (là-bas) et les méchants racistes d’ici, néo-nazis y compris.
Il faut bien comprendre que lorsque l’on est informé et dirigé par des politiciens et des journalistes comme cela, on a du souci à se faire.
Détruire le monde arabe tel qu’il nous été légué par l’indépendance, l’islam de village, le pétrole, les dattiers, le socialisme local, pour le remplacer par le chaos ambiant des monarchies golfeuses est une chose ; mais imposer ce chaos ambiant chez nous au motif qu’il faut être tolérant, amant de l’humanité, généreux et humanitaire en est une autre. Ici on est vraiment face à une des frasques folles de notre élite hostile occidentale en grande méforme. Le temps n’est pas loin où il faudra quitter ce continent prétendu blanc et cette communauté prétendument chrétienne pour gagner des cieux plus cléments ; ceux de l’Amérique encore latine et de la Bolivie par exemple, pays chrétien et social, indigène et nationaliste (notre rêve en somme !), dont le président a été traité comme un voyou dans un aéroport par nos gouvernements d’opérette sur ordre des agences qui dirigent maintenant l’Amérique en rêvant de la guerre antirusse qui justifiera leur mirobolant budget. Le planton du socialisme français aurait aimé personnellement crucifier le rebelle américain des sévices secrets au nom bien sûr de la démocratie et de la liberté.
La destruction du monde arabe ira donc se prolonger en Europe. C’était écrit.
Car je crois que nos élites hostiles utilisent le monde musulman pour liquider ce qui peut rester de chrétienté dans ce monde et créer le souk social universel et transhumain dont elles rêvent. Dans l’état où nous sommes, nous en rendrons-nous compte ? Vous en rendrez-vous compte, ô vous qui méritez la mort sans le savoir parce que vous êtes des intégristes chrétiens sans le savoir et des molosses du racisme sans le savoir ?
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Presseschau September 2013
Presseschau
September 2013
Die 27 größten Risiken unserer Zeit
Der Rückversicherer Swiss Re hat in einem umfassenden Report die 27 größten Risiken für die Menschheit aufgezeigt. Sechs davon sind schwerwiegend und durchaus realistisch – so z.B. galoppierende Inflation.
http://www.format.at/articles/1335/931/364947/die-27-risiken-zeit
(Die Diskussion wird in Deutschland auch noch kommen)
Die Schweizer suchen eine Hymne mit Pepp
Ihre alte Nationalhymne gefällt den Schweizern nicht mehr. Zu altbacken. Musikerin Stucky sagt, bei einer Hymne müsse man "Heimweh bis in die Knochen" bekommen. Mit Psalmen funktioniert das aber nicht.
http://www.welt.de/vermischtes/article118651306/Die-Schweizer-suchen-eine-Hymne-mit-Pepp.html
Bürgerrechte
Snowdens unbeugsame Filmemacherin
http://blog.campact.de/2013/08/die-unbeugsame/
(Wollen die den zwangskastrieren, oder worum geht es da???)
Bradley Manning will als Frau leben
Bradley Manning will künftig als Frau leben. Das ließ der verurteilte Wikileaks-Informant über seinen Anwalt im US-Fernsehen ausrichten. Er wolle fortan den Namen Chelsea Manning tragen.
http://www.gmx.net/themen/nachrichten/ausland/60akqdg-bradley-manning-wikileaks-chelsea#.A1000024
(Compact)
Big Brother hält Deutschland besetzt - Snowden, Merkel und die NSA
http://www.youtube.com/watch?v=ETJmQBbQ2Og (Aperçu)
Moskau
Jobangebote für Snowden in Russland
Eklat um Snowden-Asyl: Obama sagt Treffen mit Putin ab
(Er scheint keine anderen Probleme zu haben. War da nicht mal ein Flughafen?...)
Umstrittenes Gesetz
Schwulen-Hass: Wowereit schreibt Moskauer OB
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/schwulen-hass-wowereit-schreibt-moskau-zr-3084610.html
USA
Bewaffnete Lehrer sollen vor Amokläufern schützen
Vorwände und Tatsachen: Gleiwitz, Rugova, Damaskus
http://www.sezession.de/40571/vorwaende-und-tatsachen-gleiwitz-rugova-damaskus.html
Baschar al-Assad im Interview für "Izvestia"
http://apxwn.blogspot.de/2013/08/baschar-al-assad-im-interview-fur.html#.Uh4RQz-BaNa
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mardi, 03 septembre 2013
Le concept de goulag électronique
Vers le goulag électronique ?...
par Jean-Paul Basquiast
Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com
Nous reproduisons ci-dessous un excellent article de Jean-Paul Baquiast, cueilli sur Europe solidaire et consacré à la mise en place progressive en Occident d'un système de contrôle global...
Le concept de goulag électronique. Analyse critique.
Nous avions signalé précédemment la pertinence de l'analyse d'un représentant de l'Eglise orthodoxe russe, assimilant à un goulag électronique le système global de saisie, d'espionnage et de contrôle que les services de renseignements américains, sous l'égide de la NSA et du gouvernement fédéral, imposent à toutes les formes d'expressions empruntant le support de l'Internet et des réseaux numériques. (1)
Comment ce personnage définit-il le goulag électronique américain ?
« Un camp de prisonniers électronique global...D'abord on habitue les gens à utiliser de façon systématique des outils de communication commodes avec les autorités, les entreprises et entre eux. Très rapidement chacun s'habitue de façon addictive à de tels services. Ceci donne à ceux qui possèdent économiquement et politiquement ces outils un pouvoir à la fois considérable et terrifiant. Ils ne peuvent pas repousser la tentation de s'en servir pour contrôler les personnalités. Ce contrôle peut devenir beaucoup plus complet qu'aucun de ceux exercés par les systèmes totalitaires connus au vingtième siècle » .
Le terme de goulag, rendu célèbre par le romancier Alexandre Solienitzin, désigne classiquement le système pénitentiaire russe. Celui-ci, encore en activité sous une forme à peine "améliorée" , est constitué de camps de travail et de détention répartis aux frontières de la Russie. Ils enferment des centaines de milliers de condamnés, dans des conditions précaires sinon indignes. Il est très difficile de s'en évader. Les peines sont souvent très longue ou à perpétuité. La plupart des prisonniers sont des détenus de droit commun, mais un nombre non négligeable d'entre eux a été et demeure des opposants politiques ou personnes poursuivies pour des délits d'opinion. On peut se demander pourquoi les systèmes pénitentiaires des démocraties occidentales, dont les conditions de fonctionnement n'ont guère à envier au goulag russe, ne souffrent pas de la réputation infamante de ce dernier...sans doute est-ce du au fait que l'arbitraire y est en principe moindre.
Quoiqu'il en soit, le propre d'un goulag est d'être mis en place et organisé par un pouvoir dominant qui s'impose délibérément à des minorités dominées. On ne parlerait pas de goulag, sauf par abus de langage, si les conditions d'enfermement résultaient de circonstances n'ayant rien à voir avec une volonté de répression dictatoriale, patients dans un hôpital psychiatrique ou personnes isolées sur un territoire dépourvu de liaisons avec le reste du monde, par exemple.
Pourquoi parler de goulag numérique ?
Sous sa forme imagé, le terme de goulag désigne un système d'enfermement physique ou moral condamnable au regard des libertés civiques et des droits de l'homme. Le monde des réseaux numériques mérite-t-il d'être ainsi qualifié, alors qu'il est de plus en plus considéré par ses milliards d'utilisateurs comme un moyen d'émancipation hors pair. Rappelons qu'il permet en effet non seulement les échanges par l'internet mais aussi les communications faisant appel au téléphone portable, dont la souplesse est sans égal dans les pays dépourvus d'infrastructures développées. Pour leurs utilisateurs ces deux technologies apparaissent non comme des goulags mais au contraire comme des élément incomparables d'émancipation. Elles leur permettent en effet d'échapper à l'enfermement au sein de modes d'expression traditionnels, dominé par des autorités rigides, religieuses, sociales, médiatiques.
S'imaginer cependant que des solutions technologiques, représentant des coûts considérables, viendraient subitement s'épanouir dans nos sociétés pour le seul bénéfice des citoyens et du jeu démocratique, serait un peu naïf. Nul ne fait de cadeau à personne. Si un service est rendu, il doit être payé. Il en est de même d'ailleurs d'autres services de communication, radiodiffusion et télévision. L'expérience montre que leurs premiers bénéficiaires en sont leurs promoteurs.
Ceux-ci peuvent être regroupés en deux grandes catégories, les entreprises commerciales et les administrations publiques. Elles s'en servent prioritairement pour établir ou renforcer leur influence sur les individus, considérés soit comme des consommateurs soit comme des administrés ou des électeurs. Il n'y a pas de mal à cela, dans la mesure où dans nos sociétés la vie économique et la vie politique reposent en grande partie sur des entreprises commerciales ou des administrations publiques. Les rares citoyens qui voudraient cependant utiliser les ressources des technologies numériques pour de doter de nouveaux espaces de communication et de création devraient se persuader que ceci ne pourra venir que de leurs propres efforts.Il y a plus cependant à prendre en considération.
Les sociétés occidentales, en Amérique mais de plus en plus en Europe, ont découvert ces dernières années ce qui était une réalité depuis les origines de l'informatique, mais qu'elles ne voulaient pas ou ne pouvaient pas voir: les réseaux numériques sont de bout en bout les produits de technologies et d'entreprises développées aux Etats-Unis et restées très largement sous le contrôle du pouvoir scientifique, économique et culturel de ce qu'il faut bien appeler le lobby militaro-industriel américain. Les autres puissances mondiales, peu averties dans des domaines où la Silicon Valley (si l'on peut employer ce terme imagé) s'était donné un monopole historique, s'efforcent actuellement de rattraper leur retard. C'est le cas notamment de la Russie et surtout de la Chine. Mais elles sont encore loin du compte. Quant à l'Europe, elle dépend très largement des Etats-Unis, dont elle est en ce cas comme en d'autres une sorte de satellite.
Or le grand écho qu'ont pris les révélations faites par Edward Snowden, dans l'affaire initialement qualifiée de PRISM/NSA/Snowden tient précisément â la découverte du pouvoir donné à l'Empire américain par l'espionnage tous azimuts découlant de l'utilisation que nous faisons de l'internet, du téléphone et autres technologies numériques. Il s'agit d'un pouvoir si complet et si imparable, du moins à ce jour, que le terme de goulag électronique paraît parfaitement adapté. De plus ce pouvoir, même s'il résulte de grandes évolutions technologiques et géo-stratégiques paraissant dépasser la responsabilité d'individus déterminés, fussent-elles celles des POTUS (Presidents of the Unites States) et de leur entourage, relève cependant dans le cas de la NSA et des autres agences de renseignement, de volontés humaines bien identifées. L'actuel POTUS, précisément, ne s'en cache pas. Au contraire, il s'en félicite.
Si nous admettons ces prémisses, nous pouvons revenir sur les grands traits du goulag électronique en question.
Un goulag attrayant mais d'autant plus enfermant
L'actualité récente nous permet de préciser l'analyse (2). Le 8 aout 2013, le propriétaire du site américain Lavabit annonçait qu'il cessait son activité sous les pressions de l'administration fédérale. Il offrait en effet jusque là des services se voulant sécurisés à des centaines de milliers d'utilisateurs recherchant la possibilité d'échapper à l'inquisition rendue possible par la transparence de l'internet. Or la NSA lui avait imposé de lui livrer des informations confidentielles concernant certains de ses clients, ce qu'il avait refusé de faire. Peu après, il était suivi dans ce refus par le site Silent Circle qui offrait des services analogues. D'autres services en ligne de même nature ont probablement fait le même choix. Le Guardian qui dès le début de la crise NSA/Snowden s'était fait le porte parole de ce dernier donne régulièrement des précisions sur l'évolution des rapports de force entre la NSA et les professionnels du web.
L'intransigeance de la NSA ne devrait pas surprendre en France où la législation interdit depuis longtemps l'usage de systèmes de communications cryptées susceptibles d'échapper aux investigations des services de police ou de contre-espionnage. Ceci ne scandalise que peu de gens dans la mesure où l'on présume généralement que ce seraient les activités criminelles qui feraient principalement appel à de telles facilités.
Il faut cependant tirer quelques conclusions de cet événement concernant la pertinence du concept de goulag électronique appliqué au monde des réseaux numériques actuels. Que peut-on en dire?
1. Il s'agit d'abord d'un univers de plus en plus global et inévitable, auquel celui qui veut s'exprimer et communiquer peut de moins en moins échapper – ceci d'ailleurs tout autant dans les sociétés peu développées que dans les sociétés avancées. Autrement dit l'Internet est inévitable et à travers lui sont inévitables les divers contrôles qu'il permet. Il reste évidemment possible à qui veut rester discret de faire appel à la parole, au geste et à l'écrit sous leurs formes traditionnelles, à condition d'éviter tout support susceptible d'être ensuite numérisé et diffusée. Autant dire que la moindre activité ayant une portée un tant soit peu sociale pourra être ou sera enregistrée, mémorisée et le cas échéant, commentée, manipulée voire déformée par des tiers, bien ou mal intentionnés.
Les contrôles sont d'autant plus inévitables que les technologies utilisées s'automatisent de plus en plus, permettant de traiter des flots de meta-données et de données par milliards à la minute. Les humains seront de moins en moins nécessaires, tant dans la définition des cibles que dans l'application des sanctions.(3)
2. Or cet univers n'est pas innocent. Il est aux mains, plus ou moins complétement, de pouvoirs se voulant totalitaires, c'est-à-dire cherchant à connaître, contrôler et le cas échéant faire disparaître des pouvoirs plus faibles s'efforçant d'échapper à leur emprise. Ceci n'a rien en soi de scandaleux. Il s'agit d'une loi générale s'exerçant depuis l'origine de la vie au sein de la compétition entre systèmes biologiques. Un organisme, une espèce, un ensemble de solutions vitales qui ne peuvent pas s'imposer comme totalitaires sont menacés de disparition, au moins dans leur niche vitale. Leur premier réflexe est donc d'éliminer ou tout au moins de contrôler leurs concurrents.
Les réseaux numériques subissent, comme toutes les constructions sociétales, l'influence des systèmes de pouvoirs plus généraux qui dominent les sociétés dans leur ensemble. Parmi ceux-ci, on distingue classiquement les pouvoirs politiques, les pouvoirs économiques et les pouvoirs médiatiques. Ces systèmes de pouvoirs sont personnifiés par des couches sociales ou des individus relevant de ce que l'on nomme les élites ou les oligarchies. Même si leurs intérêts propres divergent éventuellement selon les lieux et les périodes, ces élites et oligarchies se retrouvent généralement unies au niveau global pour défendre leur domination. On estime très sommairement qu'elles représentent environ 1% de la population mondiale, s'opposant à 99% de personnes ou d'intérêts n'ayant pas pour diverses raisons la capacité de dominer. Les Etats et leurs administrations sont généralement, même dans les sociétés démocratiques, au service des minorités dominantes, sinon leur émanation directe.
3. La description ci-dessus convient parfaitement pour désigner ce qu'il est devenu courant dans le langage politique engagé d'appeler le Système, avec un S majuscule. On dénonce le Système, on s'engage dans des actions anti-Système...Certaines personnes se demandent à quoi correspond exactement ce Système. Elles ne reçoivent pas toujours des réponses précises. Pour nous, les réponses sont sans ambiguïté. Elles correspondent à ce que nous venons d'évoquer, la domination de 1% d'oligarchies et d'activités associées s'imposant au reste des population. On remarquera que le Système, dans cette acception, n'est pas lié seulement au système capitaliste, ou au système de l'américanisme. Il s'agit d'une structure absolument générale, identifiable sous des formes très voisines dans tous les régimes politiques et dans toutes les parties du monde. Plus généralement, nous y avons fait allusion dans d'autres articles, il s'agit de formes de pouvoir émergeant spontanément de la compétition darwinienne entre systèmes biologiques.
Ceci veut-il dire que rien ne pourra jamais modifier cette inégalité fondamentale? Les combats pour l'égalité et une plus grande démocratie sont-ils d'avance voués à l'échec? Disons que des formes souvent différentes de répartition des pouvoirs se rencontrent nécessairement. Certaines d'entre elles peuvent laisser une plus grande place aux responsabilités de la périphérie ou de la base. Ce sont sans doute celles-là qu'il conviendra d'encourager. Mais d'une façon générale, des structures parfaitement égalitaires ne semblent pas envisageables. Elles signifieraient la fin de toute évolution, une sorte de mort cérébrale. Si bien d'ailleurs qu'elles ne sont jamais apparues spontanément.
Ajoutons que les grands systèmes de pouvoirs identifiables aujourd'hui au sein des réseaux numériques correspondent à ceux qui dominent la sphère géopolitique dans son ensemble, tout au moins dans les domaines technologiques et scientifiques. Les Etats-Unis et le cortège des pays qui sont sous leur influence pèsent du poids le plus lourd. La Russie est en train de reprendre une certaine influence. La Chine constitue une force montante. Mais il est encore difficile de mesurer son poids actuel.
4. Les activités qui sont identifiables au sein des réseaux numériques, qu'elles proviennent des agents dominants ou des dominés, se partagent entre activités licites et activités illicites ou criminelles. On retrouve là encore un trait général s'appliquant à l'ensemble des sociétés suffisamment organisées pour se doter d'une règle de droit et des moyens administratifs et judiciaires de la faire appliquer. Qui dit règles de droit ou contraintes d'ordre général dit aussi tentatives réussies ou non pour y échapper. Certes, sauf dans les pays pénétrés en profondeur par des mafias, les activités licites sont les plus nombreuses. Mais il suffit de quelques acteurs se livrant à des activités illicites ou criminelles pour pervertir l'ensemble. D'où le consensus social s'exerçant à l'égard des institutions et personnes visant à identifier et empêcher de s'exercer les activités illicites. L'opinion considère que les contraintes de police et de contrôle sont le prix à payer pour le maintien de l'ordre public. Cette tolérance peut laisser le champ libre à divers abus de la part des autorités de contrôle.
Ceci d'autant plus que l'Internet tolère, sinon encourage l'anonymat. Derrière cet anonymat prolifère ce que l'on nomme de plus en plus une poubelle, c'est-à-dire une abondance de propos malveillants. L'opinion considère que les contraintes de police et de contrôle sont le prix à payer pour le maintien d'un minimum d'ordre public sur le web. Cette tolérance peut laisser le champ libre à divers abus de la part des autorités de contrôle. Mais ces abus restent, tout au moins pour le moment, très peu visibles. La plus grande partie des utilisateurs ne s'estiment donc pas - tout au moins pour le moment - concernés.
5. Il résulte de tout ce qui précède que les entreprises ou individus exerçant leurs activités au sein des réseaux numériques sont de facto obligés de se conformer aux lois et règlements mis en place par les pouvoirs dominants, non seulement pour prévenir et combattre les activités illicites, mais plus généralement pour assurer leur maîtrise sur l'univers numérique. Ceux qui veulent échapper aux contraintes ainsi définies par les pouvoirs dominants, qu'elles prennent une forme légale ou spontanées, risquent en effet d'être considérés comme encourageant le crime et la fraude, sous leurs différentes formes. Au tribunal de l'opinion publique, ils n'échapperont pas à ce reproche. Seuls pourraient s'en affranchir des activistes masqués ou anonymes, dont l'influence restera marginale. Les activistes seront en effet obligés à un jeu de chat et de la souris dont ils ne sortiront pas vainqueurs. Malgré l'anonymat prétendue offert par les réseaux numériques, les moyens de contrainte dont disposent les Etats et leurs administrations s'imposeront toujours. Il faudrait un effondrement social global, y compris au niveau des forces de sécurité et de défense, pour que ces moyens de contrainte perdent de leur influence.
6. Le goulag numérique ainsi décrit serait-il si oppressant qu'il serait progressivement rejeté par les intérêts et individus dominés sur lesquels il s'exerce? Pas du tout, car il s'agit en fait de ce que l'on pourrait nommer un goulag attrayant. S'il enferme étroitement les acteurs, il leur offre aussi des compensations. La constatation a été souvent faite à l'égard de systèmes de contrôle des comportements s'exerçant à travers la publicité commerciale et la télévision. La plupart des citoyens sont près à « vendre sinon leur âme, du moins leur sens critique et leur droit à l'autonomie, à condition de bénéficier d'une promotion publicitaire ou de quelques minutes d'antenne.
Il en est de même en ce qui concerne le rapport des individus avec les réseaux dits sociaux, vivant de la marchandisation des données personnelles. La plupart des gens sont près à confier à ces réseaux des informations confidentielles les concernant, fussent-elles gênantes, pour le plaisir d'être identifiés plus ou moins largement par le public. Ainsi espèrent-ils sortir de l'anonymat, qui est la pire des malédictions dans un monde où tout le monde est censé communiquer avec tout le monde. On objectera que beaucoup de ceux se dévoilant ainsi restent suffisamment prudents pour ne pas livrer de vrais secrets pouvant les mettre en danger. Mais ce n'est pas le cas quand il s'agit de personnalités faibles ou d'enfants., cibles précisément des activités potentiellement criminelles.
7. La description du goulag numérique proposée ici ne peut évidemment être considérée comme décrivant de façon exhaustive la diversité des situations qui se rencontrent au sein des réseaux numériques. Il s'agit seulement d'un schéma très général comportant des exceptions. On trouve dans la réalité quotidienne de nombreux cas montrant que des acteurs particuliers échappent momentanément ou localement à la domination et au contrôle que tentent d'imposer les pouvoirs dominants.
Ceci fut illustré récemment par la suite des évènements survenus lors de la crise NSA/Snowden. D'une part les grands acteurs du web ont fini par s'inquiéter de l'inquiétude et la désaffection d'un nombre grandissant de leurs clients, de plus en pls gênés par les intrusions croissantes non seulement des pouvoirs de police mais des services marketing des entreprises. Concernant le pouvoir fédéral américain, les acteurs du web interviennent actuellement auprès de Barack Obama pour faire alléger les contrôles qu'exercent sur leurs fichiers les différentes agences de renseignement, agissant pour leur compte propre ou à la demande des administrations chargées de l'application des différentes réglementations en vigueur: fiscalité, douanes, environnement, etc.
D'autre part, comme nous l'avons vu, soit aux Etats-Unis mêmes, soit dans de nombreux autres pays, de nouvelles entreprises offrant la possibilité d'échapper non seulement à l'espionnage et au contrôle mais à une publicité devenue oppressante ne cessent de se créer. Leur succès reste limité vu la répression qu'elles suscitent, mais elles exercent cependant un contre-pouvoir non négligeable. L'enfermement imposé par le goulag numérique global reste cependant son caractère dominant.
Une évolution systémique
Nous pouvons évoquer une dernière question, souvent posée par les personnes qui découvrent les problèmes évoqués ici: existe-t-il au sein du goulag numérique des individus ou groupes d'individus clairement identifiables qui organiseraient en dernier ressort les dominations ainsi mises en place. Lorsqu'il s'agissait du goulag soviétique sous ses formes les plus arbitraires, on pouvait dans l'ensemble identifier les « organes », notamment au sein du parti, qui mettaient en œuvre ce goulag, décidaient qui devaient y être enfermé, et ce que serait leur sort. Les conspirationnistes, pour qui tous les éléments négatifs de nos sociétés résultent de complots organisés, répondront que la même situation prévaut concernant ce que nous avons évoqué ici sous le terme de goulag électronique. Il devrait selon eux être possible d'identifier les entreprises et au sein de celles-ci les responsables organisant la domination des grandes forces s'exprimant à travers les réseaux numériques.
Il serait naïf de prétendre que ce n'est pas le cas, mais il serait tout aussi naïf de ne pas admettre que les phénomènes de l'ampleur évoquée ici ne dépendent pas seulement d'initiatives personnelles identifiables. Il s'agit de grands mouvements sociétaux affectant le monde moderne dans son ensemble. Certains individus ou intérêts y sont plus actifs que d'autres, mais ils ne peuvent à eux seuls être tenus responsables de la totalité des phénomènes.
C'est à ce stade du raisonnement qu'il est intéressant d'évoquer à nouveau notre concept de système anthropotechnique, présenté dans notre essai "Le paradoxe du Sapiens". Ce concept s'applique parfaitement à l'analyse qui précède. Les grands acteurs de l'évolution en cours ne sont pas seulement des groupes humains. Mais il ne s'agit pas non plus de systèmes technologiques autonomes. Il s'agit de la conjonction de groupes humains dont l'analyse relève de l'anthropologie ou de la politique, associés en symbioses étroites avec des promoteurs de systèmes technologiques dépendant de contraintes relevant de l'analyse scientifique et industrielle. Le tout prend des formes et configurations très variables, selon les pays, les époques et les domaines. L'évolution darwinienne globale résultant de la compétition des différentes entités anthropotechniques ainsi formées s'impose au monde de la même façon que s'était imposé jusqu'à présent l'évolution biologique et sociétale.
Ajoutons que prendre toute la mesure de phénomènes de cette ampleur est quasiment impossible aux observateurs que nous sommes, puisque nous sommes inclus dans les mécanismes que nous voudrions décrire objectivement, et donc incapables de se donner le recul théoriquement nécessaire.
Jean-Paul Baquiast (Europe solidaire, 13 août 2013)
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samedi, 31 août 2013
Les enfants ne doivent pas assister à des cours sur la théorie du genre
Les enfants ne doivent pas assister à des cours sur la théorie du genre
Après l'imposition polémique du mariage homosexuel, le gouvernement poursuit sur la voie de la subversion des murs porteurs de la culture populaire et prépare maintenant l’enseignement de la théorie du genre dans les établissements scolaires. Face à ce nouvel abus, les parents sont inquiets.
Rappelons que la théorie du genre consiste à détacher identité sexuelle physique et identité sexuelle psychologique, laissant entendre qu’un garçon né comme tel ne doit pas être élevé comme un garçon car cela pourrait perturber une identité potentielle « fille ». En clair, que le premiers des acquis nécessaires à la construction d’une identité, à savoir « je suis garçon » ou « je suis fille », peut être remis en question à tout instant, déconstruisant toute norme.
Cette théorie est soutenue par les lobbies LGBT, représentant notamment les transsexuels. Ces derniers sont définis comme ayant une identité sexuelle (un « genre ») non-conforme à leur identité physique réelle ; en clair, une situation tout à fait possible et normale d’après la théorie du genre. Pourquoi, dans ces conditions, les opérations dites de transition, c’est-à-dire de changement de sexe sont-elles prises en charge à 100% par la sécurité sociale après diagnostic établi d’un « syndrome de dysphorie du genre »? Nous connaissons tous les parcours difficiles pour obtenir la reconnaissance d’une maladie et sa prise en charge, passant par le fameux ratio bénéfice/risque. Le premier risque d’un transsexuel lors de cette transition est un risque certain et aux effets irréversibles : c’est la stérilisation ! Celle-ci est indispensable pour faire reconnaître son nouvel état-civil. La souffrance d’un individu transsexuel avant opération doit donc être extrême pour que ces derniers acceptent cette stérilisation et que les pouvoirs publiques ne reconnaissent que celle-ci. En conséquence de quoi, le bénéfice attendu par la transformation est assez important pour justifier la prise en charge par l’assurance maladie comme ALD, affection de longue durée. Initialement codée parmi les affections psychiatriques, l’ALD transsexualisme est désormais affection « hors-liste », et demeure remboursée à 100%. Alors même que de nombreuses personnes transsexuelles ont du se battre, y compris devant de la justice, pour faire reconnaître leur souffrance, à cause de l’écart creusé par un genre et un sexe différents, et se battre aussi pour être prises en charge par la communauté pour ces parcours chirurgicaux et hormonaux au prix exorbitant, on voudrait nous faire croire aujourd’hui qu’il est souhaitable d’inculquer à nos enfants qu’ils peuvent choisir leur identité sexuelle ?
L’avis de la commission nationale consultative des droits de l’homme publié le 31 juillet 2013 voudrait faire voler en éclats cette procédure, mise en place par la jurisprudence, pour simplifier la vie des personnes transidentitaires. Elle s’appuie notamment sur la difficulté, irréfutable, de vivre au quotidien avec un état civil en désaccord avec l’apparence et le ressenti personnel. Sa proposition : supprimer l’obligation de changement morphologique et de stérilisation. Ainsi, ce que la science n’a pas encore su faire, la CNCDH le rend possible : faire accoucher un homme! Ceci reste en effet envisageable dans ces conditions. Plus sérieusement, cette proposition ne facilitera pas forcément la vie des personnes transidentitaires qui, faute de moyens pour financer les opérations, resteraient incohérentes, ou a minima troublantes aux yeux de tous entre leur genre annoncé et leur apparence réelle. Deux autres points à noter concernant cet avis de la CNCDH : il précise à de nombreuses reprise la nécessité pour la France d’être en conformité avec les attentes de l’Union Européenne, montrant l’écart entre la souveraineté du peuple et celle des bureaucrates, et il n’indique à aucun moment la nécessité d’enseigner la théorie du genre, voire de l’expérimenter, auprès de nos enfants !
Cet avis n’a pas encore donné lieu à légiférer et se posera alors de nouveau la question de la prise en charge des opérations si le diagnostic préalable n’est plus obligatoire. Parce qu’enfin, soyons lucides, comme il l’est indiqué, ces personnes souvent en état de grande précarité professionnelle ne seront pas en mesure de financer leur « transition » par leur propres deniers. Nous assisterions donc à une prise en charge de frais médicaux sans maladie et sans diagnostic ! Alors même que la sécurité sociale est impécunieuse et que les taux de remboursement des médicaments diminuent, touchant de plein fouet le pouvoir d’achat de nos parents et grands-parents.
L’intervention médicale, hormonale, chirurgicale ou psychiatrique, ne peut être prise en charge par la collectivité que lors d’une maladie avérée. Alors même que les transsexuels vivent le parcours du combattant avec multiples expertises et stérilisation pour être reconnus malades, on voudrait apprendre à nos enfants que la maladie, c’est la norme !
Il me semble donc indispensable de défendre la santé mentale et physique de nos enfants et de nous positionner clairement contre l’enseignement de la théorie du genre. Je recommande donc aux parents préoccupés par la santé de leurs enfants d’informer les enseignants dès la rentrée de leur désaccord et de déscolariser les enfants lors des cours dédiés.
Karine Lehmann
Coordination nationale de Maison Commune
karine.lehmann@maisoncommune.eu
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vendredi, 30 août 2013
Les aléas de la liberté de conscience
Les aléas de la liberté de conscience
Refuser l’objection de conscience face aux réformes sociétales, c’est en revenir au principe totalitaire selon lequel l’État a toujours raison.
Le développement récent des réformes “sociétales” — c’est-à-dire concernant les moeurs, l’éthique, la liberté individuelle, la famille, le couple et les comportements — rend plus légitime encore qu’auparavant un questionnement sur la liberté de conscience et même sur l’objection de conscience. Car tout cela ressort au domaine de l’infiniment discutable, concerne l’intime et les convictions profondes sur ce qu’est un humain, ce qu’il lui faut, ce qu’il doit rechercher.
On peut avoir l’impression que nous sommes justement arrivés au bon moment de l’Histoire pour défendre la liberté de conscience. C’est le nazisme qui en est l’occasion. Voir ces bourreaux qui ont obéi comme des fantassins aveugles à des ordres barbares et qui se trouvaient capables, des dizaines d’années après, de légitimer encore leur allégeance, cela nous a révulsés au point de nous inciter à toujours défendre la conscience individuelle. La hantise du bourreau fidèle aux ordres a même suscité chez nous une méfiance instinctive du côté institutionnel des choses, à ce point que les groupes les plus conformistes se prétendent indépendants d’esprit. Nous vivons à une époque où tout le monde se prend pour Antigone.
Il est donc assez déconcertant de voir les réponses données à ceux qui en appellent à la liberté de conscience, et même à l’objection de conscience, face aux réformes sociétales dont le gouvernement actuel semble s’être fait une spécialité, et particulièrement face au mariage homosexuel. On leur rétorque qu’ils ne sont pas républicains, car allant à l’encontre de l’égalité républicaine, et aussi homophobes, évidemment. Nantis de ces tares rédhibitoires, ils n’ont évidemment pas droit à la décision individuelle, à vrai dire ils n’ont même pas de conscience, puisqu’ils s’opposent à la seule vérité sociopolitique.
Autrement dit, nous retournons subrepticement à ce que le combat antitotalitaire avait réussi à démanteler : le positivisme — c’est-à-dire l’idée selon laquelle l’État a toujours raison, parce qu’il est l’État. Dans notre cas, il faudrait plutôt dire : ce qui est consacré républicain (progressiste, égalitariste, émancipateur) a toujours raison.
Il faut bien rappeler que la conscience personnelle, celle d’Antigone, celle de l’objection de conscience, représente exactement le contraire du positivisme. Elle présuppose, si elle existe ou plutôt si elle est légitimée (car elle existe même si personne ne la reconnaît), qu’aucune instance supérieure ne peut prétendre avoir toujours raison. Et que le dernier mot, toujours particulier et relatif, revient à la conscience personnelle — ce qui suppose évidemment que l’être humain soit une personne et non un individu programmé par l’État, formaté par l’École.
C’est seulement dans ce cadre que la liberté de conscience existe : si l’idéal républicain, passe au second rang, après la conscience personnelle — autrement dit, si l’on imagine que le progressisme tout-puissant peut être jugé ! Faute de quoi nous en revenons au positivisme, qui était la tare principale des deux totalitarismes, donc du nazisme contre lequel nous ne cessons de lutter.
On ne peut pas porter les antifascistes sur le bouclier de la gloire et ne pas permettre aux maires de récuser le mariage gay en leur âme et conscience. Si la conscience d’Antigone existe et si elle doit être révérée, ce n’est pas seulement pour lutter contre le nazisme et contre les dictateurs exotiques. C’est aussi pour juger les croyances de notre République et dénoncer ses excès, ses abandons, ses lois scélérates. La conscience d’Antigone n’est pas un outil qu’on saisit quand cela nous arrange — pour fustiger Papon ou crier haro sur les accusés des tribunaux internationaux, complices de gouvernements criminels. Et qu’on mettrait sous le boisseau, réclamant dès lors l’obéissance absolue, quand cela nous sied — devant l’égalité républicaine, devant la souveraineté de la pensée d’État. Brandir une théorie pour ses adversaires et la décréter inepte dès qu’elle s’applique à soi : c’est la spécialité des imbéciles, et des idéologues.
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Rassegna Stampa: articoli in primo piano (agosto 2013)
- Gli USA minacciano la Siria: la politica estera dal grilletto facile
di Andrej Akulov [29/08/2013]
Fonte: aurorasito
- Il Vajont poligono di guerra dei parà Usa
di Antonio Mazzeo [29/08/2013]
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
- Siria: il bluff dell'occidente rischia di trascinare il mondo nel baratro
di Stefano Vernole [29/08/2013]
Fonte: eurasia [scheda fonte]
- La montagna tagliata
di Giuliano Serioli [29/08/2013]
Fonte: ilcambiamento
- Syrialeaks: come dare la colpa ad Assad
di Pino Cabras [29/08/2013]
Fonte: megachip [scheda fonte]
- Non ci sono prove sulle accuse degli USA contro la Siria
di Tony Cartalucci [29/08/2013]
Fonte: aurorasito
- Tutti al "grande gioco" della Siria
di Gianandrea Gaiani [29/08/2013]
Fonte: lanuovabq
- Siria, l’auspicata sporca guerra
di Enrico Campofreda [29/08/2013]
Fonte: contropiano
- IMU: il gioco delle tre carte
di Valerio Lo Monaco [29/08/2013]
Fonte: il ribelle
- Convegno su Priebke e dintorni, cari compagni i fascisti siete voi
di Alessio Mannino [29/08/2013]
Fonte: nuovavicenza
- E sul web la bandiera della Siria ha scalzato l’arcobaleno al grido di “sovranità!”
di Mauro La Mantia [29/08/2013]
Fonte: Barbadillo
- Il mondo a guida anglo-americana è il regno della violenza e dell'ipocrisia
di Francesco Mario Agnoli [29/08/2013]
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
- Chi dice umanità cerca di ingannarti
di Eduardo Zarelli [29/08/2013]
Fonte: il ribelle
- USA, la nuova guerra di Obama
di Michele Paris [29/08/2013]
Fonte: Altrenotizie [scheda fonte]
- Alla politica serve l'anima. O fallirà
di Marcello Veneziani [27/08/2013]
Fonte: il giornale [scheda fonte]
- Chi vuole la guerra non vuole il bene della Siria
di Giorgio Paolucci [27/08/2013]
Fonte: Avvenire [scheda fonte]
- Il Cavaliere ed i Poteri Forti
di Aldo Giannuli [27/08/2013]
Fonte: aldogiannuli
- Il libro-testamento del samurai Venner nel solstizio d’inverno europeo
di Adriano Scianca [27/08/2013]
Fonte: Il Foglio [scheda fonte]
- Progressisti in divisa: quanti troll!
di Patrick Boylan [27/08/2013]
Fonte: megachip [scheda fonte]
- Tutto è perduto tranne le aziende? La scelta di Silvio
di Marco Della Luna [27/08/2013]
Fonte: Marco della Luna blog
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mercredi, 28 août 2013
L’EGITTO AL CENTRO DELLA GRANDE SCACCHIERA
L’EGITTO AL CENTRO DELLA GRANDE SCACCHIERA
Ex: http://www.eurasia-rivista.org
L’esito degli scontri che stanno dilaniando l’Egitto costituisce un’incognita destinata a influire in maniera decisiva sia sulle dinamiche prettamente areali sia sulla ridefinizione dei rapporti di forza tra grandi potenze, in una fase di evidente declino della perno unipolare statunitense.
La Fratellanza Musulmana
Nel corso degli ultimi anni si è ritagliata, specialmente in Egitto, un ruolo di primissimo piano la Fratellanza Musulmana, o Ikhwan, movimento islamico fondato nel 1928 da Hassan al-Banna. Colui che sarebbe poi divenuto la guida del nazionalismo arabo, Gamal Abd el-Nasser, strinse un’alleanza tattica con questo movimento allo scopo di rovesciare la monarchia di Re Faruk – ritenuta ormai obsoleta anche dai dominanti britannici. Una volta cacciato il Re e abolita la monarchia, Nasser si dissociò bruscamente dalla Fratellanza Musulmana, la quale si opponeva frontalmente al suo progetto politico, dichiarandola illegale e facendone imprigionare il nuovo ideologo, Sayyid Qutb, il quale scrisse in carcere Pietre Miliari, una summa del suo pensiero destinata a divenire ben presto il testo di riferimento di ogni Fratello Musulmano.
Con la dura repressione ordinata da Nasser, la Fratellanza Musulmana venne drasticamente ridimensionata, finché la sconfitta dell’Egitto nella “Guerra dei Sei Giorni” attrasse sul governo una certa sfiducia, della quale i principali esponenti del movimento approfittarono per attuare una moderata revisione ideologica, finalizzata, attraverso l’abbandono delle derive estremistiche legate alla figura di Qutb (che nel frattempo era stato impiccato), a rendere gli Ikhwan maggiormente compatibili con la struttura statale egiziana edificata da Nasser. Questa “revisione” si rivelò quanto mai necessaria, dal momento che il nuovo presidente Anwar al-Sadat, preso atto della svolta “moderata” e del seguito che tale movimento riscuoteva in seno alla popolazione, decise di aprire alla Fratellanza Musulmana, pur senza riconoscerle piena legittimità, allo scopo di arginare la preoccupante ascesa delle fazioni marxiste che stavano prendendo piede all’interno del Paese. Gli Ikhwan non si erano tuttavia dotati di una solida struttura verticistica, piramidale e monolitica, poiché le idee di Qutb continuavano a trovare sempre nuovi adepti. Non deve pertanto stupire che, nonostante la sua politica di apertura, Sadat sia caduto in un attentato compiuto da un Fratello Musulmano.
Nonostante ciò, il nuovo presidente egiziano Hosni Mubarak scelse ugualmente di collocarsi nel solco tracciato da Sadat, portando avanti la sua politica di apertura nei confronti della Fratellanza Musulmana, che nel 1984 ottenne la legalizzazione e l’automatico diritto ad entrare in Parlamento. Da allora gli Ikhwan si sono collocati in una posizione subalterna rispetto al regime militare, limitandosi a mantenere legami piuttosto stretti con i gruppi gihadisti più agguerriti e ad esercitare una certa influenza sia sui ceti abbienti assicurando notevoli privilegi a professionisti di ogni genere (medici, professori, avvocati, ecc.) sia sugli strati sociali più poveri, grazie anche al contributo del telepredicatore Yusuf al-Qaradawi, cittadino qatariota di origine egiziana, che dagli schermi di “al-Jazeera” emana fatawa di dubbia ortodossia.
Il “Grande Oriente”
Fino ai primi mesi del 2011, Mubarak era stato attivamente sostenuto sia da Israele che dagli Stati Uniti, i quali gli riconobbero il merito di essersi collocato nel solco tracciato dal suo predecessore Sadat, artefice della rottura dei rapporti con l’Unione Sovietica precedentemente allacciati da Nasser e della sottoscrizione degli accordi di Camp David, che rappresentarono il culmine della politica di appeasement nei confronti di Tel Aviv. Come riconoscimento del valore attribuito al regime di Mubarak, Washington cominciò ben presto a inviare ben 1,3 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti verso l’Egitto, che contribuirono ad arricchire la giunta militare al potere. Tel Aviv si accordò invece con Mubarak affinché assicurasse rifornimenti di gas naturale allo Stato ebraico e assumesse saldamente il controllo della turbolenta regione del Sinai – restituita all’Egitto contestualmente agli accordi di Camp David dal governo israeliano del premier Menachem Begin e del ministro degli esteri Moshe Dayan –, impedendo ai miliziani palestinesi di ricevere armi e rifornimenti transitando liberamente attraverso il confine che separa Israele dall’Egitto.
La stabilità garantita da Mubarak cominciò tuttavia ad essere messa in discussione dalla tracimazione, dalla Tunisia all’Egitto, della cosiddetta “primavera araba”, scoppiata in seguito agli esorbitanti apprezzamenti dei generi alimentari, di cui gran parte dei Paesi del Nord Africa è importatore netto, provocati dalla speculazione. I media si affrettarono a riferire che le agitazioni che inizialmente infiammarono piazza Tahrir, e che nell’arco di poche settimane si espansero in tutte le principali città egiziane, furono scatenate essenzialmente da giovani animati da delusione e collera nei confronti di un regime che governava autoritariamente il Paese da circa un trentennio durante il quale la corruzione dilagò progressivamente e il potere politico ed economico andò concentrandosi in maniera radicale nelle mani delle più alte gerarchie militari. Queste spiegazioni “minimali” sottolineano motivazioni che hanno certamente esercitato un ruolo non indifferente nell’accendere la miccia della rivolta, ma trascurano (spesso deliberatamente) i decisivi fattori esterni e le intenzioni delle potenze occidentali interessate a frenare la penetrazione economica della Cina in Nord Africa e in Medio Oriente. Come scrive Mahdi Darius Nazemroaya: «Incendiare l’Eurasia con la sovversione sembra essere la risposta di Washington per impedire il proprio declino. Gli Stati Uniti prevedono di accendere un grande incendio dal Marocco e dal Mediterraneo fino ai confini della Cina. Questo processo è stato sostanzialmente avviato dagli Stati Uniti attraverso la destabilizzazione di tre diverse regioni: Asia Centrale, Medio Oriente e Nord Africa» (1).
Così, sotto l’egida di Bush junior, gli Stati Uniti si mossero coerentemente con i principi espressi all’interno del Quadrennial Defense Review Report pubblicato nel settembre 2001, occupando l’Afghanistan allo scopo di assicurarsi il controllo delle rotte energetiche eurasiatiche, rinsaldando l’asse Washington-Tel Aviv in chiave antipalestinese e aggredendo con false prove l’Iraq, in modo di concorrere all’affermazione di Israele al rango di unica potenza egemone della regione e confinare gli arabi di Palestina in appositi bantustan controllati dalle forze israeliane. Successivamente, riversarono benzina sul focolaio libanese promuovendo ed incoraggiando la sommossa anti-siriana scaturita dall’enigmatico super-attentato, datato 14 febbraio 2005 ed istantaneamente attribuito a Damasco per via della vicinanza tra Bashar al-Assad e il presidente libanese Emile Lahoud (fresco beneficiario di un emendamento costituzionale atto a prolungarne il mandato di tre anni), che stroncò la vita del popolarissimo Rafik al-Hariri, dimessosi da poco dall’incarico di primo ministro in segno di protesta contro la radicale svolta filo-siriana imboccata dal proprio paese. La rivolta, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, spianò la strada a Washington, i cui portavoce – che si guardarono bene dall’esercitare pressioni analoghe su Tel Aviv affinché procedesse al ritiro delle proprie forze militari dal Golan, sotto illegale occupazione israeliana dal 1967 – avvertirono che «Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano» (2), costringendo Bashar al-Assad a dichiarare la fine del protettorato siriano sul Libano e l’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese. Queste operazioni sono evidentemente rivolte, come osserva Nazemroaya, a ridisegnare, analogamente a quanto fece l’impero britannico nel 1922, l’intera cartina politica mediorientale nell’ambito del piano del “Grande Medio Oriente”, presentato da George W. Bush in occasione del G8 del giugno 2004. L’intenzione dichiarata di costituire una “area di libero scambio” dal Marocco al Pakistan consiste in realtà nello scardinare, attraverso strumenti politici, economici e militari, gli assetti geopolitici di quest’area per rimpiazzarli con strutture adeguate a tutelare gli interessi statunitensi.
Con l’appoggio alle “primavere arabe” e l’attacco alla Libia, Barack Obama e la sua amministrazione hanno evidentemente recuperato il progetto neocon del “Grande Medio Oriente”, pur ampliandone il raggio stringendo una serie di accordi principalmente militari con Singapore, Thailandia, Filippine ed Australia allo scopo di accerchiare la Cina e porre sotto il controllo statunitense le rotte petrolifere attraverso cui il “Paese di Mezzo” si rifornisce di energia. «Dalla strategia del “Grande Medio Oriente” (comprendente Nord Africa e Asia centrale), lanciata dal repubblicano Bush – osserva Manlio Dinucci –, il democratico (nonché Premio Nobel per la pace) Obama è passato alla strategia del “Grande Oriente”, che mira all’intera regione Asia/Pacifico in aperta sfida a Cina e Russia» (3).
In Medio Oriente e Nord Africa, Washington ha assegnato alle frange islamiste il compito di sovvertire i regimi sgraditi o di puntellare quelli ritenuti affidabili in cambio di sostanziosissimi finanziamenti. Ciò è accaduto in Libia, Siria, Giordania, Yemen, Palestina, Tunisia. Ed Egitto. Prendendo in esame il caso egiziano, va sottolineato che Mubarak stava intraprendendo iniziative distensive nei confronti dell’Iran ed era tentennante riguardo all’accettare o meno i finanziamenti e le regole del Fondo Monetario Internazionale, di cui si era cominciato a dibattere per via della disastrosa condizione economica in cui stava versando il Paese. Washington aveva allora cominciato a prendere alcune contromisure, individuando proprio nei Fratelli Musulmani guidati dal cittadino egiziano-statunitense Mohamed Morsi gli interlocutori giusti e nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan e nel Qatar (che ospita la sede centrale del Central Command e il Combined Air Operations Center degli Stati Uniti) dell’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani i loro sponsor ideali. Venne così attivato un massiccio fiume sotterraneo di denaro che portò nelle casse dell’Ikwan ben 10 miliardi di dollari forniti da Ankara e Doha. Con questi lauti finanziamenti la Fratellanza Musulmana riuscì inizialmente ad acquisire un crescente peso politico all’interno del Paese, e successivamente a “mettere il cappello” sulla rivoluzione, dopo che i militari ebbero deciso di appoggiare i rivoltosi deponendo Hosni Mubarak.
La caduta di Mubarak e l’ascesa degli Ikhwan
Solitamente viene molto enfatizzato il sostegno finanziario, pari a 1,3 miliardi di dollari, che gli Stati Uniti forniscono all’Egitto allo scopo di “dimostrare” le stretta osservanza, da parte dei militari, dal “verbo statunitense”. Raramente viene tuttavia preso in considerazione il fatto che tali finanziamenti non vengono erogati a fondo perduto, ma sono rigidamente subordinati all’acquisto di armamenti prodotti dalle grandi compagnie belliche statunitensi (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grummann, Raytheon, General Dynamics) e al rispetto degli accordi di Camp David del 1979 da parte delle autorità egiziane. L’importante, in parole povere, è che l’Egitto contribuisca al foraggiamento del complesso militar-industriale statunitense e a garantire la sicurezza di Israele, nonché a osteggiare i Paesi renitenti a sottostare ai dettami di Washington, come l’Iran.
La deposizione di Mubarak ad opera dei militari, datata 11 febbraio 2011, potrebbe quindi essere letta alla luce di questi presupposti, specialmente in virtù del fatto che tale cambio di regime comportò una repentina emersione dei più profondi sentimenti anti-israeliani in seno alla popolazione egiziana. La miccia venne innescata nell’agosto 2011, quando nel corso di un raid effettuato dall’aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza rimasero uccisi (oltre alla consueta componente palestinese) alcuni militari egiziani schierati lungo la frontiera. La giunta militare egiziana protestò sonoramente ma Israele non fornì spiegazioni convincenti per giustificare l’accaduto, cosa che suscitò una feroce contestazione popolare culminata con l’assedio, avvenuto tra l’8 e il 9 settembre successivo, dell’ambasciata israeliana. Alcuni agenti israeliani sfuggirono di poco al linciaggio mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu si affrettò a richiamare in patria il proprio ambasciatore al Cairo. Ciò contribuì a ravvivare la rovente polveriera del Sinai. Con la caduta di Mubarak e l’insediamento di Tantawi, il Sinai ridivenne il centro logistico da cui partono le incursioni da parte di miliziani palestinesi e di altri gruppi contro forze israeliane incaricate di sorvegliare la frontiera. Israele rispose inviando i bombardieri sul Sinai, provocando la morte di altri soldati egiziani. Per tutta risposta, il Feldmaresciallo Tantawi, rivolgendosi alle truppe dislocate nella penisola del Sinai, affermò che: «I nostri confini, soprattutto quelli a nord-est, sono infiammati. Noi non attaccheremo i paesi vicini, ma difenderemo il nostro territorio. Romperemo le gambe a chiunque tenterà di attaccarci o di avvicinarsi ai nostri confini» (4). Come se non bastasse, il regime del Cairo interruppe il flusso di gas diretto allo Stato ebraico, frantumando l’intesa energetica che vigeva tra i due paesi fin dal 2005, quando Mubarak aveva accordato ben 7 miliardi di metri cubi di gas ad Israele per i successivi 20 anni. Questa escalation di tensione portò l’ex capo del Consiglio per la Sicurezza di Israele Uzi Dayan ad affermare che «è giunta l’ora di porre il Sinai sotto il controllo israeliano» (5), mentre il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, nel corso di una visita a Baku, gettò ulteriore benzina sul fuoco spingendosi a sottolineare il fatto che «L’Egitto rappresenta un pericoloso maggiore dell’Iran rispetto alla sicurezza nazionale israeliana» (6). Le autorità israeliane temono infatti che l’ascesa degli ambigui Fratelli Musulmani e dei salafiti del partito al-Nur (sostenuti dall’Arabia Saudita) possa culminare con la formazione di un governo nominato dal basso tutto incentrato sui movimenti fondamentalisti islamici animati da sentimenti radicalmente antisraeliani. Per “prevenire” questa eventualità, Tel Aviv elaborò e mise in atto un piano che prevede la costruzione di un muro di cemento armato di 240 km che, correndo lungo il confine orientale egiziano, dovrebbe estendersi dal Mar Rosso alla Striscia di Gaza. Tale barriera allungherebbe la “fascia di protezione” innalzata per ben 725 km in corrispondenza dei confini con la Cisgiordania.
La perdita di controllo del Sinai e la tensione con Israele testimoniano l’instabilità che scaturì dal rovesciato il vecchio regime, alimentata dal peculiare ed ambiguo dualismo venutosi rapidamente a creare tra la Fratellanza Musulmana di Mohammed Morsi da un lato e la giunta militare guidata dal Feldmaresciallo Mohammed Tantawi, che aveva agguantato le redini del potere, dall’altro. I Fratelli Musulmani del partito “Libertà e Giustizia” (molto simile al “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo” del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan), guidati da Mohamed Morsi, iniziarono a pretendere a gran voce che venissero indette nuove elezioni, certi di poter contare su di un vasto consenso popolare. Le elezioni decretarono la vittoria della Fratellanza Musulmana, che ottenne il 51% dei voti con un magro 50% di affluenza elettorale, ma i temporeggiamenti nel cedere i poteri a Morsi e la freddezza ostentata dai militari dinnanzi al verdetto delle urne irritarono fortemente gli Ikwan, i quali cominciarono, di concerto con altre fazioni, a scendere in piazza per protestare contro l’atteggiamento tenuto dalla giunta militare. La brutale repressione da parte dei militari e della polizia si protrasse per alcune settimane, finché il Feldmaresciallo Tantawi non decise di cedere alle forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti – profondamente preoccupati anche dal fatto che Tantawi aveva autorizzato alcune navi da guerra iraniane a raggiungere il Mar Mediterraneo transitando attraverso il Canale di Suez –, accettando di lasciare a Morsi l’ambito incarico di presidente. Morsi, dal canto suo, decretò immediatamente il “pre-pensionamento” del Feldmaresciallo Tantawi, esponendo il proprio esecutivo al rischio di un colpo di Stato militare, e accettò l’invito del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a partecipare al vertice dei “Paesi Non Allineati” (NAM). Così, nell’estate del 2012, a ben 57 anni dalla Conferenza di Bandung, numerosissimi Stati raggiunsero Teheran per prendere parte all’iniziativa. Raggruppando 120 membri effettivi e 21 osservatori, il NAM rappresenta una parte preponderante dei paesi e dei cittadini di tutto il mondo. All’incontro parteciparono, in qualità di osservatori, il Commonwealth delle Nazioni, il Fronte di Liberazione Nazionale Socialista Kanak, l’Unione Africana, la Lega Araba, l’Organizzazione di solidarietà dei popoli afro-asiatici, il Movimento di Indipendenza Nazionale Hostosiano, l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, il Centro Sud, il Consiglio Mondiale della Pace e diversi membri delle Nazioni Unite. Stati Uniti ed Israele deprecarono la partecipazione del segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, il cui intervento, pur essendo improntato alla prudenza, conteneva comunque una chiara stigmatizzazione dell’oltranzismo guerrafondaio propugnato dai ben noti ambienti israeliani. Washington e Tel Aviv esercitarono forti pressioni su Mohamed Morsi, che in veste di leader della Fratellanza Musulmana e di presidente egiziano decise comunque di recarsi a Teheran dopo aver adottato una politica solo apparentemente conciliatoria con Mahmoud Ahmadinejad. L’ambiguità di Morsi è testimoniata dalla discordanza che vige tra l’appeasement nei confronti dell’Iran e il fatto che la sua ascesa al potere sia strettamente connessa ai miliardi di dollari di finanziamento erogati dall’Emiro del Qatar, nonché dalla feroce ostilità tanto di al-Thani quanto del suo “protetto” Morsi nei confronti della Siria di Bashar al-Assad, alleata di ferro della Repubblica Islamica dell’Iran. Va inoltre sottolineato che sotto la guida di Morsi, l’Egitto ha mantenuto i sigilli sulla frontiera con Gaza, sbarrando la strada ai palestinesi in perfetto accordo con Israele. Non era necessario il chiaro monito lanciato alle forze armate egiziane da parte da Washington, i cui rappresentanti avevano ribadito che il sostegno statunitense è subordinato al mantenimento del trattato di Camp David del 1979, dal momento che Morsi non avrebbe mai violato gli accordi siglati dai suoi predecessori con il beneplacito statunitense. L’avvicinamento di facciata all’Iran potrebbe quindi celare un piano ben più subdolo, volto a conquistare la fiducia dei dirigenti di Teheran in attesa del definitivo voltafaccia, in modo da trasformare l’Egitto in un autentico “cavallo di Troia” all’interno dell’alleanza sciita che collega Teheran, Beirut e Damasco. Si tratta di un modus operandi che la Fratellanza Musulmana ha già sperimentato attraverso la propria filiale palestinese di Hamas, che dopo aver militato per decenni assieme a Siria, Iran ed Hezbollah ha cambiato radicalmente paradigma cedendo alle lusinghe e ai petro-dollari del Qatar, schierandosi di fatto a favore dei “ribelli” intenzionati a rovesciare il regime di Assad. Non deve pertanto stupire che Khaled Meshaal, noto esponente di Hamas, si sia trasferito da Damasco a Doha, ponendosi sotto la “protezione” dell’Emiro al-Thani dopo aver ottenuto il “riconoscimento” implicito di Israele, che aveva accettato di barattare la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit con il rilascio di qualcosa come 1.027 prigionieri palestinesi (tra i quali non figurava il popolarissimo esponente filo-siriano del braccio armato di al-Fatah Marwan Barghouti). Dopo questi stravolgimenti, Hamas ha repentinamente avviato un processo di distensione con la Giordania (alleata degli Stati Uniti), che ha portato all’archiviazione dell’immane massacro di rifugiati palestinesi (il famoso “Settembre Nero”) ordinato da Re Hussein nel 1970, grazie alla visita di Meshaal presso la corte reale di Amman in seguito alla mediazione del Principe ereditario del Qatar. D’altra parte, anche il governo turco di Recep Tayyip Erdogan, capo di un partito che presenta numerose affinità con la Fratellanza Musulmana egiziana, ha effettuato una drastico voltafaccia nei confronti di Bashar al-Assad dopo aver intessuto rapporti economici e politici di grande rilievo con Damasco.
Ma ad avvalorare l’ipotesi secondo cui Morsi avrebbe sfoggiato deliberatamente questo atteggiamento estremamente ambiguo in funzione puramente tattica è intervenuto il Fondo Monetario Internazionale, che ha reagito alla notizia della convocazione del presidente egiziano da parte di Teheran accettando improvvisamente, dopo mesi e mesi di titubanze, di negoziare la concessione di un corposo prestito. La situazione economica egiziana era effettivamente catastrofica, aggravata peraltro dalle fallimentari ricette somministrate dalla Fratellanza Musulmana. Morsi e i suoi seguaci hanno preteso di trasformare un Paese come l’Egitto, cioè una nazione giovane, popolosa (85 milioni di persone), controllata da un esercito molto potente ed economicamente basata sul turismo, in uno Stato islamizzato dominato da estremisti religiosi succubi dei petro-dollari del Qatar. Non deve pertanto stupire che il settore terziario sia crollato per effetto del crollo del turismo, la disoccupazione sia aumentata del 30%, i prezzi sono cresciuti del 40%, la lira egiziana si sia svalutata della metà e le riserve di valuta pregiata siano quasi esaurite. L’Egitto necessitava quindi di finanziamenti dall’estero per rimanere a galla, e Morsi puntava proprio ad ottenere denaro dal Fondo Monetario Internazionale, nonostante i suoi “programmi di aggiustamento strutturale” abbiano prodotto disastri economici in tutte le aree del pianeta.
La cospirazione dei militari e l’impotenza statunitense
Una fazione piuttosto corposa dei militari, dal canto suo, non vedeva affatto di buon occhio l’entrata in campo del FMI e l’ambigua, rischiosa politica estera condotta da un governo che ogni giorno di più stava dimostrandosi completamente asservito ai qatarioti, mentre in seno alla popolazione stava montando un crescente malcontento, dovuto alla drammatica condizione dell’economia nazionale e all’impressionante avidità dei Fratelli Musulmani saliti al potere, i quali si stavano prodigando unicamente di accentrare il potere allo scopo di consolidare la propria posizione all’interno del Paese. I militari cominciarono allora ad attivare i propri autonomi canali diplomatici per elaborare soluzioni alternative alla deriva in cui Morsi stava trascinando l’Egitto, prendendo in considerazione anche l’opportunità di sganciarsi dal legame con Washington in virtù del fatto che in realtà l’Egitto, Paese che ha una discreta industria militare, avrebbe anche potuto fare a meno di finanziamenti vincolati all’acquisto di armamenti statunitensi. Il ministro della Difesa, nonché capo dell’esercito, Abdul Fatah al-Sisi (che ama definirsi “nasserista”) siglò allora un accordo segreto con l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico intenzionate a ridimensionare le sconfinate manie di grandezza dell’Emiro al-Thani, in base al quale questi ricchi Paesi avrebbero assicurato all’Egitto sostegno finanziario nel caso in cui Barack Obama avesse sospeso il versamento degli 1,3 miliardi di dollari annuali come ritorsione per la cacciata del cavallo su cui avevano puntato, cioè Mohamed Morsi. Così, quando il malcontento popolare ha raggiunto il punto di rottura e orde sconfinate di manifestanti hanno occupato piazze e strade delle principali città egiziane, esercito e polizia hanno colto al volo l’occasione per cavalcare la protesta, lanciare un secco ultimatum al governo e infine procedere, il 3 luglio 2013, alla rimozione (e al conseguente arresto) di Morsi, all’inclusione della Fratellanza Musulmana nel novero delle organizzazioni terroristiche, all’oscurazione dell’emittente qatariota “al-Jazeera” (volta a impedire che gli Ikhwan udissero ed applicassero le fatawa del potente e seguitissimo telepredicatore al-Qaradawi), all’imposizione della legge marziale e alla nomina del magistrato Adli Mansour come presidente ad interim, del filo-statunitense Mohamed el-Baradei come vicepresidente e dell’economista Hazem el-Beblawi come primo ministro.
Questo colpo di Stato militare, pur attuato con il consenso di gran parte della popolazione e delle forze istituzionali egiziane, ha spinto i Fratelli Musulmani a chiamare a raccolta tutti i propri sostenitori esortandoli alla resistenza armata contro le forze golpiste, di fronte alla quale esercito e polizia hanno risposto usando il pugno di ferro, provocando le dimissioni di el-Baradei. L’odio settario nei confronti di tutte le altre fedi religiose che caratterizza gli Ikhwan è emerso in tutta la sua tragicità nel momento in cui, subito dopo la chiamata alle armi da parte dei maggiori esponenti del movimento, numerosi militanti si sono abbandonati all’assalto di chiese copte e alla truci dazione di cittadini cristiani e sciiti. L’entità della violenza sprigionata ha fatto in modo che nell’arco di pochi giorni cadessero centinaia di cittadini e poliziotti egiziani.
Dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato, Chuck Hagel e John Kerry hanno duramente condannato sia il colpo di Stato a danno del loro uomo che la repressione attuata da esercito e polizia, mentre Barack Obama ha annunciato l’abolizione dell’operazione militare Bright Star 2013, in programma per il mese di settembre con la partecipazione di migliaia di militari di Stati Uniti e altri Paesi, e minacciato la sospensione del finanziamento annuale da 1,3 miliardi di dollari. L’esercito egiziano si è tuttavia potuto permettere di ignorare le proteste e le intimazioni statunitensi potendo contare sul sostegno promesso da Arabia Saudita e dalle altre monarchie del Golfo Perisco, che entro la metà di luglio hanno inviato ben 6 miliardi di dollari in aiuti, prestiti e carburanti. Secondo quanto affermato dal ministro delle Finanze saudita Ibrahim al-Assaf, i finanziamenti forniti da Riad comprenderebbero 1,5 miliardi di dollari di deposito presso la Banca Centrale egiziana , 1,5 miliardi di dollari in prodotti energetici e 750 milioni di dollari in contanti, mentre gli Emirati Arabi Uniti avrebbero versato i restanti 2 miliardi. D’un colpo, Washington, che aveva attivamente sostenuto Morsi e tutti gli islamisti del Medio Oriente, si è resa conto di non disporre di validi strumenti di dissuasione per influenzare le mosse del nuovo leader al-Sisi. Il Pentagono, dal canto suo, non ha potuto far altro che inviare, a scopo puramente intimidatorio, la USS Kearsarge e l’USS San Antonio, piene di marines, verso le coste egiziane lambite dal Mar Rosso. Il che significa che per i centri decisionali statunitensi l’affaire egiziano deve aver indubbiamente rappresentato un potente ed inaspettato shock.
Lo sgretolamento della Fratellanza: la caduta di al-Thani e il ridimensionamento di Erdogan
La complessa manovra volta a detronizzare i Fratelli Musulmani messa in piedi dall’Arabia Saudita rientra in un più ampio disegno strategico, elaborato allo scopo non solo di ridimensionare le brame espansionistiche del Qatar e riaffermare la leadership di Riad all’interno del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, che riunisce tutte le monarchie che si affacciano sul Golfo Perisco (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Oman), ma forse anche di rivedere i termini i termini dell’alleanza con gli Stati Uniti. Il 13 luglio 2013, Re Abdullah ha inviato il principe Bandar (direttore dei servizi segreti) a Mosca per incontrare il presidente russo Vladimir Putin. Fonti russe rivelano che Riad avrebbe proposto un accordo in base al quale l’Arabia Saudita, oltre ad aver garantito che nessun Paese membro del Consiglio per la Cooperazione del Golfo avrebbe mai intaccato l’egemonia russa sul mercato energetico europeo, si sarebbe impegnata ad acquistare ben 15 miliardi di dollari di armamenti russi, in cambio della rinuncia al sostegno del regime di Bashar al-Assad da parte di Mosca. A quanto si sa, Putin avrebbe declinato la proposta, ma appare piuttosto significativo il fatto che, subito dopo l’incontro, lo stesso principe Bandar sia stato invitato a Washington per un colloquio diretto con il presidente Barack Obama. Secondo quanto riporta il sito “Debka File”, assai vicino al Mossad, al 16 agosto «Il principe Bandar non ha ancora risposto all’invito» (7). Si tratterebbe di una mossa piuttosto inusuale per un regime solitamente assai fedele ai dettami di Washington.
Riflettendo sull’operato di Riad, il lucido analista William Engdahl scrive che: «La coraggiosa decisione saudita di agire per fermare ciò che percepisce come la disastrosa strategia islamica statunitense nel sostenere le rivoluzioni della Fratellanza Musulmana in tutto il mondo islamico, ha inferto un duro colpo alla folle strategia statunitense di credere di poter utilizzare la Fratellanza come forza politica per controllare più strettamente il mondo islamico e usarlo per destabilizzare la Cina, la Russia e le regioni islamiche dell’Asia centrale. La monarchia saudita cominciava a temere che la Fratellanza segreta sarebbe balzata un giorno anche contro il suo governo. Non ha mai perdonato a George W. Bush e Washington di aver rovesciato la dittatura laica del partito Baath di Saddam Hussein in Iraq, che ha portato la maggioranza sciita al potere, né la decisione degli USA di rovesciare lo stretto alleato dell’Arabia saudita, Mubarak in Egitto. Da esemplare “Stato vassallo” degli USA in Medio Oriente, l’Arabia Saudita si è ribellata il 3 luglio sostenendo e supportando il colpo di Stato militare in Egitto» (8).
Quanto al Qatar, va sottolineato che alcune stime quantificano in 6 miliardi di dollari i finanziamenti che l’Emiro al-Thani avrebbe inviato ai Fratelli Musulmani egiziani e in altri 7 miliardi gli “aiuti” che Doha avrebbe messo a disposizione degli Ikwan in Giordania e di altri gihadisti in Libia e Siria. Il “prestigio” che il Qatar si era ritagliato nei due anni precedenti era strettamente connesso ai finanziamenti e al sostegno militarmente fornito ai guerriglieri islamisti protagonisti della guerra contro la Giamahiriya di Muhammar Gheddafi, e all’esito di tale scontro. Successivamente, le brame di al-Thani hanno cominciato a vertere sulla riproposizione del “modello-Libia” in Siria e sull’acquisizione dell’influenza su di un Paese cruciale come l’Egitto, ma con il sostanziale fallimento della lunga ed estenuante aggressione che le bande islamiste supportate da Doha (e da Washington, Riad, Ankara, Parigi e Londra) hanno condotto contro il regime di Bashar al-Assad e, soprattutto, con la caduta del proprio “pupillo” Morsi, l’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani ha constatato il fallimento della propria politica estera – per sostenere la quale aveva profuso notevolissimi sforzi finanziari – e deciso di abdicare a beneficio di suo figlio Tamim, il quale ha immediatamente congedato il primo ministro Hamad bin Jassim al-Thani, ovvero l’artefice dell’ambiziosa strategia internazionale imperniata sull’appoggio alla Fratellanza Musulmana e , più in generale, sull’ostilità nei confronti dei regimi nazionalisti (Libia, Siria) e sciiti (Iran). La nuova dirigenza qatariota appare molto più attenta ai propri affari interni, ed è presumibile che abbandonerà le velleità imperialistiche che hanno caratterizzato i propri predecessori per dedicare tutti gli sforzi necessari alla preparazione del Paese ad ospitare i mondiali di calcio del 2022.
Anche la Turchia di Erdogan, altro pilastro del sostegno alla Fratellanza Musulmana, ha dovuto ridimensionare le proprie aspirazioni. Dopo un lungo periodo di consenso elettorale fondato essenzialmente sulla crescita economica maturata in un contesto regionale pacifico costruito in base alla necessità, segnalata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, di «avere zero problemi coi vicini», i nodi della “questione turca” sono cominciati a venire progressivamente al pettine; all’infiammarsi dell’irrisolta “questione curda”, al rancore sotterraneo maturato tra le forze armate e parte consistente della magistratura e ai malumori delle componenti più “laiche” e conservatrici della società (come i “Lupi Grigi”), le quali rifiutano di accettare ogni sia pur cauto e moderato provvedimento di apparente islamizzazione, è andato a sommarsi il forte rallentamento dell’economia (con una crescita che è passata dal 9 al 2,2%), causato in buona parte dalla rottura delle relazioni con la Siria e dall’isolamento regionale imputabile alla politica aggressiva condotta da Erdogan. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da poderose campagne di privatizzazione e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne. Seguendo il mito della globalizzazione, Erdogan ha fatto approvare una legge che elimina la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi, in seguito alla quale ha progressivamente trasformato interi quartieri delle principali città costiere in giganteschi villaggi turistici nuovi di zecca, obbligando i vecchi residenti a trasferirsi verso le periferie. Interi rioni risalenti agli inizi del ’900 sono stati “ristrutturati” o demoliti per far posto a nuove strutture atte a “favorire il turismo”. Ordinando l’abbattimento di 600 alberi nell’ambito di un progetto volto a sostituire un parco con un enorme centro commerciale (sul quale aleggia un forte sospetto di tangenti, alla luce del fatto che il sindaco di Istanbul, esponente dell’AKP, è proprietario di una catena di negozi ed ha già ottenuto i diritti per installare in tale centro i propri punti vendita, senza contare che il genero di Erdogan si è aggiudicato il contratto per lo sviluppo immobiliare dell’intera area), ha manifestato con estrema chiarezza l’intenzione di trasformare una città millenaria come Istanbul in una delle tante megalopoli ultra-pacchiane stile Doha. Istanbul (come diverse altre città turche) è costellata di rovine greche, romane, bizantine, ottomane, ortodosse e islamiche che rischiano di essere sostituite da giganteschi centri commerciali ed edifici moderni commissionati alle più celebri stelle occidentali dell’architettura. Il che non può che suscitare un forte malcontento in seno alla popolazione turca, così come la politica imperialista – e non imperiale – impropriamente definita “neo-ottomana”. La “Sublime Porta” era riuscita a inglobare e far convivere decine di etnie e popoli diversi, mentre l’attuale Turchia, con la sua alleanza di fatto con Qatar e Arabia Saudita e il suo appoggio ai guerriglieri islamisti più feroci, sta facendo l’esatto contrario: sta promuovendo il settarismo e allargando la faglia che divide le molteplici “placche” religiose di cui è formato l’Islam. E a favorire questo processo è il primo ministro di un Paese costituito a sua volta da una notevole gamma di etnie e religioni diverse (50% circa sunniti, 20% alawiti, 20% curdi – principalmente sunniti –, il 10% appartiene ad altre minoranze). Non è quindi un caso che, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovino la politica aggressiva di Erdogan nei confronti della Siria. Il noto giornalista Thierry Meyssan ritiene a questo proposito che Erdogan abbia adottato il programma della Fratellanza Musulmana, il movimento finanziato e sostenuto dal Qatar che dall’Egitto alla Siria alla Giordania propugna una visione di Islam compatibile con gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. «Mostrando la sua vera natura – scrive Meyssan – (di Fratello Musulmano sotto vesti “neo ottomane”) il governo Erdogan ha tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani» (9).
Conclusioni
Il colpo di Stato militare a danno della Fratellanza Musulmana sembra essere supportato da gran parte della popolazione e dei partiti, sia dai salafiti di al-Nur che dagli esponenti delle fazioni marxiste. Il golpe del generale al-Sisi avviene quindi sulle ceneri del malridotto Ikhwan, che dopo un lungo periodo di ascesa, connessa facoltosi agganci internazionali di Morsi e della sua cricca, è caduto vittima delle proprie colossali inadeguatezze intrinseche nell’ambito di un feroce conflitto internazionale contrassegnato dal continuo ed apparentemente inarrestabile arretramento statunitense, aggravato dalla fallimentare strategia di politica estera condotta da Barack Obama, che con l’appoggio alle “primavere arabe”, la guerra alla Libia e il potenziamento dell’Africa Command (AFRICOM) ha palesemente cercato di sbarrare la strada all’avanzata cinese nel “continente nero”, per poi spingersi a cingere d’assedio la Cina sia stringendo una serie di accordi militari con numerosi Paesi dell’Estremo Oriente, sia integrando Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam in una “area di libero scambio” meglio nota come Trans Pacific Partnership (TPP) allo scopo di isolare economica il “Paese di mezzo”.
Il fallimento delle “primavere arabe”, la tenace resistenza siriana sostenuta dalla Russia, la crescita complessiva della Cina, l’emersione di una serie di scandali (fatti emergere da Bradley Manning, Julian Assange e Edward Snowden) hanno infatti decretato la debacle dell’amministrazione Obama, messa sotto accusa anche in patria da diversi esponenti del partito Repubblicano per aver attaccato la Libia senza l’autorizzazione del Senato, per la scandalosa gestione (l’intelligence russa ha dimostrato che i servizi segreti statunitensi avevano messo in allerta la Casa Bianca riguardo ai pericoli legati a questa faccenda, ma Obama tenne il Congresso all’oscuro di tutto) dell’oscura vicenda in cui l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens a Bengasi rimase ucciso ad opera di islamisti debitamente armati e sostenuti da Washington e per il sostegno accordato ai “ribelli” siriani – resisi responsabili di atti indescrivibili (come mangiare gli organi dei soldati siriani caduti in combattimento) –, nonché per aver nascosto al Congresso le prove schiaccianti che dimostravano il coinvolgimento tra il Qatar di al-Thani e al-Qaeda. Costretto sulle difensive, Obama ha dovuto ammettere sia di aver spiato illegalmente nemici, alleati e compatrioti, sia di aver consapevolmente collaborato con un regime che sosteneva attivamente i terroristi (non è certo una novità) prima di abbandonarlo, decretando così il suo crollo e privando automaticamente la Fratellanza Musulmana egiziana del suo fondamentale sponsor e finanziatore. Erdogan, dal canto suo, si è trovato a dover rendere conto a una popolazione assai infastidita dall’affarismo che contraddistingue diversi esponenti del partito AKP, dalla sue velleità aggressive e dall’aver trasformato la regione meridionale del Paese in una gigantesca zona di addestramento e di transito per islamisti provenienti da mezzo mondo.
Il regime di Bashar al-Assad, al contrario, è riuscito, usufruendo dell’appoggio russo, a resistere alla conflitto interno aizzato da Stati Uniti, Turchia e Qatar in primis, anche grazie all’apporto fornito da Hezbollah, scesa in campo per evitare che un simile bagno di sangue potesse verificarsi anche in Libano. Supportando con tale ostinazione Damasco, la classe dirigente russa si è dimostrata ben consapevole che la caduta di Assad avrebbe spezzato, nel suo punto centrale, la corda tesa dell’arco sciita che collega Teheran a Beirut, innescando un incendio suscettibile di investire l’intero Medio Oriente (Libano, Iraq, Iran e Giordania) e di dilagare nel Caucaso, rinfocolando conflitti mai sopiti (Cecenia, Daghestan, Nagorno-Karabakh) capaci di intaccare la sovranità russa sulle sue regioni meridionali e alimentare il settarismo religioso, aggravando tragicamente la fitna che separa gli sciiti dai sunniti.
In tutto questo marasma, l’Egitto si trova al centro della contesa, sia per la sua notevole demografia, sia per via della sua vantaggiosissima posizione geostrategica, sia perché tocca da vicino gli interessi israeliani. La defenestrazione dei Fratelli Musulmani, su cui gli Stati Uniti hanno modellato tutta la propria strategia per il Medio Oriente, appare come un primo sussulto di indipendenza dopo decenni di ininterrotta subordinazione.
Lo stesso al-Sisi ha rivelato pubblicamente di aver ricevuto, mentre erano in corso i disordini con i Fratelli Musulmani, svariate telefonate da parte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e di non aver mai risposto. Qualora l’Egitto dovesse assecondare l’orientamento “nasserista” che il generale al-Sisi sostiene di professare, il Cairo potrebbe verosimilmente legare il proprio destino all’asse “non allineato” Iran-Siria-Hezbollah (ed Iraq), riconfigurando definitivamente i rapporti di forza regionali a scapito delle monarchie del Golfo Persico e fornendo in tal modo un contributo a ridisegnare i futuri assetti geopolitici planetari in un mondo che sembra essere irreversibilmente avviato verso il multipolarismo.
1. Mahdi Darius Nazemroaya, Israeli-US Script: Divide Syria, Divide the Rest, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=32351.
2. “Financial Times”, 2 marzo 2005.
3. “Il Manifesto”, 17 luglio 2012.
4. “Infopal”, 24 aprile 2012.
5. “The European Union Times”, 11 agosto 2011.
6. “The Times of Israel”, 22 aprile 2012.
7. “Debka File”, Saudi King Abdullah backs Egypt’s military ruler, warns against outside interference, http://www.debka.com/article/23197/US-Egyptian-relations-on-the-rocks-El-Sisi-wouldn%E2%80%99t-accept-Obama%E2%80%99s-phone-call [1].
8. William Engdahl, Saudi’s unprecedent break with Washington over Egypt, http://www.globalresearch.ca/saudis-unprecedented-break-with-washington-over-egypt/5343092 [2].
9. Thierry Meyssan, Soulèvement contre le Frère Erdogan, http://www.voltairenet.org/article178820.html [3]
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El fin de la Unión Europea
El fin de la Unión Europea
El próximo miércoles Durao Barroso “recomendará” a Mariano Rajoy las “reformas” que debe implementar para luchar contra la crisis. Mientras tanto, un grupo de diputados de ERC “pagan” sus impuestos en una “Agencia Tributaria Catalana”, demostrando así lo poco que entienden de lo que pasa y lo mucho que les gustaría tener su propio cortijo. La actitud de estos sujetos, paradigma de la estupidez, la incompetencia y la ignorancia – ERC ha dado en su historia buena prueba de todo ello- es un caso bastante ilustrativo de la clase política europea en general, especialmente en los últimos 25 años.
No puede ser de otra manera: tras llenarse la boca con el asunto de la “construcción europea” hasta machacar los oídos del más insensible, el efecto y las consecuencias de las políticas apoyadas, por activa y por pasiva, por esa misma clase política está conduciendo a la Unión Europea a una desintegración ahora incipiente pero inexorable. Inexorable porque no se ven las palancas por las cuales esa misma Unión Europea puede resurgir y pesar en el conjunto de la escena multipolar del mundo del siglo XXI. En el extremo de esta incompetencia se halla gente como los diputados de ERC que, no solo es que apuesten por las delirantes tesis del nacionalismo catalán, sino que buscan la atomización de algo ya de por si pequeño y, en consecuencia, sujetarnos más aún a la pérdida de soberanía y de libertad que la Unión Europea ha supuesto desde que en 1985 el PSOE nos apuntara a tan singular club.
El hecho puede argumentarse mejor a raíz del último informe del Pew Research Global Attitudes Project (PRGAP). Los informes del PRGAP deben siempre tenerse en cuenta, en primer lugar, por la amplitud de problemáticas que se abordan; en segundo lugar por la variedad de colectivos en los que muestrean, llegando en algunos casos a realizar encuestas de proporciones planetarias. En el caso que nos ocupa, el pasado 13 de mayo, el Pew Research Center hizo público un estudio conducido en 7 países europeos, sobre una muestra de 7,646, encuestados entre el 2 y el 27 de marzo pasados. Los países considerados en el estudio fueron Alemania, Francia, Italia, España, Reino Unido, Polonia, Grecia y República Checa. A los participantes se les preguntó acerca de cómo percibían la situación actual de la UE. Los técnicos del célebre “fact tank”, subsidiario del Pew Charitable Trusts, han apuntado algunas conclusiones inquietantes para el futuro de uno de los principales puntales de la globalización: en primer lugar, la desafección general de los europeos respecto de la UE, siendo ésta máxima en Francia y en España. Se observa, además, un debilitamiento de la integración europea, tal y como es percibida por los europeos.
En segundo lugar, se aprecia una divergencia creciente entre alemanes y franceses y una desconfianza mutua. En tercer lugar, entre 2013 y 2013, ha crecido la desconfianza de los ciudadanos hacia sus líderes –personificados en el presidente del gobierno-, siendo máxima, y por éste orden, en Francia, Italia y España. En cuarto lugar, el pesimismo respecto la situación económica respecto de 2007, se ha incrementado en un 61%, un 54% y un 22% en España, Gran Bretaña e Italia, respectivamente. La situación es especialmente alarmante en lo que los autores del informe denominan “el desafío del sur” (“Southern Challenge”); es decir, España, Grecia e Italia. Pese a ello, el apoyo al euro ha crecido en España y en Italia, si bien aproximadamente un 30% de los encuestados en los siete países apuestan por volver a sus monedas originales.
Naturalmente, el informe es amplio y denso pero el resultado es bastante claro y los técnicos del Pew Research Center hablan de “tendencias centrífugas” en la UE. Curiosamente, preguntados acerca de la manera en que la UE saldría de la crisis, aproximadamente un 70% de los encuestados ha respondido que “recortando gastos”, mientras que solo un 30% apostó por políticas de estímulo. Sin duda, la “austeridad” goza de mucho predicamento entre la misma población que la sufre. Al margen de lo que opine la gente, las directrices económicas de la Comisión, y también de la “troika”, han sido un rotundo fracaso, como se desprende de los índices de paro y precariedad galopantes.
Próximamente, el miércoles esa misma comisión va a recomendar al presidente Rajoy que realice “reformas” en el mercado laboral, que suba los impuestos –especialmente el IVA- porque “hay margen”, que “reforme” las pensiones, en el sentido de desligarlas del IPC y otras medidas similares. Es obvio que supone un gran lastre, por ejemplo, operar con 42 tipos de contrato laboral o que se gasten millones de euros en administraciones duplicadas y a menudo inoperantes. Pero el problema que acarreamos no es un caso de mala gestión, aunque ello pueda contribuir, dado que los mismos problemas existen en la práctica totalidad de los estados europeos. Se trata más bien de una fracaso del modelo económico que apuesta por una financiación cara y escasa de la que se lucran los que controlan esas mismas fuentes de financiación; es decir, del capital privado. Se prima la economía especulativa frente a la productiva.
Gracias a la política del BCE y de la “troika” se está produciendo en las últimas décadas, y especialmente con motivo de esta crisis, un gigantesco trasvase de recursos de los bolsillos de los contribuyentes –asalariados y empresas- al sector privado financiero. Los costos de este trasvase se evidencian en forma de intereses elevados por una financiación que podría obtenerse mucho más barata directamente del instituto emisor en última instancia –el BCE-, evitando el encarecimiento que supone la presencia de intermediarios ávidos de beneficio. El sobrecoste se repercute en los bolsillos de las clases populares en forma de impuestos o en forma de “recortes” de los salarios, mayormente.
Pese a ello, la Comisión sigue pensando que la medicina no es mala sino que es escasa. El hecho de la crisis y el desánimo se intentan conjurar con la promesa de una recuperación que nunca llega. De hecho, de vez en cuando las tesis oficiales –aireadas gracias a una prensa servil para con el partido encargado de gestionar la política económica del momento- sufren el aldabonazo de algún estudio que se filtra pero que jamás tiene consecuencias. Recientemente, la OCDE pronostica un 28% de paro para España en 2014, solo por detrás, y ligeramente, de Grecia. El Ejecutivo calcula que solo se creará empleo en 2016 cuando crezcamos al 1,3%, algo que parece hoy inalcanzable, pero para los analistas de Aspain11, según informa la web finanzas.com, esta cifra debe situarse en realidad en el 2.8% para que nuestro país cree verdaderamente empleo.
¿Qué se deriva de todo esto? Pues que el futuro económico es negro y que la crisis va a seguir por donde ya está. En estas condiciones las turbulencias políticas van a aumentar y las opciones heterodoxas ganarán masa crítica. En el mundo real, los eurócratas tendrán menos apoyo cada vez y es muy posible que la salida de la UE, que hoy es una opinión cada vez menos marginal y más generalizada, acabe desintegrando la Unión por la fuerza de los hechos. Aunque pese a la Comisión, y como sucede en Grecia, no se puede pedir que un país se suicide para ajustar el déficit o salvar una moneda.
Lamentablemente, en un mundo en el que cada vez Occidente pesa menos, el fin de Europa como entidad económica supondrá una indiscutible pérdida de peso político, algo notablemente nocivo para Occidente en su conjunto. Las fuerzas centrífugas antes mencionadas son en los tiempos actuales una pésima noticia, concomitante a la desintegración social y a la crisis espiritual que padecemos. A esto es a lo que un grupo de majaderos en Barcelona está contribuyendo sin ni siquiera saberlo.
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dimanche, 25 août 2013
Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...
“M.”/” ’t Pallieterke”:
Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...
L’Occident a fait un rêve: le monde arabe en 2013 allait devenir bon et gentil. En Egypte, Morsi, petit à petit, deviendrait un dirigeant compétent. En Syrie, le méchant Assad tomberait, à la suite de quoi, la bonne opposition aurait formé un gouvernement plus ou moins acceptable. En Libye aussi, un pouvoir relativement stable se serait installé. C’était un beau rêve...
La réalité sur le terrain est nettement moins rose. L’Egypte a attiré la une des médias au cours de ces dernières semaines, alors que la Syrie est toujours aux prises avec une guerre civile qui semble interminable. En Libye, la situation est toujours instable. La question arabe était prioritaire dans l’ordre du jour du récent sommet du G8 en Irlande du Nord. L’Egypte est toutefois le pays qui cause le plus de soucis, d’abord parce que le pays est vaste, fort peuplé et exerce un influence prépondérante dans la région. Alors, question: qui fait quoi?
Réticence américaine
Lors de son installation au poste de ministre des affaires étrangères aux Etats-Unis, John Kerry voulait damer le pion aux Européens, dépasser leurs ambitions. Il voulait même donner un souffle nouveau au processus de paix israélo-palestinien. A peine quelques mois plus tard, cette question israélo-palestinienne est passée à l’arrière-plan. Aujourd’hui, les dirigeants américains, bien que soutenus par le travail de nombreux universitaires, doivent constater que leur vieil allié égyptien est devenu un sérieux facteur de risque. Mais il y a une autre donnée dans le jeu, qui devrait susciter l’attention des Européens. Lorsque John Kerry renonce à rendre visite à quelques pays asiatiques pour se diriger immédiatement vers le Moyen-Orient, c’est un signal clair pour les pays frustrés d’Extrême-Orient. Un des principaux conseillers du “State Department” a relevé le fait récemment. Au moment où certains pays d’Extrême-Orient perçoivent de plus en plus clairement une menace chinoise, l’attention que portent les Américains au Moyen-Orient apparait comme “déplacée”. Toutes les régions du monde n’ont pas la même priorité pour les Etats-Unis. De plus en plus de voix s’y élèvent pour dire qu’il est temps que les Européens s’occupent un peu plus du Moyen-Orient.
C’est un fait: les événements du Moyen-Orient ont un plus grand impact sur la sécurité européenne que sur la sécurité américaine. Ce que l’Europe (du moins quelques pays européens) a fait jusqu’à présent témoigne surtout d’une absence de vision. L’Europe n’a pratiqué qu’une politique à court terme, partiellement dictée par l’émotion du moment. La Libye en est le meilleur exemple. Les Britanniques et les Français y ont déployé leur force aérienne mais l’opération n’a été possible que grâce aux missiles américains. De surcroît, les munitions se sont vite épuisées, si bien que l’on a dû, l’angoisse à la gorge, téléphoner à Washington... Récemment, les Britanniques ont considéré qu’il fallait impérativement entraîner 5000 nouveaux soldats et policiers en Libye. Ces effectifs semblent indispensables pour mater les milices rebelles. En parallèle, on a dû prévoir d’autres initiatives encore pour faire face à cette calamité que constituent les réfugiés libyens ou en provenance de la Libye qui, jadis, étaient retenus sur les côtes de l’Afrique du Nord suite à un compromis conclu avec Khadafi.
Et que faut-il penser des services de sécurité européens quand on constate le nombre de jeunes gars qui partent vers la Syrie... et reviennent tranquillement. Ils ne viennent pas seulement de Bruxelles, Anvers ou Vilvorde. Chaque pays européen a des volontaires sur le théâtre syrien. D’après une enquête récente, il y en aurait plus de 600. Qui plus est, un expert des Nations Unies a déclaré qu’un paradoxe s’ajoutait à cette situation: plus on parlait de ces volontaires, plus cela suscitait des vocations chez bon nombre de jeunes issus de l’immigration arabo-musulmane.
Une alternative européenne?
Un diplomate européen, à l’abri des micros et des caméras, a mis le doigt sur la plaie: “Ce qui s’est passé ces toutes dernières années dans plusieurs pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient a été interprété de manière beaucoup trop ‘idéologique’. On nous disait que c’était une révolution démocratique, une acceptation des libertés occidentales. On fermait ainsi les yeux face à certains faits”. Par exemple, on voulait “oublier” que s’il y avait des élections libres en Egypte, ce serait les fondamentalistes musulmans qui engrangeraient une bonne part des voix. L’Egypte compte bien davantage d’acteurs que les élites éclairées du Caire auxquelles se réfèrent sans cesse les journalistes occidentaux. Il suffit de prendre en considération la population moyenne, qui compte 40% d’analphabètes: elle ne partage évidemment pas les vues des Cairotes éclairés. Quant à ce que donneraient des élections en Syrie, on n’ose pas trop y penser...
L’Europe veut-elle et peut-elle arranger les bidons? D’aucuns estiment d’ores et déjà que l’attention portée au monde arabe est trop importante. La Lituanie, qui prendra bientôt la présidence de l’UE, a profité de l’occasion qui lui était donnée de s’exprimer pour souligner plutôt le danger que représente la Russie. Le message des Lituaniens était donc clair: il faut davantage s’occuper du danger russe. L’obsession des Français et des Britanniques à prendre parti pour les rebelles syriens est vue avec beaucoup de réserve par la plupart des autres pays européens. Ce bellicisme franco-britannique n’apporte aucune solution, au contraire, il crée de plus en plus d’instabilité. Dans les coulisses du monde des diplomates, on entend dire que, dans l’UE, se juxtaposent des “convictions parallèles”, et rarement une unité de vue, en ce qui concerne les pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient. Entre ce qu’il faudrait faire et ce qu’il est possible de faire, il y a une césure considérable. Dans le passé, on a souvent pu constater la désunion des Européens en matière de politique extérieure. Cette désunion semble le plus grand obstacle à une présence européenne sérieuse dans ces régions du monde en ébullition.
“M.”/” ’t Pallieterke”, Anvers, 17 juillet 2013.
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vendredi, 23 août 2013
L'affaire Snowden, un révélateur des lignes de force en Europe et dans le monde
L'affaire Snowden, un révélateur des lignes de force en Europe et dans le monde
par Laurent OZON
Ex: http://www.newsring.fr
Edward Snowden, un ancien technicien de la NSA, a dévoilé en juin dernier l'existence du programme Prism, permettant aux renseignements américains d'espionner les communications en ligne. L'Union Européenne aurait notamment été visée par ces écoutes. Une affaire qui révèle de véritables lignes de force en Europe et dans le monde, selon notre contributeur.
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mercredi, 21 août 2013
CHAOS EN EGYPTE
Chems Eddine Chitour*
Ex: http://metamag.fr
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mardi, 20 août 2013
La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites
La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites
par Gilles-Emmanuel Jacquet
Ex: http://www.realpolitik.tv
Le Printemps Arabe et les guerres en Libye puis Syrie ont banalisé au sein de l’opinion publique occidentale l’autre grand conflit de cette décennie, celui d’Afghanistan, or ce dernier est loin d’être pacifié. Bien que le conflit et le contexte afghans ne peuvent être directement comparés avec ce qui se passe dans le monde arabe et plus particulièrement en Syrie, on a pu assister récemment à une interaction croissante entre ces deux théâtres d’opérations et les groupes djihadistes qui y combattent.
Les Talibans afghans et pakistanais à l’assaut de la Syrie
L’Afghanistan a servi de terrain d’entraînement à de nombreux groupes radicaux combattant désormais en Syrie et de nombreux mouvements djihadistes continuent de combattre en Afghanistan (Tchétchènes, Tadjiks, Ouzbeks du Mouvement Islamique d’Ouzbékistan, Hizb ul-Tahrir, combattants arabes d’Al Qaïda, Talibans pakistanais du TTP) [1]. Les contacts qui ont été établis depuis le Djihad contre l’Armée Rouge et qui ont été renforcés sous l’Émirat Islamique des Talibans ou au sein de l’insurrection depuis 2001 ont pu faciliter l’acheminement de combattants afghans et de ressources financières en Syrie notamment – mais pas uniquement – par le biais du système de paiement informel connu sous le nom de « Hawala » [2] ou par le biais de la « Zakât », l’aumône. Les ressources tirées d’activités criminelles ont aussi joué un rôle et comme l’a expliqué Viktor Ivanov, le directeur du service fédéral russe de lutte contre les stupéfiants, de nombreux groupes rebelles opérant en Syrie ont été financés grâce à l’argent tiré du trafic de drogue en provenance d’Afghanistan [3].
Au printemps 2012 des affiches ont fleuri dans différents quartiers de Kaboul et certaines étaient visibles dans les environs de Bagh-e Bala et de l’hôtel Intercontinental. Ces affiches invitaient les Afghans à soutenir la lutte des rebelles syriens et ne provenaient pas d’une association démocrate ou d’une ONG défendant les Droits de l’Homme. Celles-ci comportaient une forte connotation religieuse et arboraient, à côté du drapeau afghan, ceux des insurgés syriens, de la Turquie, du Qatar et de l’Arabie Saoudite. La présence de djihadistes afghans en Syrie n’est pas surprenante dans la mesure où de nombreux salafistes étrangers y sont également actifs et ce phénomène exprime la logique de solidarité globale de l’Oumma combattante, basée sur des réseaux terroristes transnationaux ayant montré leur capacité à opérer dans de nombreux pays et à mobiliser des partisans de différentes nationalités. Cette présence de combattants afghans a été évoquée à maintes reprises par certains médias ou journalistes (tels que Anastasia Popova de la chaîne Russia 24) ainsi que des hommes politiques afghans ou même turcs mais elle reste difficile à chiffrer.
Le dirigeant du Parti Démocratique Turc Namik Kemal Zeybek a ainsi affirmé que 10 000 Talibans et membres d’Al Qaeda étaient soutenus par le gouvernement turc, tout en ajoutant que 3000 terroristes avaient reçu un entraînement dans des camps en Afghanistan et au Pakistan avant d’être envoyés en Syrie [4]. Selon Zeybek, cette politique menée par le gouvernement AKP comporte également le risque d’assister à la pénétration de ces groupes fondamentalistes au sein de la société turque et de subir à terme des attaques terroristes menés par ces derniers [5]. Le président du PDT a précisé que les Talibans afghans occupaient un camp de réfugiés localisé dans la province du Hatay à partir duquel ils mèneraient des attaques ponctuelles en territoire syrien (le militant anti-impérialiste Bahar Kimyongür a également témoigné de la présence de combattants étrangers dans le Hatay et à l’aéroport d’Antioche) [6].
Au cours du mois de juillet 2013 un commandant opérationnel taliban du nom de Mohammad Amine à confié à la BBC qu’il était responsable d’une base talibane en Syrie et que la cellule chargée de mener le Djihad dans le pays y avait été établie en janvier 2013 [7]. Lors de sa création cette structure talibane a reçu la bénédiction du TTP (Tehrik-e-Taliban Pakistan) et bénéficié de l’aide de vétérans du Djihad en Afghanistan, originaires de pays du Moyen Orient et installés en Syrie au cours des dernières années [8]. Les Talibans pakistanais auraient envoyé en Syrie au cours des deux derniers mois au moins 12 spécialistes du combat et des technologies de l’information afin de développer les opérations conjointes menées avec leurs camarades syriens et évaluer les besoins existants [9]. Cette cellule envoie également des informations sur la situation militaire à l’organisation mère basée au Pakistan et d’après Mohammad Amine, « Il y a des douzaines de Pakistanais enthousiastes à l’idée de rejoindre le combat contre l’Armée Syrienne mais le conseil que nous avons reçu pour le moment est qu’il y a suffisamment d’hommes en Syrie » [10].
Au cours du même mois deux autres commandants talibans basés au Pakistan ont confirmé anonymement ces déclarations en ajoutant que des centaines de leurs combattants avaient été envoyé en Syrie à la requête de leurs camarades arabes : « Étant donné que nos frères arabes sont venus ici [Pakistan / Afghanistan] pour nous soutenir, nous sommes obligés de les aider dans leurs pays respectifs et c’est ce que nous avons fait en Syrie » [11]. Les combattants talibans opérant en Syrie font partie d’un réseau international structuré ou du moins organisé et leur engagement se veut durable comme l’explique un de ces commandants talibans pakistanais : « Nous avons établi des camps en Syrie. Certains de nos hommes y partent et reviennent après y avoir passé un certain temps à combattre » [12]. Comme l’a expliqué l’expert pakistanais Ahmed Rashid, l’envoi de Talibans en Syrie est un moyen pour le mouvement de prouver sa loyauté ou montrer son allégeance aux groupes armés radicaux se réclamant d’Al Qaïda mais aussi d’affirmer sa capacité à combattre hors de ses théâtres d’opérations habituels que sont le Pakistan et l’Afghanistan : « Ils agissent comme des djihadistes globaux, précisément avec l’agenda d’Al Qaïda. C’est un moyen (…) de cimenter leurs relations avec les groupes armés syriens…et d’élargir leur sphère d’influence » [13]. Certains membres du gouvernement pakistanais comme le Ministre de l’Intérieur Omar Hamid Khan ont en revanche démenti toutes ces déclarations, affirmant que les Talibans ne pouvaient aider leurs camarades syriens dans la mesure où ils auraient subi de nombreuses pertes infligées par les forces de sécurité pakistanaises et auraient « abandonné leurs fiefs dans les zones tribales » [14].
Bien que les insurgés islamistes du Pakistan soient sous forte pression de la part de l’armée pakistanaise ou de l’armée américaine, ceux-ci ont pu envoyer un certain nombre des leurs combattre en Syrie : comme l’ont rapporté trois responsables de l’ISI basés dans les zones tribales, les djihadistes partis combattre contre le gouvernement de Damas appartiennent principalement à Al-Qaïda, au Tehrik-e-Taliban Pakistan et au Lashkar-e-Jhangvi [15]. La présence croissante de ces mouvements et des autres organisations djihadistes parmi les rangs de la rébellion indique une radicalisation idéologique ou religieuse du conflit mais aussi une intensification des luttes internes entre l’ASL et ses frères ennemis djihadistes (dont la composante Talibane pakistanaise ou afghane pourrait jouer le rôle de bourreau selon Didier Chaudet) tout en compliquant également la tâche de Washington dans son soutien apporté aux insurgés syriens [16]. Didier Chaudet ajoute que cette présence talibane « a fait son apparition alors que les forces de Bachar el-Assad ont repris du terrain face à la rébellion grâce à l’aide de forces chiites pro-iraniennes, notamment le Hezbollah » et ce serait également « une réponse à un recrutement antérieur de 200 Pakistanais chiites par l’Iran » : « Ces derniers auraient combattu à Alep ou à Homs. (…) L’engagement des Taliban pakistanais serait donc une réponse à une poussée chiite qui s’appuie elle aussi sur des forces étrangères » [17].
Pour les Talibans pakistanais la lutte contre le régime de Bachar Al-Assad est tout autant idéologique que confessionnelle : le Parti Ba’as et son dirigeant alaouite sont perçus comme les oppresseurs chiites d’une majorité sunnite [18]. Avant de se rendre en Syrie durant la première semaine de juillet 2013, un militant taliban se faisant appeler Suleman a ainsi expliqué que « Notre but et objectif est de lutter contre les Chiites et de les éliminer (…) C’est bien plus gratifiant si vous luttez en premier contre le mal ici et que vous voyagez pour ce noble but. Plus vous voyagez, plus grande sera la récompense d’Allah » [19]. Avant d’aller combattre contre les Chiites et les Alaouites de Syrie Suleman a déjà acquis une longue expérience dans ce domaine en participant aux persécutions et attentats menés contre les Chiites du Pakistan [20].
La communauté chiite du Pakistan (15-20% de la population) a souvent été visée par les groupes radicaux sunnites tels que le Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), le Lashkar-e-Jhangvi (LeJ) ou le Sipah-e-Sahaba (SSP) et depuis 2012, année au cours de laquelle 320 chiites furent tués (dont 100 principalement Hazaras au Baloutchistan), ces attaques sont en forte recrudescence [21]. En décembre 2012 des pèlerins se rendant en Iran furent attaqués dans le sud-ouest du pays [22] et en 2013 ces attentats confessionnels ont continué à croître [23]: en février 2013 90 personnes furent tuées par une bombe dans un marché d’un quartier hazara de Quetta [24], en mars 2013 un attentat tua 48 Chiites à Karachi et fit au moins 150 blessés [25], enfin le 21 juin 2013 l’attentat contre la mosquée chiite de Peshawar fit au moins 15 morts et deux douzaines de blessés [26].
Des Chiites pachtounes vivent dans les zones tribales, dans la région de Kurram, et ils sont également victimes d’attentats menés par leurs compatriotes sunnites (les Soufis sont aussi visés) depuis de nombreuses années: les processions de l’Achoura ont été régulièrement la cible d’attaques, des écoliers chiites ont été attaqué en février 2009 à Hangu [27] ; 10 Chiites ont été assassiné à Hangu en 2011 par des insurgés du TTP [28] ; 2 autres ont été torturés à mort en juin 2012 par des militants du SSP et le 1er février 2013 une mosquée chiite de Hangu fut détruite par une moto piégée causant 27 morts ainsi que des douzaines de blessés [29]. Afin de se protéger les Chiites pakistanais se sont organisés en formant le mouvement Tehrik-e-Jafaria Pakistan en 1979 puis au début des années 1990 un groupe d’autodéfense appelé Sipah-e-Muhammad Pakistan mais qui fut interdit par Pervez Musharraf en août 2001 [30]. Les populations chiites pachtounes disposent d’armes et peuvent former des milices villageoises servant à protéger leur communauté mais aussi, comme me l’a rapporté une source locale, à traquer les Talibans : de grandes battues sont ainsi organisées et peuvent rassembler plus d’une centaine d’hommes [31]. Ces derniers sont parfois précédés de joueurs de « dhol », « dholak », « daira » ou « daf » (tambours locaux) et il est arrivé que des prisonniers Talibans soient dépecés ou mutilés puis renvoyés vers leurs camarades en guise d’avertissement [32].
La branche pakistanaise du Hizb-ut Tahrir (Parti de la Libération) a déclaré à la mi-juillet 2013, en invoquant un extrait du verset 72 de la sourate 8 « Al-Anfal » du Coran [33], que les Musulmans du Pakistan ne pouvaient pas se satisfaire d’envoyer seulement un soutien matériel ou financier aux Djihadistes combattant en Syrie mais qu’ils devaient aussi se montrer solidaires en les rejoignant sur le terrain [34]. Pour le HuT la lutte armée doit être menée tout autant contre le régime syrien que le « régime de Kayani et Shareef » au Pakistan : le gouvernement pakistanais a nié à de nombreuses reprises la présence de djihadistes pakistanais en Syrie et son alliance avec les États-Unis l’ont transformé en régime impie aux yeux des fondamentalistes locaux [35]. Dans son communiqué du 17 juillet 2013, le Hizb-ut Tahrir a ainsi expliqué que le gouvernement pakistanais était l’allié du régime de Damas, que tous deux étaient inféodés aux États-Unis et faisait figurer en guise de preuve accablante une photo d’Asif Ali Zardari serrant la main de Bashar Al-Assad [36]. La branche pakistanaise du HuT a également appelé les djihadistes en Syrie à résister à toute infiltration occidentale de leur mouvement puis invité les forces armées pakistanaises à prendre les armes contre les gouvernements de Damas et d’Islamabad [37].
Les zones tribales pachtounes abritent des camps d’entraînement où ont été formés de nombreux djihadistes afghans, pakistanais, arabes, caucasiens (tchétchènes, daghestanais), ouzbeks ou tadjiks combattant en Syrie. Deux groupes distincts de djihadistes opérant en Syrie proviennent de ces camps pakistanais et une bonne partie de leurs membres dispose d’une expérience du combat acquise en Afghanistan contre les troupes de l’ANA et de l’ISAF. Selon des responsables de l’ISI ayant souhaité garder l’anonymat, le premier groupe est composé d’Arabes du Moyen Orient, de Turkmènes ou d’Ouzbeks ayant combattu en Afghanistan et ayant décidé de partir en Syrie car le conflit qui s’y déroule leur est apparu comme prioritaire [38]. Des sources anonymes au sein des Talibans pakistanais ont confié que des membres d’Al Qaïda ayant participé à la formation de leurs hommes (entraînement au combat, fabrication d’explosifs et IED, etc.) appartenaient à ce premier groupe et étaient désormais en Syrie [39]. Ni les autorités pakistanaises ni les Talibans n’ont pu donner de chiffres précis quant à ces effectifs ou aux itinéraires suivis par ces djihadistes étrangers afin de se rendre en Syrie depuis le Pakistan [40].
Mohammed Kanaan, un activiste rebelle d’Idlib, a confirmé à des journalistes d’Associated Press la présence de combattants pakistanais dans sa région mais précisé que ceux-ci n’étaient pas nombreux: « La plupart des étrangers [le terme plus exact employé est « muhajireen »] sont des combattants arabes de Tunisie, Algérie, Irak et Arabie Saoudite (…) Mais nous avons également vu des Pakistanais et des Afghans récemment » [41]. Ces derniers appartiennent au second groupe en provenance du Pakistan ou d’Afghanistan et il s’agit principalement de militants locaux du TTP et du Lashkar-e-Jhangvi [42]. Tout en se montrant prudent sur les effectifs ou la composition de cette présence talibane en Syrie, Didier Chaudet confirme qu’ « il y a bien eu des combattants quittant l’Afghanistan et le Pakistan pour aller mener le “djihad” en Syrie, et cela depuis début juin, si l’on en croit certaines sources pakistanaises. Certes, il s’agirait en majorité d’auxiliaires étrangers du TTP, des combattants arabes et centrasiatiques. Mais des Taliban pakistanais feraient également le voyage pour participer à la guerre contre Assad. Et cela sans forcément avoir l’aval des djihadistes sunnites locaux » [43].
Le Printemps Arabe et les guerres en Libye puis Syrie ont banalisé au sein de l’opinion publique occidentale l’autre grand conflit de cette décennie, celui d’Afghanistan, or ce dernier est loin d’être pacifié. Bien que le conflit et le contexte afghans ne peuvent être directement comparés avec ce qui se passe dans le monde arabe et plus particulièrement en Syrie, on a pu assister récemment à une interaction croissante entre ces deux théâtres d’opérations et les groupes djihadistes qui y combattent. Suite.
Mohammed Kanaan, un activiste rebelle d’Idlib, a confirmé à des journalistes d’Associated Press la présence de combattants pakistanais dans sa région mais précisé que ceux-ci n’étaient pas nombreux: « La plupart des étrangers [le terme plus exact employé est « muhajireen »] sont des combattants arabes de Tunisie, Algérie, Irak et Arabie Saoudite (…) Mais nous avons également vu des Pakistanais et des Afghans récemment » [41]. Ces derniers appartiennent au second groupe en provenance du Pakistan ou d’Afghanistan et il s’agit principalement de militants locaux du TTP et du Lashkar-e-Jhangvi [42]. Tout en se montrant prudent sur les effectifs ou la composition de cette présence talibane en Syrie, Didier Chaudet confirme qu’ « il y a bien eu des combattants quittant l’Afghanistan et le Pakistan pour aller mener le “djihad” en Syrie, et cela depuis début juin, si l’on en croit certaines sources pakistanaises. Certes, il s’agirait en majorité d’auxiliaires étrangers du TTP, des combattants arabes et centrasiatiques. Mais des Taliban pakistanais feraient également le voyage pour participer à la guerre contre Assad. Et cela sans forcément avoir l’aval des djihadistes sunnites locaux » [43].
Les grands médias occidentaux n’ont presque pas relaté ce problème et rares sont les photos ou vidéos attestant de cette de cette présence talibane en Syrie. Une vidéo diffusée sur internet durant la seconde moitié d’avril 2013 a été présentée comme une preuve concluante : on y voit un combattant arabe n’étant apparemment pas d’origine syrienne, entouré de 11 hommes armés dont 3 cavaliers, faire un discours en Arabe classique dans une région rurale de Syrie [44]. La plupart de ces hommes sont équipés de différents modèles de Kalachnikov mais au moins trois d’entre eux disposent de M16 ou M4 à lunettes et tous portent le « shalwar-kamiz » (la tenue portée en Inde, au Pakistan et en Afghanistan) voire des cheveux longs en plus de longues barbes (ce qui est parfois un signe distinctif des Talibans) mais ce dernier élément ne fait pas pour autant de tous ces hommes des Talibans afghans ou pakistanais [45]. L’affiliation de ces hommes est en revanche très claire dans la mesure où l’un d’eux tient le drapeau de l’État Islamique d’Irak et du Levant (drapeau noir comportant la première moitié de la Shahada rédigée en blanc dans la partie supérieure et le sceau du Prophète Mahomet dans la partie inférieure) [46]. Une autre vidéo tournée à Idlib lors de la décapitation de 3 Syriens par des combattants appartenant vraisemblablement au Jabhat al-Nusra et diffusée aux environs du 26 juin 2013 sur internet apporte la preuve irréfutable de la présence de djihadistes étrangers dans la région mais il est difficile de savoir si des Afghans ou des Pakistanais se trouvaient parmi eux. La décapitation de ces trois Syriens – parmi lesquels peut-être le Père François Mourad selon certaines sources [47] – a été commise par un djihadiste barbu, aux cheveux longs et à la physionomie laissant penser qu’il pourrait être tchétchène ou du moins caucasien alors que celui qui a lu la sentence s’exprime, selon Steven Miller, dans un Arabe médiocre [48]. Parmi les autres djihadistes présents on entend de forts accents, parfois ce qui pourrait être du tchétchène ou une langue caucasienne et on aperçoit des visages de type asiatique ou européen mais aussi un individu barbu portant un « pakol » (le chapeau porté au Pakistan et en Afghanistan, popularisé par le Commandant Ahmad Shah Massoud) [49]. En dépit de ce dernier élément il reste difficile de savoir si ce combattant est d’origine pakistanaise ou afghane dans la mesure où il a pu ramener ce « pakol » suite à un « séjour » en Afghanistan ou au Pakistan, ou l’acquérir auprès d’un Afghan, d’un Pakistanais ou de toute autre personne et surtout qu’il le porte d’une manière montrant clairement qu’il n’est ni Afghan ni Pakistanais.
Bien que les preuves de cette présence soient rares les témoignages de djihadistes, experts, reporters de guerre, personnels humanitaires ou tout simplement de citoyens syriens existent à ce sujet. Dans la province d’Alep aucun combattant afghan ou pakistanais n’aurait été hospitalisé dans les hôpitaux de l’arrière ou ceux situés à proximité des camps de réfugiés comme celui de Bab al Salam mais il est possible que ces djihadistes aient été hospitalisés dans des hôpitaux de campagne plus proches de la ligne de front ou qu’ils soient engagés dans d’autres régions [50]. Durant les combats pour l’aéroport de Ming il semble qu’aucun Taliban afghan ou pakistanais n’ait été présent [51]. Dans les hôpitaux de l’arrière on a pu noter la présence croissante de combattants parmi les blessés et particulièrement celle de nombreux étrangers tels que des Daghestanais, Tchétchènes et Tadjiks ou même un Français et un Autrichien [52]. Certains membres du personnel hospitalier s’occupant de ces combattants ou des membres du personnel local de certaines ONG œuvrant dans la province d’Alep ont confirmé la présence de Talibans pakistanais ou afghans en Syrie mais aucun élément précis n’a pu être donné à ce sujet et dans la plupart des cas il s’agit de témoignages rapportés indirectement [53]. Les djihadistes étrangers opérant sur le front syrien tentent de rester discrets : ceux-ci s’efforcent de ne s’exprimer qu’en Arabe classique afin de ne pas être reconnus et leurs séjours dans les hôpitaux de l’arrière sont d’une durée très limitée, généralement suivie d’un transfert dans des maisons de convalescence ou de repos séparées et tenues par les groupes armés auxquels ils appartiennent [54].
Au cours de conversations tenues en mai 2013 à Kaboul avec des fonctionnaires du Ministère de la Justice afghane, un assistant du Procureur Général de la République Islamique d’Afghanistan ou des officiers de l’Armée Nationale Afghane il est apparu que très peu d’informations précises ou d’éléments concrets avaient pu être réunis au sujet de la présence de Talibans afghans en Syrie [55]. Une discussion que j’ai eu au cours de ce séjour avec un vénérable universitaire afghan ayant enseigné à l’Université de Pune en Inde ainsi qu’à Oxford et menant des recherches sur un tout autre sujet (la période troublée du court règne autocratique d’Habibullah Kalakâni dit « Batcha-e-Saqâo ») dévia sur la question du conflit syrien et put en revanche amener certaines pistes intéressantes [56]. Cet universitaire me confirma la présence de djihadistes afghans ou pakistanais en Syrie puis affirma qu’environ 700 Afghans y avaient perdu la vie au combat (aucune source précise n’a pu être fournie) et que leurs corps seraient ramenés en Afghanistan [57]. S’interrogeant sur ce phénomène et ses causes politiques ou historiques, il me fit part de ce qu’il voyait sincèrement comme un paradoxe: « Comment se fait-il que ceux qui sont des oppresseurs ici en Afghanistan (les Talibans) soient des combattants de la liberté [sic, le terme « freedom fighters » a bien été employé] en Syrie ? » [58]. Pour cet universitaire afghan qui n’est aucunement un fondamentaliste, la cause première du problème en Syrie ou en Afghanistan est liée aux systèmes politiques de ces deux pays ou plus clairement à leur régime formellement républicain : citant en exemple la Grande Bretagne ou l’âge d’or révolu du règne de Zaher Shah, il m’expliqua que la monarchie est un gage de stabilité ou de modération politique alors que la république ferait invariablement le lit des régimes autoritaires, dictatoriaux ou totalitaires [59]. Pour cet intellectuel afghan Bashar al-Assad et le Parti Ba’as ne seraient que des avatars syriens de Mohammed Najibullah et de l’ancien PDPA partageant de nombreux traits communs tels qu’un régime républicain autoritaire et se voulant plus ou moins laïc ou encore l’alliance stratégique et politique avec Moscou [60].
D’après un militant Taliban se faisant appeler Hamza la raison de la présence de ses camarades en Syrie n’est pas uniquement religieuse mais aussi la conséquence des opérations menées par les forces de sécurité pakistanaises dans les zones tribales pachtounes [61]. L’armée pakistanaise a accentué sa pression et sa surveillance sur les Talibans, en capturant un certain nombre comme Suleman en 2009 (suite à une attaque ayant tué 35 personnes à Lahore) et poussant ainsi les autres à s’exiler pour le front syrien [62]. Selon Hamza, Suleman a fait partie d’un groupe de 70 djihadistes envoyés en Syrie au cours des deux derniers mois et ce réseau est géré conjointement par le le TTP et le Lashkar-e-Jhangvi [63]. Ce second groupe de djihadistes provenant du Pakistan est composé de ressortissants de ce pays, originaires du Baloutchistan, du Penjab, de Karachi et bien évidemment de la Khyber Pakhtunkhwa (les fameuses zones tribales pachtounes) [64]. Hamza de son côté fait partie d’un autre peloton d’une quarantaine d’hommes qui devrait avoir rejoint le front syrien à l’heure actuelle [65]. Hamza a confié que son groupe n’incorporerait pas le Front Al-Nusra et qu’il ignorait dans quel milice seraient intégrés ses hommes mais il a pu en revanche livrer quelques informations intéressantes sur son réseau basé au Pakistan [66]. Ce réseau serait dirigé par un ancien cadre du Lashkar-e-Jhangvi répondant au nom d’Usman Ghani et l’ « autre membre clé est un combattant taliban pakistanais nommé Alimullah Umry, qui envoie des combattants à Ghani depuis Khyber Pakhtunkhwa » [67]. Les Talibans se rendraient en Syrie par divers itinéraires et certains seraient même partis avec leur famille [68]. Les Talibans les plus surveillés parviendraient à quitter secrètement le Pakistan en vedette rapide depuis les côtes du Baloutchistan puis à rejoindre le Sultanat d’Oman et sa capitale Mascate avant de se rendre en Syrie [69]. Les autres djihadistes pakistanais quittent leur pays par des vols commerciaux à destination du Sri Lanka, du Bangladesh, des Emirats Arabes Unis ou du Soudan puis empruntent différents itinéraires en direction de la Syrie [70].
Hamza a révélé que le financement de ces voyages proviendrait de sources basées aux Emirats Arabes Unis et à Bahreïn [71]. Son camarade Suleman se serait rendu au Soudan avec son épouse et leurs deux enfants en utilisant des faux passeports puis il aurait rejoint seul le front syrien [72]. Suleman a confirmé que des familles de djihadistes pakistanais partis en Syrie résident au Soudan où elles ne sont pas laissées à elles-mêmes dans la mesure où leur séjour est pris en charge par des sources qui n’ont pas été mentionnées [73]. Un membre du parti islamiste pakistanais Jamaat-e-Islami a de son côté confié anonymement à des journalistes d’Associated Press que des militants de cette organisation étaient également partis en Syrie mais sans passer par le biais d’un réseau organisé [74].
La journaliste ukrainienne Ahnar Kochneva a rapporté qu’au cours de sa capture par des rebelles syriens dans la localité de Zabadani elle a pu noter la présence de combattants tchétchènes, libyens, français et afghans [75]. Ahnar Kochneva a pu interroger ces Afghans quant à la raison de leur présence en Syrie et ceux-ci ont répondu : « On nous a dit que nous étions venus en Israël et la nuit nous tirons sur des bus israéliens. Nous luttons contre l’ennemi pour libérer la Palestine » [76]. Réalisant leur méprise ces derniers répondirent, surpris : « Nous sommes en Syrie ? Nous pensions que nous étions en Israël » [77]. Au début du mois d’août 2012 certaines sources gouvernementales syriennes rapportaient que 500 terroristes provenant d’Afghanistan avaient été éliminés au cours des combats à Alep : la plupart de ces djihadistes était composée de vétérans ayant combattu contre l’ISAF en Afghanistan [78]. Les forces armées syriennes ont rapporté que des dépouilles de combattants turcs avaient été également retrouvées à Alep [79]. Les opérations menées par les troupes gouvernementales durant la seconde moitié du mois de septembre à Alep auraient notamment permis l’élimination d’une centaine de djihadistes afghans déployés près de l’école Al-Fidaa al-Arabi dans le district de Bustan al-Qasr [80] mais les forces rebelles ont affirmé de leur côté que ce quartier n’avait fait l’objet d’aucune attaque [81].
Des Chiites afghans aux côtés des forces gouvernementales syriennes
L’implication de citoyens afghans dans le conflit syrien et le décès de 3 d’entre eux au printemps 2013 a poussé les autorités afghanes à diligenter une enquête mais le but de celle-ci n’est pas de faire la lumière sur les réseaux radicaux sunnites [82]. Cette enquête menée par le biais de l’ambassade d’Afghanistan en Jordanie vise plutôt à éclaircir un autre aspect du conflit portant sur l’implication de l’Iran et la présence supposée d’Afghans dans les rangs des combattants iraniens opérant en Syrie [83]. Radio Free Europe disposerait de preuves et plus particulièrement d’une vidéo montrant une carte d’identité afghane près d’un cadavre portant un uniforme de l’Armée Syrienne [84]. La victime répondrait au nom de Safar Mohammed, fils d’Ali Khan, et serait originaire de la province de Balkh [85]. Pour certains analystes, il ne fait aucun doute que l’Iran a envoyé des Afghans se battre aux côtés des forces syriennes pro-gouvernementales [84] mais très peu d’articles (surtout dans les langues occidentales) évoquent cet aspect encore plus méconnu du conflit. La page Facebook du « Hayaa el-Akila » (Comité de la Dame ou Noble Dame, en référence à Zaynab), un groupe de défense du sanctuaire chiite de Sayeda Zaynab, a pu apporter la preuve de la présence de Chiites afghans aux côtés des milices iraniennes, libanaises ou des forces gouvernementales [87]. Dans une photo postée sur la page Facebook de ce groupe on peut voir deux combattants aux traits afghans, sans barbes, armés d’une mitrailleuse PKM et d’un fusil de précision SVD Dragounov, équipés à la manière des forces gouvernementales syriennes et présentés comme étant des martyrs tués lors des combats à Joubar (quartier de Damas) contre les forces rebelles [88]. Dans une autre photo on voit ces deux martyrs en compagnie de deux de leurs camarades qui pourraient très probablement être des Afghans et qui sont également sans barbes, équipés comme les forces de sécurité syriennes, armés d’un RPG 7 et de ce qui semble être une AK 47 [89].
Le conflit frappant la Syrie et plus particulièrement sa dimension confessionnelle font craindre à juste titre un embrasement de certains pays où les relations entre Chiites et Sunnites sont déjà tendues, que ce soit au Moyen Orient, en Asie Centrale ou en Asie du Sud. L’attaque à la roquette du sanctuaire chiite renfermant le tombeau de Sayeda Zaynab (petite fille du Prophète Mahomet et fille de l’Imam Ali) à Damas le 19 juillet 2013 (le sanctuaire avait déjà été attaqué par un véhicule piégé le 14 juin 2012) par des radicaux sunnites a exacerbé ces tensions et suscité l’indignation des Chiites dans le monde musulman, notamment au Liban, en Irak, en Iran et au Pakistan [90]. La mosquée de Sayeda Zaynab (parfois appelé Bibi Zaynab) était protégée depuis 2012 par des combattants du Hezbollah libanais ainsi que des Chiites irakiens ou étrangers [91] appartenant au au Liwa’a Abu Fadl al-Abbas, une sorte de Brigade Internationale Chiite dirigée par Abou Ajib et Abou Hajar [92]. En avril 2013 le dirigeant du Parti d’Allah, Hassan Nasrallah, avait fermement menacé tout groupe qui tenterait de s’en prendre à ce mausolée : le 22 juillet 2013 le mausolée de Khalid bin Walid (un compagnon du Prophète), un sanctuaire sunnite, a été sérieusement endommagé lors de l’offensive de l’Armée Arabe Syrienne dans Homs et pour de nombreux sunnites ou membres de la rébellion, ceci a été perçu comme un acte de représailles en réponse à l’attaque du sanctuaire chiite de Damas [93].
A l’image de l’Irak ou du Liban (Sidon, Tripoli et Beyrouth Sud), certains pays d’Asie tels que l’Inde, le Pakistan ou l’Afghanistan connaissent de violentes tensions inter-communautaires entre Chiites et Sunnites et celles-ci pourraient encore plus se dégrader suite à ces attaques et à l’écart croissant de perception du conflit syrien au sein de ces deux communautés. Avant la guerre les Musulmans chiites d’Asie se rendaient souvent en pèlerinage au sanctuaire de Sayeda Zaynab et ceux-ci sont désormais convaincus que les radicaux sunnites ont délibérément attaqué le mausolée de la fille de l’Imam Ali et petite fille du Prophète [94]: le conflit syrien a servi de catalyseur à la rivalité entre Sunnites et Chiites mais loin de rester localisée ou cantonnée à certains pays musulmans, celle-ci revêt de plus en plus une dimension globale.
A Karachi, Islamabad et Quetta les Chiites pakistanais ont réagi par des manifestations et leurs coreligionnaires d’Inde et d’Afghanistan ont indiqué qu’ils feraient de même sous peu afin d’exprimer leur condamnation de cette attaque [95]. Les dirigeants de ces communautés chiites ont souhaité donner un caractère pacifique à leur mouvement de protestation mais le risque de dérapages ou de violences n’est pas à exclure si les forces de police locales tentent de disperser les manifestants par la force [96]. Les chiites pakistanais ne craignent pas seulement une possible et brutale répression policière de ces manifestations mais aussi des attentats visant leurs cortèges ou processions à Karachi, Lahore, Islamabad et Quetta [97]. La communauté chiite du Pakistan a été fréquemment la cible des fondamentalistes sunnites locaux dans le passé, notamment à l’occasion des grandes fêtes comme celle de l’Achoura et elle craint à nouveau d’être la victime d’engins explosifs improvisés (IED) ou d’attentats kamikazes organisés par le Lashkar-e-Jhangvi [98]. De tels actes ne manqueraient pas d’aggraver la situation et de déclencher de violentes émeutes à Lahore, Karachi ou Quetta [99]. En Inde, le mouvement de protestation découlant de l’attaque du sanctuaire de Sayeda Zaynab est enraciné dans les régions où vivent des communautés chiites, comme à Mumbai, Hyderabad, Bhopal, Lucknow et certaines parties de l’Uttar Pradesh [100]. Ce mouvement de protestation similaire à celui qui avait fait suite à l’attaque du mausolée de l’Imam Hussein à Kerbala (Irak) en 2005 devrait durer quelques semaines et s’étendre à l’Afghanistan où vivent les Hazaras : ces Chiites d’origine turco-mongole sont principalement localisés dans le Hazaradjat (Bamiyan et sa province), dans les districts de Taimani et Dashti Barchi à Kaboul [101] mais aussi au Pakistan et en Iran.
Le calvaire des réfugiés afghans en Syrie
Le conflit qui déchire la Syrie a coûté la vie à un très grand nombre de civils : 65 000 selon le Centre de Documentation des Violations en Syrie [102], 92 901 selon la Commission des Droits de l’Homme de l’ONU [103] ou encore 100 191 d’après l’Observatoire Syrien des Droits de l’Homme [104]. En plus de ces pertes humaines, 1 443 284 Syriens ont fui leur pays et de 2,5 à 4,25 millions de leurs compatriotes sont désormais des déplacés internes [105]. Le sort dramatique de la population civile syrienne ainsi que celui des minorités nationales est également partagé par un certain nombre d’étrangers, réfugiés ou requérants d’asile qui se sont retrouvés piégés dans le pays par le déclenchement des hostilités. On compterait dans le pays 2400 réfugiés et 180 requérants d’asile originaires de Somalie, 480 000 réfugiés irakiens ainsi que 1750 réfugiés et 190 requérants d’asile en provenance d’Afghanistan [106].
Ces derniers, qui sont pour la plupart Hazaras, se sont installés en Syrie pour raisons humanitaires et religieuses afin de fuir les persécutions dont ils faisaient l’objet en Afghanistan [105]. D’autres Hazaras ou Afghans de confession chiite se sont aussi établis en Syrie suite à des pèlerinages effectués dans les divers lieux saints du pays [108]. Les Afghans de Syrie et les réfugiés afghans qui résident essentiellement à Damas et dans ses environs ont vu leur situation se détériorer gravement à partir de juillet 2012 lorsque les combats touchèrent Sayeda Zaynab (quartier de Damas où est localisé le sanctuaire chiite du même nom) [109]: ils furent forcés de fuir et de s’installer dans des abris où ils vivent désormais de manière précaire [110]. Les Afghans chiites sont perçus par les rebelles syriens comme étant proches des Alaouites et sont donc vus comme des alliés du régime de Bashar Al-Assad mais dans les faits, leur neutralité affichée a au contraire suscité une certaine suspicion de la part des autorités ou de la communauté alaouite [111]. Les réfugiés afghans, facilement reconnaissables à leurs traits asiatiques ou à leur accent, ont été la cible de nombreuses violences, attaques ou actes de torture prenant la forme de persécutions à caractère religieux [112].
Dans une lettre adressée aux Nations Unies les réfugiés afghans ont expliqué qu’ « ils avaient été victimes de tortures et qu’ils avaient été menacés juste parce qu’ils sont différents et qu’ils croyaient dans une religion dite « Chiite » : une Afghane hospitalisée dans un état grave fut malmenée en raison de sa foi chiite et « plusieurs réfugiés afghans ont été capturés seulement parce qu’ils étaient « chiites » [113]. La nature sectaire de ces actes indique qu’ils sont bien souvent l’œuvre de groupes armés fondamentalistes sunnites (locaux ou étrangers) ou, comme ce fut le cas notamment en Irak, de groupes criminels ayant trouvé dans le Djihad un moyen de justifier et sanctifier leur business. Le 5 janvier 2013 une attaque au mortier tua deux jeunes Afghans de 17 et 18 ans, et en blessa grièvement 7 autres [114].
Après avoir été forcés de quitter Sayeda Zaynab, ces réfugiés se sont retrouvés dans une situation extrêmement précaire : les logements, hôtels ou abris pour réfugiés qu’ils occupaient ont été fréquemment pillés, détruits ou brûlés [115]. Les Afghans qui ont tenté de récupérer leurs biens laissés dans leurs anciens logements ont reçu des menaces et certains ont été enlevés [116]. Cette situation a poussé de nombreux Afghans à fuir la Syrie mais leur avenir semble être tout aussi incertain : pour la plupart ils n’ont plus de documents prouvant leur statut et beaucoup sont entrés à l’origine de manière illégale en Syrie [117]. Ne pouvant être pleinement assistés par le HCR, de nombreux Afghans en situation irrégulière ont été arrêtés par les forces de l’ordre syriennes avant d’être expulsés alors que d’autres ont pu rejoindre la Turquie pour y mener une existence précaire qui les jettera parfois dans les griffes des passeurs et des autres prédateurs du business de l’immigration clandestine. Les plus chanceux ont pu bénéficier de l’aide du Grand Ayatollah Sadiq al-Husaini al-Shirazi qui, en partenariat avec les autorités irakiennes, a permis l’installation de 500 familles afghanes à Kerbala [118]. D’après un réfugié afghan nommé Bakir Jafar, les bus transportant ses compatriotes ont été attaqué par des rebelles sunnites à la frontière avec l’Irak, forçant l’Armée Arabe Syrienne à intervenir : « Quand nous sommes arrivés à la frontière irakienne ils ont tenté de nous empêché de la franchir (…) Nous ne transportions pas d’armes et nous n’avons pas voulu prendre partie mais ils ont quand même fait feu avec leurs armes. L’Armée Syrienne les a empêché de faire feu davantage. S’ils ne l’avaient pas fait, nous aurions tous été tués » [119]. Les régions chiites de l’Irak méridional offrent aux réfugiés afghans un asile et une vie plus sûrs que ce qu’ils ont connu en Syrie mais la situation sécuritaire irakienne reste très préoccupante dans la mesure où le pays reste affecté par un conflit de basse voire moyenne intensité ainsi qu’une violence inter-communautaire forte entre Chiites et Sunnites (enlèvements, meurtres, attentats contre les mosquées du camp adverse, etc.). Kerbala étant une ville attirant de très nombreux pèlerins, les réfugiés afghans se sont plaints du coût de la vie qui y est beaucoup plus élevé qu’à Damas [120] mais ils ne peuvent pas pour autant s’installer dans d’autres régions d’Irak dans la mesure où leur sécurité n’y serait pas garantie et où leur vies y seraient autant menacées qu’en Syrie ou en Afghanistan.
Gilles-Emmanuel Jacquet
À propos de l'auteur
Titulaire d’un Master en Science Politique de l’Université de Genève et d’un Master en Études Européennes de l’Institut Européen de l’Université de Genève, Gilles-Emmanuel Jacquet s’intéresse à l’Histoire et aux Relations Internationales. Ses champs d’intérêt et de spécialisation sont liés aux conflits armés et aux processus de résolution de ces derniers, aux minorités religieuses ou ethnolinguistiques, aux questions de sécurité, de terrorisme et d’extrémisme religieux ou politique. Les zones géographiques concernées par ses recherches sont l’Europe Centrale et Orientale, l’espace post-soviétique ainsi que l’Asie Centrale et le Moyen Orient.
Notes
[1] Ghaith Abdul-Ahad, « Syria: the foreign fighters joining the war against Bashar al-Assad », The Guardian, 23/09/2012 et Hala Jaber, « Jihadists pour into Syrian slaughter », The Sunday Times, 17/06/2012
[2] Sur cette problématique voir Sebastian R. Müller, Hawala : An informal payment system and its use to finance terrorism, VDM Verlag Dr Müller, 2007 ; Committee on Banking, Housing, and Urban Affairs of the United States Senate, « Hawala and underground terrorist financing mechanisms », 14/11/2001 ; Charles B. Bowers, « Hawala, money laundering, and Terrorism finance: micro-lending as an end to illicit remittence », Denver Journal of International Law and Policy, 07/02/2009 ; David C. Faith, « The Hawala System », Global Security Studies, Winter 2011, Volume 2, Issue 1 et « Terror financing reliant on Hawala, NPOs », Money Jihad, 04/02/2013
[3] « Syrian rebels funded by Afghan drug sales », RIA Novosti, 11/04/2013
[4] « 3000 Turkish terrorists trained in Afghanistan for Syria war », Afghan Voice Agency, 18/12/2012
[5] Ibid.
[6] « Taliban militants use Turkey to infiltrate into Syria: Turkish lawmaker », Press TV, 19/12/2012
[7] Ahmed Wali Mujeeb, « Pakistan Taliban sets up a base in Syria », BBC News, 12/07/2013 et Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[8] [Ibid.].
[9] [Ibid.].
[10] [Ibid.].
[11] Maria Golovnina et Jibran Ahamd, « Pakistan Taliban set up camps in Syria, join anti-Assad war », Reuters, 14/07/2013
[12] Ibid.
[13] Ibid.
[14] Mushtaq Yusufzai, « Pakistani Taliban: « We sent hundreds of fighters to Syria », NBC News, 15/07/2013 et Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013
[15] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[16] Ibid. et Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[17] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[18] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[19] Ibid.
[20] Ibid.
[21] « Pakistan: Shia killings escalate », Human Rights Watch, 05/09/2012
[22] « Pakistan bombing kills Shia pilgrims », CBC News, 30/12/2012
[23] « Anti-Shiite attacks up in Pakistan ; analysts say officials give militants room to operate », Fox News, 09/03/2013
[24] « Death toll in Pakistan’s anti-Shia attack rises to 90 », Press TV, 19/02/2013
[25] « Anti-Shiite attacks up in Pakistan ; analysts say officials give militants room to operate », Fox News, 09/03/2013
[26] « Bomb attack targeting Shia mosque in Pakistan kills 15 », Press TV, 21/06/2013
[27] « Taliban kill Shia school children in ambush in Hangu », LUBP, 27/02/2009
[28] « 10 Shia martyred in an attack near Hangu, by terrorist of Tehrik-e-Taliban », Jafria News, 13/03/2011
[29] « Death toll in Pakistan’s anti-Shia attack rises to 90 », Press TV, 19/02/2013 ; « Pakistan bomb: 21 die in Hangu Shia suicide attack », BBC News, 01/02/2013 ; « Hangu: blast outside Shiite Mosque leaves 22 dead », Shia Killing / PakShia, 01/02/2013 et « Suicide blast outisde Hangu mosque claims 27 lives », Dawn, 01/02/2013
[30] « Sipah-e-Mohammed, Terrorist group of Pakistan », South Asia Terrorism Portal
[31] Source locale confidentielle
[32] Source locale confidentielle
[33] « Mais s’ils implorent votre appui à cause de la foi, vous le leur accorderez, à moins que ce ne soit contre ceux qui sont vos alliés en vertu des pactes que vous avez noués avec eux. Allah le Très-Haut voit toutes vos actions », sourate 8 verset 72 « Al-Anfal », Coran.
[34] Hizb-ut-Tahrir, « Supporting Syria is a duty on the Pakistani military not just the Taliban », Khilafah, 15/07/2013
[35] Ibid.
[36] Ibid.
[37] Ibid.
[38] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[39] Ibid.
[40] Ibid.
[41] Ibid.
[42] Ibid.
[43] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
Notes
[41] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[42] Ibid.
[43] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[44] « From the mountains of Afghanistan to Syria: the Taliban are always there », Live Leak, 20/04/2013
[45] Ibid.
[46] Ibid.
[47] « Report: Syria militants behead two Christians », Syria Report, 26/06/2013 et « Youtube video shows graphic scenes of Franciscan monk’s beheading », Religious Freedom Coalition, 27/06/2013
[48] Bill Roggio et Lisa Lundquist, « Syrian jihadists behead Catholic priest, 2 others », The Long War Journal, 01/07/2013
[49] « Syrie / Idlib: décapitation publique de trois Syriens », Youtube, 26/06/2013 ; « Report: Syria militants behead two Christians », Syria Report, 26/06/2013 et Bill Roggio et Lisa Lundquist, « Syrian jihadists behead Catholic priest, 2 others », The Long War Journal, 01/07/2013
[50] Sources locales confidentielles
[51] Sources locales confidentielles
[52] Sources locales confidentielles
[53] Sources locales confidentielles
[54] Sources locales confidentielles
[55] Sources locales confidentielles
[56] Source locale confidentielle
[57] Source locale confidentielle
[58] Source locale confidentielle. De mon côté je ne partage pas cette analyse et me demande plutôt comment on peut penser ou expliquer qu’un bourreau dans un pays devienne un saint dans un autre alors que son idéologie ou ses méthodes ne changent pas et que les deux contextes dans lesquels il opère sont très différents.
[59] Source locale confidentielle
[60] Source locale confidentielle
[61] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[62] Ibid.
[63] Ibid.
[64] Ibid.
[65] Ibid.
[66] Ibid.
[67] Ibid.
[68] Ibid.
[69] Ibid.
[70] Ibid.
[71] Ibid.
[72] Ibid.
[73] Ibid.
[74] Ibid.
[75] « Syrian rebels tried to kill UK journalists ; Afghans in Syria », AANGIRFAN, 08/06/2012
[76] Nora Lambert, « Eyewitness account: Media lies about Syria », GB Times, 05/06/2012 ; « Eyewitness and Journalist: Western Media lie about Syria », Syria – The Real Deal, 07/06/2012 et « Syrian rebels tried to kill UK journalists ; Afghans in Syria », AANGIRFAN, 08/06/2012
[77] Ibid.
[78] Aaron Klein, « Claim: Afghan mujaheeden now fighting for U.S.-supported Syrian opposition », Klein Online, 02/08/2012
[79] Hadeel al-Shalchi, « Assad’s forces pound rebel stronghold in Aleppo », Reuters, 05/08/2012
[80] Matthew Weaver et Brian Whitaker, « Syria receiving Iranian arms « almost daily » via Iraq », The Guardian, 20/09/2012 ; « Syrian forces kill 100 Afghani « terrorists », SANA, 21/09/2012 ; « Syrian troops kill 100 « Afghani fighters », Xinhua, 20/09/2012 ; « Syrian forces killed 100 Afghan insurgents », CounterPsyOps, 21/09/2012 ; « Syrian forces kill 100 Afghan insurgents in Aleppo », Press TV, 20/09/2012 ; « In Syria: Afghan militants killed, helicopter goes down », Al Manar, 20/09/2012 et R. Raslan, H. Saïd et Ghossoun, « One hundred Afghani terrorists killed in Aleppo, Dshk-equipped cars destroyed in Aleppo and Homs », Syrian Arab News Agency, 20/09/2012
[81] Erika Solomon et Oliver Holmes, « Syrian air strike kills at least 54: activists », Reuters, 20/09/2012
[82] Meena Haseeb, « Afghans involvement in Syria war to be investigated: Mosazai », Khaama Press, 08/04/2013
[83] Ibid. et « Three Afghans killed in Syria », Bakhtar News, 04/02/2013
[84] Meena Haseeb, « Afghans involvement in Syria war to be investigated: Mosazai », Khaama Press, 08/04/2013
[85] Ibid.
[86] Ibid.
[87] Page Facebook du Hayaa el-Akila 1 et 2
[88] Page Facebook du Hayaa el-Akila
[89] Page Facebook du Hayaa el-Akila
[90] « Syria shrine attack likely to trigger wider regional protests », IHS Jane’s Intelligence Weekly, 21/07/2013
[91] Ibid.
[92] Philip Smyth, « Hizballah Cavalcade: What is the Liwa’a Abu Fadl al-Abbas (LAFA)?: Assessing Syria’s Shia “International Brigade” through their social media presence », Jihadology, 15/05/2013 ; Mona Mahmood et Martin Chulov, « Syrian war widens Sunni-Shia schism as foreign jihadis join fight for shrines », The Guardian, 04/06/2013 ; Suadad al-Salhy, « Iraqi Shi’ites flock to Assad’s side as sectarian split widens », Reuters, 19/06/2013 et « Fierce clashes in Damascus district: NGO », AFP, 19/06/2013
[93] « Syria shrine attack likely to trigger wider regional protests », IHS Jane’s Intelligence Weekly, 21/07/2013
[94] Ibid.
[95] Ibid.
[96] Ibid.
[97] Ibid.
[98] Ibid.
[99] Ibid.
[100] Ibid.
[101] Ibid.
[102] Violation Documentation Center on Syria ; pour une description détaillée cliquez ici
[103] Chiffre d’avril 2013, Ian Black, « Syria deaths near 100,000, says UN, – and 6,000 are children », The Guardian, 13/06/2013
[104] Chiffre de juin 2013, page Facebook de l’Observatoire Syrien des Droits de l’Homme
[105] « Syria: A full-scale displacement and humanitarian crisis with no solutions in sight », Internal Displacement Monitoring Centre, 16/08/2012 et « 2013 UNHCR country operations profile – Syrian Arab Republic », UNHCR
[106] « 2013 UNHCR country operations profile – Syrian Arab Republic », UNHCR
[107] Ahmad Shuja, « Syria’s Afghan refugees trapped in a double crisis », UN Dispatch, 28/01/2013 et Mohammed Hamid al-Sawaf, « Religious mission: Damascus’ Afghan refugees end up in Iraq », Niqash, 25/10/2012
[108] Ibid.
[109] Voir la photo de certains membres de la communauté afghane de Sayeda Zaynab entourant un religieux chiite devant le sanctuaire et accompagnée de la mention « Qu’Allah protège toute la communauté afghane de Sayeda Zaynab ainsi que tous les habitants du quartier provenant de tous les pays et de toutes les communautés », page Facebook du Hayaa el-Akila
[110] Ahmad Shuja, « Syria’s Afghan refugees trapped in a double crisis », UN Dispatch, 28/01/2013
[111] Ibid.
[112] Ibid.
[113] Ibid.
[114] Ibid.
[115] Ibid.
[116] Ibid.
[117] Ibid.
[118] Mohammed Hamid al-Sawaf, « Religious mission: Damascus’ Afghan refugees end up in Iraq », Niqash, 25/10/2012
[119] Ibid.
[120] Ibid.
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Joschka Fischer: écolo payé par les lobbies de l’énergie nucléaire...
Joschka Fischer: écolo payé par les lobbies de l’énergie nucléaire...
Joseph Fischer, dit “Joschka” Fischer, a été le ministre vert des affaires étrangères de la RFA sous le “règne” du Chancelier socialiste Gerhard Schröder. Aujourd’hui, le voilà qui travaille pour les consortiums de l’énergie nucléaire! Il est effectivement actif comme “lobbyiste” pour Siemens, BMW, l’OMV et RWE. Si on examine bien sa biographie, son itinéraire politique, force est de constater que sa vie est un long cortège de contradictions. Dans ses jeunes années, Fischer était l’un de ces extrémistes de gauche typiquement allemands, convaincu et fanatique. Il a été membre de l’APO (l’“Opposition Extra-Parlementaire”), du groupe radical et militant “Lutte Révolutionnaire” (“Revolutionärer Kampf”) puis des “Cellules Révolutionnaires” (“Revolutionäre Zellen”) et a entretenu des contacts avec des militants de gauche qui ont assassiné le ministre hessois de l’économie Heinz Herbert Karry.
Cet homme qui, jadis, combattait le capitalisme au sein de la gauche radicale la plus dure, cet homme qui bastonnait les policiers hessois, est le même qui, devenu membre du gouvernement fédéral rouge-vert, donna son approbation à l’engagement de troupes allemandes dans des conflits extérieurs, pour la première fois depuis la fin de la seconde guerre mondiale. Il a livré ainsi à l’OTAN des régiments allemands pour qu’ils soient engagés au Kosovo d’abord, en Afghanistan ensuite.
Fischer, l’homme qui, dans son jeune temps, avait ouvert une “Librairie Karl Marx”, prononce désormais des conférences à la tribune de Goldmann-Sachs et à celle de Barclay Capital et se remplit les poches avec l’argent de l’industrie nucléaire.
Les extrémistes de gauche professionnels ne sont donc plus ce qu’ils ont été...
(note parue dans “zur Zeit”, Vienne, n°33-34/2013; http://www.zurzeit.at ).
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lundi, 19 août 2013
Villes et communes allemandes à bout de souffle
“Anton BESENBACHER” (’t Pallieterke):
Villes et communes allemandes à bout de souffle
La ville de Detroit aux Etats-Unis est en faillite. Nous l’avons tous appris. Cette ville, pionnière de l’industrie automobile, ne peut plus payer ses factures. Par le biais de Dexia, cette affaire prend une petite tonalité belge... Passons... En Allemagne, les villes et les communes ne peuvent pas faire faillite. Si une ville ne peut plus payer ses créanciers, le Land intervient. Et si le Land ne peut plus payer les factures, alors le niveau fédéral saute sur la brèche. Et si l’Allemagne toute entière perd crédibilité en matière de crédit, alors les contribuables doivent tout simplement payer des impôts supplémentaires.
L’idée qu’un pouvoir public puisse faire banqueroute est incompatible avec la législation mais aussi avec la vision que l’on a toujours cultivée en Europe de ce que doivent être des pouvoirs publics. Les pensions du personnel communal ne seraient plus payées en cas de faillite d’une commune ou d’une ville. Les fonctionnaires seraient tous jetés à la rue, les hôpitaux et les écoles fermeraient leurs portes et on mettrait un terme à toute une série d’initiatives sociales. De tels scénarios, nous, Européens, ne pouvons pas nous les imaginer!
C’est sans doute une bonne nouvelle. Passons maintenant à la mauvaise nouvelle. Dans le jargon spécialisé, il existe une expression: “moral hazard”. Les sociologues universitaires entendent, par cette expression, le fait que les gens, les institutions, les établissements d’enseignement et les entreprises deviennent très vite imprudents voire totalement irresponsables quand ils pensent que les factures seront toujours payées en fin de compte, même par des tiers. Fortes de cette certitude, les communes et les institutions prennent des risques inconsidérés, engagent des dépenses déraisonnables qu’on ne prendrait pas si on savait que la facture finale serait pour sa propre escarcelle. A cela s’ajoute que les villes et les communes peuvent emprunter à des taux très avantageux, aux tarifs des pouvoirs publics allemands dont elles relèvent. Le niveau fédéral allemand accorde de toutes façons sa garantie. Les villes qui ont de fortes dettes peuvent continuer, sans aucun problème, à s’alimenter sur le marché des capitaux et ne sont pas sanctionnées par des taux d’intérêts plus élevés. Bref, c’est le scénario grec en Allemagne!
Si on examine les administrations locales, on doit bien constater que la Grèce se trouve aussi en Germanie. Des centaines de villes et de communes allemandes sont en fait en état de banqueroute et ne sont pas déclarées telles officiellement pour les riasons que nous venons d’évoquer et parce que les lois permettent ce tour de passe-passe.
Oberhausen, au Nord-Ouest de la région de la Ruhr, compte plus ou moins 210.000 habitants. Cette ville s’était développée jadis grâce à ses mines de charbon. Offenbach, dans le Land de Hesse, près de Francfort sur le Main, est également baignée par cette rivière du centre du pays et compte, elle, quelque 120.000 habitants. Bremerhaven compte à peu près autant d’habitants et est, comme son nom l’indique, une ville portuaire. Elle se trouve sur la Weser et s’appelait jusqu’en 1947 Wesermünde. Ce sont les trois grandes villes allemandes qui sont financièrement au bout du rouleau aujourd’hui. On le remarque d’ailleurs tout de suite. Les infrastructures comme les piscines publiques sont fermées. Les rues ne sont plus entretenues. Les écoles sont dans des états déplorables. Si le désastre financier qui les frappe prend encore un peu d’ampleur, les pouvoirs publics de plus haut niveau n’interviendront plus. Le fête finit toujours par s’achever.
Ah! Si ces villes allemandes étaient Detroit...
Seuls les bons connaisseurs de l’Allemagne pourront situer Oberhausen, Offenbach et Bremerhaven sur la carte. Berlin, Hambourg et Brème sont toutefois des villes connues bien au-delà des frontières allemandes. Pour les amateurs de nouvelles déprimantes: Detroit, aux Etats-Unis, laisse une dette de 20.500 euro par habitant. Les habitants de Hambourg, eux, ont une dette de 20.800 euro par tête. Pour les Berlinois, c’est mille euro de plus. Brème tient le pompon avec une dette urbaine de 34.200 euro par habitant. Donc Brème respirerait si elle pouvait échanger ses dettes contre celles de Detroit.
Selon la Ligue des contribuables allemands, la situation est bien plus dramatique. Pour ce groupe de pression, qui s’est donné pour tâche de veiller à un bon usage de l’argent du contribuable par les pouvoirs publics, les villes et les communes ne pourraient en réalité reprendre que 44% de leurs dettes dans leurs budgets. Les villes les plus touchées luttent contre des déficits structurels patents. Elles se trouvent surtout dans la région de la Ruhr, où elles s’étaient développées avec brio jadis grâce aux mines et à la sidérurgie, ou dans le Nord où les chantiers navals avaient généré le bien-être général. Ces temps heureux sont passés. Le déclin est vite venu. Les revenus de ces villes ont chuté parce que bon nombre d’habitants sont devenus chômeurs et parce que, de ce fait, les dépenses sociales ont augmenté.
Comme les édilités locales n’aiment pas prendre des mesures impopulaires, elles ont tenté de maintenir à flots le paiement des revenus de substitution, tout en diminuant considérablement —jusqu’au minimum du minimum— les investissements sur le long terme. L’an passé, les villes et les communes ont dépensé 187 milliards d’euro; dans cette somme, seuls 20 milliards étaient consacrés à des investissements, soit 11% de moins encore qu’en 2011. La politique que ces édilités poursuivent est donc de combler les trous à court terme, de façon à accroître encore leurs dimensions sur le long terme.
Les administrations communales se plaignent parce que les citoyens font de plus en plus appel aux pouvoirs publics locaux pour toutes sortes de choses, anciennes et nouvelles. L’Etat doit toujours être prêt à financer ces exigences ou à apporter son soutien. Augmenter les impôts serait fatal pour les édilités communales lors des élections à venir. Emprunter est donc beaucoup plus facile...
Anton BESENBACHER.
(article paru dans “ ’t Pallieterke”, Anvers, 24 juillet 2013).
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mercredi, 14 août 2013
Presseschau - August 2013
Presseschau
August 2013
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dimanche, 11 août 2013
Quelques notes sur le Pakistan
Robert Steuckers:
Quelques notes sur le Pakistan
Notes complémentaires à une conférence tenue à la tribune de l’ASIN (“Association pour une Suisse Indépendante et Neutre”), le 31 octobre 2012, à Genève, et à la tribune du “Cercle non-conforme”, le 14 novembre 2012, à Lille.
Les Etats-Unis ont donné au Pakistan, depuis les années 50, deux missions qui, au fil du temps, se sont avérées contradictoires: d’une part, demeurer un allié des Etats-Unis dans la politique d’endiguement de l’URSS et de la Chine (du moins jusqu’en 1972) et, d’autre part, soutenir les Talibans, soi-disant ennemis de l’Occident et des Etats-Unis, à partir de 1978-79, au moment où l’Iran tombe aux mains de Khomeiny et des pasadarans et où l’Afghanistan opte, après le départ de Zaher Shah, pour une politique pro-soviétique, que les puissances anglo-saxonnes ne peuvent tolérer en vertu de théories géopolitiques traduites sans faille dans la réalité politique mondiale depuis leur émergence dans l’oeuvre du stratégiste Homer Lea, rédigée dans la première décennie du 20ème siècle.
La politique pakistanaise a dès lors été fluctuante, fluctuations dont il faut retenir la chronologie pour ne pas se laisser duper par les médias dominants qui déploient leurs stratégies en pariant sur l’amnésie des peuples et des élites, mêmes académiques:
1. Le Pakistan d’Ali Bhutto penchait quelque peu vers le non alignement, raison pour laquelle cet homme politique a été éliminé et pendu pour être remplacé par le Général Zia ul-Hak; Ali Bhutto avait aussi le désavantage, dans une république islamique comme le Pakistan, structurée par le mouvement sunnite “déobandi”, fondé en 1867, sous la domination britannique, d’avoir été chiite et partisan de la laïcité; il s’opposait au mouvement Jamaat-e-Islami fondé par le théologien Mawdoudi en 1941, très critique à l’égard du fondateur de la future république Islamique du Pakistan, Mohammed Ali Jinnah, trop “laïque” à ses yeux, trop inspiré par des modèles européens, dont l’Italie mussolinienne;
2. Zia ul-Hak suit les ordres des Etats-Unis et s’aligne sur la géopolitique préconisée par Zbigniew Brzezinski: il coopère avec les Mudjahiddins puis les Talibans en leur prêtant l’appui des services secrets pakistanais, l’ISI; le raisonnement de Zia ul-Hak n’est pas seulement pro-occidental; il ne s’inscrit pas entièrement, du point de vue national pakistanais, dans le cadre de la coopération américano-pakistanaise, en vigueur depuis les années 50: pour ce militaire arrivé au pouvoir par un coup de force, Islamabad doit se doter d’une “profondeur stratégique”, en coopérant avec les Talibans d’ethnie pachtoune, pour faire face à l’ennemi héréditaire indien, doté de l’arme nucléaire. Cette coopération armée/talibans vise à terme à unir stratégiquement les territoires afghan et pakistanais, avec l’appui stratégique des Etats-Unis et la manne financière islamique-saoudienne (versée essentiellement aux “medressahs” déobandies, chargées par le mouvement “déobandi” de ré-islamiser les masses dans l’ancien Raj indien sous domination britannique; depuis l’indépendance et depuis l’entrée des troupes de Brejenev à Kaboul en 1979, il forme des combattants de la foi, actifs au Cachemire et, très probablement, en Afghanistan). Le raisonnement de Zia ul-Hak est historique: c’est au départ du territoire afghan que les armées musulmanes ont lancé leurs offensives en direction du bassin du Gange et se sont rendues maîtresses du sous-continent indien jusqu’à l’arrivée des Britanniques au 18ème siècle; le fondateur de la République islamique du Pakistan, Mohamed Ali Jinnah rêvait d’ailleurs de reconstituer l’ancien Empire moghol; de ce fait, les intérêts musulmans traditionnels et les intérêts américains coïncidaient; pour les Pakistanais, il fallait reconstituer le glacis offensif de l’islam sunnite d’antan et menacer ainsi l’Inde, leur ennemi n°1, en disposant des mêmes atouts territoriaux (la “profondeur stratégique”) que leurs ancêtres spirituels depuis le 10ème siècle; pour les Etats-Unis, il fallait une base opératoire en marge de l’Afghanistan en voie de soviétisation, quelle qu’elle soit, pour contrôler à terme l’Afghanistan et menacer indirectement l’Inde, alliée de l’URSS puis de la Russie, et encercler l’Iran chiite, le coincer entre un bloc sunnite-wahhabite saoudien et un bloc afghano-pakistanais, également sunnite; d’autres menaces, par terrorisme interposé, étaient articulées par les services pakistanais contre l’Inde, notamment par le soutien apporté aux mouvements islamistes “Lashkar-e-Taiba” (“Armée des Purs”) ou “Jaish-e-Mohammad” (“Armée du Prophète”), actifs dans toute l’Inde mais surtout au Cachemire-et-Jammu, province himalayenne disputée entre les deux pays depuis la partition de 1947; après le 11 septembre 2001, la stratégie d’appui aux talibans n’est plus poursuivie par les Etats-Unis, qui demandent donc aux services pakistanais de cesser tout appui aux fondamentalistes afghans, ce qui ruine d’office la volonté pakistanaise de faire d’un Afghanistan fondamentaliste l’hinterland géostratégique nécessaire face à la masse territoriale indienne et ce qui disloque simultanément le dispositif pakistanais de guerre indirecte (contre l’Inde) par mouvements islamo-terroristes interposés;
3. Zia ul-Hak mort, le pouvoir revient, par le biais d’élections, à la fille de sa victime, Ali Bhutto, Benazir Bhutto, présidente du “Mouvement pour la restauration de la démocratie”; en dépit de sa réputation de chiite modérée et moderniste et de son démocratisme hostile aux militaires putschistes, Benazir Bhutto ne change pas fondamentalement la politique engagée par Zia ul-Hak: elle découple l’ISI de l’état-major, le rendant plus indépendant encore, et appuie les opérations militaires des talibans en Afghanistan, visant à chasser un gouvernement trop favorable aux Russes, même après l’effondrement définitif de l’URSS;
4. Musharaf —successeur de Zia ul-Hak après la mort de ce dernier en 1988 dans un accident (?) d’avion et de Mian Nawaz Sharif, renversé par un nouveau coup d’Etat en 1999— s’est retrouvé, passez-moi l’expression, le “cul entre deux chaises”, dès que la politique américaine est devenue ambigüe à l’égard des talibans, leurs anciens alliés, puis franchement hostile après le 11 septembre 2011; Musharaf devait lutter contre ses propres services, contre un ISI découplé de l’état-major général des armées par Benazir Bhutto et, par conséquent, devenu beaucoup plus “opaque”, contre les talibans (héritiers directs des Mudjahiddins anti-soviétiques) et contre le parti MMA fondamentaliste, très puissant au parlement, au nom d’une alliance américaine ancienne qui, à un certain moment, avait parié sur l’islamo-terrorisme pour chasser les Soviétiques ou les gouvernements afghans pro-soviétiques ou pro-russes, avant de se retourner contre leur propre golem; de plus, Musharaf, arrivé au pouvoir suite à un coup d’Etat, devait donner des gages à ses “alliés” américains, et promouvoir un semblant de démocratie, système qui était refusé par de larges strates de l’opinion publique, sous la forte influence des fondamentalistes, soucieux de rétablir une “sharia” pure et dure, foncièrement hostile aux idées occidentales; par ailleurs, les forces démocratiques luttaient, elles aussi, contre un pouvoir mis en place par les militaires au nom de la clause de “nécessité”; Musharaf devait constamment prouver aux Américains que le “pouvoir fort” des militaires était le seul rempart possible contre les fondamentalistes, alliés aux talibans et hostiles à toute alliance occidentale; son successeur Asif Ali Zardari a hérité de cette situation difficile, où les groupes armés fondamentalistes et la puissante caste militaire du pays n’aiment pas la “transition démocratique” imposée par Washington; Zardari souhaite aussi une “paix en Afghanistan” qui aille dans le sens des intérêts pakistanais et non indiens;
5. Ralph Peters, colonel de l’armée des Etats-Unis, face à ce Pakistan fragilisé, brandit indirectement une menace, qui s’adresse aussi à l’Arabie Saoudite, à l’Iran et à la Turquie: celui de réduire leurs territoires nationaux respectifs en pariant sur les séditions et les particularismes religieux et ethniques. Si le Pakistan ne joue pas le jeu que Washington lui impose, en dépit des contradictions que ce jeu implique, les Etats-Unis feront miroiter l’émergence d’un Patchounistan indépendant regroupant les régions afghanes et pakistanaises où vivent les tribus pachtounes et l’émergence d’un Beloutchistan, également indépendant et regorgeant de matières premières importantes, qui regrouperait les territoires iraniens et pakistanais où vit le peuple beloutche (5 à 10% seulement de la population pakistanaise).
Ralph Peters: faire chanter le Pakistan
Le soutien potentiel de Washington et des autres Etats occidentaux à d’éventuels indépendantistes pachtounes ou beloutches, que fait entrevoir le Colonel Peters en commentant sa cartographie prospective du Proche- et du Moyen-Orient, sert à faire chanter le Pakistan et à l’obliger à réduire les activités trop “talibanistes” et anti-occidentales des éléments pachtouns dans les provinces frontalières bordant l’Afghanistan, ruinant du même coup toute la stratégie de soutien à des mouvements islamo-terroristes, d’abord entraînés pour combattre les Indiens au Cachemire ou pour déstabiliser l’Inde de l’intérieur. Les talibans pachtouns/afghans tout comme les islamistes en lutte contre l’Inde forment un tout, contrôlé en dernière instance par l’ISI, un tout pourvu de nombreuses passerelles: le Pakistan ne peut trancher dans le vif de cet ensemble sans se défaire de l’arme indirecte qu’il s’est forgée au fil des décennies pour lutter contre son voisin indien, notamment en manipulant le “Hizb ul-Mujahidin” et le “Jaish-e-Muhammad” au Cachemire. Participer à la “guerre contre la terreur”, voulue par les deux présidents néo-conservateurs, le père et le fils Bush, équivaut, pour le Pakistan à se faire la guerre à lui-même, à démanteler son système offensif de défense, dont certains éléments forts se révoltent, notamment en créant le TTP (“Tehrik-e-Taliban Pakistan” ou “Mouvement des Talibans du Pakistan”), dont le porte-paroles Eshanullah Ehsan déclare que, désormais, “Zardari et l’armée sont nos premières cibles” et que “l’Amérique viendra en second”.
Réduire le Pakistan à une bande territoriale sans profondeur stratégique?
Quant aux tentatives de rapprochement entre l’Inde et les Etats-Unis, elles fragilisent le Pakistan, soucieux de sa profondeur stratégique, qu’il perdrait automatiquement, et de manière particulièrement dangereuse, si un Patchounistan et un Beloutchistan indépendants s’inscrivaient sur la carte politique du monde, comme y ont récemment été inscrits de nouveaux Etats sécessionistes, comme le Kosovo ou le Sud-Soudan, avec l’appui de Washington. On commence à entrevoir pourquoi l’indépendance du Kosovo et celle du Sud-Soudan servent surtout à créer des précédents à répéter, le cas échéant, dans des zones de turbulences encore plus chaudes... Un Pakistan privé de ses provinces pachtounes et beloutches et réduit au Punjab et au Sindh ne serait d’ailleurs plus qu’une bande territoriale étroite et surpeuplée, s’étirant du Sud (Karachi) au Nord (Islamabad et Rawalpindi), cette fois sans aucune “profondeur stratégique”, à la merci de son ennemi héréditaire indien. Islamabad veut intervenir dans le processus de paix en Afghanistan, de manière à y faire valoir ses intérêts stratégiques, quitte à absorber tacitement, et sur le long terme, les régions pachtounes et beloutches de l’Afghanistan, de façon à former un Etat “quadri-ethnique” des Pachtouns, Beloutches, Punjabis et Sindhis: en effet, les relations cordiales entre le nouveau pouvoir afghan, mis en place par les Américains dès octobre 2011, et l’Inde inquiètent fortement Islamabad, angoissé à l’idée d’un encerclement potentiel aux conséquences désastreuses. L’Afghanistan n’a jamais reconnu le tracé de la “ligne Durand”, séparant l’Afghanistan du Pakistan depuis 1893, à l’époque de la plus grande gloire de l’Inde britannique. Cette non reconnaissance de la frontière actuelle permet d’inciter toutes les formes d’irrédentisme pachtoun. Pour y faire face, le Pakistan opte pour une alliance inter-pachtoun (mieux vaut prévenir que guérir...), regroupant les Pachtouns du Pakistan et d’Afghanistan, soustraits à toute influence indienne et dont l’armée serait encadrée par des officiers pakistanais.
Le Pakistan quitte-t-il l’orbite occidentale?
Face à la menace de “balkanisation” théorisée par Peters, le Pakistan ne reste toutefois pas inactif, comme le resterait un pays européen complètement émasculé: il a demandé le statut d’observateur dans le “groupe de Shanghaï”; il a renforcé ses liens anciens avec la Chine, noués lors de leur inimitié commune contre l’Inde dans la zone himalayenne et renforcés dès la signature des accords sino-américains forgés par Kissinger au début des années 70; le Pakistan tente d’entretenir de nouveaux rapports bilatéraux avec la Russie depuis juin 2009, qui auraient pour corollaire que le Pakistan abandonnerait à terme son inféodation à la géopolitique américaine héritée de la Guerre Froide et oublierait les effets négatifs du soutien soviétique puis russe à l’Inde. Lavrov est partisan d’un changement dans ce sens, souhaite de bons rapports russo-pakistanais mais sans rien lâcher de l’amitié russo-indienne. L’objectif russe est clair sur ce chapitre: il faut consolider le “Groupe de Shanghaï” et l’alliance informelle des “BRICS”. Derrière cette politique se profile un objectif évident et pacifiant: plus de conflits sur la masse continentale eurasienne! Les conseiles russes ont permis un rapprochement très timide avec le voisin indien (que n’admettent évidemment pas les extrémistes du TTP, susceptibles de s’y opposer par la manière forte).
Enfin, en dépit de la vieille hostilité entre Chiites et Sunnites, qui faisait du Pakistan un ennemi de l’Iran depuis la chute du Shah, Islamabad renforce ses liens avec Téhéran, ce qui inquiète non seulement les Américains mais aussi et surtout les Saoudiens: le tandem américano-saoudien parie sur le gazoduc “TAPI” (Turkménistan, Afghanistan, Pakistan, Inde), qui évite les territoires iranien et russe, alors que les accords irano-pakistanais visent à finaliser le gazoduc “IPI” (Iran, Pakistan, Inde), passant par le territoire des ethnies beloutches, projet qui pourrait aussi, à plus long terme, atténuer l’inimitié entre lslamabad et New Delhi, comme l’avait d’ailleurs voulu le Shah d’Iran dès la fin des années 60.
La nouvelle Realpolitik indienne et le conflit sous-jacent avec la Chine
La nouvelle Realpolitik indienne ne peut plus être considérée comme un avatar lointain du non-alignement théorisé jadis par Nehru. En dépit du rapprochement sino-indien par le truchement du “groupe de Shanghaï”, l’ennemi principal de l’Inde est aujourd’hui la Chine: ce clivage est d’ailleurs celui qui fragilise le plus l’ensemble BRICS, outre les problèmes que connait le Brésil depuis quelques mois. Face à l’ennemi héréditaire pakistanais, l’Inde peut désormais compter sur une certaine mansuétude américaine, qu’il convient toutefois de relativiser car cette “mansuétude”, toute de façade, ne sert qu’à faire chanter Islamabad ou à irriter les Chinois; lors de la visite d’Obama à New Delhi en novembre 2010, le Président américain a dicté indirectement ses conditions, en un langage faussement feutré qui relève plutôt, comme d’habitude, de l’injonction pure et simple: l’Inde doit s’engager davantage dans la propagation universelle des “droits de l’homme” (version américaine/occidentale), revenir à une forme plus idéologique du non-alignement émancipateur du tandem Gandhi/Nehru, à une sorte de tiers-mondisme revu et corrigé qui pourrait aider les Etats-Unis à damer le pion des Européens et des Chinois en Afrique subsaharienne, par exemple. Si l’Inde ne participe pas à la diplomatie subversive, dite des “droits de l’homme”, elle ne pourra pas compter sur l’appui des Etats-Unis pour faire partie du Conseil de Sécurité de l’ONU, position à laquelle elle aspire. Mais l’Inde prend surtout ombrage des relations sino-pakistanaises, se souvient de la guerre (perdue) de 1962 contre la Chine maoïste, prend au sérieux les menaces chinoises sur l’ancien Assam britannique (Arunachal Pradesh), aujourd’hui divisé en plusieurs entités administratives indiennes, soupçonne le Pakistan de favoriser l’immigration de musulmans du Bengla Desh dans le Bodoland, une entité subétatique et administrative de l’Union indienne, située dans le “Nord-Est assamite” et peuplée d’une ethnie tibéto-birmane de deux millions d’âmes, animiste, hindouisée voire christianisée et très hostile aux immigrés musulmans, accusés de faire le jeu des Pakistanais, surtout quand un tiers de la population de l’ancien Assam est désormais musulman. L’ethnie bodo craint la submersion dans une future majorité bengladaise.
L’affaire du gaz birman
Les Etats-Unis reprochent à l’Inde, quand elle articule sa double stratégie de contrer et le Pakistan et la Chine, de chercher l’alliance des Chiites iraniens et des militaires birmans, hostiles, bien entendu, à toute ingérence américaine sur le pourtour de l’Océan Indien. Quand l’Inde avait écouté les Américains et s’était éloignée de la Birmanie voisine au nom de l’idéologie occidentale des droits de l’homme, la Chine avait avancé ses pions en direction de l’Océan Indien et de la sphère d’influence indienne et avait tiré grand profit de l’isolement diplomatique imposé aux Birmans. Pire: l’affaire birmane a porté un coup dur à l’approvisionnement énergétique de l’Inde. Outre l’utilisation prévue du gazoduc IPI, saboté par tous les moyens par les Etats-Unis, contre les intérêts des trois pays concernés, l’Inde prévoyait l’acheminement de gaz birman pour ses industries en plein développement: le boycott de la Birmanie/Myanmar couplé au sabotage perpétré par le Bengla Desh, qui exige des droits de passage exorbitants, et aux troubles incessants qui secouent l’Assam (Arunachal Pradesh), a fait que les Chinois ont raflé le marché du gaz birman, désormais acheminé vers le Yunnan chinois. De plus, la Chine déploie son “collier de perles”, soit une chaîne d’installations portuaires et navales dans l’Océan Indien, du Détroit d’Ormuz au Sri Lanka et du Bengla Desh au détroit de Malaka, avec au moins quatre stations en territoire birman. L’Inde, lésée par ces avancées chinoise dans son environnement géographique immédiat, veut dorénavant défendre ses intérêts nationaux, ses intérêts vitaux et ne plus les sacrifier à des chimères idéologiques et irréalistes occidentales. Outre sa nouvelle politique positive à l’égard de la Birmanie, elle spécule sur les ressentiments anti-chinois au Vietnam ou au Japon, pratiquant dès lors une Realpolitik qui ne coïncide ni avec les intérêts américains ni avec la volonté russe d’annuler tous les conflits sur la masse continentale eurasiatique.
Trois axiomes géopolitiques à déduire des événements
Trois axiomes géopolitiques doivent être déduits de cette analyse brève de la situation fragilisée et paradoxale du Pakistan:
1) Pas de conflits inutiles sur la masse eurasienne;
2) Aucun soutien aux politiques américaines et saoudiennes visant à envenimer de tels conflits sur ce même vaste territoire;
3) Liberté totale des peuples dans l’organisation de l’acheminement des hydrocarbures et d’autres matières premières, sans ingérence de puissances extérieures à leur espace (Carl Schmitt, Karl Haushofer).
Robert STEUCKERS.
(Rédigé à Fessevillers, Genève, Nerniers, Villeneuve-d’Asq et Forest/Flotzenberg, d’octobre 2012 à août 2013).
Bibliographie sommaire:
- Mariam ABOU ZAHAB, “Pakistan”, in L’état du monde – 2002, La Découverte, Paris, 2001.
- Frédéric BOBIN, “Le Pakistan veut avoir son mot à dire sur la paix afghane”, in Le Monde Hors série - Bilan géostratégique, édition 2013.
- Gérard CHALIAND, Atlas du Nouvel Ordre Mondial, Robert Laffont, Paris, 2003.
- Eric DENECE & Frédérique POULOT, Dico-Atlas des conflits et des menaces – Guerres, terrorisme, crime, oppression, Belin, Paris, 2010.
- Guy SPITAELS, La triple insurrection islamique, Luc Pire/Fayard, Bruxelles/Paris, 2005.
- Praveen SWAMI, “Le djihad au pays de Gandhi”, in Courrier international Hors-série, L’atlas du Terrorisme – Géographies, religions, politique, esthétiques, mars-avril-mai 2008.
- Jean-Christophe VICTOR, Le dessous des cartes – Itinéraires géopolitiques, Arte Editions/Tallandier, 2012.
Articles anonymes:
- “Afghanistan: quel avenir après 2014?”, in Diplomatie – Les Grands dossiers, n°13, février-mars 2013.
- “Pakistan: entre le marteau et l’enclume”, in Diplomatie – Les Grands dossiers, n°13, février-mars 2013.
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jeudi, 25 juillet 2013
L'Europe en phase finale d'américanisation
L'Europe en phase finale d'américanisation
par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://zentropaville.tumblr.com
Les évènements se précipitent. Peu d’européens en sont encore conscients. D’autant plus que pour s’en apercevoir il faut un minimum de culture stratégique, afin de déchiffrer des évènements qui autrement paraissent anodins.
Appelons américanisation de l’Europe le fait pour celle-ci d’acquérir le statut non d’un nième Etat de l’Union – ce qui peut conférer quelques droits constitutionnels et civiques - mais d’un Etat complètement subordonné, colonisé pour reprendre un ancien terme, sur le modèle des ex-colonies africaines de la France.
Cette américanisation est en cours depuis la seconde guerre mondiale, sinon la première. Ces guerres ont vu l’Europe, emportée par ses divisions internes, perdre une grande partie des éléments faisant son ancienne puissance. Ceci au profit des Américains. Face à l’URSS d’abord, face aux puissances émergentes d’Asie, principalement la Chine aujourd’hui, l’Amérique a su convaincre les européens qu’ils devaient lui confier leur défense, quitte à lui livrer en échange tout ce qui leur restait de souveraineté.
On peut avec un certain optimisme estimer qu’au cours du dernier demi-siècle et aujourd’hui encore, 100.000 européens au maximum ont toujours voulu refuser ce marché de dupes. Pour eux, l’Europe avait les moyens de se défendre et de se développer sans rien abandonner de ses atouts scientifiques, économiques, militaires. Sous le gaullisme en France, quelques 50.000 Français avaient accepté de tenir le pari. Aujourd’hui encore, ils sont peut-être 50.000 à tenter de résister, provenant de diverses horizons. L’Airbus A350 qui vient de réussir son premier vol à Toulouse est un des derniers descendants de ce rêve héroïque.
Mais ces réfractaires à l’américanisation, en France comme en Europe, se heurtent en Europe, dans chaque Etat comme au sein même de l’Union européenne, à des résistances formidables. Il y a d’abord l’inertie de centaines de millions de citoyens qui pensent que tout ira bien pour eux s’ils suivent les modes de vie et modèles américains, s’ils obéissent aux consignes implicites venues d’outre-atlantique. Mais il y a aussi ceux qui ont mis toutes leurs cartes dans la servilité à l’égard des intérêts américains, afin d’en être grassement récompensés. L’actuel président de la Commission européenne en est un bon exemple.
Comme ceux-là détiennent au sein de l’Union européenne à peu près tous les leviers de commande dont l’Amérique a bien voulu leur confier l’emploi, ils constituent une barrière infranchissable aux tentatives des 100.000 européens évoqués ci-dessus qui voudraient reprendre leur indépendance.
Une accélération brutale de l’américanisation
Tout ceci, diront les lecteurs, n’a rien de nouveau. Or ce n’est plus le cas. La conquête de l’Europe par le Big Brother américain s’accélère brutalement. Divers évènements ont mis en évidence ces derniers mois, sinon ces dernières semaines, trois mécanismes qui se conjuguent pour accélérer de façon exponentielle la domination de l’Amérique sur l’Europe.
Le premier mécanisme est d’ordre sociétal. Il découle de la numérisation continue de l’Europe, au sein notamment de l’Internet, qui en est la partie visible. L’Internet et plus généralement l’informatisation des outils et contenus de création et d’échange en découlant n’auraient que des avantages, y compris pour les Européens, si ceux-ci s’étaient donné des gouvernements et des entreprises capables de faire jeu égal avec la concurrence américaine. Or ce ne fut pas le cas. Non seulement l’informatique et les télécommunications ont été depuis les origines monopolisées par les américains, mais aussi les serveurs et entreprises du Net qui recueillent et mémorisent, dans leurs bases de données, l’ensemble de la production intellectuelle des Européens.
L’exemple le plus visible en est Google. Les Européens, par facilité, profitant de la dimension mondiale que Google a réussi à prendre, lui confient dorénavant le soin de recueillir, transporter, utiliser et vendre les valeurs ajoutées de tout ce qu’ils produisent, sans parler de leurs « données personnelles », c’est-à-dire de tout ce qui représente, non seulement la citoyenneté européenne, mais aussi la civilisation européenne.
Pour capter tout cela, Google et ses homologues américains ont mis en place des centres serveurs informatiques immenses, et développé les milliards d’instructions permettant de naviguer dans les données ainsi mises en mémoire. Ils sont de ce fait seuls à pouvoir réutiliser ce qui mérite de l’être dans les cerveaux européens et les produits de ceux-ci. Ce n’est rien, dira-t-on, nos cerveaux nous restent. Quelle erreur. Laisser Google et ses homologues dominer et progressivement diriger le contenu de nos cortex associatifs, de la partie noble de nos cerveaux, aboutit au pire des esclavage, esclavage soft, mais néanmoins esclavage.
Le deuxième mécanisme confirmant la soumission de l’Europe à l’Amérique est politique. Il était soupçonné depuis longtemps par quelques spécialistes, mais vient d’éclater avec ce que l’on a nommé le scandale PRISM-Snowden. Inutile d’y revenir ici. Non seulement nous acceptons de confier à Google et ses homologues, pour exploitation commerciale, nos données personnelles et le contenu de nos créations intellectuelles, mais nous acceptons de les livrer sans aucune protection aux services secrets américains. Ceux-ci s’en servent, disent-ils, pour lutter contre les supposés ennemis de l’Amérique. Ce faisant, disent-ils aussi, ils nous protègent contre des ennemis intérieurs ou extérieurs, car les ennemis de l’Amérique sont nos ennemis. Que ces ennemis existent ou pas n’est pas la question. La question aurait été de dire à nos amis américains que nous préférons nous protéger nous-mêmes de nos ennemis. Car pour le moment, qui nous protégera de nos amis américains, de leurs intrusions, des mécanismes politiques de surveillance et de contrôle qu’ils ont dorénavant la possibilité de déployer à notre égard. Quis custodes custodiat.
Les services secrets américains disposent pour ce faire, comme l’a révélé le scandale PRISM-Snowden, non seulement du contenu des immenses centres serveurs de la NSA, conçus pour mémoriser tout ce qui circule sur les réseaux numériques, non seulement des milliards de dollars de logiciels développés par des sociétés assermentées pour exploiter ces données, mais aussi de l’ensemble des contenus des serveurs commerciaux tels que Google, précité. La NSA et les autres agences de renseignement ont dorénavant une porte ouverte, un « open bar », une « back door » sur les contenus de ces serveurs. C’est-à-dire, répétons le, sur les contenus de nos cerveaux.
De plus, ces services secrets et, en arrière plan, l’ensemble des moyens militaires du ministère de la Défense américain, ont davantage de possibilités d’intervention que les équipes de Google et de ses homologues. Ils ont de fait sinon de droit, pouvoir de vie et de mort, par destruction physique ou annihilation virtuelle, à l’encontre de tous ceux qu’ils déclarent être des ennemis de l’Amérique, ennemis déclarés ou ennemis potentiels. Ecrivant ceci, je suppose que je dois en faire partie, comme vous qui me lisez, comme tous les Européens qui voudraient devenir indépendants de l’Amérique.
Ajoutons que les équipes du général Keith Alexander, directeur de la NSA et chef du Cyber Command du Pentagone, ne sont pas seules à pouvoir utiliser ces moyens. Elles sont doublées ou remplacées par des milliers de contractuels affrétés par l’US Army auprès de sociétés privées. Ces contractuels, bien qu’assermentés, peuvent se livrer en toute impunité à toutes sortes d’activités personnelles voir criminelles. Certains peuvent même, horresco reférens, trahir leur employeur pour motifs éthiques, au risque de leur vie, Comme Edwards Snowden, dont on est sans nouvelles à ce jour.
Un troisième mécanisme est à considérer, dans la perspective d’un futur proche. Il s’agit d’un élément capital, le cerveau global capable de conscience artificielle. Ceux qui connaissent le développement rapide des neurosciences et de l’intelligence artificielle savent que dans quelques années verront le jour un ou plusieurs cerveaux artificiels répartis sur l’ensemble des réseaux numérisés. Or Ray Kurzweil, qui est le meilleur technicien capable de développer de tels cerveaux, a rejoint comme nul n’en ignore les équipes de Google. Il a sans doute ce faisant la totale bénédiction de la NSA.
Mais, direz-vous, les Européens n’ont-ils pas l’intention d’étudier la mise en place pour leur compte d’ un tel cerveau. Il s’agit du Human Brain Project européen, qui vient de recevoir la promesse d’un financement s’élevant à 1 milliard d’euros. Ce serait naïf de le croire. L’US Big Brother veille depuis le début de cette initiative. Le responsable en chef de ce projet est un Suisse, tout dévoué aux intérêts américains. De plus, IBM, qui avait déjà fourni le super-ordinateur nécessaire aux premiers pas du projet, vient d’ajouter de nouveaux moyens.
Je cite:
IBM Blue Gene/Q memory enhancements (14/06/2013)
The Blue Brain Project (c’est-à-dire le projet suisse/IBM initial, repris dans le projet européen) has acquired a new IBM Blue Gene/Q supercomputer to be installed at CSCS in Lugano, Switzerland. This machine has four times the memory of the supercomputer used by the Blue Brain Project up to now…
Est-il besoin de traduire? Quant à ceux qui ignoreraient qui est IBM, je rappellerai que ce fut dès les origines du Plan calcul français l’adversaire principal contre lequel s’était battu Charles de Gaulle. Après avoir réussi à monter une entreprise européenne (Unidata, avec CII, Siemens, Philips) capable de tenir tête au géant, les promoteurs de celle-ci ont été trahis par un européen, un certain Giscard d’Estaing.
Ce sont d’autres Européens de même calibre, dotés d’une vision stratégique aussi pénétrante, qui se battent aujourd’hui pour que l’Europe s’engage dans les négociations avec les Etats-Unis en vue de réaliser un grand marché transatlantique. On apprend aujourd’hui 15 juin que la décision en ce sens vient d’être prise. Victoire cependant pour la France. Le culturel devrait en principe être exclu. Cela nous laissera toutes latitudes afin de financer des intermittents du spectacle qui distrairont les touristes américains et chinois quand ils nous feront la grâce de dépenser leurs devises en France. Ce sera tout ce qui nous restera à vendre.
Jean-Paul Baquiast (Europe solidaire, 15 juin 2013)
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (6) | Tags : américanisation, états-unis, europe, affaires européennes, actualité, aliénation | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 08 juillet 2013
La Russie, le fournisseur d’armement idéal pour la Suisse
La Russie, le fournisseur d’armement idéal pour la Suisse
par Albert A. Stahel,
Institut für Strategische Studien, Wädenswil
Ex: http://www.horizons-et-debats.ch
Alors qu’avant 1992 l’Union soviétique possédait encore une excellente industrie de l’armement qui développait et produisait des armes modernes, ce secteur fut laissé à l’abandon sous la présidence de Boris Eltsine. L’exportation d’armes russes fut limitée pendant de nombreuses années à des livraisons d’armes provenant des arsenaux de l’armée russe. Toute nouvelle production fut interrompue.
Ce n’est qu’avec l’accession au pouvoir de Vladimir Poutine que le secteur de l’armement a recommencé à être soutenu par l’Etat. Au cours des dernières années, l’industrie de l’armement de la Fédération de Russie a développé et mis en service diverses armes modernes. En font partie la série des systèmes de missiles guidés S-300 contre les avions et des missiles guidés balistiques sol-sol, dont la plus ancienne version S-300PS fut mise mis en service dans les années 1982/83.1 En 1998, la version améliorée S-300VM était à disposition et en 2007 la S-400 Triumph. La S-400 a une portée de 250 kilomètres. Avec ce système des missiles guidés, on prévoit d’intercepter et de détruire à l’aide d’une ogive conventionnelle des armes balistiques à courtes et à moyennes distances (portée de 5500 km). Un développement plus récent est le missile guidé 40N6 d’une portée de 400 km, qui devrait être disponible en 2013. Le S-500 Prometheus, d’une portée de 500 à 600 km, est également en train d’être développé. Cet engin permettra même d’intercepter et de détruire des missiles guidés balistiques intercontinentaux sol-sol (d’une portée de plus de 5500 km, dotés d’une ogive nucléaire). Pour tous ces systèmes de défense, on a également développé les radars de désignation et de poursuite d’objectifs correspondants.
Si ces indications sont exactes – en raison de la tradition de l’industrie d’armement russe dans le développement d’armes anti-aériennes on ne peut pas en douter –, les performances de la S-400 dépassent de loin celles du missile guidé de défense américain Patriot PAC-3. Le PAC-3 possède une portée de 15 à 45 kilomètres contre des cibles aériennes et des cibles balistiques.
Depuis la mise hors service irréfléchie des missiles guidés anti-aériens Bloodhound sous le conseiller fédéral Ogi en 1999, la Suisse n’a plus de système de défense aérienne contre des cibles de longues portées. Avec l’acquisition du système de défense S-400, la Suisse serait protégée non seulement contre des avions de combats mais aussi contre des missiles guidés balistiques.
La Russie produit également d’autres équipements militaires, qui pourraient être intéressant pour un petit Etat en raison de leur rapport qualité–prix. Cela comprend notamment la série des avions de combat polyvalents Su-27 de Sukhoï. Depuis le manœuvre spectaculaire du Cobra de Pougatchev à l’Aéroport Paris-Le Bourget en 1989, d’autres types d’avions (chasseurs et chasseurs-bombardiers) ont été développés par Sukhoï sur la base du Su-27. Il s’agit notamment des modèles Su-30, -33, -35, -35S et -37. Mais le Su-27, qui a été mis en service en 1984, jouit – avec sa vitesse maximale de Mach 2.35 et un rayon d’action de 3530 km – toujours d’une excellente réputation au niveau international. Il y a quelques années, les Su-30 de l’armée de l’air indienne se sont avérés supérieurs aux F-15 américains lors d’un exercice de combat aérien.
La Suisse en tant que petit Etat, qui est de plus en plus traité d’Etat-voyou et soumis au chantage par de soi-disant «amis», ainsi que le Conseil fédéral et le Parlement seraient bien avisés à l’avenir de prendre au sérieux l’offre d’armement de la Russie.
Contrairement aux «amis» occidentaux, les dirigeants russes ont toujours traité la Suisse avec respect au cours des dernières années. Compte tenu des siècles de bonnes relations et d’amitiés entre la Suisse et la Russie – mentionnons l’amiral Pierre le Grand, le Genevois F. J. Lefort (1656–1699), le colonel et éducateur du Grand-duc Alexandre, le Vaudois F. C. de Laharpe (1754–1838) et le général et conseiller militaire de divers tsars, le Vaudois Antoine-Henri Jomini (1779–1869) –, ce pays est pour la Suisse le fournisseur d’armes idéal en ces temps difficiles. •
1 Jana Honkova, Current Developments in Russia’s Ballistic Missile Defense, The Marshall Institute, 2013, p. 10/11.
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samedi, 06 juillet 2013
Le Venner Bashing des pseudos esprits libres : vacuité et vanité
Laissons à ceux qui l’ont connu ou lu le soin de commenter la décision de l’écrivain Dominique Venner de mettre fin à ses jours. Il a choisi une voie de l’honneur, à savoir porter un message politique par un acte ultime.
Les rebelles de carton de la bienpensance ont donc pissé une ligne comme ils en sniffent d’autres sur le marbre des bars ou sur les tables basses de leurs appartements cossus. Abrités par des emplois taillés sur mesure et payés par le contribuable, un mot qui commence bien mal, ils trouvent donc le temps, naturellement en dehors de leurs missions officielles, de caresser leur propre égo de façon saccadée et de se lancer dans une profanation écrite d’un acte symbolique.
Tout est alors bon pour le Venner Bashing de la part de ces petits salonards.
Ils oublient que la voie ultime, celle du don de sa vie fut celle d’autres figures historiques contemporaines.
L’abbé Guillaume de Tanoüarn peut suspect de mollesse dans la défense d’un catholicisme vivant et combattant a souhaité s’exprimer sur cette décision :
« J’ai eu l’occasion, voilà déjà une quinzaine d’années, de rencontrer Dominique Venner, de discuter avec lui, d’essayer de comprendre l’antichristianisme militant de cet historien qui était à la fois si froid et si passionné, si précis dans ses analyses et si lyrique dans ses perspectives, sans que le lyrisme ne nuise à l’analyse ni l’analyse au lyrisme. Dominique Venner avait une grande âme, « un cœur rebelle ». C’est ce qui m’avait fait éprouver pour lui, alors que nous étions aux antipodes l’un de l’autre, une véritable sympathie. Il m’avait d’ailleurs dédicacé son ouvrage autobiographique Le coeur rebelle : « À l’abbé de Tanoüarn qui n’est pas un cœur soumis ». Cette formule, je l’ai longtemps méditée. Je crois que c’est en cela que nous avons été en compréhension l’un de l’autre, lui et moi, dans le refus de toutes les formes de soumission. Se soumettre c’est subir, subir c’est renoncer à agir, renoncer à agir c’est accepter de ne pas servir, de ne servir à rien, de se laisser happer par le grand Néant de tous les À-quoi-bonismes, contre lequel Dominique s’est élevé toute sa vie. Contre lequel pourrait-on dire, il a tenté d’élever sa vie et son œuvre.
Son dernier post, sur son blog, appelant à manifester le 26 mai contre le mariage homosexuel, mêle la crainte d’une islamisation de la France à ce signe de décadence morale qu’est le mariage des homosexuels. « Ce ne sont pas de petites manifestations de rue » qui pourront changer quelque chose à cette formidable conjuration « du pire et des pires » que présente la vie politique française en ce moment. On devine une forme de désespoir politique, vraiment poignant chez cet homme de 78 ans, dont on pourrait penser qu’il en a vu bien d’autres, depuis les combats de l’Algérie française, les appels à la résistance d’Europe jeunesse, jusqu’à maintenant. Mais le désespoir n’est pas l’explication ultime de ce dernier geste.
« Je crois que ce suicide-avertissement, que Dominique a voulu comme une sorte d’analogie frappante avec le suicide de notre civilisation, était aussi, pour lui, la seule manière qu’il ait trouvé de passer par l’Église une dernière fois sans se renier. »
Du reste, sur son blog, ce n’est pas le désespoir qui domine le texte qu’il nous laisse : « Il faudra certainement des geste nouveaux, spectaculaires et symboliques pour ébranler les somnolences, secouer les consciences anesthésiées et réveiller la mémoire de nos origines. Nous entrons dans un temps où les paroles doivent être authentifiées par des actes ». On pense au sepuku de Mishima, il n’a pas pu ne pas y penser, en choisissant froidement le lieu et le moment et en s’interdisant de se rater. Son acte a été mûri, prémédité. Il avait remis les clés de la Nouvelle revue d’histoire ce week-end à celui qu’il considérait comme son plus proche collaborateur et son continuateur, Philippe Conrad. Sans paraître affecté. Il avait fini sa tâche, il importait de donner un sens à sa fin.
Sur son blog, il expliquait : « Il faudrait nous souvenir aussi, comme l’a génialement formulé Heidegger (Être et Temps) que l’essence de l’homme est dans son existence et non dans un « autre monde ». C’est ici et maintenant que se joue notre destin jusqu’à la dernière seconde. Et cette seconde ultime a autant d’importance que le reste d’une vie. C’est pourquoi il faut être soi-même jusqu’au dernier instant. C’est en décidant soi-même, en voulant vraiment son destin que l’on est vainqueur du néant. Et il n’y a pas d’échappatoire à cette exigence puisque nous n’avons que cette vie dans laquelle il nous appartient d’être entièrement nous-mêmes ou de n’être rien ».
« Nous n’avons que cette vie… ». Cette affirmation, pour Dominique Venner, est une donnée essentielle du problème. S’il n’y a pas d’au-delà de la vie terrestre ; pour quelqu’un qui entend aller jusqu’au bout, l’instant, chaque instant a un poids écrasant. Le chrétien comprend ce sens de l’instant et ce sens de la responsabilité, mais il ne cherche pas à aller au-delà du possible : Dieu est l’agent de nos destinée. Dieu achève l’ébauche que nous lui tendons à la dernière seconde.Et le sacrifice est encore une action, non une soumission. Dominique Venner n’a pas voulu s’en remettre à Dieu de sa dernière seconde, il ne pouvait pas faire ce sacrifice : il a souhaité la choisir. Pétri de philosophie allemande, il a repris toute sa vie l’idée de Schelling, commenté par Heidegger : « être c’est vouloir ». Esse est velle. « L’être, c’est le vouloir ». Il faut vouloir jusqu’au bout pour être vraiment. Voilà la formule d’un athéisme antinihiliste… Le sien.
Et pourtant… »
Pourtant, Dominique Venner a choisi l’autel de Notre Dame pour cette décision. C’est sur l’autel qu’il a posé une dernière lettre. Vraiment je ne crois pas que, s’il a fait cela, c’est pour attirer l’attention, pour que Manuel Gaz vienne sur les lieux. Il n’avait que faire de ce genre de reconnaissance « médiatique ». Son acte n’est pas médiatique, il est symbolique. Quel symbole ? Celui de la Vierge Mère, celui de l’éternel féminin, lui qui, dans son dernier blog professe « respecter les femmes alors que l’islam ne les respecte pas ». Sans doute. Mais il ne faut pas oublier qu’outre sa culture païenne, Dominique Venner possédait une solide culture chrétienne, avant que son entrée en délicatesse avec une Église qu’il voyait comme absurdement pro-FLN ne l’ait détourné de Dieu. Je crois que ce suicide-avertissement, que Dominique a voulu comme une sorte d’analogie frappante avec le suicide de notre civilisation, était aussi, pour lui, la seule manière qu’il ait trouvé de passer par l’Église une dernière fois sans se renier. Une sorte de prière sans parole, pour ce coeur inassouvi jusqu’à la dernière seconde. Dieu ? C’était trop compliqué pour lui. Mais Marie… Une femme, capable – Dieu le sait – d’exaucer enfin le désir de perfection qui a été la grandeur et le drame de sa vie. »
Venner sur les traces d’Heidegger n’a-t-il pas tenté de nous poser une ultime question, par delà la foi et le lieu, sur le sens de la vie, l’engagement et le don de soi ?
Les mutins de Panurge et leurs bergers plumitifs ne peuvent accepter cela. Etre confrontés à leur propres vacuités, cela dérange. N’est-ce pas ?
Les pseudos esprits libres strasbourgeois confirment ce que nous pensions. Ils n’ont que peu d’esprit, quand à leur liberté, elle est aussi grande que la distance qui les relient au système et à leurs employeurs.
Eric Neustadt – www.ladroitestrasbourgeoise.com
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vendredi, 05 juillet 2013
LE RETOUR DES MOINES GUERRIERS
La question islamiste en terre bouddhiste
Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr
Le numéro de juillet de l’hebdomadaire américain Time aborde le problème de la radicalisation du clergé bouddhiste face à l’Islam en Asie (Thaïlande du Sud et Birmanie). L’article de Beech Hannah, When Buddhists go bad, fait actuellement scandale en Birmanie. Il a notamment heurté de nombreux membres de la communauté bouddhiste qui ne se sent pas solidaire du discours du moine islamophobe Ashin Wirathu.
Qu’en est-il exactement ?
La guerre religieuse et d’indépendance, qui débuta en 2004, continue de faire rage dans le sud de la Thaïlande. La Thaïlande se compose d’une population majoritairement bouddhiste, mais le Bouddhisme n’est pas la religion officielle du pays. Les musulmans représentent 5 % de la population, dont la majorité (4/5e) sont des locuteurs malais (les musulmans thaïlandophones représentent environ 20%), implantés dans les cinq provinces frontalières à la Malaisie (Narathiwat, Pattani, Satun, Songkla et Yala). Ces régions rurales et pauvres ont subi une politique d’assimilation forcée du gouvernement de Bangkok dans les années 1960. Deux mouvements indépendantistes, le Pattani United Liberation Organization (PULO) et le Barisan Revolusi Nasional (BRN) ont pris une première fois les armes entre 1976 et 1981, puis les mouvements se cantonnèrent dans l’activisme politique et l’extorsion de fonds. En réponse aux mesures musclées du chef du gouvernement deThaskin Shinawatra, la minorité religieuse mit en avant ses droits et réclama notamment le port du Hijab pour les femmes musulmanes dans les lieux publics, l’ouverture de mosquées et l’expansion des études islamiques dans les écoles publiques. C’est sur ce terreau favorable que le conflit armé latent depuis 2001 débuta en 2004. Il oppose toujours les forces gouvernementales aux mouvements indépendantistes, essentiellement, aux groupes terroristes islamistes, le Pattani Islamic Mujahadeen Movement ou Gerakan Mujahideen Islam Pattani, qui a déclaré la djihad contre les populations bouddhistes et la monarchie-junte militaire thaïlandaise.
Deux moines bouddhistes sous la protection de soldats Thaïlandais (province de Pattani)
Les sources de financement des groupes insurrectionnels ne sont pas claires : l’importation de techniques et de fonds serait la main du « terrorisme international » d’Al Qaida, selon les services de renseignement nord-américains, mais rien ne l’atteste irréfutablement. Le mouvement serait plutôt un cocktail religieux, identitaire et passéiste... Selon Pak Abu, un professeur d’école coranique et chef des affaires internes du Pulo, l’objectif du mouvement serait la « libération du Patani Darussalam - la terre islamique de Patani - de l'occupation des infidèles» et de revenir au temps idéalisé (mais révolu) du sultanat de Pattani....
Localisation du conflit. Les cinq provinces malaises embrasées par la guerre religieuse et d’indépendance ont été rattachées au Siam par le traité de Bangkok (10 mars 1909) signés par la Grande-Bretagne et le royaume du Siam
Un autre responsable du mouvement islamiste aurait déclaré à un journaliste du Figaro que les réseaux sont peu structurés, très violents et capables de planifier leurs actions : l’ensemble représenterait environ 3 000 individus majoritairement des jeunes de moins de 20 ans. Selon lui, le BRN-Coordination est une « coalition informelle d'individus», cimentée par un « haine commune à l’encontre des populations siamoises. «Nous avons fait, déclare-t-il, le serment de sacrifier notre vie pour libérer notre terre ancestrale de l'occupation des infidèles.» Il précise que les jeunes combattants (les juwae) ont « été repérés à la crèche, recrutés dans les écoles coraniques et mènent une guérilla urbaine de plus en plus sophistiquée» Surtout, l’indicateur du Figaro reconnaît que «le degré de brutalité» de la nouvelle génération «est parfois une source d'embarras» et déplore la « criminalisation » des troupes : «30% des combattants vendent leurs services à la mafia et aux trafiquants de drogue». Leurs méthodes sont en effet radicales : attentats à l’explosif contre des cibles civiles, embuscades sur les axes routiers, assassinats, incinérations vivantes, voire décapitations de civils, d’agents symboles de l’Etat (fonctionnaires thaïlandais et religieux bouddhistes). Plus de 5 000 morts et 8 000 blessés (globalement le bilan de la guerre civile algérienne en France entre 1955 et 1962) ont été recensés entre 2004 et 2012 et le bilan ne cesse de s’alourdir, les négociations étant toujours à l’heure actuelle dans l’impasse.
Bilan humain du conflit (tués et blessés)
Les agressions contre le personnel religieux bouddhiste ont obligé l’armée royale à transformer les monastères en bases militaires et à organiser les populations bouddhistes en groupes d’autodéfense (70 000 volontaires bouddhistes) : selon Duncan McCargo, enseignant à l’université de Leeds, des rumeurs courent sur la présence dans les communautés bouddhistes d’anciens militaires ordonnés moines et sur l’armement d’une fraction des religieux : une réminiscence des moines guerriers du Japon médiéval (les sôhei) ou de Shaolin ? Non, une simple ressemblance sur la forme sans plus, les moines guerriers nippons ayant surtout pour vocation de protéger leur temple et d'y maintenir l'ordre : ils étaient aussi une force politique et armée non négligeable. Nous sommes ici dans un réel contexte de guerre de religions. Il ne fait aucun doute que le discours de quelques religieux bouddhistes tend à se radicaliser : « Il n’y a pas d’autres choix, nous ne pouvons plus séparer le bouddhisme des armes désormais », aurait déclaré le lieutenant Sawai Kongsit, de l’armée royale thaïlandaise (Time). Les moines estiment que les Musulmans utilisent les mosquées pour entreposer des armes, que chaque imam est armé : « L’islam est une religion de violence » déclare Phratong Jiratamo, un moine ayant servi dans le corps des troupes de marines thaïlandaises (Time).
Le moine birman, Ashin Wirathu, tête de file du mouvement 969
Cette radicalisation est nette dans le discours islamophobe du moine bouddhiste Ashin Wirathu (Mandalay, Birmanie) : discours à l’origine de lynchages, de meurtres et de comportements racistes à l’encontre des musulmans birmans (les Rohingyas) qui représentent entre 4% et 9% de la population du pays. Ashin Wirathu appelle de ses voeux un schisme entre les populations bamars (majoritairement bouddhistes) et les Rohingyas musulmans. Un nouvel et tragique épisode du « choc des civilisations »...
En savoir plus : Faker Korchane, "Time" Klein Victor, L’Islam en Thaïlande, de l’intégration au déchirement, blog sur l’Asie du Sud-EstLauras Didier, En Thaïlande des temples transformés en casernes .
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