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vendredi, 26 septembre 2008

Africom, le mani di Bush sul petrolio

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AFRICOM, le mani di Bush sul petrolio
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

di Djamaledine Benchenouf
Le Quotidien d’Algérie

A conferma “dell'importanza dell'urgenza strategica in Africa„, nel febbraio 2007 il presidente Bush ha deciso di creare Africom, l'organizzazione che controlla le forze militari USA in Africa.
Africom sul modello di Centcom (controllo militare centrale) ed Eucom (controllo militare europeo), concentra il comando delle forze militari che operano sul territorio africano sotto un'unica struttura.
Africom affida molte azioni di natura non militare - come la costruzione di scuole e lo scavo di pozzo - che erano della competenza di ONG americane, alla giurisdizione del dipartimento di Stato alla difesa.
La creazione dello Africom è giustificata dalla lotta al terrorismo, benché il petrolio sembri essere l'obiettivo principale: “Una missione chiave affidata alle forze militari USA in Africa che mira a garantire che le zone petrolifere della Nigeria (che in futuro potrebbero costituire 25 per cento dell'insieme del volume di petrolio importato dagli USA) siano sotto il suo controllo„, spiega il generale Charles Wadd, che comanda forze militari americane in Europa in un'intervista al giornalista Greg Jaffe del Wall Street Journal.
Per rassicurare e controllare le vie d'accesso al petrolio - non soltanto per la nazione, ma anche per le compagnie petrolifere - l'amministrazione Bush ha interamente fatto affidamento sulle forze militari.
L'autore Kevin Philips ha forgiato una nuova parola “l’imperialismo petrolifero„ per descrivere le politiche dell'amministrazione Bush in tale ambito, e “l'aspetto determinante e la trasformazione della forza militare USA verso una realtà che mira ad esercitare una forma di protezionismo sull'economia mondiale del petrolio„. Mettendo queste operazioni sotto l'etichetta ‘della guerra al terrorismo ‘, Bush ha realizzato il più grande rafforzamento delle forze militari che sia mai esistito dalla fine della guerra fredda. Se si fa riferimento alla carta delle operazioni del Big Oil oltreatlantico in relazione alle riserve petrolifere restanti nel mondo e delle rotte di trasporto del petrolio, ci si può fare un'idea di questo rafforzamento, e prevedere il futuro dispiegamento di forze militari americane.
L'Africa, che possiede circa 10 per cento delle riserve di petrolio è ormai una zona dove questo rafforzamento del BIG Oil e delle forze militari americane aumenta sempre di più.
Secondo il dipartimento di Stato dell'Energia degli Stati Uniti, tra il 2000 e il 2007, le importazioni USA di petrolio provenienti dall'Africa sono aumentate del 65%, (da 1.6 a 2.7 milioni di barili al giorno). Quest'importazioni hanno messo in evidenza la progressione in percentuale dell'insieme del volume di petrolio importato dagli USA: un aumento che aumenta dal 14.5 per cento nel 2000, al 20 per cento nel 2007. È da prevedere un aumento ulteriore in futuro. Un incremento accoppiato: più gli USA importano petrolio africano, più le loro compagnie aumentano le loro riserve africane e più rafforzano la loro presenza in questo continente. Secondo i dati 2008 di Sec, Chevron, ConocoPhillips e Marathon, tra le altre società americane, rafforzano la loro presenza con nei paesi seguenti: Algeria, Angola, Camerun, Ciad, repubblica del Congo, repubblica democratica del Congo, Guinea equatoriale, Gabon, Libia, Nigeria.
Il segretario del dipartimento di Stato dell'Energia degli Stati Uniti, Samuel Bodman, ha recentemente dichiarato che le società petrolifere americane sperano ulteriormente di allargare le loro operazioni includendo Madagascar, il Benin, Sao Tomé e la Guinea Bissau Si nota che Shell e BP stanno estendendo le loro operazioni - d'altra parte già importanti - in Africa. L'amministrazione Bush ha sempre più implicato il Dipartimento della Difesa per rendere più stabili i governi africani che sostengono la sua amministrazione e le compagnie petrolifere (americane o affiliate) garantendo loro la `docilità ' dei loro popoli. Ha anche ha aumentato le forniture di armi e gli addestramenti militari destinati al continente africano. I destinatari diretti attuali sono i seguenti paesi: Angola, Algeria, Botswana, Ciad, Costa d'Avorio, repubblica del Congo, Guinea equatoriale, Eritrea, Etiopia, Gabon, Kenia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Sudan e Uganda.
Il generale James Jones, che comanda l’ Eucom, ha annunciato che i bastiemneti di guerra della marina americana potrebbero diminuire le loro visite in Mediterraneo e “passare più tempi a solcare le coste occidentali dell'Africa„. Nella base della legione straniera francese di Campo Lemonier, a Gibuti, i soldati americani, che sono collegati alla task force del corno dell'Africa, “si sentono come a casa propria”. Il Comando di Africom ha, attualmente, il suo quartiere generale in Germania, ma prevede “di stabilizzare la sua presenza„ nel continente africano. Esistono molte opzioni per l'impianto di basi militari americane, di cui una che consisterebbero nell’installare una base navale ed un porto nella piccola isola di Sao Tome sulla costa del Gabon in Africa occidentale. Il Pentagono prevede la possibilità di installare nuove basi in Senegal, Ghana e Mali. Le compagnie petrolifere americane hanno utilizzato il contributo delle forze militari e di sicurezza africane per salvaguardare i loro interessi. Sarebbe più onesti da parte loro che il controllo di tali operazioni sia più trasparente.
Gli USA sono impegnati in una guerra per il petrolio in Iraq e le loro forze armate ne sono consapevoli. John Abizaid, generale in pensione del Comando centrale e delle operazioni militari in Iraq, ha dichiarato che lo scopo della guerra “è senza ombra di un dubbio il controllo del petrolio (giacimenti d' idrocarburi)„. Il problema che si profila, sul modello del caso iracheno, deriva della massiccia presenza militare americana che contribuirà a peggiorare l’attuale drammatica situazione, e che causerà un'ostilità interna, un'instabilità nazionale ed una rabbia verso gli Stati Uniti.

samedi, 20 septembre 2008

Les oppositions américaines à Roosevelt

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Les oppositions américaines à la guerre de Roosevelt

 

 

Robert STEUCKERS

 

Analyse : Ronald RADOSH, Prophets on the Right. Profiles of Conservative Critics of American Globalism, Free Life Editions, New York, 1975 (ISBN : 0-914156-22-5).

 

L’histoire des oppositions américaines à la seconde guerre mondiale est très intéressante. Elle nous initie aux idées des isolationnistes et neutralistes des Etats-Unis, seuls alliés objectifs et fidèles que nous pouvons avoir Outre-Atlantique, mis à part, bien en­tendu, les patriotes d’Amérique hispanique.

 

Aborder ce sujet implique de formuler quelques remarques préliminaires.

-          L’histoire contemporaine est é­valuée sous l’angle d’une propa­gande. Laquelle ? Celle qui a été orchestrée par les bellicistes a­mé­ricains, regrou­pés autour du Président Roosevelt. La tâche de l’his­toire est donc de retrouver la réalité au-delà du rideau de fumée propagandiste.

-          L’histoire contemporaine est dé­terminée par la perspective roose­veltienne où

a)       les Etats-Unis sont l’avant-gar­de, la terre d’élection de la liber­té et de la démocratie ;

b)       les Etats-Unis doivent agir de fa­çon à ce que le monde s’ali­gne sur eux.

c)       Via leur idéologie messianique, interventionniste et mondialiste, les Etats-Unis se posent comme le bras armé de Yahvé, sont appelés à unir le monde sous l’au­torité de Dieu. Leur président est le vicaire de Yahvé sur la Terre (et non plus le Pape de Rome).

 

Mais, pour s’imposer, cette idéologie messianique, interventionniste et mon­dia­liste a eu des ennemis inté­rieurs, des adversaires isolationnistes, neutralistes et différentialistes. En effet, dans les années 30, 40 et 50, deux camps s’affron­taient aux Etats-Unis. En langage actualisé, on pourrait dire que les partisans du « village universel » se heurtaient aux partisans de l’ « au­to-centrage ».

 

Quels ont été les adversaires du mon­­dialisme de Roosevelt, outre le plus célèbre d’entre eux, le pilote Lind­­bergh, vainqueur de l’Atlan­tique. Nous en étudierons cinq :

1)       Oswald Garrison VILLARD, é­di­teur du journal Nation, ancré à gauche, libéral et pacifiste.

2)       John T. FLYNN, économiste et éditorialiste de New Republic, é­galement ancré à gauche.

3)       Le Sénateur Robert A. TAFT de l’Ohio, chef du Parti Républicain, surnommé « Mr. Republican».

4)       Charles A. BEARD, historien pro­­gressiste.

5)       Lawrence DENNIS, intellectuel éti­queté « fasciste », ancien di­plo­mate en Amérique latine, no­tamment au Nicaragua et au Pérou.

 

Tous ces hommes avaient une biographie, un passé très différent. Dans les années 38-41, ils étaient tous iso­lationnistes. Dans les années 43-50, ils sont considérés com­me « con­ser­vateurs » (c’est-à-dire adversaires de Roosevelt et de l’al­liance avec l’URSS) ; de 1948 à 1953, ils refusent la logique de la Guerr­e Froide (dé­fendue par la gauche sociale-dé­mo­crate après guerre).

 

Pourquoi cette évolution, qu’on ne comprend plus guère aujourd’hui ?

-          D’abord parce que la gauche est favorable au « globa­lis­me » ; à ses yeux les isolation­nistes sont passéistes et les interventionnistes sont inter­natio­nalistes et « progres­sis­tes ».

-          Dans le sillage de la Guerre du Vietnam (autre guerre interventionniste), la gauche a changé de point de vue.

 

En effet, l’interventionnisme est synonyme d’impérialisme (ce qui est moralement condamnable pour la gauche hostile à la Guerre du Vietnam). L’isolationnisme relève du non-impérialisme américain, de l’anti-colonialisme officiel des USA, ce qui, dans le contexte de la Guerre du Vietnam, est moralement acceptable. D’où la gauche militante doit renouer avec une pensée anti-impérialiste. La morale est du côté des isolationnistes, même si un Flynn, par exemple, est devenu macchartyste et si Dennis a fait l’apologie du fascisme. Examinons les idées et les arguments de chacun de ces cinq isolationnistes.

 

Charles A. BEARD

 

Charles A. Beard est un historien qui a écrit 33 livres et 14 essais importants. Sa thèse centrale est celle du « déterminisme économique » ; elle prouve qu’il est un homme de gauche dans la tradition britannique de Mill, Bentham et du marxisme modéré. La structure politique et juridique, pour Beard, dérive de la stratégie économique. La complexification de l’éco­nomie implique une complexification du jeu politique par multiplication des acteurs. La Constitution et l’appareil légal sont donc le reflet des desidera­ta des classes dirigeantes. La complexification postule ensuite l’in­tro­duc­tion du suffrage universel, pour que la complexité réelle de la société puisse se refléter correcte­ment dans les re­pré­sentations.

 

Beard sera dégoûté par la guerre de 1914-18.

1.        Les résultats de cette guerre sont contraires à l’idéalisme wilsonien, qui avait poussé les Etats-Unis à intervenir. Après 1918, il y a davantage de totalitarisme et d’autoritarisme dans le monde qu’auparavant. La première guerre mondiale se solde par un recul de la démocratie.

2.        Ce sont les investissements à l’étranger (principalement en France et en Grande-Bre­ta­gne) qui ont poussé les Etats-Unis à intervenir (pour sauver leurs clients de la défaite).

3.        D’où le véritable remède est celui de l’autarcie continentale (continentalism).

4.        Aux investissements à l’étran­ger, il faut opposer, dit Beard, des investissements intérieurs. Il faut une planification natio­nale. Il faut construire une bonne infrastructure routière aux Etats-Unis, il faut aug­menter les budgets pour les écoles et les universités. Pour Beard, le planisme s’oppose au militarisme. Le militarisme est un messianisme, essen­tiel­le­ment porté par la Navy League, appuyée jadis par l’Amiral Mahan, théoricien de la thalassocratie. Pour Beard, l’US Army ne doit être qu’un instrument défensif.

 

Beard est donc un économiste et un théoricien politique qui annonce le New Deal de Roosevelt. Il est donc favorable au Président américain dans un premier temps, parce que celui-ci lance un gigantesque plan de travaux d’intérêt public. Le New Deal, aux yeux de Beard est une restructuration complète de l’économie domestique américaine. Beard raisonne comme les continentalistes et les autarcistes européens et japonais (notamment Tojo, qui parle très tôt de « sphère de co-prospérité est-asiatique »). En Allemagne, cette restructuration autarcisante préconisée par le pre­mier Roosevelt suscite des enthousiasmes et apporte de l’eau au mou­lin des partisans d’un nouveau dialogue germano-américain après 1933.

 

Le programme « Big Navy »

 

Mais Roosevelt ne va pas pouvoir appliquer son programme, parce qu’il rencontrera l’opposition des milieux bancaires (qui tirent plus de dividendes des investissements à l’étranger), du complexe militaro-in­dustriel (né pendant la première guerre mondiale) et de la Ligue Na­vale. Pour Beard, le programme « Big Navy » trahit l’autarcie promise par le New Deal.

 

Le programme « Big Navy » provoquera une répétition de l’histoire. Roosevelt prépare la guerre et la militarisation des Etats-Unis, déplo­re Beard. En 1934, éclate le scandale Nye. Une enquête menée par le Sénateur Gerald Nye prouve que le Président Wilson, le Secrétaire d’Etat Lansing et le Secrétaire d’Etat au Trésor Gibbs McAdoo, le Colonel House et les milieux bancaires (notamment la J.P. Morgan & Co) ont délibérément poussé à la guerre pour éviter une crise, une dépression. Résultat : cette dépres­sion n’a été postposée que de dix ans (1929). Donc la politique raison­nable serait de décréter un em­bargo général à chaque guerre pour que les Etats-Unis ne soient pas entraînés aux côtés d’un des belligérants.

 

En 1937, Roosevelt prononce son fameux « Discours de Quarantai­ne », où il annonce que Washington mettra les « agresseurs » en quarantaine. En appliquant pré­ventivement cette mesure de ré­torsion aux seuls agresseurs, Roo­sevelt opère un choix et quitte le terrain de la neutralité, constate Beard. En 1941, quand les Japonais attaquent Pearl Harbour, le matin du 7 décembre 1941, Beard révèle dans la presse que Roosevelt a délibérément obligé le Japon à commettre cet irréparable acte de guerre. De 1941 à 1945, Beard ad­mettra la nature « expansion­niste » de l’Allemagne, de l’Italie et du Ja­pon, mais ne cessera d’exhorter les Etats-Unis à ne pas suivre cet ex­emple, parce que les Etats-Unis sont « self-suffisant » et que l’a­gressivité de ces Etats n’est pas directement dirigée contre eux. Ensuite, deuxième batterie d’argu­ments, la guerre désintègre les institutions démocratiques améri­cai­nes. On passe d’une démocratie à un césarisme à façade dé­mo­cratique.

 

Beard accuse le gouvernement américain de Roosevelt de chercher à entrer en guerre à tout prix contre le Japon et l’Allemagne. Son accusation porte notamment sur quatre faits importants :

1.        Il dénonce l’échange de destroyers de fabrication américaine contre des bases militaires et navales anglaises dans les Caraïbes et à Terre-Neuve (New Foundland).

2.        Il dénonce la « Conférence de l’Atlantique », tenue entre le 9 et le 12 août 1941 entre Churchill et Roosevelt. Elles ont débouché sur un acte de guerre au détriment du Portugal neutre : l’occupation des Açores par les Américains et les Britanniques.

3.        Il dénonce l’incident de septembre 1941, où des navires allemands ripostent aux tirs de l’USS Greer. Beard prétend que Roosevelt monte l’incident en épingle et il appuie son argumentation sur le rapport de l’Amiral Stark, prouvant l’inter­vention du navire aux côtés des Anglais.

4.        En octobre 1941, un incident similaire oppose des bâtiments de la Kriegsmarine à l’USS Kearny. Roosevelt amplifie l’événement avec l’appui des médias. Beard rétorque en s’appuyant sur le rapport du Secrétaire de la Navy Knox, qui révèle que le navire américain a pris une part active aux combats opposants bâtiments anglais et allemands.

 

Une stratégie de provocation

 

Beard conclut que la stratégie de Roosevelt cherche à provoquer dé­libérément un incident, un casus belli. Cette attitude montre que le Président ne respecte pas les institutions américaines et ne suit pas la voie hiérarchique normale, qui passe par le Congrès. La dé­mo­cratie américaine n’est plus qu’une façade : l’Etat US est devenu cé­sa­riste et ne respecte plus le Con­grès, organe légitime de la nation.

 

Il est intéressant de noter que la gauche américaine récupèrera Beard contre Johnson pendant la guerre du Vietnam. De Roosevelt à Johnson, la gauche américaine a en effet changé du tout au tout, modifié de fond en comble son argumentation ; elle était favorable à Roosevelt parce qu’il était l’im­pulseur du New Deal, avec toutes ses facettes sociales et dirigistes, et qu’il fut le leader de la grande guerre « anti-fasciste ». Elle cesse de soutenir l’option présidentialiste contre le démocrate Johnson, redevient favorable au Con­grès, parce qu’elle s’oppose à la guerre du Vietnam et à l’emprise des lob­bies militaro-industriels. En fait, la gauche américaine avouait dans les années 60 qu’elle avait été autoritaire, bouclier de l’autocratie rooseveltienne et anti-parlemen­taire (tout en reprochant aux fas­cistes de l’être !). Pire, la gauche avouait qu’elle avait été « fasciste » par « anti-fascisme » !

 

Dans une première phase donc, la gauche américaine avait été interventionniste. Dans une seconde, elle devient isolationniste. Cette contradiction s’est (très) partiellement exportée vers l’Europe. Cette mutation, typiquement américaine, fait la spécificité du paysage politique d’Outre-Atlantique.

 

Mettre le Japon au pied du mur…

 

Intéressantes à étudier sont également les positions de Beard sur la guerre américaine contre le Japon. Beard commence par constater que le Japon voulait une « sphère de co-prospérité est-asiatique », incluant la Chine et étendant l’in­fluence japonaise profondément dans le territoire de l’ex-Céleste Empire. Pour cette raison, croyant contrarier l’expansion nippone, Roo­sevelt organise l’embargo con­tre le Japon, visant ainsi son asphyxie. En pratiquant une telle politique, le Président américain a mis le Japon au pied du mur : ou périr lentement ou tenter le tout pour le tout. Le Japon, à Pearl Harbour, a choisi le deuxième terme de l’alternative. L’enjeu de la guerre américano-japonaise est donc le marché chinois, auquel les Etats-Unis ont toujours voulu avoir un accès direct. Les Etats-Unis veulent une politique de la « porte ouverte » dans toute l’Asie, comme ils avaient voulu une politique iden­tique en Allemagne sous Weimar. Dans la polémique qui l’op­pose à Roosevelt, Beard se range du côté de Hoover, dont la critique à du poids. Beard et Hoover pensent que l’action du Japon en Chine n’enfreint nullement la sou­veraineté nationale américaine, ni ne nuit aux intérêts des Etats-Unis. Ceux-ci n’ont pas à s’inquié­ter : ja­mais les Japonais ne par­viendront à japoniser la Chine.

 

Après la deuxième guerre mondia­le, Beard ne cessera de s’opposer aux manifestations de bellicisme de son pays. Il critique la politique de Truman. Il refuse la bipolarisation, telle qu’elle s’incruste dans les ma­chines propagandistes. Il critique l’intervention américaine et britanni­que en Grèce et en Turquie. Il critique la recherche d’incidents en Méditerranée. Il rejette l’esprit de « croisade », y compris quand il vise le monde communiste.

 

En conclusion, Beard est resté pen­dant toute sa vie politique un par­tisan de l’autarcie continentale amé­ricaine et un adversaire résolu du messianisme idéologique. Beard n’était ni anti-fasciste ni anti-com­muniste : il était un autarciste amé­ricain. L’anti-fascisme et l’anti-com­munisme sont des idées internationalistes, donc désincarnées et ir­réalistes.

 

Oswald Garrison VILLARD

 

Né en 1872, Oswald Garrison Vil­lard est un journaliste new-yorkais très célèbre, offrant sa prose pré­cise et claire à deux journaux, Post et Nation, propriétés de son père. L’arrière-plan idéologique de Villard est le pacifisme. Il se fait membre de la Ligue anti-impérialiste dès 1897. En 1898, il s’oppose à la guerre contre l’Espagne (où celle-ci perd Cuba et les Philippines). Il estime que la guerre est incom­patible avec l’idéal libéral de gau­che. En 1914, il est l’un des prin­cipaux avocats de la neutralité. De 1915 à 1918, il exprime sa déception à l’égard de Wilson. En 1919, il s’insurge contre les clauses du Trai­té de Versailles : la paix est in­ju­ste donc fragile, car elle sanction­ne le droit du plus fort, ne cesse-t-il de répéter dans ses colonnes. Il s’oppose à l’inter­ven­tion américaine contre la Russie so­viétique, au mo­ment où Wa­shing­ton débarque des troupes à Arkhan­gelsk. De 1919 à 1920, il se félicite de l’éviction de Wilson, de la non-adhésion des Etats-Unis à la SdN. Il apporte son soutien au néo-isolationnisme.

 

De 1920 à 1930, Villard modifie sa philosophie économique. Il évolue vers le dirigisme. En 1924, il soutient les initiatives du populiste La­Follette, qui voulait que soit inscrite dans la constitution américaine l’obligation de procéder à un réfé­ren­dum avant toute guerre voire avant toute opération militaire à l’étranger. Villard souhaite également la création d’un « Third Par­ty », sans l’étiquette socialiste, mais dont le but serait d’unir tous les progressistes.

 

En 1932, Franklin Delano Roosevelt arrive au pouvoir. Villard salue cette accession à la présidence, tout comme Beard. Et comme Beard, il rompra plus tard avec Roo­sevelt car il refusera sa politique extérieure. Pour Villard, la neutralité est un principe cardinal. Elle doit être une obligation (compulsory neutrality). Pendant la Guerre d’Espagne, la gauche (dont son journal Nation, où il devient une exception) soutient les Républicains espagnols (comme Vandervelde au POB). Lui, imperturbable, plaide pour une neutralité absolue (comme Spaak et De Man au POB). La gauche et Roosevelt veu­lent décréter un embargo contre les « agresseurs ». Villard, à l’instar de Beard, rejette cette position qui in­terdit toute neutralité absolue.

 

Plus de pouvoir au Congrès

 

Les positions de Villard permettent d’étudier les divergences au sein de la gauche américaine. En effet, dans les années 30, le New Deal s’avère un échec. Pourquoi ? Parce que Roosevelt doit subir l’oppo­si­tion de la « Cour Suprême » (CS), qui est conservatrice. Villard, lui, veut donner plus de pouvoir au Congrès. Comment réagit Roosevelt ? Il augmente le nombre de juges dans la CS et y introduit ainsi ses créatures. La gauche applaudit, croyant ainsi pouvoir réaliser les promesses du New Deal. Villard refuse cet expédient car il conduit au césarisme. La gauche reproche à Villard de s’allier aux conservateurs de la CS, ce qui est faux puisque Villard avait suggéré d’aug­menter les prérogatives du Con­grès.

 

Dans cette polémique, la gauche se révèle « césariste » et hostile au Con­grès. Villard reste fidèle à une gauche démocratique et parlemen­taire, pacifiste et autarciste. Villard ne « trahit » pas. Ce clivage conduit à une rupture entre Villard et la ré­daction de Nation, désormais dirigée par Freda Kirchwey. En 1940, Villard quitte Nation après 46 ans et demi de bons et loyaux services, accusant Kirchwey de « pro­stituer » le journal. Cette « pro­stitution » con­siste à rejeter le principe autarcique et à adhérer à l’universalisme (messianique). Villard va alors con­tre-attaquer :

1.        Il va rappeler qu’il est un avo­cat du Congrès, donc qu’il est démocrate et non philo-fasci­ste.

2.        Il va également rappeler qu’il s’est opposé aux conservateurs de la CS.

3.        Il va affirmer que c’est l’ama­teurisme de Roosevelt qui a conduit le New Deal à l’échec.

4.        Il démontre qu’en soutenant Roosevelt, la gauche devient « fasciste » parce qu’elle con­tribue à museler le Congrès.

 

Ni le Japon ni l’Allemagne n’en veulent aux Etats-Unis, écrit-il, donc nul besoin de leur faire la guerre. L’objectif raisonnable à pour­suivre, répète-t-il, est de juxtaposer sur la planète trois blocs modernes autarciques et hermétiques : l’Asie sous la direction du Japon, l’Europe et l’Amérique. Il re­joint l’America-First-Committee qui affirme que si les Etats-Unis interviennent en Asie et en Europe, le chaos s’étendra sur la Terre et les problèmes non résolus s’ac­cu­mu­leront.

 

Villard n’épargnera pas la politique de Truman et la criblera de ses cri­ti­ques. Dans ses éditoriaux, Tru­man est décrit comme un « po­li­ti­cien de petite ville incompétent », monté en épingle par Roosevelt et sa « clique ». Villard critiquera le bom­bardement atomique de Hiro­shima et de Nagasaki. Il s’opposera au Tribunal de Nuremberg, aux Amé­ricains cherchant à favoriser la mainmise de la France sur la Sarre, à tous ceux qui veulent morceler l’Allemagne. Villard sera ensuite un adversaire de la Guerre Froide, s’in­surgera contre la partition de la Corée et contre la création de l’OTAN.

 

Robert A. TAFT

 

Le père de Robert A. Taft fut pendant un moment de sa vie Président de la CS. Le milieu familial était celui des Républicains de vieil­le tradition. Robert A. Taft exerce ses premières activités po­litiques dans le sillage de Herbert Hoover et collabore à son « Food Programm ». En 1918, il est élu en Ohio. En 1938, il devient Sénateur de cet Etat. Dès cette année, il s’engage à fond dans le combat pour la « non-intervention ». Toute politique, selon lui, doit être défensive. Il fustige les positions « idéa­listes » (c’est-à-dire irréalistes), des messianistes démocrates. « Il faut défendre du concret et non des abstractions », tel est son leitmotiv. La guerre, dit-il, conduirait à museler le Congrès, à faire reculer les gouvernements locaux, à renforcer le gouvernement central. Même si l’Allemagne gagne, argumente-t-il, elle n’attaquera pas les Etats-Unis et la victoire éventuelle du Reich n’arrêterait pas les flux commerciaux. D’où, affirme Taft, il faut à tout prix renforcer le « Neutrality Act », empêcher les navires américains d’entrer dans les zones de combat, éviter les incidents et décréter un embargo général, mais qui permet toutefois le système de vente « cash-and-carry » (« payer et emporter »), à appliquer à tous les belligérants sans restriction. Taft est réaliste : il faut vendre tous les produits sans exception. Nye, Sénateur du North Dakota, et Whee­ler, Sénateur du Montana, veulent un embargo sur les munitions, les armes et le coton.

 

« Lend-Lease » et « cash-and-carry »

 

Taft ne sera pas candidat républicain aux élections présidentielles car l’Est vote contre lui ; il ne bénéficie que de l’appui de l’Ouest, hostile à la guerre en Europe. Il s’opposera à la pratique commerciale du « Lend-Lease », car cela implique d’envoyer des convois dans l’Atlantique et provoque immanquablement des incidents. En juillet 1941, la nécessité de protéger les convois aboutit à l’occu­pation de l’Islande. Taft formule une contre-proposition : au « Lend-Lea­se », il faut substituer le « cash-and-carry », ce qui n’empêche nul­le­ment de produire des avions pour la Grande-Bretagne. En juin 1941, la gauche adhère à une sorte de front international anti-fasciste, à l’instigation des communistes (vi­sibles et camouflés). Taft maintient sa volonté de neutralité et constate que la majorité est hostile à la guerre. Seule une minorité de financiers est favorable au conflit. Taft martèle alors son idée-force : le peuple travailleur de l’Ouest est manipulé par l’oligarchie financière de l’Est.

 

Dans le cadre du parti Républicain, Taft lutte également contre la fraction interventionniste. Son adversaire principal est Schlesinger qui prétend que les isolationnistes provoquent un schisme à l’intérieur du parti, qui risque de disparaître ou d’être exclu du pouvoir pendant longtemps. Dans cette lutte, que s’est-il passé ? Les interventionnistes républicains, rangés derrière Wendell Willkie, chercheront l’al­lian­ce avec la droite démocratique de Roosevelt, pour empêcher les Républicains de revenir au pouvoir. De 1932 à 1948, les Républicains seront marginalisés. Une telle con­figuration avait déjà marqué l’his­toire américaine : le schisme des Whigs en 1858 sur la question de l’esclavage (qui a débouché ensuite sur la Guerre de Sécession).

 

Pour Schlesinger, les capitalistes, les conservateurs et la CS sont hostiles à Roosevelt et au New Deal, qu’ils estiment être une forme de socialisme. Taft rétorque que les ploutocrates et les financiers se sont alliés aux révolutionnaires, hostiles à la CS, car celle-ci est un principe étatique éternel, servant la cause du peuple, celui de la majorité généralement silencieuse. Les ploutocrates sont favorables au bel­licisme de Roosevelt, parce qu’ils espèrent conquérir des marchés en Europe, en Asie et en Amé­rique la­tine. Telle est la raison de leur bell­i­cisme.

 

Tant Schlesinger que Taft rejettent la responsabilité sur les capitalistes ou les financiers (les « plouto­cra­tes » comme on disait à l’époque). La différence, c’est que Schlesinger dénonce comme capitalisme le ca­pital producteur enraciné (investis­se­ments), alors que Taft dénonce le capital financier et vagabond (non-investissement).

 

Contre l’idée de « Croisade »

 

Quand les Japonais bombardent Pearl Harbour le 7 décembre 1941 et y détruisent les bâtiments de guerre qui s’y trouvent, la presse, unanime, se moque de Taft et de ses principes neutralistes. La stratégie japonaise a été de frapper le port hawaïen, où ne stationnaient que de vieux navires pour empêcher la flotte de porter secours aux Philippines, que les Japonais s’apprêtaient à envahir, avant de foncer vers les pétroles et le caoutchouc indonésiens. Taft rétorque qu’il aurait fallu négocier et accuse Roosevelt de négligence tant aux Iles Hawaï qu’aux Philippines. Il ne cesse de critiquer l’idée de croisade. Pourquoi les Etats-Unis se­raient-ils les seuls à pouvoir dé­clencher des croisades ? Pourquoi pas Staline ? Ou Hitler ? L’idée et la pratique de la « croisade » con­duit à la guerre perpétuelle, donc au chaos. Taft dénonce ensuite comme aberration l’alliance entre les Etats-Unis, la Grande-Bretagne et l’URSS (chère à Walter Lipp­mann). A cette alliance, il faut sub­stituer des plans régionaux, regrou­per autour de puissances hé­gé­mo­niques les petits Etats trop faibles pour survivre harmonieusement dans un monde en pleine mutation d’échelle.

 

Taft s’opposera à Bretton Woods (1944), aux investissements massifs à l’étranger et à la création du FMI. Il manifestera son scepticisme à l’endroit de l’ONU (Dumbarton Oaks, 1944). Il y est favorable à condition que cette instance devienne une cour d’arbitrage, mais refuse tout renforcement de l’idéo­logie utopiste. Après la guerre Taft s’opposera à la Doctrine Truman, à la création de l’OTAN, au Plan Marshall et à la Guerre de Corée. En 1946, Churchill prononce sa phrase célèbre (« Nous avons tué le mauvais cochon », celui-ci étant Hitler, le « bon cochon » sous-entendu et à tuer étant Staline) et déplore qu’un « rideau de fer » soit tombé de Stettin à l’Adriatique, plongeant l’Ostmitteleuropa dans des « régimes policiers ». Taft, conservateur « vieux-républicain », admet les arguments anti-com­mu­nistes, mais cette hostilité légitime sur le plan des principes ne doit pas conduire à la guerre dans les faits.

 

Taft s’oppose à l’OTAN parce qu’elle est une structure interventionniste, contraire aux intérêts du peuple américain et aux principes d’arbitrage qui devraient être ceux de l’ONU. En outre, elle sera un gouffre d’argent. Vis-à-vis de l’URSS, il modifie quelque peu son jugement dès que Moscou se dote de la Bombe A. Il appuie toutefois Joe Kennedy (père de John, Robert/Bob et Ted) quand celui-ci réclame le retrait des troupes américaines hors de Corée, de Berlin et d’Europe. Taft est immédiatement accusé de « faire le jeu de Moscou », mais il reste anti-com­muniste. En réalité, il demeure fi­dè­le à ses positions de départ : il est un isolationniste américain, il con­sta­te que le Nouveau Monde est sé­paré de l’Ancien et que cette sé­paration est une donnée naturelle, dont il faut tenir compte.

 

John T. FLYNN

 

John T. Flynn peut être décrit com­me un « New Dealer » déçu. Beard et Villard avaient également ex­pri­mé leurs déceptions face à l’échec de la restructuration par Roosevelt de l’économie nord-américaine. Flynn dénonce très tôt la démarche du Président consistant à se don­ner des « ennemis mythique » pour dévier l’attention des échecs du New Deal. Il critique la mutation des communistes américains, qui deviennent bellicistes à partir de 1941. Les communistes, dit-il, tra­hissent leurs idéaux et utilisent les Etats-Unis pour faire avancer la politique soviétique.

 

Flynn était proche malgré lui des milieux fascisants (et folkloriques) américains (Christian Front, German-American Bund, l’American Destiny Party de Joseph McWilliams, un antisémite). Mais le succès de Lindbergh et de son America-First-Committee l’intéresse. Après la guerre, il critiquera les positions de la Fabian Society (qu’il qualifie de « socialisme fascisant ») et plai­dera pour un gouvernement po­pulaire, ce qui l’amène dans le silla­ge de McCarthy. Dans cette opti­que, il fait souvent l’équation « com­­munisme = administration », arguant que l’organisation de l’ad­ministration aux Etats-Unis a été introduite par Roosevelt et para­chevée par Truman. Mais, malgré cette proximité avec l’anti-commu­nisme le plus radical, Flynn reste hostile à la guerre de Corée et à toute intervention en Indochine, con­tre les communistes locaux.

 

Lawrence DENNIS

 

Né en 1893 à Atlanta en Géorgie, Lawrence Dennis étudie à la Philips Exeter Academy et à Harvard. Il sert son pays en France en 1918, où il accède au grade de lieutenant. Après la guerre, il entame une carrière de diplomate qui l’emmène en Roumanie, au Honduras, au Ni­caragua (où il observe la rébellion de Sandino) et au Pérou (au moment où émerge l’indigénisme pé­ru­vien). Entre 1930 et 1940, il joue un rôle intellectuel majeur. En 1932, paraît son livre Is Capitalism Doomed ? C’est un plaidoyer planiste, contre l’extension démesurée des crédits, contre l’exportation de capitaux, contre le non-investis­se­ment qui préfère louer l’argent que l’investir sur place et génère ainsi le chômage. Le programme de Dennis est de forger une fiscalité cohérente, de poursuivre une politique d'investissements créateurs d’em­ploi et de développer une autarcie américaine. En 1936, un autre ou­vra­ge suscite le débat : The Coming American Fascism. Ce livre con­state l’échec du New Deal, à cause d’une planification déficiente. Il constate également le succès des fascismes italien et allemand qui, dit Dennis, tirent les bonnes con­clusions des théories de Keynes. Le fascisme s’oppose au communisme car il n’est pas égalitaire et le non-égalitarisme favorise les bons techniciens et les bons gestionnaires (les « directeurs », dira Burnham).

 

Il y a une différence entre le « fas­cis­me » (planiste) tel que le définit Den­nis et le « fascisme » roose­vel­tien que dénoncent Beard, Villard, Flynn, etc. Ce césaris­me/fas­­cisme roo­seveltien se dé­ploie au nom de l’anti-fascisme et agresse les fascismes européens.

 

En 1940, un troisième ouvrage de Dennis fait la une : The Dynamics of War and Revolution. Dans cet ouvrage, Dennis prévoit la guerre, qui sera une « guerre réactionnaire ». Dennis reprend la distinction des Corradini, Sombart, Haushofer et Niekisch, entre « nations prolétariennes » et « nations capita­listes » (haves/havenots). La guer­re, écrit Dennis, est la réaction des nations capitalistes. Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne, nations ca­pi­talistes, s’opposeront à l’Alle­magne, l’Italie et l’URSS, nations prolétariennes (le Pacte germano-soviétique est encore en vigueur et Dennis ignore encore qu’il sera dissous en juin 1941). Mais The Dynamics of War and Revolution constitue surtout une autopsie du monde capitaliste américain et occi­dental. La logique capitaliste, explique Dennis, est expansive, elle cherche à s’étendre et, si elle n’a pas ou plus la possibilité de s’é­ten­dre, elle s’étiole et meurt. D’où le capitalisme cherche constamment des marchés, mais cette recherche ne peut pas être éternelle, la Terre n’étant pas extensible à l’infini. Le capitalisme n’est possible que lors­qu’il y a expansion territoriale. De là, naît la logique de la « frontière ». Le territoire s’agrandit et la population augmente. Les courbes de profit peuvent s’accroître, vu la né­ces­sité d’investir pour occuper ou coloniser ces territoires, de les équiper, de leur donner une infrastructure, et la nécessité de nourrir une population en phase d’explo­sion démographique. Historiquement parlant, cette expansion a eu lieu entre 1600 et 1900 : les peuples blancs d’Europe et d’Amérique avaient une frontière, un but à at­teindre, des territoires à défricher et à organiser. En 1600, l’Europe in­vestit le Nouveau Mon­de ; de 1800 à 1900, les Etats-Unis ont leur Ouest ; l’Europe s’étend en Afrique.

 

L’ère capitaliste est terminée

 

Conclusion de Dennis : l’ère capitaliste est terminée. Il n’y aura plus de guerres faciles possibles, plus d’injection de conjoncture par des expéditions coloniales dotées de faibles moyens, peu coûteuses en matières d’investissements, mais rapportant énormément de dividendes. Cette impossibilité de nouvelles expansions territoriales explique la stagnation et la dépression. Dès lors, quatre possibilités s’offrent aux gouvernants :

1.        Accepter passivement la sta­gnation ;

2.        Opter pour le mode communis­te, c’est-à-dire pour la dicta­ture des intellectuels bourgeois qui n’ont plus pu accé­der au capitalisme ;

3.        Créer un régime directorial, corporatiste et collectiviste, sans supprimer l’initiative pri­vée et où la fonction de con­trôle politique-étatique con­siste à donner des directives efficaces ;

4.        Faire la guerre à grande é­chelle, à titre de palliatif.

 

Dennis est favorable à la troisième solution et craint la quatrième (pour laquelle opte Roosevelt). Dennis s’oppose à la seconde guerre mon­diale, tant dans le Pacifique que sur le théâtre européen. Plus tard, il s’opposera aux guerres de Corée et du Vietnam, injections de con­jonc­ture semblables, visant à dé­truire des matériels pour pouvoir en reconstruire ou pour amasser des dividendes, sur lesquels on spéculera et que l’on n’investira pas. Pour avoir pris de telles positions, Dennis sera injurié bassement par la presse du système de 1945 à 1955, mais il continue imperturbablement à affiner ses thèses. Il commence par réfuter l’idée de « péché » dans la pratique politique internationale : pour Dennis, il n’y a pas de « péché fasciste » ou de « péché communiste ». L’obsession américaine de pratiquer des politiques de « portes ouvertes » (open doors policy) est un euphémisme pour désigner le plus implacable des impérialismes. La guerre froide implique des risques énormes pour le monde en­tier. La guerre du Vietnam, son en­lisement et son échec, montrent l’inutilité de la quatrième solution. Par cette analyse, Dennis a un impact incontestable sur la pensée contestatrice de gauche et sur la gauche populiste, en dépit de son étiquette de « fasciste ».

 

En 1969, dans Operational Thinking for Survival, Dennis offre à ses lecteurs sa somme finale. Elle con­siste en une critique radicale de l’A­merican Way of Life.

 

Conclusion

 

Nous avons évoqué cinq figures d’opposants américains à Roosevelt. Leurs arguments sont similaires, en dépit de leurs diverses provenances idéologiques et politiques. Nous aurions pu comparer leurs positions à celles de dissidents américains plus connus en Europe comme Lindbergh ou Ezra Pound, ou moins connus comme Hamilton Fish. Nous aurions pu également analyser les travaux de Hoggan, historien contemporain non conformiste, soulignant les res­ponsabilités britanniques et américaines dans le deuxième conflit mon­dial et exposant minutieux des positions de Robert LaFollette. En­fin, nous aurions pu analyser plus en profondeur l’a­venture politique de cet homme politique populiste des années 20, leader des « pro­gres­sistes ». Leur point commun à tous : la volonté de maintenir une ligne isolationniste, de ne pas inter­venir hors du Nouveau Monde, de maximiser le dé­veloppement du territoire des Etats-Unis. 80% de la population les a suivis. Les intellectuels étaient partagés.

 

L’aventure de ces hommes nous montre la puissance de la manipulation médiatique, capable de re­tour­ner  rapidement l’opinion de 80% de la population américaine et de les entraîner dans une guerre qui ne les concernait nullement. Elle démontre aussi l’impact des principes autarciques, devant con­duire à une juxtaposition dans la paix de grands espaces autonomi­sés et auto-suffisants. En Europe, ce type de débat est délibérément ignoré en dépit de son ampleur et de sa profondeur, l’aventure intellectuelle et politique de ces Américains non conformistes est désormais inconnue et reste inexplorée.

 

Une étude de cette problématique interdit toute approche manichéen­ne. On constate que dans la gauche américaine (comme dans une certaine droite, celle de Taft, p. ex.), l’hostilité à la guerre contre Hitler et le Japon implique, par une logique implacable et constante, l’hostilité ultérieure à la guerre con­tre Staline, l’URSS, la Corée du Nord ou le Vietnam d’Ho Chi Minh. Dans l’espace linguistique francophone, il semble que les non-con­formismes (de droite comme de gau­che) n’aient jamais tenu compte de l’opposition intérieure à Roosevelt, dont la logique est d’une clarté et d’une limpidité admirables. Navrante myopie politique…

 

Robert STEUCKERS.

(Conférence prononcée à Ixelles à la Tribune de l’EROE en 1986, sous le patronage de Jean E. van der Taelen ; texte non publié jusqu’ici).

dimanche, 14 septembre 2008

Derrière le prétendu impérialisme russe: le pétrole qui sent l'impérialisme américain

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Derrière le prétendu impérialisme russe :

le pétrole qui sent l’impérialisme américain

Comme aux plus belles heures de la guerre du Kosovo, les médias « occidentaux » (c’est-à-dire ceux des pays inféodés à l’Oncle Sam) balancent des images en pagaille aux yeux des spectateurs (des images présentées comme celles de la guerre en Géorgie pourraient venir du Liban que personne ne s’en rendrait compte…), avec la traditionnelle répartition des rôles (Russie = puissance impérialiste cruelle, Géorgie = victime innocente et Etats-Unis/ « Communauté internationale » = grands frères protecteurs) et la scène peut être montée : avec la France dans le rôle pathétique des porteurs de riz et les Etats-Unis dans celui de l’acteur que l’on prend au sérieux, parce qu’il a les moyens de ses ambitions (contrairement au coq tricolore qui a renoncé à toute « ambition »). Il est particulièrement risible d’entendre parler « d’impérialisme » à propos de la Russie alors que la Géorgie (qui souhaite adhérer à l’OTAN) est depuis des années le chien fidèle, pour ne pas dire une colonie, des Etats-Unis (ce qui démontre que l’impérialisme n’est pas tant du côté russe qu’américain). Par ailleurs, le président Bush n’a pas craint le ridicule en appelant au respect le plus solennel de « l’intégrité territoriale » de la Géorgie ; on notera toutefois que le vol du Kosovo et le charcutage de « l’intégrité territoriale » de la Serbie n’ont pas particulièrement troublé le sommeil de la diplomatie US ces derniers mois… Joies et délices de l’hypocrisie américaine.

Derrière les pleurnicheries du président géorgien Mikheïl Saakachvili qui veut faire passer son pays pour la victime d’un nettoyage ethnique façon Darfour (il y a des « nettoyages ethniques » dans tous les conflits de nos jours, c’est merveilleux !) et la promptitude du bon samaritain américain à voler au secours de la Géorgie, il y a la réalité froide et incontournable des intérêts pétroliers américains et de leurs vassaux : en effet la Géorgie est l’intermédiaire entre l’axe atlantique (Etats-Unis/Europe de l’ouest) et les hydrocarbures d’Azerbaïdjan, situation bien pratique qui permet de contourner la Russie pour s’approvisionner en pétrole et ainsi accroître la tutelle américaine sur le continent européen grâce au pion géorgien… D’où l’inquiétude des Américains et de leurs alliés. De l’Irak à la Géorgie : rien de nouveau sous le soleil !

Enfin, dans cette affaire où les peuples des deux côtés de l’Atlantique sont pris pour des imbéciles par leurs élites médiatico-politiques, on remarquera cette propension bien journalistique à parler avec emphase de « communauté internationale » comme pour justifier les ingérences insupportables des élites américaines : la « communauté internationale » intervient ici, la « communauté internationale » fait cela… Et on oublie que derrière cette expression en trompe-l’œil (notion floue, sans aucun fondement juridique) se trouve l’œil de Washington puisque les Etats-Unis ont un poids considérable dans les décisions de l’OTAN (organisation politico-militaire héritée de la guerre froide et alliant les Etats-Unis et l’Europe occidentale pour la défense de cette dernière contre l’URSS). Chose qu’avait compris De Gaulle en retirant la France de sa structure militaire intégrée et de sa direction en 1966, se méfiant des arrières pensées du « grand frère américain ». Leçon oubliée par Nicolas Sarkozy qui annonce en 2008 le retour de l’hexagone dans le commandement intégré de l’OTAN. Attention donc aux termes tarte à la crème tels que « la communauté internationale » qui sous-entend de manière sournoise que la décision prise, parce qu’elle est « internationale », l’a été à l’unanimité ou est le résultat d’un consensus, alors que la plupart du temps ce sont les Etats-Unis qui ont le dernier mot (fait admis de tous).

La réémergence de la Russie sur la scène mondiale, débarrassée des scories du communisme, ardent défenseur du Kosovo serbe, impitoyable envers le terrorisme islamique et décidée à en finir avec la pax americana, devrait plutôt exciter la curiosité et la sympathie des Européens au lieu de se laisser bêtement prendre au piège de l’épouvantail soviétique agité par les Etats-Unis. L’âme de l’Europe, si elle est encore bien vivante, est très forte dans cette Russie orthodoxe fière de ses racines et de son identité.

La construction européenne, pour être crédible, ne peut pas se faire sans la Russie : revenir à la situation de la Guerre froide, avec un bloc américain à l’ouest et une Europe occidentale qui lui est totalement soumise (la seule différence aujourd’hui est que la sphère d’influence américaine s’étend jusqu’aux pays de l’est inclus), et un bloc russe d’autre part, serait, plus qu’un retour en arrière en forme de pied de nez historique, un insupportable gâchis ! Ne ratons pas cette occasion historique.

Julien Langella

 

mardi, 09 septembre 2008

Europa der Völker statt US-Globalisierung

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Europa der Völker statt US-Globalisierung

Gesellschaft für Freie Publizistik (GFP) e. V.

 

Deutscher Kongreß vom 23. bis 25. April 2004

 

DIE NEUE ACHSE – EUROPAS CHANCEN GEGEN AMERIKA

 

Vortrag von Robert STEUCKERS

 

Mein Vortrag hat selbstverständlich eine geopolitische Dimension, aber auch eine geoökonomische, in dem Sinn, daß die grossen Kommunikationswege und –netzwerke auf dem Land oder auf dem Meer oder die Tragweite der modernsten Waffensystemen im heutigen Wettbewerb zwischen Europa und den Vereinigten Staaten eine erhebliche Rolle spielen. Die Weite und der Umfang solcher Wege, Netzwerke, usw., bestimmen ob man in Völker- oder Reichskategorien denken sollte.

 

Wenn von Völkern die Rede ist, muß man wissen worum es geht. Die Völker, in der Zeit der Völkererhebungen im 19. Jahrhundert, haben gegen multiethnische Reiche, die sie als Zwangsjacken empfunden, rebelliert. Ab 1848, rebellierten oder entwickelten eine eigene Identitätsbewegung Polen und Finnen in Rußland, Tschechen und Italiener innerhalb des Hoheitsgebietes der k.u.k-Monarchie, Südslawen und Griechen im Ottomanischen Reich, Iren im Vereinigten Königreich; in Frankreich entwickelten sich die bretonischen oder die provenzalischen (die genannten “Félibriges”) Kulturbewegungen im Sinne einen ausgesprochenen Anti-Zentralismus und Anti-Jakobinismus.

 

Woher kommt diese allgemeine Kulturrevolte? Sie stammt, grob gesagt, aus der Geschichtsphilosophie Johann Gottfried Herders, der feststellte, daß bei jedem Volk, die Sprache, die Literatur, das geschichtliche Gedächtnis, jeweils ein Bündel von Kräften bildeten, die man als Identität anschauen kann. Die Identität ist also volksspezifisch, was impliziert, daß jedes Volk das Recht hat, seine eigene politische Gestalt zu haben, d. h. einen Staat nach seiner Fasson zu bilden. Vorteil davon ist es, daß jedes Volk seine Kräfte und seine Eigenheiten frei entfalten kann. Risiko aber ist es, daß innerhalb einer Völkergemeinschaft bzw eines Kulturkreises, Balkanisierung droht. Herder war bestimmt davon bewußt, da er auch eine Synthese zu entwerfen versuchte, indem er zur Zeit der russichen Kaiserin Catharina II. eine neue politisch-ideologisch-philosophische Gestaltung für den Zwischenraum zwischen Rußland und Deutschland theorisierte. Herder träumte, vom Baltikum bis zur Krim ein neues Griechenland homerischer Prägung entstehen zu lassen. Das Germanische, das Baltische und das Slawische hätten zusammen eine Rückkehr zum ältesten und heroischsten Griechenland versucht,  die auch eine Rückkehr zu den ältesten und erhabenensten Quellen Europas wäre. Heute klingt das selbstverständlich ätherisch und utopisch : davon, und auch vom gesamten Werk Herders, muß man heute ein Grundelement enthalten. Eine Synthese in Europa ist nur möglich, indem man eine Rückkehr zu den urältesten Quellen macht, d. h. eine Rückkehr zu den ersten Grundlagen der europäischen Menschheit, zum Kern unseres eigenen Menschseins, den man ständig aktivieren muß. Archetypen sind Motoren, bewegende Kräfte, die kein Progressivismus auslöschen darf, da anders die Kultur in eine öde Trockenheit erstarrt.

 

Die Nation als Begriff war für Herder eine mehr oder weniger homogene und unveräusserliche Einheit von Ethnizität, Sprache, Literatur, Geschichte und Sitten. Für die französische Revolutionäre war die Nation nicht eine solche Bündelung von objecktiven Tatsachen, sondern bloß die bewaffnete Bevölkerung, egal welche Sprache die Massen sprachen, oder das bewaffnete Demos oder der “Dritte Stand”, den mobilgemacht wurde um die universalistische Republik endlos zu erweitern. Tilo Meyer, in seiner ausgezeichneten Definition der Nation, sagte daß das Ethnos (das Volk in der Herderschen Definition) nicht zur bloßen Verfügung des Demos geraten dürfte, was zur Folge hat, daß man als volksdemokratisch nur die politischen Systeme, die auf Herders Definition der Nation füßen, definieren kann, derweil die anderen Systeme, die vom revolutionären Frankreich stammen und nur das Demos verherrlichen zu ungunsten des Ethnos, gleichschaltend und totalitär sind. Das heutige Multikulti-Projekt ist in diesem Sinn ebenso gleichschaltend und totalitär.

 

Die Mobilisierung der Massen zur Zeit der französischen Revolution hatte selbstverständlich ein unmittelbares militärisches Zweck : den Revolutionsarmeen eine entscheidende Schlagkraft zu geben, um die gut ausgebildeten aber zahlenmäßig geringeren Berufsarmeen Preußens und Österreichs zu zerschlagen. Das ist in Jemmappes und teilweise in Valmy passiert. Die Revolution führte eine neue Kriegsführung ein, die ihr entscheidende Siege versichern konnte. Clausewitz, indem er die Gründe der preußischen Niederlagen erforschte, stellte fest, daß die totale Mobilmachung aller männlichen Kräfte innerhalb eines Staates die einzige mögliche Antwort der Revolution gegenüber war, um die Massen der bewaffneten Soldaten Frankreichs zu überschwemmen statt überschwommen zu werden. Das Beispiel der Bauern Spaniens, wo das ganze Volk sich für die Tradition gegen die Revolution einsetzte, bewies damals, daß auch traditionsorientierte Massen revolutionsinspirierte Massenarmeen zerschlagen oder zermürben könnten. Turnvater Jahn ist also die deutsche Synthese zwischen der Theorie Clausewitz’ und der Praxis der rebellierten Bauern Spaniens. Die Mobilisierung des Volkes erst in Spanien und später in Deutschland machte den Sieg über Napoleon, d. h. über das mechanische Revolutionsprinzip, möglich.

 

Nach dem Wiener Kongreß von 1815 wollten die reaktionären Kräfte die Völker wieder entwaffnen. Die versprochene politische Freiheit wollte das Metternich-Europa rückgängig machen. Aber wenn der Bauer oder der Handwerker Soldat sein sollte, und so den Blutszoll eventuell zahlen, erwirbt er ungezweifelt ein Recht auf Mitbestimmung. Wenn jeder das Recht und die Möglichkeit zu studieren erhält, erhält er auch gleichzeitig ein Recht zumindest geistlich mitzubestimmen, wie die deutschen nationaldemokratischen Burschenschaftler es wollten. Die Studenten rebellierten damals gegen eine Restauration, die die Militärdienstspflicht zwar erhalten wollte aber ohne die politische Freiheit zu gewähren. Ihre Rebellion füßte geistlich auf eine kuriose Mischung zwischen dem Herderschen Begriff der Nation und den mechanischen pseudo-nationalen Idealen der französischen Revolution. In dieser Zeit zwischen Revolution und Restauration, zwischen einem rebellischen Denken in Völkern und einem traditionsorientierten Denken in Reichen, waren die ideologischen Grenzen eher diffus. Eine Synthese, die organisch zu sein brauchte, war notwendig. Da eine solche Synthese noch nicht stattgefunden hat, ist es immer heute noch notwendig, über die Begriffe, die damals entstanden sind, nachzudenken.

 

Um zurück zur Dialektik Volk/Reich bzw Völker/Kulturkreise zu kommen, hatte man also am Ende des 18. und am Anfang des 19. Jahrhunderts einerseits grössere Einheiten, die für die Meisten unüberschaubar waren, andererseits brauchten man doch diese grösseren Einheiten, um Wettbewerb leisten zu können, gegen die transatlantische Macht, die sich schon damals entfaltete. Die spanischen Kolonien machten sich angeblich “frei”, gerieten aber in der Abhängigkeit der aufkommenden Vereinigten Staaten. Der österreichische Minister Hülsemann, angesichts der Proklamation der Monroe-Doktrin, und der französische Philosoph Alexis de Tocqueville, nach einer langen Reise nach Amerika, warnten die Europäer, daß dort über die Atlantik eine Macht auftauchte, die ganz anders war, als was man in Europa stets gekannt hatte. Die Weltpolitik erhielt kontinentale Dimensionen. Die Zukunft wird von jetzt ab denjenigen Mächten gehören, die eine genügende Ausdehnung haben werden, die genug Rohstoffe auf einem geballten, gut abgerundeten, Hoheitsgebiet und nicht wie die Kolonialreiche, über alle Windrichtungen zerstreut.

 

Hülsemann, und später Constantin Franz, plädierten für ein Zusammenschließen der kolonienlosen Kontinentalmächte, was letztendlich dazu führte, daß Verträge wie der Drei-Kaiser-Bund oder daß Prinzipien wie die preussisch-russische Rücksprache praktiziert wurden. Anfang des 20. Jahrhunderts, wollte der Bund zwischen dem Deutschen Reich und Österreich-Ungarn das marode Ottomanische Reich als Ergänzungsraum wieder erquicken. Das implizierte die Konstruktion eines Kommunikationsnetzwerkes, m a w eine Eisenbahnstrecke zwischen Hamburg und Bagdad (und eventuell weiter, bis zur Küste des Persischen Golfes). Da liegen die Hauptgründe des Ersten Weltkrieges. England konnte keine nichtenglische Anwesenheit in diesem Gebiet dulden. Russland konnte es nicht annehmen, daß Deutsche und Österreich in Konstantinopel, bzw. Tsarigrad, die Politik mitentschieden.

 

Innerhalb Europas sind also reichische Strukturen notwendig, um den bodenständigen europäischen Kulturkreis zusammenzuhalten, damit alle Völker, die innerhalb dieses reichisch organisierten Kulturkreises, eine Zukunft haben können. Heute plädiert der US-amerikanische Professor Samuel Huntington dafür, politisch in Kulturkreiskategorien zu denken. Er spricht english von “civilizations”, wobei die deutsche Sprache etwa mit Oswald Spengler den Unterschied zwischen dem Begriff “Kultur”, den man als etwas organisches anschauen sollte, und dem Begriff “Zivilisation”, der als die rein mechanischen Errungenschaften eines Kulturkreises anzuschauen ist; diese Errungenschaften erreichen ihren Hohenpunkt, wenn die organischen Wurzelkräfte fast erschöpft sind. Samuel Huntington, als einer aktuelle Spengler-Schüler, meint, daß solche Wurzelkräfte wieder zu beleben sind, wenn man sich wieder darauf besinnen will, wie etwa die Muslimfundamentalisten oder die Erneuerer des Hinduismus es heute tun. Samuel Huntington spricht von einem allgemeinen westlichen Kulturkreis, der Europa und Amerika in einer atlantischen Einheit zusammenschmelzen würde. Für uns wie für Hülsemann und Tocqueville sind Europa, als schlafend-schlummernden Quelle des ureuropäischen Menschentums, und Amerika, als eine weltgeschichtliche und vergangenheitslose Neuheit revolutionärer und mechanischer Prägung, zwei grundverschiedene Pole, eben wenn an der Oberfläche Bruchstücke einer fabrizierten sogenannten “klassischen” Kultur als Ornamente übrigbleiben. Diese “klassischen” Ornamente werden heute in Amerika gründig zur Diskussion gestellt : sollte man sie bewahren als Überbleibsel einer mehr oder weniger vergessenen europäischen gemeinsamen Vergangenheit, sollte man sie im Denken definitiv erledigen, über Bord schmeißen, oder sollte man sie als geistliche Elemente für Tauschmanöver in der Medienwelt weiter benutzen?

 

Das heutige Europa, in der Gestalt von Euro-Brüssel, ist selbstverständlich kein Reich, aber nur ein Superstaat im Werden. “Staat” gleicht nicht “Reich”, da der Staat “steht”, und bewegt sich nicht, und da ein Reich per definitionem alles Organisches in sich aufnimmt, geistig-politisch bearbeitet und anpasst, und also stets in Gärung und Bewegung ist. Das heutige Euro-Brüssel wird, wenn es so weitergeht, zur totalen Erstarrung führen. Das heutige Euro-Brüssel hat kein Gedächtnis, hat jeden historischen Hintergrund verloren, ist wurzellos geworden : die Ideologie dieser machinenhaften Konstruktion ist eine pure Gedankenmachenschaft, die keine einzige Lektion aus der Vergangenheit lernen will. Dazu ist die wirtschaftliche Praxis Euro-Brüssels weltoffen und neoliberal, also eine Negation der geschichtlichen Dimension der realen Wirtschaftssysteme, die tatsächlich auf dem europäischen Boden sich entwickelt haben.  Neoliberalismus erlaubt noch dazu keine positive Entwicklung in Richtung einer kontinentalen Autarkie. Euro-Brüssel ist deshalb nicht mehr europäisch in realgeschichtlichem Sinn des Wortes sondern westlich, da ein doktrinärer Neoliberalismus, als Modernisierung des alten angelsächsischen Manchester-Liberalismus, eben das ideologische Kennzeichen par excellence des Westens ist, wie so unterschiedliche Autoren wie Ernst Niekisch, Guillaume Faye oder Claudio Finzi es gründlich ausgelegt haben.

 

Aber die Projekte, Europas Kräfte zusammenzuballen, waren Anfangs bestimmt nicht “weltoffen”, sondern “autarkisch”, obwohl freiwirtschaftlich im Sinne eines Ordo-Liberalismus, d h eines Liberalismus, der mit nicht-ökonomischen Faktoren Rechnung hält. Eine Wirtschaft kann nicht ohne Gefahr alle anderen Gebieten der menschlichen Aktivitäten ausschalten. Kulturerbe, Organisation der Medizin und des Unterrichtswesens sollten immer einen gewissen Vorrang vor rein ökonomischen Faktoren bekommen, weil sie Ordnungs- und Stabilitätsfaktoren innerhalb einer Gesellschaft bzw eines Kulturkreises sind, sie garantieren deshalb die Zukunft der Völker die innerhalb dieses Kulturkreises leben. Ohne eine solche Stabilisierung, gehen die Völker am Liberalismus zugrunde, wie schon Arthur Moeller van den Bruck es Anfang der 20er Jahre festgestellt hatte.

 

Was Europa unmittelbar betrifft, hatten österreichische Industriellen und Wirtschaftsleute eine Europapolitik schon Ende des 19. Jahrhunderts vorgeschlagen. Zum Beispiel: Alexander von Peez spürte schon sehr früh, daß die VSA die Ausschaltung Europas nicht nur aus der Neuen Welt sondern auch überall und in Europa selbst planten. Die Überlebensfrage für alle europäische Völker war gestellt : entweder eine gesamteuropäische Einigung in einem autarkischen Wirtschaftssystem wie der Deutsche Zollverein oder die Kolonisierung durch die neue panamerikanische Macht, die damals in Werdung war. Alexander von Peez warnte schon vor der Gefahr einer “universellen Amerikanisierung”. Der Wirtschaftstheoretiker Gustav Schmoller, Galionsfigur der sogenannten “deutschen historischen Schule”, predigte für einen “Europäischen Wirtschaftsblock”, der fähig sein würde, den US-amerikanischen Dynamismus eine Antwort zu bieten.  Für Schmoller sollte ein solcher Block “autarkisch” sein und sich durch Zollhürden schützen. Genau das Gegenteil was Europa heute tut. Julius Wolf, ein anderer deutscher Wirtschaftstheoretiker sah die Schließung des immensen panamerikanischen Marktes den europäischen Waren und Produkten gegenüber voraus, sowie auch eine schärfere Konkurrenz zwischen europäischen und amerikanischen Produkten weltweit. Arthur Dix und Walther Rathenau werden auch diese Perpektive annehmen. Jäckh und Rohrbach plaidierten für einen Wirtschaftsblock, der sich vom Nordsee bis zum Persischen Golf ausdehnen sollte. So entstand die sogenannte “Orientsfrage”, der Achse Hamburg-Kuweit entlang. Kaiser Wilhelm II. wollte den Balkanraum, Anatolien und das Zwei-Ströme-Land als Ergänzungsraum für die deutsche Industrie organisieren, aber er schlug die Mitbeteiligung anderer europäischen Mächten, inklusiv Frankreich, ritterlich vor. Gabriel Hanoteaux war der einzige wichtige französische Staatsmann, der positive Folge diesen rationellen Vorschlag geben wollte. In Rußland war das Projekt vom Staatsmann Sergeij Witte positiv akzeptiert. Leider wurden diese hellsehenden Staatsmänner beiseitegeschoben zugunsten Dunkelmänner aller möglichen ideologischen Schattierungen.

 

Der Zankapfel, der zum Ersten Weltkrieg geführt hat, war eigentlich die Stadt Konstantinopel. Objekt dieses extrem mörderischen Krieges war die Beherrschung der Meerstraßen und des östlichen Beckens des Mittelmeeres. Die Engländer hatten es immer gewünscht, diese Meerstraßen in den Händen der schwach gewordenen Türken zu lassen. Aber eine Türkei, die als Ergänzungsraum eines wirtschaftlich einheitlich organisierten Mitteleuropas unter deutscher Führung,war ihnen einen Dorn ins Auge. Der Rest des ottomanischen Reiches sollte nochmals zerstückelt werden, damit keine territoriale Kontinuität übrigbleibt besonders im Raum zwischen Mittelmeer und Perzischem Golf. Die Türkei, Rußland und Deutschland sollten in diesem hoch strategischen Gebiet der Welt verdrängt worden, eine “Containment-Policy” ante litteram. Die Russen träumten immer Konstantinopel wieder zu erobern und von dieser wunderschönen Stadt ein “Tsarigrad” zu machen. Die Russen, als Hauptvertreter des “Dritten Roms”, wollten, daß  das ehemalige Bysanz der Mittelpunkt des christlich-orthodoxen Kutlurkreises wieder wurde. Die Franzosen hatten Interesse im Vorderasien, in Syrien und Libanon, wo sie die Interesse der dortigen christlichen Gemeinschaften offiziell verteidigten. Keine dieser Macht verstand, daß die neuen Zeiten eine neue Politik forderte. Das Zusammenprallen dieser verschiedenen und unterschiedlichen Interessen führte zur Katastrophe von 1914.

 

In 1918 waren Frankreich und England fast ruiniert. Sie hatten Riesenschulden in den VSA gemacht. Die beiden westlichen Mächte hatten allerlei Material in Amerika gekauft, um die Front halten zu können. Die VSA, die vor 1914 überall in der Welt Schulden hatten, wurden sehr rasch Schuldeiser statt Schuldner. Frankreich hatte nicht nur anderhalb Million Männer, d h ihre biologische Substanz, verloren, es mußte fast ewige Schulden zahlen, sodaß Versailles die Deutschen zwung, ein erhebliche Anteil der Schulden zu zahlen. Dieses Spiel von Schulden und Zahlungen hat Europa ruiniert, und es in einer Horrorspirale von Inflationen und Wirtschaftskatastrophen gestürzt. Während derr 20er Jahren wollten die VSA Deutschland als bevorzugter Kunde haben, um die zollgeschützten europäischen Märkte zu “penetrieren”, wie man damals sagte. Die Wirtschaft der Weimarer Republik, etwa mit den Young- oder Dawes-Plänen, galt in den höchsten Wirtschaftskreisen Amerikas als eine “penetrierte” Wirtschaft. Was damals für Deutschland galt, wird nach dem 2. Weltkrieg für ganz Westeuropa gelten und nach dem Kalten Krieg für Gesamteuropa. So hat sich stufenweise die “universelle” Amerikaniesierung, bzw die Eine-Welt-Ideologie Rooseveltscher Prägung bzw die heutige Globalisierung à la Sörös entwickelt. Die Namen sind zwar anders, die Strategie bleibt aber einheitlich. 

 

Der 2. Weltkrieg hatte als Hauptkriegsziel Washingtons und Churchills, die Einheit Europas  durch die Achsen-Mächte zu verhindern, damit so eine “unpenetrierte” und “unpenetrable” Wirtschaft nicht entstehen und sich behaupten könnte. Der 2. Weltkrieg hatte überhaupt nicht als Ziel, Europa zu “befreien”, sondern seine Wirtschaft in einem ständigen Zustand der Abhängigkeit zu halten, was keine “moralische” aber wohl eine sachlich materialistische und ökonomische Beurteilung der Kriegsverantwortlichkeiten ist. Einige deutlich behaupteten Kriegsziele werden kaum noch in unseren Medien erwähnt, was ihre gründliche Bedeutung nicht ausschließt, im Gegenteil! Die quasi offizielle Zeitschrift “Géopolitique”, die heute in Paris herausgegeben wird, erinnerte uns kürzlich an den britischen Willen, die Flußverkehr auf der Donau und die Verwirklichung der Rhein-Main-Donau-Verbindung zu verhindern. “Géopolitique” publizierte dabei eine Karte, die damals 1942 in der Londoner Presse gedruckt wurde. Deutschland sei gefährlich, nicht weil seine politische Regime “undemokratisch” wäre, aber weil diese Regime in der Lage geworden war, das Plan Karel des Großen und das Testament des preußischen Königs Friedrich des Zweiten zu realisieren, d h eine inländische kontinentale Flußverbindung zu verwirklichen, die die kontinentalen Mächte unabhängig ohne umfangreiche Flotte kontrolieren konnten, was automatisch die britische Kontrolle über das Mittelmeer strategisch stark relativierte. Um von der Atlantikküste nach den Kornfelder der Krim und der Dniestr- Dniepr- und Donbecken oder nach Ägypten zu fahren, braucht man nicht mehr notwendigerweise die Frachter der aus England finanzierten Reedereien. Das Schwarze Meer wird auch so direkt mit Mitteleuropa und  dem Rheingebiet verbunden. Eine solche geopolitische, geostrategische und geoökonomische Symphonie wollten die Seemächte eben vermeiden, da sie so ihre Bedeutung  verloren hätten. Die geopolitischen Visionen des von den englischen Diensten fergeleiteten französischen Geopolitiker André Chéradame, der die Zerstückelung Mitteleuropas und des Donau-Beckens für das Versailler Diktat vorbereitete, haben auch als Hauptziel, soviele künstliche, kaum lebbare und miteinander verfeindete Staaten im Donau-Gebiet zu schaffen, sodaß von Wien bis zum Schwarzen Meer keinen wirtschaftlich dynamischen Ergänzungsraum oder keinen reichisch strukturierten Raum mehr entstehen konnten.

 

Das Ziel, die Flußverkehr zu verhindern, wurde von den späteren Ereignissen des Kalten Krieges befestigt. Die Elbe (Achse Prag-Hamburg) und die Donau als Flußadern wurden durch den Eisernen Vorhang verriegelt. Der Kalte Krieg hatte als Ziel, diese Spaltung zu verewigen, sowie die Bombardierung der Donau-Brücken um Belgrad 1999 das gleiche Ziel verfolgten. Weiter hatte der Kalte Krieg als Ziel, Russland weit vom Mittelmeer zu halten, es keine Zugänge zur warmen Seen zu verschaffen, Deutschland gespaltet zu halten, Frankreich eine relative Autonomie zu lassen. Frankreich zählte offiziell zu den Siegermächten und wurde relativ von diesen Zerstückelungs- und Balkanisierungsmaßnahmen bespart. Die Amerikaner tolerierten diese Autonomie einfach weil die grossen französischen Flüße, wie die Seine, die Loire und die Garonne atlantische Flüße sind und keine nennenswerte Verbindungen mit dem Donau-Raum ermöglichen und weil damals die Konsumindustrie Frankreichs zu schwach war. Nur in den 50er und 60er Jahren, entwickelte sich in Frankreich eine solche Industrie mit billigeren Autos (Die 2CV-“häßliche Enten” von Citroën, die “Dauphine” oder R8-Modelle von Renault, usw), Moulinex-Küchenapparaten, usw aber ohne den deutschen Standard zu erreichen. Die Stärke Frankreichs war immer seine Goldreserven. Die Stärke Deutschlands die Herstellung von ausgezeichneten Prezisionsprodukten, die man gegen Gold oder Devisen verkaufen konnte. Anton Zischka schrieb einmal daß die Rückkehr aus Amerika der französischen Goldreserven zur Zeit der De Gaulleschen Rebellion in den 60er Jahren unter dem Impuls des Wirtschaftstheoretiker Rueff eine unzulängliche Maßnahme war, da gewisse Branchen der Konsumindustrie in Frankreich damals nicht bestanden : Photoapparate, Schreibmaschinen, Optikprodukte, solide Autos für den Ausfuhr wurden im Land nicht produziert. Sowie Zischka in seinem wichtigen Buch “Sieg der Arbeit” theorisierte, ist Gold eine statische Quelle des nationalen Reichtums derweil die Arbeit, als ständig produzierender Faktor, der Dynamik der neuzeitlichen Welt entspricht. Das hatten die US-amerikanischen Strategen sehr gut verstanden. Sie haben den Wirtschaftswunder geschehen lassen, da die quantitative Entwicklung eigentlich eine Täuschung war, da sie doch irgendwann ein Ende kennen wurde, nämlich weil die einzigen Weiterentwicklung der deutschen Industrie nur in Richtung des Balkanraumes, des Schwarzen-Meer-Beckens und Vorderasiens möglich ist.

 

In diesem konfliktreichen Gesamtkontext, dessen Wurzeln schon Ende des 19. Jahrhunderts liegen, sind seit einigen Jahrzehnten die Instrumente der Kolonisierung und Ausschaltung Deutschlands und Europas, die folgenden :

 

◊ DROGEN UND MAFIAS :

 

Um die Kontrolle über Europa zu üben, haben die US-amerikanischen Geheimdienste immer verschiedene Mafiaorganisationen ferngesteuert. Sowie der heutige französische Fachmann für das Mafiawesen Xavier Raufer es feststellt, hat der mafiagelenkte “Tropismus” (“tropisme mafieux”) Geschichte : Alles hat 1943 angefangen, wenn die US-Behörde der aus Sizilien stammende Mafiaboss Lucky Luciano aus dem Gefängnis holen, um die Landung der allierten Truppen in Sizilien und die Eroberung Süditaliens vorzubereiten. Seitdem kann man tatsächlich eine enge Verknüpfung zwischen Mafia und US-Spezialdiensten feststellen. Ab 1949, wenn Mao China in einer Volksrepublik umwandelt zieht sich eine nationalchinesische Kuo-Min-Tang-Armee im Goldenen Dreieck zwischen Burma und Laos zurück. Die Amerikaner wünschen, diese Armee in Reserve zu halten, um eventuell Operationen im kommunistischen China zu leiten. Der Kongreß hätte aber geweigert, eine solche Armee durch Steuergelder finanzieren zu lassen und solche Operationen zu billigen. Deshalb war eine Selbstfinanzierung durch Drogenproduktion und -Schmuggeln nötig. Während des Vietnam-Krieges, wurden Bergstämme, wie die Mois, mit militärischem Material bewaffnet, das durch Drogengelder bezahlt wurde. Vor der Machtübernahme Maos in China und vor dem Vietnamkrieg waren die Zahl der Drogensüchtigen sehr gering : nur Avant-Garde-Künstler, Schauspieler oder Schickeriamitglieder verbrauchten Heroin oder Cocain. Höchstens waren das 5000 Leute im Gesamtnordamerika. Drogenkonsum wurde durch die ferngesteuerten Medien angestachelt und am Ende des Vietnam-Krieges zählte Amerika 560.000 Drogensüchtigen. Die chinesische und italienische Mafia nahm die Logistik über und spielte so eine erhebliche Rolle in der Finanzierung von ungeliebten Kriegen. Die Allianz zwischen der Türkei und den Vereinigten Staaten erlaubt ein drittes Mafianetzwerk, an dieser gesamten Strategie teilzunehmen, nämlich die türkischen Organisationen, die eng mit parareligiösen Sekten und mit der Armee zusammenarbeiten. Die haben Beziehung zu ähnlichen kriminellen Organisation in Uzbekistan, in anderen türkischsprechenden Ländern Zentralasiens und insbesondere in Albanien. Die albanischen Mafiaorganisationen haben sich in ganz Europa ausgedehnt zur Gelegenheit des Kosovo-Konfliktes, um die UCK-Verbände zu finanzieren, die so die selbe Rolle wie die vietnamesischen Mois-Stämme in den 60er Jahren zu spielen, d h das Land vorzubereiten, bevor die NATO-Truppen tatsächlich intervenieren könnten.

 

Weiter hat das Drogenkonsum bei Jugendlichen eine andere strategische Rolle : das Unterrichtswesen zu untermauern, damit Deutschland und Europa eine weitere Trumpfkarte verlieren, d h die besten Erziehungsanstalten der Welt, die immer unser Kontinent die Möglichkeit gab, sich aus den schwierigsten Situationen zu retten.

 

Europaweit sollten die politischen Kräfte die Mafiaorganisationen bekämpfen, nicht nur weil sie kriminelle Organisationen sind, sondern auch weil sie Instrumente eines mit den europäischen Mächten tief befeindeten raumfremden Staatswesens. Die Mafiaorganisationen zu bekämpfen impliziert u a eine strenge Regulierung der Migrationsströme aus mafiakontrollierten Ländern (Türkei, Albanien, Uzbekistan, usw.)

 

◊ Die MULTIS (MULTINATIONALE FIRMEN)

 

Schon seit den 60er Jahren, sind die Multinationalen ein Instrument des US-Kapitalismus, um die anderen Staaten zur Öffnung der Grenzen zu zwingen. Ökonomisch führt das Prinzip der Multinationalen zur Entortungsstrategien, die man im neoliberalen Jargon “Delocalizations” (Delokalisierungen) nennt. Diese Entortungsstrategien sind für die hohen Arbeitlosigkeitsquoten verantwortlich. Eben für anscheinend unbedeutende Produkte wie Spielwaren oder Bonbons haben die Multinationalen hunderttausende Arbeitsplätze vernichtet. Beispiele : Miniaturautos wurden früher in meinen Kindersjahren in England hergestellt (wie etwa Dinky Toys, Matchbox, Corgi Toys, usw.). Jetzt kommen diese kleine Spielautos aus Thailand, Macau oder China. Zur Zeit seines nationalrevolutionären Trips schrieb Henning Eichberg mit Recht in den Seiten der Berliner Zeitschrift “Neue Zeit” über die “totale Subvertierung durch Bonbons”. Süßigkeiten für Kinder werden nicht mehr lokal produziert oder von der Oma mit Liebe hausgemacht sondern als “Mars”, “Milky way” oder “Snickers” von Multis massenhaft hergestellt und weltweit verkauft. Wieviele arbeitslose kleine Menschen?

 

Europaweit sollte die politische Kräfte Europas, zumindest wenn sie wirklich die Arbeitslosigkeit bekämpfen wollen, den Entortungsstrategien entscheidend “nein” sagen und alle möglichen Lokalproduktionen revalidieren.

 

◊ Der NEOLIBERALISMUS ALS IDEOLOGIE

 

Der Neoliberalismus ist die wirtschaftliche Ideologie der Globalisierung. Der berühmte französische Autor Michel Albert stellte Anfang der 90er Jahren, daß der Neoliberalismus, als Erbe der Thatcher- und Reaganregierungen, als Praxis eine allgemeine Ablehnung jeder Investierung am Ort war. Gegen diese neue Rage, Thatcher und die “Reaganomics” nachzuahmen, schlug Michel Albert vor, den Ordo-Liberalismus wieder in Ehre zu stellen. Er bezeichnete den Ordo-Liberalismus als “Rheinisches Modell”, das nicht nur “rheinische” bzw. Deutsch ist, sondern auch japanisch, schwedisch, teilweise belgisch (die patrimoniale Wirtschaft der alten Industrie-zonen Flanderns oder Walloniens) oder französisch (die Familiengroßbetriebe der Regionen um Lyon oder Lille oder aus Lothringen). Das “Rheinisches Modell” privilegiert Investierung statt Börsenspekulation. Die Investierung gilt nicht nur für industrielles Maschinenkapital sondern auch für Universitäten, Hochschulen oder Unterrichtswesen. Der Neoliberalismus neben dem Begleitungsphenomen des Mai-68-Gedankengutes ist eben die Ideologie die die Unterrichtssysteme in ganz Europa untermauert hat. In Deutschland ist die Lage schlimm, in Frankreich noch viel schlimmer, fast die totale Katastrophe. In England verlangt heute eine Bürgerinitiative (“Campaign for Real Education”), daß Lehrer und Elternverbände die Disziplin verschärfen und das Niveau der Unterrichte und die Sprachfähigkeiten der Schüler verbessern. Der Geopolitiker Robert Strauß-Hupé, der im Denkfabrik Roosevelts aktiv war, plante in seinem Programm für Deutschland und Europa, das er neben Morgenthaus Pastoralisierungspläne verfasste, die naturgegebenen Kräfte Europas zu zerstören, nämlich seine ethnische Homogeneität und die Qualität seiner Erziehungssysteme, die gebrochen werden sollten. Dazu haben die antiautoritären Spekulationen von weltfremden Pädagogen, das Drogenkonsum und die Mai-68-Ideologie gedient. Man flüstert manchmal, daß der 68-Philosoph Herbert Marcuse für das “Office for Strategic Studies” (OSS) gearbeitet hätte.

 

Europaweit sollten die gesunden politischen Kräfte für ein ordo-liberales Wirtschaftssystem rheinischen Modells sich einsetzen, das investiert statt spekuliert und das Schulwesen und die Universität unterstützt, ohne die anderen “non profit” Sektoren zu vernachlässigen (Krankenhäuser, Gesundheitswesen, Kulturwesen). Die profitlosen Pfeiler einer jeden Gesellschaft sollten nicht zur bloßen Disposition gestellt werden. Sie schmieden die Volksgemeinschaften zusammen und erwecken Treue in allen sozialen Schichten. Der Neoliberalismus wird eher vom Dschungelgesetz bestimmt.

 

◊ Die MEDIEN :

 

Europa wird auch durch Medien beherrscht, die von bestimmten Diensten ferngesteuert werden, um die “richtigen” Emotionen am richtigen Zeitpunkt entstehen zu lassen. Diese Medien prägen die zeitgenössische Mentalität und schliessen jeden kritischen Geist aus, insofern daß kritische Geister nur Geister sind, die in durch die Geschichte geprägte Traditionen und Bilder denken. Ort- und zeitlose Geister gehören der schwebenden Intelligenz, d h eben diese Art Intelligenz, daß die Amerikanisierung und die neoliberale Globalisierung brauchen. Die Beherrschung Europas durch Medieninstrumente fing schon unmittelbar nach dem 2. Weltkrieg an, wenn die Zeitschrift “Reader’s Digest” überall in Europa und in allen Sprachen verbreitet wurde und wenn Frankreich 1948 gezwungen wurde US-Filme überall spielen zu lassen, weil es anders kein Geld im Rahmen des Marshall-Planes bekommen wurde. Die Regierung Léon Blums akzeptierte dieses Diktat. Der ehemalige linke Regisseur Claude Autant-Lara, wenn er 1989 im Europäischen Parlament auf der Liste vom französischen Nationalisten Le Pen gewählt wurde, nahm die Gelegenheit, als älterster Abgeordneter, die US-amerikanische Politik zu denunzieren, Hollywood-Filme systematisch durchsetzen zu wollen und so die jeweils nationale Produktion der europäischen Länder zu torpedieren. Lieder, Mode, Drogen, Fernsehen (mit CNN), Internet sind alle Kanäle, die die US-amerikanische Propaganda benutzt, um das historische Gedächtnis der Europäer auszuwischen und so die öffentliche Meinung zu beeinflussen, damit keine andere Weltanschauung mehr entstehen kann.

 

Europaweit sollten die gesunden politischen Kräfte, unabhängige und ortsgebundene Medien finanzieren und promovieren, die ideologisch und philosophisch verschieden sind, damit unsere Völker es vermeiden, durch hyperzentralisierte und durch eine raumfremde Supermacht ferngesteuerte Medienkomplexe verblödet und beeinflußt zu werden. Medienkontrolle ist eine vitale Notwendigkeit für die künftige “kognitive Kriege”, die als Ziel haben, die Geister zu beeinflussen und die “feindliche / ausländische Hörerschaften” (“enemy / alien audiences” im CIA- oder NSA-Jargon) rezeptiv zu machen, damit keine andere Lösung noch als moralisch oder akzeptabel angeschaut wird.

 

◊ Die militärische MITTEL

 

Man behauptet üblich, daß die US-amerikanische Macht eine Seemacht ist. Starke See- und Weltmächte sind traditionell “bi-ozeanisch”, haben also Fenster auf zwei Weltmeeren bzw Ozeanen. Der Krieg gegen Mexiko 1848 hatte als Ziel, sich ein breites Fenster in Richtung des Pazifischen Ozeans zu erobern und sich so mittel- oder langfristig den chinesischen bzw fernöstlichen Markt als exklusiver Absatzmarkt zu reservieren. Wenn Ende des 19. Jahrhunderts der US-Admiral Alfred Thayer Mahan seine Spannungen nicht sparte, um die “Navy League” als Instrument zur Promotion des US-Imperialismus zu gründen und zu etablieren, sind seine Intentionen auch von der US-Flotte in Werdung ein Waffenmonopol zu machen. Sein politisches und strategisches Ziel war es, den angelsächsischen Mächten eine weltweite, überall auftauchende und interventionsgerichtete Waffe zu geben, die Amerika und England eine grössere Schnelligkeit für weltweite Interventionszwecke gab und die die anderen Mächte nicht haben dürften. Weiteres Ziel war es, den anderen Mächten eine solche Waffe und alle künftigen gleichartigen Waffen zu entziehen. Die Eroberung des Pazifischen Raumes nach der Eroberung der Pazifischen Küste Kaliforniens 1848 fand fünfzig Jahre später statt, wenn der Krieg gegen Spanien mit der Ausschaltung dieser europäischen Macht aus dem Karibischen Raum und aus den Philippinen endete. Deutschland übernahm die Hoheit auf Mikronesien und verteidigte mit seiner Kriegsmarine die Samoa-Insel gegen  die US-amerikanischen Ansprüche. Zwischen 1900 und 1917 unternahmen die VSA keine entscheidende Schritte, aber der Erste Weltkriege gab ihnen  die Gelegenheit, zu intervenieren und den westlichen Allierten Material zu verkaufen, in so einem Umfang, daß sie nicht mehr Schulder sondern Schuldeiser werden.

 

1922 zwangen US-Amerikaner und Britten Deutschland und ihren eigenen ehemaligen Allierten den Vertrag von Washington auf. Zu wenig wurde uns bis jetzt über diesen schicksalhaften Vertrag erzählt. Er bestimmte die erlaubte Anzahl Tonnen für jede Seemacht der Erde : 550.000 Tonnen jemals für Britten und US-Amerikaner, 375.000 Tonnen für Japaner, 175.000 Tonnen jemals für Franzosen und Italiener. Versailles hatte schon das Schicksal der deutschen Marine besiegelt. Frankreich galt zwar als Sieger, konnte sich aber nicht mehr die Mittel geben, eine starke Seemacht zu werden. Die Reduzierung der deutschen Flotte war eine Rache für Samoa und ein Präventivmittel, das Reich aus dem Pazifischen Raum auszuschalten. Warum sollte man den Inhalt der Washingtoner Vertrag heute erinnern? Weil dieser Vertrag ein Schulbeispiel für einen amerikanischen “Modum operandi” ist. 1) Dieses Verfahren wurde später ständig systematisiert; 2) Die Völker versuchten vergebens Antworten zu erfinden, wie die Entwicklung der französischen Luftfahrt, mit heroischen Figuren wie Jean Mermoz und Antoine de Saint-Exupéry oder wie die Entwicklung der deutschen Zeppelin-Luftschiffe, die ein tragisches Ende mit der Katastrophe des Hindenburg-Luftschiffes 1937 in Neu York. Beide Mächte konnten nicht richtig Luftflotte entwickeln, um die verlorene Marinen zu ersetzen. Allgemeines Ziel war es, keine Autonomie der hochtechnologischen Waffenindustrie eben bei ehemaligen Verbündeten zu tolerieren. Nach dem 2. Weltkrieg, wurden Frankreich und die kleineren westlichen Mächten gezwungen, altes Kriegsmaterial für ihren Armeen zu kaufen. Die französische Armee wurde damals nur mit amerikanischem Material ausgerüstet. Aber mit der Hilfe von kriegsgefangener deutschen Ingenieuren wurde Frankreich fähig, sehr moderne Flugzeuge zu entwickeln, wie der Mistral-Düsenjäger. Nach 1945 besaß Deutschland keine nennenswerte Flugzeugindustrie mehr. Fokker in den Niederlanden überlebte kaum noch und blieb quasi unbedeutend. Unter De Gaulle entwickelten die französische Ingenieure, mit deutschen Kollegen, die Mirage-Flugzeuge, die eine sehr ernst zu nehmende Konkurrenz für die amerikanische Kriegsindustrie darstellten. Der Mirage-III-Jäger war eine weitere Entwicklung des sogenannten Volksjägers Heinkel 162. 1975 zwangen die Amerikaner, nachdem sie korrupte europäische Politiker überzeugt hatten, die Regierungen der NATO-Staaten aus dem Benelux und Skandinavien F-16-Düsenjäger zu kaufen, sodaß Franzosen und Schweden (SAAB) sich technologisch und finanziell nicht weiter entwickeln könnten. Den selben Trick wurden kürzlich mit den polnischen und ungarischen F-16s geübt. Seitdem hinken Franzosen und Schweden technologisch hinterher. Waffentechnologisch konnten die Deutsche Leopard-Panzer zwar entwickeln, weil Amerika als Seemacht eigentlich nicht so sehr an Landheerwaffen interessiert sind. Der Akzent liegt bei ihnen auf Flotte, U-Booten, Raketen, Satelliten und Luftwaffe.

 

Heute, so wie ein Dossier, das in dem Wochenblatt “Junge Freiheit” erschienen ist, es uns lernt, kaufen amerikanische Konzerne spitzentechnologische Industrien in Europa, sowie Fiat-Avio in Italien, also der Zweig des gigantischen Fiat-Konzernes, der sich mit Luftfahrt beschäftigt, die norddeutsche U-Boot-Firma und das spanische Konzern “Santa Barbara Blindados”, das die deutsche Leopard-Panzer für die Armee Spaniens produziert. So haben Leute aus der amerikanischen Kriegsindustrie Zugang zu alle Fachgeheime der deutschen Panzerindustrie. Diese finanziellen Manöver haben als Ziel, Europa zur Abhängigkeit zu zwingen, bevor es sich die Möglichkeiten gibt, sich militärisch zu behaupten.

 

Die US-geleiteten militärischen Organisationen wie die NATO, die CENTO oder die OTASE dienen bloß als Markt für alte amerikanische Waffen, besonders Flugzeuge, damit keine unabhängige und konkurrenzfähige Waffenindustrien in allierten Staaten entstehen, die technologische Fortschritte machen könnten, die dazu leiten würden, mächtigere Waffensysteme in “alien armies” einzusetzen und so die leitende Supermacht im Schach zu halten oder sie zu einer Macht zweiten oder drittens Ranges zu degradieren. Die Angst, daß potentielle feindliche Mächte Waffentechnologien entwickeln könnten, ist sehr tief im Geist des US-amerikanischen Politpersonals eingewurzelt. Deshalb ist das Spionieren des Allierten notwendig. Das Satellitensystem ECHELON, wie Michael Wiesberg es sehr genau in einem Heft des Wocheblattes “Junge Freiheit” ausgelegt hat, wurde während des Kalten Krieges entwickelt als ein militärisches Beobachtungssystem, das die schon existierenden Kommunikationsmitteln komplettierte, wie etwa die unterseeischen Kabeln und die anderen Satelliten, die für militärische Zwecke eingesetzt wurden. Unter Clinton, wurde das ECHELON-System offiziell auch für zivile Zwecke umgeschaltet. Wenn zivile Zwecke Objekte von spitzentechnologischen Spionierungssysteme werden, heißt es, daß die Allierten der stark ausgerüsteten Supermacht auch abgehorcht werden können. In einem solchen Kontext sind diese Allierten keine Verbündete im üblichen Sinn mehr. Die rein politische Perspektive, so  wie Carl Schmitt sie theorisiert hatte, ändert völlig. Es gibt keinen Feind im Schmittschen Sinn mehr, aber auch keine Verbündete, die zumindest theoretisch-juridisch als formell gleichberechtigt gelten. Die Sprache, die heute in den hohen Kreisen der US-amerikanischen Geheimdienste benutzt wird spricht eben nicht mehr von “Feinden” und von “Verbündeten” sondern bloß und schlicht von “alien audiences”, d h buchstäblich von “ausländischen Hörerschaften”, die die US-Propagandadienste prägen müssen.  Was bedeutet konkret diese angeblich unbedeutende semantische Änderung? Es bedeutet, daß nach dem Verschwinden der UdSSR die Verbündeten eigentlich nicht mehr nötig und allein noch Überbleibsel eines vergangenen Zeitalters sind, daß Information bei ihnen abgezapft und abgehorcht werden kann, besonders im Gebiet der Hochtechnologie in Europa, wobei schon festgestellt wurde daß deutsche und französische Firmen, die Wasserreinigungssysteme entwickelt hatten, elektronisch und durch die ECHELON-Satelliten auspioniert wurden, wobei US-Firmen die Produkte billiger produzieren könnten, weil sie für Forschung keinen Pfennig investiert hatten. Das US-amerikanische Staatsapparat begünstigt also seine eigenen nationalen Firmen und plündert die Firmen seiner Verbündeten. Diese Art der industriellen Spionierung vertritt eine sehr hohe Zivilgefahr, da sie Arbeitslosigkeit bei hochqualifizierten Fachleuten verursacht. Der mutige britische Journalist Duncan Campbell, der das ECHELON-Skandal entlarvt hat, gibt uns Dutzende von Beispielen solcher Plünderungen, in allen möglichen Zweigen der Spitzentechnologie. Da nicht nur die VSA an dem ECHELON-System teilnehmen, sondern auch Großbritannien, Kanada, Australien und Neuseeland, ist es für uns von großer Bedeutung, eine wichtige Nebenfrage zu stellen : Ist das Vereinigte Königreich  noch eine loyale europäische Macht? Hatte De Gaulle nicht recht, wenn er sagte, daß die “special relationship” mit den VSA Großbritannien immer feindlich dem Kontinenten gegenüber stelle würden?

 

Wenn man von einem Europa der Völker redet, muß man gut davon bewußt bleiben, daß zwei Ebenen konkret eine Rolle spielen. 1) Die Erste dieser beiden Ebenen ist die kulturelle Ebene, die man im Wirbel der modernen Lebensmuster so weit wie möglich intakt halten muß. Wir sind selbstverständlich davon klar bewußt. Aber dieses Bewußtsein enthält trotzdem ein großes Risiko, das in jedem Kulturkampf anwesend ist : Nämlich jede Kulturerbe ins Musäische zu verwandeln oder Kultur als bloßer Zeitsvertrieb anzusehen. Die Verteidigung unserer Kulturerbschaften darf in keinem Fall so statisch und undynamisch bleiben. Eine Kultur hat immer strategische, politische, wirtschaftliche und geopolitische Dimensionen. 2) Jedes Volk, als kulturtragendes und kulturstiftendes ethnisches Substrat, das von der herrschenden politischen Klasse nie zur Disposition gestellt werden darf, läßt selbstverständlich eine unveraußerliche und spezifische Kultur, bzw Literatur, entstehen, und hat eine bestimmte Geschichte erfahren, aber generiert auch ein eigenes Wirtschaftssystem, und dieses Wirtschaftssystem hat eine bestimmte Geschichte, die so ist und nicht anders. Jede Wirtschaftsform ist in einem Raum und einer bestimmten Zeit eingebettet. Also, gibt es keine lebensfähige Wirtschaft möglich, die weltweit und “universell” wäre. Die französischen Wirtschaftstheoretiker Perroux, Albertini und Silem, die den Akzent auf die Geschichte der Wirtschaftssysteme gelegt haben und dabei die große Theoretiker der autarkischen Systeme nicht vergessen haben, haben auch für didaktische Zwecke, diese gesamten Systeme in zwei Kategorien klassifiziert : Einerseits die Orthodoxen, andererseits die Heterodoxen. Die Orthodoxen sind die Liberalen der Adam Smithschen Schule (Manchester-Liberalen) und die Marxisten, die universalistisch denken, die die gleichen Muster überall unter allen Klimaten und Bodenarten aufpropfen wollen. Die sind eigentlich die philosophischen Vorväter der Gleichschalter der heutigen Globalisierung. Die Heterodoxen legen den Akzent über das Besondere an jedem Wirtschaftssystem. Sie sind die Erben der deutschen “Historischen Schule” mit Namen wie Rodbertus, Schmoller, de Laveleye. Der Tat-Kreis zur Zeit der Weimarer Republik, mit Ferdinand Fried und Ernst Wagemann, haben dieses wertvolle Gedankengut weiter entwickelt. Genauso wie hier schon gesagt wurde, hat für diese Heterodoxen und Anhänger der Historischen Schule jeder ortsgebundenen Wirtschaftsraum eine spezifische Geschichte, die man nich so willkürlich ausschalten kann. Geschichte und Wirtschaft prägen volks- und orts- und zeitsgebundene Institutionen und diese durch die Geschichte geerbten Institutionen bestimmen das Funktionieren einer Wirtschaft. Man spürt ganz genau hier, warum die EU bis jetzt gescheitert ist, weiter scheitern wird, weil sie eben diesem heterodoxen Weg nicht gefolgt ist. Wir sind, so wie sie es natürlich gut verstanden haben, Heterodoxen in Sinn Peroux, Silems und Albertinis. Die Wirtschaft ist der “Nomos” des “Oikos”,  d h die Gestaltung des Lebensortes, wo ich, als potentieller politischer Gestalter, und die Meinen leben. Es gibt, nach der Etymologie selbst des Wortes “Wirtschaft”,  keine mögliche Wirtschaft ohne Ort. Eine universelle Wirtschaft gibt es per definitionem nicht. 

 

So kommen wir zurück zur Geopolitik. Nach der Definition des Begriffes “Geopolitik”, handelt dieses Fach um den Einfluß der erdkundigen und räumlichen Faktoren über die ewige Politik innerhalb eines bestimmten Gebietes. Die räumlichen Faktoren beeinflußen selbstverständlich den Modus der am Ort praktizierten Wirtschaft. Wenn dieser Modus bewahrt sein sollte und nicht durch “pseudo-universelle” Regeln ersetzt wird, dann kann man von “Autarkie” reden, wobei die Wirtschaft darauf zielt, selbstgenügend zu bleiben. “Autarkie” meint nicht notwendigerweise, daß man ein geschloßener Handelsstaat aufbauen will. Ein zeitgenößische Autarkie impliziert ein Gleichgewicht zwischen einer vernünftigen Öffnung der kommerziellen Grenzen und einer ebensogut gedachten Schließung, um die innere Produktion von Waren zu schützen. Ein aktualisierter Autarkie-Begriff zielt auf eine gut balancierte “Auto-Zentrierung” der nationalen bzw reichischen Wirtschaft, so wie der Perroux-Schüler André Grjebine es gründlich ausgelegt hat. 

 

Friedrich List im 19. Jahrhundert plädierte für selbstständige Wirtschaftsysteme. Er gestaltete nach seinen Ideen die modernen Wirtschaften Deutschlands, Amerikas, Frankreichs, Belgiens und teilweise auch Rußlands zur Zeit des Czar-Ministers Sergeij Witte, der Rußland am Vorabend des Ersten Weltkrieges modernisiert hatte. Die Hauptidee Friedrich Lists war, die Industrie in jedem Land anzukurbeln, durch gut funktionierende Kommunikationsnetzwerke zu entwickeln. In Lists Zeit waren solche Kommunikationsnetzwerke Kanäle und Eisenbahnstrecken. In seiner Perspektive, die immer noch die Unsere sein sollte, hat jedes Volk, jeder Kulturkreis bzw Föderation von Völker das recht, sein eigenes Kommunikationsnetzwerk  zu bauen, um desto ökonomisch stärker zu werden. In diesem Sinn, wolllte List die konkrete Wünsche von Friedrichs II. Testament realisieren, indem der preußische König 1756 schrieb, daß die Hauptaufgabe des preußischen Staates in der norddeutschen Tiefebene es war, die Flußbecken durch Kanäle miteinander zu verbinden, sodaß zwischen Weichsel und Nordsee einfache Kommunikationen möglich werden. Dieses Projekt wollte die Uneinheitlichkeit des norddeutschen Raumes erledigen, die schicksalhaft für die deutsche Geschichte war. Das geplante System von Kanälen reduzierte auch die Abhängigkeit der Tiefebene dem See gegenüber. List entwickelte auch das Projekt, die großen Seeen in der Mitte des nordamerikanischen Raumes und dem Atlantik zu verbinden. Er ermutigte die Franzosen, ein Kanal zwischen Atlantik und Mittelemeer zu bauen, um die Position von Gibraltar zu relativieren. Er gab dem belgischen König Leopold I von Sachsen-Coburg  den Rat, Schelde und Maas mit dem Rheinbecken zu verbinden : so enstanden das “Canal du Centre”, das Antwerpen-Charleroi-Kanal und erst später das Albert-Kanal (1928). List ließ auch Eisenbahnen überall bauen, um die Kommunikationen zu beschleunigen. Deutschland aber auch die Vereinigten Staaten verdanken diesem großen Ingenieur und Ökonom, starke industrielle Mächte geworden zu sein. 

 

Prinzip ist es aber, daß Seemächte solche innenländische Entwicklungen nicht dulden können. Die Engländer insbesondere fürchteten, daß das Element ihrer Macht d h ihre Flotte an Bedeutung verlieren wurden. Gegen den Bau des Atlantik-Mittelmeer-Kanals meckerte die englische Presse. 1942 wurde in der Londoner Presse eine Karte publiziert, die die Gefahren einer Rhein-Main-Donau-Verbindung erwähnte. Max Klüver, in seinem äußerst interessanten Buch “Präventivschlag”, erinnerte uns daran, daß schon Sabotage gegen Brücken in Ungarn und Rumänien durch Intelligence-Service-Agenten vorgeplant wurden. Der Kalte Krieg hatte auch als Ziel, die Elbe und die Donau zu sperren, um jede wirtschaftliche Dynamik zwichen Böhmen und Norddeutschland und zwischen Bayern-Österreich und dem Balkan-Raum zu strangulieren. Der Krieg gegen Serbien 1999 diente u a auch dazu, die Donau-Verkehr zu stoppen und jede Kommunikationsachse zwischen dem Raum um Belgrad und dem Ägäischen Meer unmöglich zu machen. Die Ideen Lists sind noch ebenso wichtig heute wie damals und sollten ausgedehnt werden, damit sie auch Satellitensysteme miteinbeziehen. Jede Völkergruppe hat also heute das Recht, eigene elektronische Mittel und Systeme zu entwickeln, um seine industrielle und wirtschaftliche Kräfte zu stärken.

 

Um aktualisierte Interpretationen von Lists Theorien, die in Europa mehr oder weniger verpönt wie alle “heterodoxen” Lehren sind, muß man den Umweg nach Lateinamerika machen. Dort dozieren und arbeiten noch gute Schüler von List und Perroux. Wenn sie über einer Emanzipation den VSA gegenüber reden, benutzen sie den Terminus “Kontinentalismus”. Die meinen dabei eine gesamtkontinentalische politische Bewegung, die die Kräfte bündeln, um aus der Abhängigkeit Washingtons zu geraten. In Argentinien zum Beispiel werden autarkische Ideen schon zur Zeit Perons gründlich entwickelt. Argentinien, bevor übernationale Kräfte aus dem Bankwesen das Land mit allerlei Tricks ruinierten, genieß von einer regelrechten Nährungsfreiheit mit eine Überproduktion von Korn und Fleisch, die auch exportiert werden konnte, was Washington einen Dorn im Auge war. Argentinien hatte auch, teilweise mit der Hilfe von deutschen Ingenieuren, eine unabhängige, autonome und weitverzweigte Kriegsindustrie entwickelt. 1982 benutzten noch argentinische Piloten hausproduzierte PUCARA-Kampflugzeuge, um englische Schiffe während des Falkland-Krieges zu zerstören. Deshalb ist die peronistische Ideologie seit mehr als 60 Jahre Feind nummer eins der VSA im südlichen Teil Ibero-Amerikas. Die zahlreichen inszenierten Krisen, die das Land General Perons heimsuchten, haben die ganze Praxis der Autarkie zunichte gemacht. Ein positives Experiment hat so ein jähes Ende gefunden. 

 

Um eine klare Antwort dem US-Globalisierung zu geben, braucht man, auf Grundlage des hier erwähnten Wissens folgende sechs Punkte für eine unabhängige und nonkonforme Europa-Politik durchzukämpfen :

 

Punkt 1 : Wieder von Neoliberalismus zum Ordo-Liberalismus

 

Die Wirtschaft sollte wieder “patrimonial” werden nach dem Rheinischen Modell, sowie Michel Albert es in einem weltweit verbreiteten Buch dargestellt hat. Hauptrichtung einer erneuten ordo-liberalistische Wirtschaftspolitik heißt es, investieren statt spekulieren. Investierung gilt auch in Erzihungsanstalten, Universitäten und Forschung. Eine solche Politik impliziert auch eine Kontrolle der strategisch wichtigen Sektore, genau so wie Japan, die VSA und heute auch das Rußland Putins es tun. Putin fragte eben Chodorkovski sein Vermögen patriotisch in der russischen Föderation selbst zu investieren, statt im Ausland zu belegen und so risikolos zu spekulieren. Euro-Brüssel hat immer eine solche Politik abgelehnt. Kürzlich fragte der FN-Europaabgeordneter Bruno Gollnisch, Europas Politik auf drei Achsen zu konzentrieren : 1) Airbus, um eine von Amerika unabhängige Luftfahrtindustrie zu entwickeln; 2) Aerospace, um Europa ein Satellitensystem zu geben; 3) Energieforschung, um Europa von dem Zwang der US-geleiteten Ölkonzerne zu befreien. Ein so klares Programm ist ungezweifelt ein Schritt in der guten Richtung.

 

Punkt 2 : Die Unabhängigkeit von den großen amerikanischen Medienagenturen zu erkämpfen

 

Um uns von den Medienagenturen, die die Wirklichkeit gegen unsere eigenen Interessen interpretieren, muß Europa eine eigene Raumfahrt entwickeln und deshalb ist eine enge Kooperation mit Rußland nötig. Ohne Rußland, sind wir viele Schritte hinterher. Rußland hat das nötige Wissen in Raumfahrt-Fragen während langen Jahrzehnten versammelt. Indien und China scheinen mitarbeiten zu wollen. Aber um den mediatischen Totalitarismus amerikanischer Macherei zu bekämpfen, braucht man eine geistige Revolution, eine neue Metapolitik, um die reale Fazsination zu brechen, die die amerikanische Film- und Freizeitindustrie übt. Die Qualität und die Attraktivität einer eigenen europäischen Kulturproduktion, die zur gleichen Zeit die Buntheit und Verschiedenheit der europäischen Kulturen im Sinn der Herderschen Philosophie bewahrt, wird uns erlauben den “kognitiven Krieg” zu gewinnen [Die heutigen französischen Strategen sprechen von “guerre cognitive”]. Eine geistige Revolution braucht Fantasie, Kreativität, Futurismus und über alles eine bestimmte Frechheit, die ein  satirisches Blatt aus der deutschen Geschichte wie “Simplicissimus” sehr gut vertrat. Der freche Geist kann, wenn gut gezielt wird, den “kognitiven Krieg” gewinnen.

 

Punkt 3 : Die Prinzipien der Außenpolitik sollten nicht diejenigen sein, die Amerika pausenlos predigt

 

Europa muß seine eigenen Prinzipien in der Außenpolitik entwickeln, d h den Universalismus Washingtons ablehnen, sei er “multilateralist”, wie Kerry es will, oder “unilateralist”, wie Bush es z. B in Irak praktiziert. Für ein Europa, das nicht mehr Euro-Brüssel sein würde, sollte kein Modell weltweit gelten oder als solches verkündet werden. Zwei Lehren sollten hier erinnert und erwähnt werden : 1) Armin Mohler, im Juli 2003 verstorben, sprach von der Notwendigkeit, den Gaullismus deutsch zu interpretieren und zu praktizieren, in dem Sinn, schrieb er in “Von Rechts gesehen”, daß ein wirkliches Europa sich ständig für eben diese Länder, die die Amerikaner als “Rogue States” oder “Schurkenstaaten” betrachten, interessieren. Zur Zeit, wo Armin Mohler diese texte über den Gaullismus schrieb, war der Hauptschurkenstaat China. In “national-europäischen” Lager sagten Jean Thiriart und die Anhänger seiner Bewegung “Junges Europa” in Brüssel genau dasselbe. In Deutschland versuchte Dr. Haverbeck in Vlotho eine objektivere Information über China zu verbreiten. Die belgische Königin-Mutter Elisabeth von Wittelsbach reiste nach China. Alle wurden als “Maoisten” oder “Krypto-kommunisten” beschimpft. Die Orientierung der Außenpolitik auf chinesischen Modellen ist aber keine Dummheit. 2) Diese letzte Idee bringt uns zu einem Modell, das Europa nachahmen sollte, statt dem amerikanischen Universalismus  zu imitieren. China will weltweit die Außenpolitik innerhalb des heutigen Staatensystems auf fünf Hauptprinzipien reduzieren : 1. Keine Einmischung dritter Staaten in den inneren Angelegenheiten eines bestimmten Staates, was bedeutet, daß die Menschenrechtenideologie nicht benutzt werden sollte, um Streitereien in dritten Staaten aufzustacheln. General Löser, der hier in Deutschland für die Neutralität Mitteleuropas unmittelbar vor dem Fall der Mauer predigte, vertrat ähnliche Argumente. 2. Respekt für die Souveränität der existierenden Staaten. 3. Nie die Existenzgrundlagen eines Staates anzutasten. 4. Die friedliche Koexistenz weiter unterstützen. 5. Jedes Volk die Freiheit gewähren, sein eigenes Wirtschaftssystem zu gestalten.

 

Die politische Philosophie Chinas füßt auf klassische Autoren wie Sun Tzu, Han Fei und der Tao-Te-King : alle enthalten glasklare Argumente, die mit dem verderbeden Moralismus nichts zu tun haben.

 

Punkt 4 : Nach der militärischen Unabhängigkeit streben...

 

Hauptaufgabe einer gesamteuropäischen Freiheitsbewegung sollte sein, die Waffenindustrie zu schützen und es vermeiden, daß die existierenden Firmen in den Händen von US-amerikanischen Konzerne wie Carlyle Incorporation fallen. Fiat Avio in Italien, die deutsche U-Boot-Industrie, das spanische “Santa Barbara Blindados”-Konzern sind kürzlich durch Börsenspekulationen amerikanisch geworden. Als andere Aufgabe gilt es, systematisch das Eurocorps statt die NATO zu schützen und weiter das Eurocorps auf Grundlagen der Prinzipien einer Volksarmee schweizerischen Modells oder einer Miliz wie Löser in Deutschland, Spannocchi in Österreich, Brossolet in Frankreich es theorisiert haben. Die NATO ist tatsächlich überholt seitdem Deutschland und Europa 1989 wiedervereint wurden. Damals haben die Europäer die Chance verpasst, eine neue Weltordnung in ihrem Interesse zu gestalten. Deshalb kommt wahrscheinlich die Idee einer Paris-Berlin-Moskau-Achse zu spät. Dritte Aufgabe : eine Flotte mit Flugzeugträger zu entwickeln. Vierte Aufgabe : ein Satellitensystem zu starten, damit Europa endlich Militär- und Kulturkriege zusammenschmelzen kann. Das führt uns zu Punkt 5.

 

Punkt 5 : Gegen das ECHELON-System kämpfen

 

Als Beobachtungs- und Spionierungssystem Großbritanniens, Australiens, Kanadas, Neuseelands und der Vereinigten Staaten, ist ECHELON eine Waffen gegen Europa, Rußland, Indien, China und Japan. Es verkörpert die gefährliche Idee der totalen Überwachung, wie schon Orwell und Foucault sie vorausgesehen hatten. Eine solche Überwachung sollte entgegengewirkt werden nur mit der Entwicklung anderer Systeme, die durch eine enge Zusammenarbeit zwischen Rußland, Europa, Indien und China entstehen können. Wenn ECHELON nicht mehr das einzige System solcher Art ist, können die Mächte der eurasischen Landmasse eine kulturelle, militärische und wirtschaftliche Antwort geben. In ECHELON, verschmelzen sich tatsächlich die kulturellen, wirtschaftlichen und militärischen Operationen, die heute geführt werden. Die Antwort ist wirklich Euro-Space. 

 

Punkt 6 : Für eine unabhängige Energie-Politik

 

Was die Energie-Politik betrifft, sollte der Modus die Diversifikation sein, wie De Gaulle es für Frankreich in den 60er Jahren plante, wenn er sich von Amerika und NATO distanzieren wollte. Das französische Planbüro wollte damals, alle mögliche Energiequellen ausbeuten, so die Wind-, Sonnen-, Ebbe-und-Flut- und Wasserenergie, ohne Öl oder Kernenergie auszuschließen. Die Diversifikation hilft, die Abhängigkeit von einzigen oder ausschließenden Energiequellen abzubauen. Heute, würde eine solche Politik noch gültig sein, aber dazu sollte eine Entwicklungspolitik der eurasischen Ölleitungen zusammen mit Rußland, China, Korea und Japan weiterentwickelt werden. Hauptsache ist es, die Abhängigkeit von saudischen d h amerikanisch-kontrollierten Ölquellen abzubauen.

 

Diese sechs Punkte können nicht von unserem üblichen Politpersonal realisiert werden. Die Lageanalyse desbetreffend ist schon da, als Fundgrube neuer politischen Ideen und Programme. Prof. Erwin Scheuch, Hans-Herbert von Arnim, Konrad Adam, die italienische anti-partitokratische Tradition und das Werk Roberto Michels, Kritiker der Oligarchen, das Werk des ehemaligen Franco-Minister Gonzalo Fernandez de la Mora, haben Kampfbegriffe bestimmt, um die Cliquen und die allgemeine Parteiherrschaft offensiv zu kritisieren, damit die planlosen Eliten den Weg endlich frei halten für neue Eliten, die die richtigen Antworten für die zeitgenößischen Probleme haben. Deshalb scheint es mir noch wichtig ein Zitat von Arthur Moeller van den Bruck zu meditieren, der sagte, daß “Parteipolitik schlimm sei, da die Parteien sich zwischen dem Staatsapparat, das theoretisch allen gehören sollte, stellen, und so einen Filter einscheiben, der jede UNMITTELBARKEIT zwischen Volk und Politik unmöglich macht”. Nur diese von Moeller van den Bruck erwähnte UNMITTELBARKEIT gründet die wahre Demokratie, die auch nur organisch und populistisch sein kann, da anders der Staat rein formal, unorganisch und leblos, wird.

 

Die große Idee der UNMITTELBARKEIT im reinen Politischen macht es möglich reale Projekte zu realisieren und die falsche ideologische Botschaften zu entlarven. Daran sollen wir alle arbeiten.

 

Ich danke Ihnen für Ihre Aufmerksamkeit,

 

Robert Steuckers.

lundi, 08 septembre 2008

Une critique visionnaire du dérèglement économique mondial

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Une critique visionnaire du

dérèglement économique mondial

George FELTRIN-TRACOL

sur: http://www.europemaxima.com/

Au début de la décennie 1930, quand la crise de 1929 commençait à toucher la France, deux jeunes penseurs courageux et originaux, Robert Aron et Arnaud Dandieu, rédigèrent Le cancer américain.

Ces deux noms ne sont pas inconnus pour qui s’intéressent à cet extraordinaire foisonnement intellectuel de la France de l’Entre-Deux-Guerres que Jean-Louis Loubet del Bayle désigna dans un livre magistral et fondateur sous le terme générique de « non-conformistes des années 1930 ». Avec Denis de Rougemont et Alexandre Marc, Robert Aron et Arnaud Dandieu animèrent la revue L’Ordre Nouveau et le groupe éponyme. Situé entre la revue personnaliste Esprit d’Emmanuel Mounier, de sensibilité « progressiste » (ou au moins « humaniste intégral »), et la Jeune Droite d’extraction maurrassienne, L’Ordre Nouveau ne cessa de dialoguer avec elles, occupant ainsi un espace central de la pensée française d’alors sans pour autant renoncer à sa radicalité intrinsèque.

Cette radicalité se manifeste pleinement dans Le cancer américain que L’Âge d’Homme vient enfin de rééditer. À la différence des écrits des autres non-conformistes qui traitent de philosophie, de politique, de moral, Robert Aron et Arnaud Dandieu nous livrent une réflexion économique sur la transformation profonde, capitale, du monde à laquelle ils assistent horrifiés. « Nous voici au changement des temps où il nous faudra choisir entre les routines oppressives d’une tradition faussée et le travail révolutionnaire qui mène à un ordre nouveau. Ce livre sans portée constructive et sans valeur doctrinale, n’a été écrit que pour inviter à ce choix. »

Le cancer américain critique en des termes fort rudes les politiques déflationnistes de l’Étatsunien Hoover et du Français Tardieu. Mais, par delà cette critique conjoncturelle implacable, l’ouvrage dénonce impitoyablement la diffusion de nouveaux modes de production standardisés, la rationalisation des méthodes de travail qui ne se limite pas au seul secteur industriel, le taylorisme et le fordisme qui envahissent les esprits. Il s’en prend aussi au principe de l’assurance et à l’idéal philanthropique des sociétés occidentales qui minent et sapent les communautés humaines. Il en résulte que « pour tous ceux, Français ou étrangers, Américains ou Asiatiques, qui sentent, au sens le plus médiocre comme au plus élevé du mot, leur “ avenir ” menacé et leur existence compromise par des crises qu’ils subissent sans parvenir à les comprendre, pour les peuples qui voient disparaître leurs traditions essentielles, — pour les individus opprimés dans leur bien-être et dans leurs joies — ce livre est un cri d’alarme ». Les auteurs se révoltent donc contre le monde moderne puisqu’ils estiment « le mal dans lequel se débat le monde moderne est bien, comme un cancer, lié à la nature même de ce monde ». En observateurs lucides et soucieux, ils constatent que « le cancer du monde moderne a pris naissance bien loin des charniers de la guerre, en un terrain bien abrité, mieux même qu’on ne le croit souvent. C’est le cancer américain ».

Ce livre, on s’en saurait douté, vitupère contre le système yankee d’autant que « les États-Unis doivent apparaître comme un organisme artificiel et morbide » ! Cependant, les auteurs se nuancent et précisent que « les U.S.A. que nous mettons en cause, c’est une méthode, ce n’est pas un peuple, encore moins une terre. Méthode qui a bien pu se greffer sur tout un groupe humain, comme une maladie ; mais qui n’en garde pas moins sa liberté de propagation et son existence indépendante… ».

Considérant néanmoins que « l’impérialisme américain à base économique et mystique, est l’héritier direct de la tradition coloniale européenne », que « l’esprit américain [est] cancer et détournement de l’esprit véritable » et qu’il « se ramène à une double crise : crise de conscience d’abord, et crise de virilité », Robert Aron et Arnaud Dandieu, doués de prescience, s’indignent de la mise en tutelle des banques européenne par la Federal Reserve Banks via la Banque des Règlements Internationaux, et s’élèvent contre la mise en place d’un système monétaire international qui préfigure et annonce les accords calamiteux de Bretton Woods en 1944.

Comme leurs « homologues » révolutionnaires-conservateurs allemands, Robert Aron et Arnaud Dandieu déplorent le plan Dawes et rejettent le scandaleux plan de remboursement Young qui fragilise les économies européennes. On a tendance à l’oublier aujourd’hui : si les États-Unis ne ratifièrent pas en 1920 le traité de Versailles et choisirent l’isolationnisme, Washington n’en continua pas moins d’exiger de ses débiteurs le paiement complet des prêts de guerre et de leurs intérêts… L’isolationnisme politique yankee s’accorda sans problème avec une solide attention financière intéressée au Vieux Monde. C’est par ce biais que les États-Unis parviennent à s’imposer. « Cette colonisation américaine de l’Europe est évidemment que plus elle devient dangereuse, moins elle est apparente. Et ici se confirme une fois de plus le caractère profondément abstrait de cette colonisation. C’est sur le terrain financier et particulièrement celui du crédit que cette constatation se montre la plus éclatante. À ce titre, et bien qu’il soit bousculé par les événements, le plan Young demeure un objet d’études particulièrement révélateur : son importance subsiste entière et 1929 apparaît comme une étape particulièrement grave dans la colonisation de l’Europe par l’Amérique. Pour la première fois, au moyen d’un organisme bancaire, un protectorat secret sur l’ancien monde était établi de façon assez discrète, pour que nul ne s’en aperçût. Machine admirablement montée, mais encore mieux camouflée, et sur laquelle il faut nous arrêter quelque peu. Véritable charte du colonialisme américain ! » Cette invasion subtile et insidieuse prend des formes surprenantes, que « de la colonisation concrète ayant un but matériel, voire territorial, elle est passée progressivement à ce que l’on pourrait appeler la colonisation abstraite, c’est-à-dire à la colonisation par le commerce, puis par le crédit, puis enfin par le prestige ».

Les auteurs du Cancer américain considèrent par conséquent que la prospérité étatsunienne des « Années folles » s’est bâtie sur les ruines et la reconstruction de l’Europe meurtrie. Or la crise de Wall Street et ses conséquences ne font qu’accentuer ce parasitisme d’une manière dangereuse, car, « que l’Amérique le veuille ou non, c’est à la guerre que mènent inévitablement sa prospérité et ses crises, à la guerre… en Europe », avertissent-ils prophétiquement.

Ils récusent toutefois la solution belliciste. « Ce livre n’est pas un appel à l’on ne sait quelle guerre sainte. La guerre ne peut rien contre les maux de l’esprit, et le cancer américain est avant tout un cancer du spirituel. Ce n’est pas à la guerre contre l’Amérique qu’au-dessus des nationalités il faut appeler l’Europe ; non seulement les canons ne peuvent rien contre le cancer, mais la guerre est un contact plus dangereux que n’importe quel autre, et l’on s’américanise contre l’Amérique plus vite encore que pour elle. Nous n’appelons donc à la guerre, mais à la conjuration. » Ce complot, cette insurrection des cultures populaires enracinées doit aller à l’encontre de l’air du temps et de ses engouements superficiels. Déjà « le rôle que nous nous assignons, dépassant les questions de frontière ou le problème même de race, est d’écrire le Discours contre les excès de la Méthode (1), c’est-à-dire contre les abus d’une méthode jadis bienfaisante, le Discours contre la technique qu’attend notre génération ». Comment ? « Contre l’esprit américain, ce cancer du monde moderne, il n’est aujourd’hui qu’un remède. Pour échapper à l’engloutissement dont nous menacent les déterminismes matérialiste et bancaire, c’est avant tout le mythe de la production qu’il faut attaquer et détruire : c’est avant tout une révolution spirituelle qu’il est de notre devoir de susciter. » MM. Aron et Dandieu suggèrent donc de décoloniser les imaginaires…

Cette « révolution spirituelle » nécessaire, indispensable, vitale même, ne peut que se fonder sur l’idée européenne. Et on comprend mieux tout ce qui sépare la Jeune Droite, restée nationaliste, de L’Ordre Nouveau, véritablement européiste, qui perçoit l’Europe en rempart salutaire au déferlement destructeur de la modernité. « Dans sa Révolution nécessaire, elle rejettera avec indignation tous les colonialismes étrangers ou internes, qui partout, dans les métropoles comme dans les terres d’outre-mer, ne cherchent qu’à brimer les modes d’existence et de pensée indigènes au profit d’autres cancers conçus à l’instar de l’Amérique. » Mieux, l’Europe, pour les auteurs, ne dément pas la juste affirmation des peuples à préserver leurs identités, bien au contraire ! « Diversité et unité peuvent en elles s’appuyer l’une sur l’autre, parce que c’est la diversité des patries et des cultures qui y a lentement, contre la volonté des États et des diplomates, promu au rang de valeur suprême la puissance d’un esprit créateur, spécifiquement humain. Puisque aujourd’hui on s’en prend à ta diversité comme à ton unité, à ta peau comme à ton âme, Europe, réveille-toi ! » Le propos résonne d’une tonalité singulièrement actuelle.

Sorti après Décadence de la nation française (qu’il serait bien que l’éditeur le republie) et avant La Révolution nécessaire (2), Le cancer américain étudie en temps réel la mainmise du système bankstère sur les vieilles nations européennes. Trois quarts de siècle avant la « mondialisation », cet essai signale que loin d’apporter le bonheur et la plénitude individuels entiers, le dérèglement volontaire du capitalisme libéral et sa généralisation virale plongeraient le monde dans un chaos dont l’homme du début du XXIe siècle pâtit encore des affres. Saluons donc L’Âge d’Homme pour cette réédition et méditons les avertissements visionnaires de Robert Aron et d’Arnaud Dandieu afin d’édifier au final cet ordre nouveau souverain, libérateur et européen.

Notes

1 : En 1974, Robert Aron publia chez Plon Discours contre la Méthode, préfacé par Arnaud Dandieu.

2 : La Révolution nécessaire, Grasset, 1933, réédition, Jean-Michel Place, 1993, préface de Nicolas Tenzer.

• Robert Aron et Arnaud Dandieu, Le cancer américain, L’Âge d’Homme, préface de Pierre Arnaud, coll. « Classiques de la pensée politique », 2008, 141 p., 24 €.

samedi, 06 septembre 2008

Heurt frontal au Caucase

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Jan ACKERMEIER:

 

Heurt frontal au Caucase

 

La guerre de cinq jours dans le Caucase vient à peine de se terminer mais ses effets sur les rapports futurs entre les Etats-Unis et la Russie ne sont pas encore vraiment prévisibles dans toute leur portée. Ce qui est intéressant à analyser, c’est le calcul des Etats-Unis dans ce conflit.

 

La guerre a commencé, c’est connu, par l’entrée des troupes géorgiennes en Ossétie du Sud, “une province rénégate”, selon les Géorgiens. A la suite de cette opération, la grande puissance qui s’auto-proclame défenderesse des Ossètes, soit la Russie, intervient dans le conflit, repousse rapidement les troupes géorgiennes et s’avance profondément dans le territoire central de la Géorgie. Les médias occidentaux s’empressent de stigmatiser la contre-attaque russe, en la campant comme “une guerre d’agression contraire au droit des gens”, et se soumettent servilement aux impératifs de la politique et de la propagande américaines. Les Etats-Unis auraient apprécié que la Géorgie, alignée sur l’Occident et donc sur Washington, ait pu activement imposer ses intérêts dans le Caucase et veiller à limiter encore davantage l’influence de la Russie dans cette région.

 

Les Russes, toutefois, en dépit de leurs problèmes de politique intérieure, sont encore capables de faire valoir leurs intérêts de grande puissance: ce qui fait écumer de rage les Etats-Unis et leurs vassaux. On crie déjà au retour de la “Guerre froide” et la ministre américaine des affaires étrangères, Condoleezza Rice, s’est ridiculisée récemment en déclarant que “la Russie par sa  ‘guerre d’agression’ (!!!) contre la Géorgie avait perdu toute crédibilité internationale”! Cette hypocrisie manifeste, les Américains, baignant dans leur narcissisme, ne l’aperçoivent même plus, car, rappellons-le, les attaques américaines contre l’Irak et l’Afghanistan étaient au moins aussi équivoque sur le plan du droit des gens que l’intervention russe dans le Caucase.

 

Il faut tenir compte du fait que les Ossètes, tant ceux du Nord qui vivent au sein de la Fédération de Russie, que ceux du Sud, qui vivent dans une région revendiquée par la Géorgie, se perçoivent comme un et un seul peuple, d’une culture spécifique. Les prérequis pour l’exercice par les Ossètes d’un droit d’auto-détermination, sur les plans intérieur et extérieur, existent bel et bien. Et lorsque la Russie, puissance protectrice des Ossètes, se réclame du droit à l’auto-détermination quand elle intervient contre la Géorgie, ses justifications sont bien plus valables que celles invoquées naguère par les Etats-Unis, qui nous parlaient à tours de bras de la fable des “armes de destruction massive” de l’Irak ou de la menace que faisait peser sur les Etats-Unis eux-mêmes les terorristes afghans, ou encore, de l’autre fable médiatique, celle de l’exportation de la démocratie et des droits de l’homme. Bien entendu, les interventions russes dans le Caucase participent, elles aussi, d’une volonté de faire valoir ses intérêts de grande puissance, exactement comme l’avait fait la politique étrangère des Etats-Unis au cours de ces dernières décennies; parallèle que l’on ne veut pas voir en notre pays: n’est-on pas finalement, dans l’âme et dans les tripes, des vassaux de la “communauté occidentale des valeurs”.

 

Jan ACKERMEIER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°35/2008 – août 2008 – trad. franç.: Robert Steuckers).

vendredi, 05 septembre 2008

M. Mann et la notion d'"Empire incohérent"

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Synergies Européennes – Ecole des Cadres / Bruxelles – octobre 2004

 

Dimitri SEVERENS :

Michael Mann et la notion d’”Empire incohérent”

 

Face aux entreprises de l’Amérique de Bush en Afghanistan et en Irak, les réactions sont diverses, multiples, montrant, hélas, la disparité problématique d’une opposition trop bigarrée à la guerre américaine en Mésopotamie. Bon nombre de réactions relèvent d’un pacifisme pur et simple, c’est-à-dire d’une idéologie diffuse qui a pour caractéristique principale d’être irréaliste, de ne pas réinscrire les événements d’aujourd’hui dans la trame éternelle de l’histoire mondiale, dans le cadre géopolitique d’un Proche- et d’un Moyen-Orient disputé entre puissances rivales depuis la fin de l’ère néolithique.

 

D’autres ouvrages critiques méritent cependant le détour, notamment celui du sociologue Michael Mann, qui enseigne en Californie. Michael Mann a rédigé un plaidoyer pacifiste, qui consiste, en gros, à dire que les entreprises de Bush, inspirées par l’école néo-conservatrice où se rencontrent tous les anciens comploteurs rooseveltiens-trotskistes, ne sont ni plus ni moins que les expressions d’un “néo-militarisme”. Rien de bien original dans cette assertion, qu’il suffit de répéter pour se faire bien voir dans les salons de la gauche planétaire, où l’on bavarde sans jamais défier le système sur le fond. Donc première remarque d’ordre stratégique : l’ouvrage de Mann pourrait nous servir à apprendre le langage des pions en place, dans la vitrine pseudo cultureuse et bien-pensante des établissements occidentaux, qui se piquent d’anti-bushisme. Mann permet donc l’entrisme, une stratégie habile de dissimulation à la Sun Tzu. Le militant identitaire peut apprendre le langage de ceux qu’il souhaite ardemment renverser, jeter à la poubelle de l’histoire. Ce qui nous amène à formuler une deuxième remarque stratégique, à tirer de la lecture du livre du Prof. Michael Mann : celui-ci poursuit son raisonnement en disant que ce néo-militarisme conduit à l’incohérence. Montrer l’incohérence de l’adversaire, pour le déstabiliser, est une pratique du combat culturel et politique dont il faut être virtuose.

 

Pour Mann, l’incohérence américaine actuelle consiste à proclamer et à espérer l’avènement d’un “Nouvel Ordre Mondial”, sans être en mesure d’asseoir une réelle “pax americana”. Mann ne cite pas une seule fois Carl Schmitt dans son ouvrage, or son argument majeur rappelle pourtant quelques éléments de l’œuvre du grand politologue et juriste allemand, et procède du constat que les Etats-Unis ne sont pas une “nouvelle Rome”, en dépit de cette prétention souvent affirmée ces dernières années dans les cénacles néo-conservateurs , notamment chez des auteurs comme Charles Krauthammer et Robert Kagan. Pour Schmitt, les Etats-Unis des années 40 à 70 étaient une sorte de “nouvelle Carthage”, dont l’élément-symbole était l’eau, l’eau salée de la mer, de l’océan, sur laquelle les hommes ne peuvent rien faire pousser, ne peuvent habiter. Schmitt raisonne en paysan romain, germanique et catholique tout à la fois, en natif de ce patelin qu’est Plettenberg dans le Sauerland. La mer n’est rien de concret, même si elle procure la puissance, une puissance issue de la piraterie éternelle, à qui la maîtrise techniquement. Mieux, dans ses écrits d’après-guerre, Schmitt, notamment dans son journal, le fameux “Glossarium”, revient sans cesse sur la dichotomie Terre/Mer et se fait prophète : un impérialisme maritime est un impérialisme qui va introduire la mort car il est, par définition, un impérialisme mouvant comme un navire. Sur la mer, il faut donc bouger sans cesse car qui s’arrête de bouger, de nager, de flotter sur un radeau ou une coquille de noix, sombre, coule à pic et meurt. L’homme est un être politique, lié à la Terre, qu’il organise et qu’il féconde : c’est le “nomos” de la Terre. Le pirate est un vauteur, dans cette perspective, non pas un “zoon politikon”, qui gère, norme, arpente, mesure comme un géomètre, plante et récolte.

 

Mann ne dit pas autre chose, mais dans une langue assez conformiste, qui peut passer comme une petite pilule toute légère à travers le gosier délicat des écervelés contemporains. Schmitt était agacé par le discours “démocratique” de l’Amérique de Wilson et de Rossevelt, qu’il considérait comme une formidable hypocrisie. Plus on parle de démocratie, constatait-il, plus la praxis est brutale et haïssable, diamétralement différente du discours lénifiant. Mann affirme dans son livre que l’Amérique contemporaine parle de liberté et de démocratie, d’abondance matérielle, de cette paix perpétuelle qui viendra après l’élimination des “mauvais”, mais qu’en réalité les guerres se multiplient et se succèdent, les terrorismes jaillissent du sol comme les champignons après la pluie. L’Amérique n’est donc pas une puissance politique au sens d’Aristote et de Schmitt : elle ne pacifie pas, elle ne procède pas au travail du “nomos”.

 

Mann, comme Schmitt, constate que les fondements concrets, idéologiques et économiques, des Etats-Unis sont faibles, dans le fond, et que cette faiblesse postule une politique brutale, celle d’un militarisme qui frappe mais ne construit pas d’acqueducs ou de routes comme les légionnaires de la Vieille Rome. Washington peut gagner la puissance mais n’aura jamais cette fascinante “auctoritas”, fondatrice des vrais empires historiques, qui apportent la paix pendant de longs siècles. Si le langage pacifiste de Mann peut nous faire croire, de prime abord, que son analyse de la situation actuelle est irréaliste, mais, finalement, elle donne, pour qui sait raisonner dans les termes et les catégories que nous a légués Carl Schmitt, la clef pour présenter, hors milieu identitaire, un schmittisme soft (en apparence, car aucun schmittisme n’est soft, in fine) aux âmes fragiles, habituées à un discours médiatique tout de guimauve. Autre concept intéressant de Mann : l’Amérique comme puissance schizophrénique. La schizophrénie américaine selon Mann consiste, comme on l’a vu au cours de ces neuf dernières décennies, à osciller entre “multilatéralisme” et “unilatéralisme”, à conquérir des pays mais sans pouvoir les remettre d’aplomb (comme les Romains l’avaient fait en Gaule), sans comprendre les ressorts des pays conquis, comme l’ethno-nationalisme ou le fondamentalisme religieux.

 

Que faut-il faire du livre de Mann? Un Cheval de Troie pour entrer dans le discours de l’établissement et y injecter un schmittisme corrosif !

 

Dimitri SEVERENS.

 

Michael MANN, Incoherent Empire, Verso, London, 2003. La version française vient de sortir de presse : L'Empire incohérent. Michael Mann, Paris, Calmann-Lévy. ISBN 2702135005. EAN 9782702135006. Code Hachette

5176904. Format : 230x150x25 mm. 384 pages. Prix TTC : 19,00 €.

 

mercredi, 03 septembre 2008

Doctrine de Monroe et géopolitique moderne

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James Monroe

Pankraz / “Junge Freiheit”:

 

Doctrine de Monroe et géopolitique moderne

 

Les héritiers de Friedrich Ratzel et de Karl Haushofer ont bien du pain sur la planche ces jours-ci. Le concept de “géopolitique”, qu’ils ont forgé jadis, est dans toutes les bouches. En effet, les événements de Géorgie et autour de la Géorgie ont fait prendre conscience même au plus obscur des téléspectateurs que la politique étrangère actuelle n’est pas un jeu simple, qui se joue sur un damier rudimentaire et enfantin et sur base de quelques règles proprettes de politologie et de quelques principes juridiques relevant du droit de gens, mais qu’elle est bien plutôt un art de jonglerie, d’une haute complexité, avec  un nombre incalculable de balles qui, de surcroît, sont de dimensions différentes, et dont le mouvement propre est seulement “devinable” par les acteurs en piste et ne peut jamais, ne pourra jamais, être totalement prévisible.

 

Celui qui voudra sur le long terme connaître le succès en politique étrangère devra, par la force des choses, se faire géopolitologue. Il ne suffit pas de se réclamer pompeusement des droits de l’homme, qui sont abstraction, et, pour le reste, s’efforcer d’avoir un potentiel supérieur de suffrages ou de présenter de bons scores électoraux, il faudra bien plutôt immerger ses pensées dans le “génie de l’espace” (comme disait Rudolf Kjellén), c’est-à-dire respecter au cas par cas les traditions régionales, prendre au sérieux les passions du lieu, se donner des idées claires, sans illusions, au-delà de l’espace réduit de ses propres compétences et autorités. 

 

En fait, ce que je dis là sont de pures évidences, que l’on pouvait déjà lire chez Montesquieu (1689-1755). L’ère du colonialisme européen et, à la suite de celui-ci, l’époque de la communication technique embrassant le globe tout entier (la “globalisation”) ont fait en sorte que ces évidences ont perdu de leur lustre. On s’est mis à cultiver l’illusion que l’on pourrait (et devrait) mettre tout dans le même sac, juger tout à la même aune, en matière de politique. On a tenté de mettre en pratique des doctrines sotériologiques universelles, ce qui eut des conséquences désastreuses. La fable qu’un “policier mondial”, soi-disant hissé au-dessus de tous les partis, a eu son heure de gloire; un “policier mondial” qui aurait eu le droit de s’immiscer partout dans tout, avec ou sans l’aval d’un caucus ou d’un conseil autorisé.

 

Ce que nous apercevons aujourd’hui, c’est la fin de cette politique de la “planche à dessin”, de l’épure permanente hors du réel, et le retour de la géopolitique. On reconnaît désormais, lentement mais sûrement, que les “droits fondamentaux”, conçus par la pensée aux heures les plus sublimes de l’histoire occidentale, se télescopent en permanence dans le concret des situations spatiales/territoriales; il en va ainsi de la doctrine de l’intangibilité des Etats et de leurs frontières; cette doctrine de l’intangibilité se heurte, sans espoir aucun d’accalmie, à celle du droit des peuples à l’auto-détermination. 

 

Si les Albanais du Kosovo ont le droit de se débarrasser des structures étatiques qui les liaient à la Serbie, pourquoi les Ossètes du Caucase n’auraient-ils pas, à leur tour, le droit de se séparer de l’Etat géorgien? Quelle loi autorise-t-elle l’une sécession et interdit l’autre? Quelle loi autorise-t-elle l’OTAN, instance étrangère à l’espace balkanique, de bombarder Belgrade dans l’intérêt des Albanais? Quelle loi interdit-elle à la Russie, qui est depuis des siècles la puissance protectrice des Ossètes, d’intervenir à leur profit en Géorgie? Ces lois, que j’évoque dans mes questions, n’existent pas, ni réellement ni potentiellement.

 

Il n’existe que des intérêts et des rapports de force entre regroupements d’Etats, proches ou étrangers à l’espace où se déroulent les affrontements. Sur leurs torts ou leurs raisons ne statue pas une “table de lois” transcendantale, mais, à chaque fois, une constellation régionale concrète, faite d’accords, de conventions et de nécessités. Il est clair, bien évidemment, que les forces inhérentes à l’espace ou proches de cet espace, c’est-à-dire les forces qui sont immédiatement confrontées à la teneur de ces accords et conventions, les forces dont le quotidien est marqué par ceux-ci, ont un droit plus direct et prépondérant à agir ou réagir sur le terrain que les forces qui sont étrangères à cet espace. Ce principe demeure valable même à notre époque de communication globale, où la politique qui régit le flux des finances et des matières premières est mondiale.

 

Lorsque le président américain James Monroe proclame en 1823 la fameuse doctrine qui porte son nom, il a posé, à coup sûr, le premier grand acte de géopolitique prévoyante, visant le long terme. Les Etats-Unis ne se mêleront pas des affaires européennes, disait Monroe, rassurant; mais il fallait aussi que les Européens s’interdisent toute immixtion dans les affaires américaines ou toute implantation de colonies sur un territoire américain. La devise était: “L’Europe aux Européens”, ce qui avait pour corollaire implicite, “L’Amérique aux Américains”.

 

Bien entendu, nous pourrions dire que ce sont là des déclarations et des mots d’ordre antérieurs à la globalisation: il n’en demeure pas moins vrai qu’ils recèlent un solide noyau de réalisme, transcendant les époques; les peuples auraient eu un avenir bien meilleur, s’ils avaient écouté ces déclarations et mots d’ordre plus attentivement; nous aurions pu éviter toute l’ère du colonialisme européen et des guerres mondiales. Aujourd’hui, sous les conditions dictées par les technologies globales de la communication à haute vitesse, plus aucune Doctrine de Monroe n’est possible, sous quelque forme que ce soit. Mais son intention première était juste, comme nous nous en apercevons à nouveau, chaque jour, dans les faits.

 

Prenons en considération la guerre d’Irak et ses conséquences catastrophiques. Le gouvernement Bush, à Washington, disposait de toutes les informations nécessaires pour évaluer de manière réaliste les conséquences de cette guerre. Mais il a obtenu exactement le contraire de ce qu’il avait planifié. Il voulait affaiblir l’Iran, mais celui-ci s’est considérablement renforcé. Mais, au fond, il ne s’agissait pas vraiment d’informations disponibles mais bien plutôt de l’incapacité américaine  —parce que l’Amérique, là-bas, est une puissance totalement étrangère à l’espace moyen-oriental—  à comprendre et à interpréter correctement les informations disponibles dans le cadre des spécificités régionales de cette partie du monde.

 

Les géopolitologues conclueront dès lors: lorsque l’on cherche à résoudre les conflictualités d’une région du monde, il faut appliquer une sorte de principe de subsidiarité, tenant compte du degré d’éloignement spatial par rapport au foyer du conflit. Cet éloignement devant constituer l’instrument de mesure le plus important. Les premiers à pouvoir exercer le droit de résoudre un conflit devraient être les Etats, les peuples et les ethnies qui sont directement concernés par les affrontements. Dans ce cadre, la voix des acteurs les plus modestes devraient peser davantage dans la balance que celle des acteurs les plus puissants. Les forces qui, elles, sont éloignées géographiquement et mentalement du foyer de conflit devront se contenter de patienter et, dans les cas où elles interviendraient effectivement, elles devraient le faire avec beaucoup de décence, de distance et d’indépendance. Elles devraient juguler leur fringale de puissance et surtout faire montre d’une réelle retenue dans leurs médias.

 

Tout beuglement médiatique émis au départ d’un poste soustrait à tous les dangers de la belligérance, dans des rédactions ou des bureaux très lointains sont une nuisance, du point de vue géopolitique. Bien sûr, cela vaut aussi, et d’abord, pour les parties directement concernées. Pour le reste, la géopolitique relève bien de l’esprit de notre temps. Elle vit une nouvelle haute conjoncture.  C’est bon signe.

 

PANKRAZ.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°36/2008 – 29 août 2008 – trad. franç.: Robert Steuckers).

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mardi, 02 septembre 2008

Analyse géopolitique des événements de Géorgie

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John LAUGHLAND:

Analyse géopolitique des événements de Géorgie

 

Sir Halford John Mackinder (1861-1947), professeur de géographie à l’Université d’Oxford, directeur de la London School of Economics et membre du Parlement, est généralement considéré comme le fondateur de la “géographie politique”. Profondément pénétré de l’idée très britannique qu’il est nécessiare de maintenir l’équilibre entre les puissances du continent pour pouvoir conserver l’hégémonie sur la mer, Mackinder, en 1904, pose sa fameuse affirmation: l’Eurasie est le pivot géographique de l’histoire mondiale; de cette affirmation découle que celui qui contrôle l’Europe orientale contrôle simultanément l’Eurasie et, par conséquence, le monde entier.

 

Ses écrits ont eu une influence énorme, qui s’exerce encore aujourd’hui: Zbigniew Brzezinski, le conseiller de Jimmy Carter pour les questions de sécurité nationale, est l’un des principaux débiteurs actuels de Mackinder, notamment pour sa théorie qui veut que l’Amérique doit exercer un contrôle sur l’Asie centrale pour consolider sa propre hégémonie dans le monde. Cependant, les férus actuels de géopolitique ne se rappellent guère que le sommet de la carrière politique de Mackinder fut atteint en 1919, lorsque Lord Curzon, ministre des affaires étrangères, le nomma Haut Commissaire britannique pour la Russie méridionale.

 

La Grande-Bretagne de l’époque avait envoyé des troupes en Russie méridionale pour combattre aux côtés des forces anti-bolcheviques commandées par le Général Denikine. Mackinder avait persuadé ce dernier de reconnaître l’indépendance des peuples du Caucase en cas de victoire blanche; dès que Mackinder s’en retourna à Londres, il déclara que la Grande-Bretagne aurait dû forger une alliance entre une Ukraine indépendante et les Etats du Caucase et maintenir un contrôle sur la ligne de chemin de fer Bakou/Batoum afin de ne pas mettre en danger les fournitures de pétrole en provenance de la Caspienne et afin d’empêcher les Bolcheviques de règner sur l’ensemble des côtes septentrionales de la Mer Noire. A l’époque, la Grande-Bretagne n’opta pas pour cette politique et l’Union Soviétique de Lénine a fini par contrôler efficacement tous les territoires qui avaient appartenu jadis à l’Empire russe (même si elle le transforma en une “fédération”). La vision de Mackinder, elle, n’est devenue réalité qu’un peu moins d’un siècle plus tard, en 1991, au moment de l’effondrement de l’Union Soviétique.

 

C’est à la lumière de cette perspective historique et idéologique que nous devons appréhender, aujourd’hui, le soutien énergique qu’ont apporté les géo-stratèges américains à l’adhésion à l’OTAN de tous les pays riverains de la Mer Noire qui ne le sont pas encore, c’est-à-dire l’Ukraine et la Géorgie. Comme Mackinder jadis, les géo-stratèges américains actuels veulent transformer la Mer Noire en un lac “otanique” et expulser la Russie de tous les territoires pontiques qu’elle a absorbés au cours de l’histoire. Leurs objectifs sont au nombre de trois: 1) protéger les fournitures énergétiques; 2) contribuer à la “démocratisation” (c’est-à-dire à l’occidentalisation) du “Grand Moyen-Orient” de Casablanca à Kaboul; et 3) infliger une défaite décisive à la Russie sur le plan géostratégique. Ces objectifs expliquent pourquoi l’Occident a soutenu Victor Youchtchenko en Ukraine, un politicien pro-OTAN, ainsi que la décision du gouvernement géorgien de reprendre le contrôle de deux provinces séparatistes, l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud, où les tensions se sont dangereusement amplifiées, avec des dizaines de tués lors d’un affrontement aux abords de la capitale sud-ossète Tskhinvali.

 

Quelles sont les chances de succès de l’Occident dans son entreprise? Certes, plusieurs éléments de la théorie de Mackinder ont déjà été traduits dans le réel: l’UE et l’OTAN ont été élargies en direction de l’Est et l’influence de l’Occident vient de progresser en Serbie. Le projet de créer un bouclier “anti-missiles” en Europe orientale avance également et, quand il sera parachevé, il constituera indubitablement une menace pour la Russie. Mais la violence dans le Caucase, si elle s’intensifie, sera la première véritable guerre pour un objectif stratégique depuis l’invasion de l’Irak en 2003; l’ “indépendance” du Kosovo, elle, a été obtenue sans qu’un seul coup de feu n’ait été tiré.

 

Dans son dernier livre, “Le nouveau XXIe siècle”, l’économiste français Jacques Sapir écrit, de manière particulièrement convaincante, que le projet de créer un empire mondial américain est mort-né et cela, depuis 2003. Bien sûr, le projet agite encore l’esprit de quelques fanatiques à Washington.

 

Evidemment, l’économie et la politique des Etats-Unis continuent d’être lourdement influencées par l’industrie militaire, qui stipendie les politiciens pour qu’ils plaident la cause d’un expansionisme militaire, qui a encore le vent en poupe. Enfin, il est patent aussi que les Etats-Unis font montre d’une tendance inquiétante à susciter de nouvelles crises pour distraire l’attention des observateurs, afin qu’ils n’examinent plus trop les crises plus anciennes.

 

Mais les guerres d’usure en Irak et en Afghanistan démontrent que les Etats-Unis ne peuvent effectivement “démocratiser” le Moyen-Orient ni le contrôler véritablement; il s’avère dès lors de plus en plus difficile, dans de telles conditions, de songer à vouloir contrôler toute l’Asie centrale, pour ne pas évoquer l’ensemble du monde. L’armée américaine, finalement, n’est pas assez nombreuse. On peut douter que Washington décide d’envoyer ses propres troupes pour combattre contre les forces pro-russes (ou russes) en Géorgie, même si une telle éventualité reste malgré tout fort probable si John McCain devient président. Mais il ne sera pas nécessairement vrai que “celui qui contrôle Tskhinvali, contrôle le monde”. Néanmoins, l’issue de cette guerre décidera de l’équilibre des forces entre la Russie et l’Amérique dans les prochaines années à venir.

 

John LAUGHLAND.

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 12 août 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).

lundi, 01 septembre 2008

Guerre du Caucase: chronologie des événements

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Soldats géorgiens en manoeuvre

 

Andreï ARECHEV:

Guerre du Caucase: chronologie des événements

 

Dans la chronologie des événements, qui ont précédé l’agression géorgienne contre l’Ossétie du Sud, il y a un aspect qui mérite tout particulièrement notre attention: le 31 juillet s’étaient clôturées des manoeuvres communes, regroupant unités géorgiennes et unités américaines, que l’on avait baptisées “Immediate Response 2008”; au cours de ces exercices, les instructeurs américains avaient entraîné les forces armées géorgiennes à parachever des “opérations de nettoyage” contre des terroristes embusqués en zones résidentielles. Les exercices comprenaient des actions comme nettoyer un village des terroristes qui s’y dissimulaient, probablement en vue des engagements futurs des soldats géorgiens en Irak, et de mettre en lieu sûr les populations civiles; Les atrocités commises par les forces géorgiennes à Tskhinvali sont donc le résultat de l’entraînement qu’elles ont reçues de leurs instructeurs occidentaux sous la couverture cynique de “lutte contre le terrorisme”. Les véritables objectifs sont bien entendu complètement différents. L’ancien ministre géorgien des affaires étrangères, Salome Zurabishvili, qui est indubitablement une personnalité bien informée, a déclaré que la présence des Etats-Unis en Géorgie impliquait le déploiement d’une vaste gamme d’activités, parmi lesquelles l’instruction des forces armées et le contrôle du corridor de grande importance stratégique qui passe par le Caucase, où est notamment installé le tracé de l’oléoduc Bakou-Tbilisi-Ceyhan. Selon Zurabishvili, c’est là l’objectif principal du conflit actuel, qui oppose la Géorgie à la Russie et renforce simultanément la loyauté qu’éprouvent désormais les Géorgiens à l’égard des Etats-Unis et de la Grande-Bretagne, ce qui permet à ces deux dernières puissances de contrôler la Géorgie et, par voie de conséquence, l’ensemble du versant méridional du Caucase.

 

Il faut également noter que l’intensification du conflit caucasien, aux confins méridionaux de la Russie, a coïncidé avec les tensions qui ont agité la région autonome chinoise du Xinjiang, où, alors que commençaient les Jeux Olympiques, une attaque terroriste a été commise. Quelques jours auparavant, à Bishkek, la capitale du Kirghizistan, on avait découvert un dépôt illégal d’armes, près duquel résidaient une dizaine de militaires américains et plusieurs diplomates de l’ambassade des Etats-Unis dans ce pays  d’Asie centrale. L’agression de la Géorgie contre l’Ossétie du Sud est un acte de guerre, dans une guerre qui se déroulera dans l’intérêt de tierces puissances et où les Géorgiens sont destinés à jouer le rôle de chair à canon. Si l’agression contre cette petite région caucasienne ne trouve pas rapidement bonne fin, d’autres conflits régionaux seront inévitables et prendront à coup sûr une ampleur bien plus dramatique.

 

Andreï ARECHEV.

(extrait d’un article paru dans “Rinascita”, Rome, 12  août 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).

lundi, 25 août 2008

Consolidons deux axes contre l'atlantisme!

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Ugo GAUDENZI:

Consolidons deux axes contre l’atlantisme !

 

Depuis des années déjà, mon quotidien romain, “Rinascita”, milite, prêche et exhorte ses  lecteurs pour aboutir à ce qui semble la seule et unique solution possible pour assurer la survie de notre Europe: l’union stratégique de l’Ouest et de l’Est du continent.

 

Cette unité de la “plus grande Europe” est une question de vie ou de mort: elle ne se réalisera que par la réactivation et la consolidation d’un nouvel “axe carolingien”, l’Axe Paris-Berlin-Moscou (ndt: remarquablement mis en exergue par Henri de Grossouvre en France), et par l’invention révolutionnaire d’une “alliance continentale-méditerranéenne”, d’un Axe Madrid-Rome-Belgrade-Moscou, capable de fermer les côtes méridionales de l’Europe à toute influence hostile émanant de l’atlantisme.

 

Telle est notre “utopie réalisable”  (et, en partie, elle est déjà en voie de réalisation): construire un double axe géopolitique assurant la défense et la sécurité en Europe.

 

L’objectif, de fait, est de rendre la souveraineté aux Etats nationaux européens, qui ont été transformés, par les Anglo-Américains, en un chapelet de petites colonies satellisées. L’objectif, pour tous les peuples d’Europe, c’est de faire converger leurs forces, de les additionner et de les joindre à celles de la Russie, l’unique Etat national européen encore capable de donner à notre “plus grande patrie” un avenir dans l’unité sur tous les plans: culturel, social, économique et politique.

 

En dépit de toutes les vicissitudes, et même des vicissitudes négatives, jour après jour, année après année, notre vision commune s’est renforcée et n’a cessé de se renforcer en Europe. Notre voix, celle de “Rinascita”, n’est plus une voix qui crie dans le désert, mais une voix qui a suscité, en dehors de son vivier d’origine, un écho tangible et des analyses similaires, désormais partagées par de nombreux cercles et personnalités.

 

De l’effondrement du Mur de Berlin à nos jours, l’histoire européenne a enregistré et subi des offensives répétées contre son territoire. Par le miroir aux alouettes du bien-être occidental ou par les armes de l’OTAN, les fédérations des Etats d’Europe orientale, soit l’URSS et l’ex-Yougoslavie, ont été brisées, émiettées et fragmentées par l’offensive anglo-américaine et néo-libérale, agissant souvent par le biais de “révolutions oranges”, financées par des fonds issus de l’usure et de la finance.

 

Actuellement, les “fondations” et les groupes de pression occidentaux (Rockefeller, Agnelli, Trilatérale, Davos et autres) ont juré de détruire tous les Etats nationaux et tous les systèmes de protection sociale qu’ils ont mis sur pied, en faisant miroiter les délices d’un “fédéralisme” composé d’autonomies régionales, alors que leur objectif réel est tout entier contenu dans le vieil adage latin “Divide et impera” (“Diviser pour régner”), à appliquer, cette fois, à tout le globe, par ceux qui détiennent le maximum de pouvoir sur les plans politique et économique.

 

Mais voilà que l’attaque en direction du coeur de la Russie, attaque qui était censée constituer la manoeuvre principale dans la conquête définitive de l’Europe, vient d’échouer.

 

Le Kremlin a repris les rênes du pouvoir en ses terres propres. Il a utilisé les mêmes armes que les puissances atlantiques, le pétrole et l’énergie, mais sans avoir eu besoin, pour ce faire, d’envahir d’autres pays et de les occuper. Ainsi, le Kremlin est revenu à un “status quo ante” qui hisse à nouveau la Russie au rang de puissance planétaire et non plus régionale.

 

Pour le bien commun de toutes nos terres européennes, pour le bien de l’humanité toute entière, il faut qu’échoue la stratégie mondialiste qui, sous les oripeaux de la “globalisation économique” et sous la bannière du “libre marché”, cherche en réalité à imposer à toutes les nations la domination unipolaire des Anglo-Américains, orchestrée par la haute finance.

 

L’enjeu est énorme, extrême. Tellement extrême que, depuis 2001, Washington, prévoyant, pour sa puissance, l’émergence imminente de vents prochains très défavorables, a fait battre ses tambours de guerre, partout dans le monde.

 

Ces tambours, il faut les faire taire. Notre tâche, à nous Italiens, est de travailler à l’alliance méditerranéenne/continentale, à l’Axe qui nous unira à Moscou.

 

Ugo GAUDENZI.

(éditorial de “Rinascita”, Rome, 13 août 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

samedi, 23 août 2008

G. Schröder sur la Guerre du Caucase et les relations euro-russes

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L’ex-Chancelier Gerhard Schröder sur la Guerre du Caucase et les relations euro-russes

Résumé de l’entretien qu’il a accordé au “Spiegel”, n°34/2008

Q.: Monsieur Schröder, qui est responsable de la guerre dans le Caucase?

GSch: Le conflit possède sans nul doute ses racines historiques, car ila déjà connu plusieurs expressions au cours de l’histoire. Mais l’élément déchencheur dans les hostilités actuelles est l’entrée des troupes géorgiennes en Ossétie du Sud. Voilà ce qu’il ne faut pas chercher à dissimuler.

Voilà la première réponse de l’ancien Chancelier fédéral Schröder aux journalistes du “Spiegel”, cette semaine. Le ton est donné. Il est vif, succinct, dépourvu d’ambigüités. Schröder rappelle également dans cet entretien, plusieurs vérités bonnes à entendre et qui recèlent bien des similitudes avec notre discours, que nous tenons depuis bientôt trois décennies:

-          qu’il n’a jamais jugé intelligente la politique de Washington de faire encadrer l’armée géorgienne par des conseillers militaires américains;

-          qu’il est bizarre que ces conseillers n’ait pas eu vent des projets russes; “ils sont soit dénués de qualités professionnelles ou alors ils ont été trompés sur toute la ligne”, ajoute-t-il;

-          qu’il ne faut pas oublier que le déploiement de fusées américaines en Pologne et en Tchéquie a hérissé les Russes; ndlr:  imagine-t-on l’effet qu’aurait fait l’installation de fusées en Géorgie?

-          que l’Occident a commis des erreurs très graves dans sa politique à l’endroit de la Russie.

-          qu’il ne partage pas l’idée répandue en Occident d’un “danger russe”  et que la perception de la Russie à l’Ouest n’a pas grand chose à voir avec la réalité;

-          qu’il existe une dépendance mutuelle entre l’Ouest (du moins l’Europe de l’Ouest, ndlr) et la Russie; qu’il n’y a pas un seul problème global qui puisse être réglé sans le concours de la Russie; qu’il n’y a pas moyen, en Europe de l’Ouest, de se passer du pétrole et du gaz russes et, en Russie, de se passer des commandes européennes;

-          qu’il n’y a aucune raison d’abandonner le principe du “partenariat stratégique” germano-russe pour satisfaire la politique de Saakachvili;

-          qu’il n’y aura pas de retour au “status quo ante” en Abkhazie et en Ossétie du Sud, non pas parce la Russie y a pratiqué, contre Saakachvili, une politique du “gros bâton”, mais parce que la population ne le veut pas;

-          qu’il ne souhaite pas l’envoi de soldats allemands en Géorgie pour une mission de pacification;

-          que Merkel et Steinmeier ont eu raison de ne pas s’enthousiasmer, de manifester leur scepticisme, lors du sommet de l’OTAN en avril dernier à Bucarest, face à la candidature géorgienne, contrairement à l’avis des Américains et de certains pays est-européens;

-          que si la Géorgie avait fait partie de l’OTAN, l’Allemagne et l’Europe entière se seraient retrouvées aux côtés d’un aventurier politique (“ein Hasardeur”);

-          que l’Ukraine et la Géorgie doivent d’abord régler leurs problèmes intérieurs avant de songer à rejoindre des regroupements d’Etats comme l’OTAN ou l’UE;

-          que le coup de force de Saakachvili aura eu au moins l’effet bénéfique de postposer pendant plusieurs années au moins l’adhésion effective de la Géorgie à l’OTAN;

-          qu’il ne partage pas les propos tenus, lors des événements de Géorgie, par le secrétaire général de l’OTAN;

-          qu’il n’est pas un “Géorgien” dans le sens où le veut la déclaration du candidat républicain à la présidence des Etats-Unis, McCain, qui avait proclamé: “Nous sommes tous des Géorgiens!”;

-          qu’après avoir lu les dernières tirades du belliciste néocon Robert Kagan à propos de l’entrée des troupes russes en Ossétie du Sud, évoquant un “tournant dans l’histoire” et “le retour des conflits entre grandes puissances pour raisons territoriales”, il reste profondément perplexe; que Kagan appartenait déjà au club de “ces messieurs” (sic) qui ont poussé à la guerre en Irak, guerre dont les conséquences ne sont intéressantes ni pour l’Amérique ni pour l’Europe; et que, par conséquent, personne ne doit plus écouter les “bons conseils” de ce Kagan;

-          que la fin de la domination unipolaire de l’Amérique approche (allusion à son récent essai publié par l’hedomadaire “Die Zeit” de Hambourg); que les démocrates autour d’Obama s’en rendent compte, comme d’ailleurs tous les républicains raisonnables; que l’Amérique est contrainte d’accepter la multipolarité dans le monde, qu’il n’y a plus moyen désormais d’agir sur le monde autrement qu’en termes de multipolarité; que les républicains devront se soumettre à cette évidence et agir en cherchant des alliés et en tenant compte de l’avis des instances internationales (ndlr: contrairement à l’équipe de Bush jr.); sinon, l’Amérique gagnera sans doute encore des guerres mais perdra toujours  la paix; en clair, Schröder annonce la faillite de l’option néocon;

-          que l’unification des esprits en Europe, sur le plan de la politique extérieure, a connu un réel ressac depuis 2005 (ndlr: c’est-à-dire depuis la disparition factuelle de l’Axe Paris-Berlin-Moscou), notamment à cause de l’intégration de nouveaux Etats (ndlr : agités par une certaine russophobie);

-          que l’Europe ne jouera un rôle sur l’échiquier international, entre l’Amérique et l’Asie, que si elle développe des relations étroites avec la Russie et les maintient sur le long terme; qu’en ce sens, lui Schröder, perçoit la Russie comme partie intégrante de l’Europe plutôt que comme partie intégrante de toute autre constellation;

-          que l’équipe dirigeante de la Russie actuelle pense de la même façon mais que sa marge de manoeuvre est plus grande: la Russie peut jouer une carte asiatique mais non l’Europe;

-          qu’il s’insurge contre toute diabolisation de la Russie dans les médias; que ni le “Spiegel” ni les autres organes de presse en Allemagne et en Europe ne doivent participer à la diffusion d’informations erronées voire carrément fausses (ndlr: c’est-à-dire, pour nous, à ne pas reproduire les clichés des agences du soft power américain);

-          qu’il est le président du comité des actionnaires de “Nord Stream” (le complexe des oléoducs et gazoducs amenant vers la Baltique les hydrocarbures de Russie); que ce complexe est géré par un ensemble d’entreprises allemandes, néerlandaises et russes dont l’objectif est de construire un réseau de gazoducs et d’oléoducs sous la Baltique pour approvisionner l’Europe et l’Allemagne parce que cet approvisionnement garantit le bon fonctionnement de nos économies, donc de nos sociétés.

Des propos qui ont le mérite de la clarté. Et auxquels nous n’avons rien à ajouter! Puisque c’est ce que nous avons toujours dit, depuis la création des revues “Orientations” (1980) et “Vouloir” (1983), “Nouvelles de Synergies Européennes” (1994) et “Au fil de l’épée” (1999), dont le relais est repris, entre autres, par ce blog (2007).

(résumé de Robert Steuckers).

jeudi, 21 août 2008

Guerre du Caucase: entretien avec A. Rahr

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Guerre du Caucase: entretien avec Alexander Rahr

Propos recueillis par Moritz Schwarz

 

Alexander Rahr est le directeur du programme “Russie/Eurasie” auprès de la “Société allemande de politique étrangère” (Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik) à Berlin. Il est un spécialiste de réputation internationale pour toutes les questions eurasiennes.

 

Q.:  Monsieur Rahr, à quoi pensait, dans le fond, le Président Saakachvili en poussant ses troupes à entrer en Ossétie du Sud

 

AR: Votre question est pertinente. Car lundi, après seulement deux jours de guerre, il a capitulé. Toute l’opération s’est révélée un parfait désastre, comme c’était à prévoir. Saakachvili a tout raté, sur toute la ligne.

 

Q.: Manifestement, Saakachvili n’a pas cru à une intervention russe. Etait-ce une position réaliste?

 

AR:  Non. Ou bien cet homme est totalement stupide ou bien il a été inspiré par des dilettantes. Voici les faits: la Géorgie veut devenir membre de l’OTAN le plus vite possible. Bush a déjà promis l’adhésion à Saakachvili, mais, si Obama devient président, cet objectif sera bien plus difficile à atteindre. La condition posée pour une adhésion rapide, c’est qu’il n’y ait plus de conflits inter-ethniques, car l’Aliance atlantique cherche à les éviter. Saakachvili a voulu régler le problème par une politique à la hussarde. Manifestement, il est parti du principe que l’intervention russe serait moins totale, plus ponctuelle; il pensait gagner du temps pour entraîner les Etats-Unis dans le conflit.

 

Q.: Là, il a pratiquement réussi son coup...

 

AR: A peine. Les réactions agressives de Bush démontrent plutôt son désarroi. Toutes les ONG, téléguidées par les Etats-Unis, qui ont tenté, au cours de ces dernières années, de mettre sur pied, avec la Géorgie, une “Alliance de la Mer Noire” alignée sur l’atlantisme et dont les objectifs auraient été d’éloigner au maximum les Russes de la région maritime pontique, sont désormais devant des ruines, leurs efforts n’ayant conduit à rien.

 

Q.: Dans les sphères de l’UE, beaucoup rêvaient aussi de faire de la Mer Noire une nouvelle mer intérieure européenne...

 

AR: Tous ces rêves se sont évanouis, ce qui rend un tas de gens furieux. En ce qui concerne la Géorgie, les Etats-Unis sont allés beaucoup trop loin au cours de ces dernières années. Maintenant, ils ne peuvent plus laisser leurs alliés dans le pétrin. Mais, par ailleurs, ils sont suffisamment intelligents pour ne pas se laisser entraîner. Les Etats-Unis ont besoin de la Russie en plusieurs domaines: dans le dossier de la non prolifération des armes non conventionnelles, dans la lutte contre le terrorisme, dans la stratégie de l’endiguement de l’Iran et de la Chine, etc. Toutes ces questions sont bien plus importantes que les humeurs de Saakachvili. Malgré toute la colère et toute la déception qui affectent les cercles stratégistes de Washington, personne aux Etats-Unis n’est prêt à déclencher une troisième guerre mondiale pour lui. En outre, bon nombre de responsables à Washington doivent être furieux contre Saakachvili car il a mis les Etats-Unis dans une posture fort embarrassante.

 

Q.: Comment, à votre avis, s’achèvera le conflit?

 

AR: Les Géorgiens ne parviendront sans doute plus jamais à recomposer leur pays. Le conflit va geler vraisemblablement. Pour Moscou, ce serait là la meilleure solution. Ainsi, le rôle de la Russie en tant que puissance génératrice d’ordre demeurera tel, à l’arrière-plan.

 

Q.: Saakachvili survivra-t-il à cette défaite, en politique intérieure géorgienne?

 

AR: Il s’est probablement posé la question lui-même. Car, à l’avance, il ne pouvait pas sortir gagnant de cette opération, qui a coûté inutilement la vie à une grande quantité de soldats géorgiens.

 

Q.: Les Russes se frottent-ils les mains parce qu’ils ont eu l’occasion de faire une démonstration de force ou se sentent-ils blessés dans leur propre sphère d’intérêt?

 

AR: Les cris de triomphe se font entendre partout en Russie, c’est évident, car on attendait cette heure depuis de longues années: dans les années 90, les Russes devaient constater, sans pouvoir agir, comment l’Occident réorganisait à sa guise les Balkans; maintenant, ils peuvent montrer dans le Caucase que l’Occident est désormais à son tour dans le rôle du spectateur impuissant, tandis que la Russie agit. Il y a trois ans, la Russie avait obtenu que les bases militaires américaines quittent l’Asie centrale; maintenant, les Russes ont remis les Américains à leur place dans le Caucase. Il est possible que l’Allemagne récupère bientôt son rôle d’intermédiaire. Berlin a de bonnes relations avec la Russie et peut influencer plus profondément le nouveau président russe Medvedev que n’importe quel autre Etat de l’UE.

 

(entretien paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°34/2008;  trad. franç.: Robert Steuckers).

13:09 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : eurasie, eurasisme, russie, géorgie, caucase, mer noire, etats-unis | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Géorgie: les intérêts américains et russes se télescopent dans le Caucase

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Günther DESCHNER:

Géorgie: les intérêts américains et russes se télescopent dans le Caucase

A peine les premiers obus de la “Guerre d’août” dans le Caucase avaient-ils explosé que Mamouka Kourachvili expliquait ce qui se passait, en termes passablement nébuleux: l’armée géorgienne aurait ainsi lancé une grande offensive “pour rétablir l’ordre constitutionnel dans la province séparatiste d’Ossétie du Sud”. Le président géorgien Mikhail Saakachvili n’a ni rappelé son général à l’ordre ni démenti ses dires.

 

Le conflit pour l’avenir de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud n’avait cessé de s’amplifier au cours de ces dernières années, entre la Géorgie, tournée vers l’atlantisme, et la Russie. Les deux camps utilisant des cartes truquées. Depuis des mois, on sentait venir la guerre. La portée de ce conflit nous amène bien loin du Caucase. En effet, les deux républiques, qui entendent faire sécession et se séparer de la Géorgie, sont de sérieuses pommes de discorde entre les Etats-Unis et la Russie, constituent quasiment des points de rupture.

 

Depuis la fin de l’Union Soviétique et depuis que les statégistes américains avaient défini le Caucase du Sud comme appartenant à la sphère d’influence américaine, Washington avait élu la Géorgie comme son partenaire privilégié dans la région. La raison réelle de ce choix réside toute entière dans le conflit géostratégique dont les enjeux sont 1) l’accès au gaz et au pétrole de la région de la Mer Caspienne et 2) le contrôle des grands oléoducs et gazoducs. L’enjeu principal est surtout constitué par la ligne d’oléoducs BTC, longue de 1800 km, qui part de Bakou en Azerbaïdjan, pour passer par Tiflis (Tbilisi) en Géorgie et aboutir à Ceyhan en Turquie, sur la côte méditerranéenne. Washington privilégie cette voie pour faire venir le pétrole de la Caspienne à l’Ouest, car elle ne passe ni par la Russie ni par l’Iran, ce qui empêche ipso facto ces deux puissances d’intervenir sur le tracé des oléoducs et gazoducs. C’est là qu’il faut trouver la raison majeure de l’appui apporté par les Etats-Unis, depuis tant d’années, à Mikhail Saakachvili, lequel vise à aligner totalement son pays sur la politique américaine. Il veut à tout prix que la Géorgie fasse partie de l’OTAN; pour y parvenir, il a fait du contingent géorgien le troisième contingent en importance numérique en Irak dans la fameuse “coalition des bonnes volontés” de Bush.

 

L’objectif de Moscou est de déstabiliser la Géorgie et d’y installer un gouvernement qui tienne davantage compte des intérêts de son grand voisin russe. C’est clair comme de l’eau de roche. C’est la tradition de grande puissance que la Russie a réactivée depuis Poutine, ce qui a pour conséquence que Moscou s’efforce de déconstruire toutes les positions atlantistes qui se sont incrustées sur les flancs de l’ancien empire russe et/ou soviétique. Dans le cas de la Géorgie, la Russie dispose d’un bon instrument en soutenant les mouvements sécessionnistes en Abkhazie et en Ossétie du Sud.

 

L’offensive déclenchée par Saakchvili contre les Ossètes du Sud relève donc de la naïveté et de la stupidité politique. Il offrait ainsi au Kremlin un prétexte en or pour une intervention militaire musclée. Le bellâtre de la “révolutions des roses” y perdra sans nul doute ses fonctions et les deux provinces sécessionnistes risquent bel et bien d’être définitivement perdues pour la Géorgie. Près de vingt ans après l’effondrement de l’Union Soviétique, cette dernière guerre du Caucase a démontré clairement que la Russie, grande puissance renée de ses cendres, estime que ce glacis régional caucasien appartient à sa sphère d’intérêt. Aux yeux des Russes, l’action musclée était parfaitement appropriée, dotée de sens. Une réaction sciemment disproportionnée et mise en scène de la sorte, a donné une leçon au voisin, qu’il n’oubliera pas de sitôt, et démontré aux puissances occidentales que la Russie, elle aussi, a des intérêts de grande puissance, et qu’elle est bien décidée et capable de les faire valoir. Personne ne doit feindre la surprise. Tous auraient dû y penser: la reconnaissance unilatérale du Kosovo par l’Occident allait tout naturellement conduire la Russie, à la première occasion, à rendre la pareille, selon l’adage “J’agis comme tu agis”.

 

Mais la stratégie choisie par Moscou n’est pas exempte de dangers. On sait, sous les murs du Kremlin, que plusieurs foyers de conflit demeurent potentiellement virulents sur le flanc nord du massif caucasien. Moscou ne peut se permettre de voir ressurgir une escalade de violence en Ingouchie, en Tchétchénie et au Daghestan. La position géostratégique de la Géorgie, corridor en direction de la Caspienne, rend son territoire très intéressant à contrôler pour les puissances occidentales. Sans la Géorgie, les oléoducs et gazoducs devraient passer par le territoire de la Russie pour arriver en Europe occidentale ou par l’Iran (ndt : pour arriver en Asie orientale), ce qui est inacceptable pour les Etats-Unis.

 

Les intérêts stratégiques des Etats-Unis sont clairs: la Géorgie est non seulement un maillon important dans la chaîne d’Etats et de bases qui doivent parfaire l’encerclement de la Russie, mais aussi une base très bien située pour mener tout guerre future contre l’Iran fort proche. Depuis que la Turquie n’est plus qu’un acteur peu fiable pour l’atlantisme dans la question iranienne, les Américains ont parié sur la Géorgie et se sont faits les avocats de son adhésion à l’OTAN. La Géorgie offre aussi des ports en eaux profondes, dans une région hautement stratégique, où l’OTAN et les Américains pourraient installer des bases militaires et des points d’appui pour leurs forces aériennes.

 

Les Etats-Unis et l’UE auraient pu rappeler les Géorgiens à l’ordre et les empêcher ainsi de se jeter dans la gueule du loup. Ils ne l’ont pas fait. Ainsi, Moscou a profité de l’occasion que lui offrait Saakachvili, en prenant l’OTAN de court et en démontant qu’elle n’était qu’un tigre de papier. L’alliance dont les Etats-Unis sont l’hegemon perd de son pouvoir d’attraction auprès d’autres candidats potentiels. Toute politique des “doux yeux” à l’adresse de l’OTAN peut désormais s’avérer dangereuse. A Kiev, à Bakou et dans d’autres capitales, l’intervention russe en Ossétie du Sud aura eu l’effet d’un avertissement, dont il faudra impérativement tenir compte. 

 

Washinton applique la “Doctrine de Monroe” et considère que l’Amérique latine est son arrière-cour, où les Etats-Unis peuvent intervenir à leur guise; face à cette “Doctrine de Monroe”, nous voyons désormais émerger une sorte de “Doctrine de Poutine” qui veut que les Etats, se trouvant sur la périphérie de la Russie, sur ses anciens glacis, sont importants pour la politique étrangère et pour la sécurité de la Russie. Manifestement, le retour de la Russie à de tels principes géostratégiques conduit à un nouvel affrontement froid entre Washington et Moscou. Du moins dans l’optique des Russes, l’intervention en Ossétie du Sud constitue un acte de vengeance contre la politique de Washington qui, depuis des années, ne s’occupent que d’encercler la Russie au lieu de l’intégrer.

 

Dès le début, les choses étaient claires: la “Guerre d’août” au Caucase n’allait nullement être le prélude d’une guerre russe de reconquête. Elle a pour conséquence que les facteurs politiques de la région doivent être réexaminés et réévalués. Règle normale de toute Realpolitik.

 

Günther DESCHNER.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, Nr. 34/2008; trad. franç.: Robert Steuckers). 

dimanche, 17 août 2008

Etranges conservatismes américains

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Etranges conservatismes américains

 

Par Herbert AMMON

 

En dépit des impulsions culturelles venues des Etats-Unis via Hollywood et la Pop culture, le paysage idéologique et politique de la seule puissance globale (dixit Zbigniew Brzezinski) demeure « terra incognita » pour la plupart des Européens. Les césures spécifiquement américaines, qui séparent les « liberals » des « conservatives » ne se perçoivent jamais clairement, tant et si bien qu’on les classe en Europe de manière binaire : entre une gauche et une droite. Les problèmes s’accumulent lorsque l’on cherche à établir une bonne taxinomie des écoles politiques et idéologiques américaines : les slogans et mots d’ordre sont si nombreux, reçoivent tant de définitions particulières qu’on ne s’y retrouve plus, surtout si l’on évoque une ancienne droite et une nouvelle droite, soit des paléo-conservateurs et des néo-conservateurs.

 

Pour définir les camps politico-idéologiques américains, les définitions habituelles ne sont guère de mise (sauf quand il s’agit, par exemple, du conservatisme tel que l’a défini jadis un Russell Kirk). Européens et Américains ont une expérience différente de l’histoire, nomment donc les choses politiques différemment, ce qui conduit aux confusions et quiproquos actuels. « Cum grano salis », on peut distinguer quelques différences majeures entre conservatismes européens et américains : d’abord, les conservatismes européens sont devenus sceptiques quant à l’histoire à venir ; les conservatismes américains sont nettement orientés vers le futur, sont, dans le fond, anti-historiques, dans la mesure où ils entendent maintenir l’idée fondamentalement américaine d’une société contractuelle (ils n’envisagent pas d’autres modèles). Ensuite, les conservatismes américains sont fiers de leur tradition historique continue, non brisée, que les Européens jugent « courte » ; les conservatismes européens, eux, sont contraints de tenir compte d’une longue histoire, marquée par des ruptures successives. Enfin, les conservateurs américains perçoivent de façon positive le rôle de puissance mondiale que joue leur pays, alors que les Européens se souviennent constamment du « suicide de l’Europe » (dixit Paul Ricoeur) en 1914. Et, last but not least, les conservateurs américains acceptent sans hésitation l’idée libérale d’un libre marché sans entraves, alors que les conservatismes européens critiquent tous le libéralisme.

 

Adhésion sans entraves au libre marché

 

La genèse des notions de « liberal » et de « conservative » nous ramène à l’ère Roosevelt (1933-1945). Les partisans de la politique social-réformiste et interventionniste / étatique du New Deal rooseveltien se dénommaient « liberals ». Les adversaires de Franklin D. Roosevelt venaient d’horizons divers : parmi eux, on trouvait des libéraux au sens économique le plus strict, qui se posaient comme les seuls véritables libéraux ; il y avait ensuite des critiques de la bureaucratie (du « big government »), en train de devenir pléthorique à leurs yeux. Enfin, du moins jusqu’à l’attaque japonaise contre Pearl Harbor, il y avait les défenseurs de l’isolationnisme. Murray Rothbard, un « libertarien », soit un extrémiste du marché, désigne cette coalition hostile à Roosevelt sous le nom de « Vieille Droite » (« Old Right »). D’après Rothbard, le terme « conservateur » n’était guère usité aux Etats-Unis avant la parution en 1953 de « Conservative Mind », le grand livre de Russell Kirk.

 

Les « conservateurs », qui suivaient la forte personnalité de Robert A. Taft, sénateur de l’Ohio (de 1939 à 1953) et rival républicain de Dwight D. Eisenhower en 1952, renonçaient à toute élévation du débat intellectuel en politique. Attitude qui n’a guère changé en dépit de l’émergence de courants de pensée conservateurs mieux profilés. Libéral et théoricien peu original, Peter Viereck, dans « Conservatism Revisited » (1949) s’est posé comme critique des idéologies totalitaires, le « communazisme ». Russell Kirk (1918-1994) fut donc le premier à se positionner comme explicitement conservateur et à être reconnu comme tel par l’établissement « libéral ». En se référant à Edmund Burke, le critique de la révolution française de 1789, perçue comme rupture de la Tradition, Kirk mettait l’accent sur l’origine « conservatrice » de la révolution américaine. Dans ses écrits, Kirk citait, en les comparant à Thomas Jefferson, les pères fondateurs « conservateurs », tels John Adams et les auteurs des « Federalist Papers », se référait également aux critiques européens de la révolution comme Burke ou Tocqueville. Kirk se posait également comme un conservateur écologiste, pratiquant la critique de la culture dominante, ce qui fit de lui une exception parmi les conservateurs américains, optimistes et orientés vers le futur.

 

« On pourrait, pour simplifier, résumer comme suit l’histoire du conservatisme américain : Russell Kirk l’a rendu respectable ; William Buckley l’a rendu populaire et Ronald Reagan l’a rendu éligible » (citation de J. v. Houten). En effet, les conservateurs doivent à William F. Buckley, né en 1925, d’avoir pu accroître leurs influences au sein du parti républicain et d’avoir percé pendant l’ère Reagan. Ils doivent ces succès au réseau de revues et de « think tanks » que Buckley a tissé dès les années cinquante, dont l’ « American Heritage Foundation », créé en 1973.

 

Buckley, comme le rappelle son livre « God and Man at Yale » (1951), était un catholique fervent. Il débarque un beau jour à Yale dans le bastion du « liberalism » à l’américaine, dominé par les agnostiques, les athées et les unitariens post-chrétiens, variante du protestantisme aligné sur l’idéologie des Lumières. En 1955, ce fils d’un millionnaire du pétrole fonde la « National Review », autour de laquelle se rassembleront des personnalités très diverses, toutes étiquetées, à tort ou à raison, comme « conservatrices » : des libertariens à Kirk lui-même. Dans ces années-là, où la « New Left » connaissait son apogée, le groupe « Young Americans for Freedom », lancé par Buckley, constituaient déjà un contrepoids politique. Et puisque Buckley, récemment, a critiqué les stratégies de Bush, quoique de manière très modérée, on peut le considérer aujourd’hui comme un représentant des « paléo-conservateurs ».

 

Le conservatisme américain, nous l’avons constaté, est un champ fort vaste dont les idéologèmes et les stratégies ne se sont cristallisés que depuis quelques décennies, contrairement à ce que l’on observe chez les conservateurs européens. Aujourd’hui, c’est évidemment George W. Bush qui domine l’univers conservateur américain. Bush se déclare « conservateur », plus exactement le continuateur de l’œuvre politique de Reagan que tous vénèrent en oubliant qu’il était au départ un « liberal ». Les Républicains doivent leurs succès électoraux depuis Reagan à un courant profond, agitant toute la base aux Etats-Unis, courant qui englobe le patriotisme (la fierté de s’inscrire dans une tradition de liberté) et les « valeurs » conservatrices (la famille, la religion, la morale, l’assiduité au travail, etc.).

 

Les hommes politiques qui veulent réussir en tant que « conservateurs » sont dès lors contraints de chercher le soutien de la « droite chrétienne ». Par ce vocable, il faut entendre cette immense masse d’électeurs liés aux mouvements religieux du renouveau protestant, animé par les « évangélisateurs ». Ce conservatisme théologien, partiellement fondamentaliste, rassemble des groupements où l’on retrouve les « Southern Baptists », le plus grand groupe protestant organisé, les pentecôtistes (notamment les « Assemblies of God ») et, bien sûr, les « méga-églises » des télé-évangélistes. Tous ensemble, ces mouvements évangéliques alignent quelque 80 millions de croyants, ce qui les place tout juste derrière les catholiques, qui restent le groupe religieux chrétien le plus nombreux aux Etats-Unis.

 

Certains évangélistes toutefois, et pas seulement les Afro-Américains, estiment que leur foi peut s’exprimer chez les démocrates. Religion et race se mêlent souvent : ainsi, Pat Robertson, étiqueté de « droite », et Jesse Jackson, étiqueté de « gauche », appartiennent tous deux au mouvement qui soutient les Baptistes et le sanglant « seigneur de le guerre » Charles Taylor au Libéria.

 

Malgré la très forte pression que la « droite religieuse » exerce aux niveaux locaux, voire dans certains Etats, elle n’a presque aucune influence au niveau fédéral. Ainsi, le candidat à la Présidence, Mitt Romney, appartient à la secte des Mormons, considérée comme éminemment conservatrice, ce qui ne l’a pas empêché d’être élu gouverneur du Massachusetts, Etat à majorité « libérale ». Le pentecôtiste John D. Ashcroft, représentant notoire de la « droite religieuse », fut ministre de la justice dans le premier cabinet de George W. Bush. Il serait faux, toutefois, de dire qu’après le choc du 11 septembre 2001, le bellicisme de l’actuel président américain, qui prétend être un « chrétien re-né » tout comme son adversaire Jimmy Carter, découle en droite ligne de sentiments religieux qui lui seraient propres.

 

La politique extérieure américaine est marquée depuis longtemps par les néo-conservateurs, comme on le constate sous le républicain Reagan avec Jean C. Kirkpatrick ou sous le démocrate Bill Clinton avec Madeleine Albright. Sous Bush Junior, les « neocons » tirent toutes les ficelles seulement depuis le retrait de Colin Powell. L’exécutif qui a programmé la politique moyen-orientale et déclenché la seconde guerre d’Irak alignait des hommes comme Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz et Richard Perle.

 

Tous ceux qui ont forgé le vocable « neocons » viennent à l’origine, comme d’ailleurs aussi bon nombre de paléo-conservateurs, du camp de la gauche (des « liberals ») ; on trouve dans leurs rangs des intellectuels de la gauche progressiste, issu des milieux juifs, qui se sont détachés du Parti démocrate au cours des années 70. Les meilleurs plumes de ce groupe furent Irving Kristol, avec sa revue « The Public Interest », Norman Podhoretz, avec « Commentary », et le sociologue Daniel Bell (« La fin des idéologies », 1970).

 

La définition usuelle du néo-conservatisme nous vient de Kristol : « Un conservateur est un homme de gauche, qui a été frappé de plein fouet par le réel ». Ce bon mot ne nous révèle que la moitié de la « réalité » : il pose le néo-conservateur, ex-homme de gauche, simplement comme celui qui n’accepte plus et critique les programmes sociaux pléthoriques lancés par les Démocrates. En fait, le néo-conservateur veut surtout une politique étrangère musclée : ainsi, le fils d’Irving Kristol, William Kristol (revue : « The Weekly Standard ») veut que cette politique étrangère américaine instaurent partout une « démocratisation », selon des critères déterminés depuis longtemps déjà par la vieille gauche interventionniste.

 

Pat Buchanan : vox clamans in deserto

 

Les « anciens conservateurs », ou paléo-conservateurs, qui avaient jadis forcé la mutation sous Reagan, entre 1981 et 1989, ont perdu depuis bien longtemps toute influence. Ainsi, Pat Buchanan n’est plus qu’une voix isolée dans le désert depuis des années, alors qu’il fut l’un des rédacteurs des discours de Nixon, puis conseiller de Reagan. Il tenta, rappelons-le, de lancer un parti réformiste et échoua dans sa candidature à la présidence en 2000. Il est redevenu républicain par la suite. En politique intérieure, Buchanan, catholique traditionnel, dont on se moque en le traitant de « conservateur paléolithique », lutte contre les « libertés » nouvelles que veulent imposer les « liberals » et les libertariens (avortement, mariage homosexuel, euthanasie).

 

Buchanan est protectionniste, s’oppose à la société multiculturelle et à l’immigration qui modifie de fond en comble le visage de l’Amérique. Sur le plan de la politique extérieure, il défend un isolationnisme modéré et s’inquiète des pièges que recèle l’interventionnisme global voulu par les « neocons ».

 

Il me reste à mentionner –et à saluer-  un combattant isolé, qui pourfend le « culte de la faute » choyé par de nombreux « liberals » (et par leurs homologues allemands), culte qui sert à promouvoir l’idéologie de la « correction politique » (les « Gender studies », les codes anti-discriminatoires de tous acabits, le multiculturel, etc.) : ce combattant n’est autre que l’historien des idées Paul Gottfried. Mais, malgré Buchanan et Gottfried, les paléo-conservateurs n’ont plus aucun influence notable, ni dans les universités ni dans les médias, a fortiori dans l’établissement politique.

 

Quelles conclusions peut-on tirer de la topographie que je viens d’esquisser ici ? Après la disparition graduelle des paléo-conservateurs, les nationaux-conservateurs allemands auront bien des difficultés à trouver des alliés Outre-Atlantique. Sans doute, seuls les chrétiens à la foi très stricte trouveront des frères en esprit pour toutes les questions morales chez les évangélisateurs ou les conservateurs catholiques.

 

Personnellement, je ne trouve, dans ce camp conservateur américain (toutes tendances confondues), aucune position qui me sied. Si je suis éclectique, je trouverai peut-être quelques points d’accord avec Russell Kirk, mais seulement quand il appelait en 1976 à voter pour le « démocrate de gauche » Eugene McCarthy. Quand je pense à l’idéologie qui domine la RFA aujourd’hui, je suis souvent d’accord avec Paul Gottfried, qui avait dû quitter, enfant, le IIIième Reich national-socialiste. Enfin, je lis toujours avec beaucoup d’intérêt les textes des intellectuels américains qui s’opposent à l’interventionnisme.

 

Vu que nous assistons à une orientalisation, soit une islamisation croissante de l’Europe occidentale les analyses clairvoyantes de nos temps présents par Samuel P. Huntington méritent que nous y consacrions toute notre attention ; Huntington nous annonce le déclin de l’Occident en général et la perte d’identité européenne des Etats-Unis. Aujourd’hui âgé de 80 ans, ce professeur de Harvard n’est toutefois pas étiqueté « conservative » mais considéré comme un représentant du « liberal establishment ».

 

S’intéresser aux relations intellectuelles transatlantiques est une bonne chose et permet de se comprendre réciproquement. Jusqu’ici, le monde universitaire s’est limité à importer en Allemagne et en Europe le prêchi-prêcha du « politiquement correct » des « liberals », y compris les expressions du mépris que vouent les gauches à Bush qui, quand elles sont satiriques, satisfont leur orgueil blessé. Une poignée de conservateurs allemands critiquent aujourd’hui l’idéologie importée des « liberals » (qui s’expriment en Allemagne sous des oripeaux «écologistes ») mais cette démarche est insuffisante. Face à l’immigration de masse qui menace directement l’existence du peuple allemand, en tant que peuple porteur d’histoire et en tant que nation historique et politique, et l’avenir même de l’Europe toute entière, nous devons, en première instance, procéder à une analyse factuelle et objective de la situation et ne pas ergoter et pinailler sur nos préférences intellectuelles ou rêver à d’hypothétiques coalitions qui ne viendront jamais.

 

La politique extérieure américaine se caractérise depuis l’immixtion des Etats-Unis dans la politique mondiale (au moins depuis 1917) par la double nature de la puissance et de la morale qu’elle révèle. La conscience qu’ont les Américains de mener à bien une « mission » inspire cette politique globale ou planétaire, et vice-versa, dans la mesure où les démarches concrètes de cette politique étayent la vision messianique que distille la religiosité américaine.

 

Henry Kissinger était une exception : il se posait comme « réaliste » et les notions de « mission » ne l’intéressaient pas vraiment. Depuis la montée en puissance des « neocons », qu’ils soient adhérents des démocrates ou des républicains, l’aspect idéologique et para-religieux de la politique extérieure des Etats-Unis est passé à l’avant-plan. Force est de constater que les assises fondamentales de la politique extérieure des Etats-Unis réconcilient, in fine, les « liberals » et les « conservatives » : il nous suffit d’énumérer les grands événements de ces quinze ou vingt dernières années, avec l’élargissement de l’OTAN aux pays d’Europe centrale et orientale, avec la politique balkanique (de Madeleine Albright), avec l’appui qu’apporte Washington à la candidature turque à l’UE, aux conflits qui ensanglantent le Proche- et le Moyen-Orient, etc.

 

Par ailleurs, la politique extérieure américaine se montre souvent fort dépendante des fluctuations de l’opinion publique intérieure. Hillary Clinton et d’autres candidats à la Présidence commencent à caresser cette opinion dans le sens du poil, en songeant à l’investiture de 2008, car, en effet, si les troupes américaines doivent se retirer d’Irak aussi peu glorieusement qu’elles se sont retirées du Vietnam, la politique extérieure américaine se trouvera confrontée à ses propres misères, aux monceaux de ruines qu’elle aura provoquées.

 

Quel rôle jouera la Turquie dans ce scénario ? Rien n’est certain. Quoi qu’il en soit, la paix entre Israël et la Palestine sera, une fois de plus, remise aux calendes grecques.

 

Herbert AMMON.

(article extrait de « Junge Freiheit », n°29/2007; trad. franç. : Robert Steuckers). 

 

lundi, 11 août 2008

Homo Americanus - noodlot of bestemming?

Homo Americanus – noodlot of bestemming?

Worden wij allemaal straks ‘homo americanus’, mensen die leven in een compleet geglobaliseerde wereld, die als enige god naast Mammon de Rechten van de mens aanbidt? Worden wij straks allemaal ‘homo americanus’, onder een globaal economisch kapitalistisch systeem, een multicultureel paradijs op aarde (althans als men sommige heilsbrengers en hogepriesters van het nieuwe geloof mag geloven)?

Tomislav Sunic, voormalig professor aan enkele Amerikaanse universiteiten en voormalig Kroatisch diplomaat, vreest van wel en probeert in dit zeer belangrijk werk Homo Americanus: child of the postmodern age (*) duidelijk te maken wat de bronnen zijn van deze ‘homo americanus’ en vooral wat de uitdagingen zijn waarmee de Europeaan – en bij uitbreiding de andere culturen – in de nabije toekomst zal worden geconfronteerd. Hij gaat hierbij interdisciplinair te werk, om zo elk academisch reductionisme tegen te gaan (een zeer on-Amerikaanse manier, want is het academisch reductionisme wijder verspreid dan juist in de VSA?). Tenslotte heeft Sunic aan den lijve het communistisch totalitarisme moeten ondergaan, zodat hij meer dan goed geplaatst is om ook het softtotalitair karakter van de Amerikaanse academische en politieke wereld aan te klagen, dat door een fijnmazig netwerk van media, politiek, universiteiten en andere opiniemakers de politieke en publieke discussie binnen zeer benepen en enge grenzen probeert te houden. Er zijn trouwens voldoende voorbeelden hoe ditzelfde fenomeen zich ondertussen ook in Europa voordoet: het woord “immigrant” of “immigratie” bijvoorbeeld bezigen zonder de verplichte adoratie is reeds voldoende om bepaalde door de staat betaalde inquisitieorganen te alarmeren en in hoogste staat van paraatheid te brengen.

In zijn voorwoord stelt professor Kevin MacDonald van de California State University dat Tomislav Sunic het begin van deze morele en intellectuele legitimiteit situeert met de overwinning van links na de Tweede Wereldoorlog en dat de bestraffing van de misdaden die in naam van het totalitarisme werden begaan, gediend hebben om de linkse dogma’s, vooral die over mens, natie en ras, te versterken. Het belangrijkste instrument in deze institutionalisering was zeker de Frankfurter Schule, die erin slaagde om elke positieve ingesteldheid tegenover etnische cohesie, familie, natie, religie of ras gelijk te stellen met het purgatorium, het vagevuur. Eén stap verwijderd van de hel dus.

De Europese volkeren moesten (en moeten) dus geloven dat hun eigen inzichten over demografie en culturele ondergang irrationeel waren (en zijn) en een indicatie van een psychopathologie. In het licht hiervan krijgt natuurlijk ook het begrip ‘democratie’ een totaal andere betekenis. In de plaats van uitdrukking te zijn van de wil van het volk wordt het eerder de woonplaats van de norm van de intellectueel superieure elites die geen enkel verband meer hebben met de eigenlijke bescherming van de belangen van het volk.

In de laatste hoofdstukken belicht professor Sunic de verhouding ‘Homo Americanus’ en de postmoderniteit. Want hoewel de postmoderniteit de wereld ging verlossen van alle ideologische dwang, is er integendeel sprake van een totale ideologisering van alle uitingen van het maatschappelijk leven, wat zich vooral manifesteert in het gebruik van begrippen als ‘mensenrechten’, ‘fascisme’ en ‘etnie’ of ‘identiteit’. Daardoor blijft er van het zogezegde recht op vrije meningsuiting steeds minder over, de – veelal nieuwe – taboes blijken integendeel nog sterker dan vroeger. Media en andere opiniemakers in Amerika – maar ook steeds vaker in de rest van de wereld – vinden het steeds moeilijker om topics aan te raken die beschouwd worden als tegengesteld aan de postmoderne geest.

Terwijl veel Amerikanen in het besef leven dat de vrije pers een tegengewicht vormen tegen de almachtige politieke wereld, strijden de beide groepen integendeel in een zelfde geest en in een zelfde strijd. Ook Régis Debray stelde hetzelfde vast: “Het zijn de media die eigenlijk de meester van de staat zijn. De staat moet haar overleven onderhandelen met de opiniemakers”.

Officieel zijn er in het postmoderne Amerika geen rassen of etnieën. Nochtans wordt geen land ter wereld zo gedomineerd door het rassenvraagstuk als juist de VSA, in die mate zelfs dat Sunic het beeld van een raciaal opgedeeld of zelfs raciaal uiteenvallend Amerika als redelijk reëel voorkomt. Maar de Amerikaanse overheid reageert op dit fenomeen met een gekende ‘overkill’. Om de dreigende balkanisering van Amerika af te wenden, weigert men de raciale influx te stoppen, integendeel, men meent dat men dit best kan doen door nog méér verscheidenheid in het land binnen te brengen. Gevolg zou het einde van de Angelsaksische desem van de Amerikaanse droom kunnen zijn, zeker is in elk geval dat nog meer etnische en/of raciale verscheidenheid in Amerika zal leiden tot een politieke en demografische marginalisering ervan.

Het enige voordeel van de postmoderniteit is het feit dat ze zelfvernietigend is, aldus de auteur Tomislav Sunic. Maar tegen welke prijs? Het is de vraag hoe Amerika uit deze odyssee zal kom. Het is vooral de vraag op welke manier de Europeanen zullen omgaan met de ervaringen van de Amerikanen.

Dit boek dat onmiddellijk en zonder omwegen naar de kern van de zaak gaat, hoort eigenlijk in de bibliotheek van eenieder thuis! Sunic heeft zijn veruit belangrijkste werk gepubliceerd.

(P.L.)


Titel: Homo Americanus: child of the postmodern Age (214 pag)
Auteur: Sunic Tomislav
Uitgever: in eigen beheer
ISBN: 978 – 1419659843 (2007)

mercredi, 23 juillet 2008

Quand l'US Army pillait les trains d'or juif en Bavière...

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Quand l’US-Army pillait les trains d’or juif en Bavière en 1945

L’an dernier le Congrès américain et la Maison Blanche ont mis sur pied une commission, qui devait rechercher les valeurs ayant appartenu aux victimes de l’holocauste et voir si ces valeurs ne s’étaient pas retrouver sur le territoire des Etats-Unis. Le président du Congrès juif mondial, Edgar Bronfman a été nommé président de cette « Presidential Advisory Commission on Holocaust Assets » (= « Commission Consultative présidentielle sur les avoirs de l’holocauste »). L’élite politique des Etats-Unis estimait qu’elle avait un devoir à remplir : au cours des dernières années, l’Amérique a accusé de nombreux pays (ndt : la Suisse , la Suède , l’Autriche, la Belgique , etc.) de s’être enrichis indûment en s’appropriant toute ou partie de la fortune des victimes juives du national-socialisme. Ces pays ont été cloués au pilori par les médias. L’élite politique américaine voulait prouver qu’elle acceptait une enquête en Amérique même ; on pensait que l’Atlantique était un fossé bien large, que l’Europe était loin et que la Commission —mon Dieu !— ne trouverait rien in God’s own country !

Vers le 15 octobre 1999, une commission d’études a publié un rapport provisoire sur la direction du représentant du Ministre américain des finances, Stuart Eizenstat. Le lendemain, le résultat révélé par ce rapport provisoire faisait la une de tous les grands quotidiens américains. La Commission s’était penchée sur un cas devenu quasi légendaire, celui du « train d’or hongrois ».

A la fin de l’automne 1944, quand les troupes soviétiques, progressant depuis la Transylvanie , se mettent à franchir les frontières de la Petite Hongrie du Traité du Trianon, Adolf Eichmann, officier SS, prend des mesures de protection exceptionnelles à Budapest. Il réquisitionne plusieurs trains pour évacuer ce qu’il y a lieu d’évacuer vers l’Ouest ; la destination de ces trains est la Suisse neutre. Dans l’un d’eux ont été entreposées les réserves d’or de la Banque nationale de Hongrie ; dans un autre convoi, ont été entassées les peintures et les sculptures du Musée National hongrois.

A la fin de la guerre, ces deux trains ont été rapatriés en Hongrie. Un troisième train contenait les objets de valeur appartenant à plus de cent mille Juifs de Hongrie, qui furent ensuite déportés. Il s’agissait d’œuvres d’art, d’argenterie, de porcelaine, de tapis précieux, de bijoux, de diamants bruts, d’objets en cristal, de collections de monnaies et de timbres postaux, ainsi que des lingots d’or et deux serviettes pleines contenant de la poussière d’or, sans compter de très nombreuses montres et des appareils photographiques.

Des généraux américains se sont partagé le butin contenu dans 24 wagons !

Ce troisième train n’est jamais arrivé en Suisse. Le 16 mai 1945, quelques jours après la fin des hostilités en Europe, des soldats américains découvrent ce train à l’abri dans un tunnel près du village de Werfen. Il s’agissait de 24 wagons plombés (deux autres wagons avaient déjà auparavant été pillés par des soldats français). Le contenu des 24 wagons a été ensuite amené dans un dépôt de l’US Army à Salzbourg. Comme des inventaires avaient été dressés, le gouvernement hongrois a pu procéder à une évaluation du contenu : le trésor fabuleux du « train d’or » s’élevait à 204 millions de dollars américains (au cours de 1945). Si l’on adopte le cours du change que le Congrès Juif mondial a imposé aux banques suisses, cette somme correspondrait aujourd’hui à près de 2 milliards de dollars américains.

Une partie de ces biens a immédiatement été envoyée en Allemagne et confiée aux organisations juives, qui les ont mis aux enchères, pour obtenir des liquidités, qui ont été utilisées pour soigner et soulager les innombrables « personnes déplacées ». Plus tard, 1181 peintures ont été confiées par les autorités américaines à l’Etat autrichien, quand l’Autriche était encore considérée comme une nation alliée. Mais une part considérable de ces biens du « train d’or » est tombée aux mains de généraux américains, qui avaient installé leurs quartiers dans les villas et les châteaux de l’aristocratie autrichienne.

Le premier à s’être emparé de ces biens fut le Commandant des troupes américaines d’Autriche occidentale et Commandant de la Place de Salzbourg, le Général Major Harry J. Collins. Il donna un ordre de réquisition, où il commanda pour sa résidence et pour son wagon personnel de chemin de fer, des services de cristal et de porcelaine pour 45 personnes, 30 jeux de nappes et de serviettes de lin, 12 candélabres d’argent, 13 tapis d’Orient, 60 jeux d’essuies de bain. Et cet homme avide de beaux objets a ajouté : « tout doit être de la meilleure qualité, être du travail fait main par des artisans du plus haut niveau ». Quatre autres généraux se sont servi dans les masses de biens volés ; leurs patronymes sont cités dans le rapport remis récemment aux autorités américaines : Hume, Luade, Howard et Linden.

On n’a pas pu savoir ce que sont devenus ces objets de valeur après le départ des Américains hors d’Autriche, mais on peut imaginer que la Commission poursuivra son enquête… Son président y veille et on sait qu’il est un dur à cuire qui ne se laissera jamais intimidé. Ce qui restait du « train d’or » a été distribué via les magasins de l’administration militaire ou a purement et simplement été subtilisé.

L’existence du « train d’or » était connue depuis des années. On lui a même consacré des livres. L’auteur de l’un de ces livres, Kenneth D. Alford, cite un certain Capitaine Howard A. MacKenzie, qui a formulé une simple remarque sur le sort du « train d’or » : « … la seule différence entre Allemands et Américains en ce qui concerne les pillages réside en ceci : les Allemands ont dressé avec précision l’inventaire des patrimoines pillés, tandis que chez les Américains régnait la libre entreprise incontrôlée ».

Entre le gouvernement américain et le régime communiste hongrois, eut lieu une longue bataille juridique, assez stérile, où, finalement, le gouvernement communiste hongrois n’a rien reçu. Pour justifier cela, les services américains utilisaient généralement l’argument qu’une restitution ne serait pas possible, car les propriétaires des pièces ne pouvaient plus être retrouvés. Dès le premier jour de la publication du rapport provisoire de la Commission , la communauté juive de Budapest s’est manifestée et a réclamé la restitution des biens ou un dédommagement. La Commission elle-même a recommandé au gouvernement américain de payer des dommages et intérêts. Dans l’avenir, c’est certain, une pénible bataille juridique va s’éterniser et on entendra encore souvent parler du « train d’or » de Hongrie.

Il faut procéder à un examen critique du rôle de l’US Army

Vu le rôle peu glorieux de l’armée américain dans ce cas, cette révélation servira sans doute de leçons aux médias américains, si prompts à désigner les autres à la vindicte de l’opinion publique mondiale. Les donneurs de leçons d’Outre-Atlantique auront l’occasion de méditer le vieux dicton anglais : « When you live in a glass-house, you don’t throw stones » (= Quand on vit dans une maison de verre, on ne s’amuse pas à lancer des cailloux).

Ivan DENES.

(texte issu de Junge Freiheit, n°43/1999).   

 

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mardi, 22 juillet 2008

Hérodote n°129: Stratégies américaines aux marges de la Russie!

A lire impérativement !

Le nouveau numéro d'HERODOTE, la revue fondée par le géopolitologue français Yves Lacoste.

N°129: Stratégies américaines aux marges de la Russie

Pour comprendre les mécanismes des "révolutions de couleur", téléguidées par la Fondation Soros, nouvelle technique d'encerclement et d'affaiblissement de la puissance qui tient la "Terre du Milieu" !

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Les lignes de fracture du système

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Romain LABARCHEDE:

 

Les lignes de fracture du système

 

C'est un lieu commun rebattu : les idées mènent le monde. Cette explication simpliste mérite quelques précisions : quelques idées sont plus agissantes que d'autres, quant au plus grand nombre, elles ne mènent rien du tout, et souvent, elles mènent nulle part, tout au plus elles marginalisent quelques illuminés. Pourquoi telles idées ont mené le monde à une certaine période pour tomber dans l'oubli peu après ? Vérité d'hier se révèlera erreur aujourd'hui…

 

Réduites à elles-mêmes, les idées ne sont rien, ne produisent aucune action, si elles se répandent, se propagent, ce n'est pas de leur seul fait : elles doivent s'incarner. Plus simplement, tant qu'une idée, bonne ou mauvaise, ne trouve pas un corps pour la servir, elle demeure sans effet. D'où l'importance des hommes avec leurs qualités propres.

 

Que peuvent-ils, à leur tour, sans stratégie, sans tactique, sans mode opératoire, sans méthode et sans plan d'action ? Que peuvent-ils, même les plus courageux, s'ils ne tiennent qu'accessoirement compte des circonstances, des évènements, des forces en présence ?

 

La pertinence des idées, la qualité des hommes : des dirigeants et des exécutants, la lucidité des analyses, l'opportunité des méthodes et du plan d'action, tous ces éléments concourent à la réussite ou à l'échec des opérations. Aujourd'hui la météo idéologique est moins perturbée qu'à l'époque de la guerre froide, où le monde dit libre s'opposait au monde du prolétariat, les affrontements forts d'hier sont terminés puisque hors sujet.

 

Après l'implosion du modèle communiste, le libéralisme économico-politique n'a plus de concurrent idéologique, il est en situation de monopole. Serait-ce la fin des idéologies ? Bien évidemment non, il est facile de constater la convergence des deux courants hégémoniques dans un discours commun qui satisfait le plus  grand nombre. Droite et gauche se sont recentrés, adoptant pour l'essentiel les mêmes objectifs avec des nuances quant aux moyens.

 

L'idéologie dominante repose sur deux principes :

 

-l'individualisme, l'individu est plus important que la communauté à laquelle il appartient.

 

-l'égalitarisme, tous les hommes sont égaux.

 

Ces  principes de base peuvent se décliner en version plus ou moins forte ou plus ou moins douce, chacun accommodant à son goût. Cette idéologie dominante est instrumentalisée par la classe dirigeante pour asseoir son pouvoir et légitimer ses actions.

 

Au début des années 1750, Jean-Claude Vincent de Gournay, homme d'affaires et inspecteur des manufactures, était convaincu que le meilleur moyen de maximiser les ressources matérielles et humaines de la Nation était de : laisser-faire les hommes, laisser-passer les marchandises. Il ne visait alors que le domaine économique.

 

Aujourd'hui, c'est la règle générale qui prévaut dans tous les domaines : politique, social, religieux, culturel, familial, il est interdit d'interdire ! La déesse Permissivité fait perdre la tête et la raison aux élites. Dans notre antique mythologie , Jupiter ne fait-il pas perdre la raison à ceux dont il a juré la perte ?

 

 I      le système occidental

 

Ces précisions liminaires fournies, il convient d'appréhender le monde tel qu'il est, et non tel que l'on voudrait qu'il fût. Qu'est-ce que le système occidental?

 

Comme nous l'avons écrit dans Orientations pour un mouvement politique effectivement opérant, paragraphe les complotistes, nous ne croyons pas au complot mondial, obéissant à un mystérieux chef d'orchestre, ordonnant par relais hiérarchiques, l'application d'un plan établi et connu des seuls initiés. L'homme est un être social, (zoon politikon -Aristote) mais il est aussi un prédateur insatiable, (homo uomini lupus, l’homme est un loup à l’homme) ce qui le rend capable du meilleur comme du pire. La force essentielle du capitalisme, c'est qu'il satisfait toutes les pulsions et les besoins de l'homme ( de tous les hommes, bons ou mauvais ) sans qu'il y ait un quelconque accord sur une fin. Chacun trouvant son bonheur dans ce qui lui est agréable sur le moment.

 

Selon Tchakhotine, les quatre instincts primordiaux de l'homme sont :  l'agressivité, l'intérêt matériel immédiat, la sexualité et le besoin de conformité-sécurité. Le système capitaliste satisfait simultanément ces quatre instincts, chacun prenant ce qui lui convient au moment désiré. Les jouisseurs s'épanouiront dans l'hédonisme, les prédateurs dans la concurrence, les profiteurs dans la spéculation, les grégaires dans la consommation, chacun pouvant à sa guise satisfaire un instinct, pour ensuite en satisfaire un autre ; le profiteur devient jouisseur puis prédateur etc…Retenons que dans la plupart des systèmes vivants, ce sont les prédateurs qui dominent et marquent les mutations de chaque système.

 

Oswald Spengler, dans son ouvrage le plus connu : le déclin de l'occident évoquait le vieillissement des cultures et des civilisations, mais le titre est regrettablement ambigu, car qu'observons-nous aujourd'hui, sinon l'hégémonie du monde occidental, du style de vie occidental ? Ce qui apparaît clairement, c'est le déclin du vieux continent Européen en tant qu'espace politico-culturel homogène, alors que le système occidental connaît une hégémonie quasi planétaire, jamais observée auparavant. Les nations Européennes sont aux ordres des Etats-Unis d'Amérique qui imposent et nourrissent leur domination :

 

-         au moyen de la morale des droits de l'homme, excellent instrument d'intervention médiatique à géométrie variable,

 

-         au moyen du droit d'ingérence en usant et abusant de la force militaire ( guerre du golfe, kosovo, Afghanistan…),

 

-         au moyen de la logique du marché comme régulateur majeur : globalisation économique,

 

-         au moyen de la diffusion planétaire d'une sous-culture de masse qui abrutit les cerveaux et amollit les consciences.

L'american way of life c'est la voie de la mort douce pour ceux qui n'ont pas la volonté de conserver leur identité.

 

L’Occident, bien que réalité planétaire, demeure un ensemble flou, recouvrant des réseaux, des espaces, des cultures, et des civilisations disparates. Il regroupe des sociétés diverses, organisées en cercles d’appartenance concentriques, ayant au centre un noyau dur qui alimente la périphérie : le modèle américain.

 

Dans « l’Occident comme déclin » paru en 1984, ed. du Labyrinthe, donc avant la chute du mur de Berlin et l’implosion du bloc soviétique, Guillaume Faye distinguait :

 

- des nations très occidentales : USA, Grande Bretagne, Europe du Nord,

- des nations moyennement occidentales : France, Italie, Espagne, Grèce,

- des nations en voie d’occidentalisation : Russie, pays de l’Est Européen,

- enfin des nations peu occidentales : Iran, Afghanistan.

 

A l’intérieur des pays dits en voie de développement, l’élite dirigeante, fortement occidentalisée, souvent coupée de sa culture originelle, est en rupture d’identité. Le peuple ne se reconnaît plus dans sa classe politique, les éléments les plus radicaux s’orientent vers des mouvements fondamentalistes. Dans un entretien accordé au quotidien Sud-Ouest, le 26.09.01, Mariam Abou Zahab, politologue  qui enseigne l’histoire de l’Afghanistan et du Pakistan aux Langues Orientales à Paris, répond à la question : Pourquoi un tel décalage entre le gouvernement et l’opinion ?

 

« le fossé entre l’élite et la rue à propos de l’Amérique n’est pas neuf. Le Pakistan est totalement schizophrène : la bourgeoisie envoie ses enfants dans des universités américaines, la jeunesse singe le mode de vie yankee, et tous tiennent en même temps des propos violemment antiaméricains. Les gens ne sont pas conscients de cette contradiction. » Cette remarque pertinente convient à nombre de pays traditionnellement musulmans, avec tous les risques de dérives que nous savons.

 

L'Occident représente l'ouest, point cardinal du coucher de l'astre solaire. Pour Raymond Abellio, le modèle californien constitue l'essence et l'épicentre de l'Occident, ouest extrême, symbole d'une civilisation crépusculaire et vieillissante, où la lumière déclinante du jour fait place progressivement à l’obscurité de la nuit. L'astre renaissant, vainqueur des ténèbres, apparaîtra à nouveau par l'Orient, la lumière reviendra par l'Est.

 

La renaissance du Grand Continent Européen se réalisera en union avec les terres et nos frères de la Nouvelle Aurore.

 

II       Géopolitique Anglo-saxonne

 

Jean-Gilles Malliarakis dans « Yalta et la naissance des blocs » éd. Albatros,1982, remarquable synthèse sur cet épisode historique, écrit : «  Pour comprendre l’attitude de Churchill, on doit se reporter aux considérations fondamentales de la Grande Bretagne. Celle-ci disposait d’un empire aux dimensions de l’univers, un empire sur lequel le soleil ne se couchait jamais. Contrairement aux territoires rassemblés par la France , plus coûteux à féconder que profitables à exploiter, les colonies britanniques étaient essentiellement rentables. Le grand problème était évidemment de maintenir les liaisons entre Londres et Honk-Kong, la fameuse route des Indes passant par Gibraltar, Malte, Chypre, Suez et Aden. En Europe centrale et orientale, les intérêts anglais n’étaient pas considérables mais il fallait à tout prix empêcher les Russes d’accéder à la Méditerranée. Il suffisait dans la zone des Balkans de garder la Grèce et de neutraliser la Yougoslavie. Tout le reste pouvait bien passer sous contrôle soviétique, Winston Churchill n’en avait cure. » p.149.

 

Ces lignes sont lumineuses, outre les événements politiques postérieurs qui ont confirmé l’exactitude de l’analyse, l’essentiel est mis en évidence : en politique internationale, seuls les intérêts géopolitiques prévalent, l’idéologie est un ornement qui semble opérant aux naïfs, ou à ceux qui se suffisent d’explications sommaires.

 

Zbigniew Brzejinski, stratège américain dévoile au grand jour les intentions géopolitiques et géoéconomiques des USA, tant ils sont sûrs de leur puissance. Il établit un double constat :

-         les USA sont la première puissance globale de l'histoire.

-         comme la maîtrise du pouvoir planétaire se situe en Eurasie, il faut par tous les moyens empêcher l'émergence ou l'unification politico-économique de celle-ci.

 

Les USA, possèdent le statut de puissance impériale, hégémonique et mondiale. Ils doivent progresser pour durer. Le problème à résoudre consiste à conserver le plus longtemps, le statut d'unique puissance mondiale. (monde unipolaire) Se référant aux travaux des géopolitologues Anglais du début du siècle,(Halford John Mackinder, Homer Lea) Brzejinski redoute avant tout l'émergence d'une puissance continentale pleine et entière (Eurasie), de même qu'il redoute une puissance asiatique, chinoise ou japonaise.

 

Pour empêcher l'émergence de ce continent unifié, il faut simplement :

-         théoriser l'élargissement de l'OTAN, en tant que bouclier face à l'hypothétique renaissance de l'hydre totalitaire.

-         réaliser le new silk road land bridge ( pont terrestre sur la nouvelle route de la soie ) qui maîtrise toutes les grandes voies de communication au cœur du continent et les accès du Caucase ou du Moyen-Orient. Ainsi le cœur de l'Asie est neutralisé, sous tutelle des USA.

 

Ce projet de pont terrestre sur la nouvelle route de la soie permet de contenir la Russie comme le préconisait Mackinder en 1904, lors de l'inauguration du Transsibérien et en 1919, lors de la victoire des bolcheviques. Contenir la Russie et briser l'unité de l'Europe telles sont les préoccupations des stratèges Yankees.

 

Donc, il convient de  créer une barrière d'Etats pour contenir la Russie loin des mers et de l'Océan Indien. Cette barrière débute à l'Ouest sur l'Adriatique, avec l'Albanie pour aboutir en Chine. Comme la route de la soie du temps de Marco Polo, elle relie les deux parties les plus peuplées de la masse continentale eurasienne. Pour ce faire les USA jouent à fond la carte turque et favorisent les aspirations hégémoniques d'Ankara, qui accorde la nationalité turque à tous les ressortissants de peuples turcophones de l'ex-URSS. En cas d'adhésion de la Turquie à l'UE, ces turcophones, munis d'un passeport turc,  circuleront dans tous les pays d'Europe sans aucune difficulté. Il est malaisé d'évaluer ce flux migratoire, mais soyons certains qu'après un tel raz de marée ethnique, notre vieux continent, aura subi une lourde colonisation de peuplement..

 

L'émergence de l'idéologie pantouranienne dans la pensée politique turque, et chez les autres peuples turcophones : Azerbaïdjan, Kazakhstan, Kirghizistan, Ouzbékistan, Turkménistan, constitue une nouvelle donne qu'il faut analyser avec attention. Le pantouranisme, ou panturquisme, est une idéologie de type racialiste qui vise à l'unité de tous les peuples de souche turque ou turcophones, qui implique un projet géopolitique regroupant tous ces peuples de la mer Egée au Sinkiang chinois.

 

Cet espace politique islamo-turcophone constituerait une barrière homogène et étanche, dans l'intérêt de Washington, pour neutraliser la Russie et le continent Eurasien. Mais cette expansion, à l'est, n'est pas la seule possible pour Ankara, qui en jouant la carte néo-ottomane, espère un retour à l'ouest, dans les Balkans, ce qui, d'un point de vue Européen est inacceptable. A l’exception de quelques souverainistes Français attardés qui souhaitent ressusciter l'alliance de François I° avec le Sultan, afin de constituer un axe jacobin Paris-Ankara. Pour ces diverses raisons, les USA appuient de tout leur poids la Turquie et imposent son entrée au sein de l'UE.

 

Il y a convergence d'intérêt entre les USA et les Etats musulmans, turcophones ou islamistes, comme l'a établi avec sérieux et  minutie, Alexandre del Valle, auteur de deux ouvrages richement documentés et solidement argumentés dont nous recommandons vivement la lecture : Islamisme et Etats-Unis : une alliance contre l'Europe. éd. l'Age d'homme, Guerres contre l'Europe : Bosnie, Kosovo, Tchétchénie. éd. des Syrtes.

 

III             les lignes de fracture

 

Néanmoins le système n'est pas un mécanisme inusable, comme tout organisme vivant il présente des faiblesses, résultant de contradictions fortes entre le discours et la pratique que le peuple, les citoyens, peuvent à tout moment contester. Ces lignes de fracture sont les points faibles du système, cibles sur lesquelles doivent impérativement s'orienter nos actions.

 

Ce sont les seuls points par où le système  peut être fragilisé. Encore faut-il établir une bonne stratégie, trouver les bonnes propositions, le bon mode opératoire et les bonnes actions qui susciteront un désir profond de changement au sein du corps social. Ne rien privilégier dans l’absolu, envisager tous les possibles en fonction des événements et des circonstances. Etudions les principales lignes de fracture que nous avons volontairement classé par ordre alphabétique, sans qu'il soit possible d'établir une hiérarchie ou une échelle d'importance, car à tout moment, l’imprévu, l’impensé, peut se produire, l’essentiel est d’être prêt à agir.

 

Fracture démocratique : crise de la représentation

 

Contradiction entre le discours de la classe dirigeante et les réalités vécues par le peuple. Les citoyens sont rarement consulté sur les questions qui les préoccupent directement. La représentation démocratique dérive en confiscation de la souveraineté. Les décisions prise par des bureaucrates ou des technocrates nommés ne respectent pas le principe de légitimité démocratique. Ce principe est également bafoué lorsqu'une conscience morale à prétention universelle impose sa volonté à une ou plusieurs Nations. Face à ces contradictions le citoyen finit par se désintéresser de la "chose publique" pour n'en retenir qu'une farce sordide.

 

La réforme du scrutin électoral de 1958 a accentué la dégradation de la conscience citoyenne, en renforçant la stabilité du pouvoir en place aux dépens de la démocratie réelle, c’est à dire la juste représentation de la volonté générale. Cette réforme dont le but était d’assurer une majorité stable, comme instrument de gouvernement, sans souci de représentation des réalités sociologiques ou politiques du pays, a profondément altéré la conscience citoyenne collective. Le fossé entre pays légal et pays réel s’est approfondi, la représentation parlementaire est discréditée, la politique est devenue logique de pouvoir et non service public de bien commun. L’Assemblée Nationale n’est plus l’expression la plus juste du corps électoral, son rôle se limite à dégager une majorité confortable au gouvernement en place. Le scrutin majoritaire à deux tours constitue une caricature de représentation nationale. La logique majoritaire a isolé, laminé, marginalisé les courants minoritaires ou les forces de proposition qui n’étaient pas inféodées à un mouvement majoritaire. Aucune évolution n’est envisageable, seule perspective : la sclérose…Nous sommes passés du système des partis (de tous sans exclusion) à celui « du » parti au pouvoir. Facétie imprévue venant des urnes, la cohabitation perturbe le doux ronronnement imaginé par le législateur. Décidément, les électeurs-citoyens sont incorrigibles, ils s’obstinent à mal voter…

 

Sous la Troisième et Quatrième Républiques existait un équilibre subtil entre différents modes de scrutin. D’une part les assemblées issues directement des urnes, au scrutin proportionnel, reflet exact des attentes, des critiques, des impatiences, des craintes, des velléités, des refus, des espoirs, voire des révoltes de tous les électeurs : l’Assemblée Nationale  et les Conseils Municipaux. D’autre part, deux institutions élues, l’une au scrutin indirect, : le Sénat, l’autre au scrutin majoritaire : les Conseils Généraux.

 

Le système électoral actuel, reposant sur le scrutin majoritaire à deux tours génère une crise de la représentation dont nous mesurons les conséquences négatives : démobilisation, dépolitisation et abstentionnisme.

 

Fracture écologique : crise de la biosphère

 

Contradiction entre le développement productiviste et les nombreuses pollutions qu'il provoque. L'économie, lorsqu'elle n'est pas bridée par un pouvoir politique plein et entier, donne libre cour aux pires excès : c'est la démesure à tous les niveaux, dans tous les domaines. Les Grecs de l'Antiquité redoutaient cette hybris, démesure responsable des pires malheurs. Ceux qui prétendent faire de la défense de l'environnement leur activité politique première, abordent et débattent des enjeux écologiques avec une inefficacité notoire. Leur sectarisme, leur dogmatisme, leur purisme, leur rigorisme les rend particulièrement dangereux, dans la mesure où ils bloquent certains grands projets. La satanisation de l’énergie électronucléaire illustre le comportement obsessionnel de cette mouvance. Pour une fois qu’un Etablissement Public à caractère Industriel et Commercial (EDF) remplit sa mission, les intégristes Verts, inquisiteurs de la nature foncièrement bonne, vestales de la pureté originelle difficile à conserver (sécularisation du dogme virginal ?) n‘ont qu’un objectif majeur : la suppression progressive de cette source d’énergie : la plus économique, la moins polluante, qui assure de plus notre indépendance énergétique face aux transnationales pétrolières. Ces dernières souhaitent conserver leur hégémonie par la consommation croissante des seules énergies fossiles. Elles combattent par tous les moyens l’émergence d’une énergie alternative respectant les enjeux écologiques tout en permettant la puissance. Souvenons-nous des ouvrages du regretté Pierre Fontaine qui avait établi les pratiques maffieuses des  grandes compagnies pétrolières.

 

Fracture économico-sociale : rupture du lien social, crise de confiance

 

Contradiction entre le bien-être de certains et l'horreur économique supportée par d'autres. Le but premier de l'économie est de satisfaire les besoins, alors que pour le capitalisme, c'est la poursuite illimitée du profit qui active le cercle vicieux du productivisme, produire plus pour consommer plus, consommer davantage pour produire davantage. Spirale infernale de l'économie de croissance et du tout-marché, à qui nous opposons une économie de puissance avec marché, ce dernier jouant son rôle régulateur dans le seul espace économique clairement défini, sans possibilité de phagocyter les sphères de l'espace social.

 

Fracture  étatique : crise des Services Publics

 

Contradiction entre la mission de l'Etat, servir le bien commun et l'intérêt général, et les dérives administratives catégorielles supportées par la communauté. L'appareil d'Etat  tentaculaire, en dépit de gros moyens sans cesse revus à la hausse, n'assure pas un service public satisfaisant. La logique de chaque administration est simple :  assurer l'augmentation de l'enveloppe budgétaire destinée à chacune, tout l'appareil d'Etat raisonne ainsi, dans  l'intérêt de ceux qui bénéficient d'une sécurité viagère, pendant que les autres sont confrontés aux douces aménités du marché concurrentiel. La rénovation en profondeur de nos administrations est une priorité, devant laquelle nos gouvernements successifs furent regrettablement résignés. La véritable classe dirigeante se trouve dans les bureaux ministériels, les politiques n'ayant trop souvent qu'un simple rôle de figuration. Ils acceptent ou refusent ce que les bureaux leur soumettent, en supposant qu'ils les aient analysés. Notre vie quotidienne est rythmée par d'inévitables procédures, démarches et autres tracasseries, que le professeur Jacques Ellul a définies comme une oppression bureaucratique, ce despotisme envahissant n'est pas près de s'atténuer….

 

Fracture ethnico-culturelle : crise civilisationnelle

 

Contradiction entre la colonisation massive de peuplement et les incompatibilités culturelles, les possibilités d'intégration (n'oublions pas nos millions d'autochtones : chômeurs,  travailleurs pauvres ou exclus) qui génèrent d'inévitables chocs ethnico-culturels.

 

Lorsqu'il est porté devant les tribunaux des affaires d'excision, comment ignorer ces actes de barbarie perpétrés sur notre sol, en sachant que les rares cas dont il est fait état, donnent un aperçu bien en dessous des réalités, car il est extrêmement difficile pour les victimes de se retourner contre leur propre milieu d'origine.

 

Le 11 juillet, le gouvernement Français et le gouvernement Algérien ont signé un avenant à l'accord de 1968, qui fixait le régime particulier des immigrés Algériens, lesquels étaient soumis à un régime dérogatoire par rapport au droit commun des étrangers. Ce nouveau texte entrera en vigueur dès que les parlements des deux pays l'auront ratifié. Mais cet accord est à double tranchant, car le précédent régime offrait quelques privilèges, dont celui de faire venir plusieurs femmes, " comment vont réagir les préfectures quand les maris polygames voudront faire renouveler leur titre de séjour ?" s'inquiète Jean-François Martini du Gisti. ( groupe d'information et de soutien des immigrés )  La polygamie est officiellement pratiquée en France, pire elle est reconnue par les services publics….(Le Monde 28.07.01) Face à ces regrettables réalités, le principe constitutionnel de laïcité s’avère totalement inopérant, quant aux élucubrations communautaristes, élaborées par quelques intellos en mal de notoriété, nous en percevons les limites, ainsi que les inévitables dommages. Cessons les discussions byzantines, abordons les vrais problèmes sans faux-fuyants. Il convient sans plus tarder, pour les Etats qui, bon gré mal gré, sont confrontés à des flux migratoires, d’appliquer une nouvelle politique d’accueil. Nous évoluons dans un Etat de droit, lequel  doit s’appliquer, sauf erreur de notre part, sur l’ensemble de l’espace  territorial de l’Etat de droit. Ce droit (droit du sol ou jus soli) est celui de la Constitution et de la République , une et indivisible. Face au choc des civilisations que subissent les pays hôtes, il convient d’imposer à tous les immigrés, sans distinction d’appartenance, un serment de loyauté au droit local du pays d’accueil, qui selon le principe d’égalité sera le droit de tous et de toutes. (nul n’est censé ignorer la loi ).

 

Ceux qui refuseront de prêter serment seront immédiatement reconduits. Ceux qui accepteront de prêter serment seront de jure tenus de respecter le droit du pays d’accueil.

 

Fracture territoriale : crise identitaire

 

Contradiction entre un espace politique dont le pouvoir jacobin, bureaucratique et abusivement centralisé, confisque l'aménagement du territoire, aux élus locaux, alors que la base aspire à une légitime autonomie. Le découpage administratif de notre hexagone mérite attention. Le département est une création de la Révolution Française , qui parvenue au pouvoir, devint centralisatrice. Talleyrand y voyait son « œuvre déterminante ». Le Constituant Thouret, surnommé « le père des départements » fit adopter le découpage actuel. Pour Sieyès, l’équation : égalité des citoyens égale uniformité de l’administration, était posée comme un dogme irréfragable. Mirabeau quant à lui, réclamait pas moins de 120 départements, plus la surface serait réduite, moins les circonscriptions locales résisteraient à la centralisation républicaine, gage d’unité nationale. Depuis sa création, le département n’a cessé de polariser les plus vives critiques. Ce découpage «au cordeau» a inspiré quelques réformateurs de la cartographie administrative. Les projets de rectification furent nombreux et variés, plus de 50 propositions différentes.

 

Quelques unes pour mémoire, le géographe Paul Vidal de la Blache avait retenu une liste de 17 capitales, dont Paris. Autour de chacune existait une zone d’influence. Cette ébauche fut critiquée par manque de précision (toujours l’obsession du tracé au cordeau).

 

Auguste Comte dans son système de politique positive publié en 1854, préconisait 17 intendances avec pour capitales : Paris, Marseille, Lyon, Bordeaux, Rouen, Nantes, Toulouse, Lille, Strasbourg, Reims, Orléans, Angers, Montpellier, Limoges, Clermont-Ferrand, Dijon et Rochefort.

 

En 1864, Frédéric Le Play, dans La réforme sociale en France, proposait la création de 13 provinces, au sein desquelles, il groupait sous leurs anciens noms les provinces historiques. En 1871, le député Raudot soumettait à l’Assemblée Nationale la division du territoire en 25 provinces.

 

En 1890, le député Hovelacque souhaitait réduire le nombre des départements à 18 : Lille, Rouen, Rennes, Nantes, Bordeaux, Toulouse,, Montpellier, Marseille, Lyon, Dijon, Nancy, Reims, Paris, Le Mans, Tours, Limoges, Clermont-ferrand et Alger.

 

En 1895, un groupe important de députés autour de M de Lanjuinais proposait la création de 25 régions avec 126 arrondissements.

 

Mais le réquisitoire le plus virulent fut formulé par Michel Debré, favorable au regroupement en 45 « gros départements » (La mort de l’Etat républicain. Ed. Gallimard,1947)

 

« On ne pourra en France parler de vie locale tant que subsistera l’actuelle division administrative, son cadre et ses autorités. […] Si notre Etat n’est pas encore un cadavre à tête dodelinante, il est dèjà un grand corps amaigri, sans muscle, sans chair, la peau collée sur les os, avec un cerveau trop lourd et un système nerveux engourdi. Cette allure de grand malade, c’est au département qu’il le doit »

 

Depuis, le mammouth boulimique de budgets, a bien profité, dodu à point, à peine peut-il se mouvoir. Mais faire endosser au seul département les multiples dysfonctions et autres gabegies récurrentes de notre appareil administratif est excessif. Il y contribue, c’est certain, mais la racine du mal réside dans l’absolutisme jacobin hypercentralisateur.

 

La caste administrativo-bureaucratique surveille et décide à la place du peuple, des citoyens, des populations locales, considérés immatures, donc susceptibles de mal choisir.

 

Comment expliquer, depuis que la question est débattue, en dépit d'un très large consensus, que la Bordeaux-Pau ,(deux fois deux voies ou liaison autoroutière) en soit toujours au stade des études ? Axe fortement structurant, devant relier les deux principales agglomérations de la région Aquitaine, qui par delà son rôle régional, s'inscrit dans une logique internationale, reliant l'Aquitaine et l'Aragon. Les Aquitains attendent….le bon vouloir jacobin.

 

L'aménagement du territoire s'effectue dans l'opacité et la non-concertation. Jean-Pierre Raffarin, président (DL) du Conseil Régional de Poitou-Charentes nous apprend : "tout ceci est obscur, opaque pour les citoyens. Les contrats de plan représentent 400 milliards de francs avec les fonds européens, 1500 personnes sont au courant en France. Je suis très inquiet. On consulte les CRADT. Qu'en savent les citoyens ?"

 

Précisons que  les Conférences Régionales d'Aménagement et de Développement du Territoire se tiennent à huis clos.(Sud-Ouest 8.02.01)

 

Ces pratiques sont en totale contradiction avec les principes démocratiques, les citoyens sont exclus des concertations, quant aux politiques locaux, ils ne peuvent qu'accepter ce qui leur est proposé par la hiérarchie administrative, au moment où celle-ci juge opportun de le faire. Ces excès de centralisation occasionnent mal-vivre et mal-être, pour bien vivre, c'est une lapalissade, il faut du bien-être, ce qui est possible lorsque chacun vit pleinement ses racines, son identité, sans carence ni confiscation. La revendication identitaire résulte de cette privation, face à une administration omnipotente, qui décide de tout.

 

IV      l'homme providentiel ?

 

Ces contradictions fortes du système génèrent des crises pouvant provoquer une mutation dépassant les opinions du moment. Le clivage politique habituel se trouve pour une période neutralisé par un courant transversal fortement mobilisateur; constituant une opportunité rare qu'il convient de saisir sans hésitation. Reste à savoir les capacités et les qualités des forces alternatives potentiellement disponibles sur l'échiquier politique. Les apparences sont trompeuses, rien n'est certain, ni le bien, ni le pire, les prévisions adorent se faire attendre, entre paradis à venir et catastrophe imminente, chacun peut choisir et espérer le Grand Soir en se croisant les bras, ce qui limite les efforts, ainsi que les risques..

 

Reste que l'homme providentiel ne surgira pas  ex nihilo  comme le croient beaucoup, tout se prépare dans l'effort et la constance, dans l’observation attentive, dans la mobilisation, et la promptitude à agir, avec ce petit rien qui fait toute la différence : l'intuition géniale qui visite quelques rares têtes, l'esprit souffle où il veut et quand il veut.

 

Romain Labarchède

 

mercredi, 21 mai 2008

L'idéologie liberticide de la Maison Blanche

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Daniele Petraroli :

L’idéologie liberticide de la Maison Blanche

 

La théorie paranoïaque du “New American Century.

Les quatre composantes fondamentalistes de la Maison Blanche.

Une stratégie brutale mais claire : “la guerre préventive au monde entier”.

L’Europe est le premier ennemi de l’impérialisme WASP

Si on se laisse vivre au jour le jour, il n’est guère facile  de comprendre que des changements fondamentaux sont en train de s’opérer aujourd’hui plus que jamais dans l’histoire, et, personnellement, j’ai vraiment la sensation d’être le témoin d’événements qui, par la force des choses, sont voués à  avoir des conséquences très lourdes sur les destinées politiques du globe. En fin de journée, le mardi 11 septembre 2001, bon nombre de commentateurs s’affairaient à expliquer que le monde était entré dans une époque d’”insécurité globale”, due au terrorisme, aux “Etats-voyous”  (pour utiliser la terminologie de l’administration américaine) et, en ultime instance, à la pauvreté et à l’instabilité définitive des pays du tiers et du quart-monde. Aujourd’hui, un an et demi après la pulvérisation des Twin Towers, nous pouvons dire que le 21ième siècle, qui devait être une époque de paix et de bien-être, a commencé sous le signe de la peur et du chaos international.

Nous devons cependant bien dire que cette situation n’est pas due à Al Qaeda, comme on le craignait au lendemain du 11  septembre 2001, ni à un détournement d’avion, ni à des kamikazes obligés de se faire sauter, bourrés d’explosifs, au milieu des foules en Europe ou en Amérique, mais à un nouveau dessein politique, théorisé plusieurs années avant l’attentat et réalisés, après celui-ci, par l’administration Bush, au cours de ces derniers mois : il s’agit du  dessein néo-impérial.

La guerre préventive

De puis l’effondrement de l’Union Soviétique, les Etats-Unis sont devenus l’unique superpuissance encore existante et, forts de cette unipolarité acquise dès 1991, ils ont aligné ouvertement les théoriciens de la droite néo-conservatrice, qui sont rapidement devenus les conseillers les plus écoutés du Président Bush. Ils sont nombreux : nous avons Kagan, Ledeen, Podhoretz, pour ne citer que quelques noms. Ces idéologues ne sont pas sortis subitement, comme du chapeau d’un magicien, au lendemain de l’effondrement des deux tours. Bien au  contraire : ils ont préparé le scénario qui se déroule aujourd’hui sous nos yeux depuis au moins dix ans. En fait,la première théorie de la “guerre préventive” se manifeste en 1992, c’est la “Defence Policy Guidance” de Dick Cheney, aujourd’hui vice-président des Etats-Unis, de Paul Wolfowitz et, accessoirement, de Rumsfeld. Les deux premiers ont théorisé l’utilisation de tous les atouts américains contre tout pays en mesure de devenir une “menace”. A l’époque, les temps n’étaient pas encore mûrs et Bush-le-père a mis un terme au projet. Il faudra donc attendre dix longues années et la tragédie providentielle du World Trade Center pour que les divers groupes de pression issus de la droite du parti républicain, après des parcours divers, s’unissent dans le fameux “Project for the New American Century” (PNAC), dont l’idéologue est Wolfowitz lui-même. Il réussira à déterminer en tout et pour tout la politique extérieure du Président.  

La bande des quatre

Il nous paraît utile de faire un peu de clarté sur les origines de cette “nouvelle droite” américaine. A l’intérieur de l’ensemble qu’elles forment, nous pouvons distinguer quatre grands filons. Le premier, qui est le plus important car il est aussi le plus visible, est celui des “faucons”, partisans de  la manière forte en politique étrangère. On inclut généralement, à ce courant des “faucons” les penseurs et intellectuels du  néo-conservatisme : Richard Perle, conseille de Rumsfeld en matières de stratégie, Elliott Abrams ainsi que Norman Podhoretz et Robert Kagan, que nous venons de citer. Ils  s’appuient sur les journaux suivants : le “Weekly Standard”, de Murdoch, et le “Wall Street Journal”. C’est William Kristol leur éminence grise et le fondateur en 1997 du PNAC.

Le second filon est constitué d’hommes de gauche très marqués, qui ont piloté le démantèlement du Welfare State dans les années 80, sous l’administration Reagan; parmi eux, il faut compter Rumsfeld et Cheney. Ensuite, nous avons les fondamentalistes catholiques, connus pour leur actions anti-avortement, qui sont dirigés par le Ministre de la justice, John Ashcroft; et, enfin, l’ ”American Enterprise Institute”, étroitement lié à la droite israélienne, dont le représentant de pointe est Ledeen. Ces “extrémistes marginaux”, comme on les appelait encore en 1998, sont arrivés au  pouvoir en 2000, avec Bush-le-fils, en profitant par la suite du refrain “nous sommes tous des Américains”, qui a uni derrière son antienne l’immense majorité des Occidentaux, immédiatement après l’effondrement des tours jumelles. Cette prise du pouvoir discrète, puis les événements de New York, ont permis de lancer un scénario conçu quelques années auparavant mais que l’on n’imaginait pas pouvoir se concrétiser de sitôt.

Aujourd’hui, grâce à cette conjecture, les Etats-Unis peuvent envisager, tout simplement, d’exercer très bientôt un contrôle total sur le globe, sans plus avoir l’obligation de dissimuler leurs intentions réelles. Les néo-conservateurs partent d’un principe différent de celui de l’isolationnisme traditionnel de la droite américaine. Ils parlent ouvertement d’un “empire américain” et des “intérêts stratégiques vitaux” qu’il faut à tout prix défendre. Le masque est tombé. Plus personne ne croit encore aux historiettes moralisantes sur les droits de l’homme et la démocratie “qu’il fallait exporter”. Par conséquent, forts de leur triple suprématie économique, technologique et militaire, les théoriciens, qui se profilent derrière l’administration Bush, ne raisonnent plus qu’en termes de pouvoir, aujourd’hui plus que jamais. Unique concession à l’Amérique “patrie des libertés” : la conviction que l’hégémonie américaine est la meilleure des alternatives  possibles pour les pays du tiers et du quart-monde, même s’ils doivent, pour cela, revenir au statut de “colonie”, soit à un  état de semi-souveraineté.

Une obsession : Rome

La référence idéale de ces idéologues est Rome, mais il faudrait plutôt dire que l’empire forgé par l’Urbs est leur obsession. Les néo-conservateurs s’inspirent en effet del a grandeur de l’Empire Romain pour justifier leur propre politique et leurs propres idées. La guerre en Irak est gagnée, malgré les pronostics de quelques commentateurs qui prévoient un nouveau Vietnam; cette victoire a été rapide et facile, mais elle n’est que la deuxième étape, après l’Afghanistan, d’un projet qui vise à pacifier par la force des armes, l’ensemble du Moyen Orient, et non pas le dernier épisode. Après viendra le tour de la Syrie, de l’Iran et, plus tard, de la Corée et du Soudan.

Désormais, l’Amérique n’attend plus de solutions diplomatiques dans les situations potentiellement à risque; les Etats-Unis veulent désarmer tous leurs ennemis potentiels. Au vu de tout ce que nous venons d’écrire, il convient de se pencher une nouvelle fois sur les motivations qui ont poussé à l’intervention contre le régime de Saddam Hussein. Certes, le pétrole est important, mais ne constitue qu’un motif insuffisant. L’objectif réel de l’administration Bush est plus clairement d’ordre géopolitique  et géostratégique : il s’agit de contrôlerune zone de grande effervescence sur la planète, pour en faire le premier tremplin qui conduira à l’hégémonie définitive des Etats-Unis sur le globe tout entier.

L’Europe est l’ennemi principal

Dans toute cette agitation, le véritable ennemi des Etats-Unis, dans un futur proche, n’est autre que l’Europe, comme le laissent deviner les nombreux articles de Kagan. C’est l’évidence : en défendant toujours leurs seuls intérêts, les Etats-Unis finissent par fouler aux pieds les intérêts des autres puissances. Pourtant, malgré l’exposition explicite du projet impérial américain, très peu de voix isolées se sont élevées sur le vieux continent pour mettre les esprits en garde contre l’hyperpuissance à la bannière étoilée. Seuls quelques intellectuels venus d’horizons très divers comme Cardini, Hobsbawn et Massimo Fini ont formulé des analyses justes. Mais, parmi ces voix discordantes, il n’y a pas un seul homme politique, car, finalement, ni Chirac ni Schroeder n’ont pris de positions claires, qui soient diamétralement opposées aux vues de l’Amérique. En Europe, il manque un intellectuel de la trempe de Kagan, prêt à défendre nos propres intérêts avec la même rigueur, la même vigueur et la même verve.

Daniele PETRAROLI.

Article extrait d’Orion, n°224, mai 2003

Liste des articles déjà publiés sur la même thématique :

- Catherine OWERMAN : Les mouvements américains pour la paix, in Au fil de l’épée/Arcana Imperii, Recueil n°40, décembre 2002.

- Catherine OWERMAN : Bellicisme et pacifisme chez les conservateurs américains, in Au fil de l’épée/Arcana Imperii, Recueil n°41, janvier 2003.

- Helmut MÜLLER : Les éminences grises de Bush, in Au fil de l’épée/Arcana Imperii, Recueil n°42, février 2003.

- Prof. Paul GOTTFRIED : Les deux écoles de la politique extérieure américaine : “Straussiens” et “Réalistes”, in Au fil de l’épée/Arcana Imperii, Recueil n°48, août 2003.

mardi, 20 mai 2008

Le "modèle romain" de la nouvelle doctrine stratégique américaine

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Le modèle "romain" de la nouvelle doctrine stratégique américaine

 

La nouvelle doctrine sécuritaire autorise la guerre si les intérêts américains sont en danger

 

«Les Etats-Unis ont pris en charge le rôle du sheriff international. Les vassaux européens sont là pour débarrasser la scène des "dégâts collatéraux"».

 

Le Congrès américain vient de donner les pleins pouvoirs au Président Bush jr., avec une confortable majorité, pour déclencher une guerre contre l'Irak. Tant dans la Chambre des représentants qu'au Sénat, on trouve bon nombre de démocrates pour soutenir cette décision. Bush interprète ce soutien comme un signal clair et net: il annonce que les jours de l'Irak, en tant qu'«Etat sans lois» sont comptés, s'il n'accepte pas la résolution de l'ONU. Le Président américain peut considérer le vote des assemblées américaines comme une étape supplémentaire dans la mise sur pied de sa "National Security Strategy". La ligne directrice de cette nouvelle politique étrangère et militaire consiste à autoriser le Président américain à intervenir militairement partout et à tout moment dans le monde, contre n'importe quel pays, qui, aux yeux des Etats-Unis, constituerait une menace pour les intérêts américains ou, pire, qui pourrait éventuellement, le cas échéant, le devenir. Cette prétention à vouloir exercer une puissance sans limites, selon ses propres décisions prises arbitrairement, avec tout le poids de la machine de guerre américaine, est étayée aujourd'hui par des arguments qui ne résistent même pas à un examen critique superficiel.

 

Comment expliciter cette nouvelle doctrine de "sécurité"? Par exemple, en examinant les thèses énoncées par Robert D. Kaplan, l'un des journalistes les plus intelligents et les plus percutants d'Amérique. Dans l'espace linguistique allemand (ndlr: et français), ses thèses sont à peine connues. Kaplan s'est fait un nom comme spécialiste des Balkans, du Proche-Orient et d'autres régions en crise. Dans un ouvrage déjà paru depuis quelques mois, Warrior Politics. Why Leadership Demands a Pagan Ethos [= De la politique du guerrier. Pourquoi le leadership exige une éthique païenne], il explique clairement quels sont, pour l'essentiel, les objectifs de la politique hégémonique américaine.

 

Dans un paragraphe fort significatif, Kaplan écrit : «Plus notre politique étrangère connaîtra le succès, plus l'Amérique pourra influencer la marche du monde. Très probablement, les historiens du futur décriront les Etats-Unis du 21ième siècle non pas simplement comme une République, mais bien plutôt comme un empire mondial, même s'ils diffèreront de Rome ou de tous les autres empires de l'histoire». Au fur et à mesure que les décennies voire les siècles passeront et que les Etats-Unis n'auront pas eu seulement 43 présidents, mais 100 ou 150, les historiens, très probablement, en dresseront la liste comme ils avaient dressé la liste des empereurs des empires défunts, comme Rome, Byzance ou la Sublime Porte; de cette manière, la comparaison entre les Etats-Unis actuels et futurs et l'histoire antique sera licite. C'est surtout Rome qui pourra servir de modèle aux futurs dirigeants des States, car Rome représente une forme d'hégémonie mettant en œuvre des moyens diversifiés pour donner un minimum d'ordre à un monde désordonné.

 

La position de Kaplan n'est pas originale. Dans les cercles intellectuels américains, on débat intensément, depuis les événements du 11 septembre 2001, sur la forme que devra prendre l'imminente domination totale des Etats-Unis sur le globe. La meilleure expression de ce débat a été consignée dans une édition de la revue Wilson Quartely, titrée significativement "An American Empire?". Dans l'un des nombreux commentaires figurant dans cette édition, on peut lire que le concept d'«Imperium» avait jadis été utilisé comme un reproche voire comme une injure à l'adresse des Etats-Unis, mais, poursuit l'auteur de ce commentaire, depuis l'entrée des troupes américaines en Afghanistan et la guerre globale menée contre l'hydre terroriste, on peut se demander, en toute légitimité, "si le concept d'«Imperium» n'est pas en fait le terme exact pour décrire le rôle des Etats-Unis dans le monde".

 

Richard Haas, conseiller de Colin Powell, Ministre américain des affaires étrangères, expliquait récemment qu'il donnerait aujourd'hui un autre titre à son livre paru en 1997 et qu'il avait intitulé "Le Sheriff malgré lui". L'expression "malgré lui" doit dorénavant être biffée. De moins en moins de voix, Outre Atlantique, critiquent l'impérialité en marche de Washington. Un historien comme Immanuel Wallerstein, qui affirme que les Etats-Unis ont déjà dépassé leurs dimensions, sont minoritaires désormais. Rien ne permet effectivement d'affirmer aujourd'hui que les Etats-Unis se situent dans une phase de déclin. Washington impose en toute souveraineté sa volonté au monde et, pour paraphraser la célèbre expression de Carl Schmitt, décide s'il y a ou non "état d'exception" (Ausnahmezustand).

 

L'Union Européenne n'a évidemment rien à opposer à cette volonté hégémonique bien affirmée. Cela a été prouvé maintes fois. Le rôle de l'UE est désormais déterminé à l'avance. Quand la "guerre préventive" contre l'Irak aura été achevée avec succès, les Européens seront là pour assurer la reconstruction du pays, pour lui donner de nouvelles infrastructures et pour assurer le "processus de démocratisation". De cette façon, Washington bétonnera le nouvel ordre international à deux vitesses: les Etats-Unis prendront le rôle du sheriff international, ce qui revient à dire qu'ils seront la puissance militaire garante de l'ordre. Les vassaux européens, eux, seront responsables de l'élimination des effets indésirables des "dégâts collatéraux", dus aux guerres de "démocratisation" engagées par Washington.

 

La prochaine guerre contre l'Irak entraînera à l'évidence des "dégâts collatéraux" de bien plus grande ampleur que la précédente. Ainsi, la Turquie, pourtant très fidèle alliée des Etats-Unis contre l'Europe, la Russie et l'Arménie, s'inquiète à la vue des préparatifs américains, qui visent notamment à armer les Kurdes irakiens et à les préparer à un rôle politique pour l'après-Saddam, quand l'Irak aura été "normalisé" par l'armée américaine. Le Premier Ministre turc Ecevit a déclaré en octobre 2002, que, dans ce cas, la situation échappera à tout contrôle. Les Kurdes, eux, voient qu'ils ont enfin une chance de créer un Etat kurde. Ecevit estime qu'il y a là une nouvelle donne que la Turquie ne peut accepter. La prochaine guerre contre l'Irak, on le voit, ne mènera pas le monde vers plus de démocratie et de paix, en dépit des trémolos de la propagande américaine, qui affirme de manière impavide que Washington instaurera un nouvel ordre politique international, mais, au contraire, va entraîner toute une région du monde dans un processus de déstabilisation de très longue durée.

 

Michael WIESBERG.

 

(article paru dans "Junge Freiheit", n°43/octobre 2002; http://www.jungefreiheit.de ).